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Fabio Ruggiero

APPUNTI DI PATROLOGIA
CAPITOLO I

Introduzione generale alla patrologia

1. Il termine «padre» negli scrittori cristiani antichi. 2. Le «note caratterizzanti» dei Padri
della Chiesa. 3. «Scrittori ecclesiastici» e «dottori della Chiesa». 4. «Patrologia», «patristica»
e «letteratura cristiana antica». 5. Le principali collezioni di testi patristici. 6. Lo studio dei
Padri della Chiesa. 7. I Padri e la Tradizione. 8. Il metodo teologico dei Padri. 9. Come
affrontare lo studio dei Padri della Chiesa.

1. Il termine «padre» negli scrittori cristiani antichi

Gli scrittori cristiani dei primi secoli, che presentano particolari requisiti, sono designati
abitualmente col nome di «Padri» della Chiesa. Un’analisi del temine, in prospettiva
storica, evidenzia come il motivo di tale titolo vada ricondotto all’idea di generazione
spirituale.
a) Nel giudaismo, come pure nella Bibbia, i «padri» sono gli antenati, trasmettitori della
vita e soprattutto depositari delle promesse divine; ma anche i maestri, in quanto «genitori
spirituali»;
b) Paolo usa l’immagine di «padre-figlio» nei confronti dei cristiani da lui generati al
vangelo (cf. 1Cor 4,14-15; Gal 4,19);
c) Il Martirio di Policarpo (II secolo) attesta che i gentili chiamavano il vescovo «maestro
dell’Asia e padre dei cristiani» (12,2), e i cristiani di Lione, nel 177, indirizzano la loro
lettera ad Eleuterio, vescovo di Roma, chiamandolo «padre» (cf. Eusebio, Storia ecclesiastica
5,4,2);
d) Sempre nel II secolo, Clemente Romano parla degli apostoli come «padri» (cf. 1 Clem.
62,2). Ireneo di Lione afferma: «Colui che è stato istruito da un altro è chiamato figlio di colui
che l’ha istruito, e quest’ultimo è suo padre» (Confutazione di tutte le eresie 4,41,2). Clemente
Alessandrino (II-III secolo) conferma: «Il discepolo che ascolta le parole del maestro diviene suo
figlio (...) Noi chiamiamo "padri" coloro che ci hanno istruito nella religione» (Stromati 1,1,2,1 e
1,1,1,3);
e) In età precostantiniana, «padri» vengono così ad essere talora chiamati i vescovi, i
maestri spirituali, anche i presbiteri; e, nel monachesimo, gli abati e gli asceti;
f) Dalla metà del IV secolo in poi, la parola acquista un significato più circoscritto:
designa le personalità del passato, in special modo vescovi, difensori dell’ortodossia e
della disciplina, e così il termine si collega strettamente al sostenere una posizione

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dottrinalmente conforme a quella che esce vincitrice dai concili. In questa direzione,
significativo è il contributo di Vincenzo di Lerino, che nel 434 precisa definitivamente il
significato e l’estensione della nozione: Padri sono «coloro che vissero, insegnarono e rimasero
nella fede e nella comunione cattolica santamente, saggiamente e costantemente, e meritarono di
morire fedeli a Cristo e di dare la vita per lui» (Commonitorio 28,6; ma anche altrove).

2. Le «note caratterizzanti» dei Padri della Chiesa

Tradizionalmente, esse sono state fissate a quattro:


1) Ortodossia: nel senso di una fedele comunione con la Chiesa nella vera dottrina,
almeno globalmente;
2) Santità di vita: come risultato di una vita conforme al vangelo e di una testimonianza
coerente col l’insegnamento;
3) Approvazione della Chiesa: talvolta si manifesta espressamente con citazioni di testi,
ma più spesso è indiretta o implicita, con allusioni e rimandi al pensiero dell’autore;
4) Antichità: si tratta di antichità ecclesiastica (un tempo in cui la Chiesa era ancora
indivisa). In base all’opinione tradizionale, essa termina per l’Oriente con S. Giovanni
Damasceno (morto nel 749) e per l’Occidente con S. Isidoro di Siviglia (morto nel 636).
Taluni studiosi propendono a spostare il termine del periodo patristico greco fino all’XI
secolo.

3. «Scrittori ecclesiastici» e «dottori della Chiesa»

a) Gli scrittori cristiani dell’antichità non dichiarati santi vengono denominati scrittori
ecclesiastici.
b) Parecchi Padri della Chiesa sono onorati col titolo di dottori della Chiesa, per la loro
eminente erudizione e per espressa dichiarazione della Chiesa:
1. Quattro in Occidente: Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno.
2. Tre in Oriente (considerati «grandi maestri ecumenici»): Basilio il Grande, Gregorio di
Nazianzo e Giovanni Crisostomo.
3. Per simmetria, dalla Chiesa latina è stato poi aggiunto Atanasio agli orientali.

4. «Patrologia», «patristica» e «letteratura cristiana antica»


La PATROLOGIA è lo studio storico e letterario degli scrittori antichi, dunque include vita e
opere dei singoli autori.

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Prossima alla nozione di “patrologia” è quella di LETTERATURA CRISTIANA ANTICA,
denominazione in uso nelle università statali.
La PATRISTICA studia in specie il pensiero e la dottrina degli scrittori, anche in relazione
alle costitutive verità di fede del cristianesimo e alla storia della loro definizione.

5. Le principali «Collezioni» di testi patristici

1. La più completa collezione è la Patrologia curata dal francese J.P. Migne (coaudiuvato
da numerosissimi collaboratori) nel corso del secolo XIX. Consta di due sezioni, una latina
e una greca:
a) PL: Patrologiae cursus completus. Series Latina, Parigi 1844-1864, in 221 volumi;
b) PG: Patrologiae cursus completus. Series Graeca, Parigi 1857-1866, in 161 volumi (testo
greco accompagnato da traduzione latina);
2. Pubblicano testi critici, senza traduzione:
a) CSEL: Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum; pubblicata a Vienna, a partire dal
1866, ancora attiva;
b) CC / CCh: Corpus Christianorum; pubblicata dalla Brepols, in Belgio, sotto la direzione
scientifica dell’abbazia benedettina di Steenbrugge, a Bruges; si articola in CCL / CCh.SL
(Corpus Christianorum. Series Latina), CCG / CCh.SG (Corpus Christianorum. Series Graeca),
CCLCM / CCh.SL.CM (Corpus Christianorum. Series Latina. Continuatio Mediaevalis);
c) GCS: Die griechischen christlichen Schriftsteller; pubblicata a Berlino, a partire dal 1887,
nuovamente attiva dopo un periodo di sospensione;
3. Pubblicano testi critici, con traduzione:
a) CSCO / PO: Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium [Patrologia orientalis],
pubblicata a Lovanio, e comprendente testi di vario ambito linguistico (siriaco, copto,
arabo, ecc.);
b) SC: Sources Chrétiennes; pubblicata a Lione, questa collezione è la sola di quelle
universalmente note che presenta, insieme col testo critico dell’opera, anche una sua
traduzione (in francese) e un commento (più o meno vasto, a seconda dei casi);
c) Corona Patrum (Torino, S.E.I., ora esaurita), Biblioteca Patristica (Bologna, EDB),
Fondazione Lorenzo Valla (Milano, Mondandori): alcune delle principali collezioni
scientifiche italiane, tutte in genere provviste di testo critico originale, di traduzione (in
italiano), di un commento (più o meno vasto).
4. Il lettore italiano, oltre che dei testi presenti nelle tre collezioni ora richiamate, può
avvantaggiarsi di una serie di altri strumenti:

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a) Testi Patristici: pubblicata da Città Nuova, conta quasi 300 volumi già apparsi
(introduzione rigorosa, traduzione e note, a cura di specialisti italiani), e si rivolge al
pubblico degli specialisti come a quello dei cultori;
b) Sempre Città Nuova pubblica gli opera omnia di Ambrogio, Agostino, Cipriano,
Girolamo, Gregorio Magno, Origene, Pietro Crisologo, Tertulliano, ecc.;
c) Le Edizioni Paoline pubblicano «Letture cristiane delle origini», nella articolazione di
«testi» e «antologie»;
d) Japadre editore de L’Aquila pubblica la «Collana di testi storici» (edizioni e traduzioni
di testi patristici);
e) La UTET di Torino pubblica «Classici della religione. Sezione IV. La religione cattolica»,
che comprende una buona raccolta di testi patristici in edizione italiana (introduzione,
traduzione, indici, a cura di specialisti);
f) La Borla di Roma pubblica la collana «Cultura cristiana antica», in due sezioni, «testi» e
«studi» (di notevole livello, esamina le opere patristiche nel quadro di una più ampia
tematica storico-teologica, come la condizione femminile, la ricchezza, ecc.);
g) Le Edizioni Dehoniane Bologna pubblicano «Scritti delle origini cristiane».
5. Testi patristici si ritrovano anche nelle edizioni Mondadori, Rizzoli, Garzanti (e talvolta
si tratta di lavori molto ben fatti, a cura di specialisti), come in Studium e Edizioni
Messaggero; ma anche in altre, considerata la crescita d’interesse per il mondo cristiano
antico.

6. Lo studio dei Padri della Chiesa

Uno sguardo globale alla storia della teologia rivela che mai la riflessione teologica ha
rinunciato alla presenza rassicurante ed orientatrice dei Padri, riconoscendo che in loro vi
è qualcosa di singolare, di irripetibile e di perennemente valido. Lo studio dei Padri della
Chiesa si è dimostrato straordinariamente proficuo e fecondo negli ultimi secoli:

1. Ha reso possibile una migliore conoscenza sia delle origini cristiane che della genesi ed
evoluzione di svariate questioni teologiche;
2. Ha messo in evidenza il nesso vitale che vige tra la tradizione e i problemi più urgenti
del momento presente, nel senso che le investigazioni del passato hanno influito
notevolmente sugli orientamenti spirituali e pastorali odierni e continuano a dare
indicazioni circa un cammino verso il futuro;
3. La ricchezza spirituale e simbolica che i Padri presentano sul piano esegetico è capace di
integrare le conoscenze storico-critiche dell’esegesi odierna, senza scivolare in uno sterile
«biblicismo»;

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4. Sul piano teologico, lo studio dei Padri contribuisce a mantenere forte il legame tra
Scrittura, Tradizione: come sottolinea la costituzione Dei verbum del Vaticano II, «la Sacra
tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti... perciò
l’una e l’altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e di riverenza» (n. 9).
Ora, sono appunto «le asserzioni dei santi Padri» che «attestano la vivificante presenza di
questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che
crede e prega» (n. 8);
5. Il Magistero postconciliare ha più volte sottolineato a riguardo dei Padri:
a) Essi sono alla base di ogni autentico rinnovamento;
b) Il loro è un esempio di teologia unificata, viva, maturata a contatto coi problemi del
ministero pastorale;
c) Il loro pensiero è un ottimo modello di catechesi e una fonte per la conoscenza della
Scrittura e della Tradizione;
d) Essi sono una struttura stabile della Chiesa, e per la Chiesa di tutti i secoli; ogni
magistero, per essere davvero autentico, deve confrontarsi col loro magistero.

7. I Padri e la Tradizione

1. L’epoca dei Padri è quella in cui sono state espresse le prime strutture portanti della
Chiesa, insieme con atteggiamenti dottrinali e pastorali che rimangono validi per tutti i
tempi. I Padri sono intrinsecamente legati alla Tradizione apostolica e alla fede delle
origini, essendone contemporaneamente protagonisti e testimoni: la loro è, dunque, la
tradizione «costitutiva» della Chiesa.
2. I concili tridentino e Vaticano I enunciano esplicitamente il principio che l’unanime
consenso dei Padri costituisce regola certa d’interpretazione della Scrittura. In
prospettiva ecumenica, i Padri sono testimoni di un sentire cristiano spesso condiviso.
3. L’epoca dei Padri è quella in cui:
a) Si ha la fissazione dell’intero canone delle Scritture e delle professioni basilari della fede;
b) Si ha la definizione dell’ortodossia in relazione a posizioni eterodosse;
c) Vengono poste le basi della disciplina canonica, delle prime forme di liturgia, della
prima grande catechesi cristiana;
d) Si ha la compresenza, nell’unità delle pluralità, di tradizioni diverse ma unite e radicate
tutte nel fermo e immutabile fondamento comune della fede.

8. Il metodo teologico dei Padri

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1. Nella attività teologica dei Padri – sollecitata dal confronto col mondo ellenistico
circostante, col mondo giudaico che aveva dato i natali alla fede cristiana, con la varietà e
la sottigliezza dell’elaborazione ereticale – si delineano alcuni particolari atteggiamenti e
momenti di grande interesse.
2. Il ricorso continuo alla Sacra Scrittura e il senso della Tradizione. Se è indubbio che il
lavoro esegetico dei Padri presenta anche elementi di chiara caducità, da ricondurre in
special modo ai limiti dell’orizzonte culturale del proprio tempo, risulta tuttavia evidente
come essi rimangano per noi veri maestri di esegesi:
a) Per una sorta di «soave intuizione delle cose celesti» (così Pio XII, nella lettera enciclica
Divino afflante Spiritu);
b) Per un approccio veramente religioso ai testi sacri;
c) Per un criterio interpretativo che s’attiene costantemente al criterio di comunione con
l’esperienza della Chiesa;
d) Per la venerazione che essi mostrano per la Scrittura e per la Tradizione;
e) Per il loro essere esegeti in medio Ecclesiae, ossia nel vivo del dibattito teologico
ecclesiale.
3. L’originalità cristiana e l’inculturazione. Il metodo teologico dei Padri è illuminante:
a) Per la comprensione di quali siano i criteri secondo i quali la fede, tenendo conto della
filosofia e del sapere dei popoli, può incontrarsi con la ragione;
b) Per la ferma convinzione che l’originalità cristiana costituisce la norma per giudicare
della sapienza umana e per distinguere la verità dall’errore;
c) per la capacità di accogliere molti apporti della filosofia coeva e di compiere un
discernimento oculato dei valori e dei limiti propri delle varie forme di cultura;
d) per la consapevolezza del valore universale della Rivelazione e del progetto di
Redenzione, cui segue lo sforzo di illustrarli ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi
popoli, nel segno di un incontro tra fede e cultura e tra fede e ragione.
4. La difesa della fede e il progresso dogmatico. Nel difendere le verità che toccano la
stessa essenza della fede, i Padri hanno finito col rappresentare:
a) Un grande avanzamento nell’intelligenza dei contenuti dogmatici, rendendo un valido
servizio al progresso della teologia;
b) Essi sono gli iniziatori del procedimento razionale applicato ai dati della rivelazione;
c) Essi sono i promotori illuminati di quell’intellectus fidei, di quella «intelligenza della
fede» appunto, che appartiene all’essenza di ogni autentica riflessione teologica.
5. I Padri mostrano il senso del mistero e l’esperienza del divino, in quanto l’atteggiamento
col quale i Padri si sono accostati alla teologia è caratterizzato:
a) da una ricerca autenticamente spirituale e religiosa;
b) da un profondo senso del mistero e da una radicata esperienza del divino.

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Se pure essi hanno fatto del «credo per comprendere» e dell’«comprendo per credere» un
loro specifico programma, tuttavia ciò è stato realizzato non facendo leva esclusivamente
sulle risorse della ragione, ma anche alimentandosi alle sorgenti della preghiera e delle
opere della fede, all’interno di un ministero consapevolmente ecclesiale.

9. Come affrontare lo studio dei Padri della Chiesa

1. Nell’affrontare gli studi patristici è sempre opportuno:


a) Mantenere un rapporto sia con la storia della chiesa, in relazione alla precisazione del
contesto storico generale, che con la teologia dogmatica, in relazione agli aspetti più
strettamente dottrinali;
b) Affrontare lo studio dei testi e del pensiero in accordo col metodo storico-critico, ma
anche integrandolo coi metodi della moderna analisi letteraria e dell’ermeneutica, non
riducendo l’oggetto d’indagine alla pura filologia o alla critica storica;
2. L’esposizione della materia può seguire sostanzialmente quattro modi fondamentali:
a) Analitico: studio dei singoli Padri;
b) Panoramico: sguardo generale, utile per una introduzione generale;
c) Monografico: insistenza su qualche Padre più rappresentativo, con una finalità anche di
ordine metodologico;
d) Tematico: esame di qualche argomento fondamentale e suo sviluppo attraverso le opere
patristiche.

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CAPITOLO II

Lineamenti di storia della Chiesa antica

1. Dalle origini alla pace costantiniana. 2. La diffusione. 3. Il conflitto con lo stato romano. 4.
La risposta data dallo stato romano. 5. La vita interna della Chiesa. 6. Da Costantino ai regni
barbarici. 7. Costantino e i tempi nuovi. 8. Lo sviluppo della Chiesa in Occidente. 9. Il potere
papale e le invasioni barbariche. 10. Le controversie dottrinali.

1. Dalle origini alla pace costantiniana

La storia della Chiesa dei primi tre secoli si svolge attraverso tre linee fondamentali.
1. La diffusione entro i confini dell'impero, e in parte pure al di là di essi.
2. Il cristianesimo entra assai presto in conflitto con lo Stato romano.
3. Si assiste a uno sviluppo rilevante sul piano della dottrina, della costituzione interna e
del culto.

2. La diffusione

1. Non si tratta di un movimento di massa, ma di una azione capillare e individuale, ed


essenziale è l'opera dei laici, sia uomini che donne.
2. Le donne cristiane sono attive specie nella predicazione, nei ministeri ecclesiali, nella
penetrazione in particolare all'interno delle classi alte.
3. L'adesione alla fede cristiana non comporta per alcuno l'abbandono dei tratti
caratteristici della propria cultura o delle istituzioni e delle tradizioni dei popoli
d'appartenenza.
4. Nondimeno, viene chiesto a ogni convertito un serio impegno di fedeltà a uno stile di
vita cristiano e, in qualche caso, la rinuncia a comportamenti o situazioni giudicati
incompatibili con la vita di fede.
5. Aderiscono alla fede cristiana non soltanto persone di umili condizioni o schiavi, ma
pure, e forse in specie, piccola borghesia (artigiani e commercianti), non esclusa gente di
elevata condizione (cavalieri) e addirittura membri dell'alta nobiltà (senatori) e della stessa
famiglia imperiale.
6. L'espansione avviene sia a Oriente che a Occidente, anche se qui in misura molto
minore, almeno sino al secolo III, privilegindo le città alle campagne.

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7. Alla fine del III secolo, comunità cristiane si contano numerose in Asia Minore, Grecia,
Siria, Armenia (passata in blocco al cristianesimo nel secolo III), Africa nord-occidentale,
Egitto, Gallia meridionale.
8. Comunità cristiane sono anche presenti, tra l’altro, in Italia, Spagna, Inghilterra
meridionale, Germania, Dalmazia, odierna Romania, nella penisola arabica e sulla costa
dell'India, specie meridionale (Kerala).
9. Il numero dei cristiani appare difficilmente quantificabile, anche perché non è nota
neppure la popolazione complessiva dell'area del mondo qui interessata. Si pensa,
tuttavia, che i cristiani possano presumibilmente aggirarsi sui 5-7 milioni (dei quali, 2-3 in
Occidente e 3-4 in Oriente), su una popolazione dell'Impero romano di circa 50 milioni. La
espansione del cristianesimo interessa comunque un’area più vasta del mondo greco-
romano.

3. Il conflitto con lo Stato romano

Occorre anzitutto analizzare le cause di tale scontro, diverse anche a seconda del periodo
storico.
1. Natura pubblicistica della religione nel mondo antico.
2. Roma ha una percezione dei cristiani come nemici che puntano a una destabilizzazione
della società antica.
3. Questa destabilizzazione è atipica, in quanto passa per la desacralizzazione della
società.
4. Da questo giudizio derivano le accuse di empietà e di ateismo, che si esprime nella
nozione di superstitio o, per dirla in greco, di deisidaimonía.
5. All'autorità politica appare sospetto il carattere esclusivistico del credo religioso dei
cristiani. Per di più essi, in maniera molto maggiore dei giudei, da cui pure hanno origine,
presentano una componente chiaramente universalistica e compiono una opera assai più
intensa di proselitismo in ogni ambiente.
6. I cristiani devono poi fare i conti anche con un’antipatia popolare nei confronti della
nuova religione, in quanto colpevole di avere la propria origine in Giudea, territorio su cui
pesa il giudizio di tradizionali nefandezze etico-religiose.
7. La società nel suo complesso (classe dirigente, ambienti colti, popolino) intuisce il
carattere rivoluzionario (non in senso politico-militare) e paradossale della vita dei
cristiani, e ne disprezza la irragionevole e ostinata irriducibilità in materia di religione e
di organizzazione sociale.
8. I cristiani, in sostanza, sono visti come una città nella città, come un corpo nel corpo,
quindi sentiti pure come un morbo estraneo e contagioso.

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4. La risposta data dallo stato romano
a) i mezzi di repressione
1) come è noto, scoppiarono ben presto forme di persecuzione. Al riguardo, abbiamo
persecuzioni che colpiscono singoli cristiani, o interi gruppi (ad es., comunità, con in testa
il vescovo) o, infine, più ancora le strutture della Chiesa che i suoi membri; in genere, ma
non è una norma assoluta, le prime persecuzioni (fino alla metà del secolo III) colpiscono
singoli o gruppi, ma non le strutture, mentre queste cominciano a essere prese di mira
specie a partire dalla seconda metà del secolo III;

2) quali le cause giuridiche e politiche delle persecuzioni, e quale il loro fondamento? Al


riguardo, occorre fare una precisazione: per le prime persecuzioni, quelle fino al secolo III,
quelle cioè non ancora indette con editto imperiale, vengono avanzate specie due ipotesi: il
ricorso al cosiddetto 'istituto neroniano' (ovvero: legge di persecuzione stabilita dalla
autorità centrale), e potere di coercitio, relativo all'ordine pubblico, da parte di singoli
magistrati; ma, e questo discorso interessa l'intero fenomeno delle persecuzioni, la
prospettiva esclusivamente giuridica non è in grado di spiegarlo adeguatamente; bisogna
esaminare i problemi del fondamento e delle cause delle persecuzioni alla luce della sfera
politica, come fatto primariamente politico;
3) le persecuzioni determinano il nascere di una nuova (ma soltanto in parte: era infatti ben
nota la testimonianza suprema resa dagli ebrei al tempo della dominazione di Antioco
Epifane) spiritualità e di una nuova esperienza, quelle connesse col cosiddetto martirio,
ovvero la suprema testimonianza di fedeltà resa a Dio, a imitazione del Cristo morto in
croce per la salvezza del mondo; ne discendono diverse realtà, come il sorgere di un culto
dei santi (feste liturgiche, martirologi) e quello di aree cimiteriali cristiane (arte sacra
funeraria, prime basiliche, ecc.); e, connessa con la fuga , che la stessa Chiesa ammetteva e
talora anzi consigliava, dei cristiani dalle zone dove la persecuzione era più accesa verso
regioni più aspre e disabitate, l'esperienza, infine, di prime forme di vita monastica (si
pensi specie alla Cirenaica o al deserto alle spalle di Alessandria d'Egitto).
b) la opposizione culturale
1) nella polemica anticristiana si segnalano in un primo tempo (fino al secolo II) accuse
popolari, quali, ad es., infanticidio (travisamento del mistero eucaristico) e incesto
(travisamento delle relazioni di fraternità tra i membri della comunità cristiana); poi, col
crescere della presenza cristiana negli strati colti della società, si ha un notevole sviluppo
di una polemica colta e sistematica (si pensi specie a Celso e Porfirio), che attacca la nuova
fede a tutto campo. A tale riguardo, in particolare si assiste al tentativo di:
2) svuotare l'esperienza cristiana del proprio peculiare valore religioso;

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3) dimostrarne la irragionevolezza, la popolarità, e quindi la falsità; la novità, la estraneità
alla tradizione religiosa patria, e quindi la pericolosità.
Tuttavia, nel corso specie del secolo III, giunge ad assumere un rilievo ormai evidente un
processo culturale iniziato a manifestarsi sul finire del secolo II, vale a dire una profonda
crisi della cultura antica di stampo greco; si avverte così, nel rapporto tra mondo romano e
cristiani, a una paradossale inversione di prospettiva: il razionalismo greco s'incrina,
concedendo ora largo spazio all'affettività e all'irrazionalità; e questo proprio mentre, da
parte cristiana, si compie un profondo lavoro di elaborazione, sistematizzazione e
reinterpretazione del messaggio evangelico sulla scorta di parametri filosofici di matrice
specie platonica, allo scopo, evidentemente, in definitiva di razionalizzarlo, per renderlo
accettabile al mondo pagano colto. Alla luce di questa inversione di valori e di tendenza, la
polemica pagana tradizionale non poté che apparire superata dai fatti: la cosiddetta svolta
costantiniana, ovvero la scelta del sovrano di procedere a una inversione di corso, per
quanto allora potesse apparire rischiosa, addirittura temeraria, a giudizio degli stessi suoi
collaboratori, era in verità fondata su un apprezzamento non superficiale dei valori in
gioco e delle parti in contrasto. Il suo successo fu infatti irreversibile.

5. La vita interna della Chiesa


La vastità dei contenuti e delle questioni che un adeguato esame della materia chiama in
causa, non permette altro che di limitarci a richiamare, quasi soltanto per titoli, alcune tra
le principali linee dello sviluppo conosciuto dalla Chiesa antica nella sua ricca
articolazione interna. In particolare, meritano di venire sottolineate cinque antinomie:
1) particolarismo giudaico e universalismo (ovvero il graduale prendere le distanze
dall'originario contesto religioso e sociale giudaico - fatto questo che al contempo 'passò
per' e 'determinò' un inasprimento delle relazioni giudaico-cristiane - per aprirsi al mondo
religioso gentile; la cosa finì col produrre gravi lacerazioni ed ebbe notevoli riflessi su
alcuni aspetti della ecclesiologia e della cristologia; al riguardo, decisiva fu la posizione
antimarcionita assunta dalla Chiesa);
2) elemento carismatico ed elemento giuridico (graduale strutturazione, specie gerarchica, delle
comunità; nascita delle prime costituzioni e raccolte di canoni; la questione della disciplina
ecclesiastica e della profezia dei singoli; riflessi nel campo della pneumatologia);
3) Chiesa di soli santi o popolo di santi e peccatori? (le questioni relative sia al lassismo sia al
rigorismo, i caratteri di alcune esperienze di fede, all'interno o all'esterno della cosiddetta
'Grande Chiesa', e in talune aree geografiche; la questione dei lapsi e quella connessa coi
peccati più gravi e con la relativa penitenza);
4) forte senso dell'unità e forti dissensi (unità nella pluralità; ortodossia ed eresia; la dottrina
del corpo mistico applicata alla comunione delle Chiese particolari);

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5) fra escatologismo ed incarnazionalismo, fra rottura e apertura (la Chiesa e la fede dinanzi alla
'provocazione' culturale del mondo antico e dei suoi valori; nel mondo o paralleli al
mondo; la scuola e la cultura, la politica e le sue responsabilità).
E in relazione reciproca con i percorsi che portano via via a chiarire queste linee, per così
dire in opposizione, pian piano viene prendendo forma e sostanza una sempre più definita
dottrina, cui si accompagna lo sviluppo di un linguaggio teologico e di una prassi cultuale,
quale risposta alle esigenze di precisazione sollevate da quella che poi apparirà sempre
più chiaramente come una deviazione ereticale, un traviamento-travisamento della
autentica fede. Così si avverte come sempre più urgente la obbligatorietà di una attenta
riflessione, specie in campo cristologico (riflessione che presto e da una parte, e la
statalizzazione della Chiesa (assunzione, da parte del clero e specie della gerarchia, di
funzioni sociali, come l'annona, lo stato civile, la scuola, ecc.), dall'altra;
3) paradossalmente, i cristiani, che sotto le persecuzioni avevano finito col combattere
contro la sacralizzazione del potere, ora offrono allo stato essi stessi gli strumenti culturali
(teologia politica) inevitabilmente si allargherà all'intera sfera trinitaria), che vada al di là
delle formule cherigmatico-liturgiche. Alla luce di questo più ampio processo di
elaborazione intellettuale e spirituale dell'evento cristiano, vanno esaminati fenomeni
quali il docetismo, il marcionismo e pure, per certi versi, la stessa gnosi.

6. Da Costantino ai regni barbarici


Si tratta di un periodo caratterizzato da profonde trasformazioni (la Chiesa, da
perseguitata che era, acquista ora una rilevanza pubblica considerevole); in particolare,
questa fase può venire utilmente esaminata concentrando la propria attenzione su quattro
elementi decisivi (seppure non siano tutti quelli che meriterebbero di essere tenuti in
considerazione):
a) la 'svolta costantiniana', con conseguente trasformazione dello statuto pubblico del
cristianesimo e modificazione sostanziale dell'assetto sociale;
b) il grande sviluppo della Chiesa, specie in Occidente, grazie in particolare alla azione
missionaria del monachesimo;
c) il potere universale del vescovo di Roma e il suo sviluppo di fronte alla realtà dei
movimenti barbarici;
d) le grandi controversie dottrinali e la definizione del dogma.

7. Costantino e i tempi nuovi


a) è importante prescindere dalla questione relativa alla autenticità della conversione di
Costantino, per la ragione, se non altro, che essa non gioca affatto un ruolo chiave nel
determinare il nuovo religiosa, anche restando egli stesso fedele alle posizioni religiose
tradizionali); così pure, per quanto sia innegabile il genio politico in questa vicenda

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mostrato da Costantino, la situazione che ha portato alla 'svolta' era tale che, presto o tardi,
vi si sarebbe pervenuti comunque, essendo ormai da tempo politicamente importante se
non decisivo l'appoggio dei cristiani, specie di quelli della parte orientale dell'impero;
b orientamento politico religioso (vale a dire: il sovrano avrebbe potuto concedere ai
cristiani il diritto di libertà) a Costantino vanno comunque riconosciute capacità di
governo notevoli, ad esempio nella amministrazione dello stato, e una finezza di intuito
politico, evidenziata in numerose occasioni;
c) per la Chiesa, la svolta significò una vera novità, anche se non del tutto inaspettata (si
pensi alla lunga pace sotto Gallieno); la obbligò a muoversi in una situazione sconosciuta
e, conseguentemente, a rivedere per intero la questione relativa alla responsabilità politica
e di governo, e il suo rapporto con lo stato.
Evidenti gli aspetti positivi che gliene derivarono:
1) pace, dopo tre secoli di persecuzione o emarginazione;
2) possibilità di meglio diffondere la fede e di dare forma a esperienze 'forti' di vita
cristiana consacrata;
3) possibilità di stabilire un nuovo e più intenso rapporto con la società, e quindi di
incidere su di essa;
4) possibilità di una più intensa e consistente estrinsecazione di sé nel campo della cultura
(specie nelle arti figurative e nell'architettura).
Non mancarono tuttavia aspetti negativi, almeno alla luce di alcuni valori acquisiti dalla
coscienza dell'uomo, e pure dell'uomo cristiano, del nostro tempo:
1) i cristiani, da perseguitati che erano stati, finirono sia (in diversi casi) col divenire anche
gravemente intolleranti, sia (talora) col promuovere delle vere e proprie azioni
persecutorie; e questo in nome della 'verità di religione' contrapposta ora alla libertà di
coscienza;
2) come è noto, dalla tolleranza del cristianesimo si passò presto alla illegittimità delle altre
forme di religione: ora, il monolitismo religioso determinò in effetti la clericalizzazione
della società e dello stato, idonei a una rinnovata sacralizzazione del potere;
4) si viene a concedere spazio alle aspirazioni, speculari del resto, delle classi dirigenti alle
funzioni ecclesiastiche;
5) stabilizzazione di una netta distinzione tra cristiani chierici e cristiani laici, con
pressoché inevitabili connotazioni sociali (cultura/non cultura) e religiose (rapporto diretto
con Dio/rapporto indiretto con Dio).
Spesso, elementi positivi e del resto inevitabili finiscono col determinare situazioni che alla
lunga hanno pure mostrato aspetti insoddisfacenti e bisognosi di correzione. Si pensi:
- alla generalizzazione della lingua latina come lingua liturgica e lingua colta nel medesimo
tempo, fattore sì di unità e di uniformità, ma anche motivo di una non necessaria
identificazione, quella tra cristianizzazione e assimilazione alla cultura latina;

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- all'ansia missionaria, e all'incredibile e coraggioso dinamismo nel quale essa si espresse:
venne però a un certo momento privilegiata la strategia della conversione di massa
(portata avanti anche con la forza e contro la libertà di coscienza dei singoli) alla
evangelizzazione personale e capillare;
- alla esperienza monastica - così centrale e importante per l'intera storia della Chiesa -, che
prende l'eredità della esperienza del martirio come esperienza vertice di vita cristiana,
finendo tuttavia col sostituire con una esperienza di vita consacrata una forma di ascesi
che fino ad allora era stata aperta (e praticata) a tutto il popolo cristiano e che aveva
rappresentato per molti laici un concreto ideale spirituale e una occasione di
santificazione.
Occorre comunque non dimenticare che la svolta costantiniana non porta affatto alla
paralisi quella situazione di ricerca che aveva fino ad allora caratterizzato il dinamismo
evangelico proprio della vita della Chiesa, che si esprime ora sia in un sempre più intenso
vincolo di comunione tra le Chiese particolari sia nell'impegno a dare alla nuova società
dimensioni esplicitamente cristiane, capaci di saldare assieme partecipazione alla vita
civile e politica, da un lato, e condivisione della fede, dall'altro.

