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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia nel secondo Cinquecento.

Un bilancio
Author(s): Paolo Ulvioni
Source: Archivio Storico Italiano , 1983, Vol. 141, No. 4 (518) (1983), pp. 591-651
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia
nel secondo Cinquecento. Un bilancio

Negli anni immediatamente precedenti Lepanto, mentre si


prepara l'attacco turco a Cipro dopo lo scacco di Malta, e la
diplomazia internazionale tenta un'affannosa intesa antiottomana
tra le potenze cristiane, nella sensibilità religiosa veneziana si
confondono catastrofismo, timor di Dio, devozioni splendide e
superstiziose e coscienza di un grave carico di peccati da espiare.
Le vittorie degli infedeli, che per tutto il secolo sono avvertite
come una giusta punizione divina alla diffusa corruzione umana,
si aggiungono alla crisi economica per creare un clima di insta
bilità e insicurezza. Il raccolto del 1569 era stato scarso, durante
l'inverno

si videro cose stravagantissime in materia della carestia, perciò che,


oltre il non vi esser ne' fontechi delle farine, le genti impazzite et
arrabbiate da fame caminavano per la città cercando le botteghe de
pistori come si fanno li perdoni et indulgenze, et avventurati erano
coloro che ne potevano avere.

Alcuni speculatori di « cattiva conscienza » avevano nascosto


il grano disponibile per venderlo a prezzi altissimi durante la
carestia, violando ogni legge di Dio, mentre i contadini della
Terraferma si nutrivano di stente radici ed erbe cotte. A ciò si
aggiungevano l'improvviso incendio dell'Arsenale del 13 settem
bre 1569 e la pestilenza che infuriò nell'armata navale durante
l'impresa albanese di Sebastiano Venier e Giacomo Celsi. E con

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la caduta di Cipro, oltre ai mormorii contro ritardi e inadem


pienze della flotta alleata, si rafforzava la convinzione di una ter
ribile ira divina da ammansire con preghiere e processioni, e la
necessità di una aumentata attività assistenziale da parte di
Scuole, ospedali, luoghi pii, per sovvenire ai bisognosi e procurare
un carico di meriti da dispensare per l'altra vita. Osservatori
diversi, colpiti dall'intensità della pietà veneziana, la ritenevano
una conferma della sua immutata ortodossia o, per motivi di
propaganda politica, solo una veste che ricopriva un sostanziale
e profondo libertinaggio spirituale.1
Lepanto fu un'esplosione liberatoria, una grande vittoria mi
litare e l'inizio dello scatenamento di una politica celebrativa che
investì tutta la vita cittadina. L'esaltazione collettiva aveva già
fatto prevedere il prodigio del trionfo cristiano. Il giorno dopo
la battaglia, un frate che diceva messa ai Carmini, spinto improv
visamente da divina ispirazione, « s'haveva voltato verso il po
polo e detto: Fratelli, v'annuntio una buona nuova. Le armate
hanno combattuto, e Christiani sono restati vittoriosi; restate al
legri, rendetene la gloria e l'honore a Dio e continuate a vivere
nel suo santo timore ». Molti vedevano in sogno la sconfitta dei

1 Le calamità degli anni 1569-70 sono vivacemente narrate da F. Molin,


Compendio delle cose che reputerò degne di tenerne particolar memoria in
B.M.V. (Biblioteca Marciana di Venezia), ms. It. VII, 553 (8812). È copia del
l'originale trascritta da Francesco Matteucci, « servitor hum.mo della Casa
Molina ».
Un agente mediceo riferiva della bellezza delle chiese veneziane, « ornate
e offiziate cosi bene quanto si possa immaginare » e piene di reliquie di santi
a cui non mancava mai la « riverenza che si conviene, perché certo veneziani
nelle cose della religione non sono inferiori a qualsivoglia altra nazione »,
A. Segarizzi, Le « Relazioni » di Venezia dei rappresentanti esteri, « Atti del
R. Ist. ven. di se., lett. ed arti», 81, 1921-1922, parte II, p. 141, relazione
del 1568-69. Al contrario, secondo un documento segreto di alcuni nobili pado
vani, inviato in Spagna al duca dAlbuquerque perché lo introducesse presso
Filippo II e lo convincesse ad appoggiare un moto antiveneziano, « Todos
ti Veneziani] o son luteranos o son gentiles, creiendo que la anima es mortai,
y que muerto el cuerpo muere ella tambien, y non tienen verguen?a muchos
dellos dezir publicamente que despues que Italianos son Christianos, casi siempre
han estado debaxo de nationes estrangeras, y que la mutacion de la religion
antigua y falsa, y el introduzir la Christiana, fué causa de la declinagion del
imperio romano », cit. in M. Berengo, Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto,
in Tra latino e volgare. Per C. Dionisotti, Padova 1974, p. 10.

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Turchi, correvano sulle bocche di tutti felici profezie, nei giar


dini della città rifiorivano fuori stagione rose e frutti, « il che va
continuando ancora maggiormente con maraviglia e stupore di
tutti ». All'arrivo delle galee cariche dei trofei dei vinti, e nei
giorni seguenti, l'apparato devozionale si mobilitò in lussuose
sfilate di magistrati e popolo, dove il fastoso cattolicesimo locale
si sbizzarrì in tripudi iconografici, feste di abiti e gioielli, pre
ghiere collettive dove Venezia faceva parte delle divinità vene
rande, e le Scuole esibivano la loro pietà con lo spettacolo di
schiere di flagellanti reclutati per l'occasione. Risorgevano vec
chie forme religiose inserite in un contesto di edificazione poli
tico-ecclesiastica che aveva abbandonato l'originale carattere di
espiazione e di umile filantropia per diventare programmatico
indottrinamento delle coscienze e celebrazione del mito repub
blicano.2
Dopo lo scontro sanguinosissimo, i tre capi dell'armata,
Don Giovanni d'Austria, Sebastiano Venier e Marcantonio Co
lonna, si erano abbracciati sull'ammiraglia, circondata dai resti
della flotta ottomana, chiamando Dio a testimone della loro fra
terna collaborazione; in realtà, come i tre filosofi del Giorgione,
ognuno aveva sguardi e pensieri lontani e diversi da quelli de
gli altri. L'avvenimento e le illusorie prospettive da esso aperte
condizionano solo per breve tempo la politica estera veneziana.
Quando, meno di un anno dopo, giunge notizia della strage de
gli Ugonotti francesi del 23 agosto 1572 data dai dispacci del

2 R. Benedetti, Ragguaglio delle allegrezze, solennità e feste fatte in Ve


netia per la felice vittoria, in Venetia, presso Gratioso Perchacino 1571; F. San
sovino, Venetia città nobilissima e singolare, in Venetia, appresso Jacomo
Sansovino 1581, pp. 158r-159r, dove l'autore sottolinea soprattutto l'aspetto
iconografico dei festeggiamenti e il loro carattere di « trionfo » rinascimentale
sotto il regno di Tranquillità, Cortesia, Pace, Concordia e Amore; E. H. Gom
brich, Celebrations in Venice of the Holy League and of the Victory of Lepanto,
in AA. W, Studies in Renaissance and Baroque Art presented to Anthony
Blunt, London-New York 1967, pp. 62-68; B. Pullan, Rich and Poor in Re
naissance Venice. The Social Institutions of a Catholic State, to 1620, Oxford
1971, pp. 52-62 e passim, ora in tr. it., Roma 1982; Id., Le Scuole Grandi e la
loro opera nel quadro della Controriforma, « SV » (Studi veneziani), XIV, 1972,
pp. 83-109, brillante sintesi delle prime due parti del volume precedente, che
è ora disponibile anche in tr. it., Roma 1982.

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l'ambasciatore straordinario Giovanni Michiel, in Senato si deli


bera di manifestare a Carlo IX calorosa soddisfazione per « il
successo dell'estintione dei nemici della santa nostra fede catto
lica e della M.tà Vostra Christianissima »; contemporaneamente,
si tenta di spingere il re a intervenire nella lega antiturca, una
volta eliminate le insidie delle fazioni interne. E intanto a Ma
drid il giovane ambasciatore Leonardo Donà si congratulava del
massacro con Filippo II, nella speranza che, scomparsi i tumulti
nelle Fiandre provocati dai protestanti, Sua Maestà « potesse
apparecchiar maggior forze, et più sicuramente libera d'ogni so
spetto francese moversi a beneficio della lega contro il nostro
comune inimico, contra il quale certo non era da procedere con
lentezza né mediocremente ».3
Le speranze di un'azione comune furono spezzate dalla pace
veneto-turca del 1573, preparata da lunghi colloqui segreti, che
segnò la rinuncia di Venezia ad ogni politica militare nel Medi
terraneo fino alla guerra di Candia. La cura di interessi più im
mediati, come la lotta agli Uscocchi e alla subdola aggressività
degli arciduchi d'Austria e la necessità di una ripresa finanziaria
dopo le logoranti spese belliche, furono sempre accompagnate
dal deciso rifiuto di aderire a iniziative antiturche. Sul piano
culturale, permase fino al Settecento una sorda chiusura verso
un mondo « barbaro » che molti, per la sua invincibilità, consi
deravano incarnazione delle forze del male, doloroso monito a
rimeditare sui peccati di tutto il corpo cristiano.4

3 G. Soranzo, Come fu data e come fu accolta a Venezia la notizia della


« S.te Barthélemy », in AÀ.W, Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma
1958, II, pp. 129-139; La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo
Dona {1570-1573), a cura di M. Brunetti ed E. Vitale, Venezia-Roma 1963, p. 560.
Riecheggia le versioni ufficiali del massacro un Diario veneziano dal 1545 al 1576,
in B.M.V., ms. It. VII, 2585 (12477), dove esso è giustificato dal fatto che
gli Ugonotti fecero « forza per intrar nella casa del re per amazzar il re, la
madre, i fratelli et la famiglia », ed essendo stati respinti « con mortalità
grande » dagli Svizzeri che erano a guardia degli appartamenti reali, furono
inseguiti e fatti a pezzi a Parigi e in tutto il paese (c. 250).
4 M. Brunetti, La crisi finale della Sacra Lega (1573), Miscellanea in
onore di R. Cessi cit., II, pp. 145-155; A. Tamborra, Gli Stati italiani, l'Europa
e il problema turco dopo Lepanto, Firenze 1961; P. Preto, Venezia e i Turchi,
Firenze 1975, passim. Fiorì subito una polemica pubblicistica prò o contro la

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Dopo le prime celebrazioni pittoriche della vittoria, la co


scienza degli sforzi compiuti assieme a Spagna e S. Sede con
tro i Turchi scomparve rapidamente dai programmi iconografici.
Verso il 1571-72, il Tintoretto dipinse in Palazzo Ducale una
rappresentazione della battaglia, poi distrutta nei successivi in
cendi, fatta « con magistero indicibile & con mirabile intrigo e
viluppo di cose & con groppi fantastichi di persone, sì come
nelle zuffe avviene ».5 Il famoso ex-voto del Veronese per un
privato, ora all'Accademia, è diviso in due piani: in quello infe
riore, come nel mondo sublunare, infuria la lotta, in quello su
periore i santi Pietro, Marco, Rocco e Giustina intercedono
presso la Madonna, mentre un angelo scaglia frecce infuocate
contro le navi nemiche. Pochi anni dopo, il dogado di Sebastiano
Venier è l'occasione per esaltare non il trionfo comune, ma
l'eroe; nel quadro del Tintoretto dedicato al vecchio doge, eletto
per meriti di guerra più che politici e simbolo di un recente pas
sato già oggetto di nostalgia, lo scontro è relegato in alto, in po
sizione laterale, quasi incorniciato in una finestra, in rapporto
ottico e psicologico subordinato rispetto al protagonista, che
campeggia con atteggiamento marziale in armatura da guerriero,
mentre un paggio gli porge un messaggio. Nel dipinto del Vero
nese situato nella Sala del Collegio di Palazzo Ducale e commis
sionato verso lo stesso periodo, la battaglia è respinta ancor più
sullo sfondo, ha valore di remoto paesaggio, mentre domina

pace in cui intervennero scrittori spagnoli, papalini e di tutta Italia. È forse


da attribuire al futuro doge Nicolò Da Ponte un Discorso sopra la pace giusta
mente fatta da Venetiani con il Turco per la perfidia de Spagnoli, in
ms. It. VII, 681 (7953); hanno carattere più strettamente giuridico che politico
le anonime Ragioni perché la Republica non dovea concludere la pace con
Turchi, ibid., ms. It. VII, 807 (9558), doc. 52, che, malgrado il titolo, nel
l'esame degli opposti argomenti propende per una sostanziale difesa di Venezia.
Raccoglie la delusione pubblica Paolo Paruta in un Discorso sopra la pace de'
Veneziani co' Turchi dove, approvando l'opera diplomatica della Repubblica e
biasimando la tepidezza degli alleati, si rassegna a un suo ruolo internazionale
di secondo piano e affida all'aiuto divino l'indicazione di « quella strada alla
quale non può giungere il nostro umano provvedimento » per un definitivo
riscatto. Vedi P. Paruta, Opere politiche. Precedute da un Discorso di C. Mon
zani e dallo stesso ordinate e annotate, Firenze 1852, I, pp. 427-448.
5 F. Sansovino, op. cit., p. 124i>.

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l'allegoria devota, e Cristo, i santi protettori di Venezia, le


schiere angeliche e gli eroi veneziani risaltano in primo piano.
In questa iconografia storica ufficiale solo la tela di un « minore »,
Andrea Vicentino, ritorna direttamente alla descrizione della
battaglia, ma inserita nell'arco cronologico delle gesta della Sere
nissima; intanto il soggetto si deforma in un genere coltivato
per anni per committenti privati, senza pretese di originalità.6
Nello stesso tempo, si accentua l'insistenza sugli aspetti lo
cali della cultura religiosa veneziana. Il ciclo musivo e scultoreo
della Basilica, dove ci si raccoglie per dare un sacro carisma ai
grandi avvenimenti patriottici, comprende immagini di santi
orientali e occidentali posti sullo stesso piano, assicura la glo
balità secolare della fede veneziana, circonda i fedeli di una pre
senza protettrice sentita come parte integrante della storia della
comunità. L'immagine arcaica si carica di un significato escato
logico che proietta l'esistenza dello Stato verso un futuro ine
sauribile; la lunga rassegna devota, annessionista come le con
quiste marittime che accompagnano la sua formazione, presiede
a ogni esigenza della collettività, e copre nella sua universalità
anche quelle zone oscure dove più insidiosi allignano il maligno
e l'eresia. Dopo il ridimensionamento internazionale, l'apoteosi
delle magistrature cittadine, poste da secoli sotto l'egida di San
Marco o, molto più tardi e in sottordine, di santi minori come
Rocco o Giustina, questa di recente fortuna iconografica perché
festeggiata il giorno della vittoria di Lepanto, si adegua al nuovo
corso assunto dalla politica della Repubblica. San Marco ha tra
scinato per sette secoli con la sua immagine il destino mediter
raneo di Venezia. Evangelista, predicatore, affabile confessore
del doge e dei più alti magistrati, il leggendario furto devoto
del suo corpo da Alessandria è ricordato in due tele dal Tinto

6 G. Dala, Cenni storico-artistici sul gran quadro esprimente il rendimento


di grazie dei "Veneziani per la vittoria delle Curzolari, o di Lepanto, di Paolo
Caliari detto il Veronese, Venezia 1847; A. Pallucchini, Echi della battaglia
di Lepanto nella pittura veneziana del '500, in AA.W., Il Mediterraneo nella
seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di G. Benzoni, Firenze 1974,
pp. 279-287; S. Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall. Studies in the Reli
gious Iconography of the Venetian Republic, Roma 1974, passim.

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retto, dipinte per l'omonima Scuola, quasi come un ritorno alle


origini del mito cittadino. Il suo ruolo di intercessore e media
tore presso Cristo e la Madonna relega in secondo piano, nel
corso del Cinquecento, quello di militante vessillo dell'espan
sione veneziana; Marco diventa un santo di pace, un santo di
Terraferma, come alle origini era stato il presunto fondatore
della diocesi di Aquileia, che le sconfitte del Seicento conferme
ranno non più tutore di uno sfaldato impero marittimo, ma di
una città e dei suoi possessi fondiari.7
Insediato attorno ad alcuni fondamentali elementi di culto,
il cattolicesimo veneziano è profondo e, malgrado alcune etero
dosse esperienze individuali, intensamente condiviso. La sua son
tuosità esteriore, il suo rassicurante fulgore, non dissimile da
analoghi sfarzi romani, alleato alle solide fortune economiche
della Dominante, sono entrati nella mentalità collettiva come
una sua componente essenziale e incoraggiano una fede monu
mentale e spettacolare, a cui fanno contrasto pochi cenacoli di
eretici, per i quali il lusso dell'apparato è uno dei sintomi della
devianza dalle origini della Chiesa controriformista. Il numero
dei processi per eresia intentati dal S. Officio non può natural
mente percorrere tutti i meandri di una sensibilità religiosa sfu
mata, personale, talvolta nicodemitica e irraggiungibile nei suoi
veri connotati, ma permette di stabilire alcune tendenze di fondo
abbastanza sicure. La schematica divisione di Cantimori, che
distingueva quattro momenti nella vita religiosa italiana a par

7 G. Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi in onore di Gioacchino


Volpe, Firenze 1958, pp. 447-479; O. Demus, The Church of San Marco,
Washington 1960; S. Tramontin-A. Niero-G. Musolino-C. Candiani, Culto dei
santi a Venezia, Venezia 1965; A. Vecchi, L'iconografia aulica veneziana nel
l'età della Controriforma, « SV », XVII-XVIII, 1975-1976, pp. 249-264; G.
Kaftal, Iconography of the Saints in the Painting of North East Italy. With
the collaboration of F. Bisogni, Florence 1978, passim, e per l'iconografia mar
ciana fino alla fine del '400 coli. 668-688; nulla di nuovo in R. Lebe, Quando
San Marco approdò a Venezia. Il culto dell'Evangelista e il miracolo politico
della Repubblica di Venezia, tr. it., Roma 1981. Numerose chiese si vantavano di
possedere i resti del loro santo protettore, tanto che il Botero non ricordava
città « ove corpi santi più insigni, più intieri & in numero maggiore si trovino »,
G. Botero, Relatione della Repubblica Venetiana, in Venetia, appresso Giorgio
Varisco 1605, p. 105r.

