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Venezia 1.

Comune del Veneto (415,9 km2 con 261.362 ab. al censimento del 2011, divenuti 258.685 secondo
rilevamenti ISTAT del 2020, detti Veneziani), capoluogo di regione e città metropolitana.
L’insediamento storico della città, posta al centro dell’omonima laguna, è tradizionalmente
suddiviso in sei ‘sestieri’ (Cannaregio, Castello, Dorsoduro, San Marco, San Polo e Santa Croce) e si
articola su un complesso di circa 120 isole, profondamente artificializzate e consolidate da una
intensa opera palafitticola e di copertura lapidea, aggregate attorno alla doppia ansa della via
d’acqua principale (il Canal Grande), elemento organizzatore di una fitta rete di 158 canali minori
(rii). L’insediamento urbano rivela una forte continuità storica, pressoché priva di intrusioni,
mostrandosi come un continuum densamente edificato su lotti allungati, di origine gotica, attestati
sui canali direttamente, o attraverso la mediazione di percorsi pedonali (rive e fondamente), e
organizzato con un fitto reticolo di calli e campi (rispettivamente, le vie e le piazze della tipica
toponomastica veneziana). Piazza S. Marco, affacciata sull’omonimo bacino e coronata dalle
cinquecentesche Procuratie, ha rappresentato per secoli il centro politico e amministrativo della
città, con il Palazzo Ducale come sede civile e la basilica di S. Marco come sede religiosa. Rialto,
simboleggiato dall’omonimo ponte edificato nel 1591 (in sostituzione di quello ligneo in sito dal
1180), è sempre stato il motore economico e commerciale della Serenissima, come testimoniano le
numerose storiche botteghe, ma anche i toponimi dei limitrofi palazzi (per es., il Fondaco
[dial. Fontego] dei Tedeschi, dove avevano sede i mercanti nordeuropei, e le sansoviniane Fabbriche
Nuove, dove avevano sede le Magistrature giudicanti in affari di commercio) e rive (per es., la Riva
del Carbon e la Riva del Vin, dove venivano commercializzati tali prodotti); oggi vi permane il
mercato alimentare, testimoniato dai toponimi Naranzeria, Erberia, Pescaria, Beccarie e Ruga dei
Speziali. Il Canal Grande connette idealmente e fisicamente questi due poli dell’attività urbana, con
la sua doppia cortina di grandiosi palazzi signorili (tra cui la Ca’ da Mosto, la Ca’ d’Oro,
il palazzo Grimani, il palazzo Grassi) e splendide chiese (come S. Maria della Salute). Ma la vocazione
marinara della Serenissima si esprime compiutamente nell’Arsenale (sec. 12°-16°), vasta area nella
parte orientale della città, destinata alle costruzioni navali e che, protesa verso il mare,
rappresentava la vera porta di ingresso a Venezia.

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Una tale concentrazione di beni storico-culturali non può non comportare difficoltà gestionali e
conservative: il degrado fisico-funzionale diffuso è una delle principali questioni aperte, che si
riflettono anche sulle condizioni di vita degli abitanti. Gli altissimi costi di intervento (cui va aggiunto
il costo della vita, sostenuto dai costi supplementari di trasporto e dalla domanda turistica)
comportano l’accettazione di notevoli disagi abitativi o si trasformano in un incentivo all’esodo. La
diminuzione della popolazione residente nel centro storico è un fenomeno costante e consistente
dalla seconda metà del Novecento: dopo il picco raggiunto nel 1951, quando gli abitanti del centro
storico assommavano a 175.000 unità, il numero è sceso a poco più della metà nel 1981, ad appena
65.695 nel 2001, per poi arrivare a 58.991 nel 2011, con una ulteriore successiva riduzione che ha
portato il dato sotto i 55.000 abitanti secondo rilevamenti del 2016. Un fenomeno preoccupante
per la riduzione del presidio del patrimonio immobiliare e per l’aumento dei costi di erogazione dei
servizi, con il rischio di una trasformazione in senso ‘museale’ della città, totalmente preda
dell’attività turistica; un aspetto questo accentuato dalla conversione di quote rilevanti delle
abitazioni in seconde case e degli esercizi commerciali di generi di prima necessità in attività
destinate ai turisti, nonché dallo spostamento dei servizi alla persona sulla terraferma. Il dato sulla
popolazione residente nella Venezia storica non tiene però conto degli ingenti flussi di pendolari
che, per motivi di lavoro o di studio, quotidianamente si riversano sulla città. A questi si aggiungono
i flussi turistici di chi non pernotta in città e che possono toccare anche le 100.000 unità.

La realtà veneziana lagunare non è comunque assimilabile al solo centro storico: intorno a esso
esiste tutta una costellazione di insediamenti (insulari e non) che viene convenzionalmente
identificata con la denominazione di ‘estuario’ (28.256 ab. secondo rilevamenti del 2016). Le isole
minori della laguna erano, nel 1850, una settantina: molte sono oggi completamente scomparse
(come le favolose Ammiana e Costanziaca), inghiottite dalle dinamiche idrauliche; altre (come
l’antico centro di Poveglia) in stato di abbandono. Vi sono, però, anche importanti esempi di vitalità,
come Murano (dove si coltiva l’arte del vetro fin dal 1295, anno in cui tutte le fornaci furono qui
segregate per limitare i pericoli di incendio) e Burano (famosa per i suoi merletti fin dal 16° sec.).
Diversa appare la condizione dei litorali che separano la laguna dal Mar Adriatico. Il Lido di Venezia
(11 km di spiagge), dall’apertura del primo stabilimento balneare avvenuta nel 1857, è diventato
uno dei centri del turismo internazionale, con attrattive mondane come il Casinò e culturali come la

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Mostra internazionale del cinema; così come il Litorale del Cavallino che, con i suoi 13,5 km di
spiagge, è una meta assai frequentata del turismo balneare.