8. Lo sviluppo della Chiesa in Occidente


Si assiste in questo periodo all'allargamento della presenza cristiana in numerose regioni
del mondo fino ad allora conosciuto. In Oriente: Etiopia, Egitto, Nubia (odierno Sudan),
deserto libico, Mesopotamia, Persia, Assiria, Caldea, penisola arabica (specie la parte
meridionale), Georgia (sponde orientali del Mar Nero), Cipro, costa indiana, Ceylon. In
Europa: Irlanda, Inghilterra, penisola iberica (ad esclusione dei paesi baschi), Francia
settentrionale, Italia, Germania meridionale, Svizzera, Austria, Jugoslavia, Ungheria,
Bulgaria, Grecia, isole egee.
Alla fine di questo periodo buona parte dell'Europa meridionale e centrale già conosce il
vangelo, e dal Portogallo sino all'India si ha una presenza cristiana.
A questo risultato si arriva specie grazie al contributo dato dagli ordini religiosi, presenza
carismatica all'interno della Chiesa, vera e propria agilità spirituale che si inserisce
creativamente nella stabilità rappresentata dalla istituzione, della quale si pone a servizio.
A riguardo degli ordini, si può davvero impiegare il termine di "ondate": numerose nella
storia della Chiesa, e tutte come risposta a una esigenza di riforma, rinnovamento,
rivitalizzazione. Nei secoli presi ora in considerazione, si segnalano in particolare quattro
ondate:
la africana, sorta in Egitto alla metà del secolo III, caratterizzata da vita eremitica: tra i suoi
campioni, Antonio (a cavallo dei secoli III e IV) e Pacomio (secolo IV); alle loro figure si
ispira, pur nella diversità di impostazione e di sottolineature spirituali, il monachesimo sia

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orientale (Basilio di Cesarea) che occidentale (Agostino d'Ippona e Cassiano) della seconda
metà del secolo IV e della prima parte del secolo V;
la gallica, animata da figure carismatiche quali Martino di Tours (secolo IV), che promosse
la vita monastica in Gallia, in Spagna e in Britannia; Onorato di Arles, fondatore, all'inizio
del secolo V, nell'isola di Lerino (di fronte a Nizza) di un famoso monastero (l'isola venne
presto detta "dei santi", per le eccezionali figure vi che operarono; dal suo monastero
uscirono vescovi e teologi importanti); Cassiano (secolo V), che fondò due monasteri a
Marsiglia e fu ponte tra monachesimo orientale e monachesimo occidentale; infine,
Cesario di Arles (prima metà del secolo VI), autore di eccellenti regole, sia per monaci che
per monache;
la irlandese, della quale fu promotore Patrizio, a sua volta formatosi a Lerino; egli compì
una opera straordinaria: alla sua morte (seconda metà del secolo V), dopo trent'anni di
evangelizzazione, l'Isola non solo era cristianizzata, ma aveva ricevuto una impronta
profondamente monastica ( ai monaci era affidata la cura pastorale ordinaria, i vescovi
stessi erano abati o sottomessi ad abati); questo monachesimo si caratterizzava sia per la
estrema mobilità missionaria (attivissimo nell'opera di evangelizzazione e
cristianizzazione dell'Europa centro-settentrionale) sia per le dimensioni culturale e acetica
che ne erano l'anima;
la benedettina, che prende il nome da Benedetto di Norcia (secoli V-VI), il cui merito
precipuo fu di comporre una regola pervasa da un senso di moderazione e chiara nella
forma letteraria (come ebbe a osservare il monaco-papa Gregorio Magno); nella regola si
sottolineano alcuni elementi tipicamente "romani", come la forte autorità dell'abate, più
simile al pater familias romano che al signore feudale, e la organizzazione propria del
monastero, il quale, similmente alla villa romana, deve possedere tutto il necessario per
una larga autonomia materiale, così da evitare il più possibile per il monaco l'occasione di
uscire da esso (un carattere peculiare della regola benedettina è lo stretto obbligo di
stabilità per il monaco). Un punto importante della regola è poi il dovere di accogliere gli
ospiti "come se si trattasse di Cristo stesso": i monasteri devono così avere una foresteria e
l'abate deve mangiare con gli ospiti. Il monachesimo benedettino, promosso in special
modo dal papato, si diffuse nel corso dell'alto medioevo praticamente dappertutto,
finendo spesso col sostituirsi ad altre forme di vita monastiche meno strutturate.

9. Il potere del papa e le invasioni barbariche


Agli inizi del secolo IV, lo spostamento della capitale a Bisanzio (ma già prima, la
creazione del sistema della tetrarchia, sotto Diocleziano) determina che il papa resti l'unica
autorità universalistica dell'Occidente, situazione questa che conosce un ulteriore
rafforzamento alla caduta dell'impero romano d'Occidente. Le vicende dei secoli seguenti,
che vedranno spesso l'uno di fronte all'altro Occidente e Oriente, finiranno con l'inasprire

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il rapporto, trasformandolo sempre più in opposizione frontale, tra papa e patriarca di
Costantinopoli;
la crescita dell'autorità del papa in campo politico va attribuita specie a due fattori:
l'indifferenza dei Bizantini verso le questioni occidentali; e il ruolo giocato nella questione
barbarica, per salvare le istituzioni del mondo latino-cristiano, vale a dire il delicato
compito di arbitrato tra varie potenze politiche, tutte più rozze e tutte sempre sul punto di
guerreggiarsi tra di loro;
in ispecie il secondo fattore ora indicato determina, conseguentemente, un'opera (di fatto
parallela all'esercizio di una funzione di arbitrato internazionale) di elaborazione teologica
e giuridica del primato del vescovo di Roma, con la conseguenza però di una forte
(oggigiorno la si giudicherebbe certo eccessiva) giuridicizzazione della Chiesa, con gravi
riflessi sulla ecclesiologia e sul piano del confronto teologico con la Chiesa d'Oriente.

10. Le controversie dottrinali


La riflessione sul Figlio, e di conseguenza sul Padre e lo Spirito, porta nel 325 a Nicea,
dove il Concilio condanna Ario, che non crede nella consustanzialità al Padre del Figlio (
questi è, per Ario, semplicemente la creatura più eccelsa di Dio); col concilio di Nicea si
viene a concludere, sul piano dottrinale e all'interno della 'Grande Chiesa' almeno, il
tempo delle dispute (modalismo, adozionismo, monarchianesimo, subordinazionismo)
circa il tipo di relazione intercorrente tra Dio Padre e il messia Gesù da lui inviato.
Le controversie cristologiche non finiscono qui; fino al 680 (secondo Concilio di
Costantinopoli) si susseguono le condanne: dall'Apollinarismo (= la umanità di Cristo non
è vera) al Nestorianesimo (= in Cristo sussistono due nature e due persone, con la
conseguenza che Maria non è madre di Dio, ovvero della unica persona, divina, di Cristo,
ma semplicemente dell'uomo Gesù; per Nestorio si hanno due persone, in unione
analogica e morale); dai Macedoniani (contrari alla fede nella divinità dello Spirito Santo)
ad Eutiche (padre del monofisismo, che sosteneva, contro la vera umanità di Cristo, che
Cristo avesse sì due nature, delle quali però la umana fosse ormai divinizzata), infine, la
condanna del monotelismo, che sosteneva (ancora una volta contro la vera umanità di
Cristo) che Cristo possedesse sì due nature, ma fosse guidato da una sola volontà, quella
divina naturalmente.
Ora, come è facile vedere, è il mistero di Cristo sempre al centro della riflessione della
Chiesa antica: se fino a Nestorio la principale difficoltà sembra essere quella posta dalla
autentica divinità della persona del Messia, a partire dal secolo V, col monofisismo prima
e col monotelismo poi, si assiste alla difficoltà di accogliere la verità della piena umanità di
Cristo. la Chiesa, attraverso lo strumento conciliare, difende con fermezza entrambi i
misteri, quello della divinità e quello della umanità, dai traviamenti cui conducono le
posizioni estremistiche, salvando l'incarnazionalismo dalla pretesa spiritualistica e la

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trascendenza dal materialismo. La cristologia che esce vincitrice da quest'epoca di dispute
aiuterà sempre la comunità credente a riconoscere 'nel mondo' la sede della propria
missione e a guardare 'ai cieli' come al traguardo ultimo della propria esistenza.
Se il problema della salvezza e dei fattori che vi giocano un ruolo decisivo (specie la
questione relativa alla azione dello Spirito) resta in ombra in Oriente, è viceversa assai
sentito in Occidente, dove nasce e presto si esaspera una vera e propria disputa sulla
grazia, tra Agostino, Pelagio e i rispettivi sostenitori e avversari: una disputa che, tra alti e
bassi, attraversa, a partire da quest'epoca, tutta la storia cristiana, fino ad oggi compreso
(la questione della grazia e delle opere è di fatto sempre viva nella coscienza dei credenti);
la posizione infine assunta dalla Chiesa è di grande equilibrio: condanna del
pelagianesimo (= non esiste il peccato originale; corrispondenza quindi tra natura e grazia;
l'uomo è arbitro del bene e del male e può osservare con le sole proprie forze tutta la legge
divina) e insieme delle tesi antipelagiane più radicali (cosiddetto "agostinismo rigido") che
saranno poi prese alla lettera da teologi come Lutero o Giansenio.
Quali tuttavia le conseguenze negative di queste controversie? In ispecie:
a) l'indebolimento interno della Chiesa;
b) una testimonianza di divisione, che determina una minore efficacia sul piano della
evangelizzazione;
c) la separazione dalla 'Grande Chiesa' di alcune regioni rimaste fedeli a posizioni
condannate (specie Africa meridionale, Mesopotamia, popolazioni barbariche europee);
d) conseguente indebolimento "politico" di alcune aree dell'impero romano, specie di
quello d'Oriente;
e) la secolare separazione di esperienze cristiane fino ad allora in grande relazione (si
pensi al rapporto tra Roma e Alessandria, o all'Africa romana).

Gli scrittori cristiani dei primi secoli, che presentano particolari requisiti, sono designati

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Esposizione sintetica della letteratura patristica

Introduzione
a) La letteratura patristica ha un carattere eminentemente pratico: si propone di incidere sui
rapporti esistenti e di modificarli. Preoccupazione soteriologica, non metafisica.
b) Uomini educati nella civiltà del mondo greco-romano.
c) Lingue usate: il greco e il latino (+ lingue minori come siriaco, copto, armeno, georgiano,
etiopico).
d) Area geografica: Impero romano = bacino del Mediterraneo.
e) Delimitazione cronologica: - da subito dopo il NT con i «padri apostolici»
- alla metà del sec. V coi grandi concili ecumenici di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
Poi due tradizioni:
- bizantina (Costantinopoli);
- latina (Sede Apostolica RM).

PARTE PRIMA: I PADRI DELLA CHIESA NELL’ETA’ DELLE PERSECUZIONI (I-III)

I. I Padri Apostolici, diretti continuatori dell’opera degli apostoli (a cavallo I-II sec.)
Padri apostolici: gruppo di autori molto antichi che si presentano come continuatori dell’opera degli
apostoli.
1) anni 96/98 - Lettera di papa Clemente Romano ai Corinti : il documento patristico più antico;
tema dell’armonia e dell’unità; la Chiesa di Roma si interessa alle altre chiese (Corinto). Clemente
intende restaurare l’autorità degli anziani, deposti dalla ribellione di alcuni. «La carità non suscita
scismi, opera nella concordia»
2) anni 60/150 - Didaché: in greco ‘dottrina – insegnamento’:
informazioni liturgiche sul cristianesimo dei primissimi tempi (per i catecumeni); forse più antica
dei Vangeli.
Catechesi delle due vie: peccati da evitare e comandi da seguire (via della vita e della morte).
Abbozzo di un vero manuale di diritto canonico e di istruzioni liturgiche.
Parte prima: istruzioni morali (Le due vie: via della vita e via della morte);
parte seconda: istruzioni liturgiche.
3) anni 100ca. - Lettera di Barnaba: più antica omelia del II sec,
dedicata alla polemica antigiudaica (ricorda certi passi dei Vangeli);
non fu scritta dal compagno di Paolo.
Rimprovero ai Giudei di non saper interpretare le profezie di AT sul Cristo.
4) anno 140 ca. - Pastore di Erma: in realtà apocalisse apocrifa.
Spaccato della comunità romana (prima metà del II secolo).

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La Chiesa era uscita da una persecuzione (Antonini; Traiano a Plinio?). Molti avevano apostatato,
tradito.
I caduti in tentazione dopo il battesimo sono destinati alla dannazione?
Dà un’ultima possibilità di penitenza (giubileo straordinario) prima della fine del mondo ormai
prossima: salvezza ancora possibile ma attraverso la Chiesa e la penitenza. Nei secoli seguenti il
sacramento della penitenza diverrà prassi stabile.
5) †107 ca. - Ignazio di Antiochia: vescovo di Antiochia di Siria condotto in catene a Roma per
essere dato in pasto alle fiere del circo; sette lettere di testamento spirituale. Nella lettera agli
Smirnesi per la prima volta la Chiesa viene detta «cattolica».
Tre temi:
- contro coloro che seminano discordia riafferma il vescovo come segno d’unità: «come le corde alla
cetra»;
- contro coloro che seminano dubbi sulla reale incarnazione di Cristo (docetismo dal gr. dokèin =
«sembrare, apparire») ribadisce una vera carne e vera croce: «veramente e realmente... mangiò e
bevve... uomo in carne e ossa...toccatemi, palpatemi»;
- chiede di non far nulla per impedire il suo martirio (sotto Traiano) per poter essere vero discepolo e
imitatore di Cristo.
Conclusione: nei padri apostolici figurano tutte le questioni attinenti l’organizzazione interna delle
comunità cristiane del tempo (disciplina liturgica, potere ecclesiastico, gerarchia, condotta morale,
dottrina giusta = ortodossia gr).
Parlano con autorità che sentono conferita dallo Spirito: una autorità tale da entrare a far parte del
canone delle Scritture almeno fino a quando non furono fissate quelle canoniche.
Tre fronti su cui combattere:
- polemica con il giudaismo;
- confronto con l’autorità imperiale di Roma;
- controversie contro le eresie (fronte interno più pericoloso).

II. Gli Apologisti danno le ragioni della propria fede e speranza


Apologisti: dal greco apologhìa = difesa
difesa dalle accuse della società pagana circostante;
apologia per controbattere sia le volgari calunnie che le obiezioni più sofisticate di carattere
filosofico.
Triplice compito:
a) confutare le accuse;
b) contrattaccare la religione e la filosofia pagana;
c) esporre la dottrina cristiana.
Accuse: di diverso genere e natura, spesso grossolane, volgari e superficiali; visti come elementi
sociali destabilizzanti.
La diffidenza unita alla paura fece scattare l’emarginazione e la persecuzione.
La «reazione pagana»: Celso, Porfirio, Giuliano l’Apostata.

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1) †167 - Giustino: nato in Samaria (Sichem), è passato attraverso numerose esperienze filosofiche,
finché approda al cristianesimo, unica e definitiva filosofia che salva l’uomo; divenuto cristiano
apre una scuola di filosofia a Roma e dirige all’imperatore Antonino Pio la sua Apologia
(presentazione della nuova religione in termini filosofici); finirà per pagare col martirio la sua
fedeltà al cristianesimo.
«Noi adoriamo solo Dio, ma per il resto vi serviamo con gioia, riconoscendovi imperatore».
Di lui abbiamo due Apologie e il Dialogo con Trifone.
Nei primi nove capitoli del Dialogo con Trifone (apologia antigiudaica) presenta il suo cammino
attraverso le scuole filosofiche pitagorica, stoica, platonica, fino a quando gli viene rivelato Gesù
Cristo.
Discute con l’ebreo sulla interpretazione della Bibbia.
Interessante teoria su come fanno i più grandi spiriti del paganesimo – Socrate e Platone – ad aver
detto anche cose vere:
1 - hanno copiato da Mosè (fa sorridere);
2 - hanno intravisto verità parziali (semi del Verbo).
Per primo, facendo il parallelo Eva-Maria, sottolinea il ruolo della Madre nell’economia della
redenzione.
2) Taziano: discepolo di Giustino a Roma, originario della Siria; molto più intransigente del
maestro circa la filosofia greca (scrive il Discorso ai Greci).
Alla morte del maestro assume un atteggiamento rigorista anche in etica sessuale (condannando le
nozze e la generazione) aderendo a correnti di ascetismo assoluto (encratiti) con conseguente
rottura con la comunità romana.
Diatessaron: narrazione unificata dei 4 Vangeli.
3) Altri apologisti del secondo secolo: atteggiamento apologetico sempre rigido e intransigente nei
principi, ma anche sempre pronto a tentare le vie praticabili della pacificazione e della
collaborazione con l’Impero.
Aristide, Atenagora (Supplica per i cristiani rivolta a Marco Aurelio, dove definisce monoteisti e
precursori del cristianesimo i grandi della Grecia classica come Euripide e Platone), Teofilo di
Antiochia si muovono in questa direzione.
4) Melitone di Sardi: ci sono pervenuti solo alcuni frammenti della sua Apologia rivolta a Marco
Aurelio verso il 170, trascritti da Eusebio di Cesarea nella sua Storia ecclesiastica.
Ricerca il compromesso con le istituzioni imperiali: è il primo che abbia apertamente dichiarato
l’esistenza di una convergenza d’interessi tra la Chiesa e l’Impero romano (Cristianesimo e Impero
sono nati insieme poiché Cristo è nato al tempo di Augusto e fioriscono come gemelli di latte; solo
gli imperatori cattivi, come Nerone e Domiziano, hanno osato perseguitare la vera religione).
Inizia la teologia politica nella quale l’Impero sarà visto come paladino della diffusione del
cristianesimo - frammenti ripresi dopo la svolta costantiniana.
Omelia pasquale (di recente ritrovamento) in occasione di una Pasqua quartodecimana (14-15
Nisan data fissa). Ritiene che pasqua derivi dal gr. pathos = «sofferenza» e non dall’ebr. pessah =
«passaggio», come dirà Origene. Contiene elementi di interesse liturgico.
5) anni 200 ca. - A Diogneto: (di un anonimo) perla dell’antichità cristiana.

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I cristiani sono uomini come tutti gli altri per quanto riguarda i costumi del mondo, ma se ne
diversificano per essere guida e sostegno, per essere l’anima del mondo e le persecuzioni, anziché
distruggerli, ne moltiplicano i seguaci.
«patria come forestieri.... comune mensa ma non talamo.... vita sulla terra ma cittadinanza del
cielo.... obbediscono alle leggi ma sono superiori alle leggi.... amano tutti ma da tutti sono
perseguitati.... sono poveri ma arricchiscono molti... sono nel mondo ciò che è l’anima per il
corpo... nel mondo ma non del mondo... come pellegrini in viaggio tra cose corruttibili ma in attesa
dell’incorruttibilità celeste... così esposti ai supplizi crescono di numero ogni giorno».
Conclusioni: Apologisti non sono solo gli autori elencati, ma tutti i Padri che hanno composto opere
di difesa del cristianesimo dagli assalti del paganesimo, da Origene a Agostino. Controversisti
sono detti invece i Padri che hanno preso la penna per combattere le dottrine errate, le
interpretazioni sbagliate degli eretici.

III. La reazione antignostica e la difesa della Tradizione apostolica


Lo gnosticismo: una delle più gravi crisi del cristianesimo antico (II e III sec.): dal gr. gnosis =
«conoscenza». Si dovrebbe dire «falsa» gnosi.
Origine: alcuni ambienti periferici del giudaismo.
Contenuti: rivelazione dei mezzi e dei modi attraverso i quali il Redentore consente all’anima di
ritornare nel suo primitivo stato d’integrità, libera dai legami del corpo e del mondo materiale.
Si dovrebbe parlare di vari sistemi gnostici.
a) secondo gli gnostici esistono tre diverse categorie di uomini:
1 - uomini spirituali (pneumatici da pneuma = «spirito») predestinati alla salvezza (i veri gnostici);
2 - uomini materiali (ilici o coici da hyle e chous = «terra», «materia») predestinati alla dannazione
(la gran massa degli uomini, ebrei e pagani);
3 - uomini psichici (da psychè = «anima») dotati di anima razionale che possono scegliere il bene e il
male col libero arbitrio (i cristiani medi, cui è concessa una beatitudine limitata);
b) il Salvatore viene al mondo, non per l’intera umanità, ma per rivelare ai predestinati la
conoscenza salvifica. Per questo fine non è necessaria una carne vera e propria: la incarnazione
sarà solo apparente (docetismo). Su Gesù è sceso il Cristo al momento del battesimo e lo ha lasciato
al momento della passione;
c) a tali argomenti si aggiunge il ripudio dell’intero AT, in cui si sarebbe rivelato non il Dio Padre
di Gesù Cristo, ma il dio inferiore del popolo ebraico e la negazione della risurrezione della carne.
1) anni140-203 - Ireneo di Lione:
Originario dell’Asia minore (forse Smirne), di tradizione (da tradere = «trasmettere») giovannea.
Autore della prima grande opera antignostica a noi pervenuta, vescovo di Lione.
In Gallia al tempo della tremenda persecuzione del 177 (Marco Aurelio), dopo il martirio del
vescovo Potino, diviene vescovo (vedi atti dei martiri di Lione, tra cui emerge la figura della
schiava Blandina).
Di buona cultura, sa distinguere l’errore dall’errante e cerca di recuperare l’uomo alla verità.
Ireneo di nome e di fatto: interviene presso il papa sulla controversia relativa alla data della
Pasqua.

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Confutazione e rovesciamento della falsa gnosi (abitualmente chiamata Adversus haereses):
grande opera in cinque libri contro la gnosi eretica, ma anche di presentazione della vera gnosi,
l’ortodossia garantita dalla tradizione (corpo, psiche e pneuma sono un tutt’uno).
Primi due libri: esposizione e critica delle dottrine gnostiche. Altri tre libri: dottrina ortodossa:
- AT e NT vengono dallo stesso Dio;
- l’uomo possiede libero arbitrio e quindi non ci sono predestinati;
- solo i vescovi sono garanti della autenticità della predicazione (confuta la gnosi con la
tradizione apostolica).
V libro: tema della risurrezione negata dagli gnostici (parallelismo Adamo-Cristo ed Eva-Maria;
quest’ultimo fu fatto per la prima volta da Giustino).
Demonstratio apostolicae praedicationis: piccolo trattato apologetico-catechetico che raccoglie i
temi fondamentali dell’Adversus haereses
Teologia della storia della salvezza: sviluppa la teologia paolina di Gesù nuovo Adamo;
dopo il peccato originale tutta la storia umana è stata guidata provvidenzialmente da Dio fino al
compimento dei tempi realizzati con la venuta di Cristo. Centralità della ricapitolazione in Cristo:
«Tutto è stato pensato in Cristo» e noi siamo plasmati a sua immagine. Il Padre da sempre ha
pensato all’incarnazione che non è conseguenza del peccato.
Non è certo sia morto martire.

2) †235 - Ippolito di Roma, personaggio enigmatico e misterioso, di cui non sappiamo nulla di
preciso.
Ipotesi dei due Ippoliti per le differenze di contenuti e di stili.
Tutta la vita di Ippolito è una protesta contro coloro che vogliono allargare la possibilità di far
parte della Chiesa (assemblea dei santi) anche ai peccatori (papa Callisto, Urbano, Ponziano).
Forse presbitero che per problemi disciplinari diviene capo della comunità scismatica rigorista di
Roma. Avrebbe riscattato lo scisma subendo il martirio.
Grande opera in dieci libri, Confutazione di tutte le eresie: eresie frutto della interpretazione del
cristianesimo facendo ricorso alle categorie e ai concetti della filosofia greca.
Passa scorrettamente sotto il suo nome l’opera intitolata Tradizione Apostolica
contro le innovazioni delle eresie è quella che presenta maggior interesse.
Parte I: il clero (vescovi presbiteri confessori) e gli altri ministeri;
parte II: i laici (catecumeni);
parte III: le osservanze della Chiesa (agape, digiuno, preghiera oraria, segno della croce).
Gli sono attribuite numerose opere esegetiche, cioè di interpretazione della scrittura, diede inizio
alla lunga serie di commentari patristici (gli sposi del Cantico visti come Cristo e la Chiesa).
Spinta iniziale verso la pratica corrente dell’interpretazione continuata e sistematica delle Scritture.

IV. La Scuola di Alessandria, incontro tra fede e cultura


Alessandria era un grosso centro culturale della diaspora ebraica (traduzione dei LXX; Filone 20
a.C.- 50 d.C.), nel II sec. la città più importante di tutto il Mediterraneo dopo Roma, il più fervido

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centro culturale dell’antichità: in questa città di forte tradizione giudaico-ellenistica la cristianità
dialoga con la cultura.
Culla dell’eresia gnostica, vedrà il fulcro meglio organizzato della lotta contro lo gnosticismo nella
Scuola di Alessandria (in gr. Didaskaleion), le cui origini sono avvolte nell’oscurità. Con Clemente
questa istituzione assunse connotati precisi.
1) anni 200 ca. - Clemente Alessandrino: di origine greca volle porre le sue vaste conoscenze
filosofiche a servizio di una intensa opera di evangelizzazione del circostante mondo pagano,
rivolgendosi ai ceti elevati.
a) A questo scopo scrive il Protrettico (dal gr. protreptikòs = «esortazione»), una esortazione alla
conversione nella quale demolisce l’impalcatura del paganesimo facendo sfoggio della sua cultura
profana.
b) Ai pagani convertiti rivolge il Pedagogo (dal gr paidagogòs = «colui che educa al sapere»), opera
in tre libri nella quale il Verbo svolge il ruolo di educatore (libro di morale).
c) Sforzo maggiore negli Stromati, zibaldone di diversi problemi dottrinali, morali e religiosi, forse
appunti di lezioni non risistemati per la pubblicazione.
Dopo aver affrontato il problema dei rapporti tra fede cristiana e cultura greca, sulla scia di
Giustino e Atenagora, cercando di recuperarla in chiave positiva, si propone di definire la figura
del «vero gnostico» cristiano.
Lo gnosticismo eretico si contraddistingue per l’incapacità di evitare gli eccessi:
- atteggiamenti di libertinaggio sessuale o ascetismo rigoroso fino alla condanna delle
nozze;
- negare la fede al momento del martirio o perseguire il martirio per liberarsi del
corpo.
Ideale di equilibrio morale e di armonia interiore: assistiamo con lui alla nascita dell’umanesimo
cristiano.
d) Quis dives salvetur: omelia che si occupa del problema concreto della disparità nella
distribuzione delle ricchezze: contro le posizioni rigoriste che sostenevano l’assoluta necessità di
abbandonare tutto; i beni sono moralmente neutri e il loro valore dipende dall’uso che se ne fa. Il
male vero non risiede tanto nel possesso della ricchezza, quanto nell’attaccamento passionale ad
essa.
e) Le tracce del suo insegnamento si perdono dopo la persecuzione di Settimio Severo (202).
Nel Didaskaleion avviene un gran mutamento: non più sede dell’insegnamento privato di un
filosofo cristiano, ma scuola di teologia per laici controllata dal vescovo. Vi insegnerà Origene, il
più grande pensatore della Chiesa greca.
2) Origene: il tormento della perfezione.
«Origene non ha un posto nella storia della filosofia greca, quantunque le sue pagine siano piene
del pensiero filosofico dei Greci. Non ha un posto tra i dottori della Chiesa, quantunque abbia
esercitato sul pensiero cristiano un influsso paragonabile solo a quello di Agostino e di Tommaso.
Non ha un posto tra i santi della Chiesa, quantunque pochi abbiano parlato profondamente come
lui della vita spirituale e l’abbiano praticata con tanta austerità. Non è annoverato tra i martiri,
quantunque ne abbia subito i tormenti in testimonianza della fede. Fu qualche volta eccessivo... e

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bastò alla sua condanna. È un iniziatore e un pioniere: i suoi errori aprirono ad altri la strada della
gloria, mentre la chiudevano a lui. Bisogna usargli una grande indulgenza, perché è stato uno tra i
più insigni benefattori della scienza ecclesiastica e ne ha avuto soltanto contrasti e condanne».
Giovinetto aveva esortato il padre ad affrontare il martirio; non esitò ad autoevirarsi,
suggestionato dalla parola di Gesù sugli eunuchi per il Regno; fu tormentato dall’aspirazione alla
perfezione religiosa fino alle vette del misticismo.
Ansia esistenziale unita a una formidabile intelligenza speculativa, dotata di ammirevole capacità
di lettura e di elaborazione concettuale.
La sua fama si sparse in tutto l’Oriente.
Ordinato in Palestina, si mise in urto col suo vescovo in Alessandria, Demetrio, che lo cacciò e lo
fece sospendere dal sacerdozio. Dopo una lunga e intensa attività intellettuale e di predicazione,
morì in seguito alla tremenda prova delle torture durante la persecuzione di Decio.
Fu il primo «teologo biblico» sistematico, poiché il suo pensiero si organizza sempre a partire dalla
lettura della Scrittura; la Parola di Dio è veramente il centro del suo pensiero, della sua ispirazione,
della sua vita.
a) Opera giovanile Sui principii è la più controversa e discussa; scritta per combattere le teorie
gnostiche sulla predestinazione degli eletti.
Origene spiega come Dio abbia creato all’inizio solo gli spiriti razionali, trasformatisi, a causa della
disobbedienza, in angeli, uomini, demoni; alla fine del mondo tutti saranno salvi (anche il
demonio) per la misericordia di Dio (dottrina dell’apocatàstasi = «restaurazione dello stato
originario»).
Rimase sempre affezionato alla dottrina tipicamente greca platonica della caduta delle anime nei
corpi, che gli costerà numerose condanne nei secoli successivi.
b) Considerato il creatore della «filologia biblica»: impegnativi commenti teologici (Cantico e
Vangelo di Giovanni).
Inaugura la lectio divina dei monaci dei secoli successivi (lettura sistematica della Scrittura).
«Abramo offrì a Dio il figlio mortale, che però non sarebbe morto allora, mentre Dio consegna alla
morte per tutti noi il suo Figlio immortale...».
c) Esortazione al martirio per alcuni amici; piccolo trattato Sulla preghiera che contiene il più
antico commento al Padre nostro in greco.
d) La grande opera apologetica è il Contra Celsum, in otto libri, in cui vengono confutate tutte le
accuse che il filosofo pagano Celso aveva mosso al cristianesimo nel suo libro Alethès logos (Il
discorso vero). Per quasi settant’anni l’attacco di Celso non aveva trovato risposta: ci voleva il
genio di Origene per dare luogo all’impresa.
All’appello di Celso perché i cristiani difendessero l’Impero dai barbari con le armi, Origene osa
rispondere che i cristiani collaborano alla salvezza dell’Impero con la preghiera: prospettiva di un
mondo nuovo in cui il Vangelo avrebbe reso inutili la violenza militare e lo spargimento di sangue.

V. Gli inizi della letteratura cristiana in lingua latina


I primi documenti cristiani in lingua latina non provengono da Roma, ma dall’Africa latinizzata
(Africa proconsolare, Numidia e Mauretania).

