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Monge Roffarello A. - Parola Alberto. Dispense sulla CNV

ESPRESSIONI DEL VOLTO


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Introduzione
Le espressioni del volto sono rivelatrici di emozioni, sentimenti, atteggiamenti
ora occasionali, ora persistenti degli individui. In particolare, questo segnale si
circoscrive alla bocca, alle sopracciglia, ai muscoli facciali, agli occhi ed allo
sguardo che tratteremo approfonditamente nella U.D.7. Esso orienta i rapporti
interpersonali: infatti, la prima impressione che ci facciamo di un individuo a noi
sconosciuto, in base alle caratteristiche peculiari del suo volto, influenza le
caratteristiche del rapporto.
Il volto può essere considerato come un’area di comunicazione specializzata per
manifestare atteggiamenti nei confronti di altre persone, ma soprattutto per
esprimere le nostre emozioni.
Differentemente dall’animale, l’uomo può controllare ed alterare le sue
emozioni, anche se ciò non risulta facile. Infatti alcune espressioni del volto
umano esulano dal nostro controllo cosciente evidenziando così, a nostra
insaputa, il nostro stato d’animo che, in un determinato momento, si manifesta
attraverso canali comunicativi alternativi: la traspirazione, la dilatazione delle
pupille (vedi U.D. 7) ed i micro-movimenti dei muscoli facciali. Questi ultimi
sono rappresentati da espressioni momentanee di breve durata (di circa 0,2 sec.,
possono essere appena intraviste o addirittura non viste ad occhio nudo) che
tradiscono l’intenzione del soggetto di mascherare o reprimere il suo vero stato
d’animo. Ekman e Friesen (1969) individuarono queste espressioni di
brevissima durata proiettando al rallentatore delle riprese filmate.
Le prime espressioni utili, dal punto di vista biologico, come mostrare i denti o
spalancare gli occhi divennero, in seguito, rituali e furono utilizzate come segnali
sociali: il volto si sviluppò come area di comunicazione fino a specializzarsi in
modo complesso. Nelle specie animali, solamente quelle più evolute possiedono
un grande discernimento visuale mentre quelle inferiori fanno uso delle
espressioni del volto molto raramente. Esse possono essere inserite in tre diverse
categorie a seconda della rapidità del movimento con il quale si manifestano e a
seconda del sistema nervoso che le controlla:
a) le emozioni (vedi par. 6.4.) si manifestano con movimenti lenti e si ipotizza
che dipendano dal SNA (sistema nervoso autonomo) anche se c’è la compresente
mediazione di fattori cognitivi;
b) i segnali interattivi (vedi par. 6.5.) vengono trasmessi molto rapidamente e si
ipotizza che vengano controllati dal SNC (sistema nervoso centrale);
c) la personalità (vedi par. 6.6.) viene manifestata in modo statico anche se può
venire espressa con reazioni veloci e ripetute, per esempio con la tendenza
costante a ridere. Essa dipende dalle strutture del corpo ma, tuttavia, subisce
controlli da tutti e tre i livelli appena citati.
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6.1. Le espressioni del volto in un’ottica sociale


Secondo Ekman e Friesen (1969), una espressione può essere manifestata
apertamente, ostentata, modificata o anche interamente repressa.
Essi affermano che le espressioni del volto seguono delle regole precise,
socialmente apprese, che si evolverebbero, per ciascun individuo, durante il corso
del suo sviluppo.
Queste norme sarebbero frutto dell’apprendimento e diverse da cultura a cultura.
Esse sono chiamate “regole di esibizione” e possono essere così riassunte:
- deintensificare l’indizio visivo di una emozione
- aumentarne l’intensità
- esprimere indifferenza
- mascherare l’emozione.
Gli autori non si limitano ad evidenziare queste regole ma affermano che esse
tengono conto della personalità dell’individuo che esprime l’emozione, di colui
che la osserva e del contesto sociale. Lazarus (1969) analizzò le regole di
esibizione in due diverse culture: quella americana e quella giapponese. Egli notò
delle differenze nel controllo dell’espressione delle emozioni: la dissimulazione
dei sentimenti negativi può essere attuata non senza difficoltà, come già
evidenziato nell’introduzione, però il volto può essere controllato molto meglio
di altre fonti di comunicazione non verbale. Mostrando un filmato, ricco di
immagini ad alta intensità emotiva (contenente scene disgustose), ad un certo
numero di individui di entrambe le culture, l'autore osservò che, interrogati in
seguito sulla sequenza, i Giapponesi rimanevano impassibili mentre gli americani
manifestavano liberamente i propri sentimenti: infatti i Giapponesi mostrano
reazioni allo stress, nelle espressioni del volto, solamente quando sono da soli e
non si sentono osservati; ciò a causa del controllo che essi esercitano sulle loro
emozioni. Questo controllo è determinato, in larga misura, dall’educazione e
dall’apprendimento culturale e sociale. L’addestramento sociale, secondo
Tomkins (1962), permette all’individuo di apprendere un numero di associazioni
tra eventi, ricordi, previsioni ed emozioni.
Il rapporto tra i segnali inviati dal volto e l’eloquio viene evidenziato da
Birdwhistell (1968), considerando l’interazione tra gli individui ed analizzando i
lineamenti del volto di colui che parla e di colui che ascolta: chi parla utilizza
sottolineature cinesiche come “inarcare le sopracciglia” mentre enfatizza
vocalmente le parole ed esprime una sincronia tra i segnali che invia ed i
movimenti che esegue; chi ascolta reagisce con piccoli movimenti delle labbra,
della fronte, delle sopracciglia stesse per indicare, ad esempio, la sua perplessità
per le parole pronunciate dal suo interlocutore, la sua indifferenza e così via.
Argyle (1975) afferma che le sopracciglia rappresentano un’importante area
specializzata di informazione in quanto forniscono un commento continuo e
puntuale seguendo una determinata scala a seconda dell’emozione trasmessa:
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- incredulità
- sorpresa
- indifferenza
- perplessità
- collera.
Esse assumono una conformazione di massimo inarcamento se l’emozione
provata è l’incredulità mentre risultano decisamente abbassate in caso di collera.
L’autore osserva che, oltre alle sopracciglia, partecipa al commento gestuale
anche la zona facciale intorno alla bocca.

