Ad Galli Cantum

Potrebbero piacerti anche

Sei sulla pagina 1di 18

Samuele

241 Pinna : Ad Galli cantum


AD GALLI CANTUM.
L’INNO “ÆTERNE RERUM CONDITOR”
DI SANT’AMBROGIO

■ Gli Inni nella liturgia cristiana ■ Gli Inni di


sant’Ambrogio. ■ Æterne rerum conditor. ■ Con-
clusione: omnia Christus est nobis.

Gli Inni nella litur-


F IN DAI PRIMI SECOLI gli Inni risultano essere di primaria importanza per
la liturgia cristiana. La Chiesa primitiva mantiene l’uso della recitazio-
ne dei salmi e dei cantici dell’Antico Testamento e, fin da subito, creerà
gia cristiana. composizioni nuove e originali, sovente ispirate al preesistente genere
biblico. Del resto, lo stesso Nuovo Testamento presenta, in diversi passi,
alcuni brani ritmici che, in luoghi e circostanze determinati, potevano essere
cantati. Sono queste le prime testimonianze dell’innodia, un genere lettera-
rio-musicale destinato ad avere un grande successo popolare, in modo
particolare grazie a Sant’Ambrogio vescovo di Milano.
Il termine hymnos1, di origine greca, assume vari significati a seconda
delle etimologie proposte: “cantare” (hydeo o hydo) o “tessere” (hyfaino).
Anticamente indicava o un carme artisticamente intrecciato oppure un
canto di lode rivolto a una divinità o a un eroe di cui si raccontano le gesta.
I poemi omerici, i più antichi documenti innografici, contengono la parte
epica, tra l’invocazione e la preghiera, finalizzata non soltanto a fare
conoscere le imprese del dio invocato, ma anche a commuovere la divinità.
Gli inni, la cui struttura metrica era assai varia, venivano di solito accom-
pagnati dalla musica e dalla danza2. La varietà di forme ed espressioni della
produzione innica greca si struttura definitivamente in epoca patristica per
opera di Sant’Agostino, il quale indica tre requisiti fondamentali: 1. l’inno
deve essere una lode, 2. rivolta a Dio e 3. espressa nel canto:

Cosa sia un inno, lo sapete. È un canto che ha per tema la lode di


Dio. Se lodi Dio ma non canti, non dici un inno; se canti ma non
lodi Dio, non dici un inno; se lodi qualcosa che non rientra
nell’ambito della lode divina, anche se lodi cantando, non dici un
inno. L’inno quindi include tre cose: il canto, la lode, e la lode di
Dio; per cui una lode elevata a Dio mediante un cantico la si chiama
inno
(Hymnus scitis quid est? Cantus est cum laude Dei. Si laudas
Samuele Pinna 242

Deum, et non cantas, non dicis hymnum: si cantas, et non laudas


Deum, non dicis hymnum: si laudas aliud quod non pertinet ad
laudem Dei, etsi cantando laudes, non dicis hymnum. Hymnus
ergo tria ista habet, et cantum, et laudem, et Dei. Laus ergo Dei in
cantico, hymnus dicitur). 3

Il termine stesso, impiegato inizialmente in ambito pagano, viene ben


presto assunto dai cristiani insieme a quello di cantico, per indicare i canti
liturgici che non fossero salmi.
Gli inni di Sant’Ambrogio, riconosciuti sia per il valore letterario Gli inni di
intrinseco, sia per la storia della liturgia horarum occidentale, sarebbero Sant’Ambrogio.
sorti — secondo la tesi tradizionale4 — in circostanze eccezionali:

I giorni che vanno dal 27 marzo (ultimo venerdì di Quaresima) al


2 aprile (Giovedì santo) del 386 sono di straordinaria importanza
non solo per Milano, dove si svolgono gli avvenimenti che richia-
miamo, ma per la storia dell’intera cristianità occidentale. 5

Nella settimana santa appena ricordata, il contrasto tra Sant’Ambrogio


e Giustina, madre del regnante undicenne Valentiniano II, si acuisce. Nel
385 la corte imperiale aveva cercato di sequestrare una chiesa in favore
degli ariani, ma senza successo grazie all’intervento di Sant’Ambrogio,
sostenuto da innumerevoli fedeli. Il 23 gennaio 386 è promulgata una legge
“antiambrosiana” che decretava la possibilità del culto dei seguaci della
fede arimensis (cioè della professione semiariana sancita nel concilio di
Rimini del 359) e, soprattutto, minacciava di morte chi osasse contrastare
questa disposizione. Il 27 marzo la corte imperiale tenta di sequestrare
prima la basilica Porziana (fuori delle mura) e poi addirittura la grande
“basilica Nova” al centro dell’abitato. «La difesa dei cattolici è sempre
quella: di fronte alle armi dei soldati c’è un popolo inerme che, affollando
le chiese contestate, le colma e le anima della sua incessante preghiera»6.
Finalmente il Giovedì Santo — dopo la lettura del libro di Giona, che era
ed è tuttora consuetudine della Chiesa milanese per quel giorno («lectus est
de more liber Ionæ») — l’autorità governativa toglie l’assedio.
Tale vicenda risulta fondamentale per almeno due aspetti. Innanzitutto,
la questione delle basiliche ha chiarito che non vi è sulla terra un potere che
possa ritenersi assoluto e senza limiti:

Non assumerti [scrive in quei giorni Ambrogio a Valentiniano II]


la responsabilità, o imperatore, di credere di avere qualche diritto
243 Ad Galli cantum

sovrano sulle cose che appartengono a Dio. All’imperatore spet-


tano i palazzi, al vescovo le chiese.
(Noli te gravare, imperator, ut, putes te in ea quae divina sunt
imperiale aliquid ius habere. Ad imperatorem palatia pertinent, ad
sacerdotem ecclesiae).7

In secondo luogo, ciò che è accaduto a Milano nelle basiliche occupate


ha segnato fortemente lo sviluppo della liturgia latina. Da qui, la testimo-
nianza di Agostino, presente a Milano in quei giorni, e di Paolino, biografo
di Ambrogio e suo segretario negli ultimi anni di vita.
1. Sant’Agostino, scriverà tale testimonianza nelle Confessioni circa
dieci anni dopo questi eventi. Parlando della commozione fino alle lacrime
da lui provata, dopo il battesimo, nell’ascoltare gli inni e i cantici dell’as-
semblea liturgica milanese (siamo dopo la Pasqua del 387), aggiunge:

Non da molto tempo la Chiesa milanese aveva introdotto questa


pratica consolante e incoraggiante, di cantare affratellati, all’uni-
sono delle voci e dei cuori, con grande fervore. Era passato un anno
esatto, o non molto più, da quando Giustina, madre del giovane
imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo
campione Ambrogio, istigata dall’eresia in cui l’avevano sedotta
gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta
a morire con il suo vescovo, il tuo servo. Là mia madre, ancella tua,
che per il suo zelo era in prima fila nelle veglie, viveva di preghiere.
Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci
sentivamo tuttavia eccitati dall’ansia attonita della città. Fu allora,
che s’incominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle regioni
orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella
mestizia, innovazione che fu conservata da allora a tutt’oggi e
imitata da molti, anzi ormai da quasi tutti i greggi dei tuoi fedeli
nelle altre parti dell’orbe.
(Non longe coeperat Mediolanensis Ecclesia genus hoc
consolationis et exhortationis celebrare magno studio fratrum
concinentium vocibus et cordibus. Nimirum annus erat aut non
multo amplius, cum Iustina, Valentiniani regis pueri mater,
hominem tuum Ambrosium persequeretur haeresis suae causa,
qua fuerat seducta ab Arianis. Excubabat pia plebs in ecclesia mori
parata cum episcopo suo, servo tuo. Ibi mea mater, ancilla tua,
sollicitudinis et vigiliarum primas tenens, orationibus vivebat.
Nos adhuc frigidi a calore Spiritus tui excitabamur tamen civitate
Samuele Pinna 244

attonita atque turbata. Tunc hymni et psalmi ut canerentur secundum


morem orientalium partium, ne populus mæroris tædio
contabesceret, institutum est; ex illo in hodiernum retentum multis
iam ac pæne omnibus gregibus tuis et per cetera orbis imitantibus. 8

«Nella memoria di Agostino — commenta Giacomo Biffi — come si


vede, è chiaramente impresso che: durante la lunga occupazione delle
basiliche il popolo non fu abbandonato senza guida, ma la sua preghiera è
stata regolamentata, proprio con l’intento pastorale di sostenerlo nella lotta non
violenta che stava conducendo: “ne populus mæroris tædio contabesceret”;
l’iniziativa non fu qualcosa di occasionale e di provvisorio, ma fu un ordina-
mento liturgico definito, destinato a durare: “institutum est”; l’iniziativa
concerneva un modo più accurato e insieme più caldo ed entusiasmante di
cantare da parte di tutta l’assemblea: “celebrare magno studio fratrum
concinentium vocibus et cordibus”; questi canti non consistevano solo nei
“salmi” biblici abituali, ma anche in “inni”, cioè in nuove composizioni
poetiche; sono i “versi” di Ambrogio, di cui Agostino fa menzione anche più
avanti nelle Confessioni, ricordando che l’hanno aiutato a superare l’ango-
scia per la morte della madre (cfr. Conf. IX, 12, 32); queste nuove usanze
liturgiche erano ispirate alle tradizioni delle Chiese orientali, ma sull’esem-
pio di Milano furono poi accolte da quasi tutto l’occidente»9.
2. La seconda testimonianza è quella di Paolino, il quale scrive una Vita
Ambrosii in Africa, verosimilmente nel 422, su sollecitazione di Agostino:

In tale occasione per la prima volta si cominciarono a usare nella


Chiesa milanese le antifone e gli inni e a celebrare le veglie; con-
suetudine devota che dura fino ai nostri giorni non solo in quella
Chiesa, ma anche in quasi tutte le province d’occidente.
(Hoc in tempore primum antiphonæ, hymni et vigiliæ in Ecclesia
mediolanensi celebrari coeperunt; cuius celebritatis devotio usque
in hodiernum diem non solum in eadem Ecclesia verum etiam per
omnes pæne provincias occidentis manet). 10

Qui le iniziative pastorali elencate sono tre: gli inni (ricordati da


Sant’Agostino), le antiphonæ11 e le vigiliæ12. Nonostante ciò, Ambrogio,
pur scrivendo alla sorella Marcellina un resoconto preciso dei fatti vissuti
nel Triduo del 386, non dice una parola né sugli inni né sulle altre “novità”
liturgiche di cui parlano con tanta enfasi Agostino e Paolino. Evidentemen-
te non le riteneva meritevoli di speciale ricordo. La ragione plausibile di
questo silenzio — messo di nuovo in luce da Giacomo Biffi13 — è che non
245 Ad Galli cantum

Sant’Ambrogio
nel suo studio.
Incisione da Am-
brosii Opera pub-
blicata da Johan-
nes Amerbach a
Basilea, 1492.

erano propriamente delle “novità”, né per lui né per la destinataria del suo
racconto. La Chiesa di Milano verosimilmente aveva già quegli usi nella sua
prassi pastorale, ma solo nel contesto degli eccezionali avvenimenti del 386
essi sono offerti all’attenzione ammirata dell’intera cristianità. «Non è del
resto verosimile che il vescovo proprio in quei giorni, nei quali egli stesso
era minacciato di morte e si accavallavano le emozionanti notizie sulle
intenzioni della corte e sui movimenti dei soldati, abbia avuto l’agio di
scrivere poesie e di metterle in musica»14. Nel suo celebre discorso Contra
Auxentium de basilicis tradendis, pronunciato probabilmente la domenica
29 marzo (dunque poco dopo l’inizio dell’occupazione) Sant’Ambrogio
così si esprime:

Dicono che il popolo è stato abbindolato anche dall’incantesimo


dei miei inni. Proprio così: e mi guardo bene dal negarlo. Questo
è un grande incantesimo, il più potente di tutti. Che c’è infatti di più
potente del confessare la Trinità, che ogni giorno viene esaltata
dalla bocca di tutto il popolo? A gara, tutti vogliono proclamare la
Samuele Pinna 246

loro fede, tutti hanno imparato a lodare in versi il Padre, il Figlio


e lo Spirito Santo. Sono dunque diventati tutti maestri, quelli che
a malapena potevano essere discepoli.
(Hymnorum quoque meorum carminibus deceptum populum
ferunt; plane, nec abnuo. Grande carmen istud est quo nihil
potentius; quid enim potentius quam confessio Trinitatis, quæ
cotidie totius populi ore celebratur? Certatim omne student fidem
fateri, Patrem et Filium et Spiritum Sanctum norunt versibus
prædicare, facti sunt igitur omnes magistri qui vix poterant esse
discipuli). 15