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Esigenza di mettere a disposizione dei fedeli traduzioni delle Scritture comprensibili nella lingua
parlata: molte versioni latine della bibbia (solo con Girolamo verso il 400 si arriverà alla
pubblicazione di una edizione unitaria del testo latino nota come Vulgata).
Altri testi cristiani vennero tradotti dal greco in latino.
La forte tensione religiosa di queste giovani comunità trova un significativo strumento di
espressione nella stesura degli Atti dei martiri, rielaborati sui documenti processuali romani che
riportano l’interrogatorio e la condanna. Continuamente letti e rielaborati, gli Atti si trasformano in
Passioni ed entrano nella liturgia.
Ricordiamo due dei più importanti:
- gli Atti dei martiri Scilitani (17 luglio 180) il più antico testo cristiano scritto
originariamente in latino giunto a noi;
- la Passione di Perpetua e Felicita (203).
La letteratura cristiana latina ha inizio con due personaggi molto dotti e raffinati, due avvocati,
Minucio Felice e Tertulliano.
1) Minucio Felice: nell’opera Octavius, gioiello letterario che risente dell’influenza dei modelli
letterari latini, in specie Cicerone, si immagina un dialogo tra l’autore Minucio Felice, l’amico
Ottavio (cristiano) e l’amico Cecilio (pagano) sulla spiaggia di Ostia, dove, dopo lunga discussione,
il pagano si converte.
Caratteristica di intavolare la dimostrazione filosofica per ricercare in primo luogo gli elementi di
mediazione e di unione con le idee più nobili ed elevate della tradizione classica. Scritto per la
classe colta di Roma, segno che il cristianesimo vi era penetrato.
Minucio è forbito e cortese, anche se intransigente. Non cita mai la scrittura e il nome di Gesù né i
dogmi dell’incarnazione passione risurrezione.
2) anni 160-240 - Tertulliano Quinto Settimio Fiorenzo: è focoso e impetuoso nel suo ardore di
neoconvertito sconvolto dal coraggio dei martiri. È il più brillante portavoce del cristianesimo
latino.
Stile inimitabile, frutto anche della sua poliedrica formazione: letteraria, retorica, filosofica,
giuridica, biblica. Gusto per le opposizioni, per i radicalismi, per le esagerazioni.
Lingua composita: termini dal latino colto e dalla lingua parlata; apporti dal greco, dal diritto dalle
scienza; neologismi.
Opere di carattere apologetico, parenetico, antiereticale, sacramentale.
a) Nell’Apologetico fa sfoggio della sua bravura mettendo a nudo le contraddizioni della
legislazione romana nel trattamento dei cristiani (condanna non di un reato, ma di un nome).
Se sono delinquenti, perché non li ricerca e condanna? E se non lo sono, perché li condanna
(riferimento a Traiano e Plinio)?
Difetto di assumere sempre posizioni estremiste:
Verso il 206 abbandona la Chiesa cattolica per aderire al montanismo (movimento che predica la
castità assoluta e il rifiuto del mondo).
Cambia opinione su molte questioni: nega il potere della Chiesa di rimettere tutti i peccati,
condanna aperta dei fuggiaschi di fronte al rischio del martirio.
Costanza di pensiero sul servizio militare, considerato incompatibile con la vera milizia per Cristo.

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Finirà per staccarsi dal montanismo fondando una setta ancor più rigorista, i «tertullianisti».
Malgrado l’uscita dall’ortodossia godette ancora di grande considerazione nella Chiesa africana
del sec. III e oltre.
Ha lasciato molte opere ricche di dottrina.
b) Il trattato Sulla preghiera, il più antico commento latino al Padre nostro;
c) il Contro Marcione, in cui ribadisce il valore e la forza salvifica dell’incarnazione reale di Cristo;
getta le fondamenta della teologia trinitaria della Chiesa latina: definisce la Trinità come «una
natura in tre persone».
3) anni 210-258 – Tascio Cipriano: si trovò a guidare la comunità di Cartagine in un momento
particolarmente drammatico della sua storia.
Emerge la figura soave del pastore della comunità.
La persecuzione di Decio produsse vaste lacerazioni: molti avevano abiurato o si erano fatti
rilasciare falsi certificati di sacrificio. Problema della riammissione di tutte queste persone nella
Chiesa.
L’equilibrio della Chiesa era minacciato dal gran numero di lapsi e dalle ingerenze dei confessori.
Cipriano ristabilisce l’autorità del vescovo e indica la soluzione di una penitenza per gli apostati.
(Polemica per la sua fuga per sottrarsi alla persecuzione: Cipriano difende la prudenza).
Opere più importanti: Sui lapsi e L’unità della Chiesa cattolica.
Conflitto con Roma che sosteneva che per gli eretici che volevano entrare nella Chiesa non era
necessario conferire un nuovo battesimo, ma era sufficiente l’imposizione delle mani per il dono
dello Spirito
(Roma per l’efficacia del sacramento ex opera operato); Egli ottenne dall’episcopato africano il
riconoscimento dell’invalidità del battesimo e la riaffermazione della necessità di ripeterlo. La
disputa si risolse col martirio dei contendenti: Cipriano morì durante la persecuzione di Valeriano
(atti proconsolari del martirio di Cipriano).

PARTE SECONDA: I PADRI DELLA CHIESA NELL’IMPERO CRISTIANO (IV-V)

VI. Lattanzio ed Eusebio di Cesarea nella «svolta costantiniana»


1) anni 250-325 - Lattanzio: noto come il «Cicerone cristiano» per la purezza della sua prosa latina,
originario dell’Africa romana.
Insegnò retorica a Nicomedia (Asia minore).
Fuggito per l’ultima persecuzione di Diocleziano, lo ritroviamo alla corte del nuovo imperatore
Costantino.
Lattanzio non è un pensatore originale (coglie da Cicerone, Seneca e gli stoici); neppure è un
teologo (incerto sul dogma, attinge a piene mani da Minucio, Tertulliano, Cipriano). Ma egli
possiede sovranamente l’arte di assimilare, riciclare, completare, riplasmare, presentare in una
forma impeccabile, limpida ed elegante.
Autore del primo tentativo di summa teologica, intitolata Divine Istituzioni, in sette libri,
finalizzata alle classi colte dell’impero.

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Si inserisce nello scontro decisivo tra cristianesimo e paganesimo, che dimostra conoscere forse
meglio del cristianesimo stesso: il cristianesimo è la vera sapienza, Cristo il vero maestro che può
essere premessa per una società veramente umana.
Le sue opere mostrano molteplici influssi culturali:
- accetta ancora il millenarismo;
- ha propensioni verso il subordinazionismo, che vede il Verbo subordinato al Padre.
Idea centrale quella della provvidenza divina che riesce a sconfiggere il male; essa interviene non
solo nella natura (filosofia stoica), ma in primo luogo nella storia degli uomini (rivelazione biblica).
«Il mondo è stato creato da Dio perché nascesse l’uomo. Gli uomini sono stati creati, perché
riconoscessero Dio come padre: in ciò consiste la sapienza. Essi riconoscono Dio per onorarlo: in
ciò consiste la giustizia».
All’avvento di Costantino i cristiani avvertono l’esigenza di dare uno sguardo retrospettivo alla
storia passata, di fare un bilancio della grande epopea durata ben tre secoli.
2) anni 265-339 - Eusebio: con lui raggiunge il vertice l’entusiasmo per il primo imperatore
cristiano, che prende forma letteraria nella Vita di Costantino, in cui si esaltano in forma
encomiastica i meriti di Costantino per la propagazione della fede. In lui si compie il sogno
prefigurato da Melitone di Sardi e Origene della creazione di un Impero romano-cristiano nel
quale la coincidenza della nascita di Cristo con il regno di Augusto ricevesse adeguato
riconoscimento.
a) Aveva vissuto di persona l’esperienza drammatica della lunga persecuzione di Diocleziano
(saggio nei Martiri di Palestina), ma non era in grado di rendersi pienamente conto dei rischi insiti
nella nuova situazione di abbraccio troppo stretto tra Chiesa e Impero: si rende l’ideologo ufficiale
della nuova collocazione in cui si è venuto a trovare il cristianesimo.
b) La sua Storia ecclesiastica in 10 libri è di estrema importanza:
- è la prima, in senso assoluto, dopo gli Atti;
- inaugura un genere letterario completamente nuovo.
La traduzione latina la rende famosa anche in Occidente
Grande innovazione di citare direttamente stralci di documenti antichi originali, che consente di
conoscere aspetti, figure e avvenimenti del cristianesimo orientale dei primi tre secoli, altrimenti
ignoti.
Monumento letterario e religioso di valore insostituibile.
c) Eusebio dimostra di essere essenzialmente un ricercatore e studioso di testi che ha appreso
l’amore per la filologia dall’idolo prediletto, Origene: a lui dedica il sesto libro della Storia
ecclesiastica e una Apologia per Origene.
Come teologo non ebbe alta statura e finì per simpatizzare con le dottrine di un prete di
Alessandria, un certo Ario, che negli anni intorno al 318-320 con la sua predicazione compromise
l’edificio costruito da Costantino sui pilastri dell’Impero cristiano.

VII. Atanasio tra la crisi ariana e le origini del monachesimo


La libertà conferita da Costantino nel 313 alla Chiesa rappresentava una novità assoluta, gravida di
conseguenze:

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- la gerarchia ecclesiastica stringe con le strutture dell’Impero legami che non sempre giovano alla
chiarezza e alla correttezza;
- cresce notevolmente il numero dei neoconvertiti con ombre di conversioni immature, superficiali
e opportunistiche;
- la nuova capitale Costantinopoli acuisce la spaccatura tra le due Roma anche sul piano della
comunione ecclesiale.
Le energie sane della Chiesa reagiscono intensificando e approfondendo la preparazione dei
catecumeni; molti prendono la via del deserto. Il monachesimo nascente si esprime in forme
letterarie diverse: i detti dei padri del deserto, le vite dei santi eremiti, le regole.
Il IV secolo ha visto soprattutto lo svolgimento della lunga e dolorosa crisi ariana.
1) La crisi ariana e il concilio di Nicea
Prende nome dal prete Ario di Alessandria d’Egitto il movimento teologico noto come arianesimo:
esso sostiene che il Figlio non partecipa della divinità del Padre, ma è subordinato al Padre; è
soltanto la prima e più grande creatura del Padre, poiché vi fu un tempo in cui non esistette.
Vaste reazioni contrarie, ma anche favorevoli nell’episcopato orientale. Per ricomporre la scissione
della fede e dell’Impero l’imperatore Costantino convoca a Nicea, in Asia Minore, nel 325, il primo
concilio ecumenico della storia della Chiesa.
Approvata la formula secondo la quale il Figlio è consustanziale (homoousios) al Padre, generato e
non creato.
Chiuso il concilio seguirono lotte tra fazioni, scomuniche, esili.
2) anni 295-373 - Atanasio: tre anni dopo il concilio diventerà vescovo di Alessandria.
a) Già in opere giovanili aveva dimostrato la sua stoffa di teologo e di apologista (Discorso contro
i pagani - Sull’incarnazione del Verbo).
b) Ha dedicato il resto dell’attività letteraria a combattere, con intento eminentemente pastorale,
l’eresia ariana: la negazione della divinità del Figlio comprometteva infatti ai suoi occhi in maniera
radicale il vero significato dell’incarnazione e quindi della redenzione (Discorso contro gli ariani -
Storia degli ariani).
L’ostinata fermezza nella difesa del credo di Nicea, rispecchiava il suo carattere indomito, ma gli
costò 20 anni di esilio su 46 di episcopato e ben cinque volte dovette allontanarsi da Alessandria.
Origini del monachesimo: Spesso Atanasio trovò rifugio nel deserto egiziano dove venne accolto dai
monaci. Si chiamano eremiti coloro che affrontano la dura lotta della vita solitaria, lontano dal
consorzio umano , in preda agli assalti delle tentazioni. Molto presto iniziano ad organizzarsi in
forme di vita monastica comune, dette cenobitiche da koinòs = «comune» e bìos = «vita» (primo fu
l’egiziano Pacomio che stese una regola per la sua comunità).
c) Atanasio compose la Vita di Antonio, affascinato dalla figura del monaco, iniziando così un vero
e proprio genere letterario del tutto nuovo.
I monaci esercitarono una grande suggestione nel mondo cristiano, divenendo i legittimi eredi e
continuatori dei martiri. Anche il clero ne subisce l’attrazione, fondando comunità secondo il
modello cenobitico.
Il monachesimo difendeva inoltre l’ortodossia nicena.

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Tuttavia bisognava meglio chiarire il rapporto tra Padre e Figlio in modo che, al di là dell’identità
della sostanza divina, si riconoscesse anche la distinzione delle persone. Restava anche da
affrontare il problema della natura divina della terza Persona.
Queste questioni verranno affrontate dai Padri Cappàdoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di
Nazianzo e Gregorio di Nissa, i tre luminari della Chiesa greca della seconda metà del sec. V.

VIII. I Padri Cappàdoci tra umanesimo e ascetismo


Evangelizzata da non più di un secolo, la Cappadocia diede i tre grandi padri della Chiesa greca,
detti cappàdoci.
Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa hanno segnato tutta la storia della
teologia e spiritualità cristiana, non solo in Oriente.
Dei tre cappàdoci Basilio è l’uomo di governo, Gregorio di Nazianzo l’oratore e Gregorio di Nissa
il pensatore profondo, filosofo, teologo e mistico.
Basilio e Gregorio di Nazianzo furono legati da intensi rapporti di amicizia fin dalla giovinezza e
divennero entusiasti ammiratori di Origene, di cui cureranno una antologia di scritti nota come
Philocalia, testo che farà per secoli la delizia degli asceti e dei mistici della Chiesa d’Oriente.
1) anni 330-379 - Basilio: i cappàdoci furono diversissimi per carattere e temperamento. Basilio, il
più famoso, è uomo tutto d’un pezzo, solido e autoritario.
Divenuto vescovo di Cesarea di Cappadocia, spenderà la sua attività in tre direzioni:
- attività sociale, prendendosi cura dei molti poveri a causa delle tasse e della crisi economica;
arriverà a ideare una specie di città-rifugio nota col nome di «Basiliade»;
- organizzazione della vita monastica, come vero fondatore del monachesimo greco, naturalmente
cenobitico;
- alta intelligenza speculativa nella teologia e nella politica ecclesiastica; convinto avversario
dell’arianesimo, cui dedicò scritti teorici come il Contro Eunomio e il trattato Sullo Spirito Santo, si
adoperò per piazzare sulle sedi episcopali del vicino Oriente tutti amici suoi, fedeli osservanti
dell’ortodossia nicena.
La morte nel 379, a meno di 50 anni, gli impedì di vedere il trionfo della sua dottrina decretato dal
concilio ecumenico di Costantinopoli del 381.
Presenti gli altri due Cappàdoci a cui si deve la formulazione definitiva del dogma trinitario: anche
lo Spirito Santo veniva definito Persona divina.
Importanza attribuita alla distinzione delle Persone divine all’interno dell’unica sostanza e al
riconoscimento della divinità dello Spirito Santo.
Incomprensione col vescovo di Roma, l’altero Damaso.
Autore di numerosi commenti biblici e di un opuscolo (Ai giovani sul modo di trarre vantaggio
dai classici) rivolto ai nipoti che si accingevano a frequentare la scuola, in cui espone i criteri ai
quali attenersi per usare vantaggiosamente la letteratura classica: determinante per la
sopravvivenza di almeno una parte del patrimonio culturale dell’antichità pagana.
Riformatore liturgico: liturgia di San Basilio.
2) anni 330-390 - Gregorio di Nazianzo: noto come «il teologo» per le cinque Orazioni teologiche
pronunciate a Costantinopoli contro l’arianesimo.

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Suo padre, vescovo di Nazianzo, lo consacra prete contro voglia. Fugge, poi ritorna e trova
nell’amico Basilio un punto di riferimento stabile. Quando questi lo nominò vescovo rifiutò
l’incarico e fuggì nuovamente nella solitudine.
E’ il più grande poeta cristiano di lingua greca (poema autobiografico Sulla sua vita).
Come vescovo di Costantinopoli ebbe il merito di riuscire a polarizzare attorno all’ortodossia,
contro l’arianesimo. Presiedette il concilio del 381.
Torna a Nazianzo, reggendone la Chiesa fino al 383 e un anno dopo, trovato un successore in suo
cugino, si ritira agli studi e alla vita monastica.
Grande predicatore, luminare dell’ortodossia come teologo, anima tendenzialmente mistica,
amante della solitudine e della meditazione.
3) anni 335-394 - Gregorio di Nissa: fratello minore di Basilio, fu il vero e proprio teologo e
filosofo, il cervello forte del gruppo.
Affascinato, forse più di Basilio, da Origene, non esitò a prendere le distanze dalle affermazioni
più contestate del maestro.
E’ il primo grande teologo mistico del cristianesimo.
La sua propensione verso la solitudine monastica si spiega soprattutto alla luce delle sue
meditazioni sul mistero del male e della libertà dell’uomo che può decidere di rifiutare la salvezza.
Questa tematica lo avvicina al più grande Padre della Chiesa latina: Agostino.
4) Fine dell’arianesimo
Grazie all’opera dei Padri Cappàdoci, l’arianesimo venne definitivamente condannato.
Sopravviverà solo tra i Goti e riapparirà in Occidente con le invasioni barbariche.
Nel 380, un anno prima del concilio di Costantinopoli, l’imperatore cattolico Teodosio aveva
proclamato la religione cristiana, religione ufficiale dello Stato, compiendo un salto di qualità
rispetto al riconoscimento della libertà della Chiesa sancita da Costantino nel 313.
Ora la Chiesa diventa completamente «Chiesa di Stato»: in Oriente la nuova situazione sfocerà nel
cesaropapismo bizantino, con tutte le conseguenze negative per la libertà della Chiesa. In
Occidente, la storia evolverà diversamente, grazie all’opera di grandi vescovi che si batteranno per
difendere l’autonomia della sfera spirituale dalle ingerenze del potere politico.

IX. Tre Padri occidentali: Ilario, Ambrogio, Girolamo


1) anni 315-367 - Ilario: vescovo di Poitiers, in Gallia, primo campione in Occidente della lotta
contro l’arianesimo.
Fu chiamato l’Atanasio di Occidente per la sua lotta contro l’arianesimo, ma anche per la dottrina
trinitaria e cristologia.
Di lui non sappiamo molto, dato il carattere poco espansivo dell’uomo.
Decisiva fu l’esperienza amara dell’esilio in Asia Minore procuratagli dall’imperatore filoariano
Costanzo dal 356 al 360: fu il primo padre latino a entrare in diretto contatto con i protagonisti e il
linguaggio teologico della controversia ariana e a capire come veramente stessero le cose.
Scrisse un poderoso trattato, il De Trinitate, in cui dimostra piena padronanza della terminologia
greca.

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Tornato in Gallia si distingue anche per la protezione data a Martino, primo grande asceta della
Gallia romana che diventerà in seguito vescovo di Tours, inaugurando in Occidente la serie dei
vescovi-monaci.
2) anni 339-397 - Ambrogio: nato in Gallia da una delle famigli più ricche dell’impero, fu
funzionario aristocratico a Milano, dove venne eletto vescovo a furor di popolo nel 374, ancor
prima di essere battezzato.
Attende tre anni prima di uscire allo scoperto, dedicandosi a studiare la scrittura («Dovetti quindi
imparare e insieme insegnare).
Organizzò la liturgia e la disciplina della Chiesa milanese (è all’origine della liturgia ambrosiana).
La sua attività di predicatore fu rivolta prevalentemente all’Antico Testamento (la sua
predicazione convinse Agostino della possibilità di recuperare il valore di AT in senso
autenticamente cristiano).
Fu sensibile interprete del grave malessere sociale del suo tempo, non esitando ad attaccare la
prepotenza dei ricchi (De Nabuthe).
Si fa promotore della conversione di popolazioni barbariche che premono ai confini dell’Impero.
La sua attività antiariana trova il culmine nel concilio provinciale di Aquileia, dove fa condannare
due vescovi ariani.
E’ gran parte frutto dei suoi interventi se gli imperatori diventeranno i pubblici tutori
dell’ortodossia nicena.
Costrinse l’imperatore Teodosio a fare penitenza per aver ordinato un massacro di repressione a
Tessalonica, poiché l’imperatore è nella Chiesa e non sopra di essa e deve sottostare alle norme che
disciplinano la convivenza dei credenti.
Iniziatore dell’atteggiamento che vedrà l’autorità religiosa in Occidente lottare per difendere
l’autonomia della sua sfera dalle interferenze del potere politico. Non sempre si è riusciti a evitare
la caduta nell’eccesso, volendo assorbire il potere politico nella pratica della teocrazia, con
inevitabili conseguenze di intolleranza e fanatismo nei confronti dei diversi (ebrei, mussulmani,
ecc.).
3) anni 344-420 - Girolamo: di carattere aggressivo e facilmente irascibile, la sua vita fu costellata
di controversie e polemiche: contro i detrattori della verginità e degli ideali monastici, contro i
pelagiani, contro gli origenisti...)
La passione per i classici non lo abbandonerà mai: in sogno il Signore lo accusa di essere
ciceroniano, ma non cristiano.
Impadronitosi magistralmente dell’uso del greco e dell’ebraico, oltre che del latino, fu considerato
giustamente l’unico individuo trilingue di tutto l’impero.
Stabilitosi a Betlemme, dove per trent’anni condurrà una vita rigidamente monastica, diventa
universalmente famoso come l’autorità incontestata nel campo degli studi biblici. La sua attività si
esercita soprattutto nella revisione e traduzione latina della bibbia che diverrà nota come Vulgata e
sostituirà tutte le precedenti versioni latine al punto di imporsi come l’unica traduzione
autorizzata nella Chiesa latina.
Compone il De viris illustribus (135 brevi biografie di scrittori ecclesiastici), prendendo a modello
analoghe opere pagane, primo tentativo sistematico di scrivere una patrologia.

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X. Agostino di Ippona, il genio al servizio della fede
1) La vita): nato a Tagaste in Numidia nel 354, figlio di madre cattolica (S. Monica), a 19 anni aderì
al manicheismo.
Dopo nove anni, entrato in crisi, cadde in preda di un acuto scetticismo nel quale non avevano più
niente da dirgli né gli amori disordinati della giovinezza, né gli entusiasmi per la filosofia suscitati
dalla lettura di Cicerone.
Non gli restava che l’ambizione per la carriera e per i pubblici onori. Da Cartagine, a Roma, a
Milano, insegue i meritati riconoscimenti fino alla corte dove il vescovo aristocratico Ambrogio,
con la sua predicazione riuscirà ad ammaliarlo e a illuminargli la via verso la conversione.
Ambrogio gli fece rivalutare l’Antico Testamento, la cui lingua poco curata in confronto al latino
classico di Cicerone, aveva suscitato in lui un invincibile senso di ripugnanza.
Un’altra difficoltà tipica del manicheismo, Agostino risolse a Milano, comprendendo che il male
non è una sostanza autonoma, un principio contrario al principio del bene, ma soltanto una
mancanza del bene, unica realtà esistente.
Superate le ultime resistenze ed in seguito al racconto della Vita di Antonio che lo attirò verso gli
ideali monastici, Agostino ricevette il battesimo dalle mani di Ambrogio la notte di Pasqua del 387.
Tornato in Africa abbracciò la vita monastica e la sua fama diviene tale che il vescovo di Ippona lo
consacra prete. In seguito Agostino gli succederà sulla cattedra episcopale dove resterà tutto il
resto dei suoi giorni. Muore nel 430.
2) Il pensiero: sul suo pensiero siamo informati, non solo dall’amico Possidio che ne scrive la Vita,
ma soprattutto dalle sue numerosissime opere.
a) Il decennio che va dalla conversione all’elezione episcopale, cosiddetto decennio di
preparazione, culmina con la pubblicazione delle Confessioni, in 13 libri, una specie di
autobiografia spirituale. In questa opera Agostino «confessa» il suo passato peccaminoso e la
potenza e la misericordia di Dio che lo ha tratto in salvo verso la redenzione.
b) Non a caso gli verrà attribuito il titolo di dottore della grazia. Infatti questa intuizione personale
diviene occasione di scontro teologico con i pelagiani: Pelagio era un monaco britannico che finì
col sottolineare con troppo vigore il valore della libertà umana e della capacità di
autodeterminazione morale nella scelta tra il bene e il male.
Per Agostino solo la misericordia di Dio interviene e salva i predestinati.
c) Egli dovette affrontare anche altre due eresie:
- il manicheismo (a cui aveva appartenuto da giovane) che sosteneva essere il male una sostanza
autonoma, contraria al bene che è Dio. Per Agostino il male è solo mancanza di bene ed è entrato
nel mondo con la ribellione della creatura;
- il donatismo (dal nome del vescovo Donato), movimento della cristianità africana che considerava
la Chiesa cattolica troppo legata al potere imperiale di Roma e alla cultura latina ed estranea alla
civiltà locale africana. Vedeva la Chiesa come società perfetta di santi e riteneva invalidi i
sacramenti amministrati da sacerdoti indegni. Agostino sostiene che nei sacramenti agisce la grazia
e non influisce la dignità del ministro. Il fatto che Agostino abbia, sia pure in condizioni estreme,

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riconosciuto la legittimità e la bontà della coercizione religiosa, come pure il diritto di combattere la
guerra giusta per difendersi dai barbari, è un segno della durezza dei tempi.
d) Dell’enorme produzione letteraria occorre inoltre ricordare il De Trinitate, che esprime nella
forma praticamente definitiva il pensiero ortodosso sulla Trinità (tre persone distinte, ma della
stessa natura);
e) Agostino scrisse anche il De civitate Dei, in 22 libri.
Roma era stata saccheggiata dai Visigoti: fu l’occasione per i pagani di sostenere l’idea della
vendetta degli dei offesi dagli imperatori cristiani. Del resto molti autori cristiani avevano
sostenuto la loro apologia sulla promessa che l’impero sarebbe stato invincibile in quanto cristiano.
Agostino risponde dimostrando:
- che il paganesimo ha esaurito le sue potenzialità storiche, sul piano filosofico e culturale;
- che il cristianesimo non è legato a nessuna struttura politica, nemmeno all’impero cristiano.
La storia umana appare un campo di battaglia delle due città: quella del diavolo e quella di Dio;
col giudizio universale si instaurerà la pace definitiva.
Agostino indicava che era necessario abbandonare l’idea di una perfetta società cristiana su questa
terra. Ma il medioevo non è riuscito a far completamente tesoro di questo insegnamento.
Agostino muore mentre i barbari assediano Ippona, e con lui finisce anche la civiltà antica, ma al
tempo stesso sorge una cultura che si vuole cristiana, biblica e patristica.

XI. Giovanni Crisostomo e Cirillo di Alessandria


1) anni 354-407 - Giovanni Crisostomo: soprannominato Crisostomo, cioè bocca d’oro per le sue
capacità oratorie, dopo una intensa esperienza monastica, fu prete ad Antiochia di Siria, sua città
natale.
La sua predicazione lo mette a contatto diretto con il popolo. La sua fama era tanto estesa che, con
un sotterfugio si riuscì a farlo venire a Costantinopoli, dove fu intronizzato sulla cattedra
episcopale che era stata di Gregorio Nazianzeno.
Delusione per chi lo aveva fatto venire, in quanto si mise in urto aperto con quella parte del clero e
della corte che mal tolleravano le sue invettive contro il lusso e la sete di potere, sfida aperta al
malcostume consolidato.
Gli anni dell’episcopato costantinopolitano furono un lungo calvario: Teofilo, vescovo di
Alessandria, che mal vedeva un antiocheno sedere sulla cattedra più prestigiosa e politicamente
più importante dell’Oriente, si fece promotore del «Sinodo della quercia» che depose Giovanni
mandandolo in esilio.
Questi, richiamato a furor di popolo, riprese dopo poco definitivamente la via dell’esilio verso le
montagne dell’Armenia, dove morì di stenti.
2) Il conflitto tra Alessandria e Antiochia.
Esisteva un dissidio che investiva i rapporti di Alessandria con Antiochia su diversi piani.
Ad Alessandria: si era impostata una teologia che insisteva sulla divinità del Figlio di Dio e su una
lettura della bibbia per mezzo dell’esegesi allegorico-spirituale; i vescovi, consapevoli della loro
importanza politica (l’Egitto era il granaio dell’Impero), non avevano mancato di far valere la loro
superiorità su tutto l’Oriente.

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Ad Antiochia: cristologia più sensibile alla compresenza dell’umanità del Figlio, accanto alla
divinità, e lettura della bibbia prestando maggiore attenzione al dettato del testo.

3) †444 - Cirillo di Alessandria: con lui, ancor più che con Teofilo, la Chiesa alessandrina vuole
annettersi il primato sulle cristianità orientali ricorrendo ad ogni mezzo, anche alla violenza (fece
distruggere la colonia ebraica di Alessandria, si rese responsabile della morte di Ipazia, rinomata
filosofa e matematica di Alessandria).
Dotato di buona cultura teologica che gli consentiva di fiutare l’eresia al minimo sospetto.
a) Compose anche una grossa opera, Contra Iulianum imperatorem, in cui confutava l’opera che
oltre settant’anni prima aveva scritto l’imperatore Giuliano l’Apostata Contro i Galilei. Giuliano
aveva ripreso le accuse di Celso e di Porfirio contro la religione cristiana, e la sua opera girava
ancora negli ambienti pagani dell’Egitto senza aver ricevuto adeguata confutazione. All’impresa si
accinse Cirillo.
b) Cirillo è passato alla storia come vincitore del concilio di Efeso del 431, terzo ecumenico, come
avversario accanito di Nestorio (antiocheno). Secondo quest’ultimo in Cristo esistono due nature,
l’umana e la divina, ma talmente distinte da essere totalmente incomunicanti tra loro e, di
conseguenza, la Madonna non poteva essere chiamata «Madre di Dio», ma solamente «Madre
dell’uomo Gesù».
Questi errori cristologici diedero a Cirillo l’occasione di lanciare 12 Anatematismi di condanna che
innescarono una dolorosa controversia finita in una tragica spaccatura delle chiese orientali.
Al concilio di Efeso, le tesi di Cirillo prevalsero e venne riconosciuta la divina maternità di Maria,
la Theotòkos. I seguaci di Nestorio, esclusi dalla comunione ecclesiale, diedero vita ad una Chiesa
autonoma, quella nestoriana.
c) Ma nella cristologia stessa di Cirillo si annidava un equivoco che avrebbe fatto scoppiare di lì a
poco una nuova crisi: la natura divina del Verbo era talmente predominante che finiva quasi per
assorbire in sé quella umana. I suoi successori finirono col considerarla l’unica, da cui l’accusa di
«monofisismo» (dal gr. mone physis = «unica natura»). In un primo tempo i monofisiti ebbero la
meglio, ma grazie all’intervento decisivo di papa Leone Magno, al concilio di Calcedonia del 451
prevalse la formula ortodossa definitiva delle due nature di Cristo, intercomunicanti ma distinte
nell’unica sua persona.

Conclusione
Con la morte di Agostino (430) e con il concilio di Calcedonia (451) ha termine la grande età
dell’oro della letteratura patristica.
Dopo di allora, il pensiero e la spiritualità cristiana torneranno alla scuola dei Padri per
approfondire continuamente la propria coscienza.
Ai Padri guarderanno sempre, sia in Oriente sia in Occidente, le generazioni successive come ai
fondatori e alle guide insostituibili del pensiero cristiano.
L’impoverimento per la spaccatura tra Oriente e Occidente ci fa dire che il ritorno ai Padri è
condizione irrinunciabile per l’incontro ecumenico.

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III
Il mondo dei Padri della Chiesa

1. Il bacino del Mediterraneo


a) Il mondo nel quale il cristianesimo nasce è quello dell’impero romano. E il cristianesimo viene
presto a diffondersi in questo mondo, appropriandosi di gran parte delle sue acquisizioni;
b) Il bacino del Mediterraneo costituisce il cuore di questo mondo dalle frontiere relativamente
stabili, favorendo in tal modo la diffusione della fede cristiana. Eppure, essa, che nasce ai margini
sud-orientali di questa area, e precisamente in Asia, conosce nei primi secoli della propria storia un
significativo sviluppo verso Oriente, di cui oggi i cristiani d’Occidente non hanno abitualmente
memoria;
c) L’impero romano è un’immensa estensione, che va dalla Spagna alla Mesopotamia,
dall’Inghilterra all’Egitto. Gli scrittori cristiani tendono a esprimersi nelle due lingue più
importanti allora parlate, il greco e il latino. Ma non possiamo dimenticare l’esistenza di una
produzione letteraria cristiana in altre lingue minori, come il siriaco, il copto, l’armeno, il georgiano,
l’etiopico, nelle quali si è spesso conservata, in traduzione dal greco, una serie di opere andate
perdute nella lingua in cui erano state originalmente composte. Disgraziatamente, di tale
letteratura, in questa sede non potremo dire pressoché niente: la vastità della materia da affrontare
ce lo impedisce.

