Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
ORGANI
Gli organi sono costituiti dall’insieme di più tipi di Tessuto che uniti svolgono una
determinata funzione (cellule eterogenee).
L’Organo è costituito da:
Capsula, ovvero la membrana di protezione fatta di tessuto fibroso, che avvolge
l’organo;
Parenchima, ovvero la parte nobile che caratterizza quello specifico organo (Es.
Epatociti nel Fegato);
Stroma, ovvero una rete di sostegno che avvolge il Parenchima, i Vasi Sanguigni e
I Nervi.
Gli Organi si evolvono nella fase della crescita (dall’infanzia all’età senile). Il Processo di
Crescita e Sviluppo si arresta al 25esimo anno di età e da lì in poi inizia il processo di
“invecchiamento”.
APPARATO O SISTEMA
Gli Apparati sono degli insiemi di Organi. I Vasi Sanguigni e i Nervi hanno lo scopo di
adoperarsi per svolgere differenti funzioni, fra esse collegate.
Apparato Uro-Genitale: Funzione Emulatore, ovvero espulsione di liquidi organici e feci,
inoltre è l’apparato dedicato all’attività riproduttiva (genera vita). Questo Apparato è
composto da: rene, vescica, uretra, genitali interni ed esterni.
Apparato Digerente: ha la funzione di digestione, di assorbimento dei cibi e
dell’eliminazione delle scorie. Gli organi che compongono l’apparato digerente sono:
bocca, esofago, stomaco, intestino tenue, intestino crasso, retto e ano.
All’interno di questi organi, vi sono delle Sfintere o Valvole. Sfintere Esofageo, fra stomaco
ed esofago; Sfintere Pilori, ovvero fra stomaco e intestino; Sfintere Ileocolico, ovvero fra
intestino tenue e crasso.
APPARATO DIGERENTE
È l’apparato che si occupa delle nutrizioni e della digestione degli alimenti ingeriti.
È composto da:
Bocca ( è il primo contatto con il cibo ) che è composta a sua volta da Denti, ovvero un
tessuto osseo esterno. In bocca avviene la “prima digestione”.
Lingua: serve ad insalivare i cibi, permettendone la masticazione e l’ingerimento. Inoltre
ha funzione di papilla gustativa: per il dolce, per il salato, per i cibi acidi, e per l’amaro. La
Saliva è composta da acqua, muco ed enzimi. La Ghiandola Parotide, produce la saliva in
maniera fluida, la Sottolinguale produce una Saliva più densa. Questi tipi di saliva formano
il Bolo (cibo masticato) che passera per la Faringe, fino ad arrivare all’Esofago.
Esofago: è un tubo che segue la Faringe e precede lo Stomaco. Esso è composto da 3
strati: uno esterno, uno interno/esterno e uno interno. Non è un tubo rigido in quanto dovrà
allargarsi per far scendere il cibo masticato attraverso le Onde Peristaltiche che portano il
cibo fino allo Stomaco. Quando la Sfintere o Valvola, non protegge le pareti dello Stomaco
dall’acidità presente nei Bolo, si crea l’Esofagite da Reflusso
Stomaco: è un organo cavo. È composto da Fondo, ovvero la parte che collega Esofago e
Stomaco, dall’ Antro, che è la parte finale e dal Piloro ovvero una valvola che rappresenta
il confine fra Stomaco e Duodeno. Il Chimo, è costituito da Enzimi, Acqua ed Acido
Cloridrico.
Il Processo Digestivo si aggira intorno alle 2/3 ore e dipende da ciò che si è mangiato.
Mano a mano che il Chimo trasforma il Cibo in liquido, il Chimo si apre e il cibo va
nell’Intestino.
Intestino: si divide in Tenue e Crasso. L’Intestino Tenue si distingue in Duodeno, Digiuno
e Ileo.
Il Duodeno comprende al suo interno lo sbocco della Bile (ovvero un liquido prodotto dal
fegato e che viene accumulato nella Cistifellea, con lo scopo di emulsionare olio ed acqua
impedendo di separarsi) e del Pancreas. Il Duodeno completa la digestione. Il Processo di
Digestione viene portato a termine grazie agli enzimi pancreatici e a quelli intestinali. Tutte
le sostanze vengono assorbite e attraversano le Pareti Intestinali e passano nel Sangue
fino ad arrivare al Fegato. Una gran parte delle Sostanze Vengono assorbite e finiscono in
un liquido chiamato Linfa che a sua volta si mescola nel sangue. L’Intestino è un grande
assorbitore d’acqua.
L’Intestino Crasso: comprende il Colon e il Retto. È la parte d’Intestino dove si formano
le Feci, che eliminano ciò che l’organismo non ha assorbito. Solitamente vengono
eliminate 150-200 g di feci al giorno tramite una contrazione dal Retto all’Ano. La
Defecazione è un processo parzialmente volontario, ma è un meccanismo involontario.
APPARATO RESPIRATORIO
Possiamo pensare che l'apparato respiratorio sia composto da un tronco centrale e varie
ramificazioni proprio come un albero. È composto da:
Laringe: ovvero un organo cavo dove all’interno troviamo le corde vocali, ossia delle
piccole pieghe dove vibra l’aria e che emettono dei rumori o suoni o parole; le corde vocali
possono essere controllate. La laringe è molto sensibile ai cambiamenti climatici e a fattori
come fumo, virus ecc. Ciò può generare laringite (malattia della laringe).
Trachea: lungo tubo fatto di anelli (cartilagine) che devono mantenere una certa durezza
nonostante la respirazione. All’interno della trachea troviamo una mucosa chiamata
epitelio. Le ciglia epiteliali spingono l’aria dal basso verso l’alto, mentre il muco ingloba
particelle estranee.
Bronchi: strutture molto attive, che compongono la Trachea.
I Bronchi si dividono in 2 tipi:
Bronchi Lobali che a loro volta si dividono in Bronchioli, che si trovano all’interno dei
Polmoni. I bronchi si contraggono (chiudono) quando l’aria non passa e ciò determina una
patologia chiamata Asma curabile con farmaci bronco dilatatori. Bronchite cronica:
accumulo di muco, difficoltà respiratoria, tosse.
I Polmoni sono rivestiti di una speciale membrana chiamata Pleura che si compone di 2
strati chiamati Pleura Viscerale e Pleura Toracica. La Pleura lubrifica i polmoni, infatti
quando un paziente soffre di Pleurite, si accumula liquido fra la Pleura Viscerale e il
Muco.
Il cuore dei Polmoni è l’Alveolo ovvero un insieme di Acini che si aggrappano ai Bronchioli
che sono a stretto contatto con il sangue. Il suo scopo è lo scambio gassoso, ovvero far
viaggiare l’ossigeno fissato ad una molecola chiamata Emoglobina. Inoltre l’Alveolo deve
provvedere ad eliminare l’anidride carbonica con il respiro e a far assorbire l’ossigeno per
respirare.
La Gabbia Toracica è composta da: costole, colonna vertebrale toracica e diaframma
(che divide il torace dall’addome). Se all’interno del diaframma abbiamo una contrazione,
si ridurrà l’aria che non salirà ai polmoni. Quando rilasciamo il diaframma, i polmoni si
riempiranno di aria.
Muscoli Respiratori
Si dividono in: Muscolo Toracico e Muscolo del collo o scaleno.
Inspirazione: è un fenomeno volontario in quanto il cervello, ordina ai muscoli inspiratori
di contrarsi e di conseguenza la gabbia toracica si allarga facendo entrare aria.
(Fenomeno attivo). Espirazione: (Fenomeno passivo), fenomeno nel quale viene a meno
la contrazione e quindi l’aria viene inglobata all’interno.
Insufficienza Respiratoria: Si accumula anidride carbonica nel sangue, non permettendo
all’ossigeno di entrare.
Polmonite: malattia di rapida formazione che trasforma i polmoni da spugnosi in densi. Si
cura con specifici antibiotici.
Enfisema Polmonare: malattia di lentissima formazione che richiede decenni.
Saturimetro: strumento per misurare il gas nel sangue.
Emogasanalisi: prelievo di sangue dall’arteria, per la misurazione del Ph (tasso di acidità
del sangue). Il Ph fisiologico si aggira intorno a 7.4. Se il Ph è inferiore avremo un Acidosi,
se superiore un Alcalosi.
APPARATO CARDIOCIRCOLATORIO
Il sistema cardiocircolatorio è l'insieme delle strutture che consentono al sangue di
circolare, queste strutture sono: ARTERIE, VENE, CAPILLARI, CUORE. Il cuore è formato
da 4 cavità: atrio destro e sinistro e ventricolo destro e sinistro. La parte destra del cuore
pompa sangue povero di ossigeno ai polmoni, dove viene riossigenato, mentre la parte
sinistra riceve il sangue ossigenato dai polmoni, e attraverso le arterie lo invia alle varie
parti del corpo.
CUORE
Situato nel mediastino, tra due fogli l'Epicardio che aderisce al cuore, e il Pericardio
circonda il cuore, e l'endocardio riveste la cavità cardiaca. Nell'orifizio destro troviamo la
valvola tricuspide, in quello sinistro la valvola mitrale, sono presenti anche I fori arteriosi
nel ventricolo destro e I fori polmonari nel ventricolo sinistro.
Sangue
Distribuisce sostanze nutritive e ossigeno e asporta le sostanze di scarto, è formato da
una pare liquida (plasma e acqua) e una corpuscolata (Globuli rossi e bianchi e piastrine)
Il sangue viene formato dal midollo osseo rosso e ogni 120 giorni degradati dalla milza. La
frequenza delle pulsazioni è controllata dal sistema nervoso, il nervo vago le rallenta
e quello simpatico li accelera. L'impulso della contrazione è originata da un gruppo di
cellule del nodo senoatriale, l'impulso passa lungo gli atri e si raccoglie in un altro nodo
quello atrioventricolare da qui si origina il fascio di his.
La misurazione dei valori pressori, corrisponde alle sistole e alle diastole è determinata
da:
- gettata cardiaca
- resistenza periferica
- volemia
- viscosità ematica
- elasticità delle arterie
La sistolica corrisponde alla puntata massima della pressione, mentre la diastolica alla
minima.
Per frequenza cardiaca si intende il numero dei battiti in 1 minuto. Durante la
procedura di misurazione si osserva l'acronimo FRAT cioè
F frequenza della dilatazione delle arterie
R Ritmo modalità di successione delle pulsazioni
A ampiezza cioè l'espansione delle pareti
T Tensione che si sente attraverso le pareti per poter udire I toni.
IL SISTEMA NERVOSO
Per sistema nervoso si intende un'unità morfo-funzionale caratterizzata da un
tessuto altamente specializzato nell'elaborazione e nella propagazione di segnali
bioelettrici. Un'altra caratteristica fondamentale del sistema nervoso sta nella sua duplice
collocazione anatomica: distinguiamo un nevrasse (detto anche neurasse, è l’insieme dell’
encefalo e del midollo spinale, costituenti il sistema nervoso centrale; è chiamato anche
tubo neurale), allocato all'interno di un rivestimento costituito di tre strati fibro-vascolari
(meningi) situato all'interno del cranio e del canale vertebrale, e un sistema
extranevrassiale che comprende tutte le strutture che decorrono all'esterno dello scheletro
osseo.
La presenza del rivestimento meningeo fa distinguere due grandi spazi bio-umorali in cui il
Sistema Nervoso è immerso: il liquor cerebrospinale e lo spazio extravascolare.
L'interfaccia che viene a costituirsi tra i due ambienti è detta barriera ematoliquorale.
Il tessuto nervoso è composto da tre elementi fondamentali:
- la cellula nervosa (neuroni) composta da un soma e dai suoi prolungamenti ( assone o
neurite e i dendriti ).
- nel nevrasse la glia, ovvero tutte le cellule non nervose, che distinguiamo in astroglia,
oligodendrooglia ependimoglia e nel nervo periferico la cellula di Scwhann.
- il tessuto connettivo fibroso e i vasi venosi e arteriosi
La distinzione tra il Sistema nervoso centrale e il periferico fa riferimento alla provenienza
dei prolungamenti delle cellule nervose ed al fatto che il rivestimento dei prolungamenti (
assoni e/o dendriti ) sia costituito dagli oligo-dendrociti (mielina centrale piuttosto che
dalle cellule di Scwhann mielina periferica).
Macroscopicamente distinguiamo i seguenti organi del Sistema Nervoso:
Sistema nervoso centrale (SNC) il cervello, il cervelletto, il tronco, dell'encefalo, il midollo
spinale.
Sistema nervoso periferico (SNP) le radici spinali, i plessi e i gangli prevertebrali e
paraverebrali, i tronchi nervosi o nervi propriamente detti, con i loro rami terminali e
collaterali.
Il Sistema nervoso compie tre principali funzioni: sensoriale, integrativa (che include:
pensiero, memoria, ecc.), motoria.
In senso lato possiamo attribuirgli un ruolo computazionale di informazioni che viaggiano
sotto forma di perturbazioni del potenziale di membrana delle cellule e che vengono
elaborati nell'ambito di complessi sistemi di accoppiamento tra evento elettrico ed eventi
biochimici entro dei compartimenti specifici dello spazio intercellulare che chiamiamo
sinapsi.
PELLE E CUTE
La pelle è il Sistema più diffuso che abbiamo. È l’organo della termoregolazione ed è ricca
di vasi sanguigni. Ci protegge in quanto è impermeabile.
Produce la Vitamina D, che si forma tramite l’esposizione al sole e che rinforza le ossa.
EMOCROMO
L’emocromo è la formula chimica del sangue.
Le proteine più importanti, contenute nel sangue e prodotte dal fegato, sono l’albumina
(che serve per mantenere la pressione osmotica, ovvero impedisce la fuoriuscita di acqua
dal letto vascolare) e dal fibrinogeno (proteina dedita alla coagulazione del sangue). Se il
sangue non coagula correttamente, si accumulerà una lesione chiamata fibrina. La fibrina
a sua volta si trasformerà generando una “rete” che congloba i globuli rossi e le piastrine,
formando un tappo, chiamato trombo. Dopo alcuni minuti il trombo muterà la sua struttura
dando luogo alla fibrinolisi.
ANTICOAGULANTI
Gli anticoagulanti servono ad impedire la chiusura del trombo. (Ci sono anche farmaci
coagulanti).
GLOBULI ROSSI
I globuli rossi sono cellule senza nucleo, prodotte dal midollo osseo e contengono
l’emoglobina, che fissa l’ossigeno e lo trasporta nei capillari, dopo di che i globuli rossi
ritornano ai polmoni per essere ri-ossigenati e successivamente verranno distrutti dalla
milza. I globuli rossi vengono distrutti dopo 120 giorni di vita.
ANEMIA
L'anemia è la diminuzione dei globuli rossi. Le cause dell’anemia sono molteplici: Carenza
della produzione di cellule da parte del midollo osseo; Eccessiva distruzione dei Globuli
Rossi Imperfetti da parte della Milza, ovvero troveremo un’Imperfezione nella Talassemia
e nell’Anemia Falliforme; oppure negli Anticorpi che vanno ad attaccare i Globuli Rossi,
come ad esempio nell’Anemia Emolitica Autoimmune; nei casi di Carenza di Ferro,
minerale fondamentale per la formazione dell’Emoglobina. In assenza di ferro, avremo dei
Globuli Rossi Microciti, ossia di dimensioni minori rispetto alla norma. Inoltre avremo
carenza di ferro nel caso di mestruazioni abbondanti e di emorroidi.
COMPLICANZE DIABETICHE
- Aterosclerosi, cioè un ispessimento ed indurimento della parete arteriosa caratterizzato
dalla deposizione di lipidi. Per questo motivo i diabetici sono a rischio per coronaropatie,
disturbi ischemici cerebrali, insufficienza arteriosa degli arti.
- Retinopatia diabetica, alterazione dei capillari a carico della retina.
- Nefropatia diabetica, alterazione dei capillari a carico dei reni.
- Neuropatia diabetica, sofferenza del sistema nervoso periferico che si manifesta con
crampi e disturbi della sensibilità, ma può colpire anche il sistema nervoso vegetativo con
disturbi diffusi ai vari organi interessati.
- Ulcera diabetica, comparsa di ulcere agli arti inferiori.
- Aumentata suscettibilità alle infezioni, ad esempio cistiti, vaginiti ecc.
- Nei pazienti affetti da Diabete di tipo 2 sembra esserci una associazione tra resistenza
all'insulina, iperinsulinemia (elevati livelli di insulina in circolo), obesità, ipercolesterolemia,
ipertensione arteriosa, vasculopatia aterosclerotica, tale affezione viene chiamata
sindrome X
L'Insulina è un ormone prodotto dal pancreas, esattamente dalle cellule beta delle isole di
Langerhans. L'insulina ha molte funzioni, una di queste è quella di trasportare i carboidrati
ai tessuti. L'insulina quindi promuove il trasporto del glucosio all'interno delle cellule dove
questo viene utilizzato od immagazzinato. Ad esempio, l'insulina trasporta all'interno delle
cellule muscolari il glucosio, che viene utilizzato durante l'esercizio fisico intenso. L'insulina
non agisce solo sul metabolismo dei glucidi ma agisce anche sul metabolismo delle
proteine e dei grassi. Durante i pasti il glucosio assorbito e riversato nella circolazione
sanguigna provoca un rialzo della glicemia, il pancreas secerne una quantità di insulina
sufficiente a determinare una rapida assunzione, immagazzinamento o utilizzazione del
glucosio da parte di quasi tutti i tessuti dell'organismo, ma specialmente del fegato, dei
muscoli e del tessuto adiposo.
La glicemia viene quindi riportata a valori normali( 60-100 mg/dl)
LO SCHEMA TERAPEUTICO
Lo schema terapeutico più vantaggioso prevede tre iniezioni (preferibilmente nel tessuto
sottocutaneo dell'addome) di insulina regolare da somministrare prima dei pasti, cui è utile
associare prima di cena o prima di coricarsi un'insulina ad azione intermedia per coprire il
fabbisogno notturno. Le insuline ad azione rapida permettono un più efficace controllo
della glicemia postprandiale ma risultano meno efficaci nel mantenimento della glicemia
nel corso dell'intera giornata; le insuline ad azione intermedia non sono risultate
soddisfacenti per via del rischio concreto di ipoglicemie durante le prime ore della notte e
di iperglicemia al risveglio. Riassumendo: qualsiasi regime terapeutico a base di insulina
non è nient'altro che una grossolana approssimazione della secrezione fisiologica di
insulina, proprio per questo le varie preparazioni servono a rendere più flessibile la terapia,
adattandola alle differenti richieste metaboliche dei pazienti.
Il fegato immagazzina circa il 60% del glucosio presente nel pasto per reimmetterlo nel
sangue in condizioni di bisogno: digiuno, attività fisica intensa, situazioni di stress. Nel
diabete questo non avviene. La glicemia sale, una parte dello zucchero in eccesso viene
eliminato dal rene con le urine, si ha cioè glicosuria. La glicemia però non si alza solo
dopo i pasti, ma anche durante il giorno perché viene prodotto glucosio dal fegato. Nel
diabete perciò si ha un rialzo della glicemia postprandiale ma anche della glicemia a
digiuno. L'iperglicemia può provocare danni praticamente a tutti i tessuti.
Ipoglicemie acute e Coma ipoglicemico
Sono entrambi manifestazioni di una grave riduzione della glicemia, al di sotto di 60 mg/dl
(30-60 mg/dl).
L'organismo ha bisogno di mantenere un livello di glucosio circolante adeguato, specie per
il fatto che alcuni organi, come il cervello, utilizzano questo zucchero come carburante
"esclusivo".
Non è un caso che le gravi riduzioni della glicemia esitano principalmente in
manifestazioni di tipo neurologico
Il bilancio tra il glucosio circolante e l'insulina disponibile viene alterato da situazioni come
lo stress, il vomito, un'attività fisica inconsueta, la mancanza di alimentazione (ritardo
dell'ora del pasto, nausea). Vi può essere un'eccessiva assunzione di insulina o di
ipoglicemizzanti orali in rapporto al quantitativo di cibo ed attività fisica. Un tempo l'errore
di dosaggio, con le insuline pronta e lenta da miscelare insieme, era più frequente: oggi
l'uso di miscele già preparate e delle pratiche penne per iniettarle ha ridotto notevolmente
la possibilità di tale errore.
Cause e sintomi
A prescindere dalla causa scatenante, i segni più caratteristici dell'ipoglicemia acuta sono:
senso di fame improvvisa,
sudorazione profusa, fredda e senza apparente motivo,
tachicardia,
tremore diffuso dolori addominali, associati o no a diarrea,
formicolii alle labbra,
contrazione di muscoli isolati sotto forma di tic,
annebbiamento o sdoppiamento della vista,
cefalea,
confusione mentale
Alla prima evidenza dei sintomi riportati è necessario introdurre circa 20 grammi di
zucchero che possono essere assunti come: due zollette di zucchero con latte o acqua, 40
g di cioccolata, un cucchiaio di miele, un succo di frutta. Se i sintomi sono più lievi si
possono introdurre zuccheri a lento assorbimento, contenuti nel pane, nella frutta, in due-
tre biscotti. Non bisogna mai assumere bevande alcooliche che aggraverebbero le crisi
ipoglicemiche.
TIA E ICTUS
L'ictus cerebrale è una delle più frequenti cause di morte e la principale causa di invalidità
nelle persone adulte. La maggioranza dei casi si verificano sopra i 65 anni, ma possono
essere colpite anche persone più giovani.
L'ictus cerebrale è causato nel 90% dei casi da una riduzione del flusso sanguigno
(ischemia) e nel restante 10% dalla rottura di un vaso sanguigno (emorragia).
