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Christa Wolf

PREMESSE A CASSANDRA
(Quattro lezioni su come nasce un racconto)

1984, edizioni e/o, Roma


Traduzione e note a cura di Anita Raja
INDICE

Avvertenza di Anita Raja.


Presentazione dell'autrice.
Prima lezione:
Resoconto di viaggio.
Casuale apparizione e progressiva costruzione di una figura letteraria.
Seconda lezione:
Il resoconto di viaggio continua seguendo una traccia.
Terza lezione:
Un diario di lavoro sulla materia di cui sono fatti la vita e i sogni.
Quarta lezione:
Una lettera su univocità e pluralità di senso, determinazione e
indeterminazione; su situazioni antichissime e nuove ottiche;
sull'oggettività.
Bibliografia.
Note.

AVVERTENZA
Questo testo raccoglie le "lezioni di poetica" tenute da Christa Wolf nel
1982 all'Università di Francoforte.
Si tratta di quattro interventi in cui l'autrice illustra la genesi del racconto
"Cassandra" (Edizioni e/o, Roma 1984) a partire dal viaggio fatto in Grecia,
nel 1980, insieme al marito Gerhard (germanista e critico letterario)
indicato come G.
Per la traduzione mi sono attenuta al testo pubblicato da Luchterhand nel
marzo 1983.
Ma ho tenuto conto anche delle lievi modifiche stilistiche presenti
nell'edizione comparsa successivamente nella R.D.T. ("Kassandra.
Vier Vorlesungen.
Eine Erzblung", Berlin und Weimar 1983) che riunisce in un unico volume
le "Premesse" e "Cassandra".
Segnalo qui che in tale edizione la terza lezione presenta in calce la dicitura
versione ridotta ("gekrzte Fassung"), e risulta mutilata, in rapporto
all'edizione Luchterhand di 65 righe a stampa.
La versione che qui viene fornita è integrale.
Notevole importanza hanno nel testo le citazioni dall'"Orestea" di Eschilo.
Christa Wolf ricorre a quattro traduzioni dell'originale greco (indicate nella
bibliografia) lavorando sulle indicazioni e le suggestioni che da queste
traduzioni le derivano.
Per cercare di restituire al lettore italiano il percorso compiuto dall'autrice,
ho tradotto i brani citati direttamente dalle versioni tedesche di Eschilo,
rinunciando a fornire preesistenti traduzioni italiane.
Allo stesso modo mi sono comportata per i passi citati dalla "Poetica" di
Aristotele e per i versi dell'"Ode ad Afrodite" di Saffo.

Elenco qui di seguito le traduzioni italiane a cui ho fatto ricorso:


Engels, Friedrich, "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
stato", introduzione e note di F. Codino, traduzione di Dante Della Terza,
Editori Riuniti, Roma 1976.
Erodoto, "Le Storie", traduzione, introduzione e note di Luigi Annibaletto,
Mondadori, Milano 1956.
Goethe, Wolfgang, "Faust", introduzione di C. Cases, traduzione di Barbara
Allason, Einaudi, Torino 1982.
Goethe, Wolfgang, "Ballate", traduzione, note e commento di Roberto
Fertonani, introduzione di G. Cusatelli, Garzanti, Milano 1975.
Goethe, Wolfgang, "Teatro: Egmont, Ifigenia in Tauride, Tasso", a cura di
Giovanni Vittorio Amoretti, U.T.E.T., Torino 1967.
Graves, Robert, "I miti greci", traduzione di Elisa Morpurgo, presentazione
di U. Albini, Longanesi, Milano 1983.
Kerényi, Karl - Mann, Thomas, "Dialogo", traduzione di Ervino Pocar, Il
Saggiatore, Milano 1973.
Mumford, Lewis, "Il pentagono del potere", traduzione di Marina Bianchi,
Il Saggiatore, Milano 1973 (Seconda parte di "The Myth of the Machine").
Omero, "Iliade", prefazione di F. Codino, versione di Rosa Calzecchi
Onesti, Einaudi, Torino 1982.
"I poeti lirici", traduzione di Ettore Romagnoli, Zanichelli, Bologna 1965.
Schiller, Friedrich, "Ballate e liriche", traduzione di Andrea Maffei, Le
Monnier, Firenze 1909.
Stephanie, Gottlieb, "Il ratto dal serraglio".
Opera in tre atti di W. A. Mozart.
Libretto di Stephanie il giovane.
Nuova versione ritmica italiana di Rinaldo Kufferle, Carisch, Milano 1956.
Velikovsky, Immanuel, "Mondi in collisione", Garzanti, Milano 1955.

I casi in cui le traduzioni italiane non erano adattabili al percorso di lettura e


di ricerca compiuto dalla Wolf saranno indicati in nota.
Quando le citazioni non sono estratte dai testi qui elencati, la traduzione è
mia.
A. R.

"E' impossibile giovare a questa cupa umanità; nella


maggior parte dei casi non restò che tacere per non essere
considerati folli come Cassandra quando profetizzammo
ciò che ormai era alle porte".
Goethe, 1794
PRESENTAZIONE

Signore e signori,
questa iniziativa ha per titolo lezioni di poetica, ma ve lo dico subito: non
ho una poetica da offrirvi.
Mi è bastata una sola occhiata al "Dizionario enciclopedico del mondo
antico" per confermarmi nel sospetto di non possederne una.
Poetica: dottrina dell'arte di far poesia che, in fase avanzata Aristotele,
Orazio - prende forma sistematica, e le cui norme, dall'Umanesimo in poi,
acquistano in numerosi paesi ampia validità.
La via che porta a nuove posizioni estetiche, leggo, passerebbe per la
discussione di queste norme, tra parentesi: Brecht.
Non sto affatto scherzando, e ovviamente non nego l'influenza che le norme
estetiche dominanti hanno su chiunque scriva (anche su chiunque legga e
chiami le norme interiorizzate il suo gusto personale).
Ma il violento desiderio di discutere la poetica o l'esempio di un grande
scrittore, tra parentesi: Brecht, non l'ho mai provato.
La cosa mi è parsa singolare solo negli ultimi anni, sicché può darsi che
queste lezioni tratteranno, tra l'altro, anche di ciò che nessuno mi ha chiesto,
del perché io NON ho una poetica.
Ma soprattutto voglio pregarvi di seguirmi in un viaggio, in senso sia
letterale che metaforico.
Da uno o due anni a questa parte sono andata dietro a una parola-chiave,
vale a dire: CASSANDRA, e per una volta ho avuto voglia (ora mi passava,
ora mi ritornava), di ricalcare a grandi linee le vie lungo le quali la parola
mi ha condotto.
Molto, il più forse, e l'essenziale, resta non detto, resta probabilmente a
livello inconscio, e la trama - che del resto, in quanto forma estetica, si
troverebbe al centro della mia poetica NEL CASO CHE ne avessi una - la
trama che ora voglio sottoporvi non si è completamente ordinata, non è
possibile abbracciarla con uno sguardo, alcuni dei suoi motivi non sono
stati sviluppati, alcuni dei suoi fili si sono aggrovigliati.
Ci sono inserti che hanno l'effetto di corpi estranei, ripetizioni, materiali
fino alla fine non elaborati.
Ciò non è sempre intenzionale: la sovranità sulla materia me la son dovuta
prima conquistare io stessa, e vi faccio testimoni del modo di procedere di
questo lavoro.
Vi faccio testimoni anche di un modo di procedere che ha trasformato la
mia ottica, sebbene questo processo sia appena incominciato, e io stessa
avverta acutamente la tensione tra le forme dentro cui ci muoviamo per
convenzione e il materiale vivo che i sensi, l'apparato psichico, il pensiero
mi hanno trasmesso e che a queste forme non ha voluto sottomettersi.
Se mi è concesso già ora di formulare un problema poetologico, questo è:
non esiste poetica, né può esisterne una, capace di evitare che la viva
esperienza di innumerevoli soggetti sia uccisa e seppellita in oggetti d'arte.
Ciò significa che gli oggetti d'arte (opere) sono anche prodotti
dell'alienazione di una cultura i cui altri
perfetti prodotti costituiscono una produzione rivolta
all'autoannientamento?
Dunque il mio è un procedimento del tutto personale.
Pratico svariate forme soggettive di espressione esaminando il lavoro che
esse possono svolgere, che io posso svolgere su di esse.
La "prima" e la "seconda lezione, resoconto" in due parti di "un viaggio in
Grecia", testimoniano come la figura di Cassandra prenda possesso di me
sperimentando la sua prima provvisoria incarnazione. La "terza lezione"
cerca, nella forma di un "diario di lavoro", di ricalcare l'aggraffarsi di vita e
materia trattata; nella "quarta lezione", una "lettera", mi pongo domande
sulla realtà storica del personaggio di Cassandra e sulle condizioni della
scrittura femminile, ieri e oggi.
La quinta lezione è un "racconto" intitolato Cassandra (1).
Indirizzo pressantemente la mia domanda soprattutto: contro gli effetti
inquietanti dell'alienazione anche nell'estetica, anche nell'arte.

PRIMA LEZIONE
Resoconto di viaggio.
Casuale apparizione e progressiva costruzione di una figura letteraria.
"Puoi cambiare la città, non il pozzo".
Libro di sentenze cinesi.

Così, senza sapere ciò che cercavo, e solo perché sarebbe stato
imperdonabile lasciarsi sfuggire quell'occasione, volli partire per la Grecia.
Sui moduli scrissi turismo a motivo del viaggio, tacqui a tutti, anche a me
stessa, che guardavo con animo sereno al loro ritorno e alla loro
conversione in visti validi - procedimento imperscrutabile -, ho più simulato
che provato un'attesa gioiosa e mi sono attenuta soprattutto a una
disposizione ironica (... cercando con l'anima la terra dei Greci...!); col
pretesto di voler assaporare impressioni non mediate mi sono solo
scarsamente provvista di informazioni, senza poi meravigliarmi
eccessivamente del mio attacco di risa quando, a causa di un errore della
compagnia di volo, abbiamo perso l'aereo per Atene.
Da quel momento la cosa poteva farsi interessante.
Allegramente ripercorremmo in discesa le scale dell'aeroporto.
Non la legge, ma il caso avrebbe governato il nostro viaggio, un sovrano
dispotico, imprevedibile, che è difficile capire, complicato ingannare,
impossibile dominare.
Caso - sostanza volatile, senza cui non nasce racconto che voglia sembrare
naturale, eppure così difficile da catturare.
Un taxi.
Le graffe dell'Ineluttabile si allentarono.
In quell'unica occasione le premesse, che generano per ciascun secondo di
vita un effetto già determinato, non si incastrarono l'una nell'altra, ma
annasparono nel vuoto; Moira, il destino, ci cercò invano nell'aereo che
proprio allora atterrava ad Atene; irreperibili, parvenze non registrate e
senza bagagli, andammo per le strade di Berlino, capitale della R.D.T.;
stranieri, singolarmente turbati, irriconoscibili camminammo per una città
irriconoscibile, mangiammo all'asiatica nel Palasthotel per la somma
stabilita nella dichiarazione per la dogana e i visti, acquistammo i biglietti
per l'Opera e ci raccontammo, sull'animata Friedrichstrasse, la storia del
giorno donato.
Con le dovute misure precauzionali ci intrufolammo nel nostro
appartamento, che era vuoto; dormimmo; la sera assistemmo straniti al
"Ratto dal serraglio", rammentandoci a fatica delle convenzioni a cui ci si
deve attenere perché abbia effetto l'incanto.
Non potevamo ancora supporre che per quattro o cinque settimane non ci
saremmo più sbarazzati delle parole e della melodia delle ultime righe: Chi
tal clemenza può scordar / è uom soltanto da spre-e-giar.
Il mattino dopo, nell'appartamento vuoto dove nessuna telefonata, nessuna
lettera veniva più a perdersi, cominciai a leggere l'"Orestea" di Eschilo.
Ebbi appena il tempo di assistere a come l'estasi panica mi si allargava
dentro, montava e raggiungeva il culmine, quando una voce attaccò:

Ahi! Ahi! Ahimè


Apollo! Apollo!

Cassandra.
La vidi subito.
Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le
erano estranei, si impadronì di me.
Più tardi mi sarei chiesta quando, dove e da chi fossero state trovate le
convenzioni necessarie: l'incanto ebbe subito effetto.
Credetti a ogni sua parola, provare una fiducia incondizionata era ancora
possibile.
Tremila anni dissolti.
Così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò
duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto.
Mi sembrò degna di fede in un altro senso: mi parve che in questo dramma
fosse l'unica a conoscere se stessa.
Priva di distacco, poiché non mi interrogai sulle ragioni della mia
commozione, non mi interrogai nemmeno su quali fossero state, su quali
potevano essere state le intenzioni di Eschilo nei confronti del suo
personaggio.
Prima che Cassandra apra bocca, già sappiamo: la guerra contro Troia è
finita.
Agamennone, il re che ha guidato gli achei e davanti alla cui rocca, Micene,
ci troviamo, ritorna, dopo dieci anni di assenza, atteso da sua moglie
Clitennestra e dai vegliardi che sono stati costretti a restare a casa.
Egli arriva, accanto a lui siede sul carro del trionfo Cassandra, la troiana,
figlia del re troiano Priamo, che è morto come sono morti i fratelli e la
maggior parte delle sue sorelle.
Troia è distrutta, e lei tutto questo lo ha predetto, ma i suoi compatrioti non
le hanno creduto.
Ora si permette di predire agli stranieri che l'attorniano che il loro re,
appena invitato dalla moglie Clitennestra ad entrare nella rocca calcando il
tappeto di porpora del vincitore, proprio da questa verrà assassinato.
Ha immediatamente subodorato la maledizione che pende sulla casa degli
Atridi.
Il coro dei vegliardi argivi si stupisce: ella non accoglie il nobile invito di
Clitennestra a prendere parte al sacrificio che si prepara all'interno.
Non si sa: capisce il greco?

CORO:
Va', Cassandra! Entra.
Lascia questo carro, sottomettiti al giogo!

CASSANDRA:
Apollo! Apollo!
Che segni la via! Tu!
A tutti gli altri
dai soccorso!
E annienti me,
Apollo,
per la seconda volta!

Il coro si stupisce nuovamente: il dio parla attraverso una bocca di schiava?


Come può questa schiava, contro ogni decenza, regola e costume, accostarsi
con i suoi lamenti proprio ad Apollo? - Mi viene di chiedermi di sfuggita:
quello che la troiana dell'Asia Minore invoca è forse un Apollo diverso da
quello venerato dai greci sul continente? Eccola che già grida di nuovo,
aggiunge cosa inopportuna a cosa inopportuna, chiama casa macello
d'uomini la casa di Agamennone alla quale è stata destinata.
Sicché i vegliardi, che dapprima l'hanno paragonata a una bestia selvatica
appena catturata, e poi le hanno dichiarato la propria compassione, adesso
cominciano a farsi diffidenti, circospetti:

Di buon naso come la cagna sulla pista


è la straniera.

Già fiuta quel che cercava:


assassinio.

Dunque, in modo del tutto moderno, i vegliardi di più di duemila anni fa


pensano che sia una cagna, non un essere umano, a esumare dal passato
della loro casa reale ciò che tutti sanno: infanticidio e cannibalismo.
E' troppo che la prigioniera straniera, qui in pubblico, urli:
Ecco, guardate! I testimoni! Rosso di sangue!
Figli che piangono! Lattanti!
Il banchetto del macello!
Ecco! La carne arrosto
che il padre... divora!

Non c'è dubbio che il coro saprebbe dire alla veggente sconvolta i nomi
delle sue visioni da incubo: Atreo, padre di Agamennone, che scanna i figli
di suo fratello Tieste e ne serve al padre la carne: pare che in Asia Minore
una cosa simile non si facesse neppure nelle lotte per il trono.
Ma no; ora i patriottici vegliardi proibiscono di parlare alla straniera che
non ne ha l'autorità:

Taci!
Ci è noto che sai l'arte del veggente.
Ma noi non cerchiamo profeti:
non qui!

Da che parte sta veramente Eschilo? Oppure fa acrobazie per rendere


giustizia a tutti? Tra lui e il più antico Omero, che tramandò ciò che si
sapeva della guerra di Troia, ci sono perlomeno trecento anni.
La postfazione mi informa che nel 456 avanti Cristo Eschilo ottenne il
primo premio per l'"Orestea" nell'agone drammatico di Atene.
E gli avvenimenti a cui si riferisce si perdono, come le sue figure, tra gli
albori del mito.
Sicché, penso, rendere giustizia non deve essere stato tanto difficile, per il
drammaturgo.
E' il 20 marzo 1980.
Il caso, Tyche, mi ha portato nel cerchio magico di uno sguardo.
Non so quale dei celesti o dei terreni si stia fregando le mani perché io,
controllata dal sistema dei passaporti e delle registrazioni, nonché dalla
dogana, nell'impossibilità di uscire da qualsiasi porta, me ne sto seduta da
ore prigioniera nella sala di transito dell'aeroporto di Berlino-Schnefeld, con
Eschilo sulle ginocchia, destinata a un aereo delle Syrian Airlines che
probabilmente non è ancora decollato da Copenaghen, circondata da
giovani donne e coppie di Berlino Ovest che in occasione della Pasqua
vogliono andare ad Atene da Schnefeld perché più economico, e i cui
bambini hanno trasformato la sala di transito in un centro per giochi e sport.
Le righe di Eschilo mi stanno sospese davanti agli occhi come una grossa
rete, attraverso le cui larghe maglie vedo muoversi una figura in un modo
difficile da definire.
Come chi sa il fatto suo, potrei dire.
La vedo togliersi le insegne del suo stato:

Via lo scettro della veggenza! Derisione e dileggio!


Via le bende sacerdotali che cingono il capo!
Via! Via! Sono ancora viva e spezzo questo bastone.
Giù il serto, che porti fortuna a un'altra!
Vedete? Apollo mi spoglia della veste sacerdotale:
molto a lungo la indossai, e con grande pazienza.

E in lei io avverto un sollievo che forse non è documentabile con le sue sole
parole.
Il sollievo di essersi finalmente sbarazzata di una vocazione opprimente, di
non dovere più niente al dio (E ora il veggente la veggente conduce alla
scure), più niente ai suoi compatrioti (Hanno distrutto Ilio.
L'ho visto come accadde); ma, priva di quella vocazione, anche se non
libera dalla coazione a vedere, deve ancora qualcosa a se stessa - che cosa?
Conoscenza di sé, distacco, lucidità credo di cogliere nella sua voce,
insieme al più profondo sbigottimento.
Una sorta di trionfo? E' ora superiore a coloro che un tempo la derisero -
amici e nemici! e che l'hanno chiamata pazza, accattona, ciarlatana,
scriteriata, miserabile, morta di fame? Li accusa? No di certo.
Il suo non è il tono della vendetta.
Sembra che io sappia di lei più di quanto sia in grado di dimostrare.
Sembra che lei mi guardi più intensamente, che anzi più intensamente mi
riguardi di quanto io sia in grado di volere.
I bambini più piccoli, quattro o cinque ragazzini della stessa età, si sono
mostrati le loro armi-giocattolo, poi si sono divisi in minigruppi che
combattono tra loro, e ora, sparando a salve, impazzano per i corridoi verso
le porte della dogana.
Quando c'è stato bisogno di pezzi da 10 pfennig e da 1 marco per
l'apparecchio telefonico, abbiamo dovuto rivelare la nostra identità di unici
cittadini della R.D.T. tra i passeggeri.
Frattanto una ragazza dodicenne ha scoperto che, per funzionare, il secondo
telefono non ha bisogno di monete, e adesso l'apparecchio è circondato da
adolescenti che chiamano senza problemi l'amico o l'amica a New York, ad
Atene o a Stoccolma.
Se noi, come ci fanno sperare, potessimo decollare verso le 22,20, saremmo
ad Atene verso le 2.
La voce di C., dall'altra parte del primo telefono, molto lontana e
scoraggiata: venite veramente? La tavola è apparecchiata già da un pezzo.
Per l'ultima volta la stanca cameriera al buffet delle bevande accetta
ordinazioni, in cambio di valuta estera ovviamente, poi chiude anche lei e
spegne la luce sul bancone.
Siamo abbandonati a noi stessi e al dubbio che fuori di questa spoglia sala
illuminata ci sia ancora alcunché: un aeroporto, una città di cui esso faccia
parte, un paese, altri paesi, il continente.
Al dubbio che davvero un aereo il quale, come si ode da una voce fantasma,
è stato bloccato in una città di nome Copenaghen da uno sciopero bianco
del personale di volo scarsamente retribuito, ora si stia aprendo un varco
attraverso la notte fino a noi, mucchietto di naufraghi finiti insieme
casualmente, di cui noi non dovremmo far parte, se le cose fossero andate
come dovevano.
E il telefono, che va senza soldi - non è forse un complotto e non simula per
i suoi utenti, magari con l'ausilio di complicati dispositivi di registrazione
(oggigiorno tutto è possibile, non credete?), voci che fingono un mondo
esterno, mentre in realtà Cassandra davanti alla porta di Micene (non vedo:
la porta dei leoni? La porta del palazzo all'interno della cinta muraria?):

Voi, porte della morte, saluto.


Solo una cosa prego ancora, una soltanto:
che il colpo mortale non mi manchi,
così che io possa morire presto e senza spasmi.

Osservo le giovani donne intorno a me: non conosciamo tutte questo


desiderio? Per noi e per i nostri figli? Che cosa accadrebbe se le porte
chiuse a tre mandate che danno sulla pista e che alla fine dovranno pur
aprirsi, conducessero in una terra desolata? Non era il fragore di un
atterraggio quello?

CORO:
Perché, come animale pungolato dal dio,
ti avvii tranquilla all'ara del sacrificio?

CASSANDRA:
Il tempo è maturo, amici, e la morte è vicina.
Finanche l'ora estrema ha il suo peso.
E' già qui, e insensato è fuggire.
Ti faccia animo il dolore.
Forse.
Alla felicità il coraggio non serve.

Come, in che modo accadde che le crollò ogni alternativa? E che le resta
ora solo quest'unica via, lungo cui non si lascia trascinare, che percorre da
sola.
Lasciatemi! Devo entrare! Addio.
E poi un errore di Eschilo.
Mai lei avrebbe detto: Anche dentro posso / piangere la sorte di
Agamennone.
Agamennone - l'ultimo della serie degli uomini che le fecero violenza (il
primo fu Apollo, il dio) piangerlo? Allora vuol dire che la conosco male.
I bambini si scatenano come pazzi.
Uno si è isolato dagli altri, un piccolo sbruffone grassoccio e
supersmaliziato che correndo fa il giro delle madri e le informa: quelli mi
chiamano sempre puttana.
Dato che le madri non reagiscono - quanto sono progressiste tutte quante! -,
insegue i più piccoli, fino a che uno di loro cade, batte malamente la testa,
viene rialzato e consolato da sua madre.
Il piccolo sbruffone, imperturbabile (dio mio, anche questo ragazzino un
giorno diventerà un uomo): l'ho cacciato via quello, mi chiamava sempre
puttana.
La nostra risata all'unisono ci permette di fare conoscenza.
Sigrid.
Ci sarà una sera in cui siederemo vicine in una taverna di Atene a mangiare
costolette di montone arrosto.
Il suo amico greco, uno scrittore che lavora a una nuova traduzione di
Eschilo, ad Atene, durante la notte, ha aspettato lo stesso aereo insieme al
nostro amico greco.
Ci siamo scambiati, si sono scambiati gli stessi numeri di telefono.
Tyche, il caso.
Cosa quasi insperata: una stretta porticina che dà sulla pista si apre.
Quando mi siedo: una lucida, sovreccitata tensione in luogo dell'agognata
stanchezza.
Un Boeing.
Due stewards, due hostess che seguono le istruzioni dei loro colleghi
maschi.
Il gruppo rigidamente chiuso dei passeggeri siriani, che non pensano
minimamente a spostarsi anche solo di un posto, in modo che una coppia di
Berlino Ovest possa sedere insieme al figlio adottivo vietnamita - Thomas.
Le mogli dei siriani, sfiorite, vestite totalmente di nero, che obbediscono in
maniera incondizionata ai cenni dei mariti: è possibile che Cassandra abbia
avuto l'aspetto di una di queste, una delle più giovani; ma nessuna di loro
oggi, dopo tanti secoli, riuscirebbe a parlare come lei (che cosa hanno fatto
loro, nel frattempo?):

La vita è trascorsa: oh, amici miei.


Ma io non voglio gemere,
come l'uccello tra i cespugli.
L'uccello che è fuor di sé per la paura.
Dopo la mia morte testimoniate, vi prego,
che fui coraggiosa...
Uno dei siriani apre e chiude, apre e chiude tutti gli scomparti sopra le file
dei posti, senza riguardo per quelli che sono seduti, e non mi viene in mente
nulla per dirgli tutta la mia rabbia quando ci è accanto, si protende, apre,
chiude, non trova quello che cerca.
Nell'aereo ci sono anche dei danesi, biondi, pallidi e riservati.
I bambini della sala di transito si scatenano nel corridoio centrale.
Un'arca.

Ora il veggente conduce me, la veggente, qui


perché paghi il fio della colpa, - qui alla morte!

Quale colpa? Che cosa vuole dire il poeta greco? O che cosa lascia
trasparire, pur senza volerlo dire effettivamente? Parla solo della vecchia
colpa che lei commise quando, come ora vedremo, ingannò il dio
vendicativo? E' questo che ha confessato al coro dei vegliardi, capaci
tuttavia anche di bonaria compassione:

CASSANDRA: Fu Apollo, il veggente, a conferirmi questo uffizio.

CORO: Apollo, dici? Allora... ti amò il dio?

CASSANDRA: Un lottatore, che ansima nel combattimento:


cieco di desiderio Apollo tentò di prendermi.

CORO: Tu... ti unisti a lui?

CASSANDRA: No, glielo promisi.


Ma - mentii.
CORO: E già eri veggente?

CASSANDRA: Sì, già profetavo al mio popolo ogni patimento.

CORO: E in qual modo il dio ti punì?

CASSANDRA: Qualsiasi cosa dicessi: nessuno mi credeva.

CORO: NOI ti crediamo: fin troppo vera ci suona la tua parola.

CASSANDRA: Ahi, ahi, sventura, sventura!


Di nuovo mi travolge lo strazio del vedere.

Improbabile che in realtà Cassandra parlasse di questa colpa.


Me la immagino immune dal timore del dio.
Ma può essere che un'altra colpa l'abbia tormentata: il fatto che fosse in
grado di porsi a tal punto fuori del suo popolo, da vederne il destino carico
di sciagure; chi è totalmente coinvolto nella battaglia, non vede nulla.
Ma il vedere che le è imposto pare sopraffarla come una crisi.
Che lo steward dal viso immobile mi serva una bistecca surgelata, mi irrita
più del dovuto.
E' l'una di notte, pare che l'umorismo non sia a bordo.
Di rado, penso, mi sono trovata in un gruppo di persone dove l'uno è così
profondamente indifferente all'altro.
Accanto a me è seduta una giovane insegnante di Hessen che sa tutto sulla
Grecia, che in un batter d'occhio ha trovato per una compagna di viaggio
tutti i possibili collegamenti aerei, ferroviari e autotramviari e che poi
attacca discorso col pittore danese seduto vicino all'oblò.
Lui trascorre tre mesi all'anno, sento, su un'isoletta dell'Egeo.
Allo stato di natura, dice, ormai non può più vivere in nessun altro modo.
Oh come lo capisce la giovane insegnante.
E poi non la finiscono più di parlare, e io mi domando cosa mi impedisca di
mettermi a urlare.
Che stiano zitti.
Che lo steward si riporti via la mia bistecca quasi fredda.
Che i bambini si mettano a sedere.
Che le siriane non vadano alla toilette sempre in gruppo.
Naturalmente Cassandra ha amato questo dio, o chiunque esso sia stato, e
appunto perciò è stata costretta a respingerlo, quando divenne troppo
insistente.
Logica femminile occidentale? Piuttosto logica maschile, vedi Eschilo.
Ma per quale ragione, lasciando che la educassero alla veggenza, ha scelto
una professione maschile? Per quale ragione volle diventare come gli
uomini? E come mai quella di veggente era una professione maschile? Lo
fu sempre? O da quando? E poi sono queste le domande che possono
liberare Cassandra da mito e letteratura?
Il sistema educativo, dice l'insegnante, è una vera catastrofe.
Toglie ai bambini qualsiasi prospettiva di autorealizzazione.
Ma lei trova incredibilmente interessante che il pittore sia riuscito a
risvegliare perfino in bambini di dieci anni la creatività.
Giacché, sento, ma poi mi perdo il ponte di frasi fatte che conduce alla
stimolante parola energia nucleare.
L'eterno, estenuante, inconcludente mormorio della nostra civiltà. - Caffè in
tazze di plastica.
Un bicchiere d'acqua.
Nell'aereo ha inizio il territorio dove si accetta con gratitudine un bicchiere
d'acqua.
Che tipo d'uomo era Priamo, il padre di Cassandra? E com'era sua madre
Ecuba con le poche figlie femmine, lei benedetta in sommo grado da tanti
figli maschi? Com'è vissuta questa figlia di re a Troia, città di suo padre? -
Ormai me ne rendo conto: non mi libererò più di lei, mi ha stregato, si tratta
di un verdetto senza appello? E come mai lei, la barbara, si sottomette al dio
greco? Chi ha definito - non fu Marx? - l'antichità greca fanciullezza
dell'uomo occidentale? La fanciullezza è invischiata in problemi di
coscienza così stratificati che noi, gli ultra-vecchi, riusciamo a concepirli
solo linearmente?
Fasten seat belts please.
No smoking.
L'ultimo drappello di siriane si affolla verso i sedili, senza che i mariti diano
loro il minimo aiuto.
L'insegnante farà visita al pittore sulla sua isola deserta.
Collegamenti marittimi ridottissimi, dice lui.
Cassandra scende dal carro, carico di bottino, di Agamennone, e va verso la
porta dell'Ade.
Ciò che dice da ultimo, non potrebbe dirlo nessuna greca contemporanea di
Eschilo, che non ha posto e voce nemmeno in teatro, per tacere di qualsiasi
istituzione pubblica; è inadatto a una donna:

Oh, l'umano destino, se felice,


a un'ombra assomiglia; se sciagurato passandogli sopra, l'umida spugna
lo cancella!
E più d'ogni altra cosa questo spegnersi mi fa male.