2. La diffusione del cristianesimo


Quella della diffusione della fede, è certo una delle linee essenziali attraverso le quali si
svolge la storia della Chiesa. Anzitutto, qualche sua caratteristica:
a) Non si trattò di un movimento di massa, ma di un’azione capillare e individuale; in essa
essenziale fu l’opera dei laici, sia uomini che donne (queste ultime attive nella predicazione, nei
ministeri ecclesiali, nella penetrazione specie all’interno delle classi alte);
b) L’adesione alla fede cristiana non comportò obbligatoriamente l’abbandono dei tratti
caratteristici della propria cultura, o delle istituzioni e delle tradizioni dei popoli d’appartenenza, per
quanto venisse chiesto un serio impegno di fedeltà a uno stile di vita cristiano e, in qualche caso, la
rinuncia a comportamenti o situazioni giudicati incompatibili con la vita di fede;
c) Si convertirono alla fede persone di tutte le classi sociali: umili e schiavi, ma anche, e in
maniera pure consistente, borghesia piccola (artigiani e commercianti) e alta (cavalieri); membri
della nobiltà (senatori) e persino della famiglia imperiale;
d) L’espansione avvenne sia in Oriente che in Occidente (anche se qui in misura molto
inferiore, almeno sino al secolo III), privilegiando le città alle campagne. Il numero dei cristiani appare
difficilmente quantificabile: è comunque possibile che si aggirasse, alla fine del secolo III, attorno ai
5-7 milioni (3-4 in Oriente, 2-3 in Occidente), su una popolazione dell’impero romano di circa 50
milioni.

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3. Società civile e società religiosa nel mondo antico
a) La questione delle relazioni fra società civile e società religiosa non si poneva nel mondo
antico precristiano. I documenti dell’antichità ci confermano, al riguardo, un’assenza di
delimitazione di competenze tra le due sfere, e ci testimoniano di una visione unitaria dell’uomo e
della società, senza possibilità di distinzione fra cittadino e fedele, fra comunità civile e comunità
religiosa. L’elemento religioso era fondamentale e inseparabile dalla vita pubblica del tempo, e non era
pertanto possibile distinguere tra norme giuridiche, norme morali e norme religiose. L’osservanza
delle leggi era, al contempo, obbligo morale e religioso per il cittadino-suddito, così come
sacrificare agli dei rientrava fra i suoi doveri civici;
b) A maggior ragione, se era impossibile distinguere il fatto religioso dalla vita pubblica
associata, era inconcepibile un’istituzione religiosa distinta da quella statuale; anzi, l’organizzazione
religiosa e quella civile finivano ad un certo punto per coincidere, come se si trattasse di due aspetti
dell’unico corpo sociale e dell’unica istituzione pubblica statuale, finalizzata al bene fisico e spirituale
della collettività;
c) Si è dunque in presenza di una radicata convinzione che la funzione della religione sia
primariamente quella di fondamento della stessa società e delle sue leggi, come elemento di coesione fra i
cittadini, come strumento di elevazione civica e morale;
d) La concezione romana sottolineava fortemente la sovrapposizione del dovere religioso al dovere
civico. I romani, che in materia religiosa erano sostanzialmente molto tolleranti, non potevano
tuttavia accettare che questa concezione fosse minata, perché insieme con essa, sarebbe stato lo
stesso stato a venire minato nelle sue fondamenta;
e) Lo stato dell’antichità precristiana può dunque definirsi con il termine di «stato
teocratico», cioè come un organismo supremo con duplice finalità: politica e temporale, da un lato, e
religiosa dall’altro. Si tratta, comunque, di uno schema che all’atto pratico ha conosciuto anche
qualche sfumatura, da realtà a realtà; ma che, nonostante qualche formale distinzione di sfere, ha
finito col caratterizzare sostanzialmente l’esperienza statuale del mondo classico;
f) A sua volta, lo «stato teocratico» può assumere due configurazioni distinte tra loro. La
prima, che si suole indicare col nome di ierocrazia, e che prevalse in Oriente, vede primeggiare
l’elemento religioso, come principio informatore e fine ultimo dell’organizzazione e dell’attività
dello stato. Tutta la vita politica e giuridica è impregnata dello spirito religioso; i fini religiosi sono
preminenti su quelli temporali, che al raggiungimento dei primi devono essere finalizzati; il
complesso normativo è condizionato e ordinato ad una normativa superiore, di carattere religioso.
Un tipico esempio di questa forma di teocrazia è dato dal popolo ebraico dell’Antico Testamento,
la cui costituzione in stato è dettata a fini spirituali, e la cui legge è stabilita dalla stessa divinità;
g) L’altra configurazione storicamente assunta dallo «stato teocratico» è quella della
cosiddetta Chiesa di stato, che prevalse in Occidente, soprattutto in Grecia e a Roma. In essa
l’elemento religioso è insito e connaturato nell’organizzazione politica e sociale, ma non ne è più
l’elemento informatore. Prevalgono qui i compiti sociali e politici dello stato, e gli adempimenti religiosi
finiscono con l’essere adempimenti civici, e non viceversa. Il potere civile non solo comprende in sé

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quello religioso (l’imperatore romano è dunque anche pontefice massimo, ossia vertice della funzione
sacerdotale), ma predomina su questo in tutto.

4. L’atteggiamento dell’impero romano di fronte al cristianesimo nei primi tre secoli


a) L’atteggiamento di Roma nei confronti del cristianesimo non può essere colto, nei suoi
risvolti più profondi ed autentici, prescindendo da due caratteristiche fondamentali e
insopprimibili dello spirito romano: il culto della tradizione e il senso del diritto;
b) Il culto intransigente della tradizione e insieme la profonda diffidenza per tutto ciò che è nuovo,
per ciò che si pone contro l’ordine costituito e l’ordine pubblico, provocano ben presto la
persecuzione anticristiana. La «novità» del cristianesimo, anche rispetto alla propria matrice
giudaica, costituisce già di per sé una colpa agli occhi di Roma; una dottrina religiosa «nuova» non
può essere altro che una superstitio pericolosa e falsa, perché una dottrina, per essere vera, deve anche
essere antica, dal momento che il vero è per sua natura immutabile;
c) Il senso profondo del diritto, che il romano porta anche nella pratica religiosa (e che gli fa
sentire come un atto di giustizia il suo rapporto con una divinità, che egli sa essere misteriosa e che
egli vuole propizia), lo induce a rispettare il sentimento del divino degli altri popoli e degli stessi
individui; in concreto, questo si traduce in norma giuridica e in atteggiamento politico, volti a
superare il nazionalismo ideologico-religioso e ad abbracciare un sincretismo universalizzante, che finisce
col preparare l’accettazione da parte dell’impero di una religione universale;
d) Tra tolleranza e intolleranza, si dibatte l’atteggiamento dello stato romano nei confronti
del cristianesimo nei primi tre secoli. A questo riguardo, le posizioni degli storici sono diverse. Vi è chi
reputa che il conflitto fu in realtà solo un conflitto etico e religioso, ideologico e sentimentale, ma non
politico, almeno nelle sue radici più profonde; e chi invece ritiene che si trattò di uno scontro assai
aspro anche sul terreno dei valori costitutivi politico-sociali, di una contestazione in concreto radicale
dell’ordinamento statuale romano, giudicato in tutta la sua epifania idolatrica e demoniaca. Forse è
che all’interno dello stesso cristianesimo furono sempre presenti due anime, e che la fede assunse
colori diversi, in forza della sua stessa inculturazione, a seconda delle regioni e degli ambienti; più
avanti torneremo su questo tema, esaminando specificatamente la reazione pagana nei suoi elementi
distintivi.

5. Il principio dualistico cristiano


a) Il sistema teocratico e unitario del mondo greco-romano era destinato a tramontare con
l’avvento del cristianesimo. La Chiesa infatti, fin dalle origini e forte del mandato del fondatore
Gesù Cristo, afferma la netta distinzione dei poteri giurisdizionali, in relazione alle materie cui si
riferiscono, e dunque l’esistenza di due realtà d’indole radicalmente diversa, la temporale e la spirituale.
Ne consegue la rottura del principio unitario, con la conseguenza che il consuetudinario assetto della
società viene a scardinarsi. Le celebri parole di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio
quel che è di Dio» (Mt 22,17; Lc 20,25), costituivano un vero atto rivoluzionario per l’ordine sociale,
che avrebbe ben presto provocato ai cristiani l’accusa non solo di empietà, ma anche di asocialità e di
mancanza di spirito civico, in quanto apparivano come pericolosi sovvertitori del tradizionale assetto
politico-religioso;

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b) In considerazione del mandato divino alla Chiesa, si vengono a contrapporre
immediatamente i diritti di Cesare e quelli di Dio; i poteri e i doveri dello stato, istituzione naturale
e temporale, e quelli della Chiesa, istituzione spirituale e soprannaturale. In sostanza, una
distinzione di duplice carattere, istituzionale e funzionale, espressione di una visione essenzialmente
dualistica: il cristiano, in quanto tale, è contemporaneamente cittadino di due città, la città terrena,
cioè la comunità in cui vive, e la città celeste, alla quale è destinato;
c) Con la rottura del principio unitario del mondo classico, storicamente non è stato più
possibile, in Occidente, ricostruire l’unità dello stato teocratico: il cristianesimo ha gettato, in
definitiva, le basi di una concezione laica del potere.

6. «Onore e timore»: il riconoscimento, al di là della contestazione, nella prima


apologetica

a) Gli Atti dei Martiri Scilitani, generalmente assunti come il più antico testo cristiano scritto
originalmente in latino, ci presentano il tentativo del proconsole Saturnino, nell’Africa romana del
180, di ricondurre alla ragione alcuni «ostinati» cristiani, che si rifiutano di compiere il culto
imperiale. Al magistrato di Roma che li esorta a cambiare atteggiamento, essi replicano: «Io non
riconosco l’imperio di questo mondo, ma piuttosto sono servo di quel Dio che nessun uomo vide
[mai]... non ho commesso alcun furto, e quando compro qualcosa pago la tassa, perché conosco il
signore mio e imperatore dei re di tutte le genti» (Sperato); «Non temiamo che il signore Dio nostro
che è nei cieli» (Cittino); «L’onore a Cesare in quanto Cesare, ma il timore a Dio» (Donata). Onore al
sovrano, ma timore solo a Dio: una posizione che compendia emblematicamente la linea di difesa
universalmente adottata dall’apologetica cristiana antica;
b) Giustino (II Apologia 1,17) usa le stesse parole, ricordando il detto di Gesù a proposito
del tributo di Cesare, un testo fondamentale, come abbiamo già visto, nella prospettiva della
visione cristiana del potere e della società: «Perciò adoriamo Dio in quanto Dio; a voi prestiamo
servizio in tutte le altre cose di buon grado, riconosciamo i re e i governanti degli uomini e
preghiamo per voi, affinché insieme con chi detiene il potere regale, siate saggi nel giudicare»;
c) E così, per fare un altro esempio, Teofilo (Ad Autolico 1,11): «Per questo io piuttosto
onorerò l’imperatore, non adorandolo, ma pregando per lui. Io adorerò Dio, colui che è Dio e lo è
veramente, sapendo che l’imperatore esiste grazie a lui. Tu mi dirai: "Per quale motivo non adori
l’imperatore?" Perché egli non esiste per essere adorato, ma per essere onorato con legittimi onori.
Egli, infatti, non è un dio, ma un uomo, ordinato da Dio non per essere adorato, ma perché
giudichi secondo giustizia»;
d) Nella memoria degli apologisti, il ricordo delle parole di Gesù (Mt 22,21) si connette con altre
parole contenute nel NT: scritti della tradizione paolina (gli Scilitani dichiarano di avere con sé «libri
et epistulae Pauli viri iusti»): «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo, a
chi le tasse, le tasse; e a chi il timore, il timore, e a chi l’onore, l’onore» (Rm 13,7; e si veda anche
1Tm 2,1ss, sulla preghiera per i governanti; e Tt 3,1, sulla sottomissione ai magistrati); e scritti della
tradizione di Pietro: «Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (1Pt 2,17);

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e) Questi testi ora ricordati sembrano rispondere polemicamente a un radicalismo apocalittico del
I secolo (condiviso, almeno in parte, anche dall’Apocalisse canonica), che tende a svuotare di ogni
valore il mondo, e a condannarlo in quanto dominato dal maligno e votato a una fine imminente;
f) In linea di massima, l’autodifesa della Chiesa perseguitata è fondata su dichiarazioni di lealismo,
con cui da un lato si riconosce la legittimità del potere imperiale, e dall’altro ci si oppone rigorosamente
alle sue pretese in sede religiosa: 1) questa è la posizione che emerge dalla letteratura apologetica, come
anche da quella martirologica e da quella canonico-disciplinare; 2) questa è in sostanza anche la
posizione dell’apologetica più «aggressiva» (Ippolito e Tertulliano); 3) questa è la posizione che
assumono pure le comunità ebraiche a partire dal II secolo.

7. La concezione stoica del diritto naturale e i tentativi apologetici più maturi


a) La posizione di sostanziale lealismo trova nella concezione stoica del diritto naturale (che in
autori come Cicerone si compenetra con la tradizione giuridica romana) un certo fondamento teorico;
b) Origene (Contro Celso 5,37) utilizza la distinzione tra legge umana e legge naturale, cioè
divina, per giustificare sia la legittimazione dell’autorità politica, sia l’eventuale sua contestazione:
«Esistono due specie di legge, l’una è la legge di natura, la quale, si potrebbe dire, è opera di Dio;
l’altra è la legge scritta in uso nelle città (...). Nel caso in cui la legge di natura, cioè di Dio, ordina
cose che sono contrarie alla legge scritta, giudica tu se la ragione non debba indurre l’uomo a
discostarsi recisamente dai testi e dalla volontà del legislatore, affidando invece se stesso al Dio
legislatore, scegliendo una vita conforme al suo Verbo, col dovere di affrontare pericoli, sofferenze
infinite e la morte e l’infamia»;
c) La saldatura tra obbedienza alle autorità terrene e obbedienza al volere di Dio è dunque
possibile, se le leggi terrene sono conformi al diritto divino, conosciuto dalla ragione e risalente da
ultimo allo stesso verbo della rivelazione mosaica. Se si dà una frattura, ciò va imputato soltanto
alle colpevoli deficienze dell’autorità politica;
d) L’accettazione della dottrina stoica del diritto naturale, divenuta generale in epoca
postcostantiniana, è dunque lo strumento che consente alla Chiesa di pervenire al definitivo
riconoscimento dello stato, in base alla teoria etico-giuridica che le sue leggi vanno ricondotte ad un
fondamento naturale, identico nell’essenza al decalogo rivelato;
e) E’ importante sottolineare come, comunque, questa posizione ormai pienamente lealista
trovi eco specie in Oriente, dove l’adesione dell’autorità imperiale al cristianesimo viene salutata con
particolare entusiasmo, e dove i Padri finiscono con l’essere a tal punto immersi nella concezione
ellenistica della regalità da non riuscire a giungere ad ammettere l’esistenza di un preciso limite
giuridico; Eusebio ed Atanasio, ad esempio, sono ormai persuasi che la monarchia divina si rifletta su
quella terrena, e che la contrapposizione tra immagine di Dio e immagine di Cesare non solo non sia
ipotizzabile, ma addirittura venga ad essere cancellata. Se si cita l’invito a dare a Cesare quel che è
di Cesare, lo si fa per ricordare obblighi di lealismo imperiale.

8. Una diversa linea interpretativa: «o Dio o Cesare»


a) Quando tuttavia i primi teologi cristiani si volgono ad affrontare la questione senza
preoccupazioni apologetiche, senza pensare ai tribunali e alle autorità gentili, ma avendo a cuore solo la

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maturazione della fede dei credenti, allora la dialettica del lealismo viene a essere sostituita dal
parallelismo tra immagine di Cesare e immagine di Dio;
b) Si tratta di un parallelismo che il testo di per sé non presenta esplicitamente, ma facilmente
suggerisce: «se il denaro porta l’immagine di Cesare, e va dunque reso a Cesare, che cosa va allora
reso a Dio, se non anzitutto lo stesso uomo, che di Dio porta, secondo Gen 1,26ss, l’immagine?»;
c) Tertulliano (Contro Marcione 4,38,1) e Clemente Alessandrino (Estratti da Teodoto
D,86,1ss) assumono questa prospettiva cristocentrica e mistica, in cui non si tratta di un duplice
debito o di doveri paralleli, ma di un dualismo di sfere di appartenenza: ecco che affiora una possibile
opposizione tra Dio e Cesare, un’incompatibilità escludente («o Dio o Cesare/Mammona»: così
Tertulliano, in La corona 12,4; «o uomo nuovo e spirituale o uomo vecchio e terreno»: così, nel solco
dell’antropologia paolina di 1Cor 15, Clemente Alessandrino, Estratti profetici 24);
d) Quando poi l’attenzione si punta sull’immagine e l’iscrizione della moneta, ecco allora
che il detto di Gesù finisce col richiamare il «marchio» bestiale di Apocalisse 13. Si assiste dunque a
quello spostamento di paradigma interpretativo da due ordini di grandezza fra loro coordinabili («Dio e
Cesare») a due sfere totalmente fra loro incompatibili («o Dio o Cesare»);
f) In questa direzione, è sempre Origene (che in precedenza avevamo visto campione del
lealismo, nel rivolgersi ad extra) il crocevia di elementi diversi, portati ora in chiara evidenza. Ecco
la sua posizione, quando parla ad intra: «Come la moneta, ovvero il denaro, porta l’immagine
dell’imperatore del mondo, così chi fa le opere del principe delle tenebre porta l’immagine di quel
principio di cui compie le opere: Gesù qui comanda di restituire quell’immagine e di strapparla dal
nostro volto, per assumere quell’immagine secondo la quale all’inizio fummo creati a somiglianza
di Dio. E’ così che rendiamo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Omelie sul
vangelo di Luca 39,5; qui Mt 22,21 viene collegato, come in Clemente Alessandrino, a 1Cor 15);
g) Trovandosi a commentare Mt 17,24ss (l’episodio della tassa pagata per il tempio, da
Gesù e da Pietro, con la moneta d’argento che il pesce ha in bocca), sostiene che il diavolo è il
drago che si aggira nelle acque, cercando chi divorare; la moneta venuta su dal fondo, nel ventre
del pesce, contiene la sua impronta, e quindi va a lui restituita, perché possa essere ricostituita
nell’uomo l’immagine di Dio (Omelia sul profeta Ezechiele 13,2). E il concetto è riproposto anche
altrove (Omelia sul vangelo di Matteo 13,10; 17,28);
h) Nel commento a Romani 13, distingue tra uomini «spirituali», che nulla devono a Cesare
(perché non sono implicati nelle faccende di questo secolo, e in tale prospettiva, sono già
direttamente soggetti all’autorità divina, la sola cui si debba definitiva obbedienza), e uomini
«psichici» o «comuni», che devono obbedienza alle autorità terrene, in quanto e nella misura in cui
queste ultime esprimono la legge divina e naturale. Non è difficile vedere qui prefigurati i due ceti
della cristianità più tarda, quello monastico e quello laicale. Si tratta, in sostanza, di una posizione che
rivendica alla sfera spirituale una sua autonomia;
i) In questa direzione, è importante rilevare come in Occidente, anche dopo la svolta
costantiniana, la memoria dell’episodio del tributo si ripresenti ancora spesso, e sempre nei
momenti di maggiore scontro col potere. Così scrive (all’imperatore Costanzo, nel 356) l’anziano
Ossio di Cordova, difensore dell’ortodossia nicena, prendendo le difese di Atanasio: «Non
ingerirti nelle cose ecclesiastiche e non dare disposizioni a noi in questa materia: piuttosto impara

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da noi a questo proposito. A te Dio ha affidato il regno, a noi ha confidato le cose della Chiesa. E
come chi vuol sottrarti il potere si oppone al volere di Dio, così devi temere di renderti colpevole di
un grave crimine, se ti ingerisci nelle cose della Chiesa: "Rendete – è scritto – le cose di Cesare a
Cesare e le cose di Dio a Dio". Né dunque a noi è lecito comandare sulla terra, né tu hai il potere
dell’incenso, o re» (apud Atanasio, Storia degli ariani 44). Ecco che per la prima volta, dopo l’inizio
della collaborazione tra impero e Chiesa, si leva una voce a porre un limite all’ingerenza
dell’imperatore, e a partire dal «Date a Cesare...»;
l) Parole che richiamerà anche Ambrogio (formato a quella tradizione romana, secondo la
quale anche il principe è soggetto alle leggi), rivolgendosi a Valentiniano II, che aveva ordinato,
d’intesa col l’imperatrice Giustina, di restituire una basilica agli ariani di Milano. Non può
comunque sfuggire come gli interessi di Dio, per Ambrogio, finiscano qui (come pure altre volte)
col coincidere con gli interessi della propria parte;
m) Lo stesso Agostino, anni più tardi (precisamente nel 400), divenuto anch’egli vescovo, si
risolverà infine a chiedere la repressione statale dinanzi alla questione donatista. A 220 anni di
distanza dal processo subìto dagli Scilitani, ora è Agostino a rifiutare, come il proconsole Saturnino,
la distinzione cristiana (avanzata dai donatisti) tra ambito religioso e ambito politico; e a respingere
un’autodifesa basata su tali argomenti (si veda lo scritto Contro Parmeniano 1,10). Questa volta poi,
tra i delitti politicamente rilevanti, rientrano anche quelli connessi con lo scisma e l’eresia;
n) In Occidente, l’interpretazione «mistica» e «ascetica» (quella prospettata per la prima volta
da Tertulliano e Clemente Alessandrino) continua comunque a trovare spazio: occorre
abbandonare al mondo quel che è del mondo, per restaurare nell’uomo l’immagine divina
smarrita;
o) Il testo sul tributo ci conferma, dunque, l’esistenza – in seno all’esperienza della fede e
alla riflessione teologica dei Padri – di un dualismo, che nella storia cristiana (lo sappiamo bene)
sarà sempre difficile conciliare.

42
IV
La donna nel pensiero cristiano antico

1. La donna nella Chiesa dei primi secoli


a) La voga del femminismo ha negli ultimi anni investito anche l’ambito della cultura antica, e
in special modo l’attenzione è stata puntata sul ruolo della donna nella Chiesa dei primi secoli;
b) Le ragioni non sono né poche né di modesto spessore; da un lato, la stessa attività di Gesù e la
predicazione cristiana vengono ad avere un riscontro privilegiato, come pare, da parte femminile, e
senza dubbio le donne hanno, nella più antica organizzazione della comunità cristiana, un ruolo di
prim’ordine; dall’altro, il significato della presenza femminile viene drasticamente ridotto, rivelando
una tendenza che diverrà definitiva, nel successivo processo di ridefinizione delle componenti più
propriamente «rivoluzionarie» del messaggio evangelico (si pensi all’esito che viene ad avere una
visione come quella offerta da Gal 3,28, dove si afferma che «non c’è più giudeo né greco; non c’è
più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»);
c) Eppure (anche se a qualcuno di noi ciò può apparire curioso, in base alle condizioni
proprie della nostra attuale società avanzata), un osservatore attento, e ostile, del mondo cristiano del
pieno III secolo – mi riferisco a Porfirio di Tiro, filosofo neoplatonico di valore, autore di un aspro e al
contempo acuto saggio Contro i cristiani – poteva annotare, tra i tanti motivi di avversione e
polemica, anche che presso i cristiani le donne erano troppo invadenti, detenevano troppo potere;
d) Evidentemente, rapportata alla società del tempo (non ha quindi senso insistere su
un’odierna diversa valutazione, perché diverso è il punto di osservazione), paragonata al ruolo
svolto allora dalla donna nell’ambito della società gentile greco-romana, la condizione femminile
cristiana non era avvertita, né dagli altri né forse dalla donna stessa, come fatta segno di particolare
oppressione;
e) Certo, Porfirio aveva in mente la situazione della donna di classe alta: e, al riguardo, una
serie di dati permette in effetti di ipotizzare con buona probabilità che, a livello socialmente
elevato, la donna cristiana facesse sentire forte, talvolta addirittura fortissimo, il suo peso nella vita della
comunità, anche nei confronti di quella gerarchia maschile, alla cui dignità le era formalmente
vietato di adire; un certo protagonismo cristiano al femminile (come quello delle schiave Perpetua,
nella passio omonima, e Blandina, nel testo dei martiri di Lione) è difficilmente anche solo
concepibile da parte gentile;
f) D’altronde, il fatto stesso che il cristianesimo si diffonda – da subito, in primo luogo e in
maggiore misura – tra le donne, e non solo quelle di alto ceto, fa ragionevolmente pensare che,
quale che ne sia la ragione, le donne dovessero sentirsi meglio realizzate nella comunità cristiana,
nonostante le evidenti limitazioni, che in quella gentile;
g) Pensiamo solo ai gruppi ereticali (in special modo a gnostici e montanisti), e al ruolo
centrale che la donna assume in essi; pensiamo al bisogno di tanti personaggi pubblici di sesso maschile
di ribadire instancabilmente l’inferiorità della donna rispetto all’uomo nella società e nella religione

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cristiana (ricorrendo a tale scopo al copioso materiale antifemminile accumulato dalla tradizione
classica): un bisogno che dobbiamo forse interpretare appunto come richiamo ad una disciplina
che nella pratica della vita comunitaria sembrava messa in questione dall’invadenza femminile;
h) In questa sede ci limitiamo ad offrire delle sintesi problematiche, e relativamente ad
alcune aree soltanto: lo statuto di parità e quello di subordinazione; interpretazione di Genesi 1-3;
il codice famigliare; donna e sacerdozio; la vita ascetica. Infine, anche un abbozzo di conclusione.

2. Due statuti: quello di parità e quello di subordinazione


a) La riflessione sulla donna nei Padri oscilla tra due statuti fondamentali: quello di parità e
quello di subordinazione; al riguardo, occorre sempre tenere presente l’esistenza di una sorta di «terra
di nessuno», di zona fluida, dai confini in molti casi frastagliati, incerti e persino confusi, con posizioni
contraddittorie fra autore e autore e anche all’interno dell’opera di un singolo autore: abbiamo a che
fare più con «tensioni» che non con «situazioni fisse». Può essere utile prendere le mosse dal
campo dell’esegesi;
b) Commentando Gal 3,28 («non c’è più né uomo né donna...»), Agostino sostiene che la
differenza di sesso (come quella di razza e di condizione sociale) sarà superata solo nel regno dei cieli,
quando vedremo Dio «faccia a faccia» (1Cor 13,12). Per ora, finché viviamo su questo mondo, pur
avendo già le primizie dello Spirito (cf. Rm 8,23), la differenza permane. Anzi, l’ordine di questo mondo
è stato riconosciuto e legittimato anche dagli apostoli e da Cristo stesso (quando ha detto «Date a Cesare
quel che è di Cesare...»);
c) L’interpretazione abituale di Genesi 1-3 sottolinea, essa pure, l’esistenza di un duplice statuto;
anche qui, le formulazioni antropologiche sono varie e conducono, non senza contraddizioni, a definizioni
molto diverse e complesse: 1) corpo e sessualità sono dell’ordine della «natura»; 2) corpo e sessualità
sono dell’ordine del peccato; 3) la subordinazione della donna è vista talora nell’ordine della
«natura», talaltra in quello del peccato; 4) la donna non è immagine di Dio (cf. 1Cor 11,7: «l’uomo
non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria
dell’uomo»), perché non ha il comando; 5) è immagine di Dio, ma rispetto all’uomo interiore, non a quello
esteriore (Agostino); oppure: è immagine di Dio, ma in modo meno «familiare» dell’uomo (Tertulliano); o
ancora: non è immagine di Dio, ma può acquistare la facoltà di esserlo attraverso il marito (Agostino);
d) Considerata nel suo complesso, la posizione di Agostino (che influenzerà tutto la storia
successiva in Occidente) si presenta, per così dire, essa pure duplice; da un lato tutela la fondamentale
positività del corpo e della sessualità, in quanto componenti precedenti il peccato originale; dall’altro,
tuttavia, il pessimismo agostiniano circa la concupiscenza (così fortemente segnato da influenze
platoniche) finisce con l’essere ancor più a carico della donna (anche per l’assunzione delle
categorie «mente-maschio/ senso-femmina», che accentuano il primato virile);
e) Ma anche quei Padri, che giudicano il corpo e la sessualità come successivi al peccato originale (il
che comporta che la colpa della donna non finisca con l’interessare direttamente la sfera corporale-
sessuale), presentano la distinzione tra la subordinazione bio-sociologica (relazione del vir e della femina,
in ordine all’esercizio del potere) e la parità spirituale (sfera dell’anima, dunque relazione col
Creatore: vita morale e ordine della salvezza);

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f) I Padri intervengono anche sul tema della «natura» della donna; in genere, le idee biologiche
che assumono hanno il significato di «sostegno ideologico» alle proprie opzioni teologiche; l’idea
creazionista (che si colloca nel solco dell’antiaristotelismo biologico) si sposa con posizioni capaci di
comprendere meglio la dimensione della reciprocità sessuale; viceversa, l’aristotelismo biologico, di fatto
dominante e favorevole ad una preminenza del maschio, ha il vantaggio di aiutare a comprendere
meglio la generazione del Figlio di Dio (da maschio a maschio) e in genere la natura maschile del
Salvatore;
g) Spesso la subordinazione s’insinua nel territorio della parità, come nel caso della sfera stessa
della soteriologia, o in quello dell’attitudine a comprendere il mistero di Cristo;
h) Viceversa, nella sfera dei codici familiari si può avere il caso, straordinario peraltro, di un
ribaltamento della sottomissione unilaterale della donna: non solo parità nella sfera della fedeltà
reciproca, ma prevalere della moglie sul marito nel caso di una migliore moralità della donna;
i) Eppure, anche qui, da una parte si ha un rinnovamento (o almeno un tentativo di
rinnovamento) in base all’«amore»e al «servizio» che anche il marito deve alla moglie «in Cristo»;
ma dall’altra, l’analogia simbolica tra potestà maritale e potestà di Cristo induce a una qual
sacralizzazione della prima, rappresentando di fatto un arretramento rispetto ai paralleli codici non
cristiani, che conoscono un matrimonio sostanzialmente paritario. Tuttavia, per alcuni aspetti, la
visione cristiana del vincolo nuziale e della procreazione finisce col comportare per la donna la protezione
dal ripudio maritale e in genere i vantaggi di un rapporto di coppia strettamente monogamico e di una
strenua difesa della vita (propaganda della Chiesa contro concubinaggio, prostituzione, aborto,
esposizione dei neonati...).

