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PREMESSE A CASSANDRA
(Quattro lezioni su come nasce un racconto)
AVVERTENZA
Questo testo raccoglie le "lezioni di poetica" tenute da Christa Wolf nel
1982 all'Università di Francoforte.
Si tratta di quattro interventi in cui l'autrice illustra la genesi del racconto
"Cassandra" (Edizioni e/o, Roma 1984) a partire dal viaggio fatto in Grecia,
nel 1980, insieme al marito Gerhard (germanista e critico letterario)
indicato come G.
Per la traduzione mi sono attenuta al testo pubblicato da Luchterhand nel
marzo 1983.
Ma ho tenuto conto anche delle lievi modifiche stilistiche presenti
nell'edizione comparsa successivamente nella R.D.T. ("Kassandra.
Vier Vorlesungen.
Eine Erzblung", Berlin und Weimar 1983) che riunisce in un unico volume
le "Premesse" e "Cassandra".
Segnalo qui che in tale edizione la terza lezione presenta in calce la dicitura
versione ridotta ("gekrzte Fassung"), e risulta mutilata, in rapporto
all'edizione Luchterhand di 65 righe a stampa.
La versione che qui viene fornita è integrale.
Notevole importanza hanno nel testo le citazioni dall'"Orestea" di Eschilo.
Christa Wolf ricorre a quattro traduzioni dell'originale greco (indicate nella
bibliografia) lavorando sulle indicazioni e le suggestioni che da queste
traduzioni le derivano.
Per cercare di restituire al lettore italiano il percorso compiuto dall'autrice,
ho tradotto i brani citati direttamente dalle versioni tedesche di Eschilo,
rinunciando a fornire preesistenti traduzioni italiane.
Allo stesso modo mi sono comportata per i passi citati dalla "Poetica" di
Aristotele e per i versi dell'"Ode ad Afrodite" di Saffo.
Signore e signori,
questa iniziativa ha per titolo lezioni di poetica, ma ve lo dico subito: non
ho una poetica da offrirvi.
Mi è bastata una sola occhiata al "Dizionario enciclopedico del mondo
antico" per confermarmi nel sospetto di non possederne una.
Poetica: dottrina dell'arte di far poesia che, in fase avanzata Aristotele,
Orazio - prende forma sistematica, e le cui norme, dall'Umanesimo in poi,
acquistano in numerosi paesi ampia validità.
La via che porta a nuove posizioni estetiche, leggo, passerebbe per la
discussione di queste norme, tra parentesi: Brecht.
Non sto affatto scherzando, e ovviamente non nego l'influenza che le norme
estetiche dominanti hanno su chiunque scriva (anche su chiunque legga e
chiami le norme interiorizzate il suo gusto personale).
Ma il violento desiderio di discutere la poetica o l'esempio di un grande
scrittore, tra parentesi: Brecht, non l'ho mai provato.
La cosa mi è parsa singolare solo negli ultimi anni, sicché può darsi che
queste lezioni tratteranno, tra l'altro, anche di ciò che nessuno mi ha chiesto,
del perché io NON ho una poetica.
Ma soprattutto voglio pregarvi di seguirmi in un viaggio, in senso sia
letterale che metaforico.
Da uno o due anni a questa parte sono andata dietro a una parola-chiave,
vale a dire: CASSANDRA, e per una volta ho avuto voglia (ora mi passava,
ora mi ritornava), di ricalcare a grandi linee le vie lungo le quali la parola
mi ha condotto.
Molto, il più forse, e l'essenziale, resta non detto, resta probabilmente a
livello inconscio, e la trama - che del resto, in quanto forma estetica, si
troverebbe al centro della mia poetica NEL CASO CHE ne avessi una - la
trama che ora voglio sottoporvi non si è completamente ordinata, non è
possibile abbracciarla con uno sguardo, alcuni dei suoi motivi non sono
stati sviluppati, alcuni dei suoi fili si sono aggrovigliati.
Ci sono inserti che hanno l'effetto di corpi estranei, ripetizioni, materiali
fino alla fine non elaborati.
Ciò non è sempre intenzionale: la sovranità sulla materia me la son dovuta
prima conquistare io stessa, e vi faccio testimoni del modo di procedere di
questo lavoro.
Vi faccio testimoni anche di un modo di procedere che ha trasformato la
mia ottica, sebbene questo processo sia appena incominciato, e io stessa
avverta acutamente la tensione tra le forme dentro cui ci muoviamo per
convenzione e il materiale vivo che i sensi, l'apparato psichico, il pensiero
mi hanno trasmesso e che a queste forme non ha voluto sottomettersi.
Se mi è concesso già ora di formulare un problema poetologico, questo è:
non esiste poetica, né può esisterne una, capace di evitare che la viva
esperienza di innumerevoli soggetti sia uccisa e seppellita in oggetti d'arte.