TIA: Transient Ischemic Attack
Se l'ischemia è transitoria si parla di TIA (Transient Ischemic Attack o in italiano, Attacco
Ischemico Transitorio). In questi casi i sintomi si risolvono entro 24 ore. Gli attacchi di tipo
TIA annunciano la prossima manifestazione di un ictus cerebrale e, se diagnosticate e
considerate come evento serio, spesso offrono l'ultima possibilità per prevenire la
manifestazione di un ictus con esiti invalidanti.
ICTUS ISCHEMICO
Si distinguono diversi tipi di ictus ischemico: da patologia delle arterie di maggiore calibro
(arterie carotidi, arterie vertebrali o arteria basilare), responsabili di infarti che colpiscono la
corteccia e le strutture sottocorticali; da patologie dei vasi di piccolo calibro (arterie
perforanti) che causano infarti sottocorticali o lacune; da patologie cardiache (cardio
embolico), causati da emboli a partenza cardiaca; infarto cerebrale d'altra origine
(dissezione, poliglobulia, ipoglicemia); infarto cerebrale d'origine sconosciuta.
Le cause più comuni di ictus ischemico
vasculopatia aterosclerotica che interessa le arterie di maggior calibro, comunemente le
arterie carotidi, le vertebrali e le arterie che originano dal circolo del Willis, all’interno delle
quali si forma un trombo.
occlusione delle piccole arterie (TIA o ictus lacunare), causata da lipoialinosi (strati lipidici
che crescono nelle piccole arterie per effetto dell’ipertensione, del diabete o dell’età) e
degenerazione fibrinoide o dall’estensione di microateromi dalle arterie di maggior calibro
a quelle perforanti.
cardioembolia o embolia transcardiaca Condizioni associate con rischio elevato di ictus
cardioembolico: fibrillazione atriale (non isolata), protesi valvolare meccanica, stenosi
mitralica con fibrillazione atriale, trombo in atrio e/o auricola sinistri, sick sinus syndrome,
infarto miocardico acuto recente (<4 settimane), trombo ventricolare sinistro, mixoma
atriale, endocardite infettiva, cardiomiopatia dilatativa, acinesia di parete del ventricolo
sinistro.
ICTUS EMORRAGICO
L’emorragia cerebrale primaria rappresenta l’80% circa di tutte le emorragie cerebrale ed è
causata più frequentemente dall’ipertensione arteriosa. Emorragia subaracnoidea
L’ESA spontanea (non traumatica) è dovuta nell’85% dei casi alla rottura di un aneurisma,
nel 10% dei casi si tratta di un’ESA idiopatica, non aneurismatica, caratteristicamente a
localizzazione perimesencefalica, e nel restante 5% di cause rare (per esempio dissezione
arteriosa, malformazioni artero-venose, fistole artero-venose durali).
I fattori di rischio modificabili ben documentati sono:
Ipertensione arteriosa;
Alcune cardiopatie (in particolare, fibrillazione atriale);
Diabete mellito;
Iperomocisteinemia;
Ipertrofia ventricolare sinistra;
Stenosi carotidea;
Fumo di sigaretta;
Eccessivo consumo di alcol;
Ridotta attività fisica.
I SINTOMI DELL'ICTUS
Una caratteristica importante di tutti i sintomi da ictus acuto è la loro manifestazione
improvvisa. L'ischemia o l'emorragia causano una mancata ossigenazione della parte del
cervello nutrita dal vaso ostruito o danneggiato, che va incontro a necrosi nel giro di
qualche decina di minuti. Di solito la parte coinvolta è localizzata nella parte destra o nella
parte sinistra del cervello, e quindi anche i sintomi sono lateralizzati. Si va dalla perdita
della sensibilità o la paralisi in un lato del corpo o del viso, la perdita della vista nel campo
visivo sinistro o destro, la visione sdoppiata, difficoltà del linguaggio, vertigini, vomito e
perdita della coscienza. In alcuni casi, se l'ischemia avviene in un territorio cerebrale meno
sensibile, l'ictus può non causare sintomi e passare inosservato.
Non riuscire a parlare nel modo corretto (non trovare le parole o non comprendere bene
quanto ci viene detto: afasia; pronunciarle in modo sbagliato: (disartria), perdere la forza in
metà corpo (metà faccia, braccio e gamba, dal lato destro o da quello sinistro: emiplegia o
emiparesi), sentire dei formicolii o perdere la sensibilità in metà corpo (in modo analogo
alla forza: emiipoestesia), non vedere bene in una metà del campo visivo, ossia in quella
parte di spazio che abbraccia con uno sguardo (emianopsia), vi possono essere altri
sintomi ancora come la maldestrezza, l’assenza di equilibrio e le vertigini (sempre
associate ad altri disturbi: una crisi vertiginosa isolata difficilmente è causata da un ictus),
le emorragie più gravi, soprattutto l’emorragia subaracnoidea, si annunciano con un
improvviso mal di testa (cefalea), molto più forte di quello sperimentato in passato, che
viene assimilato ad un colpo di pugnale inferto alla nuca.
LE CAUSE DELL'ICTUS CEREBRALE
L'ictus cerebrale è quasi sempre conseguenza di una patologia dell'apparato
cardiocircolatorio, prima fra tutte l'aterosclerosi. I vasi sanguigni che alimentano il cervello,
soprattutto le carotidi, possono essere parzialmente occluse da placche aterosclerotiche,
le quali possono lacerarsi all'improvviso formando coaguli che si staccano andando ad
occludere i capillari che nutrono le diverse aree del cervello. Può anche avvenire la
chiusura spontanea di un vaso aterosclerotico che nutre il cervello. L'ipertensione, oltre ad
essere uno dei fattori di rischio cardiovascolare, può essere essa stessa causa di
emorragie cerebrali.
Diagnosi di TIA e Ictus
Le diagnosi di TIA e di ictus sono diagnosi cliniche. Tuttavia una Tomografia
computerizzata (TAC) o una Risonanza magnetica (RMN) sono utili per riconoscere altre
malattie che possono essere confuse con questa e permettono di documentare la
presenza di una lesione, la natura ischemica di questa, la sua sede ed estensione, la
congruità con la sintomatologia clinica. La RMN presenta vantaggi rispetto alla TAC
nell'identificazione di lesioni di piccole dimensioni e per quelle localizzate in fossa cranica
posteriore. Quando si sospetta una stenosi carotidea si effettua uno studio eco-Doppler
dei tronchi sovra-aortici soprattutto ai fini della scelta terapeutica in senso chirurgico,
eventualmente completando la valutazione con altre tecniche non invasive di
neuroimmagine (angio-RMN; angio-TAC). Lo studio eco-Doppler permette inoltre un
migliore inquadramento eziopatogenetico
CURARE L'ICTUS
La cura dell'ictus cerebrale La terapia acuta dell'ictus si effettua con farmaci antiaggreganti
e trombolitici, purtroppo solo un modesto numero di pazienti può giovarsi di queste cure, in
quanto si applicano soltanto in unità specializzate, sono efficaci solo se passano poche
ore dall'attacco e possono essere effettuate solo dopo che una TAC ha escluso una
emorragia cerebrale. Il più delle volte, purtroppo, l'ictus causa un danno permanente del
tessuto nervoso con la conseguente permanenza o l'aggravamento dei sintomi. La terapia
riabilitativa può migliorare la situazione in quanto altre regioni cerebrali possono attivarsi
per sostituire parzialmente la funzionalità persa.
L'arma più efficace è la prevenzione, che si effettua nell'arco di tutta la vita
seguendo le norme dietetiche e igieniche per evitare lo sviluppo dell'aterosclerosi
È inoltre buona norma, dopo i 60-65 anni, ma anche prima se in famiglia ci sono molti casi di ictus
cerebrale, eseguire una ecografia delle carotidi per evidenziare le placche aterosclerotiche e il
tasso di occlusione. Se il restringimento supera il 70% e si sono già verificati episodi di TIA o ictus,
è possibile intervenire con una endoarteriectomia dell'arteria carotidea, per ripristinare il normale
flusso sanguigno e asportare le placche arteriosclerotiche. Questo intervento chirurgico può avere
complicazioni o può causare a sua volta un ictus cerebrale, poiché durante l'operazione può
accadere il distacco della placca aterosclerotica che sta per essere rimossa. Una serie di studi
internazionali ha dimostrato che la endoarteriectomia dell'arteria carotidea è indicata quando le
occlusioni chiudono più del 70% del vaso e quando il paziente ha avuto sintomi recenti (ictus o
TIA) collegabili alle occlusioni stesse. L'intervento, vista la criticità, deve essere eseguito in centri
specializzati con un basso rischio di complicazioni. Questi interventi chirurgici non sono più
possibili se l'occlusione è totale.
MORBO DI ALZHEIMER
Il morbo di Alzheimer è una demenza progressiva invalidante più frequente nel soggetto
anziano ma che può manifestarsi anche prima dei cinquant'anni.
Prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer
La malattia o morbo di Alzheimer è oggi definito come quel «processo degenerativo che
distrugge progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l'individuo che ne
è affetto incapace di una vita normale». In Italia ne soffrono circa 800 mila persone, nel
mondo 26,6 milioni, con una netta prevalenza di donne.
Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le demenze essendo
un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer
è la più comune rappresentando, a seconda della casistica l' 80-85% di tutti i casi di
demenza.
Le persone affette iniziano con deficit di memoria quotidiana, dimenticandosi piccole cose,
poi mano a mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la
memoria episodica retrograda. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una
decina di anni dopo la diagnosi conclamata di malattia.
Col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma
risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa e
possono pertanto presentare afasia, aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi
internistici. Pertanto i pazienti necessitano di continua assistenza personale.
La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di neuroni, causata principalmente dalla
betamiloide, una proteina che depositandosi tra i neuroni agisce come una sorta di
collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari". La malattia è accompagnata da una
forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si tratta di un neurotrasmettitore: una
molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e dunque per la memoria e ogni
altra facoltà intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l'impossibilità
per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi e quindi la morte.
Il morbo di Alzheimer peggiora nel tempo. Gli esperti hanno sviluppato delle “tappe” per
descrivere come le abilità di una persona cambino, rispetto alla loro normale funzionalità,
a causa del morbo di Alzheimer in fase avanzata.
1. Nessuna disabilità
2. Declino cognitivo molto lieve
3. Declino cognitivo lieve
4. Declino cognitivo moderato
5. Declino cognitivo moderatamente grave
6. Declino cognitivo grave
7. declino cognitivo molto grave
Le fasi descritte di seguito forniscono un’idea generale di come le abilità cambino durante
il corso della malattia. I sintomi del morbo di Alzheimer possono variare notevolmente, e
non tutti potranno riscontrare gli stessi sintomi o un decorso alla stessa velocità. Questo
quadro, caratterizzato da sette fasi, si fonda su un sistema sviluppato da Barry Reisberg,
M.D., direttore clinico del Dementia Research Center (Centro di Ricerca
sull’Invecchiamento e la Demenza) della New York University School of Medicine.
Fase 1: Nessuna disabilità (funzionalità normale)
La persona non soffre di problemi di memoria. La visita effettuata presso un medico non
mostra alcuna prova di sintomi di demenza.
Fase 2: Declino cognitivo molto lieve (è possibile che si tratti di normali cambiamenti legati
all'età o dei primi segnali del morbo di Alzheimer)
La persona potrebbe segnalare la sensazione di avere vuoti di memoria - dimenticando
parole famigliari o la posizione di oggetti di uso quotidiano. Tuttavia, nessun sintomo di
demenza può essere rilevato nel corso di una visita medica oppure da amici, familiari o
colleghi di lavoro.
Fase 3: Declino cognitivo lieve Un lieve declino cognitivo (il morbo di Alzheimer in fase
precoce può essere diagnosticato con questi sintomi in alcune, ma non in tutte le persone)
Amici, familiari o colleghi di lavoro iniziano a notare delle difficoltà. Nel corso di una visita
medica accurata, i medici possono essere in grado di rilevare problemi di memoria o di
concentrazione. Le difficoltà più comuni di cui alla fase 3 includono:
Evidenti difficoltà a trovare la parola o il nome giusto
Problemi a ricordare i nomi quando vengono presentate nuove persone
Difficoltà notevolmente maggiori nello svolgere dei compiti in contesti sociali o di lavoro
Dimenticare cose appena lette
Perdere o non trovare un oggetto di valore
Aumento dei problemi di programmazione o organizzazione
Fase 4: Declino cognitivo moderato (morbo di Alzheimer lieve o in fase precoce)
A questo punto, una visita medica accurata dovrebbe poter rilevare chiari sintomi in diversi
ambiti:
Dimenticanza di recenti eventi
Compromissione della capacità di eseguire calcoli aritmetici mentali impegnativi - ad
esempio, il contare a ritroso da 100 a sette a sette
Maggiore difficoltà a svolgere compiti complessi, quali, ad esempio, la pianificazione della
cena per gli ospiti, il pagamento delle bollette o la gestione delle finanze
Dimenticanza della propria storia personale
Carattere sempre più lunatico o riservato, soprattutto in occasione di situazioni
socialmente o mentalmente impegnative
Fase 5: Declino cognitivo moderatamente grave (morbo di Alzheimer moderato o in stadio
intermedio)
Le lacune nella memoria e nel pensare diventano evidenti, e le persone cominciano ad
avere bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, chi è affetto dal
morbo di Alzheimer potrebbe:
Non essere in grado di ricordare il proprio indirizzo o numero di telefono oppure la scuola
superiore o l'università presso la quale si è laureato
Confondersi sul luogo in cui si trova o sul giorno attuale
Avere problemi con l’esecuzione di calcoli aritmetici mentali meno impegnativi - ad
esempio, il contare a ritroso da 40 a quattro a quattro, oppure da 20 a due a due
Avere bisogno di aiuto per scegliere un abbigliamento adeguato per la stagione o per
l'occasione
Ricordare ancora particolari significativi su sé stessi e la loro famiglia
Non necessitare ancora di assistenza per mangiare o andare in bagno
Fase 6: Declino cognitivo grave (morbo di Alzheimer moderatamente grave o in fase
media)
La memoria continua a peggiorare, possono aver luogo cambiamenti di personalità; le
persone hanno bisogno di notevole aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase,
tali individui potrebbero:
Perdere la consapevolezza delle esperienze più recenti e di ciò che li circonda
Ricordare il proprio nome, ma avere difficoltà a ricordare la propria storia personale
Distinguere i volti noti e non noti, ma avere difficoltà a ricordare il nome di un coniuge o di
una persona che l’assiste
Avere bisogno di aiuto per vestirsi correttamente e, in caso di mancato controllo, compiere
errori quali indossare il pigiama sopra i vestiti da giorno o indossare scarpe sul piede
sbagliato
Vivere l’esperienza di grandi cambiamenti nei modelli di sonno - dormire durante il giorno
e diventare irrequieto di notte
Avere bisogno di aiuto nel gestire certi dettagli dell’igiene personale (ad esempio, tirare lo
sciacquone, pulirsi con la carta igienica o smaltirla correttamente)
Avere problemi sempre più frequenti nel controllare la vescica o l’intestino
Vivere l’esperienza di notevoli cambiamenti di personalità e di comportamento, tra cui la
sospettosità e le fissazioni (come credere che la persona che l’assiste sia un’imbrogliona)
oppure comportamenti incontrollabili o ripetitivi, come torcersi le mani o fare a pezzetti i
fazzoletti di carta
Tendere a vagare o perdersi
Fase 7: Declino cognitivo molto grave (morbo di Alzheimer grave o in fase avanzata)
Nella fase finale di questa malattia, la persona perde la capacità di rispondere al suo
ambiente, di portare avanti una conversazione e, in seguito, di controllare i movimenti.
L’individuo può ancora utilizzare parole o frasi.
In questa fase, è necessario molto aiuto nella cura personale quotidiana, tra cui mangiare
o andare in bagno. Possono andare perdute le capacità di sorridere, di sedersi senza
supporto e di sorreggere la propria testa. I riflessi diventano anomali. I muscoli diventano
rigidi. La deglutizione diventa compromessa.
MORBO DI PARKINSON
La malattia di Parkinson fu descritta per la prima volta da James Parkinson in un libretto
intitolato “Trattato sulla paralisi agitante” pubblicato nel 1817
Paralisi agitante è il nome che identificò la malattia per quasi un secolo fino a quando ci si
rese conto che il termine risultava inappropriato perché i malati di Parkinson non sono
paralizzati. Si cominciò così ad utilizzare il termine parkinsonismo idiopatico (idiopatico
vuol dire “di cui non si conosce la causa”), ma il termine più corretto in italiano è
semplicemente malattia di Parkinson, che rende anche omaggio al medico che per primo
l’ha descritta e sostituisce la vecchia traduzione ottocentesca di “Morbo” di Parkinson.
L'O.S.S. molto spesso assiste utenti affetti da questa malattia e quindi conoscerla a fondo
permette all'operatore socio sanitario di operare in maniera corretta e dunque
professionale.
Si tratta di un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato principalmente da
degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni) situate in una zona profonda del
cervello denominata sostanza nera. Queste cellule producono un neurotrasmettitore, cioè
una sostanza chimica che trasmette messaggi a neuroni in altre zone del cervello. Il
neurotrasmettitore in questione, chiamato dopamina, è responsabile dell’attivazione di un
circuito che controlla il movimento. Con la riduzione di almeno il 50% dei neuroni
dopaminergici viene a mancare un’adeguata stimolazione dei recettori, cioè delle stazioni
di arrivo. Tali recettori sono situati in una zona del cervello chiamata striato. La malattia di
Parkinson si riscontra più o meno nella stessa percentuale nei due sessi ed è presente in
tutto il mondo. I sintomi possono comparire a qualsiasi età anche se un esordio prima dei
40 anni è insolito e prima dei 20 è estremamente raro. Nella maggioranza dei casi i primi
sintomi si notano intorno ai 60 anni. Il motivo per cui questi neuroni rimpiccioliscono e poi
muoiono non è ancora conosciuto, ed è tuttora argomento di ricerca. La malattia di
Parkinson è comunque solo una delle sindromi parkinsoniane o parkinsonismi.
Parkinsonismo è un termine generico con il quale si intendono sia la malattia di Parkinson
che tutte le sindromi che si manifestano con sintomi simili.
La malattia di Parkinson è caratterizzata da tre sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza
dei movimenti (bradicinesia) ai quali si associano disturbi di equilibrio, atteggiamento
curvo, impaccio all’andatura, e molti altri sintomi definiti secondari perché sono meno
specifici e non sono determinanti per porre una diagnosi. All’inizio i pazienti riferiscono una
sensazione di debolezza, di impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti, che riescono
a compiere stancandosi però più facilmente, in genere non si associa una sensazione di
perdita di forza muscolare. Ci si accorge poi di una maggior difficoltà a cominciare e a
portare a termine i movimenti alla stessa velocità di prima come se il braccio interessato, o
la gamba, fossero “legati”, rigidi. La sensazione di essere più lenti e impacciati nei
movimenti è forse la caratteristica per cui più frequentemente viene richiesto il consulto
medico insieme all’altro sintomo principale, tipicamente associato a questa malattia e
anche il più evidente: il tremore.
Esso è spesso fra i primi sintomi riferiti della malattia; di solito è visibile alle mani, per lo
più esordisce da un solo lato e può interessare l’una o l’altra mano. Il tremore tipico si
definisce di riposo, si manifesta, ad esempio, quando la mano è abbandonata in grembo
oppure è lasciata pendere lungo il corpo.
Non è però un sintomo indispensabile per la diagnosi di Parkinson, infatti non tutti i malati
di Parkinson sperimentano tremore nella loro storia e, d’altra parte non tutti i tremori
identificano una malattia di Parkinson.
Altri disturbi per i quali frequentemente un malato di Parkinson si rivolge inizialmente al
medico possono essere alterazioni della grafia che diventa diversa da quella consueta e
mano a mano che si procede nello scrivere diventa sempre più piccola, oppure alterazioni
della voce che a un ascoltatore abituale, quale è un parente, appare cambiata e viene
descritta come flebile e monotona; inoltre lo stesso parente si può accorgere di una
variazione dell’espressione del volto: la cosiddetta “facies figee” cioè un viso più fisso e
meno espressivo.
Tutti questi sintomi, ma in particolare il tremore, possono essere resi evidenti o
temporaneamente aggravati da eventi stressanti.
I SINTOMI PRINCIPALI
Tremore Oscillazione lenta (cinque-sei volte al secondo) con un atteggiamento, delle
mani, come di chi conta cartamoneta. Generalmente inizia in una mano e dopo un tempo
variabile coinvolge anche l’altro lato; possono tremare anche i piedi, quasi sempre in modo
più evidente dal lato in cui è iniziata la malattia e anche labbra e mandibola, assai più
raramente il collo e la testa. È presente a riposo e si riduce o scompare appena si esegue
un movimento finalizzato, ad esempio sollevare un bicchiere per bere. Risente molto dello
stato emotivo del soggetto per cui aumenta in condizioni di emozione, mentre si riduce in
condizioni di tranquillità. Un altro tipo di tremore spesso riferito dai malati di Parkinson è il
“tremore interno”; questa sensazione è avvertita dal paziente ma non è visibile all’esterno;
fa parte di una serie di sintomi fastidiosi, non pericolosi.
Disturbo del cammino Dapprima si nota una riduzione del movimento di
accompagnamento delle braccia, più accentuato da un lato, successivamente i passi
possono farsi più brevi, talvolta si presenta quella che viene chiamata “festinazione”, cioè il
paziente piega il busto in avanti e tende ad accelerare il passo come se inseguisse il
proprio baricentro. Negli stadi avanzati della malattia possono verificarsi episodi di blocco
motorio improvviso (“freezing”, come un congelamento delle gambe) in cui i piedi del
soggetto sembrano incollati al pavimento. Il fenomeno di solito si verifica nelle strettoie
oppure all’inizio della marcia o nei cambi di direzione. Questa difficoltà può essere
superata adottando alcuni accorgimenti quali alzare le ginocchia come per marciare,
oppure considerando le linee del pavimento come ostacoli da superare o anche con un
ritmo verbale come quello che si utilizza durante la marcia militare.