«È il solo testo in cui Ambrogio parla degli inni composti da lui —


commenta ancora Giacomo Biffi — e ne parla con evidente fierezza: è
chiaro che si compiace di un grande e già affermato successo pastorale»16.
A oggi, tredici sono gli inni «che la più recente e avveduta critica
riconosce di Sant’Ambrogio. La loro lettura continua e, più ancora, la loro
intensa e prolungata meditazione, permettono di comprendere intimamente
i contenuti, di assimilarne lo spirito e di gustarne la bellezza. E, alla fine, di
ammirare questi inni come un capolavoro della letteratura cristiana, dove i
misteri sono diventati poesia della Chiesa, e il dogma si è fatto suo canto»17.
Gli inni attribuiti al Vescovo di Milano sono: Æterne rerum conditor (al
canto del gallo); Splendor paternae gloriae (nell’aurora); Iam surgit hora
tertia (per l’ora di terza domenicale); Deus creator omnium (per l’ora
dell’accensione); Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore);
Inluminans Altissimus (per le Epifanie del Signore); Hic est dies versus Dei
(per la Pasqua); Apostolorum passio (per i Santi Pietro e Paolo); Amore
Christi nobilis (per San Giovanni Evangelista); Apostolorum supparem
(per San Lorenzo); Agnes beatæ virginis (per Sant’Agnese); Victor, Nabor,
Felix, pii (per i Santi Vittore, Nabore e Felice); Grates tibi, Iesu, novas (per
i Santi Protasio e Gervasio).
Introduzione all’inno18 - L’inno Ad galli cantum è composto per Æterne rerum
l’ufficiatura notturna, ossia per la preghiera corale che si eleva poco prima conditor.
dell’alba: «esso è destinato all’ultima porzione della notte, quando si ode il
canto del gallo, prima che il sole salga all’orizzonte come suo annunzio e
sua attesa»19. Nel Commento al Salmo 118 così si esprime Ambrogio:

Quel che è certo è che devi anticipare questo sole fisico: “Svegliati
e alzati e sollevati dai morti, se vuoi che risplenda per te la luce di
Cristo!” Se tu anticiperai questo sole nel suo sorgere, riceverai
come luce Cristo. Sarà proprio lui la prima luce che brillerà nel
247 Ad Galli cantum

segreto del tuo cuore.


(Prævenit certe hunc quem vides solem, “surge qui dormis et
exurge a mortuis, ut inlucescat tibi Christus”. Si hunc solem
præveneris, antequam iste surgat, accipies Christum inluminantem.
Ipse prius in tui cordis inlucestet arcano).20

Il numero delle strofe è di otto, composte a sua volta da quattro versi di


dimetri giambici. Il numero otto è caro ad Ambrogio: se il “sette” indica le
vicissitudini terrene, l’“otto” richiama l’escaton21, il giorno del Signore.
Nella spiegazione dell’inno si deve, inoltre, tenere conto di tre livelli di
interpretazione. Un primo naturale e storico; un secondo cristico-salvifico;
un terzo pervaso dalla grazia interiore. Il centro estetico dell’inno è
rintracciabile nella figura del gallo, «percepito come la voce e la cifra
dell’intera creazione in questo momento di tenebra»22. La notte che giunge
al suo termine e il canto del gallo che sta per sentirsi, indicano il necessario
risveglio spirituale per camminare nella fede incontro alla misericordia di
Dio. «Nel gallo e nel suo canto si riversa simultaneamente l’angolo
prospettico su tutto lo scenario tipico dell’ultima parte della notte, la
ravvisata necessità a destarci sul serio e a scuoterci da ogni spirituale
sonnolenza per riprendere animosamente il cammino della vita, il simbolo
dell’intera vicenda di peccato e di misericordia che è il cuore del cristiane-
simo stesso»23.
L’inno — considerato dalla critica come originale24 — è attribuito ad
Ambrogio anche da parte di Agostino nelle sue Retractationes:

In un passo, parlando dell’apostolo Pietro, ho detto che “su di lui,


come su di una pietra, è fondata la Chiesa”. È l’interpretazione che
vien tradotta in canto corale nei versi del beatissimo Ambrogio
laddove del gallo dice: “Al suo canto quello stesso che è pietra
della Chiesa ha cancellato la sua colpa”.
(In quo dixi quodam loco de apostolo Petro, quod “in illo tamquam
in petra fundata sit Ecclesia”, qui sensus etiam cantatur ore
multorum in versibus beatissimi Ambrosii, ubi de gallo gallinacio
ait: “Hoc ipse petra Ecclesiæ canente, culpam diluit”).25

Un passaggio, inoltre, dell’Exameron di Ambrogio pare esserne la


parafrasi:

Anche il canto del gallo è gradevole nella notte — non solo


gradevole ma per di più utile, perché come buon coinquilino
Samuele Pinna 248

sveglia chi ancora sonnecchia, avvisa chi è già desto, conforta chi
è in viaggio, indicando con il suo squillante segnale che la notte sta
per terminare. Al suo canto il brigante abbandona l’agguato e la
stessa stella del mattino ridestandosi si leva e illumina il cielo: al
suo canto il navigante ansioso depone la sua angoscia ed ogni
tempestosa procella, suscitata spesso dai venti della sera, si placa;
al suo canto l’animo devoto si dà alla preghiera e riprende inoltre
la lettura interrotta; al suo canto infine la stessa Pietra della Chiesa
lava la colpa commessa con la sua negazione prima che il gallo
cantasse. Al suo canto ritorna a tutti la speranza, si allieva la pena
dell’infermo, si attenua il dolore della ferita, si mitiga l’arsura
della febbre, in chi è caduto ritorna la fiducia, Gesù fissa con lo
sguardo chi vacilla, richiama chi è nell’errore. Così rivolse Pietro
il suo sguardo e subito la colpa scomparve, fu cacciata la negazio-
ne, seguì la confessione del peccato.26

Si può, dunque, affermare che nell’«ora, detta appunto gallicinium,


Ambrogio rimane specialmente impressionato dal suo canto penetrante, di
cui descrive i diversi benefici e modula la varietà simbolica»27.

