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Un sentimento intimo. La vita è un guazzabuglio emozioni, lo sappiamo.

Amore, gioia, passione, ira, sconforto…Emozioni che ci spronano ad agire in determinati


modi, emozioni che delineano davanti a noi un panorama nuovo in quel momento ma forse
fin troppo noto.
Emozioni che ci spingono a scrivere ciò che ci passa per il cuore in quel preciso istante,
perché in un modo o nell’altro dobbiamo fare qualcosa, buttar fuori ciò che sentiamo.
E questo libro è il risultato dei pensieri di Giuseppe Ungaretti derivati da ciò che accadde
tra il 1936 e il 1945 e espressi nel libro Il dolore.
Dai viaggi pindarici a un qualcosa di più terreno, di più tangibile. Qualcosa che tocca tutti,
con quelle mani sudicie, le unghie taglienti che incidono la carne e lo spirito.
La guerra è appena finita, eppure la scia di morte e disperazione non accenna a scemare.
Anzi, dentro di lui questa disgrazia continua a scavare, imperterrita.
La perdita del figlio e del fratello, la fame che attanaglia il popolo, uno stato che muore
lentamente e che lascia il posto a un qualcosa d’indefinito.
Un dolore che lo prenderà alle spalle e lo “costringerà” a scrivere qualcosa di differente,
qualcosa di crudele. E terribilmente reale. Parole che rimbomberanno nella nostra mente,
parole dure e spietate, come solo loro sanno essere.
Un libro che pesa una tonnellata, se consideriamo lo stato d’animo che riesce a
trasmetterci.
Da leggere per capire meglio l’autore. E, forse, anche noi stessi.

ncora un cambiamento drastico nella vita di Giuseppe Ungaretti: dal 1936 al


1945 gli avvenimenti politici, sociali e privati trasformano l’animo del poeta. I
lutti della guerra appena conclusa influiscono enormemente sul suo spirito, che diventa
sempre più cupo e addolorato. Il poeta distoglie l'attenzione dalla ricerca della
dimensione metafisica e si cala nuovamente nella tragica realtà della vita di tutti i giorni,
angosciato dalla perdita del fratello e successivamente anche del figlio. In Italia
Ungaretti assiste impotente allo sfascio e alla distruzione dello Stato Fascista nel cui
grembo per molti anni si è sentito al sicuro, ed è costretto a prendere atto dell'orrore della
sistematica deportazione in Germania di connazionali ebrei e dissidenti.

Questi eventi lo sconvolgono. Perso il


ruolo di poeta “ufficiale” all’interno delle istituzioni e sospeso dalla cattedra
universitaria, Ungaretti viene colpito da un primo infarto. Come già era successo durante
il precedente conflitto mondiale, il poeta si cala nel dramma – quello suo personale per
la perdita del figlio e quello del popolo italiano – e riversa nel terzo libro di poesie tutto
il dolore che percepisce dentro e intorno a sé. Non gli riesce difficile interpretare la
tragedia della vita, dato che fa parte della sua indole: «Le mie poesie sono ciò che
saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè poesie che hanno un fondamento in
uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia; non conosco sognare
poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta» (Da Vita di un uomo p. 511). E
come afferma in un’intervista televisiva: Il Dolore fu scritto piangendo. «Il dolore è il
libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne
parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi» (Vita
di un uomo p. 543).

Pubblicato nel 1947, la terza raccolta di Giuseppe Ungaretti contiene 16 composizioni


divise in sei sezioni.

Tutto ho perduto (1937) contiene due poesie dedicate al fratello morto; Giorno per


giorno (1940-1946) contiene 17 frammenti dedicati al figlio perduto; Il tempo è
muto (1940-1945) contiene tre poesie dedicate al figlio; Incontro a un pino (1943)
contiene una sola composizione sulla guerra; Roma occupata (1943-1944) contiene 5
liriche sulla deportazione, la più celebre delle quali è Mio fiume anche tu; I
ricordi (1942-1946) contiene tre poesie tra cui Non gridate più.

Queste liriche esprimono veramente il dolore del poeta.

Da Giorno per giorno

11.

Passa la rondine e con essa estate,


E anch’io, mi dico, passerò…
Ma resti dell’amore che mi strazia
Non solo segno un breve appannamento
Se dall’inferno arrivo a qualche quiete…

13

Non più furori reca a me l’estate,


né primavera i suoi presentimenti;
puoi declinare, autunno,
con le tue stolte glorie:
per uno spoglio desiderio, inverno,
distende la stagione più clemente!….

Da Roma occupata.

MIO FIUME ANCHE TU

Mio fiume anche tu, Tevere fatale,


[...]

È la poesia più accorta e più religiosa, nella quale al dolore personale Ungaretti trasfonde
l'angoscia del popolo romano per l'umiliante ferita delle deportazioni, dove si fa più
drammatica e tesa la sua confessione di fede. Ecco i bellissimi versi di questa tensione
sacrale:

Le mie blasfeme labbra:


«Cristo, pensoso palpito,
perché la Tua bontà
s’è tanto allontanata?»

Che si rafforza ulteriormente nella terza parte della poesia:

Fa piaga nel Tuo cuore


La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
il Tuo cuore è la sede appassionata
dell’amore non vano.

Cristo, pensoso palpito,


Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
d’un pianto solo mio, non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

Ecco il giudizio critico di Attilio Cannella:

«La lirica più complessa è Mio fiume anche tu: il Tevere diviene il simbolo del
fatale scorrere della “notte” della paura, mentre “Un gemito d’agnelli si
propaga / Smarrito per le strade esterrefatte”»

Da I ricordi

La poesia più paradossale ed ermetica è Non Gridate più, in cui il poeta invoca di
rispettare i morti e di cessare la guerra.

NON GRIDATE PIÙ

Cessate d’uccidere i morti,


non gridate più, non gridate,
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,


non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

Nell'opinione di Giudo Baldi:

«La poesia, scritta nell’immediato dopoguerra, è indirizzata a coloro che hanno


superato la tragedia di questi anni. Il testo si apre verso gli altri, sottolineando il
passaggio dal registro personale al registro della storia. La forza degli
imperativi non è quella del comando, ma quella di una preghiera, insieme vibrata
e dolente, che invita gli uomini a salvare la loro stessa umanità, riscoprendo i
valori della solidarietà e della pietà. Attraverso un uso particolare
dell’adynaton (uccidere i morti) il poeta chiede di superare gli odi e le divisioni
di parte, che ancora insanguinano a vita politica e civile italiana. Il sacrificio dei
caduti è stato così inutile. Ben diversa è la lezione che possono trasmettere, e
riguarda la possibilità stessa di salvare e continuare la vita. Ma bisogna
raccogliersi in silenzio per poter ascoltare la loro voce, “l’impercettibile
sussurro”». (Guido Baldi, Storia e testi della letteratura volume IIB Paravia
pagina 410).

Il Dolore consolida le scelte formali introdotte in Sentimento del Tempo. Il poeta adotta


la metrica tradizionale, fa uso della punteggiatura e compone strofe abbastanza lunghe
(Mio Fiume anche tu o Accadrà).