Lentezza dei movimenti (bradicinesia) Impaccio nei movimenti che determina un
rallentamento nell’esecuzione dei gesti. Si evidenzia facendo compiere al soggetto dei
movimenti di fine manualità che risultano più impacciati, meno ampi e più rapidamente
esauribili per cui, con la ripetizione, diventano quasi impercettibili. Segno di bradicinesia
sono anche le difficoltà nei passaggi da una posizione a un’altra, quali ad esempio
scendere dall’automobile o girarsi nel letto o anche nel vestirsi come indossare la giacca o
il cappotto. Conseguenza di bradicinesia è anche la ridotta espressività del volto dovuta a
una riduzione della mimica spontanea che normalmente accompagna le variazioni di stato
d’animo e anche una modificazione della grafia che diventa piccola (micrografia).
Rigidità È un termine che sta ad indicare un aumento del tono muscolare a riposo o
durante il movimento. Può essere presente agli arti, al collo e al tronco. La riduzione
dell’oscillazione pendolare degli arti superiori durante il cammino è un segno di rigidità
associata a lentezza dei movimenti.
Postura
L’alterazione della postura determina un atteggiamento curvo: il malato si pone come
“ripiegato” su sé stesso per cui il tronco è flesso in avanti, le braccia mantenute vicino al
tronco e piegate, le ginocchia pure mantenute piegate. Questo atteggiamento, dovuto al
sommarsi di bradicinesia e rigidità, è ben correggibile coi farmaci.
Con l’avanzare della malattia si instaura una curvatura del collo e della schiena, che può
diventare definitiva.
Disturbi di equilibrio Si presentano più tardivamente nel corso della malattia; sono
indubbiamente i sintomi meno favorevoli. Il disturbo di equilibrio è essenzialmente dovuto
ad una riduzione dei riflessi di raddrizzamento per cui il soggetto non è più in grado di
correggere spontaneamente eventuali squilibri, si ricerca verificando la capacità di
correggere una spinta all’indietro. L’incapacità a mantenere una postura eretta e a
correggere le variazioni di equilibrio può provocare cadute che possono avvenire in tutte le
direzioni anche se, più frequentemente, il paziente tende a cadere in avanti. Il sintomo
risponde solo limitatamente alla terapia.
LA SINDROME DI DOWN
La sindrome di Down è un’anomalia cromosomica che si manifesta attraverso diversi
sintomi congeniti: le persone affette sono caratterizzate da una copia in eccesso del
cromosoma 21 e possono manifestare sintomi fisici e disabilità intellettive. Tutti i casi
diagnosticati presentano un ritardo cognitivo, ma il grado di disabilità è molto variabile tra
gli individui affetti, con la maggior parte che rientra nella gamma di “poco” o
“moderatamente disabili”.
Purtroppo i soggetti Down spesso sono affetti da altri problemi di salute, come ad esempio
malformazioni cardiache,
difetti dell’udito,
disturbi intestinali,
alterazioni tiroidee,
disturbi scheletrici,
disturbi agli occhi.
La gravità di questi problemi varia considerevolmente a seconda dell’individuo.
La sindrome è la più comune anomalia cromosomica nell’uomo e il rischio di concepire un
bimbo Down aumenta proporzionalmente all’età della madre. La diagnosi può avvenire al
momento della nascita o anche prima, attraverso lo screening prenatale.
Questa sindrome non può essere curata, anche se un approccio integrato impostato fin
dai primi mesi di vita permette di favorire un buon sviluppo delle capacità di base,
permettendo di condurre una vita serena e produttiva.
Negli ultimi decenni l’aspettativa di vita è aumentata significativamente, passando dai 25
anni del 1983 ai 60 e più attuali.
CAUSE
La sindrome di Down è causata da un errore casuale nella divisione cellulare che si
verifica durante lo sviluppo delle cellule riproduttive (gameti) e che comporta la presenza
di una copia extra del cromosoma 21.
L’essere umano normalmente mostra 23 coppie di cromosomi, ossia 46 in tutto, ereditati
rispettivamente per metà dalla madre e per metà dal padre; in alcuni casi si verifica un
problema prima della fecondazione. L’ovulo materno o lo spermatozoo paterno si possono
dividere in modo non corretto, arrivando a portare un cromosoma 21 in eccesso.
Quando queste cellule si uniscono con uno spermatozoo o un ovulo normale l’embrione
risultante avrà quindi 47 cromosomi, anziché 46, e questo tipo di errore nella divisione
cellulare è responsabile di circa il 95% dei casi di sindrome di Down (trisomia 21).
In circa il 90% dei casi l’errore si verifica a livello dell’ovulo materno, in circa il 4% dei casi
si verifica nello spermatozoo paterno, mentre nel restante 6% l’errore si verifica in una
fase successiva alla fecondazione.
Il risultato è, in ogni caso, che il bimbo avrà una quantità superiore di materiale genetico
rispetto a quello considerato normale nell’essere umano.
FATTORI DI RISCHIO
Ad oggi si ritiene che non esista alcun comportamento o fattore ambientale in grado di
favorire l’errore durante la divisione cellulare.
Grafico relativo all'aumento del rischio di concepire un bimbo con sindrome di Down in
base all'età della mamma.
Sono invece considerati fattori di rischio:
Età avanzata della mamma, il cui rischio relativo aumenta in particolar modo dai 35
anni in poi, passando da 1 bimbo ogni 350, a 1 su 30 all’età di 45 anni.
Una donna che abbia già dato alla luce un bimbo affetto dalla sindrome di Down è
associata a un aumento del rischio in caso di gravidanze successive.
Essere portatori della traslocazione genetica associata alla sindrome.
SINTOMI
I sintomi variano considerevolmente da un soggetto all’altro, così come i problemi che
possono trovarsi ad affrontare in diverse fasi della vita.
I bambini affetti da sindrome di Down manifestano tipicamente alcuni o tutti dei seguenti
segni fisici:
occhi inclinati verso l’alto,
viso piatto e largo,
orecchie piccole e leggermente piegate sulla sommità,
bocca piccola, con la lingua che sembra più grande del normale,
naso piccolo e camuso,
collo corto ed eccesso di pelle alla base,
mani e piedi piccoli,
tono muscolare ridotto,
testa, orecchie e bocca più piccole,
macchie bianche su occhio e iride,
mani corte,
singola piega trasversale palmare,
spazio eccessivo tra alluce e il secondo dito del piede,
obesità,
bassa statura, sia da piccoli sia da adulti.
Lo sviluppo fisico è in genere più lento rispetto ai coetanei, per esempio a causa del ridotto
tono muscolare possono imparare a girarsi, sedersi e camminare un po’ più avanti nel
tempo; nonostante queste difficoltà i bimbi affetti possono imparare comunque a
partecipare alle attività fisiche svolte con altri bambini.
DISABILITÀ INTELLETTIVA
La gravità della disabilità intellettiva varia considerevolmente: la maggior parte delle
persone down presenta una disabilità intellettiva lieve o moderata, che può manifestarsi
come:
ridotta soglia di attenzione,
scarsa capacità di giudizio,
comportamento impulsivo,
apprendimento lento,
ritardo nello sviluppo del linguaggio.
Con opportuni interventi solo pochi pazienti arrivano a presentare una disabilità intellettiva
grave.
Non è possibile prevedere lo sviluppo mentale basandosi soltanto sui suoi tratti somatici.
PERICOLI
Attualmente la prognosi per le persone affette da sindrome di Down è migliore rispetto a
qualche anno fa, poiché la maggior parte dei problemi di salute connessi alla sindrome di
Down può essere curata e guarita; ad oggi la speranza di vita ha raggiunto i 60 anni.
I pazienti corrono in ogni caso un rischio maggiore rispetto alla popolazione sana di
soffrire di uno o più dei problemi seguenti.
Malformazioni cardiache. Circa la metà dei bambini con sindrome di Down soffre di
malformazioni cardiache che possono portare allo sviluppo di pressione polmonare alta,
ridotta capacità del cuore di pompare efficacemente il sangue e altri problemi. Per questo
motivo è consigliabile sottoporre il bimbo a una valutazione cardiologica specializzata, che
preveda anche un ecocardiogramma. In alcuni casi la diagnosi può avvenire già durante la
gestazione, anche se gli esami svolti successivamente sono in genere più precisi e
affidabili. Alcuni difetti possono essere gestiti attraverso i farmaci, mentre in altri casi può
rendersi necessario l’intervento chirurgico.
Problemi di vista. Più del 60 per cento dei bambini con sindrome di Down soffre di
problemi oculistici, come lo strabismo (esotropia), la miopia, la presbiopia e la cataratta.
Per alleviare o risolvere queste patologie si può ricorrere agli occhiali, all’intervento
chirurgico o ad altre terapie. I bambini dovrebbero essere visitati da un’oculista pediatrico
entro i sei mesi di vita e dovrebbero fare visite oculistiche regolari.
Sordità e problemi d’udito. Una percentuale compresa tra il 70 e il 75% circa dei bambini
con sindrome di Down ha problemi d’udito più o meno gravi, che rendono necessarie
periodiche visite di controllo oltre a quella effettuata alla nascita. Molti difetti possono
essere corretti, ma è necessario prestare grande attenzione alle infezioni (otiti) cui sono
più soggetti e che possono causare danni permanenti.
Infezioni. Molti bambini manifestano un sistema immunitario più debole, che può favorire la
comparsa di frequenti episodi di raffreddori e di infezioni alle orecchie, nonché di bronchiti
e polmoniti. I bambini down dovrebbero ricevere tutte le vaccinazioni indicate per l’età
pediatrica, che contribuiscono a prevenire alcune di queste infezioni.
Ipotonia muscolare. Una riduzione del tono e della forza muscolare sono spesso causa di
ritardo nell’apprendimento delle capacità motorie di base; in alcuni casi può essere
consigliabile il ricorso ad apposite integrazioni nutrizionali per favorire lo sviluppo
muscolare.
Disturbi della memoria. Le persone affette da sindrome di Down corrono un rischio
maggiore di ammalarsi di Alzheimer, una patologia caratterizzata dalla perdita progressiva
della memoria, da alterazioni della personalità e da altri disturbi. Gli adulti down tendono
ad ammalarsi di Alzheimer prima delle persone sane. Le ricerche indicano che circa il 25
per cento degli adulti down di età superiore ai 35 anni presenta i sintomi del morbo di
Alzheimer.
Sono inoltre più frequenti casi di:
disturbi del sonno e episodi di sindrome delle apnee notturne,
problemi orali (denti e gengive).
epilessia.
celiachia.
Alcune persone Down probabilmente soffrono di diversi di questi problemi, mentre altre
possono non averne nessuno; anche la gravità dei disturbi varia considerevolmente da
persona a persona.
Integrazione
I bambini di norma riescono a fare la maggior parte delle cose che i loro coetanei sono in
grado di fare:
camminano,
parlano,
si vestono da soli,
imparano ad andare in bagno da soli.
Tuttavia, generalmente, iniziano a imparare con un po’ di ritardo rispetto agli altri bambini.
L’età esatta in cui i bambini raggiungeranno questi traguardi di autonomia non può essere
prevista con esattezza, ma con un intervento precoce e mirato che inizi già dalla prima
infanzia potranno diventare autonomi prima.
I bambini con sindrome di Down possono andare a scuola?
Esistono programmi speciali che, già in età prescolare, aiutano i bambini a sviluppare le
loro abilità nella maniera più completa possibile. Oltre a trarre benefici da questi interventi
e dall’educazione differenziata, molti bambini con sindrome di Down vanno a scuola
insieme ai loro coetanei sani. Molti bambini imparano a leggere e a scrivere: alcuni
frequentano la scuola superiore e proseguono con l’università. Molti sono perfettamente
integrati nelle varie attività scolastiche ed extrascolastiche.
Gli adulti con sindrome di Down sono in grado di lavorare, sia seguendo un programma
lavorativo speciale, sia facendo un lavoro “normale”.
Un numero sempre maggiore di adulti con sindrome di Down vive in modo
semindipendente all’interno di strutture residenziali: riesce a prendersi cura di sé, sbriga le
faccende domestiche, stringe amicizie, partecipa ad attività nel tempo libero e lavora nella
comunità.
DIAGNOSI
La diagnosi può avvenire prima della nascita o al momento del parto.
Durante la gestazione è possibile giungere alla diagnosi di sindrome di Down attraverso
due possibili test.
SCREENING PRENATALE
Sono disponibili diversi esami, come il bi-test, in grado di calcolare una stima del rischio
che il bimbo/a sia affetto da sindrome di Down, ma senza fornire la certezza della
diagnosi.
Lo screening può consistere in un esame del sangue della madre, eseguito nel primo
trimestre (tra l’undicesima e la tredicesima settimana) e in una speciale ecografia che
misura lo spessore della nuca del bambino (translucenza nucale).
Nel caso in cui emerga un aumento significativo del rischio la paziente potrà decidere di
sottoporsi a un vero e proprio test diagnostico.
Cura e terapia
Un intervento tempestivo attraverso attente e adeguate terapie riabilitative fisiche e
mentali permette di aumentare significativamente la possibilità di un soddisfacente
inserimento sociale, scolastico e lavorativo, con la possibilità di sviluppare una qualità di
vita elevata.
Gli interventi possono consistere in:
Terapia fisica, in grado di favorire un buon sviluppo fisico e motorio, aumentano
anche tono e forza muscolare, postura ed equilibrio. Questo supporto è
particolarmente importante in età pediatrica.
Terapia logopedica, che può aiutare il bimbo affetto dalla sindrome a migliorare la
propria capacità comunicativa, utilizzando il linguaggio in modo più efficace.
Terapia occupazionale, che mira a sviluppare e mantenere le competenze
necessaria nella vita quotidiana, scolastica e lavorativa.
Terapia comportamentale, per aiutare a prevenire emozioni negative come la
frustrazione dovuta all’incapacità di comunicare adeguatamente; questo approccio
permette loro di imparare a gestire l’impulsività e i comportamenti compulsivi,
favorendo al contempo lo sviluppo di qualità e capacità proprie di ogni soggetto.
L’età esatta in cui i bambini raggiungeranno questi traguardi di autonomia non può essere
prevista con esattezza, ma con un intervento precoce e mirato che inizi già dalla prima
infanzia potranno diventare autonomi prima.
I RIFIUTI SANITARI
I rifiuti sanitari possono essere classificati come:
i rifiuti sanitari non pericolosi: sono i rifiuti costituiti da materiale metallico non
ingombrante, da materiale metallico ingombrante, vetro per farmaci e soluzioni privi
di deflussori e aghi, gessi ortopedici, i farmaci scaduti ed i rifiuti provenienti dai
laboratori dei servizi sanitari che non presentano caratteristiche di pericolosità.
i rifiuti sanitari assimilati ai rifiuti urbani: rifiuti derivanti dalla preparazione dei pasti
provenienti dalle cucine delle strutture sanitarie, residui di pasti provenienti dai
reparti di degenza, vetro, carta, cartone, imballaggi, materiali ingombranti,
spazzatura, rifiuti provenienti da attività di giardinaggio effettuato nelle strutture
sanitarie, pannolini, pannoloni, assorbenti igienici. I contenitori per la loro raccolta
devono essere riutilizzabili e di dimensioni adeguate alla quantità di rifiuti da
smaltire.
i rifiuti sanitari pericolosi non a rischio infettivo: medicinali citotossici e citostatici,
sostanze chimiche di scarto, soluzioni fissative, batterie esauste, rifiuti taglienti o
acuminati non utilizzati. Il contenitore per la loro raccolta deve possedere
imboccatura larga per favorire il travaso, essere composto di materiale plastico non
riutilizzabile con chiusura ermetica.
i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo: tutti i rifiuti che provengono da ambienti
di isolamento infettivo e che siano venuti a contatto con qualsiasi liquido biologico
del paziente, rifiuti provenienti da attività veterinaria che siano contaminati da
patogeni considerati pericolosi per l’uomo o gli animali. Devono essere gettati in un
contenitore con sacco interno e contenitore rigido esterno.
Taglienti: per la loro capacità di ledere la cute integra, presentano un rischio
permanente di veicolare infezioni nei soggetti che li manipolano anche se non sono
visibilmente contaminati da sangue o altri liquidi biologici.
Assicurare il trasporto del materiale biologico sanitario secondo protocolli stabiliti: le attività
di trasporto di materiale biologico e sanitario devono essere eseguite garantendo la
sicurezza del personale coinvolto nelle varie fasi, impedendo la dispersione di agenti
infettanti nell’ambiente e facendo sì che il materiale giunga a destinazione nei tempi e
nelle condizioni ottimali affinché possa essere analizzato, il tutto rispettando la privacy del
paziente.
Per il trasporto di materiale potenzialmente infettivo è previsto un confezionamento con
sistema a 3 involucri:
Recipiente primario: contiene il campione o la sostanza infetta. Può trattarsi di
provette, ampolle, tubi. Questi devono essere a tenuta stagna, con chiusura
ermetica ed etichettato.
Recipiente secondario: contenitore di materiale resistente e impermeabile, con
chiusura ermetica, adatto a contenere e proteggere il recipiente primario. Al suo
esterno devono essere contenute le schede riportanti i dati identificativi e descrittivi
del contenuto.
Recipiente esterno: è il contenitore più esterno, in cui collocare il recipiente
secondario per evitare danni dovuti da agenti esterni. Può essere di cartone rigido,
plastica o altri materiali resistenti alle intemperie.
Il volume totale del materiale da spedire, se infettivo, non può essere superiore a 500 ml.
Se invece il materiale non è infettivo, il volume totale può anche superare i 500 ml fino ad
un limite di 4 L, ma tra un contenitore e l’altro deve essere interposto del materiale
assorbente, in caso di fuoriuscita di liquidi.
Laddove nella spedizione venga utilizzato ghiaccio, questo deve essere posto all’interno
del contenitore secondario e bisogna prestare attenzione che tutti i contenitori siano
impermeabili e a tenuta stagna. Se invece è utilizzato il ghiaccio secco, esso non va posto
nel contenitore secondario per il rischio di esplosione, ma va posto in un contenitore che
permetta il passaggio di CO2.
Ha lo scopo di:
Prevenire le infezioni ospedaliere;
Distruggere rapidamente tutta la flora occasionale e di ridurre la carica microbica
della flora residente.
Materiale occorrente:
detergente antisettico;
iodio povidone o clorexidina;
salviette di carta.
La procedura va fatta partendo dalle zone che necessitano meno dell'intervento fino ad
arrivare a quelle più interessate. Questa la sequenza generale delle operazioni:
- le aperture della stanza e creare un ambiente adeguato al rispetto della privacy del
paziente
- lavarsi le mani
- predisporre il materiale da utilizzare
- indossare i guanti
- sistemare il letto
- svestire completamente il paziente e coprirlo con un lenzuolo
Si passa così alla pulizia delle varie parti del corpo.
IL BAGNO
Il bagno a letto riguarda il paziente non autonomo, e il personale nell’eseguire questo
intervento dovrebbe usare sempre la stessa procedura (sequenza di movimenti per
rassicurare il paziente e consentirgli di parteciparvi).
Si procede sempre dall’alto verso il basso: viso e bocca, busto, braccia, mani e schiena
(se il malato può sedersi o girarsi), gambe, piedi, regione intima; eseguendo dei movimenti
lunghi sul corpo. Nella regione intima si procede dalla parte anteriore verso quella
posteriore. Per la pulizia degli occhi, dalla parte interna verso quella esterna.
Procedura:
- togliere i cuscini di posizionamento, piegare il lenzuolo superiore fino alla vita del
malato;
- aprire la camicia, levare le braccia dalle maniche e lasciare la camicia sul petto;
- coprire con l’asciugamano e/o traversa monouso (piegato in diagonale);
- lavare ed asciugare la faccia;
- arrotolare la camicia fino alla vita e coprire il petto con l’asciugamano;
- lavare ed asciugare il collo, il petto e le ascelle;
- mettere la camicia pulita sulla parte già lavata e l’asciugamano e/o traversa
monouso sotto il braccio ancora da lavare;
- lavare ed asciugare separatamente ogni braccio e le mani;
- infilare le braccia nelle maniche;
- per lavare la schiena, il malato si siederà o si girerà (lavare la schiena in tutta la
sua larghezza);
- coprire il paziente e piegare in tre il lenzuolo di sopra;
- mettere l’asciugamano “intimo” e/o la traversa monouso sotto la gamba da lavare;
- lavare separatamente ed asciugare bene ogni gamba, iniziando dalle dita del piede
oppure fare il pediluvio.
- Coprire le gambe con il lenzuolo;
- Mettere l’asciugamano “intimo” sulla zona dei genitali;
- Arrotolare la camicia all’interno fin sotto il petto;
- Lavare ed asciugare l’addome rispettando l’intimità del paziente;
- Procedere al lavaggio intimo;
- Sistemare la camicia ed il letto; correggere eventualmente la posizione del
paziente;
Procedura:
- informare il paziente sulla procedura che si sta per effettuare, garantire la privacy;
- posizionare il paziente in modo idoneo e confortevole;
- bagnare un tampone di garza (sterile) con acqua (sterile);
- rimuovere le secrezioni andando dall’angolo palpebrale interno verso quello
esterno;
- assolutamente non utilizzare lo stesso tampone per entrambi gli occhi;
- non utilizzare lo stesso tampone per più di un passaggio;
- riposizionare il paziente in modo confortevole;
- riordinare e riporre il materiale.
PARAMETRI VITALI
La rilevazione dei parametri vitali è un momento importante in cui l’operatore socio
sanitario partecipa attivamente; i segni vitali fanno parte della serie di dati raccolti dagli
operatori durante il monitoraggio dei pazienti che per vari motivi necessitano di un
continuo aggiornamento dei parametri, essi rappresentano una modalità veloce ed
efficace per valutare le condizioni del paziente ed identificare la presenza di problemi o la
risposta del paziente ad alcuni interventi.
