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L’assalto al Campidoglio
squaderna la crisi americana L’IMPERO Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
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1/2021 • mensile
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CONSIGLIO SCIENTIFICO
Rosario AITALA - Geminello ALVI - Marco ANSALDO - Alessandro ARESU - Giorgio ARFARAS - Angelo BOLAFFI
Aldo BONOMI - Edoardo BORIA - Mauro BUSSANI - Vincenzo CAMPORINI - Luciano CANFORA - Antonella
CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO - Giuseppe CUCCHI - Marta DASSÙ - Ilvo
DIAMANTI - Germano DOTTORI - Dario FABBRI - Luigi Vittorio FERRARIS - Marco FILONI - Federico FUBINI
Ernesto GALLI della LOGGIA - Laris GAISER - Carlo JEAN - Enrico LETTA - Ricardo Franco LEVI
Mario G. LOSANO - Didier LUCAS - Francesco MARGIOTTA BROGLIO - Fabrizio MARONTA - Maurizio
MARTELLINI - Fabio MINI - Luca MUSCARÀ - Massimo NICOLAZZI - Vincenzo PAGLIA - Maria Paola PAGNINI
Angelo PANEBIANCO - Margherita PAOLINI - Giandomenico PICCO - Lapo PISTELLI - Romano PRODI - Federico
RAMPINI - Andrea RICCARDI - Adriano ROCCUCCI - Sergio ROMANO - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe
SACCO - Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI - Francesco SISCI - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO
Giulio TREMONTI - Marco VIGEVANI - Maurizio VIROLI - Antonio ZANARDI LANDI - Luigi ZANDA
CONSIGLIO REDAZIONALE
Flavio ALIVERNINI - Luciano ANTONETTI - Marco ANTONSICH - Federigo ARGENTIERI - Andrée BACHOUD
Guido BARENDSON - Pierluigi BATTISTA - Andrea BIANCHI - Stefano BIANCHINI - Nicolò CARNIMEO
Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE
Alberto DE SANCTIS - Alfonso DESIDERIO - Federico EICHBERG - Ezio FERRANTE - Włodek GOLDKORN
Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI - Francesco
MAIELLO - Luca MAINOLDI - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Giovanni ORFEI
Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO - Angelantonio
ROSATO - Enzo TRAVERSO - Fabio TURATO - Charles URJEWICZ - Pietro VERONESE - Livio ZACCAGNINI
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Consiglio di amministrazione
Presidente John Elkann
Vicepresidente Carlo Perrone
Amministratore delegato
e direttore generale Maurizio Scanavino
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Risorse umane Roberto Moro
Divisione Stampa nazionale
Direttore generale Corrado Corradi
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SOMMARIO n. 1/2021
EDITORIALE
7 America the Beautiful
267 Dore GOLD - ‘Gli accordi di Abramo aprono una nuova epoca
I palestinesi lo capiranno?’
273 Abdolrasool DIVSALLAR - Ora Teheran pensa davvero
alla bomba atomica
279 Maria FANTAPPIE - Riusciranno gli Stati Uniti a risolvere
il rompicapo mediorientale?
AUTORI
285
287
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
3,9 Maine
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52,3 61,9 South Dakota 6,8 Wisconsin
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Idaho Wyoming 5,4 5,3 New York
46,7 Iowa 10
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0,3 Ohio
80,1 1,1 Illinois Indiana Pennsylvania
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Colorado 1,2 1,7 1,2 West
63,1 Kansas Virginia
36,2 Missouri
7,4 9,3
California 4,3
0,5 3,8 Virginia District 24,7
45,4 Kentucky of Columbia
North Carolina
Oklahoma Tennessee 4,8
Arizona New Mexico 7,8 Vermont 7,8
1,5 9,4 South
38,6 31,7 i Carolina New Hampshire 14
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20,2 Texas 4,7 5,1 Georgia Rhode Island 0,7
Alaska Da 0 a 10
60,9 da 11 a 50
da 51 a 80,1
Fonte: Federal Land Ownership
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
1. Cfr. B.J. BALLECK, Modern American Extremism and Domestic Terrorism. An Encyclopedia
of Extremists and Extremist Groups, Santa Barbara, California-Denver, Colorado, Abc-Clio,
2018, p. 123. Le Quattordici Parole, nome della milizia eponima e sintesi di un passo del
Mein Kampf, signifcano: «Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra gente e un futuro per
i bambini bianchi».
2. Cfr. J. MITCHELL, American Awakening. Identity Politics and Other Affictions of Our Time,
New York-London 2020, Encounter Books, p. XX. 11
AMERICA THE BEAUTIFUL
12-Grecia
Australia
Nuova Zelanda
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OREGON 25 maggio 2020
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Uccisione di George Floyd
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NEW MEXICO Protezione di un monumento
GEORGIA confederato durante una
Oath Keepers Dallas
Weatherford contro-manifestazione
Kentucky:
Controllo e sorveglianza TEXAS Tyler
durante una manifestazione
organizzata Houston
da Black Lives Matter FLORIDA Light Foot Militia
Attivi in 6 Stati da
Civilian Defence Force e 3% e affiliati maggio 2020
Texas: American Contingency Attivi in 19 Stati dall’estate 2020
Weatherford: difesa Attivi dall’inizio dell’estate 2020 Georgia: Arkansas:
di una statua confederata Principali attività: Stato dove si concentra un quarto Harrison: servizio di sicurezza
Tyler: manifestazioni a sostegno - Contrasto alle proteste anti-polizia delle loro attività per un complesso del Ku Klux Klan
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della polizia “Back The Blue” e pro-Black Lives Matter Maryland, Illinois e Georgia: durante una manifestazione
Houston: eventi di reclutamento - Formazione e reclutamento Manovre di addestramento di Black Lives Matter
Fonte: Acled, Bringing clarity to crisis
2 - IL CORPO DELL’AMERICA Popolazione: 328.239.523 (stima 2019)
Pil pro capite: 65.112$
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Seoul İncirlik Base aerea
Osan Yokosuka VII Flotta Washington
III Flotta San Diego Norfolk II Flotta Bagram Base congiunta C I N A
Kunsan Sasebo Base navale
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Kadena Base aerea al-’Udayd Base aerea
Bahrein V Flotta
Fort Magsaysay Base aerea Pearl Harbor Guantánamo Base navale
Guam Base aeronavale
Mactan-Benito Ebuen Base aerea Camp Lemonnier Base navale
Area di Area di
Lumbia Base aerea competenza della competenza della
Singapore Antonio Bautista Base aerea
III Flotta V Flotta Singapore
Diego Garcia
Darwin Base aerea
Harold E. Holt Stazione comunicazioni navali
(Comprende il Mediterraneo)
VII Flotta Colli di bottiglia IV Flotta VII Flotta
4 - PERCEZIONI INCROCIATE
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7. Cfr. J. HARPER, «What other decade would you live in? Most Americans choose the 1950s»,
The Washington Times, 16/8/2013. Il sondaggio è di YouGov/Economist. 19
AMERICA THE BEAUTIFUL
8. Cfr. S. WERTHEIM, Tomorrow the World. The Birth of U.S. Global Supremacy, Cambridge
20 (Massachusetts)-London 2020, The Belknap Press of Harvard University Press, p. 47
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
a New York, con cento saggi divisi in quattro topic groups: economia e
fnanza, sicurezza, territorio, politica. Nel maggio 1941 parte un quin-
to gruppo, che convoca rappresentanti di paesi stranieri per integrarne
o scartarne i punti di vista ma soprattutto per educarli a rispettare il
primato americano. Cucine e fucine della geopolitica americana, che
non ama defnirsi tale causa la fama diabolica della Geopolitik tede-
sca (Bowman non sopporta la nomea di «Haushofer americano»). Im-
presa tanto più ammirevole se si consideri che nelle università dell’Ivy
League la geografa politica è Cenerentola, curva a ricalcare vieti sche-
mi scientisti di ottocentesca matrice germanica, del tutto priva di dire-
zione strategica. Eppure la produttività dei saggi è commendevole. Do-
po più di 250 incontri, sono 682 i memorandum inviati al dipartimen-
to di Stato, con impressionante corredo cartografco. Due sole riunioni
plenarie: nel giugno 1940, quando lo shock della resa francese percor-
re quale scarica elettrica l’assemblea di Guerra e Pace, spingendola a
invocare urgente il riarmo, base del progetto imperiale; e nel 1944,
dopo la conferenza di Dumbarton Oaks dedicata a concepire le Nazio-
ni Unite. Il conto (350 mila dollari) lo paga Rockefeller Foundation,
non convintissima ma abbastanza patriottica.
La storiografa americana ha tardivamente cominciato a scavare
in quel tesoro 11. Vi trovereste ad esempio piani per compiacere i giap-
11. Cfr. S. WERTHEIM, op. cit. Si veda anche l’articolo dello stesso autore, tratto dal libro ci-
tato, «Perché l’America decise di essere impero», Limes, «Tempesta sull’America», n. 11/2020,
pp. 197-205. Cfr. anche L. H. SHOUP, W. MINTER, Imperial Brain Trust. The Council on Fo-
reign Relations and United States Foreign Policy, New York-Lincoln-Shanghai 1977/2004,
Authors Choice Press. 23
AMERICA THE BEAUTIFUL
ponesi purché non si spingano oltre alcune isole del Pacifco, progetti
di occupazione americana della Germania elaborati prima di Pearl
Harbor, tesi sulla riorganizzazione dell’economia globale attorno al
dollaro che ispireranno Fondo monetario internazionale e Banca
mondiale. O ancora la nota sopra «L’importanza strategica della Gro-
enlandia» (17 marzo 1940) per argomentare che siccome l’isola più
grande del mondo pertiene all’Emisfero Occidentale risulta coperta
dalla dottrina Monroe. Farina del sacco di Bowman, subito convoca-
to da Roosevelt alla Casa Bianca. Con effetti immediati: il 12 aprile,
tre giorni dopo l’ingresso delle truppe di Hitler a Copenaghen, il presi-
dente sposa l’idea del suo geografo di fducia e ordina di stabilire
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Isola di
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La Grand Area è un progetto elaborato da Guerra e Pace nel 1941 per garantire agli Usa il controllo del pianeta.
Fonte: S. Wertheim, Tomorrow the World. The Birth of U.S. Global Supremacy, 2020.
Regno Unito
CANADA
nella storia. Conferma così gli americani nel sospetto che voglia domi-
nare l’Europa, avvicinandosi a Russia e Cina. Opinione diffusa negli
apparati e al Congresso. Personalmente condivisa da Biden già nel
1990, alla vigilia dell’annessione della DDR alla Bundesrepublik: se i
tedeschi volessero rispedirci a casa al grido di «Yankees, go home», lui
risponderebbe: «Bring back the Russians. Bring back the Russians» 20.
La tempesta sull’America chiama l’Italia alla prova di maturità.
Scaduto è il tempo dello scambio basi (nostre) contro ombrello (ame-
ricano, per niente automatico). D’ora in poi per giocare nel girone
europeo a stelle e strisce è d’obbligo elaborare il nostro interesse na-
zionale. All’ormai annoiata domanda del capo – «e voi che volete?» –
stavolta dovremo rispondere. Per esempio: «Stare nell’impero come
parte dell’Europa europea, da lato minore ma rilevante nel triangolo
con Germania e Francia». Se taceremo, come fnora è regola, l’Ame-
rica non leverà affatto le tende (basi). Anzi. Non fosse che per l’impor-
tanza strategica e simbolica dello spazio italiano. Ma ci tratterebbe
da terra nullius. Dove prendere o scartare a piacere, secondo necessi-
tà. In cambio di proprio nulla.
Tutti gli esami si possono riparare meno quello di maturità.
20. «The Future of Europe, Hearings Before the Committee on Foreign Relations and the
Subcommittee on European Affairs of the United States Senate, One Hundred First Con-
gress, Second Session, December 13, 1989, January 17, February 1 and 22, March 1, 7, 21,
22, 28, and 29, May 9, and June 12, 1990», https://bit.ly/3a9ycmZ. Citato in F. COSTIGLIOLA,
op. cit. Si ringrazia Giacomo Mariotto per la segnalazione. 33
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
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Parte I
che FINE ha FATTO
il MARCHIO
AMERICANO
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
1. A LL’INDOMANI DELL’ASSALTO AL
Congresso, gli apparati statunitensi si sono arrogati i massimi poteri. Contro Trump,
senza curarsi di Biden. Dopo anni trascorsi ad agire indirettamente, impegnati ad
annullare i provvedimenti della Casa Bianca ritenuti anti-imperiali, hanno stabilito
di fare da sé. L’emozione di assistere alla rivolta dei bianchi li ha persuasi della
drammaticità delle faglie esistenti nella nazione, della necessità di intervenire per
risolverle. Lo shock prodotto da un presidente uscente che sognava il colpo di
Stato, unito all’età avanzata di quello entrante, ne ha determinato l’assunzione del-
le principali attività governative – almeno ad interim.
Molto più che impedire il ritiro dei militari dall’estero o avallare l’impraticabile
voto postale per favorire la vittoria del candidato democratico, sono tornati a ma-
novrare la superpotenza, anche attraverso i principali ministri della nuova ammini-
strazione, di palese estrazione tecnica. Come già successo nei frangenti più incerti
della storia statunitense.
In questa fase intendono dannare la memoria di Trump, cancellarne la fgura.
Costringendo i Big Tech a bandirlo da ogni piattaforma, privandolo della parola.
Premendo sui repubblicani affnché ne confermino l’impeachment, tenendolo sot-
to perenne scacco giudiziario. Quindi pensano di trasferire all’estero la rabbia
della popolazione, rovesciandola sul pianeta. Per impedirle di condurre il paese
all’impasse, per convogliare tale distruttiva vitalità nel mantenimento dell’impero.
Protagonismo tanto assoluto quanto azzardato, perché teso a eliminare la con-
seguenza (Trump) anziché l’origine del malessere (la fatica egemonica), perché
incapace di sanare la distanza esistente tra le varie regioni d’America, perché incli-
ne a trascinare la superpotenza in nuove crisi. Fino a precipitare in confitti assai
insidiosi. 37
CON LO SCEMPIO DEL CAMPIDOGLIO IL POTERE È PASSATO AGLI APPARATI
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Affermando convintamente la legalità del voto postale, puntellata più volte dai
pronunciamenti delle corti federali e dalla Corte suprema, anche dopo le elezio-
ni. Nella consapevolezza che la preferenza espressa da remoto, pure giustifcata
in tempi di epidemia, sarebbe stata facilmente manipolabile per la sua natura
promiscua e privata. Anche grazie all’ingenuità del campo trumpiano, talmente
contrario a tale soluzione da consigliare l’astensione a migliaia di potenziali elet-
tori, nell’incredibile convinzione che i giudici nominati dal presidente ne avreb-
bero sposato la campagna, prima di scoprire che l’aderenza istituzionale è più
robusta di quella politica.
Fino all’assedio del Campidoglio, clamoroso passaggio nella storia statuni-
tense, destinato a cambiare i calcoli delle agenzie federali. Finalmente persuase
a intervenire senza intermediari negli affari domestici.
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3. Per mestiere distratti dalle questioni internazionali, per cultura certi dell’in-
toccabilità dei costumi anglosassoni, fno al 6 gennaio gli apparati non sospetta-
vano Trump perseguisse il colpo di Stato. L’oligarca continuava a respingere
l’esito del voto, denunciando brogli mai provati, eppure vigeva la convinzione
che volesse corroborare la sua posizione elettorale in vista di una prossima vita,
senza benedire concreti atti di sedizione, anche per schivare la persecuzione che
la magistratura potrebbe ordire ai suoi danni.
Quanto capitato il giorno dell’Epifania ha colto di sorpresa gli analisti fede-
rali. E superato il punto di rottura. Probabilmente né Trump né gli attivisti pre-
senti sull’Ellipse di Washington sognavano realmente di violare il Congresso –
piuttosto immaginavano di scontrarsi con la polizia, magari costringendo il par-
lamento a sospendere il riconoscimento del voto dei grandi elettori in favore di
Joe Biden. Gli scatenati sostenitori dell’ex presidente non possedevano né la
consapevolezza, né le capacità organizzative per imporre un cambio di regime.
Ma la pressione esercitata da Trump sul Senato affnché sovvertisse l’esito eletto-
rale, unita al dipanarsi degli eventi, ha prodotto una giornata altamente dramma-
tica, nettamente più rilevante dell’11 settembre, segnale dell’intensità raggiunta
dalla tempesta di dentro.
Benché sui social apparissero piani eversivi alquanto velleitari, la situazione
è precipitata spontaneamente nel primo pomeriggio. Dopo aver lamentato per
circa un’ora «il furto» subìto alle ultime presidenziali, intorno alle 13 Trump ha
invitato la folla presente nel parco presidenziale a marciare verso il Campidoglio,
«per riprendersi l’America», per punire il vicepresidente Mike Pence, reo di certi-
fcare nelle stesse ore la vittoria di Biden. Terminata l’orazione, circa ottomila
persone hanno attraversato il miglio e mezzo del viale nazionale (National Mall)
che li separava da Capitol Hill, raggiungendo il cordone securitario intorno alle
13.30. Incontro all’inaudito.
Inspiegabilmente poco folto, il contingente di polizia s’è mostrato morbido
nei confronti dei manifestanti. Ai trumpiani, bianchi dai tratti germanici cui è 41
CON LO SCEMPIO DEL CAMPIDOGLIO IL POTERE È PASSATO AGLI APPARATI
sione Larry Brock di chiare origini tedesche, ripreso mentre si aggirava sul pavi-
mento della Camera in tuta mimetica ed elmetto. Il proud boy Richard Barnett
dalle dichiarate simpatie ariane, immortalato con i piedi sulla scrivania della
speaker Nancy Pelosi. Mentre Mike Pence, inseguito nei locali del Senato, s’è
salvato per un soffo dopo essere stato quasi circondato 8.
Giunti soprattutto dal Sud e dal Midwest, gli insorti hanno tragicamente pa-
lesato la collera che attraversa le due macroregioni, provate oltremodo dalla di-
mensione imperiale, dalla superiorità dell’establishment, come illustrato da Limes
alla fne del 2020 9. Per abbattersi sul Congresso, profanato senza rimorsi – per la
prima volta una bandiera confederata è stata sventolata dentro il Campidoglio,
impresa che non riuscì al generale Lee.
Come dimostrato dalla provenienza degli insorti deceduti negli scontri: Ke-
vin Greeson di Athens in Alabama; Rosanne Boyland di Kennesaw in Georgia;
Benjamin Philips di Ringtown in Pennsylvania; oltre alla californiana Ashli Bab-
bitt, veterana dell’Aeronautica, partita da San Diego. Determinati a consegnare al
pianeta l’immagine di una superpotenza attorcigliata su di sé.
Non la presa della Bastiglia in salsa statunitense – non s’è verifcato alcun
cambio di regime – quanto una sconvolgente sensazione di caos irradiata per il
mondo.
Troppo per lo Stato profondo, turbato dalla vista di bianchi furiosi nei con-
fronti delle istituzioni. Spasmo impossibile da ignorare, perché intrinseco al cep-
po dominante. Nelle ore successive gli apparati hanno scientifcamente stabilito
di commissariare la politica. Come avvenuto allo scoppio della prima guerra
mondiale, quando si occuparono dell’assimilazione dei tedeschi, o dopo l’11
settembre, quando la popolazione statunitense fu sottoposta alla minuziosa sor-
veglianza dell’intelligence.
8. Cfr. A. PARKER, C. LEONNIG, P. KANE, E. BROWN, «How the rioters who stormed the Capitol came dan-
gerously close to Pence», The Washington Post, 15/1/2020.
42 9. Cfr. D. FABBRI, «La tempesta dentro», Limes, «Tempesta sull’America», n. 11/2020, pp. 35-48.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Adesso il rischio che gli Stati Uniti giungano all’implosione, che la diminuita
solidità induca i nemici a insidiarne il primato globale, richiede nuovamente
l’intervento delle agenzie federali. Contro Trump. E nei confronti delle fratture
che scuotono la nazione.
Novità immediatamente abbracciata dall’amministrazione entrante, guidata da
un presidente molto avanti con l’età, alfere di regioni etnicamente secondarie.
Le nomine per i principali ruoli ministeriali e strategici, tutte tecniche, se-
gnalano tale accondiscendenza. Tony Blinken, diplomatico di carriera, nuovo
segretario di Stato; Jake Sullivan, già responsabile per la pianifcazione del di-
partimento di Stato, incaricato nel 2013 di allacciare clandestinamente i rapporti
con l’Iran, consigliere per la Sicurezza nazionale; il generale Lloyd Austin, già a
capo del Comando centrale, segretario alla Difesa; l’economista Janet Yellen,
fno al 2018 alla guida della Federal Reserve, segretario al Tesoro; Avril Haines, Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
10. Cfr. R. RAMPTON, «Biden To Toss Trump Plan That Would Have Made It Easier to Fire Top Civil
Servants», Npr, 22/1/2020.
11. Cfr. K. GRIFFITH, «How Twitter CEO Jack Dorsey decided to ban Trump permanently», The Daily
Mail, 17/1/2020. 43
44
LA CENTRALITA DEL CONGRESSO
GRANDE WALL STREET SINGOLI
INDUSTRIA OLIGARCHI
lobby/fnanziamenti
ze
lic
bud
g
y
Reserve y
modello
tendenze socialdemocratico
confederali
potere
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giudiziario
hard power
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
5. I fatti del Campidoglio potrebbero privare gli Stati Uniti del principale
vettore imperiale, centrato sull’esaltazione della democrazia, sull’esportazione
del proprio regime istituzionale. Non solo perché nella narrazione sarà assai ar-
duo convertire il tragico assalto al Congresso in una storia a lieto fne, in cui lo
Stato di diritto ha sconftto chi intendeva calpestarlo. Perfno Biden, cui è rico-
nosciuta una insospettabile verginità, faticherà oltremodo a nobilitare i fatti.
Il fronte trumpiano potrebbe denunciare il defnitivo avvento degli apparati,
popolati di funzionari non eletti. Accusando apertamente il «malvagio Stato pro-
fondo» d’aver soppiantato la politica, di voler zittire l’ex presidente, di voler di-
struggere QAnon – non le milizie che possibilmente saranno riconvertite anziché
dismesse, come previsto dalla tradizione statunitense. Finora il commissariamen-
to dell’amministrazione federale non è stato colto all’estero, dove vige la certez-
46 za che a dare le carte sia Biden, quasi ottantenne, probabilmente condannato a
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
47
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
THE LIGHT
WE SHINE di George FRIEDMAN
Con l’attacco al Congresso, gli Usa rischiano di scadere a paese
qualunque. Per riaccendere la fiaccola, devono smettere di
disprezzarsi a vicenda. Custodire il privato, il diritto cui più tengono.
Trump è sconfitto, il trumpismo no. La continuità della politica estera.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
bisogni di una classe di americani convinta di essere stata lasciata indietro. Ovvia-
mente l’idea che fosse un portavoce della rettitudine sessuale era fantasia. Ma
parlava la lingua della classe declinante. A differenza di tutti gli altri candidati,
mostrava emozioni, persino malizia. Aveva spazzato via i minuziosissimi appunti
preparati per Jeb Bush o Ted Cruz con la cattiveria viscerale con cui dimostrava di
essere pronto a trattare. La classe declinante non aveva bisogno di un altro cam-
pione che spiegasse chiaramente come difenderli senza avere la forza di combat-
tere per loro. Trump lo avrebbe fatto, anche se non ha mai avuto la minima inten-
zione di vivere come loro. Gli elettori avevano accettato questa ipocrisia sulla tra-
dizione morale in cambio del suo sostegno. Avevano accettato le sue menzogne
perché avevano trovato un campione che avrebbe lottato per loro.
Un momento critico della campagna di Hillary Clinton fu quando la candidata
defnì «deplorevoli» gli elettori di Trump. Non coglieva che stava denigrando metà
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Ma i democratici non hanno mai capito il potere di Trump. Pensano che batterlo
alle elezioni e bandirlo dalle cariche pubbliche basti a sconfggerlo. Finché riterran-
no «deplorevoli» quelli che lo hanno votato, troveranno sempre un altro Trump.
affatto e che altri milioni lo hanno fatto senza credere che contasse poi più di tan-
to. A loro semplicemente non importa chi diventa presidente. E a prescindere
dalla pressione, si tengono occupati con altri affari.
Fra gli indifferenti alla politica presidenziale vi sono coloro che potrebbero
essere considerati grezzi, incapaci di cogliere la profondità della scelta e insuff-
cientemente istruiti da capire quanto conti. Io la direi diversamente: sono persone
che capiscono di dover vivere la propria vita in privato e che le cose che contano
sono l’amore per i fgli, il lavoro e il dovere di amare il loro Dio. La vita privata è
un arazzo così ricco da poterci assorbire tanto da non notare quasi più gli affari
quotidiani. Più precisamente, da considerare che gli affari quotidiani più importan-
ti avvengono nelle nostre vite, non nelle vaste e distanti aule del governo, dove
persino i meglio intenzionati peggiorano le cose. Non c’è niente che si possa fare
per impedirlo. Queste persone sanno che non ha senso pensare di poter indirizza-
re l’operato di chi è al potere. Per questo vivono le loro vite e ne assaporano i
piaceri, guardando ai governanti come a un problema da sopportare.
Gli Stati Uniti sono stati fondati su uno strano principio: proteggere la vita
privata. Libertà signifca non solo fare ciò che ci piace (entro confni ragionevoli),
ma pure che il futuro della nazione risiede nelle mani della turbolenta e creativa
vita privata, non nello Stato. Le politiche pubbliche le fa il governo ma non signi-
fcano nulla al di fuori di quello che i privati cittadini ne fanno. Il governo vale
un giorno del loro tempo per andare a votare, una donazione o persino un attac-
co di collera. Qualunque cosa pensasse Thomas Jefferson del West, sono state le
famiglie che hanno attraversato gli Appalachi ad avverare quel sogno. Se Jeffer-
son quel sogno non l’avesse mai avuto, gli eserciti dei privati lo avrebbero avve-
rato comunque.
I politici moderni hanno più potere di quello che avrebbero voluto i padri
fondatori, ma in generale promettono più di quello che possono realizzare. È
diffcile gestire il governo. C’è molta differenza fra ciò che un leader vuole e ciò
che un governo gli concede, ma i politici sono abili a convincere gli altri di sape-
52 re che cosa bisogna fare. In pochi usano davvero il potere che viene loro donato.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Ci piace attribuire loro la colpa delle nostre disgrazie, ma sono sorpresi tanto
quanto lo siamo noi.
Abbiamo il diritto di eleggere i nostri rappresentanti, ma il nostro diritto prin-
cipale è semmai quello di essere lasciati in pace e vivere come abbiamo scelto di
vivere. Per la maggior parte degli americani, l’esercizio di quel diritto crea una
sfera di nobiltà nella quale si svolgono carità e giustizia. Questo è il cuore degli
Stati Uniti, ciò a cui i fondatori tenevano sopra ogni altra cosa. Il nostro diritto
principale è quello di non curarci di ciò di cui scegliamo di non curarci. Al mattino
ci svegliamo a fanco di qualcuno che amiamo e in un quartiere dove si vivono
vite vere, dove i politici vengono e pregano e dove ogni piano del governo viene
sistematicamente smontato.
Gli Stati Uniti non sono pieni di rabbia. Sono pieni delle vite private di donne
e uomini consapevoli che le ossessioni del politico esistono al di là della realtà di
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
essere umani. Le dimensioni della vita politica sono tante – amore, odio, guerra – e
sono tutte reali, ma nessuna ha il potere dell’amore che è possibile nel privato. Il
politico ci cambia, ovviamente, ma molto meno di ciò che pensiamo.
I fondatori hanno fatto di tutto per garantire la libertà della vita privata. E no-
nostante le successive incursioni, ci sono riusciti. Le grandi cose succedono in
privato, nel posto in cui essi volevano che vivessimo. È diffcile dimostrare che un
presidente o un Congresso abbiano il buon senso o la comprensione necessari a
cambiare tutto ciò. Quindi, se volete essere furibondi siatelo, per favore. I padri
fondatori ci hanno protetto dagli eccessi di rabbia, pregando all’altare della vita
privata dove l’ira è assai più intima e autentica di come appare nella vita pubblica.
E con questo giro pagina, verso l’eterna stranezza della geopolitica. Un evento
pubblico che si assapora al meglio in privato.
4. La politica estera degli Stati Uniti va a fasi. Dalla fne della seconda guerra
mondiale al 1972 il suo obiettivo era il confronto con l’Unione Sovietica e i gover-
ni comunisti a essa affliati. Le cose cambiarono leggermente a inizio anni Settanta,
quando Washington, indebolita dalla guerra in Vietnam, cominciò a lavorare con
la Cina contro l’Urss per arrivare a una distensione. Durò fno al 1991 e al collasso
sovietico. Dagli anni Novanta fno al 2000 ci si concentrò a guidare un ordine mon-
diale globale e pacifco. Anche quello cambiò con l’11 settembre, dopo il quale
tutto ruotò attorno alla guerra globale al terrorismo, fatta di confitti costosi e assai
poco effcaci.
L’attuale fase della politica estera americana è stata inaugurata da Barack Oba-
ma: ridurre le forze militari in Medio Oriente e creare una nuova relazione con il
mondo islamico; adottare una posizione più antagonistica verso la Russia, compre-
se le incursioni di Mosca nel suo estero vicino; e confrontare la Cina sulle relazioni
commerciali, in particolare sulla manipolazione della valuta.
La politica estera di Trump ne è stata una naturale conseguenza. Anch’egli
ha provato a ritirare truppe dal Medio Oriente e a forgiare un nuovo rapporto con
la regione. Ha avuto un ruolo nel formalizzare una coalizione fra Israele e alcune 53
THE LIGHT WE SHINE
Joe Biden sale al potere con le stesse poche opzioni che aveva Trump. Il tono
sarà radicalmente diverso, non la sua politica estera. Ha per esempio suggerito che
adotterà un approccio più conciliante verso l’Iran. Il problema è che la nuova ar-
chitettura della regione consiste di Stati fondamentalmente ostili alla Repubblica
Islamica, in particolare alle sue eventuali capacità nucleari. Non si fdano delle
promesse di Teheran, semplicemente perché un tradimento sarebbe per loro cata-
strofco. Biden non può lasciare che la struttura nascente cada a pezzi né si può
permettere di passare oltre senza tenere fermo il polso. Può dire di voler essere più
conciliante, e può pure esserlo, ma solo proponendo un’alternativa all’alleanza
forgiata sotto il predecessore.
Sarà estremamente diffcile per Biden rientrare nell’accordo sul nucleare del
2015. Ritornarci senza un’intesa sulla cessazione delle attività ostili iraniane nella
regione andrebbe contro la nuova alleanza arabo-israeliana. L’asse fra lo Stato
ebraico e l’Arabia Saudita ha radicalmente cambiato il Medio Oriente. È stato reso
possibile dalla normalizzazione fra Israele ed Emirati, ma gli Stati Uniti l’avrebbe-
ro potuto bloccare, invece l’hanno attivamente incoraggiato. Ogni tentativo di
rinnovare l’accordo nucleare e di abbandonare le sanzioni senza impegni verif-
cabili da parte di Teheran di ridurre i comportamenti sgraditi ai suoi rivali è anti-
tetico alla nuova alleanza. L’Iran non rinuncerà ai suoi interessi regionali e gli al-
leati non approveranno alcun accordo senza un drammatico aumento dei control-
li sulla Repubblica Islamica. In parole povere, il patto frmato dall’amministrazio-
ne Obama era possibile ieri, oggi no.
Non c’è alcuna indicazione che Biden intenda alterare l’approccio a Russia e
Cina. Se lo farà, sarà in risposta a specifci comportamenti delle due potenze. Pe-
chino potrebbe diventare più conciliante e venire incontro alle richieste americane,
oppure potrebbe diventare militarmente aggressiva per testare il nuovo presidente
e saggiarne i punti deboli. Il modo in cui reagirà Biden darà nuova forma alle re-
lazioni sino-americane. L’iniziativa è nelle mani dei cinesi, dal momento che gli
Stati Uniti possono aspettare. Allo stesso modo, la Russia può continuare ad acqui-
54 sire profondità strategica creando realtà informali in teatri come la Bielorussia o il
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
caduta dell’Urss l’Europa è cambiata, è diventata più insulare, gestisce gli affari
economici e ritiene secondarie le faccende militari. Se queste sono le sue priorità,
che cosa vuol dire far risorgere le relazioni con l’Europa? Che cosa vogliono gli
Stati Uniti dall’Europa e che cosa può dare l’Europa in cambio? E che cos’è l’Euro-
pa senza il Regno Unito e con Polonia e Ungheria minacciate da un blocco cui
hanno aderito volontariamente?
Gli Stati Uniti potranno avere incontri più amichevoli con gli europei e gli
europei potrebbero scegliere di affrontare di più la Cina, ma solo perché nel loro
interesse, non perché siamo tornati nei parametri della «normale diplomazia». Gli
interessi statunitensi e quelli europei non collidono spesso, né si allineano perfet-
tamente. Gli europei tendono a essere avversi al rischio, soprattutto in posti come
l’Asia dove gli Stati Uniti non si possono permettere pressapochismi. Laggiù sono
tutti terrorizzati dalla Cina. Un’improvvisa riconciliazione fra Pechino e Washington
sarebbe un terremoto.
La politica estera si evolve, ma lo fa velocemente e pericolosamente. Biden è
presidente, ma la sua politica estera, come quella di tutti i presidenti, sarà circonda-
ta da turpitudini domestiche e quindi cercherà di essere prevedibile. Lo ha fatto
persino Trump, benché non sembrasse. Biden ha paura di cose che potrebbero
succedere, di essere messo alla prova da cinesi, russi e iraniani. Se sarà suffciente-
mente saggio, le navigherà per proteggere le politiche che ha ereditato. È lo scena-
rio più probabile. Innovare mentre ti testano può avere conseguenze inattese.*
DE BELLO
AMERICANO di Fabrizio MARONTA
La violenza a sfondo politico è parte integrante della storia
statunitense. Le elezioni hanno alimentato scontri fra gruppi
armati fin dal Settecento. La pressione delle responsabilità imperiali
inasprisce la conflittualità interna. Problema, ma anche risorsa.
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di più antica presenza, contavano molti individui di origine tedesca. Nel 1742, a
Philadelphia, le urne per le elezioni statali erano allestite sulle terrazze antistanti
il tribunale: gli elettori dovevano salire la scalinata che vi conduceva, votare e ri-
discendere. Chi controllava la scalea, controllava le operazioni di voto. A tal fne
i pionieri assoldarono marinai e carpentieri, che all’inizio riuscirono a impedire il
voto dei quaccheri; ma questi contrattaccarono ed ebbero infne la meglio, al costo
di sanguinosi e prolungati tafferugli le cui dinamiche, fssate nelle cronache dell’e-
poca, ricordano il recente assalto al Congresso 3.
Pochi anni dopo – siamo nel 1804 – Alexander Hamilton, che aveva tra l’altro
ricoperto la carica di segretario (ministro) al Tesoro sotto la presidenza di George
Washington, trovava la morte in duello per mano del vicepresidente Aaron Burr.
Il ruolo non marginale al tempo svolto dalla spada nell’armamentario della politica
d’Oltreoceano è attestato dai quattordici politici statunitensi uccisi in duello, ma an-
che dal motivo della disfda in oggetto: gli sforzi, implacabili ma leciti, di Hamilton
volti a precludere il governatorato di New York a Burr, del cui giudizio e patriot-
tismo il padre fondatore dubitava. Questione d’onore, dunque. Che in politica, da
sempre, è moneta assai preziosa.
2. Il periodo che va dagli anni Venti dell’Ottocento alla guerra civile (1861-65)
vede un notevole aumento dell’eterogeneità etno-politico-religiosa e un parallelo,
marcato incremento della confittualità politica. In modo simile a oggi, la violenza
scaturiva anche – e in misura non trascurabile – da ansie sociali, economiche e
culturali. Al tempo, quelle indotte nei nativi Wasp (bianchi, anglosassoni e prote-
stanti) dalla massiccia immigrazione cattolica irlandese e tedesca, pari a circa due
terzi degli oltre 7,5 milioni di ingressi (più dell’intera popolazione statunitense al
1810) registrati tra il 1820 e il 1870.
2. W.T. PARSONS, «The Bloody Election of 1742», Pennsylvania History: A Journal of Mid-Atlantic Stu-
dies, vol. 36, n. 3, 1969, pp. 290-306.
58 3. Ibidem.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Nel 1834 la violenza politica ebbe di nuovo come teatro Philadelphia, in cui
si votava per le elezioni dello Stato. Ora la grande contrapposizione era tra Partito
democratico e Partito whig, emerso in opposizione al presidente democratico An-
drew Jackson e protagonista della politica statunitense tra fne anni Trenta e primi
anni Cinquanta dell’Ottocento. Tra i principali oggetti del contendere fgurava il
controllo della Banca degli Stati Uniti (First Bank) creata nel 1791, tra le antesigna-
ne della Federal Reserve. La crisi economica del 1834 fece precipitare la disputa.
Ad aprile i jacksoniani, armi in pugno, affrontarono a New York gli «amici della
banca»; a ottobre lo scontro si ripeté più sanguinoso a Philadelphia, sede principale
dell’istituto, dove i democratici scatenarono una caccia all’uomo per impedire agli
whig di votare. La prevedibile reazione di questi ultimi sfociò in una guerriglia
urbana che fece morti, feriti e pesanti danni.
Vent’anni dopo, nel 1854, il Congresso creò i territori di Kansas e Nebraska,
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3. Anche il fratricidio del 1860-65 ebbe il suo tragico innesco in una contesa
politico-elettorale. Quelle del 1860 furono elezioni presidenziali sui generis, che
videro concorrere ben quattro candidati: Abraham Lincoln per i repubblicani, John
Breckinridge per i democratici del Sud, John Bell per l’Unione costituzionale e
Stephen Douglas per i democratici. Con argomentazioni a noi familiari, gli Stati del
Sud rigettarono la vittoria di Lincoln: benché questi vantasse quasi il 40% del voto
popolare e la maggioranza dei grandi elettori, in ben dieci Stati del Sud non arrivò
nemmeno al ballottaggio, alimentando voci di brogli. I leader locali, convinti (er-
roneamente) che il neoeletto volesse abolire la schiavitù, non lo riconobbero per-
tanto come loro presidente e proclamarono la secessione, respinta da Washington.
Fu però durante i lunghi decenni della ricostruzione che la violenza politica,
nel paese ferito e spaccato, raggiunse livelli parossistici per intensità e diffusione. I
tentativi del Partito repubblicano (meglio, della sua espressione federale) di dese-
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magnati dei trusts. Eletto con un forte sostegno operaio, durante il suo mandato
Steunenberg concorse a reprimere il movimento minerario e il relativo sindacato.
Una volta arrestato, il dinamitardo Albert Horsley contrattò uno sconto di pena
implicando come mandanti i vertici del sindacato: in quello e in altri 26 omicidi
compiuti da lui e da altri in quegli anni 5.
MINNESOTA MI
OREGON CH
8 Caldwell NEW
WISCONSIN
IG
IDAHO SOUTH DAKOTA YORK
WYOMING 7 Bufalo
AN
New York
1905 - Assassinio di 1856-1863 K 1915-1944 14 PENNSYLVANIA 2 Weehawken (New Jersey)
Frank Steunenberg Bleeding Kansas IOWA Elberon (New Jersey)
Violenze del Ku Klux Klan Chicago OHIO Baltimora 4 1 6
NEVADA UTAH Filadelfa
ILLINOIS INDIANA K 5 1865 - Washington, assassinio
1968 - Assassinio di COLORADO K WEST del presidente Abraham Lincoln
CALIFORNIA 3 K VIRGINIA
Robert Kennedy VIRGINIA 1 1742 - Filadelfa, elezioni statali:
KANSAS MISSOURI KENTUCKY scontri armati pionieri vs quaccheri
K 1834 - Filadelfa, guerriglia urbana:
13 Los Angeles TENNESSEE NORTH CAROLINA democratici jacksoniani vs Partito whig
Memphis
ARIZONA NEW MEXICO OKLAHOMA 12 SOUTH 2 1920 - New York, attentato dinamitardo
ARKANSAS CAROLINA a Wall Street (34 morti e 200 feriti)
MISSISSIPPI ALABAMA K 4 1854-1859 - Baltimora, squadrismo
10 11 Selma GEORGIA del Know-Nothing Party
LOUISIANA
Dallas Vicksburg 6 1804 - Weehawken, Alexander Hamilton
TEXAS ucciso in duello dal vicepresidente A. Burr
Colfax
9 1881 - Elberon, assassinio del presidente
New Orleans James Garfeld
Oceano Baton Rouge 7 1901 - Bufalo, assassinio del presidente
Pacifico FLORIDA William McKinley
9 1935 - Baton Rouge, assassinio del
M ES S ICO Golfo senatore Huey Pierce Jr. Long
del Messico 10 1963 - Dallas, assassinio del presidente
Stati dove si sono verifcati i principali John Fitzgerald Kennedy
1866 - 1874 South Carolina, Arkansas, Texas, Louisiana
episodi di violenza politico-razziale
Violenza squadrista: 11 1965 - Selma, repressione violenta della
marcia per i diritti degli afroamericani
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
socioeconomica dei neri, questi ultimi reagire spesso con violenza, le forze dell’or-
dine esacerbare il clima con esibita partigianeria. Un flm visto più e più volte, an-
che di recente. Come attuale resta l’ampia diffusione di sentimenti antigovernativi,
da cui nell’Ottocento trae linfa un populismo irruento. Tanto più insidioso perché
ambivalente: esaltando individualismo e libertà come segno di unicità nazionale,
giunge infatti – non senza paradossi – a porre le premesse logiche della sedizione.