La geografia urbana ed economica di Venezia trova un riferimento fondamentale nella data del 4
gennaio 1846, quando vi giunse il primo treno attraverso un ponte ferroviario translagunare
(divenuto anche automobilistico nel 1933). Con la realizzazione della stazione ferroviaria di Santa
Lucia, l’enorme ampliamento delle attività portuali sul Canale della Giudecca a Santa Marta,
la nascita di attività industriali ovunque gli spazi lo consentissero (alla Giudecca, a Murano, ma
anche a Cannaregio e perfino in piena città) e la realizzazione del terminale automobilistico in
piazzale Roma, il baricentro della città si è spostato da E a O, dal mare alla terra. L’ultima epoca delle
grandi scelte, per Venezia, si concluse portando alle estreme conseguenze le tendenze in atto: tra il
1917 e il 1926 il territorio comunale fu ampliato, annettendo prima tutti i comuni lagunari
tranne Chioggia e poi quelli, in terraferma, di Mestre e limitrofi. Tra il 1919 e il 1922 aveva infatti
preso corpo la prima zona industriale di Porto Marghera, annessa al nuovo porto commerciale, con
l’escavazione di un canale e la realizzazione di una annessa città-giardino operaia. La terraferma
rappresenta, da allora, una terza entità fisica del comune di Venezia, a lungo sede del suo sviluppo
economico e demografico, se non culturale. La popolazione qui insediata contava, già nel 1945,
83.000 ab., divenuti 211.000 nel 1975, grazie allo sviluppo di uno dei maggiori agglomerati italiani
di industria pesante (1300 ha) e accogliendo una cospicua emigrazione dal centro storico. Dalla
metà degli anni 1970 si è manifestata un’inversione di tendenza: anche la terraferma ha cominciato
a perdere popolazione nei confronti dei comuni di cintura urbana, toccando, le 179.062 unità
secondo rilevamenti del 2016. Anche da un punto di vista economico gli anni 1970 hanno
rappresentato una svolta per la terraferma, con la progressiva riduzione delle attività manifatturiere
a favore di una decisa terziarizzazione. La crisi petrolifera, la riallocazione su scala mondiale delle
attività produttive e una mancata riconversione industriale hanno colpito in modo particolare la
zona industriale di Porto Marghera (cantieristica, petrolchimica, metallurgica) che, dall’apice di
quasi 40.000 posti di lavoro, è scesa, lentamente, grazie all’imponente sostegno pubblico, a 13.560
nel 2014, impiegati in 1.034 aziende. I dati confermano la complessità di tale area, nonché le
profonde trasformazioni in atto nel polo industriale, con processi di ristrutturazione e riconversione
economica, ma anche significative crisi e dismissioni di impianti produttivi. L’analisi del tessuto
aziendale della zona mostra infatti da una parte la vocazione industriale e portuale di Porto

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Marghera, e, dall'altra, un’imprenditoria sempre più differenziata che include nuove categorie e
nuove professionalità, con una sempre maggiore rilevanza, anche qui, del terziario avanzato in
termini sia di numero di addetti (21,5% del totale), sia di numero di aziende (34% del totale).

Alla grave situazione di crisi dell’area, con molte attività in dismissione o obsolete e gravi problemi
di risanamento ambientale, ha inteso porre rimedio un piano di rilancio, varato nella prima metà
degli anni 1990, a cui si deve la costituzione di un parco scientifico per lo sviluppo di nuove
tecnologie e produzioni (VEGA, Venice Gateway for Science and Technology) e l’avvio di una politica
di bonifica ambientale.

Nel 2015 è stato inoltre sottoscritto un nuovo Accordo di programma per la riconversione e
riqualificazione industriale, con interventi di risanamento territoriale e di messa in sicurezza
idraulica delle aree, e di ripristino e potenziamento delle infrastrutture esistenti.

STORIA

Le origini

fig.