Di solito i parametri vitali più rilevati e utili sono:
Pressione arteriosa;
Frequenza respiratoria;
Frequenza cardiaca;
Temperatura corporea.
Ovviamente per rendere una condizione clinica più specifica è necessario ricordare altri
parametri che sono:
Pulsossimetria;
Dolore;
Stato di cute e mucose (colore).
PRESSIONE ARTERIOSA
La pressione arteriosa è la pressione del sangue arterioso, intesa come l'intensità della
forza che il sangue esercita su una parete del vaso; essa è misurata in millimetri di
mercurio (mmHg).
La pressione arteriosa segnando i valori della forza che esercita il sangue in un vaso, ci dà
indicazione del funzionamento del cuore, di conseguenza distingueremo una pressione
sistolica e una pressione diastolica.
La pressione sistolica (o più comunemente conosciuta “massima”) indica il valore
pressorio durante la sistole ventricolare, ovvero durante la contrazione dei ventricoli.
La pressione diastolica (o più comunemente conosciuta “minima”) indica il valore pressorio
durante la diastole ventricolare, ovvero durante la fase di rilassamento dei ventricoli.
Una pressione ottimale si aggira tra i 120 mmHg per la pressione sistolica e gli 80 mmHg
per la pressione diastolica.
Nel caso in cui i valori della pressione siano maggiori dei 120/80 mmHg allora si parla di
ipertensione arteriosa, di cui ne esistono vari gradi; se invece i valori sono minori di quelli
considerati normali allora si parlerà di ipotensione arteriosa.
Gli strumenti necessari per la misurazione della pressione sono: il fonendoscopio e lo
sfigmomanometro.
La misurazione viene effettuata applicando il manicotto di gomma al braccio del paziente,
tra l’ascella e la piega del gomito. All’altezza di quest’ultima, dove si apprezza la
pulsazione dell’arteria del braccio (arteria brachiale) si posiziona la campana del
fonendoscopio, cioè dello strumento destinato a raccogliere e trasmettere all’orecchio i
rumori generati dal passaggio di sangue nell’arteria stessa. Contemporaneamente si palpa
il polso dal lato del pollice, per percepire la pulsazione dell’arteria radiale.
Si inizia la misurazione gonfiando il bracciale di gomma con la pompetta ad esso collegata
(mentre ciò avviene, la lancetta sale all’interno del quadrante) e arrivando fino al punto in
cui la pulsazione dell’arteria del polso scompare ed il fonendoscopio non trasmette più
alcun rumore; a questo punto si insuffla ancora un po’ di aria nel bracciale, superando di
circa 20 mmHg il punto in cui il polso radiale è scomparso. Ora, agendo sulla piccola
valvola presente sulla pompetta, si fa uscire molto lentamente l’aria dal bracciale. Quando
la pressione dell’aria nel bracciale sarà uguale a quella arteriosa, un po’ di sangue riuscirà
a passare nell’arteria producendo un rumore: il primo rumore udito chiaramente
corrisponderà alla pressione sistolica (detta anche massima). Riducendo ulteriormente la
pressione i rumori diventeranno inizialmente più intensi, quindi via via più deboli: la
completa scomparsa dei rumori corrisponderà alla pressione diastolica (detta anche
minima).
FREQUENZA CARDIACA
La frequenza cardiaca è il numero di battiti del cuore al minuto (bpm). A riposo la
frequenza cardiaca di un essere umano adulto varia tra 60 – 80 battiti al minuto, mentre
nei neonati la frequenza a riposo è di circa 100-120 bpm. Quando la frequenza cardiaca in
un adulto a riposo arriva ai 100 bpm si parla di tachicardia, mentre quando la frequenza è
al di sotto degli 60 bpm si parla di bradicardia.
La frequenza cardiaca viene misurata generalmente reperendo un polso arterioso che può
essere quello carotideo ma anche radiale, più raramente quello femorale.
FREQUENZA RESPIRATORIA
La frequenza respiratoria indica il numero di atti respiratori compiuti in un minuto. Ogni atto
respiratorio, meglio sarebbe classificarlo come atto ventilatorio, è composto da:
Fase inspiratoria, è generata dall'attività dei muscoli respiratori che partecipano
all'espansione della gabbia toracica;
Fase espiratoria, è normalmente, passiva lasciando che la gabbia toracica ritorni
alle dimensioni di partenza grazie all'energia elastica accumulata durante
l'inspirazione.
Il numero di atti respiratori in una persona sana è correlato sia all'età, sia all'eventuale
attività fisica svolta nel momento della misurazione.
La frequenza respiratoria è strettamente legata alla frequenza cardiaca, se essa sale, per
un'intensa attività fisica del soggetto, anche la frequenza respiratoria sale per aumentare
la ventilazione polmonare e soddisfare il fabbisogno di ossigeno e facilitare l'espulsione
del biossido di carbonio. Al contrario un soggetto in apnea registrerà un abbassamento
della frequenza cardiaca.
Fisiologicamente un adulto sano compie circa 12/20 atti al minuto, se il valore supera questo
parametro si parlerà di tachipnea; al contrario se il valore è al di sotto di 12 si parlerà di
bradipnea.
TEMPERATURA CORPOREA
Nell'uomo, la temperatura corporea media viene generalmente fissata, per convenzione a
37° C. Si tratta comunque di un valore approssimativo, dal momento che la temperatura
può variare sensibilmente da individuo a individuo, ma anche nello stesso soggetto.
Tra le principali cause di termogenesi (produzione di calore) ricordiamo il metabolismo
basale, l'azione dinamico specifica degli alimenti, l'attività muscolare e lo stress emotivo.
La dispersione del calore avviene tramite la sudorazione, la respirazione e il
condizionamento dell'ambiente.
Quando la temperatura aumenta al disopra dei 37° C si parla di ipertermia, quando invece
scende sotto i 35° C allora si parla di ipotermia.
La rilevazione della temperatura avviene mediante l’uso di termometri digitali e le sedi di
rilevazione sono molteplici, le più usate sono quella ascellare, rettale e orale. Esistono
anche termometri digitali in grado di rilevare la temperatura sfiorando la fronte.
PULSOSSIMETRIA
Per valutare se un paziente è ossigenato al meglio, l’operatore sanitario rileva la
percentuale di emoglobina legata ad ossigeno presente nel sangue (Sp02 o
pulsossimetria), attraverso l’utilizzo del saturimetro. Il saturimetro è un dispositivo non
invasivo che permette di dare indicazioni riguardo lo stato di ossigenazione del paziente;
non indica a quale gas è legata l’emoglobina, ma solo in che percentuale è legata all’O2. È
composto da una sonda che effettua la misurazione e da un'unità che calcola e visualizza
il risultato della misurazione.
La sonda di un normale saturimetro è costituita da una "pinza" che viene applicata, in
genere, all'ultima falange di un dito del paziente, o, in alcuni casi, al lobo dell'orecchio
(esistono diversi modelli di sonda in base al reparto o all’età del paziente).
Questo strumento permette di visualizzare la saturazione (Sp02) e la frequenza cardiaca.
Esistono delle condizioni in cui le misurazioni non risultano essere attendibili, per tale
motivo l’operatore sanitario deve tenere conto:
dell’eventuale presenza di smalto sull’unghia dell’assistito, perché scherma la
sonda;
della temperatura del corpo e quindi della falange prescelta, perché in caso di
ipotermia si riduce la lettura (in tal caso riscaldare la zona o cambiare sede);
dei movimenti che la persona può effettuare durante la misurazione e che
potrebbero creare false misurazioni.
DOLORE
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito tra i parametri vitali anche il dolore, per
cui l’operatore sanitario dovrà essere capace di identificare l’intensità del dolore, e lo può
fare utilizzando una scala. La scala più usata è la VNS o scala di valutazione numerica.
Al paziente viene chiesto di descrivere con un numero l’intensità del dolore provato, dove
0 sta per nessun dolore e 10 il massimo dolore. Questa scala può presentare però dei
limiti perché a volte risulta difficile trasformare la sensazione dolorosa in un numero.
Il dolore influenza i parametri vitali come la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la
frequenza respiratoria e in base alla corretta descrizione identifica e/o provoca
l’alterazione di un bisogno, la complicanza immediata o a lungo termine di un trattamento,
l’insorgenza di una patologia acuta o cronica, per cui è necessario identificarlo e trattarlo in
base alla gravità.
DISFAGIA
Condizione caratterizzata da deficit della masticazione (es. anziani, anoressici) e in
pazienti che presentano problemi meccanici o funzionali di deglutizione. Per tali pazienti è
necessario prevedere una progressione di cibi basata sulla capacità masticatoria e
deglutitoria. La scelta degli alimenti, dipendente dal tipo e dal grado di disfagia, deve
essere guidata principalmente dai seguenti criteri: sicurezza del paziente, limitando il
rischio di aspirazione (passaggio di cibo nelle vie aree) attraverso la scelta di alimenti con
idonee proprietà fisiche (densità, omogeneità, viscosità).
PATOLOGIE INTESTINALI
Nelle patologie intestinali bisogna evitare alimenti che possono provocare l’irritazione della
mucosa intestinale, come cibi contenenti molta fibra, spezie e cibi cucinati in modo
elaborato, alcol e bevande gassate, latte e derivati. Si consiglia di mangiare lentamente e
masticare bene. In caso di diverticolosi evitare cibi con piccoli semi (more, fragole, kiwi,
pop-corn, melanzane, cetrioli).
EPATOPATIE
Nei pazienti epatopatici bisogna:
- Escludere alcol;
- Evitare grassi saturi (panna, insaccati, maionese, creme);
- Evitare cotture elaborate e fritti;
- Evitare le uova;
- Favorire amidi (riso, pasta, patate) e zuccheri semplici (frutta e succhi di frutta);
- Ridurre la quota di sale e alimenti che lo contengono (soprattutto in presenza di
ascite).
PATOLOGIE RENALI
In pazienti con patologie che alterano il funzionamento renale è necessario:
- Ridurre la quota di proteine preferendo quelle ad alto valore biologico;
- apporto di calorie;
- Controllo dell’assunzione di potassio (banane, kiwi, uva, melone, patate, legumi,
spinaci, carciofi ecc) le verdure vanno cotte in abbondante acqua per disperdere il
contenuto in potassio;
- Dove richiesto prodotti aproteici;
- Limitare il sale
È inoltre da tenere conto se il paziente è sotto terapia dialitica. In quel caso è
necessario:
- Apporto proteico non inferiore a 1-1,2 g per kg di peso;
- Limitare assunzione di liquidi e alimenti che li contengono;
- Buon apporto calorico;
- Limitare frutta e verdura per controllare l’apporto di potassio;
- Controllare l’apporto in fosforo (cacao, noci, parmigiano, salmone, fagioli secchi,
ecc).
La conservazione degli alimenti è l’insieme delle tecniche che servono a rallentare i
processi di alterazione a cui vanno incontro gli alimenti sia per effetto del tempo che
dell’ambiente esterno, mantenendone inalterate le proprietà nutritive ed organolettiche.
Esse consentono di conservare gli alimenti in luoghi diversi da quelli di produzione e in
stagioni differenti da quelle di raccolta mediante metodi di conservazione basati sulla
creazione di un ambiente sfavorevole per lo sviluppo e l’attività di microrganismi patogeni
e deterioranti come batteri, virus, funghi e alghe.
I trattamenti utilizzati tendono a conservare la salubrità e l’integrità degli alimenti, con
azioni di tipo termico, chimico o fisico.
Le malattie alimentari da microrganismi patogeni sono stati patologici che si manifestano
in conseguenza al consumo di alimenti che possono contenere un microrganismo
patogeno o una tossina di origine batterica.
Le malattie alimentari possono distinguersi in:
- Infezioni alimentari: causate dalla presenza batteri vivi e vitali presenti all’interno di
un alimento in grado di superare la barriera gastrica del consumatore e di arrivare
all’intestino. I microrganismi invasivi possono provocare infiammazioni localizzate
oppure infezioni sistemiche generalizzate, caratterizzate da diffusione per via
ematica, febbre e formazione di anticorpi.
- Tossinfezioni (o intossicazioni) alimentari: si manifestano dopo un breve periodo di
incubazione. Le manifestazioni cliniche sono a carico dell’apparato digerente con
vomito, diarrea, nausea, dolori addominali. Si manifesta quando una certa quantità
di microrganismi penetra nell’organismo superando le barriere difensive.
La contaminazione dei cibi può avvenire in diversi modi; le infezioni infatti possono essere
trasmesse al cibo, da parte degli operatori, anche durante le fasi di manipolazione e
preparazione degli alimenti.
Le malattie si manifestano a seguito di ingestione di alimenti contaminati da microrganismi
e danno solitamente problemi gastroenterici come vomito, nausea e diarrea. Si
manifestano soprattutto nei soggetti più sensibili come bambini e anziani.
I principali patogeni responsabili delle tossinfezioni sono:
- Salmonella: trasmessa per via oro-fecale attraverso l’ingestione di cibi o acque
contaminate. Avendo periodo di incubazione molto breve, i sintomi possono
manifestarsi anche dopo appena 12 ore.; essi sono nausea, dolore addominale,
vomito, diarrea, febbre, malessere generale. Tale patologia ha decorso breve e
termina con la guarigione.
- Clostridium: causa disordine intestinale caratterizzato da esordio brusco, con colica
e diarrea. Si tratta di una malattia di breve durata, circa 1 giorno. Ha periodo di
incubazione tra le 6 e le 24 ore. La sua trasmissione è dovuta dall’ingestione di cibo
contaminato da terriccio o feci.
- Staphylococcus aureus: la condizione si manifesta in tempi molto brevi, in quanto il
periodo di incubazione è tra i 30 minuti e le 3 ore. Sintomo principale è il vomito. Le
manifestazioni cliniche solitamente regrediscono entro le 24-48 ore. Per trattamento
è sufficiente una terapia reidratante. La trasmissione avviene attraverso
l’assunzione di alimenti, solitamente quelli ricchi di nutrienti, paste farcite, gelati,
latte non pastorizzato conservato male, prodotti lattiero caseari contaminati.
- Escherichia coli: si manifesta con diarrea emorragica, dolori addominali intensi,
nausea, vomito. I sintomi si presentano dopo circa 3 giorni dall’assunzione
dell’alimento contaminato e durano per circa una settimana. È trasmessa per via
oro-fecale, soprattutto attraverso l’assunzione di carne di manzo cruda o poco
cotta. Altri vettori sono i formaggi molli, latte crudo, verdure contaminate, carne
pronta al consumo.
- Brucellosi: colpisce principalmente gli animali, causando mastite bovina e aborto.
Le infezioni nell’uomo sono conseguenti all’esposizione ad animali infetti e
all’ingestione di latte e latticini non pastorizzati. I sintomi sono poco specifici e simili
a quelli dell’influenza; si manifestano dopo 2-4 settimane dall’infezione. Il
trattamento prevede la somministrazione di antibiotici.
IL LETTO OSPEDALIERO
Il letto del paziente deve essere ergonomico, consentire cioè il benessere e la sicurezza
del paziente e deve permettere agli operatori di lavorare in modo agevole.
Ma esiste un letto ideale? In ambito ospedaliero esistono tanti tipi di letto più o meno
complessi.
In linea di massima essi devono essere regolabili, avere un'altezza non inferiore a 150 mm
e permettere le manovre di pulizia e sanificazione.
I letti ospedalieri si possono dividere in cinque grandi gruppi: standard, articolati
meccanici, articolati idraulici, articolati elettrici e speciali. Vediamoli nel dettaglio:
- letti standard, ovviamente sono i più semplici. Sono fatti di metallo ed hanno una
pedaliera ed una testiera. Questa tipologia è ormai poco usata perché risulta poco
ergonomica.
- articolati meccanici, possono avere le ruote e sono molto usati in ambito
ospedaliero. Il piano di appoggio è sezionato in più parti e ciascuna di esse
azionata da una manovella si muove in maniera indipendente.
- articolati idraulici, simili ai precedenti e molto diffusi, ma il movimento delle sezioni
avviene attraverso martinetti idraulici. Questo attenua lo sforzo dell’operatore socio
sanitario durante le manovre.
- articolati elettrici, simili alle due tipologie precedenti. Le sezioni vengono
movimentate attraverso un congegno elettrico annullando del tutto per l'OSS il
rischio derivante da sforzi di movimentazione manuale di carichi.
- letti speciali, sono usati in reparti particolari come rianimazione. In genere sono più
stretti, hanno testiera e pedaliera amovibili e piano di appoggio rigido.
Esistono anche letti in grado di sopportare pressioni notevolissime.
Non esiste una misura del letto standard. In genere le misure dei letti moderni sono
lunghezza 200-220 cm, larghezza 90-110 cm. Quelli ultramoderni hanno il piano
allungabile.
PULIZIA QUOTIDIANA
- pulizia con detergente/disinfettante della testiera, pedaliera, sbarre laterali, maniglie
e porta accessori.
POSIZIONE SUPINA
È la posizione orizzontale assunta dal corpo quando è disteso su di un piano con il
volto rivolto verso l'alto. È una posizione di mantenimento del riposo, che trova
indicazioni in diverse condizioni cliniche, alternativa alle posizioni laterali, semi-seduta,
prona. Non è utilizzata per i pazienti con dispnea o rischio di aspirazione.
Allineamento posturale è indicato nelle persone prive di capacità motoria totalmente o
parzialmente:
o Porre un cuscino sotto la parte superiore delle spalle, il collo ed il capo. Porre piccoli
cuscini sotto le braccia poste in pronazione e parallele al corpo. Porre un rotolo di stoffa
nelle mani del paziente.
o Porre un rotolo a livello trocanterico.
o Un sostegno sotto la caviglia per sollevare il tallone dalla parte terminale del materasso.
o Porre una tavola da piedi o un cuscino morbido fra piedi e la pediera.
POSIZIONE SEDUTA
Paziente seduto sul letto con la testa elevata di 80-90°. È consigliata per i pazienti con
i problemi cardiaci, migliora la respirazione, agevola il mangiare, parlare, guardare la
televisione. Importante allineamento del corpo: le braccia vanno sostenute dai cuscini,
sotto le ginocchia è utile posizionare un rotolo o cuscino.
POSIZIONE LATERALE
Questa postura viene utilizzata per garantire un periodo di riposo alle zone cutanee
sottoposte a pressione mantenendo il decubito supino. Inoltre, permette una migliore
espansione della parte superiore dell'emitorace. Mobilizzazione del paziente dalla
posizione supina in posizione laterale sinistra:
Evitare il decubito laterale ad angolo retto sul trocantere. Fare assumere una postura
obliqua di 30°. Distendere la gamba che appoggia direttamente sul materasso. Il
braccio corrispondente alla gamba sarà flesso con il palmo della mano rivolto verso
l'alto. Flettere leggermente la gamba contro-laterale e farla appoggiare su un piccolo
cuscino. Flettere il braccio corrispondente e fare appoggiare il palmo della mano su un
piccolo cuscino.
Per i pazienti emiplegici il lato da usare deve essere indicato dal fisioterapista, in
quanto posizionare sul lato plegico da una parte è consigliato, perché aumenta la
percezione sensoriale, ma richiede maggior vigilanza e attenzione, d'altra parte è
sconsigliata, perché diminuisce la già scarsa ventilazione dell'emitorace e soprattutto,
perché tale lato è più suscettibile a sviluppare le lesioni.
Mobilizzazione del paziente dalla posizione supina in posizione laterale destra:
POSIZIONE PRONA
La posizione prona ha diversi vantaggi: è la sola posizione al letto che permette la
massima estensione delle articolazioni delle anche e delle ginocchia. Se usata
periodicamente, aiuta a prevenire le contratture dovute alla flessione delle anche e
delle ginocchia, causate da altre posizioni. Inoltre , facilita l'espulsione delle secrezioni
(drenaggio posturale) e dà un sollievo alle zone cutanee colpite dalle lesioni da
decubito.
E' la posizione orizzontale assunta dal corpo quando è disteso su un piano con
l'addome appoggiato su di esso. Evitare le frizioni fra la cute del paziente e il letto.
Voltare il capo da un lato e porlo su di un cuscino sottile per evitare il soffocamento, la
flessione e l'iperestensione delle vertebre cervicali. Il letto deve essere in posizione
orizzontale. Il paziente sul fianco va spostato dalla parte delle in cui sono volte le
spalle. Sempre aiutandosi con la traversa va girato sull'addome, avendo cura del
capo. Spesso si usano i rotoli di grandi volumi in modo longitudinale al corpo o
trasversali sotto le braccia. Come alternativa alla posizione prona, perché non è ben
tollerata da tutti pazienti, vi è la posizione semiprona.
POSIZIONE SEMIPRONA
Il paziente giace su un fianco con il peso distribuito verso l'osso iliaco anteriore,
l'omero e la clavicola. Il capo è ben sostenuto dal cuscino, per assicurare la comodità
al paziente e per mantenere in lateroflessione la colonna cervicale. Il tronco è ruotato
in avanti. Il braccio è sostenuto dal cuscino posto di fronte al paziente ad
un’elevazione di circa 90° con la scapola ben protratta, gomito leggermente flesso ed
avambraccio pronato. La gamba è leggermente flessa sia all’anca, che al ginocchio,
viene portato in avanti e completamente sostenuto da un cuscino facendo attenzione
al piede che non cada oltre il bordo del cuscino stesso.
o Bloccare le ginocchia del paziente con le proprie gambe e portarlo in alto verso di sé.
o Si fa appoggiare il braccio vicino alla carrozzina sul bracciolo più lontano dal letto (è
sempre corrispondente al braccio, cioè se il paziente usa il braccio sinistro, allora il
bracciolo è sinistro, la carrozzina è posta a sinistra del letto; se paziente usa il braccio
destro, il bracciolo da usare è destro, la carrozzina è a destra.)
o Il paziente è pronto per essere messo a letto, il lato sano verso il letto.
o Togliere il bracciolo del lato vicino al letto.
o Bloccare con le proprie ginocchia quelle del paziente, con il proprio braccio sostenere il
braccio malato del paziente, e portare il paziente verso di sé tenendo il busto eretto e la
pancia in dentro.
o Le gambe del paziente sono sempre bloccate e si porta il peso del paziente su di sé,
ma importante mantenere il busto eretto, la pancia in dentro poi…
o ...il paziente viene fatto girare verso il letto, le sue gambe sono sempre bloccate da
quelle vostre che accompagnano il movimento del paziente.
o Il paziente viene fatto sedere, le gambe sempre bloccate, il braccio malato viene
sostenuto.
o Il paziente mette la gamba sana sotto quella malata, con la mano sana si appoggia al
letto, Aiutare facendolo girare con una mano sotto la nuca e l’altra sotto le ginocchia, il
braccio malato del paziente è appoggiato sul petto.