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tire dal pontificato di Leone X, in cui il periodo 1560 C.-1580 c.


decreta la fine del movimento dissidente in Italia, salvo alcuni
residui clandestini, sembra grosso modo accettabile anche per
Venezia.8 L'ultimo grande processo contro patrizi eretici si svolge
tra il 1565 e il 1569, e segna l'annullamento di conventicole di
questa ampiezza. Su 15 accusati, 8 abiurarono, per altri l'accusa
non ebbe seguito. I punti controversi sono un inventario som
mario di gran parte dell'eresia italiana del Cinquecento: nega
zione del Purgatorio, della confessione auricolare, della reale
presenza di Cristo nell'Eucaristia, del celibato sacerdotale, del
primato del papa sui concili, del valore delle indulgenze, dell'in
tercessione dei santi, della venerazione delle immagini. Eresia
non classista: è un insieme di rifiuti che riguarda i rapporti del
fedele con la gerarchia ecclesiastica e con la religione che essa
predica, non con quello che viene ritenuto il vero insegnamento
cristiano, e condivisa da uomini di diversa provenienza sociale.
Presso i lavoratori dell'Arsenale, i gondolieri, i servi delle fa
miglie patrizie, può assumere un tono critico verso aspetti di
una pratica spirituale considerata oppressiva e alleata di un go
verno talvolta non amato, che non si riscontra tra i nobili o i
cittadini. Ma dopo la dispersione dei circoli anabattisti degli anni
'50, nessuna vera minaccia di sovversione deriva dagli eretici,
neanche i più umili e poveri, non legati ad alcuna setta, il cui
credo rappresenta, sul piano pratico, solo un piccolo anfratto
nella vasta corrente ortodossa.9 C'è spesso un sostrato comune

8 D. Cantimori, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento,


Bari 1960.
9 P. F. Grendler, The Roman lnquisition and the Venetian Press, 1540
1605, Princeton 1977, pp. 134-140 e passim, ora in tr. it., Roma 1983; A. Olivie
ri, Sensibilità religiosa urbana e sensibilità religiosa contadina nel Cinquecento ve
neto: suggestioni e problemi, «Critica storica », n.s., IX, 1972, pp. 631-650; Id.,
Strutture e caratteri della sensibilità religiosa veneta del Cinquecento: problemi e
studi, ibid., XI, 1974, pp. 577-593; Id., La Riforma in Italia. Strutture e simboli,
classi e poteri, Milano 1979; Id., Fra collettività urbane e rurali e « colonie » me
diterranee: l'« eresia » a Venezia, in AA.W., Storia della cultura veneta, 3/III,
Vicenza 1981, pp. 467-512: a questa Storia poderosa si rinvia una volta per
tutte per quanto precede il periodo qui preso in esame; E. Pommier, La société
vénitienne et la Réforme protestante au XVIe siècle, « Boll. dell'Ist. di st. della
soc. e dello Stato veneziano », I, 1959, pp. 3-26; A. Stella, Dall'anabattismo

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 599

agli eretici colti e a quelli non colti: alcune esigenze interiori, la


ribellione contro i costumi rilassati della Chiesa o la sua volontà
repressiva, non hanno bisogno, per essere vissute, della conferma
sui testi di Lutero, Calvino, Vermigli, Ochino, pure letti e com
mentati in qualche circolo, ma sorgono spontanee o su impulso
di discussioni e confronti anche con viaggiatori, frati, mercanti,
e spesso si intrecciano con altri fattori, superstiziosi, magici, er
metici, devozionali, che complicano ulteriormente lo scavo del
fenomeno « eretico ». La presenza di un vigoroso platonismo,
letterario e morale, di marca ficiniana o bembiana, la penetra
zione della cultura umanistica italiana e straniera, portano talora
a un cattolicesimo depurato, aristocratico, rispettoso dei riti tra
dizionali senza condividerne il valore e l'importanza interiore,
che favorisce l'approccio diretto alla Bibbia e ai Padri e trascura
le incrostazioni esegetiche della Parola. Ma per il S. Officio è
eresia tutto quanto si pone, espressamente o inconsciamente,
contro la Chiesa, le sue istituzioni, i suoi dogmi, i suoi ministri,
i suoi decreti, e le varie esperienze religiose vengono tutte acco
munate in un'unica condanna. Data la voracità censoria degli
Indici papali, la lettura di libri proibiti è così diffusa che diffi
cilmente può essere vista come una discriminante di ortodossia
se non accompagnata da altre manifestazioni eretiche. Nel 1574,
in alcuni processi sono coinvolti esponenti della nobiltà, delle
libere professioni e del popolo veneziani: il patrizio Antonio
Giustinian, accusato dall'inquisitore di possedere libri ebrei ed
averne anzi inviato due « cassoni » a Ferrara, e multato di 100
ducati; l'avvocato Giambattista Sanudo, che legge il De vanitate
scientiarum di Cornelio Agrippa, l'Aretino, i Dialoghi di Mer
curio e Caronte, e ritiene altresì superflua la frequenza della

al socinianesimo nel Cinquecento veneto. Ricerche storiche, Padova 1967;


Id., Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche
storiche, Padova 1969. Conferma i limiti cronologici fissati da Cantimori per
un'area geografica più ristretta e per quanto riguarda l'espatrio di eretici tra il
Milanese e lo Stato veneto, che tentò più volte di ripulire la Terraferma della
loro presenza, D. Maselli, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante
il dominio di Filippo II: l'eresia e la sua repressione dal 1555 al 1584, « Nuova
riv. stor. », LIV, 1970, pp. 317-373.

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600 Paolo Ulvioni

messa, la confessione auricolare e la comunione, e la credenza


nella Chiesa come interprete ed erede dell'insegnamento di Cri
sto; il libraio Bartolomeo Da Sabio, per aver comprato e venduto
le Rime del Berni, le Facezie del Poggio, i Capricci del bottaio,
gli Adagia di Erasmo.10 In quelli anni Gian Vincenzo Pinelli, cat
tolico ortodosso, amico di colti ecclesiastici e di grandi prelati
come Baronio, Bellarmino, Carlo Borromeo, sta costituendo a
Padova una aggiornatissima libreria che una volta completa con
terrà una novantina di titoli proibiti. La loro lettura può essere
solo un segno dell'infrazione o una semplice curiosità intellet
tuale, e non tutti erano a conoscenza dei divieti, specialmente i
librai più ignoranti. D'altronde, in questi eterodossi veneziani,
patrizi o cittadini, sembra esistere una volontà di proselitismo
piuttosto debole e che comunque non incide sul proposito del
governo di condurre una lotta a fondo contro l'eresia. Questa
era considerata più che, dogmaticamente, come una negazione
della vera fede, come, politicamente, un pericolo per l'ordine
pubblico. Lutero era ritenuto soprattutto un agitatore politico,
e l'insurrezione dei contadini tedeschi confermava ampiamente
le potenzialità rivoluzionarie dell'eresia. Gli ambasciatori vene
ziani presso Carlo V parlano estesamente della Riforma solo
dopo la Dieta di Augusta del 1530, quando essa assunse rile
vanza anche politica, e politiche sono tutte le successive consi
derazioni sulle contese religiose e le loro conseguenze. Veniva
quasi sempre tollerata l'eterodossia dei mercanti stranieri e de
gli studenti tedeschi a Padova per non allontanare i capitali d'ol
tralpe dalla piazza veneziana e mantenere alto il concorso allo
Studio. Sempre nel 1574 si era addirittura parlato, con grande

10 A.S.V. (Archivio di Stato di Venezia), S. Uffizio processi, busta 37, fasci


coli sub nomine. Negli anni sessanta la stagione dei sequestri subentrò a quella
dei grandi roghi, aperta dalla Serenissima nel 1524 e probabilmente conclusa
nel 1559, data dell'indice paolino, quando da Roma il cardinale Ghislieri infor
mava l'inquisitore di Genova che a Venezia « il sabbato delle Olive pubicamente
si brusciorno più di X et forsi XII mila volumi libri: et l'inquisitore ne fa
tuttavia nuovi cumuli ». V. L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio
Evo, VI, Roma 1922, p. 662 e C. De Frede, Roghi di libri ereticali nell Italia del
Cinquecento, in AA.VV., Ricerche storiche ed economiche in onore di Corrado
Barbagallo, a cura di L. De Rosa, Napoli 1970, II, pp. 315-328.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 601

spavento del nunzio, di concedere la residenza in città a nume


rosi marrani provenienti dall'estero purché « offeriscano buona
somma » e si impegnassero a vivere, almeno esteriormente, da
buoni cristiani. Approvato dal Consiglio dei X, il progetto non
ebbe poi seguito. Cornelio Sozzini, fratello di Lelio e nipote del
più famoso Fausto, si era rifugiato a Venezia in quanto « libera
patria di poter vivere ciascun in modo suo ». Ma arrestato nel
1578, fu estradato a Roma, dopo che la discussione in Consi
glio dei X aveva dato la vittoria ai papalini per 23 a 5. Era al
lora doge Nicolò Da Ponte, che quindici anni prima aveva difeso
il medico padovano Nicolò Buccella, eretico notorio, dalle ac
cuse dell'Inquisizione; poco dopo era fuggito a Ginevra un suo
familiare, Andrea Da Ponte. Secondo le dichiarazioni del fran
cese Claudio Textor nel 1587, egli conosceva molti nobili che
vivevano « a lor posta secretamente [...] et che, se non fosse
per dubitatione dell'interesse proprio della Repubblica, loro vi
verebbono in libertà come si fa in Genevra et in altri luochi ».
Ma nessuno di questi nobili si mosse per impedire nello stesso
anno la sua condanna a morte, e neppure quella di un medico
veronese recidivo, Girolamo Donzellino, noto da lungo tempo
all'Inquisizione. L'eresia scalfiva la facciata di concordia e unità
che il patriziato imponeva all'esterno e che la pubblicistica vene
ziana tentava, non sempre con successo, di accreditare. Gli inte
ressi della Repubblica erano, per chi la governava, superiori alle
proprie inclinazioni spirituali; l'unità del patriziato si rompeva
sul modo di intendere l'esercizio del potere o su alcune que
stioni politiche, ben raramente su personali casi di coscienza,
pubblicamente risolti nella « ragion di Stato »."

11 Per l'inventario dei libri del Pinelli vedi P. Grendler, op. cit., pp. 288
289 e 321-324, e M. Grendler, A Greek Collection in Padua: The Library of
Gian Vincenzo Pinelli (1535-1601), « RQ » (Renaissance Quarterly), XXXIII,
1980, pp. 386-416; sul processo Sozzini-Textor, A. Stella, op. cit., e Ricerche
sul socinianesimo: il processo di Cornelio Sozzini e Claudio Textor (Banière),
« Boll. dell'Ist.... », III, 1961, pp. 77-120; F. Gaeta, La Riforma in Ger
mania nelle « relazioni » degli ambasciatori veneti al Senato, in AA.W., Ve
nezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI): aspetti
e problemi, a cura di H.-G. Beck, M. Manoussacas, A. Pertusi, Firenze 1977,

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602 Paolo XJlviotti

La peste del 1575-76 fu l'occasione per sollevare nuove on


date di devozione.12 Per più di un anno le processioni imploranti
si susseguono per allontanare il flagello dovuto al castigo divino.
Le manifestazioni penitenziali sono generalmente orchestrate
dalle magistrature laiche e dalle Scuole; manca, nel clero, una
presenza catalizzante come quella del Borromeo a Milano, mal
grado il prodigarsi degli ordini religiosi, Teatini, Gesuiti, So
maschi, Cappuccini. Perciò il voto pronunciato dal doge Luigi
Mocenigo l'8 settembre 1576 nell'affollatissima chiesa di San
Marco — l'erezione di un tempio salvifico con il contributo co
mune - diventa subito un affare di Stato, documenta una sincera
volontà di pentimento e il desiderio di riproporre in modo tan
gibile la fede inalterata di una mitica città prediletta da Dio. Lo
scioglimento del voto sarà condotto con criteri assieme politici e
religiosi, comprendendo contrasti personali tra « vecchi » e « gio
vani », esigenze espiatorie, opposte teorie architettoniche e sem
pre più pesanti oneri finanziari. La chiesa doveva esaltare il mar
tirio della croce, le sofferenze del Redentore verso cui si innalza
vano le preghiere della città piagata. Doveva essere un'offerta col
lettiva, a cui concorrevano, con lo stesso slancio religioso, tutte le
classi sociali, affratellate nel sacrificio del sangue di Cristo. L'ar
chitetto capace di interpretare queste esigenze operava a Venezia
da quasi un ventennio, da quando aveva abbozzato nel 1558 la
facciata di San Pietro in Castello su richiesta del patriarca Diedo,
e da ancor prima era stimato e apprezzato dai fratelli Barbaro.
Con il favore incontrato con il rifacimento, ancora in corso,
della chiesa e del convento di San Giorgio Maggiore per i Bene
dettini, Palladio era diventato, per l'edilizia religiosa, il maestro
più ricercato, come lo era allora Jacopo Sansovino per quella di
Stato, ma con una autonoma capacità espressiva nettamente su

pp. 571-597; sul Donzellino, P. Ulvioni, Astrologia, astronomia e medicina


nella Repubblica veneta tra Cinque e Seicento, « Studi trentini di scienze sto
riche », LXI, 1982, pp. 53-55 e passim.
12 P. Pagan, Venezia e il « Decameron » durante la peste del 1575-76,
«Studi sul Boccaccio», VII, 1973, pp. 317-351; P. Preto, Peste e società a
Venezia, 1576, Vicenza 1978.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 603

periore a quella del Tatti. Palladio era considerato a Venezia il


miglior erede moderno di Vitruvio e della tradizione architetto
nica classica, grazie alla parte avuta nel volgarizzamento fattone
da Daniele Barbaro nel 1556 e a I quattro libri dell'architettura
del 1570. Sembrava lontana la sua teoria, resa più accessibile
dalle splendide figure degli edifici antichi e delle ville patrizie
che ornavano le due opere, dalla rigida precettistica controrifor
mista in materia di architettura. In realtà, la distanza tra l'uma
nista Palladio e il << tridentino » Borromeo, che intervenne in
campo edilizio con le Instructiones fabricae et suppellectilis ec
clesiasticae pubblicate nel 1577, era più breve di quanto sem
brava. Come i suoi più illustri predecessori, l'Alberti del De re
aedificatoria, il Filarete, il Serlio, Palladio sostiene che la forma
rotonda sia l'ideale per le chiese,
perché essendo essa da un solo termine rinchiusa, nel quale non si
può né principio né fine trovare, né l'uno dall'altro distinguere, &
havendo le sue parti simili tra di loro, e che tutte participano della
figura del tutto, e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l'estremo
egualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la unità, la
infinita essenza e la giustitia di DIO,

e permette inoltre di ospitare un maggior numero di fedeli.


Il Borromeo respinge la pianta circolare perché usata dai pa
gani e perché male distingue, nella sua disposizione interna, tra
fedeli e clero, e raccomanda la pianta a forma di croce latina, più
spettacolare e densa di significato religioso. Palladio la pone in
sottordine rispetto alla forma rotonda o quadrangolare, ma la
adotta per la sua più riuscita costruzione religiosa:

Sono anco molto laudabili quelle chiese che sono fatte in forma
di croce, le quali nella parte che sarebbe il piede della croce hanno
l'entrata, & all'incontro l'aitar maggiore & il choro, & nelli due rami
che si estendono dall'uno & l'altro lato, come braccia, due altre en
trate, overo due altri altari, perché essendo figurate con la forma
della croce, rappresentano a gli occhi de' riguardanti quel legno dal
quale stete pendente la salute nostra. Et di questa forma io ho fatto
la chiesa di San Giorgio Maggiore in Venetia.

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604 Paolo Ulvioni

Sulle altre caratteristiche del tempio, le teorie di Alberti,


Palladio e Borromeo coincidono. Esso deve sorgere in posizione
elevata, possibilmente su un'altura o, se in città, su un alto basa
mento, e degli scalini devono innalzarlo rispetto all'ambiente
circostante, simbolo della normalità quotidiana di fronte all'ec
cezionalità dell'architettura devota. L'aspetto sarà semplice e
austero, impreziosito solo da materiali rari, così come per il tem
pio di Salomone; preferito il colore bianco, perché più adatto
alla purezza dell'edificio. Nessun appello ai sensi nell'ornato, ma
richiamo continuo alla finalità e alle funzioni purificatone ed
espiative della fabbrica. Sulla disposizione interna, le prescri
zioni del Borromeo sono molto più minute, ma lo spirito di esal
tazione della nuova Chiesa trionfante, antipagana e antieretica,
è abbastanza simile in tutti i teorici del secondo Cinquecento.13

13 A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo,


Torino 1974; R. Wittkower, Principi architettonici nell'età dell'Umanesimo,
Torino 1964, ancora l'opera fondamentale sul periodo che va da Alberti
a Palladio. Sul valore di spoglia e antimanieristica religiosità della chiesa a
pianta centrale, brevi ma interessanti cenni in R. Romano-A. Tenenti, Il Rina
scimento e la Riforma (1378-1598). Parte seconda. La nascita della civiltà mo
derna, Torino 1972, pp. 423-426. Larga scelta del trattato del Borromeo con
ottimo commento è in Trattati d'arte del Cinquecento fra Manierismo e Contro
riforma, a cura di P. Barocchi, III, Bari 1962, pp. 1-113 e note pp. 425-464;
più che un insieme di regole dogmatiche, le Instructiones sarebbero un manuale
di guida e orientamento per la committenza religiosa della diocesi milanese
secondo A. Scotti, Architettura e riforma cattolica nella Milano di Carlo Bor
romeo, « L'arte », n. e., V (giugno-dicembre 1972) pp. 55-90. A. Palladio, I
quattro libri dell'architettura, in Venetia, appresso Dominico de' Franceschi 1570,
1. IV, di gran lunga il più ampio, che presenta accuratissimi disegni di edifici
antichi, con la sola eccezione del tempietto di San Pietro in Montorio del Bra
mante. Modellando il tempio sulla pianta circolare classica, il Bramante è stato
« il primo a metter in luce la buona e bella architettura che da gli antichi fin'a
quel tempo era stata nascosta » (p. 64). Sulle tracce di tale « huomo eccellentis
simo » mossero poi Michelangelo, il Sansovino, il Vasari, il Vignola. Palladio
non nomina mai Brunelleschi e i fiorentini del Quattrocento, differendo in questo
dal suo modello Alberti, ritenendo che solo sotto il pontificato di Giulio II
l'architettura, uscita dalle « tenebre » in cui era entrata con il tramonto del
l'impero romano, « cominciò a lasciarsi rivedere nella luce del mondo ». Di tale
rinascita egli tentava di farsi il maggiore esponente, il più antico dei moderni.
Il valore simbolico della pianta cruciforme era condiviso da tutti gli architetti
postalbertiani. Un diffuso manuale della metà del secolo, in piena egemonia
vitruviana, afferma che malgrado gli antichi dessero varie forme al tempio, « noi
nondimeno giudichiamo che, essendo per noi cristiani morto il figliuol di Dio
sopra il legno della croce, doppo tal morte per commemoratione della nostra
redentione, volendo servare il decoro della religione cristiana, si conveniva, si

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 605

La scelta dello spazio su cui erigere la chiesa e l'ordine reli


gioso da privilegiare per l'officiatura suscitò aspre discussioni in
Senato. Paolo Tiepolo, uno dei più prestigiosi cattolici tradizio
nalisti, sostenne la causa dei Gesuiti per il loro ardore missio
nario, la loro vocazione educativa, la profondità delle loro radici
nella società veneziana; Leonardo Donà, in un polemico discorso,
candidò i Cappuccini, che avevano una sede fatiscente alla Giu
decca, in posizione un po' decentrata rispetto al bacino marciano,
per la santità della loro vita e il disprezzo che mostravano per i
bagliori del mondo. L'appoggio del doge Mocenigo fece preva
lere la proposta del Donà per 68 voti contro 42 per i Gesuiti.
L'anno seguente, in febbraio, il Donà propose la scelta della
forma quadrangolare contro la rotonda di Marcantonio Barbaro,
fratello di Daniele e dal '75 Provveditore sopra la fabbrica del
Palazzo Ducale, che presentò i consueti argomenti simbolico
religiosi. Vinse ancora il Donà, per 103 voti a 54.14 In un clima
di entusiasmo per la cessazione della peste, di rinnovato zelo
contro gli ultimi sussulti eretici, di aperta lotta politica tra i di
versi gruppi patrizi, la costruzione della chiesa si protrasse fino
alla fine del secolo, ingoiando una somma di denaro enorme
mente superiore a quella prevista. La preferenza per i Cappuc
cini, che si dimostrarono perplessi e riluttanti ad accettare l'of
ferta, fu probabilmente dovuta alla stima di cui godevano presso
molti nobili per la loro povertà, la loro vita fatta di carità e pre
ghiere e la rinuncia ad installarsi con istituzioni ufficiali nella
società cittadina e a imporsi come direttori delle coscienze, ideali
che soprattutto i Gesuiti sembravano negare con i loro tentativi
di predominio culturale. Con il generoso aiuto economico del
Senato, nel 1585 iniziò anche la costruzione del nuovo convento
dell'ordine, secondo un disegno severo che presto contrastò con
la monumentalità dell'edificio maggiore. Autore del progetto fu

conviene & sempre si converrà anco a crociera fabricare il principal tempio della
città », P. Cataneo, I quattro primi libri di architettura, in Vinegia, in casa de'
figliuoli di Aldo 1554, p. 35t>.
14 A.S.V., Senato Terra, filze 70 e 71, alle date 22 novembre 1576 e 9
febbraio 1577.