Ma che vuole: essere immortale? Lei che è una donna? Di cosa


oscuramente si ricorda il greco, quando crea donne come questa?
Atterriamo alle due di notte.
Il primo greco che ci attende accanto al nostro amico, si chiama Dionysos.
Per la prima volta, mezzo intontiti dalla stanchezza, al buio saliamo sul
veicolo che in seguito, in Grecia, dovrà diventare la nostra seconda casa e al
quale non renderei giustizia se adesso, solo per dargli provvisoriamente un
nome, lo chiamassi pullmino.
Nel ricordo, sulla strada dall'aeroporto al centro di Atene, ci sono una
dozzina di negozi di lampadari, bizzarre isole di luce nel pallido albore del
mattino.
Poi, senza soluzione di continuità, la lampada accesa sul tavolo tondo nella
minuscola stanza di N.
e C., gli amici.
Un tavolo pieno di vivande che noi, sfiniti, riusciamo solo ad assaggiare.
Il pasto greco.
Il primo sorso di retsína in terra greca.
Noi, trasferiti nel buio da un tavolo all'altro, non sappiamo niente della
cantina all'angolo, dalle cui botti possenti incastrate nella parete lo scuro,
scarno cameriere travasa questo vino, niente del dedalo di vie strette intorno
a questa casa, niente dei negozietti stipati dove C.
compra la farina per la pita, la verdura per il ripieno, il formaggio caprino
per l'insalata; non abbiamo visto aranci ed ulivi, di cui mangiamo i frutti.
Benvenuti ad Atene.
Di quante mescolanze di sangue siamo fatti, noi che, incantati
dall'ospitalità, sediamo intorno al tavolo.
Antenati greci, turchi, rumeni, tedeschi, polacchi sono parte di noi.
Sono spinta a riflettere su come nella notte dei tempi si diffuse tra tutti loro
il banchetto con la prima limitata eccedenza di beni, che un clan divideva
con l'altro non senza aspettarsi un dono in cambio.
Su come per gli antichi greci il ratto di Elena da parte di Paride, il giovane
troiano, dovette essere motivo di guerra proprio perché fu al suo ospite
Menelao che Paride rapì la consorte.
Presentì Omero, presentirono tutti coloro i quali tramandarono il ciclo delle
leggende troiane, che stavano partecipando, seguendo il mito,
all'occultamento dei fatti? Che nella lotta degli achei contro i troiani -
chiunque questi fossero - era in gioco la via del commercio per mare,
l'accesso al Bosforo che Troia controllava? Così la letteratura dell'occidente
comincia con la glorificazione di una guerra di rapina.
Ma chi vorrebbe che Omero sparisse o addirittura riapparisse in veste di
storiografo fedele alla realtà?
A quale popolo appartenne Cassandra? In Eschilo il coro, e anche
Clitennestra, suppongono che non conosca il greco.
Ma lei stessa non lascia adito a dubbi.
Quando il corifeo vorrebbe non aver sentito il vaticinio atroce secondo cui
Agamennone è morto per mano di sua moglie, lei lo incalza:

Così fraintendi quel che vaticino?


Eppure io intendo bene la lingua greca.

Qual è la sua madrelingua?

La città su cui tardi la mattina dopo gettammo i primi sguardi mi restò


d'impaccio, perché non sapevo che cosa cercarvi.
Filtrarono in me solo dettagli di immagini, frammenti del film che scorreva
ogni giorno; gatti, vaganti per il paesaggio di tetti della casa di fronte che
stava andando a pezzi.
Il fruttivendolo al pianterreno della casa a fianco, del quale osservavo
dall'alto la merce esposta.
Una persiana celeste, che vedevo dal nostro minuscolo balcone, ora
ermeticamente chiusa, ora sollevata a metà, e poi all'improvviso con le
palpebre aperte.
Infine, il terzo giorno, una donna nera di capelli e chiara di pelle, che
sbatteva una coperta dai colori vivaci.
Il muto, contratto amministratore, che viaggiava con noi su e giù in
ascensore.
Nella bottega a sinistra, dal buio, dietro la merce esposta - noci, biscotti,
pane - sempre le stesse pazienti facce di luna delle due sorelle.
L'arteria brutale che separava il nostro quartiere di strette viuzze e piccole
botteghe dal Giardino Nazionale, dove le arance splendono tra le foglie
scure.
Una volta, di notte, costeggiando i cespugli profumati, riuscimmo ad
arrivare fino ai piedi dell'Acropoli, che di giorno avevo visto galleggiare
nell'aria d'un azzurro intenso, un'aeronave sì, più piccola d'altronde di
quanto c'eravamo aspettati, alta sopra le case dove abitano gli uomini,
piombò a sorpresa su un tratto ampio di strada, e perché non dire ciò che si
aspettavano tutti: bella.
Chi voleva essere il mostro che restava indifferente davanti all'Acropoli di
Atene?
Attraversai tra i turisti la piazza Syntagma e stetti a guardare a lungo come i
due soldati-marionette, davanti al palazzo del governo, sotto berretti
grotteschi, battendo gli zoccoli col fucile rigido in spalla, assurdamente al
rallentatore andavano petto in fuori l'uno incontro all'altro e l'uno via
dall'altro.
Il mio costringermi ad elencare a me stessa le città per le quali ero già
andata così; il verso e la melodia che mi si erano piantati in testa: Chi tal
clemenza può scordar, è uom soltanto da spre-e-giar, finché riuscii a
trasmetterli a Mario, il figlio piccolo di Dionysos, che non capiva una
parola di tedesco, ma ogni volta mi chiedeva quella strofa: canta la canzone
tedesca un'altra volta!
Lo spirito del luogo si ritraeva.
Le visite turistiche, avrei dovuto saperlo, mi rendevano sorda.
Anche la domenica, in viaggio verso il Pireo - che cosa ci facevamo nella
corriera stracolma, a folle velocità? -, non vidi niente se non inquadrature
da film spagnoli a colori, che mi impressi a forza: quei due giovanotti coi
loro abiti color oliva e azzurro cobalto nel giardino verde-scuro dietro il
muro bianco, interrotto da un cancello che lasciava libera la vista sul
grazioso tavolino a cui, se avevo ben capito film e inquadrature, i due
stavano prendendo posto, per accompagnare ciniche, insensate
conversazioni con bevande dai vivacissimi colori che bevevano da bicchieri
bizzarri.
Perfino il possente arco della costa in cui giaceva il porto: a bella posta
invocai più volte il suo nome dentro di me: Pireo Pireo - nessun'eco.
Incalcolabile il numero di navi e popolazioni che per millenni si sono
accostate a questa baia.
Ora noi sediamo qui, sotto tende da sole, davanti a piatti con i pesci più
squisiti.
Costosi, costosi.
N. ha ragione, non conosciamo ancora il valore del denaro che si spende
qui.
L'inglese dietro di noi, rigidamente timido, che non riesce a resistere alla
zingara dalle enormi coperte ricamate con arte.
Quanti anni aveva Cassandra quando morì? Trenta? Trentacinque? Conobbe
la sensazione di essere sopravvissuta a molte, troppe cose? Era una cosa
nuova per me domandarmi se il prezzo per sopravvivere non sia
l'indifferenza.
La meno benvenuta, l'estranea, dentro cui ci si perde certissimamente, ancor
più certamente che nell'impotenza e nella colpa.
No, dissi alla giovane zingara, leggere la mano no.
Vero? disse C., non vogliamo assolutamente sapere il male che ci aspetta.
Io però, in quel pomeriggio sulla costa straniera, sotto lo splendente sole
greco, non temevo nient'altro se non il verdetto che niente più mi aspettava.
Com'ero stata lucidamente attenta al mio primo passaggio di confine, avida
delle prime parole in lingua straniera; come mi aveva avvinta la prima città
estera.
Fu per amore, nessun miracolo, udii l'eco ironica dentro di me, cui ormai mi
sono abituata.
E da questa città non c'è da aspettarsi amore.
Il miracolo di rinnovarsi - da nessuna più.
Dover andare sulla pietra morta, tra mute pareti di pietra, sotto muti cieli
che non hanno alcun senso - questo oracolo mi parve ineluttabile e
inammissibile.
Si può anche arrivare troppo tardi in Grecia.
Non solo i vincitori, anche le vittime sono salite all'Acropoli.
L'uomo e la bestia.
Sugli altari dei templi, ammassati, giustapposti, si è alternato l'agnello al
fanciullo, la gallina alla prigioniera.
Anche per gli dei è così: colui che viene prima, colei che viene prima è
sempre anche la vittima di chi viene dopo.
Bene in fondo, ai piedi del bastione del tempio di Atena Nike, il santuario
della dea della terra, Gea, sepolto, celato, coperto, invisibile a noi che siamo
venuti dopo.
In vece sua la copia della statua colossale in avorio e oro di Pallade Atena
del celebre Fidia, armata d'elmo, scudo, giavellotto e corazza, nella sinistra
la statuetta in formato ridotto della dea della vittoria Nike, possente e
fredda.
Senza madre.
Sorta con scudo e giavellotto dal capo del padre Zeus, come un cattivo
pensiero.
Mai così abbandonata da dio, penso, e così lontana dalla sua natura come
nel prezioso simulacro di Fidia.
Sconfortante e per lo più inconsapevole invadenza da formiche dei turisti,
che, come faccio io stessa, si riposano su blocchi di marmo, pietra
splendente a spigoli vivi, liscia sotto la mano.
Il fatto che le cose possano parlarmi non scioglie loro la lingua, le
istantanee a colori scattate da N. non metteranno in moto la mia fantasia
nemmeno a casa.
Certo, siamo stati anche sull'Acropoli.
E allora? Possente fascia detritica.
Vedute magnifiche su una città per il resto devastata dalle costruzioni.
E un accecamento da luce riflessa mai provato prima, sì, anche se era solo
aprile.
E poi si cammina, camminiamo, davanti alle Korai dell'Eretteo, che sono
state poste al sicuro nel museo sull'Acropoli prima della devastazione totale.
Stanno qui in un semicerchio, guardano in giù verso noi spettatori e
piangono.
La pietra piange, non prendetela per una metafora.
Sui visi delle fanciulle di pietra sono scorse lacrime che li hanno corrosi.
Qualcosa di più forte della pena si è incisa in quelle belle guance: pioggia
acida, aria tossica.
Ammesso che un tempo questi visi siano stati senza sguardo e senza
espressione - il nostro secolo ha imposto loro la sua espressione, quella del
lutto, che in me trova un'eco come se ricevessi un colpo dal di dentro.
Tutto ciò che è messo in moto dal lutto comincia ad animarsi, ira, paura,
orrore, colpa, vergogna.
Sono arrivata.
Capisco questa montagna di pietre e d'ossa.
Capisco la città stipata, concitata, avida d'assassinio, eruttante fumo e gas di
scarico, in corsa a precipizio dietro al denaro, che vuole ottenere in anni ciò
che ad alcune delle sue sorelle occidentali è costato più di un secolo.
Capisco: i suoi bisogni, i bisogni della città d'oggi e quelli delle fanciulle di
pietra, che con portamento pacato-orgoglioso per più di duemila anni
ressero il baldacchino sulla tomba del re dei serpenti e fondatore di Atene,
Cecrope, non erano conciliabili.
Korai, le fanciulle, un tempo la dea della fecondità Persefone insieme alla
figlia, in seguito ridotte a puntello per travi, ora messe da parte, infeconde.
Devo oppormi al fatto che esse, non solo finché sono in Grecia, continuino
ad apparire al mio occhio interiore figure portatrici di senso? Devo tentare
di dare un nome al senso per il quale esse stanno, che però è un non-senso?
La barbarie dell'età moderna.
La domanda che mi disturba: è esistita, esiste un'alternativa a questa
barbarie?
Entrare già da adesso in argomento?
La città che divora se stessa.
Una forza coercitiva mi sta addosso.
E' per me che si sono aperti gli occhi senza sguardo di queste Korai? Ora
ero spinta per la città da quegli occhi remoti, brucianti, e vedevo come
posteri gli uomini d'oggi, i miei contemporanei.
Quella giovane donna, che se ne sta appoggiata alla porta della bottega dove
vende miele turco e spezie orientali - discendente delle achee che
sciuparono dieci anni della loro vita in attesa che gli eroi ritornassero da
Troia e che, debole consolazione, forse hanno fatto da modello per le Korai.
Quegli uomini, che nell'impareggiabile mercato coperto del pesce, pregno
di forti odori marini, con un gesto veloce e incisivo gettano sui tavoli di
legno il pesce guizzante e con piccole scuri lo uccidono, con coltelli
taglienti lo squarciano - pronipoti dei primi greci che viaggiarono per mare.
Bruni visi di contadini solcati da rughe nel mercato della carne, dove le
vittime sacrificali scuoiate e squartate pendono in fila dai ganci, versato
l'ultimo sangue; chi furono i loro avi? Tessali? Macedoni al seguito di
Alessandro Magno? Al di là di una profumata fumante griglia di castagne,
un turco con la pipa.
Le scure sottili fanciulle, che dal portone buio di una scuola escono
correndo nella strada di una luminosità accecante, le conosco dalle
riproduzioni degli affreschi minoico-cretesi, e il venditore ambulante con la
sua esposizione mobile di gioielli d'oro sotto vetro è nella mimica e nei
lineamenti del viso un italiano, discendente da mercanti e soldati veneziani
che colonizzarono il Mediterraneo.
Tutti mi venivano incontro, tra la folla frettolosa, dalla piazza Omonia,
verso cui noi ci dirigevamo.
Non riuscivo a catturarne gli occhi.
Tranne qualche occhiata maschile apertamente sfacciata che una donna qui
impara a respingere con un semplice irrigidirsi, nessun tentativo di
rivolgersi lo sguardo.
Città-monadi, pensavo, chi le ha lanciate in orbita, intorno a quale nucleo
ruotano, che cosa le tiene insieme.
La caccia alla dracma, dice N. L'interesse personale.
Il fatto che l'uno ha bisogno dell'altro, di vendergli qualcosa, di spremerlo,
di mungerlo.
E la piazza Omonia è, sopra e sotto terra, il centro della caccia.
E il centro del centro, dov'è silenzio come nel cuore del ciclone, era la
taverna in cui stavamo seduti.
Fresca luce da spelonca, come in tutte le taverne greche, che veniva dalle
pareti verniciate di verdeazzurro, una luce che pare subito rinfrescare e
tranquillizzare quelli che entrano come in preda a una febbre.
I camerieri assecondano con un servizio veloce la loro congenita
impazienza, ecco sul tavolo il fresco pane bianco tagliato a fette larghe,
ecco i pomodori, i cetrioli verdi, le olive, l'olio e l'aceto, il quarto di retsína
per ciascuno, un profumo si espande, oltre il banco si friggono i pesci e la
carne in padelle scoperte, e l'oste, piccolo, massiccio, pieno di sussiego,
saluta l'ospite con un solenne cenno del capo.
Il pasto è pronto, mostratene degno.
La solennità del pranzo nei paesi in cui non è ovvio che ogni giorno ognuno
sarà sazio, in cui l'avidità di guadagno non è riuscita ancora a rimuovere del
tutto l'atto dell'ospitalità, che, se anche interessato, è accolto volentieri.
Quanto più ne abbiamo bisogno noi stranieri, noi, privi delle parole di qui,
incapaci anche solo di decifrare insegne commerciali, dipendenti da
immagini, gesti, odori.
Ma non è proprio la parola che ha assunto il dominio sul nostro intimo?
Non è la sua mancanza a far sì che mi smarrisca? Con quale rapidità
l'assenza della lingua diventa assenza dell'io? Idea singolare: una
Cassandra, se comparisse - ed esiste tra le donne di qui, a giudicare
dall'aspetto -, non la riconoscerei, visto che non riuscirei a capire le sue
parole; e se lei, come l'antica Cassandra, fosse colta da furore - non riuscirei
ad essere critica nel caso che uno di questi poliziotti azzimati coi suoi
guanti bianchi, rabbonendola, ma anche ammonendola, rimproverandola,
più o meno a buon diritto, la trattenesse per il braccio, la conducesse fuori
dalla cerchia dei curiosi, che qui, stando ai loro modi sovreccitati, sembrano
più partecipi che nelle città del nord, e la consegnasse all'ambulanza già in
attesa in una delle strade secondarie.
Un superstizioso timore mi impedisce di pensare con la sua testa e di
esprimere nella mia lingua quel che lei direbbe: e che avrebbe valore non
solo per questa città.
Come quando fu capace di profetizzare alla casa degli Atridi, oltre alla
morte di Agamennone, oltre alla propria morte, la rovina per mano di
Oreste, il figlio creduto morto:

Ma non resterà inespiata la nostra morte,


un altro verrà che ci vendichi:
l'assassino della madre, che queste azioni farà espiare,
fuggitivo e mendicante, senza patria ritornerà
per porre l'ultima pietra sull'empio muro della stirpe.

La fede nei profeti è, penso, in gran parte fede nella forza della parola.
Come per rispondere a una contestazione, mi sorprendo a sperare che il
caos estraneo di questo luogo, a cui mi sento esposta più fortemente che a
casa, possa assumere una struttura ordinata intorno alle parole come la
limatura di ferro intorno a una calamita.
La centratura intorno al Logos, la parola come feticcio - forse la più
profonda tra le superstizioni dell'occidente, in ogni caso quella a cui io sono
visceralmente attaccata.
Al punto che l'impotenza linguistica, da sola, mi fa presagire gli orrori
possibili dell'esilio.
Infelice abitudine di saggiare città straniere come luoghi dov'è pensabile
vivere - quando incominciò? La questione del momento in cui andò
smarrito il senso della patria. (L'attimo che nella vita di Cassandra forse ha
significato capire che i suoi ammonimenti erano insensati, perché la Troia
che voleva salvare non esisteva affatto.
Peggio per lei.
Che diavolo poteva farci Troia?).
Probabilmente i fili che ci legavano ai nostri obblighi a un certo punto
furono spezzati, allorché sulla nostra arca oltrepassammo i Balcani.
Quando? Dove? Impossibile stabilirlo.
L'espressione con cui N. si guardava intorno, nella taverna, testimoniava la
sua sensibilità per le più sottili vibrazioni di questo mondo interiore.
Lo vedevo fiutare l'aria: in che misura il paese straniero era ormai patria e la
patria ancora paese straniero? Questa lo accettava? Ne sentiva l'odore
straniero e gli si negava? L'emigrazione non lo aveva reso incapace di
tenersi a galla? Mi sbagliavo oppure gli stava particolarmente a cuore quella
vecchia che, lacera, emaciata, andava di tavolo in tavolo con mazzolini di
fiori? Mughetti, ah, mughetti.
Un'ondata di nostalgia per un posto umido e ombroso sotto un cespuglio di
rododendro in un giardinetto del Meclemburgo.
Cosa dice la donna? Il marito è malato, dice N. di malumore, come se il suo
malumore le potesse guarire il marito.
Quella donna lo turbava.
Esilio, pensai ancora, cioè: essere salvi e senza punti di riferimento.

Quale dei gironi dell'inferno? Invece quelle tre zingare dalle lunghe gonne
colorate, dalle camicette vivacemente scintillanti, dagli scialli sfrangiati,
che si erano messe a sedere a un tavolo accanto all'ingresso, portavano con
sé la loro cerchia di riferimenti, che quindi non necessariamente erano casa,
cortile, proprietà, un luogo, un paese e un particolare tipo di cielo come per
noi sedentari.
Com'era invece vincolato in maniera stabile e definitiva quell'uomo con
cappello e cartella che entrava adesso - ogni pomeriggio alla stessa ora, ci
informò N., non più giovanissimo, ma ancora in servizio; uno che fino
all'ultimo avrebbe avuto un portamento eretto (quella sorta di rigido
orgoglio, vidi, sia che gli fosse connaturato, sia che fosse sorto un giorno
per libera decisione, era il ricovero e la gabbia di quell'uomo); che si mise a
un tavolo accanto al bancone, salutò misuratamente l'oste, fu ricambiato con
rispetto, mentre il cameriere già gli poneva sul tavolo il bicchiere di oúzo,
che lui vuotò immediatamente ma tuttavia con dignità, fino all'ultima
goccia, poi mise una moneta sul tavolo, portandosi due dita al cappello
salutò l'oste il quale ringraziò con un inchino, e se ne andò. - Due minuti,
disse G., ma tutti i giorni.
Proprio così.
E neanche una traccia d'ironia nei gesti grandi e piccoli di questo popolo.
Ci passa la voglia di parlare, quando ci troviamo di nuovo per strada,
coinvolti a forza nel traffico pomeridiano, allorché dagli uffici e dalle
aziende la lotta per la sopravvivenza si sposta per la strada.
Una volta mi colpisce lo sguardo di una Medusa scolpita nella pietra,
l'orrendo capo di Gorgone, ma di pietrificarmi non trovo il tempo, in mezzo
a quella folla.
L'effetto dell'antico malaugurio sembra annullato; quasi soffocando nell'aria
appestata degli autobus stracolmi, sfiniti, grondanti sudore, non riusciamo
ad augurarci nient'altro se non che questo abbia fine.
Con la pietrificazione? E sia pure.
N. chiede se ci accorgiamo di come opprima il petto la miscela dei gas di
scarico.
Allora è questo che mi opprime il petto, la miscela dei gas di scarico,
consolante a sapersi.
Forse è un incubo, che però deve essere stato fabbricato anche coi desideri
degli uomini; solo che le loro divinità malvagie, in un punto indeterminato
tra desiderio e realizzazione, glieli hanno stregati e stravolti in qualcosa di
smodato, raccapricciante, grottesco.
Come si dice fortuna da voi? - Eutychìa, dice N., il caso favorevole.
Molto bello, dico.
Non è da questo popolo che potrebbe venire una frase come Solo l'uomo di
valore alla lunga ha fortuna.
Infatti, a partire da Omero, dai tempi di Eschilo, non sono riusciti a
descrivere la sfortuna come colpa.
Che magnanimità da parte del tragico greco mettere in bocca alla barbara
prigioniera la profezia di sventura per la casa reale della Grecia arcaica.
Quale profezia potrebbe ancora sorprenderci, strapparci lai e lamenti come
al coro dei vegliardi argivi l'annuncio che il loro re sta per essere scannato
dalla loro regina? Noi non siamo al di là di ogni annuncio o profezia, quindi
al di là della tragedia?

