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5 ottobre 2014
Palestra Provinciale per il Budō
Sasebo (Nagasaki)
Istruttore: Kentarō Miyazaki
Per un kendō bello con kigurai: per praticanti di alto grado (per
praticanti anziani)
Tema
Il tobikomi men che non arriva più a bersaglio, la velocità che viene via via meno, la
capacità di reazione che si affievolisce, la sensazione di un progressivo venir meno della
forza fisica: come devono fare quotidianamente keiko, o affrontare le gare e gli esami di
sesto, settimo e ottavo dan, quei praticanti che hanno un’età da i 55 anni in su?
Invecchiando, gli obiettivi che ci si pone nel kendō, ciò che si ricerca, per forza devono
cambiare, proprio come la forza fisica non può che scemare. Bisogna abbandonare in
fretta quel desiderio irrazionale, sconsiderato e senza particolare valore, per cui si
desidera, si vuole continuare a fare il kendō di quando si avevano 20 o 30 anni (un kendō
per vincere nelle gare, per non essere colpiti). Da più parti si ritiene che sia una buona
idea cambiare e dedicarsi a un kendō più interessante, più profondo, più sensato.
Se si continua senza cambiare mai, pur avendo avuto una carriera kendistica brillante
in gioventù, si finisce per fare un keiko che non progredisce più. Invece ci sono persone
che da giovani non erano molto brillanti (cioè erano deboli nelle gare), ma che con il
passare degli anni sono cambiate e possiedono un’aura splendida e imponente.
È importante chiudere al più presto la fase in cui si trae soddisfazione da una sorta di
istinto combattivo animalesco per cui si decide chi è più forte in base al fatto di colpire i
punti validi del corpo dell’avversario; è importante, cioè, finirla al più presto con il mero
kendō-sport in cui si è soddisfatti dicendo: «Guarda, sono ancora in gamba, ce la faccio
ancora!». Bisogna cambiare e passare a un kendō-budō in cui insieme al compagno o alla
compagna si colpiscono le debolezze che abitano nei nostri cuori di esseri umani, un
kendō-budō in cui si cerca di raffinare sempre di più uno spirito il più possibile posato,
forte, bello, un “cuore immobile” (fudōshin), lo “spirito quotidiano” (heijōshin). C’è un
keiko che si può continuare a praticare divertendosi fino al giorno in cui si morirà, un
keiko in cui si può sempre migliorare.
Nel kendō-sport si gioisce se si realizza un ippon, ci si bea dell’aver fatto punto, e
finisce tutto lì. Quando si è colpiti è invece uno shock, cui si reagisce subito senza pensare
a perché si è stati colpiti: ce la si mette tutta e si cerca in tutti i modi di superare
l’arrabbiatura facendo a propria volta un punto. Invece nel kendō-budō ci si diverte sia
facendo punto che subendolo, e in ogni caso si è riconoscenti rispetto al compagno o alla
compagna con cui si sta praticando. Quando si è fatto punto, si è riconoscenti perché ci è
stata insegnata un’occasione per colpire; quando si viene colpiti, si è riconoscenti perché
ci è stato insegnato un punto che rivela la nostra immaturità. Tutto questo è ciò che alla
fine permette di venire promossi agli esami. Il kendō di chi pensa solo a vincere e non
perdere anche se ormai non è più un giovincello, di chi pensa solo: «Voglio vincere,
vincere! Voglio colpire e non essere colpito!», è un kendō penoso che non si può proprio
vedere.
4. Ippon al primo colpo – Un keiko in cui facendo seme non si colpisce, e quando
si colpisce, lo si fa con la risolutezza di uccidere con un colpo solo
Nello iai si dice «dentro la saya (saya no uchi)», ossia che la cosa più importante è uno
stato spirituale per cui non si sfodera la katana e non si induce l’avversario a sfoderare.
Una volta che si sfoderi, però, la vittoria e la sconfitta vengono determinate per lo più con
un colpo decisivo. Quello che nel kendō è definito ippon al primo colpo (shodachi ippon),
per prima cosa non significa semplicemente fare il primo ippon. Significa invece il primo
movimento che si esegue per tagliare. Se si determinasse vittoria e sconfitta con una
katana vera, il combattimento non arriverebbe al terzo punto (sanbon shōbu). Se si fa un
combattimento al terzo punto con la shinai, bisogna cercare di combattere con lo spirito
di fare tre volte ippon shōbu, un combattimento al primo colpo.
Può suonare un po’ esagerato, ma nel keiko del kendō, quando ci si allena con un
compagno o una compagna, non si potrebbe porsi nei loro confronti con lo spirito di
provare a usare sempre un unico colpo definitivo? Certo, se quel colpo unico fosse un
ippon, poi si può senz’altro cercare di farne un altro ancora. Quello che vorrei dire è di
cercare di colpire ogni volta con l’attitudine mentale di giocarsi tutto con il primo colpo.