L’origine della città è collegata alle invasioni barbariche, che fra il 5° e il 7° sec. devastarono
l’Italia settentrionale. Sotto la pressione longobarda, la presenza bizantina si ridusse nel 7° sec. alle
isole della laguna, dove si organizzò in un ducato dipendente dall’esarcato di Ravenna. Dopo il crollo
di quest’ultimo (751), il ducato della Venezia si costituì a vita autonoma fissando la sede governativa
prima a Cittanova, poi a Eraclea, infine a Malamocco da dove fu arrestata l’avanzata dei Franchi.
Ragioni di sicurezza produssero il trasferimento a Rialto, dove fra il 9° e il 10° sec. veniva costituita
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la civitas, che fu prima civitas Rivoalti, poi civitas Venetiarum. Nell’828 vi veniva trasportata da
Alessandria d’Egitto la reliquia di s. Marco Evangelista, proclamato patrono della nuova città,
insieme al precedente, s. Teodoro. Regolati i rapporti esterni con il trattato franco-bizantino di
Aquisgrana (811-814), poi confluito nell’840 nel pactum Lotharii, più volte rinnovato dagli
imperatori occidentali, la città fioriva grazie agli intensi traffici mediterranei (specialmente con
Bisanzio e l’Oriente). La progressiva espansione fu ottenuta anche con spedizione armate contro
Slavi e Saraceni dal 9° sec., in particolare nel 1000 il doge Pietro Orseolo II poté fregiarsi del titolo
di dux Dalmatiae e, in seguito, di dux Croatiae, giungendo al controllo dell’Adriatico. La Bolla d’Oro,
concessa dall’imperatore bizantino Alessio Comneno (1082) in cambio dell’alleanza contro i
Normanni fruttò privilegi commerciali altissimi, incrementati con empori e scali dalla partecipazione
alle crociate e culminati nella quarta crociata che, dopo la conquista di Costantinopoli e la
fondazione dell’Impero latino d’Oriente (1204), con i domini in Morea, a Creta e nell’arcipelago, fece
di Venezia la padrona del Mediterraneo (v. fig.).

I domini della Serenissima

L’espansione ‘da terra’

Per quanto riguarda la Terraferma, tra 13° e 14° sec. ebbe luogo un braccio di ferro
con Genova conclusosi con la vittoria di Vettore Pisani nella guerra di Chioggia (1378-81) e la
successiva Pace di Torino. Intanto gli equilibri interni furono modificati dalla cosiddetta Serrata del
maggior consiglio (leggi di Pietro Gradenigo del 1297 e 1299), cui seguirono rivolte aristocratiche
(Baiamonte Tiepolo e Marco Querini, 1309 e 1310; Marino Faliero, 1355). L’espansione, iniziata
con Treviso e la costa istriana, proseguì fino al Mincio dopo la guerra di Chioggia, nella quale la
pressione dei da Carrara di Padova e del re di Ungheria aveva dimostrato il rischio di una limitata
presenza in Terraferma, importante bacino di reclutamento di uomini e mezzi da impiegare contro
i Turchi. Nel 15° sec. questi ultimi costrinsero la Serenissima a cedere Negroponte, le
Sporadi, Lemno, Argo e, in Albania, Croia e Scutari. In compenso Venezia conquistò Padova
e Verona (1404-05), acquistò definitivamente la Dalmazia e si impossessò del patriarcato
di Aquileia (1418-20). Ciò condusse all’inevitabile contrapposizione con Milano e i Visconti. La Pace

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di Ferrara (1428) portò Brescia e Bergamo; in seguito vennero unite nel 1447 Crema e
il Polesine di Rovigo (1484), cui seguì l’estensione dell’influenza sulle città pugliesi
(Otranto, Brindisi, Trani, Monopoli) e sulla Romagna nel 1504. Divenuta ormai temibile per tutti i
potentati italiani, Venezia sembrava aspirare alla ‘monarchia d’Italia’. Ciò provocò un’alleanza,
sollecitata da papa Giulio II, tra le potenze europee (Massimiliano d’Asburgo, che aspirava
al Trentino, e il re di Francia Luigi XII, padrone della Lombardia e desideroso di recuperare le terre
milanesi) nella Lega di Cambrai: la battaglia di Agnadello del 14 maggio 1509, con la vittoria francese,
seguita (1510) da quella di Polesella, segnò la fine dell’espansione veneziana e l’inizio di una secolare
fase difensiva, anche grazie ai contrasti tra i suoi nemici. Venezia difese il confine di terraferma
orientale con la guerra di Gradisca contro l’Austria (1616-17) e s’impegnò in Oriente contro Turchi
fino all’inizio del 18° secolo. Dopo la perdita della Morea (1540), di Cipro (1569-73) e di Candia e
dopo una più che ventennale lotta (1645-69), negli ultimi decenni del 17° sec. F. Morosini
riconquistava la Morea (1684, Pace di Carlowitz 1699), ma, dopo un’altra guerra, con la Pace di
Passarowitz (1718) Venezia dovette cedere nuovamente la Morea e quanto possedeva ancora
nell’Egeo. Nella seconda metà del 18° sec., malgrado le vittorie di A. Emo sui Barbareschi, la potenza
veneziana era ormai finita e la città lagunare era divenuta per gli Europei del 18° sec. soprattutto un
polo di attrazione culturale.

I domini ‘da mar’

I domini veneziani ‘da mar’ comprendevano, oltre ai possessi del Levante, anche quelli adriatici.
Dalla Dalmazia all’Istria, poi, dopo la perdita di Ragusa, lungo il litorale albanese, Venezia impose in
un primo tempo duchi o conti a vita mantenendo istituti amministrativi e politici locali. Tra il 12° e il
13° sec. si verificò la trasformazione del carattere e della struttura del governo veneto nei domini
adriatici fino all’instaurarsi di un dominio diretto veneziano. In Istria tale dominio si affermò con una
precoce unificazione alla fine del 13° sec., lasciando nelle singole città il reggimento locale,
sottoposto a podestà scelti nel patriziato veneziano. In Dalmazia il diretto dominio veneziano si
affermò con difficoltà: dopo la creazione di un arcivescovo primate di Dalmazia a Zara, con la quarta
crociata (1203-04), conti, podestà e capitani, scelti fra sudditi veneti, assunsero nelle città dalmate
carattere di diretti rappresentanti del governo veneziano. Il carattere unitario, politico e militare, di

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tale reggimento fu conseguito solo nel 15° sec., dopo che la Dalmazia fu perduta a vantaggio degli
Ungheresi e poi recuperata tra il 1409 e il 1437 (Pace di Praga), e determinato dal fatto che alla
pressione slava cominciava ad aggiungersi quella turca.