Ciò significa che gli oggetti d'arte (opere) sono anche prodotti
dell'alienazione di una cultura i cui altri
perfetti prodotti costituiscono una produzione rivolta
all'autoannientamento?
Dunque il mio è un procedimento del tutto personale.
Pratico svariate forme soggettive di espressione esaminando il lavoro che
esse possono svolgere, che io posso svolgere su di esse.
La "prima" e la "seconda lezione, resoconto" in due parti di "un viaggio in
Grecia", testimoniano come la figura di Cassandra prenda possesso di me
sperimentando la sua prima provvisoria incarnazione. La "terza lezione"
cerca, nella forma di un "diario di lavoro", di ricalcare l'aggraffarsi di vita e
materia trattata; nella "quarta lezione", una "lettera", mi pongo domande
sulla realtà storica del personaggio di Cassandra e sulle condizioni della
scrittura femminile, ieri e oggi.
La quinta lezione è un "racconto" intitolato Cassandra (1).
Indirizzo pressantemente la mia domanda soprattutto: contro gli effetti
inquietanti dell'alienazione anche nell'estetica, anche nell'arte.
PRIMA LEZIONE
Resoconto di viaggio.
Casuale apparizione e progressiva costruzione di una figura letteraria.
"Puoi cambiare la città, non il pozzo".
Libro di sentenze cinesi.
Così, senza sapere ciò che cercavo, e solo perché sarebbe stato
imperdonabile lasciarsi sfuggire quell'occasione, volli partire per la Grecia.
Sui moduli scrissi turismo a motivo del viaggio, tacqui a tutti, anche a me
stessa, che guardavo con animo sereno al loro ritorno e alla loro
conversione in visti validi - procedimento imperscrutabile -, ho più simulato
che provato un'attesa gioiosa e mi sono attenuta soprattutto a una
disposizione ironica (... cercando con l'anima la terra dei Greci...!); col
pretesto di voler assaporare impressioni non mediate mi sono solo
scarsamente provvista di informazioni, senza poi meravigliarmi
eccessivamente del mio attacco di risa quando, a causa di un errore della
compagnia di volo, abbiamo perso l'aereo per Atene.
Da quel momento la cosa poteva farsi interessante.
Allegramente ripercorremmo in discesa le scale dell'aeroporto.
Non la legge, ma il caso avrebbe governato il nostro viaggio, un sovrano
dispotico, imprevedibile, che è difficile capire, complicato ingannare,
impossibile dominare.
Caso - sostanza volatile, senza cui non nasce racconto che voglia sembrare
naturale, eppure così difficile da catturare.
Un taxi.
Le graffe dell'Ineluttabile si allentarono.
In quell'unica occasione le premesse, che generano per ciascun secondo di
vita un effetto già determinato, non si incastrarono l'una nell'altra, ma
annasparono nel vuoto; Moira, il destino, ci cercò invano nell'aereo che
proprio allora atterrava ad Atene; irreperibili, parvenze non registrate e
senza bagagli, andammo per le strade di Berlino, capitale della R.D.T.;
stranieri, singolarmente turbati, irriconoscibili camminammo per una città
irriconoscibile, mangiammo all'asiatica nel Palasthotel per la somma
stabilita nella dichiarazione per la dogana e i visti, acquistammo i biglietti
per l'Opera e ci raccontammo, sull'animata Friedrichstrasse, la storia del
giorno donato.
Con le dovute misure precauzionali ci intrufolammo nel nostro
appartamento, che era vuoto; dormimmo; la sera assistemmo straniti al
"Ratto dal serraglio", rammentandoci a fatica delle convenzioni a cui ci si
deve attenere perché abbia effetto l'incanto.
Non potevamo ancora supporre che per quattro o cinque settimane non ci
saremmo più sbarazzati delle parole e della melodia delle ultime righe: Chi
tal clemenza può scordar / è uom soltanto da spre-e-giar.
Il mattino dopo, nell'appartamento vuoto dove nessuna telefonata, nessuna
lettera veniva più a perdersi, cominciai a leggere l'"Orestea" di Eschilo.
Ebbi appena il tempo di assistere a come l'estasi panica mi si allargava
dentro, montava e raggiungeva il culmine, quando una voce attaccò:
Cassandra.
La vidi subito.
Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le
erano estranei, si impadronì di me.
Più tardi mi sarei chiesta quando, dove e da chi fossero state trovate le
convenzioni necessarie: l'incanto ebbe subito effetto.
Credetti a ogni sua parola, provare una fiducia incondizionata era ancora
possibile.
Tremila anni dissolti.
Così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò
duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto.
Mi sembrò degna di fede in un altro senso: mi parve che in questo dramma
fosse l'unica a conoscere se stessa.
Priva di distacco, poiché non mi interrogai sulle ragioni della mia
commozione, non mi interrogai nemmeno su quali fossero state, su quali
potevano essere state le intenzioni di Eschilo nei confronti del suo
personaggio.
Prima che Cassandra apra bocca, già sappiamo: la guerra contro Troia è
finita.