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606 Paolo Ulviotìi

il padre Mattia Bellintani da Salò, la cui fortunatissima Pratica


dell'orazione mentale, apparsa a Brescia nel 1573, venne più
volte ristampata a Venezia negli anni seguenti.
L'adorazione della croce trovò una fisica corrispondenza nel
l'organizzazione interna della chiesa. L'ampiezza dell'unica na
vata, la posizione dominante dell'altare maggiore sovrastato da
un grande crocifisso ligneo atteggiato a profonda sofferenza, ese
guito verso il 1590, l'entrata a cui si accedeva dopo quindici sca
lini che staccavano il piano della chiesa dalle abitazioni circo
stanti, ne facevano un luogo processionale e commemorativo in
cui la fede popolare poteva gareggiare nel suo ardore con l'opu
lenta religiosità delle magistrature. L'area devozionale era netta
mente distinta: il popolo prendeva posto nella navata, il doge e
i magistrati nel transetto racchiuso dalle braccia della croce, se
parato dalla navata da due rientranze della stessa. La scena litur
gica, che si svolgeva praticamente sotto la cupola, coinvolgeva i
rappresentanti dello Stato come partecipanti più che come spet
tatori, parzialmente nascosti agli occhi del pubblico e privilegiati
nella cerimonia di ringraziamento. Dal loro privato spazio reli
gioso, i magistrati riemergevano solo al momento dell'uscita.
A differenza di San Giorgio, la cupola è quasi perpendicolare al
l'altare, e inserisce i celebranti e il crocifisso in una verticale
prospettiva luminosa a cui tende tutto l'apparato edilizio; inol
tre l'altare, e quindi il crocifisso, sono visibili da ogni punto della
chiesa, mentre a San Giorgio due navate laterali limitano la vi
sione. Simile invece lo spostamento del coro dietro l'altare, solu
zione adottata per la prima volta a San Francesco della Vigna,
che metteva i laici a diretto contatto con il sacrificio della messa,
senza il sipario costituito dai monaci. Le dimensioni della chiesa,
il bianco della facciata che la faceva spiccare sull'ambiente, l'iso
lamento sullo specchio d'acqua antistante, e quindi su uno spa
zio aperto, ne riscattavano la posizione non centrale. Come Be
nedettini e Cappuccini, a differenza degli altri ordini cittadini,
mantengono una componente di quasi medievale, austera reli
giosità, funzionale più a un costume comunale che a uno Stato
moderno, così San Giorgio e Redentore si contrappongono strut

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 607

ruralmente al rigoglio architettonico e cromatico dei simboli del


potere civile ed ecclesiastico, ed all'architettura gesuitico-romana
ormai minacciosa. Con la chiesa delle Zitelle, a poca distanza
dal Redentore e la più semplice delle tre, queste rappresenta
vano per il visitatore un breve itinerario spirituale, affacciato
sull'acqua come gli sgargianti palazzi patrizi sul Canal Grande,
e insinuavano, tra la concretezza dei commerci, quell'ideale di
raccoglimento e intimo colloquio con Dio a cui guardavano, tra
gli affanni della politica, i più colti e tormentati esponenti della
nobiltà veneziana.15
La costruzione del Redentore è al centro di un grande ciclo
« cristologico » che si prolunga sino alla fine del secolo. Le altre
due principali manifestazioni sono la vasta serie di composizioni
pittoriche del Tintoretto per la Scuola di San Rocco e il rinnovo
dell'iconografia politica e religiosa del Palazzo Ducale dopo gli
incendi del 1574 e del 1577. Secondo Francesco Sansovino, la
Scuola di San Rocco era la più ricca della città e la più spettaco
lare nelle sue devozioni pubbliche. Nella sede da poco costruita

15 P. Davide da Portogruaro, II tempio del Redentore e il convento dei


Cappuccini di Venezia, estratto dalla « Rivista di Venezia », aprile-maggio 1930;
Id., Storia dei Cappuccini veneti, II, Venezia-Mestre 1957; G. Zorzi, Andrea
Palladio architetto della Repubblica di Venezia, « Boll, del Centro intern. di
studi d'arch. A. Pali. », II, 1960, pp. 108-113; Id., Le chiese e i ponti di Andrea
Palladio, Vicenza 1966; W. Timofiewitsch, La Chiesa del Redentore, Vi
cenza 1969; S. Sinding-Larsen, Some Functional and Iconographical Aspects
of the Centralized Church in the Italian Renaissance, « Institutum Romanicum
Norvegiae. Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia », II, 1965,
pp. 203-252; Id., Palladio's Redentore, a Compromise in Composition, «The
Art Bulletta », XLVII, 1965, pp. 419-437; C. A. Isermeyer, Le chiese del
Palladio in rapporto al culto, « Boll, del Centro ... », X, 1968, pp. 42-58; R. Pane,
Andrea Palladio, 2" ed., Torino 1961, in part. pp. 287-348; L. Puppi, Andrea
Palladio, Milano 19772, con accurata discussione della precedente letteratura
critica; più in generale, Architettura e Utopia nella Venezia del Cinquecento.
Catalogo della Mostra « Palladio e Venezia », Palazzo Ducale, luglio-ottobre
1980, Milano 1980. Per un esame meno specialistico e più ampiamente storico
culturale di alcuni fenomeni architettonici del secondo Cinquecento veneziano
vedi L. Benevolo, Storia dell'architettura del Rinascimento, Bari 1968, passim,
e G. Cozzi, Ambiente veneziano e ambiente veneto, in AA.W., L'uomo e il
suo ambiente, a cura di S. Rosso Mazzinghi, Firenze 1973, pp. 93-146. Sintetico
ma incisivo panorama in A. Tenenti, Le trasformazioni urbanistiche di Venezia
al tempo di Tiziano: 1470 c-1580 c., in AA.W., Tiziano e il Manierismo
europeo, a cura di R. Pallucchini, Firenze 1978, pp. 231-246.

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608 Paolo Ulvioni

vicino ai Frari, il Tintoretto dipinse a tre riprese alcuni soggetti


sacri negli anni 1564-66 con le scene della passione di Cristo,
nel 1576-81 con episodi dell'Antico Testamento e miracoli del
Messia fino alla resurrezione, nel 1583-87 con le meditazioni
delle sante Maria Maddalena e Maria Egiziaca ed episodi del
l'infanzia di Gesù. Per una confraternita « borghese », il Tinto
retto, con somma abilità di artista e di regista del sentimento
religioso, raffigurò la vittoria della Chiesa romana che nella vita
di Cristo ripercorreva il suo cammino scosceso e trionfante. In
un ambiente scarsamente illuminato, propizio alla meditazione,
Cristo emerge come autonoma fonte di luce, simbolo di purezza
salvifica, candida ostia in mezzo a grumi scuri o variopinti — Pi
lato, i soldati, il popolo di Gerusalemme - che si accalcano at
torno a lui. L'immane fatica della salita al Calvario si trasforma,
nella grande Crocifissione, in splendore vittorioso, quasi una re
surrezione sulla croce, con il bianco corpo avvolto da un alone lu
minoso che si impone e attira gli sguardi al centro dell'enorme
quadro tra il dolente gruppo della Madonna e dei seguaci ai piedi
del legno, il cielo burrascoso sullo sfondo e i laterali supplizi dei
due ladroni. Nella penombra delle sale, le macchie bianche indi
cano una serie di tappe artistiche e devote che doveva anche es
sere progressiva infusione di grazia e conoscenza. E pure nelle
scene dell'Antico Testamento - il serpente di bronzo, la caduta
della manna, Mosé che fa sgorgare l'acqua dalla roccia — è pre
sente la simbologia neotestamentaria: la croce, Mosé dipinto
come un protoCristo, miracoli che sono promessa di salvezza e
redenzione. Nelle solitarie estasi meditative delle due sante, spic
canti tra giganteschi paesaggi, ora luminosi ora invasi dalla bu
fera, vi è il risultato dell'agnizione di Cristo: pace interiore e
comunione col divino. Gli accenni sparsi qua e là all'attività assi
stenziale e caritativa della Scuola, la celebrazione del suo patrono
fatta nell'ovale centrale del soffitto della Sala Grande, ricordano
la committenza e danno spessore storico alle pitture tintoret
tiane, ma non intaccano la sensazione di percorrere un cammino
cosparso di « stazioni » religiose tese a una catarsi dello spetta
tore che la semplice opera benefica dei confratelli non poteva

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 609

garantire. Preminenza della fede sulle opere, della meditazione


sulla predicazione: piccola « eresia » personale dell'artista meno
aristocratico di tutto il Cinquecento veneziano.16
Negli stessi anni, il Tintoretto contribuisce alla realizzazione
della nuova iconografia repubblicana e cattolica del Palazzo Du
cale, definita con precisione dopo il 1580. Accanto al ricordo
degli avvenimenti più gloriosi della Serenissima, alcune pitture
votive introducono il Cristo adulto nei fasti dogali. In un qua
dro del Collegio la Vittoria offre le palme del trionfo ad Alvise
Mocenigo, il doge di Lepanto e del Redentore, al cui fianco è
San Marco, mentre il Salvatore, in posizione elevata tra le nubi,
circonda con lo sguardo e un ampio gesto delle braccia il santo e
il suo protetto. Non è un'ulteriore commemorazione della bat
taglia, ma l'esaltazione del ruolo di pace svolto, dopo Lepanto,
dal Mocenigo, strenuo assertore di una tregua definitiva con i
Turchi; è la fine dell'idea di crociata, la conclusione ideale del
ciclo storico che culmina nella ricordata tela del Vicentino e delle
glorie militari della Repubblica: dopo, non c'è che la pace bene
detta da Dio. Nella Sala del Senato, i dogi si raccolgono in pre
ghiera non più in solitudine, ma in coppia, a significare la conti
nuità della politica e della fede veneziana: Pietro Landò e Mar
cantonio Trevisan sono inginocchiati di fronte a un Cristo pia
gato sorretto da cinque angeli, Lorenzo e Girolamo Priuli con
templano abbagliati il Cristo in gloria del Palma. Nella sede del
governo ha minor rilievo l'aspetto più umano e sofferente di

16 R. Pallucchini, Tintoretto a S. Rocco, Venezia 1937, utile per un primo


approccio; C. de Tolnay, L'interpretazione dei cicli pittorici del Tintoretto nella
Scuola di S. Rocco, « Critica d'arte », VII, 1960, pp. 341-376, sottolinea il carat
tere popolare della devozione del pittore, la cui attività avrebbe subito l'influenza,
più di ogni altra fonte letteraria, della Biblia pauperum-, J. P. Sartre, Le
séquestré de Venise, « Les temps modernes », 13, 1957, pp. 761-800, contrap
pone la sua ombrosa umanità e la pittura chiaroscurale agli « aristocratici »
Tiziano e Veronese, facendone il portavoce, a modo suo, di una certa borghesia
veneziana; A. Pallucchini, Venezia religiosa nella pittura del Cinquecento,
« SV », XIV, 1972, in part. pp. 179-184, ritiene il Tintoretto « certamente più
nutrito di pie letture che di dettami controriformistici », e la sua iconografia
quasi una traduzione visiva della fertile immaginazione del cappuccino Mattia
Bellintani. È ora da vedere la risistemazione complessiva di R. Pallucchini
P. Rossi, Tintoretto. Le opere sacre e profane, tomi 2, Milano 1982.

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610 Paolo Ulvioni

Cristo, raffigurato piuttosto come re dei cieli e maestoso protet


tore della Dominante. Nell'immenso Paradiso del Tintoretto si
tuato nella Sala del Maggior Consiglio, la divinità sfavilla al
centro dei beati, disposti in cerchi concentrici intorno alla sfera
della luce e dell'amore; nello Scrutinio il Palma dipinge un Giu
dìzio finale con un Cristo incandescente, isolato nel mezzo del
quadro e circondato da una ressa di corpi in attesa del verdetto
sperato e temuto. In questa rassegna votiva e propiziatoria, dove
si dispiegano i tesori del colorismo veneziano, i santi occupano
un posto secondario: l'interlocutore diretto della Repubblica è
Cristo, unica presenza degna di figurare, con la Madonna, nella
trasfigurazione mitica delle glorie patrie.17
Protagonista di questi cicli sacri e politici è dunque il Tin
toretto. Nella sua visionaria religiosità è stata scorta una certa
affinità con la tormentata pietà dei « giovani » e quasi la tradu
zione in chiave veneziana della « disperazione » michelangiole
sca, e, nel Giudizio della Madonna dell'Orto dipinto verso il
1562-63, addirittura « l'ispirazione all'affresco sistino più seria
e determinante in tutta l'iconografia giudiziale europea ».18 Il
Giudizio di Michelangelo, davanti al quale Tiziano rimaneva
stupefatto e non sapeva staccarsi, conosciuto a Venezia attra
verso le tante riproduzioni, stampe e disegni che correvano per
l'Italia, fu in effetti più ammirato o criticato che imitato o com
preso. Alcune caratteristiche dell'affresco erano respinte sul
piano morale e figurativo, e non solo in ambiente veneto: il
Cristo senza barba, di cui un raro esempio posteriore sarà il bel
lissimo giovane dio del Cristo in gloria di Annibale Carracci del
1597-98, gli angeli senza ali, le effusioni tra i beati, considerate

17 M. Pittaluga, L'attività del Tintoretto in Palazzo Ducale, « L'arte »,


XXV, 1922, pp. 76-99; C. de Tolnay, Il « Paradiso » del Tintoretto. Note
sull'interpretazione della tela in Palazzo Ducale, « Ar V » (Arte veneta), XXIV,
1970, pp. 113-110; S. Sinding-Larsen, Christ in the Council Hall cit. è fonda
mentale per la descrizione e l'interpretazione, anche se talora un po' imprudente,
del ciclo pittorico realizzato nelle sale distrutte dagli incendi.
18 A. Pallucchini, L'abbozzo del « Concilio di Trento » di Jacopo Tin
toretto, « Ar V », XXIV, 1970, pp. 93-102; R. De Maio, Michelangelo e la
Controriforma, Bari 1978, p. 98 per la cit.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 611

troppo lascive, le « sconce » posizioni di alcuni di essi, sottoli


neate dalle nudità prorompenti, la presenza della barca di Ca
ronte, clamoroso elemento pagano in un tema di tale religiosa
tragicità. Ludovico Dolce riassunse attraverso l'Aretino l'osti
lità di molti del cenacolo veneziano: « E sarebbe assai meglio,
che quelle figure di Michel'Agnolo fossero più abondevoli in
honestà, e manco perfette in disegno che, come si vede, perfet
tissime e dishonestissime ». « Poi, che senso mistico si può ca
vare dallo haver dipinto Christo sbarbato? ».19 Il Giudizio del
Tintoretto contiene ancora molti nudi, mantiene la barca di Ca
ronte, mutua da quello sistino certe torsioni dei corpi, ma per
altri elementi si stacca nettamente dalla sua fonte. La « terribi
lità » di Michelangelo è diluita nel Cristo del Tintoretto, e ancor
più in quasi tutti i Cristi veneziani, in atteggiamenti di compren
sione e perdono, con gesti indulgenti che significano fiducia nella
volontà e capacità dell'uomo di innalzarsi con la guida della fede
fino a lui. Mancano in Michelangelo gli elementi allegorici; sono
presenti nel Tintoretto le personificazioni delle virtù teologali e
alcuni simboli della divinità: la spada, il giglio, la bilancia, che
si ritrovano anche nel Paradiso di Palazzo Ducale. Spada e bi
lancia ritornano anche in altri suoi dipinti « ufficiali » come, sem
pre in Palazzo, Il doge Girolamo Friuli al quale Pace e Giustizia

19 M. W. Roskill, Dolce's « Aretino » and Venetian Art Theory of the


Cinquecento, New York 1968, pp. 165-166. La polemica presa di posizione
dell'ambiente dell'Aretino apparve dopo la sua morte nel 1557. Una paradossale
difesa dei nudi michelangioleschi venne dal S. Uffizio veneziano che il 18 luglio
1573 interrogava Paolo Veronese accusato di aver introdotto nell'Ultima Cena
del convento di S. Giovanni e Paolo « scurrilità » e vituperose « inventioni ».
Il Veronese protestò la libertà dell'arte e l'« obligo di seguir quel che hanno
fatto li miei maggiori », e cioè Michelangelo nei suoi nudi della Sistina, fatti
« con atti diversi, con poca reverenda ». Sorprendente la risposta: « Non sapete
voi che depengendo il Giuditio Universale, nel quale non si presume vestiti, o
simil cose, non occorreva dipinger veste, et in quella figura non vi è cosa se
non de spirito, non vi sono buffoni, né cani, né arme, né simili buffonerie? »,
talmente sorprendente che il Fogolari, trascrittore del processo, l'attribuì a uno
degli assistenti laici dell'inquisitore. Vedi G. Fogolari, Il processo dell'Inqui
sizione a Paolo Veronese, « AV », s. V, XVII, 1935, « Atti della R. Dep. di
st. patria per le Venezie », pp. 352-386. Si sofferma sull'aspetto iconografico del
dipinto P. Fehl, Veronese and the Inquisition. A Study in the Subject Matter
of the socalled « Feast in the House of Levi », « Gazette des Beaux-Arts »,
s. VI, t. LVIII (juillet-décembre 1961), pp. 325-354, che ripubblica il costituto.

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612 Paolo Ulvioni

offrono spada e bilancia. L'uso di questi simboli è talmente fre


quente nell'iconografia del tempo che quasi è la loro assenza,
più che la loro presenza, a distinguere uno stile. Attenti critici
come il Vasari e Francesco Sansovino furono colpiti, più che
dalla innegabile religiosità del dipinto, dalle sue « stravaganti
inventioni » e dagli ingegnosi grovigli dei corpi. Ma negli stessi
anni sessanta l'artista iniziava la collaborazione con la Scuola di
San Rocco, ed è lì che meglio si concentrano la sua grandezza e
personalità religiosa. Non sono un valido punto di riferimento
le commesse ufficiali che egli soddisfece per il Palazzo, o il fatto
che fu particolarmente caro al doge Da Ponte, per il quale ese
guì, tra l'81 e l'85, due tele votive. Che questo significhi con
dividere consapevolmente gli ideali religiosi dei « giovani » è
troppo aleatorio, non essendoci probabilmente nessun rapporto
diretto tra l'emergere prepotente di nuovi e più dinamici uomini
politici e la contemporanea iconografia del Palazzo. Essa è ba
sata su convinzioni « storiche » condivise da tutti, come ad es.
i nebulosi avvenimenti del 1177, da secoli asse portante del
l'iconografia veneziana, quando la Repubblica avrebbe fatto da
mediatrice tra il Barbarossa e il papa imponendosi come potenza
europea. Assieme al Tintoretto, lavorarono alle pitture celebra
tive il Veronese e Palma il Giovane; a parte i diversi esiti tecnici,
tutti e tre si fecero ottimi interpreti delle esigenze dei patrizi
committenti, improntate alla consueta mitizzazione dei fatti sto
rici più rilevanti; da parte sua, l'iconografia dogale era già ben
collaudata da circa un secolo. Nei suoi contributi, il Tintoretto
apportò una inconfondibile personalità artistica, ma, ancora una
volta, l'espressione più genuina della sua religiosità non potè
essere contenuta nel trionfalismo delle glorie patrie.20

20 J. Schulz, Venetian Painted Ceilings of the Renaissance, Berkeley and


Los Angeles 1968, pp. 92-116 e passim-, A. Pallucchini, Considerazioni sui
grandi teleri del Tintoretto della Madonna dell'Orto, « ÀV », XXIII, 1969,
pp. 54-68; T. Pignatti, Cinque secoli di pittura nel Palazzo dei Dogi, in AA.VV,.
Il Palazzo Ducale di Venezia, Torino 1971, pp. 91-168; Michelangelo Buonarroti
e il Veneto. Mostra didattica. Guida a cura di P. Carpeggiani, Padova 1975;
G. Cozzi, La venuta di Alessandro III a Venezia nel dibattito religioso e politico
tra il '500 e il '600, «Ateneo veneto», n.s., XV, 1977, pp. 119-133. Insiste