6.2. Le espressioni del volto in


un'ottica evolutiva
Affrontando questo segnale da un punto di vista evoluzionistico, si è già detto
che l’area del volto, nell’uomo, si è specializzata sempre di più nella
comunicazione non verbale. Animali inferiori, come ad esempio alcuni tipi di
anfibi, esprimono un comportamento di minaccia attraverso il rigonfiamento del
collo mentre in alcune specie di uccelli questo comportamento viene espresso
attraverso l’innalzamento della cresta. In basso nella scala evolutiva si osserva un
maggior uso della postura e dell’aspetto esteriore e un ridotto utilizzo di segnali
derivanti dal volto. In particolare, però, un repertorio elaborato di questi segnali
si osserva in animali che possiedono una vita sociale complessa come i primati:
essi utilizzano delle espressioni facciali per ciascuna delle relazioni interpersonali
intrattenute con i loro simili. Negli animali, oltre agli atteggiamenti
interpersonali, possono essere espresse, tramite questa area, anche le emozioni,
l’identità individuale e lo status sociale di dominanza o di sottomissione.
Da un punto di vista etologico, Morris (1977) ci offre alcuni esempi di
espressione del volto assimilate ora ad azioni, ora a segnali semplici, ora
combinati con altri per formare gesti o varianti gestuali; vediamo questi esempi.
- Gli esseri umani di tutto il mondo effettuano una rapida azione sopraccigliare
quando salutano; le sopracciglia si sollevano per un attimo e subito si
riabbassano. Anche se non si tratta di una prova conclusiva, la distribuzione
globale del movimento descritto fa pensare che si tratti di una azione innata.
Chi effettuò questa ricerca fu l’etologo Eibl-Eibelsfeldt (1976): egli osservò che
il saluto oculare era praticamente identico in diverse popolazioni umane, in
particolare riferendosi a delle ragazze di Samoa, a individui francesi, giapponesi,
africani (Turkana, Nilotohamiti, Himba), boscimani e indiani del Sudamerica
(Waika, Orinoco). L’autore effettuò delle riprese filmate e le analizzò,
approfonditamente, fotogramma per fotogramma (tutte le riprese provengono da
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filmati in 16 mm. alla frequenza di 48 pose/sec.). Anche una ricerca, dello stesso
autore, su bambini nati ciechi e sordi, rivelò che i mutamenti di espressione
facciale si presentano indipendentemente dall’imitazione e dall’apprendimento e
devono, quindi, essere innate.
- Alcune espressioni del volto particolari, come “strizzare l’occhio”, non sono
innate ma devono essere deliberatamente apprese: troviamo la conferma di
quanto detto osservando un bambino che tenta per la prima volta di
padroneggiare questa azione apparentemente semplice; alcuni individui trovano
difficoltà a strizzare l’occhio anche da adulti.
- Alcune azioni possono essere considerate miste. Cioè i quattro modi con cui noi
acquisiamo dei modelli di azione (eredità genetica, scoperta personale,
assimilazione sociale, apprendimento deliberato) non sono rigidamente separati
ma possono essere compresenti; molte azioni devono la loro "forma adulta"
all’influsso di più di una di tali categorie. Ad esempio, azioni universalmente
diffuse come il riso ed il pianto possono essere soppresse o ostentate a seconda
della cultura che impone delle pressioni sociali: la risata soffocata, con la mano
sulla bocca, di una donna di origini orientali differirà rispetto alla risata aperta di
una donna londinese. Anche nel pianto ci possono essere grandi differenze: un
“singhiozzare sfrenato con la faccia contorta dalla pena” rispetto ad un
“lacrimare silenzioso”, quasi senza espressione.
- Come già affermato l’uomo riesce a controllare molto bene le espressioni del
suo volto. Noi ci presentiamo in pubblico con delle “maschere”, tutti facciamo
del nostro meglio per essere cortesi, ma i nostri sorrisi a volte ci tradiscono:
infatti, un basilare ed acuto conflitto tra il nostro mondo interiore e la nostra
immagine esteriore, per il quale i nostri pensieri e le nostre azioni o espressioni
non concordano ma determinano un momento di tensione, crea una fuga di
informazioni non verbali che può essere recepita dal nostro interlocutore. Spesso
non riceviamo una risposta ostile perché egli coopera alla nostra menzogna.