Versi belli e pregni della passione di un credente che è genuinamente sconvolto dalla
prerogativa umana di scatenare guerre terribili, atroci e disumane, che creano danni
irreparabili.
Io, Biagio Carrubba, ho grande ammirazione per Giuseppe Ungaretti, ne apprezzo le poesie e giudico la sua produzione
poetica molto bella e fra le più importanti del XX secolo. Non c’è dubbio che Ungaretti è stato un buon maestro di
poesia da seguire e da leggere per i lettori di tutto il mondo. In Italia la sua produzione poetica è stata (ed è tuttora) un
modello da seguire e da apprezzare perché indubbiamente contiene molte verità e mote riflessioni da leggere,
ascoltare e su cui meditare. Il suo percorso poetico inizia nel 1915 e finisce nel 1970 e quindi copre una buona parte
della storia d’Italia: dalla prima guerra mondiale all’allunaggio nel 1969, che Ungaretti vide direttamente in televisione.
Il poeta visse anche gli orrori della seconda guerra mondiale, la ricostruzione economica dell’Italia degli anni ’60 e vide
anche la contestazione studentesca del 1968. C’è una foto che ritrae Ungaretti, ormai vecchio e con i capelli
bianchissimi durante la contestazione alla biennale di Venezia del 1968. Ma le sue esperienze fondamentali Ungaretti
iniziò a farle molti anni prima; in Egitto prima, in Francia poi, in Italia in seguito, in Brasile dopo, per ritornare in Italia
che era la sua vera Patria di origine e di cultura. Ungaretti ha attraversato il XX secolo non da turista ma da uomo
impegnato e attivo come cittadino e come poeta, come lui stesso ha scritto nella prefazione del 1931 a “L’Allegria”:
“Questo vecchio libro è un diario. L’autore non ha altra ambizione, e crede che anche i grandi poeti non ne avessero
altre, se non quella di lasciare una sua bella biografia. Le sue poesie rappresentano dunque i suoi tormenti formali, ma
vorrebbe si riconoscesse una buona volta che la forma lo tormenta solo perché la esige aderente alle variazioni del suo
animo, e, se qualche progresso ha fatto come artista, vorrebbe che indicasse anche qualche perfezione raggiunta
come uomo. Egli si è maturato uomo in mezzi ad avvenimenti straordinari ai quali non è mai stato estraneo. Senza mai
negare le necessità universali della poesia, ha sempre pensato che, per lasciarsi immaginare, l’universale deve
attraverso un attivo sentimento storico, accordarsi colla voce singolare del poeta” (Da Ungaretti Vita di un uomo –
Tutte le poesie – Oscar Mondadori – Pagine 527 – 528). Dunque l’universale si esprime attraverso la singolare voce del
poeta. Io credo giusta questa affermazione e credo che Dio ci parli attraverso la voce dei poeti. E Ungaretti è stato un
grande poeta, perché di tutte le circostanze della sua vita ne ha fatto tesoro e da esse ne ha tratto ispirazione per la
sua struggente e malinconica poesia. Come Omero ha tratto ispirazione dalla guerra di Troia, così Ungaretti ha tratto
ispirazione dalle vicende storico politiche e da quelle sue personali. Dapprima fu la Grande Guerra del 1914-1918 a
ispirargli la poesia sul dolore dei soldati che morivano nelle trincee; in questa tragico evento poetava soprattutto il
dolore universale che nasce da tutte le guerre, giuste o ingiuste che siano. È impossibile dimenticare la poesia che
descrive il soldato morto con i denti digrignati e con la faccia rivolta al plenilunio della luna; immagini atroci ma
bellissime. Come si può dimenticare il suo amico egiziano (Moammed Sceab) che è sepolto in un camposanto di un
sobborgo d’Ivry che sembra una giornata che finisce come una fiera che si sbaracca? Anche a me la vita sulla terra
sembra si svolga in una giornata di una decomposta fiera, dove tutti siamo in procinto di preparare i bagagli per
andare nel vero mondo, nel mondo della luce e della felicità eterna. Non si possono dimenticare i fiumi: il Serchio, il
Nilo, la Senna e l’Isonzo, i fiumi più importanti della sua vita dove il poeta è cresciuto, ha conosciuto sé stesso e dove
ha fatto la guerra. Non si può nemmeno dimenticare “La pietà”, la lunga preghiera che Ungaretti ha rivolto a Dio, tra
mille dubbi e perplessità, e con la consapevolezza che l’uomo rimane in fondo un bestemmiatore. Ungaretti, dopo
avere vissuto il terribile periodo della Grande Guerra e l’altro grande evento della sua conversione a Dio, ha vissuto un
altro terribile periodo che è quello della seconda guerra mondiale. Anche da queste condizioni terribili, Ungaretti ha
tratto motivo di una poesia ansiosa ed eterna, rivolgendosi a Dio, invocando l’amore e la misericordia per tutti gli
uomini e chiedendo la pace dopo la seconda guerra mondiale, come scrive nella bella poesia “Mio fiume anche tu”.
Ma il dolore personale non ha mai abbandonato il grande poeta: dapprima la morte del fratello e poi la morte del
figlio gli hanno procurato un dolore infinito che lui ha espresso in maniera magistrale e pulita, limpida e impegnata,
come esprime nella bellissima poesia “Gridasti: soffoco”. Ungaretti ha dato inizio in modo diretto alla poesia ermetica
con la sua lirica vaga e indefinita, chiusa e polisemantica. Ha detto che il Nulla non esiste, ed anche io condivido ciò,
perché se esistesse il Nulla non esisterebbe Dio. (Da Ungaretti Vita di un uomo – Tutte le poesie – Oscar Mondadori –
Pag. 559). Il poeta ha creduto profondamente in Dio, a cui ha demandato la salvezza di tutta l’umanità. Ungaretti ha
fatto sua la metafora dell’aurora come pura idea di un paradiso primigenio dove un giorno tutti vorremmo andare così
come i giardini elisi nella cultura classica rappresentano un luogo perfetto, puro ed incontaminato in cui tutti
vorremmo vivere una vita immortale. Ha creduto nell’amore delle donne, prima di sua moglie e poi negli amori senili,
ma lo ha fatto sempre con delicatezza e con discrezione rispettando sempre questi amori. La sua poesia, nella prima
fase, è stata limpida, laconica, sintetica, franta; successivamente ha riscoperto la metrica classica italiana e ha saputo
esprimersi anche con l’endecasillabo classico della tradizione poetica italiana. La grandezza di Ungaretti sta nella sua
capacità straordinaria di partire sempre dai fatti, dalle circostanze, il più delle volte brutte, orribili, difficili, per trarne
poesia metafisica e originale, capace di penetrare nei cuori dei lettori. Ha sofferto e ha trasmesso questa sofferenza,
ha amato e ha trasmesso questo amore. In una delle ultime raccolte, ha seguito le grandi scoperte della scienza e i
grandi progressi della tecnologia, ma ne ha tratto motivo di pessimismo per il futuro dell’umanità, come ha scritto nel
quarto frammento di “Apocalissi”: “La verità, per crescita di buio/Più a volarle vicino s’alza l’uomo, /Si va facendo la
frattura fonda”. Un pessimismo che ricorda ovviamente il pessimismo leopardiano, poeta che lui amava molto. Dopo il
grande dolore per la perdita della moglie tanto amata, Ungaretti ha cantato anche l’amore per una giovane poetessa
brasiliana con la quale manifestava ancora tutta la sua vitalità di uomo e di poeta. Partendo dal basso, dai fatti
concreti della vita di tutti i giorni, dagli eventi terribili delle guerre, Ungaretti ha elevato la sua poesia a poesia
metafisica, a contatto di un mondo “dove il vivere è calma, è senza morte” (Dalla poesia Gridasti: Soffoco). Ungaretti
non scrisse per 5 anni, dal 1961 al 1966. Cinque lunghi anni di silenzio poetico totale, in quella parte della vita vicina
oramai agli ottant’anni. Ed ecco, nel ’66, preceduto dall’annuncio di un piccolo proverbio, una intensa stagione di
poesie d’amore con l’esplosione dell’ultimo opera “Dialogo” (1966 – 1968) formata da nove composizioni e che riporta
anche le “Repliche di Bruna”. Nel 1968 è a Venezia durante una manifestazione studentesca dove viene fotografo in
mezzo ai giovani. “Memorabile una foto presa alla Biennale di Venezia, nel ’68: Ungaretti in tripudio tra gli striscioni,
che ride deliziato tra le ragazze del Movimento. Il Poeta come senex, insomma; ma, vivaddio, anche come puer” (Da
Andrea Cortellessa – Ungaretti – Einaudi Tascabili – Pag. 120).
Oggi parliamo di…Giuseppe Ungaretti

Date: 21 gennaio 2016Author: leovil19960 Commenti

Giuseppe Ungaretti
La vita

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto il 10 febbraio 1888 da emigrati


italiani provenienti dalla provincia di Lucca.
Nel 1912 fece il suo primo viaggio in Italia, dove conobbe gli intellettuali che lavoravano
alla rivista, in particolare Pietro Jahier e Giuseppe Prezzolini.

Stabilitosi a Parigi, seguì i corsi universitari al College de France e alla Sorbona,


frequentando, con grande interesse e partecipazione, le lezioni del filosofo Henri Bergson.
In quel periodo approfondì lo studio della poesia simbolista e decadente e conobbe alcuni
dei più significati rappresentanti delle avanguardie europee, sia artistiche che letterarie.

Allo scoppio della prima guerra mondiale Ungaretti si trasferì a Milano. Fu un


deciso interventista, in linea con un clima politico e intellettuale diffuso, che vedeva nella
guerra un mezzo per affermare ideali patriottici e nazionalistici. Per Ungaretti, la guerra
poteva rappresentare un’occasione per rafforzare il legame con l’Italia, per avvicinarsi alla
patria dalla quale era stato lontano per anni, conquistando la propria identità nazionale
attraverso la partecipazione e la condivisione di un ideale comune. Per queste ragioni decise
di arruolarsi volontario come soldato semplice, e fu inviato a combattere prima
sull’altopiano del Carso e poi, nel 1918, sul fronte francese.

Tuttavia l’esperienza del fronte e il quotidiano confronto con la morte rivelarono al poeta la
crudeltà implacabile della guerra e lo portarono a prendere coscienza della sua assurdità.

Finiti la guerra, si stabilì a Parigi e cominciò a lavorare come corrispondente per il “Popolo
d’Italia”, il giornale fondato da Benito Mussolini, che dalle sue pagine prima della guerra
aveva guidato il movimento interventista cui lo stesso Ungaretti aveva aderito.