3. Donna e ministeri
a) La Chiesa cattolica non consente alla donna di presiedere l’eucarestia, opponendo sia
l’argomento storico della «maschilità» dei Dodici, sia quello antropologico relativo alla subordinazione della
donna all’uomo;
b) Al riguardo, è significativo il diverso occhio con cui si guarda alle donne incontrate da
Gesù: lì dove il contesto può comportare un’intenzione giuridica, ecco che l’esegesi è teologicamente
riduttiva; viceversa, lì dove il contesto sembra suggerire uno sfondo ascetico, si ha addirittura
l’esaltazione celebrativa, che giunge anche a parlare di una superiorità della sfera femminile;
c) La grande Chiesa concede il diaconato, connesso storicamente con il servizio delle donne
nel NT; ma qui si ripresenta ancora un’oscillazione, relativamente al preciso significato teologico di tale
ministero; per di più il diaconato femminile è prettamente una realtà del mondo cristiano orientale, più
aperto, per gli antecedenti gentili, alla presenza della donna nel sacro; in Occidente, viceversa, spiccano le
reiterate censure, ma anche i ricorrenti tentativi di sopravvivenza dell’istituto;
d) Le ragioni del rifiuto della presidenza eucaristica sono in genere connesse con lo statuto di
subordinazione; ma possono avere influito alcuni fondamentali elementi esterni: 1) la continuità col
giudaismo (nel NT restano elementi «dell’antico», come nell’AT già si trovano elementi «del
nuovo»), che escludeva la donna sia dalla funzione sacerdotale sia da quella levitica; 2) a fronte
della normale presenza della donna come celebrante nel mondo greco, il culto a Roma, sia nella
dimensione domestica che in quella pubblica, era una questione essenzialmente maschile, perché la

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donna, benché valorizzata in funzioni di accompagnamento e di complemento, era in linea di
massima ritenuta incapace sul piano religioso. E tale incapacità coincideva con la sua incapacità
giuridica di rappresentare altri che se stessa, con conseguente esclusione dai civilia officia che erano
appunto virilia officia; 3) la situazione psicologica prodotta dalla polemica antieretica, se pensiamo al
fatto che nelle conventicole gnostiche alla donna era offerta una partecipazione più attiva e
coinvolgente, soprattutto per l’efficacia mistico-magico-rituale di quei misteri;
e) Il campo dove la fides penetra più profondamente nella conversatio mortalis è quello della
vita ascetica in tutte le sue manifestazioni e forme, ed è appunto in essa che Gal 3,28 esprime tutta la
forza di liberazione verso la parità, non senza vistosi risvolti anche nella sfera sociale; infatti, il
fenomeno del monachesimo tardoantico lo conosciamo soprattutto attraverso esempi di donne di
classe senatoria che, lasciando da parte responsabilità proprie delle donne «in società» (come quelle
di mantenere il patrimonio familiare attraverso convenienti matrimoni, o di educare i figli)
finiscono col sollevare contrasti anche in seno all’aristocrazia cristiana moderata, poco incline a favorire
questa scelta di emancipazione;
f) In questa prospettiva, assume un rilievo significativo il fatto che le ascete trovino con difficoltà
biografi. Suscita, infatti, sempre un certo disagio scrivere di una donna, e chi lo fa deve giustificarsi
dicendo che la donna non è più una donna, ma un uomo (è il tema della mulier virilis: la fortezza della
donna può essere accettata solo passando per il riconoscimento che in realtà essa è «come un
uomo») o un angelo; e allo stesso modo, solo con estrema fatica le si riconoscono poteri speciali di
ordine taumaturgico, nella misura in cui ciò rientra emblematicamente nella sfera del «maschile».
Questo ci dice di come la vita ascetica (il cui richiamo si fa sentire forte, e il cui progetto di vita
mantiene la sua competitività rispetto al matrimonio), se anche apre il cammino per uscire dalla
subordinazione, non supera tuttavia pienamente le difficoltà che si frappongono lungo la via della
parità.

4. Alcune considerazioni conclusive


Il nostro esame ci ha permesso di vedere come il frutto apparentemente più notevole della
visione cristiana del femminile sia l’indiscussa parità di uomo e donna sul piano della vita spirituale. In
realtà, questa parità era già riconosciuta dal mondo antico. Quanto alla parità, cui fa riferimento Gal
3,28 e che oggigiorno suscita tanto interesse in relazione alla questione dell’ordinazione delle
donne, una parità per così dire «di statuto», e quindi socio-culturale, ebbene, forse il testo paolino
va semplicemente letto alla luce dell’universalismo stoico e dei suoi ideali di superamento di
qualsiasi logica di classe o di casta. Con verosimiglianza, la «novità» della visione cristiana non va
dunque cercata neppure qui, e quindi in tutta la tradizione epistolare del NT. Eppure una novità
sembra nondimeno esserci, rispetto al mondo antico: ed è la assoluta «parità personale» con cui,
nei vangeli canonici, Gesù è presentato relazionarsi alle donne, non trattandole in alcun modo
diversamente da come egli si pone nei confronti delle figure maschili. La novità è questa: un
rapporto con l’universo femminile da persona a persona. I Padri della Chiesa l’hanno in qualche caso
intravisto; ma poi, condizionati dal proprio universo culturale, non sono stati capaci di valorizzare
appieno questa profonda rivoluzione spirituale operata da Gesù.

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V
I caratteri generali della polemica anticristiana antica

1. Le coincidenze tra cristianesimo e filosofia antica


Tra filosofia antica e cristianesimo non mancano certo punti di contatto.
a) Nella conclusione del dialogo Octavius di Minucio Felice, il sostenitore del cristianesimo
dice le seguenti parole a proposito dei rapporti tra la nuova religione e i filosofi greci: «Noi ci vantiamo
di aver raggiunto ciò che essi avevano cercato con il massimo sforzo, ma non avevano potuto
trovare» (38,6);
b) Andando oltre, Giustino arriva ad esprimere un notevole apprezzamento: «Coloro che
sono vissuti con il Logos, erano cristiani, anche se li si considerava atei, come tra i greci Socrate ed
Eraclito» (I Apologia 46,3);
c) Dunque, l’apologetica cristiana riconosce, da un lato, nel cristianesimo il compimento definitivo
della religiosità antica, e dall’altro, nella religiosità antica una qual preparazione del cristianesimo.
Sembrerebbe allora che il cristianesimo sia la continuazione in linea retta e la conclusione culminante
della filosofia antica, e che esso conquisti la soluzione definitiva dei grandi problemi del mondo e della vita.
Nei secoli successivi, da parte cristiana si metterà in rilievo soprattutto la riconciliazione della cultura
greca con la religione cristiana, nel senso in cui la concepiscono un Clemente Alessandrino, un
Basilio o un Sinesio, dimostrando sia quanti elementi della religione classica siano confluiti nel culto
cristiano, sia con quanta efficacia la filosofia greca abbia contribuito alla formazione della dogmatica
cristiana;
d) Indubbiamente, tale concezione cela in sé elementi di verità. La filosofia greca, scuotendo il
politeismo antico, svuotandone il tronco apparentemente ed esteriormente sano, prepara
effettivamente la via al monoteismo, il cui sopravvento è uno dei principali obiettivi della missione
cristiana; lo prova, tra l’altro, il fatto che gli apologisti cristiani, nella loro lotta contro il politeismo,
prendano le armi più efficaci proprio dall’arsenale dei filosofi e dei poeti greci dell’epoca classica;
e) Tuttavia, l’evoluzione non è affatto così semplice e liscia: altrimenti, dovremmo aspettarci che
siano proprio i filosofi a salutare per primi la nuova religione e a restarne conquistati. E invece,
sono per l’appunto i circoli filosofici a opporre la resistenza più lunga e tenace;
f) Il fatto notevole di tutto ciò è che le due «parti» avverse abbiano in realtà una mentalità
largamente simile, quella della cultura religiosa della bassa antichità. Entrambe – al di là di questioni
terminologiche o di sfumature teologiche – credono in un dio supremo, fondamento primo di ogni
essere, sorgente di ogni bene, padre e sostentatore di tutto ciò che vive, cui è subordinata una
schiera di spiriti (li si chiami dei, dèmoni o angeli, poco importa); entrambe le parti credono in una
provvidenza, in rivelazioni e miracoli; entrambe ricorrono all’interpretazione allegorica della tradizione
religiosa (per «recuperare», gli uni i miti e i valori epici, gli altri i racconti dell’AT); entrambe si
preoccupano di un ordinamento morale della vita, del primato dello spirito o dell’anima di fronte al corpo;
entrambe ammettono una vita eterna; entrambe mirano a un’armonia con il divino, la cui forma più alta
si ravvisa nell’unione con la divinità, la unio mystica (e le descrizioni di quest’esperienza che si

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trovano negli autori delle due parti si assomigliano a tal punto da potersi scambiare, come nel caso
di Plotino e di Agostino).

2. Le obiezioni: caratteri generali


Ma allora, viene da domandarsi, perché esse si oppongono a vicenda con tanto accanimento,
perché mai una simile reciproca avversione?
a) Anzitutto, occorre dire che in questa sede noi consideriamo la filosofia antica e il
cristianesimo come due unità omogenee. Infatti, per quanto la filosofia antica sia a quest’epoca ormai
divisa in numerose scuole e anche il cristianesimo presenti al proprio interno una serie di chiese tra
loro scisse, tuttavia quanto divide le due maniere di pensare è così profondo da far scomparire le differenze
più sottili tra le singole correnti nei due grandi sistemi di pensiero, di fronte alla concordanza di
ciascuno nella fondamentale concezione del mondo e della vita;
b) Le nostre fonti più importanti per le obiezioni sollevate contro il cristianesimo sono i resti
degli scritti che gli antichi oppositori della nuova religione hanno composto tra II e IV secolo; una
letteratura che va integrata con le testimonianze gentili riportate e conservate dalla apologetica
cristiana;
c) In particolare, andranno ricordati il Discorso vero di Celso (ultimo quarto del II secolo,
conosciuto attraverso la confutazione fattane da Origene una settantina di anni più tardi, intorno
alla metà del III secolo), il Contro i cristiani di Porfirio di Tiro (in 15 libri, composto poco dopo il al
270), il Contro i Galilei di Giuliano Imperatore, detto l’Apostata (composto negli anni 362/363).
Tutti e tre questi autori prendono le mosse dal platonismo imperiale, e forse la loro ostilità potrebbe
essere anche in qualche misura collegata con un certo interessamento, nel senso che, come seguaci di
una filosofia spiritualistica, possono fiutare una pericolosa affinità concorrenziale nel cristianesimo (si
pensi al topos di un «Platone cristiano» ante litteram);
d) Ma altrettanto severi nei loro giudizi sono stoici come Epitteto e Marco Aurelio, cinici
come Crescenzio (di cui ci informa Girolamo, nel Chronicon, ad a. Abr. 2170 = 150 d. C.), epicurei,
come forse Luciano di Samosata, e altri di ancora differente orientamento;
e) Le obiezioni, come si vedrà, sono di due tipi fondamentali: quelle «popolari» e quelle
«colte». C’è un punto in cui entrambi i tipi presentano notevoli punti di contiguità, ed è quello
relativo alle obiezioni etiche, siano esse più precisamente «etico-politiche» o «etico-sociali»;
f) Per quanto concerne le altre obiezioni «colte», esse restano del tutto estranee al mondo
del volgo; riguardano in particolare le scritture sacre e la dottrina dei cristiani, e finiscono con
l’assumere un rilievo fondamentale nella storia della riflessione teologica, nella misura in cui,
proprio a partire da tali obiezioni, l’apologetica cristiana dovrà venire elaborando una ermeneutica
della fede, che tenga conto della sfera degli argomenti di ragione, tanto per controbatterli come per
avvantaggiarsene;
g) Le obiezioni «storiche» riguardano la tradizione veterotestamentaria e quella neotestamentaria;
quanto a quest’ultima, in particolare la persona di Gesù e la maniera in cui le autorità cristiane, specie
evangelisti e apostoli, ne hanno parlato;
h) Le obiezioni «metafisiche» interessano le concezioni di Dio, del mondo e dell’umanità nella fede
cristiana. Con questo gruppo di obiezioni entriamo nel vivo della lotta tra mentalità antica e mentalità

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cristiana. In fondo, le obiezioni «storiche» toccavano solo posizioni periferiche: qui, viceversa,
emerge come il cristianesimo non si limiti a presentare divergenze nei confronti del mondo antico, bensì
rappresenti, rispetto ad esso, qualcosa di totalmente differente. Il mondo greco-romano si accorge ben
presto di ciò, e insieme della pericolosità politica della nuova religione: una «dottrina barbarica» o
una «temerarietà barbarica», come la si chiamerà, che esige dai propri seguaci il rifiuto del culto
tradizionale e che non nasconde la propria volontà di convertire a sé il mondo intero.

3. Le obiezioni popolari
Non si possono del tutto tacere le obiezioni sollevate dal volgo, e di cui ci parlano in special
modo le fonti cristiane.
a) Pensiamo all’accusa di fare banchetti incestuosi e orgiastici (ne dà una chiara illustrazione
Minucio Felice, Ottavio 9,6-7: «Si riuniscono per il festino in un giorno stabilito con tutti i loro figli,
le sorelle, le madri, persone di ogni sesso ed età. E là, dopo un copioso banchetto, quando
l’atmosfera del convivio si è riscaldata e l’ardore dell’ebrezza li ha accesi di una libidine incestuosa,
un cane assicurato a un candelabro viene aizzato con un bocconcino di carne [cf. anche Tertulliano,
Apologetico 7,1; 8,7], lanciato oltre il limite del guinzaglio, a slanciarsi in avanti e a saltare. Così, una
volta rovesciato e spento il lume [cf. anche Giustino, I Apologia 26,7], che fa da testimonio alla
scena, intrecciano col favore delle tenebre, che non conoscono il pudore, legami di una passione
innominabile, affidandosi all’incertezza del caso. Tutti sono pertanto incestuosi nella stessa misura,
almeno per la complicità se non per il comportamento effettivo, dal momento che per desiderio di
tutti, nessuno escluso, si desidera qualsiasi cosa possa accadere negli atti di ogni singolo
partecipante»); nella letteratura seria esse figurano appena (Celso 1,44; Porfirio, fr. 69 Harnack), e noi le
conosciamo solo dagli apologeti cristiani che le respingono (cf. Giustino, I Apologia 26,7; Taziano,
Discorso ai Greci 25; Atenagora, Supplica 3,1-2; 32-34; Teofilo, Ad Autolico 3,4; Tertulliano, Apologetico
7-8). Il loro fondamento era certo negli usi ripugnanti e orribili di alcune sètte gnostiche (come i
Barbelognostici, le cui orge sono descritte da Epifanio, Panarion 26,4-5), e nell’uso cristiano di
chiamarsi reciprocamente «fratelli» e «sorelle»;
b) Pensiamo all’accusa di adorare un dio dalla testa d’asino; un’accusa trasferita dai giudei (cf.
Giuseppe Flavio, Contro Apione 2,9; Tacito, Storie 5,4; Tertulliano, Apologetico 15; Celso 6,33.40) ai
cristiani (cf. Minucio Felice, Ottavio 9,3; Tertulliano, Apologetico 16) con questo complesso d’idee
pare debba essere connesso in qualche modo il cosiddetto «crocifisso a testa d’asino del Palatino»,
conservato a Roma), e che andrebbe collegata ad un aspetto del culto della setta gnostica degli Ofiti
(«Onoel», uno dei sette arconti o dei planetari);
c) Pensiamo all’accusa di antropofagia (cf. Minucio Felice, Ottavio 9,5: «Quanto all’iniziazione
di giovani neofiti, le voci che circolano sono tanto ripugnanti quanto note. Un bimbetto coperto di
farina, perché tragga in inganno gli sprovveduti, è collocato davanti alla persona da iniziare al
culto. Ebbene, questo fanciullo viene ucciso dal neofita con colpi inferti alla cieca e non
localizzabili. Poi – che azione sacrilega! –i presenti leccano avidamente il suo sangue, fanno a gara
nello spartirsi le sue membra; sanciscono la loro alleanza con questa vittima e nella complicità si
impegnano a mantenere un reciproco silenzio»): ricorre in Taziano, Discorso ai Greci 25; Atenagora,
Supplica 35; Teofilo, Ad Autolico 3,15; Minucio Felice, Ottavio 9,5; Tertulliano, Alle Genti 1,7,23ss. E’

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evidente come questa accusa nasca da un’erronea interpretazione del banchetto eucaristico, la cui
partecipazione viene permessa solo a chi ha compiuto il cammino di iniziazione catecumenale e i
cui riti sono sottoposti al segreto che caratterizza la disciplina dell’arcano;
d) Pensiamo all’accusa di onorare i genitali di Cristo, come organi della riproduzione di colui
che ti ha generato. Per quanto Minucio Felice, Ottavio 9,4 sia il solo apologista a ricordare questa
accusa, in effetti pare che taluni gruppi gnostici cristiani avessero un culto fallico di Cristo (un
culto sorto probabilmente dall’intreccio tra il culto fallico proprio di alcune forme di religione
gentile e l’idea di generazione spirituale «in Cristo»);
e) Diverso è il caso delle accuse di ateismo ed empietà, di misantropia e asocialità, ecc., che il
volgo condivide con i circoli colti, e di cui ci si appresta a trattare.

4. Le obiezioni «etico-politiche» dei ceti colti


Come abbiamo in precedenza detto, tra accuse popolari e critiche mosse dai circoli colti,
esiste un qual rapporto. Se questi ultimi rifiutano, in genere, di prestare fede alle specifiche accuse
del volgo, nondimeno si riconoscono nel sentimento di ostilità che questo nutre nei confronti dei
cristiani, e si preoccupano di interpretarlo, perché la condanna dei seguaci della nuova religione
possa ricevere un più fermo e razionale fondamento.
a) l’»ateismo» dei cristiani e i doveri politico-religiosi
1) L’accusa più popolare contro i cristiani era quella di ateismo. Essa parrebbe dovere
rientrare tra le obiezioni «metafisiche», e non si può tacere sul fatto che oggigiorno ci risulta anche
qualcosa di curioso. Ma, se consideriamo la stretta fusione di religione e politica nel mondo antico,
allora comprendiamo che quest’accusa, più ancora che riguardare un errore d’ordine teoretico,
concerne la sfera della condotta pratica;
2) «Osservare gli dei che la città osserva» è un dovere universale nel mondo antico, e che si sottrae
ad esso commette senza dubbio un atto empio e irreligioso. Mentre l’ateismo teorico e filosofico non
viene punito (anche se gli atei non erano poi molti), ed è possibile negare qualsiasi intervento degli
dei nel mondo, non è ammesso che ci si rifiuti di prendere parte ai culti dello stato. A tale proposito, il
comportamento dei cristiani viene gravemente giudicato sia dal popolo che dagli intellettuali, ed
entrambe le parti vi ravvisano un delitto di lesa maestà nei confronti della persona del sovrano;
3) Da «atei» a «sovversivi» il passo è breve. D’altronde, il carattere «rivoluzionario» dei
cristiani ha nella stessa loro origine giudaica un qual fondamento. L’irriducibile ostinazione di
questi ha nei loro «progenitori» un esempio straordinario; con la sola differenza, di fatto un
aggravante, che ora la fede cristiana ha uno slancio universalistico che il giudaismo non riesce
comunque a comunicare, e forse neppure intende propriamente avere. Di qui le abituali accuse di
essere «nemici pubblici», di «odiare il genere umano», di «disdegnare lo stato», di essere seguaci di «una
nuova irragionevole forma superstiziosa di religione» giudicata «funesta e odiosa».
b) le accuse etico-sociali
1) Strettamente affini alle obiezioni politiche, sono quelle di natura etico-sociale. Tutto il
movimento ha un carattere plebeo. Questo gli è stato impresso sin dalle sue origini: non per niente il
suo fondatore fu un uomo ignoto di basso stato, se non addirittura figlio illegittimo di una donna
ripudiata dal marito per infedeltà, in un angolo del piccolo paese dei giudei. Corrispondentemente a

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queste sue origini, egli guadagnò a sé seguaci dai ceti più bassi, come pubblicani e pescatori. Anche
in seguito, il cristianesimo continuò a rivolgersi a persone poco elevate e poco colte; anzi, chiamò a sé i
peccatori e altri individui della peggior plebaglia;
2) Il Dio dei cristiani invita sì all’umiltà, ma ricorrendo alla paura e al terrore (Celso); si occupa
non solo di ammalati, ma solo di ammalati, quasi che i sani debbano tenersene lontani (Porfirio); se
il solo lavacro dell’acqua può cancellare anche gravi delitti, ebbene, questo allora è un invito a
commettere delitti (Porfirio); se uno prega per i peccatori e prova compassione di loro, non può
esservi altro motivo se non che egli pure è un malfattore: questo, per l’appunto, deve essere il caso
dei cristiani (Giuliano);
3) Al carattere plebeo della nuova religione corrisponde anche la posizione dei cristiani nei
confronti della povertà e della ricchezza: si tratta di una posizione irragionevole, irrealizzabile, che rivela un
mal celato disprezzo per tutti i valori di questo mondo, dalla cultura alla bellezza, dalla scienza
all’onestà; pare quasi che i poveri disonesti e ignoranti siano più virtuosi dei ricchi onesti e istruiti,
e una tale dottrina non può che portare alla rovina della vita umana;
4) Da ultimo, i polemisti gentili rimproverano i cristiani di accogliere come ispirate le
scritture sacre dei giudei, ma poi di fatto di contraddirle di continuo, come già fece il loro
fondatore. Seguendo l’insegnamento di Gesù, infatti, si finisce con l’allontanarsi dalla legge di Mosè; i
cristiani pure se ne rendono conto, ma tentano costantemente di eludere la difficoltà, seguendo di
volta in volta la soluzione che a loro conviene.

51
VI
La «storicità» della fede: La reazione gentile, i cristiani e la Bibbia

La nostra attenzione s’appunta ora sulle cosiddette obiezioni «storiche», che riguardano la
tradizione veterotestamentaria e quella neotestamentaria; quanto a quest’ultima, in particolare la
persona di Gesù e la maniera in cui le autorità cristiane, specie evangelisti e apostoli, ne hanno parlato.

1. I cristiani e la tradizione veterotestamentaria


a) Contro l’uso cristiano delle scritture ebraiche, gli avversari gentili tendono per prima cosa a
squalificare gli stessi testi della tradizione giudaica; poi, comprendendo che per i cristiani sussiste un nesso
fortissimo tra mantenimento dell’AT e profezie messianiche, cercano di dimostrare che quelle profezie non
si adattano affatto alla persona e al destino del Gesù storico. Quindi, la critica si indirizza verso il
legame con la radice giudaica della nuova religione, che fa dei cristiani una sorta di novelli giudei, con tutta
la negatività che si accompagna a un simile «statuto»;
b) La critica mossa al cristianesimo viene così a comprendere anche un carattere tipico della
polemica antigiudaica, ossia la megalomania, secondo cui il popolo e la storia degli ebrei (e, quindi,
dei cristiani) costituirebbero il centro e insieme il punto cardinale del corso universale delle cose, la vera
sapienza universale, fonte di tutte le altre sapienze. Obietta Celso: 1) che il popolo degli ebrei,
rannicchiato in un angolo della Palestina, non ha mai prodotto alcunché di notevole; 2) che
soltanto l’ignoranza dei popoli vicini ha potuto convincere gli ebrei di essere il popolo più antico e
sapiente della terra; 3) che molte delle sue usanze più importanti, esso le ha tratte in realtà dagli
egiziani; 4) che molti racconti storici dell’AT sono o ripugnanti o addirittura fantastici, comunque
adatti a gente ignorante. Porfirio, da studioso erudito e diretto conoscitore dei testi sacri, aggiunge
a queste obiezioni quelle della critica filologica, respingendo l’alta antichità della storia e della
letteratura degli ebrei: 1) è impossibile che sia stato Mosè a scrivere l’intero Pentateuco; esso è stato
composto da Esdra, 1180 anni più tardi; 2) il libro di Daniele fu composto solo nell’epoca di
Antioco IV, nel 164 a. C. (con ciò, il nostro in effetti precorre uno dei risultati più importanti della
moderna ricerca storico-critica); 3) la storia di Giona è del tutto incredibile e priva di fondamento
alcuno. Giuliano va ancora oltre, mettendo in rilievo in special modo: 1) il tanto vantato Decalogo,
a parte il comando di osservare il sabato e di adorare Dio solo, non contiene che norme ovvie, che
si ritrovano in qualsiasi legislazione; anzi, le leggi di altri popoli rivelano uno spirito più
umanitario; 2) gli ebrei, che si servono delle scienze ellenistiche in ogni campo, non possono
dunque ritenersi sede della sapienza e della cultura;
c) Le stesse idee religiose contenute nell’AT sono un segno dello scarso valore dell’universo culturale
e spirituale dei giudei. Al riguardo, osserva Celso: 1) che la loro concezione cosmologica, ossia il
racconto della creazione, è semplicemente puerile; 2) che non meno infantile è la loro idea di
«Dio», un Dio che prima si stanca nel creare il mondo, e poi si pente e minaccia di distruggere le
proprie creature. E Porfirio si chiede che senso abbia che Dio proibisca, nel racconto del peccato
originale, di conoscere non dico il male, ma anche il bene. Dal canto suo, Giuliano rileva: 1) la

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mancanza d’unità propria del racconto della creazione (le azioni con cui si esprime il «creare» di
Dio sono differenti, e senza che ne sia chiara la ragione); 2) la storia del paradiso e del peccato sono
addirittura blasfeme, perché attribuiscono a Dio ignoranza e invidia; 3) la storia della torre di
Babele e della confusione delle lingue sta sullo stesso piano del mito greco degli Aloadi, assediatori
dell’Olimpo; 4) la storia degli ebrei è ben lontana dall’essere edificante, e non consente loro di
ritenersi un «popolo eletto» da Dio;
d) Come già ricordavamo sopra, i gentili reputano che le profezie dell’AT non si adattino affatto
alla persona e al destino del Gesù storico. Celso lo dichiara apertamente; per Porfirio, sulla scorta delle
sue analisi sul libro di Daniele, il profetismo in realtà non parla di cose future, ma solo di cose
passate; e Giuliano ricorda, con non celata asprezza, come, secondo i giudei, Dio avrebbe disposto
la storia universale a loro vantaggio in un modo così esclusivo, che per gli altri non rimarrebbe
praticamente niente: fanno dunque male i cristiani a pensare che nel progetto di Dio di cui parlano
le scritture ebraiche ci sia spazio anche per la realtà della Chiesa;
e) Nel complesso, la critica contro l’AT intende dimostrare: a) che le scritture giudaiche non
risultano essere, né per età né per contenuto, un’autorità religiosa superiore alle religioni di altri
popoli; b) che i cristiani, restando attaccati ad esse, si mettono nella situazione più imbarazzante,
perché l’AT in realtà non parla mai di loro, né lascia spazio ad una «rilettura cristiana» della Legge
(specie se si considera che il Dio dei cristiani non appare vendicativo, come quello dell’AT, ma
piuttosto un Dio di amore e di misericordia). E a tale riguardo, si pensi, se non altro, al grande
influsso esercitato dal marcionismo (da Marcione, che nel 144 rompe con la grande Chiesa, e la cui
dottrina finisce con l’avere grande diffusione), che respingeva l’AT e subordinava il Creatore dei
giudei al Dio cristiano.

2. I cristiani e le scritture del Nuovo Testamento


a) Il principale bersaglio della critica resta comunque il NT (del quale si reputa ancora che faccia
parte anche l’Apocalisse di Pietro). La critica si rivolge contro gli evangelisti e i due apostoli principali,
Pietro e Paolo, e in misura molto minore contro la persona di Gesù stesso;
b) Non si affaccia il minimo dubbio sulla storicità di Gesù, e lo si paragona volentieri non alle
figure mitiche, bensì al personaggio storico di Apollonio di Tiana. Gli attacchi riguardano semmai
quanto di lui viene raccontato, con l’evidente intenzione di scaricare la sua venerabile persona. Tuttavia,
sono fermamente respinte sia la natura che la trascendenza divine della sua persona;
c) Le obiezioni ai racconti degli evangelisti riguardano anzitutto la loro attendibilità. Celso
biasima la mancanza d’unità della tradizione, che è in uno stato permanentemente fluido, così che ogni
volta si ricorre a nuove modifiche con lo scopo di invalidare le obiezioni mosse. Porfirio rincara la dose,
affermando che gli evangelisti sarebbero semplicemente «inventori» e non «narratori» dei fatti accaduti
intorno a Gesù: lo provano le numerose contraddizioni presenti nei vangeli, anche quando raccontano il
medesimo episodio, offrendo così l’immagine di qualcosa che è stato ricostruito prescindendo dai fatti
reali, in maniera fantasiosa (in particolar modo, egli rileva ciò nei racconti pasquali: ad esempio,
Giovanni solo, in mezzo al generale silenzio dei sinottici, testimonia come al Crocifisso non siano
state rotte le ossa, ma gli sia stato aperto il fianco con una lancia; ora, all’evangelista che intende
accreditare il proprio resoconto dei fatti invocando l’autorità della «testimonianza oculare»,

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Porfirio obietta che in realtà si ha qui l’applicazione, alla persona del Cristo «agnello di Dio», di
una prescrizione relativa al trattamento dell’agnello pasquale, di cui parlano salmi e profeti,
cogliendo dunque il procedimento esegetico-tipologico-profetico, con cui i cristiani mirano a dimostrare che
Gesù è il Messia della attesa);
d) La critica dei gentili si indirizza contro i racconti, giudicati leggendari, della nascita miracolosa
di Gesù. Celso liquida il parto verginale richiamando i seguenti elementi: 1) l’affermazione, peraltro
al tempo diffusa, che padre di Gesù sarebbe stato in realtà un soldato romano, di nome Pantheras;
2) il fatto che del resto siano gli stessi evangelisti ad alludere all’infedeltà di Maria (cf. Mt 1,18ss);
3) la storia della nascita verginale di Gesù non è poi così differente da quelle narrate da svariati
miti, come quello di Danae, Melanippe, Auge e Antiope. Porfirio e Giuliano aggiungono, tra le
altre, anche obiezioni che hanno il loro fondamento nelle contraddizioni o nelle stranezze presenti nei testi
cristiani. Quanto al primo: 1) diversamente da Celso, egli non accetta la storicità del soggiorno
egiziano del bambino Gesù, rilevando il disaccordo cronologico tra la fuga in Egitto secondo
Matteo e la circoncisione/presentazione al Tempio; 2) nota la divergenza degli alberi genealogici di
Gesù secondo Matteo e secondo Luca. Quanto al secondo: 1) la stella sopra Betlemme va
semplicemente identificata con la stella mattutina, e del resto non mancano analogie in simili
racconti;
e) Inverosimili sono pure taluni eventi particolarmente significativi della vita di Gesù. A tale
proposito, Porfirio fa presente: 1) il contrasto che corre, da un lato, tra la voce del cielo che, al
battesimo di Gesù, lo dichiara figlio di Dio, e, dall’altro, la ferma intenzione di Gesù di tenere
segreta la propria qualità di Messia; 2) come sia un controsenso che Gesù, pur potendo contare
sugli angeli, rifiuti di buttarsi dal tempio, specie se questo può servire a dimostrare che egli è figlio
di Dio. Aggiunge Giuliano: 1) il monte su cui Satana ha condotto Gesù non poteva essere «alto»,
come invece si dice, dato che nel deserto neppure vi sono monti; 2) gli evangelisti parlano di
«quaranta giorni» di digiuno, per attribuire a Gesù ciò che le Scritture già dicono a riguardo di
Mosè (cf. Es 24,28) e di Elia (cf. 1Re 19,8); 3) della lotta di Gesù al Getsemani, né Luca, perché era
assente, né i discepoli, perché erano immersi nel sonno, possono in realtà riferire qualcosa di certo;
f) Del tutto incredibili appaiono poi ai critici antichi i racconti relativi alla resurrezione, con le
loro numerose contraddizioni raccolte da Giuliano, presumibilmente sulle orme di Porfirio. Di per
sé il problema non è neppure rappresentato dal fatto in quanto tale della resurrezione, dal momento che
anche il mondo greco può offrire parecchi esempi di ciò; la costernazione, semmai, la si prova dinanzi alla
poca chiarezza e all’insufficiente documentazione che accompagnano l’evento. Celso si sofferma su due
fatti: 1) che in ultima analisi tutta la storia prende le mosse da una visione di una donna esaltata o
dal sogno fantastico di un qualche seguace di Gesù (e a tale proposito, Giuliano richiamerà
l’usanza giudaica di pernottare in un monumento sepolcrale per avere dei sogni); 2) che se la
resurrezione di Gesù intendeva trovare credito, allora egli sarebbe dovuto apparire non «come
ombra» e «in segreto», ma pubblicamente, davanti a tutti e in special modo ai suoi giudici e
maltrattatori. Nella stessa direzione, Porfirio, che rileva come Gesù sia apparso solo a personaggi
in sostanza insignificanti, e a nessuno dei suoi accusatori;
g) Non meno sconcerto provocano, agli occhi di Celso, i racconti dei miracoli compiuti da
Gesù: e non perché egli non potesse avere la forza di compierli, quanto piuttosto per la pretesa, a partire da

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essi, di adorare la sua persona come se fosse quella di un Dio, quando invece miracoli e prodigi rientrano tra
le abituali attività di molti maghi, e in particolare di quelli egiziani; si pensi che è lo stesso Gesù a
ricordare come anche Satana possa operare miracoli. Porfirio, sempre fedele alla propria prospettiva,
mette in rilievo la contraddittorietà di taluni racconti, come quello dell’espulsione dei dèmoni da un
posseduto e la loro successiva entrata in un branco di porci; il racconto non solo è puerile, ma pure
costituisce un’invenzione poetico-storica, una ben congegnata finzione: come potevano trovarsi tanti
porci in un paese in cui tale animale era da sempre considerato impuro? come hanno potuto tutti
affogare, se si tien conto della bassezza del livello dell’acqua del lago (definito «mare», quando una
tempesta ivi è del tutto inverosimile)? E’ evidente che, nella migliore delle ipotesi, si ha a che fare
con una palese esagerazione. Per non parlare dei miracoli promessi da Gesù ai credenti, quando è la
stessa Chiesa che non osa mettere alla prova in tal senso nemmeno i propri ministri;
h) Gli attacchi si estendono anche alle parole di Gesù. Porfirio sottolinea la contraddizione che
corre tre le parole pronunciate da Gesù a Betania: «me, non mi vedrete per sempre», e quelle altre,
dette in occasione della sua ascensione: «io sono con voi sempre, fino alla fine del mondo» (un
discorso che si potrebbe estendere ad altri esempi, sempre in Porfirio);
i) La personalità storica di Gesù, almeno finché non si tratti propriamente di cristologia, resta,
come si vede, piuttosto in secondo piano. Se per i suoi discepoli egli è una sorta di «Dio», ai greci
appare semplicemente un maestro e un operatore di miracoli; e in entrambe le cose non c’è nulla di
così nuovo da giustificare un simile entusiasmo nei suoi confronti. Luciano, che forse pensa a
Paolo come primo legislatore cristiano, chiama Gesù «sofista crocifisso», e Celso lo definisce,
aspramente, come «millantatore e stregone», e pure «bugiardo ed empio». Per Porfirio la colpa sta
invece nei discepoli, che hanno voluto mitizzarne la figura, di per sé veneranda, cadendo viceversa in
una serie di grossolane contraddizioni, il cui unico effetto è quello di squalificare la verità dei fatti
relativi al loro fondatore.