- Spesso l’uomo invia dei segnali contraddittori in cui si hanno degli elementi in
opposizione ma, a differenza dei segnali ambivalenti, lo stato d’animo di chi
invia il segnale è semplice e non misto. Un esempio ci è dato da una tipica
espressione che consiste in due segnali contraddittori:
- la timida inclinazione della testa in avanti
- lo sguardo audace.
A quale segnale dobbiamo credere? Morris (1977) afferma che possiamo credere
agli occhi in quanto la testa china è un segnale identificato, presente, cioè, nella
nostra mente come immagine fissa, prefabbricata, facile da usare in maniera
calcolata. Quindi è lo sguardo che distingue questa espressione da un’altra di
vera timidezza, in cui testa ed occhi sono entrambi abbassati.
Secondo l’autore la probabilità che una azione rifletta uno stato d’animo
autentico aumenta:
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- quanto più l’azione è “lontana” dal volto (cioè compiuta da altre parti del corpo
che utilizziamo meno consapevolmente);
- quanto meno consapevole ne é il soggetto;
- se si tratta di una azione non identificata (che non è diventata un’unità di
comportamento riconosciuta tra la popolazione in genere).
- L’uomo può inviare dei segnali carenti, la cui reazione non raggiunge la
necessaria intensità: per esempio il sorriso “accendi e spegni” delle fotografie di
famiglia svanisce con rapidità a differenza del sorriso spontaneo che ha una
durata maggiore e si spegne più lentamente . Il vero stato d’animo dei soggetti
interferisce con la sua esibizione sociale e la carenza può intravvedersi sia nella
durata che nella forza dell’espressione.
Noi uomini siamo inconsapevoli della sottile complessità dei nostri gesti e delle
nostre espressioni cosicché non riusciamo a copiarli perfettamente: se un volto
umano viene costretto a sorridere per compiacere ad un fotografo, questo falso
sorriso comincia presto a spegnersi; ciò vale anche per soggetti con maggiore
esperienza come gli attori o le modelle professioniste.
- Allo stesso modo l’uomo può inviare dei segnali eccessivi: in questo caso egli è
inconsapevole della natura estremamente sottile di una reazione autentica e la
contropressione esercitata dallo stato d’animo che intende celare svanisce; egli,
utilizzando tale strategia, nasconde bene i suoi veri sentimenti. Se un individuo
reagisce in modo esagerato ad una situazione emetterà segnali eccessivi mediante
smorfie, risa smodate, comportamenti forzatamente naturali, pianti dirompenti:
queste reazioni ci avvertono che lo stato d’animo ostentato non è quello
realmente sentito dal soggetto e che si è, quindi, scatenato un meccanismo
compensatorio che ha oltrepassato i limiti ordinari.
- Alcune azioni sono il risultato di uno stress fisico e si manifestano tramite
l’emissione di segnali autonomici: questi segnali rappresentano il risultato di un
conflitto interiore determinato da situazioni stressanti. Questo conflitto avviene
perchè noi vorremmo compiere un’azione che, però, viene bloccata o è
necessario che venga bloccata a causa delle imposizioni delle regole sociali. La
nostra attività è controllata da due sistemi che agiscono in concomitanza ed in
antagonismo: il sistema simpatico ed il sistema parasimpatico. Essi fungono
rispettivamente da acceleratore e da freno per la nostra attività: il primo per
quella intensa, il secondo per quella moderata. In determinate situazioni (basti
pensare ad un oratore dinnanzi ad una folla) alcuni stimoli producono uno stress
che provoca il riversamento di una quantità di adrenalina nel flusso sanguigno
determinato dall’azione del sistema simpatico, creando una condizione in cui il
nostro corpo è pronto ad agire, per esempio fuggendo dalla situazione stressante.
Considerando il fatto che le regole sociali impongono una condotta che ci
impedisce la fuga o altri tipi di azione, il sistema parasimpatico, con la sua azione
frenante, cerca di ricostituire lo stato di equilibrio perduto dal tentativo del
sistema antagonista di prendere il sopravvento: l’entrata dell’adrenalina nel
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flusso sanguigno, in seguito allo stato di tensione, dà luogo ad alcuni mutamenti


