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24/1/2021 Azioni Parallele - Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna

Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna


Categoria principale: Ritagli
Categoria: Letti
Pubblicato 03 Gennaio 2021
di Massimo Piermarini
Visite: 80

Georges Bernanos
Diario di un curato di campagna

Alba, San Paolo Edizioni, 2019


ISBN-13 : 978-8892216082, € 12

Ancora un moralista, un moralista acuto e critico del presente, i cui


giudizi dissolvono i luoghi comuni sedimentati da millenni di
mediocrità, di indebite appropriazioni e manipolazioni di "valori" soprannaturali divenuti "mezzi" di potere.
Bernanos ha tutta la forza di persuasione e l’esprit dei grandi moralisti francesi. Il suo famoso Journal d'un
curé de campagne, del 1936, tradotto in italiano nell'edizione mondadoriana di Adriano Grande nel 1946
(un’edizione che contiene qualche refuso e qualche scelta lessicale non felice, ma che nel complesso si
presenta linda e musicale), poi pubblicato nell'edizione dei Meridiani con la trad. di Paola Messori) è la
sintesi della sua scrittura.
Nel Diario di un curato di campagna Bernanos ha scritto il suo Vangelo della povertà e della gioia, il suo
testamento spirituale, che contiene la professione di fede di un combattente per la nobiltà dello spirito e per
la carità da praticare agli uomini. Il suo umanesimo cristiano, argomentato nelle pagine del romanzo, era
debitore delle riflessioni di un altro cattolico ardente, Ernest Hello, autore di “L’Homme” (1872) che,
misconosciuto dal grande pubblico, ebbe una grande influenza su autori quali Léon Bloy, Paul Claudel e
appunto Georges Bernanos. La sua visione del cristianesimo militante può apparire oggi a molti datata, ma
la sua critica alla società degli anni Trenta e Quaranta del sec. XX può insegnarci ancora molto. Vi si avverte
la stessa corda tesa, lo stesso furore visionario e profetico di un Leon Bloy, l’energia di uno stile
adamantino, la forza missionaria di chi lotta contro il male e i dèmoni che assediano le anime e vessano i
corpi degli uomini, che si rovinano però soltanto a causa della loro pigrizia spirituale. Un romanzo
"teologico", dunque, ma non "intimistico", che condensa e integra, in pagine perfette, il realismo che orienta
l'indagine sulla condizione umana (bel rappresentato nel testo dall’Abate di Torcy) con l'utopismo di un
cristianesimo in lotta contro il mondo e le potenze dell'idolatria che lo governano. Indicando il modello dei
santi lo scrittore si affida, come il suo curato che scrive nel Diario il suo memoriale, alle gioie della
preghiera. La dimensione della gioia nasce dall’esperienza delle sofferenze e delle fatiche di un'esistenza
connotata dalla povertà e illuminata soltanto dalla grazia, impegnata nella battaglia contro i feticci del
denaro, del potere, della gloria mondana e del perbenismo dei benpensanti e dei borghesi ipocriti.
Il giovane curato è debole, è malato. La sua malattia ha radici antiche. E’ nato in una famiglia contadina
poverissima e questa sua appartenenza di classe, la vita di privazioni di cui ha fatto esperienza nell’infanzia,
sono tratti incancellabili della sua storia personale. Le tare ereditarie di famiglia, il cancro trasmessogli
dall’alcolismo dei genitori, sono per lui un destino, un fattore invariante che è impossibile lasciarsi alle
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spalle. La scintilla della sua fede si accende su questo fondo biologico, oscuro e malefico, che si porta
dentro. Lo zelo che impiega nel suo ufficio sacerdotale è soltanto il tentativo di trovare, attraverso una
ricerca pagata con il sangue, dentro il buio del male fisico e morale che deturpa gli uomini e il mondo, la
luce della Grazia. Non si tratta di un viaggio caotico. Il giovane curato osserva, descrive, partecipa del
dolore degli uomini e legge in profondità nel loro animo, ne dirige con maestria le coscienze nella
confessione e ne ascolta le inquietudini e le insufficienze. Associa al loro dolore il suo ma si colloca
deliberatamente in un angolino, come un bambino sperduto nel gran mare dell’essere.
Le pieghe dell'animo del Curato si svelano, giorno dopo giorno, dalle pagine del Diario, nei patimenti del
corpo provocati dalla malattia, nei dubbi e nelle tentazioni, nelle privazioni e nel senso di vuoto che