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 613

k k k

Malgrado il comune fervo


zioni politico-religiose di quel
attutire gli attriti all'intern
ritenevano che la vita pubbl
governare, fossero da qualch
zionario mediceo aveva constatato nel 1589 la confusione che
regnava nelle supreme magistrature a causa del « governo largo
che usano di presente » : « adesso nelle risoluzioni prevale il nu
mero dei più, e non la prudenza dei più savi, che erano avvezzi
a procedere più maturamente e a non si dimostrare tanto appas
sionati ». Un agente farnese l'anno seguente biasimava la disso
lutezza di alcuni patrizi appartenenti alle casate più giovani, con
trapposta alla saggia moderazione delle case vecchie, e come con
seguenza riferiva del decadere del commercio, preferendo i no
bili dedicarsi, anziché alla mercatura, al lusso domestico e alle
speculazioni fondiarie. Ed inutile elencare anche solo parzial
mente i motivi e le occasioni di lagnanza dei nunzi pontifici, che
vedevano dappertutto la giurisdizione ecclesiastica minacciata e
derisa.21 Passata la crisi della pace veneto-turca e della peste, era

su una «locai iconographical tradition » dogale J. Pope-Hennessy, The Portrait


in the Renaissance, New York 1966, pp. 273-296, dedicate ai ritratti votivi.
Sui valori politici, istituzionali, figurativi, annessi alle figure dei dogi vedi
ora AA.W., I Dogi. A cura di G. Benzoni, Milano 1982. La reazione
dei contemporanei al Giudizio del Tintoretto si può compendiare, con di
verse sfumature, in quella del Vasari: il soggetto era dipinto « con una stra
vagante invenzione, che ha veramente dello spaventevole e del terribile per
la diversità delle figure che vi sono di ogni età e d'ogni sesso, con strafori e
lontani d'anime beate e dannate. Vi si vede anco la barca di Caronte; ma d'una
maniera tanto diversa dall'altre, che è cosa bella e strana: e se quella capricciosa
invenzione fusse stata condotta con disegno corretto e regolato, ed avesse il
pittore atteso con diligenza alle parti ed ai particolari, come ha fatto al tutto,
esprimendo la confusione, il garbuglio e lo spavento di quel dì, ella sarebbe
pittura stupendissima: e chi la mira così a un tratto, resta maravigliato; ma
considerandola poi minutamente, ella pare dipinta da burla », G. Vasari, Le vite
de' più eccellenti pittori, scultori ed architettori. Con nuove annotazioni e com
menti di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 591.
21 Relazione della Repuhlica di Venezia scritta da Raffaele de' Medici
nel 1589, Venezia 1865 (il Medici era incaricato di partecipare alla Signoria le

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614 Paolo Ulvioni

in effetti esploso il dissidio tra « vecchi » e « giovani » e aperta


la lotta per la conquista delle magistrature più importanti. Gli
uomini di punta dei « giovani » si erano, ognuno a suo modo,
già presentati: il Dona nella discussione sulla chiesa votiva, Ni
colò Contarini dedicando al Dona stesso, di cui si diceva caldo
ammiratore, un'operetta giovanile, il De perfectione rerum, dove
traspare una viva inclinazione per la vita « attiva », a cui la
filosofia era per lui necessaria introduzione.22 Questo saggio an
cora immaturo il Contarini rinnegò molti anni più tardi, scri
vendo al Leschassier, corrispondente del Sarpi, di aver presto
tralasciato le speculazioni filosofiche per « altioribus et gravio
ribus studiis ». E come lui, parte dei giovani patrizi stava ab
bandonando razionalismi, ermetismi e dispute sui grandi pro
blemi metafisici, assorbiti durante i soggiorni nell'Università
padovana, per volgersi allo studio della storia, all'analisi delle
contemporanee vicende politiche, all'esame delle dure realtà che
quotidianamente pesavano sulla vita dello Stato. A questa gene
razione uscita dalle grandi illusioni degli anni precedenti, muti
lata nelle aspirazioni e nei desideri di cambiamento e rivincita,
fornì una risposta, una giustificazione culturale e le motivazioni
per un nuovo impegno politico il Della perfezione della vita poli
tica di Paolo Paruta, dove non era più la speculazione intellet
tuale ad essere ritenuta perfetta, ma, compatibilmente con la
sua natura, il concreto agire dell'uomo.23 Due fronti contrapposti

nozze del granduca Francesco e si era intrattenuto con alcuni influenti senatori
nei primi giorni di aprile); relazione anonima, attribuita dal Segarizzi ad un
agente farnese ne Le « Relazioni » di Venezia dei rappresentanti esteri cit.,
pp. 159-167; A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a
Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo,
Città del Vaticano 1964.
22 A. Tenenti, Il « De perfectione rerum » di Nicolò Contarmi, « Boll.
dell'Ist.... », I, 1959, pp. 155-166; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarmi. Ricerche
sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 56-57.
23 Tralasciando le vecchie, erudite pagine del Pompeati, i migliori con
tributi sul Paruta sono: G. Candeloro, Paolo Paruta, « Riv. st. ital. », s. V,
1936, fase. Ili, pp. 70-97, fase. IV, pp. 51-79; G. Cozzi, La società veneziana
del Rinascimento in un'opera di Paolo Paruta: « Della perfezione della vita
politica », « Atti della Dep. di st. patria per le Venezie », Venezia 1961, estratto,
pp. 13-47; I. Cervelli, Giudizi seicenteschi dell'opera di Paolo Paruta, «Annali

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Cultura polìtica e cultura religiosa a "Venezia 615

esprimevano le idee che l'autore condivideva o combatteva: suoi


portavoce gli ambasciatori presenti al Concilio di Trento: Mi
chele Surian, Nicolò Da Ponte, Matteo Dandolo; loro opposi
tori un manipolo di ecclesiastici: Giovanni Grimani patriarca
d'Aquileia, Filippo Mocenigo arcivescovo di Cipro, Michele Della
Torre vescovo di Ceneda, Giovanni Dolfin vescovo di Torcello,
Agostino Valier vescovo di Verona, Domenico Bollarli vescovo
di Brescia e Francesco Foglietta, genovese, « uomo dotto e fa
ceto », unico laico a combattere i laici. Daniele Barbaro, desi
gnato come successore del Grimani, aveva compiti di mediatore,
ma in realtà appoggiava sottilmente gli ambasciatori. Il terreno
culturale su cui si muovono è in buona parte comune a tutti i
partecipanti; abbondano, anche sulle bocche degli ecclesiastici,
le citazioni dei classici, Aristotele e Platone in particolare. Qual
che ricorso alla Bibbia non tocca il proposito del Paruta di man
tenere la discussione entro i binari ideologici dell'« umanesimo
civile » e della tradizione politica veneziana, impoverendo par
zialmente le argomentazioni dei suoi avversari. La posizione dei
sostenitori della vita attiva si inserisce così nel filone che fa capo
ai « gran maestri antichi », quella opposta lascia appena intrav
vedere un retroterra altrettanto cospicuo, espressione di pro
fonde esigenze contemporanee. Più volte i due gruppi azzardano
un terreno d'incontro e confessano che la diversità degli argo
menti risiede più nelle parole che nella sostanza; in realtà, si
tratta di due filosofie che si sentono e si vogliono diverse, due
opposti modi di intendere l'uomo e lo Stato che un linguaggio a
volte simile non riesce a mascherare. Il dialogo è ambientato du
rante le sessioni conclusive del Concilio di Trento, ma anche se
il suo inserimento cronologico può essere significativo dell'im
portanza che il Paruta annette a quell'avvenimento, la cornice

dell'Ist. it. per gli st. stor. », I, 1967-1968, pp. 273-308; A. Baiocchi, Paolo
Paruta: ideologia e politica nel Cinquecento veneziano, « SV », XVII-XVIII,
1975-1976, pp. 157-233; W. Bouwsma, Venice and the Defense of Republican
Liberty. Renaissance values in the Age of Counter Reformation, Berkeley and
Los Angeles 1968, primi cinque capp. passim, ridimensionati nella tr. it., Bo
logna 1977.

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616 Paolo Ulvioni

tridentina rimane solo un fatto ambientale e mancano altri rife


rimenti a fatti attuali e ai grandi dibattiti religiosi che ancora
scuotono la scena europea, programmaticamente esclusi dal
l'opera. Questa apparve durante il dogado dell'ex-ambasciatore
Da Ponte nel 1579, e fu ristampata, sino alla fine del secolo,
nell' '82, '86 e '99. Cadenza quindi le fortune dei « giovani »,
rappresenta, al di là delle vicende personali dell'autore, un le
game tra la generazione di Lepanto e quella dell'Interdetto,
innalza le rivendicazioni di un gruppo locale a combattiva so
pravvivenza di un ideale di vita che sta per essere vinto e tra
sformato da una diversa realtà — alle cui radici sta anche il Con
cilio di Trento -, che pur ne ha accolto alcuni importanti motivi,
adeguandoli a nuove concezioni politiche, religiose, culturali.24
Al centro della discussione, la città e i modi di operare in
essa. Per gli ambasciatori veneziani e per il Barbaro, la vita at
tiva è connaturata all'uomo, alla sua natura, ad ogni comunità
sociale. Tutti condividono l'affermazione che, essendo l'uomo
composto di spirito e di materia, le sue azioni non possono mai
raggiungere una perfezione assoluta, obiettivo precluso alla debo
lezza della carne. Gli ecclesiastici ne fanno un pretesto per so
stenere la superiorità della vita non meramente contemplativa,
come suggerisce il Paruta, ma spesa fattivamente al servizio di
Dio; quindi svalutazione delle opere politiche a favore di quelle
religiose, necessarie alla salvezza dell'anima. I veneziani riten
gono non incompatibili, ma separate le due cose, come uno dei
loro maestri padovani del primo Cinquecento, il Pomponazzi,
riteneva divise nei rispettivi campi d'applicazione filosofia e reli
gione. La perfezione spirituale è superiore a quella politica, ma
faccenda di pochi eletti. Al cittadino di Repubblica è più con
sona la perfezione politica che, di fronte a Dio, presenta gli

24 È ora importante, per i restauri filologici, le proposte di lettura, anche


se non sempre condividibili, l'ampiezza delle scelte, Storici e politici veneti del
Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni e T. Zanato, Milano-Napoli
1982. L'ed. del 1582 presenta in più punti un annacquamento delle tesi aperta
mente « laiche » di quella del '79, ma a questa i curatori si sono motivatamente
rifatti nella loro silloge, pp. 491-642 e 893-904. Le mie cit. sono tratte dall'ed.
del Monzani perché integrale.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 617

stessi meriti dell'altra. Contemplazione, speculazione intellet


tuale, studio di sorpassate e inutili filosofie sono svalutati per
ché spostano in un'altra sfera la felicità che l'uomo può raggiun
gere nella città, con gli altri, operando virtuosamente.

E tanto più ci sarà questo caro d'intendere partitamente, quanto


che mi pare che una tal conchiusione molto nuova sia, e molto da
quella diversa che i nostri maestri di filosofia nello Studio di Padova
difender sogliono. I qual tutti non per altro laudano la vita attiva e
a seguirla c'esortano, se non perché ella ne sia scorta a cammino più
espedito e più sicuro alla speculativa, in cui sola credono quella
somma perfezione ritrovarsi, che è d'ogni nostro desiderio ultimo e
vero fine. Onde, s'egli avverrà, com'io spero, che oggi apprendiamo
questa verità, la quale fin a questo dì ci è stata nascosa, tanto mag
gior frutto potremo dire averci recato il ragionamento di poche ore,
che fatto non ha lo studio di molti anni.25

Esiste una gerarchia ideale nella vita dell'uomo: famiglia,


patria, Dio. L'ultimo gradino è irraggiungibile se prima non ci
si sofferma sugli altri due. Il primo dovere è di curare e proteg
gere la famiglia, amministrare i propri beni onestamente acqui
siti, tramandare ai figli un incorrotto patrimonio morale e mate
riale; il secondo di servire con le proprie sostanze e con la vita
la patria, cioè la collettività, il cui interesse è sempre superiore
a quello individuale. Solo nel momento in cui si incrociano la
tutela degli interessi privati e la dedizione allo Stato si perviene
alla vera felicità e perfezione, non meno degna agli occhi di Dio
di una vita di assoluto annullamento in lui. Aristotele è quasi
parafrasato in alcuni passi per celebrare la vita della città, che
appare l'unica realtà socio-politica presente allo spirito del Pa
ni ta. E poiché l'uso degli autori classici è comune ai due gruppi,

25 Della perfezione della vita politica, in P. Paruta, Opere politiche cit.,


I, p. 60; è un intervento del giovane Francesco Molin, attento allievo delle
lezioni politiche degli ambasciatori. Sdegna le speculazioni filosofiche come dif
formi e inconcludenti, ma per opposte ragioni, anche il Della Torre, che si attira
una replica risentita del Mocenigo, convinto della loro natura « nobilissima e
perfettissima » (p. 114).

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618 Paolo Vlviotti

l'interpretazione degli ambasciatori, attenendosi strettamente a


testi che teorizzano solo la città terrena, non può che prevalere.
Il Delfino propone una sintesi conciliante che tenga conto delle
due argomentazioni:

Adunque, l'una e l'altra di queste due vite, attiva e contempla


tiva, saranno in tal modo all'uomo convenienti, che né questa né
quella per sé sola potrà recargli perfetta felicità, ma ciò averanno a
fare ambedue insieme, perciocché l'una rende perfetta quella parte
dell'uomo per cui è animale sociale, dotato di senso e di ragione, ma
l'altra è perfezione della mente, e conviensegli non in quanto egli
uomo è, ma in quanto è di certa divinità partecipe (pp. 124-125).

Ma nella finzione dialogica gli ecclesiastici sono menomati nel


l'uso della loro cultura e di quanto ha fino a quel momento ela
borato la riforma cattolica, e per dibattere devono spostarsi nel
campo degli avversari. È senz'altro una scelta deliberata del Pa
nata, ma è anche il trasferimento parziale della discussione in un
tempo astorico, in cui non è ancora apparso il Principe machia
velliano, pur ben presente a tutti gli interlocutori, e Lutero non
ha ancora sconvolto la coscienza europea. Gli strumenti concet
tuali e il linguaggio usati dal Paruta sono quelli consueti agli
altri apologeti della costituzione veneziana, che sovrappongono
alla realtà di uno Stato territoriale l'ideologia della superata
città-Stato, è un pensiero anchilosato che assume come modelli
tipi umani ed esperienze politiche ormai corrosi dal tempo.
Siamo a volte in astratti Orti Oricellari bagnati di classicismo,
con le porte sbarrate di fronte alle bufere dei tempi. Il ritratto
dell'ideale uomo politico che se ne ricava è simile a quello del
Corte giano : con lineamenti tratti dal vivo, ma più ricordo e crea
zione personale che palpitante verità.
La politica dev'essere il regno della virtù. La natura ha for
nito all'uomo la ragione; questa, privilegiando le doti morali su
quelle speculative, la volontà sull'intelletto, gli fa comprendere
che senza la virtù non esistono felicità e perfezione. Requisito es
senziale di chi vive in società, la virtù deve regolare i rapporti
all'interno della famiglia e dello Stato. Le quattro virtù cardi

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 619

nali della teologia diventano altrettante virtù civiche, le princi


pali norme di condotta dell'agire politico, e la maggiore è la
prudenza:

Di lei è ufficio statuire i veri termini alle nostre azioni, e quasi


dar loro l'essere e la forma, onde poscia prendono il nome di varie
virtù, delle quali tutte ella in se stessa tiene quasi certa effigie, per
doverla tale in ciascuna imprimere quale alla natura di quella più
convenevol pare. Onde, qualora l'appetito avvezzo ad ubbidire alla
ragione vuole le cose giuste o temperate, la prudenza, dimostran
dogli quel mezzo virtuoso ove albergano la giustizia e la temperanza,
e qual via debba tenersi a pervenirvi, lo conduce al possesso della
perfetta virtù morale (p. 108).

La prudenza frena e attutisce i colpi della fortuna; ma la for


tuna ha scarso rilievo nel testo, perché intralcia la fiducia del
l'uomo nel suo operato e ricorda il principe senza scrupoli di
Machiavelli. La virtù, per il Surian, è autosufficiente e fine a se
stessa: non desidera premi e ricompense, ma è soddisfatta dei
benefici effetti che produce. L'uomo politico se ne avvale per
contribuire al bene della città; egli non disprezza gli onori come
il saggio stoico, ma non li cerca. Se chiamato ad essi, li assume
con gioia; se ridotto a vita privata, lo studio delle lettere e le
cure della famiglia saranno sua consolazione e merito. Ma la
virtù, per essere completamente valorizzata, deve essere circon
data, come una regina dai servitori, da beni più concreti: nobiltà,
denaro, lusso, salute, bellezza, senza i quali è quasi inoperante.
Doti da godere nella società, ricchezze necessarie per il sosten
tamento della famiglia e dello Stato, da impiegare con liberalità
e munificenza. Per il vescovo di Ceneda, questi beni stornano
l'uomo dalla ricerca di Dio e lo fanno preda dei suoi desideri,
perciò del peccato. Ma il Surian ribatte:

Monsignore, voi andate cercando nell'uomo quell'eccellenza che


ritrovar non si può, e quando ai vostri desideri seguir ne dovesse
l'effetto, io non vorrei esser in ciò meno di voi ardente. Ma se vo
gliamo, come più volte ho detto, l'uomo considerare quale egli è,
non quale per avventura vorremmo che si fusse, ci rimarremo con

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620 Paolo Ulvioni

tenti ch'egli, umanamente vivendo, cioè bene usando il senso e la


ragione, tale felicità n'acquisti quale può capere nella nostra uma
nità (p. 192).

La vita politica costa, materialmente e moralmente, perciò sarà


patrimonio di una classe ristretta che possiede i mezzi per af
frontarla e ne ha la vocazione, che diventa quasi una determi
nante biologica. Servi e artefici sono chiamati da Dio e dalla loro
collocazione sociale a farsi usare, come voleva Aristotele, ad uti
lità degli uomini « liberi e virtuosi ». La Repubblica vive in que
sti, la loro libertà è garanzia della libertà di tutti, come dimostra
l'esempio di Venezia.
Le repliche degli ecclesiastici si affievoliscono e perdono di
mordente, i loro argomenti diventano luoghi comuni di fronte
all'ardore degli ambasciatori: per il savio la terra è carcere ed
esilio, senza la grazia divina gli appetiti prevalgono sulla ragione,
il plauso del volgo oscura la nobiltà, i beni terrestri fanno per
dere l'anima. La vera fede non entra in questi uomini, che il
Paruta presenta in sostanza come solerti difensori e funzionari
di una potenza terrena, il papato, e dei suoi ideali teocratici, ma
in un coltissimo umanista come il Barbaro, a cui egli presta ispi
rati accenti religiosi che destano rispetto e ammirazione in tutti
gli uditori. Sentimenti che sono, grosso modo, quelli di molti
nobili veneziani: rigorosa conoscenza diretta della Bibbia, ane
lito personale verso Dio, assenza di intermediari nel viaggio di
avvicinamento e visitazione del divino, necessità delle opere vir
tuose per innalzarsi alla vera contemplazione, silenzio sul ruolo
e le funzioni della gerarchia ecclesiastica. Ma è un sentire altero,
da « filosofo », da coltivare in privato, non da ostentare in pub
blico. Per il popolo è necessaria invece una religione sontuosa e
sfavillante, da godere con i sensi.

Però, deve la città abbondar di tempii e di sacerdoti, le ceri


monie sacre trattarsi piamente e magnificamente, le feste celebrarsi
con divozione e con solennità, sì che le cose esteriori vadano ecci
tando l'affetto interno e siano testimoni di quello, e la pietà del prin
cipe, quasi chiara luce d'altra parte risplendendo, svegli ne' petti di

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 621

ciascuno l'amore della vera bontà, il qual solo può formare quella
perfetta virtù civile che indarno col timore delle leggi si cerca d'in
trodurre al mondo. Se la città sarà in cotal guisa ordinata, i popoli di
loro volontà presteranno ubbidienza a' loro prencipi, e i prencipi con
sapienza e con fine di vera carità reggeranno i sudditi, perché sopra
di loro scenderà un raggio della divina giustizia che li farà non pur
onorare come eccellenti uomini, ma quasi adorare come semidei, e la
città tutta sarà abbondante non pur di ricchezze e di comodi della
vita, ma insieme di pace e di concordia, e di tutti quei beni che Iddio
promette a' suoi più cari. Onde, una tale città sarà vera sede e degna
patria in cui abbia a menar sua vita l'uomo civile, dotato di quelle
tante eccellenze con le quali l'hanno questi signori formato (pp. 403
404).