fisici, tra cui la riduzione di saliva: sentendoci la bocca asciutta tendiamo a
leccarci le labbra. Questo movimento viene compiuto prevalentemente da
persone che parlano in luoghi pubblici.
- Noi inviamo spesso dei segnali di minaccia, cioè manifestiamo delle azioni con
le quali tentiamo di intimidire il nostro avversario, senza giungere ad un attacco
fisico: in questo caso la nostra espressione del volto cambia. Secondo Morris
(1977) “l’uomo bellicoso, in cui l’aggressività supera la paura, avrà la bocca
strettamente serrata, la testa spinta in avanti, le sopracciglia aggrottate ed il volto
un po' pallido. Dal momento che incomincia a sentirsi un po' intimidito, la bocca
si aprirà in un ghigno che scoprirà di più i denti, il collo si incasserà
maggiormente nelle spalle, gli occhi saranno spalancati e fissi, la pelle
incomincerà ad arrossarsi...”. Secondo l’autore, durante un combattimento, sia la
paura che l’ostilità, entrambe attive, sono accompagnate dal pallore del volto
perché il sangue defluisce dalla pelle per raggiungere il cervello ed i muscoli che,
così, sono pronti per l’azione imminente (o l’attacco o la fuga). L’uomo che
presenta rossore in viso può essere considerato meno pericoloso di quanto in
effetti appaia perché ha superato la condizione in cui il suo corpo è più pronto
all’azione.

6.2.1. Il riso e il sorriso in un ottica evolutiva


Le origini dell’evoluzione di alcune espressioni del volto umano come il sorriso
ed il riso si sono fatte risalire fino ai primati. L’etologo Cordero (1985) afferma
che, dallo studio comparativo dell’espressione facciale dei primati superiori,
alcuni autori avanzano l’ipotesi che sia il riso, sia il sorriso potrebbero essere
concepiti come espressioni di diversa origine filogenetica.
Solo in seguito diverse espressioni facciali vennero a convergere in una
espressione unica e ciò si verificò per la specie umana. Nei primati troviamo tre
tipi diversi di esibizione:
- silenziosa a denti scoperti con significato di sottomissione e devozione;
- vocale a denti scoperti, caratteristica anche dei mammiferi, più ancestrale ed
attuata in situazioni di difesa o in cui la tendenza alla fuga è molto forte;
- rilassata a bocca aperta (i denti sono per la metà coperti), accompagna la lotta
scherzosa ed i giochi turbolenti , è un metasegnale indicante che quel
comportamento non va considerato seriamente.
Il riso ed il sorriso hanno origini filogeneticamente diverse perché diversa è la
loro funzione sociale: l’esibizione silenziosa é legata al rappacificamento, alla
sottomissione; l’esibizione vocalizzata é legata alla minaccia, all’aggressione.
Negli animali, l’analogo del riso umano é l’esibizione a bocca aperta senza
vocalizzazioni, l’esibizione silenziosa a denti scoperti e l’esibizione vocalizzata
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sono da considerarsi, invece dei sorrisi. Il sorriso è molto importante nella


comunicazione non verbale umana; esso si presenta come una copia in formato
ridotto rispetto al riso: infatti richiede uno sforzo minimo dal punto di vista
energetico, in quanto vengono utilizzati solo dodici tra i settantadue muscoli
mimici facciali ,mentre il cipiglio è molto più dispendioso. Il sorriso è il segno
sociale più universale, tra i più diretti e potenti: basti pensare all’attrazione che
esercita il triangolo facciale sui neonati i quali manifestano una risposta di tipo
riflesso a questo stimolo. Negli anni sessanta, molti psicologi ipotizzavano che il
sorriso fosse l’espressione di uno stato fisiologico (negando l’esistenza di un
mondo interiore al bambino) mentre oggi è possibile affermare che il sorriso è
una espressione innata (gli studi sui bambini nati ciechi e sordi lo dimostrano)
che ha un’importante funzione comunicativa e socializzante: esso è un segnale
non verbale con significato di rappacificazione. Questa affermazione è avvalorata
da studi sulla storia evolutiva della dentatura umana: si può ipotizzare che la
diminuzione della forma e del volume dei canini è dovuta, oltre alle variazioni
evolutive e filogenetiche della dieta, anche ad un incremento di nuove modalità
comunicative legate al sorriso. Esso fu forse assimilato al nostro bagaglio
neotenico; chi possedeva questa caratteristica aveva più probabilità di generare
figli.
Il sorriso è uno dei segnali non verbali più potenti. Per decodificarlo in modo
adeguato è necessario osservare alcuni elementi legati alla situazione in cui esso
si presenta:
- il contesto e la compresenza di altri segnali
- la direzione dello sguardo
- la posizione o postura dell’individuo che sorride.
Solamente osservando i movimenti che precedono o seguono il sorriso si può
interpretare accuratamente il messaggio che esso veicola. E’ necessario
individuare:
- il modo in cui si scoprono i denti;
- quale arcata dentale (superiore o inferiore) è scoperta;
- quando avviene il sorriso, cioè il contesto relazionale;
- le cause che lo interrompono;
- come si spegne.
E’ importante considerare anche il cambiamento del tono dei muscoli, soprattutto
quelli che contornano gli occhi: essi forniscono vivacità e calore al sorriso .