Al pari dell’ottocentesco Know-Nothing, il razzismo (e il sessismo) istituziona-
lizzato del Novecento, imbevuto di ostilità verso le élite politiche, non è fenomeno
di nicchia. Nella prima metà del secolo il Ku Klux Klan conta circa due milioni di
membri tra Sud, Sud-Ovest e i più antichi Stati centro-settentrionali (Indiana, Ohio,
Illinois), cui fa da contorno una ben più ampia zona grigia. Il clan è forte nei pic-
coli centri rurali e nelle grandi città; per intimidire neri, cattolici, ebrei, sindacalisti e
donne «dissolute» ricorre a tecniche squadristiche mutuate da una lunga tradizione. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
A precipitare l’approvazione, nel 1965, del Voting Rights Act – che rafforza le
tutele nazionali del diritto di voto e autorizza il monitoraggio federale delle elezio-
ni – è l’ampia (ma non corale) indignazione per i letali pestaggi dei manifestanti di
Selma (Alabama), che a marzo di quell’anno scendono in strada per reclamare l’ef-
fettiva applicazione dell’eguaglianza razziale nelle urne. E la successiva estensione
della norma ai votanti non anglofoni avviene sull’onda delle violente intimidazioni
ai danni di elettori ispanici.
Nell’agosto 1968, a soli tre anni da quella storica legge, la convention demo-
cratica di Chicago è offuscata dalla brutale repressione dei pacifsti che manifestano
contro la guerra in Vietnam. A usare manganelli, lacrimogeni e armi da fuoco è la
polizia locale, decisa a riscattarsi dalle accuse di lassismo collezionate quattro mesi
prima durante i gravi disordini seguiti all’assassinio di Martin Luther King. A enne-
sima conferma della natura articolata e multiforme della violenza politico-razziale
americana, i manifestanti di Chicago dipingono il coinvolgimento statunitense in
Indocina come espressione di un imperialismo che ha il suo caposaldo nella sop-
pressione dei non-bianchi, in patria e altrove. Successive inchieste stabiliranno che
il grosso dei militanti, accorsi a migliaia in città, non aveva pianifcato le violenze:
molti le paventavano, altri ne furono sorpresi, mentre una minoranza cercò lo scon-
tro anche sull’onda emotiva dell’omicidio di King 6. Quest’ultimo crimine, peraltro,
segna il culmine di una lunga scia di assassinî politici ai danni di fgure di spicco del
movimento per i diritti civili, il cui pantheon include il reverendo George E. Leeb
e Lamar Smith (1955), Thomas Brewer (1956), Herbert Lee (1961), William Moore
e Medgar Evers (1963), Louis Allen, James Chaney, Andrew Goodman e Michael
Schwerner (1964), Jonathan Daniels, Jimmie Lee Jackson, Viola Liuzzo e James Reed
(1965), Vernon Dahmer e Samuel George Jr (1966), Wharlest Jackson (1967).
Ma il 1968 è anche l’anno dell’assassinio di Robert Kennedy, freddato a mezza-
notte del 5 giugno all’hotel Ambassador di Los Angeles dopo un discorso elettora-
6. D. WALKER (a cura di), Rights in Confict. The violent confrontation of demonstrators and police
in the parks and streets of Chicago during the week of the Democratic National Convention of 1968,
Chicago Study Team, 1/12/1968. 63
DE BELLO AMERICANO
le. Deceduto al Good Samaritan Hospital della metropoli californiana, Kennedy di-
viene il secondo senatore statunitense ucciso mentre è in carica, seguendo la triste
sorte di Huey Pierce Jr. Long (nel 1935). Cinque anni prima, il 22 novembre 1963,
il mondo assisteva attonito all’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy a
Dallas. In piena guerra fredda, il faro dell’Occidente ripiombava nel cono d’ombra
di una sinistra tradizione inaugurata nel 1865 con l’uccisione di Lincoln (sfuggito
quattro anni prima a un complotto per colpirlo durante l’investitura) e proseguita
con l’omicidio di James Garfeld (1881) e William McKinley (1901). Episodi cui si
affancano i falliti tentativi di uccidere Harry Truman e Ronald Reagan.
5. Nelle conclusioni del suo miliare American Violence, scritto nel 1970 con
Michael Wallace, Richard Hofstadter afferma che la riscoperta da parte dell’America
della propria violenza è tra i grandi lasciti intellettuali dei tumultuosi anni Sessanta.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Lo storico sottolineava anche che «in tale violenza non c’è niente di nuovo, a parte
la nostra improvvisa, rinnovata consapevolezza» 7. Hofstadter non vivrà abbastanza
da constatare gli effetti di questa presa d’atto sulla nazione e i tangibili passi avanti
compiuti nello sforzo, non lineare ma caparbio, di forgiare a more perfect Union 8.
Oggi come allora, tuttavia, la violenza in America spaventa l’America stessa
e il resto del mondo, dato che a essere ciclicamente scosso da tumulti e omicidi
eccellenti è un paese d’indiscussa centralità geopolitica. Della violenza postbellica
inquietava anche il fatto che seguisse un poderoso boom economico, mettendo
così in discussione la superiorità dell’American way of life e il ruolo socialmente
calmierante (ma anche coercitivo) dell’abbondanza capitalistica. Un colpo alla f-
ducia americana nel potere salvifco della prosperità.
Facile essere ancor più pessimisti oggi che le tensioni politico-razziali hanno
come sfondo non i Trenta gloriosi, ma le ferite inferte dal Covid-19 e dalla reces-
sione del 2008. Nonché le sperequazioni create dalla rivoluzione informatica e da
trent’anni di Stato minimo, che hanno affossato le politiche redistributive e corroso
gli apparati pubblici. Il depauperamento di questi non si limita alle risorse, inve-
stendone anche il prestigio. Tanto da condurre alla Casa Bianca un presidente sov-
versivo, sommo oltraggio alla laica sacralità del dettato costituzionale americano.
Fermi restando i problemi e i rischi della fase attuale, inquadrarli storicamente
aiuta a relativizzarli. Non per sminuirli, ma per attrezzarsi a superarli. La violenza,
anche estrema, è tratto ineludibile di ogni realistico affresco dell’America. Seguen-
done il dipanarsi, colpisce quanto superfciale e mistifcante sia l’iconica immagine
del melting pot associata al paese. Un’immagine reale ma per nulla esaustiva, che
fa il paio con il mito della «democrazia più antica del mondo» quale realtà compiuta
e incontestata, anche e soprattutto dai suoi abitanti.
La realtà è che gruppi consistenti di americani – anche al vertice della scala
socioeconomica – hanno spesso preferito l’azione violenta alla legge e al nego-
cui il partito avversario avesse vinto le elezioni, mentre uno su dieci la giustifcava
appieno 10.
Simili percentuali diffcilmente si spiegano con la sola presenza di Donald
Trump. Questi, piuttosto, appare al contempo causa ed effetto. La sua è una f-
gura incendiaria, ma la sua ascesa è il prodotto di molteplici circostanze, tra cui
spiccano la fne della guerra fredda e il conseguente riacuirsi delle faglie interne
al paese; un apparato mediatico incline al sensazionalismo e impermeabile al
confronto; la perdita di controllo sulla «narrazione» indotta da Internet e dai social
media, con corredo di complottismi e bolle informative; l’infuenza delle lobby,
agevolata dall’abolizione dei tetti alle donazioni elettorali private (sentenza della
Corte suprema del 2010); la pervasività del gerrymandering, il ridisegno delle
circoscrizioni elettorali da parte del partito di maggioranza in modi a esso conge-
niali; il malessere sociale indotto dai costi della sovraesposizione strategica (frutto
avvelenato della guerra al terrorismo) e dall’implacabile concorrenza asiatica (al-
tra faccia della globalizzazione).
Di buono c’è che l’incoercibile pluralismo della società americana, in cui so-
vente germoglia il seme della violenza anarcoide, è ancora in grado di produrre
risposte decise: in nome dell’interesse, degli ideali o di entrambi. La lista biparti-
san di personalità che dopo l’assalto al Congresso si sono apertamente dissociate
dalla presidenza Trump e hanno preso contromisure (dalle dimissioni al ritiro dei
fnanziamenti, passando per una problematica censura e un delicato pronuncia-
mento dei vertici militari) annovera decine tra burocrati, ministri, esponenti delle
Forze armate, rappresentanti di organismi pubblici, capitani d’industria, giornalisti.
In vista del voto di novembre, molte di queste fgure avevano dato vita al National
Council on Election Integrity, che ha fnanziato numerose iniziative per vigilare
sul corretto svolgimento delle operazioni di voto e spoglio. Prova della volontà di
9. A. LINCOLN, «The Perpetuation of Our Political Institutions», discorso al Young Men’s Lyceum di
Springfeld (Illinois), 27/1/1838, urly.it/39vkm
10. L. DRUTMAN, J. GOLDMAN, L. DIAMOND, «Democracy Maybe. Attitudes on Authoritarianism in America»,
Voter Study Group, giugno 2020. 65
DE BELLO AMERICANO
66
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
1. I
N UN VIDEO CHE HA FATTO IL GIRO DEL
Web, una giovane donna – Elisabeth di Knoxville, Tennessee – decisa a irrompere
con altri manifestanti nel Congresso americano spiegava, gli occhi resi gonf dai
lacrimogeni: «Stiamo assaltando il Campidoglio, questa è una rivoluzione» 1.
Diffcile edulcorare quanto accaduto a Washington il 6 gennaio scorso. È opi-
nione generale che quei fatti – variamente descritti come tentato golpe, protesta
armata, assalto della folla – abbiano prodotto seri danni istituzionali. Danni sanabi-
li: la vasta condanna dell’irruzione documentata da YouTrend 2 dà fducia nella
possibilità di restaurare le consuetudini democratiche statunitensi, rubricando il 6
gennaio 2021 come un giorno buio nella storia americana.
Il ripristino, tuttavia, non sarà semplice. Una notizia allarmante è stata sepolta
dalla valanga di dati e commenti sulla «rivoluzione»: un elettore su cinque approva
l’accaduto. Al pari di numerosi deputati e senatori repubblicani, che non solo l’han-
no difeso ma hanno continuato a esacerbare gli animi insistendo nel contestare il
voto di novembre 3. Tutti segnali del fatto che il marcio tocca il cuore del sistema
politico americano. Aumentare le misure di sicurezza a protezione delle istituzioni
serve a poco se le attività che vi si svolgono dipingono un quadro disfunzionale.
Da repubblica delle banane, direbbero alcuni.
Il 6 gennaio deve pertanto far suonare un campanello d’allarme sull’ingestibile
disfunzionalità politica di un paese ancora economicamente potente, ma divenuto
politicamente debole e socialmente fragile in modi che ricordano quelli di un im-
1. «We’re storming the Capitol, it’s a Revolution!», YouTube, 7/1/2021, urly.it/39y6q
2. M. SMITH, J. BALLARD, L. SANDERS, «Most voters say the events at the US Capitol are a threat to demo-
cracy», YouGov, 7/1/2021.
3. M. PENGELLY, R. LUSCOMBE, «“Complicit in big lie”: Republican senators Hawley and Cruz face calls to
resign», The Guardian, 10/1/2021. 67
68
C A N A D A
IL SALARIO MINIMO NEGLI USA
WASHINGTON
13,5 0,8% MONTANA
8,65 NORTH DAKOTA MAINE
MINNESOTA MI 12
OREGON 0,5% 7,25 1,7% C
IDAHO 1,5%
HI
11,25 0,8% 10 1,4%
7,25 SOUTH DAKOTA WISCONSIN
GA
0,7%
N
1,7% WYOMING 7,25 11,80
9,30 2,2% 9,65 NEW YORK
7,25 2,3%
IOWA 1,9%
NEVADA 2,5% NEBRASKA 7,25 7,25 2,7%
O IS
8,25 UTAH IN INDIANA OHIO PENNSYLVANIA
9 1,3% 2,2% IL L 8,70
1,5% 7,25 COLORADO 9,25 7,25 1,7% WEST
12 MISSOURI 1,7% 7,25 2,3%
2,1% KANSAS VIRGINIA
CALIFORNIA 1% 9,45 2,5% VIRGINIA 8,75 2,3%
13 7,25 2,6% 1,7% KENTUCKY 7,25 2,8%
0,9% ARIZONA N. CAROLINA
NEW MEXICO OKLAHOMA 7,25 2,7% 7,25 2,4%
Oceano 12 ARKANSAS TENNESSEE
9 7,25 2,2% 10 I SOUTH
Pacifico P CAROLINA
PRECARIA, DISEGUALE E TRADITA: RITRATTO DELL’AMERICA FORCAIOLA
1,5% 2% IP
2,2% SISS 7,25 7,25 7,25 5,4%
I S
M ALABAMA GEORGIA Oceano Atlantico
TEXAS 7,25
A 2,7% 2,5%
7,25 AN 4%
U ISI
2,8% LO 7,25 1,7%
4,6%
8,56 NEW HAMPSHIRE 7,25 3,1%
M E S S I C O FLORIDA
VERMONT 10,96 2,0%
Golfo del Messico
MASSACHUSETTS 12,75 1,6%
Salario minimo orario
ALASKA fssato per legge (2019) RHODE ISLAND 10,50 1,9%
in dollari CONNECTICUT 11,00 1,7%
10,19 1% HAWAII Oltre 11 5,4% NEW JERSEY 11,00 1,6%
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
pero in declino. Al riguardo, più indicativo del manipolo di facinorosi che ha mes-
so a soqquadro un Congresso scarsamente presidiato 4 è la crescente sfducia degli
americani nelle istituzioni chiave del paese 5 e la loro crescente adesione a interes-
si settari.
Questo getta una luce diversa sugli eventi. Se il 6 gennaio a scatenare la folla
sono state le allusioni di Trump alla presunta fraudolenza delle elezioni, per mol-
ti l’attacco al Congresso è stato anche e soprattutto una rivolta contro l’intera
classe politica. «Tutti questi politici lavorano per noi. Gli paghiamo lo stipendio
con le nostre tasse. E cosa abbiamo in cambio? Niente. Tutti quelli che stanno qui
dentro sono dei traditori», sentenziava un manifestante 6. Sotto questo proflo, le
voci di piazza e gli studi collimano: per molti versi l’America odierna ha i tratti di
un’oligarchia, non di una democrazia, come evidenziava una dettagliata analisi
del 2014 7. L’assalto al Campidoglio è stato sì un attacco alla democrazia america- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
na, ma anche il segnale che tale democrazia ha fallito. Gli autoproclamati rivolu-
zionari che hanno dato l’assalto al parlamento federale non vivono esattamente il
sogno americano e del loro malessere economico, sociale, esistenziale incolpano
tutta la classe politica.
2. Questa, però, è solo parte di una realtà più complessa. Perché la rivolta
popolare ha il volto di un ammutinamento della destra estrema, piuttosto che –
come da molti pronosticato – di una rivolta di sinistra in nome della giustizia socia-
le e della dignità?
Tra le risposte più frequenti fgura la cosiddetta ansia da status: dagli anni Set-
tanta le politiche di tutela e promozione delle minoranze hanno favorito l’ascesa
sociale delle stesse, erodendo i vantaggi dei bianchi. È questo, si dice, l’humus
della xenofobia, del suprematismo bianco e di tutti i segni distintivi del trumpismo.
Anche tale spiegazione, tuttavia, risulta parziale: la perdita dei privilegi può essere
un coadiuvante, un catalizzatore della rabbia, ma non basta a spiegare la furia dei
manifestanti.
Le spiegazioni economiche della radicalizzazione sociale in corso negli Stati
Uniti fniscono per indicare nelle diseguaglianze la radice dello scontento. Com-
mentatori come Stiglitz, Piketty e Saez battono incessantemente sul tema della di-
seguaglianza economica come prodotto del sistema politico. Ora, anche a seguito
di queste posizioni va emergendo un consenso trasversale sulla necessità di con-
trastare la diseguaglianza con la redistribuzione: dall’aumento del salario minimo
all’incremento dei sussidi di disoccupazione. Bene, ma la radice più profonda
dell’esasperazione sociale sta altrove.
Tra le ragioni dell’attenzione suscitata dalla diseguaglianza vi è la sua misura-
bilità. Le statistiche secondo cui l’1% più ricco degli americani sottrae 50 mila mi-
4. R. MOORE, «Capitol riots: invaders were bitter, dangerous – and pitifully lost», The Times, 10/1/2021.
5. Y. LEVIN, «How Did Americans Lose Faith in Everything?», The New York Times, 18/1/2021.
6. S. ABRAMSON, B. MURRAY, L. BRICKMAN, «New footage shows what it was like in the middle of the pro-
Trump mob that ransacked the Capitol», Insider, 8/1/2021.
7. «Study: US is an oligarchy, not a democracy», BBC News, 17/4/2014. 69
70
LO SFRATTO DEL SOGNO AMERICANO
C A N A D A
WASHINGTON
30,46 35,6 MONTANA
16,88 NORTH DAKOTA MAINE
16,18 26,5 MINNESOTA MI 19,79
OREGON 22,9 C
IDAHO 24,5
HI
24,37 28,5 20,53 38
16,59 SOUTH DAKOTA
GA
30 WISCONSIN
N
22 WYOMING 17,27 32,53
15,24 22,8 17,42 NEW YORK
17,15 25,3
IOWA 27,8
NEVADA 24,1 NEBRASKA 15,46 IS 19,23 29,2
20,48 UTAH 24,4 L I NO INDIANA OHIO PENNSYLVANIA
16,27 24 IL 15,99
26,2 19,83 COLORADO 21,30 16,32 25,7 WEST
26,45 MISSOURI 24 23,64 30,4
25,4 KANSAS VIRGINIA
CALIFORNIA 30,6 16,07 30,4 14,97 23,3
36,96 16,43 24,4 VIRGINIA
25,3 KENTUCKY
36,7 N. CAROLINA 14,99 24,2
ARIZONA OKLAHOMA 17,09 25,4
NEW MEXICO ARKANSAS TENNESSEE 17,67 25,9
Oceano 21,10 SOUTH
16,37 15,93 22,5 14,19 P I
Pacifico IP CAROLINA
PRECARIA, DISEGUALE E TRADITA: RITRATTO DELL’AMERICA FORCAIOLA
38,76 Salario medio orario per Stato 23 e oltre DELAWARE 21,96 28,9
in dollari da 17 a meno di 23
27,7 (2° trimestre 2020) MARYLAND 28,06 32,6
Fonte: US Bureau of Labor meno di 17 WASHINGTON D.C. 32,83 49,6
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
zato («rifare grande l’America») come antidoto alle incognite del nuovo, qui incar-
nato da una socialdemocrazia all’europea lontana dal costume americano e da
battaglie etico-razziali percepite (anche perché dipinte) come sovversive.
Nella destra libertaria molti propugnano un fondamentalismo di mercato che
premia la competizione, non la solidarietà. Specie quando i beni pubblici sono
convertiti in rendite private attraverso le privatizzazioni, limitando così l’accesso
alle risorse in grado di mitigare gli effetti sociali della concorrenza sfrenata.
La radicalizzazione di destra è stata esacerbata anche dal fatto che la sinistra
americana non è riuscita a prendere di petto la questione della precarietà. Anche
sotto le recenti amministrazioni democratiche, la ripresa economica dal crollo del
2008 ha comportato un aumento del lavoro precario. Il comparto dei servizi che ha
alimentato la crescita statunitense negli ultimi quarant’anni – fnché il coronavirus
non ha cominciato a distruggerlo 11 – ha creato molti impieghi, ma di bassa qualità.
L’ascesa del neoliberismo (sostenuto a destra e a sinistra) ha permesso ai datori di
lavoro di spostare gli equilibri nelle economie capitalistiche dal lavoro al capitale
attraverso la disarticolazione dei sindacati, la demolizione dello Stato sociale e la
privatizzazione dei servizi pubblici. Soprattutto, i fnanziamenti a questi ultimi e ai
programmi sociali sono stati costantemente ridotti. È questo impoverimento della
cosa pubblica ad aver accresciuto l’importanza della ricchezza personale quale via-
tico di diritti come la sanità e l’istruzione. La diseguaglianza economica è dunque di
enorme importanza, ma è solo il grave sintomo di un problema più vasto: la mas-
siccia e crescente fragilità del corpo sociale. L’erosione del settore pubblico preclude
l’accesso a molti dei sostegni sociali che storicamente hanno garantito un’accettabile
sicurezza economica.
8. N. HANAUER, D.M. ROLF, «The Top 1% of Americans Have Taken $50 Trillion From the Bottom 90%
– And That’s Made the U.S. Less Secure», Time, 14/9/2020.
9. J.C. WILLIAMS, «What So Many People Don’t Get About the U.S. Working Class», Harvard Business
Review, 10/11/2016.
10. A. AZMANOVA, Capitalism on Edge. How Fighting Precarity Can Achieve Radical Change Without
Crisis or Utopia, New York 2020, Columbia University Press.
11. J.K. GALBRAITH, «Rebuilding the Economy Will Require Joe Biden to Think Very Differently Than
2009», The Intercept, 1/9/2020. 71
72
Vancouver L’AMERICA URBANA
C A N A D A
Seattle
Washington
Portland Montana North Dakota Minnesota Maine
M
Oregon ic
Wisconsin hi
ga
Idaho South Dakota Minneapolis n Toronto New York
Boston
Wyoming
Detroit
California
S T A T I U N I T I Iowa Pennsylvania New York
Nevada Chicago Cleveland
Nebraska Pittsburgh Philadelphia
Sacramento Indiana Columbus
Illinois Baltimora
San Francisco Utah Denver
Fresno Indianapolis Ohio WestWashington
Virginia Vermont
Las Vegas Colorado Kansas S. Louis Virginia New Hampshire
Missouri Kentucky
Arizona North Carolina Massachusetts
Nashville Charlotte Rhode Island
Los Angeles
PRECARIA, DISEGUALE E TRADITA: RITRATTO DELL’AMERICA FORCAIOLA
M E S S I C O
California del Nord
Aree densamente
Cascadia abitate
Grandi Laghi Aree urbane
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
12. L.H. SUMMERS, «Trump’s $2,000 Stimulus Checks Are a Big Mistake», Bloomberg, 27/12/2020. 73
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
DOBBIAMO LIMITARCI
MA NON COME PENSANO
BIDEN E KERRY di Elbridge A. COLBY
Priorità assoluta degli Usa è una coalizione anticinese. Perciò
bisogna fare di meno altrove, ricordando agli europei con chi stanno.
Ammansita Pechino, potremo trattare su clima e altre questioni
ecumeniche. Non prima, come s’illude la nuova presidenza.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
più in grado di riuscire in tale impresa è la Cina. Ciò comporta anzitutto coltivare
la nostra potenza e allinearci con chi condivide il nostro interesse a negare a
Pechino l’egemonia asiatica: in particolare Giappone, India, Australia, Taiwan,
Vietnam.
scono di fronte all’idea che Pechino s’imponga in Asia orientale prima e nel resto
del mondo poi.
Solo la Cina può innescare cambiamenti drammatici e duraturi contro la nostra
volontà. Userà il divide et impera per impedire che si formino coalizioni contro
di essa o che raggiungano il livello operativo. Dalla sua ha un immenso potere di
intimidazione ed enormi risorse. Il suo riarmo lo dimostra, come pure le vie della
seta e il recente accordo con l’Unione Europea sugli investimenti.
Gli Stati Uniti però non sono da meno. Siamo eccezionalmente forti e ricchi,
nonostante l’ascesa cinese. La nostra stessa lontananza geografca è un vantaggio:
quando affermiamo di avere obiettivi limitati siamo più credibili dei cinesi. Ben-
ché talvolta irritanti, arbitrari e prepotenti, gli americani hanno un curriculum di
tutto rispetto. I livelli di crescita prima della bufera del Covid-19 dimostrano che
le nostre prospettive economiche sono relativamente buone. Dobbiamo certo Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
3. Ma non c’è tempo per autocelebrarsi. Gli Usa devono agire con grande
urgenza per negare a Pechino l’egemonia regionale in Asia. Dobbiamo essere
chiari: ciò comporta un confronto con la Cina. L’idea di «cooperare mentre si
compete» non esiste. Semmai, dobbiamo muoverci per contrastare gli sforzi cine-
si, dimostrando agli altri Stati – intimoriti tanto dalla potenza sinica quanto dalla
reticenza americana – che siamo seri. Questa logica ha informato buona parte
della politica dell’amministrazione Trump verso la Repubblica Popolare, dimo-
strando attraverso «segnali costosi» che l’America coglie la scala e la natura della
sfda e intende affrontarla.
Nel concreto, Washington deve formare e sostenere una coalizione antiege-
monica. Non siamo suffcientemente potenti per tenere a bada la Cina da soli,
dobbiamo farlo con i paesi che temono di essere dominati da Pechino. Deve essere
l’obiettivo apicale della nostra politica estera.
Se riuscissimo nel nostro intento, avremmo promosso uno stabile e vantaggioso
equilibrio di potenza nell’Indo-Pacifco, la Cina sarebbe obbligata a comportarsi re-
sponsabilmente. Con queste basi, essa sarà incentivata a riconoscere e rispettare gli
interessi nostri e degli altri membri della coalizione. È una visione assai diversa da
quella che ha dominato la nostra politica estera nell’ultima generazione. Possiamo
sperare in una forma di governo più giusta a Pechino, ma non deve essere il nostro
fne. Possiamo convivere con una Cina gestita dal Partito comunista, anche se lo
condanniamo. Una distensione non è solo possibile: è il nostro obiettivo. La chiave
però è che dobbiamo perseguirla solo dopo aver raggiunto una ragionevole posizio-
ne di forza, non possiamo usarla come zuccherino per placare una Cina aggressiva.
La distensione deve essere il prodotto, non il mezzo, dei nostri sforzi. 77
DOBBIAMO LIMITARCI, MA NON COME PENSANO BIDEN E KERRY
altre regioni del globo. Vuol dire armonizzare le nostre risorse militari, il capitale
politico e il benessere per concentrarci sull’obiettivo primario della coalizione an-
ticinese. Dobbiamo dunque ridurre le attività militari in Medio Oriente e in Africa,
portare la questione cinese in cima all’agenda di ogni nostra discussione in giro per
il mondo e adattare le nostre politiche commerciali ed economiche alla realtà della
competizione strategica con la Repubblica Popolare.
L’Europa giocherà un ruolo molto importante. Come lo giocherà è ancora tutto
da vedere. Benché democratica, tenta disperatamente di innescare crescita econo-
mica e le manca la coesione per essere un attore internazionale. Questi fattori la
inducono a viaggiare a scrocco sul carro della coalizione anticinese, nella speranza
che Pechino si plachi prima di minacciare direttamente il Vecchio Continente. O
peggio, le suggeriscono fantasie di «terzo polo» per tenersi in equilibrio fra le due
superpotenze.
Gli Stati Uniti devono essere realisti. L’Europa non giocherà mai il ruolo di
Giappone, India o Australia. Ma ciò non vuol dire che dobbiamo tollerare, tan-
tomeno permettere, tali comportamenti. Washington deve offrire un accordo agli
europei: un allineamento di massima ai paesi che intendono controllare la Cina in
cambio di sostegno a un’Unione Europea più coesa e di maggiore autonomia sulle
questioni che la riguardano da vicino. Se invece l’Europa cercherà di distanziarsi,
allora gli Stati Uniti farebbero bene a lavorare con alcuni paesi soltanto, a detrimen-
to di un’ulteriore integrazione continentale.
Le relazioni transatlantiche possono tornare ottime in presenza di una con-
creta convergenza in funzione anticinese. Non dobbiamo aspettarci molto in ter-
mini di impegni militari in Asia, ma gli europei possono usare leve economiche,
politiche e non solo. Per esempio, gli Stati Uniti dovranno raggiungere economie
di scala con gli europei (oltre naturalmente al Giappone) per competere con la
Cina su tecnologie come il 5G. I paesi del Vecchio Continente possono anche
integrarsi con altri Stati, come l’India, per aiutarla a creare un mercato alternativo
78 a quello cinese.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Gli Usa devono anche distanziare la Russia dalla Cina. Nel tempo, dovranno
persuadere Mosca che la sua alienazione dall’Occidente non è conveniente e per
di più ne favorisce la subordinazione a Pechino. Dobbiamo infuenzare i suoi in-
centivi affnché un giorno decida che una qualche collaborazione con noi e i nostri
partner è meglio di precipitare nell’orbita cinese. Questo approccio può funzionare
o meno, ma anche un modesto successo è preferibile a una Russia completamente
allineata alla Repubblica Popolare.
Almeno una parte della sua squadra intende – più o meno implicitamente
– allontanarsi dalla mentalità della competizione tra grandi potenze, elevando il
soft power al di sopra dello hard power. Come scrive The Atlantic, l’ex segretario
di Stato John Kerry, elevato a zar del clima, «ritiene che la cooperazione con la
Cina sia la chiave per fare progressi sul cambiamento climatico e che il clima sia
di gran lunga la questione più importante nel rapporto fra Washington e Pechino.
(…) Sì, gli Stati Uniti devono essere fermi quando sono in disaccordo con la Cina,
come lui ritiene di aver fatto da segretario di Stato, ma tutto il resto, compresa la
competizione geopolitica, è di secondaria importanza rispetto a questa gigantesca
minaccia» 1.
La nuova presidenza sembra dunque almeno in parte orientata non solo a
fronteggiare problemi transnazionali con la cooperazione. Ma pure a farlo sacri-
fcando considerazioni geopolitiche, per generare infuenza attraverso le compo-
nenti morbide della potenza, a spese di quelle dure. A un primo sguardo sembra
quasi un approccio lodevole, dopo i drammatici anni di Trump. Contiene anche
importanti verità. Ma è incompleto, fuorviante (perché gestito dai liberali tradizio-
nalisti) e in ultima istanza pericoloso.
La convinzione di fondo di questo orientamento è che le questioni che con-
tano davvero nel mondo sono quelle transnazionali invece di quelle geopolitiche.
Epidemie, cambiamento climatico, migrazioni, non proliferazione: tutte risolvibili
se le parti operano in buona fede, perché nell’interesse di tutti. Secondo questa
idea, se i vari paesi – persino le grandi potenze – si ritrovassero attorno a un tavolo
pronti e disposti a un accordo, potrebbero davvero arrivare a soluzioni sostenibili
ed eque. Di conseguenza, la politica estera servirebbe a facilitare la cooperazione,
non ad affrontare le preoccupazioni geopolitiche. Questo è il multilateralismo di
cui parlano molti leader europei e diversi progressisti americani: la cooperazione
può essere separata dalle aree di disaccordo o di competizione 2.
1. T. WRIGHT, «The Risk of John Kerry Following His Own China Policy», The Atlantic, 22/12/2020.
2. Si veda a titolo d’esempio la Alliance for multilateralism lanciata dai ministri degli Esteri di Francia
e Germania. 79
DOBBIAMO LIMITARCI, MA NON COME PENSANO BIDEN E KERRY
3. L. BURDEN, «China’s Economy Set to Overtake U.S. Earlier Due to Covid Fallout», Bloomberg,
26/12/2020. 81
DOBBIAMO LIMITARCI, MA NON COME PENSANO BIDEN E KERRY
gono che tale competizione si giocherà sul soft power, piuttosto che sullo hard
power. Queste fgure sono convinte che – nell’odierno mondo interconnesso fatto
di meraviglie tecnologiche, enormi fussi di capitale, un mercato dei media globa-
le e a quasi un secolo di distanza dall’ultima guerra fra grandi potenze – ciò che
conta sia il potere normativo, la capacità di motivare, attirare, condannare. In altre
parole, che la persuasione sia una questione di reputazione morale, di narrazione
convincente, di infuenza culturale, non di navi da guerra e prodotti industriali.
Biden e i suoi ripetono spesso che la chiave di una politica estera di successo
per tornare a essere i leader morali del mondo sta nel rinnovamento in patria. Per
affrontare la sfda cinese, l’America dovrebbe diventare migliore, più esemplare,
convincendo gli altri del proprio punto di vista, insomma accumulare suffciente
potere seduttivo per far quel che desidera. Rivitalizzando il potere di ispirare,
Washington attirerà gli altri paesi sotto la sua bandiera e tutti assieme potremo Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
4. J. BIDEN, «Why I Chose Lloyd Austin as Secretary of Defense», The Atlantic, 8/12/2020.
82 5. «Highlights of Xi›s speech at Taiwan message anniversary event», China Daily, 2/1/2019.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
te Stato a emergere nel sistema internazionale da quando gli Stati Uniti hanno fatto
lo stesso nel XIX secolo. Minaccia di dominare l’Asia per poi puntare al primato
mondiale. Qualora raggiungesse l’obiettivo, assumerebbe automaticamente il ruolo
di guida nel decidere il futuro del pianeta. Con risultati esiziali per tutti noi.
Washington deve dunque ribadire, innanzitutto a sé stessa, di essere in com-
petizione con Pechino. Deve poi ribadire al mondo intero che si sta dedicando a
preservare i vantaggi competitivi rispetto alla Cina. Questo atteggiamento non è
solo corretto. È inevitabile. A un certo punto l’America dovrà riprendere a compe-
tere con la Repubblica Popolare e dovrà curare maggiormente lo hard power. A
giudicare dalla formidabile crescita cinese, l’ora è già tarda. Ma l’amministrazione
Trump, al netto di tutti i suoi numerosissimi errori, aveva colto la necessità di un
confronto con Pechino.
L’amministrazione Biden può continuare l’opera, magari con maggiore fnez-
za. Oppure può inseguire velleitari accordi a danno delle considerazioni geopoliti-
che. Tale atteggiamento ritarderà, ma non cancellerà la necessità per gli Stati Uniti
di recuperare la politica di potenza – ne minerà soltanto le basi. Presto o tardi la
geopolitica busserà alla porta. Tapparsi le orecchie renderà il risveglio più brusco
e spiacevole. Per noi e per i nostri alleati.*
* Parti di questo articolo sono tratte da un saggio pubblicato dal Reagan Institute Strategy Group. 83
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
DELLE MILIZIE
IL CATALOGO
È QUESTO di Lorenzo DI MURO
Profondamente radicato nella cultura originaria degli States, il
fenomeno dei gruppi armati decisi a proteggere i cittadini dalla
presunta invadenza dello Stato è in crescita. Dal milizianismo
di frontiera al suprematismo, le minacce alla coesione nazionale.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
1. Si vedano B. BALLECK, Modern American Extremism and Domestic Terrorism, Santa Barbara 2018,
Abc-Clio; D.J. MULLOY, American Extremism: History, Politics and the Militia Movement, London 2008,
Routledge.
2. R. SCHNURR, «Armed, Angry Men», Belt Magazine, 30/10/2020, bit.ly/39IY88F 85
DELLE MILIZIE IL CATALOGO È QUESTO
milizie si percepiscono appendice della traiettoria nazionale, fanno leva sul medesi-
mo strumentario ideologico mainstream: rivoluzione, dichiarazione d’indipendenza,
costituzione, Bill of Rights, espansione nell’Ovest. Pratica stigmatizzata dall’allora
presidente Bill Clinton come indebita intestazione di «simboli sacri dell’America a
fni paranoici». Nel discorso del 1999 sullo stato dell’Unione, lo stesso Clinton indica
tuttavia nell’aderenza ai princìpi dei padri fondatori il sentiero da seguire. A Oklaho-
ma City, quattro anni prima gli Stati Uniti avevano subìto il terzo attacco terroristico
più mortale sul suolo statunitense dopo l’11 settembre e Pearl Harbor: attentato or-
chestrato da un veterano precedentemente in contatto con la milizia del Michigan.
Ma le nazioni vivono di miti e, come sottolineava lo storico militare Allan R.
Millet 3, nessuno è più prezioso «del popolo in armi a difesa della patria».
2. Il movimento delle milizie germoglia a inizio anni Novanta per fattori insie-Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
3. A. MILLETT, The Constitution and the Citizen Soldier, Columbus 1987, Mershon Center.
4. Si veda M. PITCAVAGE, «Camoufage and Conspiracy: The Militia Movement from Ruby Ridge to Y2K»,
American Behavioral Scientist, vol. 44, n. 6, 2001.
5. R.H. CHURCHILL, To Shake Their Guns in the Tyrant’s Face: Libertarian Political Violence and the
86 Origins of the Militia Movement, Ann Harbor 2009, University of Michigan Press.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
attività criminali quali il commercio illegale di armi da fuoco. Come pure le restri-
zioni in materia di porto d’armi imposte dall’amministrazione Clinton, in particola-
re il Brady Bill del 1993 e l’Assault Weapon Ban del 1994 6. Ancora, l’attività dell’O-
nu e la sigla di accordi come il Nafta, ritenuti lesivi dei lavoratori americani, in
nome della temuta globalizzazione. Infne, il doloroso riassorbimento dei veterani
del Vietnam e la scomparsa del collante costituito dalla minaccia comunista.
Questioni che si innestano sulla più radicata percezione del declino della tra-
dizionale identità nazionale. Alimentata dallo storico nativismo, tradottosi nella ci-
clica ostilità alle ondate migratorie; dalle tendenze demografche – ai ritmi attuali i
bianchi non saranno più maggioranza dal 2045; dai volumi di armi in circolo, oggi
circa 400 milioni; dall’avversione ai conservatori mainstream, defniti cuckservative
perché considerati legati a calcoli elettorali ed economici prima che valoriali; dall’u-
so delle nuove tecnologie, fax e nastri a supporto magnetico e poi computer e Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Internet – la quota di americani adulti che usa almeno un social network è cresciu-
ta dal 5 al 72% tra 2005 e 2019, stando al Pew Research Center 7.
Parallelamente si fa strada, anche per motivi propagandistici e di reclutamento,
la disponibilità a reclutare militanti a prescindere dal loro ceppo etnico. Larga par-
te delle milizie sbandiera un patriottismo color-blind, accompagnato dalla presenza
crescente nel movimento di appartenenti ad altre minoranze che condividono il
credo antigovernativo. Maquillage che conferma l’assimilazione degli allogeni, im-
perniato sul recupero di un idealizzato libertarismo della rivoluzione. Foraggiato
anche dalla National Rife Association, le cui attività di lobby dagli anni Settanta si
sono fatte aggressive, allineandosi alla narrazione per cui qualsivoglia controllo
sulle armi è una violazione costituzionale.
Fungono da modello le milizie del Michigan e del Montana, fondate nel 1994.
Nel giro di un paio d’anni formazioni analoghe sono diffuse nell’intero paese 8.
Alcune sono millenarial, propongono visioni apocalittiche con la milizia come
ultimo baluardo contro una imminente invasione delle forze del Nuovo ordine
mondiale, fnanco il rimpiazzo della popolazione anglosassone. Altre constitutio-
nalist, centrate sulla resistenza alla violenza paramilitare dello Stato, al governo
corrotto e tirannico. Alcune sono poco più di gruppi di discussione, altre organiz-
zazioni paramilitari, per la maggior parte difensive.
3. Il movimento declina nella seconda metà degli anni Novanta e rimane laten-
te durante il doppio mandato di Bush fglio. Fallisce il tentativo di creare una rete
nazionale di milizie. Vi contribuiscono la sequela di arresti di appartenenti a grup-
pi paramilitari di destra sia per crimini comuni sia per la pianifcazione di attentati
e atti violenti contro proprietà e agenti dello Stato; il mancato sostegno di altre
formazioni in armi, quali i Montana Freemen nel 1996 e la Republic of Texas l’anno
successivo, durante stalli armati con le forze di pubblica sicurezza; il non avverarsi
denuncia una vessazione della componente bianca non dissimile da quella patita
dai neri; su Fox Dick Morris dà spago alle teorie sulla presunta invasione dell’Onu,
mentre l’Nra si unisce ai produttori di armi in una campagna di preparazione alla
«tempesta del 2008». Anno in cui la Corte suprema, a danno del Distretto di Colum-
bia, afferma che dal Secondo emendamento deriva il diritto individuale di posse-
dere armi, ma puntualizza che tale diritto non è illimitato e non impedisce agli
Stati federati di proibire milizie private – di fatto, asserisce la Georgetown Univer-
sity, vietate negli ordinamenti dei 50 soggetti federati 10.
Il tutto nel quadro della peggiore crisi economica dai tempi della Grande de-
pressione. Obama diviene catalizzatore di un sentimento antigovernativo che si
declina nella resurrezione non solo delle milizie e di altri movimenti come quello
dei Sovereign Citizens ma anche all’interno del conservatorismo, come comprova
l’ascesa del Tea Party. Il presidente è accusato di non essere americano, di profes-
sare l’islam, di costituire la prova che le élite mirano a disarmare e soggiogare la
popolazione, a inquinare sostrato e credo della nazione.
Sicché i gruppi antigovernativi passano da 131 nel 2007 a 500 nel 2009, sino
al picco di 1.360 toccato nel 2012 11. Le milizie si addestrano e fanno propaganda
sul Web, specie tramite le nuove piattaforme social. E si mobilitano con atti non
solo dimostrativi, i cui bersagli sono il governo «collettivista», gli immigrati e i mu-
sulmani, le tre «piaghe» dell’America. Per esempio presentandosi a difesa dell’or-
dine, ovvero contro i manifestanti, alle proteste come quella di Ferguson (Missou-
ri) del 2014; inscenando confronti con la polizia nello stesso anno a Bunkerville
(Nevada) e nel 2016 al Malheur National Wildlife Refuge (Oregon); pattugliando
il confne con il Messico e rastrellando gli irregolari. Stando rispettivamente a Splc
e Fbi, dal 2007 al 2016 gli atti terroristici di destra aumentano di cinque volte e i
crimini di odio di quattro e mezzo.