Agamennone, il re che ha guidato gli achei e davanti alla cui rocca, Micene,
ci troviamo, ritorna, dopo dieci anni di assenza, atteso da sua moglie
Clitennestra e dai vegliardi che sono stati costretti a restare a casa.
Egli arriva, accanto a lui siede sul carro del trionfo Cassandra, la troiana,
figlia del re troiano Priamo, che è morto come sono morti i fratelli e la
maggior parte delle sue sorelle.
Troia è distrutta, e lei tutto questo lo ha predetto, ma i suoi compatrioti non
le hanno creduto.
Ora si permette di predire agli stranieri che l'attorniano che il loro re,
appena invitato dalla moglie Clitennestra ad entrare nella rocca calcando il
tappeto di porpora del vincitore, proprio da questa verrà assassinato.
Ha immediatamente subodorato la maledizione che pende sulla casa degli
Atridi.
Il coro dei vegliardi argivi si stupisce: ella non accoglie il nobile invito di
Clitennestra a prendere parte al sacrificio che si prepara all'interno.
Non si sa: capisce il greco?
CORO:
Va', Cassandra! Entra.
Lascia questo carro, sottomettiti al giogo!
CASSANDRA:
Apollo! Apollo!
Che segni la via! Tu!
A tutti gli altri
dai soccorso!
E annienti me,
Apollo,
per la seconda volta!
Non c'è dubbio che il coro saprebbe dire alla veggente sconvolta i nomi
delle sue visioni da incubo: Atreo, padre di Agamennone, che scanna i figli
di suo fratello Tieste e ne serve al padre la carne: pare che in Asia Minore
una cosa simile non si facesse neppure nelle lotte per il trono.
Ma no; ora i patriottici vegliardi proibiscono di parlare alla straniera che
non ne ha l'autorità:
Taci!
Ci è noto che sai l'arte del veggente.
Ma noi non cerchiamo profeti:
non qui!
E in lei io avverto un sollievo che forse non è documentabile con le sue sole
parole.
Il sollievo di essersi finalmente sbarazzata di una vocazione opprimente, di
non dovere più niente al dio (E ora il veggente la veggente conduce alla
scure), più niente ai suoi compatrioti (Hanno distrutto Ilio.
L'ho visto come accadde); ma, priva di quella vocazione, anche se non
libera dalla coazione a vedere, deve ancora qualcosa a se stessa - che cosa?
Conoscenza di sé, distacco, lucidità credo di cogliere nella sua voce,
insieme al più profondo sbigottimento.
Una sorta di trionfo? E' ora superiore a coloro che un tempo la derisero -
amici e nemici! e che l'hanno chiamata pazza, accattona, ciarlatana,
scriteriata, miserabile, morta di fame? Li accusa? No di certo.
Il suo non è il tono della vendetta.
Sembra che io sappia di lei più di quanto sia in grado di dimostrare.
Sembra che lei mi guardi più intensamente, che anzi più intensamente mi
riguardi di quanto io sia in grado di volere.
I bambini più piccoli, quattro o cinque ragazzini della stessa età, si sono
mostrati le loro armi-giocattolo, poi si sono divisi in minigruppi che
combattono tra loro, e ora, sparando a salve, impazzano per i corridoi verso
le porte della dogana.
Quando c'è stato bisogno di pezzi da 10 pfennig e da 1 marco per
l'apparecchio telefonico, abbiamo dovuto rivelare la nostra identità di unici
cittadini della R.D.T. tra i passeggeri.
Frattanto una ragazza dodicenne ha scoperto che, per funzionare, il secondo
telefono non ha bisogno di monete, e adesso l'apparecchio è circondato da
adolescenti che chiamano senza problemi l'amico o l'amica a New York, ad
Atene o a Stoccolma.
Se noi, come ci fanno sperare, potessimo decollare verso le 22,20, saremmo
ad Atene verso le 2.
La voce di C., dall'altra parte del primo telefono, molto lontana e
scoraggiata: venite veramente? La tavola è apparecchiata già da un pezzo.
Per l'ultima volta la stanca cameriera al buffet delle bevande accetta
ordinazioni, in cambio di valuta estera ovviamente, poi chiude anche lei e
spegne la luce sul bancone.
Siamo abbandonati a noi stessi e al dubbio che fuori di questa spoglia sala
illuminata ci sia ancora alcunché: un aeroporto, una città di cui esso faccia
parte, un paese, altri paesi, il continente.
Al dubbio che davvero un aereo il quale, come si ode da una voce fantasma,
è stato bloccato in una città di nome Copenaghen da uno sciopero bianco
del personale di volo scarsamente retribuito, ora si stia aprendo un varco
attraverso la notte fino a noi, mucchietto di naufraghi finiti insieme
casualmente, di cui noi non dovremmo far parte, se le cose fossero andate
come dovevano.