Nel 1921 Ungaretti tornò in Italia con la moglie, Jeanne Dupoix, che aveva spostato l’anno
precedente; si aprì per lui un periodo molto importante, segnato dai primi riconoscimenti
ufficiali, dalla nascita dei figli Anna Maria e Antonietto e dalla crisi religiosa che lo
accostò alla fede cristiana, che modificò profondamente il suo modo di rapportarsi alla vita e
alla poesia. Dopo tragiche esperienze di guerra, si trattava per Ungaretti, di ricercare,
nella vita privata, un rinnovato rapporto tra uomo e Dio, e di trovare, nella cultura, come
afferma il poeta stesso, un ordine nel mestiere della poesia. Come vedremo, da queste
riflessioni nasceranno le liriche di Sentimento del tempo. Dal 1931 al 1935 fu inviato
speciale della “Gazzetta del Popolo” e tenne conferenze sulla letteratura italiana
contemporanea in molti paesi europei.

Nel 1936 Ungaretti si trasferì in Brasile, dove rimase fino al 1942 per occupare una


cattedra di lingua e letteratura italiana all’Università di San Paolo. Rientrato in Italia,
ottenne nel 1943 la cattedra di letteratura italiana all’Università di Roma. Nel 1969
venne pubblicata presso l’editore Mondadori la raccolta completa delle sue liriche, Vita
d’un uomo. Morì a Milano nel 1970.

Le opere
Le liriche dell’Allegria sono riconducibili alla prima fase della produzione poetica di
Ungaretti, sono caratterizzate da un marcato sperimentalismo sul piano formale e da una
forte componente autobiografica.

Sentimento del tempo è la raccolta che coincide con la seconda fase della produzione
poetica di Ungaretti. I contenuti risentono del recupero di una dimensione religiosa, che
porta a frequenti riflessioni su temi elevati e profondi, come il tempo e la morte. La forma,
invece, è caratterizzata dal recupero di moduli espressivi tradizionali.

Il dolore segna il passaggio alla terza fase della poesia di Ungaretti, in cui emerge la


sensazione del vuoto del poeta di fronte al doloro per la perdita dei suoi cari (il fratello e il
figlioletto) e la sofferenza per le atrocità della guerra.

Un discorso a parte merita La terra promessa. Si trattava del progetto di un


melodramma ispirato alla vicenda virgiliana del viaggio di Enea verso le coste del Lazio
alla ricerca di una “terra promessa” e del suo incontro con Didone, la regina cartaginese che
l’eroe troiano dovrà abbandonare per volere degli dei. Esperimento di epica moderna,
l’opera voleva essere, nelle intenzioni del poeta, una meditazione sul destino
dell’umanità intera, nutrita dei valori della classicità, nel tentativo di offrire un bilancio
della propria esperienza poetica ed esistenziale, che si avviava ormai al tramonto.

Nel 1969 Ungaretti pubblicò Vita d’un uomo, una sorta di autobiografia poetica ideale, sul
modello del Canzoniere di Petrarca. L’idea di un libro che raccoglie la propria vita interiore,
fu motivata dall’esigenza di fra coincidere vita e letteratura, con l’intento di fornire al
lettore un’immagine unitaria dell’Ungaretti uomo e poeta.

Parallelamente all’attività poetica, Ungaretti intraprese quella di traduttore.

Nel 1936 pubblicò il volume Traduzioni una raccolta di testi di vari autori stranieri, tra cui
Gongora e Blake.

Il pensiero e la poetica
La prima fase: lo sperimentalismo

La prima fase della produzione poetica di Ungaretti è caratterizzata da un forte


sperimentalismo, riconducibile soprattutto all’influsso della poesia simbolista
francese, apprezzata dal poeta durante gli anni parigini. Le prime poesie confluite
nell’Allegria hanno una decisa impronta autobiografica. Segno evidente di questa
impostazione autobiografica è l’indicazione, da parte dell’autore, del luogo e della data di
composizione, che accompagna i testi di quegli anni. Ungaretti si concentra su quanto c’è di
universale nelle proprie esperienze e che vale per tutti gli uomini: è proprio in questa
aspirazione a innalzare la dimensione privata a simbolo di una condizione universale, che
si riconosce la lezione dei simbolisti.

Sempre sulla scia dei simbolisti francesi, il poeta, per indagare la realtà nei suoi aspetti più
profondi, si serve dell’analogia, che gli permette di superare i legami logici in favore di
associazioni basate sull’intuizione immediata, e di ardite metafore. Questa concezione
risente anche della proposta di rinnovamento del linguaggio poetico promossa dai
futuristi, che avevano teorizzato la tecnica delle “parole in libertà”, di cui Ungaretti,
tuttativa, rifiutava il carattere casuale e meccanico. La parola, per lui, si carica di significati
profondi e diventa un mezzo per cogliere l’essenza delle cose, per recuperare una purezza
originaria in grado di riscattare dalle atrocità del presente mediante un sofferto scavo
interiore che porta a improvvise e folgoranti “illuminazioni”.

Gli orrori del fronte, che il poeta visse in prima persona, influiscono pesantemente sulla
scelta e sulla creazione di un linguaggio poetico che lui volle scarno ed essenziale.

Le liriche di questa prima fase presentano le seguenti innovazioni stilistiche:

 L’adozione di un linguaggio scarno ed essenziale;

 L’abolizione della rima e del verso tradizionale;

 La frantumazione della sintassi e l’abbandono della punteggiatura a favore


del semplice accostamento di parole;

 La riduzione del verso anche a una singola parola, considerata come


improvvisa illuminazione e dotata di capacità di evocare immagini e concetti;

 L’uso frequente di spazi bianchi, pause, silenzi;

 La “verticalizzazione” della lirica, data dalla prevalenza di versi molto


brevi che creano un andamento verticale con effetto di essenzialità;
Le motivazioni che hanno indotto Ungaretti a operare scelte stilistiche audaci e
innovative sono da ricollegare anche al rapporto del poeta con i movimenti letterari del suo
tempo.

La seconda fase: il recupero della tradizione

I contenuti della raccolta Sentimento del tempo, sono condizionati dalla scoperta del poeta
di un rinnovato sentimento religioso e da un’attenzione al tema del tempo interiore che
scandisce la vita umana, mutuato dalle teorie di Bergson. Le novità della raccolta, a livello
formale, consistono nella scelta di una sintassi strutturata, nel recupero della
punteggiatura e delle forme metriche tradizionali, in particolare dell’endecasillabo.

L’operazione di recupero formale è dovuta anche all’influsso dei classici italiani, presi dal
poeta come modello in un momento in cui sente l’esigenza di ricostruirsi
un’identità attraverso la riscoperta delle proprie radici.

Superata la fase in cui la poesia si fondava sull’”illuminazione” e sulla descrizione


dell’attimo, Ungaretti assume come tema centrale della nuova raccolta, la percezione del
tempo: il “sentimento del tempo”, dunque, è da intendersi sia come legame con il passato,
sia come dimensione fugace e provvisoria della vita, che diventa quindi occasione
per meditare sulla morte.

Ungaretti utilizza un linguaggio più ricercato, ricco di aggettivi, di immagini originali e


preziose; predominano associazioni analogiche e metafore piuttosto impegnative e audaci.

Per reagire al senso di decadenza e di precarietà, al “sentimento del vuoto”, come lo definì
Ungaretti, l’uomo in epoca barocca si era rifugiato nella grandiosità della forma, segnata
da una “pienezza implacabile” di elementi. Di qui uno stile ridondante, ma caratterizzato da
una nuova complessità formale e figurativa, esito della fusione tra esperienza barocca e
tecnica anologica di matrice simbolista. Centrali in questa stagione ungarettiana sono il
senso di precarietà, di ascendenza barocca, e il recupero di una dimensione religiosa, di
una forte tensione verso Dio.

La terza fase: la compostezza formale

La terza fase della produzione poetica di Ungaretti comprende le raccolte Il dolore, La terra


promessa, Un grido e paesaggi e il taccuino del vecchio. Con il dolore, il poeta prosegue nel
recupero della tradizione classica attraverso l’impiego di nuovi ritmi fatti di pause e
suggestioni musicali e, talvolta, attraverso l’adozione di forme ancora più solenni. Il tono
delle liriche è meno intimo: l’autore si apre al colloquio con gli altri uomini trattando temi
concreti di carattere universale, comunicando il proprio dolore per la morte del figlioletto,
e quello dell’umanità intera per la seconda guerra mondiale, verso la quale il poeta
manifestò pubblicamente il suo profondo dissenso.

La riflessione di questi ultimi anni conduce l’autore a un progressivo distacco dalla


vita, alla serenità di chi guarda le cose terrene da un punto di vista privilegiato, di chi si
accinge a separarsi definitivamente dall’esistenza per approdare alla meta più alta: la morte
e la dimensione ultraterrena.

La poesia delle ultime raccolte si caratterizza prevalentemente per la compostezza formale,


pur conservando la complessità delle strutture sintattiche e delle immagini, sempre più
orientate verso una dimensione classica.

L’influenza di Ungaretti sulla poesia del


Novecento.

Pur nella loro diversità, le tre fasi della produzione di Ungaretti sono caratterizzate da un
aspetto costante: la ricerca della potenzialità espressiva della parola.

Sono questi i momenti di una continua ricerca della verità insita nella parola, testimoniata
dal magico incontro tra l’autenticità dell’ispirazione e l’abilità tecnico-espressiva del poeta.