9. «The Second Wave: Return of the Militias», South Poverty Law Center, 2009, bit.ly/2XRR0Bg
10. «Fact Sheets on Unlawful Militias for All 50 States», Georgetown Law’s Institute for Constitutional
Advocacy and Protection, 22/9/2020, bit.ly/3qx13rL
88 11. «Antigovernment Movement», South Poverty Law Center, 2020, bit.ly/3qys26y
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
12. M. PITCAVAGE, «The Militia’s Election: Extremists React to Trump Victory with Celebration – and
Anger», Anti-Defamation League, 10/11/2016, bit.ly/3sLFbev
13. C. O’ROURKE, «How Oath Keepers Are Quietly Infltrating Local Government», Politico, 12/09/2020;
C ROBERTSON, «In Rural Virginia, a Militia Tries to Recruit a New Ally: The County Government», The
New York Times, 28/10/2020. 89
DELLE MILIZIE IL CATALOGO È QUESTO
varia a seconda dell’ideologia e dei fni delle singole formazioni. Dalla proclama-
zione dello stato di emergenza alla sospensione della libertà di espressione e di
parola, alla cui preservazione alcune attribuiscono la scesa in campo contro An-
tifa e Blm e la presenza a raduni di suprematisti e fazioni dell’Alt-Right. Dalle
restrizioni all’acquisto e al possesso di armi da fuoco all’avvio di campi di inter-
namento per dissidenti. In nuce, il tradimento della costituzione e della volontà
dei padri fondatori.
L’ideologia del movimento poggia tuttora sulla romantica visione dell’America
rivoluzionaria, sul rifuto della globalizzazione, del multiculturalismo e dell’immi-
grazione, sull’islamofobia. Soprattutto, alle tradizionali teorie della cospirazione su
un Nuovo ordine mondiale e sulla creazione di un super-Stato tra Canada, Usa e
Messico si sono aggiunti marchi semplici e di grande effcacia come quello dei
Three Percenters. I quali si raffgurano come moderni patrioti pronti a resistere alla
tirannia governativa, eredi dell’avanguardia rivoluzionaria di fne Settecento – ap-
punto quel 3% che avrebbe impugnato le armi contro i britannici.
Le milizie sono prive di coordinamento su scala nazionale, il loro organico va
da poche decine a qualche migliaio di affliati. Quelle che vanno oggi per la mag-
giore rigettano razzismo, illegalità e violenza contro le forze dell’ordine, ma restano
movimenti antigovernativi in prevalenza bianchi, anti-islamici, nativisti. Non è ca-
suale la partecipazione al raduno di Charlottesville – da cui poi si sono formalmen-
te dissociate – e ai recenti tumulti di Washington, né la percezione di Antifa e Blm
come nemici dell’America.
Presenti in ogni angolo del paese, tali formazioni rispondono a dinamiche
locali e nazionali. Secondo l’Armed Confict Location and Event Data Project 14, i
cinque Stati ad alto rischio per numero di aderenti e tipo di addestramento, presen-
za di manifestazioni anti-lockdown, rapporti stretti con corpi di pubblica sicurezza
e politici locali, geografa e grado di supporto popolare sono Georgia, Michigan,
Pennsylvania, Wisconsin, Oregon.
14. «Standing By: Right-Wing Militia Groups & The Us Election», Anti-Defamation League, 23/10/2020,
90 bit.ly/2Kx5Jie
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
15. M. GIGLIO, «A Pro-Trump Militant Group Has Recruited Thousands of Police, Soldiers, and Vete-
rans», The Atlantic, novembre 2020, bit.ly/2LMpO4v
16. J.A. TURES, «More Americans Fought in the American Revolution Than We Thought», The Observer,
7/3/2017, bit.ly/391RbRf 91
DELLE MILIZIE IL CATALOGO È QUESTO
Sull’altro lato della barricata è degna di nota la Not Fucking Around Coalition.
Nata in Georgia nel 2017 e attiva in altri tre Stati a difesa dei manifestanti Blm –
almeno 2.500 suoi membri hanno sflato armati a Louisville (Kentucky) lo scorso
anno – rifuta categorizzazioni politiche e si defnisce una «milizia nera». Postula la
formazione di un proprio Stato etnico in Texas.
Le stime del numero complessivo di miliziani variano nell’ordine delle decine
di migliaia, quella forse più attendibile è di circa 20 mila effettivi a fne 2019. Cal-
coli complicati dalla natura stessa delle milizie, specie con la diffusione – in parti-
colare tra le frange più estremiste – della leaderless resistance di cui è stato promo-
tore il suprematista Louis Beam, ovvero la tendenza a organizzarsi in cellule ridot-
te e autonome. Dalla ritrosia del governo, ben prima dell’avvento di Trump, ad
approcciare il fenomeno sistematicamente, poiché legato alla identità nazionale
dominante. Dallo iato fra militanza attiva e adesione online, dove queste sigle
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
contano anche centinaia di migliaia di accoliti. Nel 2019 erano 600 circa i gruppi
di «patrioti» tracciati, dei quali 181 milizie. La metà rispetto al 2012 ma il triplo ri-
spetto al 2008. Riprova che sono lo specchio di un turbamento congenito, cui la
congiuntura fa da volano.
5. Dopo i fatti di Capitol Hill, per i quali a oggi sono indagati almeno una
dozzina di membri o ex tali delle forze di sicurezza, il facente funzioni di segre-
tario alla Difesa Chris Miller ha ordinato una revisione di tutte le normative affe-
renti al contrasto alla presenza di estremisti nei propri ranghi. Decisione che te-
stimonia il grado di minaccia portato dall’infltrazione di estremisti e suprematisti
negli apparati.
Ma è da almeno un quindicennio che le agenzie federali competenti in mate-
ria di terrorismo, Fbi e dipartimento della Homeland Security (Dhs) in primis,
mettono in guardia dalla penetrazione dei gruppi di estrema destra (anzitutto dei
suprematisti) tra poliziotti e militari. Ad esempio, nel 2006 un memo interno del-
l’Fbi avvisa i propri agenti dell’infltrazione strategica di gruppi estremisti e della
collusione di membri degli apparati – memo che innanzi al Congresso Michael
McGarrity, a capo del controterrorismo del Bureau, afferma nel 2019 di «non aver
letto». Nel 2009 un rapporto del Dhs, pubblicato prima delle proteste del Tea Par-
ty e poi ritirato per le rimostranze dei conservatori, avverte della «resurrezione»
dell’estremismo di destra e dell’attrattività che esercita sui veterani. Nel 2015 tra-
pela un dossier dell’Fbi che identifca «legami» tra miliziani, suprematisti, Sove-
reign Citizens e forze dell’ordine. Christopher Wray, direttore dell’Fbi, defnisce il
2019 l’anno con più vittime di terrorismo domestico dal 1995. Ancora, secondo un
sondaggio di Military Times pubblicato nel 2020, un terzo dei soldati asserisce di
aver assistito ad atti o discorsi suprematisti nelle caserme. Da ultimo, a metà gen-
naio 2021 il Pentagono conferma la crescita di suprematismo ed estremismo al
proprio interno. Fenomeni che non riguardano soltanto il dipartimento della Di-
92 fesa. Negli anni sono stati documentati centinaia di casi di membri degli apparati
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
to, specie laddove favorevole al ceppo dominante, centrale nella defnizione dell’i-
dentità della nazione e della sua proiezione geopolitica.
to mondiale, dai Palmer Raids nel 1919-20 al maccartismo e alle teorie della cospira-
zione di Nixon e di Trump – il nesso con il destino manifesto che rievoca l’incipit del
patriottismo, l’insurrezione, il timore del tradimento del lascito dei padri fondatori.
Le milizie sono ossessionate da princìpi e ideali che individuano in fgure e
fasi storiche chiave dell’identità nazionale. I miliziani combattono una guerra di
religione civile, catalizzata da fattori socioeconomici, demografci, politici, mediati-
ci. Accampando un presunto diritto costituzionale all’insurrezione contro la «tiran-
nia» e incensando federalisti James Madison e Alexander Hamilton quali campioni
della primazia degli Stati federati 23. Ma i legami che ostentano concernono anche
personaggi ordinari – oltre gli eroi di Alamo e fgure come Davy Crockett, per
esempio i valorosi della «battaglia» di Athens (Tennessee) del 1946 e quelli che
hanno affrontato gli inglesi a Lexington e Concord (Massachusetts) nel 1775. Patrio-
ti pronti a sacrifcarsi per la libertà dell’America, tanto dal giogo britannico quanto
dalla corruzione dei pubblici poteri. Americani ordinari come i miliziani, che ne
rivendicano l’eredità.
Il rischio è dato dalla sfumatura dei confni tra repubblicani, estremisti di de-
stra, fanatici delle teorie della cospirazione, lupi solitari, suprematisti e membri
degli apparati di sicurezza – compresi i veterani delle campagne mediorientali
dell’ultimo ventennio – nel quadro di una crisi economico-sanitaria che ne cela una
identitaria, per l’anima della superpotenza. Non è un caso che siano aumentati gli
attacchi terroristici e la mobilitazione delle frange antigovernative più disparate.
Che il 2020 abbia fatto segnare il record nella compravendita di armi e di affuenza
a raduni pro armi come quello di Richmond. Che tornino a diffondersi teorie acce-
lerazioniste e si moltiplichino fenomeni come quello dei «santuari» del Secondo
emendamento, Stati e contee 24 che tramite risoluzioni o altri atti normativi si pre-
muniscono contro eventuali restrizioni federali in materia.
22. R. SLOTKIN, Regeneration Through Violence: The Mythology of the American Frontier, Middletown
1973, Wesleyan University Press.
23. Invece di fgure come Richard Henry Lee o Elbridge Gerry.
24. Sono la metà del totale a Washington e la maggior parte in Virginia. Si rimanda a S. ZITO, «The
94 Second Amendment Sanctuary Movement Isn’t Going Away», The Wall Street Journal, 21/1/2020.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
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95
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
IL QUARTO
PILASTRO
DELL’IMPERO di Enrico ROSSI
Gli uffici di collegamento all’estero delle agenzie americane di
sicurezza pubblica affiancano le basi militari, le sedi diplomatiche
e l’intelligence nella rete internazionale della superpotenza.
Il nuovo ruolo dell’Fbi. Lo Stato profondo funziona bene.
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Anche se il loro numero può apparire esorbitante, va tenuto conto che, nella mag-
gior parte dei casi, si tratta di piccole strutture che contano poche decine di appar-
tenenti. Solo le forze dell’ordine degli Stati più popolosi e quelle delle grandi aree
metropolitane fanno eccezione alla regola, vantando organici di svariate migliaia
di uomini 2.
Com’era inevitabile, ciò fnì col rendere ancor più involuto un sistema già di suo
oltremodo complesso, lasciando campo libero alle rivalità e alle sovrapposizioni.
All’indomani degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, ancor prima che le
inchieste parlamentari mettessero a nudo l’inadeguatezza e l’assenza di coordina-
mento tra gli apparati, l’amministrazione di George W. Bush mise mano al profon-
do riordino del settore. Molti «enti inutili» vennero soppressi, altri accorpati nell’am-
bito del neocostituito Department of Homeland Security 6, mentre quelli considera-
ti nevralgici per fronteggiare le minacce globali proflatesi all’alba del nuovo mil-
lennio furono dotati di nuovi e più ampi poteri, potenziati negli organici e nei bi-
lanci. Nel decennio scorso l’amministrazione Obama, nel segno di una sostanziale
continuità bipartisan, proseguì a spingere sull’acceleratore delle riforme, portando
alla defnitiva riconversione delle agenzie federali dalla sfera repressiva a quella
della prevenzione e rilanciandone il ruolo sulla scena internazionale. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
3. Oggi la proiezione estera degli Stati Uniti, oltre che sulla rete diplomatico-
consolare, sull’intelligence e sulle basi militari offshore dislocate nei cinque conti-
nenti, poggia su un quarto caposaldo strategico: gli uffci di collegamento che
fanno riferimento al comparto del law enforcement. Fin dalla loro articolazione
territoriale, modulata in base alle priorità della superpotenza e alle prerogative
ratione materiae di ciascun organismo, gli uffci di collegamento attestati presso le
ambasciate forniscono una precisa e aggiornata chiave di lettura della postura ge-
opolitica di Washington nel settore della sicurezza.
Infatti, mentre spostare una base militare richiede un ingente sforzo logistico
in termini di uomini, mezzi e armamenti, il network delle antenne info-investigati-
ve, strutture agili e dinamiche per vocazione, può essere rischierato in tempi rapi-
dissimi sullo scacchiere globale, tanto da rappresentare una cartina di tornasole in
tempo reale delle dinamiche macrocriminali, dei rapporti di forza con le potenze
ostili o rivali, delle attenzioni riservate ai paesi satelliti e delle stesse ambizioni
dell’impero americano.
A differenza delle basi militari, che prima di essere allestite non possono fare
a meno del nulla osta della nazione ospitante, l’attivazione di un uffcio di collega-
mento presso un’ambasciata non implica il necessario, preliminare consenso delle
autorità locali, fatto salvo il formale gradimento per il personale inserito in lista
diplomatica; né presuppone condizioni di reciprocità, come dimostrato dal fatto
che numerosi paesi «minori», presso i quali operano liaison offcers statunitensi,
non provvedono a inviare propri rappresentanti negli Usa, accettando di buon
grado un ruolo ancillare e rimettendo a Washington il monopolio dello scambio
delle informazioni e della pianifcazione delle attività investigative.
Fungendo da fltro e capomaglia per i delicati rapporti di collaborazione con
le forze di polizia dei paesi ospitanti, agli avamposti in terra straniera delle agenzie
6. Il Department of Homeland Security coordina l’attività delle agenzie competenti in materia di tra-
sporti, frontiere, immigrazione, sicurezza aerea e marittima, protezione delle infrastrutture sensibili e
tutela delle personalità istituzionali e straniere. 99
IL QUARTO PILASTRO DELL’IMPERO
distaccati nei paesi anglofoni del sistema Five Eyes e nelle grandi capitali dell’Eu-
ropa occidentale ritenute di primario interesse strategico per la sfera d’infuenza
degli Stati Uniti.
Grazie alla levatura istituzionale e all’ambivalenza operativa dell’organismo,
che assomma le attribuzioni tipiche di un corpo di polizia giudiziaria e quelle pro-
prie di un servizio di intelligence, in poco tempo i rappresentanti dell’Fbi hanno
saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano come consiglieri e referenti tecnici dei
capi missione, nonché come autorevoli e infuenti interlocutori delle forze di sicu-
rezza degli Stati ospitanti, anche in ragione del loro accreditamento come delegati
personali del direttore del Bureau 8.
L’egemonia dell’Fbi fu in parte mitigata all’inizio degli anni Ottanta, quando
per rispondere al dilagare del narcotraffco internazionale l’amministrazione Rea-
gan diede avvio a un ambizioso programma di valorizzazione della Drug Enfor-
cement Administration, imperniato sulla creazione di un’ampia rete di uffci di
collegamento nelle aree del pianeta maggiormente interessate dal fenomeno. In
breve tempo, gli emissari della Dea furono accreditati in numerose capitali euro-
pee, mediorientali, asiatiche e latinoamericane, dove grazie al loro dinamismo
investigativo e ai sostanziosi fnanziamenti elargiti dal dipartimento della Giustizia
7. Resta inteso che, nel rispetto del diritto internazionale, i funzionari delle agenzie federali di law
enforcement dislocati all’estero non svolgono attività operative unilaterali in territorio straniero (arre-
sti, perquisizioni o intercettazioni), ma forniscono assistenza alle indagini e supporto informativo ai
collaterali organismi esteri sia in ambito bilaterale, nel quadro di specifci accordi o mediante la co-
stituzione di apposite task force congiunte, sia attraverso gli strumenti di cooperazione offerti da or-
ganizzazioni multilaterali come l’Interpol.
8. Nel sistema di potere di Washington, la fgura del direttore dell’Fbi è uno dei cardini del Deep
State in quanto dotata di grande autonomia a tutela dell’indipendenza dell’organismo dalle ingerenze
della politica. In base a una legge approvata nel 1974 è uno dei pochi incarichi non vincolati alla
regola dello spoil system che a cadenza quadriennale riconfgura gli assetti istituzionali del paese. La
sua nomina spetta al presidente ed è soggetta a conferma del Senato, ma una volta assunte le funzio-
ni può esercitarle per dieci anni senza alcun atto di formale rinnovo della fducia. Talvolta il manda-
to può terminare anzitempo, come avvenuto nel 2017 con il brusco e irrituale «licenziamento» del
direttore James Comey da parte del presidente Trump, ma può anche protrarsi oltre il termine decen-
nale, come nel caso di Robert Mueller, rimasto in carica per oltre dodici anni, dal 2001 al 2013, a
100 cavallo delle amministrazioni Bush e Obama.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
9. Tra le agenzie federali che vantano una diffusa presenza all’estero fgurano il Customs and Border
Protection, il Marshals Service, il Secret Service, il Naval Criminal Intelligence Service e il Diplomatic
Security Service. 101
IL QUARTO PILASTRO DELL’IMPERO
10. Gli obiettivi affdati al Federal Bureau of Investigation dall’amministrazione Bush con il Patriot Act
all’indomani dell’11 settembre, confermati dalle direttive emanate dal presidente Obama a partire dal
2009, consistevano nell’avvio di indagini giudiziarie e attività d’intelligence volte all’individuazione e
allo smantellamento delle cellule terroristiche, alla prevenzione dei tentativi di rigenerazione del feno-
meno e alla protezione del paese da nuovi attentati; anche alla luce del fatto che gli Stati Uniti, a quasi
due decenni dagli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, continuano a rappresentare il principale
obiettivo della galassia integralista.
11. L’esempio più eclatante è rappresentato dall’operazione di intelligence che, nella primavera del
2011, ha portato all’individuazione del covo di Osama bin Laden e al blitz militare che ha consentito
102 di neutralizzare il leader di al-Qå‘ida.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
12. Presso l’Accademia dell’Fbi di Quantico, in Virginia, dove vengono organizzati periodici corsi di
specializzazione per funzionari e uffciali delle forze di polizia straniere, negli ultimi anni oltre ai rap-
presentanti dei paesi occidentali tradizionalmente alleati degli Stati Uniti vengono spesso invitati quel-
li provenienti dall’Europa orientale e, in misura crescente, dall’Asia meridionale.
13. Il potenziamento degli uffci di collegamento in tali ambiti regionali è motivato dal palesarsi di
crescenti fattori di rischio non solo sotto il proflo dell’intelligence ma anche sul piano del law enfor-
cement, con particolare riferimento alla produzione e al traffco di sostanze stupefacenti (oppiacei e
droghe di sintesi) e, soprattutto, alla cybersecurity (delle 5 mila inchieste in corso da parte dell’Fbi nel
settore delle ingerenze illecite ai danni delle reti informatiche e degli interessi economici statunitensi,
oltre la metà è riferibile alla Cina).
14. Attualmente il primato spetta alla Dea, che dispone di ben 91 uffci di collegamento antidroga spar-
si in 68 paesi del mondo, mentre il Federal Bureau of Investigation conta 63 legal attaché offces ope-
ranti presso le sedi diplomatiche e 25 uffci minori. Numeri meno cospicui, ma tuttavia suffcienti a ga-
rantirne la proiezione internazionale, caratterizzano la presenza all’estero delle altre agenzie federali. 103
IL QUARTO PILASTRO DELL’IMPERO
15. Il 17 settembre 2020 il direttore dell’Fbi Christopher Wray, nel corso di un’audizione presso il
comitato per l’Homeland Security del Congresso Usa, ha affermato che il principale fattore di rischio
per la sicurezza e la stabilità democratica del paese è rappresentato dall’estremismo interno connota-
104 to da motivazioni ideologiche di tipo etnico, razziale e «antisistema».
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
TRUMP
E I SOCIAL
ASOCIALI di Enrico PEDEMONTE
Polarizzazione e crescente sentimento antisistema minano le basi
della società americana. Le responsabilità dei colossi digitali, incerti
tra business e lotta agli estremismi in Rete. Le spiccate doti del
presidente sconfitto nel gestire le piattaforme e manipolare i dati.
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1. O
SSERVANDO L’ASSALTO A CAPITOL HILL,
quel fatidico 6 gennaio, l’unica cosa che deve aver stupito Rosa Brooks, docente di
Legge alla Georgetown University di Washington, è stato che a guidare le opera-
zioni fosse Jake Angeli, lo sciamano di QAnon, con quei tatuaggi su tutto il corpo
e il berretto di pelliccia decorato con vigorose corna da vichingo. Il resto lo aveva
previsto quasi nei dettagli e lo aveva raccontato quattro mesi prima in un articolo
pubblicato sul Washington Post 1.
Era stata lei, in primavera, a organizzare il Transition Integrity Project, un war-
game con nove esperti – quattro giornalisti e cinque politici di entrambi gli schie-
ramenti, tutti assai noti al pubblico americano 2 – per capire che cosa sarebbe
successo in quattro diversi scenari possibili: vittoria netta o di misura di Joe Biden,
stallo, o vittoria di Donald Trump.
Rileggendo i risultati di quelle simulazioni emerge che già molti mesi prima
delle elezioni era tutto chiaro: campagne di disinformazione di massa, violenza
nelle strade e impasse costituzionale. I nove avevano predetto che se Trump aves-
se perso di un soffo (come è avvenuto), si sarebbe rifutato di concedere la vittoria
a Biden, avrebbe scritto su Twitter che i democratici avevano rubato l’elezione,
avrebbe invitato gli americani alla rivolta e alla fne sarebbe uscito dalla Casa Bian-
ca scortato dai servizi segreti dopo aver concesso la grazia a sé stesso e alla propria
famiglia e aver bruciato tutti i documenti compromettenti.
Anche in caso di vittoria di Trump non sarebbe andato tutto liscio: secondo i
nove esperti, in quel caso ci sarebbe stata una grande sollevazione democratica e
in alcuni Stati, per esempio in California, si sarebbero accesi movimenti per la
secessione.
1. R. BROOKS, «What’s the worst that could happen?», The Washington Post, 3/9/2020.
2. I politici: Michael Steel, John Podesta, Jennifer Granholm, Trey Grayson, Donna Bazile. I giornalis-
ti: William Kristol, Edward Luce, Max Boot, David Frum. 105
TRUMP E I SOCIAL ASOCIALI
alla democrazia.
Ancora una statistica per capire il contesto: in quei giorni Foreign Affairs
ricorda che già nel 2017, secondo il World Values Survey, il 38% degli americani
auspicava un «leader forte che non debba preoccuparsi del parlamento e delle
elezioni» 4.
Come è potuto succedere? E soprattutto: che ruolo hanno avuto i social media
in questa deriva culturale?
3. Dopo quel giorno, di fronte alla violenza delle immagini reiterate dalle tv, i
colossi digitali prendono decisioni che hanno l’aria dell’ammissione di colpevolez-
za. Dopo avere ripetuto per anni che non sono i social a creare estremismo e po-
larizzazione, ora Twitter e Facebook cancellano gli account del presidente, presto
imitati da Instagram, TikTok, Twitch, YouTube, Pinterest e persino da Stripe, una
società di pagamenti su Internet, e da Peloton, che produce bici collegate alla Rete
per il ftness casalingo. Anche Parler, piattaforma social della destra radicale da cui
Trump vuole ripartire, viene boicottata: Apple e Google mettono al bando la sua
app, Amazon la cancella dal suo cloud.
Si tratta di una reazione violenta. Solo su Twitter Trump ha quasi 90 milioni di
followers (record toccato all’inizio di gennaio), su Facebook 35 milioni. Nei quattro
anni della sua presidenza ha postato 26.557 tweet, in media 18 al giorno. Ora è
senza voce.
Ma sono in molti a ribellarsi a questa censura. Persino la cancelliera tedesca
Angela Merkel, che pone la domanda chiave: possibile che sia un manipolo di
aziende private a prendere decisioni che fanno a pugni con oltre due secoli di
democrazia, nella patria del free speech, nella terra che protegge la libera espres-
sione anche nelle sue manifestazioni più estreme, tanto che il Primo emendamen-
to alla costituzione proibisce al Congresso di legiferare sul diritto di parola e di
stampa? Se proprio è necessario censurare qualcuno, non dovrebbe essere lo Stato
ad assumersi questa responsabilità?
Le domande si accavallano, tutto appare in movimento, come se le ferite della
presidenza Trump, con il suo drammatico epilogo, stessero generando una reazio-
ne di rigetto nella società americana mandando in circolo gli anticorpi per salvare
la democrazia, anche a costo di mettere in discussione tabù che fno a ieri sembra-
vano inviolabili.
più possono prevedere le nostre reazioni, più sono in grado di proporci le cose
giuste da leggere, i post più adatti da commentare, le immagini e i video in grado
di suscitare le nostre emozioni.
In questo modo penetrano ogni attimo della nostra vita, conquistano quote
crescenti del nostro tempo e, quindi, sono lo strumento perfetto per il mercato
pubblicitario. Secondo una ricerca, in media ogni cittadino americano tocca il suo
cellulare 2.600 volte al giorno (il 10% dei più compulsivi 5.400 volte) 6. Basta questo
dato per capire perché Facebook e Alphabet/Google controllino la metà della pub-
blicità digitale del mondo e stiano rapidamente distruggendo i giornali, in un cir-
colo vizioso che sta minando alle basi la democrazia (non solo negli Stati Uniti).
Gli algoritmi delle piattaforme digitali sono progettati per aumentare il tempo
di permanenza degli utenti solleticandoli con i contenuti più accattivanti, che spes-
so sono quelli più radicali e meno attendibili (le fake news), un percorso che ha
spianato la strada a fenomeni come QAnon, creando l’ecologia giusta dove proli-
ferano siti estremisti.
In questo contesto Trump si è mosso da padrone, fducioso della propria em-
patia con i meccanismi culturali dell’America profonda, abile nell’accarezzare le
emozioni di un mondo fno a ieri marginalizzato dalla political correctness.
La matematica Cathy O’Neil ha scritto che «Trump è come un algoritmo di
apprendimento automatico» che si adatta alle reazioni del pubblico 7. I suoi 90 mi-
lioni di followers su Twitter sono più di un quarto dei 330 milioni di utenti attivi
della piattaforma. Per questa ragione, quando Jack Dorsey chiude l’account, Twit-
ter perde il 10% del suo valore di Borsa.
Scorrere la storia della presidenza Trump è come leggere un corso di appren-
dimento accelerato di comunicazione digitale che – in un mondo sostanzialmente
privo di regole – spinge a comportamenti oltre i limiti della decenza.
5. T. WU, «Is the First Amendment Obsolete?», in D.E. POZEN (a cura di), The Perilous Public Square,
New York 2020, Columbia University Press.
6. M. WINNICK, R. ZOLNA, «Putting a Finger on Our Phone Obsession», blog.dscout.com, 16/6/2016, bit.
108 ly/3nZnLY0
.7. O’NEIL, «Donald Trump is the Singularity», Bloomberg Opinion, 6/2/2017, bloom.bg/3c7qZ9o
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
5. Le prove generali della strategia digitale di Trump cominciano nel 2016, con
una campagna elettorale in cui Cambridge Analytica utilizza illegalmente i dati
personali di 87 milioni di utenti di Facebook per targhettizzare i propri messaggi.
La truffa diventa di dominio pubblico solo nel 2018 e Brad Parscale, direttore della
campagna digitale di Trump, ammette che nell’autunno 2016, prima delle elezioni
presidenziali, Cambridge Analytica è stata in grado di inoltrare 60 mila differenti
versioni di ogni messaggio adattando ogni singola parola alle caratteristiche di cia-
scun utente di Facebook.
In un’intervista a Das Magazin, Alexander Nix, presidente di Cambridge
Analytica, aggiunge dettagli succosi: «Nel giorno del terzo dibattito televisivo tra
Donald Trump e Hillary Clinton abbiamo diffuso 175 mila distinte variazioni di
ogni messaggio, quasi tutte su Facebook». Un messaggio diverso per ogni voto
grazie a tecniche di microtargeting basate su raffnate analisi psicografche, spiega Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
rimosso da Twitter l’account di Trump, Jack Dorsey ha postato un tweet che espri-
me bene il groviglio di contraddizioni all’interno del quale si muovono le piattafor-
me: «Questa decisione – ha scritto – crea un precedente che io considero pericolo-
so: il potere che un individuo o una corporation ha sulla conversazione globale».
Un modo onesto per ammettere che – in barba alle complicate regole di governan-
ce – alla fne la decisione di cancellare Trump da Twitter (e da Facebook) è stata
presa da lui (e da Zuckerberg).
Gli studiosi si sbizzarriscono per trovare una defnizione adatta per la situazio-
ne in cui si dibatte la democrazia in Rete. Il giurista austriaco Alexander Somek
parla di «costituzionalismo autoritario», un sistema in cui le piattaforme impongono
in maniera unilaterale regole di governance attribuendo poi la decisione fnale a
un monarca assoluto.
È un paradosso della storia essere arrivati a questo punto. L’Internet che cono-
sciamo è stato plasmato dalla Sezione 230 del Decency Communications Act, una
norma grazie alla quale le piattaforme digitali, al contrario degli editori tradizionali,
non sono responsabili di quanto pubblicato dagli utenti. Quella norma – che ha
reso possibile la crescita dei social network – incorpora l’utopismo dei fondatori
del Web e il sogno di una Rete completamente libera dai condizionamenti degli
Stati. Il risultato è un mondo digitale, per molti versi premoderno, formato da tan-
ti regni governati da re.
7. È accaduto quello che Jürgen Habermas aveva previsto già nel 2006, quan-
do nel corso di una conferenza disse che la frammentazione della conversazione
pubblica indotta da Internet avrebbe potuto destabilizzare le democrazie 10. La
previsione del flosofo tedesco si è avverata, non solo negli Stati Uniti. Secondo
Freedom House, nel mondo la democrazia è in ritirata fn dal 2007: da allora «in 64
9. K. KLONICK, «The New Governors: the People, Rules, and Processes Governing Online Speech»,
Harvard Law Review, 17/4/2018.
10. J. HABERMAS, «Political Communication in Media Society: Does Democracy Still Enjoy an Epistemic
110 Dimension?», Communication Theory, vol. 16, novembre 2006, doi.org/10.1111/j.1468-2885.2006.00280.x
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
paesi c’è stato un deterioramento dei diritti politici e delle libertà civili» 11. Già in un
rapporto del 2017 Freedom House sosteneva che «grazie alle tecniche di disinfor-
mazione e alla crescita degli attacchi ai difensori dei diritti umani e dei media, la
libertà su Internet è in declino per il settimo anno consecutivo».
Ma torniamo agli Stati Uniti. Molti studiosi si sono sforzati di capire perché gli
americani si stiano dimostrando così sensibili alle fake news e alle teorie cospirative.
Joseph Uscinski, docente alla University of Miami e studioso delle teorie cospi-
rative, sostiene che negli Stati Uniti la diffdenza verso le élite ha le sue radici nella
storia degli scandali che negli ultimi decenni hanno minato alla base la fducia
nelle classi dirigenti: il Watergate (1972), l’affare Iran-Contras (1985), la bugia delle
armi di distruzione di massa per giustifcare l’attacco all’Iraq (2003), il bailout delle
banche (too-big-to-fail) dopo la crisi fnanziaria del 2007/08 12. A questi episodi che
hanno scandito la cronaca politica, potremmo aggiungere un lungo elenco di com- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
plotti (reali) che l’industria americana ha messo in atto per confutare le evidenze
della ricerca scientifca: dalla negazione dei danni alla salute del fumo e dell’amian-
to fno al più recente negazionismo sul ruolo umano nel riscaldamento globale.
Questo eterno confitto tra verità e potere ha lentamente inoculato nella socie-
tà americana il veleno dello scetticismo e ha creato quella che il sociologo Henri
Rosanvallon defnisce «la società della sfducia»: esattamente ciò che non ci vorreb-
be in un mondo che, per la sua crescente complessità, avrebbe sempre più biso-
gno di specialisti e politici credibili e di istituzioni locali e sovranazionali basate sul
sostegno della collettività.
Trump si è nutrito di questa dilagante cultura anti-establishment e si è posto
come l’uomo nuovo che si fa beffe del passato, ridicolizza le teorie scientifche e
indica le organizzazioni internazionali come un fardello imposto da élite corrotte.
In questo modo ha smantellato il Nafta, ha dichiarato guerra all’Onu, ha snobbato
i pareri degli esperti sul Covid-19 ed è entrato in rotta di collisione con l’Organiz-
zazione mondiale della sanità. Solo per fare alcuni esempi.
Secondo Martin Gurri, che per decenni ha lavorato come analista alla Cia, è
proprio questa dilagante sfducia nei confronti delle élite e degli esperti la caratte-
ristica dominante della fase storica che stiamo vivendo: un sentire collettivo che
apre la strada a una classe politica che sfrutta il risentimento e distrugge l’idea
stessa di verità 13.
D’altra parte l’avvento di un nuovo medium ha sempre corrisposto a periodi
di forte instabilità politica: è successo con la radio, che ha catalizzato la nascita del
fascismo in Europa; e ancor prima, ricorda Gurri, con l’introduzione della stampa
a caratteri mobili, che aprì la strada alla Riforma protestante, a secoli di guerre re-
ligiose e a un lungo periodo di instabilità. Secondo Gurri quello che stiamo viven-
11. «Freedom in the World 2020: a Leaderless Struggle for Democracy». Freedom House, bit.ly/2NrKjEf
12. J. USCINSKI, Conspiracy Theories and the People who Believe Them, Oxford 2018, Oxford University
Press.
13. M. GURRI, The Revolt of the Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press,
2018. 111
TRUMP E I SOCIAL ASOCIALI
do oggi è paragonabile a quello che accadde allora. L’effetto che vediamo, desti-
nato a durare a lungo, è una paralisi progressiva delle gerarchie politiche e l’avven-
to di quello che l’analista americano defnisce «nichilismo digitale». Non è un caso
se alcuni sondaggi ci dicono che meno di un terzo dei giovani americani pensa che
sia «essenziale» vivere in una democrazia 14.
Ma usciamo dal tunnel dei pensatori catastrofsti per chiederci se ci sia una
soluzione. Che cosa si può fare per riformare Internet e attenuare gli effetti del suo
lato oscuro?
8. Sono in molti (anche Biden e Trump) a pensare che la Sezione 230 del De-
cency Communications Act vada cancellata o almeno ripensata, ma si tratta di un
nodo diffcile da sciogliere. Quella norma ha consentito ai colossi digitali di cresce-
re e di trainare l’economia americana per vent’anni e per modifcare anche una Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
sola delle ventisei parole (tante sono) che la compongono sarà necessario supera-
re il fuoco di sbarramento delle lobby più potenti del mondo.
Alcuni ritengono che la strada maestra per cambiare in meglio il Web sia quel-
la dell’Antitrust, ridimensionando i colossi digitali come avvenne un secolo fa con
la Standard Oil di John Rockefeller. Ma la rottura dell’impero di Zuckerberg potreb-
be portare alla creazione di tanti piccoli social ancor meno controllabili e il proli-
ferare di nicchie estremiste.
Un numero crescente di studiosi sostiene poi la necessità di colpire il modello
di business delle piattaforme, obbligandole a rendere trasparenti i loro algoritmi e
l’uso dei dati degli utenti. Ma anche in questo caso ci sono un’infnità di obiezioni
da superare e molti temono che percorrere una simile strada rallenterebbe l’inno-
vazione tecnologica.
La soluzione non è dietro l’angolo. Ma ormai è convinzione generale che qual-
cosa andrà fatto, perché la moltiplicazione delle fake news e delle teorie complot-
tiste sta logorando la democrazia.
Diceva Hannah Arendt che il soggetto ideale dell’ideologia fascista è una perso-
na «per la quale la distinzione tra realtà e fnzione, (…) tra vero e falso, non esiste
più». I fatti del 6 gennaio hanno dimostrato che la flosofa aveva la vista lunga.
14. A. GRAY, «The troubling charts that show young people losing faith in democracy» World Economic
112 Forum, 1/12/2016, bit.ly/392Fidy
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
1. «Il fantasma gli rispose: «(Sono) Il tuo cattivo demone, Bruto; mi vedrai a Filippi»».
2. D. LUPHER, Romans in a New World. Classical Models in Sixteenth Spanish America, Ann Arbor 2003,
The University of Michigan Press.
3. Con l’unica eccezione delle encicliche papali e del Whatever it takes: alludo al Draghi’s Speech
(2012), non all’omonima e più nota Imagine Dragons Lyrics (2017).
4. N. FERGUSON, Empire. How Britain Made the Modern World, 2003.
5. ID., Colossus. The Rise and Fall of the American Empire, 2009. 113
CAIO GIULIO O TIBERIO GRACCO TRUMP? TIRANNO, ‘DITTATORE DEMOCRATICO’ O TRIBUNO DELLA PLEBE?
sisti americani sono veri cultori di «classics». Come il senatore democratico della West
Virginia Robert Carlyle Byrd (1917-2010), segregazionista pentito e Chirone di Ba-
rack Obama 10. I repubblicani attribuirono alla sua infuenza la scenografa pseudo
«greca» del Yes We Can Speech, il celebre discorso di accettazione della nomination
pronunciato il 28 agosto 2008 all’Invesco Field di Denver dal candidato democratico,
accusandolo di atteggiarsi a demiurgo o, più malignamente, a mattatore di peplum.
Polemica incauta, perché dette modo a Charlotte Higgins, laureata in classics al Bal-
liol College di Oxford e capo dei servizi culturali del Guardian, di rilanciare la palla,
sottolineando che le colonne doriche evocavano la romanità repubblicana della
Casa Bianca, della costituzione americana e del Lincoln Memorial (location dell’I
have a Dream Speech di Martin Luther King), ma pure il Partenone, gemellando così
idealmente lo stadio di Denver con «the very birthplace of democracy» 11. Higgins si
spinse però molto più in là, con un paragone tra la retorica di Obama e quella di
Cicerone che fece arricciare il naso ai ciceroniani europei 12 ma valse poi all’autrice
tre libri di successo 13 e il premio 2010 della Classical Association britannica.
6. V. ILARI, «Thucydides Traps. La guerra del Peloponneso nella retorica politica americana», Civiltà
romana, n. 5, 2018, pp. 277-299 (ora in ID., Clausewitz in Italia e altri scritti di storia militare, Roma
2019, Aracne, pp. 63-86).
7. Cfr. D. IMMERWAHR, How to Hide an Empire. A Short History of the Greater United States, London
2019, The Bodley Head.
8. J. BLACK, George III: America’s Last King, New Haven 2008, Yale University Press; E. SHALEV, «Empi-
re Transformed: Britain in the American Classical Imagination, 1758-1783», Early American Studies,
vol. 4, n. 1, 2006, pp. 112-146.
9. V. ILARI, «“We, like the Romans?”. Per lo studio del paradigma romano nella rappresentazione e
nell’interpretazione dell’American Empire», Civiltà romana, 2015, pp. 313-40.
10. R.F. MADDOX, «Senator Robert C. Byrd and the Wisdom of the Ancients», in M. MECKLER (a cura di),
Classical Antiquity and the Politics of America. From George Washington to George W. Bush, Waco
2006, Baylor University Press, pp. 141-151.
11. C. HIGGINS, «The New Cicero», The Guardian, 26/11/2008.
12. P. ROUSSELOT, «Marcus Tullius Obama», Tulliana.eu, gennaio 2009; J. KLEIN, «Von Cicero bis Obama.
Altrömische Namensfüsterer und Mobilisierung per E-Mail: Wahlkampf gibt es seit mehr als 2000
Jahren», Der Tagesspiegel, 11/7/2009. Cit. in L. FEZZI, «Obama e Cicerone dal comitium a internet», in
Ricerche in corso. Scritti in ricordo di Alessandro Zijno, Padova 2014, Cleup, pp. 169-175.
13. Latin Love Lessons (2009), It’s All Greek To Me (2010), Under Another Sky (2013: viaggi nella Bri-
114 tannia romana).
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
e ciuffo orange, una longilinea, pacchiana e altezzosa Calpurnia con accento slo-
veno (Tina Benko) e un Ottavio-«nerd» «simil Jared-Kushner», condendo Shakespe-
are con le gag clownesche del dittatore e infne, secondo Fox News, facendolo
«brutalmente pugnalare dalle donne e dalle minoranze» (Casca era afroamericano),
mentre a impersonare Antonio era un’adorante conservative woman con accento
southerner. La stampa liberal stigmatizzò l’isterica reazione conservatrice contro
l’esecuzione scenica del tiranno contrapponendo la precedente tolleranza liberal
per quella dell’imperatore di colore. Chelsea Clinton, anche a nome del marito,
twittò con 4.400 likes che non avrebbe «assolutamente» protestato contro lo spetta-
colo di Eustis, anche se non avrebbe gradito analoghe allusioni a «un membro
della sua famiglia». Montava infatti un brutto clima: il Secret Service, responsabile
della sicurezza del presidente, minava il diritto di satira, allarmandosi per una gag
della comica Kathy Griffn con la testa mozzata di Trump, mentre la Bank of Ame- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
niano sull’«apoliticità» 24 delle Forze armate ai veterani che in agosto gli avevano
ricordato il giuramento di difendere la costituzione «contro tutti i nemici, stranieri e
interni» invitandolo a «fare la sua scelta se il comandante in capo attenta a ignora-
re il risultato delle elezioni» 25. «Unici tra tutti i militari del mondo – disse nel Natio-
nal Army Museum di Fort Belvoir (Va) – noi non prestiamo giuramento a un sovra-
no, a un tiranno, a un dittatore, a un individuo, né a un paese, tribù o religione;
noi prestiamo giuramento alla costituzione».