Durante i trasferimenti, mobilizzazione fare attenzione alle ruote del letto, che devono
essere frenate, in posizione più bassa possibile, la carrozzina deve essere frenata con
il poggiapiedi sollevato
Nell’assistenza di un paziente con deambulazione difficoltosa deve assolutamente
tener conto delle caratteristiche individuali del soggetto e della patologia che può
presentare e deve necessariamente osservare alcuni requisiti:
o Assicurarsi che il paziente abbia capito cosa è stato richiesto di fare e il livello di
collaborazione che potrà offrire.
o Nell’assistere una persona malata, ricordarsi di utilizzare sempre calzature chiuse e
antiscivolo.
o Far indossare gli abiti non ingombranti ma comodi, con possibilità di prese di sicurezza
(i pantaloni di una tuta da ginnastica sono ideali, perché si può sostenere la parte
posteriore dell’elastico senza influenzare il soggetto durante il cammino)
o Prima di qualsiasi spostamento, ricordarsi di bloccare con gli appositi freni il letto, la
carrozzina o il sollevatore.
o Il percorso deve essere privo di ostacoli, non disomogeneo, non scivoloso, non esposto
a sbalzi di temperatura, al fine di garantire la sicurezza.
o Durante gli spostamenti del paziente, non ci si deve mai sbilanciare e si deve cercare di
mantenere un corretto assetto della colonna.
o Nel rotolamento sul fianco, il paziente deve essere afferrato all’altezza del bacino e
delle scapole per evitare danni al paziente e ridurre la fatica del caregiver.
o Non imporre mai al paziente la propria velocità di marcia, ma lasciare che sia il paziente
stesso a scandire il tempo.
o Farlo guardare diritto davanti a lui.
o Sostenere il malato a livello del braccio libero.
o Prevedere delle pause, e far sì che nelle vicinanze ci sia sempre un punto per riposarsi.
Non andare oltre le sue forze.
o Accertarsi sempre che in prossimità vi siano punti di appoggio nel caso vi siano
improvvisi malori.
o Quando è possibile, cercare la collaborazione del paziente. Nel passare dalla posizione
supina alla posizione seduta o in piedi, far indossare al paziente le ortesi
eventualmente previste (busti, collari ecc.).
o Far indossare SEMPRE al paziente calzature chiuse e mai pantofole o calze; piuttosto
effettuare lo spostamento a piedi nudi.
o Posizionarsi sempre correttamente nei confronti del paziente. Se è necessario,
utilizzare gli ausili in dotazione. Se il paziente è troppo pesante o non collabora, farsi
aiutare nello spostamento.
LESIONI DA PRESSIONE
Le lesioni da pressione (LdP), oggi non più chiamate piaghe da decubito anche al fine di
identificare il principale processo fisiopatologico che porta alla loro insorgenza, si
sviluppano generalmente in corrispondenza di sporgenze ossee e vengono classificate per
gradi o stadi al fine di distinguere il grado di danneggiamento osservato nel tessuto.
Una lesione da pressione è la conseguenza diretta di una elevata o prolungata
compressione, o di forze di taglio (o stiramento), causanti uno stress meccanico ai tessuti
e la strozzatura di vasi sanguigni. Essa è dovuta alla persistente pressione che provoca
una strozzatura dei vasi sanguigni, con conseguente necrosi tessutale; per questo è
classificata come lesione da pressione.
Queste lesioni spesso sono delle conseguenze dovute a una inadeguata assistenza in
ambito domiciliare per mancanza di conoscenze da parte degli assistenti sanitari o in
ambito ospedaliero da parte dei professionisti sanitari. Non attivare immediate tecniche di
prevenzione con utilizzo di moderni ausili antidecubito può provocare gravissime lesioni.
Fattori di rischio
I fattori che entrano in gioco nella formazione delle lesioni da pressione sono molteplici:
Allettamento e inadeguata mobilizzazione dei pazienti;
Sfregamento cutaneo;
Riduzione della sensibilità cutanea;
Piano di appoggio inadeguato;
Scarsa igiene dopo l’evacuazione;
Umidità della cute;
Malnutrizione;
Aumento della temperatura locale per l’utilizzo improprio di pannoloni e traverse.
Complicanze
Il paziente con LdP può andare incontro più frequentemente alle seguenti complicanze:
disidratazione, anemia, squilibri idroelettrolitici e deplezione proteica;
sepsi ed osteomielite (inerenti al III e IV stadio e nelle ulcere chiuse) che
rappresenta il 38% di causa di mortalità nelle persone anziane e nei portatori di
lesioni multiple;
infezioni: nel 30% dei casi si tratta di batteriemia.
Sedi di insorgenza
Le lesioni da pressione si possono sviluppare potenzialmente in tutti i punti di contatto del
corpo con il piano di appoggio: l’immobilità costituisce un fattore maggiormente
predisponente l’insorgenza.
Negli adulti i siti più comuni sono il sacro e il tallone; nei bambini e neonati l’area
maggiormente esposta è rappresentata dalla cute che ricopre l’osso occipitale.
Altre sedi predisposte al rischio di insorgenza di LdP sono:
ischio;
caviglia;
gomito;
anca.
Classificazione lesioni da
decubito
La stadiazione/classificazione per gradi implica una progressione della LdP da I a III o IV,
anche se ciò non succede sempre.
Stadio I: Cute intatta con eritema non sbiancante di un’area localizzata generalmente in
corrispondenza di una sporgenza ossea. L’area può essere dolorosa, solida, morbida, più
calda o più fredda rispetto al tessuto adiacente. L’arrossamento non scompare alla digito-
pressione.
Stadio II (Perdita di cutanea a spessore parziale): Perdita di spessore parziale del derma
che si presenta come un’ulcera aperta superficiale con un letto della ferita rosso-rosa,
senza tessuto devitalizzato. Può anche presentarsi come una vescica intatta o aperta/rotta
piena di siero.
Stadio III (Perdita di cute a tutto spessore): Il tessuto adiposo sottocutaneo può essere
visibile, ma l’osso, il tendine o il muscolo non sono esposti. Le ossa/tendini non sono
visibili o direttamente palpabili. Può includere tratti sottominati e tunnellizzazione.
Stadio IV (Perdita tessutale a tutto spessore): Perdita di tessuto a tutto spessore con
esposizione di osso, tendine e muscolo. Potrebbe essere presente l’escara (porzione di
tessuto andato in contro a necrosi, quindi a morte). Spesso include lo scollamento o la
tunnellizzazione dei tessuti. Le ulcere a questo stadio possono estendersi nel muscolo e/o
nelle strutture di supporto (ad esempio: la fascia, i tendini o la capsula articolare). Le
ossa/tendini sono visibili o direttamente palpabili.
Misure di prevenzione
Una delle mansioni in cui viene coinvolto l'OSS nell' assistenza al paziente è la
prevenzione e trattamento delle piaghe da decubito.
È pertanto molto utile l'utilizzo da parte di tutti gli operatori di particolari protocolli e
procedure da rispettare per la giusta prevenzione e trattamento.
Per quanto riguarda la prevenzione e il trattamento le regole da rispettare sono queste:
Educare il paziente e la famiglia, cioè nel corso delle operazioni l'operatore socio
sanitario, così come l'infermiere, devono spiegare sempre lo scopo di esse. Perché
vengono attuate tali procedure di prevenzione. È molto importante spiegare al
paziente anche come prevenire le lesioni cutanee, come riconoscerne i segnali e, in
caso di trattamento, spiegare quali sono i materiali che si stanno utilizzando e lo
scopo.
La Valutazione del rischio, va fatta preventivamente nella struttura per ogni
paziente e viene valutato se egli è in grado di deambulare autonomamente o in
maniera assistita, ecc.
In caso di rischio reale bisogna:
- ridurre il più possibile le forze di tagli e frizione evitando scivolamenti sul letto e
strofinio contro le lenzuola.
-evitare la durata delle pressioni sulla pelle facendo spesso cambi di
posizione, almeno ogni 2 ore ma sono preferibili tempi più brevi.
La mobilizzazione, va eseguita secondo un piano ben preciso.
l'utilizzo di dispositivi per il sollevamento.
evitare movimenti bruschi nello spostamento.
evitare contatti con le zone sottoposte a rischio lesione.
mantenere la testa del paziente in posizione bassa durante l'allettamento e non
posizionare troppi cuscini per sollevarla.
L'alimentazione, una dieta equilibrata è importante per ridurre il rischio di lesioni da
decubito. Se si mangia bene le piaghe e le ferite guariscono più facilmente. E’ molto
utile l’assunzione di Vitamina C, liquidi e sali minerali. E' indispensabile che l'OSS
verifichi quotidianamente che il paziente segua una dieta variata ed assuma una
quantità di cibo adeguata.
L’igiene personale, più è pulita la cute e meno frequenti sono le lesioni cui essa è
soggetta. Pertanto l'operatore socio sanitario deve attuare tutti gli interventi per
rendere la pelle integra ed elastica. Molto utili sono l'acqua tiepida, prodotti per la
pulizia del corpo con Ph neutro, asciugamani e tovaglie di cotone morbido e
soprattutto puliti e l'uso di prodotti che idratano la pelle. La pelle va asciugata
evitando frizionamento.
Igiene della postazione del paziente (letto, ecc.), l'igiene della postazione dell'utente
va curata nel dettaglio.
L'incontinenza del paziente è un aspetto che l'operatore socio sanitario deve curare
per prevenire le lesioni da decubito. Essa è causa di elevata macerazione e lesione
della pelle. Pertanto bisogna:
-controllare spesso il paziente
-eseguire l'igiene personale frequentemente
-controllare la cute spesso
-utilizzare presidi specifici (pannoloni, mutande a rete o sagomate) evitando
sfregamenti tra la pelle e la superficie del presidio.
o Tali situazioni possono essere gestite dal medico di base senza bisogno
dell’ausilio del pronto soccorso.
2. CODICE VERDE (V):
o Raccoglie i servizi a bassa patologia.
o Il paziente non ha funzioni vitali compromesse
o La centrale si accorda con l’utente per il tempo di attesa dell’ambulanza
o La partenza del mezzo, una volta comunicato dalla Centrale Operativa, è
immediato ma senza l’utilizzo dei dispositivi lampeggianti e sonori.
3. CODICE GIALLO (G):
o Raccoglie i servizi a media patologia.
o Il paziente ha una delle funzioni vitali alterate o c’è la possibilità che questo
possa accadere.
o La partenza del mezzo è immediata, senza utilizzo dei dispositivi
lampeggianti e sonori.
Come si può notare, quello che accomuna i quattro anelli è il termine “precoce”, proprio a
sottolineare la rapidità con cui le varie fasi si devono succedere.
1. Riconoscimento e allarme precoci: tutta la popolazione deve essere educata a
riconoscere le condizioni di emergenza sanitaria e ad attivare immediatamente il sistema
118
2. Rianimazione Cardio-Polmonare precoce: attivazione precoce delle manovre
rianimatorie di base. La conoscenza delle procedure del BLS dovrebbe costituire un
patrimonio di tutti i cittadini. La situazione ottimale sarebbe quella in cui il testimone di un
arresto cardiaco inizia le manovre di rianimazione dopo aver attivato il 118.
3. Defibrillazione precoce: nella maggior parte dei casi l’arresto cardiaco è causato da
un’aritmia suscettibile di correzione mediante l’erogazione di una scarica elettrica. La
percentuale di successo è direttamente proporzionale alla precocità dell’intervento, dato
che la possibilità di recuperare un paziente in arresto cardiaco si riduce del 10% per ogni
minuto che passa in assenza di rianimazione cardiopolmonare. Attualmente, ai soccorritori
è permesso l’utilizzo del Defibrillatore semiAutomatico Esterno (DAE), previo adeguato
corso di formazione.
4. Inizio precoce del trattamento medico intensivo: è costituito dall’insieme delle manovre
avanzate praticate dall’equipe dei Mezzi di Soccorso Avanzato dotata 25 di tutti i farmaci e
le tecnologie necessarie per il sostegno avanzato delle funzioni vitali. Il BLS si svolge
secondo una precisa e preordinata successione di valutazioni/azioni secondo la sequenza
ABC.
I TIPI DI RELAZIONE
Ciascun individuo è inserito all’interno di una complessa rete di relazioni durante l’intero
arco della sua esistenza. Nell’età evolutiva la presenza di una relazione stabile e
sufficientemente buona rappresenta un presupposto indispensabile per lo sviluppo
psichico. Anche nell’età adulta si sperimenta il bisogno di stare in relazione, tanto che i
sentimenti di benessere di un individuo dipendono in gran parte dalla qualità dei suoi
rapporti interpersonali. Ognuno di noi intrattiene relazioni di tipo diverso e di diversa
importanza. Di seguito vengono presi in considerazione i diversi tipi di relazione.
LA RELAZIONE D’AIUTO
Vediamo come può variare il modo di porsi nei confronti dell’altro all’interno dei differenti
tipi di relazione appena descritti, prendendo in esame alcune situazioni esemplificative e
ponendo particolare attenzione alla relazione d’aiuto.
Ecco altre considerazioni fondamentali circa una buona relazione d’aiuto.
Conoscenza della condizione di malattia = Per poter intervenire prima di tutto si deve
conoscere la malattia di cui l’utente è portatore (origine, cause, sintomi principali,
evoluzione stimata ...). Queste informazioni, infatti, sono fondamentali perché l’operatore
possa assumere consapevolmente una posizione flessibile tra l’avanzare delle richieste
legittime al paziente e il comprenderne i limiti più o meno evidenti.
Considerazione della persona in toto = Teniamo, però, presente che al centro del nostro
intervento dev’esserci la persona “intera”, considerata nella sua complessità. A tal
proposito, uno degli errori più gravi e tuttavia comuni è quello di concentrarsi unicamente
sui problemi di cui il paziente è portatore.
Riabilitazione = L’intervento dev’essere orientato alla riabilitazione che attribuisce
all’operatore un ruolo attivo in qualità di risorsa preziosa, valorizzando la relazione e la
comunicazione come canali privilegiati attraverso cui poter lavorare costruttivamente con
l’utente.
Valorizzazione delle capacità residue = Spesso l’operatore tende a sostituirsi in parte o in
toto all’utente, cosa che per certi versi ha il vantaggio di rendere più agile e veloce la
pratica quotidiana. > È, invece, opportuno orientare l’intervento a valorizzare, mantenere o
potenziare le capacità residue che l’utente ci sembra conservare.
Tra globalità e personalizzazione = Ogni intervento, quindi, è contemporaneamente: a)
globale = rivolto alla persona nel suo insieme, dal punto di vista fisico, psicologico,
familiare, scolastico, lavorativo, sociale, ecc … e b) personalizzato = cercando di andare al
di là di prestazioni standard, uguali e rigide per tutti, concentrandoci piuttosto su ciò che
rende unica la persona che abbiamo di fronte.
LA RELAZIONE TRA L’OPERATORE SANITARIO E L’UTENTE
La relazione tra l’operatore sanitario e l’utente si colloca all’interno delle relazioni d’aiuto e,
pertanto, ne possiede le caratteristiche fondamentali. Al di là di queste caratteristiche e
delle necessarie competenze tecniche, un operatore sanitario dovrebbe presentare e
sviluppare una serie di attitudini relazionali che lo rendano capace di:
- Curare il proprio stile di comunicazione;
- Interpretare correttamente le comunicazioni verbali e non verbali che riceve dall’altro o
coglie nell’altro;
- Riconoscere i principali tratti di personalità di chi gli sta di fronte;
- Cercare di comprendere le reazioni emotive ed i sentimenti dell’altro;
- Individuare i meccanismi di difesa e di adattamento che l’utente mette in atto, spesso
senza nemmeno rendersene conto;
- Accogliere i vissuti dell’altro, garantire la propria disponibilità emotiva, senza però cadere
nell’eccessivo coinvolgimento;
- Riconoscere, distinguere ed affrontare il proprio vissuto all’interno dell’interazione;
- Identificare i fattori che possono determinare tensioni e conflitti e lavorare affinché si
riducano;
- Saper ascoltare, domandare, rispondere;
- Maturare stile e discrezionalità nel comportamento professionale e nel lavoro d’èquipe.
Abbiamo, quindi, capito che la relazione operatore sanitario-utente si distingue dagli altri
rapporti interpersonali perché è:
- Asimmetrica, per i ruoli diversi e le diverse responsabilità di cui operatore ed utente sono
portatori;
- Stabilmente complementare, per l’impossibilità di invertirne i ruoli, nonché per la
dannosità che può derivare nell’effettuare una tale inversione;
- Contrattualmente esplicita, in quanto diritti e doveri sono stabiliti o dovrebbero esserlo a
priori;
- Centrata sull’obiettivo, esplicito (ciò che il paziente chiede) o implicito (ciò che si aspetta);
- Limitata nel tempo, nello spazio e nei contenuti;
- Ritualizzata all’interno di un setting (il camice, l’ambiente…)
- Fondata sulla fiducia reciproca;
- Intima ed empatica, dal momento che si entra in contatto con i vissuti profondi del
paziente;
- A tal proposito, però, il più possibile neutrale di fronte all’eventuale coinvolgimento
personale nei problemi che la persona malata porta con sé;
- E senza collusioni, in quanto l’operatore deve riconoscere gli elementi di “controtransfert”
che la persona suscita in lui e che potrebbero interferire con la relazione;
- Funzionalmente specifica, poiché nell’esercizio della professione l’operatore detiene una
competenza precisa che l’utente è chiamato a riconoscere e rispettare;
- Da verificare puntualmente in modo da capire se gli obiettivi che ci si era preposti sono
stati raggiunti e se, in tal caso, sia opportuno dimettere l’utente o se utile, concordare con
lui nuovi obiettivi su cui lavorare.
Il rapporto tra l’operatore sanitario e l’utente può assumere forme diverse. È possibile
individuare alcune tipologie ricorrenti, che naturalmente spesso si presentano in forma
mista:
- Di potere = È una relazione asimmetrica in cui c’è chi si trova in una condizione di
necessità e subordinazione e chi, invece, detiene un potere derivato o da una conoscenza
e competenza specifica o da uno status socio-culturale. Questo tipo di relazione può
assumere sfumature diverse che vanno dalla imposizione fino alla persuasione e
manipolazione del paziente. Essa finisce per favorire la comparsa di reazioni regressive
nell’altro, accompagnate, quando il paziente adulto rivendica la sua autonomia, da reazioni
aggressive. L’elemento che caratterizza la relazione di potere è la difficoltà, o addirittura
impossibilità, di accesso da parte del paziente alle informazioni e conoscenze che lo
riguardano.
- Terapeuticamente inesistente = È una relazione dominata da reciproco distacco e da
reciproca sfiducia. Da un lato il paziente ha un atteggiamento aggressivo, rivendicativo e
scarsamente cooperativo, mentre, dall’altro, l’operatore vive il proprio lavoro come
frustrante, scarsamente utile o, comunque, poco gratificante, ed evita il più possibile
qualunque coinvolgimento emotivo con l’altro. Tutto ciò, ovviamente, non permette
l’instaurarsi di alcuna relazione terapeutica significativa.
- Supportiva = È una relazione umana tra due persone di pari dignità, anche se diverse
per ruolo professionale e condizione esistenziale. È una relazione cooperativa particolare
tra una persona che è in stato di bisogno e un’altra che mette a sua disposizione la propria
competenza professionale. In questo tipo di rapporto l’operatore sanitario si prefigge come
obiettivo di condurre il paziente al massimo grado possibile di autonomia e benessere.
Naturalmente vi sono momenti in cui il paziente è in qualche maniera dipendente, ma il
fine ultimo è quello di superare tale stato.
LA PECULIARITÀ DEL LUOGO ENTRO CUI SI SVILUPPA LA RELAZIONE
Il luogo in cui avviene l’incontro tra operatore ed utente condiziona in modo significativo la
relazione stessa. Con luogo intendiamo l’ambiente in senso ampio, lo spazio, ma anche i
significati che assume per la persona e le regole che in esso vigono. Al domicilio, il
paziente nella propria casa può sentirsi a proprio agio e maggiormente in grado di
“controllare” la situazione. D’altro canto l’operatore può sentirsi estraneo e temere di
invadere un ambito privato, o avere difficoltà ad accettare proprio quel contesto (magari
sporco o poco agevole). In questo caso è utile che l’operatore entri con delicatezza ed un
certo grado di tolleranza, avendo particolare cura nel mantenere ruoli e confini di fronte al
rischio che nel tempo il rapporto possa scivolare nella direzione di una eccessiva
famigliarità. In maniera complementare, in struttura l’istituzione in sé garantisce
all’operatore di venir riconosciuto più chiaramente nel proprio ruolo, tuttavia si trova a
contatto ogni giorno con la cronicità dei pazienti che può suscitare in lui vissuti di
impotenza o addirittura depressivi. D’altro canto il paziente si trova a vivere il trauma della
separazione dal proprio ambiente di vita, fatto di spazi e di persone, cosa che può
suscitare in lui sentimenti di perdita e di abbandono. Si aggiunga poi la percezione del
proprio decadimento e circa l’imminenza, nei casi più gravi, della morte (si pensi a
strutture come le RSA). È utile, allora, che l’operatore realizzi in favore della persona
proprio quell’approccio mirato alla soggettività di cui abbiamo già parlato.