A casa, da N., nella cucina minuscola l'appassionato ossessivo bisbiglio di


C. Abile, svelta, a mani nude come le donne greche tagliuzza sull'acquaio la
verdura, le erbe, lava pomodori, cetrioli, porro, prezzemolo, spinaci, cipolle,
aglio, taglia in alto i tentacoli del calamaro, li lava, li mette nell'olio
bollente, la cucina comincia a fumare e profumare, la finestra con
zanzariera che dà sul cortile a lucernario è aperta con una spinta, il ripieno
per la pita, spinaci e quark, è mescolato, la pasta è lavorata e spianata col
matterello sottile come un manico di scopa, ripiegata, di nuovo spianata, più
sottile, ancora più sottile, finché nei punti più sottili traspare la luce, spero
che non vi dispiaccia che non abbiamo carne.
C. afferra con mani veloci pentole e casseruole, io metto le mie mani sulle
sue: calma, per favore.
Ma lei non riesce a stare calma.
Alle sue spalle non ci sono io; alle sue spalle c'è la signora.
Tu non sai com'è lei, dice C., ma il suo intimo desiderio è che qualcuno lo
sappia, che qualcuno conosca il corso della sua giornata sotto la sferza della
signora; il quartiere signorile; le ville incredibilmente care, le camere
immense, l'enorme quantità di biancheria sporca, i bambini maleducati, il
pranzo che deve essere pronto al minuto, quando la padrona torna dal
negozio - artigianato artistico e lavori di oreficeria, quanto c'è di più caro,
credi a me, quella pensa solo ai soldi.
Le è del tutto indifferente ciò che fa il marito, davvero.
Anche ciò che fanno i bambini.
Quelli li ho in pugno ancora io, quelli ormai preferiscono mangiare il mio
dolce di mele tedesco.
Anche la nonna.
Sai che cosa mi dice, lei? Mia figlia è una donna cattiva.
Sul serio.
E due volte a settimana sfregare il grande balcone di marmo che circonda
tutta la casa, a questo la costringe, con una lisciva caustica, perciò le
vengono le piaghe alle dita, e con la luce abbagliante sul balcone divento
quasi cieca.
Riesci a immaginartelo? - Posso dire: sì, da quando sono stata
sull'Acropoli? - Vattene, dico.
Che cosa vuoi che sia, una donna d'affari che ti sfrutta Credi? dice C. Non
so.
Gradualmente riesce a contagiarmi.
Quando penso alla signora, mi sta davanti agli occhi una femmina tra il
mostro e la dea, una vamp, di cui è impossibile non diventare schiavi, una
sottospecie a me finora sconosciuta del genere femminile.
Il calamaro è cotto, la pita è nel forno.
Condisco l'insalata nell'attimo in cui suona Antonis.
Alla voce al telefono appartiene dunque un uomo che si chiama Antonis,
che provvede a tutto quel che ci occorre, che sistema tutto, che si preoccupa
di tutto.
Che qui conosce tutti e perciò passa le sue giornate a telefonare per noi a
dozzine di persone.
In cinque sediamo intorno al tavolo tondo, che riempie l'intera cosiddetta
stanza di mezzo del minuscolo appartamento.
In luogo della tovaglia marrone C. ne ha stesa una bianca, le stoviglie
bastano giusto per cinque.
Il retsína, di cui N. è andato a prendere una bottiglia da due litri alla taverna
all'angolo, è freddo.
Conversiamo.
Con parole, domande, confessioni penetrare più a fondo di quanto possa
l'occhio, ma tuttavia arrestarsi davanti alle domande ispirate dalla simpatia:
Antonis, che cos'hai? I suoi occhi sbarrati, fissi come per uno spavento che
non cessa, la mobilità del viso segnato da rughe e rughette, la costante
irrequietezza delle mani.
Che cosa ha visto? Che cosa cerca di trattenere? Che cosa gli sfugge? E'
quel che sembra: un messo degli dei che governano questa città, e
contemporaneamente la loro vittima? Il suo viso teso, travagliato - perché le
Erinni dovrebbero dargli la caccia, a un uomo come lui? Che cosa lo rode?
Se lo avevamo visto alla televisione: come lui ha criticato il governo per la
sua politica sociale.
Come loro - a metà di una trasmissione in diretta! - lo avevano
semplicemente dissolto in chiusura, quando era diventato troppo tagliente;
questo come si dice in tedesco? "Weg vom Fenster" (Sbattuto dalla finestra)
diciamo noi, e N. traduce.
Benissimo, dice Antonis.
Dev'essere divertente scrivere in tedesco.
I suoi libri erano letti, da noi? C'erano recensioni? Dovevamo mandargliele
assolutamente.
Due dei suoi libri hanno fatto il giro del mondo.
A che gli servono le recensioni.
Mi viene in mente la parola stritolato.
Un uomo cui è caduto addosso un peso troppo grosso.
La notte non riusciamo a dormire, tutti e quattro.
Il caldo.
La paura.
Sento C. alzarsi prestissimo, prepararsi piano, uscire.
La signora deve averle impartito i suoi ordini prima di andare a sua volta al
negozio.
Si vanta con i suoi conoscenti che una tedesca lavora da lei.
Di solito sono i greci che lavorano dai tedeschi.
La signora Tharsos, che vuole mostrarci qualcosa di speciale, è tedesca, ma
vive ormai da quattro decenni in Grecia, sposata con un professore greco.
Ci conduce al nord, per boschi e boschi.
Da qualche parte la strada piega verso Maratona, la nostra meta è Oropos.
Lei viene sempre qui con conoscenti tedeschi; ma i giovani, e noi forse
eravamo d'accordo con lei, non avevano sensibilità per le bellezze che non
saltano all'occhio.
Ora poi il suo genero greco le aveva proibito di frequentare i nipoti...
Silenzio.
E sua figlia, chiedo infine.
Ah, la figlia.
Lei sa cosa significa essere sposata con un greco? Con uno che sacrifica
tutto a ciò che chiama il suo onore? - Silenzio. - Sua figlia alla fine si era
decisa per il marito, esattamente come lei a suo tempo. - Silenzio.
E suo marito, signora Tharsos? - Ah, mio marito.
Con lui non posso più dire una parola su mia figlia e mio genero.
Esce semplicemente dalla stanza.
Con lui non posso parlare neanche del suo lavoro.
E nemmeno di politica.
Silenzio.
E di che parla con suo marito?- Degli altri figli.
Il maschio, la femmina, che studiano in Germania.
Con un greco non si può parlare molto delle persone, sa.
Per lui una persona è buona o cattiva, e poi basta.
Io leggo molto, sa.
E do qualche lezione di tedesco.
No, il mio greco ancora oggi non è privo di qualche inflessione.
La signora Tharsos pensa che noi sappiamo che cos'è un Amfiaráion, ma
noi non lo sappiamo.
Dà un obolo al vecchio che siede all'ingresso in un gabbiotto di assi e che la
conosce, e scambia qualche frase con lui.
No, non è necessario che lui ci accompagni.
Sì, lei si sa orientare.
Fumando la pipa il vecchio torna a sedersi sulla sua panca di legno.
Mi è capitato spesso di pensare a lui.
Siede qui prima e dopo l'alta stagione, apprendiamo, per settimane, senza
vedere un essere umano.
Che cosa sorveglia? Un terreno circondato da una rete metallica, con
antiche rovine ricoperte dal verde, in genere troppo pesanti per essere
trafugate.
Non gli è assolutamente consentito interrogarsi sul senso del suo solitario
star qui seduto, e neanche lo fa.
La sua funzione, cui assolve puntualmente - non si può certo definirla
un'attività -, è priva di senso, non insensata.
Sembra non sapere che cosa sia la noia.
La natura muta lentamente nel corso delle stagioni.
Non sempre nel cielo ci sono nuvole che può seguire con lo sguardo.
Diventa parte della natura? Medita? Ma su che cosa? E' - dice la signora
Tharsos - un uomo socievole, soddisfatto.
Così le autorità sono cascate proprio sul guardiano giusto per questo
santuario.
Può darsi che lo spirito del luogo lo abbia plasmato.
Come potrebbe un uomo lacerato, tormentato dall'inquietudine, ammettere
all'Amfiaráion pazienti che cercano la sicurezza del futuro ma anche la
quiete? Sì, dice la signora Tharsos, gli antichi greci conoscevano già le case
di cura.
Soprattutto però era loro nota la connessione tra dolore spirituale e
corporeo, come anche quella tra la salute di una persona e le sue prospettive
per l'avvenire.
E chi, se non una persona che non ha un equilibrio, di solito è avido di
conoscere l'avvenire? Costui verrà qui in pellegrinaggio, in questo luogo
rinomato, visitato dagli spiriti migliori.
Pagherà la sua dracma e sarà piacevolmente colpito dal primo che
incontrerà, il cortese, imparziale e impassibile guardiano, che riceve la sua
dracma e gli consegna la cartella clinica di piombo o bronzo.
Lieto di essere finalmente dispensato da ogni decisione, si sottometterà
volentieri alle cerimonie, prenderà parte ai sacrifici, visiterà il teatro,
l'arena, camminerà sotto i pini e le giovani querce e ne aspirerà il profumo
aromatico, berrà le pozioni che gli somministreranno i sacerdoti e i loro
assistenti (e le assistenti? Igea, la dea della salute, è una donna!), avvolto in
drappi si lascerà cadere su uno dei letti sul cui piedistallo marmoreo noi
sediamo ora, respirerà l'aria aromatica... dormirà e - sognerà.
Giacché è qui per questo.
E i sacerdoti, che forse, esattamente come ora i nostri encefalografisti, sono
capaci di riconoscere le fasi più intense del sogno dall'intensità del
movimento oculare sotto le palpebre chiuse, i sacerdoti lo sveglieranno e gli
chiederanno che cosa ha sognato.
E lui, forse ancora sul divano, glielo racconterà come meglio può e con
franchezza.
Gli lasceranno anche fare libere associazioni sul suo sogno? In ogni caso gli
interpreteranno il futuro, giacché il suo sogno, o un certo numero di sogni,
avrà detto loro di che tipo d'uomo si tratta e a che cosa tende.
Non gli permetteranno di dubitare che siano il destino e gli dei a
determinare la sorte degli esseri umani.
Ma se esiste un sapere occulto che devono custodire, esso sta nel sapere che
il destino e gli dei non si sottraggono all'influenza della condotta umana, e
che anzi i sacerdoti possono contribuire a determinare tale condotta, a
seconda che rafforzino o indeboliscano i loro pazienti.
Anche una sacerdotessa, Cassandra o comunque essa si chiami, sarà
costretta un giorno ad arrivare a questo punto.
Anche lei, si dice, ha fatto parte di quei veggenti che non prevedevano il
futuro né dalle interiora delle vittime sacrificali né dal volo degli uccelli, ma
lo leggevano nei sogni della gente.
Come ne è venuta a capo? Anche se la parola manipolazione non era stata
ancora inventata...
Quiete assoluta, solo versi di uccelli.
I colori: verde e bianco e azzurro.
La ricchezza dei fiori greci di primavera.
G. trova del timo, che sminuzziamo tra le dita per sentirne l'odore.
Lavanda.
In passato, dice la signora Tharsos, lei ne faceva dei mazzetti che metteva
tra la biancheria.
Parla un po' del passato.
Avverto con molta chiarezza che sediamo all'interno di un cerchio in cui si
ha la visione di un passato remotissimo, come pure che siamo in grado di
conoscere ciò che un tempo è accaduto qui.
Sento che un occhio interiore si apre, un contatto si verifica, molto lieve,
occasionale, spassionato, un po' canzonatorio.
La nostra conversazione si esaurisce, cade il silenzio.
Come potrebbe non essere salutare il sonno in questo luogo.
Ritornerà presto, dice la signora Tharsos al guardiano.
E lui sarà qui, quello risponde.
Prendiamo la strada lungo il mare, troviamo una taverna isolata dove si
stanno facendo le pulizie di primavera con acqua a torrenti.
Ciononostante dieci minuti dopo ci sta davanti un gran piatto di pesciolini
arrosto e insalata, porro.
Mangiamo all'aperto, separati dal mare piatto, di un marrone smorto,
soltanto dalla strada.
Al tavolo accanto quattro impiegati di Atene in abito nero, rigidi e sudati.
Dall'altra parte la numerosa famiglia dell'oste mangia rumorosamente e
allegramente lo stesso pasto dei clienti.
Il vento dal mare turbina sotto le tovaglie, che nelle taverne greche sono
sempre di carta.
Forse è vero, dice la signora Tharsos: attribuire ad altri la colpa della
propria vita rende inutilmente soli.
Automanipolazione esiste, non è vero?
Antonis ha telefonato.
Dobbiamo presentarci alla polizia per stranieri.
Cosa che ci costa una mattinata. - Mattinata al centro.
Non so spiegare perché, ma nell'istante in cui mettiamo piede nel vecchio
edificio, noi tre ci trasformiamo in una gang.
N., che conosce la lingua e, limitatamente, certi usi burocratici, va avanti in
quanto capobanda, G. lo segue, in quanto maschio, e io, il tirapiedi, chiudo
il piccolo corteo.
Tre rampe.
Dappertutto i capi abitano in alto, ma non dappertutto risiedono in un
vecchissimo, tortuoso edificio impregnato del sudore freddo di generazioni.
Il dirigente, preparato da Antonis, ci riceve di persona, ha l'aspetto che deve
avere un dirigente, porta anche adeguati baffetti sottili; dà espressione con
solennità alla gioia per la nostra visita nella sua città, un omaggio che ci
opprime piuttosto che onorarci.
Dato che però - grazie ad Antonis - gli è stata svelata la nostra professione,
ciò che ora lui si domanda è cosa cerchiamo realmente in questo paese.
Questo rivolto con impenetrabile cortesia, da uomo a uomo, a G., che con
espressione altrettanto impenetrabile dice la verità: turismo.
Aha.
Interessi particolari? - Gradatamente gli occhi dei tre uomini si volgono a
me.
L'età classica, dichiaro io.
Mi interesso dell'età classica greca.
Ma anche dei minoici. - Il capo della polizia per stranieri mi guarda come se
un interesse simile, in questo luogo, fosse vicino a una perversione.
E scrivere, chiede amichevolmente, non è che vogliamo scrivere sulla
Grecia.
No, certo, dice G., in modo troppo vago, sicché N.
si rimette alla guida del negoziato e dichiara in tono deciso, quasi sgarbato:
no.
Non hanno intenzione di scrivere, in nessun caso. - Come se non avessimo
alcuna dimestichezza con la scrittura.
E rivolto a noi, in tedesco, con energia: non avete intenzione di scrivere una
sola riga sulla Grecia, capito.
G. tace, ma io dico, convinta della verità di quell'affermazione: no,
naturalmente.
Bene dunque.
Allora di colpo percepisco la comicità della situazione.
Vedo che G. si concentra tenacemente sulla guarnizione in argento battuto
della scrivania del capo della polizia, e allora comincio a fissare la palma da
appartamento.
N., un vero capobanda, racconta all'uomo socievole che è dietro la scrivania
dio sa che cosa su passato e programmi di questi turisti leggermente
equivoci che vengono da un paese quasi sconosciuto, e io non comunico a
nessuno, esclusa la palma da appartamento, che non mi è difficile
immaginare tutti noi in ruoli da delinquenti e infilati in una serie di
situazioni sgradevoli.
Sottile, molto sottile diventa negli uffici la linea di confine tra il paese degli
innocenti e quello dei sospetti, non si sa mai: si è ancora totalmente in un
campo o forse si è già con un piede nell'altro? Ma per fortuna in questo caso
si tratta senza dubbio di una delle numerose scene di un film in cui
recitiamo anche noi, ma senza la speranza di conoscere il regista che ci ha
affidato parti che ci sono estranee, anche se questa scena l'abbiamo già
provata cento volte.
Ma questa volta dove possono aver nascosto la telecamera? In quello
sfiatatoio quadrangolare nella parete al di sopra della porta? All'occhiello
del capo della polizia per stranieri, che in quest'istante si alza per
consegnarci all'esame ulteriore di un dirigente di sottosezione convocato
schiacciando un pulsante, il quale a sua volta, per altro, ha tratti imponenti,
che però mai e poi mai basterebbero a farne un vero capo.
Allora la regia, che in questo genere di film non si accorda mai con gli
attori, manda dentro ancora un altro dirigente di sezione, che nella gerarchia
occupa evidentemente un posto di privilegio, visto che può comparire al
cospetto del suo capo senza essere chiamato, e anzi all'unico scopo di
accomiatarsi da lui: domani se ne va al suo paese.
Repentino mutamento di atmosfera, sono versati parecchi barili di
traboccante cordialità.
Quest'uomo fortunato, esclama il capo della polizia per stranieri di Atene,
domani se ne va al suo paese! Mentre lui, come un galeotto, deve resistere
qui, al suo posto, fino al giorno prima di Pasqua.
Sicché il commiato si fa affettuoso, una volta che N. ha reso nota la sua
intenzione di andare anche lui per Pasqua al suo paese, in Tessaglia - ah!
Tessaglia! - e insieme a noi, per la precisione.
I turisti che per Pasqua vanno con un greco al suo paese devono essere
trattati da ospiti.
Due parole che N. dice tra i denti mentre usciamo, per le telecamere e i
microfoni ci trasformano di nuovo in una gang: è fatta!, quindi, indirizzati
dal nostro dirigente di sezione a una specie di scrivano (uno scrivano,
d'altronde, che ha letto Kafka), siamo tenuti a prendere in consegna e
compilare parecchi moduli a testa di grande formato, che però restano carta
priva di valore senza fototessera e senza marche da bollo.
Foto? Sospiriamo profondamente.
Non è possibile che gli dei vogliano una cosa simile.
Ma N., consultato brevemente un vecchissimo Cerbero, che siede,
evidentemente senza un profilo professionale ben definito, su una sedia
lustra sul pianerottolo, apprende che cosa bisogna fare.
Muti ci rimettiamo in marcia, nella sperimentata formazione a tre, giù per
due rampe di scale, fin là dove, in un semplice gabbiotto di assi - sia lodata
la libera iniziativa! - ha messo su la sua attività un ingegnoso fotografo che
ci fotografa in un batter d'occhio dopo aver chiesto un prezzo che N., di
nuovo tra i denti, definisce senza scrupoli, e che poi, sempre dopo solo
pochi minuti, ci porge attraverso lo spiraglio della tenda una bustina a testa
con le foto-tessera, che del resto farebbero onore a qualsiasi albo di
pregiudicati.
Stavolta non sono io - è a G. che sembra venire qualche dubbio, nel salire di
nuovo le scale: ma così non va bene, dice.
Perché, dice N. Va tutto bene.
Vuoi essere bello pure per la polizia! Di nuovo tasse che, trasformate in
marche da bollo, inumidite alla fontana a zampillo che sta nell'atrio, sono
incollate sui nostri moduli e timbrate al tavolo dello scrivano kafkiano,
sicché questi, usando evidentemente i nostri moduli come stimolo, con
inchiostro viola e penna raschiante compila una grande scheda che, come
lui assicura con fare tranquillizzante, ci inserisce per sempre nell'archivio
della polizia per stranieri di Atene.
Premio: un allegato al passaporto, che ha valore di permesso di soggiorno.
Quando arriviamo a casa, nel minuscolo appartamento di N., squilla il
telefono.
Antonis.
Non è che per caso eravamo già stati dalla polizia per stranieri.
Aveva telefonato in giro per tutta la mattinata e aveva scoperto: là non
dovevamo affatto presentarci. - Adesso, pensai, si può solo sperare che
l'operatore fissi il viso di N. in primo piano.
Le umiliazioni sono state abbastanza, ora vogliamo dimenticare tutto,
mandar giù insicurezza e rabbia insieme al retsína fresco che viene
conservato nelle possenti botti incastrate nella parete di quella taverna
d'angolo che tra noi è già famosa prima di conoscerla.
N. ci invita.
Dobbiamo scendere un paio di gradini, nella luce da spelonca, nel fresco da
cantina.
Insalata, vino, zuppa di fagioli bianchi.
Adesso potremo apprendere che significato ha la CASA, dal cui spirito
benigno o maligno N. è posseduto.
N. ha ragione: la taverna è il posto giusto per raccontare della casa dei suoi
padri.
Mi immagino che questa taverna dalle spesse mura di cantina, nell'edificio
ateniese, sia molto vecchia.
E che generazioni di greci maschi siano già stati seduti qui a mangiare
dense zuppe di fagioli e a raccontare della casa dei loro padri, poiché questo
è il loro tema fin dai tempi antichi.
L'"Iliade" di Omero, canto dei destini delle grandi famiglie greche, forse è
confluita attraverso i secoli nel fiume del racconto dagli infiniti rigagnoli
narrativi nati in porti, mercati, taverne: Canta, o dea, l'ira d'Achille Pelide...
(Achille, figlio di Peleo).
Raccontare è umano e dà luogo all'umano, alla memoria, alla
partecipazione, alla comprensione - anche quando il racconto è in parte un
lamento sulla distruzione della casa paterna, sulla perdita della memoria,
sull'esaurimento della partecipazione, sulla mancanza di comprensione.
La casa dei suoi padri, dice N., in quel villaggio tessalico che noi vedremo,
è per la verità la casa di suo nonno, presso il quale è cresciuto.
E della nonna, che noi conosciamo.
Me la vedo davanti, la donna vecchissima, piccola, rinsecchita, svelta,
vigile, diffidente, la minuscola testa scarna da uccello, i radi capelli, le
gonne nere.
Che ancora uno o due anni fa correva col suo passo svelto da scoiattolo per
i campi del Meclemburgo, contro vento, e allargava le braccia come se
volesse sollevarsi da terra: cosa che le riuscì, finché fu giovane: volare.
Slanciarsi, raccogliere le gambe e rasente sorvolare la terra; con l'età quella
forza l'aveva abbandonata.
Ma lo sapevamo poi, chiede N., che quella non era la vera nonna, bensì la
seconda moglie di suo nonno, la quale lo aveva sottratto a sua madre per
godere in paese del rispetto dovuto alla donna che alleva un erede maschio.
Così, la nonna.
Che mi dà sempre colpetti affettuosi sulla guancia.
La storia della famiglia di N. si complica ancora di più, un intrico di fili dal
quale lui, quel pomeriggio nella sua taverna, dipana per noi un filo rosso: il
filo della sua fuga con i nonni allora ancora giovani, che nel 1947 vanno dai
partigiani sulle montagne, portandosi lui, il nipote dodicenne: quando gli
inglesi, vi ricordate, soffocano con la forza delle armi, alleati del governo
greco da essi insediato, il movimento di liberazione nazionale.
Vi ricordate, questo sembra essere il ritornello di N., giacché, per un popolo
senza memoria, che senso avrebbero le vittime, le migliaia di senza patria, il
dolore dell'esilio che divora per decenni? Raccontare è dare senso, e se
raccontare non basta, se uno, novello Odisseo, dopo quasi trent'anni ritorna
e vede che NON l'hanno aspettato, che va in rovina la casa paterna, che la
famiglia è in condizioni difficili, che i vicini mandano sul suo campo le
capre: allora uno va lì e, lo capite, è proprio la casa che ricostruisce.
Crediamo di capire.
N. non riesce ad ammettere che un simbolo, un sogno vada in rovina.
Inestinguibile, si sa, è il dolore che ci arrecano i nostri, sia che li
trasformiamo, sia che ci trasformiamo in estranei, e non il proscritto, ma il
dimenticato è senza consolazione. (Quelli che amiamo di più, lo so, ci sono
aspramente nemici..., Oreste in Eschilo.) Cassandra corre il più grave dei
pericoli non quando l'ira dei troiani mette a rischio la sua vita, ma quando
tra lei e i suoi tutti i fili si sono spezzati, anche quelli dell'ira, e per via della
sua colpa non è stata ancora annodata una nuova rete.
Presso i popoli arcaici esisteva il suicidio?
Valtinos, il cui numero di telefono, proprio quello che tanto tempo fa Sigrid
ci ha dato nella sala di transito, abbiamo finalmente composto e che ci
riceve di notte in cima al grattacielo dove abita con caffè e vino, Valtinos,
che sta traducendo l'Orestea di Eschilo in greco moderno, non trova
conferma nel testo.
La messa al bando, lo sappiamo bene, significava per l'uomo arcaico, che
era saldamente legato a famiglia, clan, tribù, la morte certa: per paura,
rimorso, orrore, ma soprattutto per la dissoluzione di quell'impalcatura
interiore di valori, senza la quale neanche noi riusciamo a vivere e con il
crollo della quale anche noi desideriamo morire.
Per tacere di quei casi in cui non possiamo far altro che causare noi stessi il
crollo di quell'impalcatura e metterci così in quella condizione che, in
quanto non offre alcuna accettabile alternativa, è detta tragica ed è tanto
propizia alla letteratura.
Come mai, riflettiamo in questa soavissima notte, mentre, in quale altro
modo dirlo, si levano le stelle, come mai si è prestata così poca attenzione
al fatto che Cassandra, da un punto di vista sociale, appartiene al ceto
dominante: la figlia del re.
E al fatto che, lo si può desumere da Eschilo, non era permesso a chiunque
di dire ciò che vedeva.
Così parla il coro dei vegliardi di Argo, sopraffatto da un brutto
presentimento, quando Clitennestra accompagna Agamennone nella rocca:

Se tra gli uomini,


i potenti e gli umili,
non fosse posta una barriera:
dovrebbe, chi è piccolo,
non tacere:
Tutto io direi!
Griderei,
e dal cuore
mi sgorgherebbe!

Ma Cassandra, di nobile nascita, ha il privilegio di parlare, di essere


ascoltata e di avere un nome, non è anonima nemmeno la sua morte.
Chiedo a Valtinos se non pensa che lei, posta di fronte alla possibilità di
scegliere, avrebbe percorso un'altra volta la stessa via.
Questo, dice lui, è un punto di vista legato all'oggi, giacché è proprio il
momento della scelta che gli antichi non hanno conosciuto.
Anche se si tratta di un punto di vista attuale: non trova che Cassandra
rappresenti la prima donna della letteratura che svolge una professione?
Che cosa avrebbe potuto diventare una donna, se non una veggente? Allora,
dice Valtinos, Clitennestra sarebbe la prima femminista: per dieci anni ha
governato Micene da sola; ha dovuto vedere e sopportare che il marito, il
molto risoluto Agamennone, sacrificasse la figlia preferita, Ifigenia, alla dea
dalla quale sperava in cambio un vento favorevole alla partenza della sua
flotta per la guerra; si è presa l'uomo che le piaceva: Egisto: deve rinunciare
ai suoi diritti a causa del ritorno del consorte? Deve tornare a curvar la
schiena accanto al focolare e alla conocchia?
Beviamo.
Ci avviciniamo alla mezzanotte, l'aria si fa più fresca.
Sì, esiste il cielo di velluto, esiste il luccichio delle stelle del sud.
Obliqua davanti a noi pende bassa sulla città giallo-rossastra una falce di
luna turca, i bicchieri di vino stanno sul cemento della terrazza accanto alle
nostre sedie.
Sigrid porta del caffè nero in tazze alte, il suo ragazzino, quello che era
caduto nella sala di transito, adesso deve andare a letto.
Sogniamo? Devo solo pronunciare un determinato nome, perché tutte le
cose si vadano incontro, perché accadano piccoli miracoli e io sia trascinata
sempre più profondamente in un incantesimo? Che le stelle cantino - un
suono acuto, ronzante -, è una cosa che non voglio dare a intendere a
nessuno, eppure quella notte le abbiamo sentite.
Tradurre i testi antichi in greco moderno è più difficile di quel che si pensi,
dice Valtinos: per via dell'ambiguità del greco antico.
Fa un esempio: Clitennestra, dopo aver salutato con esagerato entusiasmo il
consorte Agamennone, ordina alle ancelle di stendergli davanti drappi rossi
sulla strada, perché il piede del re vittorioso che torna a casa non tocchi il
suolo (è questo che sembra inaugurare la consuetudine, decisamente a
doppio taglio, del tappeto d'onore rosso in uso ancor oggi per i capi di stato
stranieri).
Lei dice, nella traduzione di Droysen:
L'accesso alla casa sia subito ricoperto di porpora per lui, l'insperato, che
Dike lo possa guidare.

In Walter Jens trovo:

Di porpora sia la strada che lui, il quasi inatteso,


alla casa riporta.

E Peter Stein, nella sua messinscena dell'Orestea, ha fatto dire a


Clitennestra:

Spiegate, come io ho ordinato,


le vesti sulla strada,
ricoprite il suolo, fate sorgere presto il sentiero di porpora.
E Dike, la giustizia,
lo accompagni, lo conduca alla casa,
com'egli forse non si attendeva affatto.

Il più delle volte, dice Valtinos, le traduzioni non valorizzano l'ambiguità di


questi versi: Dike, la dea della giustizia, viene invocata come protettrice di
un omicidio: la morte, che la donna ha destinato al marito, ai suoi occhi è
giusta.
Sicché il sentiero di porpora potrebbe essere tradotto anche con via del
Diritto - e così, quanto più a fondo lui si addentra nel testo, tanto più deve
fare i conti con numerosi esempi di significato oscillante; che poi sono stati
tradotti in maniera diversa dalle varie generazioni di traduttori, a seconda
della loro concezione morale e della conseguente interpretazione: a seconda
che loro, sia pure inconsapevolmente, siano stati dalla parte dell'uomo o
dalla parte della donna.
Essi erano difficili da capire anche nella nostra lingua, poiché la nostra
doppia morale è altra da quella dei nostri progenitori.
E perfino questo concetto, sono costretta a pensare, doppia morale, non
sarebbe tanto semplice da tradurre - in un modo, se usato in senso
svalutante, in un altro, se usato in senso neutrale.
Vale a dire, riflettiamo, che la doppia morale degli antichi forse non è così
onnipresente, così dominante e pervasiva come la doppia morale della
civiltà cristiano-occidentale, la quale deve compiere un enorme demagogico
lavoro intellettuale, sempre più sottile e cavilloso, per riconoscere a
fondamento etico della sua vita il comandamento NON UCCIDERE e nel
contempo per annullarlo in relazione al suo agire pratico, senza avere un
tracollo morale.
Così al centro di questa cultura sorse quell'oscuro punto cieco che le
nasconde la cosa essenziale, la sua micidiale doppia vita: una carenza, che
purtroppo - così conversiamo sulla nostra terrazza sul tetto, passata ormai la
mezzanotte -, purtroppo di necessità rende invisibili alle forze trainanti di
questa civiltà anche i processi che conducono all'autoannientamento; una
magia di streghe che ora capiamo troppo tardi, forse.
E la letteratura, descrivendola, ha contribuito a strutturare la doppia morale.
Mentre Eschilo con la massima franchezza istituisce una doppia morale,
quella del patriarcato, senza mai denigrare veramente, ritiene Valtinos, la
precedente mentalità matriarcale.
Clitennestra, bene: simula all'inizio, simula gioia per il ritorno del consorte,
ma non al servizio di una doppia morale (perciò in seguito non ho trovato
giusto che Peter Stein, nella Schaubuhne, facesse recitare la sua
Clitennestra col tono demagogico di Goebbels): lei vuole fare ciò che
ritiene giusto.
Agamennone, uccidendo la figlia di lei e sua, ha violato l'ancora non troppo
antico comandamento: non fare sacrifici umani.
Quando lei lo ammazza, restaura il diritto, così come lo sente:
Questo è Agamennone, il mio sposo.
Ucciso da questa mano.
L'opera riuscì magistralmente, e fu anche giusta.

Il pregiudizio di Eschilo, dico, lo vedrei nell'avversione delle due donne,


Cassandra e Clitennestra, l'una per l'altra.

CASSANDRA: ...ma quale bestia le può prestare il nome?


Drago, Scilla, mostro?

CLITENNESTRA: Qui giace morto colui che il diritto mio, di femmina,


calpestò,
...
Ed ecco, guardate la schiava, accanto a lui giace,
la druda fedele, che s'andò giacendo con lui al banco dei remi
e all'albero maestro; ora hanno ciò che di questo è degno.

Così il poeta maschio vuole vedere queste donne: piene d'odio, gelose,
meschine tra loro - come possono diventare le donne, quando sono
allontanate dalla sfera pubblica, ricacciate in casa e accanto al focolare;
accadde proprio questo nei secoli dei quali tira le somme la grande tragedia
di Eschilo.
Se ne potrebbe parlare a lungo, diciamo nell'accomiatarci.
In estate, quando avremo lasciato da tempo questo paese, a Epidauro gli
interpreti di Clitennestra, di Cassandra, di Agamennone e di Oreste
reciteranno i testi antichi nella lingua di Valtinos.
Capisco che è sovraccarico di lavoro.
Nella sua stanza vedo la macchina da scrivere affogare nella carta.
Cassandra del resto, monto in cattedra io sulla via del ritorno attraverso la
città notturna e vuota, Cassandra non ha interessato veramente Eschilo; non
come lo hanno interessato gli assassini.
A noi, conveniamo, gli assassini ci annoiano fino alla nausea.
A volte potrei ammazzare, dico, ma non descrivere gente in preda a follia
omicida.
Cassandra, presumo, si definisce non assassina, non posseduta dalla follia.
Da dove le vengono la voglia e la forza di opporsi?
Il libro che Valtinos ci ha dato per il viaggio entra nel bagaglio per Creta,
visto che è piccolo e leggero.
Giacché è fuori discussione che dobbiamo andare a Creta, all'improvviso
tutti parlano della culla dell'occidente, all'improvviso tutti parlano della
cultura minoica.
Il traghetto, che si chiama KRITI, fa rivivere ogni sera, nel porto del Pireo,
uno spettacolo antichissimo: una nave salpa.
Adesso è questo ciò che conta.
L'attività di tutto il bacino si raccoglie davanti alla scura imboccatura
quadrangolare della nave, dal ponte di coperta vediamo l'ingorgo dei
veicoli, che più si avvicina l'ora della partenza, più ci appare disperato.
Se si può credere ai gesti, alle grida che arrivano quassù, tra i conducenti
degli autocarri aggrovigliati ci sono questioni di vita o di morte, volano
pugni, uno si siede sul molo, le mani sul viso, un uomo distrutto, mai e poi
mai i berretti bianchi della polizia portuale, che adesso si mescolano alle
teste brune, riusciranno a ottenere qualche risultato, a che servono i loro
cenni, penso, finché mi rendo conto che l'autocarro carico di legname
universalmente osteggiato, il cui conducente sembrava deciso a tutto,
scivola lentamente, lentamente, millimetro dietro millimetro, sul traghetto;
che ora anche gli altri veicoli si danno un ordine, secondo modelli
imperscrutabili, come se quello grande se li tirasse dietro.
E che l'uomo che sedeva piangendo sul molo non guida nessun veicolo, non
aveva alcun interesse personale al risultato, ma solo allo spettacolo che, non
essendo più interessante, abbandona per andarsene a zonzo fischiettando.
Queste scene di partenza, di commiato e di porto non le vivo per la prima
volta; nessuno che abbia dovuto prendere commiato, o lasciare qualcosa che
chiamava patria, può viverle per la prima volta.
Non per la prima volta, mi sembra, una nave su cui me ne sto ritta, scivola
via dal molo, non per la prima volta si spalanca questo scuro abisso tra me e
la riva, e resta indietro, a terra, una figura nera, C., cui facciamo a lungo
cenni di saluto, che diventa più piccola, infine minuscola.
Poi sollevai lo sguardo e vidi la luce.
Erano le sette di sera.
Il sole, molto basso, ci stava alle spalle e illuminava l'arco del porto del
Pireo, ma ogni oggetto risplendeva autonomamente del proprio colore, in
una luce incantata che da allora ogni sera non mi lasciai sfuggire.
Può darsi che in questo chiarore, nel caso che anche le navi degli achei
siano partite a sera dalla costa di Troia, le troiane prigioniere, stipate a
poppa, abbiano visto per l'ultima volta le macerie della loro città e la riva
della patria.
Ciò avrà reso più acerbo il loro dolore e contemporaneamente avrà
rinsaldato quell'amore cui forse si saranno aggrappate una volta in terra
straniera.
Ma dei narratori che hanno scritto di loro, nessuno fu presente, e nessuno ha
menzionato questa luce.

SECONDA LEZIONE
Il resoconto di viaggio continua seguendo una traccia

Se non mi credete, che importa?


Il futuro certamente verrà.
Solo un attimo,
e lo vedrete voi stessi.
Cassandra, in: Eschilo, "Orestea".