I possedimenti veneziani in Oriente successivi alla prima crociata costituivano delle colonie
commerciali (San Giovanni d’Acri, Giaffa, Sidone, Tripoli di Siria, Tiro, per poi estendersi alle isole
Egee, a Costantinopoli e sulle coste stesse del Mar Nero) rette o dagli stessi mercanti o da un ufficiale
(console o bailo o podestà) designato dal governo della madrepatria. Le colonie beneficiavano di
foro privilegiato, di esenzioni fiscali e anche di una zona extraterritoriale costituita da una o più
contrade e di scali nel porto. Dopo la quarta crociata si formò un vero dominio coloniale territoriale
veneziano in Oriente (l’isola di Candia, le isole dell’Egeo, alcuni punti della terraferma greca),
sottoposto al doge, anche se sopravvissero stabilimenti commerciali, in territorio politicamente
dipendente da altre autorità (a Costantinopoli, ad Aleppo, in Egitto). Le colonie furono amministrate
in parte direttamente dalla Repubblica, che vi inviava un governatore (a Candia, Negroponte
nell’Eubea ecc.), in parte concesse, con investitura, a sudditi veneziani (Nasso ai Sanudo, Andro ai
Dandolo, Serifo e Chio ai Ghisi, Stampalia ai Querini, Cerigo ai Venier, Santorino ai Barozzi ecc.). Dalla
fine del 14° sec. al principio del 15° la crescente pressione dei Turchi costrinse Venezia a estendere
il proprio dominio diretto, imponendo un comando unico militare (provveditori generali). Questa
unità di governo non resse l’impatto della penetrazione turca nei domini veneziani dell’Egeo,
susseguente all’occupazione di Costantinopoli (1453). Venezia riuscì a conservare i grossi baluardi:
Candia, la Morea e Cipro (annessa da Venezia nel 1482), posti a difesa delle proprie linee di traffico.
Fino a che questi territori restarono in mano veneziana il dominio coloniale veneziano si esercitò
attraverso provveditori generali (Dalmazia e Istria), provveditori straordinari (Albania e isole del
Levante), il duca di Candia e i provveditori di Cipro e della Morea.

Istituzioni della Repubblica veneta

L’ordinamento politico-amministrativo veneziano ereditò attraverso i Bizantini le strutture romane.


Il doge non era che il dux romano-bizantino dal 584 dipendente dall’esarca d’Italia, poi, dopo la
secessione del 726, designato dall’exercitus. La concio o placitum, l’assemblea generale dei cittadini

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membri dell’exercitus prende le decisioni fondamentali della vita politica. Il doge era assistito da
alcuni dignitari civili (iudices), accanto ai quali sedevano nel placito anche i dignitari ecclesiastici:
patriarca, vescovi, abati dei grandi monasteri.

Alla fine del 9° sec. la dignità ducale divenne elettiva, con l’intervento decisivo
della concio o placitum nell’elezione ducale. Nel 1143 circa appare il consilium sapientium (formato
da 6 membri) con funzioni legislative, primo passo verso l’ordinamento comunale, cui si affiancò un
consiglio minore di 35 membri. Dal 1223 è ricordato il Consiglio dei Quaranta (o Quarantia) e dal
1230 circa il Consiglio dei Pregadi (o Rogati). Il Maggior Consiglio diventò il centro del sistema
aumentando dal 13° sec. il numero dei membri, la loro qualità e le funzioni esercitate.

In seguito all’aggregazione in un unico corpo di consigli distinti, assorbiti di fatto e di nome dal
Maggior Consiglio, questo risultò composto di due ordini di membri, quelli elettivi e quelli di diritto.
Ma il perpetuarsi e il rinnovarsi annualmente nelle stesse persone o nelle stesse famiglie delle
funzioni statali creavano a vantaggio di esse un privilegio e infine un diritto. È questa la genesi del
patriziato che si affermerà a partire dal 14° sec. attraverso l’appartenenza al Maggior Consiglio. Le
leggi della fine del 13° sec., conosciute sotto il nome di serrata del Maggior Consiglio, e quelle del
principio del 14° che eliminarono progressivamente la procedura elettorale, trasformarono in
ereditaria l’appartenenza al grande consesso. Contemporaneamente veniva precisata la prerogativa
dell’elezione ducale, sottratta completamente all’assemblea popolare. Tuttavia la funzione politica
del Maggior Consiglio andava rapidamente restringendosi a vantaggio di altri corpi. Il Consiglio dei
Pregadi, o Senato, cominciò presto a esercitare anche funzioni politiche per delega del Maggior
Consiglio, aggregandosi dalla fine del 13° sec. il Consiglio dei Quaranta per l’esercizio delle funzioni
politico-amministrative. Il Consiglio dei Pregadi assumeva così l’esercizio effettivo di molte
prerogative già spettanti al Maggior Consiglio, aggiungendo alla propria compagine dei membri
straordinari (la zonta). Alle sedute partecipava la Signoria, composta dal doge, che presiedeva, da 6
consiglieri (Minor Consiglio) e dai 3 capi dei Quaranta. Nei Pregadi entrava anche il Consiglio dei
Dieci istituito nel 1310 per giudicare i colpevoli della congiura di M. Querini e di B. Tiepolo. Nel 14°
sec. il Consiglio dei Pregadi aveva ormai assorbito le principali funzioni spettanti al Maggior
Consiglio; fu allora aumentato fino a 240 membri. Nei sec. 15° e 16° analogo processo si verificò per
il Consiglio dei Dieci, la cui l’influenza politica tese a sovrapporsi a quella dei Pregadi, producendo