IL MOMENTO DI ACCOGLIENZA E DI DIMISSIONE DELL’UTENTE RISPETTO ALLA
STRUTTURA
L’accoglienza dell’utente in struttura rappresenta una fase estremamente delicata e
determinante. La persona sperimenta l’impatto con una realtà nuova, sconosciuta e di
grande intensità emotiva, così alle preoccupazioni verso la propria condizione di salute si
aggiungono anche paura e sovraccarico appunto emotivo. A tal proposito la cura di alcuni
fattori da parte degli operatori può offrire una rassicurazione alla persona, favorire un suo
positivo adattamento al nuovo contesto, nonché lo stabilirsi di una futura alleanza
terapeutica.
Si tratta di rispondere ai bisogni che la persona, più o meno consapevolmente, porta con
sé. Eccone un elenco.
Avere dei punti di riferimento = poter individuare l’operatore a cui rivolgere le proprie
richieste, essere accompagnati ad orientarsi, sentirsi considerati.
Venire sufficientemente informati = ricevere le informazioni necessarie per comprendere
ciò che sta accadendo e rappresentarsi ciò che accadrà successivamente, contenere le
pur comprensibili ansie del momento.
Venire seguiti da un numero limitato di operatori = fare un incontro significativo e
realmente rassicurante, anche perché l’operatore che ha accolto positivamente potrà
diventare poi il riferimento affidabile durante il ricovero.
Poter percepire un contatto emotivamente positivo = ciò che di solito colpisce e rimane
impresso è la tonalità emotiva dell’incontro con l’altro, per questo un operatore che
accoglie con rispetto e disponibilità può fare la differenza.
Anche la dimissione del paziente dalla struttura costituisce una fase delicata. Ai sentimenti
positivi di soddisfazione per il rientro alla propria normalità e quotidianità si
accompagnano, infatti, sentimenti di ansia ed incertezza. La struttura durante il ricovero è
diventata un luogo protetto e sicuro e la dimissione richiede di modificare nuovamente un
equilibrio, effettuando stavolta il passaggio inverso da una condizione di dipendenza nel
servizio ad una di autonomia fuori da esso. I fattori che possono favorire o meno una
gestione serena di questo momento sono:
La condizione fisica = il fatto che il paziente sia guarito definitivamente o che si porti a
casa una patologia cronica;
L’ambiente sociale di riferimento = il fatto che la persona abbia a disposizione nel proprio
contesto di vita risorse attivabili e per lei preziose, come persone, riferimenti, cose, attività,
ruoli, piuttosto che un vero e proprio vuoto;
La personalità del soggetto = la capacità soggettiva di gestire l’ansia, la paura, lo
smarrimento, la solitudine … posticipando eventuali domande man mano la persona
riacquista autonomia. A tal proposito sarebbe opportuno preparare per tempo e
adeguatamente il paziente al distacco, renderlo partecipe, identificandone i precisi bisogni
e le specifiche paure nel momento in cui è costretto a tornare al confronto con una realtà
esterna più o meno favorevole per lui. L’operatore, infine, dovrebbe anche fungere da
tramite tra dentro e fuori, avendo cura di conoscere i servizi presenti sul territorio e di
favorire una preziosa integrazione tra i diversi contesti a cui la persona farà riferimento
una volta dimessa dalla struttura.
PER AFFRONTARE CON SERENITÀ ED EFFICACIA IL COMPITO DELICATO E
COMPLESSO DELL’OPERATORE È NECESSARIO POSSEDERE E ALLENARE
DETERMINATI REQUISITI
A. ESSERE MOTIVATO
Motivazione = E’ ciò che mi spinge a fare una determinata cosa, i fattori interni che
guidano una mia azione, una mia scelta.
La motivazione ha strettamente a che fare con i bisogni, nel misura in cui il bisogno è uno
“stato” dell’organismo, mentre la motivazione si fonda sull’ “attività” del medesimo
organismo. In relazione alla complessa interazione tra bisogni e motivazioni, lo psicologo
Abrahm Maslow (1954) propose un modello gerarchico che prevedeva differenti livelli di
sviluppo nei sistemi motivazionali che danno vita al comportamento umano. Secondo
Maslow, i bisogni umani possono essere organizzati in cinque diversi gruppi in relazione
alla loro “primarietà” e alla loro “distanza” dalle esigenze biologiche dell’organismo.
La motivazione dà un senso all’attività svolta e sostiene la fatica connessa ad ogni lavoro.
Questo vale soprattutto per i lavori in cui è richiesto un coinvolgimento psicologico e
relazionale. Infatti, stare accanto a persone bisognose significa trovarsi ad interagire
costantemente in ambienti difficili e a fare i conti con la sofferenza e tensione altrui. Se
sono motivato la mia occupazione mi fa sentire bene con me stesso. Quale motivazione
personale mi spinge verso la relazione di aiuto?
Di solito la scelta di un lavoro sociale o sanitario risponde ad un bisogno di solidarietà.
Spesso la predisposizione verso l’altro ha radici in noi, nelle nostre vicende familiari, negli
incontri che abbiamo fatto durante la nostra esperienza di vita. L’operatore che pensa di
essere arrivato per semplice caso o necessità a questo lavoro spesso trova nel tempo una
motivazione di natura affettivo/relazionale. La sicurezza e stabilità economica, infatti, non
è un motivo sufficiente, anche se importante, per svolgere questa professione, può esserlo
magari nella fase iniziale, ma poi non basta a continuare. A volte la scelta del lavoro è
sorretta da una motivazione particolare. È importante, infatti, che l’operatore arrivi alla
consapevolezza che l’essere utile agli altri ha la sua parte di “tornaconto” personale.
Questo non significa orientare l’azione più verso di sé che all’altro, ma porsi in modo
realistico nei confronti della propria occupazione. Abbiamo chiarito che non basta la
motivazione “per aiutare gli altri”, dobbiamo piuttosto capire cosa ci fa alzare ogni mattina
e quale gratificazione ne ricaviamo. Infatti può essere giusto nutrire oltre alle motivazioni
altruistiche delle motivazioni di tipo più “egoistico”, bisogna però esserne consapevoli ed
integrarle armonicamente nella reciprocità dello scambio con l’altro. Allo stesso modo è
legittimo anche “divertirsi” durante il proprio lavoro. Non è giusto, invece, lavorare con
persone in difficoltà unicamente perché questo ci fa sentire buoni o al di sopra degli altri o,
ancora, perché gli altri se lo aspettano da noi. A tal proposito gli psicologi hanno distinto
due tipi di motivazioni: estrinseche o intrinseche.
Si parla di motivazioni estrinseche, quando la metà è un tornaconto. Se invece il processo
motivazionale mira a un risultato che va cercato dentro il comportamento stesso da
attuare, si tratta di motivazioni intrinseche.
B. PROVARE EMOZIONI E SENTIMENTI, IMPARARE A GESTIRLI
Definizione di emozioni = Si tratta di reazioni brevi ma intense, che provocano
modificazioni a livello neurovegetativo, psichico e corporeo. In origine servivano all’uomo
per sopravvivere e adattarsi all’ambiente. Infatti, in presenza di uno stimolo esterno il
soggetto si orienta immediatamente verso di esso, produce un movimento interno e si
prepara all’azione. Se vedo un leone la paura mi fa scappare e mettere in salvo, se mi
scotto col fuoco il dolore mi fa togliere immediatamente la mano. In realtà, essendo l’uomo
un animale superiore, le sue capacità gli permettono di provare emozioni anche a partire
da stimoli interni come l’immaginazione e il ricordo.
Distinzione dai sentimenti = I sentimenti sono, invece, risonanze affettive di minor intensità
ma di maggior durata.
Universalità = Ciascuno di noi è geneticamente programmato per provare emozioni,
pertanto esse risultano spontanee e poco controllabili, inoltre sono le stesse per tutto il
genere umano
Connotazione = Le emozioni non sono né giuste, né sbagliate, né buone, né cattive,
piuttosto il vissuto di ciascuna risulta piacevole o spiacevole e, al massimo, può portarci a
mettere in atto dei comportamenti scorretti o dannosi.
Manifestazioni = Le emozioni trovano un canale privilegiato nelle espressioni del volto,
anch’esse universali. Consideriamo che, comunque, tutto il corpo si presta ad esprimerle,
pensiamo alla respirazione, la sudorazione, la salivazione, la postura, la tensione
muscolare, il mordicchiarsi le unghie, muovere ritmicamente il piede, tutti segnali che
possono trasmettere attivazione o rigidità, piuttosto che rilassatezza.
Soggettività = Esistono, inoltre, dei fattori soggettivi per cui di fronte alla stessa situazione
persone diverse possono provare emozioni diverse, perché ciascuno è portatore di un
bagaglio di esperienze e di significati molto personale. La stessa persona, poi, può
sperimentare vissuti diversi in momenti diversi della sua vita.
Fattori esterni = Inoltre, le variabili educative, familiari, sociali e culturali sono in grado di
influenzare il soggetto nell’esprimere o cercare di nascondere il proprio vissuto, in base a
quanto ritenuto accettabile nel suo contesto di riferimento.
Accettazione = Certo, se diventano eccessivamente spiacevoli o intense è importante
gestirle, ma prima di tutto bisogna accettarle, senza svalutare se stessi e gli altri per averle
provate, anzi se le soffochiamo rischiamo di tormentarci da dentro. Alcuni credono che
una persona forte non dovrebbe mai mostrare i propri stati d’animo, ma il rischio è di
arrivare a “congelare” la stessa capacità di provare emozioni.
Consapevolezza = E’ fondamentale, piuttosto, saper riconoscere quello che proviamo,
aver presente le persone coinvolte e l’evento che si sta verificando, conoscere le proprie
abitudini e prevenire le reazioni più negative in cui potremmo cadere.
Gestione mediata = Per riuscire a gestire le emozioni efficacemente, dobbiamo rivedere la
convinzione comune che un evento A scateni l’emozione C come la causa con l’effetto.
Ricordiamoci che ciascuno di noi, in base alla propria esperienza di vita, si porta dietro un
bagaglio di vissuti e convinzioni, che indichiamo con B, in grado di influenzare
l’interpretazione di quella situazione. Ad esempio se l’evento A è un’offesa ricevuta > e se
l’interpretazione B è “non deve permettersi, adesso gliela faccio pagare” > l’emozione C
sarà molto probabilmente la rabbia; / se invece l’interpretazione B è “non mi piace come si
sta comportando con me, ma non è la fine del mondo, magari se rimango calmo tra poco
la smette” > il soggetto può sentirsi più padrone della situazione e infuriarsi meno (C).
Spesso non possiamo cambiare subito le situazioni spiacevoli, ma possiamo lavorare sul
nostro modo di interpretarle per arrivare a sentirci meglio.
Pensieri negativi = In direzione opposta, esistono dei pensieri poco utili che possono
suscitare emozioni spiacevoli e quindi comportamenti inadeguati.
PRETESE = “io devo avere quello che voglio, le cose devono andare come dico io, gli altri
devono trattarmi sempre bene. / Possiamo, piuttosto, trasformarle in preferenze, “mi
piacerebbe che … sarebbe bello se … è meglio se … vorrei …”.
INTERPRETAZIONI SBAGLIATE = “lo ha fatto apposta, ce l’ha con me” piuttosto che “è
successo per colpa mia”. / Bisogna, piuttosto, abituarsi a considerare le cose in modo più
preciso e ampio, “cercherò di capire perché Mario si è comportato in quel modo, non mi
piace ma possiamo rimanere in rapporti civili” o “è un peccato che le cose siano andate
così, ma non è solo colpa mia”.
SVALUTAZIONI = Giudichiamo in modo completamente negativo una persona perché ha
fatto qualcosa di sbagliato, del tipo “è uno stupido, è cattivo”, e arriviamo a provare
disprezzo nei suoi confronti. / Proviamo, invece, a limitarci nel valutare i singoli
comportamenti e a considerare gli altri aspetti positivi che possono caratterizzare quella
persona. - Lo stesso a volte facciamo con noi stessi quando di fronte ad un errore ci
diciamo “sono un incapace” e ci sentiamo tristi e sconsolati. / Dirci “ho sbagliato, ma posso
migliorare … mi sono comportato male, ma vediamo come posso rimediare ora” può
aiutarci a conservare la nostra autostima.
INGIGANTIMENTI = Gli eventi spiacevoli vengono gonfiati e diventano insopportabili,
come nel caso “è una cosa terribile fare una brutta figura”. / Se, invece, attribuiamo al
singolo evento l’importanza che gli spetta possiamo viverlo come fastidioso, ma sentiamo
comunque di poterlo in qualche modo gestire.
GENERALIZZAZIONI = Facciamo di un’erba un fascio, usando parole come “sempre, mai,
nessuno, tutti”, ad esempio “tutti ce l’hanno con me, non riuscirò mai a superare questo
esame”. / Proviamo, invece, a considerare il singolo evento e ad usare parole come
“spesso, qualche volta, raramente, qualche persona, poche persone”.
“Salvagente emotivo” = Quando ci capita di provare emozioni negative molto intense
possiamo avere la sensazione di esserne travolti. Esistono, però, alcuni semplici
accorgimenti pratici che possono aiutarci a gestire quelle situazioni in maniera adeguata.
CERCARE UNA DISTRAZIONE = allontanare per un po’ la mente dalla fonte della
preoccupazione, magari impegnandosi a fare qualcosa di pratico, in modo da spostare
concentrazione ed energie su altro.
TROVARE QUALCOSA CHE FACCIA SORRIDERE = pensare a qualcosa di allegro,
farselo raccontare, guardare una commedia, elencare le cose belle della propria vita,
cercando di sdrammatizzare.
PARLARE A SE STESSI COME AD UN AMICO = dialogare mentalmente con noi stessi,
facendo delle considerazioni anche critiche ma come se ci stessimo rivolgendo ad una
persona cara, con cui di solito siamo più benevoli, tenendo presenti anche le qualità, nella
direzione di capire insieme come poter uscire da una situazione spiacevole.
COLTIVARE L’IMMAGINAZIONE = possiamo anche usare risorse meno consuete come
la fantasia, tra 10 anni come mi apparirebbe questa situazione? Come mi potrebbe aiutare
quel mio amico?
Sviluppo di sentimenti negativi verso il paziente = Nella relazione d’aiuto il contatto con
situazioni tanto impegnative suscita spesso nell’operatore confusione, agitazione, paura. A
tal proposito ricordiamoci che è normale provare sentimenti positivi verso il paziente, come
altrettanto naturale è provare sentimenti negativi verso alcuni suoi comportamenti.
Irrigidimento e autorità = Il rapporto con l’utente è reso complicato dalla sofferenza che la
malattia comporta e spesso l’operatore, per coinvolgersi meno, si pone su un piano
superiore come colui che sa. In questo modo, però, rischia di trascurare il fatto che il
paziente sia portatore in prima persona di ansie e paure legate alla propria condizione di
fragilità.
Intelligenza emotiva = concetto proposto da Goleman, riprende sostanzialmente la
definizione di intelligenza multicomponenziale di Gardner, e sottolinea l’esistenza, tra i vari
fattori che costituiscono l’intelligenza umana, di un’abilità emotiva che permette a molti
individui di sapersi muovere con successo, di vivere meglio e spesso più a lungo
C. PROVARE EMPATIA, SAPERLA VALORIZZARE
Definizione di empatia = È la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di comprendere cosa
sta pensando e provando in un certo momento, come se quei pensieri e quegli stati
d’animo fossero miei, mantenendo però sempre un certo distacco, per evitare una
pericolosa confusione.
Sviluppo sin dalla nascita = Alcuni studiosi credono che l’empatia cominci a manifestarsi
quando il neonato appare turbato dal pianto di un altro bimbo e reagisce come se fosse il
proprio, tanto da scoppiare a piangere a propria volta o da cercare di consolare l’altro
bimbo. > Crescendo il bambino ha modo di osservare come l’adulto reagisce alla
sofferenza altrui e, imitandolo, arriva a sviluppare un repertorio di risposte, che
gradualmente diventano più consapevoli. < Perché questo apprendimento sia possibile è
necessario che le figure adulte di riferimento siano in grado di sintonizzarsi sulle emozioni
del piccolo, accettando anche quelle più difficili da gestire come rabbia o tristezza,
comunicandogli un senso di padronanza su di esse e quindi di sicurezza interiore.
Sostegno all’altro = L’empatia è la piena disponibilità in favore della persona, mettendo da
parte le nostre preoccupazioni e valutazioni, per offrire una relazione di qualità basata
sull'ascolto autentico, dove ci concentriamo sulla comprensione dei bisogni fondamentali
per l'altro.
Vantaggio personale = Teniamo presente che comprendere come una persona reagisce
può aiutarci a prevedere il suo comportamento e, quindi, a trovare il modo migliore per
ottenere la sua collaborazione.
Precisiamo che l’empatia non è semplice rispecchiamento delle emozioni che sta
provando l’altro. Si tratta piuttosto di una risonanza, cioè un vissuto che viene risvegliato
dall'altro perché già in stato latente dentro di noi. Si rende importante una precisazione:
l’empatia è diversa dalla simpatia. La simpatia si basa su una naturale attrazione verso
l’altro, una disposizione d’animo che favorisce una maggiore conoscenza, a volte
addirittura una sorta di “fusione” con l’esperienza emotiva dell’altro. Al contrario, non è
necessario che una persona ci stia simpatica o che la conosciamo a fondo per riuscire ad
entrare con lei in empatia, inoltre, l’empatia richiede un certo grado di distacco emotivo
dall’altro!!!
Nelle relazioni d’aiuto, per rendere il rapporto realmente empatico, è comunque importante
conoscere la storia del paziente, le sue abitudini, i suoi gusti, i suoi modi di dire e, inoltre,
che l’operatore stesso abbia il coraggio di mettersi in gioco profondamente. Tutto ciò allo
scopo di promuovere la collaborazione dell’utente col piano assistenziale impostato in suo
favore e favorire un cambiamento che risulti davvero utile.
Importanza dell’autoconsapevolezza = Sottolineiamo che quanto più siamo aperti, recettivi
e competenti rispetto alle nostre emozioni, tanto più riusciremo ad esserlo verso le
emozioni degli altri.
Abilità di leggere il non verbale = Infine, dal momento che spesso le emozioni vengono
espresse attraverso il canale non verbale è necessario affinare la capacità di leggere tali
messaggi, cioè ancora una volta non tanto il contenuto ma la modalità con cui lo si
esprime.
Un’ultima riflessione fondamentale riguarda la distanza nella relazione operatore-paziente.
Per prima cosa a differenza di ciò che normalmente avviene nelle relazioni interpersonali
della vita quotidiana, molte attività di assistenza alla persona richiedono che il contatto
fisico con l’utente sia da subito intimo. Inoltre, al di là del ruolo, anche nel caso in cui
l’operatore sia perfettamente in grado di riconoscere e far rispettare la propria
professionalità, il lavoro di cura rende la distanza psicologica ed emotiva parecchio ridotta
e risulta faticoso esercitare su di essa un controllo cosciente. Il malato, l’anziano, il disabile
vivono in prima persona la propria condizione di sofferenza ma lo stesso operatore si trova
inevitabilmente coinvolto in essa in tutta la sua intensità.
Tale richiamo può sollecitare in lui reazioni differenti, ai cui estremi troviamo
l’impenetrabilità e l’eccessiva permeabilità. Nel primo caso si intende che l’operatore mette
in atto un distanziamento relazionale ed affettivo dall’utente allo scopo di proteggersi, a cui
si accompagna un lavoro impersonale e meccanico. Nel secondo caso, invece, l’operatore
abbandona ogni idea di confine e si lascia invadere dagli stati d’animo dell’utente, tanto da
sviluppare lui stesso un disagio e da andare al di là dei propri compiti specifici. La
situazione più utile si realizza nel momento in cui l’assistente si muove con buon senso e
flessibilità tra i due estremi appena descritti ed ha consapevolezza circa questi movimenti.
Risulta allora fondamentale che l’assistente lavori sullo stile personale che adotta
abitualmente nel regolare le distanze all’interno delle proprie relazioni in genere,
imparando a porre e mantenere dei confini che, pur nella loro flessibilità, sono
assolutamente indispensabili all’interno di ogni relazione sana.
EMPATIA
Sappiamo benissimo come sia fondamentale che l'operatore socio sanitario sappia
instaurare un rapporto empatico con gli utenti. Vediamo nel dettaglio cos'è l'empatia e
come l'oss può migliorare la propria empatia e sviluppare la capacità di "essere empatico".
Cos'è l'empatia?
L'empatia è un modo di comprendere cosa un'altra persona sta provando. La parola deriva
dal greco empatia e veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che
legava l'autore/cantore al suo pubblico.
Nelle scienze umane, l'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da
uno sforzo di comprensione intellettuale dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva
personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale.
Nell'uso comune è l'attitudine di quando si decide di essere completamente disponibile per
un'altra persona, mettendo da parte le nostre preoccupazioni e i nostri pensieri personali,
pronti ad offrire la nostra piena attenzione.
Il libro di Geoffrey Miller The mating mind difende il punto di vista secondo il quale
«l'empatia si sarebbe sviluppata perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa
e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui
l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini». L'autore spiega inoltre che la
selezione naturale non ha potuto che rinforzarla, poiché influiva sulla sopravvivenza e che
alla fine si è sviluppato un sentimento umano che attribuiva una personalità a
praticamente tutto ciò che la circondava.
LA COMUNICAZIONE
La comunicazione come scambio di significati è essenziale alla vita del gruppo.
La comunicazione è uno degli elementi costitutivi di un gruppo. È fondamentale poiché i
processi di gruppo non potrebbero realizzarsi se essa mancasse.