Aeterne rerum conditor, O creatore eterno delle cose,


noctem diemque qui regis che regoli il giorno e la notte
et temporum das tempora, e i tempi diversi avvicendi
ut alleves fastidium, ad alleviarci la noia,

La preghiera inizia rivolgendosi al Padre, «creatore eterno delle cose»,


che si preoccupa di farci esistere e di sostenerci e insieme, con l’alternanza
dei tempi, di non farci cadere nella noia: «ut alleves fastidium». La
preghiera è rivolta anche a Cristo28, poiché — secondo Ambrogio — «il
Figlio è autore e creatore del tempo»29. Se Gesù Cristo è temporis auctor et
creator, le ore del giorno e della notte, con i loro eventi, divengono
appuntamenti per la preghiera di cui gli inni sono l’espressione e l’incenti-
vo, che allontanano dal tedio e dal fastidium di una esistenza lontana dal
Signore e dalla sua grazia. «Tali ore non scorrono senza senso sotto la spinta
di una forza anonima. Proprio perché Dio sta invisibilmente dietro il passare
del tempo, è possibile interpretarlo come parabola di realtà ulteriori,
spirituali, e come metafore della storia stessa della salvezza»30. L’espressio-
ne «conditor» è, inoltre, presente sia nella letteratura pagana (ad esempio in
Seneca nel De providentia) sia in quella cristiana (come in Tertulliano
nell’Adversus Marcionem). Se una prima ragione si rintraccia nel De fide,
249 Ad Galli cantum

per cui conditor è da riferirsi anche a Gesù Cristo, una seconda è interna alla
struttura dell’inno: alcuni versi sono riferiti direttamente a Cristo, affinché
coloro che vacillano possano guardarlo per ritrovare il vigore interiore e
spirituale («labantes respice»).
Si vede così riconosciuta, mediante il conditor, la funzione di Cristo,
ossia quella di reggere la notte e il giorno. Siamo di fronte a un’azione
reggitrice, regolatrice («noctem diemque qui regis»). Si osserva subito
l’assonanza con i primi versetti di Genesi in cui si legge — quasi ritornello
— «E fu sera e fu mattina (Va-yehiy ‘erev va-yehiy boqer)» (1, 1-ss).
Questo avvicendarsi è portatore di un progetto provvidenziale — non retto
dal caso né dalla necessità — frutto di una provvidenzialità personale, di un
disegno inimmaginabile pensato da Dio, che istituisce e fonda l’avvicendarsi
dei tempi: «et temporum das tempora»31. Dal tempo cosmico al tempo
umano, la successione voluta da Dio “governatore” è presentata come Suo
dono, quale grazia iscritta nell’ordine della creazione in cui risiede, dunque,
una prospettiva antropologica. «Ut alleves fastidium»: la noia sarebbe
insopportabile se ci fosse sempre la notte oppure sempre il giorno.
L’avvicendarsi (e il ritorno ciclico) è, pertanto, pensato da Dio come la
bellezza del tempo. Riluce, in tal senso, la ricchezza della liturgia che si dà
nella ripetitività mai monotona. Ambrogio, come già osservato, è attratto da
una creatura, il gallo, e dal suo canto. Al di là della metafora il gallo è inteso,
nella sua immediata significazione, come l’animale che canta nelle prime
ore del giorno, ma nell’inno, il Vescovo di Milano, avvolge il suo significato
in un contenuto nuovo e inedito: il gallo è figura di Gesù Cristo. L’Æterne
rerum conditor, benché «meno teologico di altri [inni] — scrive a tal
proposito Pasini –, almeno ad un primo approccio, è tutto architettato
sull’immagine viva del gallo, che vi compare dall’inizio alla fine. Il gallo
caratterizza l’ultima parte della notte, la ravviva con il suo canto, anticipa
la luce del giorno (nella seconda strofa, con un’ardita sostituzione dell’ef-
fetto uditivo in quello visivo, il canto si fa “luce” ai viandanti); il gallo
segnala il giorno che viene, ne preannuncia l’attività e il sollievo, e invita
a destare la luce, ad assumere di nuovo i propri impegni, a scuotersi ogni
torpore interiore per riprendere di buon animo la vita. Se è segnale della
notte che si chiude, il gallo è allora simbolo e richiamo a venir fuori da quella
tenebra, cui non seppe sottrarsi neppure l’apostolo Pietro»32.

præco diei iam sonat, già s’ode l’araldo del giorno,


noctis profundæ pervigil che veglia nel profondo della notte:
nocturna lux viantibus è come luce a chi cammina al buio,
a nocte noctem segregans. delle notturne vigilie è segnale.
Samuele Pinna 250

A partire dalla luce, Sant’Ambrogio rilegge, quale simbolo immediato,


Gesù Cristo: il vero «araldo del giorno, che veglia nel profondo della notte,
è come luce a chi cammina al buio, delle notturne vigilie è segnale».
Arditamente Sant’Ambrogio «esprime in termini visivi una realtà che è
solo fonetica»33: «nocturna lux». Nel buio della notte, il canto del gallo —
che, nell’antichità, permetteva di distinguere le diverse vigiliæ (ossia le
parti della notte, divisa in sette veglie): «a nocte noctem segregans» –,
anticipa la luce, ancora assente e attesa. Il gallo separa la notte dalla notte,
precisa Ambrogio: il segregare, il separare è un richiamo all’azione
discriminatrice che si realizzerà nel giorno del giudizio, dove i capri saranno
divisi dalle pecore (cfr. Mt 25,32ss).
Ecco perché la preghiera si fa bellezza, la fede canora, fides canora. Il
culto deve quindi attrarre, deve permettere all’uomo di entrare e insieme
ascendere nel Mistero di Dio. La liturgia non può né deve avere mai un
linguaggio funzionale piegato dalle propensioni o dai gusti di chi lo celebra,
al contrario, deve essere il mezzo per entrare nel mondo invisibile, dove il
soggetto che prega si fonde con il divino. Il linguaggio orante ha il compito
di rendere possibile l’incontro con Dio, l’entrare in comunione con la
Trinità intera. In modo plastico gli inni ambrosiani sono di ausilio per
giungere a questa dimensione. Quando a Cassiciaco, Santa Monica madre
di Sant’Agostino, alla fine dell’alto dialogo tra gli intellettuali convenuti col
figlio (sul tema “della felicità”) interviene con la sua fede “semplice” ma
resa “sapiente” dalla scuola di Ambrogio, citerà proprio l’ultimo verso
dell’inno Deus creator omnium. Il vescovo di Ippona ricorda:

A questo punto mia madre avendo rievocato le parole che erano


profondamente impresse nella sua memoria e risvegliandosi, per
così dire, alla propria fede, cantò con gioia quel verso del nostro
vescovo “O Trinità, maternamente accogli chi ti implora”.
(Hic mater, recognitis verbis quae suae memoriæ pænitus
inhærebant et quasi evigilans fidem suam, versum illum sacerdotis
nostri: “Fove præcantes Trinitas, læta effudit”). 34

L’inno, nella singolare genialità artistica di Ambrogio, diviene davvero


un condensato poetico di teologia. Nella seconda strofa, la figura dell’araldo
ha pure il compito di proclamare in maniera pubblica e solenne un
messaggio; sonat, infatti, indica un proclamare e non soltanto un cantare.
L’annunciatore stesso, infatti, è il Giorno, è la Luce: Gesù Cristo. Il
banditore è l’annuncio stesso che viene bandito: l’araldo, che è Gesù,
annuncia la Luce, che altro non è se non ancora Lui.
251 Ad Galli cantum

Sarà proprio lui la prima luce che brillerà nel segreto del tuo cuore;
sarà proprio Lui che, se tu gli dirai «Durante la notte sta sveglio per
te il mio spirito», farà splendere per te la luce del mattino nelle ore
della notte, se tu rifletterai sulle parole di Dio. Mentre tu rifletti, si
fa luce. Al vedere quella luce non fisica, ma della grazia, dirai:
«Luce sono le tue prescrizioni». Quando invece il giorno ti
sorprenderà immerso nella tua riflessione sulle parole divine e
quando una così piacevole attività di preghiera e di salmodia
rallegrerà il tuo spirito, di nuovo dirai al Signore Gesù: «Rallegre-
rai le porte del mattino e alla sera.
(Ipse prius in tui cordis inlucestet arcano, ipse tibi dicenti: “De
nocte vigilat ad te spiritus meus” matutinum lumen temporibus
faciet splendere nocturnis, si mediteris verba dei. Dum enim
meditaris, lux est et videns lucem non temporis, sed gratiæ dices:
“Quia lux præcepta tua”, cum autem te meditantem verba divina
dies invenerit et tam gratum opus orandi atque psallendi delectaverit
tuam mentem, iterum dices ad dominum Iesum: “Exitus matutinos
et vespere delectabis”)».35

Il «noctis profundæ pervigil» indica che esiste un essere vivente che non
dorme, veglia nel profondo della notte, immerso nelle tenebre e, difatti,
«pervigil» dice ancor di più che una semplice “veglia”, quale tema cristiano
ricorrente in tanti autori, riverbero della predicazione del Cristo nei Vange-
li. Il vegliare ha un richiamo classico in Ovidio, nell’usignolo descritto
come il «pervigil custos», il custode sveglio, che in Ambrogio è Gesù
Cristo. L’araldo è quasi come la luce stessa per coloro che camminano nel
buio, è colui che annuncia la luce e insieme è la luce: «Veniva nel mondo
la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). S’intuisce che Gesù
Cristo è il grande cantato da Sant’Ambrogio: la sua è una cristologia in canto
o un’innologia cristica.

Hoc excitatus Lucifer Desta a quel canto, la stella lucifera


solvit polum caligine: dalla tenebra libera il cielo,
hoc omnis errorum chorus dei vagabondi la torma a quel canto,
vias nocendi deserit. abbandona le strade del malfare.

La «stella lucifera» richiama il De Natura Deorum di Cicerone; si tratta


di quella luce che previene il sorgere del sole, che di poco l’anticipa. Se la
prima origine dell’Æterne rerum conditor è la capacità di Sant’Ambrogio
di trasfigurare poeticamente e musicalmente la natura, «dietro il tempo e la
Samuele Pinna 252

natura, egli avverte la presenza di Dio»36.


«Solvit polum caligine»: libera il cielo dalla caligine, dal buio. La
«caligo» simboleggia tutto ciò che per la Sacra Scrittura sono le tenebre («la
luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» Gv 1,5).
«Polum» è la metà della calotta della volta celeste, è il cielo37. A quel canto
del gallo, dunque — in cui la stella lucifera (phosphoros, colui che porta la
luce), Cristo, illumina la calotta del cielo — i peccatori sono scoperti, colti
in flagranza di peccato e per ciò rimangono stupiti, attoniti, sorpresi.

Hoc nauta vires colligit Si rincuora a quel canto il navigante


pontique mitescunt freta; poi che si placa la furia del mare;
hoc ipse petra ecclesiae anche colui che è Pietra della Chiesa
canente culpam diluit. a quel canto deterse il suo peccato.

Da questi ultimi versi si percepisce come l’inno deve essere riletto «in
senso cristologico e come cifre della storia della salvezza Ambrogio legge
le vicende che popolano il giorno e la notte. La notte con le sue tenebre è
propizia alla “torma dei vagabondi” e ai banditi col loro pugnale, è motivo
di ansia al navigante, di inquietudine e spossatezza agli infermi: il canto del
gallo e più veramente la voce di Cristo e il suo apparire come luce, fermano
gli operatori del male, dissolvono le tenebre che li rappresentano, rincuorano
lo spirito, infondono vigore e riaccendono la speranza»38.
Il navigante, pertanto, mediante questo canto si rincuora e le furie del
mare si placano. Siamo davanti, forse, a un cenno quasi autobiografico: la
tempesta ricorda le peripezie vissute da Ambrogio oppure il naufragio del
fratello Satiro39. Infatti, «non ci aspetteremmo il richiamo al mare e al
pericoloso lavoro dei naviganti in chi verosimilmente ascoltava il canto del
gallo nel ben mezzo della pianura padana. Ma negli scritti di Ambrogio il
ricordo del mare ricorre con significativa frequenza. Qui innegabilmente
contribuisce a dare una dimensione cosmica a tutta la rappresentazione»40.
Entra ora in scena il gallo del Vangelo (cfr. Lc 22,61.62): anche colui che
è la Pietra della Chiesa è implicato in questo canto. Il gallo deterge il suo
peccato, poiché fa venire in mente a Pietro le parole di Gesù e la propria
debolezza. Nel Trattato sulla penitenza41 Ambrogio chiedeva al Signore di
conferirgli la grazia di poter piangere con i peccatori, pianto che è metafora
di un lavacro redentore, pianto che il sacerdote stesso non trattiene e così
aiuta il peccatore a lavarsi e allo stesso tempo lava se stesso dalle colpe.
Sicché, Pietro forte e roccioso durante il giorno, si sente turbato e sperduto
nella notte. Irrompe, qui, inatteso ed efficacissimo, il dramma salvifico della
passione di Cristo e il dramma personale di Pietro. L’Apostolo viene
253 Ad Galli cantum