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un contrasto istituzionale che sfociò in un conflitto di competenza. Nel 1586 ai Pregadi furono
restituite tutte le funzioni usurpate dai Dieci. Questi trovarono però un rafforzamento della loro
competenza politico-giudiziaria con l’istituzione collaterale nel loro seno dei tre inquisitori di Stato.
Il Senato tornò a essere l’arbitro della vita politica dello Stato e fra Maggior Consiglio, Consiglio dei
Pregadi, Consiglio dei Dieci si stabilì un coordinamento funzionale. Difetto fondamentale della
struttura istituzionale dello Stato veneziano fu il distacco, la radicale disparità di diritti fra la casta
dominante e le classi che non avevano alcuna possibilità di partecipare alla vita politica.

Venezia nel Lombardo-Veneto e nello Stato italiano

Con il Trattato di Campoformio (1797) Venezia fu ceduta all’Austria da Napoleone e, perduta


l’indipendenza, andò a far parte del Lombardo-Veneto. Nel 1848, alla notizia
della rivoluzione di Vienna (giunta a Venezia il 16 marzo 1848), forti agitazioni popolari portarono
alla liberazione di N. Tommaseo, D. Manin e altri detenuti politici. A seguito delle voci
dell’insurrezione di Milano scoppiarono nuovi tumulti che sortirono nella cacciata degli Austriaci (22
marzo), nella formazione di un governo provvisorio guidato da Manin e alla fusione di Venezia con
il Regno di Sardegna (5 luglio). Dopo i fermenti popolari seguiti alla sconfitta di Custoza (23-25 luglio)
e all’armistizio Salasco (9 agosto), Manin proclamò la Repubblica organizzando, sotto la guida di G.
Pepe, la difesa della città. Il blocco austriaco intorno a Venezia divenne un assedio dopo la disfatta
piemontese a Novara (23 marzo 1849); colpita anche da epidemie e dalla fame, la città, malgrado
una strenua resistenza, il 23 agosto si arrese.

Con la perdita dell’indipendenza e poi con l’annessione al Regno d’Italia (nel 1866, in seguito alla
guerra austro-prussiana e alla sconfitta degli austriaci a Sadowa), Venezia con la sua laguna diveniva
una ‘porzione indifferenziata’ all’interno di un organismo statale, che in generale si mostrò
indifferente alla specificità della sua morfologia, mentre si presentava l’aggravante di una
rivoluzione industriale che accelerava i processi di sviluppo e di modifica ambientale. L’unità della
laguna, mantenuta dalle accorte politiche della Repubblica, veniva disaggregata a causa di
insediamenti e attività in conflitto con il suo equilibrio.

Il Novecento

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Il dopoguerra

Nella primavera del 1945 Giovanni Ponti, dirigente del movimento partigiano di ispirazione
cattolica, fu nominato dal Comitato di liberazione nazionale (CLN) sindaco di Venezia, incarico che
mantenne fino alle elezioni del 1946. La giunta era composta dai rappresentanti di tutti i partiti del
CLN, con due vicesindaci, il comunista Giovanni Battista Gianquinto e il liberale Giovanni Cicogna, e
con il socialista Arturo Valentini come prosindaco con l’incarico per la terraferma. Lo spirito unitario
animò effettivamente i lavori della giunta, con il risultato che tutte le delibere furono approvate
all’unanimità. Le misure varate erano volte ad affrontare la difficile situazione della città, con diverse
emergenze legate alla carenza di generi alimentari, alla disoccupazione, alle distruzioni apportate
dalla guerra al patrimonio urbanistico e abitativo.

Nelle elezioni amministrative del 1946, il primo partito della città risultò la Democrazia cristiana (DC)
ma la maggioranza dei voti andò alle sinistre con il Partito comunista italiano (PCI) al 27,29% e il
Partito socialista di unità proletaria (PSIUP) attestato al 24,7%. A succedere a Ponti fu quindi
Gianquinto – partigiano, esponente del PCI e vicesindaco nella giunta precedente – che rimase
sindaco fino al 1951. I primi passi della giunta avvennero in atmosfera di concordia e di
collaborazione tra i partiti ma gli sviluppi della guerra fredda e le elezioni del 1948 mutarono lo
scenario creando un clima di forte contrapposizione. Le politiche della giunta di sinistra non si
rappresentarono come una rottura rispetto alle linee di sviluppo che erano state definite in epoca
fascista, negli anni 1920 e 1930, sotto l’influenza di Giuseppe Volpi di Misurata e di Vittorio Cini, che
promossero fortemente la vocazione industriale dell’area e l’espansione della città verso la
terraferma.