La luce incantata che vedevamo dalla nave si spense, le insegne luminose


nell'arco del porto del Pireo balzarono fuori dalla penombra: 7 UP, SHELL,
rapidamente calò la notte.
In questo porto, tanto tempo fa, è approdato Teseo dopo aver sconfitto il
Minotauro nel Labirinto e dopo esserne uscito con l'aiuto del filo di
Arianna, ma poi dimenticò di sostituire con una vela bianca la nera vela
della morte, sicché suo padre, il re Egeo, ritenendo che il figlio fosse morto,
per il dolore si gettò nel mare.
Ma era cessato il sacrificio annuale di fanciulli che gli ateniesi dovevano al
toro cretese.
Le navi più diverse, con le nuove più diverse, hanno viaggiato su e giù tra
Creta e la terraferma per millenni.
Oggi la KRITI trasporta giovani di tutto il mondo avidi di sole,
autostoppisti che si arrangiano per la notte sulle panche del ponte di
coperta, ragazzi e ragazze in divisa standardizzata - jeans, giacche a vento,
morbide scarpe bianche da ginnastica -, sulle spalle stracarichi supporti di
metallo leggero, che appoggiano contro le panche; passammo loro davanti,
ci scrutammo reciprocamente, muti.
Poi qualcuno chiamò il mio nome, mi voltai di scatto: davanti a me c'era
Helen.
Tyche, il caso.
Helen di Columbus, Ohio, che l'ultima volta che l'ho vista mi sedeva di
fronte nella mia casa di Berlino, e accanto a lei Sue, la sua amica di Los
Angeles, California.
Hallo, dice.
Hallo, rispondo.
Noi, ci conosce già.
Quanto a lei, come forse sappiamo, fa teatro. - Bene.
Dove si poteva mangiare insieme?
Risultò che il SECOND-CLASS-DINING-ROOM era pensato apposta per
gente come noi; che un piatto di spaghetti all'italiana equivaleva meglio di
ogni altra cosa al nostro fondo in dracme e che quella sera a ciascuno di noi
quattro niente interessava più ardentemente della cultura minoica.
Sicuramente sintomo di un'ossessione è che di essa non riusciamo a stupirci
- almeno non quando è in noi che si manifesta - e che la notiamo con
maggiore o minore divertimento soltanto negli altri, sicché anche quella
sera, presto o tardi, finì per arrivare il momentoforse ce ne stavamo già
seduti sui letti della nostra cabina sbucciando le fresche arance profumate
che N. ci aveva dato per il viaggio -, il momento in cui il mio spirito, o
perlomeno una parte di esso, si staccò dal corpo e cominciò a fluttuare
sopra di noi (non intendo affatto a livello del basso soffitto della cabina:
molto più in alto!) per prendere le distanze e anche per divertirsi un po': per
l'amor del cielo, che cercavano le americane qui da noi, nella nostra cultura
minoica? Quel che cercavo io era ovvio: cercavo - tra le altre cose, ma
allora non avevo consapevolezza che di questo - il raffronto cronologico tra
la guerra di Troia e la fine della cultura minoica a Creta, giacché ambedue,
se le datazioni scientifiche sono esatte, si sarebbero verificate nel
dodicesimo secolo avanti Cristo - Creta prima di Troia.
Helen e Sue cercavano conferma alla loro tesi che a Creta erano le donne a
primeggiare e che questo era stato un bene per i minoici.
E io mi appassionavo alle affermazioni dell'americano Velikovsky, il quale -
sulla base di argomentazioni, la cui esposizione qui porterebbe troppo
lontano, ma di cui quella sera, nella cabina della KRITI, non feci affatto a
meno - ha fornito una datazione completamente nuova della storia
dell'antichità, che sposta in avanti di tre-quattro secoli la caduta di Troia
insieme alla fine della cultura minoica, vale a dire all'ottavo o verso le fine
del nono secolo: cioè quasi al tempo in cui visse Omero.
Dal canto loro Helen e Sue, le cui opinioni su non pochi aspetti dell'arte
contemporanea sono completamente discordanti, citavano invece
all'unisono alcune frasi dalla loro guida, terrificanti a loro parere, dalle quali
si poteva rilevare con gran gusto la totale incomprensione, da parte degli
studiosi dell'antichità di sesso maschile, per i dati di fatto fondamentali
della cultura femminile che a Creta essi avevano riportato alla luce.
Fu vivace quella serata nella nostra cabina, e il mio spirito, che continuava a
fluttuare sopra di noi, mi conservò l'immagine di due teste bionde e di due
brune che, scrollate a turno, si chinavano su libri diversi, e per un motivo
preciso, che vi dirò subito, ricordo ancora di aver citato la seguente frase di
Velikovsky: La tradizione riguardante Enea, il quale, salvatosi quando Troia
fu conquistata, si recò a Cartagine (città costruita nel nono secolo) e da qui
in Italia, dove fondò Roma (città edificata a metà dell'ottavo secolo),
implica che Troia è stata distrutta nell'ottavo o verso la fine del nono secolo.
Enea sorse in carne e ossa davanti al mio occhio interiore, e Cassandra lo
aveva conosciuto.
Conosciuto soltanto? Che cosa poteva averla colpita di più in lui?
Sensibilità accoppiata a forza? Ma questo non è il trasferimento di un ideale
attuale su un personaggio mitologico che non PUO' essere stato così? Certo.
Che altro se no.
La mia voce interiore tacque, non propriamente offesa, neanche annoiata o
impaziente - tacque semplicemente e mi abbandonò allungata sulla cuccetta
angusta, cullata dalle lievissime onde dell'Egeo, alla lettura del libro di
Valtinos.
Una storia sanguinosa del tempo dei partigiani, dove la cosa importante non
era il sangue, ma la perdita graduale, da parte di un uomo estremamente
tormentato, del legame interiore con i suoi simili, e alla fine con i suoi
compagni più stretti.
Non volli sapere come andasse a finire, non quella notte, misi via il libro,
mi portai nel sonno l'esperienza di come finiscono in questo secolo
insurrezione e resistenza, e in ultimo mi vidi davanti l'espressione del viso
di quel partigiano, un uomo giovane, scuro di barba e di capelli, il cui capo
subitamente - in modo così antiquato si esprimeva nel sonno la mia
coscienza parlanteprese a galleggiare sulle acque, non so dirlo in altro
modo.
In quei giorni mi devo essere imbattuta da qualche parte nel capo di Orfeo
che canta.
Il capo di un ragazzo, che sapevo essere di un uomo il cui nome era Enea,
galleggiava, circondato da foglie di ninfea e da altre piante verdi, sulla
piatta acqua oleosa, e mi osservava dolorosamente esigente, e io sapevo
naturalmente, senza aver bisogno di pensarlo in modo esplicito, che questo
Enea era anche il giovane partigiano la cui fine certamente orribile non
avevo voluto conoscere; che su tutt'e due, separati da tremila anni, si era
stampata come per caso la stessa espressione, l'espressione dei perdenti che
non si danno per vinti e che sanno: continueranno a perdere, continueranno
a non darsi per vinti, e non per caso, non per errore né per disgrazia, bensì:
volutamente.
Cosa a cui, però, nessuno vuole credere mai - ci credeva e lo sapeva quel
capo che galleggiava sull'acqua, ed era questa la sofferenza più terribile, la
più vera, ed era questa l'estasi più grande: Enea.
Così, senza che ce ne accorgessimo, ci venne incontro Creta, l'isola di
Minosse, e non mancammo di alzarci presto, come ci era stato
raccomandato, e di vedere il sole emergere dal mare, né mancammo di
goderci lo spettacolo delle fortificazioni veneziane all'ingresso nel porto,
per ritrovarci poi insieme ad Helen e Sue in un taxi e, infine, davanti a una
cafeteria al crocevia più trafficato di Iráklion, dove bevevano un caffè anche
i giovani autostoppisti della nave.
Dato che le premure di Antonis ci avevano preceduto anche lì, dovetti
telefonare a un certo numero e seguire le istruzioni in inglese di una voce
femminile, la cui proprietaria non saremmo mai riusciti a vedere, e che
perciò era destinata a diventare nel ricordo la voce di un fantasma, tanto più
che essa ci mandò per vie impreviste, il cui intendimento ci rimase oscuro:
dovemmo andare ad ovest, in un taxi che marcava costosamente e, come ci
parve, a un prezzo doppio o triplo, ciascuno dei 26 chilometri verso il luogo
per noi misterioso di nome Hersónissos, in un hotel che, come annunciato,
stava sì sul mare, era moderno, ma non era affatto economico; perlomeno
non secondo il nostro modo di vedere, sicché subito, dopo essere entrati
nella camera altrettanto moderna ed esserci persuasi che da essa, attraverso
una grande porta, si accedeva direttamente alla spiaggia, cominciammo a
riflettere su come e quando ce ne saremmo potuti andare di lì.
Giacché, per l'amor del cielo, che c'era da fare in quel posto? In quell'ex
villaggio promosso a stazione balneare, i cui ristoranti e le cui pensioni
adesso, in bassa stagione, erano per la maggior parte ancora chiusi e che
consisteva in un'unica lunga strada sulla quale però, a causa del traffico,
non si poteva camminare in pace? E che c'era da fare - il problema si faceva
più grande!- per Helen e Sue, le quali ci avevano seguito con una certa
audacia su una motocicletta presa a nolo (RENT A MOTOR-CYCLE!).
Poi si scoprì quello che c'era da fare in quel posto: andare a spasso.
Prendere la via su per il colle verso il promontorio, dove stavano i due
bianchi, allettanti villaggi che si vedevano dalla strada.
Se possibile, c'era da testimoniare che in aprile non solo tutta la Grecia, ma
anche tutta Creta è verde e coperta di fiori primaverili; cosa, pare,
assolutamente atipica; tipiche per la Grecia e per Creta sarebbero state
piuttosto l'erba bruciata, seccata a fieno, e la nuda roccia infuocata.
Noi abbiamo visto Creta verde.
Per noi la Grecia è il paese dai mille fiori, dagli anemoni multicolori, un
paese dal rosso papavero, piccolo il fiore ma resistente, di quelli che stanno
anche davanti a tutti gli altari, per esempio davanti all'altare della bianca
chiesetta del villaggio dove una ragazza - la figlia del pope o del
sacrestano? - ci fa cenno di entrare.
Da vedere non c'è nulla.
Con prontezza la ragazzina ci ha messo in mano candele benedette, ne ha
detto il prezzo in un inglese quasi irriconoscibile, con prontezza ha
intascato il danaro; quando usciamo sulla strada, diverse paia d'occhi ci
scrutano, seri e immobili, dal buio della casa in cui abita la ragazza.
Un contadino col suo asino ci viene incontro giù per la via che scende
ripida e sassosa dalla montagna, è andato a prendere il foraggio e ci scruta
finché scompare con la bestia dietro uno dei bianchi muri di pietra che
cingono i piccoli cortili.
Sei o sette uomini scarni, dalla pelle bruna, se ne stanno seduti davanti alla
taverna in vecchie giacche logore, berretti o cappelli neri in testa.
In silenzio, senza toglierci gli occhi di dosso, lasciano che passiamo loro
davanti.
Gli sguardi di questi uomini e, più ancora, gli sguardi delle donne che,
vestite di nero come le loro antenate, le teste sotto fazzoletti tirati bassi sulla
fronte, sbrigano le loro faccende per cortili e giardini, ci fanno esseri di un
altro pianeta.
Agli occhi degli abitanti dei villaggi cretesi noi, che ci riteniamo diversi
l'uno dall'altro, siamo fusi in un gruppo unitario di incuriositi sfaccendati
occidentali i quali - in particolare noi donne - si prendono tali libertà che, se
di questo uno non dovesse almeno in parte vivere, gli verrebbe di dirci in
faccia quanto sono indecenti.
Noi stessi non riteniamo del tutto decente star seduti al margine del prato a
monte del villaggio e conversare con nomi e appellativi che nessuno in
questi villaggi ha mai udito o udirà mai.
E certo, a San Francisco ci sono gruppi teatrali di omosessuali e di lesbiche,
ma ci sembra che nel medesimo istante in cui Sue ne racconta con vivacità,
la loro esistenza diventi ormai inessenziale.
Il nostro sguardo spazia sul villaggio che abbiamo appena attraversato, su
Hersónissos, sulla strada principale, sulla striscia di sabbia lungo il mare,
l'Egeo, che riempie di sé la maggior parte dell'immenso panorama, si
distende in un azzurro intenso respirando calmo e rende inessenziale tutto
ciò di cui, per abitudine, seguitiamo a parlare.
Helen e Sue hanno tradotto insieme un testo teatrale dal tedesco, nel farlo
litigarono, e ora vengono fuori resti del vecchio litigio, o si tratta dei segni
che ne preparano uno nuovo? Quando riprendiamo a camminare, Helen
coglie per G., in una delle piantagioni di limoni, un limone maturo, era una
scommessa e lei la vince, e a sera questo limone ci viene a proposito per
spremerlo sul nostro salmone alla griglia.
Poiché i nastri continuano a scorrere dentro di noi anche quando cambiamo
luogo, ci rimbalziamo i nomi che oggigiorno conoscono tutti gli europei e
gli americani che hanno a che fare con la letteratura, parliamo ovviamente
del teatro di Brecht di ieri e di oggi e del ruolo della donna nella letteratura.
Quand'ecco che per strada (siamo ormai nel villaggio vicino), ci rivolge la
parola una donna che ci appare anziana, benché sicuramente non abbia più
di cinquantacinque anni.
Mastica due o tre parole di inglese, perfino un paio in tedesco: "Deutsch
gutt", un'affermazione che non ha su di noi un effetto più gratificante per il
fatto di essere ripetuta.
In virtù di una vivace opera di persuasione in tre lingue, ci convince ad
andare con lei, "cafeteria gutt, very gutt", e, lo comprendiamo dopo, si tratta
della sua cafeteria, che consiste in due minuscoli tavoli tondi davanti a una
specie di bottega buona per tutto in una strada laterale, con quattro sedie
attorno a ciascuno dei tavolini.
"Kallá"? chiede la donna quando ci sediamo, e noi rispondiamo: "Kallá"!
Beviamo l'oúzo che ci offre, mangiamo delle noci e ordiniamo caffè turco.
La donna si siede accanto a noi e mi accarezza raggiante la guancia:
"Deutsch gutt.
Schon", dice a noi tre donne quando ce ne andiamo: "schon schon".
Per questa donna precocemente invecchiata, segnata dalla fatica, è il modo
di vivere occidentale che produce persone belle.
Ben nutrite, non logorate nel corpo dal lavoro, la pelle liscia, i capelli liberi,
non coperti, le camicette colorate, senza preoccupazioni e consapevoli di sé:
"schon".
Ma noi sostiamo a lungo davanti alla piccola bottega alla fine del villaggio,
davanti ai pullover di lana di pecora e ai tappeti che essa espone, davanti
alle coperte e ai fazzoletti cretesi di gran fama, che sono di buon gusto
molto più dei prodotti industriali a poco prezzo che indossiamo e la cui
fabbricazione in serie ci procura la nostra vita facile, se paragonata alla
loro.
Le donne di qui, che ci seguono con lo sguardo un po' critiche, un po'
nostalgiche, per tutta la vita non lasciano il villaggio se non forse per il
matrimonio.
Il nostro viaggiare su e giù indica, oltre che curiosità, anche un bisogno, ma
di che? Che cosa ci manca? Che cosa cerchiamo, noi che veniamo da due
direzioni così divergenti, in questo terzo luogo così fuori mano, un'isola
addirittura? Che cosa indica, dunque, la devozione che noi siamo pronti ad
offrire a una cultura sprofondata duemila anni fa, la tolleranza di cui, ancor
prima di imbatterci nelle prime materiali testimonianze di essa, abbiamo già
fatto provvista dentro di noi? Mentre invece ce ne stiamo straniti davanti
alle tombe di coloro che sono morti in questo villaggio dieci, venti o
cinquant'anni fa: lastre di pietra coprono i morti fino alla loro resurrezione,
alla quale però i vivi forse non credono o che nemmeno si augurano, e nelle
lapidi di marmo sono incastonate piccole bacheche dove, sotto vetro, c'è la
fotografia a colori del defunto, un mazzo di fiori secchi, mentre una piccola
brocca e una coppetta con delle noci attendono di essere usate dal defunto
come viatico durante il lungo cammino verso il regno dei morti, così come i
loro avi, su questo medesimo suolo, ricevettero nella tomba cibo e bevande,
anche gioielli, e, a seconda del rango, anche armi e utensili d'oro, dai quali
noi oggi possiamo desumere quale fosse la vita quotidiana di quei popoli.
Qualcuno, tra tremila anni, qui o altrove, crederà ancora che i morti vadano
in qualche posto e che, per il cammino forse arduo e tenebroso, abbiano
bisogno del viatico, cura dei vivi, che essi non sanno più darsi? Qualcuno
penserà ancora a rendere ai morti più facili le cose? Ci sarà ancora, tra i vivi
e i morti, una sorta di corrispondenza, di ricordo? Memoria, narrazione,
arte?
I nostri pensieri, cozzano contro un muro, quando vogliamo proiettarli nel
futuro.
Ce lo confessiamo accanto a queste tombe, a Creta.
Ammettiamo la nostra angoscia.
Da un mondo che fosse solo economico, solo dell'al-di-qua, l'uomo in un
modo o nell'altro dovrebbe sparire.
Creta è un'isola che galleggia in un'acqua particolare.
La voce irreale al telefono non ci ha fuorviato, però ora vogliamo
soggiornare ad Iráklion, e perfino a buon mercato.
E ora andiamo anche alla polizia per stranieri, nell'edificio basso dove,
passando davanti a una zolla d'erba secca con ovolacci e pellicani in
plastica, l'ingresso dà direttamente nell'ufficio, direttamente di fronte alla
barriera di legno dietro la quale il poliziotto in servizio della polizia per
stranieri ascolta annoiato e un po' sprezzante, con la sua barbetta alla
Menjou, i nostri desideri ed è in grado di dirci a memoria i nomi di tre
alberghi, uno dei quali è quello di un albergo proprio dietro l'angolo, sì, 300
dracme a notte, e appunto così poco doveva costarci una camera d'albergo
per compensare l'ultima costosa notte: accecata dall'avarizia, eccomi già
nelle mani della nana.
La nana mi viene incontro zoppicando dall'alto di una scala strettissima
forse dovrei dire scaletta - e non è solo piccola, ma anche deforme, trascina
biancheria bagnata che stende, al piano ammezzato, sulla ringhiera del
balcone mentre mi informa in un miscuglio di più lingue: sì, camera doppia.
Sì, trecento. "Guttgutt".
Bagno? Anche, sì, extraspeciale.
E poi insiste, imperativamente: extraspeciale.
Allora io, già intimidita dalla sua figura di nana e dal suo modo sprezzante
di parlarmi (soprattutto dalla successione di immagini sulla vita di questa
donna, che mi scorre sul fondo del cervello), dalla sua durezza, su cui c'è
appena un velo di vernice adulatoria, sedotta dalla mia avarizia- mi faccio
mostrare solo la camera, non il cosiddetto bagno; anche nella camera c'è un
rubinetto dell'acqua, passando vedo attraverso le porte aperte giacigli come
ce ne sono da centinaia di anni, una locanda di origine antichissima,
avverto, non mi impunto su niente.
La nana ci trascina al bureau, un minuscolo tramezzo d'assi senza luce,
dove un essere veramente equivoco ci fa compilare dei moduli, ci requisisce
i passaporti e, quando li richiediamo, insiste perché in tal caso paghiamo
anticipatamente per tre notti: o i passaporti o i soldi.
Paghiamo.
Extraspeciale, assicura la nana con un ultimo tocco di gentilezza per ospiti
che hanno già pagato, e zoppicando si avvia con la chiave verso la nostra
camera.
D'accordo, non è necessario andare a piedi nudi sul pavimento, in un
armadio, nel caso che ce ne fosse uno, non avremmo comunque quasi nulla
da appendere, solo quando si pone il problema della toilette il risultato è
deprimente.
Si potrebbe ancora andar via, cosa che significherebbe la perdita di
novecento dracme.
Sul balcone accanto alla nostra camera, nella quale tutto sommato ci sono
due letti e due sedie, e che è dipinta del verdeazzurro così usuale qui, la
nana stende lenzuola bagnate sulla ringhiera.
Intanto canta, e forse non dovrebbe farlo, ma in fin dei conti sono affari
suoi.
Mentre scendiamo le scale, ci soccorre l'idea di essere capitati in un film di
Bergman: non Kafka, no, Bergman.
Ci dimostriamo la differenza e ci persuadiamo che la scelta di Bergman è
giusta.
Ormai abbiamo preso le distanze.
Ormai non ci sentiamo più troppo addosso né la nana né il suo
impenetrabile compare del bureau, i modelli che l'arte ci mette a
disposizione, una volta passato il peggio, tornano a soccorrerci, chi
desidererebbe vivere senza di loro?
Ma non ci soccorrono per molto.
Di notte le lenzuola, che sono semplicemente troppo corte, non coprono del
tutto le coperte ruvide e poco pulite, i piedi vengono inevitabilmente a
contatto con esse.
La cosa non dovrebbe disturbare, ma disturba, e il fatto che nel dormiveglia
io veda la nana appendere proprio queste lenzuola sull'inferriata del
balcone, non migliora la situazione.
Inoltre per la prima volta mi sento male - non perché la cena che, in preda a
un incomprensibile accecamento (Menu extraspeciale! aveva detto la nana)
abbiamo consumato in questo albergo, nuotasse nell'olio d'oliva ancor più
del normale cibo greco; ma perché le porte oscillanti avanti e indietro, alle
spalle dei camerieri che andavano avanti e indietro, permettevano di
lanciare nella cucina qualche occhiata, che probabilmente non aveva
giovato ai nervi del mio stomaco.
O perché perdurava l'effetto della passeggiata serale nelle strade del centro
di Iráklion, quel passeggio di giovani maschi, corpo contro corpo, gruppo
contro gruppo, una fiumana poderosa; gesti provocatori, gara di forza e di
bellezza tra maschi in movimento per potersi esibire; occhi brillanti, sguardi
insolenti, spintoni intenzionali, carica concentrata di mascolinità aggressiva
che, se qualcuno, qualcuna la contrastasse, non mostrerebbe di conoscere
nessun pardon, non mostra di conoscerne; in tutti i locali ogni sedia
occupata da maschi, maschi che leggono il giornale, bevono, discutono,
gesticolano, giocano: maschi, maschi.
Una città maschile.
Paura, rifiuto, addirittura ripugnanza hanno mandato al mio corpo un
segnale, mi sentii male (no, non furono solo le luride coperte della nana).
In questo posto noialtre non avremmo, non abbiamo alcuna chance.
Il sud.
Il sud patriarcale.
E anche la storia dell'archeologia si potrebbe raccontare, dalle origini fino a
buona parte del nostro secolo, come un'epopea maschile, se solo si partisse
dal modo di rappresentarsi dei suoi protagonisti.
Quando Sir Arthur Evans dopo il 1900 cominciò (fece cominciare) a
scavare sul colle di Kefala a sud di Iráklion, aveva già superato vari ostacoli
e del resto non era alla ricerca del trono del re Minosse, bensì delle origini
di una scrittura greca che, come riteneva, erano da ricercarsi a Creta, una
traccia che lui, come Teseo, voleva seguire fin nei recessi più riposti del
labirinto.
La sua maschile esigenza di avventure trovò un modello e una conferma in
remotissime e antichissime fonti.
Comunque Sir Arthur Evans non trova solo quel fantastico complesso di
edifici che chiama subito il palazzo, ma, sotto il palazzo, nello strato più
profondo, quello neolitico, oltre ad armi e ceramiche, anche idoli del tipo di
quelli che Schliemann aveva scoperto negli strati più profondi di Troia.
Ogni menzione del nome Troia agiva su di me come un segnale, perché era
incominciato il mio lavorio interiore su Troia, rocca e città.
Dovevo immaginarmi la rocca del re Priamo come un palazzo, simile cioè
al palazzo di Cnosso, che avevo già minuziosamente osservato sul grande
foglio ripiegato, accluso alla mia guida?
Se diamo all'anno zero della nostra era il valore di asse temporale, gli
abitanti originari del palazzo di Cnosso sono vissuti alla stessa nostra
distanza da quest'asse, ma nella direzione opposta.
Quando, giunta da Iráklion in autobus, mi trovai finalmente nel cortile di
quello che era stato il palazzo di Cnosso, sapevo ben poco, cosa che fu
contemporaneamente un vantaggio e uno svantaggio.
Le corna possenti, che segnano molti dei bordi superiori ed esterni degli
edifici del palazzo, mi fecero un effetto immediato, ma non le seppi
interpretare.
Interpretare significa: conoscere la storia di un fenomeno, e io non
conoscevo la storia del toro nell'area mediterranea e il suo rapporto col
culto della luna.
Mi scattò solo qualche associazione derivata dalla mitologia: Minotauro, il
toro del re Minosse (da cui Sir Arthur Evans si pregiò di derivare il nome
per l'intera cultura che, stupefatto, entusiasta - ci possiamo credere -
riesumò: la minoica).
Ecco, quello, quel pavimento friabile su cui mi trovavo, quelle lastre di
pietra di cui era ricoperto il vestibolo del palazzo, mi informò la mia Guida
blu: proprio quello era il pavimento del mitico labirinto.
Se poi avessi proseguito - e lo feci, usando le indicazioni della guida come
filo d'Arianna -, se avessi percorso un determinato sentiero, segnato in nero
sulla mappa intricata del palazzo (il quale a una prima occhiata si presenta
come un cumulo di rovine), avrei - passando davanti agli antichi impianti di
irrigazione, davanti alle gigantesche giare per provviste varie, ora salendo
ora scendendo gradini, curvandomi a un certo punto sotto archi di pietra per
gettare uno sguardo agli ambienti sottostanti, poi di nuovo godendomi, da
una piattaforma, la vista sull'intera area del palazzo - raggiunto anche le
parti del complesso ricostruite da Evans, una concessione alla fantasia del
pubblico: le file di colonne di un vivace rosso bruno, rastremate verso il
basso (che però originariamente non erano fatte di pietra ma con tronchi di
cedro), e infine gli affreschi ricostruiti sulle pareti di alcuni ambienti interni.
Quell'incontro mi causò un'eccitazione che, appena mitigata e smorzata
dalla lettura dei commenti successivi, delle obiezioni, dei rifiuti della
ricostruzione secondo il metodo di Evans, dei dubbi sui risultati da essa
raggiunti, è durata fino ad oggi e che tuttavia ha bisogno di una spiegazione
- principalmente perché tanti affezionati della cultura minoica l'hanno
condivisa e la condividono con me.
Che cosa vidi? Affreschi a colori vivaci, fantastiche forme vegetali e
animali; il punto in cui originariamente stava il famoso affresco del
saltatore del toro che poi trovammo nel museo di Iráklion: dove un giovane
con un audace salto balza al di sopra di un toro che sprizza forza e viene
afferrato da una donna di leggiadra bellezza, mentre un'altra donna prende il
toro per le corna.
E' indifferente quasi indifferente - che cosa rappresenti questa scena:
un'azione rituale che poteva terminare con la morte e che spiegherebbe la
terrifica leggenda greca del selvaggio Minotauro divoratore di fanciulli;
un'azione cultuale simbolica, un gioco sportivo: resta invece il confronto
con questa pittura, con il palazzo di Cnosso e, il giorno dopo, con quello di
Festo, uno dei rari casi in cui il primo incontro non perde smalto, ma
piuttosto lo acquista con il lavoro successivo sui libri.
Poi finalmente avremmo trovato, incisa nella pietra, anche la bipenne, la
labrys, che Helen e Sue ci avevano particolarmente raccomandato: il
labirinto, dicono alcuni ricercatori, avrebbe preso il nome dalla labrys (altri
lo mettono decisamente in dubbio e per buone ragioni, mi sembra); essa
d'altro canto sarebbe un simbolo dello Zeus cretese, nato notoriamente sul
cretese monte Ida.
Qui, a Cnosso, essa ci accompagna come segnavia, a volte quasi
impercettibile nella pietra scabra e disuguale, poi di nuovo incisa in gran
copia, e anche a mo' di fregio.
La rivedremo nelle semplici, straordinariamente vive, addirittura poetiche
raffigurazioni del culto delle dee, sui piccoli sigilli minoici del museo di
Iráklion.
Mai, apprendiamo in quest'occasione, è stata trovata la bipenne minoica in
mano a una divinità maschile.
L'ascia sarebbe, insieme alla colonna l'albero sacro stilizzato - e alle corna
del toro, uno dei caratteristici simboli minoici; deve la sacralità
probabilmente al suo scopo originario, tagliare legna - nelle società
primitive lavoro delle donne.
Attraverso la sua identificazione col fulmine che attira la pioggia, attraverso
il graduale trasferimento della dea madre cretese Eileithyia nell'Olimpo
governato da divinità maschili, con Zeus al vertice e accanto a lui la
consorte Era - attraverso questo lungo cammino, segnato da lotte e conflitti
e sconfitte, la bipenne arrivò nelle mani di Zeus - e, rifacendo il cammino a
ritroso, le femministe americane l'hanno assunta come simbolo.
Sue ed Helen, allorché le incontrammo di nuovo, non si erano perse
neanche una bipenne di Cnosso, neanche una raffigurazione della dea
madre nel museo di Iráklion - a partire dagli idoli del neolitico, figure
femminili dalle ampie natiche, felici di partorire, fertili, forme originarie
della dea Demetra, di quella dea della terra e della fertilità accolta anche
dagli elleni.
Dovunque la scienza ha scavato pozzi, ha rimosso strati di terra, è penetrata
in caverne, si è sempre imbattuta, negli strati più profondi, in questa dea, e
vale la pena riflettere sul perché le donne d'oggi si sentano in obbligo di
trarre da questa circostanza parte della loro coscienza di sé e una
giustificazione per le loro rivendicazioni.
A cosa ci serve sapere che a poco a poco gli antichi greci sostituirono il
matriarcato col patriarcato; che cosa dimostra il fatto, a quanto sembra
incontestato, che le donne sono state a capo dei primi clan che praticavano
l'agricoltura; che appartenevano a loro i figli messi al mondo, che esse,
anche nei regni più tardi e più complessamente organizzati continuarono a
determinare la successione, che tutti i culti originari, che tabù e feticci,
danza, canto e molti arcaici lavori artigianali derivarono da loro? Questo
ritorno a tempi arcaici irrecuperabili non mostra forse meglio di ogni altra
cosa la situazione disperata in cui le donne si vedono oggi? Se il primo
sguardo alle pitture minoiche - alla loro ricostruzione- provoca un lieto
sgomento, cosa abbastanza singolare uno sgomento che deriva dal
riconoscere (i campi elisi esistono, lo si era sempre saputo), non sarà la
conoscenza più approfondita delle condizioni che le hanno prodotte - e che,
a quanto sembra, generarono per un certo periodo storico un produttivo
equilibrio, non però, come dapprima si osò irragionevolmente sperare, non
però un'isola felice fuori delle coordinate del tempo - a dissolvere la loro
magia.
Non solo i pittori di palazzo, anche il mito tramandato, i narratori, hanno
proiettato grandi immagini sulle pareti dei palazzi cretesi siano essi
residenza del re, siano essi santuari, immagini indelebili, sembra,
inesauribili nel loro nocciolo di realtà e nella loro pluralità di senso.
Imparare a leggere il mito è un'avventura di tipo particolare; presupposto di
quest'arte è una progressiva trasformazione di sé, una disponibilità ad
abbandonarsi all'associazione apparentemente facile di fatti fantastici, di
tradizioni, di desideri e speranze, di esperienze e tecniche magiche, adattati
ai bisogni di gruppi specifici in breve, ad un altro senso del concetto di
realtà.
Non durante la mia prima visita, solo gradualmente, nel ricordo, gli edifici
di Cnosso e di Festo si animarono del brulichio della gente - dei minoici, i
cui lineamenti, ricavati dal ritratto
della Parigina (che in realtà era probabilmente una sacerdotessa) e da quello
del principe dei gigli (anche lui con tutta probabilità un sacerdote
giovinetto), possono ancora oggi parartisi di fronte all'improvviso in una
giovane donna che ti sta pigiata addosso nell'autobus, in un giovane davanti
a una delle taverne del villaggio; gente dai lavori più svariati, tutta inserita
in una collettività gerarchicamente articolata che cosa ci aspettavamo? -,
dove, come sembra, il sacerdozio delle donne, la loro presenza nei giochi
religiosi, perfino la loro partecipazione a esercizi pericolosi quale il salto
del toro, non sono che residui di tempi più antichi, caratterizzati ancor più
fortemente in senso matristico; sicché il fervore, l'entusiasmo di Sue e di
Helen, nelle quali torniamo a imbatterci davanti agli idoli femminili nel
museo di Iráklion, il loro quasi affettuoso interesse per le figure in argilla di
donne incinte, di madri coi neonati al seno, hanno forse un tratto
irrazionale.
Eppure anch'io sono profondamente toccata da queste figurine di terracotta
che non danno forma a modelli ideali come l'arte dell'antichità classica, ma
tutte portano le tracce della vita quotidiana, le impronte delle dita che le
hanno plasmate, e che, con molta più forza di un qualunque Apollo di
Belvedere, mi trasmettono la sensazione che in fondo furono persone come
noi quelle che allora, quattro-cinquemila anni fa e forse più, imploravano
una dea per avere figli o la ringraziavano per averli avuti.
Che furono esse - più precisamente: le migliaia di generazioni prima di loro,
che sprofondarono quasi senza lasciare testimonianza nel buio della
preistoria -, a cominciare a intrecciare, con la rete primaria delle relazioni
umane, con il graduale superamento delle necessità dell'istinto e delle
tecniche quasi animalesche per sopravvivere, anche quella rete il cui ordito
ancor oggi determina il modello del nostro pensiero, e, credo, anche la
direzione delle nostre nostalgie.
Giacché non solo il senso della realtà - il naturalismo, come dicono gli
storici dell'arte -, ma anche la nostalgia deve aver guidato la mano dei
pittori minoici nel delineare un'immagine del loro senso della vita così
vivace, a tinte così vivide, da eccitare non solo la fantasia dei suoi
scopritori, in quanto la scoperta fu fatta dopo quella delle altre culture
arcaiche, ma anche quella degli innumerevoli visitatori, che si nutre degli
strati più profondi dell'uomo.
Giacché qualcuna delle interpretazioni che furono date alle manifestazioni
di questa cultura (in particolare nel periodo in cui, a causa della vaghezza
delle spiegazioni scientifiche, non era stato posto ancora alcun limite
all'estro), rispecchia i desideri inconsci, e quindi tanto più potenti, degli
interpreti: lo stesso Arthur Evans, influenzato naturalmente dalla cultura
fin-de-siècle della sua epoca e del mondo da cui proveniva, proietta sui suoi
ritrovamenti uno sguardo condizionato dal suo tempo, cui i ricercatori dopo
di lui, meno fantasiosi, meno esaltati, più disincantati, riescono a sottrarsi a
fatica - principalmente perché il pubblico occidentale si era nel frattempo
creato una sua immagine di quella cultura, dalla quale avrebbe ben
volentieri derivato la propria: una cultura serena, produttiva, in grado di
offrire al singolo possibilità di sviluppo tra libertà e necessità, soprattutto:
PACIFICA, in cui non era inserito il codice della colpevole responsabilità
per la sua fine inevitabile e il cui annientamento veniva spiegato
scomodando solo le catastrofi naturali.
Che possibilmente non doveva essere esposta alla disgregazione ad opera
dei processi sociali, allo sfacelo per esaurimento, all'inversione delle spinte
un tempo produttive.
Le tracce di incendio sui palazzi che vedemmo a Cnosso, dovevano
dipendere, tutte quante, dal fuoco dopo i terremoti.
Il fatto che fino a poco tempo fa non si fosse trovato un solo scheletro
umano nei palazzi abbandonati, andava spiegato con l'esodo di tutti gli
abitanti dopo le prime avvisaglie di un nuovo terremoto.
Che i palazzi non fossero fortificati, né protetti da baluardi, confermava
solo il carattere pacifico dei minoici un popolo che, d'altronde, non esisteva,
che Evans battezzò così dal nome del suo presunto re, e che gli egiziani,
come ormai si sa, chiamavano Keftiu: tutto quello che noi non possiamo
fare, a loro doveva essere stato possibile, dare senso al lavoro, essere
vincolati a una comunità sociale e religiosa senza doversi ridurre per questo
a puro automatismo, vivere all'interno e all'esterno senza violenza - un'isola
di perfezione.
Ma dunque la leggenda del Minotauro antropofago, a cui ogni nove anni
dovevano essere offerti, cioè: sacrificati, sette fanciulle e sette giovinetti
ateniesi, era una pura invenzione dei greci offesi? Oppure: come intendere il
mito del ratto della principessa fenicia Europa da parte del cretese Minosse
trasformato in toro; non si doveva dedurre che in questa rappresentazione
mitologica l'Europa era stata battezzata col nome di una principessa del
Vicino Oriente rapita e violentata dai cretesi, un nome che del resto
significava la cupa?
Nel lasso di tempo in cui io, per alcune ore del mattino, andai in giro tra le
rovine di Cnosso, senza meta, più confusa che orientata dalle spiegazioni, e
durante il quale fui contagiata da un agente patogeno che scatenò quella
leggera febbre persistente che una volta in patria finì per aumentare e che
forse si potrebbe chiamare sindrome di Creta e di Troia, e della quale
analizzerei volentieri la composizione: preparata, come ho cercato di
mostrare, dall'ossessione di un nome: Cassandra (perché era quello che,