affliggono il suo quotidiano. Intorno a lui l’incomprensione e l’indifferenza dei parrocchiani, il disamore la
distanza degli uomini da Dio. Il silenzio e l’abbandono gli sono compagni. Il corpo del Curato, che soffre e
geme nell'attesa della fine, invia segnali intermittenti alla coscienza, luminosi come bagliori, che aprono alla
possibilità di scendere in profondità dentro sé stessi. In fondo l'esperienza infantile della fame determina
tutto, nella breve esistenza del Curato di campagna di Bernanos. Le tare ereditarie lo divorano. Sono esse,
però, a spingerlo sempre avanti, a sacrificarsi per gli altri, a percorrere i territori proibiti della notte, in cui il
male sembra dominare quasi incontrastato. Il suo cristianesimo è una santa agonia, insomma, una via
dolorosa di ricerca e di combattimento spirituale, una fede vissuta nella carne. Il suo corpo è straziato da
dolori, sofferenze, nausee. Un senso di vuoto incombe su di lui. È inadatto alla vita pratica, non sa usare il
denaro né amministrare le cose e queste mancanze diventano pregi in un’anima che riscopre che rivive
l’innocenza antica nella terra ormai regno del male. E’ privo, per la sua poverissima origine, del senso della
proprietà. Bernanos lo elegge per questo a rappresentante dello spirito di povertà, che è una difesa contro la
forza cieca del denaro e l’egoismo dei ricchi, con il quale la Chiesa stessa viene a compromesso.L’ascetica
del curato ha un profondo nucleo mistico. Il suo duro regime di astinenza gli rende possibile la visione
anche nelle fitte tenebre in cui versa la natura umana che, pur investita dalla Grazia, resiste al cambiamento.
Forse qualche volta l’autore teologizza troppo e si lascia prendere la mano dallo spirito di profezia e dal suo
catastrofismo. Il suo curato scrive come parlerebbe un predicatore dal pulpito. La scrittura, allora, si
appesantisce e la purezza di svolgimento del filo della narrazione si inquina. Ma si tratta di un'ombra
passeggera. Bernanos ritrova subito la voce interiore del suo curato e il teatro della misera e umanissima
consumazione della sua vicenda. Allora sentiamo una prossimità che sorprende a quel destino e a
quell'ispirazione, a quella cruda cronaca di una fine che si compie. Il Diario è la testimonianza dei quotidiani
progressi di una malattia mortale. Il curato si nutre ormai soltanto di pane e vino, specie eucaristiche, e la
sua vita stessa assume la fisionomia di un’offerta eucaristica per amore degli altri, dei poveri. Certo, è un
prete disperato. Ma soltanto i preti disperati, nemici dei compromessi e dell’ipocrisia borghese sono, per
l’autore, i profeti dell’amore divino, del conflitto tra Chiesa eterna e mondo. Il curato, tra mille difficoltà,
porta avanti il suo ministero come una croce, in mezzo alle tenebre del peccato. La sua vita è un ingresso
nella gioia divina, che procede passo dopo passo, nella povertà e nei dolori della malattia, attraverso dubbi e
lacerazioni della coscienza. Bernanos ha scritto con il Diario il romanzo del Male e della lotta infinita e
disperata dei santi contro di esso. L’annullamento nella notte della morte che sopravviene rende possibile
una profonda conversione, per la quale non si desiderano più che i beni eterni e si fa fronte contro il male.
In Diario di un curato di campagna Bernanos ha proclamato il suo Vangelo della povertà, il suo manifesto
di combattente per la libertà dell’anima e per la carità che si prende cura degli altri. Il male, i demoni,
assediano le anime e vessano i corpi, ma è soltanto la nostra pigrizia spirituale a rovinarci. La solitudine,
l’abbandono, l’annullamento nella notte non prevalgono sulla preghiera, che è per Bernanos fonte della gioia
nel rapporto con Dio, come dimostra la purezza che testimonia la conoscenza soprannaturale di sé stessi in
Dio, cioè la stessa fede. L’inferno, che è il “non amare più”, viene sconfitto nel rapporto uomo-Dio, nella
gioia della carità e della preghiera. In questa consapevolezza il curato confessa, conscio di essere stato un
inetto, l’ingenuità del suo amore per le anime e accetta l’esito di una lotta che volge al termine: l’agonia che
“è essenzialmente un atto d’amore” viene suggellata nelle sue ultime parole: “tutto è grazia”.

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