Gli anni 1950

Nelle elezioni del 1951 la DC, con 68.070 voti (37,79%), ottenne la maggioranza assoluta dei seggi
(31 su 60) contrastando così l’avanzata dei comunisti (30,40%) e sfruttando la legge elettorale e il
forte calo dell’area socialista, indebolita anche dalle scissioni. Fu quindi eletto sindaco il medico
democristiano Angelo Spanio, dopo la rinuncia di Ponti per motivi di salute. La giunta guidata da

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Spanio e composta da esponenti della DC e del Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) durò
poco più di 15 mesi, segnati da divisioni interne che esplosero con le dimissioni del vicesindaco
Giovanni Pastega e degli altri assessori del PSLI. Il governo del Comune fu allora assunto da una
giunta monocolore democristiana, sempre guidata da Spanio, che resse fino al febbraio 1955,
quando i conflitti interni e l'allentarsi dell'alleanza di centro portarono alle dimissioni del sindaco,
indebolito anche dall'arresto del fratello nell'ambito dello scandalo INGIC (Istituto Nazionale per la
Gestione delle Imposte di Consumo). Fu eletto allora sindaco l’avvocato Roberto Tognazzi,
democristiano, che ottenne anche, come segnale di distensione tra le parti, la scelta di votare scheda
bianca da parte dei consiglieri del PCI. Nella vita interna della DC a livello locale si stavano intanto
affermando le componenti di sinistra, che annoveravano tra i loro esponenti principali Vincenzo
Gagliardi e Wladimiro Dorigo: il partito non era insensibile alle istanze sociali e al dialogo con la
sinistra. Uno dei risultati della giunta monocolore fu l’approvazione della ‘legge speciale’ per
Venezia che prevedeva provvedimenti e finanziamenti per la salvaguardia del carattere lagunare e
monumentale dlla città, che nella sostanza riprendeva le linee del r.d.l. del 1937. La ‘legge speciale’
riproponeva la prassi di contributi ai privati per opere di restauro e sistemazione urbanistica, in
particolar modo per gli edifici di carattere artistico e monumentale. Per modalità e contenuti essa
favorì soprattutto alcune categorie di proprietari e le società immobiliari, escludendo dai benefici
l’edilizia abitativa minore. Alle elezioni comunali del maggio 1956, la DC ottenne con 73.394 voti e
il 37,76 %, soltanto 24 consiglieri, cioè 7 in meno rispetto al 1951, quando con una percentuale di
voti quasi identica aveva beneficiato dal sistema maggioritario. Paradossalmente il PCI, che aveva
subito un brusco arretramento passando dal 30,40 % del 1951 al 21,10% del 1956, riuscì ad eleggere
13 consiglieri, uno in più rispetto alle precedenti elezioni. Emerse fortemente in quella competizione
elettorale il PSI che, divenuto secondo partito della città con 41.088 voti (21,14%), ottenne anche
esso 13 consiglieri, cioè 9 in più rispetto al 1951. Non esistevano a quel punto le condizioni
numeriche né per una maggioranza centrista né per una maggioranza di sinistra. Dopo lunghe
trattative il 9 luglio 1956 fu varata una giunta con esponenti della DC e del PSDI, l'appoggio esterno
del PSI, un programma concordato e la riconferma a sindaco di Tognazzi. Una soluzione inedita su
un piano nazionale, che in qualche modo prefigurava la stagione del centrosinistra; l’esperimento
prese il nome di ‘formula Venezia’ e fu avversata dal segretario nazionale della DC Amintore Fanfani
e dal patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli. In un clima difficile, in una situazione di
accerchiamento da parte delle espressioni moderate del cattolicesimo veneto, la DC veneziana
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salvaguardò questa forma embrionale di centrosinistra consentendo alla giunta di lavorare due anni,
fino al voto sulle linee direttive del piano regolatore generale. Il consiglio comunale approvò con il
solo voto contrario del MSI la bozza di piano che prevedeva la creazione di un Centro direzionale
all’interno della città storica, nuovi collegamenti stradali tra Venezia e la penisola di Cavallino, un
nuovo quartiere a S. Giuliano, una seconda zona industriale di Porto Marghera. Era un tentativo di
amministrare lo sviluppo e governare le contraddizioni tra l’area storica e la terraferma.

A determinare la crisi nel 1958 fu il diniego della DC alla richiesta dei socialisti di entrare in giunta.
Al voto sul bilancio preventivo, si espressero favorevolmente solo la DC e il PSDI, sancendo la crisi
della giunta e della politica di aperture da parte della DC veneziana. Dopo una lunga serie di
trattative e di contrasti, anche interni ai partiti, si formò una maggioranza PCI-PSI-PSDI, che elesse
sindaco il socialdemocratico Armando Gavagnin, il quale si era impegnato per una giunta di
concordia cittadina, con compiti esclusivamente amministrativi. Questo nuovo esperimento durò
soltanto pochi mesi, fino al novembre 1958, quando la giunta fu battuta nella votazione sul bilancio.
La crisi che ne scaturì portò alla nomina di un commissario prefettizio che amministrò la città fino al
novembre 1960.