Ma la fase più innovativa della sua produzione poetica è senza dubbio la prima
stagione, quella in cui lo sperimentalismo, con la dissoluzione delle forme e la ricerca
dell’essenzialità, porta alla scoperta di un nuovo modo di fare poesia, anticlassico e di
rottura con la tradizione. Proprio per questo i critici hanno riconosciuto in Ungaretti uno
dei massimi innovatori del linguaggio poetico novecentesco. In particolare, il critico
Francesco Flora, legato alle teorie letterarie del filosofo Benedetto Croce, criticò il
carattere di frammento delle liriche di Ungaretti negando loro ogni valore artistico.
Se ogni esperienza poetica del Novecento è stata influenzata dalla lezione ungarettiana, è
soprattutto la corrente dell’Ermetismo, di cui l’Ungaretti fu considerato il precursore, a
presentare consistenti tratti comuni.

Non gridate più, poesia di Ungaretti


La lirica Non gridate più è stata composta da Giuseppe Ungaretti nel 1945 e
appartiene alla raccolta Il dolore. Per la composizione, l’autore prese spunto da
un fatto di cronaca. La notizia del bombardamento da parte delle forze alleate del
cimitero romano del Verano il 19 luglio 1943. Ungaretti pose l’accento sulla violenza
della guerra che non si fermava neanche difronte ai morti.
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Approfondimento
 Il dolore
 Non gridate più: testo della poesia
 Parafrasi
 Analisi della poesia
 Commento
Il dolore
La raccolta Il dolore venne pubblicata nel 1947. Seguì la prima
raccolta L’Allegria (1931) e la seconda Sentimento del tempo (1933). Il titolo di questa
terza raccolta è riferibile sia alla tragedia della Seconda Guerra mondiale allora in
corso, sia alle vicende personali del poeta. Nel 1937 morì il fratello Costantino; nel
1939 il figlio Antonietto a soli nove anni.
Egli decise di esprimere in questa raccolta tutto il suo dolore, sperimentato così
duramente come mai prima.
Il dolore è formata da 16 composizioni divise in sei sezioni. Una è dedicata al fratello
morto (Tutto ho perduto). Un’altra è dedicata alle poesie scritte per la morte di
Antonietto (Giorno per giorno). Altre sezioni sono dedicate alla guerra. L’ultima
sezioni I ricordi (1942-1946) comprende la poesia che andiamo ad analizzare: Non
gridate più.
Non gridate più: testo della poesia
Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
Parafrasi
Smettetela di uccidere (ancora) i morti,
non gridate più, non gridate,
se volete ancora ascoltare il loro messaggio di pace,
se sperate di non morire e di salvare i valori della civiltà umana.
(I morti) hanno una voce debole;
essi non fanno più rumore dell’erba che cresce,
che riposa silenziosa dove l’uomo non passa.

Analisi della poesia


La poesia Non gridate più è un esplicito invito al silenzio. Ungaretti lancia questo
invito contro la disumanità della guerra, che non si ferma neanche difronte al
bombardamento di un cimitero. Il silenzio diventa così lo strumento che permette di
mantenere la dignità agli uomini.
La lirica è composta da due quartine di novenari sciolti, per un totale di otto versi.
Può essere divisa in due parti, che corrispondono alle due strofe.
1. Nella prima si esorta a sospendere la violenza e, con una provocazione, a porsi
in ascolto dei morti. Ma soprattutto a cercare di non morire invece di uccidere
chi è già passato a miglior vita.
2. Nella seconda strofa è presente un parallelismo tra l’erba che cresce e il
sussurro dei morti. L’erba viene definita lieta nei punti in cui non passa l’uomo
perché esso sta commettendo troppe barbarie.
Dal punto di vista stilistico, la poesia è ricca di rime interne. La prima strofa si
contraddistingue per la presenza di tre imperativi in posizione forte nei primi due
versi. Qui troviamo un ritmo molto più incalzante. La seconda strofa, invece, è meno
violenta, proprio per l’utilizzo di termini meno forti. Essa ha quasi il ritmo di una
cantilena.
Commento
Il tema principale della poesia è il rispetto dei morti, che sembra dimenticato nel
corso di questa guerra senza fine. Per il poeta, infatti, il legame col mondo dei morti è
molto importante, come spesso sottolineato anche nelle sue raccolte precedenti,
perché ricorda a tutti la propria identità.
Il ruolo che il poeta assume è quello di difensore dell’umanità e, soprattutto, di uomo
in grado di cogliere l’aspetto più profondo delle cose.
Il ricordo resta per il poeta uno degli elementi fondamentali della vita dell’uomo:
dimenticare i propri morti e gridare non serve a nulla. Questo è
il messaggio che Ungaretti vuole lanciare in questa lirica: basta utilizzare la violenza.
Il silenzio è l’unica arma che si possiede per poter contrastare la barbarie e che gli
uomini dovrebbero utilizzare molto più spesso.
Non gridate più è un’invocazione alla pace. E’ una poesia densa di significato, che in
soli pochi versi riesce ad esprimere a pieno i sentimenti del poeta nei confronti di un
momento storico così difficile come fu quello della Seconda Guerra Mondiale.

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 Altri

Dare il 5: perché si fa e dove nasce


“Bravissimo: dammi il cinque!” Quante volte ci è capitato di condividere con questo

semplice gesto la riuscita in qualcosa di un figlio o di un amico? Sicuramente tantissime.

Il gesto del dare il 5 è molto naturale e diffuso oggi, ma ha una storia curiosa alle

spalle. Possiamo affermare che abbia anche una sua origine.

Sì, il primo “batti il cinque” in assoluto è stato dato molti anni fa.
Dare il 5 e la sua meccanica: come si dà
il cinque
Le istruzioni sono poche e facili. L’occorrente:

1. una delle due persone deve aver fatto qualcosa di buono


2. l’altra deve essere disponibile a congratularsi con lei.
Come si fa è molto semplice:

 si alza il braccio, entrambi destro o entrambi sinistro… e via!


 si battono in aria i palmi, producendo una specie di schiaffo a due.
Palmo a palmo, cinque dita contro cinque dita.

High five: il primo batticinque


Non è facile pensare ad una data precisa in cui sia nato il gesto del dare il 5. Appare un

po’ bizzarro, vista l’ampia diffusione di questo gesto oggi, pensare che c’è stato un

tempo in cui non esisteva, e poi un giorno da cui invece ha iniziato a prendere piede. Ma

è così.

La data identificata è il 2 ottobre del 1977. Ad eseguire il gesto per primo fu il il

giocatore di baseball dei Los Angeles Dodgers Glenn Burke, durante una partita contro

gli Huston Astros. Quando il compagno di squadra Dustin Baker tornò in banchina

dopo un’azione vincente, alzò il braccio. Baker rispose colpendolo: palmo a palmo.
Glenn Burke (1952-1995) dei Los Angeles Dodgers, è ricordato anche come il primo

giocatore di baseball ad aver fatto coming out come omosessuale.


Da quel momento divenne una mossa identificativa dei Dodgers. Divenne un must della

squadra che lo ribattezzò, nella lingua nativa, high five (cinque alto):


 high (alto), per il braccio teso;
 five (cinque), per via della cinque dita in azione.

Dagli USA all’Italia: i favolosi anni ’80


Nella lunga lista dei prodotti importati dagli USA negli anni Ottanta c’è anche l’high

five.

Con lo stile, il cibo, le primissime serie tv, la musica e il cinema… anche i ragazzi

italiani del tempo iniziarono a salutarsi con il palmo alzato.

A dare un forte contributo alla diffusione popolare fu l’hit di Jovanotti Gimme Five. Fu

un brano di grandissimo successo: fu il primo estratto dal primo album in studio di

Lorenzo Cherubini pubblicato nel 1988, dal titolo “Jovanotti for President”.

Variazioni sul tema


L’immaginario statunitense attraverso le serie tv degli anni Ottanta e Novanta ci ha

abituato a ben più che il semplice high five.

Per chi all’epoca faceva già uso del tubo catodico non sarà difficile ricordare il saluto nei

corridoi della Beverly High fra Steve, Dylan e Brandon paladini della serie tv Beverly

Hills 90210.
Due ragazze battono il cinque

Allo stesso modo resta memorabile la variazione di Willy e Jazz nella fortunatissima

serie Willy, il principe di Bel-Air che ha lanciato la star holliwoodiana Will Smith.

Una delle varianti più famose è chiamata windmill (mulino a vento): inizia come il gesto

normale del dare il cinque, ma una volta che le mani si sono incontrate in cima, le due
persone continuano a far girare il braccio fino a fare battere le mani una seconda volta, in

basso (“cinque basso”). Lo si vede più volte nel film Top Gun, quando ad esempio i

piloti si sfidano a beach volley.