Partecipare ad una discussione significa sentirsi parte del rituale e membro del gruppo che
lo istituisce, e porta al rafforzamento della coesione anche se attraverso gli scambi si
palesano anche i conflitti. La discussione offre la possibilità di prendere parte alle vicende
del gruppo e su di essa si fonda il consenso. La discussione è considerata non come un
mero baratto di informazioni ma come un rito di comunicazione che riunisce
periodicamente i membri di un gruppo in un luogo idoneo - salotto, bar, mercato – secondo
regole prescritte.
La conversazione è il veicolo più importante per la preservazione della realtà, poiché
discutendo sull’esperienza si assegna agli elementi che la compongono un posto ben
preciso nel mondo reale.
Conversazioni e discussioni sono dunque la base per la costruzione sociale della realtà e
per rendere partecipi gli individui, scambiare non solo informazioni, ma idee, opinioni,
valori.
Senza comunicazione non esiste il gruppo, anche se possiamo chiederci se la
comunicazione debba essere necessariamente orale o si possa configurare in modi
alternativi. Nell’attuale epoca di diffusione dell’informatica, sappiamo che si costruiscono
reti comunicative fra cultori di Internet; persone che non si sono mai viste direttamente,
che probabilmente non si incontreranno mai, o perché risiedono in luoghi molto lontani o
perché rendono normativo il non incontro personale, possono avere conversazioni a
distanza sulla base di un interesse comune o anche sulla base del desiderio di fondare
una comunicazione senza contatto interpersonale.
Anche lo spazio esercita sugli scambi comunicativi di gruppo una certa influenza: la
grandezza della stanza, i suoi arredi, l’aspetto familiare o asettico dei luoghi hanno un
impatto sull’atmosfera di gruppo, rendendola più o meno calda o fredda. Mettere le
persone intorno ad un tavolo rotondo, quadrato o rettangolare determina un effetto
diverso, poiché mentre i primi due sopprimono la gerarchia, il terzo suggerisce un ordine
da rispettare e costruisce delle distanze. La tavola rotonda in un certo dibattito ad es.
suggerisce che tutti saranno nella medesima posizione.
Diamo una definizione di comunicazione…
Per comunicazione (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino
communico = mettere in comune, far partecipe) si intende il processo e le modalità di
trasmissione di un’ informazione da un individuo a un altro (o da un luogo a un altro),
attraverso lo scambio di un messaggio elaborato secondo le regole di un determinato
codice. Il processo comunicativo, secondo il modello Shannon-Weaver, si basa su alcuni
elementi fondamentali:
· Emittente: la persona che emette il messaggio
· Ricevente: colui che riceve il messaggio emanato dall’emittente
· Messaggio: corpo della comunicazione
· Codice: insieme delle regole utilizzate per comunicare
· Canale: strumento della comunicazione
· Rumore: cioè la presenza di disturbi lungo il canale che possono danneggiare i segnali
ad es., il rumore ambientale o le interferenze elettromagnetiche che si possono generare
lungo un cavo di trasmissione.
Lo schema di Shannon-Weaver può essere applicato alla comunicazione linguistica.
Come lo stesso Weaver ha specificato, quando si parla con un'altra persona il cervello è la
codificazione dell'informazione, l'apparato vocale il trasmettitore, le vibrazioni sonore il
canale della comunicazione, l'orecchio dell'interlocutore il ricettore ed il suo cervello il
decodificatore del messaggio.
Immaginiamo due interlocutori che parlano e discutono fra loro scambiandosi informazioni
sotto forma verbale e non verbale, quindi avremmo un’interazione tra una fonte (chi parla)
e un destinatario (chi ascolta) che si alternano reciprocamente. La fonte comunica con il
destinatario attraverso un canale tecnico (telefono, fax, televisione, ecc.) o sensoriale
(voce, udito, vista, gesti, ecc.). L’informazione viene, così, codificata dalla fonte e
decodificata dal destinatario grazie all’uso di un sistema di comunicazione condiviso dai
due comunicanti (per esempio l’uso della medesima lingua parlata). Il destinatario riceve
ed elabora quello che la fonte gli invia rimandandogli feedback continui: risposta verbale,
oppure segnali che ne indicano la comprensione (per esempio cenni col capo) o
l’incomprensione (per esempio facendo cenni con le sopracciglia) o il voler chiudere la
conversazione (facendo movimenti del corpo di allontanamento).
Allo stesso tempo, la fonte comunica in maniera ridondante, per evitare che il messaggio
arrivi distorto o incompleto al destinatario a causa dell’eccessivo rumore presente nel
canale. Così siamo in presenza di un modello circolare in cui i comunicanti si scambiano
informazioni utilizzando più canali e, per ciascuno, più sistemi di significazione: per
esempio la fonte può dire di essere allegro con un’espressione sorridente e con un tono
particolarmente vivace (ridondanza dell’informazione).
Nel corso degli anni sono stati elaborati tre importanti modelli interpretativi della
comunicazione:
Il modello lineare (emittente-messaggio-ricevente): è un modello di tipo
meccanico-lineare che risale agli anni ’30-’40. La comunicazione viene
considerata come un comportamento spiegabile secondo la logica
comportamentista dello Stimolo-Risposta. L’Emittente codifica il contenuto
del messaggio e lo invia attraverso un canale (scritto oppure orale) al
ricevente. Il modello lineare considera la presenza del “rumore comunicativo”
inteso come qualunque cosa che interferisce con la comunicazione. In
particolare considera tre tipi di rumore:
- Esterno = esterni al ricevente, che sono fonti di distrazione
(suoniecc.);
- Fisiologico = interni al ricevente, di ostacolo ad una ricezione efficace
(handicap, ecc.);
- Psicologico = interni all’emittente che sono di ostacolo ad una
trasmissione efficace (pregiudizi ecc.).
Il modello interattivo(circolare) : Studi successivi hanno introdotti importanti
concetti come quello di FEEDBACK (retroazione), che considera nel
processo di comunicazione la risposta del ricevente. Il modello passa così da
una logica lineare ad una logica circolare, che consente all’emittente di
capire se il proprio messaggio è stato correttamente recepito, e di apportarvi
se necessario, dei rinforzi. L’emittente diviene al tempo stesso ricevente, e
viceversa. La metafora è quella della “partita a tennis”.
Il modello dialogico : Il modello dialogico mette in evidenza che il soggetto
non è emittente e ricevente in momenti successivi, ma assume entrambi i
ruoli simultaneamente, dove riceve ed emette messaggi in tempi non più
separabili e isolabili. La comunicazione deve essere quindi studiata nella sua
complessità in divenire, ossia come “analisi della conversazione”.
COMUNICAZIONE SPONTANEA: È la comunicazione che trae impulso dalla propria
volontà.
Deriva infatti dal latino SPONTE, ovvero volontà, impulso. È dunque la modalità “istintiva”
che utilizziamo per entrare in contatto con gli altri.
COMUNICAZIONE INTENZIONALE: È la comunicazione diretta ad un preciso obiettivo.
Deriva infatti dal latino INTÈNDERE, composto da IN verso e TENDERE, ovvero dirigere,
volgere i sensi, l’animo, le cure, la mente. È dunque la modalità “guidata” che mettiamo in
pratica, in specifiche situazioni, per entrare in relazione con gli altri.
I DUE SISTEMI DI COMUNICAZIONE
Gli esseri umani comunicano con:
1. linguaggio verbale: il linguaggio è un codice simbolico, governato da regole quali
la grammatica, la sintassi, la semantica. Esso accomuna tutte le società umane e
le differenzia da quelle non umane
2. linguaggio non verbale: il linguaggio non verbale prevede aspetti quali segnali
paralinguistici, espressioni del volto e comportamento spaziale.
LA COMUNICAZIONE VERBALE
La comunicazione verbale è composta da più componenti quali:
1) la componente paraverbale: essa è composta da una serie di informazioni, per lo più
involontarie e trasmesse parallelamente al contenuto verbale, come il tono della voce, il
ritmo del discorso, le pause;
2) la componente non verbale: essa consiste in tutti i segnali, consapevoli ed
inconsapevoli, che il corpo emette durante l’esposizione verbale come le posture, i
movimenti delle mani, le espressioni del viso;
3) la componente spaziale (o prossemica): essa riguarda gli aspetti spaziali della
comunicazione, come la posizione fisica degli interlocutori (questi ultimi possono collocarsi
seduti, in piedi, per es.), la loro distanza e il loro orientamento (gli interlocutori possono
sistemarsi di fronte, di alto, per es.)
Numerosi studi, hanno evidenziato che il messaggio verbale ha un’importanza
“marginale”, visto che influisce solo per il 7-8% sull’efficacia della comunicazione, contro il
38% delle componenti paraverbali e il 55% di quelle non verbali.
LA COMPONENTE PARAVERBALE
Le modalità paraverbali quali il tono e gli accenti della voce, il ritmo dell’eloquio, le pause, i
sospiri rappresentano aspetti particolarmente rilevanti nella dinamica del processo
comunicativo. Le variazioni nell’intonazione della voce ci permettono di esprimere una
molteplicità di significati come esclamare, sospendere il discorso, porre domande. Anche
le pause costituiscono degli importanti segnali di comunicazione: dosate correttamente
consentono di dare maggiore forza alle parole che seguono.
Dal punto di vista relazionale, il tono della voce rappresenta un buon indicatore degli stati
d’animo e delle emozioni che la persona prova in quel momento: per es. una voce tremula
può indicare una forte commozione.
La componente non verbale
La componente non verbale comprende una serie di elementi come le posture e i
movimenti del corpo, la gestualità delle mani, le espressioni del viso, la direzione dello
sguardo.
La componente non verbale svolge principalmente tre funzioni:
1) la prima riguarda il comunicare stati emotivi: l’espressione del viso, in particolar modo i
movimenti degli occhi e della bocca, i gesti delle mani, trasmettono chiaramente le
emozioni positive o negative, che il soggetto sta provando: lo spalancarsi degli occhi, la
bocca che si apre in un sorriso, ad esempio, indicano chiaramente che la persona è
sorpresa e felice; il serrarsi delle labbra accompagnato dagli occhi socchiusi, al contrario,
ci comunica disappunto e collera;
2) la seconda consiste nell’integrare e sostenere la comunicazione: l’espressione verbale
viene, infatti, spesso accompagnata da movimenti delle mani ed espressioni del viso;
3) la terza funzione consiste nel sostituire il linguaggio verbale. In particolari situazioni,
quando ad esempio sono presenti rumori assordanti o gli individui si trovano ad una
eccessiva distanza, i gesti costituiscono l’unico modo per comunicare. Nei soggetti che
presentano deficit dell’apparato fonetico o uditivo, una serie codificata di gesti sostituisce
completamente il linguaggio.
I GESTI
Secondo Ekman e Friesen, i gesti svolgono diverse funzioni e possono essere distinti in:
- gesti simbolici: si tratta di segnali emessi intenzionalmente con lo scopo di ripetere o
sostituire il contenuto della comunicazione verbale come ad esempio, agitare la mano in
segno di saluto, indicare;
- gesti descrittivi: si tratta di movimenti che servono ad illustrare ciò che viene espresso
verbalmente: alcuni scandiscono le parti del discorso, come alzare il pollice per indicare il
primo elemento di una successione, altri indicano relazioni spaziali e delineano forme di
oggetti, come tracciare con la mano una linea obliqua per indicare una discesa;
- gesti espressivi: sebbene il canale preferenziale per esprimere gli stati d’animo sia il viso,
alcune emozioni vengono manifestate anche dai gesti: l’ansia o la rabbia, ad esempio,
susciteranno rispettivamente un tremore alle mani o i pugni serrati;
- gesti regolatori: sono gesti impiegati sia da chi parla sia da chi ascolta, essi servono per
regolare il flusso della comunicazione sincronizzando gli interventi. Cenni del capo,
inarcamento delle sopracciglia o veloci cambiamenti della posizione del corpo indicano se
l’interlocutore è interessato alle nostre parole, se desidera intervenire o se vuole, al
contrario interrompere la conversazione.
LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE: GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE
Gli studiosi del gruppo di Palo Alto hanno evidenziato alcune proprietà della
comunicazione che hanno fondamentali implicazioni interpersonali. Tali proprietà hanno
natura di assiomi all’interno delle loro enunciazioni sulla comunicazione umana. Per
assioma, in generale, si intende una proposizione o un principio che viene assunto come
vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di
riferimento.
Il 1° assioma sostiene: “ E’ impossibile non comunicare”. L’attività o l’inattività, le parole o
il silenzio hanno tutti il valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non
possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano tra loro –
sosteneva Paul Watzlawich- , importante esponente del gruppo di Palo Alto. Quindi, il
semplice fatto che non si parli o che non ci si presti attenzione reciproca non costituisce
eccezione a quanto sopra asserito.
Il 2° assioma afferma che “ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di
relazione”. Il contenuto riguarda le cose che si dicono, la relazione, invece, riguarda il
modo con cui le si dice e in particolare fa riferimento alla relazione nel cui ambito le si dice.
Consideriamo queste due frasi “Fammi subito questo lavoro” e “Vorrei che tu mi facessi
subito questo lavoro”. Tra queste due frasi vi è una differenza anche se hanno lo stesso
contenuto, infatti esse definiscono relazioni molto diverse. La prima frase indica una
relazione di dominio e sottomissione, la seconda frase indica, invece, una relazione di
partecipazione e di collaborazione. Da esse derivano risonanze emotive e risposte
comportamentali molto diverse. E l’aspetto di relazione diviene molto importante nella
comunicazione.
Il 3° assioma della comunicazione afferma che “la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i partecipanti”. Attraverso la
punteggiatura, la comunicazione viene scomposta analiticamente in modo che si possa
identificare chi parla e chi ascolta. Per punteggiatura si intende una sequenza di punti o
frecce che indicano momento per momento chi parla e chi ascolta. Analizzando la
seguente comunicazione “Lui si chiude in se stesso…. lei brontola…. lui si chiude ancora
di più in se stesso….lei brontola per il suo atteggiamento di chiusura e così via” , è
possibile notare come ogni atto comunicativo rappresenta contemporaneamente uno
stimolo, una risposta e un rinforzo.
Il 4° assioma sostiene che “la comunicazione comprende una componente verbale e una
componente non verbale”. La comunicazione verbale esprime il contenuto del messaggio,
la componente non verbale trasmette le emozioni delle persone e la relazione esistente tra
loro.
Il 5° assioma sostiene che “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o
complementari, a seconda che ci sia uguaglianza o differenza”.
In generale, uno scambio simmetrico avviene tra interlocutori che si considerano sullo
stesso piano, e che hanno ruoli sociali analoghi.
Invece, uno scambio complementare si instaura tra persone che hanno una relazione, ma
non sono sullo stesso piano per potere, ruolo comunicativo, autorità sociale, interessi.
Esempi di relazione complementare sono: “medico-paziente, capoufficio-segretaria,
genitore-figlio, insegnante-allievo. Questa complementarietà in una relazione viene
facilitata in alcuni casi e ostacolata in altri.
Una relazione si definisce simmetrica se due interlocutori sono sullo stesso piano per
potere, ruolo comunicativo, autorità sociale, interessi.
In questi casi è possibile che si verifichi una situazione di conflitto.
È importante avere ben presente che le caratteristiche della simmetria e della
complementarietà non hanno connotazioni particolari di per sé (non sono buone o cattive)
ma assolvono a determinate funzioni; la flessibilità nel loro utilizzo può consentire di
realizzare scambi simmetrici anche nelle relazioni comunicative culturalmente più
complementari per esempio tra genitore e figlio e viceversa scambi complementari in
relazioni culturalmente simmetriche per esempio nella vita di coppia tra partners.
In quest’ultimo caso all’interno di una relazione paritaria si raggiungono degli equilibri e
accordi a volte taciti in cui in determinati settori uno dei due partner riconosce una maggior
competenza dell’altro ed è disposto a lasciargli “lo scettro” o delegare all’altro la
responsabilità di portare a termine un compito.
GLI STILI COMUNICATIVI
Ognuno di noi possiede diverse competenze nel campo della comunicazione: sa farsi
ascoltare, sa ascoltare, sa interagire con gli altri.
Lo stile di comunicazione è il modo con il quale si entra in un sistema relazionale. Sono,
quindi, i comportamenti che si manifestano e i sentimenti che motivano gli individui a
rispondere a determinati stimoli.
Gli studiosi della comunicazione interpersonale hanno individuato quattro classi di
comportamenti comunicativi che prendono in esame le rispettive abilità ad essi sottesi;
essi sono:
1. informare;
2. ascoltare;
3. affermare Sé;
4. considerare l’altro.
Le prime due classi di comportamento INFORMARE e ASCOLTARE fanno leva sul
contenuto della comunicazione, inerente alla dimensione consapevole della relazione
comunicativa.
Le seconde due classi di comportamento AFFERMARE SE’ e CONSIDERARE L’ALTRO
fanno, invece, particolarmente leva sulla componente affettiva ed emotiva della
comunicazione, dimensioni inerenti all’aspetto non-consapevole della relazione
comunicativa.
Chi privilegia questa dimensione pone particolare attenzione ai sentimenti e ai bisogni
delle persone piuttosto che ai contenuti dell’informazione.
E’ bene sottolineare che non è possibile isolare, in maniera netta, i diversi comportamenti
che spesso appaiono inevitabilmente intrecciati, al fine di intravedere nello stile di
comunicazione di una determinata persona il prevalere di un’abilità rispetto ad un’altra
poiché ogni comunicazione ha in sé, sempre, sia gli aspetti di contenuto che quelli di
relazione.
INFORMARE
Informare è la capacità di trasmettere un contenuto, ossia di codificarlo perché esso sia
compreso.
Può sembrare che questa capacità coincida con il comunicare, ma in realtà si può far
comprendere un contenuto senza mettere in “comune” sentimenti e valori che
accompagnano la nostra idea e perciò senza coinvolgere l’interlocutore.
Per es., l’allievo può comprendere quel che l’insegnante gli dice di fare, ma poi non lo fa,
perché non trova motivazioni capaci di sostenere la sua azione, di fatto è come se la
comunicazione non fosse passata. E’ vero che il contenuto è stato capito, ma l’allievo non
lo fa proprio.
SI PUO’ QUINDI INFORMARE SENZA COMUNICARE: ad esempio se ci si preoccupa
assai poco di cosa procuri, dal punto di vista affettivo-emotivo, il contenuto delle cose che
si dicono all’interlocutore; così pure può accadere di continuare a parlare senza
comunicare se, quando si parla a lungo con una persona, si incomincia ad interessarci più
del contenuto che di colui che si ha di fronte.
La differenza tra informare e comunicare sta nella capacità di accorgersi come il proprio
interlocutore ascolta e comprende il messaggio inviato.
ASCOLTARE
La capacità di saper ascoltare è strettamente legata alla disponibilità a conoscere il
pensiero dell’altro. Solo se si è assolutamente motivati in questo senso è possibile
sviluppare buone doti d’ascolto. L’ascolto assume, pertanto, una grande importanza nella
relazione interpersonale, in quanto è un mezzo per capire e conoscere meglio le abitudini
e le caratteristiche individuali. Il filosofo greco Zenone del V sec. A.C. diceva che l’uomo
ha due orecchie e una sola bocca, per ascoltare di più e parlare di meno. Ascoltare è una
capacità complessa, attiva e ricettiva, non rappresenta un atto di passiva decodifica di ciò
che viene trasmesso, ma comporta l’interpretazione delle comunicazioni verbali nonché di
una serie di elementi accessori del linguaggio (quali gesti, movimenti del corpo, toni della
voce) che rappresentano parte integrante di ciò che si sta trasmettendo.
La riprova che l’ascolto non è un atto passivo è dimostrata dal fatto che chi possiede
buone doti nell’ascoltare motiva gli altri a parlare.
Questo tipo di abilità si rivela indispensabile in alcune professioni, soprattutto di carattere
sociale in cui è indispensabile essere ricettivi, saper ascoltare, accogliere punti di vista.
L’ascolto attivo è prestare attenzione all’altra persona, dimostrando interesse per tutto ciò
che comunica. Saper ascoltare significa quindi far sentire l’interlocutore al centro
dell’attenzione, concentrarsi su ciò che egli dice, riflettendo poi su quanto ha espresso.
Per comunicare è necessario ascoltare, senza ascolto non c’è comunicazione. L’ascolto è
il primo passo nella relazione; l’ascolto attivo è un’abilità comunicativa che si basa
sull’empatia e sull’accettazione, sulla creazione di un rapporto positivo e di un clima non
giudicante.
L’ascolto attivo empatico è un ascolto “efficace”, in cui si prova a mettersi “nei panni
dell’altro”, cercando di entrare nel punto di vista del proprio interlocutore e comunque
condividendo, per quello che è umanamente possibile, le sensazioni che manifesta.
Da questa modalità è escluso il giudizio, ma anche il consiglio e la tensione del “doversi
dare da fare” per risolvere il problema.
Applicare una più efficiente modalità di ascolto ha diversi vantaggi in vari ambiti; l’ascolto
attivo empatico, infatti, riduce le incomprensioni e induce l’interlocutore ad esprimersi a
pieno senza timore, stimolandolo spesso a ricercare migliori possibilità espressive, anche
nei contenuti.
Gli obiettivi raggiungibili ascoltando a livello attivo empatico potrebbero consistere, quindi,
in un arricchimento personale, in un sostegno al nostro interlocutore perché trovi da solo le
risposte ai suoi problemi o entrambi contemporaneamente.
Si definisce
Ascolto attivo
prestare attenzione all’altra persona dimostrando interesse per tutto ciò che comunica
Ascoltare è una capacità complessa, attiva e recettiva.
Non incorrere nell’errore nel considerare l’ascolto come un atteggiamento passivo: il
prestare attenzione a tutte le comunicazioni verbali e non verbali richiede infatti l’impegno
dell’ascoltatore.