Questa conclusione del Dandolo dà un sigillo genuinamente


religioso all'opera; ad essa si accompagna una conclusione poli
tica che, contro il Foglietta e il Mocenigo che preferiscono il
giusto governo di uno solo, esalta l'ideale del governo misto,
perfettamente incarnato da quello veneziano. Il Dandolo ricorre
alle parole del cardinale e cognato Gasparo Contarini, mettendo
in rilievo non solo due differenti stili di vita civile e religiosa,
ma una personalità a cui si richiamano e nelle cui esperienze si
riconoscono molti sostenitori della vita attiva. Il Paruta, per evi
denziare le sue ragioni, ha semplificato i ruoli dei contendenti;
la solidarietà e la continuità politica e spirituale che esiste attra
verso gli anni tra uomini usciti dallo stesso ceto sociale permet
tono, al contrario, di sfumare la linearità di alcune posizioni.
Nella vita e nell'opera del Contarini la generazione del Paruta
trovava vari motivi a lei congeniali: il rifiuto di considerare vita
attiva e vita contemplativa come due strade opposte che por
tano l'una al peccato, l'altra alla redenzione; la coscienza che
ognuno è chiamato da Dio a un certo compito che, se svolto
bene, conduce alla salvezza come tutti gli altri; la nobiltà del
vivere civile, negatore dell'arida solitudine; la fedeltà alla patria
e la sua esaltazione negli atti e negli scritti. E dal contariniano
De Magistratibus et Republica Venetorum lo stesso Paruta traeva
spunti da sviluppare nel Della perfezione. Nelle giovanili let

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622 Paolo Ulviotii

tere al Querini e al Giustiniani, che avevano scelto la vita mo


nastica, scritte tra il 1510 e il 1512, il Contarmi ripeteva con
Aristotele « che il viver solitario non è naturai a l'homo el qual
la natura ha fato animale sociabile », e giustificava la sua scelta
di una vita nel mondo. Vent'anni dopo, cardinale ed eminente
uomo di Chiesa, difendeva, scrivendo a Trifon Gabriele, la ne
cessità delle virtù morali, guida della vita attiva, « ch'è propria
humana »; perciò « è più appetibile la virtù propria nostra con
la privation della superiore [quella che conduce alla vita con
templativa], che la superior con la privatione della propria no
stra ».26 Trifone Gabriele era, nel Della Republica de' Viniziani
del fiorentino Donato Giannotti, l'illustratore, con qualche ri
serva, del « perfetto » meccanismo di governo veneziano. Conta
rmi e il suo corrispondente erano appaiati idealmente e crono
logicamente, per le future generazioni, nella ricreazione del mito
della Serenissima e dei suoi ordinamenti. In ottime relazioni
d'amicizia con il Contarini era Daniele Barbaro, uomo di grande
religiosità ma di scarso risalto ecclesiastico, e che condivideva
piuttosto l'amore per le humanae litterae del famoso prozio Er
molao; ammiratore del Gabriele, egli scrisse due commossi so
netti alla sua morte, richiamando il valore del suo insegnamento
presso i giovani. Equilibrato esempio di contemperamento tra
vita attiva e vita contemplativa per Agostino Valier era Trifone,
« Socrate » dei suoi tempi, appartatosi dagli uffici ma ascoltatis
simo pedagogo dei giovani nobili veneziani.27

26 H. Jedin, Gasparo Contarmi e il contributo veneziano alla Riforma Cat


tolica, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 103
124; i. Cervelli, Storiografia e problemi intorno alla vita religiosa e spirituale
a Venezia nella prima metà del 500, « SV », vili, 1966, pp. 447-476; G. Fra
gnito, Cultura umanistica e riforma religiosa: il « De officio viri boni ac probi
episcopi » di Gasparo Contarmi, ibid., XI, 1969, pp. 75-189; J. B. Ross, Gasparo
Contarmi and His Friends, « Studies in the Renaissance », XVII, 1970, pp. 192
232; G. Alberigo, Vita attiva e vita contemplativa in un'esperienza cristiana
del XVI secolo, « SV », XVI, 1974, pp. 177-225.
27 P. Paschini, Gli scritti religiosi di Daniele Barbaro, « Riv. di st. della
Chiesa in Italia», V, 1951, pp. 340-349 (in realtà riguarda soprattutto la vita
del Barbaro); Id., Daniele Barbaro letterato e prelato veneziano nel Cinquecento,
ibid., XVI, 1962, pp. 72-107; G. Alberigo ad vocem in DBI (Diz. biogr. degli

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 623

Il Bollani è tenuto un po' tra le quinte nel Paruta, ma ade


risce in pratica alla difesa della vita contemplativa. Come ha sug
gerito il suo più recente biografo, la realtà era meno semplice:
una volta nominato vescovo di Brescia, l'abile patrizio apportò
nel suo impegno pastorale le stesse qualità diplomatiche che
aveva dimostrato al Servio dello Stato, e seppe fondere, sia pur
non sempre felicemente, gli ideali della grandezza veneziana e
del rafforzamento della riforma cattolica. Al nipote Antonio in
culcava l'insegnamento delle « due vie », « sì di chiesa come di
viver politico », e il suo testamento è un chiaro indice dell'af
fetto per il casato, l'unione tra i parenti, la volontà di mante
nere indivisibili le sostanze nella famiglia, tipici dei nobili
veneziani.28
Il Valier era nipote di Bernardo Navagero che, ambasciatore
della Repubblica a Roma, era stato nominato nel '62 vescovo di
Verona da Pio IV. Del venerato zio e maestro, egli rammentò
più tardi l'inclinazione per la vita attiva più che per la contem
plativa, il congiunto amore per la patria e per la S. Sede, il mai
sopito ricordo delle coperte magistrature civili.

Sostennero taluni che Bernardo, tocco talvolta dal desiderio della


patria e dalla ricordanza della Repubblica in cui fiorito era per molti
anni, avrebbe, se fosse stato in suo arbitrio, fatto volentieri ai primi
magistrati ritorno, ma nessuno affermare ciò puote, specialmente

Ital.), VI, Roma 1964, pp. 89-96; A. Valier, Memoriale a Luigi Contarmi
cavaliere sopra gli studii ad un senatore veneziano convenienti, Venezia 1803,
p. 12. Alvise Contarmi, recatosi a Trento per assistere alle ultime fasi del Con
cilio, è ricordato nel Della perfezione come un giovane a cui « acquistava molto
di grazia, oltra la propria virtù e integrità de' costumi, la recente memoria di
quel gran cardinale Gasparo Contarmi, di cui era egli nipote » (p. 40). Continuò
fino a metà secolo gli ideali e le posizioni culturali di Barbaro, Contarmi e
Trifone l'umanista Giambattista Egnazio, stimato precettore di molti nobili e
autore di biografie eroiche veneziane, proposte come modelli ai contemporanei;
vedi L. J. Libby Jr, Venetian History and Politicai Thought after 1509, « Studies
in the Renaissance », XX, 1973, pp. 7-45 e J. B. Ross, Venetian Schools and
Teachers Fourteenth to Early Sixteenth Century: a Survey and a Study of Gio
vanni Battista Egnazio, « RQ », XXIX, 1976, pp. 521-566.
28 C. Cairns, Domenico Bollani Bishop of Brescia. Devotion to Church
and State in the Republic of Venice in the Sixteenth Century, Nieuwkoop 1976.

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624 Paolo Ulvioni

avendolo io inteso spesse volte apprezzare molto e sublimare la di


gnità cardinalizia.29

Meno colto del Barbaro, il Valier, sempre attento al prestigio


e alle esigenze della sua diocesi, dove era successo allo zio nel
1565, nella sua attivissima vita fu sempre difensore della mito
logia veneziana. Assertore dell'esemplarità della storia della Se
renissima, considerava gli obblighi temporali, per chi vi era chia
mato, il miglior modo per servire la patria e acquisire merito
presso Dio. A Giacomo Foscarini, che esitava nell'accettare l'in
carico di provveditore generale a Candia, scriveva nel giugno
1574 righe di affettuoso ammonimento: il rifiuto delle magi
strature porta alla distruzione della forma di governo e fa avan
zare solo gli ambiziosi, dedicarsi alla terra su cui si è nati si
gnifica onorare Dio, il santo nome veneziano dev'essere servito
in tutto il mondo, la pietà di Venezia è benedizione per i suoi
figli.30 Il suo allievo prediletto Alvise Contarini, nipote di Ga
sparo, una volta eletto pubblico storiografo, avrebbe dovuto
realizzare la sua visione provvidenzialistica della storia. Morto
il Contarini nel '79 senza aver portato a termine l'incarico, il
Valier redasse un campionario di lezioni moralizzanti che dimo
stravano che negli eroici fatti veneziani si realizzava la volontà
di Dio e il trionfo della fede cattolica. Scudo della vera religione,
la Repubblica era stata designata a proteggere il papa, missione
che le spettava dal lontanissimo 1177, disperdere gli eretici, di

29 A. Valier, Vita di Bernardo Navagero, in Orazioni, elogi e vite scritte


da letterati veneti patrizi in lode di dogi ed altri illustri soggetti, compresavi
alcuna inedita, e tutte per la prima volta volgarizzate. Ed. seconda accresciuta
e ricorretta, in Venezia, dalla tipografia di Antonio Curti 1798, II, p. 106. Il
Navagero compare tra i principali interlocutori in G. M. Memmo, Dialogo nel
quale, dopo alcune filosofiche dispute, si forma un perfetto principe & una
perfetta Republica e parimente un senatore, un cittadino, un soldato & un
mercatante, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari 1563, che si finge
tenuto a Roma nel 1556, dove egli vanta la superiorità del governo veneziano
su ogni altro principato. Vi figura in primo piano anche il Grimani, i cui inter
venti, seppure di minore ampiezza, hanno lo stesso tenore di quelli riportati
dal Paruta.
30 Lettere di nobili veneziani illustri del secolo decimosesto, ora per la prima
volta insieme raccolte, Venezia 1829, pp. 125-133.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 625

fendere col sangue la cristianità dagli infedeli. Condensata in


due pagine la « forma mirabile » del governo per subito rinviare
all'opera del Contarini, loda l'ultimo storiografo che aveva preso
il posto del suo allievo, Paolo Parata, come uomo « da cui tutti
i Veneti aspettano una storia degna di lui e della Repubblica,
né egli defrauderà, come credo, la comune aspettatione »; am
mette di aver scritto molto di storia, forse nella speranza di otte
nere una nomina ufficiale, ma di aver scelto solo alcuni esempi
particolarmente istruttivi per offrirli ai nipoti. Malgrado i fre
quenti luoghi comuni e le accorte modestie, il Valier rivela qua
e là una sensibilità storica, nei limiti dello scritto apologetico,
assenti in molti storiografi laici della sua età. È attento alle vi
cende religiose, parla del Concilio di Trento e della lotta al
l'eresia, tratta spesso della politica dei papi, dedica ampio spazio
al dibattito in Senato sull'erezione della chiesa al Redentore. Ma
ogni cosa ricopre poi, vista in prospettiva, di apparente armonia
e unità. In pieno scontro tra « giovani » e « vecchi » - la men
zione di Lorenzo Bernardo « presentemente » podestà di Verona
assegna l'opera, almeno in parte, al 1583 -, mentre si attua la
« riforma » del Consiglio dei X, sorvola abilmente sul problema
descrivendo composizione e compiti del Senato e dei Dieci, per
poi concludere:

Lo scopo di tutti due questi corpi è di governare bene la Repub


blica, tutti due l'amano egualmente, e tutti due la riguardano con
impegno e tendono a difendere la libertà, la vogliono tutti due con
servare ed accrescere: il Senato propende alle massime più splendide,
i Decemviri ai consigli più sicuri, e tutti due tendono a procurare la
pace, come quella che conserva ed aumenta la Repubblica.31

In un periodo in cui i nobili accentuano i loro investimenti


fondiari in Terraferma, egli difende il mestiere della mercatura

31 Dell'utilità che si può ritrarre dalle cose operate dai Veneziani libri XIV.
Tradotti dal latino ed illustrati da Monsignor N. A. Giustiniani vescovo di Pa
dova, Padova, nella stamperia del Seminario, appresso Tommaso Bettinelli 1787.
L'originale latino rimase inedito, malgrado Silvio Antoniano ne dedicasse una
copia a Leonardo Dona e a Lorenzo Priuli, futuro patriarca di Venezia.

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626 Paolo Ulvioni

presso i nipoti, esaltandolo come scuola di vita, elemento indi


spensabile della ricchezza di Venezia, essenziale componente
della sua fortuna. Non deroga il nobile che lo esercita, né in
fanga la memoria degli avi, ma onora sé e la patria. « Si eserciti
pur liberamente, purché si tenga lontano il guadagno turpe e
non si propongano i mercadanti di arricchire colle disgrazie
altrui ».
Per tempra, impegno, inclinazioni personali, il Valier era
soprattutto un pedagogo. Lo fu dalla cattedra in gioventù,
quando nel 1558 sostituì Sebastiano Foscarini nella scuola filo
sofica di Rialto; continuò ad esserlo nei suoi libri, quasi tutti
inediti in vita, e durante il suo vescovato. Per Alvise Contarini
compose verso il 1574-75 un piano di studi in cui maggiormente
si avverte il peso delle dottrine controriformiste.32 È bene fug
gire gli onori, « godere le molte comodità della vita privata, ar
dire di dire la verità liberamente, lasciare di adulare, non servir
a tanti », ma quando la patria ha bisogno di noi, si deve obbe
dire come se fosse la voce stessa di Dio. In tal caso, è bene par
tecipare alla vita pubblica « allegramente », « passando gran
parte del tempo in ragionamenti utili », e distribuendo larga
mente agli altri il proprio sapere, come fecero il già ricordato
Trifon Gabriele e Pierfrancesco Contarini, patriarca di Venezia
nel 1554. Perfetto esempio di patrizio dotto è Matteo Dandolo,
dai cui ideali, con vibrante elogio, il Valier si mostra meno lon
tano di quanto lo faccia apparire il Paruta. Il prelato loda l'in
tenzione del suo allievo di darsi allo studio delle lettere, purché
sia congiunto alla pietà cristiana, e gli propone delle letture
adatte al suo stato di patrizio:

Scrivo ad un gentiluomo di Venezia, assai ricco, ammogliato e


adoperato dalla patria sua, perciò m'accorgo che non gli debbo pro
porre tanti autori come se io scrivessi ad un sacerdote, o ad uno che
al tutto si fosse ritirato dalla vita attiva e che si fosse risoluto di non
far altro che studiar e orare (p. 35).

32 Memoriale cit.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 627

In realtà, la sapienza pagana viene posta in secondo piano per


ché non illuminata dalla rivelazione e dal sacrificio di Cristo, e
il programma consigliato si appoggia soprattutto a testi e pra
tiche religiosi: lettura assidua del Vecchio e del Nuovo Testa
mento, dei Padri della Chiesa, di qualche commentatore medie
vale, dei poeti cristiani dei primi secoli; utilissima poi la fre
quenza delle prediche e delle « persone più dotte » nei mona
steri per accrescere la devozione. Ma il tutto trasfuso nell'im
pegno civile: letture e insegnamenti - la vita contemplativa -
saranno la base dell'attività politica — la vita attiva conci
liando le due, il Contarini otterrà la salute della patria e del
l'anima. L'impostazione catechistica di questa ratio studiorum è
evidente, ma basta confrontare tale cordiale pedagogia con quella
del più significativo teorico dell'educazione controriformista,
Silvio Antoniano,intrinseco del Valier per quarant'anni, o con
le minuziose prescrizioni dei pedanti contemporanei, per notare
la differenza.33 Il Valier non dimenticò mai di essere veneziano,
e anche quando, fino all'Interdetto, trattò a Roma faccende ri
guardanti la politica interna della Serenissima o le relazioni tra
Venezia e la S. Sede, tentò sempre di farlo con soddisfazione
delle due parti, pur divenendo amicissimo dei vari papi, come
lo era di Carlo Borromeo. Il vescovo di Verona, privo dei vasti
interessi umanistici del Barbaro come della rocciosa intransi
genza del Grimani, del Mocenigo, del Della Torre, con la sua
personalità e la sua azione educativa dimostra, rispetto agli altri
prelati, di essere sensibile e attento alle ragioni del mondo e di
rendere più articolate e complesse certe apparenti, rigide con
trapposizioni tra la città di Dio e la città degli uomini.

33 Sostanzioso panorama in II pensiero pedagogico della Controriforma, a


cura di L. Volpicelli, Firenze 1960. Il Valier avrebbe senz'altro sottoscritto le
parole del Paruta sulla medietas umana: l'uomo deve camminare « per certa
strada di mezzo, non si accostando né al sentiero calcato dal volgo, né a quello
segnato dall'orme di alcuni pochi più severi filosofi » (Della perfezione cit.,
p. 294). Che il vescovo di Verona fosse sempre il prelato veneto più caro alla
Signoria lo dimostrano le sue Lettere ai dogi di Venezia, Verona 1862 e gli alti
elogi trasmessi a Venezia dai Rettori, vedi Relazioni dei Rettori veneti in Ter
raferma. IX: Podestaria e Capitanato di Verona, Milano 1977, passim.

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628 Paolo Ulviotti

Da Gasparo Contarmi al Valier non esistono dunque grandi


fratture nella sensibilità religiosa, e la fede dei « giovani » si può
inscrivere a buon diritto in questa linea. Anche nei portavoce
del Paruta, spesso aspri verso la Chiesa, le sue pretese tempo
rali, i suoi rappresentanti, la vita attiva non significa mai sprezzo
o negligenza del sentimento religioso. Nel Della perfezione, il
Foglietta, citando il Vecchio Testamento, esclama all'indirizzo
del Surian: « Ma che bisogno è di ricordare cotali esempi a voi,
il quale tanto siete usato nella lezione delle sacre lettere, e però
molto meglio di me dovete avergli alla memoria? ».M Secondo
un suo biografo che scivola nell'agiografia, Nicolò Da Ponte, già
maestro per due anni di filosofia alla scuola di Rialto, aveva una
tale cultura teologica, unita a una ferrea dirittura morale, che era
continuamente consultato « intorno le divine cose e le umane,
le pubbliche e le private »; si accostava spesso all'Eucaristia e si
tratteneva a lungo in preghiera, perché sapeva « che nessuna via
era più spedita a custodire la divina grazia che quella di valersi
di questi santissimi istituti e di coltivare la pietà ». Tutto ciò
non gli impediva di attirarsi l'odio del papa perché sospetto di
eresia: nel 1566 Pio V dichiarava all'ambasciatore Paolo Tie
polo di non avere « bona opinione di lui », e che Paolo IV aveva
detto che se il Da Ponte fosse stato inviato ambasciatore a Roma
lo avrebbe fatto bruciare.35 Il segretario Antonio Milledonne, che
avendo seguito gli ambasciatori a Trento compare nell'opera del

34 P. 76.
35 A. Longo, Orazione recitata in morte di Niccolò Da Ponte doge di Ve
nezia, in Orazioni, elogi e vite cit., II, pp. 127 e 140; B. Nardi, La scuola di
Rialto e l'umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano,
a cura di V. Branca, Firenze 1964, pp. 133-137. Nemmeno durante le prudenze
del dogado il Da Ponte perse il gusto per gli atteggiamenti disinvolti e contro
corrente. Nell'ottobre 1580 volle entrare, durante la processione commemorativa
della battaglia di Lepanto, nella chiesa dei Greci, « cosa insolita e non mai più
fatta », si inginocchiò, « fece oratione et accettò l'incenso secondo l'uso greco,
cosa che diede da ragionar assai alla città, et ogn'uno diceva la sua, e massime
che era persona discesa di sangue greco ». E il giorno di Natale 1583, mentre
ascoltava in chiesa la predica di un gesuita, trovandola troppo lunga e noiosa,
« si levò quasi a mezza predica, [e] bisognò seguitarlo, sì che il povero predi
catore rimase con grandissimo affronto », A. Michiel, Annali delle cose della
Rep. di Venezia dall'anno 1578 al 1586, in B.M.C. (Biblioteca del Museo Correr
di Venezia), ms. Cicogna 2555, c. n. n.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 629

Paruta ed era uno dei più apprezzati ed influenti burocrati del


suo tempo, da giovane inclinava verso la vita monastica, « ma
il Signor Dio lo haveva chiamato ad altro ministerio ». Segre
tario del Da Ponte e del Navagero quando questi furono amba
sciatori a Roma nel 1551 e nel 1555, fu talmente stimato dal
papa e dai suoi intimi che « era in grandissimo concetto di car
dinale »; la sua morte edificante fu lo specchio della sua fede
cristallina.36 Alla tradizione mistica dei primi riformatori vene
ziani, Giustiniani, Querini e Contarmi, è stata collegata la natu
rale religiosità della massima autorità dei « giovani », Leonardo
Donà, rassodata da letture come i primi Padri, le regole mona
stiche benedettine, Tommaso da Kempis, naturalmente la Bibbia,
su cui meditava continuamente e, su tutti, il predicatore e teo
logo spagnolo Luis de Granada; e sempre Dio era invocato come
garante dell'onestà del suo impegno al servizio della Repubblica
e come giudice dei suoi errori.37
In questi e in altri uomini che non comparivano sulla scena
politica con la stessa imperiosità, c'era dunque l'adesione a un
patrimonio spirituale ben radicato nella tradizione veneziana, e

36 P. Darduino, Vita di Antonio Milledonne, secretano del Consiglio di X,


da altro secretano scritta, s. n. t., ma composta verso il 1618, perché del Mille
donne, morto nel 1588, si dice che fu « spento all'humana vita hor va il trigesimo
anno ». È una vita esemplare di perfetto servitore dello Stato, proposta al ceto
dei cittadini, e in particolare ai segretari delle varie magistrature, come modello
di virtù morali, religiose e politiche. Il MDledonne fu autore di una storia del
Concilio abbondantemente annotata e sfruttata dal Sarpi - in ms. It. V,
115 (5829) - e di un Ragionamento di doi gentil'huomini, l'uno romano, l'altro
venetiano, scritto nel gennaio 1581 - in B.M.V., ms. It. VII, 709 (8403) -,
in cui sintetizza alcune pagine del Contarmi e del Giannotti, soffermandosi a
lungo sui compiti tecnico-amministrativi delle diverse cariche e sui loro intricati
modi di elezione. Nelle ultime venti carte c'è un Dialogo con uno amico suo
in cui, dopo il secondo fallimento della sua candidatura a Cancellier Grande,
dispiega l'animo di un saggio stoico e cristiano che dispregia gli onori terreni
perché vani e attentatori alla salute dell'anima e si rimette alla clemenza di Dio,
sicuro che la sua sconfitta è stata voluta dall'alto per la sua salvezza. Sulla sua
vita e opere vedi anche E. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853,
pp. 713-719.
37 M. Brunetti, Il diario di Leonardo Dona procuratore di San Marco
de citra (1591-1605), « AV », s. V, voi. XXI, 1937, pp. 101-123; F. Seneca, Il
doge Leonardo Dona. La sua vita e la preparazione politica prima del dogado,
Padova 1959, in part. pp. 27-38; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarmi cit., cap. I
e passim.