come un segnale, tornava ad accendersi ogni volta); quando ci accingevamo
a proseguire per Festo, e poi per il sud dell'isola (l'idea che ci trovavamo al
centro di una delle pochissime avventure oggi ancora possibili,
un'avventura dello spirito, mi colpì solo in seguito) - ecco, durante quel
giorno forse, ma anche prima e dopo, sono stati portati avanti quegli scavi,
pochi chilometri a sud di Cnosso, dei quali poi nell'aprile '81, l'anno dopo,
un giornale riferì: il direttore del museo archeologico di Iráklion aveva
trovato, insieme a sua moglie, nel villaggio di Arhánes, i resti di un tempio
del periodo minoico, e tra questi - per la prima volta! - anche resti di
scheletri umani, la cui posizione non lascia dubbi sul fatto che uno deve
essere stato un sacerdote, l'altro un uomo appena immolato: un rito
sacrificale che fu interrotto da una catastrofe naturale per scongiurare la
quale, forse, esso si stava compiendo. - E nei pressi del palazzo di Cnosso
archeologi britannici trovavano nel frattempo, sotto i resti di una casa
distrutta intorno al 1450, le ossa di dieci giovani con tracce che non
escludono che il ritrovamento costituisca una testimonianza di cannibalismo
religioso-rituale.
Il cadavere in cantina, un motivo variato fino alla nausea nella cultura
dell'occidente.
Antonis, che in seguito ad Atene ci porterà nella più antica e, a suo dire,
nella migliore taverna della Plàka, ha sentito parlare, prima di noi, di
ritrovamenti sacrificali.
La cultura minoica è un enigma, dice, e tale resterà per sempre.
Sembra che, quanto più se ne sa, tanto più fortemente manifesta la tendenza
a trasformarsi da portento in un fenomeno certo pur sempre portentoso, ma
generato da circostanze che hanno un tempo e uno spazio: con una
gerarchia teocratica, con un sistema feudale fatto di classi e di ceti, con
sfruttamento e schiavitù.
Non c'è ragione per un'idealizzazione simile a quella che si propose il
nostro classicismo con l'antichità classica - così come ci viene presentata,
rigida, fredda e travisata.
E' probabile dunque che ci siano stati uomini adorati come dei o come
esseri simili a dei, con quella sorta di alienazione e limitazione del pensiero
che ne consegue; è probabile che ci siano stati lavoro servile e grossi
contrasti tra povertà e ricchezza; è probabile che ci sia stato un centralismo
sempre crescente.
Ma le donne.
Era singolare, e qui dovevo dar ragione a Sue ed Helen, che mi mostrarono
i passi corrispondenti nelle nostre diverse guide: è singolare che tutti
abbiano temuto di trarre conclusioni dal fatto che le donne, nella pittura
degli artisti minoici, occupassero un posto così preminente; anche quando
Creta è diventata in genere, per la civiltà occidentale, la terra promessa
delle nostalgie retrospettive: femministe, donne impegnate nel movimento
delle donne hanno visto nei regni minoici LE comunità a cui il loro pensiero
nostalgico e utopico, messo alle strette dall'esperienza del presente e
dall'angoscia del futuro, poteva riallacciarsi come a un dato concreto.
Sì, una volta è ESISTITA la terra dove le donne erano libere e pari agli
uomini.
Dove loro erano le dee (a molti archeologi e studiosi dell'antichità di sesso
maschile riesce singolarmente difficile riconoscere, e poi ammettere, che
tutte le divinità arcaiche sono femminili: spesso, penso, preferiscono non
leggere né Engels né Bachofen né Thomson né Ranke-Graves); dove, in
tutte le rappresentazioni pubbliche, occupavano posti privilegiati,
liberamente e festosamente ornate; dove prendevano parte alle pratiche
rituali e costituivano anche la gran massa delle sacerdotesse.
Una terra dove esse, come si ritiene oggi, esercitavano e promuovevano
l'arte; una terra dove è chiaramente ancora attiva la successione
matrilineare, dove cioè per un maschio è possibile diventare l'erede della
casa reale solo passando per le figlie del re.
Così, catturati da immagini soavi e senza sospettare che molto
probabilmente esse sono frutto di errori - ispirati da archeologi che di tali
errori avevano bisogno almeno quanto il loro pubblico; vedendo ciò che
VOGLIAMO vedere, vaghiamo tra le rovine di Cnosso e di Festo; sostiamo
nel lembo meridionale dell'isola, nella baia di Mátala, dove finalmente
vediamo coi nostri occhi l'azzurro del cielo mutarsi in quello del mare e
cominciamo a dimenticare il colore del cielo del nord.
Le caverne sui pendii montuosi che calano a picco sul mare.
Lì, prima, qualsiasi cosa si intenda con questo, pare che abbiano
seppellito i morti.
Ancora prima, pare che ci abbiano vissuto.
Si dice che, fino a pochi anni fa, gli hippies - ormai, insieme al fenomeno,
comincia a sparire dalla memoria anche la parola - conducessero lì, d'estate,
una vita libera, ma guardata con sospetto.
Adesso la loro retroguardia, giovanissimi che vengono da quasi tutti i paesi
dell'Europa occidentale, girovaga per questo lembo di costa, per queste
caverne, con zaini di un arancione chiassoso, sistemati su supporti; prende
in affitto per una cifra irrisoria una stanzetta dai contadini poveri dei
villaggi, come questi vive di centesimi, con formaggio di pecora, pomodori,
pane e olio d'oliva, e dopo qualche giorno prosegue il giro dell'isola, fino
alla sosta successiva, alla ricerca d'altro.
Come se il vecchio continente, ora che si vanno esaurendo gli impulsi che
la sua cultura ha ricevuto un tempo da quest'isola, dalla Grecia, potesse
ancora una volta trarre di qui occasione di rinnovamento spingendo la sua
gioventù a ritornare a strati temporali e culturali ancora più antichi.
Come se si potesse - come se noi potessimo mescolare indifferentemente
quello che ci piace di tutti i tempi - o quello che ci piace dell'"immagine"
che ci facciamo dei tempi; come se potessimo trovare una misura, a cui
forse inconsapevolmente aspirano anche questi giovani, proprio là dove
essa è cresciuta sui vincoli ben stretti che legano ciascuno alla sua sorte,
sulla dipendenza immodificabile dai fattori sociali; come se potessimo
essere privi d'ogni vincolo e nello stesso tempo misurati.
Che i minoici facessero lavorare gli schiavi, e anche le schiave ovviamente,
Sue ed Helen non sono disposte ad ammetterlo.
Sono arrivati qui, penso, anche qui, nella baia di Mátala, nel suo porto su
navi probabilmente primitive, della cui struttura non riesco ancora a farmi
un'idea.
Se, cosa abbastanza singolare, i palazzi dei minoici (o chiunque essi siano
stati) erano effettivamente non fortificati - ciò davvero significa, PUO'
significare, che a Creta visse un popolo amante della pace, che commerciò
con i popoli limitrofi, bellicosi e armati pesantemente, riuscendo tuttavia a
conservarsi per millenni? E la sorveglianza della costa offriva sufficiente
protezione? Certo, le montagne circostanti offrono posti di osservazione
ideali per avvistare, anche senza cannocchiale, navi straniere ancora
abbastanza al largo...
Troia comunque, la fortezza di Ilio, non era priva di fortificazioni e
disarmata.
Ma certo non stava su un'isola, bensì all'estremità occidentale della costa
dell'Asia Minore, attraversata in tempi antichi dai popoli più diversi, con
alle spalle, tra gli altri stati, il potente regno ittita, e destinata, a causa della
sua posizione, ad assicurare l'accesso ai Dardanelli.
Ma non so che farci, l'immagine di una baia con un porto, dove approdano
le navi, sulle cui sponde si può sostare ed aspettarle - navi sulle quali
arrivano merci, venditori, anche una sposa rapita, infine i nemici l'immagine
del mare che Cassandra guarda è qui che mi si imprime nella mente.
Sulla spiaggia le baracche di legno dei venditori di pullover in lana di
pecora, di borse colorate, di tappeti e di coperte cretesi.
Nell'autobus, la sera, c'è al ritorno lo stesso controllore che ci aveva già
accompagnato qui da Festo, ora con un enorme mazzo di fiori di campo dal
lungo stelo, sempre molto interessato a convincerci che Creta è il più bel
paese del mondo.
Uomini anziani - con i quali Eschilo avrebbe potuto benissimo formare il
suo coro dei vegliardi argivi continuano a starsene seduti davanti alle
taverne dei villaggi, adesso non più con caffè turco, ma con un bicchiere di
retsína davanti, poco più in là uomini giovani e impetuosi discutono ai
tavoli, mentre nei minuscoli poderi si vedono le donne affaccendate, con
secchi, utensili.
Al margine dei villaggi più grandi gli edifici in costruzione, dadi di
cemento, il cui piano inferiore è terminato e abitabile, mentre il secondo, e
spesso il terzo piano, si erge come uno scheletro di cemento in attesa del
momento in cui il proprietario avrà di nuovo denaro liquido e potrà
continuare a costruire.
Non hanno ereditato il senso della bellezza dei loro lontani antenati, o
piuttosto esso è stato distrutto, qui come altrove, dal predominio
dell'efficienza su tutti gli altri valori.
Le donne nel frattempo stendono i panni all'ultimo piano, aperto da tutti i
lati, ma coperto da un tetto.
L'autobus, che più ci avviciniamo a Iráklion, più si riempie di turisti,
ondeggia attraverso la pianura di Messarà davanti al monte Ida, ormai non
più visibile, dove, in una caverna, dev'essere nato quel dio che più tardi
governò il pantheon ellenico: Zeus.
Stavolta siamo abbastanza saggi da non mangiare nel nostro albergo, da
evitare l'odore di cattivo olio d'oliva che viene dalla cucina, da andare a
cercare altrove la nostra felicità extraspeciale.
Che le coperte ruvide, non del tutto pulite, tornino a raschiarmi i piedi, non
è poi così grave, che nel dormiveglia, verso mezzanotte, senta il rumoroso
rientro di una fitta schiera di giovani con zaino in spalla, non mi disturba, e
che il mattino dopo, alla ricerca di una doccia degna di questo nome, io
vada a sbattere qua e là negli angoli in gente che dorme, sistemata su un
materasso, la giacca a vento tirata sulla testa - è cosa che non mi sorprende.
Ipnotizzata fisso, nel museo, gli occhi spalancati, immobili, della dea dei
serpenti del palazzo di Cnosso e cerco lo sguardo di quelle che l'hanno
preceduta, delle grandi figure di terracotta dalle braccia levate: adoranti?
supplici? piangenti? partorienti?
Sue ed Helen disprezzano tutta l'arte maschile, tutte le raffigurazioni del
maschio.
Davanti al disco di Festo, la cui scrittura a spirale - un inno? un lamento
funebre? - per adesso non è decifrabile, sostiamo a lungo, in attesa di
sentimenti riverenti dinnanzi ai primissimi segni scritti della nostra cultura.
Bisogna augurarsi che tutti i segreti siano svelati? pensai inoltre in
quell'occasione, con un po' di gioia maligna anche nei confronti dei
contemporanei che non riescono a penetrare nel sistema di segni dei popoli
arcaici.
Nel frattempo è aumentata la mia brama di conoscere i segreti degli antichi
che a paragone degli antichi greci sono più che antichi.
Mi piacerebbe sapere che cosa dice il disco.
Il discusso problema della fine di questa cultura è diventato per me una
domanda bruciante: per catastrofi naturali? Per lotte intestine? Per
l'invasione degli achei, e poi dei dori, venuti dalla Grecia continentale?
La distruzione di Troia probabilmente ha avuto luogo due-tre generazioni
dopo il periodo aureo dei palazzi cretesi.
La prima fonte comune a entrambe le cose: alla distruzione di Troia da parte
degli achei e all'esistenza di un re cretese di nome Minosse, è Omero, è
l'epos al confine tra mito e storiografia.
Per quanto eloquenti siano le pietre, per quanto espressivi siano i
ritrovamenti degli scavi archeologici, nonché esaurienti per la conoscenza
della geologia, del mondo vegetale e animale le vere informazioni sulla
convivenza umana le trasmette la lingua, le trasmette la letteratura.
Sulle strutture che esse ci comunicano, non informano né gli edifici, né i
vasi, né le statue, e nemmeno la pittura, o lo fanno solo in parte.
I tratti delle donne dal seno scoperto nei dipinti murali di Cnosso: sono
nobili signore che assistono a giochi sportivi? Sacerdotesse che adempiono
a un atto cultuale? Prefiche durante i giochi funebri? La Parigina di Arthur
Evans: basterebbe un'unica riga di una canzone, magari una descrizione in
un poema epico, a svelare il suo segreto.
Questa riga noi non l'abbiamo.
La pluralità di senso della cultura minoica è una parte del suo incanto.
Nessun monumento successivo ne ha sprigionato uno maggiore, ai nostri
occhi - non il minareto di Réthimnon, dell'epoca dell'occupazione di Creta
da parte dei turchi, su cui salimmo, non le installazioni veneziane e
nemmeno la veneziana La Canea, pittoresca città vecchia - soddisfecero la
nostra curiosità, il nostro senso del bello, il nostro interesse storico e il
nostro bisogno di esotismo: con i loro palazzi i minoici ci avevano
risvegliato la fantasia e, a livelli ancor più profondi, la speranza sepolta di
una terra promessa.
Cominciò a questo punto ad animarsi qualcosa di più che la sola sete di
cultura.
In seguito lessi da qualche parte che il re Priamo, il padre di Cassandra e lo
sconfitto nella guerra che s'era combattuta contro la sua città, ebbe piuttosto
i tratti di un condottiero e di un principe cretese-minoico che quelli di un
acheo.
Gli storici sono abituati ad avvicinare tinte chiare e tinte scure.
E noi pure, ritornati da La Canea nel porto del Pireo, sulla terraferma,
attraverso il Mediterraneo luminoso come il giorno, abbagliante di sole, su
cui il cielo gravava come un blocco solido - noi dovevamo ancora far
l'esperienza della Grecia cristiano-ortodossa, prima di poter andare nel
Peloponneso, ad Argo, la città di Agamennone, a Micene, la rocca degli
Atridi, il macello di Clitennestra.
Il luogo dove Cassandra morì.
Le festività cominciarono a mo' di farsa, con un tocco da commedia
furfantesca.
Molti ateniesi sono ateniesi della prima o della seconda generazione e
hanno ancora un paese d'origine: il mio paese, dicono.
Il paese di N. si trova nei pressi della città tessalica di Karditsa, cinquecento
chilometri a nord di Atene, ed è difficilmente raggiungibile il venerdì santo,
quando tutta la Grecia è in viaggio e tutta Atene si affolla nella stazione di
Atene piccola e provinciale, che lo si creda o no.
Ce ne stavamo dentro un muro di gente sulla banchina ferroviaria a veder
svanire le nostre speranze, allorché fecero ritorno i due giovanotti che,
quando avevamo attraversato l'atrio della stazione, si erano già provati
insistentemente a convincere N.
con proposte che questi aveva respinto senza tradurcele.
Ora la cosa pareva mettersi meglio per i due, N. li stette a sentire, bisbigliò
con C., poi ci fu detto: POTREMMO anche andare con un autobus.
Questo autobus, al quale ci portò un taxi guidato da uno che lavorava in
combutta con i giovanotti, era un autobus illegale, sottratto in occasione di
questo lucroso tour a una regolare impresa di autotrasporti; aspettò finché
non l'ebbe riempito il maggior numero possibile di passeggeri con armi e
bagagli e un numero sempre maggiore di notizie orrorifiche sulla situazione
della stazione.
A giudicare dall'aspetto e dagli atteggiamenti, i servizievoli giovanotti
potevano far pensare benissimo a una banda di sequestratori e l'autobus per
Salonicco a un veicolo per l'Orco, cosa che ci era chiara come il sole ma
non offuscava il nostro buon umore.
Il prezzo della corsa era più basso di quello che avremmo pagato per
ferrovia; quando finalmente partimmo, il conducente, che noi vedemmo in
faccia solo all'ultimo momento, come si conviene al matador, accese
l'autoradio.
La musica, che squassò l'autobus per cinque ore a un volume che, secondo
noi, era dovuto solo a distrazione, si trasformò in seguito in una prova per le
nostre orecchie centroeuropee e probabilmente costituì la parte di punizione
che ci spettava per quel viaggio illegale.
La gente aveva il diritto di divertirsi, affermò imperturbabile il conducente
alle rimostranze di N., e nessuno dei greci batté ciglio; non riuscivamo a
capire: davvero quel grandissimo baccano musicale non li disturbava (noi
fummo costretti a tapparci le orecchie con l'ovatta, perché dolevano),
oppure il loro silenzio era solo un altro esempio di totale apatia nei
confronti di ogni abuso che non riguardasse immediatamente loro stessi e le
loro famiglie? Anche le immagini del paesaggio che attraversammo, i colori
del mare, del cielo, degli alberi lungo la strada costiera, mi sono guastate,
nel ricordo, ad esso collegato per riflesso, della tortura acustica da
canzonetta di successo.
Ma raggiungemmo Lárissa, prendemmo la coincidenza ed arrivammo a
Karditsa, entrammo nella nostra angusta stanza d'albergo e vagammo per
una città di provincia della Grecia settentrionale, che si preparava alla
Pasqua.
Al centro delle feste pasquali in Grecia sta l'agnello sacrificato, così come
probabilmente è stato al centro, anche tre-quattromila anni fa, delle feste di
primavera, dei culti di Demetra e della fertilità, dei misteri di Dioniso, nei
vari luoghi di culto, nei santuari e nei templi dei popoli di questa regione.
O piuttosto: c'è stato disteso sui ceppi; giacché l'agnello sgozzato - che, del
resto, nella cosiddetta notte dei tempi era un essere umano, forse un
fanciullo in sostituzione del figlio del dio Dioniso; che poi prese il posto
dell'essere umano, gli subentrò come capro espiatorio e solo all'inizio del
Cristianesimo, ancora una volta, e presumibilmente per l'ultima volta, fu di
nuovo un essere umano, la vittima sacrificale, il cui sangue sgorga a fiotti,
raccolto dalle donne in grandi ciotole, si abbatte ovviamente al suolo, è
disteso sui ceppi da macello dei macellai o sulla nuda pietra nei cortili dei
contadini di Ambeliko, il paese di N.; è appeso in innumerevoli esemplari ai
ganci delle botteghe dei macellai: una città, un villaggio, un intero paese
pieno di agnelli devotamente macellati, mentre nelle chiese e nei mercati,
come tremila anni fa, gli altari vengono ornati con fiori e con bambolotti
raffiguranti quei santi che presso gli antichi erano gli eroi, le cui ossa
apparivano già benefiche anche a loro, le cui tombe, anche per loro,
diventarono zona sacra.
Mai come qui vidi che gli strati culturali non si possono separare gli uni
dagli altri, che si compenetrano, che dal culto odierno ne traspare uno più
antico, e da questo uno più antico ancora.
Che non esiste quasi nulla di più duraturo del rituale, e che al narratore
tocca reinterpretarlo secondo il bisogno.
Prima del racconto secolarizzato la leggenda di santi, prima di questa l'epos
eroico prima di questo il mito.
L'esperienza della profondità del tempo in un luogo che non potrebbe essere
più estraneo.
E noi a che cosa crediamo?
Sabato, di buon mattino, il nostro compito è di andare con N. a prendere i
tre agnelli al mercato coperto, dal macellaio della sua famiglia; di assistere
a come l'uomo gentile e rude infilza i cadaveri scuoiati degli animali, a
come conficca, dal di dietro, lo spiedo di ferro nella carne, fino a che esce
dal muso.
Trasporto: avanziamo in singolare formazione per la città molto animata,
due agnelli tra di noi, davanti io, in ciascuna mano la punta di uno spiedo, e
G. dopo gli agnelli, in mano l'altra estremità degli spiedi.
Ci mostrano il giardinetto dietro la casa del fratello di N., dove (se non
piove incubo inimmaginabile!) domani arderanno i fuochi sacrificali.
In tredici dentro due automobili, andiamo in direzione della catena
montuosa, finalmente al paese di N. Era lì, sulle propaggini delle montagne,
non era bello? Adesso avremmo avuto la possibilità di vedere uno dei più
bei paesi, in assoluto, che esistano in Grecia.
E ci venne indicato con esattezza uno dei punti bianchi già da tempo
distinguibile, eccola, LA CASA.
Una ripida, stretta, sassosa strada di paese in salita, si vedeva, ormai, la
recinzione che N. aveva fatto mettere, il cancello.
E adesso finalmente, veramente, la casa.
Non avevo mai visto prima né ero mai entrata in una casa che come questa
fosse fino a tal punto il simbolo di ciò che può essere una casa per l'uomo,
da quando esistono le case: patria e rifugio e asilo e protezione e segno di
autoaffermazione.
La casa aveva quattro robuste mura di pietra, i vani delle finestre, le porte, il
pavimento e il soffitto.
Nient'altro.
Con una scala a pioli ci arrampicammo al primo piano.
Da qui la gente deve aver guardato la pianura tessalica.
Che ne dite? Non è bello? - Era bello, e doveva anche essere
indimenticabile e incancellabile, se in quel luogo si era stati bambini, se si
era stati cacciati via e non era stato più possibile tornare.
Il giorno dopo era Pasqua.
Nei piccoli angusti cortili tutt'intorno strillavano e sanguinavano gli agnelli
macellati.
Dalla piazza davanti alla taverna vedevamo in alto, sulla montagna, il
grosso edificio della chiesa, quasi troppo grosso per un paese come questo,
circondato da case per lo più piccole, per lo più povere.
N., che aveva trascorso settimane in paese per sovrintendere ai lavori di
costruzione, conosceva gli uomini del posto, che gli rivolgevano la parola e
che lui chiamava amici.
Ha dovuto costruire la sua casa, a prescindere da chi, in un qualsiasi
momento, ci sarebbe vissuto.
La nostra mentalità utilitaristica perdeva terreno, arretrava.
In un paese della pianura viveva ancora un fratello della madre di N. - non
sarebbe bene, anzi: opportuno e veramente indispensabile, andarlo a
trovare? Una deviazione di un'oretta.
Il fratello della madre e gli altri uomini stavano nella taverna, li mandarono
a chiamare, portavano pesanti abiti domenicali di panno nero, nella stanza
le donne e i bambini stavano seduti davanti al televisore, balzarono subito
in piedi, si rassettarono le gonne, ci fecero accomodare e ci offrirono, in
segno di benvenuto, il dolce al cucchiaio - forse un'usanza antichissima,
quando si offriva miele ai serpenti nei santuari, e anche ai morti, giacché
questo era proprio un dono adatto alle persone di maggior riguardo, e quindi
anche all'ospite; non si offre più miele puro, ma confetti, canditi, molto
dolci come tutto ciò che qui è dolce, insieme a un bicchiere di acqua
limpida e fresca.
Assaggiamo tutt'e due le cose.
Poi c'è vino della propria vigna, prodotto in casa, e biscotti.
Una conversazione stentata su cose di campagna, su faccende di famiglia.
La vita nei paesi resta stabile di fronte agli eccessi politici di questo secolo -
medaglia con le sue due facce; il rovescio, tra l'altro, è la vita lavorativa
immutabilmente limitata delle donne.
Dev'essere molto più difficile che nell'Europa centrale vedere in questi
paesi un rifugio e un punto di raccolta per cittadini stanchi della civiltà.
Continua a guizzare, in forma di narrazione, dietro l'ingannevole pace
familiare che nasce dal vincolo totale delle donne al destino degli uomini
(per la verità, al destino di essere donna), e anche dal vincolo indissolubile
dei figli maschi con le loro famiglie - continua a erompere da essa, in forma
di sfogo, l'agire barbarico.
O un accenno di disperazione per il silenzioso sopportare e patire di tutta la
vita.
Coloro che sognano di ritornare ai vantaggi delle società agricole, non
hanno mai vissuto in una di esse.
Ritorno a Karditsa.
La notte di Pasqua ci attende.
Ci muoviamo, poco prima di mezzanotte, dalla casa del fratello, la cognata
di N. distribuisce candele a tutti, l'unico a non venire è il marito della
sorella di N., il quale, poiché appartiene ai Testimoni di Geova, considera
eretica la festa pasquale ortodossa: ci accorgiamo che l'accusa di eresia può
nascere solo tra coloro che hanno credi affini, non tra credenti e non
credenti.
Piove.
Centinaia di persone se ne stanno davanti alla chiesa, al buio, in silenzio.
L'attesa della massa mi si comunica.
Dodici rintocchi di campana.
Il portale della chiesa si apre, il sacerdote salmodia a voce alta: Cristo è
risorto! - E' veramente risorto! esclamano alcuni, e così esclama subito
dopo anche la folla commossa.
In un minuto tutte le candele sono accese.
La folla muove cantando dalla chiesa, in testa c'è l'altare decorato, che non
riusciamo a vedere, ma che è trasportato attraverso la città fino alla piazza
del mercato, dove deve essere collocato accanto all'altare dell'altra chiesa.
La processione che aveva luogo ogni primavera in onore di Demetra; dea
della terra, e che attraversava i campi per renderli fertili, ha perso
significato nella cultura urbana.
Mi resta l'immagine della scura massa umana, punteggiata dalle luci
guizzanti delle candele.
Annualmente, si dice, nella cultura dell'età della pietra e della prima età del
bronzo, veniva sacrificato alla dea della fertilità uno degli amanti delle
donne anziane del clan, e, più tardi, di quelle che erano a capo della tribù -
un giovinetto; in seguito, al suo posto, un bambino; poi un sacrificio umano
tutt'al più ogni otto nove anni, poi in sostituzione sacrifici animali, infine
sacrifici incruenti, e anche statuette d'argilla in luogo di esseri umani in
carne ed ossa: l'arte, agli inizi, quando era arte figurativa, fu sostituta del
sacrificio; e fu magia esorcistica, quando era arte della parola.
Lo sposo della Grande Madre, ucciso non nella realtà, ma solo in
sostituzione e per gioco, poteva resuscitare nella notte in cui essa rendeva
fertili i campi.
Anche l'eroe non moriva realmente.
Un eroe mortale non può essere un fondatore di religioni.
Cristo è risorto! I bisogni del popolo non si modificano quasi per niente, nel
corso dei secoli.
Verso l'una sedemmo a cena con tutta la famiglia, un piatto a base degli
intestini puliti e delle interiora degli agnelli le parti degli animali che prima,
forse, erano bruciate sull'altare, mentre ai sacerdoti era concesso di
mangiare i pezzi migliori, ai latori di doni la carne di seconda scelta.
NOI mangiammo i pezzi migliori degli agnelli il giorno dopo, alla grande
tavolata.
Pioveva su tutta la Grecia - una sfida alla ricchezza d'inventiva di un popolo
che la domenica di Pasqua deve arrostire all'aperto il suo agnello sullo
spiedo.
Per i nostri ospiti fu una fortuna abitare in una di quelle case i cui piani
superiori sono ancora scheletri di cemento: là, sul pavimento nudo, si
poteva accendere il fuoco e alimentarlo, là si potevano sistemare gli spiedi
con i loro supporti, là potevano accomodarsi quelli che dovevano girare lo
spiedo e per ore girare, girare, girare.
Anche il cognato che era Testimone di Geova, per solidarietà familiare,
contro le sue convinzioni, si mise a lavorare al servizio dell'idolatria.
Gli uomini cosparsero l'agnello d'olio d'oliva e di birra, dal canto loro
bevendo vino.
Le donne posero assi su cavalletti di legno, stesero tovaglie sulle assi,
condirono l'insalata e apparecchiarono.
Venne un vicino e gli fu offerto il primo pezzo di carne ben arrostita.
Lui era ebreo e doveva tornare dalla sua gente.
Senza forzarsi assaggiò l'agnello sacrificale cristiano, che gli fu offerto
senza ombra dell'antico odio cristiano contro gli ebrei.
Da centinaia di piani aperti, dai garage, da ricoveri eretti in fretta con
tendoni o assi, si gonfiò fumo che si mescolò, verso mezzogiorno, al
profumo dell'arrosto.
Alle tre si riuscì a mangiare, carne a sufficienza per tre famiglie grandi
come le nostre.
Buona Pasqua.
Anche le donne, che nelle famiglie contadine spesso stanno in piedi, e
vanno su e giù servendo, siedono a tavola.
Ai bambini in particolare ai maschietti, tutto è permesso, si abituano a
tormentare le madri, le sorelle.
Se il più piccolo dei marmocchi dice: portami l'acqua, anche la più anziana
delle nonne si alzerà gemendo e servirà l'ometto.
Dove va tutta la rabbia che probabilmente si accumula in queste occasioni?
O, il che è quasi peggio, non si accumula più niente?
Al pomeriggio, durante la passeggiata in città, che in questo giorno e a
quest'ora è più vuota del solito, incontro col barbiere, un uomo triste ma
entusiasta, che N. conosce.
Ci invita nella sua bottega, una stanzetta di due metri per tre, con due
poltrone di quelle che conosco grazie a vecchi film e a fuggevoli occhiate
nei saloni dei barbieri della mia infanzia.
Fa il caffè sulla stufetta cilindrica, bollente e dolce, e ce lo offre in tazze
minuscole.
Alla parete piccole fotografie ritagliate da giornali, perlopiù dal foglio del
partito comunista, tra le quali una vecchia piccola foto di Stalin su cui il
barbiere richiama sorridendo la nostra attenzione.
Il barbiere conosce la famiglia di N. Vediamo i visi dei due uomini mentre
parlano dei tempi della guerra civile; del tempo in cui i nonni di N.
andarono col ragazzo sulle montagne come partigiani.
Sui loro visi c'è, senza che se ne accorgano, quell'espressione di tristezza
inestinguibile che negli ultimi anni vedo sempre più frequentemente sui visi
di persone come loro, e che deriva dalla delusione, dalle offese subite, dalla
disperazione.
Il barbiere, con una punta di autoironia, si appiglia a Stalin, al passato.
Al momento del commiato ci stringe a lungo la mano.
So bene che il mio ricorrere a un passato remoto, molto remoto (tanto da
tornare a farne quasi un pre-correre), è anche uno strumento contro questa
tristezza irriducibile, una fuga all'indietro che sta per una fuga in avanti.
Autoanalisi di tipo particolare: l'idea che uomini e circostanze in tremila
anni non siano riusciti a fare molta strada fuori e oltre di sé, sfocia in
serenità piuttosto che in disperazione.
In questo pomeriggio di Pasqua vediamo, nella cittadina opaca e grigia con
le sue botteghe artigiane piccole e piuttosto modeste, i suoi negozi, le
zingare girovaghe coi loro bambini, nel centro così fuori del comune e ora
in rovina, nel mercato coperto, in questa città con i suoi giovani che a
coppie e in gruppi si dirigono a sera verso un grande locale in un parco
vediamo le chiazze di colore vivace che negli ultimi anni sono state passate
su questa quotidianità di provincia.
Bar con insegne a luci violente, una sala da gioco, chioschi con riviste
straniere.
Continua a piovigginare.
Per la terza volta, girando involontariamente in circolo, passiamo per gli
stessi posti.
Cerco una parola tedesca corrispondente al francese cafard.
Tetraggine, umor nero, noia; in albergo ci sdraiamo sui letti, disposti l'uno
dietro l'altro.
Al mattino dopo ci imbrogliano spudoratamente sul conto.
N., offeso nel suo onore di ex figlio di questa città, poco prima della
partenza dell'autobus torna indietro di corsa e mette le cose a posto con
l'ausilio di pesanti minacce.
Un poco lo irrita, però, anche la nostra incapacità di difenderci dagli
imbrogli.
Come se certe difese, che non sono mai state usate, ma che tuttavia sono
parte degli esseri umani, non si fossero sviluppate.
Resta a lungo taciturno e depresso, mentre andiamo verso il sud, stavolta in
un autobus regolare, e con un moderato accompagnamento musicale.
Cerco di trovare le ragioni dell'incontenibile amarezza con cui si prende atto
della distruzione di una città come Aulide ad opera degli impianti industriali
o dello scempio di Eleusi ad opera delle raffinerie di petrolio: una
indignazione, quasi un assillo, diversa da quella che prende di solito per la
distruzione del paesaggio ad opera dell'industria.
Perché il luogo in cui Ifigenia fu sacrificata da suo padre Agamennone
dovrebbe restare incontaminato? Perché la via sacra che va da Atene ai
misteri di Eleusi non dovrebbe essere profanata dai mezzi di trasporto?
Perché mai sui carri con i muli che portavano le merci e le derrate
alimentari alla città di Eleusi e al santuario di Demetra, non dovrebbe
pendere una maledizione, e invece sul trasporto del petrolio sì? La
resistenza che avvertiamo non è già un segno di ripiegamento e di
rassegnazione? Almeno qui, ci diciamo, almeno per questi posti così lontani
da qualsiasi religione professata oggi e che tutte le religioni, anche gli atei,
potrebbero considerare sacri, dovrebbe continuare a sussistere un tabù che
di solito non viene rispettato in nessun posto; e proprio mentre cerchiamo di
spiegarci così la nostra sensazione di sgomento sappiamo che un timore
reverenziale, se chiuso in una riserva, non può essere un timore
reverenziale, ma ancora una volta nient'altro che calcolo, e che questa
nostra civiltà è certamente più onesta come perdono senso le parole! -, se
alla fine dei suoi giorni manda sotto la ruspa, insieme al resto, i santuari da
cui è sorta.
Ecco perché - abituata a pensare per antinomie, stabilisco delle equazioni
improprie -, ecco perché un gruppo di operai greci, sotto il controllo di
alcuni archeologi americani, fruga con la massima cautela in un riquadro
picchettato tra le rovine dell'antica Corinto.
Ciò che da una parte è stato distrutto con la ruspa, qui viene salvato con
vanga e setaccio.
Alcune ragazze ripongono con cura cocci d'argilla in scatole e li registrano
meticolosamente.
Per quanto ci provi spesso, non riesco mai a capire come città, fortezze,
paesaggi, santuari possano essere dimenticati per secoli, o preservati tutt'al
più in qualche scritto al cui nocciolo di verità nessuno crede più, finché
alcuni fanatici, col loro Omero in mano, cominciano a raschiare la terra nei
luoghi indicati 2500 anni fa...
Ma la causa che ha originato la passione di Heinrich Schliemann, di Arthur
Evans, quella è da poco che la capisco, e tale comprensione è destinata a
crescere fino a diventare quasi una passione che mi spingerà a troppe letture
e che sarà d'ostacolo a un ragionevole e razionale programma di lavoro.
Vedere nell'antico foro i gradini dai quali l'apostolo Paolo pare che abbia
predicato ai Corinti, e sullo sfondo le colonne del ben più antico tempio di
Apollo: questa immagine dà l'idea, meglio di quanto possano fare i libri,
della connessione di strati diversi di fedi con strati diversi di pietra.
Nelle nostre macerie di pietra, di acciaio e di cemento quale sorta di fede
potranno leggere i posteri, ammesso che ce ne siano, ammesso che tutta la
carta sia andata bruciata? Come si spiegheranno la tracotanza delle
metropoli immense, dove gli uomini non possono vivere senza danno?
Dell'intrico di elementi che noi contemporanei individuiamo nella nostra
civiltà, non resterà ben poco: potere, ricchezza, mania di grandezza?
C'è una città che si chiama Argo, una città polverosa, poco appariscente, in
cui il nostro autobus sosta per un po'.
Oltre a noi, solo i due uomini che ci siedono alle spalle e che sono in
viaggio con noi da Atene, sanno apprezzare questa fermata.
Il più anziano, che potrà avere quarantacinque anni, un uomo scarno, di
membra fini e di fine sensibilità, dice all'amico di quasi vent'anni più
giovane a che cosa va il pensiero quando si ode la parola Argo: alla casa
degli Atridi.
Meglio però sarebbe stato alloggiare - ci avevano consigliato - nella
pittoresca Nauplia, città portuale veneziana; seguimmo il consiglio, e
nessuno avrebbe potuto prevedere che proprio qui, proprio nell'ora tra le
sette e le otto, quando, avida come per la prima volta, assorbivo dentro di
me la luminosità delle case intorno al molo di Nauplia, qui, su uno dei
lembi più meridionali d'Europa, mi avrebbe assalito quel senso di
smarrimento che segnala la perdita di tutte le coordinate su cui ci adagiamo,
cui ci aggrappiamo.
Smarrita guardai, dall'estremità del molo che si spingeva lontano sul mare,
gli inizi del trionfale tramonto dietro la fortezza di Bourzì e la catena
montuosa che ripara il versante occidentale del porto.
Smarrita girai per le strade, così fuori del comune, della città vecchia
veneziana; una malattia, che non volevo chiamare nostalgia di casa,
recideva il legame tra me e quelle stradine, quella luna gonfia e tonda, quel
cielo terso.
Alla reception dell'albergo, dove incontrammo la coppia di amici
dell'autobus, credetti di percepire negli occhi del più anziano uno
smarrimento molto più antico, molto più profondo.
Il mattino dopo si torna ad Argo - cosa che noi facemmo come anche i due
amici, con i quali ormai, quando ci incontravamo, scambiavamo un sorriso
d'intesa.
L'autobus che viene da Corinto ci aspetta a un incrocio esposto ai venti e
abbandonato da dio, dove però un cartello con la scritta MICENE manda ad
est.
Per questo posto dev'essere passato un tempo il corteo dei vegliardi argivi
che, secondo la rappresentazione di Eschilo, messo sull'avviso dai segnali di
fuoco che annunciavano la fine della guerra a Troia, si incamminò da Argo
per andare alla rocca dei signori di Micene, lodando Zeus:

Lui, che lungo la via del pensiero


ci porta ad apprendere attraverso il soffrire
e a questa legge ci sottopone!
Perciò pulsa il tormento della coscienza anche nel sonno
sveglio il cuore per palpiti improvvisi,
e germina contro voglia la saggezza della mente.

Apprendere attraverso il soffrire - questa sembra essere la legge dei nuovi


dei, e anche la via del pensiero maschile, che non vuole amare la Madre
Natura, ma penetrarla con lo sguardo per dominarla ed erigere lo
stupefacente edificio di un mondo dello spirito lontano dalla natura, da cui
le donne da ora in poi siano escluse; donne che bisogna perfino temere,
forse perché esse - senza che il pensatore, il sofferente, il dormiente, ne sia
consapevole -, perché ANCHE esse sono all'origine di quel tormento della
coscienza che gli tiene sveglio il cuore a furia di battiti.
Saggezza contro voglia.
Cultura conquistata smarrendo la natura.
Progresso attraverso il soffrire: queste le formule, indicate quattrocento anni
prima di Cristo, e che sono alla base della cultura occidentale.
Quattro ragazze giapponesi - il passaggio è troppo brusco? sì, però
sostarono davvero accanto a noi e a quella coppia di amici, all'incrocio, con
i loro fantasiosi cappelli l'uno diverso dall'altro, e con noi vennero poi a
Micene, e ci precedettero in salita, leggere di piede come anche di cuore,
vale a dire: non gravate su per la strada senza dubbio gravosa che portava
alla rocca.
L'immagine originaria della rocca - visibile ancora nelle rovine -, che
Cassandra, giunta alla fine della sua deportazione da una Troia che mi
immagino meno tetra, si vide davanti.

Apollo! Oh Apollo!
Tu che segni la via! Tu che mi sei avverso! Dove mi hai condotta,
ahi, a quale casa!
...
una casa macello d'uomini e il suolo chiazzato di sangue.

Con cui allude a quell'orrendo pasto che dietro queste mura imponenti
l'Atride Atreo serve a suo fratello, il rivale: le carni cotte dei suoi figli
maschi.
La donna rabbrividisce, un brivido causato anche dalla natura umana, non
solo dal proprio destino.
Adesso sta tra le mura ciclopiche.
Dalla porta la fissano i leoni, che ora sono senza testa.
Deve entrare.
Mura, mura, anche nella cerchia interna della rocca.
L'impietrita paura della vita manifestata dagli abitanti, e il loro timore degli
stranieri - non c'è da stupirsi del cattivo presagio che assale la straniera.
Noi invece: su per sentieri sassosi e soleggiati nella corrente dei turisti,
intorno studenti di qualche college americano, davanti, cinguettanti, le
quattro butterflies giapponesi.
A destra: il circolo delle tombe.
Sguardo sulle tombe a fossa del sedicesimo secolo avanti Cristo: così
venivano seppelliti gli eroi degli achei e non, come descrive Omero, cremati
sui roghi.
L'altare; la via delle processioni; i resti delle mura del palazzo.
Qui, qui da qualche parte, Clitennestra, uscendo dalla porta del palazzo,
disse:

Entra, Cassandra.
Entra in casa, scendi.
Parlo a te.

Offre alla prigioniera di prender parte al sacrificio, pare che non voglia farle
pesare ulteriormente la sua sorte di schiava.
Cassandra tace, il coro congettura:

Mi sembra che alla straniera serva un interprete,


giacché come bestia selvatica di fresco catturata si comporta.

Al che Clitennestra:

Oh no, non come una bestia selvatica.


E' solo fuori di senno
ne altro ascolta che la propria sconsideratezza.
Troppo nitidamente la patria le sta ancora innanzi agli occhi,
Troia, che noi da poco conquistammo.
Né ha imparato ancora
a sottostare al morso.
Ma piano!
Presto sputerà la bava e il sangue, e obbedirà!
Ora le giapponesi hanno spiegato, sul punto più alto di quella che fu
l'Acropoli di Micene, una tovaglia bianca come fiori di ciliegio, e vi hanno
disposto ogni sorta di cosine appetitose, estratte dalle loro borse di paglia a
barchetta.
Ora si sono sedute, quattro grandi cappelli rotondi, intorno alla tovaglia, e
liete e graziose hanno incominciato a mangiare - un pasto più digeribile di
quello antichissimo che ebbe luogo qui, al quale esse naturalmente non
pensano di cui forse non sanno quasi nulla.
Gli studenti americani si dispongono in gruppi per una serie di foto con le
varie macchine foto grafiche.
Noi ci riposiamo su blocchi di pietra.
Con gli occhi seguo la strada percorsa dai pullman turistici, a breve distanza
tra loro, fino al parcheggio, dove poi in venti o trenta l'uno accanto all'altro,
sostano ai piedi del monte su cui si trova la rocca, fino a quando il loro
carico umano, simile a formiche non si sia arrampicato su per il monte, non
ne abbia ricavato una qualche sorta di soddisfazione, esausto non sia tornato
indietro e dopo un rapido refrigerio a base di gelato e Coca-Cola, non sia
scomparso di nuovo, con sollievo, nel suo rifugio mobile.
Per questa stessa strada, che allora sarà stata stretta e disagevole, ma che è il
percorso naturale per raggiungere la rocca venendo dalla pianura,
arrivarono Agamennone, il reduce vittorioso, e al suo seguito Cassandra, la
prigioniera.
Davanti a quella tomba a cupola, che chi la riportò alla luce chiamò tesoro
di Atreo e che io da quassù posso vedere chiaramente, saranno passati, con
sentimenti contrastanti, il re e la schiava.
Noi, devo confessarlo, in seguito entriamo senza sacro timore sotto la volta
sepolcrale.
Oscurità, fiammiferi che ardono per poco.
La cupola sopra di noi: ogni pietra, premendo sull'altra, la regge.
Poi aspettiamo a lungo, naturalmente ancora in compagnia delle giapponesi,
alla fermata dell'autobus.
Per dieci, quindici volte vedo il contadino, sotto l'altopiano su cui mi trovo,
andare avanti e indietro col cavallo e l'aratro sul suo campo oblungo,
nemmeno conto più i pullman che arrivano e ripartono, e da qui sotto mi
sono impressa una volta per tutte nella memoria l'immagine della rocca col
suo monte e quel sentiero da formiche pieno di turisti, prima di confessarci
che l'autobus di linea che stiamo aspettando è stato soppresso.
Tre delle giapponesi si sono messe a sedere in fila l'una accanto all'altra e
leggono libri smilzi, senza mostrare impazienza, la quarta, più anziana, mi
racconta che studia filologia antica in Inghilterra con una borsa di studio.
Oggi si è realizzato uno dei suoi più ardenti desideri: vedere coi suoi occhi
la rocca di Agamennone e di Clitennestra. - Che bei capelli avete tutte, dico,
lei sorride e dice: thank you.
Ora però dobbiamo cercare di ritornare ad Argo.
Insieme a due donne di Colonia, madre e figlia, che soffrono orribilmente
per l'inaffidabilità dei collegamenti, prendiamo un taxi.
Irritati dal silenzio inesorabile che c'è tra le due per tutta la durata del
viaggio, nel pomeriggio arriviamo ad Argo.
La coppia di amici sta già seduta nell'autobus per Nauplia e ci sorride come
se, con la nostra apparizione, avessimo esaudito un suo desiderio.
A Nauplia, esattamente alla sommità del grande arco descritto dalla baia, c'è
una taverna che ha fissato sulla porta a mo' di insegna un calamaro fresco
dai molti tentacoli.
Passandogli sotto entriamo nella sala e siamo condotti dall'oste in cucina,
dove tutti i cibi sono tenuti, se non caldi, perlomeno tiepidi, in tegami
scoperti e dove noi, esperti di cucina greca, mettiamo insieme il nostro
pranzo col semplice cenno del dito.
La luminosità c'è già stata, il sole è ormai tramontato.
Non ci siamo lasciati sfuggire né l'una né l'altro.
E ora vogliamo ripartire, domani, per Epidauro.
Che i due amici sono di nuovo sullo stesso autobus che prendiamo noi, è
una cosa che non oserei affermare neanche in una storia inventata.
Eppure siedono nella nostra stessa fila, ma dall'altro lato del corridoio
centrale, stanchi questa volta, o di cattivo umore? Ma potrei essermi
sbagliata.
Ho già detto che parlano francese? Il più anziano dei due, la cui giovanile
tenuta jeans mi sembra per la prima volta che non gli si addica molto, legge
al più giovane un passo della Guida blu su Epidauro che ho anch'io davanti,
in tedesco: Epidauro, santuario di Asclepio, figlio di Apollo; centro del
complesso che ci aspettava, una sala del sonno e dei sogni come quella che
abbiamo già visto, in edizione ridotta, nell'Amfiaráion di Oropos.
Ora l'anziano sussurra al più giovane amico qualcosa che forse ha a che fare
con la cura dei sogni e del sonno, ma il giovane guarda impassibile fuori dal
finestrino panorami a dire il vero degni di essere visti, che la strada in salita
rivela continuamente, e non sorride.
Naturalmente, cerco di convincermi, il giovane avrà le sue buone ragioni
per essere serio, chiuso e forse perfino un po' dispettoso.
Mi sembra che orientarsi tra le rovine di Epidauro sia ancora più difficile
che tra le altre.
Il modo di vivere greco lasciò qui una delle sue impronte più dense, e lo
testimoniano le fondazioni della sala dei sogni e del sonno, di vari templi
per le varie divinità, delle sale per la ginnastica e per la musica, perfino
dell'ippodromo.
E, in mezzo a tutte le piante quadrate, una costruzione circolare, un (o una)
tholos, il significato del quale ancor oggi è incerto, leggo.
Probabilmente serviva per riti segreti; giacché pare che sia stato eretto sulla
tomba di Asclepio - la cui madre era una mortale.
Qui i sacerdoti allevavano i serpenti marrone-chiaro sacri ad Asclepio.
Asclepio, il dio maschio, discendente di Apollo, uno dei nuovi dei: che
abbia derivato dalle donne, per dirla in modo neutrale, l'arte medica, è cosa
indicata dal suo emblema, il serpente; nelle tombe circolari venivano sepolti
gli eroi, l'abbiamo visto a Micene.
Cassandra, si dice, fu rinchiusa dal padre Priamo in una torre piramidale
nella cittadella, dopo che ebbe profetizzato come infausto per Troia l'esito
della guerra: Ranke-Graves ipotizza che la sua prigione potrebbe essere
stata una tomba ad arnia intrecciata, dalla quale faceva profezie in nome
dell'eroe che vi era sepolto.
L'ape con il suo Stato di amazzoni, congettura Cilli Rentmeister, è stata
considerata sicuramente nelle società femminili arcaiche un animale-
simbolo di altissima sacralità, e adduce esempi di costruzioni circolari
molto arcaiche nell'isola di Malta, templi o case, che con la loro forma
riproducevano il corpo della Grande Dea: imponente, arrotondato, opulento.
E anche il teatro di Epidauro è in definitiva una costruzione circolare (cosa
che non è da ritenersi tanto ovvia), che fu edificata del resto verso il 400
avanti Cristo dallo stesso celebre maestro della tholos: da Policleto.
Il forte profumo dei pini che crescono circolarmente intorno al santuario, è
alitato anche qui, il cielo è di un azzurro leggero, striato da veli di nuvole.
Sediamo nell'ultima fila.
Come adesso, giù sotto di noi, il flusso crescente dei turisti si riversa nel
teatro, così un tempo, qui, facevano il loro ingresso gli ellenici.
Dove adesso sta quel giovane, nel fuoco della lente che forma il cerchio del
teatro, lì in Eschilo stava Oreste, figlio di Agamennone e di Clitennestra,
ritornato per vendicare l'assassinio di suo padre assassinando la madre.
Quale degli dei o delle dee invocherà? Egli dice:

Oh Ermes dell'Abisso, dio dei morti!


Custode del paterno trono d'ombre!
Ti imploro: stammi accanto e salvami!
...
Oreste, che giunse ad Argo per ordine di Apollo,
a riscattare Agamennone...
Oh Zeus, lascia che vendichi la morte del padre,
soccorrimi nell'azione!
Tre dei maschi in un monologo. - Il giovane laggiù accende un fiammifero:
si sente fin quassù, il pubblico batte le mani.
Qualcuno gli grida qualcosa, il giovane bisbiglia, e tutti possono udire:
William Shakespeare.
Applausi.
Altre grida.
Allora il giovane si erge nella persona e dice, questa volta ad alta voce: to
be or not to be, that is the question.
Poi esce di scena.
Arrivano scolari greci a centinaia.
Lontano da noi, nella stessa fila, siedono i due amici.
Non riusciamo a sentire quello che dicono.
Si allontanano in direzioni diverse.
Nell'autobus, al ritorno, non c'è nessuno dei due.
Qui, tra pochi mesi, si rappresenterà ancora una volta il grande dramma,
nella traduzione di Valtinos.
Sangue, esclamerà la corifea.

questa è la legge,
sangue,
che a terra scorre,
chiama altro sangue.

L'antica legge della vendetta di sangue, dentro cui si impiglia Oreste: in


nessun caso il figlio poteva mettere le mani sulla madre.
La donna era tabù.
Eschilo sembra mettere in conto che il suo pubblico di sesso maschile, il
quale nel frattempo esercita il dominio assoluto, è ancora turbato dagli echi
del sacro timore verso la donna.
Un coro femminile riceve il compito di bollare la donna come il male
peggiore sotto il cielo: E poi, / la cosa peggiore tra tutte, / la smania
d'amore, / la concupiscenza della donna. - Sono citati esempi terribili a
dimostrazione di ciò, e la reinterpretazione della donna, una volta
intoccabile, in chiave di mostro, ha già una lunga storia.
La donna dev'essere soppressa! si dice ora, senza mezzi termini.
E, una volta fatto ciò: badate che, ad ogni modo, Oreste non è un assassino.
Probabilmente è questo che, in forma di verdetto, è stato martellato nelle
teste del pubblico, ed è in questo non certo nel suo lavoro estetico - che il
greco ha fallito.
Contro i millenari sforzi del patriarcato, l'assassinio della madre continua a
pesare nelle coscienze degli uomini come il più atroce dei delitti.
Che il figlio sia solo figlio del padre, non è cosa che sia riuscita a imporsi.
E per quanto il proponimento morale di Eschilo debba essere stato tacitare a
tutti i costi la coscienza del matricida, egli è guidato altrettanto
irrefrenabilmente dal suo proponimento estetico, e descrive in modo
incomparabile l'angoscia dell'assassino che si trova in un conflitto senza via
d'uscita:

Presto! Ascoltatemi! Un'ultima volta!


Mi trascinano via!
Sono su un carro,
ma non lo governo.
I cavalli
tengono le briglie.
Su di loro non ho più potere,
non.. riesco... a... pensare.
Pensare? No! C'è un altro
che pensa per me!
E profonda nel cuore si annida la paura
e canta e incomincia a danzare.
Perciò, finché ancora sono in senno
- lo sono ancora? vi dico presto:
fu giusto che uccidessi la madre,
la donna in odio agli dei essere abominevole, che la terra odia!

Pieni di forza allo stesso modo i cori delle Erinni, dee vecchissime,
personificazione delle anime degli avi, che lamentano il tramonto del diritto
antico, considerato come tramonto della morale in assoluto.
Fiacca poi a paragone, un epilogo da agit-prop, un finale a tesi,
l'assoluzione di Oreste e l'addomesticamento delle Erinni matriarcali ad
opera della saccente Pallade Atena; l'intento politico del cittadino ateniese
Eschilo gli attenua il finale del dramma.
Ma anche in questo agosto dell'anno 1980, i 15000 visitatori, greci ma
soprattutto turisti da tutto il mondo, che nel teatro antico vedranno l'antico
dramma, non torneranno a casa, credo, con la sensazione di aver assistito a
un happy end.
La disputa cavillosa che ha per oggetto se in quell'uomo infelice, Oreste, sia
da ravvisare l'assassino della madre o il vendicatore del padre, è solo
espressione del contrasto che, apertosi là dove invece avrebbe dovuto
svilupparsi accordo e conciliazione, nel maschio si ritrova in forma di
dissidio e che, proprio perché incessantemente negato, mascherato,
reinterpretato, rimosso, genera paura, odio, ostilità con pesanti conseguenze
per millenni, fino a noi e a quelli che tra quattro mesi lasceranno il teatro di
Epidauro, come adesso appunto stiamo facendo.
La Troia che ho davanti agli occhi è - molto più di una descrizione che
guarda al passato - un modello per una sorta di utopia.

TERZA LEZIONE
Un diario di lavoro sulla materia di cui sono fatti la vita e i sogni

Quest'autunno i funghi atomici sono diventati


uno spettacolo così usuale sui giornali
che a forza di osservare le fotografie
cominciavano a formarsi categorie estetiche
la situazione del pianeta azzurro si offriva allo sguardo
armi-al-neutrone è termine apparso di frequente
come i fratelli prezzo-della-benzina e bollettino-meteorologico
è diventato quotidiano quanto appelli-per-la-pace.
Il mio bambino ha preso un cinque
che posso dire costa già uno sforzo
sopportare la vista di lui l'innocenza
e noi viviamo questa improbabile
vita avventurosa ripariamo al cinque
il bambino va a scuola piantiamo alberi
ascoltiamo l'allarme di prova il preavviso Atomico-Batterio-Chimico
conosciamo i discorsi dei militari di tutti i paesi
Sarah Kirsch, "Fine dell'anno"
"Meteln, 16 maggio 1980"
La letteratura dell'occidente, leggo, sarebbe una riflessione dell'uomo
bianco su se stesso.
E' il caso che venga ad aggiungersi ora la riflessione della donna bianca su
se stessa? E nient'altro?
Sia il comando supremo della Nato che quello del Patto di Varsavia
discutono della necessità di nuovi armamenti, ciascuno per essere in grado
di contrapporre qualcosa di equivalente alla presunta superiorità tecnica
dell'avversario sul piano militare.
Sapere che l'esistenza fisica di tutti noi dipende dai movimenti interni al
pensiero aberrante di piccolissimi gruppi di uomini, dunque dal caso, fa
naturalmente saltare in maniera definitiva l'estetica classica dai suoi cardini,
dai suoi supporti che, in ultima analisi, sono fissati alle leggi della ragione.
E alla fede che tali leggi esistono perché devono esistere.
Uno sforzo coraggioso, seppure infondato, per procurare un rifugio
contemporaneamente alla ragione che fluttua libera e a se stessi: nella
letteratura.
Poiché mettere insieme parole è cosa vincolata a pre-messe che sembrano
trovarsi fuori della letteratura.
E anche a una misura, giacché l'estetica ha origine, appunto, anche nel
chiedersi quanto si può pretendere dall'uomo.
Forse gli Omeridi, con i loro racconti di gesta eroiche accadute tanto tempo
prima, hanno unito e strutturato le masse che li ascoltavano, perfino oltre le
strutture socialmente date.
Il drammaturgo della Grecia classica, con l'aiuto dell'estetica, ha contribuito
a creare l'atteggiamento etico-politico dei cittadini della polis, liberi, adulti,
di sesso maschile.
Anche i cantici, i misteri, le leggende di santi, opera del poeta cristiano
medioevale, servirono a mettere in connessione due elementi entrambi
accessibili alla parola: Dio e uomo.
L'epos cortese ha una sua stabile cerchia, cui fa riferimento celebrandola.
Il poeta protoborghese si rivolge con infuocata protesta al suo principe e
nello stesso tempo, sobillandoli, ai sudditi.
Il proletariato, i movimenti socialisti, con i loro rivoluzionari obiettivi di
classe, ispirano alla letteratura che li accompagna una concreta presa di
posizione. - Ma davanti ai fenomeni con cui ora abbiamo a che fare, cresce
la coscienza dell'inadeguatezza delle parole.
Ciò che gli anonimi tecnici della pianificazione nucleare ci riservano, è
indicibile; la lingua capace di raggiungerli, pare non esistere.
E tuttavia noi continuiamo a scrivere nelle forme che ci sono consuete.
Vale a dire: non riusciamo ancora a credere a quello che vediamo.
E non riusciamo a esprimere quello a cui già crediamo.

"Meteln, 2 giugno 1980"


Ma di Cassandra ciò che mi interessa di più non è la fine.
Mi interessa: come è arrivata al dono della veggenza.
Il "Dizionario mitologico del dottor Vollmer" del 1874:

CASSANDRA, la più sventurata delle figlie di Priamo e di Ecuba.


Fu amata da Apollo, che le promise, se gli avesse concesso in cambio il suo
amore, di insegnarle a leggere il futuro.
Cassandra acconsentì, ma, ricevuto il dono dal dio, non mantenne la parola
data; perciò egli fece sì che nessuno prestasse fede alle sue affermazioni e
la ridusse a zimbello della gente.
Così Cassandra fu ritenuta folle, e giacché non profetizzava altro che
sventure, la perturbatrice di ogni gioia venne presto a noia e fu rinchiusa in
una torre.
In seguito divenne sacerdotessa di Minerva (errore: divenne sacerdotessa
di Apollo, C. W.), dal cui tempio Aiace... la trascinò fuori per i capelli,
abbattendo la statua della dea cui la sventurata si era avvinghiata.

La parola che ricorre più di frequente: sventura.


Evidentemente nel 1874 era imbarazzante e innominabile per il dottor
Vollmer e per i suoi collaboratori la discussa tradizione secondo cui l'acheo
Piccolo Aiace, uno degli eroi di maggior rilievo nella conquista di Troia,
aveva violentato Cassandra davanti al simulacro di Atena, sicché alla dea,
impotente, non era rimasto altro che volgere gli occhi al cielo.
E anche: che suo padre, il
re dei troiani Priamo, verso la fine della guerra l'aveva fatta sposare per
motivi politici - e cioè per avere un alleato con un contingente di armati che
gli era assolutamente necessario a un uomo da lei non voluto; e che
probabilmente da questo matrimonio erano nati i gemelli, poi deportati
anch'essi a Micene da Agamennone e massacrati dopo di lei. - Ipotesi: con
Cassandra ci viene tramandata una delle prime figure femminili il cui
destino prefigura ciò che, per tremila anni, accadrà alle donne: essere ridotte
a oggetto.
Domande sulla voce del dizionario enciclopedico: come mai Apollo, un dio
giovane, maschio, può conferire il dono della veggenza a una donna?
Perché egli si affrettò, perché si affrettarono coloro che hanno tramandato la
sua storia, a rendere inefficace quel dono? Perché lei sollecitò con
insistenza il dono della veggenza? Perché l'odiosità della profezia di
sventura (fare la Cassandra!) si attaccò al nome di una donna, quando nello
stesso periodo, per la stessa ragione, anche il sacerdote troiano di Apollo,
Laocoonte, metteva in guardia e profetizzava sventure: anche lui scongiurò
i suoi concittadini di non portare dentro le mura della città il cavallo di
legno lasciato dagli achei.
Come mai allora non: fare il Laocoonte? Come mai sono i serpenti ad
avvolgere nelle loro spire e ad annientare i suoi figli e lui?