E il telefono, che va senza soldi - non è forse un complotto e non simula per
i suoi utenti, magari con l'ausilio di complicati dispositivi di registrazione
(oggigiorno tutto è possibile, non credete?), voci che fingono un mondo
esterno, mentre in realtà Cassandra davanti alla porta di Micene (non vedo:
la porta dei leoni? La porta del palazzo all'interno della cinta muraria?):
CORO:
Perché, come animale pungolato dal dio,
ti avvii tranquilla all'ara del sacrificio?
CASSANDRA:
Il tempo è maturo, amici, e la morte è vicina.
Finanche l'ora estrema ha il suo peso.
E' già qui, e insensato è fuggire.
Ti faccia animo il dolore.
Forse.
Alla felicità il coraggio non serve.
Come, in che modo accadde che le crollò ogni alternativa? E che le resta
ora solo quest'unica via, lungo cui non si lascia trascinare, che percorre da
sola.
Lasciatemi! Devo entrare! Addio.
E poi un errore di Eschilo.
Mai lei avrebbe detto: Anche dentro posso / piangere la sorte di
Agamennone.
Agamennone - l'ultimo della serie degli uomini che le fecero violenza (il
primo fu Apollo, il dio) piangerlo? Allora vuol dire che la conosco male.
I bambini si scatenano come pazzi.
Uno si è isolato dagli altri, un piccolo sbruffone grassoccio e
supersmaliziato che correndo fa il giro delle madri e le informa: quelli mi
chiamano sempre puttana.
Dato che le madri non reagiscono - quanto sono progressiste tutte quante! -,
insegue i più piccoli, fino a che uno di loro cade, batte malamente la testa,
viene rialzato e consolato da sua madre.
Il piccolo sbruffone, imperturbabile (dio mio, anche questo ragazzino un
giorno diventerà un uomo): l'ho cacciato via quello, mi chiamava sempre
puttana.
La nostra risata all'unisono ci permette di fare conoscenza.
Sigrid.
Ci sarà una sera in cui siederemo vicine in una taverna di Atene a mangiare
costolette di montone arrosto.
Il suo amico greco, uno scrittore che lavora a una nuova traduzione di
Eschilo, ad Atene, durante la notte, ha aspettato lo stesso aereo insieme al
nostro amico greco.
Ci siamo scambiati, si sono scambiati gli stessi numeri di telefono.
Tyche, il caso.
Cosa quasi insperata: una stretta porticina che dà sulla pista si apre.
Quando mi siedo: una lucida, sovreccitata tensione in luogo dell'agognata
stanchezza.
Un Boeing.
Due stewards, due hostess che seguono le istruzioni dei loro colleghi
maschi.
Il gruppo rigidamente chiuso dei passeggeri siriani, che non pensano
minimamente a spostarsi anche solo di un posto, in modo che una coppia di
Berlino Ovest possa sedere insieme al figlio adottivo vietnamita - Thomas.
Le mogli dei siriani, sfiorite, vestite totalmente di nero, che obbediscono in
maniera incondizionata ai cenni dei mariti: è possibile che Cassandra abbia
avuto l'aspetto di una di queste, una delle più giovani; ma nessuna di loro
oggi, dopo tanti secoli, riuscirebbe a parlare come lei (che cosa hanno fatto
loro, nel frattempo?):
Quale colpa? Che cosa vuole dire il poeta greco? O che cosa lascia
trasparire, pur senza volerlo dire effettivamente? Parla solo della vecchia
colpa che lei commise quando, come ora vedremo, ingannò il dio
vendicativo? E' questo che ha confessato al coro dei vegliardi, capaci
tuttavia anche di bonaria compassione:
La fede nei profeti è, penso, in gran parte fede nella forza della parola.
Come per rispondere a una contestazione, mi sorprendo a sperare che il
caos estraneo di questo luogo, a cui mi sento esposta più fortemente che a
casa, possa assumere una struttura ordinata intorno alle parole come la
limatura di ferro intorno a una calamita.
La centratura intorno al Logos, la parola come feticcio - forse la più
profonda tra le superstizioni dell'occidente, in ogni caso quella a cui io sono
visceralmente attaccata.
Al punto che l'impotenza linguistica, da sola, mi fa presagire gli orrori
possibili dell'esilio.
Infelice abitudine di saggiare città straniere come luoghi dov'è pensabile
vivere - quando incominciò? La questione del momento in cui andò
smarrito il senso della patria. (L'attimo che nella vita di Cassandra forse ha
significato capire che i suoi ammonimenti erano insensati, perché la Troia
che voleva salvare non esisteva affatto.
Peggio per lei.
Che diavolo poteva farci Troia?).
Probabilmente i fili che ci legavano ai nostri obblighi a un certo punto
furono spezzati, allorché sulla nostra arca oltrepassammo i Balcani.
Quando? Dove? Impossibile stabilirlo.
L'espressione con cui N. si guardava intorno, nella taverna, testimoniava la
sua sensibilità per le più sottili vibrazioni di questo mondo interiore.