Immagino che, come biografo di Cesare, in America si pensi a Adrian
Goldsworthy (2006) e pochi conoscano i saggi di Luciano Canfora 26. I più quindi
si perdono l’accurata auto-analisi della fascinazione marxista per l’isonomia sparta-
no/irochese 27 e per la fgura del «capo» e del «dittatore democratico», incarnato in
Cesare e Napoleone (e poi in Lenin e Stalin), salvo ripetizioni «in chiave di farsa»
(Napoleone III) e conseguenti deviazionismi «bonapartisti» (Trockij, Mussolini). Ciò
non signifca però che alla politologia americana sia del tutto sfuggita la questione
sostanziale involontariamente evocata dal paradigma cesariano. Basta infatti spo-
stare il rifettore dalla Trumpeide mediatica alle ragioni sociali del suo successo per
ritrovare, in forme postindustriali e «da destra» 28, le dinamiche della lotta di classe 29,
22. B. RANALLI, «Donald Trump as Julius Caesar The Curtain Raiser, 31/10/2020»; «Trump and Caesar:
Two Men Above the Law», 1/11/2020; «Donald Trump: Not Your Grandfather’s Caesar: The Big Diffe-
rences», 2/11/2020; «Trump’s crossing the Rubicon», The Globalist, 4/11 2020.
23. C. SCHMITT, Theorie des Partisanen, Berlin 1963/1975, Duncker & Humblot.
24. A. GRAMSCI, «Esercito nazionale e apoliticità», Passato e presente, Torino 1954, Einaudi, p. 23.
25. J. NAGL, P. YINGLING, «An Open Letter to Gen. Milley», Defense one, 11/8/2020. In senso contrario
l’eccellente analisi giuridica di J. JOYNER, «Who decides Who Is a “Domestic Enemy”? The Short answer:
not the Joint Chiefs Chairman. The longer answer is more interesting», ivi, 13/8/2020.
26. L. CANFORA, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Roma-Bari, 1999, Laterza;
27. Ispiratrice del progetto costituzionale di Franklin (Limes 11/2020, p. 12) arrivò a L’origine della
famiglia, cella proprietà privata e dello Stato (1884) attraverso le note di Marx all’antropologo ameri-
cano Lewis Henry Morgan, 1818-1881.
28. A. DEL MONACO, «I totem rovesciati. Marx per Le Pen e Salvini. I Gracchi per Bannon e Meloni.
Liberismo Ue per Bersani e il Pd», Huffpost, 14/10/2018.
29. A.W. VANDERLAAN, «American Empire and the Resulting Class Structure: A Roman Model to Explain
a Modern Struggle», 1/6/2007; J. KOTKIN, The New Class Confict, Candor 2014, Telos Press; J. LEPORE,
«Richer and Poorer», The New Yorker, 16/3/2015. 117
CAIO GIULIO O TIBERIO GRACCO TRUMP? TIRANNO, ‘DITTATORE DEMOCRATICO’ O TRIBUNO DELLA PLEBE?
concetto censurato dalla neolingua liberal al pari di Enemy at Home e di Civil War
2.0, rimessi in circolo dal più virulento ed esecrato tra gli ideologi della destra
americana, formatosi al collegio gesuita di Bombay 30. Mentre Martin van Creveld e
William S. Lind, gli scrittori che maggiormente si opposero alle disastrose avventu-
re militari d’inizio secolo, profetizzavano la prossima «Hobbesian warfare» della
società americana 31.
Ma, restando al paradigma romano, secondo Marck Shiffman l’analisi plutar-
chea del tribunato della plebe aiuta a individuare l’oggettiva «lacuna dell’ordine
costituzionale americano» sfruttata da Trump 32. Shiffman pensa che, se proprio
vogliamo leggere gli Stati Uniti sul metro della storia romana, non dobbiamo pen-
sarli (come fecero gli stessi Founding Fathers e poi i peplum hollywoodiani) nella
fase fnale dei bella ciuilia (133-27 a.C.) che conclusero la République impériale
(Raymond Aron) e fondarono l’impero sine fne di Augusto fglio di Dio (Canfora), Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
ma piuttosto in quella iniziale: l’età delle leggi agrarie e del tribunato di Tiberio
Gracco, assassinato in esecuzione dello «stato di eccezione» decretato dal Senato su
iniziativa del pontefce massimo, Scipione Nasica Serapione, cugino del tribuno.
Tredici anni prima la distruzione di Corinto e di Cartagine, la riduzione della Ma-
cedonia a provincia e il protettorato sull’Egitto avevano concluso l’espansione
transmarina della Repubblica. Tiberio chiudeva l’epopea militarista iniziando quel-
la rivoluzionaria col celebre discorso trumpiano sui «padroni del mondo che di
proprio non possedevano neppure una zolla».
Il paragone tra i populismi di Tiberio e di Trump implica quello tra guerre
puniche (263-146 a.C.) e guerre mondiali (1914-91), ma anche tra il rapporto di
Roma con gli alleati (socii) italici e quello di Washington con gli europei. Studiando
nei miei trent’anni la Nato, mi accadde di cogliere molte illuminanti analogie con
la formula togatorum, oggetto dei miei primi studi postlaurea 33. La formula, risa-
lente pare al 225 a.C., serviva a mobilitare i contingenti militari forniti dagli ex ne-
mici divenuti man mano alleati che costituivano metà dell’esercito romano, e rima-
se nominalmente in vigore fno alla grande ribellione del 90 (la guerra sociale,
ossia degli alleati) conclusa, dopo 300 mila morti su 7 milioni di abitanti liberi, con
la concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici. Da tempo, del resto, la
Nato romano-italica era «in stato di morte cerebrale», sostituita dalle coalizioni «a
geometria variabile» coi «volenterosi» reges socii d’Oltremare.
Durante i bella ciuilia gli italici sostennero costantemente la nobilitas contro i
populares, anche perché le leggi agrarie e le deduzioni di colonie erano fatte so-
prattutto a spese dei latifundia italici e il disinteresse per l’Oltremare penalizzava i
commercianti (negotiatores) italici. Analogie riscontrabili nell’asse antipopulista tra
le due sponde dell’Atlantico. Senza contare che le élite italiche abitavano in gran
30. D. D’SOUZA, Enemy at Home (2007) e Civil War 2.0 (2021).
31. R. CAPPELLI, «Hobbesian Warfare», Future Wars, Quaderno Sism 2016, pp. 537-558.
32. M. SHIFFMAN, «Roman Parallels: Plutarch and the Trump Elections», in M.B. SABLE, A.J. TORRES (a
cura di), Trump And Political Philosophy, London 2018, Palgrave Macmillan, pp. 43-68.
118 33. Cfr. V. ILARI, Gli italici nelle strutture militari romane, Milano 1974, Giuffrè.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
parte a Roma, come quelle europee hanno casa a New York. Altra analogia è il
declassamento delle minori sovranità italiche a mero autogoverno, che produceva
pure l’irrilevanza politica delle plebi, educate al consenso passivo verso le rispetti-
ve aristocrazie. Periodicamente decapitati (Tiberio, poi Caio Gracco, Mario, Catili-
na, Clodio, Cesare) i populares non presero mai veramente il potere, ma la nobili-
tas poté solo prolungare il «morboso interregno» tra il «vecchio [che] muore» e il
«nuovo [che] non può nascere» 34, cedendo sempre più potere alla speculazione f-
nanziaria (i cavalieri) fno alla completa rinuncia alla libertas repubblicana.
Ça ira!
Méllonta tâuta
Edgar Allan Poe
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Parte II
l’AMERICA in CRISI
contro
CINA e RUSSIA
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
PECHINO SA COSA
L’ATTENDE:
NULLA DI BUONO di Phillip ORCHARD
A occhi cinesi Trump non è una meteora, ma l’inizio di una
resa dei conti con gli Usa cui la Repubblica Popolare si prepara
da sempre. Biden cambierà tattica, non strategia. Il principio di
minima azione per il massimo risultato e il rischio di escalation.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
1. L E RELAZIONI SINO-STATUNITENSI
hanno virato al peggio sotto la presidenza di Donald Trump. Ma Pechino non si
aspetta un tangibile miglioramento con l’amministrazione di Joe Biden. L’unica,
concreta speranza nutrita dalla Cina è che la messe di problemi interni ereditati
da Trump renda l’America troppo distratta e alle prese con sé stessa da concepire,
tanto meno attuare una strategia coerente in grado di mettere davvero a repenta-
glio l’ascesa cinese.
Sotto Biden gli Stati Uniti saranno oberati dal coronavirus e dai suoi contrac-
colpi economici, ma anche dalle due crisi gemelle – sociale e istituzionale – che li
attanagliano. Il disincanto verso Pechino è andato crescendo in ambienti chiave a
Washington, generando il senso d’urgenza che tipicamente serve all’America per
prendere di petto le sfde emergenti. Ma qualsiasi serio sforzo da parte statunitense
per affrontare la Cina e (oppure) negoziare un accomodamento con essa richiede
un’immensa quantità di capitale politico e fnanziario, di cui oggi vi è forte carenza.
Il pessimismo di Pechino su Biden affonda in gran parte nella sua interpreta-
zione storica degli imperativi strategici, degli impulsi tattici e del volubile panora-
ma politico d’America. Il drastico peggioramento delle relazioni bilaterali con
Trump non è giunto inaspettato per la Cina. È stato piuttosto il culmine di un
lungo, forse inevitabile riorientamento dei processi geopolitici dispiegatisi per
decenni nella regione indo-pacifca. Dagli anni Settanta le economie avanzate
hanno gradualmente ancorato le proprie fliere produttive in Estremo Oriente,
innescando un boom senza precedenti del commercio e della prosperità mondia-
li. Da ultimo il fulcro della manifattura mondiale si è spostato in Cina, dove una
forza lavoro apparentemente infnita ha consentito alle imprese straniere di realiz-
zare economie di scala prima impensabili. Per circa dieci anni dopo la fne della
guerra fredda gli Stati Uniti hanno entusiasticamente sostenuto questa dinamica, 123
124
SCACCHIERE DEL SUD-EST ASIATICO Corea del Nord, scontro interno tra le
fazioni “flo-statunitense” e ”flo-cinese”
Paesi alleati degli Stati Uniti RUSSIA 1 Isole Paracelso contese tra Cina,
Paesi apparentemente neutrali, ma Taiwan e Vietnam
alleati con gli StatiKAZAKISTAN
Uniti 2 Isole Spratly contese tra Cina, Filippine,
Paesi che oscillano tra Stati Uniti e Cina MONGOLIA COREA Malaysia, Taiwan e Vietnam
DEL NORD 1
Paesi alleati della Cina Stretto di Malacca sotto
UZBEK.
TURKMEN.
Taiwan, protettorato americano 2 Stretto di Luzon il controllo
KIRGHIZ. GIAPPONE
Paesi indipendenti COREA 3 Stretto di Taiwan statunitense
TAGIK. DEL SUD
IRAN
AFGHANISTAN Mar
C I N A
Cinese
PECHINO SA COSA L’ATTENDE: NULLA DI BUONO
Orientale
PAKISTAN
NE
PA BHUTAN 3 TAIWAN
OMAN L
HONG KONG Mar
2 Oceano Pacifico
delle Filippine
I ND IA
MYANMAR
LAOS Mar FILIPPINE
1 Cinese
Mare BANGLADESH Meridionale
Arabico
THAILANDIA VIETNAM
Golfo
del Bengala
CAMBOGIA
2
Oceano Indiano PAPUA
BRUNEI NUOVA
M A L A Y S I A GUINEA
SRI LANKA 1 SINGAPORE
PAESI DEL QUAD
GIAPPONE
HONG KONG
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in tal senso sono emersi già durante l’ultimo anno di Trump, quando a Washington
si è cominciato a realizzare che i ritorni della guerra tariffaria andavano scemando.
Inoltre, la Cina prevede che l’amministrazione Biden si concentri maggiormente
sulle proprie problematiche e debolezze interne.
Visto da Pechino, tuttavia, Trump è l’emblema di un crescente sentimento
anticinese che pervade gli Stati Uniti, sia l’elettorato sia gli ambienti politici, mili-
tari ed economici. In passato la Cina poteva contare su potenti interessi economi-
ci per perorare una politica accomodante da parte americana, che desse priorità
ai legami commerciali e in tal modo contenesse l’infuenza di quanti a Washing-
ton reclamavano un approccio più attento ai diritti umani. Oggi il sostegno stata-
le ai concorrenti delle imprese americane e gli sforzi (sostenuti sempre dal partito-
Stato) per facilitare il trasferimento – o il furto tout court – di conoscenze hanno
ridotto in numero e infuenza i sostenitori del Dragone. E se un tempo quest’ulti-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
queste strettoie per imporre un embargo e mettere così in ginocchio la Cina. Tali
vulnerabilità esterne impongono al paese l’adozione di un approccio intrinseca-
mente (e più o meno direttamente) espansionistico.
L’America pretende dunque da Pechino una serie di azioni che questa non
può compiere senza violare i propri imperativi strategici, danneggiare il proprio
interesse nazionale e mettere a repentaglio il potere del partito. Washington, ad
esempio, vuole che la Cina riduca drasticamente la presenza dello Stato nell’eco-
nomia, ma il partito considera tale presenza indispensabile a mantenere stabile
l’occupazione, celare i guasti del proprio sviluppo e allevare campioni nazionali
in grado di competere all’estero. Gli Usa vogliono che Pechino allenti il controllo
su Hong Kong, Tibet e Xinjiang, ma in ciò il partito vede l’innesco dell’effetto
domino che ha affossato numerose dinastie imperiali del passato. L’America vuo-
le che l’Esercito popolare di liberazione smetta di estendere la propria presenza
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
fn sulla soglia degli altri Stati litoranei, ma la Cina considera questi vicini – specie
quelli che intrattengono stretti rapporti con la Marina americana – una grave mi-
naccia all’integrità delle proprie linee d’approvvigionamento. Su tali questioni il
margine di compromesso è minimo o nullo. E il crescente ricorso del partito al
nazionalismo per gestire le pressioni politiche accresce ulteriormente il costo di
eventuali concessioni.
3. Negli ultimi anni nel partito è anche cresciuta la convinzione di non dover
provare davvero a compiacere l’America. Specie se ciò comporta derogare ai suoi
maggiori precetti economici e militari. Ha sopportato bene l’offensiva commercia-
le di Trump e sinora l’economia è sopravvissuta al Covid-19. Due scenari da in-
cubo per Pechino, due test del suo modello di governo economico che considera
superati a pieni voti. Ovviamente, il partito preferirebbe che Biden rimuovesse i
dazi e terminasse l’offensiva contro le sue aziende, come Huawei, ma ha ormai
pochi dubbi di poter resistere a tali pressioni anche in futuro.
In ambito militare Xi sa bene che verrebbe surclassato in uno scontro diretto
con gli Stati Uniti ed è irritato dalla recente impennata nella vendita di armi statu-
nitensi a Taiwan. Ma l’Esercito popolare può infiggere danni tali alle poderose
Forze armate americane – specie in un teatro bellico prossimo alle coste cinesi –
da indurre la Cina a ritenere che, nel caso di confitto, Washington non avrebbe
il coraggio di andare fno in fondo. In altri termini, il Dragone ritiene che il prin-
cipio di minima azione obblighi l’America ad accordargli lo status di egemone
regionale.
Pechino è chiaramente preoccupata dalla crescente insistenza di Biden sul
rafforzamento della rete di alleanze americana nell’Indo-Pacifco. Ma non teme
alcuno di questi alleati degli Usa singolarmente preso e crede di poter usare la
leva economica per dissuaderne la maggior parte dal seguire Washington in un’o-
nerosa campagna militare. Inoltre, le dinamiche geopolitiche insite nella globaliz-
zazione hanno reso diffcile all’America plasmare una strategia coerente che ri-
sponda contemporaneamente ai bisogni propri e dei suoi soci. Molti negli Stati 127
128
Paesi parte del contenimento
F E D . R U S S A anticinese
(India, Vietnam, Singapore, Australia, Taiwan,
Corea del Sud, Giappone, Filippine)
Paesi pro-Cina
KAZAKISTAN GIAPPONE (Pakistan, Nepal, Laos, Cambogia)
M O N G O L I A COREA
DEL NORD
Paesi equidistanti
(Kazakistan, Mongolia, Kirghizistan,
KIRGHIZISTAN Ürümqi COREA DEL SUD Tagikistan, Afghanistan, Malaysia, Myanmar,
Pechino Thailandia, Indonesia, Timor Est)
TAGIKISTAN Minaccia latente
X I N J I A N G
(Corea del Nord)
AFGHANISTAN C I N A
Prima catena di isole
PECHINO SA COSA L’ATTENDE: NULLA DI BUONO
T I B E T Canale di Miyako
PAKISTAN Lhasa Passaggio per incursioni cinesi
(Sede amministrativa nell’Oceano Pacifco
NEPAL delle isole del Mar TAIWAN Guam (Usa)
Cinese Meridionale)
O c e a n o P a c i f i c o
I N D I A Hong Kong
ARCO DI TENSIONE MYANMAR Sansha Atollo di Scarborough
LAOS
Seconda catena di isole
CINA - USA HAINAN (sottratto alle Filippine
dalla Cina)
Confni marittimi FILIPPINE
THAILANDIA
Isola cinese di Hainan VIETNAM
Base di Yulin per sottomarini nucleari CAMBOGIA
Isole contese nei Mari Cinesi
Isole Paracelso: controllate dalla Cina, rivendicate da Taiwan e Vietnam.
Comprendono una ventina di avamposti cinesi e una piattaforma petrolifera;
Isole Spratly: controllate dalla Cina e rivendicate da Filippine, Malaysia,
Taiwan e Vietnam, comprendono sette isole artifciali cinesi guarnite M AL AY SI A
con infrastrutture navali e asset militari;
Isole Senkaku/Diaoyu: controllate da Tōkyō e rivendicate da Pechino. SINGAPORE
I N D O N E S I A
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Uniti pensano che il paese sia sovraesposto, la sua leadership distratta e sorda ai
bisogni della popolazione. Per questo l’attenzione si va rivolgendo all’interno, con
il graduale e a tratti esitante abbandono del novello ruolo di poliziotto globale in
favore di una forma di manipolazione più sottile e indiretta, a tutela degli interes-
si meno immediati. Risultato: anche gli alleati più stretti e forti di Washington
dubitano apertamente che questa accorrerebbe in loro difesa, specie ora che i
suoi avversari hanno la capacità di rispondere.
Le politiche strategiche e commerciali americane nell’Indo-Pacifco, pertanto,
hanno oscillato da un estremo all’altro. Solo negli ultimi dieci anni sono passate
dallo sforzo di rafforzamento e adeguamento dell’ordine liberale e delle alleanze
che hanno dominato la regione dal 1945 al completo rigetto del multilateralismo.
Questa erraticità ha generato enorme incertezza in amici e nemici, ansiosi di capire
cosa li attenda. Biden promette per molti versi un ripristino delle pratiche pre-
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XI ATTENDE
UN CENNO
DA BIDEN di YOU JI
Epidemia, economia, problemi interni. Le ragioni per una distensione
non mancano, negli Usa come in Cina. Pechino spera nel buon senso
del neopresidente, ma si prepara a contrastarne il fronte anticinese
con il divide et impera. I falchi del Pcc piangono Trump.
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dopo la parziale tregua estiva è tornata a mordere, negli Usa e altrove. Biden ha
indicato la crescita del pil e la creazione d’impiego come prioritarie, anche per
ripristinare la fducia del mondo nella capacità dell’America di trainare l’economia
globale. In questo contesto, il ruolo degli Usa è cruciale: il fallimento di Trump è
una profonda lezione per Biden, che sa di dover combinare la lotta al Covid-19
con le misure economiche.
Se virus ed economia sono i dossier più urgenti, la terza sfda – ricomporre le
fratture interne – è a un tempo immediata e di lungo termine. Durante e subito
dopo la campagna elettorale il mondo ha constatato quanto diviso sia il paese. La
retorica al vetriolo ha minato alle fondamenta la coesione sociale, sabotando gli
sforzi dello stesso Trump per rendere «di nuovo grande l’America». Affnché Biden
possa essere il presidente di tutti gli americani, come promesso dopo la vittoria,
dovrà placare la destra conservatrice e guadagnare consensi a sinistra. Ciò è essen-
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alla Repubblica Popolare altri preziosi anni per interagire singolarmente con i pa-
esi occidentali, in una posizione di probabile vantaggio.
La scuola di pensiero opposta è tuttavia più numerosa e loquace. Essa non
nega – non del tutto – la veridicità dei suddetti argomenti, ma si concentra sui
danni ben maggiori che un secondo Trump avrebbe infitto alla Cina. Tra questi, i
più citati sono cinque. Primo: il fatto che l’acrimonia dell’ex presidente verso Pe-
chino sia personale, specie da quando è scoppiata l’epidemia «cinese» cui Trump
addebita la sua sopraggiunta impopolarità e di cui, se fosse rimasto alla Casa Bian-
ca, si sarebbe vendicato con nuove, pesanti sanzioni. Secondo: nella squadra di
Trump fguravano alti funzionari intimamente avversi alla Cina che, al pari del
presidente, mossi da ragioni personali disponevano di poteri suffcienti a infiggere
seri danni agli interessi vitali della Repubblica Popolare. Provandoci anche gusto.
Terzo: Trump avrebbe verosimilmente premuto su partner e alleati per boicottare
le Olimpiadi invernali del 2022 su cui la Cina, che le ospita, punta anche e soprat-
tutto come vetrina diplomatica. Quarto: l’intransigenza anticinese di Trump avreb-
be prodotto ulteriori risvolti militari, rendendo ancor più concreto il rischio di
confitto armato tra Usa e Cina, con Taiwan possibile casus belli. Infne, la guerra
commerciale sarebbe evoluta sempre più in guerra tecnologica, con forti ripercus-
sioni su economia e competitività cinesi.
Quanti in Cina preferiscono Biden, dunque, non lo fanno perché lo considerino
una colomba, ma perché non ha inimicizie personali verso Pechino. Il fatto che già
da vicepresidente avesse adottato in materia un approccio ben più articolato di mol-
ti suoi colleghi nell’amministrazione Obama attesta, nell’ottica cinese, la profondità
della sua visione strategica. Le sue cinque visite uffciali in Cina dal 1972 e i molti
incontri con Xi Jinping durante i lunghi anni da senatore e vicepresidente gli confe-
riscono una conoscenza del paese certo superiore a quella di Trump. Soprattutto, lo
rendono più ricettivo alle rassicurazioni di Xi sul fatto che la Cina non concepisce la
rivalità con l’America come un gioco a somma zero e non intende cancellare l’ordine
liberale a guida statunitense. Se un simile chiarimento avvenisse in tempi brevi, il
134 rischio di una guerra fredda sino-statunitense potrebbe essere scongiurato.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
TEATRI DI COMANDO
DELL’ESERCITO POPOLARE
DI LIBERAZIONE (EPL)
TEATRO
SETTENTRIONALE
RUSSIA
Mare
del Giappone
K A Z A K I S TA N
MONGOLIA
Pechino
TEATRO
SETTENTRIONALE
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Mar
Cinese Orientale
TEATRO
TEATRO OCCIDENTALE CENTRALE
TEATRO
CINA ORIENTALE
INDIA
TEATRO Taiwan
MERIDIONALE
QUARTIER GENERALI DELL’EPL
ESERCITO AVIAZIONE
MARINA SITI MISSILISTICI
FORZA DI SUPPORTO STRATEGICO
fornisce supporto alle altre branche centralizzando attività Mar
Golfo Cinese Meridionale
legate a spazio, sicurezza cibernetica,
del Bengala guerra elettronica.
I suoi quartier generali al momento non sono noti.
Fonte: U.S.-China Economic and Security Review Commission, 2017 Annual Report to Congress, novembre 2017.
Nessuno a Pechino si illude che Biden agisca da novello Nixon. Le ragioni della
rivalità Cina-America sono strutturali, il nuovo presidente punterà a coalizzare un
fronte anticinese in funzione di contenimento. Inoltre, il suo trasporto per i diritti
umani lo spingerà a battere di più sul tasto ideologico, il che in pratica signifca chia-
mare la Repubblica Popolare a rendere conto della repressione in Tibet, nel Xinjiang
e a Hong Kong. Se necessario, mediante il ricorso allo strumento sanzionatorio.
Anche la politica commerciale verso la Cina potrebbe rivelarsi dura come quella di
Trump, seppure con un uso meno pervasivo e indiscriminato delle sanzioni.
Ciò nonostante, l’aspettativa prevalente è che Biden si riveli un interlocutore più
razionale e sensato del suo predecessore, cioè meno incline agli attacchi personali e
a un uso «militare» del commercio. Anche perché le sue priorità immediate (lotta
all’epidemia e alla recessione economica) trarrebbero notevole vantaggio dal soste-
gno – o almeno dalla non belligeranza – cinese.
Se tregua sarà, tuttavia, sarà armata. Pechino farà di tutto per contrastare il fron-
te anticinese facendo leva sui propri legami economici con gli alleati dell’America. 135
XI ATTENDE UN CENNO DA BIDEN
4. Xi Jinping è senza dubbio ben disposto a collaborare con Joe Biden, in os-
sequio alle sue note e reiterate preferenze sul modo di trattare con gli Usa. È sba-
gliato ritenere che egli abbia gettato alle ortiche il basso proflo predicato da Deng
Xiaoping. L’unica differenza è che oggi il precetto si applica soprattutto (se non
unicamente) agli Stati Uniti, mentre in precedenza – quando la Cina non poteva
ancora permettersi una politica estera volitiva – era più generalizzato. Che evitare
lo scontro resti l’imperativo cinese nelle relazioni con Washington lo confermano i
numerosi appelli alla riconciliazione del ministro degli Esteri Wang Yi, malgrado i
continui attacchi retorici (e non solo) della Casa Bianca. Per la cronaca, Pechino ha
appoggiato la richiesta dell’ex segretario di Stato Mike Pompeo di poter attraversa-
re il territorio cinese durante la sua visita in Vietnam dell’ottobre 2020. La «diploma-
zia medica» della Cina è stata una risposta all’offensiva retorico-diplomatica di
Pompeo, ma nel complesso – e in fortunata assenza di scontri militari – Pechino ha
mantenuto un proflo moderato, considerati i toni americani. Per fortuna di Wang,
il suo ministero non dovrà più aver a che fare con Pompeo.
L’avvento di Biden potrebbe dunque fornire l’opportunità di smorzare le ten-
sioni sino-statunitensi, allentando la pressione strategica sulla Cina. Cosa è dispo-
sto a fare Xi per agevolare quest’auspicata svolta? Innanzitutto cooperare maggior-
mente nella lotta al coronavirus (e ad altre minacce sanitarie che dovessero pro-
flarsi), condividendo più informazioni sullo sviluppo del vaccino e delle terapie
farmacologiche contro il Covid-19 e assicurando un’adeguata fornitura di presidi
medici agli Usa. In quest’ottica, la proposta di Biden di riaprire la sede statuniten-
se del partenariato Ndc (Nationally Determined Contributions) a Pechino è stata
accolta con favore.
In secondo luogo, comprare una quota maggiore di beni americani. Xi appro-
vò il maggior acquisto mai effettuato dalla Cina di prodotti agricoli statunitensi
quando Trump, in piena campagna elettorale, doveva conquistarsi il favore (cru-
ciale) degli agricoltori. Più in generale, Pechino non si sottrarrà al confronto sui
sussidi statali e sulla proprietà intellettuale, spinta dal desiderio di limitare al mas-
136 simo il decoupling tecnologico.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
137
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
preserva uffcialmente il nome di Repubblica di Cina, retaggio della fuga dei nazio-
nalisti di Chiang Kai-shek a Formosa nel 1949. Ora il governo di Tsai Ing-wen
vuole vincolare l’identità taiwanese all’isola, fortifcare quest’ultima per impedire
l’invasione da parte di Pechino, tenerla saldamente sotto l’ombrello di sicurezza
americano e diversifcare i partner diplomatici ed economici. Il tutto preservando i
rapporti commerciali con la Cina continentale.
Il principio stipulato nel 1992 secondo cui Repubblica Popolare e Taiwan fan-
no parte di una «Cina unica» (yige Zhongguo) ha ormai solo valenza retorica. La
presidente Tsai, capo del Partito progressista democratico (Ppd), non lo ha mai
uffcialmente sostenuto e negli ultimi quattro anni gli Usa lo hanno aggirato pun-
tualmente. Malgrado ciò, Washington e Taipei non formalizzano l’indipendenza
dell’isola perché potrebbe provocare l’attacco della Repubblica Popolare.
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I dubbi taiwanesi
La rielezione di Tsai a presidente di Taiwan nel gennaio 2020 è stata frutto
del consistente ridimensionamento dell’autonomia di Hong Kong da parte di Pe-
chino, dell’epidemia di coronavirus e dell’aumento delle operazioni militari cinesi
attorno all’isola. La popolazione taiwanese si oppone alla riunifcazione con la
Cina continentale in base al principio «un paese, due sistemi», formalmente in vi-
gore nell’ex colonia britannica, perché comporterebbe la perdita delle libertà di
cui gode attualmente.
Negli ultimi due anni, queste dinamiche e il consolidamento dei rapporti con
gli Usa in chiave anti-Cina hanno spinto la popolazione taiwanese a sperare nella
rielezione di Trump. Secondo un sondaggio del britannico YouGov, lo scorso ot-
tobre il 42% degli abitanti dell’isola era favorevole al presidente in carica, 12 punti
percentuali in più di quelli pro Biden 2.
Lo scetticismo taiwanese nei confronti del nuovo inquilino della Casa Bianca
dipende da diversi fattori. Il primo è storico. Sull’isola ricordano che in passato i
presidenti appartenenti al Partito democratico americano si sono interessati poco
alla loro causa. Il secondo fattore è contingente. Alcuni analisti ritengono che nei
prossimi mesi la Casa Bianca si concentrerà sulla risoluzione dei problemi sociali
ed economici causati dall’epidemia di coronavirus e dalla crisi d’identità in corso
negli Stati Uniti. Ciò potrebbe spingere Washington a cercare un’intesa con Pechi-
no, favorendone indirettamente l’assertività nel Mar Cinese Meridionale 3.
Tuttavia, una ricerca condotta dall’Asia-Pacifc Elite Interchange Association
(think tank basato a Taipei) indica che ora oltre la metà degli intervistati sull’isola
ritiene che i rapporti con Washington resteranno invariati nonostante l’avvento del
2. M. SMITH, «Who do people in Asia-Pacifc want to win the US presidential election?», YouGov,
15/10/2020.
3. E. WHITE, K. HILLE, A. KAZMIN, R. HARDING, «Biden urged to avoid repeating Obama’s mistakes in Asia»,
Financial Times, 9/10/2020; M. YU, E. LIM, «U.S.-Taiwan relations might regress under Biden: expert»,
140 Focus Taiwan (Cna), 23/11/2020.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
HONG KONG
Isola Orchid
(Taiwan)
M a r C i n e s e M e r i d i o n a l e
Km.
0 100 200
141
Fonte: Annuario statistico della Repubblica Popolare Cinese e Annuario statistico di Taiwan, 2017
TAIWAN, GLI USA E LA STRATEGIA DEL PORCOSPINO
nuovo presidente 4. Della stessa opinione sono alcuni funzionari taiwanesi. Non
potrebbe essere altrimenti. Ormai la Casa Bianca e gli apparati considerano l’asce-
sa cinese una minaccia agli interessi nazionali americani sul piano economico,
tecnologico e militare. A ciò si aggiunga che nel cursus honorum di Biden, pron-
tamente scandagliato dai media taiwanesi, balza agli occhi il suo appoggio a favo-
re del Taiwan Relations Act del 1979, pilastro su cui oggi si basa la cooperazione
securitaria tra Washington e Taipei. Inoltre, Biden era vicepresidente quando l’am-
ministrazione Obama ha promosso il pivot to Asia, cioè la prima forma uffciale di
strategia di contenimento americana della Cina 5.
L’elezione di Biden è argomento di rifessione anche per il Kuomintang (Kmt),
impegnato a ripensare sé stesso e la sua strategia politica alla luce della cocente
sconftta elettorale dello scorso anno. Il partito d’opposizione resta flocinese, an-
che se non può ignorare l’evidente contrarietà degli abitanti alla riunifcazione. Lo Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
4. M. STRONG, «52% of Taiwanese believe US’ Taiwan policies will not change if Biden wins: Poll»,
Taiwan News, 7/11/2020.
5. «Baideng dui Taiwan taidu weihe? Guoqu zhongdian fayan biaotai yici kan» («Qual è l’atteggiamen-
142 to di Biden verso Taiwan? Uno sguardo ai suoi discorsi passati»), Cna.com.tw, 11/11/2020.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
vrebbe essere completato entro il 2025. Attualmente Taipei conta quattro imbarca-
zioni di questo tipo, di cui due made in Usa e due di fabbricazione olandese. Pechi-
no ha replicato agli accordi militari tra Washington e Taipei annunciando sanzioni
contro le compagnie americane coinvolte nell’affare, tra cui Boeing (produttrice
degli Harpoon), Lockheed Martin e Raytheon. In più, a ottobre mercantili cinesi
hanno navigato intorno all’arcipelago taiwanese di Matsu, prima di essere allontana-
ti dalla guardia costiera di Taipei. Tra le imbarcazioni vi erano anche delle draghe,
utilizzate da Pechino per raccogliere la sabbia dai fondali e creare i famigerati atolli
artifciali eretti nel Mar Cinese Meridionale. Se la Repubblica Popolare decidesse di
invadere Taiwan, inizierebbe probabilmente occupando i suoi isolotti minori che si
trovano a pochi chilometri dalle coste cinesi, a cominciare da Quemoy (Kinmen).
La crescente interazione militare tra Washington e Taipei ha alimentato la discus-
sione interna ai rispettivi circoli strategici sul possibile dispiegamento di un contin-
gente americano in loco. L’isola ne ha ospitato uno di circa 30 mila unità per venti-
cinque anni, a cominciare dal 1954. All’epoca lo scopo era duplice: scongiurare lo
sbarco dell’Epl e impedire ai nazionalisti di Chiang Kai-shek di lanciare un’invasione
sulla terraferma mentre gli Usa erano impegnati nella guerra di Corea. Nel 1979, l’a-
pertura delle relazioni diplomatiche sino-statunitensi ha comportato il completo ritiro
americano da Formosa. Da quel momento le rispettive Forze armate hanno interlo-
quito solo in maniera non uffciale, per non irritare la Repubblica Popolare.
Ora Taipei vuole lasciar intendere che non esclude di ospitare nuovamente un
avamposto statunitense. A ottobre, i media taiwanesi hanno diffuso una foto di un
consulente tecnico americano, comparso «inaspettatamente» durante una visita di
Tsai presso la base radar di Leshan 7. Il mese successivo l’ammiraglio Michael Stude-
man, direttore dell’intelligence militare nel Comando americano dell’Indo-Pacifco,
6. Cfr. W.S. MURRAY, «Revisiting Taiwan’s Defense Strategy», Naval War College, vol. 61, n. 3, 2008, pp.
13-38.
7. «Zongtong shi dao Leshan leida zhan meifang jishu renyuan yiwailu shenying» («La presidente visi-
ta la base radar di Leshan, un consulente tecnico americano compare inaspettatamente»), Cna,
13/10/2020. 143
TAIWAN, GLI USA E LA STRATEGIA DEL PORCOSPINO
ha visitato Taipei. Inoltre, soldati della Marina americana sono sbarcati sull’isola per
addestrare gli omologhi in attività di assalto e infltrazione anfbia presso la base na-
vale di Tsoying. Il portavoce del Pentagono e il ministero della Difesa nazionale tai-
wanese hanno rispettivamente affermato che la notizia «non era coerente con i fatti».
L’argomento è ancora delicato. La Repubblica Popolare potrebbe usarlo come
pretesto per intraprendere un’operazione militare mentre gli Usa non vogliono
esporre i loro soldati al fuoco delle basi dell’Epl situate nella vicina provincia cinese
del Fujian.
Tali incognite inducono Usa e Taiwan ad attendere, almeno fno a quando
non riterranno imminente l’intervento cinese. Diffcilmente ciò avverrà prima del
2022, anno in cui il Congresso nazionale del Partito comunista nominerà i nuovi
vertici della Repubblica Popolare e verosimilmente confermerà Xi Jinping come
suo leader. In questo arco di tempo così delicato per gli equilibri domestici, è im- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Grimaldello Taiwan
Gli Usa continueranno a considerare Taiwan essenziale grimaldello per scar-
dinare la Repubblica Popolare. Eppure non è escluso che in un primo momento
8. «2021 Nian dui tai gongzuo huiyi zaijing zhaokai, Wang Yang chuxi bing jianghua» («A Pechino si
è svolta la conferenza di lavoro del 2021 su Taiwan, Wang Yang ha pronunciato un discorso»), cppcc.
144 gov.cn, 19/1/2021.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
I 15 PAESI RCEP
MYANMAR
LAOS
THAILANDIA
CAMBOGIA
VIETNAM
GIAPPONE MALAYSIA
SINGAPORE
C I N A
BRUNEI
COREA DEL SUD
INDIA TAIWAN
Oceano Pacifico Pil 2018 in trilioni di dollari Usa
13,6 CINA
5,0 GIAPPONE Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
NUOVA
Paesi Rcep ZELANDA
(Regional Comprehensive
Economic Partnership)
Fonte: Rcep
Washington ridimensioni l’impiego di questo dossier nella sfera pubblica per dimo-
strare retoricamente l’intenzione di dialogare con Pechino. Nel frattempo, la Marina
americana continuerà a navigare nel Mar Cinese Meridionale e la Casa Bianca rilan-
cerà i rapporti con i paesi dell’Indo-Pacifco. Non solo con Giappone, Australia e
India nell’ambito del Dialogo quadrilaterale di sicurezza, ma anche con i membri
dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean). Lo scopo è indebolire
l’infuenza politica ed economica di Pechino sui paesi rivieraschi, di cui la maggior
parte già considera Washington partner principale nel campo della difesa.
Resta da vedere quale sarà il livello di coinvolgimento di Taiwan in questo
scenario. Il cosiddetto Summit delle democrazie potrebbe essere un primo test per
comprendere le intenzioni di Biden. Salvo posticipazioni, Washington organizzerà
l’evento quest’anno per chiamare a raccolta gli alleati in chiave anti-Cina sul piano
ideologico, militare ed economico. La partecipazione (o l’assenza) di Taipei sareb-
be un indizio sul grado di importanza dell’isola nell’agenda di politica estera ame-
ricana dei prossimi quattro anni. 145
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
SINGAPORE
TRA INCUDINE
E MARTELLO di Benjamin Tze Ern HO
La rivalità Usa-Cina insidia il caposaldo strategico della città Stato,
che dalla fondazione ha nell’equidistanza tra le due potenze
il presupposto della sua autonomia. La lezione di Lee Kuan Yew.
Il realismo come antidoto contro le minacce al ‘secolo asiatico’.
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in Australia era pari a 162 miliardi, quello in Giappone a 131 miliardi e quello in
Cina a 116 miliardi.
L’affnità di Singapore con l’America non è storicamente scontata. In passato
il padre della patria Lee Kuan Yew ebbe parole dure per gli Stati Uniti, percepiti
come più interessati all’Europa che all’Asia. Inoltre, nei primi anni Sessanta un biz-
zarro tentativo della Cia di far arrestare dal governo singaporiano una propria spia
in cambio di soldi alimentò lo scetticismo di Lee verso Washington. L’esordio della
dottrina Nixon dopo le elezioni del 1968 e il disgelo con Pechino del 1972 susci-
tarono allarme a Singapore, che temeva un ritiro statunitense dall’Asia e i relativi
contraccolpi, specie se la minaccia comunista non fosse stata arginata 2. Per fortuna
ciò non accadde e da allora la presenza americana in Asia ha contribuito enorme-
mente alla sicurezza della città Stato, nonché alla stabilità regionale. La reputazione
delle Forze armate singaporiane, considerate tra le meglio equipaggiate e adde- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
strate dell’Asia, è in parte dovuta alla stretta relazione con l’Esercito statunitense 3.
Nel 2005 i due paesi hanno siglato un accordo strategico quadro per cooperare
più assiduamente nel campo della sicurezza e della difesa, accordo che nel 2019 è
stato prorogato di altri 15 anni.
3. Conscia dei limiti insiti nelle sue esigue dimensioni, Singapore ha dunque
scelto saggiamente di esercitare la propria infuenza attraverso la mediazione, resa
possibile dalla reputazione di paese affdabile e imparziale quando si tratta di
coinvolgere Cina e Stati Uniti. Negli ultimi cinque anni questa linea ha pagato:
entrambi i paesi hanno infatti acconsentito a tenere vertici di alto livello a Singa-
pore, come l’incontro tra il leader nordcoreano Kim Jong-un e Donald Trump nel
giugno 2018 o quello tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo taiwanese
Ma Ying-jeou nel novembre 2015. Ciò attesta la fducia che Washington e Pechino
ripongono nella città Stato quale partner affdabile e neutrale – affdabile in quanto
neutrale – negli affari internazionali.