"Meteln, 8 luglio 1980"


Il pensiero aberrante è naturalmente matematizzato. (E del resto, in modo
paradossale, la matematicase si incomincia a CREDERE che sia una forma
autonoma le cui leggi sono applicabili anche ad altre forme, comprovando
così o addirittura generando quello che in quest'epoca è uno dei maggiori
miti in fatto di difesa della vita: la scientificitàla matematica del resto, nella
sua incontestabile esattezza, si presta particolarmente all'innesto su
un'aberrazione che così diventa inattaccabile).
Negli USA per due volte, la scorsa settimana, il computer ha dato l'allarme:
missili sovietici in avvicinamento sugli Stati Uniti.
Pare che il presidente in un caso del genere abbia venticinque minuti di
tempo per decidere.
Il computer sarebbe stato disattivato. - La scelta aberrante: far dipendere la
propria sicurezza da una macchina anziché dall'analisi della situazione
storica che solo persone dotate di intelligenza storica sono in grado di fare
(la qual cosa significa anche: intelligenza della situazione storica dell'altra
parte).
L'Istituto svedese di ricerca per la pace nella sua relazione annuale dichiara
che il pericolo di una guerra atomica in Europa non è mai stato tanto
grande.
Negli arsenali di tutto il mondo si troverebbero 60.000 ordigni atomici.
Negli ultimi cinque anni, l'epoca della distensione, ciascuna delle due
grandi potenze ha fatto rimbalzare sull'altra l'enorme crescita dei propri
armamenti.
Parlandone giungiamo alla conclusione che non siamo più in grado di
riflettere su tutto ciò.
E tuttavia dobbiamo riflettere.
Nei fatti che cosa intendo, quando dico pensiero aberrante? Intendo
l'assurdità dell'affermazione secondo cui il massimo degli armamenti
atomici da parte di entrambe le potenze diminuisce il pericolo di guerra
grazie all'equilibrio del terrore; secondo cui alla lunga ciò potrebbe offrire
anche soltanto un minimo di sicurezza.
Intendo il calcolo grottesco fondato su strategie che, già quando erano
riferite alle armi convenzionali, risultavano devastanti, e che ora, riferite
alle armi nucleari, sono diventate insensate, irrazionali, come rivela la
cinica frase: chi colpisce per primo, morirà per secondo.
La situazione dell'Europa, d'altra parte, è oggi fondamentalmente diversa da
quella degli anni Trenta, prima che Hitler attaccasse i paesi confinanti che
erano armati in modo inadeguato: è ovvio che non c'era altro da fare che
armarsi contro quell'avversario, e difendersi da lui: allora la difesa aveva un
senso.
E' ovvio che la difesa contro l'aggressore aveva un senso in Vietnam; è
ovvio che in una serie di paesi sudamericani dove combattono movimenti di
liberazione, il fucile è uno strumento di difesa e di liberazione.
Ma io sono europea.
L'Europa non può essere difesa contro una guerra atomica.
Essa potrà soltanto sopravvivere come un tutto o perire come un tutto:
l'esistenza di armi nucleari ha portato all'assurdo tutte le possibili strategie
difensive per il nostro piccolo continente.
Abbiamo una chance? Come posso fidarmi degli esperti che ci hanno messo
in questa situazione disperata? Armata di nient'altro che del desiderio
irrefrenabile che i miei figli e i miei nipoti vivano, mi appare ragionevole
ciò che forse è completamente privo di prospettive: optare per il disarmo
unilaterale (esito: nonostante l'amministrazione Reagan? Dato che non vedo
altra via d'uscita: nonostante!) e mettere in tal modo l'altra parte sotto la
pressione morale dell'opinione pubblica mondiale; vanificare la dottrina
ricattatoria dell'URSS fondata sull'indurre alla rovina attraverso la spesa
militare (Totrusten); rinunciare alla possibilità di essere i primi a colpire e
rivolgere tutti gli sforzi a misure realmente difensive.
Qualora tutto ciò comporti un rischio: non è ben più grande il rischio di
ulteriori armamenti atomici, i quali accrescono quotidianamente perfino il
rischio che l'annientamento atomico si verifichi per caso?
Questo sarebbe solo un pio desiderio? Quindi il desiderio di riflettere e dire
la propria su una questione che investe la vita e la morte di molte, forse di
tutte le generazioni future, sarebbe completamente fuori luogo?
Se il pericolo atomico ci ha portato al limite dell'annientamento, allora
dovrebbe averci portato anche al limite del silenzio, al limite della
sopportazione, al limite della tendenza a soffocare la nostra paura e la
nostra apprensione e le nostre vere opinioni.

"Meteln, 10 agosto 1980"


Sono pensabili esseri forniti di ragione che NON conoscano la scissione
dell'uomo moderno in corpo/anima/ spirito, che addirittura non riescano a
capirla? Cassandra sperimenta come questa operazione sia compiuta nella
propria carne.
Vale a dire che nel suo ambiente ci sono forze reali che, a seconda delle loro
esigenze, pretendono da lei una parziale negazione di sé.
Impara le tecniche per soffocare la sensibilità. - Il primo contrasto di classe
che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell'antagonismo tra
uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di
classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile
(Friedrich Engels, "L'origine della famiglia").
Mi accorgo che non riesco più a vedere - ma da quando? Cassandra come
un personaggio tragico.
Nemmeno lei si sarà vista così.
La sua contemporaneità consiste nel modo in cui impara a convivere col
dolore? Sarebbe allora il dolore - una particolare modalità del dolore: il
dolore del farsi soggetto il punto attraverso il quale mi assimilo a lei?
Troia sarebbe una città sorta sulle mura di molte altre città distrutte (la Troia
7 A di Heinrich Schliemann, che d'altronde lui non considerò la Troia della
guerra troiana, collocata, con sorprendente e sospetta esattezza secondo me,
nell'arco di tempo tra il 1194 e il 1184 avanti Cristo).
Una città con un palazzo, una cittadella, case di artigiani, di commercianti,
di scribi.
Con templi, recinti sacri.
Con le mura tutt'intorno.
Con insediamenti rurali nel circondario, abitati da una popolazione
aborigena.
Con un fiume: lo Scamandro.
Una città-stato con una casa regnante probabilmente considerata divina, con
una nobiltà (un'élite aristocratica, molto spesso imparentata con la casa
reale), con funzionari, capi militari, artigiani forse appartenenti alla casa
reale, sacerdoti e sacerdotesse, eventualmente latifondisti, piccoli contadini
di origine forse diversa da quella dell'élite, impiegati ad ogni livello della
gerarchia amministrativa, la massa della popolazione lavoratrice di cui si sa
poco, giacché nei documenti compare rarissimamente.
Con schiavi.
Uno schema approssimativo questo, ricavato dalle descrizioni in sé non
omogenee dei vari studiosi della cultura micenea (così chiamata dallo stile
di vita nella rocca di Agamennone, capo degli achei e conquistatore di
Troia).
Troia avrebbe fatto parte, in senso molto lato, di questa sfera culturale,
modificata però dai tratti della cultura dell'Asia Minore (ittiti) e dagli
influssi certamente forti della cultura cretese-minoica che, nell'esaurirsi,
avrebbe dato un grosso impulso non solo alla Grecia continentale, ma anche
alle isole e alla costa dell'Asia Minore; le avrebbe impregnate.
In che senso? Quali sarebbero i tratti specificamente minoici di Troia? Con
re Priamo, il cui nome è probabilmente di origine orientale, una casa
regnante egeo-asiatica avrebbe dominato su una popolazione mista, che
aveva anche componenti indoeuropee? Che cosa ne potrebbe derivare per
Cassandra, nel caso che abbia sperimentato una situazione di conflitto
dovuta soprattutto alla probabile coesistenza di religioni e culti? E' possibile
che lei- ma ciò comporterebbe già un punto di vista utopistico, non storico -
alla fine si sia interiormente liberata, giacché la sua dovrebbe essere la
storia di un processo di liberazione, da OGNI fede e anche (prima di tutto)
dalla propria?
"Meteln, 23 agosto 1980"
Ho riletto "Avanguardia" di Marie-Luise Fleisser come se fosse la prima
volta.
Tristezza per il destino di questa donna, che mi sembra inumano,
incredibile, impossibile.
Sfruttata da tutti, maltrattata come un animale.
La società maschile allo stato puro, dal poeta comunista al tabaccaio
visceralmente piccolo-borghese fino al portiere nazista, la colpisce a
tradimento.
Scrivere, per le donne, come mezzo da porre tra sé e il mondo maschile
(che almeno mi ammirino, allora...).
Inevitabile il momento in cui la donna che scrive (che, nel caso di
Cassandra, vede) non rappresenta più nulla e nessuno, solo se stessa, che
però non si sa cos'è.
Esiste l'infausto diritto (o dovere) della testimonianza? Supposizione dura a
morire, che sia sempre necessario scrivere.
Non possiamo sapere se ci troviamo nel punto più oscuro della storia o alla
sua fine.
L'Europa, se ne vedi il declino (allorché la vedi declinare), in certi momenti
può apparire bella come Atlantide.
Europa, un nome che, dalla terraferma greca e tracia, si estendeva alla
massa continentale a settentrione, a seconda della coscienza che i greci ne
avevano.
Europa, la figlia del re fenicio, che il dio Zeus in sembianze di toro rapì
dalla Fenicia portandola a Creta, dove lei gli partorì, tra gli altri figli il
futuro re Minosse.
Un atto di violenza contro una donna fonda, nel mito greco, la storia
d'Europa.
Il mio dolore per questo continente è in parte anche il dolore per un
fantasma: non solo il dolore per membra perdute, anche quello per membra
nemmeno formate, non sviluppate, per sentimenti non provati, non vissuti,
per una nostalgia inappagata.
Tutto questo conservato nella letteraturada quando? Esiste, in un'ottica
diversa, un elemento utopistico già in Omero, o lui è costretto a concentrare
tutte le sue energie nella presenza dentro il suo tempo e a salvare nel canto
ciò che della tradizione, nei quattro o cinque secoli bui delle invasioni
doriche, è stato preservato solo grazie alle canzoni e ai poemi epici?
Processo difficile da immaginare: un avvenimento che si verifica verso il
1200 avanti Cristo - la guerra troiana appunto, la distruzione di una
determinata città (in tempi in cui distruggere città era all'ordine del giorno)
da parte delle monarchie achee unite, la cui ricchezza, secondo Thomson, si
fondava sulla conquista e sulla rapina; le quali poi a loro volta soccombono
agli intrusi dorici; gli achei, fuggendo, portano insieme alle ricche famiglie
le loro tradizioni culturali in Asia Minore, dove fondano nuovi regni,
insignificanti stati a carattere agrario, dove il re non è altro che il principale
proprietario terriero.
In questo ambiente, caratterizzato dalla progressiva decadenza della
monarchia e da una secolare povertà di avvenimenti, sarebbe maturato
l'epos greco.
Cantori coltissimi, che vivevano nella Jonia, già educati alla scuola della
cultura minoica, si sarebbero interessati ai temi degli achei, che erano stati
tramandati in singole canzoni e canti e che ora, sradicati dal loro terreno
originario, ricevevano la loro forma finale nel corso dei secoli dagli artisti
che Thomson chiama gli Omeridi.
A questo modo sarebbe stato loro possibile contemplare con distacco quegli
atti di rapina e permearli della loro raffinata visione del mondo.
Un processo di condensazione unico nel suo genere, senza l'aiuto (o
l'intralcio?) della scrittura.
E per quanto riguarda l'"Iliade", il primo tentativo a noi noto di imprimere a
una nuda cronologia posta sotto la legge della battaglia e del macello la
misura di un sentimento umano: l'ira di Achille.
Ma è la linea dell'agire maschile che il narratore segue.
Solo negli intervalli tra le descrizioni di battaglia traspare la vita quotidiana,
il mondo della donna.

"Meteln, 27 settembre 1980"


Perché, in realtà, uno si augura una vita più lunga? Ci si illude di avere
ancora voglia di vedere questo e quello, di avere ancora voglia di fare
questo e quello - dunque di scrivere.
E' vero.
Ma se ciò non accadesse? Dopo un lungo sonno, trovo G. sul prato, a
raccogliere mele.
Al di sopra, no, tra lui e le mele, il cielo, un blocco d'azzurro puro.
Prendo un cesto, raccolgo le mele che sono cadute, faccio mucchietti con
quelle ammaccate e marcite che poi porteremo sul terriccio concimato,
metto da parte, in cassette, quelle buone, da regalare.
Arriva l'amico barbuto del mugnaio e parliamo dei mattoni che si
fabbricano a Dahlewitz.
Se la loro qualità è adatta a tirar su un timpano.
Si parla di K., l'unico incannicciatore di tutta la zona, che è precipitato dal
tetto perché un gancio si era incrinato proprio il giorno in cui non aveva
bevuto, dicono tutti.
Doppia frattura della base cranica, frattura di una vertebra lombare: quello
non sale più su un tetto, dice l'uomo di Dahlewitz.
Del resto si trova ancora nel reparto di terapia intensiva. - K., che faceva
parte di questo paesaggio.
Vedo come da lontano le nostre tre figure su questo prato.
Sensazione di perdita di realtà: come se qualcuno avesse fatto un buco nel
sacchetto di plastica che ci è stato infilato addosso, e ora ne uscisse fuori
l'aria insieme al cielo.
Più tardi, quando sulla panchina davanti alla casa snocciolo le prugne, mi
chiedo per quanti anni siederò ancora così, sulla panchina.
Per quanti anni lo voglio ancora.
Un soprassalto di vecchiaia, all'improvviso.
Preparo la pasta lievitata, la metto a crescere sul bordo del forno.
G. trasporta insieme ad E., che ha bisogno di lavorare anche il sabato, i
pezzi singoli del pesante mobile di quercia, a cui noi abbiamo dato la soda
caustica fino a riportarlo al colore naturale, attraverso la cucina fino al
piano di sopra, verrà posto tra i letti.
Tutti e tre lo ammiriamo.
Gli uomini decidono che Sl', bisogna dargli l'olio, perché diventi più scuro e
la venatura della quercia venga fuori meglio.
Frattanto metto la pasta sulla piastra, la ricopro di prugne, poi di granelli di
zucchero, e la lascio ancora crescere.
Quando metto il dolce nel forno, arrivano i T. di ritorno dal loro giro per le
tre città di Schonebeck, Rehna, Gadebusch, abbronzati, riposati, entusiasti.
Mentre Gerti e io ci accingiamo a preparare un'insalata di peperoni, cetrioli,
pomodori, gli uomini in camera da letto montano la parte superiore dello
scrittoio sulla parte inferiore.
Dobbiamo tutti esprimere un parere.
Come sta bene.
Com'è diventata bella la stanza.
Come si armonizzano le coperte greche con il legno rosso del
Meclemburgo...
E' la verità, ma sento che non me ne importa niente di come sta questa o
qualsiasi altra stanza.
Quando il dolce è pronto, G. inforna il grosso pesce al cartoccio insieme a
un po' di patate anch'esse al cartoccio.
Adesso ci vogliono tre quarti d'ora.
Nel frattempo apparecchiamo la tavola - la cucina si riscalda -, G. prepara
un cocktail di gamberi, prende del buon vino bianco freddo, cominciamo
lentamente a mangiare - E' buono, diventiamo allegri.
Finalmente il pesce e le patate sono pronti: un avvenimento che si ripete
spesso, G. che toglie entrambe le cose dal forno, le svolge, le punge per
esaminarle, distribuisce le porzioni.
Questo giorno è per me pieno di avvenimenti che si ripetono, la buona vita
quotidiana.
Mi chiedo se è necessario vivere ancora altre cento o mille ripetizioni di
questi avvenimenti.
Gli stimoli per continuare a vivere devono venire da qualcosa di nuovo a
cui miriamo, altrimenti potrebbe accadere che ci rassegniamo a una sorta di
verdetto pronunciato a nostra insaputa.
Passiamo a un altro vino.
Il discorso cade sulla situazione mondiale: la guerra tra Irak e Iran che,
come la maggior parte delle cose oggi, ha tratti di follia. (In che senso poi?
Per quale ragione non tutte le guerre, compresa quella troiana, sono follia?
Perché il fine di quest'ultima era aderente alla realtà: gli achei avevano
bisogno dell'accesso al Bosforo, il che significa che essi dovevano strappare
ai troiani il controllo di tale accesso, dei Dardanelli? A partire da quale
quota di perdite umane le guerre perdono i tratti aderenti alla realtà?)
Osservando come la gente se la sbriga con la vita quotidiana, ci chiediamo -
noi quattro attorno al tavolo di cucina illuminato, dopo un buon pranzo,
bevendo vino: in cosa sperano (o speriamo)? E sperano poi? Che cosa si
aspettano per i loro figli? Si è esaurito quell'impulso delle ultime
generazioni ad aspettarsi sempre qualcosa di meglio per i figli piuttosto che
per se stessi? Questa stanchezza dell'impegno non è in effetti stanchezza
della speranza?
R. conosce le cifre dell'ultimo rilevamento dell'ONU sullo stato degli
armamenti nel mondo.
Secondo cui a ogni abitante della terra, cioè a ciascuno di noi,
toccherebbero tre tonnellate di TNT.
Le grandi potenze potrebbero distruggersi vicendevolmente più di una
dozzina di volte.
E così via.
Ridiamo, un po' imbarazzati.
La normale sensibilità resta sorda di fronte a queste cifre.
Sdegno, ribellione sarebbero inadeguate.
L'estetica della resistenza CONTRO TUTTO CIO' è ancora da sviluppare.
A chi posso raccontare che l'"Iliade" mi annoia?

"Meteln, 7 dicembre 1980"


Sogno: viviamo in una fattoria, più piccola, più sporca, più povera di questa
in cui mi sveglio.
Siamo nel cortile.
Qui c'è un usciolino per gli animali, coperto da un reticolato, che dà nella
cucina, ed ecco che vediamo sgusciare all'interno un animale feroce - un
puma! diciamo spaventati.
Inorriditi corriamo dentro, la piccola, sudicia e misera cucina annerita dal
fumo è divisa da una grata metallica, dietro la quale percepisco
indistintamente volatili, animali domestici, ora anche questo puma, e però
ancora più indietro, un secondo animale feroce dall'aspetto singolare,
spaventevole e ripugnante, per il quale non c'è nome.
Una depressione terribile.
Questi animali devono sparire! dico ad H. Andiamo tutti a mangiare,
sediamo avviliti intorno a un tavolo tondo quand'ecco che H. mi chiama in
cucina.
Il secondo animale feroce dietro la rete metallica è stato ferito da un colpo
d'arma da fuoco, perde sangue dalla spalla, ci guarda pieno di rimprovero,
triste e nello stesso tempo implacabile.
Gli hai sparato tu? chiedo ad H. Certo, dice lui, che altro si poteva fare. - Ha
preso un fucile da caccia che era appeso alla parete in cucina.
Non se la sente però di sparare un'altra volta.
E per quella ferita l'animale non ha l'aria di voler morire.
Ci viene in mente che gli animali potrebbero essere scappati da un circo di
passaggio.
Adesso però non è più possibile nemmeno informarsi.
Con loro sicuramente non possiamo vivere.
E neanche ammazzarli.
Né lasceranno la cucina spontaneamente.
Ce ne stiamo qui, faccia a faccia con i muti animali feroci, e sappiamo: è
una situazione senza via d'uscita.

"Berlino, 18 dicembre 1980"


Sul materiale che mi si ammucchia intorno non ho ormai alcun controllo.
Non leggo più per dare un ambiente credibile e concretamente percettibile
alla costruzione interna della figura di Cassandra, cosa che è il mio vero
proposito.
Leggo perché non riesco più a liberarmi della storia antica, della mitologia,
dell'archeologia.
Marx non ha potuto conoscere quello che l'archeologia, a partire dalla fine
del diciannovesimo secolo, avrebbe letteralmente portato alla luce a Creta,
in Grecia e in Asia Minore: in caso contrario, probabilmente non avrebbe
affatto definito i greci i fanciulli, i fanciulli normali della nostra cultura, le
cui creazioni artistiche proprio perciò ci affascinano ancora.
La cultura greca è una cultura tarda ed evoluta in rapporto a quella micenea,
e questa a sua volta è erede di altre culture evolute, come per esempio di
quella minoica, delle quali i greci avevano ancora sentore.
A Troia però, ne sono certa, la gente non era diversa da noi.
I loro dei sono i nostri dei, quelli falsi.
Solo i loro mezzi non sono più i nostri.
"Berlino, 30 dicembre 1980"
La situazione di stallo sotto il cielo denso degli accordi di moratoria: ecco il
meglio che riusciamo a sperare per l'Europa.
L'addomesticamento delle contraddizioni da questa parte e dall'altra.
Non il loro smussamento: la loro minimizzazione in presenza e con l'aiuto
della paura della catastrofe totale, che sembra essere l'alternativa allo status
quo.
Il confine che, nel tagliare il nostro paese di una volta, divide i due sistemi
mondiali l'uno dall'altro e - si spera - li tiene a distanza.
E a quanto pare (o apparentemente) dobbiamo augurarci lo status quo,
dobbiamo operare perché esso sia mantenuto, giacché la sua violazione
significherebbe o potrebbe significare guerra (altro che guerra;
annientamento); e possiamo pensare pochissimo, perciò, a trasformazioni
all'interno dei due stati tedeschi; tant'è che i giovani intellettuali, dall'una e
dall'altra parte di questo confine, si logorano per cose impossibili, ma la
loro vita è questa.
Tant'è che gli anziani, i più lucidi della mia generazione, lo hanno ormai
capito da tempo: non esiste spazio per la trasformazione.
Non esiste situazione rivoluzionaria.
O le cose non stanno affatto così? Si getterebbero le basi per la pace - quel
che regna adesso è solo non-guerra, stallo atomico proprio mettendo in
moto processi di produttiva trasformazione?

"Berlino, 2 gennaio 1981"


La storia di Cassandra come mi appare ora: Cassandra, la maggiore e la
preferita tra le figlie del re Priamo di Troia, persona vivace e ricca di
interessi sociali e politici, non vuole restare chiusa in casa, non vuole
maritarsi come la madre Ecuba, come le sue sorelle.
Vuole imparare a fare qualcosa.
Per una donna di rango l'unica professione possibile è quella di
sacerdotessa, di veggente (che d'altra parte è stata esercitata solo da donne
nella notte dei tempi: quando era appunto una donna la divinità suprema,
Ge, Gea, la dea Terra; una professione che gli uomini, a quanto sembra,
hanno conteso alle donne nel corso di lotte millenarie, e nella misura in cui
gli dei prendevano il posto delle dee della qual cosa è un esempio
convincente l'oracolo di Delfi che il dio, Apollo, assume infatti direttamente
da Gea).
E' questa la professione che le viene attribuita, un vero privilegio: ci si
aspetta che la svolga secondo la consuetudine.
Ma è proprio ciò che dovrà rifiutare - all'inizio perché pensa che, facendo a
modo suo, potrà servire meglio i suoi, ai quali è unita con vincoli profondi;
in seguito perché comprenderà che i suoi non sono affatto i suoi.
Un doloroso processo di distacco, nel corso del quale lei, poiché vaticina il
vero, dapprima verrà dichiarata pazza, poi verrà gettata nella torre
dall'amato padre Priamo.
Le visioni dalle quali è sopraffatta non hanno più niente a che fare con gli
oracoli di rito: lei vede il futuro perché ha il coraggio di vedere le reali
condizioni del presente.
Non ce la fa da sola.
Cassandra, tra i gruppi eterogenei che abitano il palazzo e i suoi dintorni -
eterogenei socialmente ed etnicamente -, allaccia rapporti con le minoranze.
A questo modo si mette consapevolmente fuori gioco, si sbarazza di tutti i
privilegi, si espone al sospetto, allo scherno, alla persecuzione: il prezzo
della sua indipendenza.
Nessuna autocommiserazione; vive la sua vita, anche durante la guerra.
Cerca di cancellare il verdetto che le grava addosso: essere ridotta a
oggetto.
Alla fine è sola, preda dei conquistatori della città.
Sa che per lei non c'è stata alternativa vivibile.
L'autodistruzione di Troia favoriva la distruzione da parte del nemico
esterno.
Sta per venire un tempo in cui domineranno brama di potere e violenza.
Ma non tutte le città del mondo a lei noto saranno distrutte.

"Berlino, 2 febbraio 1981"


Gran parte delle energie se ne va per far fronte alle notizie pazzesche
provenienti in specie dagli USA, per esempio l'esplosione di follia collettiva
al ritorno degli ostaggi dall'Iran.
Da noi cresce la lista di quelli che se ne vanno.
Lotta quotidiana per riuscire a lavorare, di piacere neanche a parlarne. - Ora
non c'è più bisogno di essere Cassandra: la maggioranza comincia a
percepire quello che verrà.
Un malessere che fa paura, che molti registrano come vuoto, come perdita
di senso.
In una nuova attribuzione di senso ad opera di istituzioni logore - cosa a cui
molti erano abituati - non c'è da sperare.
Andare a zig zag.
Ma non si vede via di scampo.
Ci si sente braccati.
L'Australia non è una via d'uscita.

"Meteln, 22 febbraio 1981"


I notiziari di entrambe le parti ci bombardano con la necessità di preparativi
di guerra, preparativi che da entrambe le parti sono definiti difensivi.
Fissare lo sguardo sul reale stato del mondo è psichicamente intollerabile.
Con una rapidità enorme, che in qualche modo corrisponde alla velocità
della produzione di missili da entrambe le parti, viene a cadere la
motivazione a scrivere, la speranza di avere qualche effetto.
A chi dire che è proprio la moderna società industriale, idolo e feticcio di
tutti i governi, a rivoltarsi nella sua assurdità contro coloro che l'hanno
edificata, che se ne servono, che la difendono: chi potrebbe cambiare tutto
ciò.
Di notte la follia mi prende alla gola.
Al mattino conferenza radiofonica di un economista occidentale che ora è
morto.
Le sue tesi: in tutti i paesi industriali la massa dei lavoratori è costretta a
fare un lavoro monotono che li distrugge in quanto persone, e ciò in nome
del benessere, la più sacra di tutte le vacche sacre del presente.
Senza il lavoro monotono alla catena di montaggio sarebbe impensabile
l'attuale benessere - che per parte sua soddisfa ampiamente falsi bisogni
indotti con l'arte della seduzione.
Grazie alla concentrazione di grandi masse nella produzione, le condizioni
di lavoro sono diventate per il singolo sempre più incomprensibili, sempre
più disumanizzate.
I sociologi sono giunti alla conclusione che gruppi di lavoro effettivi, dove
sia possibile per il singolo stabilire con una o più persone rapporti
facilmente praticabili, non debbano superare le dodici persone.
La burocrazia che si sviluppa dalla concentrazione di masse nei grandi
apparati, prende inevitabilmente decisioni inumane - non perché tutti i suoi
funzionari siano esseri inumani, ma perché la morale privata è accantonata
a favore delle leggi d'apparato. (E qui cominciano i dubbi di letterati,
moralisti, filosofi morali sulla possibile efficacia delle loro opere: il singolo
NON può introdurre nel processo sociale il suo punto di vista e i suoi
atteggiamenti, se essi sono in contrasto con quelli delle grandi istituzioni
del momento).
Secondo il conferenziere l'uomo era destinato a questo: a tendere al bene, a
servire il prossimo, a realizzare se stesso.
Tutto ciò è impossibile nella moderna società industriale.
Le cui tendenze principali sono: gigantismo, esagerata complessità, impiego
intensivo di capitali e violenza.
A suo parere queste tendenze non sono ineluttabili, ma d'altra parte nessuno
investe contro di loro fantasia, tecnologia rivolta allo sviluppo e denaro per
progetti alternativi.

"Meteln, 26 marzo 1981"


Lettura: Thomas Mann, Karl Kerényi: "Gesprach in Briefen" (Dialogo per
lettera).
Sensazione di invidia e di felicità di fronte alla crescita che sperimentano
entrambi, l'uno attraverso l'altro: loro fiducia nel carattere significativo di
un lavoro intellettuale incorruttibile e fiducia reciproca tra due lavoratori
intellettuali - fenomeni che, mai esenti da contestazioni, ora sembrano
appartenere a un'epoca lontana.
Quasi mi ha contagiata la sensazione che forse abbiamo ancora qualche
possibilità - sebbene anche i due autori di questo epistolario, che sono stati
scarsamente preparati dal loro modello di vita umanistico-borghese al
grottesco denso di orrori della Germania fascista -, sebbene anche il
romanziere e il filologo classico nutrano profondi dubbi su se stessi: non
solo, il che è ovvio, quando le tenebre calano sull'Europa coprendola quasi
del tutto fino alla seconda guerra mondiale, ma anche in seguito a causa
dell'amara delusione degli anni del dopoguerra: la scoperta che gli uomini
non vogliono imparare.
E' dell'umano che si parla, un dialogo affascinante.
Lo scrittore tedesco, già fuori, è vero, dei confini della sua patria, ma non
ancora in esilio, al lavoro sul romanzo di Giuseppe, e perciò costretto a
ricorrere alla conoscenza e all'intuizione nel campo della storia delle
religioni e della mitologia, e il mitologo ungherese, studioso delle religioni,
che dedica allo stimatissimo, come primo dono, l'idea dell'Apollo dai tratti
di lupo, oscuro, grazie al quale Mann, per propria ammissione, tocca le
radici della sua esistenza spirituale.
Ciò che li unisce: il grandissimo interesse per la più profonda realtà
psichica che è dietro il mito (e che presso i greci non significava altro che la
parola vera, il fatto, e più tardi: il fatto degli dèi).
Il fondo e lo sfondo oscuro del dio della luce dunque un'affermazione
chiaramente in contraddizione con ciò che si insegna su questo dio greco
elevato ad espressione massima del chiaro, dello spirituale e che lo toglie
dalla sterile antinomia tra la coppia di opposti apollineo e dionisiaco;
confermando anche l'ambivalenza che Thomas Mann, nel suo bisogno di
identificazione, sembra provare: Chi potrà dire dove abbiano la loro patria
originaria le storie: lassù o quaggiù?.
Nello stesso periodo in Inghilterra, angolo occidentale dell'Europa senza
che i due corrispondenti lo sappiano e senza che, ammesso che lo sappiano,
vi facciano riferimento - il marxista George Thomson lavora all'origine
totemica delle divinità greche: partendo cioè dal culto dei morti, un culto di
clan, dove i morti erano adorati come eroi e che aveva probabilmente
carattere totemico se lo si rapporta al ruolo importante degli animali e delle
piante nei rituali predeistici - un'ipotesi che, sembrando sconveniente, non
poteva esser presa in considerazione dalle autorità del tempo.
E' vero che si ammette, scrive Thomson, che Apollo Liceo è un dio-lupo.
Ma che questo dio-lupo sia stato davvero un lupo - quindi il simbolo
totemico di un clan -, è cosa così remota che non si può pretendere che il
lupo faccia capolino dalla finestra.
Se però accade, ci si imbatte, come Thomson, nel serpente, l'animale sacro,
che nei più arcaici come nei più tardi santuari di Apollo a noi noti era
nutrito con focacce al miele, ma che già, millenni prima, era adorato nelle
case minoiche sull'altare domestico nella forma della dea dei serpenti, la
signora della casa.
Questo perché esso incarna lo spirito dei morti, ne rappresenta il doppio e,
mutando pelle, appare simbolo della loro vita eterna: Con l'adorazione del
serpente, un simbolo generalizzato della reincarnazione sostituì il totem del
clan.
Decine di millenni prima l'uomo, inserito nell'orda primigenia e nell'arcaico
ordine gentilizio, raccoglitore e cacciatore primitivo e insicuro, quando
ancora si identificava con l'animale totemico o con la pianta totemica e
creava il tabù: non mangiare il totem!, raffigurò il comportamento
dell'animale totemico all'interno di un rituale mimetico, di un atto di magia,
in principio, forse, per poter catturare l'animale esso non è stato sempre
intoccabile, ritiene Thomson, può darsi che una volta sia stato addirittura
l'unica o la principale fonte di nutrimento del clan -: poi forse per
concentrare tutte le energie nella caccia, una tecnica illusoria che avrebbe
dovuto compensare le carenze della tecnica reale.
Le argomentazioni di Thomson a proposito delle arcaiche condizioni sociali
in base a cui era attraverso il matrimonio che gli uomini entravano nel clan
delle donne - a proposito cioè della struttura matrilineare - e la sua sintesi su
come la magia del totem, probabilmente comparso nel momento decisivo in
cui l'uomo si staccò dal regno animale, rappresenti la matrice originaria di
tutta la cultura umana, ci riportano direttamente al dialogo Mann-Kerényi.
Giacché la strada che porta alle Madri impegna entrambi.
Ed entrambi sono tormentati dalla loro coscienza intellettuale, ma in
particolare lo scrittore per il suo mitologizzare, da lui posto in connessione
con la sfera materna della natura; uno scrupolo che egli spiega allo
scienziato profondamente partecipe il 20 febbraio 1934 da Kusnacht-
Zurich:

Nella odierna letteratura europea serpeggia una specie di rancore contro


l'evoluzione del cervello umano, che mi è sempre sembrato una snobistica e
stolida forma di autonegazione.
Anzi, mi consenta di confessare che non sono amico del... movimento di
ostilità allo spirito e all'intelligenza.
Assai per tempo l'ho temuto e combattuto, perché ne avevo visto tutte le
conseguenze brutali e antiumane, prima ancora che si manifestassero...
Quel ritorno dello spirito europeo alle realtà supreme, alle realtà mitiche... è
in verità una grande e buona causa nella storia dello spirito, e io posso
vantarmi di avervi parte, in certo qual modo, con la mia opera.
Ma confido nella Sua comprensione se Le dico che alla "moda" irrazionale
si accompagna spesso la smania di sacrificare, di buttare maliziosamente a
mare conquiste e principii che non solo rendono europeo l'Europeo, ma
persino uomo l'uomo.
Si tratta di un ritorno alla natura assai meno nobile di quello che preparò la
Rivoluzione francese.