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630 Paolo TJlvioni

quasi un ritorno alle correnti spirituali pretridentine, a moduli


di tolleranza quasi erasmiana, quando una fresca eredità umani
stica veniva ad ammorbidire le personalità più solitarie e scon
trose. Certo in alcuni è abbastanza diffusa la lettura di testi ri
formati o « eretici », ma è un fenomeno che serve a circoscri
vere storicamente questa esperienza religiosa e a darle talvolta
un sangue più ricco, un più sostanzioso senso del credo indivi
duale. L'eresia come adesione alle dottrine d'oltralpe è, l'ab
biamo visto, molto limitata presso i patrizi, in estensione e in
profondità. È invece vigorosa, fino all'Interdetto e oltre, l'« ere
sia » come ricerca personale della verità, rifiuto delle prescrizioni
ecclesiastiche, delle pretese giurisdizionali della S. Sede in quanto
rispondenti, per la sensibilità veneziana, a ideali terreni, a riven
dicazioni puramente politiche, a bramosia di grandezza tempo
rale. Tale spiritualità, pur attenta ai valori dell'epoca, è sgan
ciata da confessioni o sette storiche, perché la verità non può
essere suggerita in modi e misure diversi a seconda dei tempi e
delle circostanze politiche, ma ha una sua corposità autonoma
che deve imporsi al credente oltre ogni vincolo esterno. In que
sto atteggiamento vi sono residui di mentalità irenistiche, di
escatologie non rivoluzionarie rivissute in maniera assolutamente
personale, non predicatoria, che impregnano sì alcune posizioni
politiche, ma servono soprattutto a rendere più intima e sentita
la ricerca del divino. Non c'è il rifiuto del dogma in quanto tale,
e liturgia e spettacolarità del sacro sono ritenute necessarie a
cementare il consenso pubblico sui valori statali, strettamente
connessi a quelli religiosi. Al fasto esteriore, rivolto a tutto van
taggio della comunità e della Repubblica, deve però corrispon
dere l'umiltà interiore, l'esame di coscienza, la tensione continua
all'autoperfezionamento morale, comportamento per eccellenza
volontario, senza per questo respingere i vantaggi dei beni ter
reni, utilizzati per la grandezza della famiglia e dello Stato, e
sentiti come ricompensa divina al retto operare. Quindi nessun
inquadramento, per questi patrizi, in qualche comunione eccle
siale, ma scelta cosciente di un cattolicesimo né romano, né lute
rano, né ginevrino, che vuole risalire a Dio e alla sua Parola, il

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 631

Cristo Redentore. Lo studio della Bibbia, dei Padri, dei mistici


moderni, fa parte della cultura di molti, è evidente in discorsi e
riferimenti; sono letture non basate su guide predeterminate,
ma per essi scelte individuali, rivelazioni continue della immen
sità del Verbo, che sottolinea ancor più la misera statura dei suoi
interpreti sulla terra. È un'eresia tutta particolare, non riporta
bile agli schemi consueti forgiati dalle Chiese storiche, ma af
fondata nell'ordinamento repubblicano, impasto di fede severa
e intransigente giurisdizionalismo, fiduciosa nell'aiuto di Dio e
nella capacità del singolo di attingere a grazia e misericordia con
una rigida sorveglianza su se stesso. Sensibilità aristocratica, da
non sottoporre a conferme collettive, a pretese propagandistiche,
a definizioni dottrinali; assente la volontà di apostolato, sarà la
propria vita, tessuta su tali intime convinzioni, ad essere il testi
monio migliore della conquista di una fede tanto faticosa e
sofferta.

•k "k "k

Dopo la cristallizzazione del mito di V


definitivi contorni istituzionali dal Con
trasposizione di altri elementi reali con
e sbocca nel compendio finale della Ven
1581. L'opera è il punto di confluenza
porti di carattere storico, artistico, le
dioevo era risuonata la meraviglia di vi
tura per la straordinaria collocazione
Roma forniva la maggior copia di mat
rose Mirabilia Urbis dei secoli prece
stampa lanciò in tutta Europa l'immag
civilizzata. Mentre la particolare conf
nezia irrompe, sul piano figurativo, ne
Quattro e Cinquecento, proprio nel 15
pianta di Jacopo de' Barbari, superiore
ché non verranno impiegati nuovi stru
leggenda di Venezia ha il suo capolavo

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632 Paolo TJlvioni

presentazione dell'involucro del mito. Come nelle carte poste


riori, il punto di osservazione è il bacino di San Marco, l'isola
di San Giorgio o i dintorni, varia solo l'altezza a cui si pone l'os
servatore. Altre città hanno punti d'approccio diversi, Venezia
ne ha uno solo: il mare, da cui proviene ancora la sua ricchezza,
di fronte ai centri del potere politico e religioso. Il cuore della
Serenissima si rivela di colpo, senza passaggi graduali, nascon
dendo o allontanando la periferia, sede dei mestieri più perico
losi e pesanti, dell'urbanistica più umile. Le date delle piante e
delle vedute prospettiche rivelano ogni volta un ampliamento
edilizio; spariscono progressivamente le vecchie costruzioni dalla
Piazza e dalle sponde del Canal Grande, le murature patrizie e
statali si infittiscono, coprono lentamente gli spazi disponibili,
falciano le vetuste casette popolari, formano una calcolata sce
nografia, obbediente a razionali leggi ottiche. L'acqua è culla e
nutrice, con le sue foreste di navi che fanno dimenticare la vi
tale e ingombrante presenza, alle spalle, di una Terraferma colta
con toni stilizzati: alberi, montagne, qualche contadino, qualche
animale al pascolo, una semplice cornice decorativa. Un po' alla
volta il didascalismo cinquecentesco si arricchisce di elementi
pubblicitari di grande successo: nella pianta inserita nelle Civi
tates orbis terrarum di Georg Braun apparse a Colonia nel 1572,
figura al centro una vignetta che blocca nel suo splendore il cor
teo ducale della festa del Corpus Domini. Da quel momento si
fa più frequente la rappresentazione di festività, monumenti e
costumi cittadini che nella sua accuratezza grafica spesso sovra
sta il disegno, non sempre di buona qualità, dell'ambiente la
gunare.38

38 J. Schulz, The Printed Plans and Panoramic Views of Venice (1486


1797), Firenze 1970, saggio unico di « Saggi e mem. di st. dell'arte », 7; G. Cas
sini, Piante e vedute prospettiche di Venezia (1479-1855). Con una interpreta
zione urbanistica di E. R. Trincanato, Venezia 1971; Venezia e lo spazio sce
nico. Catalogo della Mostra, Venezia 1979, in part. il saggio di L. Zokzi, Intorno
allo spazio scenico veneziano, pp. 81-109; L. Padoan Urban, Le feste sull'acqua
a Venezia nel secolo XVI e il potere politico, in AA.W., Il teatro italiano
del Rinascimento, a cura di M. de Panizza Lorch, Milano 1980, pp. 483-505;
Venezia piante e vedute. Catalogo del fondo cartografico a stampa del Museo
Correr, Venezia 1982.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 633

Nel 1493, l'apparizione postuma del De origine Urbis Vene


tiarum di Bernardo Giustiniani fissa in schemi pressoché cano
nici anche la trattazione delle origini di Venezia e della sua sto
ria. La città era sorta nel 421 d. C. ad opera di esuli dell'entro
terra, per la maggior parte padovani, fuggiti dinanzi alle inva
sioni barbariche; dagli Unni ai Longobardi, i profughi avevano
ingrossato e reso potente l'iniziale agglomerato di capanne di
pescatori. La Provvidenza aveva disposto che alla lenta disgre
gazione dell'Impero romano succedesse un progressivo aumento
del dominio veneziano: Venezia ereditava la virtus romana e la
missione di alfiere della cristianità. Termine del De origine era la
leggendaria sconfitta navale inflitta a Pipino, figlio di Carloma
gno: a quel punto si concludeva la fase difensiva della storia
lagunare e cominciava quella di espansione. Pochi anni dopo
decollava anche la mitologia marciana con l'arrivo del corpo del
santo e l'inizio della costruzione della cappella dogale. Con il
più alto risultato della storiografia veneziana quattrocentesca,
splendido di stile, apologetico, umanisticamente ciceroniano, im
pregnato di vita attiva, il mito scritto si affiancava definitiva
mente a quello figurativo in una simbiosi più che secolare.39
Nello stesso '93 usciva la Cronachetta in volgare di Marin Sa
nudo, che per l'accurata descrizione delle magistrature e i det
tagli tecnici sul loro funzionamento annuncia già le due mag
giori opere del secolo successivo. Il Sanudo sostiene la fonda
zione della città nel 421 d. C. da parte di « homeni degni et
illustri, ricchi et religiosi », scampati all'incalzare dei barbari,
« et non da pastori come Roma », come aveva già sostenuto Fla
vio Biondo; adotta i soliti luoghi comuni nelle pie leggende sulle
chiese dei vari sestieri e le loro reliquie o nella celebrazione della
singolarità del sito. Ma, oltre a questo, c'è un'attenzione alla
realtà cittadina che, a differenza del contemporaneo Sabellico,

39 A. Pertusi, Gli inizi della storiografia umanistica del Quattrocento, in


AA.VV., La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura
di A. Pertusi, Firenze 1970, pp. 269-332; P. Labalme, Bernardo Giustiniani,
a Venetian of the Quattrocento, Roma 1969, in part. pp. 247-309. Il Giustiniani
aveva anche composto una breve vita di San Marco con tutti gli ingredienti leg
gendari accumulatisi dall'800.

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634 Paolo Ulvioni

rende vivi e palpabili aspetti incompatibili col mito: ad es., in


formazioni di prima mano sulla proprietà edilizia, gli affitti e la
speculazione su case e botteghe del centro storico. Le compila
zioni cinquecentesche seguiranno piuttosto la guida del Sabel
lico, accurato itinerario delle lagune che si sofferma su tutte le
stazioni devote e illustra gli aspetti più meravigliosi per i pel
legrini.40
A metà del Cinquecento, il mito è quasi completamente edi
ficato; l'ambiente dell'Aretino vi aggiunge l'ultimo mattone.
Superiore ad ogni comunità umana passata e presente sul piano
politico-istituzionale, unica nel suo aspetto geografico e urbani
stico, solo ricetto di libertà nell'Italia spagnoleggiante, l'esalta
zione dell'arte di Tiziano la situa all'avanguardia della civiltà
figurativa. Il culto di Tiziano si impone a Venezia quando in
Italia domina quello di Michelangelo. L'Aretino ripudia il se
condo, non senza avervi partecipato per qualche anno, per adot
tare rumorosamente il primo dopo la sua fallita consulenza per

40 M. A. Sabellico, De Venetae urbis situ, Venetiis 1490 o 1494, tradotto


in volgare nel 1502 da Luigi Fauno, pseud. di Giovanni Tarcagnota; M. Sa
nudo, Cronachetta, a cura di R. Fulin, Venezia 1880, incompleta; continuata e
ampliata per quasi quarant'anni, è stata pubblicata da A. Caracciolo Aricò col
titolo definitivo De origine, situ et magistratibus urbis Venetae overo La città
di Venetia (1493-1530). Glossario a cura di P. Zolli, Milano 1980; G. Cozzi,
Marin Sanudo il Giovane: dalla cronaca alla storia (nel V centenario della na
scita), in La storiografia veneziana cit., pp. 333-358; A. Caracciolo Aricò,
Marin Sanudo il Giovane precursore di Francesco Sansovino, « Lettere italiane »,
XXXI, 1979, pp. 419-437. Interessantissimi alcuni dettagli: attorno a Rialto e
S. Marco il terreno « è molto caro, vai assa' danari: ne sono infinite case con
camere indorate da ducati 800 in suso, scalle de piera viva, balconi overo finestre
tutte de veri [...]. Queste case molto si affitano a quelli voleno ut plurimum
per uno anno infino a cinque, però che per lezze non tenneno niuna affittacion
da lì avanti; et affitasse a zentilhomeni medemi, tal C° tale CXX più ducati
all'anno, caxe dicho solum da statio, cioè da habitar, senza le altre, che non
sono da stantiarvi, che si affita assai ». A Rialto, anche la più piccola bottega
« paga gran fitto », « et è tal bottega, in ditto Rialto over isola, in diversi siti,
che paga appresso C° ducati di fitto, et non è do passa larga né longha. E1
stabele qui è molto caro, teste siamo noi Sanuti, che in pescharia nova habiamo
un'hostaria, chiamata della campana. Sotto, tutto botteghe, et è picciol luogo
e tamen di quel coverto si cava più di ducati 800 di fitto ogni anno, che cossa
maravigliosa dil grande fitto è questo, e per esser in bono sito l'hostaria vero
paga ducati 250, che paga più ch'ai primo pallazzo della Terraferma], et questo
dirò cussi è il primo stabile de Venetia per tanto coverto », De origine
in B.M.C., ms. Cicogna 969, cc. 9r-v e 14r.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 635

gli affreschi sistini. Non è una vittoria facile, ed è successiva alla


morte del suo banditore. Alla fine degli anni quaranta, i meno
legati alla consorteria dell'Aretino come Paolo Pino, ritengono
artista ideale chi sappia unire le doti dei due grandi: il colore di
Tiziano, il disegno di Michelangelo. Il Doni, giunto a Venezia
da Firenze nel 1548, vanta la superiorità dei valori plastici su
quelli coloristici, e quindi della scultura sulla pittura, rispon
dendo, sia pure in ritardo, all'inchiesta lanciata tre anni prima
da Benedetto Varchi sul primato tra le due arti. Il poligrafo
veneziano Michelangelo Biondo, che aveva vissuto a Roma dal
'35 al '45 e conosceva bene le opere del Buonarroti, considera
il suo Giudizio la miglior pittura di tutti i tempi, allegando il
parere di « molti pittori Italiani e Tramontani »; e « se gli altri
pittori son celebrati et esaltati fra mortali, nondimeno costui
solo [Michelangelo] de tutti i pittori gli è la vera gloria et il per
fetto honore ». Tiziano, della cui produzione il Biondo si mostra
poco informato, è famoso dovunque ed eccelle nei ritratti, « a
quai altro non manca che la voce, imperò che tutto il resto rap
presentano del naturale »; è lui che « a questi tempi del retratto
porta il vanto ».41
Dopo la prima edizione nel 1550 delle Vite del Vasari, le
diverse concezioni artistiche legate a Michelangelo e a Tiziano
si separano per sempre. Considerato il punto culminante del
l'evoluzione iniziata tre secoli prima da Cimabue, il primo a sot
trarre l'arte italiana alle nebbie gotiche, Michelangelo diviene
l'emblema della scuola toscana e, in un certo modo, della supe
riorità dell'immagine di Firenze su quella di Venezia. Nel 1557
il Dialogo del Dolce gli contrappone, con lunga fortuna critica,

41 P. Pino, Dialogo di pittura, in Trattati d'arte del Cinquecento cit., I,


Bari 1960, pp. 93-139 e note pp. 312-316, 396-432; A. F. Doni, Disegno,
Vinetia, G. Giolito de Ferrarii 1549, parzialmente ripubblicato in Scritti d'arte
del Cinquecento, I, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli 1971, pp. 554-591;
M. Biondo, Della nobilissima pittura et della sua arte, del modo &■ della dottrina
di conseguirla agevolmente et presto, in Vinegia, s. e. 1549, Non mi pare esatto
quanto affermato da G. Stabile nella sua voce sul Biondo in DBI, X, Roma
1968, pp. 560-563: nel libriccino si cade «nella esaltazione campanilistica di
Tiziano. Troppo quindi, come qualcuno ha fatto, è considerare deroga al colo
rismo veneziano l'elogio puramente declamatorio di Michelangelo ».