Un errore che spesso accomuna cinesi e americani è ritenere che negli ultimi
tempi Singapore si sia avvicinata alla Cina, mentre prima sarebbe stata infessi-
bilmente floamericana. Tale fraintendimento può essere ricondotto in parte alle
5. H.L. LEE, «The Endangered Asian Century: America, China and the Perils of Confrontation», Foreign
Affairs, vol. 99, n. 4, 2020, pp. 52-57. 149
SINGAPORE TRA INCUDINE E MARTELLO
storiche relazioni dell’isola con gli Stati Uniti, in parte al fatto che la popolazione
singaporiana, costituita soprattutto da individui di etnia han, sarebbe naturalmen-
te attratta dalla Cina per ragioni culturali. Sebbene a volte l’aneddotica sostenga
quest’ultima ipotesi (specie nel caso degli ambienti economici, che tendono a
esibire un’aperta simpatia per Pechino), in nessun modo la circostanza infuisce
sulla politica estera di Singapore. I leader del paese, specie quelli coinvolti nella
defnizione della politica estera, non mancano mai di rimarcare che la priorità è
tutelare l’interesse nazionale e massimizzare lo spazio di manovra in un mondo
dove la sopravvivenza di una realtà così piccola e vulnerabile non può darsi per
scontata 6. Per dirla con l’ex capo della diplomazia singaporiana Bilahari Kausikan,
«il mondo sopravvivrebbe egregiamente se Singapore cessasse di essere un paese
sovrano e indipendente. In fn dei conti, ci sopporta da appena cinquant’anni. Per
gli Stati piccoli, la rilevanza è qualcosa di non scontato. Divenire e restare rilevantiCopia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
lavorasse Huang, ma si sospetta che brigasse con Pechino per infuenzare l’opinio-
ne pubblica e la politica estera di Singapore.
Ciò non toglie che parte dell’élite singaporiana veda positivamente la Cina,
considerandola fonte di benefci. Tra i più loquaci in tal senso fgurano Kishore
Mahbubani – ex diplomatico che ha diretto la Lee Kuan Yew School of Public Po-
licy – e George Yeo, già ministro degli Esteri. Quest’ultimo si chiede: «È intenzione
dei cinesi dominare e conquistare come fecero in passato gli europei? Non credo.
Non penso vi sia alcun desiderio di colonizzare e sinizzare i non cinesi» 11. Mahbu-
bani vede invece nella cultura strategica cinese, che sconsiglia di combattere guer-
re superfue in luoghi remoti, un indizio del fatto che Pechino non si comporterà
da potenza aggressiva e belligerante.
transizione politica dal primo ministro Lee al suo successore, l’attuale vicepremier
Heng Swee Keat, che nel 2019 ha visitato la Repubblica Popolare in veste uffciale
per ben otto giorni. Pechino vuole comprendere in che misura è percepita favo-
revolmente da Heng e come ciò infuirà sulla formulazione della politica estera
singaporiana. Il fatto che quest’ultima sia di norma improntata al realismo implica
altresì che l’approccio dell’isola al grande vicino risulterà largamente prevedibile,
perché dettato dall’autopercepita vulnerabilità.
Infne c’è da aspettarsi che sebbene la Cina resti al centro della pianifcazio-
ne strategica di Singapore, sarà in ultima analisi l’interesse nazionale a guidare le
politiche dell’isola. Come osservato da uno studioso, «da quando nei tardi anni
Settanta predisse l’ascesa di Pechino, Lee Kuan Yew seppe che Singapore non
poteva permettersi di perdere il treno della crescita cinese» 13. Detto altrimenti: è
il tenace perseguimento dei propri interessi a lungo termine che orienta l’azione Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
della città Stato. Nella misura in cui Cina e America serviranno allo scopo, i leader
singaporiani vi si affderanno.
13. T.B. HOO, «Lee Kuan Yew’s China Wisdom», in Y.R. KASSIM, M. ALI (a cura di), Refections: The
152 Legacy of Lee Kuan Yew, Singapore 2016, World Scientifc, pp. 62-66.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
REP. CECA U C R A I N A
FRANCIA SLOVACCHIA Donbas
MOLDOVA
SVIZZERA AUSTRIA
UNGHERIA C a u c a s o Mar Caspio
SLOV. Sebastopoli
R O M A N I A NATO
CROAZIA
Scudo antimissile americano
Deveselu GEORGIA AZERBAIG.
BOSNIA- operativo da maggio 2016
Marnella
Nero
ERZ. SERBIA base ex sovietica Mar Nero ARMENIA
(operativa da dicembre 2015)
MONT.
KOS. B U LGA RIA
ITALIA M.D.N.
ALBANIA IRAN
T U R C H I A
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GRECIA
Mar Mediterraneo IRAQ
SIRIA
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
trattato Start che Donald Trump e la sua amministrazione non ritenevano affatto
necessario. È del tutto plausibile che questo accada, anche perché a Russia e Stati
Uniti non costerebbe praticamente nulla. Ma è chiaro a tutti che si tratta di una
mera proroga tecnica, che tale modello di trattati ha fatto il suo tempo e non sarà
riproposto in futuro. Pur ritenuto un fatto positivo, quindi, il rinnovo dello Start
non cambierà in alcun modo il quadro generale delle relazioni Russia-Usa, che
resteranno improntate all’ostilità e all’antagonismo.
2. Archiviato il vettore della questione nucleare, di fatto nulla resta per costrin-
gere le parti a perseguire l’interazione in modo attivo. Le possibili eccezioni riguar-
dano questioni tecniche e di valenza locale, come la necessità di evitare collisioni
in Siria o la cooperazione diplomatica sulla Corea del Nord. Saranno senz’altro
possibili eventuali contatti su vicende relative allo spazio post-sovietico, ma solo
per sondare le rispettive intenzioni e non per coordinare una posizione comune.
Quanto all’economia, non ha un ruolo sostanziale, e quel po’ che si muove tra
Russia e Stati Uniti lo fa di propria iniziativa, a prescindere dalle politiche statali.
Quanto alla dimensione ideologica, dopo le romantiche illusioni di una possibile
armonia liberale degli anni Novanta, ognuno ha preso da tempo la propria strada.
D’altronde, la dimensione ideologica può avere conseguenze molto negative
sulle relazioni russo-americane, che non hanno mai raggiunto livelli così bassi
come negli anni della presidenza Trump, ma non per l’ideologia. Trump non ha
mai nutrito alcun interesse per questioni come democrazia e diritti fondamentali e
il suo concetto di rivalità tra potenze è piuttosto tradizionale. Quantomeno a pa-
role, Biden agirà invece in netto contrasto con Trump, su tutta la linea: così nasce,
per esempio, l’idea del «summit delle democrazie» che il nuovo presidente statuni-
tense intende convocare entro l’anno.
L’idea non è nuova, forse neppure realizzabile. Nel caso si cerchi comunque
di concretizzarla, l’unico risultato prevedibile è un’ulteriore frammentazione del
quadro internazionale. Eppure, per un democratico alla Casa Bianca può essere un
progetto importante, quantomeno per ragioni di politica interna: si tratterà di dimo- 155
PER I RUSSI L’AMERICA È UN PAESE STRANIERO FRA TANTI ALTRI
157
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
E SE BIDEN
GIOCASSE LA CINA
CONTRO LA RUSSIA? di Andrej KORTUNOV
Nel triangolo strategico con Pechino e Mosca, la nuova
amministrazione dovrebbe proseguire il doppio contenimento.
Ma, rovesciando princìpi consolidati, non è escluso che tenti di
usare i cinesi in funzione antirussa. Così come gli europei.
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2. È il caso di considerare una buona notizia per le relazioni tra Usa e Russia
il fatto che al momento non siano state denunciate ingerenze sostanziali da parte
russa nella campagna elettorale americana - almeno non ne ha osservate l’Agenzia
federale che si occupa di cybersecurity e sicurezza infrastrutturale (Cisa). Questo
non signifca che la questione della nostra possibile ingerenza esca del tutto dall’a-
genda politica statunitense. Tuttavia, ci sono motivi per supporre che il suo signi-
fcato nel 2021 sarà minore di quanto fosse nel 2017 e negli anni successivi. Proba-
bilmente Mosca avrebbe giocato un ruolo maggiore – in negativo – se dalla torna-
ta elettorale fosse uscito vincitore Donald Trump. Allora i democratici, come nel
2016, avrebbero dovuto cercare qualche spiegazione per giustifcare la propria
sconftta e la Russia avrebbe potuto fungere da capro espiatorio. Dopotutto i de-
mocratici, a quanto è possibile giudicare, n’ont rien appris, ni rien oublié (non
hanno scordato né imparato nulla): continuano a considerare la presidenza Trump
come un’infelice aberrazione storica, un fenomeno determinato dalla coincidenza
di circostanze fortuite e in qualche modo uniche. Tra di esse l’ingerenza russa non
ha certo giocato un ruolo minimale.
Restano validi i vincoli interni che limitano il rapporto con la Russia. La vittoria
dei democratici nelle elezioni per il Congresso semplifca la situazione per la nuo-
va amministrazione su diversi dossier di politica estera: sanzioni contro Mosca,
programma di ammodernamento dei sistemi di armamenti strategici, possibile rien-
tro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano.
L’incidenza del potere legislativo sulle relazioni bilaterali con la Russia conti-
nuerà ad avere carattere principalmente negativo, soprattutto nel caso in cui queste
relazioni restassero una delle questioni di scontro con il Partito repubblicano. Ad
esempio, è improbabile che la Casa Bianca riesca a far passare al Senato qualun-
que nuovo accordo con la Russia in materia di armamenti nucleari: raccogliere i
voti di due terzi dei senatori necessari alla ratifca è praticamente impossibile. L’am-
ministrazione Biden sarà dunque costretta a cercare di accordarsi con Mosca su
alcune mosse parallele che non richiedano la frma di documenti giuridicamente
vincolanti. Tra queste una moratoria sullo spiegamento dei missili a medio e corto 161
E SE BIDEN GIOCASSE LA CINA CONTRO LA RUSSIA?
raggio in Europa che includa in particolare i missili russi 9M729, oggetto di profon-
da preoccupazione a Washington.
L’amministrazione Biden sarà soggetta alla forte pressione della frangia progres-
sista del Partito democratico, che chiede una netta redistribuzione delle risorse fnan-
ziarie a favore di programmi sociali destinati agli strati più vulnerabili della società
americana. L’inevitabile taglio del budget del Pentagono, sulla spinta dei sostenitori
di Bernie Sanders, potrà stimolare Biden a preservare gli attuali accordi con la Russia
e a stringerne di nuovi in materia di armamenti strategici. In assenza di intese, Biden
dovrà comunque procedere all’autolimitazione dell’arsenale statunitense.
Infne, per quanto riguarda le contrapposizioni geopolitiche tra Usa e Russia,
è importante considerare che la società americana, ormai da qualche anno, è deci-
samente contraria a interventi militari su larga scala all’estero. Le lezioni impartite
dall’Iraq e dall’Afghanistan hanno inciso sull’opinione pubblica statunitense. La
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maggioranza degli americani ritiene che la scelta di Donald Trump di evitare nuo-
vi interventi armati sia stata corretta e ponderata. Per questo motivo Joe Biden
vorrà continuare il lavoro del suo predecessore, limitando di fatto il più possibile
la presenza americana nei diversi scenari di guerra globali.
3. Per Donald Trump, «Russia» e «Vladimir Putin» sono sempre stati pressoché
sinonimi. L’ex presidente statunitense non ha mai smesso di considerare il leader
russo una fgura forte, esperta, fattiva, capace di difendere con coerenza e succes-
so gli interessi nazionali del proprio paese. Di conseguenza, Trump ha sempre
evitato qualunque critica al sistema politico e socioeconomico russo. Anzi, non è
escluso che in fondo invidiasse l’autorevolezza di cui gode il collega del Cremlino.
Viceversa, Joe Biden considera Vladimir Putin il primo responsabile del generale e
duraturo tracollo della Russia, come Stato e come società. A lui imputa i problemi
cronici del paese, quali la mancata diversifcazione dell’economia, ancora dipen-
dente dall’andamento del mercato petrolifero mondiale, ma anche la crescente
disuguaglianza economica nella società, il calo demografco o ancora la «fuga dei
cervelli». Agli occhi del nuovo inquilino della Casa Bianca, il sistema russo – basa-
to su cleptocrazia, autoritarismo verticale del potere e varie altre caratteristiche
dell’attuale leadership – è divenuto il principale ostacolo alla modernizzazione
della società e dell’economia del paese, bloccandone la competitività e la reale
infuenza negli affari internazionali. Dunque, per Biden gli Stati Uniti non si con-
trappongono automaticamente alla Russia: al contrario, Washington non fa che
sostenere la società russa quando critica il Cremlino e cerca di rispondere alle varie
manifestazioni di «aggressività russa» nel mondo.
Il principale cambiamento che potremo osservare nel modo in cui gli Stati
Uniti di Joe Biden si relazioneranno alla Russia sarà quindi di natura retorica. Ben-
ché il nuovo presidente si presenti come fgura diplomatica, i suoi commenti su
Vladimir Putin e il suo sistema politico saranno probabilmente sempre a rischio di
«cartellino rosso». Biden indubbiamente vorrà denunciare con risolutezza e coeren-
162 za le azioni del Cremlino in materia di diritti umani, libertà politiche e restrizioni
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
alla società civile. Non si può escludere che aumentino signifcativamente i fnan-
ziamenti agli organi statunitensi (inclusa Voice of America e reti affni) che si occu-
pano di gestire la guerra dell’informazione con la Russia. Alcuni esperti ritengono
che in risposta alla «minaccia statunitense» la propaganda russa si farà più forte,
così come potranno inasprirsi le misure legislative e le pratiche delle strutture rus-
se in merito ai cosiddetti «agenti stranieri» e alle «organizzazioni indesiderate».
È anche presumibile che l’amministrazione Biden vorrà offrire maggiore sup-
porto alle repubbliche ex sovietiche che si contrappongono oggi all’infuenza di
Mosca – in primo luogo l’Ucraina, ma anche la Georgia e la Moldova. Ciò si tra-
durrà forse nell’ampliamento della cooperazione tecnico-militare e nella crescente
pressione perché questi paesi collaborino più strettamente con la Nato. Tutto ciò
non potrà che avere conseguenze negative per i rapporti tra Washington e Mosca.
È diffcile tuttavia supporre che l’amministrazione Biden intenda rispolverare l’i-Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
strumento, che per molti versi ha ormai sostituito i mezzi tradizionali della diplo-
mazia, verrà utilizzato mantenendo gli approcci di Barack Obama e Donald Trump.
Joe Biden, dopotutto, è stato uno degli assertori e dei principali ideatori delle san-
zioni contro la Russia dopo gli eventi del 2014 in Ucraina. Dato il volume occupa-
to nel dibattito interno dal ruolo specifco delle sanzioni nella futura politica
dell’amministrazione Biden, si può ben supporre che a Washington negli ultimi
anni si sia solidifcato un netto algoritmo inerente allo sviluppo della strategia san-
zionatoria, che non subirà sostanziali modifche negli anni a venire. Le sanzioni
saranno annunciate con l’idea di «punire» la Russia per comportamenti non apprez-
zati da Washington (e non con l’obiettivo di infuenzare concretamente la politica
russa sul piano interno ed estero). La loro effcacia si valuterà in base alla deterren-
za di ulteriori comportamenti russi ancor meno desiderabili dal punto di vista sta-
tunitense (e non in base alle modifche concrete apportate dalla Russia al proprio
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5. Per quanto riguarda il controllo degli armamenti, per Mosca Biden potrà
rivelarsi un partner più costruttivo e razionale rispetto a Trump. Il neoeletto presi-
dente non ha mai spalleggiato la dissennatezza del suo predecessore in materia. È
quindi possibile che cerchi di salvare il trattato New Start, rinnovandolo di altri
cinque anni (o, eventualmente, per un periodo più breve) senza grosse modifche,
così come vorrà forse preservare di fatto alcune disposizioni del trattato Inf ineren-
ti alle armi nucleari a medio raggio (ad esempio, il divieto – concordato bilateral-
mente con Mosca – di predisporre testate nucleari sui missili a corto e medio rag-
gio). A differenza di Donald Trump, Biden non è mai stato un sostenitore entusia-
sta del progresso tecnico-militare e non ritiene che il suo paese sia destinato a
vincere in una corsa incontrollata agli armamenti contro qualsivoglia avversario.
C’è dunque da aspettarsi che il nuovo presidente degli Stati Uniti ritiri alcune delle
delibere varate dall’amministrazione precedente, tra cui il piano di fabbricazione di
nuovi missili da crociera antinave dotati di testata nucleare e la produzione di nuo-
ve testate con una carica di piccola potenza che sotto Trump avevano iniziato a
essere allestite sui missili balistici dei sommergibili Trident II.
Naturalmente, le prossime mosse della Casa Bianca dipenderanno anche (e
non in minima parte) dalle eventuali strategie attuate dalla Russia e dalle previsioni
degli esperti in merito alle dimensioni e alle priorità del settore militare cinese.
Fuori dal contesto del trattato New Start, è diffcile congetturare se ci saranno ulte-
riori restrizioni concordate bilateralmente da Putin e Biden circa i rispettivi arsena-
li atomici. Il presidente americano si troverà a corto di risorse fnanziarie e sarà
portato a decretare una diminuzione del numero di testate nucleari a disposizione
del Pentagono (fno a mille unità totali), d’accordo con Mosca o unilateralmente.
Alcuni esperti statunitensi suggeriscono addirittura il totale azzeramento dei missili
balistici intercontinentali. L’amministrazione non arriverà probabilmente a tanto,
ma una netta diminuzione delle attuali 400 unità è del tutto possibile. In ogni caso,
è diffcile che ciò avvenga entro la cornice di un nuovo trattato bilaterale con la
Russia. Le due parti, infatti, esprimono posizioni visceralmente antitetiche che non 165
E SE BIDEN GIOCASSE LA CINA CONTRO LA RUSSIA?
allestito da Donald Trump: nell’estate 2020 per la prima volta in sette anni delega-
zioni di Usa e Russia si sono incontrate per dialogare su temi inerenti allo spazio e
ai suoi rischi nel presente e nel futuro, nonché sulle dottrine politiche e strategiche
in materia. Le parti si sono dette pronte a proseguire il dialogo. Ma nel prossimo
futuro non c’è da aspettarsi alcun accordo pratico che limiti il riarmo tecnologico.
Nella migliore delle ipotesi la nuova amministrazione sarà capace di inaugurare un
lavoro profcuo per le successive.
all’acquisto dei sistemi antimissilistici russi S-400. Tutto ciò avrà l’effetto di creare
un vuoto di potere regionale che potrà ingolosire Mosca.
È verosimile che si rafforzi nel frattempo la pressione sugli alleati e i partner
della Russia in America Latina (Venezuela, Cuba, Nicaragua). Gli Stati Uniti cerche-
ranno infatti di creare ampie coalizioni con i propri alleati tradizionali nel continen-
te al fne di marginalizzare il più possibile i regimi antiamericani. Alcuni esperti
prevedono che l’amministrazione Biden proverà però a perseguire la linea di Oba-
ma nel ripristino del dialogo con L’Avana, in particolare nel contesto delle riforme
economiche pianifcate a Cuba. In ogni caso, saranno le dinamiche interne a ogni
Stato a determinare anche il sistema di contrappesi tra fondamento ideologico e
rifessione pragmatica. La costante certa è che la presenza della Russia in America
Latina sarà invariabilmente percepita dalla Casa Bianca come parte del problema e
non della soluzione. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
sidenza del Consiglio Artico. Sia Mosca sia Washington sono dell’avviso di tenere
l’Artide al di fuori della competizione geopolitica: sebbene tali intenzioni siano del
tutto concretizzabili, non si può escludere il contrario. Alcune voci vicine a Biden
sostengono che con la ratifca da parte degli Stati Uniti della Convenzione Onu sul
diritto del mare, Washington avrà ancora più interesse a collaborare con Mosca
sulle questioni artiche.
Come un tempo, gli Stati Uniti restano interessati a cooperare con la Russia in
ambito spaziale. Tuttavia, man mano che negli Usa si sviluppano nuove tecnologie
(inclusi mezzi di ultima generazione destinati al trasporto di merci attorno all’orbita
terrestre), il peso della Russia agli occhi di Washington diminuirà inevitabilmente. La
ricerca di nuovi ambiti di cooperazione dipenderà in maniera diretta dalla capacità
russa di migliorare sensibilmente l’effcacia dei suoi programmi spaziali.
Stando al parere di alcuni esperti, il contrasto al terrorismo internazionale potrà
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rivelarsi un ambito di fruttuosa cooperazione tra Russia e Stati Uniti. Resta tuttavia
da capire come le due parti ripristineranno anche solo quel livello minimo di fducia
necessario a garantire un’interazione profcua. Giocheranno probabilmente un ruo-
lo in questo senso le dinamiche concrete del terrorismo internazionale, ovvero
quanto gli Stati Uniti – oggi in una posizione migliore rispetto ai loro alleati europei
– si ritroveranno oggetto di attività terroristiche e quale volume acquisiranno questi
atti terroristici contro cittadini americani e/o sul territorio statunitense.
7. La politica estera russa dipenderà a sua volta dalle possibili modifche nelle
relazioni transatlantiche. Di certo con Biden non si annulleranno le differenze di
vedute con i partner europei sui piani politico, economico e strategico. L’Unione
Europea non smetterà di perseguire la propria autonomia strategica, sebbene non
si veda ancora unanimità di pensiero su come attuare questo obiettivo specifco. Il
presidente Usa, che vanta una lunga esperienza in politica estera e una grande
capacità nel raggiungere compromessi con i propri interlocutori, continuerà a pun-
tare con risolutezza sul completo ripristino della collaborazione transatlantica. Non
solo la sua amministrazione cambierà i toni nei confronti di Bruxelles, ma dimo-
strerà anche più fessibilità nei negoziati commerciali transatlantici e ascolterà l’o-
pinione dei partner europei sulle questioni cruciali in ambito regionale e globale.
L’elezione di Biden alla Casa Bianca sgonferà anche la spinta europea per la
normalizzazione dei rapporti con Mosca. Il presidente confderà nell’antagonismo
con la Russia come nuovo collante tra Usa e alleati europei. Se con Trump, aper-
tamente euroscettico, la fnestra europea su Mosca restava sempre aperta, con Bi-
den essa si trasformerà in uno stretto spioncino. Ciò limiterà molto lo spazio di
manovra russo in Europa. Ma non si può tuttavia stabilire che l’ascesa di Biden e
un maggiore dialogo transatlantico non porteranno nulla di buono a Mosca: è pos-
sibile che il ripristino delle relazioni con gli europei si riveli un naturale strumento
di deterrenza nei confronti di nuovi impulsi aggressivi statunitensi. Inoltre, Biden
ci andrà forse più cauto nel varare sanzioni contro le aziende europee impegnate
nel progetto Nord Stream 2 (pur non rinunciando a interdirlo in qualche modo). 169
E SE BIDEN GIOCASSE LA CINA CONTRO LA RUSSIA?
Non si può però sottovalutare il fatto che, alla luce del costante peggioramento
delle relazioni con Mosca, i leader europei sosterranno più veementemente le san-
zioni americane contro la Russia. Esperti vicini alla leadership tedesca, ad esempio,
propongono di congelare il progetto Nord Stream 2 e concentrarsi piuttosto sul
completo e rapido ripristino dell’unità transatlantica, obiettivo che si accoppia al
visibile peggioramento delle relazioni bilaterali russo-tedesche e russo-francesi evi-
denziatosi nella seconda metà del 2020.
Con l’elezione di Biden non è però nemmeno escluso che si aprano alcune
fnestre di dialogo tra Russia e Nato. Su sollecitazione statunitense sarebbe possibi-
le superare la caparbia resistenza dei russofobi europei (in primo luogo Polonia e
repubbliche baltiche), contrari alla ripresa dei rapporti militari all’interno della cor-
nice del Consiglio Russia-Nato. Ci sono infatti alcuni settori in cui la cooperazione
potrebbe risultare profcua: il contrasto al terrorismo internazionale, la cybersecu-
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Biden può allora presentarsi nel ruolo di anti-Kissinger, optando per una di-
stensione con la più potente e potenzialmente più pericolosa Pechino e concen-
trarsi così sulla lotta contro la più debole Mosca. Il capovolgimento dello schema
strategico di Kissinger troverebbe senza alcun dubbio molti sostenitori e seguaci
nell’establishment politico di Washington, che per buona parte continua a ritenere
la Russia un nemico assai più adatto della Cina. Dopotutto, se gli Stati Uniti voles-
sero impegnarsi seriamente in un confitto su larga scala con Pechino sarebbero
costretti a pagare un conto salatissimo. Ne sarebbero colpiti scambi commerciali
bilaterali cruciali per l’America, la catena tecnologica globale verrebbe recisa e si
dovrebbero aumentare in maniera repentina le spese militari. Uno scontro aperto
con la Russia avrebbe conseguenze molto minori, considerato non solo il basso
livello di interdipendenza economica e tecnologica tra i due Stati, ma anche la
minore preparazione di Mosca alla dispendiosa competizione militare con gli Usa.
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ture tattiche nei confronti delle due parti. Per assottigliare i costi di una simile po-
litica Washington intraprenderà sforzi energici per legare a sé alleati e partner in
Europa e Asia orientale. L’amministrazione Biden cercherà anche di mantenere
vive le divisioni nel continente eurasiatico, rinforzando le proprie relazioni con i
rivali della Cina in Asia, in primo luogo con l’India. Questa politica potrà mettere a
serio repentaglio il partenariato strategico tra Mosca e Delhi, così come la coope-
razione della Russia con altri partner cruciali nella regione dell’Indo-Pacifco.
172
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
FEDERAZIONE RUSSA
Avversario e interlocutore
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Isole Curili
Rivendicate dal Giappone
COREA GIAPPONE
DEL NORD
Nemico Tōkyō:
giurato quartiere di Kasumigaseki
sede dei ministeri degli Esteri
e delle Finanze
e dell’intelligence nazionale
quartiere di Ichigaya
COREA DEL SUD sede del ministero della Difesa
Alleato teorico
e nemico reale
CINA
Nemico giurato Recupero di Taiwan
all’infuenza giapponese
TAIWAN
MYANMAR FILIPPINE
THAILANDIA VIETNAM
M A L A Y S I A
I N D O N E S I A
Paesi che ricevono aiuti
174 fnanziari dal Giappone
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
2. Se la Corea del Nord è una minaccia immediata, a lungo termine la sfda per
il Giappone (e per molti Stati indopacifci) è il riemergere della potenza regionale
cinese. Oltre all’aggressività nel Mar Cinese Orientale, in quello Meridionale e
sull’Himalaya, T§ky§ guarda con preoccupazione all’infuenza politica e alla coer-
cizione economica esercitate da Pechino per allontanare da Washington alleati e
amici. Così il Giappone legge la Bri, o nuove vie della seta: un tentativo cinese di
creare relazioni di dipendenza economica. Il paese del Sol Levante sa di rientrare
in questo calcolo, perché la sua popolazione in calo e la conseguente caduta dei
consumi interni lo spingono a fare affdamento sul mercato cinese per trainare
l’economia e fnanziare un generoso ma insostenibile welfare. Per la Cina, insom-
ma, la deferenza giapponese è guidata dal determinismo economico.
Al tentativo di rimodellare il panorama geoeconomico regionale è connesso lo
sforzo cinese volto a dominare tecnologie come l’intelligenza artifciale e il 5G. Le
aziende nipponiche sono presenti in Cina da anni con sostanziosi investimenti, ma
la possibilità che Pechino adotti infrastrutture digitali chiuse e dominate dal partito-
Stato solleva forti timori sulla sostenibilità del corso attuale. Ad acuire i sospetti
sono intervenute le leggi cinesi sulla sicurezza nazionale e su quella informatica,
rispettivamente nel 2015 e nel 2016. L’articolo 11 della prima afferma che «tutti i
cittadini della Repubblica Popolare Cinese, le autorità statali, le Forze armate, i
partiti politici, i gruppi popolari, le imprese, le istituzioni pubbliche e le altre orga-
nizzazioni sociali hanno la responsabilità e l’obbligo di mantenere la sicurezza
nazionale». L’articolo 28 della legge sulla sicurezza informatica afferma invece che
«gli operatori di rete devono fornire supporto tecnico e assistenza agli organi di
pubblica sicurezza e agli organi di sicurezza nazionale che salvaguardano la sicu-
rezza nazionale e indagano su attività criminali in conformità con la legge».
Le agenzie di sicurezza cinesi possono dunque esercitare (di fatto esercitano)
un’immensa autorità sulle aziende nazionali, statali e private. Anche perché la vaga
formulazione dei suddetti articoli rende diffcile discernere le questioni di sicurezza
nazionale, il che schiude le porte all’arbitrio governativo. Da qui la conclusione 175
IN GUERRA COL SORRISO: COSÌ TOˉKYOˉ SOGNA L’AMERICA
delle aziende giapponesi che tutte le imprese cinesi, inclusa Huawei, obbediscono
agli ordini del partito. Una situazione in netto contrasto con quanto accade negli
Stati Uniti, dove Apple si è rifutata di assistere l’Fbi per sbloccare l’iPhone usato da
un attentatore di San Bernardino.
Un ulteriore problema è che le fotte mercantili cinesi operanti nel Mar Cinese
Orientale sfdano spesso le rivendicazioni di sovranità giapponesi, navigando den-
tro e fuori le acque intorno alle Senkaku. Nel Mar Cinese Meridionale, invece, le
isole artifciali militarizzate costruite dalla Cina offrono a quest’ultima una piattafor-
ma per espandere la propria infuenza regionale, dominandone le cruciali rotte
marittime per cui passano (tra gli altri) i fussi energetici e commerciali del Giappo-
ne. Per T§ky§ è una crudele nemesi geopolitica, dato che la sua espansione impe-
riale nel primo Novecento rispondeva alla necessità di dominare le medesime rotte.
Il paese del Sol Levante, dunque, comprende appieno la necessità di controllare
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
(Rivendicazione
giapponese delle
Curili meridionali)
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Tōkyō
Il Giappone perde
tutti i diritti su Corea,
Taiwan e Isole
Pescadores Diaoyu
Tpp) o, meglio, che riesumi l’accordo iniziale stipulato da Obama lasciando spazio
a un’applicazione incrementale di alcune sue parti. Se ciò non fosse possibile, il
Giappone sarebbe forse disposto ad accrescere le relazioni commerciali bilaterali.
I politici giapponesi gradirebbero altresì frequenti visite a T§ky§ di Biden e dei
suoi funzionari, ma anche un maggior numero di vertici regionali. Che il presidente
o un alto funzionario degli Stati Uniti disertino tali incontri, infatti, è considerato se-
gno di disinteresse. Al riguardo, la nomina di Kurt Campbell a coordinatore degli
affari indopacifci è rilevante. Il ruolo svolto nella formulazione del pivot to Asia, la
conoscenza approfondita dei dossier regionali e la buona reputazione di Campbell
mostrano che Biden pone l’Indo-Pacifco al centro della sua politica estera. Anche la
nomina di Antony Blinken a segretario di Stato e di Lauren Rosenberg (già respon-
sabile del desk Cina e Corea al Consiglio di sicurezza nazionale sotto Obama ed ex
capo gabinetto di Blinken) a sua vice veicolano il messaggio che Biden darà priorità
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’alleanza Stati Uniti-Corea del Sud è peraltro sbilanciata verso i primi, come
qualsiasi sodalizio tra un protettore e un protetto. Ciò è da sempre motivo d’in-
certezza per la Corea, le cui autorità tuttavia glissano sistematicamente sulla
questione e ostentano calma. Ma la preoccupazione emerge ciclicamente, ogni
qualvolta Corea del Sud e America devono collaborare su questioni che le vedo-
no in disaccordo.
Durante il mandato di Trump si è assistito a un progressivo declino della fdu-
cia riposta dai coreani negli Stati Uniti. Il Pew Research Center ha rilevato che fno
al 2019 l’80% dei sudcoreani si fdava degli Usa, mentre nel 2020 tale quota era
scesa al 59%. Parallelamente, mentre la fducia in Obama aveva toccato l’80% di
Trump si fdava al massimo il 46% dei coreani. A deluderli è stato, tra l’altro, il
mancato miglioramento delle relazioni tra Corea del Nord e Usa e l’assenza di pro-
gressi sul fronte della denuclearizzazione dopo l’incontro di Trump e Kim jong-un
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
a Panmunjeom nel giugno 2019. Di contro, Trump aveva chiesto a Seoul di sob-
barcarsi esose spese militari, pena il minacciato ritiro delle truppe americane dalla
Penisola. Così facendo ha negato il minimo sindacale previsto dall’Alleanza, a co-
minciare dall’etichetta. Nell’immaginario dei coreani l’America è dunque passata
dal ruolo di protettrice a quello di estorsore e ciò rischia di portare alla ribalta le
differenze di visione strategica tra i due paesi: uno scenario inedito, che potrebbe
innescare dinamiche incontrollabili.
Emergerà in particolare la serpeggiante insoddisfazione reciproca per quest’al-
leanza asimmetrica, che potrebbe spingere entrambi i paesi a rinnegare il proprio
ruolo in essa. Se infatti è la Corea quella che più ha da perdere, non va dimentica-
to che l’orgoglio del suo popolo è aumentato di pari passo con la rapida crescita
economica. Si tratta di un sentimento che alberga nella pancia del paese e che è in
parte sordo agli imperativi geostrategici. Se i coreani accettano ancora di buon
grado la tutela americana è perché serbano memoria del provvidenziale aiuto rice-
vuto settant’anni fa, quando erano in una situazione disperata. Ma se Washington
perseverasse nel disprezzo, la richiesta degli ambienti nazionalistici di affrancarsi
dallo status di semiprotettorato si intensifcherebbe.
L’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso ha poi compromesso ulteriormen-
te la fducia negli Usa. Che un presidente americano sconftto per via elettorale
istighi i suoi a invadere il parlamento ha lasciato i coreani increduli, delusi e pre-
occupati. Ancora non è chiaro se questi eventi produrranno conseguenze concrete.
Negli ultimi quattro anni i coreani hanno fatto il callo alle anomalie del sistema
democratico americano, pertanto se la nuova amministrazione riuscisse a ripristina-
re una sorta di normalità è possibile che in Corea – negli ambienti governativi e fra
la popolazione – gli eventi di Washington siano derubricati a incidente isolato, per
quanto sconcertante. Resta che i circoli antiamericani (minoritari, ma agguerriti)
sudcoreani hanno approfttato dell’assalto per gettare fango sugli Stati Uniti, il che
rischia di spingere l’amministrazione Biden a considerare il governo di Moon Jae-in
come ostile, persino flo-nordcoreano, con gravi ripercussioni sulle relazioni tra
180 Washington e Seoul.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
P’ohang
COREA DEL SUD
M ar G i al l o
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Impianti nucleari St
Aeroporti
Dighe strategiche
Ferrovie ad alta velocità Cheju City
CHEJU
Città a statuto autonomo G I A P P ONE
2. Alla base dei ricatti di Trump alla Corea del Sud che hanno messo in seria
diffcoltà la relazione bilaterale vi è la politica anticinese. La pretesa che Seoul si
allineasse acriticamente a Washington nello scontro con Pechino ha creato non
pochi grattacapi. Particolarmente destabilizzanti sono state le sanzioni a Huawei,
dal momento che parte delle aziende coreane si avvale del 5G cinese. Un ulteriore
problema è sorto con la richiesta di partecipare all’alleanza indopacifca (Quad)
insieme a Giappone, Australia e India. L’amministrazione Trump intendeva esten-
dere tale alleanza a Corea del Sud, Filippine e Vietnam (il cosiddetto Quad+), ma
la Corea non vi ha aderito stante la palese fnalità di contenimento della Cina.
Partecipare avrebbe compromesso defnitivamente le relazioni con Pechino.
Non è chiaro se Biden continuerà su questa linea. Certò è che appare inten-
zionato a premere sulla Repubblica Popolare, dunque non si può escludere che
adoperi le strategie del suo predecessore, senza rinnegarle (del tutto). Una prospet-
tiva assai indesiderabile ma concreta per il governo sudcoreano, che dovrà conti-
nuare a barcamenarsi tra Washington e Pechino. 181
TRA WASHINGTON E SEOUL NON METTERE IL GIAPPONE
processo è in stallo. Il disaccordo affonda nel passato: nel 1904 il Giappone privò
la Penisola coreana di qualsiasi autonomia diplomatica, trasformandola di fatto in
una colonia; dopo averla annessa formalmente, nel 1910 ne cancellò qualsiasi sog-
gettività, ripristinata solo nel 1945. La Corea nutre pertanto una profonda ostilità
verso il suo vicino; alcune dichiarazioni offensive sul periodo coloniale e la man-
cata restituzione di territori al tempo occupati hanno ulteriormente esasperato il
clima, riaprendo antiche ferite nell’orgoglio nazionale coreano e impedendo di
normalizzare i rapporti.
Gli Usa propugnano invece una riappacifcazione per unire i due paesi nello
sforzo di contenimento della Cina. In questa direzione andavano gli accordi siglati
da Obama, che pur indisponendo i molti coreani tuttora ostili al Giappone, furono
siglati dall’allora premier Park Geun-hye. Trump ha messo da parte l’approccio
trilaterale, preoccupandosi soprattutto di incrementare le spese militari in capo a
Seoul. Con Biden è prevedibile il ritorno a una politica di cooperazione fra i tre
paesi in funzione anticinese; politica che sconta però l’avversione dell’opinione
pubblica sudcoreana, la quale opporrà una signifcativa resistenza al miglioramen-
to delle relazioni con il Giappone. Sul punto il sentire popolare è in linea con l’o-
rientamento del governo Moon, che dunque non accondiscenderà facilmente alle
politiche americane.
Anche le diverse posizioni in merito alla questione nordcoreana potrebbero
complicare il rapporto tra Moon e Biden. Negli ultimi quattro anni il governo
sudcoreano ha sostenuto fortemente gli incontri tra Donald Trump e Kim Jong-
un. Quest’ultimo ha accolto con favore la proposta di Seoul e nel giugno 2018 si
è tenuto a Singapore il primo vertice tra Corea del Nord e Stati Uniti. Il secondo
si è svolto nel febbraio 2019 a Hanoi, in Vietnam, ed è stato seguito da un incon-
tro a sorpresa nel giugno di quell’anno a Panmunjeom, sul confne tra le due
Coree.
All’attivismo diplomatico non è tuttavia corrisposto un miglioramento tangibile
sul fronte della smilitarizzazione, sebbene durante i negoziati la Corea del Nord
182 avesse abbozzato un piano di denuclearizzazione e l’America avesse valutato un
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
alleggerimento delle sanzioni. Anche per questo, Biden ritiene che gli incontri non
abbiano sortito effetto alcuno: una valutazione opposta a quella di Moon, che vi
vede piccoli ma importanti passi avanti nel negoziato con il Nord.
Come se non bastasse, negli ambienti diplomatici e militari statunitensi – non-
ché tra i principali consiglieri di Biden – è diffusa la convinzione che molti espo-
nenti del gabinetto Moon nutrano spiccate tendenze antiamericane. Tale visione è
frutto di un malinteso: tra i sostenitori di Moon fgurano politici che in gioventù
hanno militato contro l’America, ma si tratta di poche eccezioni, non rappresenta-
tive dell’attuale politica di Seoul. Il premier sudcoreano sconta lo scarso impegno
sin qui profuso nel rettifcare tale percezione, che dunque continua a infciare la
visione americana del suo governo.
3. Il fatto che Moon e Biden affronteranno degli ostacoli non vuol dire che il
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
fallimento sia inevitabile. La questione delle spese militari appare quella di più fa-
cile soluzione: gli stessi consiglieri di Biden ritengono che aver chiesto a Seoul di
incrementare bruscamente il suo contributo sia stato un errore. Il ripristino del
dialogo con il Nord è invece questione assai più delicata. Moon auspica che Biden
rispetti la dichiarazione congiunta di Singapore, ma è improbabile che la nuova
amministrazione americana ne accetti in toto i contenuti. Anzi, sarà già tanto se non
li rigetterà in blocco. Più che avanzare richieste al riguardo, Moon dovrà concen-
trarsi sul ripristino di uno schema stabile di cooperazione con l’America.
La variabile cinese è la più delicata e diffcile da gestire. Non si tratta però di
una questione che riguardi solo la Corea, il che può essere un bene per Seoul.
Quello che desidera Biden è contenere la Cina con il concorso degli alleati, cioè
creando un legame solidale tra Giappone, Australia, India, Filippine, Singapore,
Vietnam e altri paesi dell’Asean. Ma ognuno di questi vede Pechino in una prospet-
tiva diversa, quindi gli Stati Uniti dovranno muoversi con cautela, senza stravolge-
re completamente l’odierno assetto regionale. Se la guerra commerciale continue-
rà, non è pertanto detto che la Corea del Sud debba schierarsi in maniera netta. Le
controversie tra Cina e America potrebbero nuocere alle relazioni tra questa e la
Repubblica di Corea, ma ciò non è inevitabile.