6.2.2. L’identikit dei sorrisi


Lewis (1978) ne “Il linguaggio segreto del bambino” ci fornisce una rassegna
delle più importanti forme in cui il sorriso si manifesta, in un’ottica evolutiva:
1) il sorriso precoce si riscontra nelle prime settimane di vita del neonato e
probabilmente ha una funzione di scarica della tensione psichica;
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2) il sorriso a brioche è tipico del bambino piccolo che apre la bocca a bocciolo,
riappare nel fanciullo e nell’adulto e si manifesta quando egli vuole produrre un
sorriso particolarmente seducente;
3) il sorriso semplice può essere suddiviso in due categorie a seconda
dell’intensità: (a) ad intensità debole indica incertezza, mancanza di sicurezza;
(b) ad intensità forte indica piacevole attesa, generale sicurezza di sé;
4) il sorriso represso è simile al sorriso semplice ma le labbra sembrano più
sottili perché premute l’una contro l’altra; indica un divertimento represso perché
il bambino è inibito di fronte alle possibili conseguenze sociali, ad un eventuale
rimprovero;
5) il sorriso superiore veicola una disposizione d’animo simile all’amicizia; può
anche essere falso ma se è vero lo si riconosce dal caratteristico guizzo delle
sopracciglia. Una variante è data da quella con i denti superiori appoggiati al
labbro inferiore;
6) il sorriso inferiore può rappresentare una minaccia sotto l’apparenza di un
sorriso; esso viene espresso evidenziando il labbro inferiore;
7) il sorriso aperto indica un alto grado di piacere e di eccitazione, esprime
pacificazione. In questo tipo di sorriso la maggior parte dei denti delle arcate
superiori e inferiori sono scoperti e ben visibili.
8) nella risata è presente la sonorizzazione, il viso è rilassato e la respirazione
entra in competizione con il riso.

Tornando alle considerazioni da noi formulate in un' ottica evolutiva, notiamo


che Ekman e Friesen (1969) sono d’accordo con Darwin (1872) nel ritenere che
esistono dei movimenti compiuti dai muscoli facciali tipici per ciascun stato
emozionale primario: questi movimenti sarebbero innati, quindi trasmissibili per
via ereditaria. A proposito della questione innato-appreso, persistono attualmente
molti disaccordi tra i ricercatori.
Secondo gli autori, i principali affetti ereditari sono sette e possono essere, di
seguito, elencati:

1) felicità
2) paura
3) sorpresa
4) tristezza
5) collera
6) interesse
7) disgusto.
La questione universalismo-relativismo, quindi, é aperta: l’espressione delle
emozioni é la stessa per ogni cultura o cambia da cultura a cultura? Essa dipende
da fattori innati o é relativa all’apprendimento nel corso dello sviluppo? Esistono
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anche differenze interculturali per la percezione e l’interpretazione delle


espressioni emotive?
Ekman e Friesen (1969) sostengono che i movimenti muscolari del volto sono gli
stessi per tutte le culture: ciò che cambia e si modifica sono gli stimoli che
evocano l’emozione, le emozioni provate stesse, le regole di ostentazione (di cui
abbiamo parlato nel paragrafo 6.1.) e le conseguenze comportamentali relative
alla decodificazione di una data espressione.
Eibl-Eibesfeldt (1976) conferma l’ipotesi dell’universalità studiando una
particolare espressione del volto utilizzata per salutare; l’autore sostiene che essa
é composta da tre tipi di movimento:
- il sollevamento delle sopracciglia;
- un cenno del capo con movimento all’indietro;
- un sorriso.
Questa espressione può essere considerata un segno di saluto tra persone
affiatate, in quanto non compare mai tra estranei: il minimo comun
denominatore, tra questi segnali, é una predisposizione al contatto sociale.
In particolar modo l’autore afferma che: “noi alziamo le sopracciglia per
curiosità (fra l’altro quando poniamo una domanda) e , molto spesso, in segno di
sorpresa. In entrambi i casi le sopracciglia rimangono alzate a lungo. Si tratta di
un’apertura delle vie sensoriali, onde poter disporre di una migliore percezione:
in questo senso si tratta di un fenomeno collaterale all’atto di spalancare gli
occhi. Questo deve essere stato il punto di partenza della ritualizzazione di questo
atteggiamento, che é diventato così un saluto espresso con le sopracciglia”.
Questa zona riveste, in particolar modo per le donne, una grande importanza:
infatti investono molto tempo per truccarsi la palpebra superiore e lo fanno con
estrema cura .
Ekman (1971) propone una teoria integrativa, detta teoria neuroculturale che
mette d’accordo l’approccio universalista e l’approccio relativista.
Questa teoria postula l’esistenza di determinanti delle espressioni emotive sia di
tipo universale (panculturale) sia caratteristiche di determinate culture.
L’integrazione avverrebbe a due livelli. Al primo livello l’autore afferma che le
emozioni primarie sarebbero collegate con configurazioni di impulsi neurali
corrispondenti a muscoli facciali ben precisi; le sequenze di questi impulsi, che
creano una determinata espressione, sarebbero, in larga misura, naturali ed
innate.
Al secondo livello, Ekman afferma che le espressioni emotive dipendono anche
da determinanti culturali e sono influenzate dall’apprendimento sociale.
Queste determinanti possono essere qui riassunte:
- gli stimoli che provocano un’emozione;
- le norme sociali che regolano la messa in atto di certe espressioni a scapito di
altre;
- le conseguenze comportamentali come risposta alle emozioni espresse.
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Ekman, effettuando una ricerca a livello interculturale ed utilizzando una tecnica