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636 Paolo XJlviont

il sommo artista veneto, Tiziano. Non a caso il dialogo si svolge


fra l'Aretino, veneziano per scelta e gusto, e un fiorentino, Gian
francesco Fabrini, insegnante di eloquenza a Venezia. Proclamata
la superiorità nella pittura di Raffaello, supremo ideale del clas
sicismo cinquecentesco, su Michelangelo, a questi è riservata la
preminenza nel « disegno »; la sua « terribilità » è troppo mo
notona e distante dalla vera imitazione della natura per incon
trare il consenso generale. Tiziano è superiore ad entrambi e
vetta di uno sviluppo che dalle tre epoche secolari del Vasari si
restringe alle tre generazioni del Dolce: Giovanni Bellini fu il
migliore della sua età, Giorgione lo sopravanzò e fu a sua volta
« lasciato a dietro infinite miglia da Tiziano: il quale diede alle
sue figure una heroica maestà, e trovò una maniera di colorito
morbidissima, e nelle tinte cotanto simile al vero, che ben si
può dire con verità ch'ella va di pari con la Natura ». Il carat
tere dotto e intellettualistico della critica fiorentina appare nel
paragone che fa il Fabrini di Michelangelo con Dante, il primo
dei poeti toscani, a cui si nega il gusto meno teorico e più im
pressionistico dei veneziani: contro la « tanta dottrina » di Dante,
il Dolce vanta il « leggiadrissimo Petrarca », che dal Bembo in poi
era il nume tutelare della poesia locale. E come il Petrarca, Ti
ziano è l'onore dei principi del suo tempo. Di fronte al burrascoso
carattere di Michelangelo e ai suoi complessi rapporti con i poten
ti, il solare Tiziano è il simbolo del successo sociale dell'artista, ri
cercato da Carlo V, Filippo II, re, nobili, cardinali di tutta Eu
ropa. Sicuro del valore e del prestigio del suo pennello, Tiziano
ritrasse solo grandi uomini, guadagnando riputazione per sé e il
suo mestiere. E il Fabrini conferma: « So ben'io, che di haver
ritratto o altra pittura di sua mano si possono vantar pochissimi
plebei ». Gli ingredienti della vittoria di Tiziano sui pittori del
suo tempo ci sono tutti: inimitabile abilità tecnica nell'imita
zione della Natura, nell'invenzione, nel colorito e nel disegno,
elevate qualità personali, onestà nei costumi privati e nelle pit
ture, contro le « oscenità » michelangiolesche, riuscita sociale.
Mancò a una vita che si identificava con l'arte il suggello di una
morte altrettanto splendida. Tiziano morì durante la peste del

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 637

1576; passato il contagio, la fraglia dei pittori veneziani pensò


di onorare degnamente le spoglie di chi aveva trattato alla pari
con l'erede di Augusto e Carlomagno, che nel suo ultimo ritiro,
il monastero di Yuste, viveva circondato dai quadri dei maestri
fiamminghi e del pittore amato più di ogni altro. Lo schema dei
funerali, modellato su quello per Michelangelo nel 1564, non fu
poi realizzato per disaccordi intervenuti tra i promotori. A ri
cordare il « divino » Tiziano rimase il Dialogo del Dolce, nel
corso del tempo schiacciato dalla seconda edizione del Vasari,
dove è eretto il più solido monumento al mito di Michelangelo
e a tutta la scuola fiorentina.42

42 Le migliori edizioni di L. Dolce, Dialogo della pittura intitolato l'Aretino


sono nel già cit. Roskill e in Trattati d'arte del Cinquecento cit., I, pp. 141-206,
note pp. 316-324 e 433-493. Tra la più recente e migliore letteratura critica:
R. Pallucchini, La crìtica d'arte a Venezia nel Cinquecento, Venezia 1943;
M. Pozzi, L'« ut pictura poesis » in un dialogo di L. Dolce, « Giorn. st. della
lett. ital. », LXXXIV, 1967, pp. 234-260; L. Puppi-G. Romanelli, Tiziano e
Venezia, in AA.VV., Tiziano a Venezia, Venezia 1977, pp. 7-16, con ottimi
spunti sulla mitizzazione reciproca fra il pittore e la sua città, a cui egli sempre
ritornò dopo i frequenti viaggi; M. Gregori, Tiziano e l'Aretino e F. Bernabei,
Tiziano e Ludovico Dolce, in Tiziano e il Manierismo europeo cit., pp. 271-306
e 307-337. I rapporti di Tiziano con gli Asburgo, di cui divenne in pratica,
sia pure spesso a distanza, pittore di corte, sono ben illustrati da H. Trevor
Roper, Prince and Artists. Patronage and Ideology at Tour Habsburg Courts,
1517-1633, London 1976, tr. it., Torino 1980, primi due capp. Resta sempre
utilissimo J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica. Manuale delle fonti
della storia dell'arte moderna, terza ed. it. aggiornata da O. Kurz, Firenze 1964.
Per le esequie di Michelangelo, la fiorentina chiesa di S. Lorenzo era stata
riempita di statue simboliche raffiguranti vizi e virtù, e di « quadri » o scene
ripercorrenti i momenti salienti della vita del defunto e i suoi rapporti con i
Medici e i papi. Nel vano della cappella accanto all'aitar maggiore un quadro
alto sei braccia e lungo otto rappresentava Michelangelo nei Campi Elisi con
ai lati i grandi delle belle arti: a destra « que' tanto celebrati pittori e scultori
antichi » Prassitele, Apelle, Zeusi e Parrasio, a sinistra tutte le glorie toscane
da Cimabue in avanti (G. Vasari, op. cit., Vili, pp. 296-317). Nello schema
veneziano, i funerali tizianeschi si sarebbero dovuti svolgere nella chiesa di
S. Luca, protettore dei pittori. Al centro una monumentale tribuna sostenuta
da otto colonne ioniche, con altrettante statue raffiguranti la Poesia, la Storia,
la Pittura, la Scultura, l'Architettura, la Simmetria, la Fatica e un guerriero
vittorioso coronato di lauri. Sul feretro adagiato entro la tribuna, la statua di
Tiziano coll'abito di cavaliere, lo stocco dorato e gli sproni ai piedi. Dipinti
allegorici avrebbero ricordato gli omaggi resi al pittore dai potenti della terra,
e diversi medaglioni nel basamento della tribuna « alcuni de' principali pittori
dell'antica e moderna età, che assistino ad honorare l'esequie di Titiano »,
fra i quali Giovanni Bellini, Giorgione, Leonardo, Raffaello e Michelangelo
(C. Ridolfi, Le vite degli illustri pittori veneti e dello Stato, I, ed. D. F. von
Halden, Berlin 1914, pp. 211-218).

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638 Paolo Ulvioni

Il materiale prodotto da un secolo di scritture su e per Ve


nezia fu convogliato, dieci anni dopo Lepanto, nella Venetia san
soviniana. Poligrafo instancabile, Francesco Sansovino interpretò
accortamente le richieste del mercato e le soddisfece volgariz
zando le conquiste dei precedenti storici e cronachisti, racco
gliendo, in artificiosi breviari politici, i passi più famosi di Ma
chiavelli e Guicciardini, componendo generose genealogie di no
biltà italiche, sollecitando l'orgoglio campanilistico dei suoi con
cittadini. La sua disinvoltura verso i documenti traspare anche
nella folta produzione dedicata a Venezia. Nelle Cose notabili
del 1561, aggiornamento di uno scritterello di cinque anni ante
riore, ripete la concezione progressiva della pittura del Vasari e
del Dolce, con il culmine in Tiziano: « Questo huomo illustre ha
di gran lunga avanzato tutti gli altri che ho detto »; fa di Ve
nezia una perfetta realizzazione della repubblica platonica, come
dimostra ad es. l'organizzazione statale delle meretrici, che per
mise « il ripudio dei sensali, dei giocatori che le mettevano in
pegno, dei bestemmiatori e di altra gente disonesta » ed evita il
libertinaggio dei giovani; prende a prestito da ogni parte, ma è
consapevole che anche il mito di Venezia è in movimento, che
non bastano più, come afferma, Sabellico, Bembo e Pietro Giu
stinian, perciò intende dare « quelle particolarità che dilettano
gl'ingegni vaghi di cose nuove ». Nel Gentilhuomo venetiano
mette in bocca a Trifon Gabriele l'ideale dell'educazione repub
blicana, morale e retorica, che fa appello alla ragione, alla mode
razione, alla temperanza, all'infrenamento delle passioni. Una
educazione condotta su toni smorzati secondo quella mediocritas
così adatta all'uomo libero che si riflette anche nel suo linguag
gio, lontano da sublimità oratorie, senza pedanterie vane e smo
date erudizioni: « Stimerò ancora che sia da antiporre una me
diocre cognitione con mezzana eloquenza, al colmo dell'una &
dell'altra separatamente ». Il volgare è il mezzo di espressione
che meglio traduce questi precetti, ed è proprio il volgare che
rende la grande raccolta di mirabilia veneziane dell"81 il più
noto e imitato itinerario turistico-ideologico del Rinascimento
italiano. I prestiti del Sansovino sono tanti e molto evidenti.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 639

Sin dagli inizi la società veneziana fu caratterizzata dalla libertà


incorrotta e dal culto divino, sostenendo per secoli « col suo in
veterato honore & valore quella riputatione che è rimasta al
l'Italia, dopo l'eccidio dell'antico Impero Romano, come rifugio
& salute di tutti i fedeli ». La posizione geografica la protegge
dagli assalti nemici e al tempo stesso la immette nelle rotte ma
rittime che hanno fatto la sua grandezza. La bontà dell'aria, sot
tolineata secondo arcaici topoi della medicina classica ripetuti
per secoli e preoccupazione costante degli urbanisti vitruviani,
rende belli e piacevoli i suoi abitanti, anche i più anziani; è
un'aria cosmopolita e ospitale come la città che benefica: « ma
quello eh'è meraviglioso a udire, ha quest'aria un privilegio spe
ttale dalla natura, che ogn'uno, di qualunque natione o sotto qual
clima si voglia nato, si conforma con essa con la sua comples
sione, sentendone pari beneficio così quelli che sono avvezzi al
l'aria sottile come alla grossa ». La descrizione della città pro
cede poi per sestieri, illustrando di ognuno le chiese, i loro in
terni con pitture, sculture, sepolture e iscrizioni, i monasteri e
gli ospedali. Dopo gli edifici religiosi e assistenziali ricorda le
Scuole, sintesi di entrambi, tipico esempio della pietà veneziana,
dove « si imparano & essercitano l'operationi Christiane a bene
ficio dell'anime de fratelli, così morti come vivi & illustri & di
gran beneficio per i poveri a gloria di Dio ». Nessun aspetto arti
stico e iconografico della città è trascurato, e anche la devozione,
come la pittura veneziana, è colorata e festosa. Le magistrature,
in particolare il doge, riassunte sui testi chiave, sono viste anche
nella loro severità di abbigliamento, come nelle utopie da Moro
in poi, per non dare occasione di gelosia al popolo. Solo nelle
cerimonie pubbliche, modi comuni di esaltazione dello Stato, si
scatena il gusto variopinto della diversità. Ampio spazio è dedi
cato alle realizzazioni artistiche dei maestri del secolo, e qui la
supremazia di Tiziano, pur grandemente elogiato, sfuma nelle
lodi dell'intera scuola pittorica veneziana. Attento sin dai primi
anni agli esordi del Tintoretto e del Veronese, ammiratore delle
fabbriche paterne, il Sansovino non indugia troppo sulle agio
grafie personali, ma sostiene la continuità di una tradizione non

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640 Paolo Vlvioni

esaurita, senza punti d'arrivo oltre i quali si ricomincia daccapo,


con un contributo di arricchimenti successivi che è espansione e
conquista culturale. Su questo supporto, si ergono poi le bio
grafie dei dogi, robustamente aumentate nelle edizioni suc
cessive.43
Il sacco di Roma del 1527, le alterne vicende medicee fino
al 1530, persecuzioni politiche e religiose o semplici scelte per
sonali, rendevano i cantori della Serenissima orgogliosi della sua
tolleranza e della sua calda ospitalità. In tempi di monarchie
trionfanti, essa mantiene il fascino letterario di una polis antica
retta dall'abilità di una cerchia ristretta. Come già i politici fio
rentini di fine Quattrocento, una cinquecentesca Relación de las
cosas de Venecia attribuisce la sua felice durata al governo dei
nobili e alla mancanza di un despota, senza che il popolo si im
picci di cose che non gli competono. È una città armoniosa su
cui tuttavia non ha presa l'utopia, anche se le sue stamperie ne
diffondono per l'Europa i costruttori italiani ed esteri. Esclusi
impossibili egualitarismi sociali, stroncata la dissidenza religiosa,
immobile il corpo politico, nessun favore incontra neppure l'idea
rinascimentale dello sperimentalismo edilizio, degli schemi geo
metrici, delle città concentriche. Bisogna arrivare alla costruzione
della fortezza di Palmanova verso la fine del secolo per trovare
l'adozione di un progetto ideale, ed è un caso tutto particolare.
Nel Cinquecento Venezia si rinnova urbanisticamente, ma non
cambia la sua struttura; solo la civiltà industriale riuscirà a supe
rare lo scoglio delle acque, limite invalicabile alla sua espansione
e a ridurla parzialmente ad una città come le altre. La negazione
della città come forma simbolica, oltre che nei fatti, sta nella co

43 F. Sansovino, Belle cose notabili che sono in Venetia, in Venetia, per


Comin da Trino di Monferrato 1561; Id., Dialogo del gentilhuomo vinitiano,
in Venetia, appresso Francesco Rampazetto 1566; Id., Venetia città nobilissima
cit. Per la mole di nuove informazioni apportate dal Sansovino rispetto ai pre
decessori basta rifarsi a L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, in Bologna,
per Anselmo Giaccarello 1550, pp. 450f-469r, grossa compilazione che si limita
a fare il punto delle conoscenze seguendo come fonti il Biondo e principalmente
il Sabellico per la città e il Bordone per le isole. Il miglior lavoro d'insieme sul
Sansovino è P. F. Grendler, Francesco Sansovino and Italian Popular History,
1500-1600, « Studies in the Renaissance », XVI, 1969, pp. 139-180.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 641

scienza dei suoi uomini di cultura. Nei trattatelli di architettura


scritti per soddisfare una innata mentalità pratica, Alvise Cor
naro, che tanto ambiva a farsi riconoscere come nobile vene
ziano, vuole istruire non gli architetti, ma i cittadini, a costruire
case comode, solide e decorose, « né scriverò di theatri, ampi
theatri, therme, né come si diè far una città di nuovo perché que
sto mai non aviene, et quelli altri edifici più non si usano ».
Vitruvio e Alberti sono ottime fonti libresche, ma più impor
tanti sono l'esperienza e l'osservazione diretta: « et io più dalli
edifici antichi ho imparato che dal suo [di Vitruvio] libro ». Lo
stesso proposito pragmatico e razionale è espresso da Daniele
Barbaro, che rifiuta i facili ricorsi ai miti dell'età aurea: non
sono da lodare le genti selvagge che vivono nei boschi o tra le
paludi, al sicuro da ogni violenza,

perciò che non mi pare che egli si debba disiderare la povertà, ac


ciò che niuno ci porti invidia, né anco sognerei un poetico mondo
o terrestre paradiso dove i fiumi di latte corrono, mele sudando le
querce, manna & nettare piovano i cieli, perciò che all'humana ne
cessità si può con mediocre & convenevole habitatione provedere, et
quelle copie più presto desiderare che haver si possono.44

Per secoli a Venezia l'architettura gotica, malgrado le condanne


a cui è sottoposta, convive accanto a quella rinascimentale; dal
secondo Cinquecento, si rimoderna e si rinnova, raramente si
abbatte e si costruisce dalle fondamenta, salvo spazzar via dagli
itinerari canonici i resti dell'edilizia minore. Il progetto di Pal
ladio per la completa ricostruzione del Palazzo Ducale dopo gli
incendi del '74 e del '77 fu respinto non tanto dai conservatori,
quanto dalla generale mentalità veneziana, attaccata ai ricordi
della sua grandezza e ostile alle novità. L'intervento di Jacopo

44 G. Fiocco, Alvise Cornavo e i suoi trattati sull'architettura, « Atti della


Acc. Naz. dei Lincei. Memorie. Classe di se. mor., st. e fìlol., s. Ili, voi. IV,
1952, ripubblicati in Id., Alvise Cornaro, il suo tempo e le sue opere, Venezia
1965 e ripresi in Scritti d'arte del Cinquecento cit., Ili, Milano-Napoli 1977,
pp. 3134-3161; Vitruvio, I dieci libri dell'architettura tradutti e commentati
da Monsignor Barbaro, in Vinegia, per Francesco Marcolini 1556, p. 30.

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642 Paolo Ulvioni

Sansovino, che non a caso non scrisse mai un trattato come Pal
ladio, in Piazza San Marco non intacca le strutture degli edifici
fondamentali, ma le arricchisce di nuove prospettive e monu
mentalità. L'ordine dorico della Zecca significa la solidità immu
tabile delle finanze e quindi dello Stato; la Libreria, oltre che
ricettacolo culturale, è elemento inscindibile del complesso mar
ciano, incastrata tra Zecca e Procuratie, continuate dallo Sca
mozzi, e rimanda al mecenatismo repubblicano; uscendo per la
Scala dei Giganti dagli affreschi celebrativi di Palazzo Ducale,
attraverso l'arco Foscari l'occhio si imbatte nelle allegorie della
Loggetta che condensano le virtù della seconda città eterna. L'ico
nografia statale si completa nel secondo Cinquecento e lenta
mente si stacca nella sua fortuna dall'oggetto rappresentato. Nel
secolo successivo l'aspetto artistico e spettacolare di Venezia si
separa da quello istituzionale e più strettamente politico. Vene
zia, identificata nel corso del Seicento non come la sede della
più saggia costituzione mai esistita, ma del più festoso e gode
reccio Carnevale che vi sia, è una delle tappe d'obbligo del tour
d'Europa dei giovani nobili, degli avventurieri desiderosi di sa
porite novità, dei turisti attratti dal « teatro del mondo » rac
chiuso nella miniatura lagunare. È un luogo permanentemente
in maschera che dietro una facciata sfarzosa nasconde rilevanti
differenze sociali, gravi disparità economiche, acuti contrasti al
l'interno del patriziato. Ma del suo volto nascosto filtra solo
l'aspetto più appariscente e variopinto, che eccita la fantasia de
gli estranei ma priva il mito politico di ogni attualità ed efficacia.
Se in Inghilterra gli ideali « repubblicani » nutrono illusoria
mente alcune coscienze durante le guerre civili, la Venetia del
Sansovino, aggiornata dopo la sua morte nel 1604 e nel 1663,
diviene la vera chiave di lettura della città e della sua cultura.
La parte che colpisce l'occhio e i sensi è preponderante perché
è la più dinamica: le meraviglie di palazzo Pesaro e della chiesa
della Salute, l'attività di teatri, salotti ed Accademie, contano
nel Seicento più di istituzioni quasi imbalsamate, chiaramente
sorpassate nel concerto monarchico del continente. Dal simbo
lismo repubblicano e cattolico del Cinquecento al vedutismo del

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 643

Settecento, dalle allegorie militari e religiose alla fotografia degli


aspetti più remoti e decadenti di Venezia, la pittura locale as
sume toni e motivi sempre più interiorizzati, quotidiani, dimessi.
Se la parte leggendaria del mito sopravvive tra i luminosi cieli
azzurri di Giambattista Tiepolo, quella più realistica e concreta
si trova tra i brulicanti e deformi Pulcinella del figlio Giando
menico.45

"k "te "k

Come l'ottimistica storiografia umanist


accompagnato fino alla fine del Quattrocento
della Dominante, quella di fine Cinquecent
degli scacchi subiti, delle ambizioni ridime
le sue conclusioni alla nuova, meno brillan
esperienza del Bembo come storiografo pu
che l'amministrazione della storia venezian
che sul piano della scrittura, solo a quelli ch
piano pratico, unici detentori della « verit
sione storica e politica del Paruta, eletto p
nell'80, applicata non più a temi generali c
zione, ma a concreti eventi in cui era stata
stenza stessa dello Stato, dimostra la prof
tutto il patriziato sui valori esclusivi della

45 J. Beneito, fortuna de Venecia. Historia de una


1947; L. Firpo, L'utopia politica nella Controriforma
alla storia del Concilio di Trento, Firenze 1948, pp. 78-108; AA.W., Les
utopies à la Renaissance, Bruxelles-Paris 1963, in part. E. Garin, La cité idéale
de la Renaissance italienne, pp. 11-37 e R. Klein, L'urbanisme utopique de
Filarete à Valentin Andreae, pp. 209-230; A. Tenenti, L'utopia nel Rinasci
mento (1450-1550), «Studi storici», VII, 1966, pp. 689-707; AA.W., La città
come forma simbolica. Studi sulla teoria dell'architettura nel Rinascimento,
Roma 1973, conferma, con abbondante iconografia, l'irriducibilità sperimentale
dell'edilizia veneziana; M. Tafuri, Jacopo Sansovino e l'architettura del '500 a
Venezia, Padova 1969; D. Howard, Jacopo Sansovino. Architecture and Patro
nage in Renaissance Venice, New Haven-London 1975; E. Bassi, Palazzi di
Venezia. Admiranda Urbis Venetiae, Venezia 1976; E. Muir, Civic Ritual in
Renaissance Venice, Princeton 1981. Una buona introduzione alla storia della
civiltà veneziana al suo apogeo è D. S. Chambers, The Imperiai Age of Venice,
1380-1580, London 1970.