3. Pietro e Paolo
a) Mentre né Celso né Giuliano volgono la propria attenzione sulle più alte autorità della
comunità cristiana, ossia gli apostoli Pietro e Paolo, viceversa Porfirio, nel suo più sistematico attacco
e nella preoccupazione di scaricare la figura di Gesù, consacra ai due una serie di analitiche
obiezioni;
b) Quanto al capo degli apostoli: 1) è inconciliabile che Pietro prima sia colui che è definito
come «la pietra» su cui edificare la Chiesa e indicato come responsabile delle «chiavi del regno», e
subito dopo sia chiamato «Satana», perché il suo modo di pensare è di scandalo; 2) egli è provvisto
di carattere labile, come mostrano numerosi episodi della sua vita: durante l’arresto di Gesù, non
osserva il comando del perdono, ma taglia l’orecchio ad un servo innocente del sommo sacerdote;
lui, che aveva promesso eterna fedeltà al proprio maestro, poi si maschera, e per paura lo rinnega,
giurando il falso per ben tre volte, e al cospetto di una povera schiava; e altrettanto vale per il suo
comportamento nei confronti di Ananìa e Saffìra, che fa morire per una ragione futilissima; 3) va
poi ricordata la sua «eroica» fuga dalla prigione: gli era stato insegnato di disprezzare la morte, ma
egli preferisce far mettere a morte i suoi custodi; 4) Gesù lo aveva scelto perché pascesse il suo
gregge, ma presto venne crocifisso, per quanto il maestro avesse assicurato che le porte degli inferi

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non avrebbero prevalso su di lui; 5) è stato capace, in ragione del suo ambiguo e incoerente modo
d’agire nei confronti della legge giudaica, di attirarsi anche il biasimo di Paolo. Orbene, se costui è
addirittura il capo della Chiesa, che pensare di Gesù, che l’ha scelto, e dei suoi compagni, che a lui si
affidano?
c) Quanto all’Apostolo delle genti (accettando come autentiche tutte le lettere attribuitegli
dalla Tradizione): 1) Paolo è incoerente, teatrale e finto, quando da un lato chiama la circoncisione
«recisione» e biasima coloro che si fanno circoncidere, e dall’altro pratica l’uso che egli stesso ha
condannato, ad es. nei confronti di Timoteo; 2) l’affermazione di Paolo – secondo la quale egli, da
libero che è, si fa schiavo di tutti, per essere greco coi greci e giudeo coi giudei – è la testimonianza
di una mente disturbata; 3) Paolo è un ipocrita, perché dinanzi ai giudei si definisce un giudeo di Tarso
educato alla stretta osservanza della Legge, mentre dinanzi al tribunale romano si proclama «cittadino
romano», mostrando così di non volersi compromettere con alcuno, e di essere insincero, quando
poi afferma: «io dico la verità in Cristo e non mento»; 4) come tutte le persone incolte, Paolo è uso
contraddirsi di continuo, richiamando ora l’osservanza della Legge e ora la libertà dalla Legge: lo provano
numerosi esempi, come i suoi insegnamenti sul matrimonio e sulla verginità, che si annullano a
vicenda e al cui riguardo sostiene cose diverse; 5) Paolo ha commesso un «errore madornale», quando ha
insegnato, e lui stesso creduto, la dottrina dell’imminente parusia del Signore, con tutti gli annessi e
connessi; egli che dice di volere «giudicare gli angeli», è stato decapitato a Roma, mostrando come
la sua speranza non fosse altro che «un sofisma sbagliato». Se da un lato Porfirio intuisce con lucidità
taluni punti deboli della personalità e della teologia paoline, d’altra parte occorre pure riconoscergli una
notevole animosità nei confronti dell’Apostolo.

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VII
Le principali obiezioni «metafisiche» del pensiero antico al cristianesimo

Le obiezioni «metafisiche» interessano le concezioni di Dio, del mondo e dell’umanità nella fede
cristiana. Con questo gruppo di obiezioni entriamo nel vivo della lotta tra mentalità antica e mentalità
cristiana. In fondo, le obiezioni «storiche» toccavano solo posizioni periferiche: qui, viceversa,
emerge come il cristianesimo non si limiti a presentare divergenze nei confronti del mondo antico, bensì
rappresenti, rispetto ad esso, qualcosa di totalmente differente. Il mondo greco-romano si accorge ben
presto di ciò, e insieme della pericolosità politica della nuova religione: una «dottrina barbarica» o
una «temerarietà barbarica», come la si chiamerà, che esige dai propri seguaci il rifiuto del culto
tradizionale e che non nasconde la propria volontà di convertire a sé il mondo intero. Vediamo ora
più da vicino le principale critiche mosse contro il cristianesimo.

1. Logos e pistis
a) Non c’è dubbio alcuno che gli apologisti cristiani presentino la propria fede come una sorta di
filosofia; e che gli ambienti colti gentili siano disposti, in linea di principio, a riconoscerle questa «qualità»,
se non altro in forza dei contenuti spirituali, etici e religiosi propri di questa nuova dottrina. Ma per
gli antichi, compito della filosofia, diversamente dalla pratica cultuale, è cercare di conoscere e di
dimostrare con l’uso della ragione: in questa prospettiva, il dubbio può per davvero essere
considerato la sorgente di ogni filosofia;
b) Viceversa, il cristianesimo, in linea con il giudaismo da cui discende e di cui adotta le
principali categorie valoriali e spirituali, fa professione aperta del primato della pistis, ossia della
«fede», sul logos, vale a dire la «ragione». Alla nuova fede ecco che i gentili continuamente
rimproverano questa «pretesa della fede», questo «chiudere gli occhi dinanzi alla ricerca razionale»,
questo «rifiuto a indicare il fondamento teoretico delle proprie asserzioni»; insomma, questo
«atteggiamento dogmatico», così contrastante con tutta la tradizione di pensiero antica;
c) Galeno critica giudei e cristiani, considerati assieme, per le «leggi non dimostrate» che
formulano; Luciano di Samosata dice che i cristiani accettano le loro dottrine «senza alcuna
dimostrazione più precisa»; Celso ravvisa la differenza tra greci e barbari proprio nel fatto che di
«inventare dogmi» sono capaci anche i secondi, ma solo i primi sono in grado anche di «giudicarli
e motivarli». I cristiani si limitano a dire: «non indagare, ma anzitutto credi», oppure: «la tua fede
ti salverà», o ancora: «credi, se vuoi salvarti; oppure, levati di mezzo». Essi non vogliono dare né
ricevere spiegazioni della loro fede, «bensì credono senza ragione». Non diversamente, Porfirio
sostiene che il cristianesimo è una «fede infondata e non dimostrata>;
d) Parallelamente all’esclusiva esigenza della fede si manifesta il disprezzo per il sapere, per
«la sapienza del mondo». I cristiani, asserisce Celso, la squalificano: «la sapienza è un male nel
mondo, la stoltezza un bene»; ed è appunto questo il motivo per cui si rivolgono (solo di
preferenza, a onor del vero) a persone incolte – semplici, schiavi, donne e bambini. Su tutto ciò,
Celso fa del sarcasmo. E ancora: ma perché mai dovrebbe essere male studiare e conoscere?

57
«Naturalmente, per i cristiani la scienza è un male e la conoscenza mette in pericolo la salute
dell’anima», ricorda. Parimenti, Porfirio è costernato dinanzi alle parole di Gesù che loda il Padre
per avere rivelato i misteri divini ai semplici e agli umili, e non ai colti e ai sapienti: con quelle
parole sembra quasi che egli abbia di proposito voluto «nascondere ai saggi il raggio della
conoscenza» e insegnare che occorre, viceversa, «mirare all’irragionevolezza e all’ignoranza».
Giuliano giunge ad affermare che il cristianesimo, nel suo complesso, si rivolge alla parte infantile,
illogica e assetata di favole dell’anima, cui riesce a rendere credibili le proprie storie miracolose;
e) Ma questa gente, che si vanta della propria bassezza e mancanza di cultura, rivela anche
una nascosta superbia, in quanto afferma di essere in realtà nell’esclusivo possesso della vera rivelazione:
«Dio ci rivela e ci annuncia tutto in anticipo: egli ha abbandonato i cieli roteanti e, senza alcun
riguardo per la grande terra, forma con noi soli uno stato, a noi soli manda i suoi messaggeri e non
cessa di mandarceli, né di venirci a trovare, affinché noi abbiamo con lui un contatto continuo».
Essi pensano di essere i soli a sapere come si debba vivere, e a ciò va presumibilmente ricondotto il fatto
che, in nome di una felicità promessa, essi inducano i giovani a sganciarsi dalla propria famiglia e dai
propri insegnanti;
f) La netta opposizione tra conoscenza umana e rivelazione divina, e la costante subordinazione
della prima alla seconda, costituiscono dunque un aspetto di certo non trascurabile della visione cristiana
della vita, e un importante terreno di accuse per la parte gentile.

2. La rivelazione divina
a) La diversità fondamentale tra cristianesimo e pensiero religioso antico si coglie comunque in
special modo quando si passa ad affrontare temi più strettamente dottrinali. Il contenuto principale del
messaggio cristiano, alla luce delle Scritture ebraiche e cristiane, erano senza dubbio il monoteismo,
vale a dire la dottrina di un Dio onnipotente creatore del cielo e della terra, e la cristologia, ossia la
dottrina dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo;
b) Per quanto riguarda le idee sulla divinità, gli scritti degli apologisti ci permettono di
cogliere con facilità come il centro della propaganda cristiana sia la lotta contro il politeismo. I cristiani
non osano mettere in discussione l’esistenza degli dei, ma affermano che questi sono dèmoni appartenenti al
regno di Satana, e che chiunque partecipi al loro culto con preghiere e sacrifici, viene a trovarsi nella
loro compagnia (per l’appunto a motivo del rifiuto opposto a venerarne le immagini, i seguaci di
Gesù vengono considerati «atei» dal volgo). D’altro canto, essi stessi sostengono di venerare e
adorare l’unico Dio vero, creatore del cielo e della terra;
c) alla propaganda cristiana, l’apologetica gentile reagisce con vigore. Quanto a Celso: 1) contro
chi fa derivare l’impotenza degli dei dal fatto che l’oltraggio alle loro statue resta il più delle volte
impunito, egli fa presente che le raffigurazioni rappresentano semplicemente immagini commemorative di
esseri divini spiritualmente concepiti. La differenza tra angeli e dei, in questo senso, è solo questione di
terminologia; 2) contro gli attacchi all’antropomorfismo degli dei antichi, ricorda che anche il libro della
Genesi dice, a riguardo dell’uomo, che egli è stato creato a «immagine e somiglianza» di Dio; se poi i
cristiani non concepiscono con fattezze umane il loro Dio, tuttavia umani sono gli impulsi che
volentieri gli attribuiscono; 3) i cristiani mostrano di non capire che gli dei del politeismo non sono che
delle personificazioni spiritualizzate delle forze della natura e di idee morali, cioè delle molte sfere

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d’azione del dio unico che, metaforicamente parlando, troneggia sopra di loro e si serve di loro
come di strumenti della sua volontà. La divinità antica, elevata sopra ogni essere visibile, sprovvista
di forma, spirito puro e contemplabile solo in spirito, è priva di bisogni e soprattutto è incapace di fare
qualsiasi male. In questo senso, non diversamente dai cristiani, anche i gentili sono disposti a
chiamare il Logos «figlio di Dio»;
d) Su questa linea, Porfirio ribadisce come «sovrano unico», riferito a Dio, significhi non tanto
il fatto che non vi è altri all’infuori di sé, quanto piuttosto quello di regnare su altri esseri simili; in
questa prospettiva, è la stessa sovranità esclusiva di Dio a presupporre l’esistenza di una pluralità
di esseri divini subordinati;
e) Giuliano, presumibilmente sulle orme di Porfirio, elabora una vera e propria «filosofia della
religione». Secondo questa, la religione è qualcosa di comune «per natura» a tutti gli uomini e a tutti i
popoli, e quindi non abbisogna di essere appresa. La vera conoscenza di Dio resta comunque difficile, e
difficile da trasmettere, per quanto la contemplazione del cosmo costituisca un notevole aiuto in vista
del suo raggiungimento. Come i popoli finiscono per distinguersi in relazione a razza, lingua, leggi
e costumi, così è anche per la religione, che prende forma nelle svariate tradizioni religiose che si
conoscono, entrando in circolo con le altre note caratterizzanti di ciascun popolo. Eppure da tutto ciò
occorre distinguere Dio stesso, alla cui volontà tuttavia evidentemente corrisponde la venerazione delle
molte e diverse divinità popolari, dato che essa non l’ha mai impedita (di simile avviso, già Porfirio);
f) Da difesa, l’apologetica gentile si trasforma in accusa, quando sottolinea come neppure i
cristiani siano coerentemente e fino in fondo «monoteisti», se si considera come l’idea monoteistica sia in
parte compromessa da due dottrine concorrenti, quella della divinità del Figlio e quella del diavolo;
g) Ecco allora che Celso: 1) giudica un controsenso che Dio abbia abbandonato la propria sede e
sia sceso sulla terra, dal momento che l’Onnisciente non ha certo bisogno di conoscere in quel modo
le condizioni umane, né l’Onnipotente ha bisogno di mandare qualcuno per modificarle; 2) il suo
modo di fare rivela poca volontà di cambiare le cose, giacché egli manda sì uno spirito divino, ma in un
corpo mortale e limitato; 3) se il corpo di Gesù è mortale, come può essere risuscitato? E’ poi ben strano
che Dio si sia servito del grembo di una donna, e che abbia permesso che il suo inviato soffrisse tutte le
sofferenze che ha patito, inclusa persino la morte, e la morte di croce. Da ciò discende chiaramente la
assoluta indimostrabilità della sua divinità. Porfirio prima e Giuliano poi combattono la teoria giovannea
del Logos, sulla base di una singolare esegesi di passi cristologici dell’AT, che consente loro di
sostenere che la dottrina della divinità di Gesù è palesemente contraddetta dalle stesse Scritture ebraiche.
Infine, è bene ricordare come nella polemica gentile non si trovi pressoché alcun attacco alla
dottrina trinitaria, e in specifico a quella sullo Spirito Santo, quale Dio ugualmente personale e
quindi terzo accanto al Padre e al Figlio;
h) Il monoteismo cristiano ha una sua seconda limitazione nella dottrina del diavolo. Occorre
considerare come l’ellenismo giudichi contrario alla propria mentalità il solo abbozzo di un’idea
religiosa dualistica (come in effetti quella del diavolo, penetrata attraverso la Persia nel mondo
giudaico postesilico, e quindi nel cristianesimo). Come è possibile, si chiede Celso, che il sommo
Dio permetta l’esistenza di un essere operante contro di lui? Un essere, di fronte al quale egli stesso
resta impotente e perfino il figlio di Dio ha dovuto soccombere? Porfirio, dal canto suo, si
domanda come potrà essere giudicato «il principe di questo mondo», e dove potrà essere «gettato

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fuori>, quando non vi è altro mondo se non questo. E ancora non gli sono chiari né coma possa un
principio intellegibile e privo di corpo essere gettato in qualche luogo, né il senso della presenza
satanica, né infine la ragione del nome «calunniatore», che Satana porta.

3. I rapporti tra Dio e il mondo


a) Per il cristianesimo solo Dio è eterno, in immensa altezza sopra il mondo, sua creazione
peritura, che egli potrebbe di nuovo distruggere e anzi distruggerà, perché il peccato originale
dell’uomo ha turbato e corrotto il mondo nella sua perfezione. Per i cristiani, il mondo ha quindi un
principio e una fine; e la natura, quale creazione «caduta», è cattiva e difettosa in confronto a Dio, che
solo è buono e perfetto;
b) Per i greci, invece, già gli dei del mito stanno sopra la terra e non sopra il mondo: vale a dire,
essi sono immanenti all’universo, avendo dimora nei suoi tre piani, cielo terra e inferi. E anche se i
filosofi distinguono tra ciò che è terrestre e ciò che è celeste, tra umano e divino, tuttavia solo nel
loro insieme le parti costituiscono il «cosmo», che è ordinamento eterno ed universale, non creato da alcun
Dio né da alcun uomo. Risultano pertanto estranee alla mentalità greca tanto una «creatio ex nihilo» come
una fine assoluta del mondo. Il mondo infatti, secondo il mito, non «si crea», ma «diviene» nel
passaggio dalla precedente condizione di «caos»; e i filosofi parlano di periodi cosmici che si
distruggono e si rinnovano secondo le leggi di un ciclo comunque eterno; d’altro canto, l’universo finisce
con l’essere concepito come qualcosa di divino, che ha le sue leggi immanenti, cui è soggetta anche la
natura dell’uomo, quale parte del cosmo. In tutto ciò che produce e distrugge, la natura sa da sé
come operare;
c) La differenza tra l’immagine del mondo cristiana e quella greca consiste, dunque, nel contrasto
tra transitorietà del mondo (così i cristiani) ed eternità del mondo (così i greci). Lo sguardo dei greci è
quindi sempre diretto alla totalità del mondo, di cui l’umanità non costituisce che una piccola parte,
pur essendo l’uomo il più bello degli esseri viventi; mentre, secondo i cristiani, tutto il mondo è stato
creato per l’uomo;
d) Da queste due concezioni del mondo, l’antropocentrica dei cristiani e la cosmica dei greci,
derivano due concetti totalmente differenti della «provvidenza».Per i cristiani, il destino del mondo è
determinato da quello dell’umanità, e quindi la provvidenza divina si preoccupa di questa e della vita
di ogni singolo essere umano: la natura, la creazione decaduta non rivela che tracce confuse e
indistinte della sapienza di Dio, è destinata ad avere la propria fine ed è perciò divenuta quasi
antidivina;
e) Quindi l’operare di Dio non è riconoscibile «in senso assoluto» nella natura, ma «pienamente»
solo in forza della rivelazione soprannaturale, del «miracolo»: è questo che Tertulliano ha inteso
esprimere col suo insuperabile «credo quia absurdum est». Per i greci, invece, la provvidenza divina
agisce, dal di dentro della natura, formando e rendendo ogni organismo adatto al suo scopo e vitale,
ognuno secondo il proprio genere, pensando però sempre alla specie e senza preoccuparsi della
distruzione dei singoli (anche nel caso degli individui umani), che essa produce in gran quantità. E
dunque, se è concepibile un’immortalità dell’anima o dello spirito, non è accettabile né concepibile
una resurrezione della carne;

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f) Ai cristiani che proclamano l’onnipotenza di Dio, la quale si manifesta anzitutto nella
rottura del corso della natura attraverso il miracolo, Celso ribatte che Egli non può far nulla di male o
di malvagio, né può volere ciò che è contro la natura. Porfirio, sviluppando il concetto, afferma:
«Dio non può tutto. Egli non può fare che Omero non sia stato un poeta e che Troia non sia stata
distrutta: egli non può fare che due volte due, che sono quattro, facciano cento, anche se volesse
prendere questa decisione; e ugualmente, è incapace di fare del male, perché è buono per natura».
Dio è dunque sì onni-operante, ma non onni-potente, nel senso che il suo intervento può collocarsi solo
nel solco della natura, che di per sé è già buona e divina. Viceversa, per il cristiano, il miracolo non è
affatto una penetrazione più profonda nella natura divina, ma un intervento straordinario atto a soggiogare
la natura antidivina;
g) Se il mondo è eterno e non è creato, allora non c’è alcuna sua fine da attendere; affermare che
Dio possa mettere termine al mondo da lui stesso creato, significa sostenere che si è sbagliato, che ha
bisogno di disfarsi di qualcosa che imperfetto; ma se le cose stanno così, allora vuol dire che era
possibile un ordinamento migliore e più ragionevole, e tutto ciò non ha senso alcuno;
h) Anche la dottrina della resurrezione dei morti presenta numerosi problemi. Celso osserva:
1) anzitutto, va detto che non è qualcosa di specificamente cristiano, perché già fa parte delle
credenze del giudaismo; 2) non si capisce perché i cristiani attribuiscano tanta importanza alla
resurrezione del corpo, quando animo e spirito sono molto più preziosi; 3) Porfirio ironizza,
ricorrendo ad un esempio paradossale: quanti uomini periscono in mare; ora, il corpo di un
naufrago può essere mangiato dalle triglie; queste vengono pescate dai pescatori che le mangiano;
a loro volta i pescatori muoiono e vengono divoratti dai cani; ma muoiono anche i cani, per
diventare prede dei corvi e degli avvoltoi: « come potrà allora ricomporsi il corpo di quel naufrago
che si è dissolto in tanti esseri vivi?». E i cristiani non tirino in ballo l’onnipotenza di Dio, perché essa
pure è soggetta alla natura! I cristiani, così facendo, sottolinea Giuliano sulla scia di Porfirio, rivelano
l’incapacità di distinguere il possibile dall’impossibile e con ciò la loro estrema mancanza d’intelligenza
(occorre ricordare come, anche in questo caso, la Chiesa dei secoli successivi si appropri di questa
argomentazione porfiriana, bruciando gli eretici e disperdendone ai quattro venti le ceneri);
i) A monte di tutto c’è forse una questione più fondamentale, ossia la concezione antropocentrica
del mondo propria dei cristiani. Diversamente dalla cultura greca – una cultura che anche quando
affronta singole questioni relative pure all’uomo, nondimeno le esamina tenendo sempre presente
il cosmo e la natura come totalità –, tutto l’interesse dei cristiani si concentra sull’uomo. Si è dinanzi a
un vero e proprio spostamento del centro di gravità. Nessuno degli orientamenti filosofici dell’antichità
aveva mai affermato il primato dell’uomo sul cosmo, anche quando, dopo Socrate, l’uomo assume una sua
qual centralità; un primato dell’uomo secondo natura, quello dei cristiani, che diventa addirittura
assimilazione spirituale a Dio, sua figliolanza nel Figlio Gesù. Tutto ciò porta, secondo il giudizio dei
polemisti gentili, ad una svalutazione del mondo creato, più accentuata nei cristiani che non negli
ebrei, presso i quali viceversa il mondo animale è tenuto in maggiore considerazione da Dio stesso.
In questo senso, i polemisti gentili rimproverano al cristianesimo di «rompere quella successione di tutti gli
esseri nati» e quell’ininterrotta continuità delle specie, così necessaria alla conservazione del mondo;
l) Il concetto cristiano della provvidenza culmina nella dottrina della redenzione, in quanto
secondo tale dottrina non solo tutta la storia dell’umanità, ma anche la creazione di tutto il mondo e di

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tutta la natura, la sua conservazione e la sua fine sarebbero preordinate per quello scopo. Nel trattare
questo argomento, non bisogna naturalmente pensare alla teoria paolina della redenzione dal
peccato dell’uomo in forza del sacrificio della Croce, ma piuttosto a una redenzione/salvazione
consistente nella rivelazione del Dio vero, e con ciò della vera religione in e per mezzo di Gesù. Per mezzo
di lui, come esperienza globale, Dio vuole portare alla fede tutti gli uomini; l’evento pasquale e la
stessa resurrezione di Cristo acquistano il loro senso pieno, come fondamento della speranza
relativa alla resurrezione dei credenti. Di fronte alle prospettive aperte da quest’ultimo discorso, il
mondo antico non comprende, limitandosi a dichiarare, insieme con Paolo, la «follia» della fede
cristiana e dei suoi seguaci.

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VIII
La formazione di un metodo esegetico cristiano nei primi secoli

1. Inquadramento generale
a) Il cristianesimo, come il giudaismo, è religione del libro, in quanto la Sacra Scrittura,
considerata espressione della rivelazione di Dio a beneficio del suo popolo, vi occupa un posto
centrale, e ad essa deve essere uniformato ogni atto della vita del popolo di Dio, dalla dottrina alla
disciplina e alla liturgia, in senso sia collettivo sia individuale;
b) Ora, se teniamo presente che gli ebrei, per poter uniformare tutti gli atti della loro vita ai
dettami della Bibbia, l’avevano dovuta sottoporre ad un assiduo lavoro di interpretazione e di
adattamento, fu naturale per i fedeli della Chiesa nascente riprendere dal giudaismo, insieme con
l’AT, anche i relativi procedimenti ermeneutici e i modi di presentazione: per esempio, l’omelia,
momento importante della liturgia comunitaria, deriva dalla liturgia sinagogale;
c) Ma giudei e cristiani erano divisi proprio dall’apprezzamento di fondo del testo sacro: quelli vi
leggevano l’attesa del Messia, questi la dimostrazione che il Messia atteso era giunto nella persona
di Gesù.

2. L’approccio esegetico cristiano


a) Le polemiche di qui scaturite spingono da parte cristiana ad un ulteriore approfondimento
dell’AT, di cui si comincia a dare lettura in chiave cristologica. Tale lettura non soltanto impone di
interpretare le tradizionali profezie messianiche come realizzate in Cristo, ma suggerisce anche a
Paolo e ai suoi seguaci di reinterpretare la Legge in senso cristologico, cioè spirituale, alla luce della
contrapposizione lettera/spirito, e li spinge a scorgere in episodi dell’AT l’anticipazione e il simbolo di fatti
di Cristo e della Chiesa (interpretazione tipologica o tipica dell’AT), mediante l’uso dell’interpretazione
allegorica del testo; un procedimento non sconosciuto ai giudei di Palestina, ma in uso soprattutto
fra i gentili (interpretazione allegorica dei miti e dei racconti omerici) e i giudei ellenizzati (Filone,
prima di tutti);
b) Ecco allora, per fare qualche esempio, che 1Cor 10,1-11 legge il passaggio del Mar Rosso
e la nube del deserto (cf. Es 14,15ss.) come simboli del battesimo; o che Gal 4,22-24 legge Isacco
(figlio della donna libera Sara, in virtù della promessa) e Ismaele (figlio della donna schiava Agar,
secondo la carne) come simboli di cristiani e giudei;
c) In questo tempo si cominciano a fare anche le prime raccolte di Testimonia, cioè di gruppi
di passi dell’AT selezionati in serie omogenee per scopi didattici, polemici, apologetici e liturgici.
Se Paolo e altri continuano a usare dell’AT sulla base di procedimenti ermeneutici giudaici,
tuttavia lo spirito e gli esiti del loro lavoro interpretativo sono ormai del tutto nuovi;
d) L’età apostolica e subapostolica (quella dei Padri Apostolici) da un lato procede nella lettura
spirituale della Legge e nell’interpretazione tipologica (cristologica ed ecclesiologica) dell’AT, entrando
così in conflitto con quei giudei o giudeo-cristiani che contestano la stessa liceità di un’interpretazione
allegorica e non esclusivamente letterale delle Scritture (si pensi all’Epistola dello Pseudo-Barnaba); ma

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dall’altro si premura di affermare la validità delle Scritture ebraiche, una validità addirittura perenne e
permanente nella lettura datane dai cristiani.

3. La posizione ambivalente degli gnostici


a) Di diverso avviso i gruppi gnostici cristiani, accomunati dal giudizio più o meno negativo dato
sulle Scritture ebraiche, anche in ragione della opposizione teologica, per loro essenziale, tra il Dio
malvagio dell’AT e il Dio benigno «Padre di Gesù Cristo»;
b) Da un lato, l’apprezzamento negativo del mondo materiale li porta a deprezzarne il creatore, cioè
il Dio dei giudei, e di conseguenza anche l’AT e la sua rivelazione. Dall’altro, essi radicano la loro
esperienza proprio in alcuni passi dell’AT, soprattutto nel racconto della creazione, profondamente
rielaborato per ricavarne la distinzione di varie nature negli uomini (spirituali, razionali e
materiali); e ancora, in quei passi su cui possono meglio fondare la opposizione tra i due dèi;
c) Non mancano comunque posizioni anche meno monolitiche. Vi sono gnostici valentiniani
pronti a distinguere, all’interno dell’AT, parti imperfette ma non cattive, e parti che hanno soltanto
valore simbolico, e vengono di fatto perfezionate e realizzate da Cristo;
d) La contrapposizione tra il Dio malvagio dell’AT e il Dio benigno «Padre di Gesù Cristo» porta gli
gnostici ad essere i primi a utilizzare su vasta scala i libri del NT considerandoli come divinamente
ispirati e perciò normativi. Il Commento a Giovanni del valentiniano Eracleone, di cui ci sono giunti
solo frammenti, è, a quanto pare, la prima sicura opera esegetica dedicata ad un libro del NT;
e) L’interpretazione che del NT forniscono gli gnostici, nella fattispecie i valentiniani, è
fortemente allegorizzante e tende a forzare il testo in funzione di dottrine tipicamente gnostiche:
Tolomeo ritrova l’ogdoade valentiniana (prime quattro coppie di eoni, ossia ciascuno degli esseri
intermediari fra Dio e il mondo, provenienti dal primo per emanazione) nel Prologo di Giovanni
(cf. Ireneo di Lione, Confutazione 1,8,5-6) ed Eracleone vede nella Samaritana (cf. GV 4,1ss.) e nel
figlio del funzionario del re (cf. Gv 4,46ss.) i simboli degli uomini spirituali e razionali.

4. La reazione antignostica
a) L’utilizzazione delle Scritture in funzione antignostica si concentra soprattutto sulla
difesa dell’AT. E se Giustino (nel Dialogo con Trifone giudeo), in polemica coi giudei, si limita a
dilatarne l’interpretazione tipologica, Ireneo l’organizza in senso specificamente antignostico, in modo da
presentare la rivelazione veterotestamentaria come una progressiva educazione dell’uomo in modo da
renderlo adatto ad accogliere la suprema rivelazione del NT: per Ireneo, dunque, c’è progresso fra
AT e NT, non rottura (cf. Confutazione 4,13,3.20,8.21,3);
b) In questo ambito antignostico, la ratio esegetica di Ireneo è varia, non soltanto perché a
tipologie semplici se ne aggiungono di molto elaborate, ma anche perché all’interpretazione tipologica
dell’AT si affianca, per altri passi, quella letterale: in questo modo, ad esempio, viene interpretato il
racconto della creazione e del peccato dell’uomo;
c) Anche per il NT, che Ireneo utilizza sistematicamente assieme all’AT, l’interpretazione è
varia, perché a quella prevalente, che è letterale, si affianca talvolta quella allegorica (cf.
Confutazione 4,22,1; 5,25,4);

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d) Questa varietà di metodo interpretativo – dal letterale al tipologico, dal tipologico
all’allegorico –, certo fornisce agli eresiologi la maniera di difendere meglio la posizione ortodossa e di
controbattere gli argomenti gnostici; ma, d’altro canto, finisce col giustificare la stessa interpretazione
allegorica che delle Scritture danno i loro avversari gnostici;
e) Così, tanto Ireneo come il suo «discepolo» Tertulliano, da un lato fanno uso dell’esegesi
allegorica in chiave antignostica, e dall’altro, quando si trovano a dover trovare un criterio di
distinzione fra la vera e la falsa allegoria, non possono fare altro che appellarsi alla tradizione ufficiale
della Chiesa; Tertulliano si spinge ancora oltre: rifiuta sia l’allegoria gentile dei miti che la gnostica,
ma si serve dell’allegoria contro i giudei e contro Marcione;
f) Appare dunque evidente come l’unica plausibile spiegazione di un tale atteggiamento debba
venire ricercata nelle preoccupazioni primariamente polemiche e catechetiche, e non esegetiche in senso
stretto, degli autori fin qui richiamati.