Top Gun (1986): Maverick (Tom Cruise) e Goose battono il cinque in modalità “windmill”

durante una partita di Beach Volley


Se vuoi proseguire la lettura, sul tema dei gesti e delle curiosità collegate, abbiamo

parlato anche di => Ok: acronimo, significato, come si scrive e perché si dice

Monica Vitti. La biografia dell’attrice nel


libro di Cristina Borsatti
Esce oggi, 23 febbraio, in tutte le librerie d’Italia, il libro di Cristina Borsatti, intitolato

“Monica Vitti”. E’ la biografia di Monica Vitti, una delle attrici italiane più amate nel

mondo; già pubblicata nel 2005, viene riproposta in versione aggiornata dall’editore

Giunti dopo la sua morte, avvenuta poco tempo fa.

Nel libro si mescolano episodi che raccontano la vita professionale e quella privata

di Maria Luisa Ceciarelli (questo è il vero nome dell’attrice), diventata una musa

ispiratrice per i più grandi registi di fama internazionale. Una diva che ha mantenuto

inalterata nel tempo la sua umiltà, una mattatrice, un’artista camaleontica e completa,

una donna coraggiosa.

La copertina del libro

“Senza essere dichiaratamente femminista, Monica Vitti ha dato un importante

contributo all’emancipazione delle donne, già a partire dal suo aspetto fisico così poco

convenzionale per l’epoca. E poi non si è mai piegata a un mondo di uomini, ha puntato

su talento e intelligenza, rimanendo sempre se stessa“, ha dichiarato l’autrice della

biografia, che ha curato personalmente la ricerca del materiale per scrivere il libro.

A completare l’interessante volume c’è anche un inserto fotografico che comprende

alcuni degli scatti migliori dell’attrice e le interviste a quattro registi con i quali Monica

Vitti ha lavorato:
 Ettore Scola,
 Mario Monicelli,
 Franco Giraldi,
 Dino Risi.
“Per la Vitti hanno avuto solo parole piene d’amore”, ha concluso Cristina Borsatti.

=> Il libro su Amazon <=


Putin e la ricostruzione della Grande
Russia, libro di Sergio Romano
La Russia di oggi appare a molti come un oggetto misterioso. Vladimir Putin la

governa come se ne fosse il capo assoluto e incontrastato e, se dall’esterno il suo sembra

un potere acquisito grazie al vuoto lasciato da Eltsin, in realtà la sua conoscenza della

storia russa gli ha permesso di elaborare una politica che lo ha reso molto popolare. Un

buon libro per comprendere la Russia attuale e la strategia di Vladimir Putin è il nuovo

saggio di Sergio Romano “Putin e la ricostruzione della Grande Russia” edito dalla

casa editrice Longanesi. L’autore ci racconta la Russia dalla caduta del muro di

Berlino fino agli ultimi scontri con gli Usa sia per la crisi dell’Ucraina che per

la questione della Siria.


Putin e la ricostruzione della Grande Russia – la copertina del libro di Sergio Romano

Putin e la ricostruzione della Grande


Russia: temi trattati
Il libro è stato pubblicato prima delle elezioni americane che hanno visto la vittoria

di Trump (2016) e le polemiche successive sull’ingerenza dei russi nella campagna

elettorale. Ci sono diversi piani di lettura. Romano racconta la disgregazione dell’Unione

Sovietica e il potere assoluto di Boris Eltsin che ha traghettato la Russia dall’era

comunista ad un capitalismo senza regole. Gli oligarchi che hanno preso velocemente il

potere economico e hanno in parte influenzato le decisioni dei governi di Eltsin sono lo

specchio di una Russia che ha riconvertito le sue risorse pubbliche in un business

privato.

Ma non è solo stata una lotta per il potere di nuove figure contro un vecchio modo di

governare. Gli oligarchi erano uomini del partito che sono stati sempre dietro le quinte.

Quando le crisi economiche hanno costretto il governo a cercare nuove risorse per

pagare stipendi e garantire i servizi minimi, sono riusciti ad imporre le proprie richieste.

Eltsin nell’ultima parte della sua vita e della sua carriera politica è stato debole e

permissivo. Secondo Sergio Romano, le sue scelte hanno permesso ad alcuni uomini di

impadronirsi delle risorse minerarie e petrolifere del paese, di controllare giornali e tv e

di accaparrarsi il controllo dei principali istituti bancari.

L’avvento di Putin
L’avvento di Putin cambia tutto. Uno sconosciuto ufficiale del KGB in cerca di lavoro

diventa, in poco tempo, un uomo molto influente che viene messo a capo di un
dipartimento del governo. Poco dopo, avviene la sua elezione a Primo ministro. La sua

biografia è sconosciuta a tutti e anche Romano fatica a trovare informazioni sul suo

passato. Quello che è certo è che Putin ha prestato servizio nel KGB durante la Guerra

fredda operando nella Germania dell’Est. Dopo la caduta del muro si è trovato senza un

lavoro ed è diventato l’assistente del sindaco di San Pietroburgo. Poi il vuoto fino alla

sua nomina ad un alto sevizio dello Stato e poi a capo del governo. Questo è il secondo

piano di lettura del libro.

Putin fa una carriera folgorante e gli vengono riconosciuti meriti che molti faticano a

vedere. Ma come si comporta? Solidifica in poco tempo il suo potere e riesce ad imporre

una visione vincente della Russia. Non rinuncia alla storia del suo paese né rinnega il

periodo comunista. Ma cerca invece di utilizzare tutti i valori a cui i russi sono legati,

perfino una devozione alle icone religiose, per cercare di rilanciare l’orgoglio del suo

paese. La sua strategia funziona e ha successo. Tanto che viene eletto come presidente

della Repubblica, carica che, a parte un breve periodo come Primo ministro, continua a

mantenere tutt’oggi.

Sondaggi recenti
I sondaggi anche adesso (2017) lo danno come favorito alle prossime elezioni con una

percentuale di gradimento molto alta. La sua politica è un misto di nazionalismo,

orgoglio per il proprio passato, soprattutto le conquiste prima dell’avvento del

comunismo e la ricerca di un’identità religiosa che dimostri come la Russia è stata la

prima in tutto. Secondo Romano, uno dei problemi principali di un uomo di governo

russo è il confronto con il territorio. La Russia ha un territorio enorme in continuo

pericolo di disgregazione. E la strategia di Putin è proprio dimostrare come invece la

Russia debba espandersi, senza eccessi, mantenendo un controllo stabile dei suoi confini.
Lo scrittore Sergio Romano

Sono tre quindi le chiavi di lettura del libro “Putin e la ricostruzione della Grande

Russia“: la storia dopo la caduta del muro, l’enigma Putin e la sua misteriosa ascesa al

potere e la strategia sia di politica interna che di politica internazionale per mantenere

saldo questo potere. Con uno stile narrativo chiaro e lineare e una conoscenza molto

dettagliata e profonda della storia della Russia, Sergio Romano ci permette di osservare

con più attenzione e consapevolezza i cambiamenti della Russia. Un paese fondamentale

per il futuro dell’Europa e dell’Occidente.

Vorrei cominciare dato l’argomento, che è la ricerca dell’assoluto, proprio su Ungaretti


religioso, su Ungaretti ricercatore dell’oltre, su questa poesia protesa continuamente
protesa verso un superamento, verso qualche cosa che sia oltre le cose stesse. Una parte
della critica considera Ungaretti come un puro technicos, la sua poesia come ricerca
tecnica: per essa la sua ricerca di assoluto si esaurisce nell’assoluto della parola. Il che è
certamente vero ma solo in parte. Pertanto che va bene è soltanto l’Ungaretti
dell’Allegria che, in un certo senso, si lega a una situazione realistica. L’Allegria è un libro
splendido, un libro che inizia veramente una poesia nuova nel Novecento, ma viene
considerato come legato all’esperienza della guerra, quindi storicamente individuato; il
resto sarebbe soltanto un esercizio, più o meno riuscito, di tecnica, di retorica
Contro questa interpretazione ho voluto combattere, perché la poesia di Ungaretti vuole
essere una sorta di icona, di vita totale, e questa aspirazione alla totalità della vita è
propria di tutti i grandi poeti che hanno veramente respiro. La sua poesia è una continua
scoperta, è un continuo avanzare le cui diverse fasi sono anche un po’ le fasi della vita.

Il primo modello insuperato e probabilmente insuperabile è quello di Dante, la cui opera è


proprio una grande icona della vita intera. A partire dal primo incipit della Vita nova, dalla
prima apparizione di Beatrice, sino “all’amor che move il sole e l’altre stelle”. Vedete ogni
tappa ha un suo senso ed è una tappa della nostra vita, non soltanto della sua E questa
idea si ritrova anche in Ungaretti, uomo tra uomini come fu effettivamente con grande
umiltà nella prima guerra mondiale, quando si trova ad essere uomo nella nudità del
destino di guerra.
Leggerò ora un passo che mi sembra molto importante anche su un piano polemico.