particolare (la tecnica del F.A.S.T. che comprendeva uno schema di
decodificazione dei movimenti facciali associati a ciascun effetto primario),
cercò di isolare, all’interno di un repertorio finale di trentaquattro fotografie
selezionate da un totale di tremila, delle espressioni pure.
Egli notò che, nel maggior numero dei casi, le stesse espressioni del volto
indicate nelle fotografie furono associate agli stessi stati d’animo assimilati alle
emozioni primarie già descritte.
La ricerca fu effettuata su due popolazioni diverse di studenti: statunitense e
latinoamericana. Il risultato ottenuto conferma l’ipotesi della somiglianza delle
espressioni emozionali tra le diverse culture, ma potrebbe non essere considerato
valido se si considera che i due campioni, pur possedendo differenti background
culturali, appartenevano alla stessa civiltà caratterizzata dall'inevitabile presenza
mass-media che, inculcando gli stessi valori e trasmettendo lo stesso tipo di
immagini, “appiattirono” le due culture riducendole, probabilmente, a possedere
gli stessi stereotipi facciali e a codificare, allo stesso modo, le emozioni.
Una ricerca in Nuova Guinea poteva risolvere questo problema, in quanto fu
effettuata su un campione di alfabetizzati e su uno di analfabeti. L’autore ottenne
gli stessi risultati ma il problema si affacciò sotto sembianze diverse: era di
ordine linguistico in quanto gli analfabeti, non potendo esprimersi con le stesse
modalità, ricorrevano a racconti e non a concetti convenzionali per decodificare
l’emozione trasmessa dall’espressione impressa nell’immagine fotografica.

6.3. Le espressioni del volto e gli studi


sperimentali
Per quanto riguarda gli studi sperimentali, la letteratura é molto vasta.
I metodi utilizzati negli esperimenti sono decisamente criticabili a causa o della
loro artificiosità o dell’uso insoddisfacente dei criteri di individuazione delle
espressioni emotive.
Ricci-Bitti (1977) intravede, in queste ricerche ed indagini, sia dei valori, sia dei
limiti: secondo l’autore sarebbe necessario “...formulare, con attenzione, ipotesi
diagnostiche da approfondire con altri tipi di informazione”.
Ciò significa che le ricerche non devono fermarsi agli studi di determinate
espressioni senza considerare le informazioni provenienti dalla personalità del
soggetto, il controllo che egli esercita sulle sue emozioni, il contesto in cui le
emozioni stesse vengono espresse.
Ad esempio, un esperimento di Landis (1929) ci informa che l’uomo tende a non
esprimere liberamente i propri sentimenti in presenza di altre persone ma li
controlla mostrando una maschera che rappresenta sempre il risultato di una
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presentazione di sé. In questo esperimento, alcuni soggetti assistevano alla


decapitazione di un topo: la prima reazione che essi mostravano era quella di
sorridere. Questa espressione non possedeva un significato di allegria o piacere
ma era il risultato di un controllo e di un tentativo di nascondere il proprio
vissuto emozionale.
Le indagini effettuate a livello sperimentale hanno adottato due metodologie
diverse:
- la somministrazione di fotografie
- la visione di filmati.
Il primo metodo può essere criticato perché una fotografia rappresenta
un’immagine statica di un’espressione che non può essere fissata
definitivamente, essendo, l’espressione stessa, composta da più movimenti di
diverse parti del volto (occhi, sopracciglia, bocca, muscoli facciali e così via). Il
secondo metodo é preferibile in quanto una sequenza filmata, anche se si
consuma in pochi attimi, dà la possibilità all’espressione di essere decodificata
nella sua interezza, disponendo di più fotogrammi e della possibilità di valutare
tutto il percorso temporale dell’espressione, tra cui le sue modalità d’accensione
e di spegnimento.
Secondo Cook (1971), i criteri di valutazione sono insoddisfacenti in quanto i
“giudici” non interagiscono con i soggetti impressi sulle fotografie: non
conoscendo la relazione non possono cogliere l’emozione trasmessa nelle sue
determinanti individuali specifiche; in secondo luogo, i giudizi formulati,
essendo verbali, non sono mai completamente aderenti all’impressione suscitata
nel giudice. Molte volte non é possibile convertire in linguaggio verbale
un’impressione o una sensazione in quanto, colui che la prova, non conosce le
parole adatte per esprimersi, in quanto il linguaggio limiterebbe o non
rivelerebbe appieno quanto egli intende dire.
La discussione sulla decodificazione di un’espressione facciale tramite immagini
statiche appare controversa, anche per quanto riguarda la necessità della
conoscenza del contesto.
Frijda (1958) afferma che, essendo la valutazione di una fotografia influenzata
dal contesto in cui l’individuo raffigurato si trova, é necessario che l’espressione
venga considerata separatamente (senza contesto), potendo fornire, in tal modo,
più informazioni.
Tagiuri (1969) ci informa che la valutazione di un’espressione in un contesto
naturale conduce a risultati meno precisi perché, essendo determinata da
un’infinità di movimenti dei muscoli facciali e di altre parti del volto, il giudice
non se l’attende strutturata in quel determinato modo o se ne attende una diversa
e, quindi, incontra delle difficoltà nel riconoscerla e nel ricondurla ad un affetto
primario.
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E’ meglio, secondo l’autore, utilizzare dei soggetti in posa: i giudici, conoscendo