Cioè non andare a colpire a cuor leggero se non si è ancora potuta cogliere un’occasione
di cui siamo convinti che sia quella decisiva. Provate a chiedervi se andreste a colpire alla
leggera nel caso in cui il combattimento fosse davvero con delle katane. Durante le gare
di kendō non è raro vedere atleti che si lanciano a colpire men già nell’istante in cui
l’arbitro dà il segnale di inizio. «Prendere l’avversario di sorpresa», «vincere attaccando
per primi», è come giocarsi tutto in una scommessa. Chi per anni e anni ha accumulato
pratica nel budō, sa che la vittoria o la sconfitta (la vita o la morte) si decidono al momento
giusto, e vuole giocarsi tutto in un combattimento che dipende da un colpo solo, senza
rimpianti. Se ci si dedica ogni giorno al keiko con questo spirito, chi vi guarda non potrà
rimanere indifferente: si tratta di cercare di avvicinarsi ogni volta di un passo allo stato
spirituale del «gallo di legno» (L’immagine del “gallo di legno” significa che, come un
gallo costruito con il legno, si nasconde la propria forza e si rimane del tutto impassibili
rispetto all’avversario).
Allora si potrebbe provare a fare un jigeiko in cui chi davvero perde (chi davvero viene
colpito “al cuore”), anche se si tratta di un solo ippon, per quel giorno finisce lì. Se si
subisce il seme dell’avversario, si scappa indietro, si evita il colpo, si distrugge la postura,
anche qualora non si sia stati colpiti in una zona valida, se anche il corpo non è stato
colpito, il “cuore”, lo spirito, sì: bisogna riconoscere in modo sincero di aver subito un
ippon. Viceversa, anche se si viene colpiti ma non era un colpo in cui l’avversario si
giocava davvero tutto, bensì il frutto di una finta, di un tranello, un colpo che non colpisce
in profondità, il cuore non viene colpito e non si deve pensare di avere subito un ippon.
Si deve considerare ippon solo un colpo in cui si è stati davvero “tagliati”. Va da sé che
in questo modo i combattimenti che finiranno in pareggio saranno molti, ma va bene così.
5. In un kendō con kigurai deve esserci “zanshin”. Lo iaidō è zanshin allo stato
puro
Un kendō (o uno iaidō) con kigurai nasce da zanshin. Perché molte persone mettono
tutto il loro impegno per fare un ippon? Forse per assaporare la gioia e la felicità di aver
fatto un punto, per godersi l’attimo della vittoria, con il pericolo di dimenticare in quel
momento l’esistenza stessa del compagno o della compagna. In una gara di kendō, però,
non è che tutto finisce nel momento in cui gli arbitri alzano la bandierina. Nel kendō c’è
una regola che non si vede negli altri sport: se ci si lascia andare a gesti di giubilo, il punto
viene annullato. Questa regola è la prova che il kendō è budō. Quando nel calcio o nel
tennis si alzano le braccia al cielo in segno di vittoria, probabilmente si vive la gioia del
trionfo, ma non si ha più considerazione dell’avversario.
Originariamente nel budō l’istante della vittoria significava l’istante in cui l’avversario
veniva tagliato, ucciso. Se di fronte a noi ci fosse un avversario ancora vivo, nessuno si
metterebbe a esultare braccia al cielo. Bisognerebbe ancora fare attenzione rispetto a una
sua possibile reazione, prestargli la massima attenzione. Per lo più si chiama ciò “zanshin”,
ma zanshin non è solo di questo. Il senso fondamentale di “zanshin” risiede nel rispetto e
nella gratitudine per l’avversario che ha combattuto con la massima determinazione in
modo corretto e dignitoso; risiede nella gratitudine per Dio o gli dei che ci hanno
permesso di prolungare ancora di un po’ la nostra vita; risiede nella gratitudine per la
katana che ha protetto il nostro corpo. Il momento in cui così tanti pensieri si affollano
dentro di noi viene espresso da un istante di silenzio in cui si resta immobili, ovvero da
“zanshin”. È quello che nel teatro nō, un’altra arte tradizionale giapponese, si dice «senu
hima», “un intervallo di tempo in cui non si fa nulla”. Quell’istante di tempo vuoto in
realtà dice tutto, e chi guarda viene colto da una grande emozione. Nel budō bisogna dare
importanza al tempo che viene dopo la vittoria (zanshin), più che all’istante in cui si è
vinto. (Si veda Cultura e budō, pp. 36-7, 156-7).