“Non dimentichiamo – dice Ungaretti – che nell’opera d’arte riuscita ciò che ci colpisce è
l’alone di mistero e la vita che essa emana e il fiato divino che l’uomo le ha trasfuso.
Questo sarebbe il punto principale sul quale dovrebbero fermarsi i critici, il rimanente è
più o meno fondata pedanteria”.
Il senso del sacro è certamente molto presente in Ungaretti, e il poeta ha cercato sempre
di sottolinearlo; naturalmente chi ha contestato questo suo atteggiamento, questo suo
auto giudizio, ha contestato la sua capacità di auto-giudicare la propria opera. Certo non
sempre i poeti si valutano correttamente, anzi c’è addirittura chi ha detto, come Alfredo
Giuliani, che l’autore è quello che del testo ne sa meno di tutti. Forse non è proprio così,
ma certo non sa tutto, altrimenti noi critici che ci staremmo a fare? E invece noi siamo un
po’ i maieutici che dai testi riusciamo a trarre qualcosa di più ricco che però sia pertinente
al testo, che nasca dal testo, che irradi dal testo, non qualcosa che nel testo non c’è.

Dicevo appunto, c’è questo pregiudizio che va evidentemente eliminato, per il quale
Ungaretti non sappia giudicare la propria poesia. Secondo critici importanti, come
Giuseppe De Robertis, Ungaretti è invece uno dei più consapevoli tra i vari scrittori e poeti
del Novecento, uno di quelli che ha una maggiore autocoscienza. Ungaretti ha una
coscienza letteraria sottilissima, non è detto che sempre veda giusto su se stesso, però
quello che ci dice, con la straordinaria passione che lo caratterizza, non è da prendere
sottogamba. Quindi dobbiamo credergli anche per quello che afferma sulla sua attenzione
religiosa.

Il suo tormento religioso trova un momento “forte” in quella famosa settimana santa del
’28, in cui andò all’abbazia di Montecassino, insieme con padre Vignanelli, dove ebbe la
così detta conversione. Sì, è un momento di grande adesione al cristianesimo, di grande
partecipazione, però non di soluzione definitiva. Quindi questo tormento continua, ed è
documentato dal carteggio soprattutto con Jean Polan, un carteggio che dura un enorme
numero di anni sino alla morte dell’amico.

Dichiarazioni in questo senso ce ne sono parecchie, sono frasi brevi, pregnanti. Come
esprimere l’inesprimibile, uno che non si reputi Dio, che non accetti il dogma, che si
consideri uomo, semplicemente una creatura (“sono una creatura”, vi ricordate le parole
famose dell’Allegria). Di fronte a questo gran vuoto della sua anima, a questa sua
consapevolezza di essere stato abbandonato a sé, a questa tremenda sua solitudine, quale
valore avranno più le parole? Ecco un dramma moderno: le parole hanno perduto il loro
valore religioso. E Ungaretti con la sua poesia, vuole ridare valore religioso alle parole, nel
senso più ampio ovviamente: “La mia poesia interamente, sino da principio- scrive il poeta
– è poesia di fondo religioso, avevo sempre meditato sui problemi dell’uomo e del suo
rapporto con l’eterno, sui problemi dell’effimero e sui problemi della storia”. Quindi, dietro
la poesia di Ungaretti, c’è una riflessione profonda sui grandi temi della vita: il suo non è
un pensiero debole, ma un pensiero straordinariamente forte.
Come la riflessione filosofica, secondo il grande filosofo francese Henry Bergson, deve
proporsi i grandi problemi, così la vera poesia non può metterli da parte. Ungaretti è un
poeta che si impegna attraverso l’arco di tutta una vita, che non si limita a scrivere un
canzoniere sulle mani della propria donna, come pure è stato fatto nel Cinquecento, ma
vuole veramente cogliere il senso della vita nei suoi vari momenti. In un’altra
affermazione molto forte, forse troppo, dice: “Non c’è momento in cui la mia poesia non si
muova da una ispirazione in qualche modo religiosa”.

Così, come vedete, Ungaretti stesso ci offre un punto di partenza per confortarci in questa
ricerca. E lo dice fin da principio, e fin dall’Allegria, in cui troviamo tanti elementi di tipo
esistenziale, di riflessione intensa sull’uomo immerso nel dramma della guerra, alle prese
col proprio destino. Ma troviamo anche dei momenti di contemplazione, che sono come
degli spiragli in mezzo a questa specie di prigione di pietra carsica che lo avvolge. Uno di
questi, intitolato Dannazione, fu preso come punto di partenza da Pier Paolo Pasolini in un
articolo intitolato Il poeta ed io, quasi totalmente dimenticato ed inserito in un suo libro
molto bello, Passione ed ideologia, una raccolta di saggi intensissimi che giustamente parte da
questa poesia brevissima: “Chiuso tra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché
bramo Dio?”. Il punto interrogativo è stato più volte tolto e rimesso e su questo indaga
Pasolini.
Vi è un’altra poesia molto nota intitolata Peso, in cui si parla di un contadino che si affida
alla medaglia di sant’Antonio e va leggero; quindi c’è uno stacco tra le due parti, tra le due
ministrofe della composizione, che è veramente una separazione fra due mondi, per poi
continuare spostando l’attenzione sul poeta che invece porta su di sé il peso della propria
anima. Forse è la prima volta che si parla dell’anima, si questa entità ordinariamente
leggera, come d’un peso. Leggiamola: “Quel contadino / si affida alla medaglia / di
Sant’Antonio / e va leggero // Ma ben sola e ben nuda / senza miraggio / porto la mia
anima”. Ecco, da un lato vi è questa leggerezza del contadino, che nella prima edizione è
un contadino soldato, poi Ungaretti ha tolto il termine “soldato”, forse per dare maggiore
universalità al suo testo, che si affida la medaglia di sant’Antonio. Però la poesia si
intitola Peso, quindi il peso è quello di chi porta su di sé la propria anima senza avere la via
d’uscita di una religiosità popolare alla quale aggrapparsi nel dramma della guerra.
L’Allegria si conclude con una poesia che si intitola Preghiera che è importante, in quanto
nella strutturazione dell’opera il testo finale è certamente un punto forte, un punto di
significato pregnante e in questa preghiera il tema leggerezza/peso ritorna in una chiave
chiaramente spirituale. C’è anche da dire che Ungaretti è un correttore instancabile dei
propri testi, e nella strutturazione dell’ultima poesia dell’Allegria ha ricostruito versi più
tradizionali, e si avvia verso una seconda fase in cui l’endecasillabo, verso tipico di tutta la
poesia italiana illustre, diventa un punto di riferimento. Il poeta si collega così, in un certo
senso, con la storia letteraria; non è più il primo mattino del mondo, come può sembrare
in certe poesie dell’Allegria o nel famosissimo “M’illumino d’immenso”.
Dunque ecco il testo di Preghiera:
“Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera //
Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane
giorno al primo grido”.