Lo vedevo fiutare l'aria: in che misura il paese straniero era ormai patria e la
patria ancora paese straniero? Questa lo accettava? Ne sentiva l'odore
straniero e gli si negava? L'emigrazione non lo aveva reso incapace di
tenersi a galla? Mi sbagliavo oppure gli stava particolarmente a cuore quella
vecchia che, lacera, emaciata, andava di tavolo in tavolo con mazzolini di
fiori? Mughetti, ah, mughetti.
Un'ondata di nostalgia per un posto umido e ombroso sotto un cespuglio di
rododendro in un giardinetto del Meclemburgo.
Cosa dice la donna? Il marito è malato, dice N. di malumore, come se il suo
malumore le potesse guarire il marito.
Quella donna lo turbava.
Esilio, pensai ancora, cioè: essere salvi e senza punti di riferimento.
Quale dei gironi dell'inferno? Invece quelle tre zingare dalle lunghe gonne
colorate, dalle camicette vivacemente scintillanti, dagli scialli sfrangiati,
che si erano messe a sedere a un tavolo accanto all'ingresso, portavano con
sé la loro cerchia di riferimenti, che quindi non necessariamente erano casa,
cortile, proprietà, un luogo, un paese e un particolare tipo di cielo come per
noi sedentari.
Com'era invece vincolato in maniera stabile e definitiva quell'uomo con
cappello e cartella che entrava adesso - ogni pomeriggio alla stessa ora, ci
informò N., non più giovanissimo, ma ancora in servizio; uno che fino
all'ultimo avrebbe avuto un portamento eretto (quella sorta di rigido
orgoglio, vidi, sia che gli fosse connaturato, sia che fosse sorto un giorno
per libera decisione, era il ricovero e la gabbia di quell'uomo); che si mise a
un tavolo accanto al bancone, salutò misuratamente l'oste, fu ricambiato con
rispetto, mentre il cameriere già gli poneva sul tavolo il bicchiere di oúzo,
che lui vuotò immediatamente ma tuttavia con dignità, fino all'ultima
goccia, poi mise una moneta sul tavolo, portandosi due dita al cappello
salutò l'oste il quale ringraziò con un inchino, e se ne andò. - Due minuti,
disse G., ma tutti i giorni.
Proprio così.
E neanche una traccia d'ironia nei gesti grandi e piccoli di questo popolo.
Ci passa la voglia di parlare, quando ci troviamo di nuovo per strada,
coinvolti a forza nel traffico pomeridiano, allorché dagli uffici e dalle
aziende la lotta per la sopravvivenza si sposta per la strada.
Una volta mi colpisce lo sguardo di una Medusa scolpita nella pietra,
l'orrendo capo di Gorgone, ma di pietrificarmi non trovo il tempo, in mezzo
a quella folla.
L'effetto dell'antico malaugurio sembra annullato; quasi soffocando nell'aria
appestata degli autobus stracolmi, sfiniti, grondanti sudore, non riusciamo
ad augurarci nient'altro se non che questo abbia fine.
Con la pietrificazione? E sia pure.
N. chiede se ci accorgiamo di come opprima il petto la miscela dei gas di
scarico.
Allora è questo che mi opprime il petto, la miscela dei gas di scarico,
consolante a sapersi.
Forse è un incubo, che però deve essere stato fabbricato anche coi desideri
degli uomini; solo che le loro divinità malvagie, in un punto indeterminato
tra desiderio e realizzazione, glieli hanno stregati e stravolti in qualcosa di
smodato, raccapricciante, grottesco.
Come si dice fortuna da voi? - Eutychìa, dice N., il caso favorevole.
Molto bello, dico.
Non è da questo popolo che potrebbe venire una frase come Solo l'uomo di
valore alla lunga ha fortuna.
Infatti, a partire da Omero, dai tempi di Eschilo, non sono riusciti a
descrivere la sfortuna come colpa.
Che magnanimità da parte del tragico greco mettere in bocca alla barbara
prigioniera la profezia di sventura per la casa reale della Grecia arcaica.
Quale profezia potrebbe ancora sorprenderci, strapparci lai e lamenti come
al coro dei vegliardi argivi l'annuncio che il loro re sta per essere scannato
dalla loro regina? Noi non siamo al di là di ogni annuncio o profezia, quindi
al di là della tragedia?
Così il poeta maschio vuole vedere queste donne: piene d'odio, gelose,
meschine tra loro - come possono diventare le donne, quando sono
allontanate dalla sfera pubblica, ricacciate in casa e accanto al focolare;
accadde proprio questo nei secoli dei quali tira le somme la grande tragedia
di Eschilo.
Se ne potrebbe parlare a lungo, diciamo nell'accomiatarci.
In estate, quando avremo lasciato da tempo questo paese, a Epidauro gli
interpreti di Clitennestra, di Cassandra, di Agamennone e di Oreste
reciteranno i testi antichi nella lingua di Valtinos.