menzionato proprio nella sua vocazione misterica di Petra Ecclesiæ e, più


volte, Ambrogio ritornerà su questo tema42.

Surgamus ergo strenue: Alacri dunque e animosi eleviamoci:


gallus iacentes excitat il gallo scuote chi a giacere indugia,
et somnolentos increpat rimbrotta i dormiglioni
gallus negantes arguit. e chi si nega accusa.

«Surgamus ergo strenue», alacri dunque e animosi eleviamoci: è l’invito


rivolto a coloro che godono degli ultimi tepori delle colpe, a coloro che sono
avvinti nella comodità calda del peccato, poiché ora saranno svegliati. Il
gallo, infatti, con il suo canto sgrida i dormiglioni, accusa chi si nega alla
Luce, si scaglia contro coloro che non sono né desti né pronti. Il gallo
diviene una sveglia impertinente che non lascia spazio alla quiete a
tentennamenti. Sennonché, se il gallo canta nella notte, torna la speranza,
il vigore, le paure vengono cancellate.

Gallo canente spes redit, Se il gallo canta, torna la speranza,


ægris salus refunditur, e rifluisce ai malati il vigore,
mucro latronis conditur, il bandito nasconde il pugnale,
lapsis fides revertitur. negli smarriti la fede rivive,

«Ægris salus refunditur», rifonda la salute dei malati, poiché Cristo è il


medico. Il bandito nasconde il suo pugnale, i malvagi sono sorpresi, mentre
agli smarriti è restituita la fede. Ai caduti, inoltre, la fede è restituita perché
torna la speranza.
Per Sant’Ambrogio la grazia è sempre la prima e l’ultima parola: Dio
crea l’uomo perché l’uomo possa godere di questa grazia e alla fine l’ultima
parola, che sarà di Dio (vedi il buon ladrone in croce), a causa della
misericordia, esprimerà di nuovo la grazia. «Ambrogio — osserva Inos
Biffi — che pure ha vivissimo il senso del male nel mondo, soprattutto si
sofferma ammirato a illustrare ciò che Dio sa operare perdonando il peccato
dell’uomo, ritenendo la sua grazia come perdono la soddisfazione e la
bellezza della creazione, capace di dissolvere l’anomalia e lo squallore del
peccato. Come se si dicesse: di fronte alla gloria del Figlio suo risorto, al
pregio e al valore della sua obbedienza filiale, alla sovrabbondanza della
grazia scaturita dalla croce e allo splendore dell’umanità che ne riporta i
lineamenti, agli occhi stessi di Dio anche il peccato — che pure ha
comportato l’atroce morte di croce di Gesù e la maledizione per il suo
pendere dal legno (Gal 3,13) — alla fine si trova oltrepassato»43.
Samuele Pinna 254

Iesu, labantes respice Guarda Gesù, chi vacilla,


et nos videndo corrige: emendaci col tuo sguardo.
si respicis, lapsus cadunt Se tu ci guardi, le colpe dileguano
fletuque culpa solvitur. e il peccato si stempera nel pianto.

In queste strofe Ambrogio «trasforma in accenni poetici una figura e un


evento evangelico che tanto lo hanno impressionato e dove particolarmente
si rivela la sua teologia della grazia, delle lacrime e del perdono: è il pianto
di Pietro, dopo il suo tradimento44. Scriverà, lui che «si lasciava facilmente
commuovere al pianto»45:

Pietro si rattristò e pianse,


perché sbagliò, come tutti sbagliano.
Lacrime preziose, che lavano la colpa!

Si mettono a piangere
coloro ai quali Gesù volge il suo sguardo.
Pietro negò una prima volta,
e tuttavia non pianse,
poiché il Signore non lo aveva guardato.
Negò una seconda volta,
ma non pianse,
poiché il Signore non lo aveva guardato ancora.
Rinnegò una terza volta
e pianse un pianto amarissimo.

Guardaci Signore Gesù,


affinché sappiamo piangere il nostro peccato.
Dei santi anche la caduta c’è di vantaggio:
non ci ha danneggiati
il rinnegamento di Pietro,
ci ha invece giovato il suo ravvedimento.
Pietro pianse, con la più profonda amarezza,
per poter lavare con le lacrime la sua colpa.

Sciogli anche tu, fratello,


nelle lacrime la tua colpa,
se vuoi meritare il perdono.
Se ti avviene di sbagliare,
Cristo ti è accanto
255 Ad Galli cantum

Come testimone delle tue segrete azioni


e ti guarda perché te ne ricordi
e confessi il tuo errore.

Imita Pietro,
quando per la terza volta esclama:
“Signore, tu sai che io ti voglio bene”.
Tre volte aveva rinnegato,
e per tre volte fa la sua professione.
Aveva rinnegato nella notte,
e alla luce del giorno
dichiara il suo amore.

Insegnaci, o Pietro,
quanto ti abbiano giovato le lacrime.
Eri caduto prima di piangere,
ma dopo aver pianto
fosti scelto per governare gli altri,
tu che prima non eri riuscito
a governare te stesso.46

Tu lux refulge sensibus Tu, luce, ai sensi rifulgi


mentisque somnum discute, e dissipa il sonno dell’anima.
te nostra vox primum sonet Te la primizia della voce canti,
et ora solvamus tibi. prima che agli altri il labbro a te si sciolga.