Bisogna sottolineare anche l’importanza di essere un buon osservatore: ciò comporta la
capacità di saper mettere un poco da parte se stessi con le nostre convinzioni, esperienze,
preconcetti, per riuscire a vedere il significato oggettivo di determinati atteggiamenti e
comportamenti dell’utente.
Gli elementi dell’ascolto attivo empatico
I principali elementi che caratterizzano una buona attività di ascolto sono:
1) sospendere i giudizi di valore e l’urgenza classificatoria, cercando di non definire a priori
il proprio interlocutore o quanto egli dice in “categorie” di senso note e codificate;
2) osservare ed ascoltare, raccogliendo tutte le informazioni necessarie sulla situazione
contingente, ricordando che il silenzio aiuta a capire e che il vero ascolto è sempre nuovo,
non è mai definito in anticipo in quanto rinuncia ad un sapere già acquisito;
3) mettersi nei panni dell’altro –dimostrare empatia, cercando di assumere il punto di vista
del proprio interlocutore e condividendo, per quello che è umanamente possibile, le
sensazioni che manifesta;
4) verificare la comprensione, sia a livello dei contenuti che della relazione, riservandosi,
dunque, la possibilità di fare domande.
Le distorsioni dell’ascolto
Le distorsioni più frequenti dell’ascolto sono le seguenti:
- si ascolta ciò che si vuole sentire;
- si pensa a ciò che si dirà, non concentrandosi su ciò che sta dicendo l’interlocutore;
- si riferisce tutto quanto si ascolta alla propria esperienza;
- si snobba e si accantona quanto viene detto perché ritenuto di poca importanza;
- si esprime accordo accettando passivamente ogni cosa che viene detta;
- si cambia troppo rapidamente argomento mostrando disinteresse.
Le quattro attività dell’ascolto
Ascoltare significa aumentare il proprio livello di consapevolezza rispetto alle reazioni
altrui, attraverso:
-L’UTILIZZO DI DOMANDE: le domande sono il modo più diretto per: coinvolgere, chiarire,
approfondire, confrontare, entrare in sintonia
-L’OSSERVAZIONE: Non bisogna fermarsi alle parole, ma è necessario dedicare
attenzione anche ai comportamenti che esprimono emozioni, atteggiamenti, intenzioni
(tono di voce, silenzi-assenzi, gestualità-postura, sguardo, espressioni mimiche)
-LA RIFORMULAZIONE: consiste nel ribadire o sintetizzare i punti essenziali della
comunicazione per imprimere maggiormente nel ricordo le priorità.
-LA RICAPITOLAZIONE: consiste nel riproporre ciò che è stato detto usando parole
concetti diversi o esempi di situazioni diverse; riprendere l’intervento dell’altro collegandolo
a situazioni comparabili o a interventi precedenti, dedurre e trarre conseguenze logiche
che aggiungono valore a quanto già detto.
Rabbia
Una volta che si “ritorna” a vivere nella realtà “reale, potrebbe iniziare a venir fuori la
rabbia. Questo è un palcoscenico comune in cui l'interrogativo principale è “perché proprio
io?”, oppure “la vita è ingiusta”.
Si potrebbe iniziare a dare la colpa agli altri per il dolore che si vive, e re-indirizzare la
rabbia verso amici e familiari.
Il tutto appare come incomprensibile, come un qualcosa che mai avresti pensato potesse
accadere proprio a te.
Se si è fedeli, si potrebbe iniziare a mettere in dubbio anche la fede verso Dio,
chiedendosi “dove sia finito, o perché non vi ha protetto”.
I ricercatori ed i professionisti della salute mentale concordano sul fatto che questa rabbia
è una fase necessaria del dolore, e incoraggiano le espressioni legate a tale emozioni.
È importante sentire veramente la rabbia, perché essendo finiti in un vortice, tirandola
fuori, pian piano inizierà a dissiparsi. Prima subentra tale meccanismo, più rapidamente si
procederà verso la guarigione.
Non è sano sopprimere i sentimenti di rabbia, in quanto non solo è una risposta naturale
ma anche necessaria.
Nella vita di tutti i giorni ci viene detto di controllare la nostra rabbia verso le situazioni e
verso gli altri, ma quando si sperimenta un evento annesso al dolore, si potrebbe avvertire
una sensazione di disconnessione dalla realtà.
La vita è come se andasse in frantumi e non c'è nulla di solido a cui aggrapparsi. La
rabbia diviene quindi la forza trainante che ci lega alla realtà.
Le persone potrebbero sentirsi abbandonate, come se nessuno fosse lì con loro, sole al
mondo.
La direzione della rabbia verso qualcosa o qualcuno è ciò che potrebbe riportare il
soggetto alla realtà e connettersi di nuovo con le persone. È qualcosa a cui aggrapparsi,
un passo naturale in avanti verso la guarigione.
Contrattazione
Quando succede qualcosa di brutto, si tende a fare un accordo con Dio. È qualcosa che
capita quasi a tutti, ma non se ne ha molta consapevolezza.
“Per favore, Dio, se guarisci mio marito, mi sforzerò di essere la migliore moglie che io
possa mai essere e non mi lamenterò mai più”.
Questa è ciò che prende il nome di contrattazione. In un certo senso, questo stadio è una
falsa speranza. Si potrebbe credere falsamente che si può evitare il lutto attraverso un tipo
negoziazione.
Se questo cambia, di riflesso io cambierò.
Si è così disperati da voler riportare la propria vita a com'era prima dell'evento e si è
disposti a pensare di poter cambiare vita nel tentativo di sentirsi normali.
Il senso di colpa è tipico della fase di contrattazione. Questo è supportato dalle infinite
affermazioni “chissà se.”: E se fosse uscito di casa 5 minuti prima, l'incidente non sarebbe
mai accaduto; e se l'avessi incoraggiato ad andare prima dal dottore, come pensavo, il
cancro sarebbe stato diagnosticato prima e ora forse poteva salvarsi.
Depressione
La depressione è una forma comunemente accettata di dolore. Di fatto, la maggior parte
delle persone associa immediatamente la depressione al dolore, poiché è un'emozione
“presente”.
Rappresenta il vuoto che proviamo quando viviamo nella realtà e ci rendiamo conto che
una persona o situazione è andata o finita.
In questa fase, le persone solitamente si “ritirano” dalla vita, si sentono insensibili, vivono
in una nebbia e non vogliono alzarsi dal letto. Il mondo potrebbe sembrare troppo
opprimente per poterlo affrontare.
Non si gradisce la presenza o la compagnia di altri, perché non si nutre nessuna voglia di
parlare o condivisione dei propri sentimenti di disperazione. Si potrebbero anche avere
pensieri suicidi.
Accettazione
L'ultima fase del dolore identificata da Kübler-Ross è l'accettazione. Non nel senso
che: “va tutto bene, mio marito è morto”, per esempio, quanto piuttosto “mio marito è
morto, ma io starò bene”.
In questa fase, le emozioni iniziano pian piano a stabilizzarsi e vi è un ritorno alla realtà. Si
acquisisce consapevolezza della situazione attuale, come ad esempio che il vostro
compagno o compagna non tornerà mai più, o che soccomberete alla malattia, ma riuscite
a sentirvi “bene”.
Non è una cosa positiva, ma è qualcosa con cui la persona ha imparato a convivere. È
sicuramente un momento di adattamento e ri-adattamento.
Si riescono a trascorrere delle giornate piacevoli, ma anche dei giorni tristi e pesanti, e poi
di nuovo delle belle giornate.
In questa fase, ciò non significa che non si vivranno mai delle brutte giornate, in cui si è
incontrollabilmente tristi, ma i bei giorni tenderanno a superare quelli brutti.
Si può così iniziare a interagire nuovamente con gli amici, e persino creare nuove relazioni
con il passare del tempo.
Si arriva quindi alla comprensione che la persona amata non potrà mai essere sostituita,
ma ci si muove, si cresce e si evolve nelle nuove realtà.
L’assistenza a pazienti con sospetta o accertata patologia trasmissibile per via aerea
comporta un rischio di esposizione ad agenti biologici che possono causare il manifestarsi
di una patologia a carico dell’apparato polmonare. I dispositivi di protezione respiratoria
che proteggono bocca e naso dall’inalazione di particelle contaminanti svolgono altresì un
efficace effetto barriera anche dalla possibile contaminazione dell’operatore con schizzi o
spruzzi di materiale biologico.
Mascherina chirurgica: Monouso in tessuto non tessuto; tre strati: esterno
filtrante, centrale impermeabile ai liquidi e permeabile all’aria, strato interno a
contatto con la pelle ipoallergenico; con barretta intera deformabile
stringinaso per conformare perfettamente la mascherina al volto; sistema di
fissaggio a legacci o elastici;
Filtrante Facciale FFP2: Deve coprire il naso, la bocca e il mento ed aderire
al volto; dotate di doppio elastico, stringinaso con guarnizione di tenuta
(con/senza valvola di espirazione). Questo tipo di mascherina è indicata
durante il trattamento di un paziente affetto dalla tubercolosi.
Molte mansioni espongono gli occhi ed il volto degli operatori a rischio biologico:
Occhiali ad oculare singolo svolgono adeguata funzione protettiva per eventuali
schizzi di materiale organico che potrebbero raggiungere le congiuntive.
Devono invece essere adottati occhiali del tipo panoramico a maschera nei casi di
esposizioni a “droplet”.
Visiere o schermi facciali possono essere usati per quelle situazioni in cui
l’esposizione al rischio biologico, da spruzzi o getti, assume carattere di maggiore
rilevanza ed anche in funzione della protezione delle mucose di bocca, e naso.
Per quanto riguarda la protezione delle mani i guanti monouso rappresentano il mezzo più
utile; è però necessario ricordare che prima e dopo l’uso dei guanti, occorre sempre
eseguire l’igiene delle mani con acqua e sapone/antisettico o frizione con alcool.
Tutti i pazienti devono essere considerati potenzialmente infetti. Pertanto i guanti devono
essere indossati dall’operatore sanitario per fornire una barriera protettiva per prevenire la
contaminazione delle mani in caso di contatto con sangue, liquidi biologici, mucose e cute
non integra del paziente, con strumenti o materiali contaminati da essi; Sono resi
disponibili diversi tipi di guanti, in funzione delle diverse esigenze del servizio e
dell’operatore.
I materiali di cui sono costituiti i guanti sono molteplici, quelli più utilizzati però sono quelli
in lattice con o senza polvere.
I guanti monouso sono quei dispositivi utilizzati solo quando la procedura da eseguire non
è soggetta a norme di sterilità, sono quindi da considerarsi tra i più utilizzati. In sala
operatoria invece sono utilizzati dei guanti, che sottoposti ad un particolare processo
fisico, sono definiti sterili, proprio per evitare complicazioni infettive durante l’intervento
chirurgico.
Perché i guanti svolgano la loro funzione è importante tenere presente la scelta di una
misura adatta alle proprie mani è importante, perché i guanti devono aderire
perfettamente, in special modo in corrispondenza della punta delle dita e degli spazi
interdigitali. Oltre a garantire una migliore sensibilità all’operatore, l’uso di guanti bene
aderenti ma non troppo stretti riduce il rischio di rotture accidentali. Guanti che non
calzano bene (sia in eccesso che in difetto) possono interferire con la destrezza e capacità
operativa esponendo l’operatore a rischi potenziali; causare frizioni se troppo stretti
danneggiando lo strato esterno di cellule della pelle risultando in una irritazione cutanea;
determinare sudorazione eccessiva quando vengono indossati troppo a lungo, creando un
ambiente idoneo alla crescita batterica ed alle lesioni cutanee.
Quando sostituirli:
Eseguendo diversi tipi di procedure sul paziente o se rimane a lungo a contatto con
sangue o altri liquidi organici;
In caso di contatto con sostanze chimiche in grado di danneggiarli;
Con cadenza regolare in caso di intervento prolungato;
Se occorre una pausa tra le manovre antisettiche;
Se c’è un prolungato contatto con sudore o altri liquidi organici;
Tra un paziente e l’altro;
Quando presenta lacerazioni, fori, danneggiamenti;
Dopo ogni procedura.
Come rimuoverli:
Rimuovere un guanto afferrando l’esterno del polsino con la mano opposta;
Tenerlo nella mano che calza ancora il guanto;
Con la mano libera rimuovere il secondo guanto partendo dall’interno infilando un
dito sotto il bordo;
Se possibile, infilare il primo guanto all’interno del secondo guanto.
Per quanto riguarda la protezione del corpo i camici in TNT monouso devono essere
indossati quando è possibile sporcarsi con escrezioni e secrezioni o spruzzi di secrezioni
respiratorie o quando si deve intervenire in ambienti contaminati.
Il camice va rimosso con attenzione perché è probabile che sia contaminato, soprattutto
nella parte anteriore. In sala operatoria si utilizzano camici in tessuto non tessuto che dopo
aver ricevuto un particolare processo fisico sono definiti sterili.
Per rimuovere un camice bisogna slacciare i lacci, occorre afferrarlo per i lembi superiori,
lo si sfila rivoltando le maniche su sé stesse. Il camice va poi ripiegato in modo che la
parte anteriore sia rivolta verso l’interno, in modo da poterlo maneggiare toccando solo la
parte interna, pulita. In tutte queste fasi si deve evitare di scuotere il camice.
Nelle comuni attività gli operatori sanitari sono soggetti ad un fattore di rischio da
contaminazione attraverso i piedi che può essere considerato sicuramente modesto. Nelle
condizioni operative di reparto, possono essere considerate sufficienti le normali calzature
in dotazione. Qualora debbano essere affrontate specifiche attività a maggior rischio (p.e.
nel caso di interventi di bonifica oppure procedure che generano spruzzi di liquidi biologici)
è opportuno l’utilizzo di soprascarpe di protezione
Durante le attività lavorative gli operatori sanitari sono soggetti ad un fattore di rischio da
contaminazione attraverso il capo che può essere considerato sicuramente modesto.
Qualora debbano essere affrontate specifiche attività a maggior rischio, ovvero quando sia
importante prevedere un livello di protezione anche per l’utente o i prodotti trattati, è
opportuno l’utilizzo di copricapo di protezione Le cuffie in TNT monouso proteggono i
capelli ed il cuoio capelluto da contaminazione in presenza di aerosol e batteri, o virus, a
diffusione aerea; devono essere indossati quando è possibile il contatto con escrezioni e
secrezioni o quando si deve intervenire in ambienti contaminati.
Di particolare rilievo è però il loro utilizzo nelle sale operatorie per evitare che i capelli
possano contaminare il campo operatorio o zone sterili.
Fare attenzione ad indossare la cuffia avendo cura di coprire completamente i capelli,
eventualmente raccogliendoli con elastici prima di indossare la cuffia per evitare una
fuoriuscita degli stessi mentre si è impegnati nelle procedure di assistenza; una volta
terminato la cuffia va rimossa triandola verso l’alto.
In conclusione, l’operatore sanitario deve possedere le conoscenze e competenze nella
scelta del tipo di dispositivo di protezione individuale da utilizzare, a seconda dei casi in
cui si trova. Inoltre conosce e comprende quali siano le leggi comportamentali e giuridiche
che regolano la manutenzione e l’utilizzo dei DPI.
Prima della sua istituzione, il sistema assistenziale era basato sulle mutue, enti che
fornivano assistenza sanitaria a determinate categorie di lavoratori e alle loro famiglie. Le
cure offerte dalle mutue erano finanziate con i contributi versati dai lavoratori stessi e dai
loro datori di lavoro.
Nel 1968, con la legge n.132 (legge Mariotti) fu riformato il sistema degli ospedali che,
dapprima gestiti da enti di assistenza e beneficenza, furono trasformati in enti pubblici, con
nuove funzioni nell’ambito della programmazione nazionale e novità riguardanti i
finanziamenti.
Nel 1974, con la legge n. 386, furono estinti tutti i debiti accumulati dagli enti mutualistici
nei confronti degli enti ospedalieri e tutti i compiti di assistenza ospedaliera furono attribuiti
alle regioni.
Con la legge n. 833/78 fu definitivamente soppresso il sistema mutualistico ed istituito il
Sistema Sanitario Nazionale, garantendo così l’assistenza a tutti i cittadini. Il SSN è
finanziato dallo Stato stesso attraverso la fiscalità generale e le entrate dirette percepite
dalle aziende locali attraverso il pagamento di ticket sanitari.
Il SSN è articolato secondo diversi livelli di responsabilità e di governo:
- Livello centrale: lo stato ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto
alla salute e alle cure, mediante l’utilizzo dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).
- Livello regionale: le regioni hanno la responsabilità della realizzazione della spesa
per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese.
Il SSN quindi è un insieme di enti che insieme concorrono al raggiungimento della tutela
della salute del cittadino.
L’Operatore Socio Sanitario è una figura professionale codificata dall’Accordo Stato
Regioni del 22/02/2001. La figura delineata dal profilo va a sostituire le precedenti, meno
complete, indicate con gli acronimi OTA (per l’area sanitaria) e OSA (per l’area sociale).
L’OSS, a seguito del conseguimento dell’attestato di qualifica ottenuto al termine di un percorso di studi, svolge
un’attività indirizzata a soddisfare i bisogni primari della persona.
In Italia le giunte regionali programmano l’attivazione dei corsi in funzione del fabbisogno
professionale, stabilendo quanti saranno i posti disponibili per accedere alla formazione,
per la quale gli aspiranti OSS (maggiorenni in possesso del diploma di scuola secondaria
di primo grado) dovranno sostenere e superare una prova di selezione.
All’articolo 3 dell’Accordo Stato Regioni, che individua il profilo professionale dell’OSS, è stabilito che l’Operatore Socio
Sanitario svolge la sua attività sia nel settore sociale che in quello sanitario, residenziale semiresidenziale, in ambiente
ospedaliero o al domicilio dell’utente.
L’Accordo Stato Regioni del 26 gennaio 2003 disciplina la formazione complementare in
assistenza sanitaria della figura dell’OSS al fine di consentire allo stesso di Collaborare
con l’infermiere o l’ostetrica e di svolgere alcune attività assistenziali in base
all’organizzazione dell’unità funzionale.
Il profilo professionale dell’OSS con formazione complementare mantiene tutti i compiti
previsti per l’OSS, svolge alcune attività aggiuntive in ambito assistenziale, igienico –
sanitario, diagnostico e terapeutico.
L’OSS lavora con persone che vivono in una condizione di disagio sociale, fragili o che
sono malate: anziani con problemi sociali e sanitari, famiglie, bambini e ragazzi
problematici, persone disabili, adulti in difficoltà o con problemi psichiatrici, degenti in
ospedale, case di cura private, residenze sanitarie, case di riposo, centri diurni o in ambito
territoriale.
Compiti principali di questa figura professionale sono soddisfare i bisogni primari della
persona, favorire il benessere e l’autonomia dell’utente, svolgere le sue attività in
collaborazione con altre figure professionali, deve saper lavorare in équipe dove
confluiscono più professionalità. Le funzioni in questione sono declinate in autonomia o in
collaborazione:
L’OSS, quale figura tecnica di interesse sanitario ed essendo in possesso di caratteristiche
specifiche di ausiliarietà assistenziale, non ha potere decisionale su funzioni che non
rientrano tra le sue competenze, e si attiene alle indicazioni e prescrizioni dell’infermiere o
delle altre figure professionali sanitarie o tecnico sanitarie, assumendo mansioni di
supporto.
PRIVACY
La privacy è un insieme di norme create per garantire che il trattamento dei dati
personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di ognuno: in ambito
sanitario, il trattamento dei dati personali riceve una disciplina specifica.
Il Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, detto anche testo unico sulla privacy,
contiene tutte le regole appartenenti alla materia di protezione di dati individuali.
Il decreto, nell’art 1, dice che chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo
riguardano, garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e
delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento
alla riservatezza.
I sistemi informativi e i programmi informatici sono configurati in modo da ridurre al minimo
l’utilizzazione di dati personali e di dati identificativi, in modo da escluderne il trattamento
quando l’obiettivo da ottenere può essere realizzato mediante dati anonimi od opportune
modalità che permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità.
I dati personali sono tutte le informazioni relative a persone fisiche o giuridiche, oppure
ad enti e associazioni, che consentano l'identificazione diretta o indiretta di questi stessi
soggetti.
Esistono, inoltre, i cosiddetti dati sensibili, che riguardano la sfera personalissima della
persona, come informazioni sulle opinioni religiose o politiche, sulle abitudini sessuali,
sulla salute, etc., per i quali la legge prevede una tutela più forte rispetto agli altri.
Il trattamento dei dati personali è ammesso soltanto col consenso dell’interessato. Per
quanto riguarda, in particolare, i dati sensibili, essi possono essere trattati solo previo
consenso scritto dell’interessato.
I lavoratori si prendono cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone
presenti sul luogo di lavoro e quindi devono:
- osservare le disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro riguardo la
protezione collettiva e individuale;
- utilizzare in modo appropriato i DPI;
- segnalare immediatamente il malfunzionamento di qualsiasi apparecchiatura,
l’assenza dei DPI o qualsiasi altra condizione che metta a rischio la salute.
- Non compiere di propria iniziativa azioni che possano mettere a rischio la salute
degli altri.
- Sottoporsi ai controlli sanitari obbligatori previsti dalla normativa.
La SORVEGLIANZA SANITARIA OBBLIGATORIA (SSO) è effettuata dal Medico
Competente nei casi previsti dalla legge, e/o su richiesta del lavoratore. Non è prevista per
ogni lavoratore ma viene attuata solamente per i lavoratori esposti a rischi specifici
individuati dalla norma.
Essa comprende:
- accertamenti preventivi per constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i
lavoratori sono destinati, valutandone quindi la loro idoneità alla mansione loro
assegnata;
- accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere
giudizio di idoneità alla mansione loro assegnata, controlli effettuati su richiesta, al
cambio di mansione o a cessazione del rapporto di lavoro.