Gli anni 1960

Alle elezioni comunali del 1960 la DC si confermò primo partito, con 75.936 voti, pari al 35,74%,
davanti al PCI (23,50%), al PSI (21,48 %) e al PSDI (6,25%). Alla DC andarono dunque 23 consiglieri,
14 al PCI, 13 al PSI, 4 al PSDI, 3 al MSI, 2 al PLI e un consigliere alla Lista civica di Terraferma. Sia una
giunta centrista sia una di sinistra non avrebbero ottenuto neanche questa volta la fiducia del
consiglio. Ma la nascita del centrosinistra fu piuttosto travagliata e passò attraverso la breve
esperienza di una giunta DC, PSDI, Lista Civica di Terraferma con Giovanni Favaretto Fisca sindaco.
Dopo una lunga trattativa alla fine nacque la giunta DC, PSDI, PSI, che confermò Favaretto Fisca nel
ruolo di sindaco: il debutto del nuovo assetto politico non fu però accompagnato da quella spinta
innovativa che sembrava presente nell’esperienza della ‘formula Venezia’. Gli anni del centrosinistra
furono caratterizzati da una grande crescita demografica dell’area di Mestre e dal perdurare della
crisi del centro storico. Una situazione difficile che fu accentuata dalle conseguenze dell’alluvione

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del 1966, che mostrò la fragilità dello sviluppo basato sul turismo e le carenze delle politiche di tutela
ambientale.

Gli anni 1970

Nelle elezioni comunali del 1970, la DC si confermò primo partito (31,66%) davanti al PCI (26,62%),
al PSI (11,68%) e al Partito Socialista Unitario (PSU) che ottenne l’8,01%. Sindaco fu eletto il
democristiano Giorgio Longo che ripropose un’alleanza di centrosinistra con il socialista Mario Rigo
nel ruolo di vicesindaco. Ma la stagione del centrosinistra volgeva al termine, anche a livello
nazionale. La svolta nella politica cittadina fu però determinata dai risultati delle elezioni comunali
del 1975: il PCI si affermò come primo partito con 85.203 voti (34,32%), conquistando 22 seggi in
consiglio comunale; la DC subiva un ulteriore calo attestandosi al 29,54%, mentre un notevole
incremento dei voti rispetto al 1970 registrava il PSI, che con 40.243 voti (16,21%) poteva contare
su 10 seggi. Venne così varata una giunta di sinistra con il socialista Mario Rigo sindaco e il comunista
Giovanni Pellicani nel ruolo di vicesindaco. Tra le priorità della giunta di sinistra il progetto di difesa
dalle acque alte e sul piano turistico e culturale il rilancio del Carnevale. Il rapporto tra laguna e
terraferma e tra vocazione turistica e vocazione industriale rimasero sullo sfondo della politica
veneziana. I referendum sulla divisione tra Venezia e Mestre vennero bocciati dai cittadini.

Gli anni 1980

Il PCI si confermò primo partito alle elezioni amministrative del 1980, sia pure con un calo dei voti
(32,57%), e la sinistra conservò la maggioranza in consiglio, dando continuità all’esperienza di Rigo
fino al 1985. La stagione del pentapartito a livello nazionale e del declino della Prima repubblica si
manifestò a Venezia come un periodo di grande instabilità politica. Le elezioni del 1985 videro la
conferma del PCI come primo partito con 73.652 voti (30,48%) davanti alla DC con 66.071 voti
(27,34%), al PSI con 41.819 (17,30%) e al PRI con 11.889 voti (4,92%). Il mutamento rispetto al 1985
non era quantitativamente rilevante ma i nuovi orientamenti del quadro politico nazionale
influenzarono la vita cittadina. L’8 agosto 1985 dopo dieci anni di giunte di sinistra, si insediò una
nuova giunta DC-PSI-PSDI-PLI, guidata dal sindaco socialista Nereo Laroni. Furono le divisioni
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nell’ambito dello stesso PSI a decretare la fine di questa esperienza, nel settembre del 1987. Dopo
un periodo di instabilità e di trattative, volte anche a creare le condizioni di un pentapartito con la
partecipazione dei repubblicani, nel febbraio 1988 nacque invece la giunta rosso-verde guidata da
Antonio Casellati del PRI: intorno a questa esperienza si costituì una maggioranza formata da PCI,
PSI, PSDI, PRI e Verdi. In quello stesso periodo venne sviluppato dal consorzio Venezia Nuova il
progetto Rea (Riequilibrio e ambiente) e messi in opera alcuni passaggi operativi del MOSE. La città
fu anche attraversata e divisa dalla proposta di candidare Venezia come sede per l’Expo 2000,
candidatura a cui si oppose la stessa giunta comunale guidata da Casellati e che alla fine fu ritirata.