Capisco che è sovraccarico di lavoro.
Nella sua stanza vedo la macchina da scrivere affogare nella carta.
Cassandra del resto, monto in cattedra io sulla via del ritorno attraverso la
città notturna e vuota, Cassandra non ha interessato veramente Eschilo; non
come lo hanno interessato gli assassini.
A noi, conveniamo, gli assassini ci annoiano fino alla nausea.
A volte potrei ammazzare, dico, ma non descrivere gente in preda a follia
omicida.
Cassandra, presumo, si definisce non assassina, non posseduta dalla follia.
Da dove le vengono la voglia e la forza di opporsi?
Il libro che Valtinos ci ha dato per il viaggio entra nel bagaglio per Creta,
visto che è piccolo e leggero.
Giacché è fuori discussione che dobbiamo andare a Creta, all'improvviso
tutti parlano della culla dell'occidente, all'improvviso tutti parlano della
cultura minoica.
Il traghetto, che si chiama KRITI, fa rivivere ogni sera, nel porto del Pireo,
uno spettacolo antichissimo: una nave salpa.
Adesso è questo ciò che conta.
L'attività di tutto il bacino si raccoglie davanti alla scura imboccatura
quadrangolare della nave, dal ponte di coperta vediamo l'ingorgo dei
veicoli, che più si avvicina l'ora della partenza, più ci appare disperato.
Se si può credere ai gesti, alle grida che arrivano quassù, tra i conducenti
degli autocarri aggrovigliati ci sono questioni di vita o di morte, volano
pugni, uno si siede sul molo, le mani sul viso, un uomo distrutto, mai e poi
mai i berretti bianchi della polizia portuale, che adesso si mescolano alle
teste brune, riusciranno a ottenere qualche risultato, a che servono i loro
cenni, penso, finché mi rendo conto che l'autocarro carico di legname
universalmente osteggiato, il cui conducente sembrava deciso a tutto,
scivola lentamente, lentamente, millimetro dietro millimetro, sul traghetto;
che ora anche gli altri veicoli si danno un ordine, secondo modelli
imperscrutabili, come se quello grande se li tirasse dietro.
E che l'uomo che sedeva piangendo sul molo non guida nessun veicolo, non
aveva alcun interesse personale al risultato, ma solo allo spettacolo che, non
essendo più interessante, abbandona per andarsene a zonzo fischiettando.
Queste scene di partenza, di commiato e di porto non le vivo per la prima
volta; nessuno che abbia dovuto prendere commiato, o lasciare qualcosa che
chiamava patria, può viverle per la prima volta.
Non per la prima volta, mi sembra, una nave su cui me ne sto ritta, scivola
via dal molo, non per la prima volta si spalanca questo scuro abisso tra me e
la riva, e resta indietro, a terra, una figura nera, C., cui facciamo a lungo
cenni di saluto, che diventa più piccola, infine minuscola.
Poi sollevai lo sguardo e vidi la luce.
Erano le sette di sera.
Il sole, molto basso, ci stava alle spalle e illuminava l'arco del porto del
Pireo, ma ogni oggetto risplendeva autonomamente del proprio colore, in
una luce incantata che da allora ogni sera non mi lasciai sfuggire.
Può darsi che in questo chiarore, nel caso che anche le navi degli achei
siano partite a sera dalla costa di Troia, le troiane prigioniere, stipate a
poppa, abbiano visto per l'ultima volta le macerie della loro città e la riva
della patria.
Ciò avrà reso più acerbo il loro dolore e contemporaneamente avrà
rinsaldato quell'amore cui forse si saranno aggrappate una volta in terra
straniera.
Ma dei narratori che hanno scritto di loro, nessuno fu presente, e nessuno ha
menzionato questa luce.
SECONDA LEZIONE
Il resoconto di viaggio continua seguendo una traccia
Apollo! Oh Apollo!
Tu che segni la via! Tu che mi sei avverso! Dove mi hai condotta,
ahi, a quale casa!
...
una casa macello d'uomini e il suolo chiazzato di sangue.
Con cui allude a quell'orrendo pasto che dietro queste mura imponenti
l'Atride Atreo serve a suo fratello, il rivale: le carni cotte dei suoi figli
maschi.
La donna rabbrividisce, un brivido causato anche dalla natura umana, non
solo dal proprio destino.
Adesso sta tra le mura ciclopiche.
Dalla porta la fissano i leoni, che ora sono senza testa.
Deve entrare.
Mura, mura, anche nella cerchia interna della rocca.
L'impietrita paura della vita manifestata dagli abitanti, e il loro timore degli
stranieri - non c'è da stupirsi del cattivo presagio che assale la straniera.
Noi invece: su per sentieri sassosi e soleggiati nella corrente dei turisti,
intorno studenti di qualche college americano, davanti, cinguettanti, le
quattro butterflies giapponesi.
A destra: il circolo delle tombe.