le immagini stereotipate delle espressioni del volto, dimostrano più difficoltà ad
identificare quelle reali.
Beekman (1975) dimostrò che “gli uomini che fanno più ricorso, durante
un’intervista, al riso e al sorriso tendono a descrivere se stessi come più
socievoli, amichevoli e affiliativi. Al contrario, il sorriso per le donne appare
primariamente correlato a sentimenti di sconforto e umiliazione sperimentati
durante l’intervista ed atteggiamenti di deferenza. L’autore ipotizza che il ricorso,
in situazione di interazione, al riso e al sorriso negli uomini rifletta un autentico
orientamento affiliativo, mentre nelle donne, per le quali l’uso di questi
comportamenti è socialmente approvato, rappresenti una modalità reattiva
stereotipata, più frequente, quindi, nei soggetti maggiormente a disagio durante
l’intervista”.

6.4. L’espressione delle emozioni


Come già affermato, l’espressione delle emozioni é controllata dalle regole
culturali ed é mediata da fattori cognitivi.
Uno degli studi più sofisticati fu condotto da Osgood (1966): egli chiese ad un
campione di soggetti-giudici di identificare quaranta diverse espressioni del
volto.
Ne risultò che esse potevano essere raggruppate nelle sette categorie già descritte
ed elencate nel paragrafo 6.2.
Anche questo esperimento porge il fianco alle critiche, in quanto vengono
utilizzate delle fotografie, quindi immagini statiche.
Le ricerche condotte sulle emozioni espresse dal volto hanno adottato due diversi
metodi di cui abbiamo già parlato nella U.D.1:
- il metodo encoding (o indicativo) basato sull’induzione di diverse emozioni che
provocano diverse espressioni del volto misurabili; le due variabili possono
essere poste in relazione tramite un procedimento statistico;
- il metodo decoding (o comunicativo) basato sulla valutazione e sul giudizio,
espresso da un campione di osservatori, di fotografie o filmati.
Le emozioni, secondo Argyle (1975), non vengono codificate solamente da una
parte del volto (per esempio il movimento della bocca esprime felicità, quello
delle sopracciglia esprime sorpresa) ma sembra che ciascuna emozione sia la
risultante di un modello globale, comprendente il volto nel suo insieme.
Frois-Wittman (1930) riscontrò, utilizzando il metodo decoding, che le fotografie
che esprimevano collera, per esempio, comprendevano diversi aspetti e
caratteristiche morfologiche simili per tutte le altre in cui era rappresentato
questo determinato stato d’animo:
- ciglia aggrottate
- palpebra superiore rialzata
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- palpebra inferiore corrugata


- narici dilatate
- labbra aperte
- denti inferiori esposti
- labbro inferiore abbassato.
La felicità era, invece, caratterizzata dai seguenti aspetti:
- labbro superiore abbassato
- palpebra inferiore corrugata
- narici dilatate
- labbra aperte
- angoli della bocca sollevati e tirati indietro.
Thayer e Schiff (1969) affermano che le emozioni vengono decodificate
facilmente da un diagramma schematico in cui compaiono dei volti costituiti da
un cerchio all’interno del quale i diversi elementi (sopracciglia, occhi, naso e
bocca) sono formati, rispettivamente, da due linee, due puntini, un punto e un
segmento retto o curvo, quindi da un'immagine estremamente stilizzata.
Secondo Argyle (1975), associare una determinata emozione ad un volto é
un’operazione che dipende anche da altri fattori; infatti, egli afferma che:
- se le categorie alternative (le emozioni) sono poche é più facile inserirvi lo
stimolo (la corrispondente espressione del volto);
- é più facile distinguere due emozioni diverse se vengono espresse in modo
molto differente;
- la decodificazione dipende ed é influenzata dal numero di informazioni che il
giudice riceve e possiede sul contesto in cui, l’individuo immortalato dalla
fotografia, si trova.
Quindi,le emozioni possono essere dissimulate dalla maschera del volto in
quanto esso può venire controllato decisamente meglio rispetto ad altre parti del
corpo che rappresentano altrettante fonti di emozioni. La dissimulazione non
permette al soggetto di nascondere completamente il suo stato d’animo, ma può
essere scoperta attraverso l’osservazione di altri canali di trapelamento: per
esempio il sudore che compare sulle tempie, la dilatazione delle pupille (vedi
U.D.7), le espressioni momentanee del volto già affrontate nel par. 6.2.