Gli anni 1990

Nelle elezioni comunali del 1990 si registrarono dei veri mutamenti nella geografia politica della
città: la DC ritornò ad essere il primo partito, pur ottenendo soltanto 57.800 voti (25,93%) a fronte
dei 66.071 di cinque anni prima. Il PCI uscì fortemente ridimensionato con il 23,58% dei voti, a fronte
della tenuta dei socialisti (17,64%), dell’esplosione dei Verdi (10,85%) e della novità rappresentata
dalla Liga Veneta che con 7.009 voti (3,14%) riuscì a portare due suoi esponenti in consiglio
comunale. Il democristiano Ugo Bergamo varò una nuova giunta, con la partecipazione di PSI, PSDI
e indipendenti. Nel 1993 si svolsero per la prima volta elezioni comunali con la nuova legge che
prevedeva l’elezione diretta dei sindaci. L’8 dicembre venne eletto sindaco di Venezia Massimo
Cacciari, alla testa di una coalizione progressista formata da PDS, PRC, Verdi, PSDI, Rete, Alleanza
per Venezia e Progresso socialista. Al primo turno del 21 novembre Cacciari aveva preso 89.048 voti
(42,29%), distanziando nettamente il candidato leghista Aldo Mariconda (26,51%); al ballottaggio
Cacciari ottenne il 55,6% dei consensi. Cacciari venne riconfermato sindaco con un’ampia
maggioranza nel 1997: ottenne infatti 116.740 voti (64,58%) distanziando ampiamente il suo
principale avversario Mauro Pizzigati, candidato dal centrodestra, che ricevette soltanto 37.436 voti,
pari al 20,71%. Il problema dell’inquinamento della laguna rimase una priorità dei suoi mandati. La
giunta di Cacciari si impegnò per la realizzazione del progetto di salvaguardia della città dalle acque
alte coerente con la tutela ambientale e la correttezza amministrativa e cercò di frenare l'esodo
della popolazione dal centro storico, sovvenzionando il restauro di abitazioni popolari.

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Il principio del nuovo secolo

Nel 2000 Cacciari si candidò alla guida della Regione Veneto ma fu sconfitto. Al comune di Venezia
il centrosinistra vinse invece le elezioni, con la candidatura di Paolo Costa, economista che era stato
ministro dei Lavori pubblici con il Governo Prodi, dal 1996 al 1998. Costa prevalse al ballottaggio con
il 55,96% dei voti contro il candidato di Forza Italia Renato Brunetta. Durante il suo mandato si
impegnò per la riapertura del Teatro La Fenice, distrutto da un incendio, e realizzò il Parco di San
Giuliano, a Mestre. Nelle elezioni del 2005 Cacciari si ricandidò a sindaco, sostenuto da La
Margherita e UDEUR, provocando di fatto una spaccatura nel centrosinistra, i cui partiti si erano
invece accordati sulla candidatura del magistrato Felice Casson: il ballottaggio vide confrontarsi
proprio Casson e Cacciari, con la vittoria di quest’ultimo (50,5% dei voti contro 49,5%); nonostante
non fosse considerato il favorito riuscì a portare dalla sua parte una buona percentuale del voto
moderato. Le elezioni amministrative del 2010 hanno visto la vittoria al primo turno del candidato
di centrosinistra Giorgio Orsoni sul candidato del centrodestra Renato Brunetta (51,13% contro
42,62%); nel 2014 tuttavia Orsoni si è dovuto dimettere, in seguito all’accusa di avere percepito
tangenti nell’ambito del progetto MOSE per finanziare la sua campagna elettorale come sindaco.
Un periodo di commissariamento ha consentito di giungere fino alle elezioni del 2015, in cui si sono
confrontati al ballottaggio Felice Casson, candidato del centrosinistra, e l’imprenditore Luigi
Brugnaro, sostenuto dal centrodestra, che si è affermato con il 53,21% dei voti contro il 46,79%. Nel
2020 Brugnaro è stato rieletto sindaco con il 54,1% dei voti.

Paci e trattati

Trattato del 1201

Concluso fra Venezia, la Francia e i Fiamminghi. Venezia si impegnava a fornire le navi per il trasporto
dei partecipanti alla quarta crociata, 50 navi da guerra e il vettovagliamento dell’esercito per un
anno, in cambio di 86.000 marchi d’argento. Il mancato pagamento comportò la deviazione della
spedizione contro Zara, ribelle a Venezia.

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Lega del 1495

Alleanza fra Venezia, il papa Alessandro VI, il duca di Milano, l’imperatore Massimiliano e il re
di Spagna, in risposta alla discesa in Italia di Carlo VIII di Francia; può essere considerata la prima
lega formatasi nella storia moderna per l’equilibrio europeo.

Trattato del 1684

Stabiliva una lega fra Venezia, il papa Innocenzo XI, l’imperatore Leopoldo, il re Giovanni Sobieski
di Polonia e altri principi cristiani, in funzione antiturca, dopo la vittoria austro-polacca di
Kahlenberg (1683).

Trattato del 1866

Conclusa la guerra austro-italo-prussiana, costituì l’atto formale della duplice cessione del Veneto
dall’Austria alla Francia e da questa all’Italia.

Patriarcato di Venezia

Una prima organizzazione delle chiese delle isole della laguna fu attuata nella seconda metà dell’8°
sec. con l’istituzione di un episcopato nel centro militare di Olivolo; dal 1050 il vescovato mutò il
nome in quello di Castello. Nel 1451 Niccolò V., sopprimendo il patriarcato di Grado e il vescovato
di Castello e fondendone rendite, diritti e giurisdizioni, costituì il patriarcato di Venezia, nominando
primo patriarca Lorenzo Giustiniani ultimo vescovo di Castello. La giurisdizione metropolita del
nuovo patriarcato si estendeva sulle diocesi di Caorle, Torcello, Chioggia. Nel 1818 Pio VI soppresse
e unì alla diocesi di Venezia quelle di Torcello e Caorle e insieme assegnò al patriarcato di Venezia,
come suffraganee, le diocesi di Adria, Belluno e Feltre, Ceneda, Chioggia, Concordia, Padova,
Treviso, Verona, Vicenza e Udine.

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