Sguardo sulle tombe a fossa del sedicesimo secolo avanti Cristo: così
venivano seppelliti gli eroi degli achei e non, come descrive Omero, cremati
sui roghi.
L'altare; la via delle processioni; i resti delle mura del palazzo.
Qui, qui da qualche parte, Clitennestra, uscendo dalla porta del palazzo,
disse:
Entra, Cassandra.
Entra in casa, scendi.
Parlo a te.
Offre alla prigioniera di prender parte al sacrificio, pare che non voglia farle
pesare ulteriormente la sua sorte di schiava.
Cassandra tace, il coro congettura:
Al che Clitennestra:
questa è la legge,
sangue,
che a terra scorre,
chiama altro sangue.
Pieni di forza allo stesso modo i cori delle Erinni, dee vecchissime,
personificazione delle anime degli avi, che lamentano il tramonto del diritto
antico, considerato come tramonto della morale in assoluto.
Fiacca poi a paragone, un epilogo da agit-prop, un finale a tesi,
l'assoluzione di Oreste e l'addomesticamento delle Erinni matriarcali ad
opera della saccente Pallade Atena; l'intento politico del cittadino ateniese
Eschilo gli attenua il finale del dramma.
Ma anche in questo agosto dell'anno 1980, i 15000 visitatori, greci ma
soprattutto turisti da tutto il mondo, che nel teatro antico vedranno l'antico
dramma, non torneranno a casa, credo, con la sensazione di aver assistito a
un happy end.
La disputa cavillosa che ha per oggetto se in quell'uomo infelice, Oreste, sia
da ravvisare l'assassino della madre o il vendicatore del padre, è solo
espressione del contrasto che, apertosi là dove invece avrebbe dovuto
svilupparsi accordo e conciliazione, nel maschio si ritrova in forma di
dissidio e che, proprio perché incessantemente negato, mascherato,
reinterpretato, rimosso, genera paura, odio, ostilità con pesanti conseguenze
per millenni, fino a noi e a quelli che tra quattro mesi lasceranno il teatro di
Epidauro, come adesso appunto stiamo facendo.
La Troia che ho davanti agli occhi è - molto più di una descrizione che
guarda al passato - un modello per una sorta di utopia.
TERZA LEZIONE
Un diario di lavoro sulla materia di cui sono fatti la vita e i sogni
Poi fuggì, la vecchia Elena orientale, in Egitto, forse rapita da Paride che
però, secondo una tradizione, fu prima fatto prigioniero dal re Proteo, e poi
fu rispedito a Troia; mentre lui, Proteo, il re egiziano, si tenne la bella
Elena, sicché la guerra di Troia fu combattuta per una chimera: un
personaggio inventato dai poeti. - A tale confusione, a tale intreccio quasi
inestricabile, a profondità sempre più profonde conduce la via che porta alle
Madri.
La divisione del lavoro tra dee estremamente diversificate, che si
consolidano in un prodotto finito solo nelle statue greche, rispecchia lo
sviluppo della cultura umana.
Suscitare amore diventa ora la sorte (moira) di Afrodite.
... e quale dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto alla
psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa
combinazione poiché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano
il mito agli oscurantisti fascisti e trasfunzionarlo in umanità.
Questa unione rappresenta per me addirittura il mondo avvenire,
un'umanità benedetta dall'alto, dallo spirito, e dal Profondo che è sotto di
noi.
Un progetto-utopia in nuce.
Cosa può significare ciò oggi, quando quelli che progettano la distruzione
di interi continenti non sono, in base al senso comune, né oscurantisti né
fascisti, e nemmeno si danno la pena di adattare l'Olimpo germanico o
romano ai loro fini? D'altronde anche loro hanno bisogno di miti, nel senso
che frattanto ha assunto la parola: nel senso di falsa coscienza.
Il loro mito sarebbe questo: la pace che stiamo vivendo è gravida di futuro.
E arriviamo all'anno 1947 e a Thomas Mann, per il quale, come egli ha
predetto nel 1941, l'esilio non è più uno stato d'attesa in previsione del
ritorno in patria, ma paradossalmente è diventato una sorta d'anticipazione
di una condizione che sarà più generalizzata in futuro, e che prelude cioè a
un dissolvimento delle nazioni e alla unificazione del mondo - a Thomas
Mann, ancora a Pacific Palisades, California, ma alle prese adesso con il più
personale, sotto vari aspetti il più arrischiato e per lui il più eccitante dei
suoi libri, il romanzo di Faust e, all'interno di questo, con la composizione
della cantata sinfonica "Lamentatio doctoris Fausti".
Ebbene, egli scrive al filologo classico e all'umanista, che però non si
chiama Zeitblom, ma continua pur sempre a chiamarsi Kerényi,
Se questa guerra va avanti, diventerà la cosa più orribile che gli uomini
abbiano mai conosciuto, la totale eliminazione dell'Europa.