«Tu lux refulge sensibus», alla fine torna il tema della luce. Luce che
rifulge sui sensi che si riaprono alla vita, ma anche a quel sonno dell’anima,
del peccatore, che è ricondotto alla grazia. La voce non può che cantare la
misericordia del Signore: «l’aspetto che, creando, Dio ha voluto risaltasse
non è genericamente il suo amore, ma il suo amore nella forma della
misericordia»47. «L’inno è, così, tutto un’invocazione e un sospiro alla luce,
che sta per vincere le tenebre e apparire all’orizzonte: ma, di là da quella che
sta per inondare la terra, l’anelito si orienta allo Splendore che è Cristo
stesso, del quale è imminente l’apparizione nell’intimo dell’anima»48.
Conclusione: Già da questa semplice rilettura dell’inno Æterne rerum conditor si
omnia Christus osserva come Sant’Ambrogio possedesse un’invidiabile cultura letteraria,
est nobis.
tanto da portare molti a Cristo con l’eloquenza del suo dire e con l’eleganza
classica della sua scrittura. «La soavità della sua parola mi incantava»49,
ricordava di lui uno spirito sensibile ed esigente come Agostino.
Samuele Pinna 256

Sant’Ambrogio aveva ricevuto dalla sua indole e da una raffinata formazio-


ne non comuni attitudini poetiche e musicali che, come abbiamo notato,
userà per comporre in onore della Trinità, di Cristo e dei Santi, splendidi inni
che saranno cantati in tutta la cattolicità occidentale.
La sua insigne dottrina teologica ha fatto di lui uno dei massimi Padri
della Chiesa. Le sue opere sono un mare di sapienza umana e cristiana. Negli
Inni tale teologia è riflessa e condensata in modo mirabile: Sant’Ambrogio
ha saputo creare «un credo in versi»50. Per lui è, infatti, imprescindibile la
centralità del Signore Gesù: il Salvatore è il compendio di tutti i valori, la
somma di tutte le verità. Dove c’è qualcosa di vero, di giusto, di buono, di
bello, lì c’è un riverbero dello splendore del Figlio di Dio crocifisso per noi
e risorto, nel quale tutto è stato pensato e tutto è stato creato e redento.
È la contemplazione ammirata per la Chiesa, la Sposa di Cristo che egli
considera il capolavoro del Padre. Proprio perché, nonostante le nostre
colpe, continuiamo a far parte di questo organismo santo e santificante, non
dobbiamo perdere mai la speranza di essere perdonati e di rinascere:

Se disperi il perdono per di gravi peccati, serviti di intercessori,


serviti della Chiesa, affinché essa preghi per te; contemplando lei,
il Signore ti accorda quel perdono che a te potrebbe invece
rifiutare.
(Si gravium peccatorum diffidis veniam, adhibe precatores, adhibe
Ecclesiam, quæ pro te precetur, cuius contemplatione quod tibi
Dominus negare possit ignoscit). 51

Un altro aspetto imprescindibile della sua teologia — messo in luce


dall’episodio evangelico che tanto impressionò Sant’Ambrogio, ossia il
perdono a Pietro, «la roccia della Chiesa, che, sotto lo sguardo di Cristo, si
pente e lava il suo peccato»52 — è quello della misericordia di Dio che si fa
redentrice per la salvezza della creatura.

È sorprendente quanto afferma Sant’Ambrogio: «Leggo che Dio


ha creato l’uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un
essere cui rimettere i peccati» (Exameron, VI,IX,10,76), come a
dire che la remissione dei peccati significava il compimento e la
soddisfazione della sua opera creatrice. Ed è una persuasione
ricorrente nel santo vescovo di Milano e forse la sostanza più
originale della sua teologia. Altrove scrive: «Non mi glorierò
perché sono giusto, ma perché sono redento» (De Iacob et vita
beata, I,21). Ambrogio, che pure ha vivissimo il senso del male nel
257 Ad Galli cantum

mondo, soprattutto si sofferma ammirato a illustrare ciò che Dio sa


operare perdonando il peccato dell’uomo, ritenendo la sua grazia
come perdono la soddisfazione e la bellezza della creazione,
capace di dissolvere l’anomalia e lo squallore del peccato. Come
se si dicesse: di fronte alla gloria del Figlio suo risorto, al pregio
e al valore della sua obbedienza filiale, alla sovrabbondanza della
grazia scaturita dalla croce e allo splendore dell’umanità che ne
riporta i lineamenti, agli occhi stessi di Dio anche il peccato — che
pure ha comportato l’atroce morte di croce di Gesù e la maledizio-
ne per il suo pendere dal legno (Gal 3,13) — alla fine si trova
oltrepassato.53

Sant’Ambrogio ha plasticamente, mediante la poesia, riprodotto la


bellezza del disegno di Dio sulla storia dell’umanità e ciò si è potuto
osservare anche dalla breve esposizione da noi compiuta dell’Æterne rerum
conditor, considerato «la creazione poetica più originale del cristianesimo
latino antico»54. Quest’inno — commenta a ragione Inos Biffi — «da solo
basterebbe, con la sua grazia e il suo nitore, a immortalare Ambrogio quale
altissimo poeta»55.

(1) Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la Langue Grecque. Histoire des