Anche i potenziali attriti connessi ai diffcili rapporti con il Giappone potreb-
bero stemperarsi. Le Olimpiadi di luglio nel Sol Levante rappresentano un’occasio-
ne per imprimere slancio alla cooperazione tra i due paesi. Il successo dei Giochi
è un obiettivo primario per T§ky§ e la partecipazione della Corea del Nord potreb-
be favorire una distensione, contribuendo al trionfo dell’evento. Al contrario, se le
relazioni tra P’y$ngyang e Giappone peggiorassero ulteriormente o se il Nord ef-
fettuasse esperimenti nucleari e test balistici l’evento sportivo potrebbe risultarne
compromesso. Ma il paese che più di tutti può contribuire al coinvolgimento del
regime nordcoreano è la Corea del Sud: se riuscisse a sfruttare la partecipazione
del Nord per riannodare il dialogo con esso otterrebbe un enorme risultato sul
piano diplomatico, che con ogni probabilità si rifetterebbe positivamente sulle
relazioni Seoul-T§ky§. 183
TRA WASHINGTON E SEOUL NON METTERE IL GIAPPONE
L’approccio alla Corea del Nord è però complicato dall’equivoco di fondo tra
Stati Uniti e Corea del Sud sulle presunte tendenze flo-nordcoreane del governo
Moon. Quest’ultimo non sente di doversi giustifcare, quindi l’incomprensione e la
sfducia tra le due amministrazioni rischia di accentuarsi. Diffcilmente Biden farà il
primo passo per risolvere un fraintendimento che Moon non percepisce nemmeno
come tale. Spetterà dunque a Seoul accorciare, meglio ancora colmare, questa di-
stanza di vedute.
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184
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
L’INDIA SPERA
IN PECHINO PER CONTARE
CON WASHINGTON di Manoj JOSHI
parte dell’amministrazione entrante. Gli Stati Uniti devono ora fronteggiare la pre-
senza crescente (anche militare) della Russia in Europa e nel Caucaso, come pure
della Cina nel Pacifco occidentale e in Asia meridionale.
Nei prossimi quattro anni lo sguardo di Washington rimarrà dunque puntato sul
Pacifco occidentale o tornerà a concentrarsi sulle azioni russe in Europa? In campa-
gna elettorale Biden ha defnito Mosca «avversaria» e Pechino «seria concorrente». Lo
scontro con la Repubblica Popolare, per ora, è più economico e tecnologico che
militare: gli Usa restano la potenza dominante e, fatta eccezione per Taiwan, non
sembrano esservi teatri in cui la Cina sia pronta ad affrontarli militarmente. La ten-
sione aumenta però in campo economico: la crescita dei salari cinesi, la guerra dei
dazi e le restrizioni tecnologiche avevano già indotto alcune aziende a ripensare le
proprie catene di approvvigionamento. Il coronavirus ha accelerato questo proces-
so, incoraggiando l’accorciamento delle fliere industriali. Il varo della Regional
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
2. Tutto ciò investe l’India, che si considera potenziale benefciaria del decou-
pling (sganciamento economico) Usa-Cina e nel 2020 ha attratto investimenti signi-
fcativi di aziende statunitensi come Amazon, Apple e Google, interdette dalla Re-
pubblica Popolare. Eppure, sotto Trump il sostegno americano a Delhi nelle dispu-
te con Pakistan e Cina è stato alquanto tiepido, segno che tra i due Stati permango-
no alcune criticità.
Nell’estate 2020 India e Cina sono venute alle mani vicino al lago Pangong
(nel Ladakh) e in Tibet. Non è chiaro se le azioni cinesi al confne indiano siano
una risposta all’avvicinamento di Delhi a Washington o una «classica» scaramuccia
di frontiera. Nel caso del Ladakh orientale, come già per il Kashmir, Trump si è
limitato ad affermare che gli Usa erano pronti a mediare tra le parti, confdando
però nella capacità delle stesse di risolvere da sé la questione.
India e Stati Uniti hanno sviluppato stretti legami politici, economici e militari,
ma continuano a scontare diffcoltà sul fronte commerciale. Al di là dell’ossessione
di Trump per il disavanzo, sono diversi i punti d’attrito. Acciaio e alluminio india-
ni sono stati assoggettati a un regime tariffario rafforzato, costringendo Delhi a
reagire. Washington ha cancellato le aliquote favorevoli godute dall’India grazie al
sistema di preferenze generalizzate e chiede che il paese asiatico apra il proprio
mercato agricolo alle importazioni. Le parti divergono anche sulla protezione del-
la proprietà intellettuale, sulla localizzazione forzata dei dati e sulle restrizioni agli
investimenti.
A ciò si aggiungono due ulteriori faglie. Una concerne il Countering Ameri-
ca’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa), la legge draconiana che penaliz-
za Delhi per il suo commercio di armi con Mosca (in particolare l’acquisizione dei
missili terra-aria russi S-400): circa l’86% degli armamenti indiani è di origine russa
e la Federazione è forse l’unica potenza disposta ad assistere l’India nello svilup-
186 po di missili, sottomarini nucleari e velivoli ipersonici. L’altra riguarda l’Iran: l’ab-
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Affairs che la politica indopacifca di Trump era sbilanciata e che l’America dovreb-
be distribuire le proprie forze tra Sud-Est asiatico e Oceano Indiano, il che potreb-
be rinsaldare il rapporto con il subcontinente.
Le aspettative dell’India saranno plasmate dal precedente di Trump, ma an-
che dall’andamento dell’epidemia e dal confronto con la Cina, da cui la dividono
4 mila chilometri di confne terrestre. Delhi non cerca riparo sotto l’ombrello
militare statunitense, ma ha frmato quattro accordi con Washington che consen-
tono di condividere informazioni e intelligence. Ha inoltre intensifcato l’impe-
gno nel Quad (il dialogo quadrilaterale per la sicurezza), rassicurando alleati
chiave degli Stati Uniti come il Giappone, la Corea del Sud, le Filippine, il Viet-
nam e (soprattutto) Taiwan, sulla quale la nuova amministrazione non pare di-
sposta a cedere.
L’India si aspetta che Biden la aiuti a sviluppare le proprie capacità militari. Le
esportazioni statunitensi verso il subcontinente nel comparto della difesa sono in
forte aumento, ma ciò a cui Delhi punta è espandere il proprio complesso militar-
industriale. Washington ha già fatto qualche passo defnendo l’India major defense
partner e siglando vari accordi, tra cui l’esenzione dalla licenza per la concessione
di autorizzazioni commerciali strategiche e l’allegato sulla sicurezza industriale. Il
problema è che l’odierno arsenale dell’India è di origine russa: l’America vorrebbe
che il paese si riequipaggiasse con armamenti statunitensi, ma la soluzione è imper-
corribile a breve stante la grave crisi di bilancio in cui versa il governo indiano.
3. Oltre alla sfda militare nell’Himalaya, l’India deve fare i conti con la crescita
dell’infuenza cinese nel suo cortile di casa. Su Nepal, Bangladesh, Sri Lanka e
Myanmar, Delhi si aspetta che l’amministrazione Biden sostenga le sue posizioni,
perché si considera la principale nazione dell’Asia meridionale. In questi paesi le
capacità d’investimento cinesi surclassano quelle indiane; Pechino sta inoltre arman-
do Bangladesh, Sri Lanka e Myanmar. Non avendo i mezzi per competere, l’India
guarda a Washington per recuperare terreno. Più facile a dirsi che a farsi: è impro-
babile che l’America dia carta bianca a Delhi in queste aree, senza contare che i suoi 187
188
IL CONFINE SINO-INDIANO
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L’INDIA SPERA IN PECHINO PER CONTARE CON WASHINGTON
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Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
regimi di assistenza civile non sono paragonabili a quelli cinesi e che non è molto
interessata a esportare armi negli Stati minori dell’Asia meridionale.
Il Pakistan è un discorso a parte. Attualmente l’India ha scarso potere contrat-
tuale verso Islamabad; negli ultimi anni le discussioni si sono arenate e si sono
verifcati scontri frontalieri. La Cina ha signifcativi interessi militari e diplomatici in
Pakistan, al pari degli Usa. Alla sua posizione gioverà il ritiro americano dall’Afgha-
nistan, che farà venir meno un fattore di condizionamento pakistano.
Per quanto concerne l’Iran, il ritorno statunitense nel Jcpoa sarebbe un’impor-
tante vittoria diplomatica per l’India, sebbene il raggiungimento di un equilibrio
regionale potrebbe essere complicato dai legami che Delhi ha stretto con Emirati
Arabi Uniti, Arabia Saudita e Israele. Idealmente l’India vorrebbe che gli Stati Uniti
abrogassero il Caatsa, ma il fatto che le sanzioni da questo previste si applichino
anche alla Russia ne rende improbabile una rapida cancellazione. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
India e America convergono nel Sud-Est asiatico, dove Delhi conserva interes-
si storici, culturali e diplomatici. È probabile che i due paesi mantengano un’ottima
cooperazione militare nella regione, coordinata dal Comando indopacifco degli
Stati Uniti. Al momento non è chiaro se Washington voglia dare al Quad una mag-
giore connotazione militare e se, in tal caso, l’India acconsentirebbe. L’obiettivo
immediato dell’America sarà probabilmente rassicurare alleati come il Giappone e
la Corea del Sud dopo il burrascoso quadriennio di Trump.
Le dispute commerciali indo-americane precedono l’ex presidente, quindi la
probabilità che Biden ripristini il trattamento preferenziale (per 10-15 miliardi di
dollari l’anno) del General Scheme of Preferences abolito dal predecessore non è
altissima. Inoltre, la svolta protezionistica dell’India – simboleggiata nel 2020 dallo
slogan AatmaNirbhar Bharat, India autosuffciente – mette a disagio la nuova
amministrazione. Modi ha cercato di spiegare che l’AatmaNirbhar Bharat mira a
«trasformare l’India da semplice mercato a polo produttivo al centro delle catene
globali del valore» e che ciò è in linea con il proposito statunitense di creare una
rete di «partner fdati» ed economicamente prosperi, per affrancare le fliere produt-
tive dalla Cina.
Al riguardo, però, l’India sconta due problemi. Il primo è l’assenza del capi-
tale umano e infrastrutturale necessario ad accrescere la propria capacità indu-
striale tanto da rendersi alternativa alla Cina. Rimanendo fuori dall’Rcep (che
annovera dieci Stati dell’Asean, l’Australia, la Cina, il Giappone, la Nuova Zelan-
da e la Corea del Sud) Delhi ha segnalato di non poter e voler contrastare la
Cina sul fronte geoeconomico. Gli osservatori notano che sono piuttosto il Viet-
nam, la Malaysia e le Filippine ad aver tratto vantaggio dal riorientamento indu-
striale (peraltro ancora embrionale) indotto dal Covid-19. Il secondo problema è
che in India è diffcile fare affari. Pur avendo scalato le classifche della Banca
mondiale, recentemente il paese ha perso due importanti arbitrati internazionali
con Vodafone e Cairn Energy sulla tassazione retroattiva. È improbabile che il
ricorso al fsco contro oppositori politici e aziende sgradite crei un clima propizio
all’impresa. 189
L’INDIA SPERA IN PECHINO PER CONTARE CON WASHINGTON
Tuttavia, l’India fa gola a un certo tipo di aziende statunitensi: quelle che non
possono accedere al mercato cinese. Tra queste vi sono Amazon, Facebook e Go-
ogle, che hanno investito massicciamente nel paese anche in piena epidemia, ma
anche Netfix, Twitter, Pinterest e Quora. Delhi aspira a ottenere da Biden il ripri-
stino almeno parziale dei benefci pre-Trump, aprendo in cambio – quantomeno
in parte – il proprio mercato. Ma i due paesi tentano da anni di siglare un trattato
bilaterale sugli investimenti, i cui negoziati restano bloccati a causa degli approcci
divergenti circa la protezione degli investitori.
India e Stati Uniti oggi non aderiscono ai principali accordi commerciali indo-
pacifci, Rcep e Tpp. Mentre Washington potrebbe entrare nel Comprehensive and
Progressive Agreement for Trans-Pacifc Partnership, che ha sostituito la Tpp, Del-
hi resterà probabilmente in disparte, lasciando così poco spazio a una maggior
integrazione economica nell’Indo-Pacifco. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Delhi, ma l’effetto di tali pressioni (specie ora che l’America ha perso la faccia con
l’attacco al Campidoglio) resta un’incognita.
In ogni caso, nella scala delle priorità americane il subcontinente viene dopo
Russia, Cina, Giappone e forse Ue. Per questo, molto dipenderà dalla scelta dei
funzionari e dal ruolo che la vicepresidente di origine indiana intende svolgere in
politica estera. Nell’agosto 2020 Harris ha invocato il Mahatma Gandhi affermando
che la lotta dell’India per la libertà rifette valori come la tolleranza, il pluralismo e
la diversità. È improbabile che una simile retorica contribuisca a migliorare le rela-
zioni con l’attuale governo indiano. Modi dovrà pertanto mitigare le proprie aspet-
tative, ma in cambio potrà forse perseverare abbastanza indisturbato nella sua
politica incendiaria.
191
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Parte III
sui FRONTI EUROPEI
e LEVANTINI
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
LA GERMANIA
FA LA MORALE
ALL’AMERICA di Luca STEINMANN
4. Ibidem. 197
LA GERMANIA FA LA MORALE ALL’AMERICA
del regime russo in senso liberale, secondo il principio per cui la liberalizzazione
economica anticipa le svolte democratiche (Wandel durch Handel). Il Cremlino
però non ragionava allo stesso modo. Fin dalle prime negoziazioni sul tracciato la
parte russa aveva posto come condizione l’aggiramento dei paesi dell’Europa
orientale, in particolare di Polonia e Ucraina, potenziali piattaforme di conteni-
mento e pressione sulla Russia nel contesto del progressivo avanzamento della
Nato verso est. Nel 2007 Putin contestò pubblicamente a Monaco la coesistenza
tra unipolarismo e democrazia e annunciò che la Russia non avrebbe smesso di
perseguire una politica estera indipendente. A quel punto divenne evidente che
la Germania non avrebbe potuto giovarsi contemporaneamente della copertura
militare americana e dei commerci con Mosca. Emergeva la divergenza tra la ge-
opolitica statunitense e gli interessi di un’ampia parte del mondo industriale ger-
manico che trae vantaggio dall’Ostpolitik commerciale. Sul piano interno questo
alimentò il divario tra le posizioni dei sostenitori della protezione americana tout
court e chi invece ambiva, seppur velatamente, al ritorno a una strategia geopo-
litica tedesca incentrata sull’interesse nazionale, inevitabilmente legato a quello
della grande industria. Geopolitica e interesse nazionale, tuttavia, erano concetti
tabuizzati nella «Berlino politica» perché ancora associati al nazionalsocialismo e
alla responsabilità storica che ne deriva.
La rinuncia alla geopolitica si scontra da allora con le emergenti necessità di
sviluppare un pensiero strategico volto a contrastare la crisi economico-fnanzia-
ria. L’aumento del divario tra la «locomotiva tedesca» e il resto dei paesi della Ue
ha spinto l’industria germanica a legarsi al mercato cinese. Pechino è dal 2016 il
primo partner commerciale (per somma di import ed export) di Berlino 5. Al con-
tempo, nelle élite si iniziò a discutere l’opportunità di una esplicita leadership
tedesca in Europa. Il dibattito si accese nel 2012, quando il giurista Christoph
Schöneberger sostenne la necessità di riconoscere che la Germania è diventata
una grande potenza e che quindi bisogna trarne le conseguenze anche sul piano
198 5. Die Volksrepublik China ist erneut Deutschlands wichtigster Handelspartner, Destatis, 2019.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
4. L’elezione a presidente di Donald Trump nel 2016 è stata una vera doccia
fredda per la classe politica di Berlino. I modi rozzi e diretti del tycoon hanno
sconvolto le cadenze del merkelismo, scioccando i decisori tedeschi. La vasta
opinione pubblica poteva ormai percepire la fragilità dei rapporti transatlantici.
Ursula von der Leyen, allora ministro della Difesa, si disse «fortemente scioccata»
6. C. SCHÖNEBERGER, «Hegemon wider Willen. Zur Stellung Deutschlands in der Europäischen Union»,
Merkur, vol. 66, n. 752, 2012, pp. 1-8.
7. F. MARONTA, «I dolori della giovane Germania», Limes, «Occidenti contro», n. 9/2020, p. 154. 199
LA GERMANIA FA LA MORALE ALL’AMERICA
dalla vittoria dei repubblicani, il ministro della Giustizia Heiko Maas, oggi agli
Esteri, parlò di un mondo «impazzito». Financo Merkel, dopo un iniziale approc-
cio diplomatico, stabilì che «i tempi in cui potevamo affdarci completamente agli
altri sono fniti da un pezzo. (…) Noi europei dobbiamo veramente prendere il
nostro futuro nelle nostre mani» 8. Non era solo questione di Trump. La vittoria
del tycoon esprimeva secondo Merkel un mutamento dell’ordine internazionale
che colpiva il primato dell’Occidente e chiamava la Bundesrepublik a trovare un
collocamento geopolitico meno indefnito. Mettendo così in crisi l’idea di poten-
za civile e minacciando la convinzione tedesca di potere affermarsi come poten-
za geoeconomica sotto l’ombrello militare di Washington. «In un mondo di car-
nivori è molto diffcile essere vegetariani», commenterà l’ex ministro degli Esteri
Sigmar Gabriel 9.
Nonostante quasi tutte le minacce di Trump siano rimaste sulla carta, alcuni Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
effetti delle sue politiche e del suo atteggiamento hanno generato cambiamenti
tangibili nel sistema tedesco. Questi permangono anche dopo la sua sconftta elet-
torale. In primo luogo, l’approccio e il vocabolario del tycoon hanno contribuito a
sdoganare in Germania una narrazione aggressiva e populista prima impensabile,
considerata inconciliabile con una potenza civile che dal 1945 aveva tentato di fare
della lotta all’estremismo e alla demagogia il proprio surrogato identitario. Presup-
posto necessario per vivere sotto l’ombrello di protezione americano. Il fatto che
la violazione di questo principio civile, in Germania elevato addirittura a «religione
civile», provenisse proprio dagli Stati Uniti ha leso profondamente l’immagine del
«protettore» d’Oltreoceano e ne ha messo in discussione la legittimità imperiale
fondata sull’American way of life, sulla coesione sociale e sulla stabilità delle istitu-
zioni democratiche.
Ciò ha incoraggiato in Germania le forze anti-occidentali, fno a pochi anni fa
considerate residui di una storia passata, inevitabilmente destinate all’estinzione.
Ma durante l’èra Trump quei gruppi e quelle forze sotterranee hanno ripreso forza.
A partire dalla AfD, partito populista che raccoglie consensi nell’estrema destra, dal
2017 prima forza di opposizione nel Bundestag. La AfD si giova del forte sentimen-
to antiamericano diffuso soprattutto nella ex DDR, dove è visibile sia nella destra
sia nella sinistra. Per esempio all’interno di quella parte del corpo sociale che vota
Die Linke (La Sinistra), partito erede della SED, il partito-Stato della Germania
orientale, da cui ha ereditato la concezione degli Stati Uniti come potenza capitali-
sta, imperialista e guerrafondaia. Ma soprattutto pesca nell’opinione pubblica tede-
sco-orientale, segnata da un diffuso sentimento identitario derivato dall’esperienza
della DDR, che non volle mai sciogliersi completamente nel sistema di alleanze
costruito dall’Urss, rimanendo quindi parte della nazione tedesca prima che del
mondo comunista. Di qui il rifuto da parte di molti ex tedeschi orientali (Ossis) di
aderire all’ideologia post-nazionale e flo-americana coltivata dai connazionali
8. Ivi, p. 155.
200 9. «In einer Welt von Fleischfressern haben es Vegetarier sehr schwer», Auswaertiges-Amt.de, 5/1/2018.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Islanda
Danimarca
Canada Regno Unito
Irlanda GERMANIA
Benelux Austria
Svizzera
Usa Francia Italia
Spagna
Portogallo
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
CUORE DELL’OCCIDENTE
SECONDO LA GERMANIA
Francia
Regno Unito
Australia
Usa
Italia
L’Occidente secondo la Germania
La Germania non sa se considerare Nuova Zelanda
Spagna
sé stessa e l’Austria come occidentali
dell’Ovest. Cosa che determina il profondo disprezzo nei loro confronti da parte
degli ex tedesco-occidentali (Wessis) che permeano le istituzioni.
Da qui la forte polarizzazione tra le élite della Germania unita, provenienti
dall’Ovest, e le forze anti-occidentali radicate nell’Est. AfD e Linke raccolgono il
54,4% dei consensi in Turingia, il 40,6% in Sassonia-Anhalt, il 37,9% in Sassonia, il
34,2% in Brandeburgo, il 34% in Meclemburgo-Pomerania Anteriore (da sommare
al 3% dei neonazisti della NPD), il 29,5% a Berlino. Nel Bundestag occupano insie-
me il 22,8% dei seggi. Questi due partiti non sono però oggi in grado di spendere
tanto consenso nell’esercizio del potere, quindi di incidere direttamente sulla tra-
iettoria geopolitica della Bundesrepublik. L’AfD è isolata dagli altri partiti, incapace
di esprimere una linea unitaria che sintetizzi le posizioni delle diverse correnti che
la compongono. Soprattutto è messa sotto forte pressione dal servizio segreto in-
terno tedesco, deputato a scongiurare l’affermazione, anche attraverso mezzi de-
mocratici, dei partiti considerati ostili alla Legge fondamentale e all’ancoraggio da
questa sancito al mondo occidentale a guida americana. Anche Die Linke, che
pure ha delle correnti osservate dal servizio interno, è profondamente spaccata tra
le sue ali più progressiste e quelle di eredità marxista radicate nell’Est e incarnate
da Sahra Wagenknecht, ex capogruppo del partito al Bundestag. Carica che ha
abbandonato nel 2019 riconoscendo formalmente la supremazia della componente
occidentale del partito e scongiurando in questo modo un’osservazione più intru-
siva da parte del servizio segreto interno. 201
LA GERMANIA FA LA MORALE ALL’AMERICA
10. Oggi alla CDU viene attribuito un consenso nazionale compreso tra il 35% e il 38%, molto mag-
giore rispetto al 27% del febbraio 2020. In quest’anno i cristiano-democratici hanno rubato molti
consensi alla AfD, che oggi è data tra il 9% e l’11% mentre nel febbraio 2020 aveva il 14%. Ciò si
spiega attraverso due fattori: la repressione del servizio segreto interno, che nel marzo 2020 ha
classifcato l’ala destra dell’AfD come estremista e che nel gennaio 2021 ha preannunciato di con-
siderare tutto il partito come sospetta organizzazione di estrema destra; ma soprattutto, l’AfD non
ha saputo esprimere un’opinione uniforme in merito alla gestione dell’epidemia, dando in parte
voce a movimenti negazionisti. Al contrario, Merkel si è contraddistinta con un approccio pragma-
tico ed equilibrato, ricordando ai tedeschi le sue qualità nel gestire le crisi, cosa che le ha restituito
202 popolarità.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
11. L. STEINMANN, «La barriera verde vuole salvare la Germania dalla geopolitica», Limes, «Il clima del
virus», n. 12/20, p. 51. 203
LA GERMANIA FA LA MORALE ALL’AMERICA
zip) 12. Nell’agosto del 2020, Merkel ha minacciato di rivedere il progetto del ga-
sdotto Nord Stream 2 in reazione all’avvelenamento di Aleksej Naval’nyj, rivendi-
cando così una superiorità morale tedesca nei confronti degli americani, che non
si erano mai sognati di mettere in dubbio le importazioni di greggio dall’Arabia
Saudita dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi. Infne, nel gennaio 2021 Merkel ha
indirettamente preso le difese di Trump quando è stato censurato dai social me-
dia, così rivendicando il nuovo primato morale tedesco al posto dell’America. Un
formidabile strumento di soft power, nelle intenzioni di Merkel. Si tratta di prese
di posizioni simbolicamente molto forti che però raramente trovano applicazione
concreta 13. La cancelliera sta quindi abilmente bilanciando la tattica interna e
quella internazionale: mentre si impadronisce del Leitmotiv dei verdi, ovvero la
promozione globale di libertà e democrazia, sfda il primato americano in questo
campo e lo eleva a principale vettore geopolitico della Bundesrepublik. Ma non Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
12. Il ministro della Giustizia Christine Lambrecht ha defnito questo processo «storico», dicendo che
«da qui viene lanciato il messaggio che i criminali di guerra non possono sentirsi sicuri in alcun luo-
go». Per la giurista Stefanie Bock «il processo di Coblenza è una risposta ai processi di Norimberga e
mostra che la Germania ha imparato dalla propria storia». Per Heiko Maas questo processo è un invi-
to anche ad altri Stati a mobilitarsi sul piano nazionale rispetto ai crimini contro i diritti umani.
13. Il governo federale ha per esempio annunciato di volere rivedere le proprie posizioni sul Nord
Steam 2 a seguito dell’avvelenamento di Aleksej Naval’nyj ma solo seguendo le decisioni che verran-
no prese in sede Ue, nella consapevolezza che molto diffcilmente si arriverà a una posizione europea
condivisa. Inoltre tutti i partiti del Bundestag tranne i verdi sostengono il progetto. Il governo federa-
le critica poi Pechino in merito alle violazioni dei diritti umani ma spinge in modo decisivo per chiu-
204 dere il Comprehensive Agreement on Investments tra Ue e Cina.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
mento dei paesi che la formano e vorranno aderirvi ai canoni espressi dalla can-
celliera e fatti propri dalla Commissione. Questa prospettiva ricorda incredibil-
mente il processo dell’unifcazione tedesca, il cui sottotesto recitava: noi tedesco-
occidentali abbiamo un sistema superiore a quello di voi tedesco-orientali che
pertanto vi dovete adeguare. Allora non si parlò di rieducazione – come invece
avevano fatto gli americani nel 1945 – ma di Anpassung, appunto adeguamento
o adattamento, da parte degli Ossis 14.
I diritti umani sono oggi lo slogan attraverso cui la Bundesrepublik promuove
una propria interpretazione soft della geopolitica, ancora priva di hard power.
Sembra di essere entrati in una fase intermedia della storia tedesca. Berlino tenta
di esercitare parte delle responsabilità a cui è chiamata diffondendo la propria
impostazione valoriale in Europa tramite la Ue, provando al contempo a riman-
dare il più possibile ogni nuovo, netto posizionamento rispetto al canone della Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Pax Americana. Nella speranza che l’attesa renda meno doloroso il ritorno nella
storia. Con Joe Biden cambieranno i toni e probabilmente si dilateranno i tempi,
ma di certo gli Stati Uniti non si libereranno del timore per la potenza di terra nel
cuore dell’Europa. Prima o poi la Germania dovrà tornare a fare i conti con la
geopolitica per come comunemente intesa, anche se qualcuno a Berlino aveva
sperato che la storia fosse fnita.
14. I.S. KOWALCZUK, «Il grido inascoltato dell’Est», Limes, «Il muro portante», n. 10/2019, p. 73. 205
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
SOLO L’EUROPA
POTRÀ SALVARE
L’AMERICA di Jacob L. SHAPIRO
Il fossato scavato da Trump nei rapporti con i soci europei non sarà
più colmabile. Lo schiaffo dell’accordo commerciale Ue-Cina ne
è conferma. Alla ricerca di un approccio non troppo divaricato a
Mosca. Churchill aveva ragione. Ma il Brexit non aiuta.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
ton. Per l’Europa, America First non è stato un sogno: è stato un campanello d’al-
larme. E il continente è avanti di almeno sei ore.
Come altro spiegare l’appello innocente di Jake Sullivan, consigliere per la
Sicurezza nazionale entrante del presidente Biden, che il 22 dicembre ha twittato:
«L’amministrazione Biden-Harris accoglierebbe con favore delle consultazioni pre-
liminari con i nostri partner europei riguardanti le nostre comuni preoccupazioni
rispetto alle pratiche commerciali della Cina»? Soltanto una settimana dopo, Bruxel-
les trovava un principio d’intesa con Pechino per un accordo economico e com-
merciale globale. Un accordo che gli analisti politici statunitensi hanno chiamato,
sulle pagine del New York Times, uno «schiaffo in faccia» che «danneggia le relazio-
ni transatlantiche». Gli stessi think tank e funzionari che hanno criticato Trump a
ogni passo sembrano ora pensare che gli ultimi quattro anni non dovrebbero ave-
re delle conseguenze – che l’Europa dovrebbe prendere per buona la parola di
Biden, secondo cui la «follia di Trump» è fnita, e tornare a fare quello che dice
Washington, quando lo dice Washington.
Ovviamente, la geopolitica non funziona così. La fducia tra nazioni ha bisogno
di generazioni per essere costruita, ma può essere distrutta in un batter d’occhio.
Gli Stati Uniti hanno un bel po’ di lavoro da fare per ricostruire la fducia dell’Euro-
pa e l’amministrazione Biden non è esattamente partita con il piede giusto: l’appel-
lo di Sullivan all’accordo sugli investimenti con la Cina è ovviamente caduto nel
vuoto. Non è stato l’unico passo falso. Una delle più recenti nomine politiche di
Biden vede Victoria Nuland – la stessa Victoria Nuland che una volta disse letteral-
mente «fanculo l’Ue» (scusate il suo francese) – nel ruolo di sottosegretario di Stato
per gli affari politici. Trump potrebbe averlo fatto con toni più burberi, ma già l’ex
presidente degli Stati Uniti Barack Obama chiedeva da anni ai membri europei
della Nato di mantenere la loro promessa di spendere il 2% del pil in difesa, «un
obiettivo che abbiamo mantenuto fsso, ma che non tutti hanno raggiunto».
Gli Stati Uniti, in altre parole, sperano di tornare indietro nel tempo. Vogliono
riprendere il rapporto con l’Europa da dove si era interrotto nel 2016, quando gli
208 interessi tra Bruxelles e Washington si stavano logorando ma erano tenuti insieme
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
FINLAN.
NORVEGIA
AUSTRALIA
SVEZIA EST.
alleato militare)
BIELORUSSIA
UCRAINA
GERMANIA (Territorio conteso tra
Tentativo di indebolimento Oceano Atlantico REP. CECA Stati Uniti e Russia)
STATI UNITI
dell’Unione Europea SLOVACCHIA REGNO UNITO
perché considerata FRANCIA CANADA
parte della sfera SVIZZ. AUSTRIA
d’infuenza tedesca (Alleato UNGH. AUSTRALIA
sentimentale) SLOV. ROMANIA NUOVA ZELANDA
Nord Italia CROAZIA
PORTOGALLO Five Eyes, principale
organizzazione
SPAGNA Mar Nero spionistica
MONT. del mondo
BULGARIA
ITALIA ALB.
Alleati indispensabili
MAC. DEL NORD
Kerneuropa
degli Usa
Il Pentagono ritirerà Possibile teatro del GRECIA TURCHIA
9.500 9.500 militari dal
futuro scontro tra
contingente in Germania Stati Uniti e Russia
e aumenterà di mille NUOVA
unità le truppe in Polonia, Possibile realizzazione MALTA ZELANDA
ove ha riattivato il V della base statunitense
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Stilare un nuovo accordo commerciale che faccia impallidire quello tra Cina e Ue?
Gli strumenti non sono chiari, ma se gli Usa vogliono che gli europei si allontani-
no dalla Cina devono offrire loro una soluzione vantaggiosa. È diffcile non vede-
re quanto fossero miopi a questo riguardo le politiche dell’amministrazione
Trump, che teoricamente individuava come nemico Pechino mentre in pratica
perseguiva pratiche che ne promuovevano gli obiettivi di lungo termine.
Credo che anche l’amministrazione Biden la pensi così. I nostri peggiori nemi-
ci sono più grandi di qualsiasi Stato. Sono i vecchi nemici dell’umanità: malattie,
guerre, sospetti, paura, avidità, tirannia, disastri ambientali. Unione Europea e Sta-
ti Uniti hanno davvero l’opportunità unica di plasmare il mondo a immagine dei
loro valori, interessi e imperativi comuni.
Ogni volta che scrivo per Limes mi sembra di tornare sempre a Winston Chur-
chill, che vide ciò che l’Europa era e poteva diventare. Lo vedeva più chiaramente
degli stessi europei continentali. Come disse nel 1946, «[Dobbiamo] ricreare il tes-
suto europeo quanto più possibile e dotarlo di una struttura sotto la quale si possa
dimorare in pace, sicurezza e libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti
d’Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di lavoratori potranno riguada-
gnare le semplici gioie e speranze che rendono la vita degna di essere vissuta. (…)
Che l’Europa sorga!». Gli Stati Uniti d’Europa potrebbero benissimo essere sul pun-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
to di emergere. Ora spetta agli Usa contribuire a questa ascesa. Non è solo un’op-
portunità unica. È la nostra ultima possibilità.
214
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
L’ITALIA
E LA TEMPESTA
AMERICANA di Germano DOTTORI
L’acuirsi dello scontro negli Stati Uniti accelera il riallineamento
della nostra politica interna ai nuovi equilibri americani. La
valenza geopolitica dell’iniziativa di Renzi. Forse il rinnovato
impegno globale promesso da Biden tarderà a materializzarsi.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
si registrano invece cinque anni e sette mesi di predominio moderato nel nostro
paese, mentre agli otto del democratico Obama corrisponde un periodo analogo
di supremazia progressista. Pur volendo escludere un sistematico condizionamento
diretto da parte americana, è davvero faticoso derubricare a mere coincidenze le
circostanze appena descritte. Le fasi di divergenza cromatica tra Italia e Stati Uniti,
ancorché possibili, non sono chiaramente la norma, ma l’eccezione, al contrario di
quanto accade in Stati europei politicamente più solidi del nostro, come la Francia,
la Germania e la Gran Bretagna.
Soltanto con Trump si verifcano alcune anomalie, in parte riconducibili alla
profonda riconfgurazione del sistema politico italiano, in altra parte invece ascrivi-
bili alla minore propensione del tycoon a occuparsi più attivamente delle vicende
interne ad altri paesi. La nascita del primo governo Conte è salutata con favo-
re da Steve Bannon, una delle personalità più infuenti nella Camelot trumpiana Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
2. Sulla base del record storico appena descritto, già prima dei fatti occorsi a
Washington il 6 gennaio era prevedibile che si generasse prima o poi un clima favo-
revole a un graduale riallineamento degli equilibri politici italiani a quelli affermatasi
negli Stati Uniti. Era anzi abbastanza logico attendersi delle pressioni in questa di-
rezione, anche in considerazione del degrado della dialettica politica tra le opposte
fazioni in lotta in America, di fatto trasformatasi negli ultimi quattro anni in una spe-
cie di guerra civile a bassa intensità nella quale ciascuna delle parti coinvolte nega
apertamente la legittimità di quella avversa. Vale la pena ricordare come, al contrario
di quanto si era verifcato in precedenza, alla vittoria riportata da Trump nel novem-
bre del 2016 non abbia fatto seguito l’attenuazione ma l’accentuazione della con-
trapposizione, che si sarebbe rapidamente anche internazionalizzata, coinvolgendo
buona parte dell’Occidente. Mentre Bannon cercava di promuovere la formazione
di un blocco populista in Europa, think tank e fondazioni d’impronta liberal provve-
devano a rafforzare le proprie alleanze all’estero, inclusa quella facente capo all’ex
presidente Barack Obama, che tra l’altro avrebbe visitato il nostro continente poco
prima che vi giungesse per degli impegni uffciali proprio il nuovo inquilino della
Casa Bianca. Sono così sorte delle reti e delle relazioni informali transnazionali ce-
mentate da una concezione condivisa della gestione degli affari mondiali 1.
216 1. Rinvio per questo aspetto al mio saggio La visione di Trump, Roma 2019, Editrice Salerno, pp. 93-95.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
3. Come spesso accade nel nostro paese, questo processo non sembra aver
preso le mosse a Washington e dintorni. È stato invece verosimilmente promosso
da soggetti politici nazionali desiderosi di accreditarsi facilitando l’omologazione
dell’assetto italiano alla nuova realtà americana. L’attacco sferrato al governo Conte
II dall’ex premier Matteo Renzi, attualmente a capo di una forza politica costituitasi
per separazione dal Pd, va probabilmente letto in questo modo, come del resto
stanno a signifcare alcuni passaggi assai illuminanti della conferenza stampa con
la quale l’ex sindaco di Firenze ha citato tra i nodi da sciogliere la questione del
mancato distanziamento del presidente del Consiglio da Trump e soprattutto la
riluttanza dimostrata a condannarlo nei giorni dell’assalto al Campidoglio – peraltro
un esercizio di prudenza da parte di Conte, basato sull’analisi oggettiva dei rapporti
di forza che esistono tra l’esecutivo italiano e un’amministrazione americana pros-
sima all’addio ma comunque ancora in carica. Per disinnescare questa mina posta
sul suo cammino, Conte avrebbe peraltro corretto il tiro pochi giorni più tardi,
rendendo noto il proprio avvicinamento a Biden nel corso del confronto svoltosi
alle Camere per rinnovare la fducia al suo governo 3.
2. A farlo con forza particolare è stato Matteo Renzi, nel corso della conferenza stampa del 13 genna-
io scorso, convocata per annunciare il ritiro della delegazione di Italia Viva dal gabinetto Conte. L’ex
premier aveva deplorato come un errore la mancata condanna dei fatti occorsi a Washington anche
nei giorni precedenti. Agli stretti rapporti di Conte con l’amministrazione Trump è stata ricondotta da
Renzi anche la gestione della visita dell’allora procuratore generale William Barr ai responsabili dei
nostri servizi d’informazione e sicurezza, giudicata inappropriata.
3. Nel suo intervento del 19 gennaio al Senato, Conte ha in particolare affermato di guardare «con
grande attenzione alla presidenza Biden, con la quale inizieremo a lavorare subito in vista anche
della nostra presidenza del G20. Abbiamo una ftta agenda in comune, che spazia da un multilatera-
lismo che vogliamo entrambi effcace ai cambiamenti climatici, alla transizione verde e digitale e
all’inclusione sociale». Cfr. Resoconto stenografco della seduta 293 del 19 gennaio 2020, Senato della
Repubblica, XVIII legislatura. Consultato online. 217
L’ITALIA E LA TEMPESTA AMERICANA
corso del quadriennio trumpiano l’Italia qualche giro di valzer lo ha fatto, ad esem-
pio permettendo alla Cina di accrescere signifcativamente un’infuenza sul nostro
paese che non sarà affatto facile comprimere, qualora ci fosse chiesto di farlo.
Inoltre, Roma è pur sempre parte di un’Unione Europea i cui assi geopolitici di
riferimento stanno accentuando la propria divergenza da quelli statunitensi, come
prova anche l’elezione a presidente della CDU di un uomo come Armin Laschet,
già distintosi per il favore accordato al dialogo con la Federazione Russa e all’ap-
profondimento dei legami con Pechino.
Si dischiuderà forse qualche opportunità, ma sempre poca cosa a fronte
dell’aumento dei rischi determinato dall’indebolimento economico e complessivo
italiano. Chi governerà il nostro paese sarà probabilmente posto di nuovo davanti
a un dilemma ricorrente negli ultimi anni, tra l’offrirsi all’America come vettore dei
suoi interessi in Europa, ora che il Regno Unito ne è fuori e i polacchi sono ideolo-
gicamente non allineati ai progressisti d’Oltreoceano, e l’arrocco in una prospettiva
eurasiatica che appare diffcile da sostenere in rapporto alla posizione geografca
del nostro paese e alla struttura profonda dei suoi interessi nazionali. Non dovreb-
be essere impossibile agli americani favorire chi spingerà nella prima direzione,
cosa che Trump non ha in fondo voluto fare, e screditare chi, all’opposto, sosterrà
la seconda alternativa.
220
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
il carro della ripresa economica francese; oggi stare appiccicati alla Repubblica
Federale, nel terrore che prenda la sua strada. Tale parabola discendente rifette
rapporti di forza sempre più sbilanciati verso i tedeschi. I francesi non sono mai
riusciti a riequilibrarli. Pensavano di usare l’Unione del Mediterraneo per com-
pensare l’infuenza mitteleuropea di Berlino, ma quest’ultima ha disinnescato il
progetto. Sono andati platealmente a rimorchio dei tedeschi durante la lunga crisi
greca del debito (2010-15). Si sono visti rispedire al mittente il progetto di riforma
dell’Eurozona. Persino gli eurobond, proposti assieme agli italiani per rilanciare le
economie colpite dal virus, non li hanno imposti loro nel negoziato con Angela
Merkel, li ha inseriti la cancelliera cogliendo alla sprovvista Macron.
Con la Germania evidentemente la Francia può arrivare fno a un certo punto.
La sua remissività discende da un calcolo strategico tanto più reale perché incon-
scio, implicito: restare a ruota dei tedeschi serve a non ridestare il fantasma di Sedan Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
1870; più concretamente, i francesi considerano che se mai un giorno la storia tor-
nerà per davvero potranno far valere le loro carte militari su quelle economiche del
vicino. Berlino domina l’industria ma ha terrore a imbracciare un’arma. Parigi no.
Forse è pia illusione, ma in geopolitica è consigliabile attenersi a ciò che si è e si ha.