Eppure io - per indolenza, coraggio o fedeltà che sia - non ho nessuna
voglia di fuggire... - Non si dovrebbe crepare insieme all'Europa?...
Noi, che viviamo dei e nei vecchi concetti, siamo perduti; ho già preparato
una certa fialetta.
Come insegnare ai giovani la tecnica per vivere senza alternative, per vivere
comunque? - Quando è incominciato? ci chiediamo.
Era inevitabile questo corso degli eventi? Ci sono stati incroci e svolte dove
l'umanità, voglio dire: l'umanità europea e nordamericana, gli inventori e gli
esponenti della civiltà tecnica avrebbero potuto prendere altre decisioni il
cui corso avrebbe potuto essere non autodistruttivo? Furono poste le basi, ci
chiediamo, dello sviluppo successivo proprio con l'invenzione delle prime
armi - per la caccia -, usandole contro i gruppi in concorrenza per il cibo,
passando dai gruppi strutturati in modo matriarcale e di scarsa efficacia
economica a quelli patriarcali e di maggiore efficacia? Saltando oltre ciò
che è proporzionato all'esperienza umana? La radice della distruttività si
annida forse nella caccia ai prodotti, a un numero sempre maggiore di
prodotti? Se ci fossimo orientati verso altri valori, i nostri paesi avrebbero
avuto una qualche possibilità di ritirarsi da questa competizione?
M. dice che molto dipende, secondo lui, dal fatto che abbiamo vissuto in
modo così miope da pretendere tutto subito, da pretendere tutto per noi -
anche quello che non avevamo seminato.
Il cristianesimo, dice, per lui diventerà sempre più importante, perché sente
che noi uomini d'oggi viviamo senza trascendenza.
Io dico che, anche se condivido questa frase, essa tuttavia non riesce a
sciogliere le mie riserve nei confronti del cristianesimo; le quali negli ultimi
tempi a causa del mio lavoro si sono ulteriormente alimentate, essendomi
chiarita che le religioni semitico-cristiane hanno assegnato per secoli alla
donna il ruolo di schiava; e che proprio queste religioni hanno fornito lo
sfondo ideologico per quella disciplina, quella operosità, quella
subordinazione e quell'abnegazione necessarie al sistema della manifattura
e della fabbrica, al primo capitalismo. - Parliamo delle parole che servono a
preparare la guerra: non sono pericolose solo quelle che uno riconosce
subito per guerrafondaie, dice R. Potrebbero diventare pericolose le parole
più tutelate, libertà da una parte, socialismo dall'altra, se fossero usate come
giustificazione per preparare la guerra.
Allora è proprio S. a dire, con meraviglia di tutti noi, che si domanda cosa
resta veramente da fare a un paese che sa con assoluta certezza di non
potersi difendere dal tipo di minaccia che lo sovrasta.
Di noi non resterà niente, dice.
In una situazione del genere, esiste un valore più alto della vita? E si
interroga sullo slogan che rovescia quello tedesco occidentale e che si sente
a volte in questi giorni: meglio rosso che morto.
Che tipo di pensiero radicale si esige oggi da noi? Quale contenuto
dovremmo dare alla parola rosso per preferirla a qualsiasi altra cosa, perfino
alla vita di tutti quelli che verranno dopo di noi? O le alternative sono ben
altre da tempo?
Che la gente come lui, penso, si spinga fino a domande come queste.
Mentre A. dice che non c'è niente da fare.
Noi, che ci definiamo liberi scrittori, non sappiamo niente di com'è minato e
diviso chi ha un impiego fisso.
A. dice che lui è UNA specie d'uomo durante il lavoro in istituto; un'altra
specie in assemblea; e una terza nel privato, la sera, quando torna a casa.
E che nelle sue tre vite senza connessione tra loro, usa anche diverse specie
di parole: quelle della scienza, quelle della politica, quelle del privato - e
solo queste ultime considera veramente umane.
A suo parere, ciò di cui discutiamo, ciò che ci auguriamo, sarebbe
un'utopia: a quale parte di quest'uomo diviso vogliamo rivolgerci con la
nostra visione della pace, che d'altra parte richiede anche coraggio? O paura
sì, nel migliore dei casi.
Perché già la paura sarebbe - quando non si tratta della paura nevrotica del
nulla - una manifestazione dietro cui c'è una persona.
A. invece vede soltanto che la persona sta scomparendo. - Ma questo,
obietta E., riguarda anche noi liberi scrittori: pensiamo in modo diverso da
come parliamo, parliamo in modo diverso da come scriviamo: quanto a lei,
dato che ha capito che la censura e l'autocensura sono fomentatrici di
guerra; dato che si è resa conto che non abbiamo il tempo di rimandare a
più tardi i nostri veri libri - lei ha smesso di parlare e scrivere con lingua
biforcuta...
Parliamo fino a notte.
Un'utopistica assemblea.
Immagino: centinaia, migliaia, milioni di simili assemblee, distribuite sul
nostro continente...