5. Ippolito e la nascita del trattato esegetico


a) Con Ippolito, fra la fine del II e l’inizio del III secolo, anche in campo cattolico si arriva al
trattato esegetico vero e proprio, dedicato cioè ad illustrare sistematicamente vaste parti del testo sacro, in
particolare l’AT (si ricordino i commenti a Daniele, alle Benedizioni dei patriarchi, di Mosè, ecc.);
b) Se nel commento a Daniele l’interpretazione tipologica si alterna a quella letterale, altrove
prevale nettamente, con lettura in toto cristologica dei testi: Ippolito è il primo che ci attesti, in
campo cristiano, l’interpretazione dello sposo e della sposa del Cantico dei Cantici come typoi di Cristo e
della Chiesa, trasposizione cristiana dell’interpretazione giudaica che vi ravvisa i simboli di JHWH
e Israele;
c) Il merito di Ippolito non va trascurato: commentando questo poema biblico che, per
contenuto ed espressione audaci, aveva suscitato non poche perplessità sia negli ambienti giudaici
che in quelli cristiani, fornendone una corretta lettura teologica, Ippolito apre il cammino ai numerosi
commentatori a lui successivi, i quali non avranno difficoltà ad approfondire e arricchire
l’interpretazione del testo nel senso più specifico della mistica nuziale tra Cristo e l’anima del
fedele, facendo così del Cantico il libro esemplare per tutta la mistica cristiana, da Origene,
attraverso Ambrogio e Gregorio Nisseno, fino a Bernardo di Chiaravalle, in pieno medioevo;
d) Ippolito ha inoltre il merito di avere dato la spinta iniziale verso la pratica corrente
dell’interpretazione continuata e sistematica delle Sacre Scritture, confermando con ciò l’appropriazione
definitiva dell’intero canone biblico da parte della Chiesa. Nonostante questo impegno esegetico,
egli non ha sentito il bisogno di fissare norme precise d’interpretazione, e questa carenza di metodo
s’avverte più volte nella sua pagina, che alterna tipologie semplici ad altre molto elaborate, e non è
sempre coerente nell’apprezzamento della lettera del testo.

6. Verso la nascita di un metodo esegetico: Clemente e la scuola d’Alessandria


a) Nel più esigente ambiente culturale alessandrino, in polemica soprattutto con gli gnostici,
l’esegesi cristiana della Sacra Scrittura, fra la fine del II e la metà del III secolo, allarga il suo raggio
d’azione e fissa norme precise;

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b) Clemente, che poco ci ha lasciato di specificamente esegetico ma che in tutte le sue opere usa
della Scrittura in lungo e in largo, vi riconosce vari sensi (storico, dottrinale, profetico, mistico), e li
mette in evidenza con metodo prevalentemente allegorico;
c) Egli infatti vede il simbolo come mezzo d’espressione per il passaggio dal sensibile all’intelligibile,
e perciò come caratteristico del linguaggio religioso, che tende a presentare i suoi contenuti in modo
coperto, velato, non immediatamente accessibile ai profani (cf. Stromati 5,21);
d) Perciò egli dilata i limiti della tradizionale interpretazione allegorica del testo sacro, affiancando
a quella tipologica sia l’interpretazione cosmologica, che vede nelle realtà terrestri il typos di quelle
celesti (così, il tempio di Gerusalemme è il typos del cielo: cf. Stromati 5,32ss.), sia l’interpretazione
morale (così, Agar e Sara, la schiava e la moglie di Abramo, sono il simbolo, rispettivamente, della
cultura mondana e della saggezza: cf. Stromati 1,30), ambedue fortemente influenzate da Filone
(Filone d’Alessandria, vissuto nel I secolo dell’era cristiana, è il principale rappresentante del
giudaismo ellenistico; ha esercitato grande influenza per l’esegesi, la teologia e la spiritualità dei
Padri, specie attraverso Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio Nisseno e Ambrogio, che ne
conobbero direttamente l’opera. La sua interpretazione della Scrittura è multiforme, e va dal senso
letterale a quello spirituale, dall’interpretazione morale a quella cosmologica, ecc.);
e) Da Filone egli deduce anche procedimenti ermeneutici che diventeranno tipici dell’esegesi
alessandrina: valore simbolico di numeri, animali, piante, ecc.; allegoria ricavata dall’etimologia di nomi
ebraici.

7. L’esegesi di Origene
a) Origene, da genio qual è, apporta all’esegesi alessandrina maggiore ricchezza d’interessi e
più rigoroso metodo di ricerca. Le sue innumerevoli opere esegetiche, raggruppate dagli antichi in Scoli
(raccolte di spiegazioni di passi di particolare interesse), Omelie e Commentari, mettono in valore,
accanto ai libri tradizionalmente più studiati (Genesi, Salmi, Profeti, Vangeli, Epistole paoline), altri
finora trascurati (Giosuè, Giudici, Giobbe, Proverbi, ecc.);
b) Il suo metodo di ricerca, pur apprezzando soprattutto l’interpretazione spirituale (cioè
allegorica), dedica interesse sistematico anche all’interpretazione letterale, vista come momento iniziale
dell’esegesi al fine di indirizzare in modo non arbitrario il momento più importante, quello
allegorico;
c) Per questo Origene consacra cure speciali alla critica del testo mediante gli Hexapla, in cui la
traduzione greca dell’AT detta della LXX (e normalmente in uso nella Chiesa) era controllata in
modo sistematico sul testo ebraico e su altre traduzioni greche;
d) Ne I Princìpi 4,1-3, egli ci offre il primo trattato di esegesi scritturistica. Qui distingue tre
livelli interpretativi per ogni (o quasi) passo della Scrittura: letterale, spirituale (= tipologico), morale (=
psicologico). Esempio insigne di questo tipo d’esegesi è il Commento al Cantico, in cui le tre
interpretazioni si susseguono in modo sistematico passo per passo, e gli sposi regali sono visti
prima come typoi di Cristo e della Chiesa, poi del Logos e dell’anima del credente;
e) Altre volte Origene propone un duplice livello interpretativo, lettera/spirito correlato alla
distinzione dei cristiani in «semplici» e «perfetti» (o meglio, «perfezionandi»), nel senso che
all’interpretazione letterale si aggiunge, come momento forte dell’esegesi, una sola interpretazione di tipo

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allegorico, che può assumere vari aspetti: quello in forza del quale all’interpretazione tipologica
tradizionale (AT typos del NT) si aggiunge quell’interpretazione che vede nel NT il typos del
Vangelo eterno (ossia quel Vangelo che si realizzerà alla fine del mondo); o anche l’aspetto in virtù del
quale si è portati a vedere nelle realtà terrene il simbolo delle realtà celesti; o infine l’aspetto che
valorizza la dimensione morale, cioè l’applicazione del testo sacro all’esperienza esistenziale del
singolo credente;
f) Questa multiforme allegoria è messa in opera mediante tutti i procedimenti ermeneutici che
abbiamo qualificato come tipici di Filone e Clemente. Al di là della distinzione in due o tre (o anche
quattro) sensi, l’allegoria di Origene trova unità e massimo spessore nella convinzione che la parola
di Dio ha fecondità inesauribile e che nessuna interpretazione la può circoscrivere. Il continuo studio
permette di conoscerla sempre meglio nella sua infinita pluralità di significati;
g) L’esegesi origeniana, parte di una più vasta iniziativa culturale largamente aperta ai valori
della filosofia platonica, nella seconda metà del III secolo si diffonde largamente in Oriente,
incontrando favore ma anche suscitando reazioni in aree culturali d’impronta asiatica. Sul finire del
secolo III troviamo, tra i suoi seguaci sul piano esegetico, le figure di Metodio di Olimpo (morto
martire in Eubea nel 311), delle cui opere esegetiche ci sono giunti soltanto scarsi frammenti; ed
Eusebio di Cesarea, i cui interessi storici ed antiquari gli fanno apprezzare la componente filologica e
letteralistica dell’ermeneutica del maestro, e lo spingono a valorizzare l’aspetto storico, oltre che
tradizionalmente cristologico, dei libri dell’AT che interpreta (Salmi e Isaia); anche passi del NT,
che presentano difficoltà esegetiche, sono risolti mediante il ricorso alla lettera del testo. Eusebio
già sente l’aria nuova portata dalla svolta costantiniana; e la grande fioritura esegetica segna una
progressiva valorizzazione della lettera del testo sacro, a discapito dell’interpretazione allegorica, avvertita
ora da diversi ambienti, specie quelli antiochieni, come artificiosa ed esageratamente
«alessandrina».

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IX
I Padri e la Bibbia: cenni generali e questione dell’ispirazione

1. Inquadramento generale
Chiunque si sforzi di leggere e di meditare seriamente la Sacra Scrittura, viene, presto o
tardi, a porsi una serie di interrogativi fondamentali e insieme preliminari. Prima ancora di porsi in una
prospettiva soggettiva, che spinge a chiedersi in che modo la Bibbia possa essere parola di Dio per
sé, o in che modo essa possa trasmettere oggi al credente la volontà del Dio vivo, adeguata alle
circostanze della personale esistenza presente, ci si trova dinanzi all’esigenza di comprendere come
e in quale misura tutte queste cose siano effettivamente «Parola di Dio». Ebbene, questo è il problema
centrale di cui si occupa l’introduzione generale alla Sacra Scrittura.
I vari trattati nei quali si è soliti dividere la materia contribuiscono ciascuno a suo modo alla
soluzione di questo problema centrale. Il trattato sull’ispirazione mostra, come secondo la fede
della Chiesa, vi siano dei libri che contengono di fatto la parola divina, espressa tuttavia in un
linguaggio umano, secondo le diverse modalità che questo linguaggio comporta. Il trattato sul
canone espone quali siano questi libri nei quali possiamo ritrovare la Parola di Dio. Il trattato sul
testo ci mostra la fondatezza della nostra fiducia di possedere ancora oggi, dopo secoli di
trasmissione, il testo dei libri sacri sostanzialmente inalterato, e ci insegna i modi per restaurare il
tenore dell’originale, nei luoghi che potessero essere corrotti. Infine, il trattato dell’ermeneutica
spiega come concretamente penetrare la pienezza del significato di salvezza racchiusa nella
«Parola di Dio».
Ora, la trattazione di queste tematiche deve venire affrontata anche ricorrendo alle fonti
positive di cui disponiamo, vale a dire la Bibbia stessa, il Magistero ecclesiastico ad essa relativo, la
Tradizione, che nei Padri della Chiesa ha un punto di riferimento obbligato, infine le considerazioni
degli studiosi, teologi o biblisti. In quanto la Bibbia stessa si esprime in un linguaggio umano, ecco che
sarà necessario servirsi anche di tutte quelle fonti linguistiche, storiche ed archeologiche, che servono a
illustrare i monumenti letterari del passato, e dei metodi che sono stati elaborati per la loro
interpretazione.
Una volta inquadrato il problema nelle sue linee essenziali, occorre precisare quale sia il
senso di questa presente analisi. In realtà, si tratta di qualcosa di molto semplice: illustrare quale sia
l’apporto dato dalla tradizione patristica alle varie tematiche coinvolte in questa complessiva trattazione
sulla Sacra Scrittura; riflettere sul contributo dell’età patristica alla chiarificazione di questi «nodi»
preliminari.

2. Brevi cenni storici sull’introduzione generale alla Bibbia


a) Già i Padri avvertono la necessità di raccogliere alcune nozioni generali da premettersi
alla lettura della Sacra Scrittura. Prevale sempre l’interesse per il contatto diretto con i testi, ma,
come vedremo, già cominciano ad elaborarsi le prime sintesi. Ireneo di Lione (II secolo) accenna

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talora a nozioni di carattere introduttivo (cf. Confutazione 3,1,1) e il Canone Muratoriano (II secolo),
come vedremo oltre, è un antichissimo esempio di trattazione sul canone;
b) Col progredire dell’attività teologica, le nozioni sparse incominciano a prendere forma
organica. Girolamo (IV secolo), nelle prefazioni alle sue traduzioni latine dei libri dell’AT raduna
molte di queste nozioni, ma ancora si tratta di trattazioni occasionali, anche se poi si rivelano
importanti sussidi nel corso del successivo medioevo. Un’esposizione sistematica di questi dati la
troviamo probabilmente per la prima volta nel Le misure e i pesi di Epifanio (IV secolo), che dedica
grande spazio alla storia delle versioni (PL 43,237-294). Verso la fine del periodo patristico,
Cassiodoro (V secolo), nella sua opera più completa, le Istituzioni delle lettere divine, si ferma
specialmente sui problemi di ermeneutica (PL 70,1105-1150);
c) I trattatisti medievali, come Ugo di san Vittore, si dedicheranno in modo speciale proprio
ai problemi ermeneutici già aperti dalla riflessione patristica. Il periodo della Riforma segna,
viceversa, il passaggio dall’interesse per i «sensi» della Scrittura a quello per il canone. A partire dal
secolo XVIII, il rinnovamento della problematica concernente la critica letteraria finisce con
l’influire notevolmente sulla «questione biblica»: ne consegue un approfondimento storico-critico e
un importante impulso dato al trattato dell’ispirazione, che giunge sino ad oggi, provocando un
radicale ripensamento, ad esempio, dell’inerranza;
d) Si può dunque dire che la nostra materia ha conosciuto un’evoluzione scandita da
quattro momenti distinti: 1) contatto coi testi nell’età patristica; 2) interesse ermeneutico nel
medioevo; 3) attenzione sul canone al tempo della Riforma; 4) interesse storico-critico in relazione
all’ispirazione e all’inerranza in età moderna;
e) Vale infine la pena sottolineare come l’attuale divisione dell’AT e del NT in capi e versetti sia,
tutto sommato, abbastanza recente: al XIII secolo risale la divisione in capi, al XVI secolo quella in
versetti. Questo fatto ci consente di comprendere un elemento molto importante nella presente
prospettiva, vale a dire che i Padri, nella lettura dei testi sacri, non sono condizionati da un approccio
«settoriale», ossia da una ormai consolidata abitudine a tenere conto dell’esistenza di articolazioni e
suddivisioni artificialmente e rigidamente costituite, privilegiando così la ricerca dell’unitarietà che
caratterizza il testo, nella sua dimensione di documento letterario con un inizio e una fine, e non
pensato semplicemente come composto da una serie di sezioni giustapposte, parziali e tra loro
quasi indipendenti.

3. L’ispirazione della Sacra Scrittura nei Padri della Chiesa


a) l’ispirazione nella Bibbia
a) Anzitutto, occorre tenere presente il quadro degli elementi che presentano le stesse
Scritture, anche per la ragione che proprio da questo quadro di riferimento prende le mosse la
riflessione patristica. Un esame del tema dell’ispirazione nella Bibbia porta facilmente ad un alcune
conclusioni, che ora, per quanto in forma estremamente sintetica, si tenterà di presentare;
b) Tanto per l’AT come per il NT non si può parlare dell’esistenza di una dottrina già
pienamente elaborata sul carisma dell’ispirazione dei libri sacri; nondimeno, questi sono così
vitalmente inseriti nel processo della manifestazione divina del popolo di Dio da risultare dotati di
altissime prerogative;

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c) Israele manifesta a un certo momento della sua storia la coscienza di possedere dei libri
sacri aventi assoluta autorità, a cui ci si riferisce come a depositari autentici della parola di Dio;
d) All’origine di questi libri si ritiene che vi siano uomini privilegiati, i «profeti», che
durante la loro vita hanno pronunciato oracoli sotto l’impulso dello spirito di JHWH, e le cui
parole sono ora fissate per iscritto. In altri casi, si fa menzione di «saggi» che li hanno composti non
senza l’aiuto della spirito e in continuità con la grande tradizione profetica di Israele
e) Questi libri sacri (dell’AT) registrano autenticamente, per iniziativa divina, il realizzarsi
dell’azione divina rivelante nelle vicende concrete del popolo di Israele, che li porta sempre con sé
come perenne testimonianza della divina rivelazione;
f) Nel NT, Gesù e gli apostoli ci parlano espressamente dell’autorità dell’origine divina dei
libri dell’AT. Essi accennano anche al modo con cui essi sono stati prodotti da uomini sotto la
mozione divina (si parla precisamente di «Scrittura divinamente ispirata» in 2Tm 3,16; e di
«uomini [che] parlarono da parte di Dio, mossi dallo Spirito Santo» in 2Pt 1,20-21);
g) Come Israele per l’AT, così la Chiesa per il NT perviene alla convinzione: 1) che la
predicazione di Gesù e degli apostoli riproduce il fenomeno della «parola di Dio» già presente
nell’AT; 2) che questa predicazione ha il carattere di rivelazione definitiva; 3) che da questa
rivelazione discendono scritti che possiedono un carattere sacro pari a quello degli scritti
veterotestamentari; 4) che questi scritti, per il fatto di rappresentare il culmine dell’economia della
salvezza, costituiscono anche il quadro di riferimento secondo il quale vanno intesi i libri dell’AT
nel loro valore permanente;
h) Come si vede, abbiamo qui già tutti gli elementi fondamentali che sono espressi dalla
fede della Chiesa quando proclama la divina ispirazione della Scrittura. Ora la nostra attenzione
deve spostarsi su come la riflessione patristica cerca di enucleare il contenuto di questa fede, a
partire dai vari problemi suscitati da questa dottrina.
b) la riflessione dei Padri sull’ispirazione della Bibbia
a) I Padri non si occupano specificamente di approfondire la dottrina sul libro sacro come tale. Le
loro affermazioni si limitano spesso a esporre, senza molte variazioni, la loro fede nell’autorità e
nell’origine divina della Scrittura; il problema specificamente teologico che nasce dall’incontro di attività
divina e attività umana non attira in maniera particolare la loro attenzione;
b) Nondimeno, occorre notare due caratteri importanti: la continuità del loro pensiero
rispetto alla dottrina neotestamentaria, e gli approfondimenti che essi promuovono. La «continuità»
appare nel fatto che i concetti base da essi sviluppati sono i concetti della rivelazione biblica: il
libro sacro come «ispirato dallo Spirito», l’uomo profeta e agiografo sotto l’azione di Dio. Gli
«approfondimenti» appaiono tanto nell’esplicitazione e nell’applicazione che questi concetti
ricevono, come nella presenza di alcuni vocaboli e temi che non sono presi direttamente dalla
Bibbia, anche se si richiamano alle dottrine in essa contenute; essi si concentrano attorno a due temi
principali: 1) l’uomo come strumento di Dio nello scrivere; 2) Dio come autore dei libri sacri e la
Scrittura come dettato, lettera, conversazione di Dio;
c) Non poche affermazioni patristiche sottolineano e sviluppano l’aspetto della dipendenza
dell’uomo dall’agire dello Spirito di Dio a modo di strumento. La radice di tale paragone si trova
già nelle espressioni dell’AT, in cui l’agiografo è chiamato «bocca di Dio» (cf. Is 30,2; Lc 1,70).

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Tuttavia, sono di origine direttamente patristica il paragone, a onor del vero piuttosto generico,
della cetra toccata dal plettro (cf. Cohortatio ad Graecos, in PG 6,256ss.) e l’espressione specifica di
«strumento» musicale divino applicata all’agiografo (cf. Atenagora, Supplica 7). La dottrina dello
«strumento» viene precisata dai Padri in polemica col montanismo, che propugna una concezione
estatica e mantica dell’ispirazione, sostenendo che l’agiografo parla soltanto in uno stato di
alienazione dai sensi simile a quello degli oracoli gentili (al riguardo, cf. Eusebio di Cesarea, Storia
Ecclesiastica 5,17; Agostino, Il consenso dei vangeli 1,35,54; ecc.). I Padri affermano concordemente
una stretta dipendenza dell’agiografo dall’azione divina, e ciò pur sapendo bene come la Bibbia
rifletta anche gli aspetti umani dei diversi scrittori. Essi respingono decisamente la dottrina
montanista, e amano spiegare che il valore della Scrittura consiste nel fatto che gli uomini che
l’hanno scritta erano mossi e guidati da Dio, che in essa esprime ciò che ci vuole comunicare;
d) I Padri, contro le varie forme di eresia dualistica (marcionismo, gnosticismo, manicheismo)
che tendono ad opporre AT e NT, quasi si tratti di due «economie» antagonistiche e riducibili a
due diversi principi, sottolineano con vigore come Dio sia l’unico «autore» di entrambi i Testamenti e
come sussista una continuità tra le due economie di salvezza. E’ chiaro che in questo contesto il
termine «autore» non significa di per sé autore letterario, ma intende semplicemente indicare
l’origine divina di entrambe le economie. Nella tradizione occidentale, a partire, sembra, dal secolo
IV, comincia poi ad avere importanza anche un’altra formulazione per esprimere il rapporto tra
Dio e l’uomo nel processo ispirativo dei libri sacri, ossia l’attribuzione a Dio di un’attività di dettato
rispetto agli autori sacri. L’espressione latina dictare non va necessariamente presa nel senso di una
vera e propria «dettatura» fatta da Dio all’agiografo, in quanto l’atto del «dettare» ha nell’antichità
un senso molto più ampio che non oggi, e da sé sola non ci fornisce dunque una spiegazione
concreta e priva di equivoci dell’attività esercitata dallo Spirito Santo; certo è invece che il vocabolo
intende sottolineare in maniera assai forte la primarietà dell’attività divina nell’atto ispirativo.
Infine, i Padri amano, in una prospettiva questa volta più pastorale, parlare delle Scritture come di
«lettere» di Dio, come del suo quotidiano «discorrere» con l’uomo: come si comprende, si tratta
sempre di modi per specificare la formula «Dio autore».

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X
L’eresia gnostica

1. I Padri Apostolici e l’eresia docetistica


a) Nei Padri Apostolici, come abbiamo in precedenza visto, la questione della «dottrina giusta»
è centrale, e connessa con la preoccupazione che non solo la dottrina ma anche il «vissuto» della
fede cristiana si conservino intatti. A tale riguardo, ritroviamo nei loro testi (specie in quelli di
Ignazio e Policarpo) la controversia con il docetismo, una forma di eresia gnostica;
b) Col termine docetismo si intendono i diversi tentativi di spiegare in modo dualistico-
spiritualistico (tentativi che si sviluppano anzitutto a partire da contesti platonici, nei quali si ha
l’opposizione tra le realtà vere del mondo intellegibile e quelle apparenti del mondo sensibile)
l’incarnazione e la passione di Cristo, escludendone tutto ciò che sembra essere indegno del Figlio
di Dio, uomo nato da una vergine e senza peccato;
c) Non si tratta di una setta determinata, ma piuttosto di una tendenza a sottovalutare la realtà
storica dell’opera salvifica di Dio, a minimizzare il valore salvifico dell’incarnazione, comprese le
debolezze interiori dell’uomo Gesù. A ben pensarci, la tentazione docetistica permane come una
costante nella storia del popolo cristiano e come un rischio sempre possibile, almeno sul piano
spirituale, di deformazione della vita di fede.

2. I caratteri generali della gnosi cristiana antica


a) Con «gnosi» in generale, la moderna ricerca intende una particolare forma di
«conoscenza» (questo il significato dell’originario termine greco) che ha per oggetto i misteri divini
ed è riservata a un gruppo di eletti. In questa veste essa è rintracciabile in correnti religiose e
filosofiche diverse e disseminate nel tempo e nello spazio;
b) Da questa forma di gnosi va distinta, per modalità oggetto scopi, la gnosi dello
gnosticismo, un movimento spirituale che sorge nel I secolo e che ha vasta diffusione in tutto il
bacino del mediterraneo nei secoli II e III;
c) Le origini storiche di questo complesso movimento costituiscono a tutt’oggi un problema
irrisolto (vi è chi pensa che esse vadano forse ricercate in ambienti periferici del giudaismo);
comunque, è soprattutto nell’ambito del cristianesimo nascente che esso esercita una profonda
influenza;
d) Le radici psicologiche e le motivazioni religiose vanno invece con tutta probabilità ricercate
in una situazione di angoscia esistenziale, tipica del resto di molti autori e correnti, gentili come
cristiani, dei primi due secoli della nostra era;
e) Definire i connotati specifici dello gnosticismo non costituisce impresa facile: si tratta di un
fenomeno complesso, variegato e sfuggente (i vari sistemi gnostici sono tipicamente sincretistici, cioè tesi
a costruire i propri edifici dottrinali a partire da materiali appartenenti a differenti tradizioni di
pensiero); le nostre conoscenze s’accrescono, si precisano ma pure si trasformano, di anno in anno,

72
specie in ragione della crescita delle fonti letterarie di cui entriamo in possesso e dello sviluppo
generale dell’interpretazione delle medesime;
f) Le fonti possono venire distinte in due tipi: la documentazione diretta e quella indiretta.
Nell’ambito della documentazione diretta una speciale menzione meritano gli scritti di Nag
Hammadi, nell’Alto Egitto, dove nel dicembre 1945 fu scoperta un’intera biblioteca di testi gnostici
originali in lingua copta. Nell’ambito della documentazione indiretta, particolare rilievo hanno gli
eresiologi, ossia quegli autori cristiani che hanno dedicato alcuni loro scritti ad elencare, descrivere
e confutare le varie eresie del passato o del loro tempo;
g) La gnosi dello gnosticismo è una forma di conoscenza religiosa che ha per oggetto
essenzialmente la vera realtà spirituale dell’uomo. Trasmessa da un rivelatore-salvatore e garantita da
una particolare tradizione esoterica, essa è in grado di per sé di salvare chi la riceve;
h) In genere l’istruzione gnostica, con cui l’adepto viene iniziato, si fonda sulla trasmissione
di un racconto mitico, che ha lo scopo di rispondere agli interrogativi esistenziali propri di ogni
gnostico: «chi siamo, che cosa siamo diventati; dove siamo, dove siamo stati precipitati; dove
tendiamo, da chi siamo purificati; che cosa è la generazione, che cosa è la rigenerazione»;
i) L’originalità della risposta religiosa gnostica risiede in un sentimento di estraneità e di
alienazione nei confronti del mondo. Per lo gnostico, il mondo di quaggiù si presenta invaso da un
principio di corruzione, che tiene prigioniero il mondo spirituale nella malvagia materia; solo la
conoscenza gnostica, come rivelazione dei mezzi e dei modi attraverso i quali è consentito
all’anima di ritornare nel suo primitivo stato di integrità, libera dai legami del corpo e del mondo
materiale, ossia dà la salvezza, che consiste nel raggiungere la patria, vale a dire il pleroma (o
«mondo della pienezza divina»);
l) Nello gnosticismo, al di là delle variegate posizioni, esiste comunque una comune concezione
del mondo, una fondamentale unità di pensiero e di fede. Essa consiste nella concezione dualistica
delle cose, una concezione che lo oppone a tutta la tradizione di pensiero greca: il mondo dello
gnostico è quello della divisione e della contrapposizione; della separazione abissale, nel cosmo, di
luce e tenebra, e nell’uomo, di principio pneumatico e di principio materiale;
m) In questa prospettiva di fondo, anzitutto assume rilievo il rifiuto tanto della concezione
«cosmica», propria del mondo greco, come di quella giudaica e cristiana dell’unità del creatore: come
esistono due mondi, così esistono due dèi o due princìpi creatori. Il Demiurgo, creatore di questo
mondo e in genere identificato col Dio dell’AT, è contrapposto al vero Dio, «Padre del tutto», per
antonomasia «l’inconoscibile, l’ineffabile, l’indescrivibile», addirittura il Dio che, al principio,
neppure esiste. Ma insieme Questi è il «Padre della grandezza», colui a partire dal quale è
destinata a manifestarsi la pienezza del tutto;
n) Le diverse correnti esistenti all’interno dello gnosticismo cristiano possiedono in
comune, nonostante tutto, anche altri capisaldi dottrinali: 1) la concezione dell’uomo e della sua
salvezza (antropologia religiosa); 2) la missione del rivelatore-salvatore e della sua opera di
redenzione (cristologia); 3) la struttura e la funzione della Chiesa (ecclesiologia);
o) Secondo gli gnostici, esistono tre diverse categorie di uomini: 1) gli uomini «spirituali» o
«pneumatici», che possiedono la vera «gnosi» e sono pertanto predestinati alla salvezza; 2) gli
uomini «materiali» o «ilici» o «coici», che all’opposto sono destinati alla dannazione; 3) infine, gli

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uomini «razionali» o «psichici», che rappresentano la categoria intermedia di coloro che sono in
grado di poter scegliere il bene e il male in base all’autonomo esercizio del libero arbitrio;
p) Considerato che la salvezza consiste nella conoscenza salvifica che risveglia le coscienze
addormentate nella materia, non è necessario che il rivelatore-salvatore assuma una carne vera e propria:
la sua incarnazione può dunque anche essere solo «apparente» (docetismo);
q) La verità della rivelazione così iniziata viene garantita, come abbiamo sopra già detto,
attraverso la trasmissione esoterica (cioè «privata») all’interno dei gruppi dei predestinati, e non già dal
magistero pubblico della gerarchia ecclesiastica guidata dai vescovi presso i quali è depositata l’autorità
della Tradizione apostolica stessa.

3. Il marcionismo
a) Un discorso a parte meritano Marcione e il marcionismo. Marcione, importante teologo
eretico del secolo II, originario di Sinope, in Asia Minore, scomunicato, si dice, dal padre, che
doveva essere vescovo, fa fortuna come armatore. Membro per un certo tempo della comunità di
Roma, cui dona un consistente patrimonio, nel 144 ne viene escluso, con la restituzione integrale
della donazione. Costituisce quindi una propria chiesa, che, provvista di grande forza
organizzativa e missionaria, si espande rapidamente non solo a Roma, ma pressoché in tutte le
principali sedi ecclesiastiche del tempo. Muore attorno al 160;
b) Marcione non intende essere il fondatore di una nuova chiesa, né un innovatore o un profeta;
gli sta a cuore di predicare, nella sua purezza, il messaggio genuino e originario di Gesù, che ritiene essere
stato stravolto dalla Chiesa del suo tempo;
c) Il nucleo di questo messaggio consiste, a suo avviso, nella redenzione dell’uomo attuata, per
pura misericordia, da Dio in Gesù Cristo;
d) Ora, le Scritture del tempo, quelle che oggi costituiscono l’AT della Bibbia cristiana,
testimoniano, a suo parere, un Dio che è giudice potente e giusto, ma anche collerico, crudele, volubile,
meschino, capace di affermare frasi del tipo: «sono io che provoco la sciagura» (Is 45,7): questo Dio
non può dunque essere lo stesso del Padre di Gesù Cristo; infatti il Padre del Signore è esclusivamente
benigno, come ha dimostrato inviandoci Gesù Cristo;
e) Da ciò derivano due importanti corollari: 1) il Dio benigno, Padre di Gesù Cristo, va
distinto dal Dio dell’AT, il Demiurgo creatore e signore di questo mondo malvagio e corrotto; 2)
l’AT è da rifiutare come fondamento della fede cristiana. Marcione illustra ampiamente le
differenze, inconciliabili a suo giudizio, tra i due dèi;
f) Anche l’etica marcionistica si distacca da quella della Grande Chiesa: Marcione condanna
matrimonio e procreazione, proponendo una rigida ascesi, intesa come rinuncia volontaria alla
materia e alle sue tentazioni;
g) Contro ogni forma di legalismo giudaizzante (a suo avviso introdottosi successivamente
alla originaria composizione delle Scritture neotestamentarie), accoglie come ispirati solo il vangelo
secondo Luca e gli scritti paolini; e tuttavia, giudicando che nemmeno essi si siano conservati nella
redazione genuina, li emenda e ne riduce l’estensione, dando origine a un proprio «canone», il cui
contenuto, peraltro, ignoriamo completamente;

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h) I rapporti di Marcione con lo gnosticismo sono a tutt’oggi oggetto di controversie, ma le
concezioni marcionistiche dualistiche e diteistiche sono impensabili senza un quadro di
riferimento storico del tipo dello gnosticismo.