Il primo grido del giorno, una delle sinestesie tipiche di Ungaretti, è naturalmente
l’irrompere della luce, di questa luce che è uno degli elementi anche connotati
metafisicamente di cui è impregnata la sua poesia. Il titolo di un libro scritto su di lui dal
critico Gaetano Mariani è intitolato appunto Lungo viaggio verso la luce. Con la strofa ”Quando
il mio peso mi sarà leggero” entriamo già in un’atmosfera se vogliamo metafisica, la
contingenza della guerra sembra come superata, e c’è la presenza dominante del futuro.
Un futuro verbale, un’apertura verso la speranza ripresa nel verso “Quando il mio peso mi
sarà leggero”.
La seconda raccolta di Ungaretti è il Sentimento del tempo nel quale è centrale il rapporto con
Roma, città di rovine, di antica gloria, di antiche memorie, ma anche la città cristiana per
eccellenza. Virgilio e Pietro sono in un certo senso tutti e due tibertini, c’è un Tevere
Virgiliano e un Tevere Pietrino. Virgilio è un grande punto di riferimento anche per
Ungaretti perché è il poeta della terra promessa che si identifica con la ricerca fatta da
Enea. E questa ricerca continua della terra promessa, che appare sempre lontana ma non
si raggiunge mai, compare fin dall’inizio dell’itinerario di Ungaretti. Appunto Roma ha
questo carattere duplice, una parte che possiamo considerare pagana e una parte più
intensamente religiosa, che si concentra soprattutto nel centro strutturale del libro che è
costituito dagli Inni. Gli Inni sono sette e sono il momento religioso più intenso della poesia
di Ungaretti, ma anche quello che parte della critica rifiuta e disconosce, respingendo
come retorica questi testi. Come in L’Allegria vi è la poesia Preghiera, qui abbiamo La
preghiera: vi sono continui raccordi di straordinario interesse, che non sempre si scorgono a
prima vista e sono come ritrovati dal lettore in un secondo momento, i quali danno la
garanzia di una unità più sottile dell’opera che non appare immediatamente ma che esiste
ed è appunto il tessuto stesso di una vita. Ora, ecco il testo di Dannazione, che è del 1931:
“Come il sasso aspro del vulcano, / Come il logoro sasso del torrente, / Come la notte sola
e nuda, / Anima da fionda e da terrori / Perché non ti raccatta / La mano ferma del
Signore? // Quest’anima / che sa le vanità del cuore / E perfide ne sa le tentazioni / E del
mondo conosce la misura / E i piani della nostra mente / Giudica tracotanza, // Perché non
può soffrire / Se non rapimenti terreni? // Tu non mi guardi più, Signore… // E non cerco
se non oblio / Nella cecità della carne”.
Lo studio delle varianti è riservato di solito agli specialisti ma è sempre molto interessante.
Il titolo previsto e poi cancellato non era Dannazione, ma Tremendo assente, naturalmente
riferito a Dio.
Alcune di queste immagini si ritrovano nelle opere successive, circolano come rigenerate
con senso nuovo a distanza di anni, come se fossero rimaste in una specie di crogiuolo o
di grande deposito. In un testo scritto in francese nel 1919 (Ungaretti era un poeta
totalmente bilingue) dedicato ad André Breton, il fondatore del surrealismo poetico,
intitolato Perfection du noir (“Perfezione del nero”), scriveva: “il est nu / comme la nuit /
comme une pierre / au lit d’un fleuve / polie / comme une pierre / del volcan / rongée /
quelqu’un l’a cueille / dans sa fronde”. Nudo come la notte , come il logoro sasso del
torrente, come il sasso aspro del vulcano gettato. Si è parlato nelle filosofia esistenzialista
di “gettatezza”, dell’uomo come essere gettato nel mondo Però vedete come un testo de
’19 ricompaia, venga riutilizzato, ripreso, riciclato dal poeta che si rinnova continuamente.
Il terzo libro di poesie intitolato Il dolore è quello prediletto da Ungaretti, perché legato
strettamente alla sua vita. Comunque è interessante che si chiami Il dolore, come il primo
si chiamava L’allegria, anche se era originariamente doveva chiamarsi L’allegria di naufragi,
cioè una sorta di vitalità, la ripresa del viaggio dopo un naufragio, come un superstite lupo
di mare.
Il dolore è il libro della metà della vita, in cui si prende atto dell’esistenza del tempo, della
temporalità e quindi del limite. Nell’ultimo degli Inni intitolato Sentimento del tempo il poeta
parla di ” luce giusta”, a mezzo del cielo, cioè “midi le juste” come dice Valeri, che
corrisponde appunto al momento della piena maturità.
Ora Il dolore si collega alla coscienza che con la seconda guerra mondiale è minacciata la
sopravvivenza della stessa civiltà, e si teme l’offesa dei “tanti segni giunti, quasi divine
forme, a splendere per l’ascensione di millenni umani””, che sono nati e si sono formati
attraverso la lunga opera della cultura. Si legga a questo riguardo Mio fiume anche tu, una
delle più belle poesie di Ungaretti, che si ricollega esplicitamente a I fiumi: all’Isonzo, al
Serchio, al Nilo e alla Senna si aggiunge il Tevere “fatale”, “Ora che pecorelle cogli
agnelli / Si sbandano stupite e, per le strade, / Che già furono urbane, si desolano; / Ora
che prova un popolo / Dopo gli strappi dell’emigrazione, / La stolta iniquità / Delle
deportazioni; / Ora che nelle fosse / con fantasia ritorta / E mani spudorate / Dalle
fattezze umane l’uomo lacera / L’immagine divina / E pietà in grido si contrae di pietra; /
Ora che l’innocenza / Reclama almeno un’eco, / E geme anche nel cuore più indurito; Ora
che sono vani gli altri gridi; Vedo ora chiaro nella notte triste./ Vedo ora nella notte triste,
imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae,
folle, / Alla purezza della Tua passione”.
Vi è inoltre la partecipazione del suo dolore personale, per la morte del fratello e
soprattutto per quella del figlio a San Paolo in Brasile, che lo ha fortemente traumatizzato.
Di questo ho avuto testimonianza da una persona che lo aveva visto in quegli anni, il
grande scrittore cattolico Italo Alighiero Chiusano, figlio del console italiano a San Paolo,
che ricorda Ungaretti sconvolto per la morte di questo figlio. Il poeta collega il suo
personalissimo dolore al dolore universale per la guerra. In un bellissimo filmato Ungaretti
dice ad un certo punto “il dolore personale, il dolore universale”, ma poi scatta, grida
come faceva lui: “tutti e due sono universali”.

I temi de Il dolore sono dunque il colloquio col figlio morto, Roma occupata e il pericolo
mortale che corre la civiltà e poi la memoria del Brasile disumano, visto nella sua forza
ancora barbarica, primigenia, che gli ricorda anche il deserto dove, come dice in una
poesia de L’allegria, neanche le tombe resistono molto. Questo paesaggio estremo era visto
attraverso la conoscenza e l’approfondimento della poesia barocca, ed in particolare di
Gongora che Ungaretti ha tradotto, profondamente amato e che leggeva ai suoi amici
pittori della scuola romana, Mafai, Scipione che frequentava nella piccola casa di via
Cavour a Roma. L’estrema forza del barocco si congiunge con la natura del Brasile ancora
in parte incontaminato e con la grande arte barocca che esiste in America del sud.
C’è una poesia famosa che Giacinto Spagnoletti, uno dei fini conoscitori della poesia
moderna, considerata una delle più grandi del ‘900 che si chiama attualmente Tu ti
spezzasti (il titolo originario era in realtà Paesaggi). In essa vi è la presenza del figlio del
poeta, la cui vita viene stroncata a nove anni e rappresenta proprio la grazia, grazia con la
g maiuscola, Grazia con la g minuscola, in quanto i due elementi possono convivere
benissimo, l’uno rimanda all’altro. Si parla anche di un albero che si chiama araucaria, che
Ungaretti stesso in una sua postilla definisce il pino brasiliano e contrappone in un’altra
poesia al pino nostrano, al classico pino mediterraneo che vive in mezzo alle pietre di
Roma che parlano di una antica civiltà, di un luogo pieno di memoria. E poi c’è il
fiorrancino, un elemento quasi pascoliano, un uccellino nel quale viene identificato il figlio
Antonietto. Araucaria quindi, quadrisillabo, parola fonicamente forte, e, dall’altro lato,
fiorrancino, parola più leggera e commentata da Ungaretti con questa postilla: “è il più
piccolo degli uccelletti italiani, silenzioso, lieve nel volo, i suoi arti da mattina a sera in
movimento”.
Leggiamo ora Tu ti spezzasti, con l’avvertenza di sottolineare, oltre che il significato, il
significante; la spezzatura del primo verso indica proprio il peso, queste parole cadono
come pietre, una dopo l’altra, e vedete che ritorna anche qui l’immagine del sasso del
vulcano dopo 21 anni dalla poesia del ’19.
“1 // I molti, immani, sparsi, grigi sassi / Frementi ancora alle segrete fionde / Di
originarie fiamme soffocate / Od ai terrori di fiumane vergini / Ruinanti in implacabili
carezze, / – Sopra l’abbaglio della sabbia rigidi / In un vuoto orizzonte, non rammenti? //
E la recline, che s’apriva all’unico / Raccogliersi dell’ombra nella valle, / Araucaria,
anelando ingigantita, / Volta nell’ardua selce d’erme fibre / Più delle altre dannate
refrattaria, / Fresca la bocca di farfalle e d’erbe / dove dalle radici si tagliava, / – Non la
rammenti delirante muta / Sopra tre palmi d’un rotondo ciottolo / In un perfetto bilico /
Magicamente apparsa? // Di ramo in ramo fiorrancino lieve, / Ebbri di meraviglia gli avidi
occhi / Ne conquistavi la screziata cima, / Temerario, musico bimbo, / Solo per rivedere
all’imo lucido / D’un fondo e quieto baratro di mare / Favolose testuggini / Ridestarsi fra le
alghe. / Della natura estrema la tensione / E le subacquee pompe, Funebri moniti. // 2 //
Alzavi le braccia come ali / E ridavi nascita al vento / Correndo nel peso dell’aria
immota. // Nessuno mai vide posare / Il tuo lieve piede di danza. // 3 // Grazia, felice, //
non avresti potuto non spezzarti / In una cecità tanto indurita / Tu semplice soffio e
cristallo, // Troppo umano lampo per l’empio, / Selvoso, accanito, ronzante / Ruggito d’un
sole ignudo.”