mots, Les éditions Klincksieck, Paris 1968, p. 1156. | (2) Cfr. H. Darre, De l’usage des
hymnes dans l’église, dès origines à saint Grégoire-le Grand, in: Études Grégoriennes 9
(1968), pp. 25-36. | (3) Enarr. in ps., 148, 17. | (4) Cfr. G. Boissier, La fine del mondo pagano,
SugarCo Edizioni, Milano 1989, p. 207. | (5) G. Biffi (a cura di), Ambrogio di Milano, Inni,
Jaca Book, Milano 1997, pp. 10-11 (d’ora in poi citato come: Inni). | (6) Ibid., p. 11. | (7)
Sant’Ambrogio, Ep. 76,19. | (8) Conf., IX,7,15. | (9) Inni, p. 14. | (10) Vita Ambrosii, 13,3.
| (11) «La parola letteralmente indica un “canto all’incontro”, cioè un canto che risponde al
canto e quindi un canto in alternanza» (Inni, p. 16). | (12) Le vigiliæ: «si introducono delle
“veglie” secondo modalità che consentivano un miglior coinvolgimento della gente rispetto
a quello che si faceva in precedenza» (ibid., p. 14). | (13) «Credo sia utile a questo punto
segnalare un fatto che di solito non è posto adeguatamente in rilievo» (ibid., p. 18). | (14)
Ibid., p. 19. | (15) Ep., 75a, 34. | (16) Inni, p. 20. | (17) I. Biffi, Fede, poesia e canto del mistero
di Cristo in Ambrogio, Agostino e Paolino di Aquileia, Jaca Book, Milano 2003, p. 111. | (18)
Per la traduzione e lo studio specifico si seguirà il volume 22 dell’Opera Omnia di
Sant’Ambrogio curato da Giacomo Biffi e Inos Biffi: Inni-iscrizioni-frammenti, Biblioteca
Ambrosiana-Città Nuova Editrice, Roma 1994. | (19) I. Biffi, Teologia e poesia. Ambrogio,
Dante, Manzoni, Claudel, Jaca Book, Milano 2014, p. 29. | (20) In Ps. 118, “kof” (19), 30.
| (21) Si pensi anche, ad esempio, alla base ottagonale del battistero in cui Ambrogio battezzò
Agostino. | (22) Inni-iscrizioni-frammenti, p. 30. | (23) Ibid., pp. 30-31. | (24) Cfr. G.
Banterle, Introduzione, in: Inni-iscrizioni-frammenti, pp. 11-22. | (25) I,21,1. | (26) Exam.,
V,24,88. | (27) I. Biffi, Teologia e poesia. Ambrogio, Dante, Manzoni, Claudel, p. 29. | (28)
Samuele Pinna 258

«Qualcuno, però, non esclude che già nei primi versi l’interlocutore sia Cristo» (Inni-
iscrizioni-frammenti, p. 30, 1-4). | (29) De fide, I,9,58. | (30) I. Biffi, Fede, poesia e canto del
mistero di Cristo in Ambrogio, Agostino e Paolino di Aquileia, p. 96. | (31) L’espressione
tempora temporum dice l’immensità dei tempi o il ritmo stesso dei tempi. | (32) Cfr. C.
Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo, San Paolo, Cinisello Balsamo
(MI) 1996, pp. 115-116. | (33) Inni-iscrizioni-frammenti, p. 30, 7. | (34) De beata vita, IV,35.
| (35) In Ps. 118, “kof” 19,30. | (36) I. Biffi, Teologia e poesia. Ambrogio, Dante, Manzoni,
Claudel, p. 28. | (37) Anche nell’inno di Natale (In natale Domini) Ambrogio parla di caligo
noctis (cfr. la Prima Lettera di Pietro). | (38) I. Biffi, Fede, poesia e canto del mistero di Cristo
in Ambrogio, Agostino e Paolino di Aquileia, p. 97. | (39) Cfr. ibid., p. 68. | (40) Inni-
iscrizioni-frammenti, p. 33, 13-14. | (41) II,8,71-73. Cfr. I. Biffi, Fede, poesia e canto del
mistero di Cristo in Ambrogio, Agostino e Paolino di Aquileia, pp. 84ss. | (42) Cfr. Exp. Ev.
Luc., X, 87-93. | (43) I. Biffi, Per ritrovare il Mistero smarrito. Riflessioni su Gesù il Signore,
l’intelligenza della fede, la scuola dei maestri, Jaca Book, Milano 2012, p. 21. | (44) Id.,
Fede, poesia e canto del mistero di Cristo in Ambrogio, Agostino e Paolino di Aquileia, p.
97. | (45) A. Paredi, Vita di Ambrogio, Edizioni O.R., Milano 1986, p. 78. | (46) I. Biffi (a
cura di), Sant’Ambrogio, Preghiere, Piemme, Casale Monferrato 2003, pp. 61-63. | (47) S.
Pinna, Il “mysterium iniquitatis” alla luce di Cristo Redentore. Il problema del Male nella
teologia di Inos Biffi, in: Rivista di Teologia Morale (2014) 183, pp. 407-417, p. 416. | (48)
I. Biffi, Teologia e poesia. Ambrogio, Dante, Manzoni, Claudel, p. 29. | (49) Conf., 5,13,23:
«Et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, in optimis notum orbi terræ, pium
cultorem tuum, cuius tunc eloquia strenue ministrabant adipem frumenti tui et lætitiam olei
et sobriam vini ebrietatem populo tuo. Ad eum autem ducebar abs te nesciens, ut per eum
ad te sciens ducerer. Suscepit me paterne ille homo Dei et peregrinationem meam satis
episcopaliter dilexit. Et eum amare cœpi primo quidem non tamquam doctorem veri, quod
in Ecclesia tua prorsus desperabam, sed tamquam hominem benignum in me. Et studiose
audiebam disputantem in populo, non intentione, qua debui, sed quasi explorans eius
facundiam, utrum conveniret famæ suæ an maior minorve proflueret, quam prædicabatur,
et verbis eius suspendebar intentus, rerum autem incuriosus et contemptor astabam et
delectabar suavitate sermonis, quamquam eruditioris, minus tamen hilarescentis atque
mulcentis, quam Fausti erat, quod attinet ad dicendi modum. Ceterum rerum ipsarum nulla
comparatio; nam ille per Manichæas fallacias aberrabat, ille autem saluberrime docebat
salutem. Sed longe est a peccatoribus salus, qualis ego tunc aderam. Et tamen propinquabam
sensim et nesciens». | (50) J. Fontaine, Prose et poésie: l’interférence des genres et des styles
dans la création littéraire d’Ambroise de Milan, in: AA. VV., Ambrosius Episcopus, I, Vita
e Pensiero, Milano 1976, pp. 124-170: p. 162. | (51) Exp. Ev. sec. Lucam, V,11. | (52) I. Biffi,
Teologia e poesia. Ambrogio, Dante, Manzoni, Claudel, p. 31 | (53) Id., Per ritrovare il
Mistero smarrito, p. 21. | (54) J.-L. Charlet, Richesse spirituelle d’un hymne d’Ambroise:
“Æterne rerum conditor”, in: Maison-Dieu 173 (1988), p. 61. | (55) I. Biffi, Teologia e
poesia. Ambrogio, Dante, Manzoni, Claudel, p. 33.

Paderno Dugnano (MI) | Via San Giuseppe, 2 Agosto 2014

Potrebbero piacerti anche