Per prepararsi a quel momento, occorre recuperare margine d’azione dall’A-
merica, ammissibile solo invocando un’Europa più autonoma. È un classico della
geopolitica francese, animata da una radicata e congenita ostilità verso gli Stati
Uniti, nutrita dall’invidia per la loro egemonia. Però ultimamente gli scontri con
Washington sono tornati particolarmente frequenti. La guerra dei dazi nell’epoca
Trump, in particolare sul vino, seconda voce dell’export ridotta del 50%. Le tasse
ai giganti di Internet. Il dissidio sull’accordo nucleare con l’Iran, con conseguenti
sanzioni per impedire alle aziende francesi di commerciare coi persiani. Il non
risoluto atteggiamento di Parigi verso la Cina. Il tentativo di aprire alla Russia,
benché non preso sul serio da Putin. Macron che defnisce «indebolito» l’Occiden-
te, certifca la «morte cerebrale» della Nato, descrive gli americani come «diversi
da noi, i nostri valori non sono affatto gli stessi» 7. Persino il suo scontro con la
Turchia è malvisto negli Stati Uniti perché apre una falla nell’Alleanza Atlantica:
solo l’egemone punisce i sudditi.
La Francia usa la narrazione degli alleati più responsabili contro gli stessi che
l’hanno pronunciata: «Gli Stati Uniti non ci rispetteranno fnché non saremo seri
con noi stessi e sovrani con la nostra difesa», sostiene Macron 8. Distanziarsi non
vuol dire eliminare l’America. È consapevole che non avrà il suo aiuto nel Mediter-
raneo orientale contro la Turchia, motivo con cui Parigi giustifca il sostegno a Gre-
cia e Cipro e l’infruttuosa incursione nella partita del Karabakh 9. Ma non intende
rinunciare al suo decisivo supporto militare, specie fra Sahel e Mesopotamia. Ne dà
prova sempre il presidente francese: rivolgendosi alle sue truppe, le rassicura di-
7. Cfr. ibidem.
8. Cfr. ibidem.
9. Cfr. G. GRESSANI, S. LUMET, «L’Europe puissance, une conversation avec Clément Beaune», Le Grand
Continent, 3/12/2020. 223
IL PIANO DELLA FRANCIA PER APPROFITTARE DELL’AMERICA IN TEMPESTA
cendosi certo che Biden rimanderà soldati in Medio Oriente 10. Chiaro appello agli
americani a continuare a erogare sicurezza in aree rilevanti per l’Esagono. La Fran-
cia vuole un feudo 11. Ma lo pretende, non lo chiede per favore come i britannici.
ziati dati per morti, la squadra del non ancora insediato Biden aveva cortesemente
chiesto agli europei un confronto. Picche. I francesi hanno fatto fnta di preoccu-
parsi dei maltrattati uiguri, invocando che Pechino frmasse una convenzione con-
tro i lavori forzati (riservati alla minoranza turca in appositi campi di rieducazione).
Ma la Cina non è il Vietnam e, a differenza di una precedente intesa con Hanoi, gli
europei le hanno concesso un mero impegno a ratifcare la convenzione. Conclu-
sione: Parigi e Berlino hanno usato l’occasione per dimostrare a Washington che
non si faranno dettare l’agenda.
Ciò non vuol dire che la Francia sarà neutrale. Applica lucidamente l’impianto
analitico strategico alla Cina: Macron accusa Xi Jinping di «ricostruire l’impero», chie-
de di non far cadere la Russia nelle spire del Drago e a Pechino si permette persino
di ammonire i cinesi di non favorire una nuova egemonia e nuovi vassallaggi con le
vie della seta 13. Ha ordinato l’esclusione di Huawei dalle sue reti entro il 2028. Ha
insistito affnché l’Ue si dotasse di poteri di controllo preventivo sugli investimenti.
Ha ridato enfasi all’Indo-Pacifco, dialogando con le Marine di India e Australia,
effettuando transiti nei mari cinesi e pure nello Stretto di Taiwan, alla quale vende
armi. Ha chiesto a italiani e tedeschi di andare assieme in quelle acque, ovviamente
sotto la sua bandiera in quanto potenza residente, in virtù dei possedimenti dalla Po-
linesia a Riunione, passando per la Nuova Caledonia da proteggere dalle mire cinesi.
Se fa resistenze sulla coalizione contro la Cina è perché ancora si culla nella
distanza. Vero, qui come altrove nel 2020 l’immagine della Repubblica Popolare
è crollata: ne ha percezione sfavorevole il 70% della popolazione, contro il 49%
del 2015. Ma la Francia è la seconda nazione occidentale meno spaventata, dopo
10. «Vœux aux armées depuis la Préfecture Maritime de l’Atlantique à Brest», 19/1/2021, bit.
ly/39cuwRW
11. F. PETRONI, «La Francia vuole un feudo nell’Occidente», Limes, «Occidenti contro», n. 9/2020, pp.
73-82.
12. Cfr. nota 4.
13. Le tre citazioni, rispettivamente, in B. HALL, «Emmanuel Macron’s low profle on China is strategic»,
Financial Times, 19/8/2020; «Discours du Président de la République à la conférence des ambassa-
deurs», 27/8/2019, bit.ly/2GvycCz; A. AUFFRAY, «Macron à Pékin: “Les Routes de la soie sont en partage,
224 elles ne peuvent être univoques”», Libération, 8/1/2018.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Islanda
Italia
FED. RUSSA
Canada Regno Unito
FRANCIA EUROPA
Georgia
USA Saint-Pierre Italia Armenia
et-Miquelon
Clipperton
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Guyana Fr.
Polinesia Francese
Riunione Australia
Saint-Martin
Saint-Barthélemy
Guadalupa Îles Crozet Nuova Zelanda
Nuova Caledonia
Martinica
Wallis-et-Futuna Saint-Paul et Nouvelle-Amsterdam
Îles Éparses Mayotte Terre Adélie (Antartide) Is. Kerguelen
l’Italia. Come il nostro paese, crede che fra dieci anni Pechino dominerà il mondo
(lo pensa il 53% dei transalpini) 14. E un conto è temerla in India, con cui i cinesi
si sparano, a Taiwan, dove si teme l’invasione, in Australia, dove si subisce l’em-
bargo. Un altro conto è temerla all’altro capo dell’Eurasia.
La sfda tra Cina e America spinge l’Esagono a stringersi agli altri europei. Ma
non per dire la sua in quel titanico scontro. Per supplicare di non diventare un
bersaglio.
4. Per arginarsi da Stati Uniti e Cina, i francesi stanno discutendo con i tedeschi
iniziative da presentare come «europee». A volte c’è intesa, altre volano stracci. Al-
cune riguardano strumenti concreti di cui dotare l’Unione Europea, altre possibili
trattative con gli americani. Benché pensate anche contro Pechino, è ovvio che
sono più dirette contro Washington, visto che l’Europa è componente essenziale
del suo impero.
Una prima proposta riguarda uno scudo contro le sanzioni. Nel mirino c’è
l’extraterritorialità delle leggi americane, ossia la capacità di vietare qualunque
14. I due dati, rispettivamente, in «Unfavorable Views of China Reach Historic Highs in Many Countri-
es», Pew Research Center, 6/10/2020 e «The crisis of American power: How Europeans see Biden’s
America», European Council on Foreign Relations (Ecfr), 19/1/2021. 225
IL PIANO DELLA FRANCIA PER APPROFITTARE DELL’AMERICA IN TEMPESTA
5. «La capacità militare della Francia è al cuore delle nostre ambizioni» 19.
Appena asceso all’Eliseo, Macron apriva così la revisione strategica del 2017. Per
esercitare la sua infuenza, Parigi punta forte sulla dimensione bellica perché è
abituata a fare la guerra, la ritiene legittima e vi investe notevoli risorse. Le trup-
pe tricolori sono schierate in tutti gli oceani, combattono continuativamente da
vent’anni, sono le uniche in Europa impegnate autonomamente in un confitto,
quello nel Sahel. La guerra non è nascosta al pubblico, come altrove in Occidente.
È sbandierata. La pubblicistica bellica è ricca e racconta ampiamente successi e
rovesci delle operazioni all’estero. Le è permesso spiegare che il presidente della
Repubblica ordina uccisioni mirate, attacchi coi droni e raid delle forze speciali,
calco in piccolo di atteggiamenti tipici degli americani 20. Senza che la popolazio-
ne si scomponga. Anzi, Macron dice ai suoi soldati che «i francesi contano su di
voi per i combattimenti delle settimane, dei mesi, degli anni a venire» 21. Parole
inimmaginabili in Italia.
Per sostenere questo spirito marziale e riconoscendo la militarizzazione degli
oceani, in questi anni la Francia ha speso molto per ammodernare lo strumento
militare lungo l’intero spettro operativo. Ha aumentato del 22% il bilancio della Di-
fesa rispetto al 2017. Ha avviato i lavori per una nuova portaerei, stavolta a propul-
17. C. VILLANI, «Donner un sens à l’intelligence artifcielle. Pour une stratégie nationale et européenne»,
Assemblée Nationale, 2018, p. 28, bit.ly/3iJMOx2
18. Si veda per esempio le proposte di M. DUCHÂTEL, «The Weak Links in China’s Drive for Semicon-
ductors», Policy Paper, Institut Montaigne, gennaio 2021, pp. 54-60.
19. Revue stratégique de défense et de sécurité nationale, République Française, dicembre 2017, p. 5.
20. V. NOUZILLE, Les tueurs de la République: assassinats ciblés et opérations spéciales des services se-
crets, Paris 2020, Fayard.
21. Cfr. nota 10. 227
IL PIANO DELLA FRANCIA PER APPROFITTARE DELL’AMERICA IN TEMPESTA
sione nucleare, attesa per il 2038. Sta rafforzando la cruciale dissuasione atomica
sottomarina, con i test sui missili balistici intercontinentali e il varo di una nuova
classe di sommergibili. Si è dotata di comandi cibernetici e per il cosmo, sviluppa
la missilistica ipersonica e con la Germania studia l’artiglieria elettromagnetica.
Con queste risorse, Parigi spera di conquistarsi un ruolo di primo piano nella
difesa del continente. Non oggi: le sue Forze armate – peraltro a rischio sconftta
nel Sahel – non sarebbero in grado. Immaginare un esercito europeo o di rinuncia-
re agli americani è fantasia. Lo è meno che gli Stati Uniti affdino agli alleati qualche
teatro per irrobustire lo schieramento nell’Indo-Pacifco. Facilmente continueranno
a presidiare la nuova cortina di ferro con la Russia, con l’aiuto di polacchi e romeni.
E verso l’Artico ci sono già i britannici, che ne hanno bisogno per ribadire alla Sco-
zia di stare al suo posto. A sud invece ci sono spazi per inserirsi, nel Mediterraneo
scoperto e rissoso e nel Nordafrica a rischio ebollizione. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Resta l’Italia. Alcuni dei progetti francesi sono nel nostro interesse, per esem-
pio se si palesasse una forza d’intervento mediterranea cui aderire per comporre
il caos a sud e mandare un inedito messaggio di risolutezza a russi e turchi. Non
possiamo però comportarci da semplice ingranaggio franco-tedesco. Un’eventuale
rappresaglia americana ci travolgerebbe. Messe come sono le nostre casse, non
possiamo permetterci guerre valutarie, speculazioni o sanzioni. Roma si sta peral-
tro sforzando di mostrarsi buona alleata degli Stati Uniti per riparare all’ingresso
nelle vie della seta cinesi. Finora lo ha fatto con mosse passive. È tempo di dare un
contributo attivo. Fare da tramite fra le richieste americane sulla Cina e le pretese
francesi per l’Ue potrebbe essere un inizio. Forse inizieremmo anche noi a capire
come si usa l’Europa.
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230
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
LA DANNOSA OSSESSIONE
AMERICANA PER LA VITTORIA di Rich MILBURN
Nazione giovane e ingenua, gli Stati Uniti pretendono di vincere
sempre. Non concepiscono il pareggio. Ma con l’ascesa della Cina
non si possono più permettere di essere così grossolani. Prendano
esempio dagli inglesi e si dotino di tattiche più sottili.
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
2018, dopo il pareggio con i Cleveland Browns, il running back dei Pittsburgh
Steelers James Conner ha stabilito che «vincere è ciò che facciamo e non l’abbia-
mo fatto. Suona come una specie di sconftta» 3. L’allenatore dei Browns Hue
Jackson ha commentato dicendo di essere «ovviamente deluso dal risultato: un
pareggio» 4, ignorando l’importanza morale di aver interrotto la striscia di 17 scon-
ftte consecutive nella National Football League e di sei contro la sola Pittsburgh.
Dopo un pareggio nel 2018 con i Vikings, il quarterback dei Packers Aaron Rod-
gers ha descritto l’incontro come «una mezza sconftta, non suona molto bene» 5,
nonostante Minnesota avesse mancato la vittoria allo scadere, con un feld goal
sbagliato da 35 iarde.
Agli stranieri come me questi atteggiamenti sembrano bizzarri, ma l’ignomi-
nia del pareggio è una peculiarità culturale degli americani. Gli sport praticati al
di fuori degli Stati Uniti attribuiscono un valore maggiore alla parità. Nel cricket, Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
le squadre possono giocare per cinque giorni senza incoronare un vincitore. Pa-
reggi in rimonta e contro pronostico possono essere celebrati come dei successi.
Risultati tanto sudati conferiscono vantaggi psicologici alla formazione che si pen-
sava sconftta in partenza. Nel corso del primo Ashes Test Match del 2009, la na-
zionale inglese di cricket strappò un pari all’Australia, un’enorme vittoria morale
che le avrebbe permesso di vincere la serie 2-1. Nel calcio, la squadra in trasferta
gioca spesso per il pareggio, con partite impostate deliberatamente sulla difensi-
va. È una considerazione strategica, non tattica. Si tratta di vincere la guerra, non
la battaglia. Il paragone fra sport e guerra è chiaro: l’attaccante deve superare
l’oppositore per raggiungere i propri obiettivi, mentre chi si difende deve solo
sopravvivere.
I comportamenti sportivi rifettono e a loro volta rafforzano la cultura sociale;
forniscono esperienze fondative per l’apprendimento, posseggono «uno speciale
impatto sulle predisposizioni percettive» 6. I dirigenti statunitensi si sono spesso
dedicati allo sport alle scuole superiori o all’università, infondendosi di disprezzo
per il pareggio e di sete di vittoria. Quando si rivolgono alla popolazione, i politici
accennano a imprese belliche parlando di «vittoria schiacciante». Forse sono solo
parole di comodo, ma è anche il rifesso dell’inclinazione della cultura sportiva e
nazionale americana che impone il successo come l’unico risultato accettabile 7.
Tale preoccupazione sportiva va però a detrimento della politica estera. In Iraq e
in Afghanistan la vittoria si è dimostrata tanto elusiva quanto irrilevante. L’obiettivo
strategico non è vincere, ma mantenere il vantaggio 8.
3. «Cleveland Browns Don’t Win, Settle for Tie with Steelers», Upi, 9/9/2018.
4. Ibidem.
5. P. DOUGHERTY, «Dougherty: Many to Blame as Packers Blow Big Chance to Get Leg up on Rivals»,
packersnews.com, 16/9/2018.
6. R. JERVIS, Perception and Misperception in International Politics, Princeton 2017, Princeton Univer-
sity Press, p. 249.
7. Si veda per esempio il discorso di George H.W. Bush del 1999 alla Citadel, che attinge da Franklin
Delano Roosevelt, bit.ly/3ogpbOU
8. E. DOLMAN, Pure Strategy: Power and Principle in the Space and Information Age, London-New
232 York 2005, Frank Cass, p. 6.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
Hong Kong
Gibilterra
Cipro (Akrotiri e Dhekelia)
Terr. Britannico Australia
Sudafrica Nuova
dell’Oceano Indiano Zelanda
Ascensione
Sant’Elena
Tristan da Cunha Territorio antartico britannico Isole Vergini Britanniche
Isole Falkland Isole Pitcairn Turks & Caicos
Georgia del Sud Montserrat Bermuda
e Isole Sandwich Meridionali Anguilla Isole Cayman
re questi ultimi, i nazisti avrebbero capito che il loro codice era stato compromesso
e l’avrebbero cambiato. La strategia costringe a determinare che cos’è più impor-
tante e a concentrare le risorse e le azioni su quell’obiettivo 9. I britannici diedero
la priorità all’accesso alle comunicazioni del nemico, assicurandosi di mantenere
questo vantaggio informativo.
La sottigliezza dell’approccio britannico contrasta fortemente con la brama
americana per la vittoria decisiva. Durante le conferenze congiunte dei capi di
Stato maggiore nella seconda guerra mondiale, George Marshall espresse la pro-
pria determinazione a riprendere la Francia il prima possibile, idealmente nel 1942.
Le controparti britanniche preferivano invece attaccare i punti deboli dei tedeschi
in Nord Africa 10. L’America è una giovane nazione con una grande fducia in sé
stessa, ma ingenua dal punto di vista strategico nel credere che la vittoria decisiva
sia sempre lì, a portata di mano. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
9. R.P. RUMELT, S. RUNNETTE, Good Strategy, Bad Strategy: The Difference and Why It Matters, New York
2012, Currency, p. 90.
10. F.C. POGUE, G.C. MARSHALL, Ordeal and Hope 1939-1942, New York 1963, Viking Press, pp. 328-329.
11. P. ASSELIN, Vietnam’s American War: A History, Cambridge Studies in US Foreign Relations, 2018,
p. 153.
234 12. G.W.F. HEGEL, Lectures on the Philosophy of History, 1832.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
della guerra 13. Ora tale condizione è trascorsa, sostituita da una crescente multipo-
larità e da considerevoli sfde all’egemonia americana. Tali sfde porteranno gli
Stati Uniti a coltivare un approccio strategico nuovo e più sfumato?
STATI UNITI
TUNISIA GIAPPONE
MAROCCO 12 PAKISTAN
ALGERIA
Sahara Occ. 3 4 INDIA 5 TAIWAN 5-MYANMAR
MESSICO 6-THAILANDIA
NIGER 6
BURKINA FASO 7 7-VIETNAM
ETIOPIA
COLOMBIA
NIGERIA UGANDA
KENYA
RUANDA
Five Eyes
I 4 Paesi che più collaborano
con i 5 Eyes AUSTRALIA NUOVA
Paesi di appoggio ai 5 Eyes ZELANDA
SUDAFRICA
Paesi che probabilmente
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mande più ampie, darsi imperativi limitati evitando sconftte in aree poco sensibi-
li e aumentando fessibilità e capacità dove davvero conta.
In sostanza, gli Stati Uniti devono abbracciare la strategia, invece di concen-
trarsi su un’elusiva e impossibile vittoria globale. L’evoluzione è certo scomoda, ma
pure necessaria. Devono diventare più imprevedibili dal punto di vista strategico e
operativo. Un approccio fessibile permetterà loro, alla fne, di ricostituire le pro-
prie Forze armate sovraestese e sovrautilizzate. Un ripiegamento consentirà di ri-
sparmiare denaro, incentiverà gli alleati ad assumersi più responsabilità, rinvigorirà
il morale e le esauste capacità militari.
La Gran Bretagna ha combattuto e vinto due confitti mondiali nel XX secolo.
Vincere le è costato l’impero. La Germania, che li ha persi entrambi, è velocemen-
te diventata la più potente nazione d’Europa. La vittoria è sopravvalutata. Gli Stati
Uniti non devono vincere sempre. Non c’è un collegamento diretto tra il successo
militare e il raggiungimento degli obiettivi geopolitici. Un approccio più sottile e
sfumato comporterà dei rischi nel breve termine. Ma senza di esso, nel lungo pe-
riodo la sorte dell’egemonia americana è segnata.*
* L’articolo è apparso su The Strategy Bridge con il titolo «America’s Winning Culture: A Road to Ruin
in the 2nd Century». 237
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
LA ROMANIA
A STELLE
E STRISCE di Mirko MUSSETTI
Bucarest si lega più strettamente a Washington. E si offre alla Nato
come avanguardia antirussa. Contrappeso all’inaffidabile Turchia,
catapulta verso i Balcani instabili. La centralità della base di
Câmpia Turzii. La partita della Crimea. Mosca sulla difensiva.
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Nero con perdite meglio ripartite tra i membri dell’Alleanza. All’ammodernata base
di Câmpia Turzii, ubicata nell’entroterra e suffcientemente distante da sfuggire a
eventuali attacchi dal mare, spetterà non solo il compito di provvedere alla controf-
fensiva qualora la Romania fosse attaccata, ma anche di organizzare e gestire le
complesse attività di raccolta d’informazioni (Imint, Sigint, Techint) e di intervento
diretto nei teatri di guerra (bombardamenti).
La nuova base potrebbe essere al centro dei programmi di Avril Haines, diret-
trice dell’intelligence nazionale americana ed esperta analista militare nel campo
dei droni. Non deve quindi stupire che il Pentagono abbia già provveduto a trasfe-
rirvi un numero imprecisato di droni Mq-9 Reaper, oltre a una novantina di piloti.
Le unità ivi dislocate saranno subordinate alla Brigata 31 di Aviano (Italia). Il co-
mandante delle Forze aeree Usa in Europa, il generale Jeffrey Harrigian, è stato fn
troppo chiaro sul ruolo riservato alla base transilvana: «La posizione avanzata dei
droni Mq-9 in questo importante punto strategico offre sicurezza ai nostri alleati e
trasmette un messaggio di avvertimento ai nostri avversari: possiamo rispondere
rapidamente a ogni minaccia emergente». Pur alludendo alle frequenti manovre
pericolose di intercettazione dei velivoli alleati ad opera della Federazione Russa,
la studiata vaghezza con cui vengono defnite le minacce lascia intuire un ventaglio
molto più ampio delle direzioni geografche d’intervento concepite per il nuovo
centro aeronautico.
La stessa Romania sta acquisendo prezioso know-how nell’ambito degli aero-
mobili a pilotaggio remoto (Uav), frmando importanti contratti con l’israeliana El-
bit Systems per la costruzione, la manutenzione e la riparazione degli ultrarodati
droni da ricognizione e sorveglianza Hermes 450, nonché per il trasferimento in
Romania di tecnologia idonea alla futura produzione del più avanzato Hermes 900
e del mini Uav Skylark I, utile nelle operazioni di sorveglianza tattica delle forze
speciali. L’impegno mostrato nella modernizzazione delle proprie Forze armate,
nonché lo zelo con il quale Bucarest destina più del 2% del prodotto interno lordo
ai settori più dirimenti della difesa, la presentano come alleato modello agli occhi
240 del decisore politico americano. Ragion per cui la nuova amministrazione Biden
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
proseguirà sul solco già tracciato nel corso degli anni nella fortifcazione del paese
carpatico contro le sempre paventate minacce moscovite.
Basi Nato
F. V
in Romania U C R A I N A o lga
n
Accordo Usa-Grecia F. D o
Transnistria Rostov-
per la costruzione
LA ROMANIA A STELLE E STRISCE
BULGARIA
Istanbul
T U R C H I A
Alessandropoli ANKARA (Rivale strategico della Russia
Stretto e pseudo-alleato degli Usa)
Stefanovikio dei Dardanelli
Larissa
GRECIA
(Alleato Usa)
ATENE Convogli navali
S I R I A russi verso la Siria
na dista circa 250 chilometri dalle coste crimeane. Nel corso dell’esercitazione
congiunta romeno-americana Rapid Falcon, i militari del 1° Battaglione del Reggi-
mento 77 Artiglieria hanno imbarcato due batterie Himars (High Mobility Artillery
Rocket System) su un aereo cargo Mc-130J nella base aerea di Ramstein in Germa-
nia. Dopo averle dislocate in un poligono nei pressi della base Mihail Kogăniceanu,
hanno effettuato lanci di missili verso il Mar Nero. Dopodiché i preziosi sistemi
d’arma sono immediatamente rientrati in Germania. La manovra esprime la princi-
pale caratteristica del nuovo concetto del Pentagono sul dispiegamento degli arma-
menti pesanti, ovviando così al più lento trasporto ferroviario e autostradale. Ad
ogni modo, nel 2021 la Romania sarà il primo paese europeo a ricevere i sistemi
terra-terra Himars, che entreranno nelle pertinenze dell’8a Brigata Larom intitolata
a Alexandru Ioan Cuza, a Focşani.
Questo modo di operare costringe il Cremlino a ricercare soluzioni consone ai
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4. Nei prossimi anni gli apparati statunitensi potrebbero riservare alla Romania
un ruolo più importante rispetto a quello di avamposto antirusso. Nell’ottica ame-
ricana il paese neolatino può assumere funzioni di controllo verso l’inaffdabile
Turchia e di stabilizzazione (o viceversa) nei Balcani occidentali. Ma prima che si
compia l’assegnazione di maggiori oneri, l’amministrazione Biden dovrà tenere
conto del desiderio più irrinunciabile – seppur sottaciuto – della politica estera
romena: l’Unirea, ovvero l’unifcazione della Bessarabia alla madrepatria.
La vittoria della floccidentale Maia Sandu alle elezioni presidenziali della Re-
pubblica Moldova offre molte opportunità per un’accelerata integrazione dei diver-
si apparati statuali. Non è un caso che Klaus Iohannis sia stato il primo capo di
Stato a fare visita all’omologa moldava. Il fatto che sia stato il presidente romeno a
recarsi il 29 dicembre scorso a Chişinău assume il signifcato di «benvenuto a casa».
Se viceversa fosse stata la neoeletta a recarsi a Bucarest, l’evento sarebbe stato
percepito come atto di vassallaggio. Un piccolo gesto simbolico, ma molto apprez-
zato dalla controparte valacca, è stato compiuto contestualmente all’insediamento 245
LA ROMANIA A STELLE E STRISCE
di Maia Sandu: il sito Web della presidenza ha visto l’abbreviazione «RO» sostituirsi
a «MD» rimarcando il fatto che la limba de stat è il rumeno, non l’inesistente mol-
davo. Tutto lascia pensare che i rapporti tra Romania e Moldova possano intensif-
carsi sensibilmente nei prossimi mesi.
Oltre all’ultimazione dell’importante gasdotto Iaşi-Ungheni-Chişinău, che ridu-
ce sensibilmente la dipendenza della Bessarabia dal gas russo (ma non quella
della Transnistria), sono molti i programmi energetici e socioeconomici volti a le-
gare defnitivamente e in modo sempre più stretto la piccola nazione sorella alla
madrepatria. Durante la sua visita, Iohannis ha promesso aiuti concreti che mai
avrebbe offerto all’ex presidente florusso, Igor Dodon, il quale comunque non li
avrebbe accettati pubblicamente. Dalle 200 mila dosi di vaccino anti-Covid-19 alla
strumentazione medica, dalle 6 mila tonnellate di gasolio per l’agricoltura alle bor-
se di studio per universitari, gli aiuti romeni mirano a conquistare il cuore della
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iume
D ne
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Debrecen
rst
R O M A N I A MOLDOVA
UNGHERIA Oradea
Fiume
Emanoil Ionescu
1
Câmpia Turzii Sir et
Arad
Sibiu Focșani
Lugoj
Isola dei
F. D an u bi o
Timișoara Serpenti
Mihail Kogălniceanu
3
Pitești
Cernavodă
F iume Danubio Costanza
BUCAREST
nubio
2 Deveselu e Da
Calafat um
S E R B I A F
i
Mar Nero
1 Base militare Emanoil Ionescu, B U L G A R I A
SOFIA
ospita caccia e droni americani
KBase
O Smilitare
O V O di Deveselu, sede
2
dello scudo missilistico Nato Svilengard
3 Base aerea Mihail Kogălniceanu Plovdiv
CentraleMnucleare
A C E DdiO Cernavodă
NIA
Isola dei DSerpenti
E L N(Ucraina),
ORD TURCHIA
sede futura di una base
del Sistema di allerta e sicurezza GRECIA Mar
di Marmara
marittima (Gmdss). Probabile Alessandropoli
installazione di sistemi
ALBANIA Salonicco
missilistici antinave
Mar Egeo
Basi Nato TURCHIA
Porto militare 247
LA ROMANIA A STELLE E STRISCE
quello che di fatto è un piccolo mare chiuso. Entrarvi con una grossa fotta è sem-
plice, uscirne interi un po’ meno. Nessun ammiraglio lucido accetterebbe missioni
gravose con il rischio di effetti imbuto nel Bosforo in caso di ritirata, magari inge-
nerati dalla non collaborazione da parte della sovrana degli Stretti. Dal punto di
vista navale Washington punterà piuttosto sul porto greco di Alessandropoli nell’E-
geo, rafforzando invece per la Romania un ampio ventaglio di altri aspetti: missili-
stica, aviazione, logistica, nucleare, controspionaggio e cibernetica.
Il cambio al vertice dell’ambasciata a Bucarest, dove il «troppo trumpista»
Adrian Zuckerman è stato sostituito dall’obamiano George Maior, non intaccherà
gli ottimi rapporti maturati nel corso degli anni tra Stati Uniti e Romania. Semplice-
mente, i medesimi obiettivi – prima perseguiti in modo bilaterale – verranno ripro-
posti in chiave multilaterale, coinvolgendo più frequentemente Nato, Ue e I3M. Al
governo di Bucarest non dispiacerà.
248
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
COME ANKARA
SI SERVE
DI WASHINGTON di Daniele SANTORO
leato anatolico. Non per questo meno cruenta. Espressione della determinata vo-
lontà di non concedere nulla ai turchi. Di conservarli – se necessario con la forza
– allo status di clienti. Per timore che sappiano dare corso alle proprie ambizioni.
È per queste ragioni che l’intervento degli Stati Uniti a sostegno delle milizie
curde di ‘Ayn al-‘Arab nell’ottobre 2014 ha segnato un momento di rottura senza
precedenti nelle relazioni tra Ankara e Washington. Non (solo) per la micidiale
minaccia alla sicurezza turca posta dall’alleanza tra la superpotenza e il Pkk lungo
l’intero confne meridionale della repubblica, quanto soprattutto perché la mossa
dell’amministrazione Obama metteva in crisi l’assunto fondamentale della grande
strategia di Ankara, fondata sulla percepita indispensabilità della potenza anatolica
per gli interessi americani in Medio Oriente.
La crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Turchia innescata dalla successiva avanza-
ta della coalizione Usa-Pkk lungo il medio corso dell’Eufrate, tra Raqqa e Dayr al-
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Zawr, e dalla conquista da parte delle milizie curde degli insediamenti abbarbicati
al confne turco-siriano ha rappresentato il culmine di una tendenza in atto quan-
tomeno della fne della guerra fredda. O meglio, che la fne della guerra fredda ha
drammaticamente accentuato.
L’implosione dell’impero sovietico pose fne all’epoca iniziata con l’armistizio
di Mondros (Mudros) del 30 ottobre 1918, creando le condizioni geopolitiche che
permisero alla Turchia di consolidare e sostanziare l’assertiva strategia revisionista
germinata con l’annessione dell’Hatay nel 1938-39 e radicatasi nel sostrato nazio-
nale anatolico con la difesa di Cipro Nord dall’aggressione greca nel 1974. Nel
decennio successivo allo scongelamento dei blocchi Ankara si è adoperata per
invertire strutturalmente il processo di arretramento territoriale principiato a Vien-
na nel 1683 e sospeso il 26 agosto 1922 sull’altura di Kocatepe, dove Gazi Musta-
fa Kemal Atatürk pose il suo quartier generale alla vigilia della Grande offensiva
contro i greci.
A partire dall’inizio degli anni Novanta la Turchia ha ripreso a irradiare poten-
za nei territori imperiali con cognizione propriamente strategica, segnalando agli
ex clienti ottomani la determinazione con la quale intende rigiocare la partita persa
tra il 1911 e il 1922. Già nel 1991 l’allora presidente della Repubblica Turgut Özal
aderì con entusiasmo alla prima offensiva americana contro Saddam Hussein, met-
tendo a disposizione della superpotenza le basi turche, costringendo alle dimissio-
ni il capo di Stato maggiore delle Forze armate Necip Torumtay, stabilendo tramite
il suo consigliere Cengiz Çandar relazioni formali con i curdi dell’altro Iraq e deli-
neando una visione panturca che si proponeva di estendere il raggio d’azione di
Ankara «dalla Muraglia cinese all’Adriatico». Le prime conseguenze concrete di
quest’ultima narrazione si ebbero nel 1995, quando gli apparati turchi provarono
senza successo a rovesciare il russoflo Haydar Aliyev per reinsediare sul trono
d’Azerbaigian il deposto Ebulfez Elçibey. L’anno dopo la Marina turca sfdò la con-
troparte greca nelle acque dello scoglio di Kardak, appendice occidentale del Do-
decaneso, manifestando un’evidente determinazione ad affondare in mare i greci.
250 Nella riunione del Consiglio di sicurezza nazionale del 29 gennaio 1996 il primo
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
ministro Tansu Çiller annunciò la preparazione della Turchia alla guerra con il vi-
cino stabilendo che «quella bandiera (greca, n.d.a.) verrà ammainata».
Nel 1997 Ankara strinse con una mano la rivoluzionaria intesa militare con
Israele e con l’altra il primo accordo di cooperazione energetica con l’Iran. Nel
1998 le Forze armate turche inviarono carrarmati e missili Scud-C al confne con la
Siria, costringendo Õåfi‰ al-Asad a espellere il leader del Pkk Abdullah Öcalan –
catturato l’anno dopo – e a frmare il cosiddetto accordo di Adana, che garantisce
alla Turchia il diritto di svolgere operazioni antiterrorismo in territorio siriano fno
a cinque chilometri di profondità. Nel 2001 il socialkemalista e sanscritofono Bülent
Ecevit accusò clamorosamente Israele di «genocidio» per le operazioni in Cisgior-
dania, ponendo le basi per la successiva appropriazione della causa palestinese da
parte di Erdoãan. Nel 2003, a chiudere il cerchio, il parlamento turco rifutò di
concedere agli Stati Uniti l’uso delle basi anatoliche nell’ambito della prevista se- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
1. B. SERDAR, «ABD’nin TCG Muavenet ‘i vurarak verdiãi mesaj» («Il messaggio inviato dagli Stati Uniti
colpendo il Muavenet»), Aydınlık, 3/10/2018.
2. D. PERINÇEK, Gladyo ve Ergenekon (Gladio ed Ergenekon), østanbul 2008, Kaynak Yayınları, pp. 62-63. 251
COME ANKARA SI SERVE DI WASHINGTON
clamorosa – seppur parziale – eccezione Recep Tayyip Erdoãan, la cui ascesa alla
carica di primo ministro nel marzo 2003 aprì apparentemente una nuova pagina nei
rapporti turco-americani. Dinamica che svela la superiorità della visione strategica
turca sul tatticismo a stelle e strisce. Gli Usa favorirono l’avvento di Erdoãan convin-
ti di usarlo per spaccare la Turchia, di poter far leva sulla sua proverbiale megaloma-
nia per indurlo a mettersi a capo di un’improbabile federazione di avanzi imperiali
centrata su Diyarbakır. Di riuscire a spingerlo a fondare un nuovo Stato fallito che
avrebbe cancellato la repubblica fondata da Gazi Mustafa Kemal Atatürk. Prospettiva
che sconta(va) l’ignoranza della causa eterna della nazione turca, dell’approccio
propriamente strategico del suo alfere contemporaneo. Lungi dal farsi usare, Er-
doãan ha usato e poi umiliato gli americani. Come testimonia la rancorosa rabbia dei
portavoce degli apparati, determinati a rovesciarlo perché non possono (più) con-
trollarlo 3. Come aveva annunciato fn dal principio 4, il leader turco è salito sul treno Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
americano, si è seduto comodamente in prima classe ed è poi sceso alla sua ferma-
ta. Tornando nel grembo degli apparati dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016.
Non fa invece eccezione la rocambolesca presidenza Trump. Al netto della
retorica strumentale sulla relazione speciale tra la Turchia «di Erdoãan» e l’America
«di Trump», quest’ultimo non ha invertito la rotta di collisione. Ha anzi indurito
ulteriormente l’approccio nei confronti dell’alleato. A differenza di Obama, non ha
mai svolto una visita uffciale ad Ankara. La sua amministrazione ha incrementato
esponenzialmente il fusso di armi destinato al Pkk in Siria, ha confermato l’embar-
go del suo predecessore sui Patriot estendendolo agli F-35 e alle pistole usate
dalle guardie del corpo di Erdoãan. Ha forgiato il blocco saudo-emiratino, contri-
buendo materialmente all’ascesa regionale dei principi noti per acronimo. Nell’e-
state 2018 ha semidistrutto la lira turca con una violenta – e rivendicata – offensiva
monetaria, probabilmente l’atto più ostile degli Stati Uniti nei confronti della Tur-
chia nella storia delle relazioni tra i due paesi. Ha inoltre comminato svariate san-
zioni ad Ankara – le ultime dopo aver perso le elezioni – e minacciato di distrug-
gerne l’economia in occasione dell’Operazione Fonte di pace a est dell’Eufrate.
Quest’ultima viene strumentalmente considerata la prova provata dell’intesa
tra la Turchia «di Erdoãan» e l’America «di Trump», il quale avrebbe servito al soda-
le su un piatto d’argento un pezzo di «Kurdistan» ritirando di sua volontà le truppe
dalla regione di confne compresa tra Tall Abyaî e Raʾs al-‘Ayn. Visione che come
spesso accade sacrifca la realtà geopolitica sull’altare del conformismo ideologico
prevalente. Obama, Trump o Biden, nell’ottobre 2019 qualsiasi presidente ameri-
cano sarebbe stato costretto al ritiro tattico (30 chilometri) ordinato dal tycoon,
dato che la pressione della Turchia e l’insofferenza dell’elemento autoctono erano
divenute insostenibili 5. Quella tra Tall Abyaî e Raʾs al-‘Ayn è infatti un’area stori-
3. «Video of Joe Biden’s call to back Erdogan opposition goes viral in Turkey», The National, 16/8/2020,
bit.ly/39cpLH1
4. Nella celebre massima di Erdoãan – «La democrazia è come un treno, quando arrivi alla tua fermata
scendi» – «democrazia» va intesa come «America».
5. A. STEIN, «The Crisis is Coming: Syria and the End of the U.S.-Turkish Alliance», War on the Rocks,
252 5/8/2019, bit.ly/2Tho3vy
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
a occidente premono per riappropriarsi dei territori a sud-est del fume Menderes,
Alâeddin mobilita le tribù di frontiera, che sopperiscono all’inferiorità numerica e
tecnologica con la prospettiva di ampliare i propri domini e guadagnare autonomia
dal centro imperiale.
Erdoãan pensa sé stesso come l’uçbey mediorientale dell’impero americano.
Percepisce la volontà della superpotenza di concentrare le proprie truppe e i pro-
pri assetti sul fronte pacifco, contro la Cina, il desiderio di smobilitare dai territori
mediorientali, senza naturalmente cederli al nemico. Si offre dunque di contenere
le ambizioni di russi e persiani mentre gli americani sono distratti dalla minaccia
cinese, di proteggere quello che la superpotenza già controlla e di annettere all’im-
pero nuovi territori (Libia, Siria, Caucaso). Pretendendo in cambio il riconoscimen-
to della sua sovranità sostanziale sulle nuove conquiste, la legittimazione formale
come viceré mediorientale dell’impero americano. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
pio dal ruolo decisivo giocato nel golpe che nel 1078 consentì allo strategos dell’A-
natolikon Niceforo III Botaniate di conquistare il trono.
La genesi dell’impero repubblicano richiede dunque una fase di sviluppo in-
termedia nell’impero americano, come dimostra il processo di nascita delle grandi
costruzioni imperiali dei turchi. Sempre gemmate dalla contiguità ai e dalla fre-
quentazione dei grandi imperi della propria epoca. Presupposto indispensabile per
introiettare lo standard imperiale contemporaneo e turchizzarlo. Approccio nitida-
mente rifesso dalla struggente passione con la quale Erdoãan ha difeso la Nato
dalle invettive del rivale regionale Emmanuel Macron. Fedeltà alla causa che non
è sfuggita al presidente americano Trump, il quale a margine del vertice dell’Alle-
anza Atlantica di Londra del dicembre 2019 fece notare ai cronisti che gli chiede-
vano conto delle parole dell’inquilino dell’Eliseo che «il presidente della Turchia gli
ha risposto che è lui a essere cerebralmente morto, which is interesting» 7.
M a r E g e o Rodi
Karpathos
SIRIA
Creta
COME ANKARA SI SERVE DI WASHINGTON
Kasos
CIPRO
LIBANO
LIBIA
M a r M e d i t e r r a n e o ISRAELE Cisg.
Terminali per esportazione gnl Damietta
Acque contese (Libano/Israele) Gaza
GIORDANIA
Importanti giacimenti di gas Idku
Accordo Turchia/Tripoli (2019)
Area turca
Area libica
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
E G I T T O
Limiti di Zee frutto di un accordo bilaterale LE PARTITE ENERGETICHE NEL
Limiti di Zee non ufciali MEDITERRANEO ORIENTALE
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
te le fregate classe Gabya hanno giocato un ruolo cruciale nel garantire alla Turchia
la superiorità aerea in Tripolitania. Se i software e i radar sono di produzione na-
zionale, l’hardware – le navi – vennero acquistate dagli Stati Uniti alla fne degli
anni Novanta, peraltro come compensazione per l’affondamento del Muavenet.
Circostanza che Ankara intende fare in modo non debba ripetersi. Quest’anno i
cantieri navali turchi licenzieranno l’østanbul, prima delle quattro fregate classe
østif, la cui entrata in servizio è prevista al massimo nel 2023.