La descrizione del paesaggio è interrotta dalla domanda “non rammenti?”, una domanda
senza risposta, come quella “Silvia rimembri ancora”. Parla quindi dell’araucaria, che sta
piegata nell’unico punto in cui c’è un po’ di ombra nella valle e che anela ingigantita, come
se fosse animata da una specie di forza espansiva, da una forza primitiva, primigenia,
“volta nell’ardua selce ed erme fibre “. Quest’ultimo può sembrare addirittura un verso
della poesia trobadorica, è un verso petroso, direbbe un lettore di Dante, ed indica proprio
la pianta trasformata in pietra, una foresta pietrificata, un giardino di pietra, che ha una
specie di bocca, un punto dove è stata tagliata (in una prima redazione, diceva “ferita”, ed
era molto bello e faceva capire meglio il senso) ci sono farfalle ed erbe, l’unico punto in cui
c’è un residuo di vita. L’araucaria sta come in bilico in una specie di magico equilibrio e
poi sull’albero si arrampica questo ragazzo e vede nel fondo, si tratta di una piccola isola,
muoversi delle testuggini, delle tartarughe di mare. Questo mondo abissale e il mondo di
pietra sono due elementi del tutto estranei alla misura, la dimensione è quella della
dismisura. Si ritrova come per magia la parola “refrattaria”, un termine praticamente non
utilizzato nella poesia, ma che Ungaretti, già un’altra volta aveva utilizzati in Sono una
creatura: “Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata /
così refrattaria / così totalmente / disanimata // Come questa pietra / è il mio pianto / che
non si vede // La morte / si sconta / vivendo//”. E’ chiaro il collegamento, come il senso
della pietra rimandi a quello della pietra del Carso, come veramente tout se tien in questa
poesia.
Arriveremo alla fine dell’itinerario di Ungaretti con gli Ultimi cori per la terra promessa, che sono
densi, drammatici, distillati a volte faticosamente, proprio per un’esigenza di
concentrazione estrema. Vi troviamo momenti di sconforto e una ricerca continua della
verità: Itaca viene cercata, ma dove si trova? “Verso meta si fugge: / Chi la conoscerà? //
Non d’Itaca si sogna / Smarriti in vario mare, / Ma va la mira al Sinai sopra sabbie / Che
novera monotone giornate.”
“Ogni anno, mentre scopro che Febbraio / E’ sensitivo e, per pudore, torbido, / Con
minuto fiorire, gialla irrompe / La mimosa. S’inquadra alla finestra / Di quella mia dimora
d’una volta, / Di questa dove passo gli anni vecchi. // Mentre arrivo vicino al gran silenzio,
/ Segno sarà che niuna cosa muore / Se ritorna sempre l’apparenza? // O saprò
finalmente che la morte / Regno non ha che sopra l’apparenza?”

Vorrei concludere con una lettera scritta all’inizio del ‘67, cioè non molto tempo prima
della morte, a Bruna Bianco, donna che il poeta ha amato e alla quale scrive dalla Terra
Santa, uno de i posti più belli del mondo secondo Ungaretti.

“Quando faceva sera, e l’ombra si estendeva sull’azzurro dell’acqua piano piano facendola
rabbrividire e fremere come un’anima viva, come l’anima che illumina e abbuia i tuoi
occhi, il lago di Tiberiade era la visione più bella del mondo. E’ un paese pieno di miracoli,
il paese che Gesù ha reso meraviglioso passeggiando sull’acqua, si sente che al suo passo
sulla terra è nata la verità anche se nessuno l’accoglie, nessuno se non a briciole, ed era la
verità di un libero sublime. Riusciremo mai, noi povera gente, soltanto malamente umana
ad essere per convinzione un po’ più profondi? Un po’ più liberi?”

NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 15.3.2001 a Brescia su iniziativa
della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

Giorno per giorno (1946-1947) è una poesia scritta da Giuseppe


Ungaretti ed è composta da 17 strofe. Ungaretti scrive Giorno per giorno in
memoria del figlio Antonietto, morto in Brasile nel 1939, a nove anni. Nel
1936 Giuseppe Ungaretti durante un viaggio in Argentina su invito del Pen
Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università
di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accettò. Trasferitosi con tutta la
famiglia in Brasile, vi rimarrà fino al 1942.

Ed è A San Paolo che morirà il figlio Antonietto per un’appendicite curata


male. La morte del figlio fa cadere Ungaretti in uno stato di continuo
dolore che risulta evidente anche in altre sue sue poesie raccolte ne Il
Dolore, del 1947 e più tardi in Un Grido e Paesaggi, del 1952. Nella mente
del poeta continua ad echeggiare la voce del bambino malato e fiducioso,
che chiede invano aiuto. Il dolore è straziante: “Come posso resistere a
tanta angoscia (tanta notte)? Come posso continuare a parlare, a lavorare,
a fumare, a vivere la vita di ogni giorno? nel commento alla raccolta che
contiene Giorno per giorno.

Giorno per giorno, il diario della sofferenza di


Ungaretti
“Giorno per giorno” è un a sorta di diario. Il racconto di una giorno e allo
stesso di tutta la vita. Già dal primo frammento Giuseppe Ungaretti
racconta di Antonietto che soffre per la malattia. Il bambino rivolgendosi
alla moglie del poeta dice:

“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…”.


In questo primo verso sembra di rivivere la scena di un padre , le cui parole
del figlio resteranno impresse per sempre nel cervello e nel cuore. In quelle
poche parole Ungaretti esprime un istante. Il volto del figlio è spento ma i
suoi occhi sono ancora vivi, entrambi si trovano al davanzale della finestra
a dare le briciole ai passeri festosi. La speranza è poter distrarre il figlio dal
dolore e dalla paura della morte. 

Il figlio muore e Ungaretti si rende conto che tutte le cose più tenere che
faceva con il figlio, come baciargli le mani e stargli vicino, da ora in poi
potrà farlo solo in sogno. Ma la vita va avanti, anche dopo un lutto, e il
poeta si chiede come è possibile essere in grado di sopportare un dolore
così grande. In Ungaretti subentra il pessimismo e per il futuro sospetta
che ci saranno altre sofferenze (altri tragici lutti familiari). Ecco emergere
di nuovo la mancanza del figlio, con il quale avrebbe potuto affrontare tutto
trovando in lui la necessaria consolazione. E’ un viaggio nella tristezza
questa poesia. In alcuni momenti immagina di rivedere il figlio come
un’ombra, come un angelo custode. 

E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!…

Ungaretti ripensa a quando Antonietto stava bene e correva per la casa e la


sua voce risuonava dolcemente in ogni stanza. E mentre adesso la terra si
nutre del suo corpo (lo deteriora), c’è una parte di lui che nessuno potrà
mai toccare ed è custodita nel ricordo del poeta. Riesce ancora ad
immaginare la sua voce: tutto il resto non ha più interesse. Ogni volta che
guarda il cielo cerca di rivedere il suo volto. lo vuole bene, un bene infinito,
ma è una disperazione continua. neppure il ritorno a Roma riesce a fargli
tornare il buon umore, ad allontanare il dolore, la sofferenza per il figlio
scomparso. 

Giorno per giorno, la sofferenza di Ungaretti un


dono all’umanità
La morte di un figlio è una delle prove più dure, se non la più dura, che un
genitore possa affrontare nella vita. Nessun genitore si aspetta di
sopravvivere ai propri figli e quando questo capita ci si sente in colpa per il
solo fatto di essere vivi, al punto da non riuscire più a continuare a vivere
come si faceva prima: l’angoscia è tale da non riuscire più a parlare, a
lavorare, a fumare, a svolgere le più classiche delle azioni
quotidiane. Nonostante lo “schianto”, cioè l’impatto che questo
avvenimento ha avuto nella sua vita, il poeta non si lascia sopraffare dal
dolore (non del tutto).

Il dolore è una sofferenza insopportabile, Ungaretti lo trasforma in


qualcosa di meno atroce, trovando consolazione col fatto che sente la
presenza del figlio sempre accanto e crede fortemente che un giorno,
quando anche la sua vita finirà, potrà ricongiungersi al proprio caro. In
sintesi, vuole far credere (più a se stesso) che la perdita del figlio è
superabile grazie al ricordo e alla speranza di poterlo un giorno
riabbracciare (quando anche egli si spegnerà), ma questo non basta di
certo per colmare un dolore così atroce, e la tristezza dei versi finali ne
sono la dimostrazione più evidente.

Giorno per giorno, una delle poesie della


raccolta Il Dolore
Giorno per giorno fa parte della raccolta Il Dolore (1947). “Il Dolore è il
libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili stretto alla gola.
Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di
straziarmi.” (Ungaretti, cit. in: Giorgio Luti, Ungaretti, Mursia, 1992, pag.
75). Questa raccolta scritta nel periodo della seconda guerra mondiale,
porta con sé, inevitabilmente, una serie di fatti sconvolgenti per il poeta.

Il dolore del poeta è causato soprattutto dalle disgrazie familiari che hanno
colto impreparata l’intera famiglia. Si aggiunge la lacerante esperienza
dalla visione di Roma occupata e dell’Italia straziata dalla guerra. Non solo,
la morte del figlio che è un evento sconvolgente, ma, anche le altre perdite.
Col fratello muore infatti l’ultimo testimone dell’infanzia del poeta. Lo
straziante grido del dolore emerge così in tutte le sue liriche.

La prosa si fa gridata e piena di un affanno che rivela tutta la stanchezza di


una vita piena di dolore. Non si può tuttavia parlare di
autocommiserazione, in quanto il suo non è atteggiamento passivo, ma
espressione di forza.  Anche nel dolore personale Ungaretti non si isola, ma
s’immedesima nel ruolo di cantore dell’umano dolore, non solo del proprio.
E in tal senso, anche nelle composizioni con un tema più intimo e
personale, si avverte il senso di solidarietà che unisce i sofferenti singoli. Il
Dolore fu scritto piangendo.

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