4. La letteratura eresiologica dei secoli II-III


I più antichi scritti eresiologici sono in prevalenza scritti antignostici, che si propongono di
smascherare gli errori dei settari e di contrapporvi la retta dottrina derivata dall’insegnamento
degli apostoli e dei vescovi loro successori.
Giustino ed Egesippo
a) Il primo eresiologo di cui si abbia notizia è Giustino, autore di una Raccolta di tutte le
dottrine eretiche (opera cui allude in I Apologia 26,88) andata perduta, come perduta è anche la sua
Raccolta contro Marcione, citata da Ireneo di Lione (Confutazione 4,6,2) ed Eusebio di Cesarea (Storia
Ecclesiastica 4,11,8-9; 4,18,9);
b) Più o meno suo contemporaneo è Egesippo, autore di un’opera in cinque volumi
intitolata Memorie, e destinata a riferire «la tradizione senza errore della predicazione apostolica»
(come ci riferisce Eusebio, Storia Ecclesiastica 4,8,2, che ne conserva alcuni frammenti); il libro
quinto raccoglieva notizie soprattutto sull’eresia gnostica;
Ireneo di Lione
a) L’eresiologo di gran lunga più importante del II secolo è comunque Ireneo di Lione.
Originario dell’Asia Minore, dove in gioventù ha contatti con Policarpo, il famoso vescovo di
Smirne, lo ritroviamo in Gallia, a Lione, all’epoca della tremenda persecuzione del 177, che
provoca numerose vittime nelle locali comunità cristiane. In seguito al martirio del vescovo Potino,
Ireneo da presbitero diviene vescovo, e in quella posizione opera attivamente per contrastare le
infiltrazioni dell’eresia gnostica che, proveniente dall’Oriente, risale ormai la valle del Rodano;
b) Autore della Confutazione e rovesciamento della falsa gnosi, una grande opera in
cinque libri. Già il titolo manifesta la duplice intenzione dell’autore: combattere la falsa gnosi e
insieme esporre la vera gnosi, quella dell’ortodossia garantita dalla Tradizione degli apostoli, di cui
Ireneo si sente legittimo erede ed interprete. L’opera, che possediamo per intero solo in un’antica
traduzione latina insieme con taluni frammenti dell’originale greco, si compone di due parti;
c) La prima parte (libro I) è volta a descrivere l’eresia gnostica, in un resoconto molto
preciso e ben documentato; la seconda (libri II-V) si presenta non solo come una sua confutazione,
ma come il tentativo di mostrare la superiorità della dottrina ortodossa, la quale si fonda
essenzialmente sul riconoscimento di quattro verità fondamentali:
- I due Testamenti provengono dal medesimo Dio;
- La rivelazione si dispiega quindi in un unico piano armonico nel quale Dio,
progressivamente, conduce l’uomo decaduto all’accettazione della salvezza portata da Gesù
Cristo;
- L’uomo è dotato di libero arbitrio e, quindi, la predicazione cristiana non conosce
predestinati, ma si rivolge indistintamente a tutti gli uomini di buona volontà che siano disposti ad
accogliere il messaggio di salvezza;

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- Infine, i garanti dell’autenticità della predicazione evangelica sono soltanto i vescovi, eredi
e continuatori della missione degli apostoli e custodi della tradizione da essi inaugurata;
d) Nella Confutazione e rovesciamento della falsa gnosi, Ireneo raccoglie informazioni
molto minuziose soprattutto sulla dottrina delle scuole valentiniane, informazioni che
costituiscono una fonte insostituibile per la storia dello gnosticismo più antico.
Ippolito di Roma
a) Agli inizi del secolo III incontriamo il nome di Ippolito di Roma, sotto il quale è giunto o
al quale è stato attribuito un nucleo consistente di scritti, alcuni interi, altri frammentari, taluni in
greco, altri in traduzioni di antiche lingue orientali. L’insieme di questi dati, lungi dal permettere
una coerente lettura biografica, ha fatto sorgere un’intricata questione storico-letteraria, tuttora
aperta: la cosiddetta «questione ippolitea»;
b) La ricostruzione biografica ottocentesca fa di Ippolito un eminente prete della Chiesa di
Roma. Sostenitore di una disciplina rigorista e, sul piano dottrinale, della teologia del Logos, entra
in conflitto col vescovo Zefirino e soprattutto col successore Callisto (217-222), da lui accusato di
lassismo in campo morale e di sabellianismo (in sostanza, patripassianismo: il Figlio è un mero
nome e modo di manifestarsi del Padre) in campo dottrinale, arrivando a costituire una chiesa
scismatica. Deportato per ordine dell’imperatore Massimino in Sardegna (235 d.C.) insieme con
papa Ponziano, si riconcilia con lui e muore martire;
c) A partire dall’ultimo dopoguerra, la tesi tradizionale ha subito seri attacchi. Si avanzano
numerose ipotesi interpretative: vi è chi (ma sono pochi) ancora crede che si possa parlare di un
solo Ippolito (il limite di tale tesi è di pretendere di conciliare troppi dati); vi è chi pensa
all’esistenza di due Ippolito, uno romano ed uno orientale (ma anche i numerosi sostenitori della
tesi «divisista», il cui limite è di non possedere tutti gli strumenti per determinare perfettamente i
contorni di ciò che intende dimostrare, non sono poi d’accordo su quali opere attribuire all’uno e
all’altro dei due Ippolito: anche se i trattati esegetici sarebbero comunque dell’Ippolito orientale, la
cui personalità sarebbe quella di un pio uomo di Chiesa, pastore d’anime, dedito alla meditazione
delle Scritture e poco incline alla filosofia); vi è, infine, chi pensa a più di due Ippolito (senza per
questo giungere ad una maggiore chiarezza);
d) La Tradizione attribuisce a Ippolito di Roma due scritti eresiologici molto importanti. Il
primo – ora perduto, ma ricostruibile, a detta degli studiosi, sulla scorta delle testimonianze degli
eresiologi successivi –, conosciuto come Syntagma e menzionato da vari autori successivi (Eusebio,
Girolamo, Fozio), trattava sistematicamente di 32 eresie, ed esercitò un notevole influsso
sull’eresiologia successiva; non ci è possibile dire quale eventuale Ippolito ne possa essere stato
autore;
e) Il secondo, noto come Confutazione di tutte le eresie e giuntoci incompleto, seguendo le
orme di Ireneo cerca di dimostrare il carattere non cristiano delle eresie. La sua trattazione
comprende due parti: nella prima (libri I-IV, di cui II e III sono perduti), tratta dei diversi sistemi di
pensiero gentili; nella seconda (libri V-IX), espone le dottrine eretiche di 33 sette gnostiche,
ricollegando ciascuna ad un sistema gentile discusso nella prima parte; il libro X, che conclude
l’opera, comprende, oltre a un sommario di quanto precede, un’esposizione sintetica della vera
dottrina. La scarsa sensibilità scritturistica, i continui richiami alla filosofia greca, la teologia

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binitaria omogenea alle tendenze dottrinali diffuse nella Chiesa di Roma dei secoli II-III, fanno
decisamente propendere per l’ambiente romano (e dunque, qualora si accolga la tesi divisionista,
per l’Ippolito teologo e romano, piuttosto che per l’Ippolito esegeta ed orientale);
f) Appare dunque chiaro l’intento di Ippolito: dimostrare come l’eresia cristiana introdotta
dallo gnosticismo non sia altro che il prodotto della corruzione dell’autentico messaggio
evangelico ad opera delle dottrine dei filosofi gentili. In altri termini, gli eretici gnostici sono tali in
quanto hanno voluto interpretare il cristianesimo facendo ricorso alle categorie e ai concetti della
filosofia greca, finendo così per storpiare l’autentica tradizione apostolica;
Clemente Alessandrino
a) Lo sforzo maggiore di Clemente – pressappoco contemporaneo di Ippolito –, più ancora
che nel Protrettico e nel Pedagogo (scritti di cui già abbiamo trattato), lo si ritrova negli otto libri
che compongono gli Stromati, cioè uno zibaldone, una miscellanea (letteralmente, il vocabolo
significa «tappezzerie»), in cui sono esaminati i diversi problemi dottrinali, morali e religiosi, in
modo spesso farraginoso e secondo un ordine non sempre chiaro. Hanno tutta l’aria di essere
appunti presi alle sue lezioni e non bene resistemati per la pubblicazione;
b) Dopo avere affrontato, sulla linea di Giustino e di Atenagora, il problema dei rapporti tra
la fede cristiana e la cultura greca, della quale cerca di recuperare quanto è possibile in maniera
positiva, Clemente si propone come scopo essenziale quello di definire la figura del «vero
gnostico» cristiano, in contrapposizione a quella dello gnostico eretico, giudicato falso ed
inautentico;
c) Secondo Clemente, lo gnosticismo eretico si contraddistingue essenzialmente per
l’incapacità congenita di seguire il cammino della retta via intermedia fra gli eccessi opposti; e
questo nei campi più disparati, come quello dell’etica sessuale o del martirio;
d) Muovendo infatti dal presupposto che la materia, il corpo e il mondo sono realtà cattive
e non suscettibili di essere redente, lo gnostico può oscillare nel suo comportamento morale da
forme di ascetismo encratita (se solo lo spirito è buono, allora occorre non usare in alcun modo del
corpo!), con conseguente condanna di matrimonio e procreazione, a forme di aperta licenza
sessuale (se solo l’anima è predestinata alla salvezza, allora il corpo è libero di seguire le sue
passioni!);
e) Allo stesso modo, alcuni movimenti gnostici propugnano la cosiddetta «cupido
moriendi», una sorta di irrefrenabile e fanatica ricerca del «battesimo di sangue», perseguito più
allo scopo di liberarsi in maniera cruenta del corpo – sentito come un ostacolo alla salvezza, e come
un nemico da rimuovere e da eliminare –, che non a quello di rendere testimonianza e condividere
la passione redentrice del Signore; viceversa, altri movimenti giudicano che sia lecito rinnegare con
disinvoltura la propria fede nel momento supremo del martirio, adducendo l’argomento che la
verità riguarda la sola anima e non anche la lingua;
f) La posizione ortodossa delineata da Clemente consiste, in siffatte questioni, nel saper
valutare rettamente il significato dell’attività sessuale, nobilmente finalizzata nel matrimonio alla
procreazione e quindi alla conservazione del mondo, che è una realtà in sé buona in quanto creata
da Dio; quanto al martirio, non bisogna cercarlo come surrogato del suicidio, ma non lo si deve
neppure evitare vilmente quando è necessario per confessare pubblicamente la propria fede.

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Tertulliano
a) Tra gli autori latini, Tertulliano dà un contributo importante alla tradizione eresiologica.
Numerose le sue opere antiereticali, o che presentano importanti sezioni antiereticali:
1) La «praescriptio» degli eretici (200): l’autore vi confuta gli errori di Valentino e di
Marcione per prevenire i cristiani dalla loro seduzione e arginare le defezioni, come già avevano
fatto gli apologisti greci ed Ireneo, ai quali si ispira. La massima importanza di questo vivido
trattato, sta nella definizione di apostolicità delle Chiese, della traditio e della regula fidei, concetti
fondamentali per precisare l’autenticità della fede e della dottrina cristiana;
2) Contro Ermogene (200-206): il pittore Ermogene, forse di Antiochia, affermava che Dio
aveva creato il mondo non ex nihilo ma da una materia a lui coeterna. Sembra quindi collocarsi in
una posizione platonizzante e vicina allo gnosticismo. Era mosso dal bisogno di spiegare l’origine
del male senza doverlo attribuire a Dio, che ne sarebbe responsabile quale creatore di ogni cosa ex
nihilo. Tertulliano lo confuta con molto rigore, avvalendosi in parte di un’opera perduta di Teofilo
d’Antiochia. Interpreta cristianamente la Genesi e approfondisce il rapporto tra le Tre divine
Persone e la funzione del Figlio nell’economia divina;
3) Il battesimo (200-206): unico organico trattato anteniceno sul battesimo, riveste
importanza capitale per la storia della liturgia e dei sacramenti. L’occasione è data dalla posizione
di Quintilla, seguace dell’eresia degli gnostici Cainiti, che negava la necessità del battesimo,
dichiarandolo un mezzo inefficace per conseguire la vita eterna;
4) Contro i Valentiniani (208-211): Tertulliano mette in ridicolo la fede dei seguaci di
Valentino. Svela i loro riti e le loro dottrine esoteriche, che gli adepti s’impegnavano a tenere
gelosamente segreti, come i loro culti misterici, e canzona il loro mitico sistema cosmologico e
pleromatico. L’opera è presentata quale un primo saggio di una più ampia trattazione che l’autore
intende fare;
5) La carne di Cristo (208-211): contro gli attacchi docetistici di Marcione, di Apelle e di
Valentino, l’autore difende la «paradossalità» della realtà della carne di Cristo, la sua origine
terrena, la sua natura umana, la necessità della nascita da Maria Vergine;
6) La resurrezione dei morti (208-211): trattato ampio e avvincente per la densità dei
contenuti e la maestria formale. Con argomentazioni razionali e bibliche, Tertulliano vi sostiene la
fondatezza della verità della speranza cristiana nella resurrezione della carne e asserisce che i corpi
risorti conservano la medesima sostanza del corpo mortale, ma acquisiscono l’integrità e
l’incorruttibilità;
7) Contro Marcione (207-212): nei cinque voluminosi libri, che costituiscono il suo trattato
di maggior mole, Tertulliano confuta: il diteismo marcionistico; la cristologia docetistica, che
prospetta come conseguenza del primo (infatti, se Cristo non discende dal Dio dell’AT, allora non
discende neppure dal Dio della materia e della creazione, e la sua incarnazione può essere anche
solo apparente); l’esistenza di contraddizioni tra il Dio dell’AT e quello del NT, e tra le Scritture
dell’AT e quelle del NT; il canone di Marcione;
8) L’anima (211-212): si tratta di un ponderoso trattato di psicologia cristiana, che intende
confutare le dottrine gnostiche relative a questo ambito tematico;

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9) Rimedio contro la puntura dello scorpione (211-213): lo stesso titolo latino del trattato,
Scorpiace, è un’originalissima metafora per presentare l’antiveleno contro la puntura dei
Valentiniani, che in tempo di persecuzione vanno insinuando tra le fila dei credenti che non si
deve confessare, in terra e davanti alle autorità politiche, la propria fede;
10) Contro Prassea (213-217): Prassea, modalista, identificava il Padre con la
manifestazione storica del Figlio. Asseriva pertanto che il Padre stesso si era incarnato nella
Vergine, era nato da lei, aveva sofferto ed era morto sulla croce. Nel trattato, il più pacato e
profondo, Tertulliano affronta il problema della distinzione e dell’unità delle Persone ad intra del
mistero trinitario e ad extra nelle prolazioni storiche. Cimentandosi in questo arduo sforzo ci ha
lasciato la sua più acuta e matura costruzione teologica, per la quale viene a creare un nuovo
linguaggio teologico e ad anticipare da solo in Occidente la definizioni di Nicea e di Calcedonia;
b) Tertulliano esprime una duplice valutazione nei confronti della cultura filosofica greco-
romana: da una parte l’apprezza come ausiliaria della fede che ha raggiunto verità fondamentali
che condivide con il cristianesimo; dall’altra, egli deve constatare che le eresie che insidiano la fede
cristiana hanno la loro radice per lo più nel platonismo o nella vana curiositas dei filosofi, e vede
allora nella filosofia la perversione della verità e la radicale incapacità di attingerla;
c) Specie nel De praescriptione haereticorum, il suo primo e più importante trattato
antiereticale, egli fissa in via preliminare i principi fondamentali che garantiscono la vera fede:
1) l’apostolicità delle Chiese: richiamando il concetto giuridico di longi temporis praescriptio, che
assicurava il possesso di un bene a chi lo avesse detenuto continuativamente per il periodo e alle
condizioni volute dalla legge, fissa l’anteriorità della Chiesa cattolica di contro alla «recenziorità»
delle sette gnostiche (la praescriptio novitatis) già come una forma di apostolicità;
2) la tradizione apostolica: le Chiese fondate dagli apostoli sono fin dalle origini le sole
depositarie della Dottrina apostolica e delle Scritture; esse ricevettero dagli apostoli, dopo
l’Ascensione del Signore, l’insegnamento che essi avevano ricevuto da Cristo e Cristo dal Padre (la
traditio fidei);
3) la regola della fede: la successione apostolica garantisce la traditio fidei, e stabilisce la regula
fidei, ossia la formulazione del «credo» per la quale noi siamo cristiani:
d) Le deviazioni ereticali contro le quali più si batte Tertulliano sono la gnosi valentiniana –
vanificatrice del mistero cristiano col suo mitico sistema cosmologico pleromatico, il suo
docetismo, la sua insensibilità alla testimonianza del martirio –; il diteismo di Marcione; il
materialismo di Ermogene; il monarchianismo modalista e patripassiano di Prassea. A partire dalla
confutazione ereticale, il nostro ha a poco a poco costruito un poderoso edificio teologico, destinato
a durare sino ai nostri giorni.

79
XI
I caratteri generali della apologetica dei secoli II e III

1. Inquadramento
«I giudei fanno loro guerra come a razza straniera e gli elleni li perseguitano; ma
coloro che li odiano non sanno dire il motivo del loro odio». Queste parole (A Diogneto
5,17), emblematiche della condizione del cristianesimo intorno alla fine del II secolo, le troviamo in
uno degli scritti più significativi di quella vasta produzione letteraria e teologica incentrata
sulla reazione ai mondi giudeo e gentile, che passa sotto il nome di «apologetica». Un
movimento che trova espressione anzitutto in autori di lingua greca della seconda metà del II
secolo; quindi, nel corso della prima parte del secolo III, tanto in autori greci come in autori
latini che, sulle orme dei predecesssori del II secolo, sviluppano e approfondiscono,
accanto ad altri ambiti della riflessione cristiana, i temi propri della «difesa» della fede. Si è
soliti indicare col nome di «Padri apologisti», gli apologeti greci della seconda metà del II
secolo; col nome di «apologisti latini», gli autori della produzione apologetica latina del III
secolo; e in modo più generico, col nome di «apologisti greci del III secolo», quegli autori
che più da vicino proseguono l’opera dei primi apologisti. Dall’«apologetica» va
chiaramente tenuta distinta la «controversistica», che si occupa di questioni connesse con le
deviazioni dottrinali.

2. L’apologetica antigiudaica
a) In verità, la reazione al mondo gentile costituisce la parte preponderante di questa
produzione, rivelando come il pericolo greco-romano sia ormai avvertito più intensamente
che non quello giudaico. Il compito di chiarire le relazioni tra cristianesimo e giudaismo
viene svolto da talune apologie antigiudaiche, come quelle di Aristone di Pella (la Disputa fra
Giasone e Papisco, composta intorno al 140, tendente a dimostrare l’adempimento in Cristo
delle profezie dell’AT) e di Milziade (dei cui scritti antigiudaici non sappiamo
praticamente niente), andate perdute; ci sono invece giunti il Dialogo con Trifone giudeo di
Giustino e il Contro i giudei di Tertulliano (infine, il Sui cibi giudaici di Novaziano).
Spendiamo qualche parola ad illustrare il contenuto di questi scritti rimastici;
b) Giustino, il più importante degli apologisti greci, nasce intorno al 100 d. C. a
Flavia Neapolis, in Palestina. Assetato di verità, approda al cristianesimo, intorno al 130.
Divenuto cristiano, Giustino si impegna con sincero ardore ad approfondire, difendere e
propagare la sua religione, dialogando tanto con giudei come con gentili circa quella che egli
definisce ora quale la «vera filosofia». Nel Dialogo con Trifone, posteriore alle due Apologie
rivolte ai gentili e composto intorno al 160, Giustino si serve della finzione letteraria del

80
«dialogo» per trattare di argomenti in parte connessi con personali esperienze, e tutti
incentrati sul fatto che la verità annunciata dalla Scrittura è la persona di Cristo. Dopo avere
narrato della propria ricerca della verità attraverso varie scuole filosofiche e del proprio
approdo al cristianesimo (1-9), l’autore espone anzitutto la concezione cristiana dell’AT,
sottolineando, da un lato, il valore transitorio e tipologico delle prescrizioni delle leggi mosaiche,
e dall’altro il carattere definitivo della «nuova legge» di Cristo, destinata a durare in eterno (9-
47). Quindi, passa a illustrare le ragioni per cui i cristiani riconoscono Gesù come Messia e
come Dio: Giustino tratta della preesistenza di Cristo, dell’incarnazione, della redenzione,
infine della resurrezione; tutto è stato preannunciato nelle Scritture, e in Cristo solo si sono
adempiute le profezie dell’AT (48-108). In seguito, prende a parlare della Chiesa, e di come
i suoi membri costituiscano il nuovo Israele e il vero popolo eletto. Le profezie universalistiche
di Michea, Zaccaria e Malachia si applicano ai cristiani (109-141). Nella «conclusione» (142),
Giustino, nell’amichevole commiato da Trifone, augura che il suo interlocutore e i suoi
compagni possano preferire Cristo ai loro maestri,, e credere in Lui;
c) Spostandoci in ambito latino, quarant’anni più tardi, intorno al 196, troviamo il
Contro i giudei di Tertulliano, presumibilmente il primo scritto del grande africano, a
riguardo della cui figura tratteremo altrove. Prendendo lo spunto dalla conversazione di
un cristiano con un proselito giudeo, il nostro dimostra che l’AT è stato sostituito dal NT:
ora, se il Cristo è il Messia promesso, vana è dunque l’attesa dei giudei;
d) Infine, intorno alla metà del III secolo troviamo la figura di Novaziano (anche su
costui, si dirà qualcosa in alta sede). Nel suo scritto contro i giudei critica la distinzione tra
animali puri e impuri, affermando che sarebbe indegno e contraddittorio per il Creatore, che
Egli, dopo averli benedetti tutti come buoni, ne avesse poi condannati alcuni;
e) Non ci è dunque difficile recuperare i tratti caratteristici del dibattito tra
cristianesimo e giudaismo a partire dalla seconda metà del II secolo, in particolare dopo lo
scisma marcionita, volto a separare definitivamente l’esperienza cristiana dall’esperienza
giudaica.
1) rapporto tra Cristo e la tradizione spirituale giudaica: al riguardo, gli apologisti
sottolineano come in Cristo si compia il senso spirituale della legge mosaica e si
adempiano le profezie messianiche; in questa prospettiva, è alla luce di Cristo che occorre
rileggere tutta intera la Scrittura, che in ogni sua parte parla, seppure in maniera velata, di
lui;
2) rapporto tra Scritture giudaiche e Scritture cristiane: la «Grande Chiesa», rifiutando
la posizione marcionita, accoglie come ispirate le Scritture giudaiche e rivendica l’unità di
tutta la Scrittura (c’è un unico Dio dell’AT e del NT, c’è un unico disegno di salvezza, e
così via); proprio per questo, l’AT, che conserva elementi di bontà anche in prospettiva
cristiana, nondimeno non è più la misura ultima e definitiva dell’alleanza universalistica

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di Dio con l’umanità, che passa ora per la persona di Cristo, per la Chiesa suo corpo, per le
Scritture del NT;
3) rapporto tra Israele e Chiesa: la Chiesa – come luogo in cui si sono riuniti assieme la
parte sana di Israele, quella cioè che ha riconosciuto Cristo come Messia, e i gentili che
hanno aderito alla fede in Gesù – è in questo senso il «nuovo Israele» e il «nuovo popolo
eletto», per la ragione che è per essa che passa ora il disegno di salvezza di Dio;
4) rapporto tra prescrizioni della legge mosaica e osservanze cristiane: le stesse Scritture
cristiane e la Tradizione viva della Chiesa riconoscono la bontà di una serie di usanze
dell’AT; nondimeno, alla luce di Cristo, talune di esse sono ormai decadute, e comunque
spetta solo alla Chiesa, di volta in volta, dichiarare tanto quali restino valide e quali no,
come il modo in cui eventualmennte restano tali.

3. L’apologetica antigentile
a) Abbiamo già in precedenza visto le principali obiezioni che il mondo gentile
muove al cristianesimo, relativamente al contenuto dei testi sacri cristiani, alle concezioni
metafisiche e dottrinali, alle conseguenze etico-politiche e alla composizione socio-culturale delle
comunità cristiane: un attacco profondo, che finisce con lo sviluppare una reazione
cristiana vigorosa e culturalmente attrezzata. Se il cristianesimo che cerca accoglienza
presso i circoli colti gentili già intende presentarsi come una «filosofia», dopo questo
attacco da parte del mondo filosofico greco-romano quella che poteva essere anche solo
una captatio benevolentiae è chiamata a divenire realtà. D’altro canto, come suole accadere in
questi casi, alla diffidenza e all’ignoranza si accompagna la paura, e la paura genera l’odio, che fa
scattare la molla della persecuzione e dell’emarginazione;
b) Si può dire che gli apologisti si prefiggano un triplice compito.
- confutare le accuse: sia i delitti legali (crimina sacrilegii et maiestatis) sia quelle
infamanti che giravano tra il popolo;
- contrattaccare la religione e la filosofia gentili: al fine di giustificare il rifiuto dei
cristiani di aderire alla religione e al pensiero greco-romani, gli apologisti si preoccupano
di dimostrare: a) l’assurdità e l’immoralità della religione gentile; b) l’insufficienza e gli
errori della filosofia di fronte alla verità cristiana;
- esporre la dottrina cristiana: al fine di dimostrare che solo i cristiani posseggono la
(pienezza della) verità;
c) Gli apologisti sono gentili, in genere colti, i quali, paragonando i diversi sistemi
filosofici con la dottrina cristiana, hanno rilevato la superiorità di questa, si sono convertiti
al cristianesimo ed ora sentono il bisogno di partecipare ad altri le loro esperienza
religiosa.;
d) Per confutare le accuse, e il cerchio infernale che mettono in movimento, occorre
anzitutto uscire allo scoperto e fare conoscere in maniera obiettiva il vero contenuto del

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cristianesimo, sfatando in tal modo i pericolosi pregiudizi che lo circondano; e non si tratta
solo di respingere le volgari calunnie e le pesanti insinuazioni della gente comune, ma
pure di rispondere in maniera efficace alle obiezioni colte mosse alla fede;
e) Contro le obiezioni colte, occorre non solo controbattere ma anche contrattaccare. A tale
scopo, si può attingere ai numerosi esempi offerti dalla stessa letteratura gentile: rifarsi ai
racconti mitologici, alle dottrine e ai culti gentili, per dimostrarne l’assurdità e insieme
l’immoralità, al confronto con la coerenza e la sublimità delle verità cristiane. Più difficile
appare il compito di dimostrare l’insufficienza e gli errori della filosofia di fronte al cristianesimo,
premessa ad una esposizione della nuova fede;
f) A tale proposito, l’atteggiamento degli apologisti si divide. In genere essi (Giustino,
Aristide, Atenagora, Melitone, A Diogneto, Clemente Alessandrino, Minucio Felice,
Origene) sono disposti a riconoscere la bontà di molte conquiste del mondo antico, che tuttavia
hanno un carattere solo preparatorio, parziale e imperfetto rispetto alla definitiva e piena verità
della sapienza cristiana. La verità è certo una sola; e il logos, che ha illuminato tutti i sinceri
«amanti della sapienza», si è manifestato in Cristo, che è per eccellenza la pienezza della
Verità e del Logos. La filosofia è stata per i gentili, non diversamente dalla legge per i giudei, la
«via» a Cristo, e in questo senso essa è propedeutica alla Rivelazione e da essa dipende. Ma vi è
anche chi assume una posizione diversa. E qui si va dal caso isolato di un Taziano, che
respinge e condanna in blocco la filosofia e la cultura gentili, a posizioni più sfumate (Teofilo,
Tertulliano), estremamente severe nella critica del mondo gentile ma anche aperte a riconoscerne
elementi di positività, e soprattutto preoccupate di presentare in maniera più organica la
fede;
g) Se i «Padri apostolici», raccogliendo la Tradizione viva della fede, avevano
compiuto una prima riflessione teologica di base e offerto una prima soluzione dei problemi interni
alla Chiesa, ora, tra II e III secolo, con l’espandersi della fede, si esigono approfondimenti e
risposte più precise. C’è un fronte interno, dove le tendenze eretiche (in particolare «gnostiche»)
vengono alla luce con maggior forza, tale da richiedere un imponente sforzo teologico da
parte degli autori ortodossi (si pensi a figure come Ireneo, Clemente Alessandrino e
Tertulliano); e c’è un fronte esterno, dove si avverte il bisogno di elaborare una sistematica
riflessione teologica, questa volta a partire da un impiego costante delle categorie filosofiche antiche
(specie «platoniche», in campo metafisico, e «stoiche», in campo morale). In questa
direzione, l’apologetica greca rappresenta l’inizio di un nuovo cammino (sviluppato poi dalla
apologetica latina, ma soprattutto dal genio di Origene).

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II: Esposizione sintetica della letteratura patristica
1. I Padri Apostolici, diretti continuatori dell’opera degli apostoli. 2. Gli Apologisti danno
le ragioni della propria fede e speranza. 3. La reazione antignostica e la difesa della
Tradizione apostolica. 4. La Scuola di Alessandria, incontro tra fede e cultura. 5. Gli inizi
della letteratura cristiana in lingua latina. 6. Lattanzio ed Eusebio di Cesarea nella «svolta
costantiniana». 7. Atanasio tra la crisi ariana e le origini del monachesimo. 8. I Padri
Cappàdoci tra umanesimo e ascetismo. 9. Tre Padri occidentali: Ilario, Ambrogio,
Girolamo. 10. Agostino di Ippona, il genio al servizio della fede. 11. Giovanni Crisostomo
e Cirillo di Alessandria.

III: Il mondo dei Padri della Chiesa


1. Il bacino del Mediterraneo. 2. La diffusione del cristianesimo. 3. Società civile e società
religiosa nel mondo antico. 4. L’atteggiamento dell’impero romano di fronte al
cristianesimo nei primi tre secoli. 5. Il principio dualistico cristiano. 6. «Onore e timore»: il
riconoscimento, al di là della contestazione, nella prima apologetica. 7. La concezione
stoica del diritto naturale e i tentativi apologetici più maturi. 8. Una diversa linea
interpretativa: «o Dio o Cesare».

IV: La donna nel pensiero cristiano antico


1. La donna nella Chiesa dei primi secoli. 2. Due statuti: quello di parità e quello di
subordinazione. 3. Donna e ministeri. 4. Alcune considerazioni conclusive.

V: I caratteri generali della polemica anticristiana antica


1. Le coincidenze tra cristianesimo e filosofia antica. 2. Le obiezioni: caratteri generali. 3. Le
obiezioni popolari. 4. Le obiezioni «etico-politiche» dei ceti colti.

VI: La «storicità» della fede: La reazione gentile, i cristiani e la Bibbia


1. I cristiani e la tradizione veterotestamentaria. 2. I cristiani e le scritture del Nuovo
Testamento. 3. Pietro e Paolo.

VII: Le principali obiezioni «metafisiche» del pensiero antico al cristianesimo


1. «Logos» e «pistis». 2. La rivelazione divina. 3. I rapporti tra Dio e il mondo.

VIII: La formazione di un metodo esegetico cristiano nei primi secoli


1. Inquadramento generale. 2. L’approccio esegetico cristiano. 3. La posizione ambivalente
degli gnostici. 4. La reazione antignostica. 5. Ippolito e la nascita del trattato esegetico. 6.

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Verso la nascita di un metodo esegetico: Clemente e la scuola d’Alessandria. 7. L’esegesi di
Origene.

IX: I Padri e la Bibbia: cenni generali e questione dell’ispirazione


1. Inquadramento generale. 2. Brevi cenni storici sull’introduzione generale alla Bibbia. 3.
L’ispirazione della Sacra Scrittura nei Padri della Chiesa.

X: L’eresia gnostica
1. I Padri Apostolici e l’eresia docetistica. 2. I caratteri generali della gnosi cristiana antica.
3. Il marcionismo. 4. La letteratura eresiologica dei secoli II-III.

XI: I caratteri generali della apologetica dei secoli II e III


1. Inquadramento. 2. L’apologetica antigiudaica. 3. L’apologetica antigentile.

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