6.5. I segnali interattivi


I segnali interattivi sono quei segnali che accompagnano costantemente il
discorso durante un’interazione e possono essere assimilati a dei movimenti
rapidi di alcune parti del volto, per esempio il sollevamento delle sopracciglia per
trasmettere sorpresa all’interlocutore.
Essi forniscono un completamento ed un sostegno al discorso e fungono da
segnale retroattivo (feed-back) alle parole dell’interlocutore stesso e da segnale
di sincronizzazione.
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Durante un eloquio, questi segnali sono compresi in una complessa struttura


sintattica composta da due canali: il canale vocale-uditivo ed il canale visivo-
facciale-gestuale. Questa struttura può essere così descritta:
1) l’organizzazione di una sequenza veloce di segnali facciali o gestuali dipende
dai segnali verbali inviati;
2) questi segnali interattivi convogliano significati molto precisi in quanto
fungono da ricompensa o da punizione per l’interlocutore ed hanno un effetto
diretto sul comportamento conseguente;
3) esistono regole precise che dirigono un determinato rituale: ad esempio
ostentare un’espressione allegra del volto durante un saluto.
Secondo Birdwhistell (1970) i segnali interattivi hanno diverse
funzioni:
- di completamento del linguaggio verbale;
- di retroazione;
- danno prova all’interlocutore di un’attenzione continua.
L’autore cerca di risolvere il problema della decodificazione delle espressioni del
volto attraverso l’utilizzo di protocolli, cioè di un codice composto di segni
grafici. Ogni segno-simbolo corrisponde ad una determinata posizione o
movimento di una particolare parte del volto.
Questo codice é relativamente arbitrario ma offre una possibilità, a chi lo conosce
e lo utilizza, di trovare una base di consenso (anche se non perfettamente
aderente) nella decodificazione, interpretazione e catalogazione del
comportamento in generale e delle espressioni facciali in particolare.

6.6. La personalità
Il controllo operato sulle nostre espressioni facciali, in dipendenza sia
dell’insegnamento e dell’educazione familiare, sia della socializzazione, non ci
permette di nascondere perfettamente i nostri veri sentimenti: ciò che noi
vediamo in un volto é pur sempre il risultato di una presentazione di sé.
Argyle (1975) afferma comunque che “...é probabile che, se un individuo assume
in modo persistente una determinata espressione facciale in seguito ad un
abituale stato d’animo, essa lascerà tracce identificabili sui muscoli del volto e
sull’epidermide.
Secord (1959) effettuò degli studi utilizzando delle fotografie per ottenere dei
giudizi sulla personalità. Egli notò che i giudici basavano la propria valutazione
su degli stereotipi facciali: per esempio furono assegnati alla categoria “negro”
dei soggetti che possedevano dei capelli ricci, delle labbra spesse e la pelle scura.
Inoltre essi furono considerate delle persone religiose, superstiziose, ostinate a
causa dell’influenza dello stereotipo che i giudici possedevano della categoria
sociale in questione.
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Queste ricerche misero in evidenza come un osservatore tragga delle inferenze da


una caratteristica morfologica del volto, associandola ad una caratteristica di
personalità: ad esempio, una persona con la fronte alta o con gli occhiali veniva
considerata, in prevalenza, fornita di particolari capacità intellettuali; ad un’altra
con le labbra spesse venivano associate delle particolari attitudini al bacio.
Argyle e McHanry (1970) notarono che un soggetto, portatore di un paio di
occhiali, osservato per quindici secondi veniva considerato possessore di
un’intelligenza superiore alla media, considerazione che veniva smorzata se lo
stesso soggetto, valutato da altri giudici, veniva osservato per un periodo
superiore, cioè quindici minuti. In effetti, l’effetto provocato dagli occhiali,
durante la breve visione, non si verificava più perché il giudice, potendo basare la
sua valutazione su una quantità di tempo maggiore, poteva disporre di una
struttura più ampia dei comportamenti del soggetto. Esiste, comunque, una
correlazione, anche se bassa, tra intelligenza e miopia.
Gli stereotipi facciali si manifestano anche attraverso delle associazioni
metaforiche: un individuo con la pelle ruvida e i capelli crespi veniva
categorizzato come rozzo ed aggressivo.
Essi possono modificarsi nel tempo: alcune caratteristiche dell’aspetto esteriore
(vedi U.D.8), come i capelli lunghi, la barba e le basette hanno veicolato
significati diversi a seconda del periodo.
In definitiva, la percezione e la decodificazione dei segnali facciali legati alla
personalità sono condizionate dal fatto che ognuno di noi possiede una personale
serie di categorie e dimensioni in cui inserisce le caratteristiche di personalità di
un individuo, che dipendono dalla sua esperienza, dalle conoscenze che ha di
altri individui, dalla sua storia evolutiva; la decodificazione dipende, oltretutto,
dal fatto che non sempre forniamo delle etichette verbali nel momento stesso in
cui possediamo un giudizio personale sulle altre persone: infatti un’immagine o
l’aspettativa di una reazione non sono immediatamente e facilmente traducibili in
parole. Ciò non permette agli studi sperimentali finora condotti, di ottenere dei
risultati che corrispondono realmente ai giudizi ed alle impressioni riguardo alla
personalità di altri individui.

Bibliografia dell’ U.D.6


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