Il processo di nazionalizzazione riguarda sostanzialmente l’intera gamma degli
assetti militari. Sempre quest’anno inizierà la produzione in serie dei carrarmati
classe Altay. Nel 2027 è previsto l’ingresso in servizio del primo cacciatorpediniere
classe TF-2000, mentre il prototipo di aereo da guerra di quinta generazione (TF-X)
– che dovrà rimpiazzare i senescenti F-16 ed eventualmente sopperire all’embargo
sugli F-35, di cui Ankara continua a produrre componenti essenziali come se fosse Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
dei prototipi di automobile volante (Cezeri) 13 e nave senza pilota (Ulaq) 14. Così
come dalle spedizioni scientifche nel continente antartico, emblematiche della
dilatazione del raggio d’azione della Turchia 15. Evidente soprattutto sotto il prof-
lo commerciale.
Il 16 dicembre scorso il primo treno turco ha raggiunto la città cinese di Xian
– storicamente origine e terminale delle vie della seta – dopo dodici giorni di viag-
gio lungo la rotta Istanbul-Kars-Tblisi-Baku-Aktau 16. Iniziativa che ha permesso ad
Ankara di dimostrare concretamente la convenienza del «corridoio centrale», la
rotta più breve per trasferire merci tra Europa e Cina. Dunque, di consacrare l’Ana-
tolia quale snodo imprescindibile e inaggirabile dei traffci eurasiatici. Assunto
fondamentale della geopolitica anatolica kemalista, così come di quella selgiuchi-
de. Contestualmente, la Turchia ha raggiunto un accordo con Iran e Pakistan per
la riapertura del corridoio ferroviario Istanbul-Teheran-Islamabad, infrastruttura Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
13. F. GENÇOÃLU, «Turkey successfully tests its 1st fying car», Anadolu Agency, 16/9/2020, bit.ly/3blD1vw
14. H. ÖZDEMIR TOSUN, S. ELÇIN, «Turkey unveils armed unmanned surface vessel prototype», Anadolu
Agency, 15/12/2020, bit.ly/2LgyzUn
15. F. PETRONI, «Alla conquista dell’Antartide», Limes, «Il clima del virus», n. 12/2020, pp. 185-196.
16. T. S¸AHIN, «1st Turkey-China freight train completes historic trip», Anadolu Agency, 19/12/2020, bit.
ly/3otiSHB
17. «Istanbul-Tehran-Islamabad Railway to Change the Course of Intercontinental Trade», Straturka,
dicembre 2020, bit.ly/3bk9cvr
18. M. TANCHUM, «Italy and Turkey’s Europe-to-Africa Commercial Corridor: Rome and Ankara‘s Geopo-
litical Symbiosis Is Creating a New Mediterranean Strategic Paradigm», Aies Fokus, ottobre 2020, bit.
ly/3s5e0L9 259
COME ANKARA SI SERVE DI WASHINGTON
a fne dicembre hanno visitato Tripoli per la prima volta dal 2014 19. Riconoscendo
implicitamente il Governo di accordo nazionale (Gna) che ha sottoscritto il contro-
verso accordo per la delimitazione delle aree di sovranità marittima con la Turchia.
Esempio della capacità di quest’ultima di proiettare un’infuenza decisiva nel pro-
prio spazio imperiale, di costringere i rivali ad abbassare la testa permettendogli di
salvare la faccia, di attrarli – volenti o nolenti – verso la propria sfera. Trasforma-
zione strutturale rispetto alla fase pre-golpe, quando gli americani riuscirono a
frustrare con estrema semplicità le ambizioni di Erdoãan esponendo pubblicamen-
te le defcienze organiche di Ankara. Drammaticamente evidenti nelle dinamiche
che hanno condotto alla catastrofe siriana.
Nell’ultimo quinquennio la Turchia è dunque riuscita a elevare la sfda agli
Stati Uniti a un livello superiore. La dote di cui è titolare impedisce fsicamente a
Washington di liquidare le ambizioni turche come nel 2013-14. L’autostima conqui-
stata grazie alla resistenza del 15 luglio 2016 e ai successivi successi militari, tecno-
logici e industriali ha conferito alla nazione turca la sicurezza necessaria a smettere
autonomamente i panni del vassallo della superpotenza. Ponendo a Washington
un dilemma sostanzialmente inedito. Non riconoscere ad Ankara (almeno) parte di
quanto chiede implicherebbe infatti non già l’uscita della Turchia dall’impero ame-
ricano, ma la progressiva penetrazione di Russia e Cina nello stesso.
chino. Come dimostra la facilità con la quale Washington è riuscita ad attirare Mo-
sca in Siria senza lasciarle via d’uscita. Rimbalzati dai droni turchi a Idlib, i russi non
riescono nemmeno a riunifcare i territori a ovest dell’Eufrate, dove gli americani
hanno ceduto ogni prerogativa. Dopo l’operazione turca dell’ottobre 2019 si sono
spinti a est del fume allo scopo di mettere il cappello sui «curdi». Per poi essere
quotidianamente umiliati dai bombardamenti dell’artiglieria turca sulla strategica
città di ‘Ayn ‘Īså. Osservati dai russi in qualità di spettatori, dal momento che gli
Stati Uniti non permettono loro di far volare i propri aerei da guerra nell’Oriente
siriano. Mosca deve contestualmente mantenere un regime fallito e in piena agonia,
sadicamente seviziato da Washington con un pezzo di sanzione al mese. Senza la
prospettiva concreta di una soluzione che le permetta di uscire dal pantano. Mentre
viene periodicamente molestata nel suo cortile di casa, in Ucraina e Bielorussia.
Molto banalmente, non c’è alcuna ragione per la quale gli americani debbano sa- Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
salto di qualità nei rapporti tra le due potenze eurasiatiche è tuttavia avvenuto il 12
luglio 2019, quando gli Antonov russi sono atterrati nella base di Mürted sbarcando
le prime componenti del sistema d’arma antiaereo S-400, il cui acquisto da parte
della Turchia è all’origine dell’embargo sugli F-35, delle recenti sanzioni americane
e più in generale dell’avvitamento delle relazioni turco-statunitensi. In realtà, la suc-
cessione logica va invertita. Per quanto l’embargo sugli F-35 sia successivo all’acqui-
sizione degli S-400, ne costituisce il presupposto. Dopo il blocco alla vendita dei
droni e dei Patriot del 2008, i turchi hanno acquisito la certezza che la superpotenza
avrebbe disseminato di trappole la via verso la restaurazione dell’impero. Così, han-
no giocato d’anticipo dotandosi del sistema russo. I generali turchi sono infatti con-
vinti che gli S-400 possano garantire una considerevole superiorità aerea nell’Egeo e
nel Mediterraneo orientale 21. Anche se gli americani cedessero gli F-35 ai rivali – so-
prattutto Grecia ed Emirati Arabi Uniti – negandoli ad Ankara. È questo il varco al Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
quale la Turchia attende gli Stati Uniti. L’esito di un’eventuale sfda tra S-400 ed F-35
è un’incognita. La prospettiva che i missili russi dispiegati in Anatolia possano abbat-
tere un aereo americano di quinta generazione operato dai greci è tutt’altro che re-
mota. Rischio che nell’ottica di Ankara dovrebbe spingere Washington a un supple-
mento di rifessione, a valutare con maggiore attenzione le conseguenze derivanti
dal mancato riconoscimento alla Turchia dello status che essa ritiene le spetti di di-
ritto. Porgendo con l’altra mano un ramoscello d’ulivo. Gli S-400 avrebbero dovuto
essere attivati nell’aprile 2020. Al gennaio 2021 sono ancora inattivi. A dimostrazione
del fatto che i missili russi sono soprattutto una carta che Ankara intende giocare nel
braccio di ferro con la superpotenza allo scopo di convincerla (costringerla, se ne-
cessario) a defnire una relazione bilaterale privilegiata innanzitutto sotto il proflo
militare, a concederle uno status sovraordinato nel proprio sistema imperiale.
Le relazioni sino-turche sono caratterizzate da una logica analoga. La Turchia
si lega tatticamente a Pechino, accoglie con giubilo gli investimenti cinesi, si rivol-
ge spregiudicatamente alla Repubblica Popolare per puntellare la sua moneta, sa-
crifca gli uiguri – che l’eurasiatico Doãu Perinçek ha equiparato al Pkk 22 – per
compiacere l’Impero del Centro. Ma persegue l’obiettivo strategico di pugnalare il
Dragone alle spalle, di sfruttare l’emergenza epidemica per affermarsi come uno
snodo della catena produttiva globale alternativo alla Cina. A ottobre il Consiglio
per le relazioni economiche con l’estero (Deik) e il Consiglio Turchia-Usa (Taik)
hanno pubblicato un rapporto nel quale vengono formalizzati gli obiettivi di lungo
periodo di Ankara sotto il proflo industriale e commerciale: «sostituire la Cina»,
raggiungere un interscambio di cento miliardi di dollari con gli Stati Uniti, avviare
con Washington iniziative strategiche in Africa in chiave anticinese 23. I turchi sono
convinti che nel prossimo biennio la guerra commerciale tra Usa e Repubblica
21. E. BLINOVA, «“If Greece Buys F-35 Fighters, Turkey Will Use S-400 Against Them”, Ret. General Says»,
Sputnik, 18/11/2020, bit.ly/3blFE0j
22. «Perinçek’ten Uygur Türkleri için skandal sözler: PKK ne ise odur» («Le scandalose parole di Pe-
rinçek sui turchi uiguri: sono come il Pkk»), Yeni S¸afak, 16/12/2020, bit.ly/2Lhsirn
23. «Re-thinking Turkey-US Economic Relations in the Covid-19 Context», taik.org.tr, ottobre 2020, bit.
262 ly/2MLP0II
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
24. J.M. DORSEY, «Turkey gambles in bid to rival China as a key supply chain node», Straturka, dicembre
2020, bit.ly/3s7z6ID
25. «Turkish drones are real threat to enemies: UK defense chief», Duvar English, 13/12/2020, bit.ly/2LBg5xt
26. D.S. ELMAS, A. KAHANA, «Erdoãan confdant sends Israel another message of reconciliation», Israel
Hayom, 6/12/2020, bit.ly/3nv2sx3 263
COME ANKARA SI SERVE DI WASHINGTON
l’emiro al-Ñånø avrebbe compiuto un passo del genere senza il consenso della Tur-
chia, che ne difende fsicamente la sopravvivenza con i 5 mila soldati stanziati a
Doha. La riappacifcazione tra Arabia Saudita e Qatar marginalizza inoltre gli Emi-
rati Arabi Uniti – costretti a fare buon viso a cattivo gioco – schiudendo la Penisola
Arabica alla proiezione d’infuenza turca. I sauditi non si sono ancora ripresi dal
trauma degli attacchi alle installazioni dell’Aramco del settembre 2019. Vedono gli
õûñø floiraniani sciamare al proprio confne. Sono consapevoli del successo totale
ottenuto in Libia dalla coppia Turchia-Qatar contro Abu Dhabi e i suoi clienti.
Complesso di sensazioni che crea le premesse geopolitiche per un prossimo coin-
volgimento turco-qatarino nell’area yemenita. Come sembrano anticipare l’esodo
della Fratellanza musulmana locale verso l’Anatolia e le inusuali attestazioni di sti-
ma reciproca tra Erdoãan e re Salmån.
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30. D. SANTORO, «Ankara esulta, Hillary è stata sconftta!», Limes, «L’agenda di Trump», n. 11/2016, pp.
217-223. 265
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
LIMES Trump è stato sicuramente un asset per Israele: dal trasferimento dell’amba-
sciata a Gerusalemme al riconoscimento dell’annessione del Golan fno agli ac-
cordi di Abramo. Qual è il suo giudizio sulla sua amministrazione? E che cosa lo
Stato ebraico si aspetta da Biden e dai democratici, tra i quali vi sono gruppi che
si oppongono duramente a Israele?
GOLD Che cosa si può pensare di una amministrazione che ha avuto con i governi
israeliani degli ultimi anni un’identità di vedute a dir poco molto ampia? Ma dopo
un periodo che è stato «tutto miele» il futuro sarà per lo meno agrodolce. Il soste-
gno a Israele è sempre stato basato sul consenso – tanto nelle amministrazioni
quanto nell’opinione pubblica americana – indipendentemente dal fatto che si
trattasse di repubblicani o di democratici. Se è vero che negli ultimi anni si sono
formati all’interno dei democratici gruppi che hanno espresso riserve nei confronti
di Israele, la grande maggioranza di questo partito è ancora dalla nostra parte. E gli
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israeliani questo lo sanno bene. Per un riscontro nei fatti dovremo ovviamente
vedere come Biden si muoverà. Ma intanto tutti gli incarichi più importanti sono
stati affdati a personaggi che rappresentano la corrente più centrale e consensuale
dei democratici. Conosciamo le pressioni esercitate da elementi che nel periodo di
Obama erano giunti a un certo livello di infuenza per una nuova linea nei rappor-
ti con Israele, ma non sappiamo assolutamente se – e in quale misura – queste
pressioni porteranno a un qualche risultato. Aggiungerei poi che i cambiamenti
non sono a senso unico – sempre e solo contro Israele. Ad esempio, in questo
periodo di crisi per il Covid-19 la percezione dello Stato ebraico nel pubblico ame-
ricano è notevolmente migliorata. Improvvisamente Israele viene ritenuto una po-
tenza sul piano medico-sanitario, con la capacità di vaccinare in poche settimane
quasi un quarto della propria popolazione, mentre Europa e Stati Uniti stanno in-
contrando enormi diffcoltà. Un successo che si aggiunge ai molti degli ultimi anni
in svariati campi scientifci e tecnologici. Se consideriamo poi le nuove prospettive
aperte dalla normalizzazione con alcuni importanti paesi arabi, tutto questo fa sì
che non solo gli Usa, ma anche molti paesi occidentali non nascondano l’interesse
a collaborare con Israele in vari settori. È un fatto nuovo che potrebbe avere svi-
luppi importanti per noi.
LIMES Molti pensano che le condizioni che si erano create alcuni mesi fa per l’an-
nessione da parte di Israele della Cisgiordania siano irripetibili. Qual è secondo lei
il motivo per cui Netanyahu prima l’ha annunciata e poi l’ha lasciata cadere?
GOLD Ovviamente non sono al corrente dei programmi del governo israeliano ri-
guardo all’applicazione della nostra sovranità sui territori della Cisgiordania. Certo
è che ci sono specifche parti di questi territori che sono state sempre considerate
da tutti i governi israeliani strategicamente irrinunciabili, anche nel quadro di una
soluzione defnitiva del confitto. Mi riferisco soprattutto alla Valle del Giordano.
Nessun governo israeliano rinuncerà mai a questa barriera perché ciò metterebbe
in serio pericolo la sicurezza dello Stato. Non c’è stato un solo leader israeliano
– da Allon a Rabin, Sharon, Barak e Netanyahu, solo per ricordarne alcuni – che
268 non abbia percepito la Valle del Giordano come diaframma contro attacchi da
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
oriente. Anche oggi, purtroppo, questa situazione permane. I gruppi ostili deside-
rosi di colpire Israele si sono moltiplicati e sono pronti ad agire in ogni spazio che
verrà loro lasciato. Quasi tutto avviene sotto la regìa o quantomeno il sostegno
dell’Iran, che oltre a progredire nel proprio grande progetto atomico alimenta
formazioni che tengono costantemente sotto minaccia Israele con infltrazioni,
azioni terroristiche, attacchi mirati e lanci di razzi e missili. E se è vero che i peri-
coli più immediati vengono da Õizbullåh, da nord e nord-est (Libano e Siria), e
da Õamås (Striscia di Gaza), è anche vero che i covi di gruppi legati ad al-Qå‘ida
non sono poi così lontani. Il confne con l’Iraq dista da Israele meno di 500 chi-
lometri e la penisola del Sinai poche decine di chilometri. Con la volontà e l’aiuto
dell’Iran sono distanze assolutamente superabili. Insomma, se le circostanze han-
no spinto a mettere in secondo piano l’applicazione della sovranità – forse per
non minare o comunque creare ombre sugli accordi di Abramo – non prevedo Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Israele che nel quadro di un accordo fnale alcune specifche parti della Cisgior-
dania – soprattutto la Valle del Giordano – debbano rimanere parte del nostro
Stato. Quanto ai Territori occupati nel 1967, si discuterà del loro futuro status
come parte di un’entità autonoma palestinese: alcuni accettano l’idea di uno Stato
indipendente e sovrano, mentre altri vorrebbero concedere al massimo una auto-
nomia. Ma di fatto, accettando il piano di pace di Trump lo Stato ebraico ha ac-
cettato anche le divisioni territoriali presenti nella proposta. I recenti accordi dan-
no a Israele l’opportunità di lavorare con i partner degli Stati arabi circa la conf-
gurazione territoriale della Cisgiordania nell’ambito di un accordo di pace con i
palestinesi.
Per esempio, i palestinesi hanno un disperato bisogno di aumentare il loro prodot-
to interno lordo. Le nuove partnership regionali potrebbero facilitare le rotte viarie
e ferroviarie da Haifa, attraverso Cisgiordania e Giordania, per il Golfo Persico. I
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maggiore caos, che non gioverà a nessuno. Tantomeno all’America stessa, all’Ara-
bia Saudita e a Israele, che rimane in ogni caso obiettivo dichiarato del nucleare
iraniano.
LIMES La diaspora ebraica in America è divisa, una parte critica severamente Israele.
Che cosa ne pensa? Che peso ha oggi la diaspora per Israele?
GOLD Lo Stato d’Israele deve assolutamente rinnovare il dialogo con l’ebraismo
americano ampliando quanto più possibile il comune denominatore che ci uni-
sce. Quando Obama è stato eletto, moltissimi ebrei americani – soprattutto fra i
liberali e non ortodossi – lo hanno seguìto entusiasticamente. La sua amministra-
zione ha adottato posizioni molto rigide verso Israele. Questo ha creato un divario
all’interno dello stesso ebraismo americano, anche fra ebrei favorevoli a Obama e
Israele. Poi è arrivato il presidente Trump, considerato da quei gruppi mukze (in
yiddish: «intoccabile», n.d.t.). Le sue iniziative, indiscutibilmente positive per Isra-
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ele, hanno riscosso l’apprezzamento e la simpatia di una grande fetta del pubbli-
co israeliano. Ciò non ha fatto che approfondire ancora di più il divario, trasfor-
mandolo in abisso e rendendo diffcilissimo il dialogo fra Israele e molte delle
organizzazioni che rappresentano l’ebraismo americano. Possiamo e dobbiamo
lenire queste ferite e rinnovare il dialogo, perché queste due comunità ebraiche,
che insieme rappresentano la maggioranza dell’ebraismo mondiale, hanno biso-
gno l’una dell’altra. Il popolo ebraico deve assolutamente mantenere la propria
unità perché purtroppo non possiamo escludere che i terribili eventi del passato
si ripetano nel futuro.
LIMES Israele si avvia a votare per la quarta volta in meno di due anni. La democra-
zia israeliana è malata?
GOLD Israele è riuscito a svilupparsi come democrazia in condizioni spesso impos-
sibili, nonostante le minacce esistenziali promananti dall’esterno e le signifcative
divisioni interne. Non ho dubbi che riuscirà a trovare il modo di superare questo
periodo critico in cui – non possiamo né vogliamo nasconderlo – vi sono segnali
preoccupanti. Accanto al continuo sforzo teso a sviluppare capacità e potenza mi-
litari, che devono salvaguardarci dai pericoli esterni, Israele saprà trovare le rispo-
ste alle minacce poste dalle tensioni interne e l’equilibrio politico e sociale per
continuare il proprio cammino di progresso e di sviluppo.
271
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L’IMPERO NELLA TEMPESTA
ORA TEHERAN
PENSA DAVVERO
ALLA BOMBA ATOMICA di Abdolrasool DIVSALLAR
Quattro anni di ‘massima pressione’ hanno reso l’Iran più povero,
insicuro e determinato a ottenere l’atomica. Il fallimento della
deterrenza convenzionale e il tramonto della mezzaluna sciita.
Serve una distensione regionale orchestrata da Washington.
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lanciati sulle basi americane in Iraq dopo l’assassinio di Soleimani avessero eviden-
ziato la determinazione degli iraniani, forzando America e Israele a sospendere le
ostilità. Tuttavia, l’uccisione di Fakhrizade nel novembre 2020 ha mostrato a Tehe-
ran che i suoi calcoli erano sbagliati. Il rischio corso dagli israeliani e la sofstica-
tezza dell’operazione hanno sorpreso molti in Iran.
Nella Repubblica Islamica si è dunque scatenato un acceso dibattito, pubblico
e non, sull’erosione della deterrenza nazionale, dal quale è emerso un giudizio
pressoché unanime sulla grave minaccia derivante dall’incapacità di dissuadere si-
mili attacchi. Il dibattito rivela la crescente paura della dirigenza per le minacce
esterne, nonché il timore che la «massima pressione» americana abbia indebolito la
forza complessiva dell’Iran. Optando per la risposta indiretta, Teheran ha organiz-
zato una serie di esercitazioni militari per dare una prova di forza e puntellare la
propria credibilità 1. Dal 5 gennaio e per i successivi sedici giorni diverse branche Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
delle Forze armate iraniane hanno condotto dieci manovre consecutive, innalzan-
do al massimo il livello d’allerta lungo la costa che affaccia sul Golfo durante le
ultime due settimane dell’amministrazione Trump.
Mashhad
Mar Teheran
Mediterraneo Kirkūk
Beirut Qom IRAN
SIRIA Sāmarrā)
Damasco I R AQ
Karbalā) Baghdad
Amman Nağaf
ISRAELE
ISR
IS A
GIORD.
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KUWAIT Golfo
Persico
ARABIA SAUDITA
EGIT TO
QATAR Abu Dhabi
Riyad
EMIRATI ARABI
Mar Rosso UNITI Mascate
OMAN
Mantenimento di un equilibrio
tra le potenze della regione
Protezione dei giacimenti
petroliferi dell’area orientale
dell’Arabia Saudita
Guerre in atto
Protezione dell’asse Gerusalemme-Riyad YEMEN
San(ā( Sciiti
Controllo e difesa dei principali colli
di bottiglia (Hormuz, Bāb al-Mandab, Suez) Principali città sante sciite
3. I timori sui limiti della deterrenza convenzionale nei tumultuosi anni Novan-
ta convinsero la leadership iraniana dei benefci connessi all’arma atomica. La
guerra del Golfo del 1991 e quella in Kosovo del 1999 cambiarono la prospettiva
iraniana sui confitti armati, evidenziando il defcit nazionale rispetto a una guerra
ora condotta con attacchi di precisione, superiorità aerea e dominio dell’informa-
zione. Frattanto, la minaccia irachena restava attuale. Negli anni Novanta l’Esercito
iraniano, malgrado acquisti limitati di armi russe, era allo stremo dopo otto anni di
guerra con l’Iraq e scontava una grave penuria materiale. Soprattutto, mancava di
una dottrina operativa chiaramente strutturata. Fu questo un impulso fondamenta-
2. Colloquio dell’autore con un funzionario iraniano, 15/1/2021.
3. W. BOWEN, M. MORAN, «Living with nuclear hedging: the implications of Iran’s nuclear strategy», In-
ternational Affairs, vol. 91, n. 4, 2015, pp. 687-707.
4. J.E.C. HYMANS, The Psychology of Nuclear Proliferation: Identity, Emotions, and Foreign Policy, Cam-
bridge 2006, Cambridge University Press.
5. E. SOLINGEN, Nuclear Logics: Alternative Paths in East Asia and the Middle East, Princeton 2007,
276 Princeton University Press.
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
6. S. GRABTREE, «Iranian Confdence on Government under 50% for First Time», Gallup, 29/10/2020.
7. A. DIVSALLAR, L. NARBONE, «A US-Iran zero-sum game on Covid-19 could threaten global health secu-
rity», Policy Briefs 15/2020, Middle East Directions, aprile 2020. 277
ORA TEHERAN PENSA DAVVERO ALLA BOMBA ATOMICA
bomba atomica non apporta alcun reale benefcio in termini di sicurezza, riducen-
do al contempo il sostegno popolare a tale opzione.
In quest’ottica, Biden dovrebbe abbandonare la forsennata politica delle san-
zioni di Trump e rintuzzare i fautori della «massima pressione» come strumento
geopolitico. Dovrebbe sfruttare la volontà iraniana di rivitalizzare il Jcpoa per ral-
lentare il prima possibile il programma atomico di Teheran. Dovrebbe però andare
oltre i negoziati sul nucleare, delineando una più ampia strategia di distensione
regionale per ridurre le tensioni nel Golfo. Potrebbe cominciare evitando provoca-
zioni come quella di Trump, che ha deciso di inviare nella regione bombardieri
B-52 e sommergibili nucleari. Alcuni segnali lasciano ben sperare: il generale Ken-
neth McKenzie, comandante del Centcom, ha pubblicamente auspicato una nuova
fase di minori tensioni con l’Iran. Dare impulso ai colloqui bilaterali sulle sfde
comuni quali il contrasto al terrorismo in Iraq e la crisi siriana, seguìti da misure di
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
distensione come l’istituzione di una «linea rossa» tra Washington e Teheran, po-
trebbe aiutare il processo.
Arabia Saudita e Israele potrebbero tuttavia vedere una minaccia nella nuova
tornata di colloqui. Biden necessita pertanto di uno sforzo internazionale che asso-
ci Unione Europea, Russia e Cina in un dialogo per la sicurezza regionale. Tale
formato dovrebbe includere tutti gli attori della regione, senza tuttavia insistere nel
portare i principali avversari allo stesso tavolo: una sequenza di vertici bilaterali
potrebbe risultare più effcace per stemperare le tensioni. Tra questi, i primi e più
importanti dovrebbero coinvolgere l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti,
cui vanno date suffcienti rassicurazioni ma che vanno anche spinti al dialogo,
idealmente con il concorso degli europei. Un ampio coinvolgimento internaziona-
le potrebbe convincere Riyad e Abu Dhabi a moderare azioni e toni, dialogando
con Teheran.
Parallelamente, Biden dovrebbe lavorare con Israele per placarne le ansie
strategiche. Nel medio periodo le chance che iraniani e israeliani siedano allo stes-
so tavolo sono esigue, dunque l’unica possibilità è stabilire un equilibrio militare
sui principali fronti, a cominciare da Siria e Libano. Solo una strategia di ampio
respiro potrà rispondere in modo sistematico ai legittimi timori di tutti gli attori in
campo, riportando auspicabilmente l’ordine in Medio Oriente.
278
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
di vari alleati locali: il governo di Baghdad, il governo regionale del Kurdistan ira-
cheno e le forze curdo-siriane ideologicamente affliate al movimento di Abdullah
Öcalan, fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). La sfda di Biden
consisterà nel trovare un giusto equilibrio tra il sostegno a questi alleati locali, il
contenimento di Turchia e Iran e la prevenzione di crisi che minano la posizione
strategica di Washington, spesso costretta a nuovi dispiegamenti militari. Se riusci-
rà in questo diffcile gioco di pesi e contrappesi, la nuova amministrazione potreb-
be inaugurare il graduale ritiro degli Stati Uniti dal Medio Oriente.
circa 2.000 a circa 700). Il ritiro delle truppe, talvolta messo in atto senza un ap-
proccio coerente, ha causato un indebolimento della posizione americana.
In Siria l’estemporaneità della dipartita dei militari – annunciata nel marzo 2019
e realizzata nove mesi dopo – ha lasciato le forze curdo-siriane indifese di fronte
alle incursioni provenienti dalla Turchia, ha minato l’alleanza tra curdi e americani
e ha lasciato campo libero alla Russia, che ne ha approfttato per espandere il suo
controllo sul Nord-Est del paese. In Iraq Trump non è riuscito a conciliare il con-
tenimento dell’Iran con la volontà di procedere a un graduale ritiro militare. La
politica di «massima pressione» ha fatto dell’Iraq un terreno di scontro con Teheran,
ha reso gli Stati Uniti un costante bersaglio degli attacchi dei gruppi paramilitari
floiraniani. Le tensioni tra Stati Uniti e Iran hanno raggiunto l’apice nel gennaio
dello scorso anno, con l’uccisione da parte americana del comandante dei pasda-
ran Qasem Soleimani. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
ton nel loro complicato gioco di alleanze e per acquisire peso strategico sullo
scacchiere regionale e globale.
In Siria gli Stati Uniti sono schiacciati tra un alleato locale – le forze curdo-si-
riane con le quali hanno sconftto lo Stato Islamico – e la Turchia, che per decenni
ha combattuto il Pkk. Il governo turco ha fatto dell’alleanza americana con i curdo-
siriani (ritenuti nient’altro che un’estensione del Pkk) l’oggetto di un ricatto conti-
nuo verso Washington, minacciando spesso un riavvicinamento alla Russia e un
allentamento dell’Alleanza Atlantica. L’amministrazione Obama tentò di risolvere
questo dilemma presentando il fronte curdo-siriano in Siria come un’entità distinta
rispetto al Pkk. Quest’ultimo opera in effetti in differenti contesti statali (in Turchia,
Iraq, Iran, Siria) attraverso entità partitiche pressoché autonome rispetto agli organi
centrali del partito.
Tuttavia quello dell’amministrazione Obama s’è rivelato più un espediente che
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
una soluzione alle crescenti tensioni tra Washington e Ankara. Gli sviluppi interni
alla Turchia e l’alleanza tra Erdoãan e il partito ultranazionalista Mhp hanno messo
fne alla prospettiva di una risoluzione della questione curda in Anatolia – inaugu-
rando una repressione delle forze di opposizione e l’arresto di personalità politiche
– e irrigidito la posizione di Ankara verso il movimento curdo legato a Öcalan che
opera in Siria. Il ritiro dei militari americani nell’ottobre 2019 ha lasciato un più
largo margine di manovra alla Turchia, che ha lanciato successive incursioni in
territori controllati dalle forze curdo-siriane. Il tentativo americano di sostenere un
dialogo intracurdo che incoraggi l’amministrazione curdo-siriana a prendere le di-
stanze dal Pkk procede a rilento. La minaccia di nuove tensioni tra Turchia e mo-
vimento curdo, o di un ravvicinamento tra Turchia e Russia, continuano a essere
fonte di tensioni tra Washington e Ankara. Queste tensioni si moltiplicano al di là
del confitto in Siria, dal Mediterraneo orientale al Caucaso, e offuscano il futuro
delle relazioni atlantiche.
Le contraddizioni della politica americana emergono anche nel vicino Iraq. La
presidenza Obama, strettamente orientata al sostegno del governo di Baghdad e
del Kurdistan iracheno, trascurava di contenere il ruolo crescente dell’Iran. In
modo diametralmente opposto, Trump non ha esitato a operare pressioni dirette
sul governo iracheno, talvolta imponendo come condizione al suo sostegno il
graduale allontanamento dell’Iraq dalla sfera d’infuenza iraniana. Questa ambi-
ziosa politica, in parte irrealistica, ha fnito per indebolire il governo di Baghdad
e la stabilità interna del paese, creando le condizioni per un potenziale ritorno
della minaccia dello Stato Islamico. Nel quadro della politica di «massima pressio-
ne» contro Teheran, gli Stati Uniti hanno imposto all’Iraq restrizioni nell’acquisto
di risorse energetiche dall’Iran, alleviate da esenzioni temporanee rinnovate a di-
screzione di Washington.
A seguito delle dimissioni del premier ‘Ådil ‘Abd al-Mahdø, dal novembre del
2019 l’Iraq è rimasto per circa sei mesi in una situazione di paralisi politica. Men-
tre gli Stati Uniti e i gruppi paramilitari flo-iraniani si scontravano, ben due can-
282 didati premier hanno fallito nel tentativo di formare un nuovo governo. Questa
L’IMPERO NELLA TEMPESTA
fase di instabilità politica, aggravata dall’epidemia, dal calo del prezzo del petrolio
e dalla crisi fnanziaria, ha avuto un momento di arresto quando i gruppi parami-
litari si sono impegnati in un cessate-il-fuoco. Washington ha compiuto un legge-
ro cambio di rotta, evitando nuove operazioni militari in territorio iracheno e
inaugurando un dialogo strategico volto a normalizzare le relazioni bilaterali, pur
continuando a emanare sanzioni contro esponenti politici vicini all’Iran. L’ammi-
nistrazione Trump ha ben presto realizzato che continuare in Iraq il braccio di
ferro con l’Iran indeboliva il governo di Baghdad e rischiava di provocare un altro
confitto a lungo termine.
In Iraq e in Siria gli alleati degli americani si aspettano da Biden una politica
meno imprevedibile e un impegno militare costante in entrambe le piattaforme, da-
to il permanere del pericolo di un ritorno dello Stato Islamico. La svolta di Biden
potrebbe consistere nel rafforzare l’autonomia strategica degli alleati locali; nell’offri-
Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
trumpiano. Se Biden non può permettersi di gestire gli affari iracheni in prima per-
sona, l’approfondita conoscenza del territorio da parte del suo gabinetto gli con-
sentirà di sostenere quegli esponenti politici capaci di realizzare alcune riforme
interne e risolvere parte delle tensioni sociali. Su tutti, il primo ministro al-Kå‰imø.
Un quadro analogo, se non più complesso, emerge dalla politica curda, ca-
ratterizzata da strutture partitiche trasformate in istituzioni locali, impegnate
nell’amministrare territori e gestire apparati securitari ed economici, come dimo-
strano le divisioni familistiche tra le due forze che governano la Regione del Kur-
distan iracheno: il Partito democratico del Kurdistan (Kdp) e l’Unione patriottica
del Kurdistan (Puk).
Mentre Washington fatica a ricomporre e sostenere l’allenza tra i due partiti,
Turchia e Iran fanno leva su queste divisioni per rafforzare le lacerazioni interne.
Mentre Ankara opera pressioni sul Kdp perché prenda posizione contro il Pkk, Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
Teheran lavora per rafforzare i legami tra Puk e Pkk e allargare il suo spazio di
infuenza. La pressione militare turca sulle postazioni del Pkk nell’Iraq settentriona-
le spinge l’ala siriana del movimento a stringersi al Pkk contro l’aggressione turca
e ripropone a Washington il dilemma dei legami tra il suo alleato curdo in Siria e
lo stesso Pkk.
Se Biden proporrà una linea piu dura verso la Turchia, Ankara non esiterà a
far ricorso alle divisioni del movimento curdo e alla minaccia di nuove incursioni
in Iraq e in Siria per mettere in crisi la posizione strategica americana e approfon-
dire divisioni tra i suoi alleati locali. In Siria i tentativi di Washington di creare di-
stensione tra Ankara e l’amministrazione locale creata e sostenuta dalle forze cur-
do-siriane non potranno conseguire risultati apprezzabili fnché non si risolverà la
questione curda all’interno dei confni turchi. L’amministrazione Biden dovrà dun-
que sviluppare una tattica che affronti tale questione ben oltre la Siria, includendo
il problema di un’apertura all’interno della Turchia. Sebbene controvoglia, gli Stati
Uniti dovranno impegnarsi a rafforzare i legami tra gli alleati locali, lavorando per
un’integrazione economica, politica e militare dello spazio Iraq-Siria. Questo com-
porta un maggiore impegno per gestire le tensioni tra i partiti curdi nei due paesi,
per facilitare le relazioni tra Baghdad e il governo regionale del Kurdistan e, quan-
do possibile, per controllare la frontiera siro-irachena.
Né l’avventurismo militare di Bush fglio, né il distacco idealista di Obama, né
l’imprevedibilità populista di Trump sono riuscite a ricalibrare il ruolo americano
in Medio Oriente e a gestire il graduale ritiro militare. Perché questo avvenga è
indispensabile un approccio che sappia smussare le tensioni, rafforzare l’autono-
mia strategica degli alleati locali e, quando necessario, mettere un freno alle ambi-
zioni delle potenze regionali, specie Turchia e Iran. Al contrario dei suoi predeces-
sori, e alla luce anche delle non felici esperienze pregresse, Biden dovrà mostrarsi
consapevole delle responsabilità e dei limiti dell’America in Medio Oriente, quindi
agire di conseguenza.
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MARSHALL AUERBACK - Market Commentator e Research Associate per il Levy Institute al Bard
College.
EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di
Roma, è titolare degli insegnamenti di Geografa e di Geopolitica. Consigliere scientifco di
Limes.
ELBRIDGE A. COLBY - Direttore della Marathon Initiative. Già viceassistente al segretario alla
Difesa Usa per la Strategia e lo sviluppo delle forze.
GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese.
Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina.
LORENZO DI MURO - Collaboratore di Limes e limesonline.com. Studioso di geopolitica, con focus
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su Cina-Usa, Indo-Pacifco e America Latina. Scrive per Aspenia e The Asia Dialogue.
ABDOLRASOOL DIVSALLAR - Programme Associate al Middle East Direction Programme, Robert
Schuman Center for Advanced Studies, European University Institute.
GERMANO DOTTORI - Consigliere scientifco di Limes. Autore del libro La visione di Trump.
DARIO FABBRI - Giornalista, consigliere scientifco e coordinatore America di Limes. Esperto di
America e Medio Oriente. Vicedirettore della Scuola di Limes.
MARIA FANTAPPIE - Consigliere speciale per il Medio Oriente e il Nordafrica presso il Center for
Humanitarian Dialogue.
GEORGE FRIEDMAN - Analista geopolitico, fondatore e amministratore delegato di Geopolitical
Futures.
DORE GOLD - Già consigliere di diversi primi ministri di Israele, presidente del Jerusalem Center
for Public Affairs.
BENJAMIN TZE ERN HO - Assistant Professor al China Programme dell’Institute of Defense and
Strategic Studies, S. Rajaratnam School of International Studies, Nanyang Technological
University.
VIRGILIO ILARI - Presidente della Società italiana di storia militare (Sism).
MANOJ JOSHI - Distinguished Fellow, Observer Research Foundation, Delhi, India.
ANDREJ KORTUNOV - Direttore generale del Riac, Russian International Affairs Council. È stato
direttore dell’Institute for US and Canadian Studies. Fondatore e primo presidente della
Moscow Public Science Foundation. Ha insegnato Politica estera russa all’Università di
Miami e al Lewis & Clark College di Portland (Università della California).
FËDOR LUK’JANOV - Direttore di Russia in Global Affairs. Professore, ricercatore scientifco presso
l’Nru Higher School of Economics di Mosca. Presidente del Presidium del Consiglio per la
politica estera e di difesa.
FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni internazionali di
Limes.
RICH MILBURN - Uffciale della Royal Air Force.
MIRKO MUSSETTI - Analista di geopolitica e geostrategia. Area di interesse primario: Mar Nero. 285
Ha pubblicato Áxeinos! Geopolitica del Mar Nero (2018) e Némein. L’arte della guerra
economica (2019).
STEPHEN R. NAGY - Professore associato alla International Christian University di T§ky§, membro
onorario della canadese Asia Pacifc Foundation, membro del Canadian Global Affairs
Institute (Cgai) e professore associato presso il Japan Institute for International Affairs (Jiia).
PHILLIP ORCHARD - Senior Analyst presso Geopolitical Futures.
CESARE PAVONCELLO - Traduttore e freelance; collabora da oltre trent’anni con giornali e tv su
questioni politiche, sociali e culturali israeliane.
ENRICO PEDEMONTE - Giornalista. Ha lavorato a Il secolo XIX, l’Espresso, la Repubblica.
FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes, cultore di Geopolitica all’Università Vita e
Salute – San Raffaele e presidente di Geopolis. Coordinatore didattico della Scuola di Limes.
ENRICO ROSSI - Primo dirigente della Polizia di Stato. Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
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La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
1-4. Capitol Hill a fne Ottocento aveva ancora la campagna a ridosso (fgura
1). Un nuovo progetto per rendere l’intera area più confacente alla capitale di
un grande Stato portò alla risistemazione del National Mall, cuore istituzionale
degli Stati Uniti comprendente anche la Casa Bianca. Prati e laghetti abbellirono
l’area, esaltata nella veduta panoramica della fgura 2 disegnata per un’esposizio-
ne prevista attorno all’obelisco che celebra George Washington ma mai ospitata.
L’intenzione di aprire vedute grandiose rese necessario l’abbattimento di un intero
quartiere. Tra gli edifci che sparirono vi fu quello bianco visibile nella fgura 1
proprio di fronte all’ingresso principale della neoclassica sede del Congresso. Era
la prima serra del Giardino botanico. Venne rimpiazzata più o meno in quel punto Copia di 7ff4322338d5bb4cc9230e84f825522c
L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, 2017, pp.182-3).
Anche la fgura 5 è legata a Franklin Delano Roosevelt. Promuove infatti il
suo mitico New Deal, gigantesco piano di sviluppo destinato a risollevare il paese
dopo il disastro della Grande depressione. Qualcosa di simile all’ambizioso piano
europeo dei nostri giorni che vorrebbe stimolare la ripresa e l’adeguamento del-
le infrastrutture. La rappresentazione porta l’indicativo titolo «Pwa rebuilds the
Nation», dove l’acronimo sta per l’amministrazione dei lavori pubblici. Vi sono
raffgurate tutta una serie di iniziative fnanziate dal programma. Si intravedo-
no dighe, scuole, ospedali, ponti, strade, uffci pubblici e molto altro. Certo, così
diversa da una precisa rappresentazione topografca la sua equiparazione a una
carta geografca potrebbe far storcere il naso a qualcuno. Ma in fondo rappresenta
bene lo spirito di un territorio. Ed è quanto una buona carta, in ultima analisi, deve
aspirare a fare.
Fonte fg. 4: Franklin Delano Roosevelt nello Studio Ovale intento a osserva-
re il grande mappamondo realizzato nel 1942 da Arthur H. Robinson e dalla sua
Divisione Cartografca dell’Offce of Strategic Services (Oss).
Fonte fg. 5: Earl Purdy, PWA rebuilds the Nation, 1939 (fondo cartografco
Cornell University).
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2.
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