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644 Paolo Ulvioni

la sua storia sono proprietà privata delle famiglie che si dividono


le magistrature e le ambasciate, sono al corrente dei segreti di
Stato, regolano la vita economica, sempre rigorosamente prote
zionista. Il nome di Venezia è una ricchezza da esportare, una
ragione sociale da mantenere intatta da scandali e malversazioni.
Quando Antonio Riccobono, illustre professore dello Studio pa
dovano, informa il Paruta nel maggio 1597 di avere scritto di
sua iniziativa una storia che continua quella del Bembo, ferma
al 1513, e di essere stato richiesto da alcuni editori di Franco
forte di farla pubblicare, e chiede il parere dello storico ufficiale,
la risposta è cortese ma categorica: a ognuno il suo mestiere,
chi si acquista gloria con l'insegnamento, chi con l'attività poli
tica: ai primi l'erudizione, la storia ai secondi, unici a pene
trarne i misteri. E comunque la Repubblica ha già fatto la sua
scelta:

cosa di non leggiera consideratione, e massima in cosa di tal na


tura, e tanto stimata, che a quell'istesso a chi ha dato questo carico,
ha voluto che stia insieme aperto il seno di tutti i suoi maggiori se
creti, concedendogli quella licenza, che ai senatori istessi non è con
cessa, di poter sempre andare nella Cancelleria secreta et vedere
tutte le scritture pubbliche.46

Il momento storico che catalizzava l'interesse generale era


la guerra della lega di Cambrai, con le rovinose sconfitte, lo
straordinario recupero, l'inizio di una più prudente politica in
Terraferma, da parte di Venezia. Il Donà lo studiava sulle opere
dei veneziani Borghi e Paruta, sul cauto Giovio, su Guicciardini,
letto nel '67 e riletto nell' '81, come dimostrano le sue annota
zioni manoscritte;47 Andrea Morosini, successore del Paruta

46 Lettere passate tra Antonio Riccobono e il Procurator Paruta d'intorno


allo scrivere le historie venete, a cura di A. Favaro, « NAV », I, 1891, t. II,
pp. 169-180. Sulla storiografia veneziana del '500 è fondamentale G. Cozzi,
Cultura politica e religiosa nella « pubblica storiografia » veneziana del '500,
« Boll. dell'Ist.... », V-VI, 1963-1964, pp. 215-294.
47 B.M.C., Fondo Donà dalle Rose, codd. 54-56, contenenti estratti dei
suddetti autori. La passione del Donà per la storia doveva essere nota sin dalla
sua giovinezza dato che in F. Patrizi, Della historia diece dialoghi, ne' quali

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 645

come storiografo pubblico, malgrado l'opera del predecessore


riprendeva la storia interrotta del Bembo dalla stessa data. At
torno agli avvenimenti di quegli anni angosciosi, e alla lezione
da trarne, ruotano alcuni dei Discorsi del Paruta stesso. Machia
velli e Guicciardini sono le presenze più o meno occulte con cui
devono confrontarsi gli storici veneziani, essendo stati, più il
primo che il secondo, i maggiori critici degli ordinamenti della
Repubblica e della sua politica di Terraferma. Fino al 1554, Ve
nezia era stata il maggior centro di irradiazione del pensiero di
Machiavelli, ben più di Firenze, e anche dopo la sua messa al
l'Indice, il suo duro insegnamento continuava ad agire, sia pure
« purgato e potato moralisticamente, sforbiciato e manipolato
nelle proposizioni religiosamente imbarazzanti ». Se nel Paruta
la lezione del fiorentino, che trapela in certi passi degli scritti
più tardi, è negata con ragioni etico-religiose, in Pier Maria Con
tarmi sarà il filo conduttore di ogni riflessione, e durante l'In
terdetto circolerà in molti libelli antipapali.48 Guicciardini nel
Della perfezione viene collocato tra i più famosi storici d'ogni
tempo, e la sua opera, pur diluita nelle contemporanee raccolte
di aforismi politici, letta come la testimonianza più alta degli
eterni moniti della storia, implacabile per chi non usa prudenza

si ragiona di tutte le cose appartenenti all'historia & allo scriverla & all'osser
varla, in Venetia, appresso Andrea Arrivabene 1560, è presentato come gran
lettore di storici antichi e moderni in un ragionamento con Giovanni Dona.
Non a caso l'unione dell'uomo di studio e d'azione quale fu sempre Leonardo
traspare da queste parole di Giovanni, anche se ripetono luoghi comuni del
tempo: « messer Lionardo mio, vorrei che voi vi indrizzaste co' studi) vostri
dell'historia & con gli altri al bene & alla felicità di questa patria vostra & per
conseguente di voi stesso, percioché dove tutti sono felici i cittadini, quivi è
anco felice ciascheduno » (p. 51 r-v).
48 La cit. è tratta da A. E. Quaglio, Indicazioni sulla fortuna editoriale
di Machiavelli nel Veneto, « Lettere italiane », XXI, 1969, pp. 399-424. Con
cordano sulla natura originale e non controriformistica dell'antimachiavellismo
parutiano R. De Mattei, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Fi
renze 1969, pp. 145-147 e F. Gaeta, Appunti sulla fortuna del pensiero politico
di Machiavelli in Italia, in II pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna
nel mondo. Atti del Convegno internazionale, Sancasciano-Firenze 28-29 set
tembre 1969, Firenze 1972, pp. 31-32. Su P. M. Contarini, Compendio universal
di republica, Venezia 1602, cenni in Bouwsma, op. cit., pp. 269-270 e in De
Mattei, op. cit., p. 253.

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646 Paolo Ulvioni

e non sa mantenersi in libertà.49 Il Paruta è ben lontano dal pos


sedere le doti di storico di Guicciardini. Affrontando gli anni
della lotta di Venezia contro l'Europa coalizzata, mistifica subito
il problema: sposta indietro di oltre sessantanni la politica di
neutralità della Repubblica affermatasi dopo Lepanto, dandole
un carattere di idealistico disinteresse che nella realtà non aveva,
e proclama a priori, prima che sia verificata nei fatti, l'eccellenza
del governo serenissimo, che agisce sempre per il meglio.

Sarà molto degna e profittevole cosa che in questa continuatione


d'Historia rispetto a quella del Bembo, si rappresenti tutta la faccia
della nostra Republica, nella quale si può vedere una vera imagine di
perfetto governo, percioché quelle cose alle quali gli ingegni de gli
huomini, formando co'l pensiero una eccellente republica, non hanno
potuto bene aggiungere, tutte nella città di Vinetia si veggano con
firmate dal tempo & dall'isperienza. Porgerà la memoria di questi
tempi varii essempi dell'una & dell'altra fortuna, che ad acquistare
la prudenza civile potranno essere di gran giovamento & oltre ciò
molti testimoni di virtù.50

49 Le teorie storiografiche del Paruta sono enunciate, in modo breve e forse


incompleto, nel Della perfezione cit., pp. 197-203, dove non si esce dai vecchi
canoni umanistici dell 'bistorta magistra vitae, e ognuno fa a gara nel citare i soliti
modelli greci e romani. Sul Guicciardini, se Giacomo Contarmi sostiene che egli,
« moderno isterico, per esser stato molto diligente nel raccogliere discorrendo
le cagioni di qualunque successo, e nel darne sopra ciascuno qualche avverti
mento, è giunto a tal segno di gloria, che, per comun giudicio, viene annoverato
tra gli storici più famosi, pareggiandosi a quelli antichi più lodati », monsignor
Grimani, che non apprezza l'anticlericalismo dei fiorentini, ribatte: « Non è bi
sogno di provar ciò con l'autorità del Guicciardino; il quale, ancor ch'abbia
scritto con molta laude, nondimeno la fama di lui non può essere in quella
riverenza che apportar suole l'antichità ». Le poche pagine parutiane sono espres
sione della crisi della trattatistica italiana del secondo Cinquecento, deturpata
dall'ossequio agli antichi, in cui solo i Dialoghi del Patrizi contengono una par
ziale novità di pensiero. Vedi G. Spini, I trattatisti dell'arte storica nella Con
troriforma italiana, in Contributi alla storia del Concilio di Trento cit., pp. 109
136; G. Cotroneo, I trattatisti dell'«Ars historica», Napoli 1971; il Patrizi è
l'unico teorico italiano a essere citato nel rapido panorama europeo di P. Burke,
The Renaissance Sense of the Fast, London 1969. Per la fortuna di Guicciardini
nel Veneto vedi V. Luciani, Francesco Guicciardini e la fortuna dell'opera sua,
ed. it. a cura di P. Guicciardini, Firenze 1949, passim.
50 Historia vinetiana, I, appresso il Lovisa 1718, pp. 4-5. È insostenibile,
e non è infatti stata raccolta, l'asserzione di G. Zippel, Lorenzo Valla e le origini
della storiografia umanistica a Venezia, «Rinascimento», VII, 1956, p. 128:

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia (Al

Contro la storiografia fiorentina, il Paruta considera il modello


veneziano superiore a quello romano. Immane esempio di vit
toria sulla « fortuna » era stata la repubblica romana al suo apo
geo; invincibile all'esterno, ma fragile all'interno. Il governo
misto veneziano, ideale per uno Stato libero, tiene « poco dello
stato popolare, e molto di quello d'ottimati », mentre quello
romano ha concesso troppo alla cupidigia e alla violenza della
plebe, creato tribuni che hanno eccitato il popolo a pretendere
cariche di governo, prodotto ordinamenti adatti alla guerra e non
alla pace, lasciato che uomini venuti dal nulla diventassero capi
di fazioni e portassero la rovina dentro la città, permesso che i
magistrati durassero in carica tanto da poterne disporre libera
mente. « Ma, pur quando al corpo misto di quella città assegnar
si voglia alcuno stato particolare quasi predominante agli altri,
niuno altro si potrà dire più suo proprio, che il popolare ».51
È evidente l'incomprensione dell'uomo di governo veneziano per
organismi politici diversi dalla città-Stato: Roma ha tralignato
rispetto ai suoi inizi e all'originario governo ottimatizio, e l'ec
cessiva grandezza, dovuta ad eccessiva ambizione, l'ha travolta.
Antico modello di governo misto era piuttosto Sparta. Al suo re

un secolo dopo Bernardo Giustiniani, il Parata « continuava, nel suo più genuino
significato, il magistero scientifico del Guicciardini. L'uno e l'altro, geniali pre
cursori di quello che sarà in effetti il prodotto criticamente più maturo, nella
mirabile finezza e profondità di un'indagine condotta sul concreto terreno del
diritto, della storiografia umanistica: la Storia del Concilio di Paolo Sarpi ».
51 Discorsi politici, nei quali si considerano diversi fatti illustri e memora
bili di principi e di repubbliche antiche e moderne, a cura di G. Candeloro, Bo
logna 1943, disc. Vili e p. 16, disc. I, tutto dedicato alla dimostrazione del
l'imperfezione del governo misto romano. La divisione dei Discorsi in due libri
fu operata dopo la morte dell'autore dai figli, che rimaneggiarono la disposizione
occasionale, nata sul filo degli avvenimenti e di riflessioni stese durante il tempo
lasciato libero dagli uffici pubblici. Qualche aggiunta, come quella alla fine del
1° disc, che esorcizza il significato laico di termini come « sorte » e « fortuna »,
o il taglio di brani di particolare importanza, ad es. quello di un intero discorso
che preveniva sull'inopportunità di muovere ancora guerra ai Turchi come
avrebbe voluto il pontefice, tendono a rendere inoffensiva e dottrinaria una me
ditazione politica che si intreccia strettamente con la composizione dell'Historia
e risponde quindi alle stesse pressioni dell'attualità. Vedi G. Pillinini, Un di
scorso inedito di Paolo Paruta, « AV », s. V, voi. LXXIV, 1964, pp. 5-28;
Id., Il rimaneggiamento editoriale dei discorsi politici di Paolo Paruta, ibid.,
voi. LXXVI, 1965, pp. 19-25.

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648 Paolo Ulvioni

il Paruta attribuisce le stesse funzioni del doge: « fu però la sua


autorità dentro a così stretti termini limitata, ch'egli era nella
città piuttosto quasi un custode della comune libertà che vero
principe ». Il Senato governava realmente, il popolo era tenuto a
freno con modeste soddisfazioni formali. Se il Senato non fosse
stato troppo limitato nel numero, e non si fossero creati gli efori
per contenere gli umori della plebe, per cui « ne divenne la città
troppo popolare, e lasciati gli antichi instituti di Licurgo si diede
alla vita licenziosa, non restava luogo di desiderare in quella
città alcuna cosa per ridurla a somma perfezione ».52 Anche
Sparta fu vittima di una guerra che ruppe l'equilibrio greco e
sottomise città civilissime al dominio di un despota. La lezione
della storia, le vicende di Firenze che ebbe la libertà calpestata
dai Medici, le invasioni straniere in Italia, dimostrano che la
pace è la condizione necessaria per la « quiete » della penisola.
La tranquillità che gode l'Italia dopo la pace di Bologna è merito
principale di Venezia che, senza favorire nessuno dei contendenti
in lotta, « è stata cagione che l'armi imperiali e francesi, dandosi
da sé stesse contrappeso, non hanno potuto aprirsi la strada al
mandare ad effetto alcun loro disegno, per il quale avesse potuto
essere pregiudicato alla libertà ed alla quiete d'Italia ». L'azione
di Venezia ha sempre avuto carattere equilibratore e difensivo;
anche quando nel Quattrocento aiutò Pisa attaccata dai fioren
tini, si trattò « di sollevare gli oppressi, non di opprimere altri »,
per mantenere inalterata la bilancia delle forze tra i principi
italiani.53 La grandezza di Venezia è stata costruita sulla pru

52 Discorsi cit., pp. 13-14, disc. I.


53 Ibid., p. 330, 1. II, disc. VII e pp. 243-255, disc. II: Se dall'avere la
Repubblica di Venezia presa la difesa della città di Pisa, oppugnata da' fiorentini,
si possa a lei dare alcun biasimo. Agostino Valier era del medesimo parere: al
tempo delle guerre contro i Visconti e lo Sforza, i veneziani « erano tenuti e
chiamati i difensori non solamente della propria libertà, ma eziandio di quella
delle altre Repubbliche, che essi non anno mai intrapreso alcuna guerra se non
provocati », Dell'utilità cit., p. 217, e così il cipriota Iason de Notes, per il
quale Venezia aveva superato nella realtà perfino i governi perfetti immaginati
da Aristotele: « Non ha mai fatto guerra questo potentissimo Dominio, che non
l'habbia mossa o per diffender i suoi sudditi o per ritornar in istato coloro che
erano scacciati & perseguitati, overo per liberar i suoi confederati & amici dal

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 649

denza, che ha sempre sventato i colpi della fortuna, ma non


« sforzandola », come il principe machiavelliano, bensì adeguan
dosi alle avversità, temporeggiando, aspettando il momento pro
pizio per agire. Questo necessario principio politico è teorizzato
contro la « ferocia » dell'Alviano, capo delle truppe veneziane
durante la guerra di Cambrai, e ritenuto responsabile di alcune
gravi sconfitte, perché il consiglio intempestivo del singolo deve
sempre cedere alla saggezza dei più.

Ma questo suo ardire & questi suoi pensieri pareva che non
havessero molta convenienza con la Republica, la quale essendo sem
pre la medesima, sinché si terranno in lei i medesimi ordini, benché
si mutino i cittadini, non suole curare d'imprendere cose benché glo
riose con gravi pericoli, ma per trattarle con maggiore sicurtà aspetta
il tempo e l'occasione & con più maturo consiglio camina alla sua
grandezza.54

L'esperienza politica ha portato il Paruta e tanta parte della


classe dirigente a misurare esattamente il ruolo di Venezia in

l'altrui tirannide & dall'orgoglio & dalla rabbia de gl'infedeli », Breve institutione
dell'ottima republica, in Venetia, appresso Paolo Megietti 1578.
Ma allo stesso Paruta questa violenza fatta alla verità storica doveva sem
brare eccessiva, perché si affretta subito dopo a sfumare la sua tesi: concediamo
pure che, come dicono i suoi nemici, Venezia abbia cercato di impadronirsi di
Pisa. Certo le azioni dei principi non si misurano con lo stesso metro di quelle
dei privati: i principi pensano sempre a cose grandi, per le quali « si fanno
riverire e temere dagli altri », perciò, come viene loro dato « a gran laude il
desiderio di gloria e d'imperio [...], viene a cessare, in generale, questo rispetto,
che l'avere i Veneziani desiderato alla Repubblica nuova gloria e maggior imperio,
debba dare al loro nome alcuna nota ». E perfino preoccupazioni economiche
presenti quando il Paruta scriveva vengono spostate al secolo precedente:
« L'avere un piede in Toscana poteva, secondo l'occasioni che si fussero offerte,
aprire la via facile ad altri maggiori acquisti, ed il porto di Livorno tornava
maravigliosamente comodo alle navigazioni e a' negozi che tiene la città di Ve
nezia con le Provincie di Ponente. Il che tanto più a questo tempo si può cono
scere quanto che, dappoi che le faccende solite a farsi nel Levante si sono vòlte
al Ponente, i vascelli che di là ne vengono carichi di mercanzie diverse, per
fuggire la più lunga navigazione, prendono volentieri porto a Livorno, ivi le
sbarcano, onde poi sono per terra a Venezia condotte: talché la stima grande
che si dovea fare di questo sito, parve che fino allora fusse da quelli prudentis
simi senatori preveduta ».
54 Historia cit., I, p. 219. Lo stesso giudizio sull'Alviano è ripetuto, con
qualche attenuazione, in Discorsi, pp. 264-265, 285 e 303.

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650 Paolo Vlvioni

Europa e nel Mediterraneo; schiacciata tra imperialismi rivali,


ma che in qualche modo convivono, la neutralità e la ricerca
diplomatica dell'equilibrio internazionale sembrano le sue sole
armi per difendersi e sopravvivere. Sin dall'epoca del Discorso
sopra la pace de' Veneziani co' Turchi, l'accorto osservatore
aveva scritto, constatando la fortuna avversa alla Repubblica:

Queste sono quelle ragioni per le quali e nel principio della


guerra, io non potei mai accomodare i miei pensieri a quelle speranze
vane che erano nell'animo d'alcuni, e dalle quali sono ora più che mai
persuaso di credere che la pace sia quel migliore e più vero rimedio
di cui al presente può essere capace questo corpo debole e infermo,
non dirò solo della nostra repubblica, ma di tutta la Cristianità.55

Lo stesso spirito gli fa riconoscere nell'Historia che, dopo la pace


del 1540 con i Turchi seguita alla fuga degli alleati nella batta
glia navale della Prevesa, la storia di Venezia non coincide più
con la storia europea, e sono altre le potenze alla ribalta. E con
Venezia finisce in secondo piano anche l'Italia, per motivi og
gettivi di minore importanza politica e perché, nella mentalità
di questi patrizi, la Repubblica, unica vera sentinella della « li
bertà » italiana, trascina con sé, dietro le quinte, anche la pre
senza della penisola sul palcoscenico europeo. L'esperienza gli
fa pure rilevare l'inutilità delle leghe: quella di Cambrai, la cui
crisi permise la ripresa veneziana, quella recente di Lepanto, che
illuse sulla possibilità di sconfiggere definitivamente gli infedeli
e di far tornare la Serenissima padrona del commercio con
l'Oriente. Contro i Turchi, come appare dal contenuto del di
scorso censurato dai figli e dalla sua stessa azione diplomatica a
Roma, è inutile ogni ulteriore sforzo bellico: solo una difficile
e abile politica di pace può salvare quanto rimane dei possedi
menti veneziani nel Mediterraneo. Il Paruta fa continuamente
ricorso a termini come prudenza e fortuna per spiegare la storia
veneziana, e un sottile pessimismo pervade la sua prospettiva

55 Opere politiche cit., I, p. 448.

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Cultura politica e cultura religiosa a Venezia 651

politica. L'uomo è debole e inerme di fronte ai colpi della for


tuna, che si gioca di lui se egli non si adopera in cose « conscritte
a certi non molto larghi termini ». Solo la forza della tradizione
e la fedeltà ai costumi antichi possono farlo navigare senza ri
schi « in un pelago donde non sa né può riuscirne » salvo. È
vano credere di capire i consigli degli uomini: le cose passate
« si ponno andar discorrendo, ma con ragioni più tosto proba
bili, che dimostrative d'una sola e certa verità ». L'insicurezza
degli eventi terreni, l'accanirsi della sorte, hanno distrutto i so
gni di grandezza veneziana; la Repubblica, in un mondo tanto
diverso da quello dei « padri », deve « accommodarsi alla ron
di tione de' tempi »,

essendo regola approvata dall'universale consenso degli uomini che,


ove i partiti sono dubbiosi e difficili, si convenga più tosto di appi
gliarsi a quello che ritira dal fare alcuna cosa, che a quello che spinge
innanzi: essendo tardo e vano, dopo il fatto, ogni pentimento; ove,
stando le cose intere, resta luogo al prendere nuovo consiglio.

Questa conclusione politico-morale era non solo l'ultima pa


gina dei Discorsi, ma il messaggio che il Parata sembrava affi
dare con le sue ultime opere, uscite postume - nel 1599 i Di
scorsi, nel 1605 la Historia vinetiana - agli uomini, soprattutto
a quelli della sua generazione, che avrebbero vissuto il periodo
dell'Interdetto. Alla fine del 1606, alcuni mesi dopo i drastici
provvedimenti papali, il doge Leonardo Donà, capo incontrastato
dei « giovani », « quasi divino oracolo » secondo Nicolò Do
glioni, di fronte alla critica situazione internazionale, aveva pro
posto in Senato un compromesso con la S. Sede, alleandosi in
apparenza con i patrizi più conservatori e legati al papa. A tal
punto la prudenza, sempre avvinghiata alla fortuna e spesso da
questa vinta, era penetrata nella mentalità di coloro che ave
vano vissuto tutte le speranze e le amarezze del secondo Cin
quecento.

Paolo Ulvioni

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