Cosa degna di riflessione, anche oggi: la critica all'unilateralità del


razionalismo maschile corre il rischio di essere male interpretata come
irrazionalismo, come ostilità verso la scienza, e perdipiù di essere male
utilizzata; questo particolarmente in epoche di restaurazione (la via che
porta alle Madri come ri-caduta nel risentimento, come fuga dall'analisi
della situazione, come idealizzazione di condizioni sociali primitive, magari
come incubazione del mito di sangue-e-terra): e ciò ripropone di nuovo la
questione di che cosa, partendo dall'oggi e dai presupposti di questa civiltà,
possa essere (ancora e soprattutto) considerato progresso, visto che è quasi
giunta alla fine la via maschile che esaspera tutte le invenzioni e i rapporti e
i contrasti fino a portarli al punto della massima negatività: un punto che,
poi, non offre più alcuna alternativa.

"Meteln, giovedì 2 aprile 1981"


Un giovane, preda di un folle amore per un'attrice che non ha mai visto, a
compensazione dell'amore non corrisposto attenta alla vita del presidente
americano.
In televisione si vede uno degli accompagnatori del presidente, vicinissimo
a lui e con una valigetta nera.
Costui, dopo l'attentato, si precipita nella limousine presidenziale blindata
pronta a partire.
La valigetta nera, si apprende il giorno dopo, contiene il codice necessario
al presidente per lanciare l'attacco atomico.

"Meteln, 3 aprile 1981"


Paura sotterranea della minaccia delle Madri - essa traspare anche da Mann-
Kerényi, e cioè quando Kerényi, menzionando l'epiteto la nera per la dea
greca Afrodite, cita D. H. Lawrence: She is the gleaming darkness, she is
the luminous night, she is goddess of destruction, her white cold fire
consumes and does not create.
Dalla spiegazione che segue mi pare risulti che Kerényi identifichi il
femminile con la natura essenzialmente muta, e lo spirito invece, e anche
l'umanità cosciente con il maschile.
Non senza divertimento leggo come egli assicura al suo stimatissimo
corrispondente che una delle cose più grandi e più umane che gli siano
riuscite nelle "Storie di Giacobbe" è di farci avvertire quanto sia
spaventevole per un uomo l'aver sprecato il proprio amore con la "donna
sbagliata".
L'atrocità micidiale, per una donna, di aver donato il proprio amore
all'uomo sbagliato: Ingeborg Bachmann, il frammento di "Franza" (2).
Ma come arriva Kerényi a condividere la caratterizzazione, secondo
Lawrence, di un'Afrodite dea della distruzione, il cui bianco fuoco freddo
divora ma non crea? Alludendo forse alla tradizione fantastica presente in
Esiodo, secondo cui Afrodite, la nata-dalla-spuma (o dal mare?) sarebbe
stata plasmata dalla carne immortale dei genitali del più vecchio tra gli dèi,
Urano, che il figlio Crono aveva castrato su istigazione della Madre (Terra)
Gea, che era stata violentata? Mentre invece secondo Thomson, che si
occupa dell'antica magia greca delle erbe, il mirto e il giglio, fiori che sono
sacri ad Afrodite, erano utilizzati nell'assistenza al parto: sicché dietro la
dea dell'amore Afrodite, come dietro Era, la consorte di Zeus, come dietro
Artemide e Demetra, traluce sempre un principio creativo, cioè l'antica dea
cretese del parto Eileithya; questa, che aveva anch'essa come simbolo la
colomba, viene probabilmente dall'Anatolia, dove è chiamata Cibele: ci
sono terracotte cipriote con l'Afrodite dalla testa di colomba.
E qui il mito confina con il ciclo delle leggende troiane.
Può darsi che l'Afrodite-Astarte ittita sia entrata nel mito di Elena, una
variante del quale racconta che Elena non venne mai a Troia insieme a
Paride, ma lo incontrò in un tempio di Afrodite a Cipro dove probabilmente
era una prostituta di Afrodite, come viene descritto da Erodoto:
E' d'obbligo che ogni donna del paese, una volta durante la vita,
postasi nel recinto sacro ad Afrodite, si unisca con uno straniero... se ne
stanno le donne sedute nel sacro recinto di Afrodite con una corona di corda
intorno al capo: sono in gran numero, perché mentre alcune sopraggiungono
altre se ne vanno.
Tra le donne si aprono dei passaggi, delimitati da corde e rivolti in tutte le
direzioni, per i quali s'aggirano i forestieri e fanno la loro scelta.
Quando una donna si asside in quel posto, non torna più a casa se prima
qualche straniero, dopo averle gettato del denaro sulle ginocchia, non si sia
a lei congiunto all'esterno del tempio.
Nell'atto di gettare il denaro, egli deve pronunciare questa frase: Invoco per
te la dea Militta.
Militta è il nome che gli Assiri danno ad Afrodite.

Poi fuggì, la vecchia Elena orientale, in Egitto, forse rapita da Paride che
però, secondo una tradizione, fu prima fatto prigioniero dal re Proteo, e poi
fu rispedito a Troia; mentre lui, Proteo, il re egiziano, si tenne la bella
Elena, sicché la guerra di Troia fu combattuta per una chimera: un
personaggio inventato dai poeti. - A tale confusione, a tale intreccio quasi
inestricabile, a profondità sempre più profonde conduce la via che porta alle
Madri.
La divisione del lavoro tra dee estremamente diversificate, che si
consolidano in un prodotto finito solo nelle statue greche, rispecchia lo
sviluppo della cultura umana.
Suscitare amore diventa ora la sorte (moira) di Afrodite.

Afrodite, troneggiante nel fulgore, immortale,


figlia di Zeus, tessitrice di inganni, ti scongiuro:
non tormentarmi con affanno e grave pena,
oh venerabile, il cuore.
Saffo nella sua "Ode ad Afrodite", intorno al 600 avanti Cristo,
secondo alcuni la più antica testimonianza della lirica occidentale.
L'amore che la poetessa vuole ottenere con l'aiuto della sua dea, è l'amore di
una donna.
Gli antichi poeti, anche di sesso maschile (Omero, Esiodo), potevano
ancora invocare senza imbarazzo l'assistenza di divinità femminili.
Il tardo Lawrence si sente minacciato dalla dea dell'amore.

"Meteln, 7 aprile 1981"


Cassandra è vissuta tra due catastrofi: l'eruzione del vulcano di Thera-
Santorino intorno al 1500 e l'invasione dei dori (popolazioni nordiche e
marinare) intorno al 1200.
Tra le due, circa a metà del dodicesimo secolo, la sua catastrofe personale:
la fine di Troia.
Ci sarebbe da pensare a uno slittamento progressivo - o anche rapido e
violento della morale nell'area mediterranea: a svantaggio dei pacifici
minoici di Creta, dediti al commercio, e a vantaggio dei brutali principi
achei, che vivevano di rapina: come li descrive Omero.
C'è stato davvero ciò che alcuni, forse inseguendo un miraggio,
suppongono: una sorta di pax cretiensis? Un ordinamento pacifico nel
Mediterraneo orientale, distrutto poi dagli achei? Ciò avrebbe posto
Cassandra nella situazione di chi è costretta a separarsi da un'utopia che non
ha più valore, d'altro canto senza riuscire a trovare un luogo reale dove
vivere.
Si può parlare, oggi, di psicologizzazione del mito? Thomas Mann, nel
1941, in una delle lettere a Kerényi:

... e quale dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto alla
psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa
combinazione poiché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano
il mito agli oscurantisti fascisti e trasfunzionarlo in umanità.
Questa unione rappresenta per me addirittura il mondo avvenire,
un'umanità benedetta dall'alto, dallo spirito, e dal Profondo che è sotto di
noi.

Un progetto-utopia in nuce.
Cosa può significare ciò oggi, quando quelli che progettano la distruzione
di interi continenti non sono, in base al senso comune, né oscurantisti né
fascisti, e nemmeno si danno la pena di adattare l'Olimpo germanico o
romano ai loro fini? D'altronde anche loro hanno bisogno di miti, nel senso
che frattanto ha assunto la parola: nel senso di falsa coscienza.
Il loro mito sarebbe questo: la pace che stiamo vivendo è gravida di futuro.
E arriviamo all'anno 1947 e a Thomas Mann, per il quale, come egli ha
predetto nel 1941, l'esilio non è più uno stato d'attesa in previsione del
ritorno in patria, ma paradossalmente è diventato una sorta d'anticipazione
di una condizione che sarà più generalizzata in futuro, e che prelude cioè a
un dissolvimento delle nazioni e alla unificazione del mondo - a Thomas
Mann, ancora a Pacific Palisades, California, ma alle prese adesso con il più
personale, sotto vari aspetti il più arrischiato e per lui il più eccitante dei
suoi libri, il romanzo di Faust e, all'interno di questo, con la composizione
della cantata sinfonica "Lamentatio doctoris Fausti".
Ebbene, egli scrive al filologo classico e all'umanista, che però non si
chiama Zeitblom, ma continua pur sempre a chiamarsi Kerényi,

il lamento è un soggetto di espressione ben attuale, non Le pare? La


situazione è brutta...
Io credo però in fondo che, tutto sommato, l'umanità nonostante tutte le
apparenze contrarie, è stata spinta un bel passo avanti.
E si può dire che è una gatta resistente.
Nemmeno la bomba atomica mi fa stare seriamente in pensiero per lei.
Non si mostra resistente in noi stessi? Quale strana leggerezza, o quale
beata fiducia è la nostra, se continuiamo a creare OPERE! Per chi? Per
quale avvenire? Eppure, un opera, sia pure frutto della disperazione, non
può avere come sostanza ultima altro che l'ottimismo la fede nella vita...
come d'altro canto anche la disperazione è una cosa singolare: reca già in
se stessa la trascendenza della speranza.

Nostalgia di leggerezza e di beata fiducia.


Di disinvoltura e di spontaneità.
Il presupposto sarebbe: dimenticare ciò che c'è.
O liberarsene.

"Meteln, domenica 26 aprile 1981"


Notizia: nella città olandese di Groningen si è svolta una conferenza di
ricercatori per la pace, scienziati di varie discipline, medici, ex alti ufficiali
della NATO: tutti i partecipanti si sono detti molto scettici sul destino
dell'Europa perché, a parere dei convenuti, gli USA, intrappolati nell'idea
che grazie allo sviluppo della tecnologia bellica la prossima guerra si
potrebbe vincere pur essendo una guerra atomica, di questa prossima guerra
tenderebbero a fare teatro l'Europa.
Sarebbe già messo in conto lo sterminio di centinaia di migliaia di europei e
di russi: un indebolimento dell'Unione Sovietica senza dover temere perdite
a propria volta.
All'Europa non resterebbero più di tre o quattro anni, se non comincia a
praticare una politica completamente diversa.
Una notizia che modifica il mio sguardo.
Tutti gli oggetti che si fondono intorno a me nello spazio di un secondo: la
natura che si dissolve in cenere nello stesso istante in cui mi dissolvo io.
Ma so già che anche in questi tre o quattro anni ci adatteremmo a vivere.
E già mi odio per come assurdamente calcolo dentro di me ciò che fino ad
allora riuscirei ancora a finire: odio chiunque continuerebbe a vivere e a
lavorare malgrado questa notizia, e nello stesso tempo lo so: anche di
quest'odio di sé chi esercita il comando ha assoluto bisogno.
Sapendo che coloro che sanno non hanno mai potuto far nulla contro la fine
imminente della loro cultura/civiltà; sapendo che noi europei negli ultimi
decenni, di fronte alle guerre combattute in altri continenti e che per i
popoli interessati erano una minaccia di sterminio, siamo stati a guardare;
sapendo dunque che gli altri continenti costituiranno il mondo che starà a
guardare.
E che ciò è pensabile e possibile.
Invece di precipitarci in strada urlando, noi sediamo qui, dice T., il pranzo
ci è piaciuto e conversiamo comodamente.
Australia: non dovremmo perlomeno cercare di salvare i bambini?dice uno
che è anche lui molto giovane - Ma chi vorrebbe starsene in margine a
guardare come distruggono l'Europa? gli obietta un altro.
E sopravvivere? M. chiede se in qualche modo non facciano ben sperare
quei gruppi e quelle correnti che non vogliono più avere a che fare con
sistemi distruttivi; che si sottraggono a istituzioni diventate deleterie; che
non si sono impegolati in inutili lotte contro di esse, ma che da esse hanno
cercato di prescindere: hanno, cioè, cercato di vivere diversamente.
Mi sento dire sì, sì, e penso ad alta voce dentro di me che per mettere fuori
gioco gradualmente, senza violenza la tendenza autodistruttiva degli attuali
mega-sistemi, ci vorrebbe tempo, e non ne abbiamo.
Forse, dice M., dovremmo cominciare a fare come i sudafricani quando
volevano liberarsi dal regime razzista: sono andati fino in fondo alla
questione e sono arrivati ad ammettere: la nostra è una situazione disperata.
Di qui, tuttavia, può nascere forse la libertà.
Ma anche la rassegnazione, dice T., e inoltre: il regime razzista, per quanto
potente possa essere, non è paragonabile a questa calotta che chiamiamo
annientamento atomico. - E non a caso è adesso che la cosa si fa molto
pericolosa, dice E.: visto che le ideologie non fanno più presa; visto che i
governati si interessano sempre meno alle dichiarazioni pubbliche dei
governanti...
Troviamo che l'anticomunismo è l'unica cosa che continua a far presa nella
maggior parte dei paesi occidentali.
Ma allora, chiede C., pensano che la liberazione passi per l'annientamento?
- Per la prima volta penso la frase: Hitler ci ha raggiunti.
La tengo per me.
Noi, G. ed io, siamo gli anziani del gruppo.
Più dei giovani siamo oppressi dalla consapevolezza: non siamo noi i primi.
- O è una speranza? Leggo ad alta voce qualche riga dal diario di Stefan
Zweig.
Data: 28 maggio 1940, quando ormai è cominciata l'invasione della Francia
da parte delle forze armate tedesche (Zweig vive in Inghilterra, dove non
accadeva nulla che preparasse il paese a una possibile invasione; e dove il
22 maggio annota: Si risvegliano i vecchi sentimenti da Cassandra.):

Se questa guerra va avanti, diventerà la cosa più orribile che gli uomini
abbiano mai conosciuto, la totale eliminazione dell'Europa.
Eppure io - per indolenza, coraggio o fedeltà che sia - non ho nessuna
voglia di fuggire... - Non si dovrebbe crepare insieme all'Europa?...
Noi, che viviamo dei e nei vecchi concetti, siamo perduti; ho già preparato
una certa fialetta.

Come insegnare ai giovani la tecnica per vivere senza alternative, per vivere
comunque? - Quando è incominciato? ci chiediamo.
Era inevitabile questo corso degli eventi? Ci sono stati incroci e svolte dove
l'umanità, voglio dire: l'umanità europea e nordamericana, gli inventori e gli
esponenti della civiltà tecnica avrebbero potuto prendere altre decisioni il
cui corso avrebbe potuto essere non autodistruttivo? Furono poste le basi, ci
chiediamo, dello sviluppo successivo proprio con l'invenzione delle prime
armi - per la caccia -, usandole contro i gruppi in concorrenza per il cibo,
passando dai gruppi strutturati in modo matriarcale e di scarsa efficacia
economica a quelli patriarcali e di maggiore efficacia? Saltando oltre ciò
che è proporzionato all'esperienza umana? La radice della distruttività si
annida forse nella caccia ai prodotti, a un numero sempre maggiore di
prodotti? Se ci fossimo orientati verso altri valori, i nostri paesi avrebbero
avuto una qualche possibilità di ritirarsi da questa competizione?
M. dice che molto dipende, secondo lui, dal fatto che abbiamo vissuto in
modo così miope da pretendere tutto subito, da pretendere tutto per noi -
anche quello che non avevamo seminato.
Il cristianesimo, dice, per lui diventerà sempre più importante, perché sente
che noi uomini d'oggi viviamo senza trascendenza.
Io dico che, anche se condivido questa frase, essa tuttavia non riesce a
sciogliere le mie riserve nei confronti del cristianesimo; le quali negli ultimi
tempi a causa del mio lavoro si sono ulteriormente alimentate, essendomi
chiarita che le religioni semitico-cristiane hanno assegnato per secoli alla
donna il ruolo di schiava; e che proprio queste religioni hanno fornito lo
sfondo ideologico per quella disciplina, quella operosità, quella
subordinazione e quell'abnegazione necessarie al sistema della manifattura
e della fabbrica, al primo capitalismo. - Parliamo delle parole che servono a
preparare la guerra: non sono pericolose solo quelle che uno riconosce
subito per guerrafondaie, dice R. Potrebbero diventare pericolose le parole
più tutelate, libertà da una parte, socialismo dall'altra, se fossero usate come
giustificazione per preparare la guerra.
Allora è proprio S. a dire, con meraviglia di tutti noi, che si domanda cosa
resta veramente da fare a un paese che sa con assoluta certezza di non
potersi difendere dal tipo di minaccia che lo sovrasta.
Di noi non resterà niente, dice.
In una situazione del genere, esiste un valore più alto della vita? E si
interroga sullo slogan che rovescia quello tedesco occidentale e che si sente
a volte in questi giorni: meglio rosso che morto.
Che tipo di pensiero radicale si esige oggi da noi? Quale contenuto
dovremmo dare alla parola rosso per preferirla a qualsiasi altra cosa, perfino
alla vita di tutti quelli che verranno dopo di noi? O le alternative sono ben
altre da tempo?
Che la gente come lui, penso, si spinga fino a domande come queste.
Mentre A. dice che non c'è niente da fare.
Noi, che ci definiamo liberi scrittori, non sappiamo niente di com'è minato e
diviso chi ha un impiego fisso.
A. dice che lui è UNA specie d'uomo durante il lavoro in istituto; un'altra
specie in assemblea; e una terza nel privato, la sera, quando torna a casa.
E che nelle sue tre vite senza connessione tra loro, usa anche diverse specie
di parole: quelle della scienza, quelle della politica, quelle del privato - e
solo queste ultime considera veramente umane.
A suo parere, ciò di cui discutiamo, ciò che ci auguriamo, sarebbe
un'utopia: a quale parte di quest'uomo diviso vogliamo rivolgerci con la
nostra visione della pace, che d'altra parte richiede anche coraggio? O paura
sì, nel migliore dei casi.
Perché già la paura sarebbe - quando non si tratta della paura nevrotica del
nulla - una manifestazione dietro cui c'è una persona.
A. invece vede soltanto che la persona sta scomparendo. - Ma questo,
obietta E., riguarda anche noi liberi scrittori: pensiamo in modo diverso da
come parliamo, parliamo in modo diverso da come scriviamo: quanto a lei,
dato che ha capito che la censura e l'autocensura sono fomentatrici di
guerra; dato che si è resa conto che non abbiamo il tempo di rimandare a
più tardi i nostri veri libri - lei ha smesso di parlare e scrivere con lingua
biforcuta...
Parliamo fino a notte.
Un'utopistica assemblea.
Immagino: centinaia, migliaia, milioni di simili assemblee, distribuite sul
nostro continente...

"Meteln, 27 aprile 1981"


Voglio raccogliere ciò che rende me, noi, complici dell'autodistruzione; ciò
che fa me, noi, capaci di opporci ad essa.
Piaceri quotidiani: la luce del mattino, che irrompe proprio dalla piccola
finestra attraverso cui, dal letto, posso guardare fuori.
Uova fresche a colazione.
Il caffè.
Stendere al vento che viene dal mare il bucato profumato.
Una lettura sui miei minoici, che riesce a ricomporre i molti dettagli
confusamente accumulati nella testa durante le ultime settimane.
La buona minestra di mezzogiorno.
Un breve sonno.
Gioia per una piastra elettrica che riesco finalmente ad acquistare e che ci
rende indipendenti dalle bombole di gas propano.
Una commessa gentile.
Nel negozio di antiquariato la giovane donna che con cautela fa girare a
lungo tra le mani una coppa di vetro azzurro, così che i riflessi di luce le
cadano sul viso. - Niente diminuisce il mio piacere, sebbene non mi
abbandoni il pensiero dei tre o quattro anni che forse ci restano.
A che scopo la piastra? Se non ci sarà più corrente, niente da cucinare,
nessuno che mangi? A che scopo ancora la bellezza, se essa è già data per
spacciata? A che scopo altri libri in aggiunta ai molti che non ho ancora
letto? Le foto dell'anno scorso, che finalmente ho fatto sviluppare.
I visi dei bambini mi fanno male.
La sera gusto del buon formaggio.
Il vino rosso.
Ora la stanchezza.
Scrivere è anche un tentativo contro il freddo.

"Meteln, 28 aprile 1981"


E in che senso è anche un tentativo per abituarmici? Il memento mori della
dottrina cristiana significa forse anche questo? Gli è affine? Ogni giorno
cerco più volte di figurarmi, sia pure solo per qualche secondo, che aspetto
avrebbe l'annientamento, come sarebbe (sarà) al tatto.
Perché solo per qualche secondo? Perché le immagini interiori sono
insopportabili? Anche.
Ma soprattutto perché un timore radicato in profondità mi proibisce di
attirare la sventura lavorando con l'immaginazione in modo troppo intenso,
troppo preciso.
D'altronde: fu proprio questa la colpa di Cassandra, a causa della quale,
come lei avverte con chiarezza, verrà a buon diritto punita (il che poi non
significa altro che subire in forma aggravata la sventura dei suoi
compatrioti): essere riuscita cioè, con le sue profezie, solo a chiamare la
sventura.
Fino a quando non si può cambiare niente, e soprattutto se stessi, non è
CONSENTITO crederle, è una legge.
Giacché cosa vuole Cassandra, quando prima dell'inizio della guerra
prorompe in alte grida di dolore? Che i troiani, sulla base di una
premonizione, restituiscano Elena, la moglie rapita di Menelao? Potrebbero
farlo nella poesia di Omero forse - e allora verrebbe a cadere l'occasione -,
ma nella realtà no; dato che essi controllavano l'accesso all'Ellesponto ed
era appunto il libero accesso all'Ellesponto che gli achei volevano:
probabilmente sarebbero stati massacrati comunque.
Oppure Cassandra lamenta proprio questo: che la sua gente non ha
alternative? E che lei è la sola a saperlo? Giacché, altrimenti, come
potrebbero combattere?
L'immagine che in quest'attimo vedo dal mio abbaino vorrei vederla
nell'attimo della mia morte: il cielo che domina il paesaggio, uno sfondo
fatto d'azzurro.
Nuvole a cumulo.
Sopra, in un altro strato, strisce di nuvole.
L'orizzonte basso, interrotto da cime di alberi il cui effetto non è più quello
grafico dei rami spogli, bensì quello pittorico: tondeggianti, d'un verde
chiaro.
Le innumerevoli sfumature di verde che, sotto il celeste, danno forma
all'immagine: dal verde carico del nostro prato - che da alcuni giorni è
punteggiato dal tarassaco giallo - al verde intermedio dei vicini cespugli
fino al verde tenerissimo di quegli alberi sullo sfondo.
Dominante però è il ciliegio in mezzo al prato, non ne conosco un altro
uguale.
Continua a essere ricoperto di fiori, nonostante il freddo pungente delle
ultime settimane.
A sinistra del mio campo visivo, sotto la betulla, la rossa casa da libro
illustrato dei P. Indescrivibile la luce soave, serena. - Nel pomeriggio,
durante il sonno, di nuovo il fracasso dei carri armati che passano sulla
strada per M. Immediatamente vado a piantare gli ultimi semi di fiori per
quest'anno.
Come si sarà comportata la gente di Troia durante l'assedio? Sarà stata certo
una decennale guerra navale, ma non, contemporaneamente, uno strenuo
assedio decennale.
Oltre a Paride, che a causa di una profezia nefasta viene dato via da
bambino e, invece di essere ucciso come era stato ordinato, viene allevato
da un pastore, Cassandra ha ancora molti altri fratelli, tra i quali Eleno.
Lui, suo fratello gemello, è stato insieme con lei, quando erano bambini, nel
boschetto di Apollo, i serpenti hanno loro leccato le orecchie e così hanno
conferito a ENTRAMBI il dono della divinazione; i serpenti, gli attributi di
Gea, l'antica dea madre.
Questo dunque è sicuramente lo strato più arcaico della tradizione, e
soltanto dopo subentra l'altro strato, cioè quello secondo cui Apollo ebbe
desiderio di Cassandra dopo averle conferito il dono della divinazione.

"Meteln, 29 aprile 1981"


Il mio intento col personaggio di Cassandra: ricondurla dal mito alle
coordinate (immaginarie) sociali e storiche.
Televisione: trasmissione sull'immagazzinamento di gas tossici americani
nella Repubblica Federale Tedesca.
Il gigantesco magazzino nei pressi di Pirmasens.
In una zona disabitata di uno degli stati federali USA sarebbe già
fuoriuscita una volta una piccola quantità di gas e avrebbe sterminato
migliaia di pecore.
Si vedono gli animali paralizzati che avanzano a fatica strisciando.
Nei depositi sotterranei del veleno tengono conigli come strumenti di
misura... (Dove sta la differenza con le vittime sacrificali degli antichi? Il
progresso, quando passarono dai sacrifici umani a quelli animali...).
Negli USA starebbero per costruire un nuovo missile a gas tossico.
Andrà a far parte, dice l'americano, del teatro potenziale di guerra, l'Europa
appunto.
Quindi le azioni di protesta degli evangelici, ai quali adesso i politici
obiettano: tutto sommato il discorso della montagna non può guidare
l'azione politica d'oggi.
Una giovane donna: non vorrei che i miei figli un giorno mi chiedessero -
come noi chiediamo ai nostri genitori e nonni -: perché non avete detto
niente, a suo tempo. - E' nato un tipo umano simile o uguale all'est e
all'ovest, un esile speranza.
Dato che ai tempi di Priamo le unità su cui i re governavano erano più
piccole (e dato che i re godevano di una tutela supplementare dovuta alla
loro divinizzazione), forse essi non erano separati dalla normale vita
quotidiana in maniera così totale come i politici d'oggi, i quali prendono le
loro decisioni annientatrici non sulla base di osservazioni personali, non
sulla base dell'esperienza sensibile, ma secondo relazioni, schede,
statistiche, informazioni dei servizi segreti, film, consultazioni con altra
gente ugualmente isolata, secondo il calcolo politico e le necessità della
conservazione del potere.
I quali non conoscono le persone che espongono all'annientamento; i quali
per inclinazione o per allenamento sopportano l'atmosfera gelida al vertice
della piramide; ai quali la solitudine del potere offre quella tutela che la vita
quotidiana a contatto di pelle e di gomito con le persone normali non ha
dato e non potrebbe dare loro.
Banale, ma è così.
L'immagine della realtà che viene attribuita a questi politici, plurifiltrata,
costruita per i loro scopi e astratta.
E' un compito realistico abrogare il principio di realtà gerarchico-maschile -
o è uno sforzo certamente necessario, ma poco realistico? E fino a che
punto il letterato, la letteratura, può continuare ad appoggiare questo
principio di realtà, allontanandosi totalmente dall'esperienza sensibile della
vita quotidiana?
Esercitazioni di protezione antiaerea a X. Le finestre vengono incollate con
strisce di carta, i generi alimentari sono impacchettati in buste di plastica,
bisogna far scorrere l'acqua nella vasca da bagno e poi coprirla.
La parola protezione antiaerea mi risveglia una forte sensazione da vigilia
di guerra che risale al 1939.
La giovane donna, un'attrice, che per l'orrore di questa sensazione, da lei
provata per la prima volta, vuole mettere insieme con testi sulla pace uno
spettacolo per bambini, per la classe del suo bambino.
L'uomo che si sta restaurando una casa disabitata nel suo vecchio paese
natale, vi trascorre i fine settimana e ha incominciato a occuparsi degli
animali e delle piante della zona.
Prende nota dei vecchi alberi isolati e vuole farli mettere sotto la protezione
delle leggi a tutela della natura.
Ora si oppone al progetto, nel quadro della bonifica, di coprire le piccole
pozze d'acqua che danno anch'esse un'impronta a questo paesaggio e che
accolgono dozzine di specie di uccelli.
Su questi piccoli stagni ha fatto covare una specie rara di uccello: un
avvenimento sensazionale per questa zona.
Lo abbiamo appena incontrato presso le pozze di fronte alla casa di
Brehmer, ci ha avvisato di non sostare troppo a lungo ai bordi, perché gli
uccelli non avevano ancora finito di covare e le uova avrebbero potuto
raffreddarsi se i covatori, per paura di noi, avessero abbandonato per troppo
tempo i nidi.
Ai margini del paese incontriamo i ragazzi di Sch., i quali intendono portare
al nostro uomo un uovo di cigno, che tengono con cautela nel cavo della
mano: dei trattoristi l'hanno trovato durante la lavorazione del campo e
glielo mandano.
Lui saprà cosa farne.
Stiamo a lungo chini sull'uovo, è molto grosso, proporzionato, di un
grigioverde chiaro, bello, per metà ricoperto da uno strato di cera.
Non si è ancora raffreddato, dice il ragazzo, si può certamente salvare.

"Meteln, 30 aprile 1981"


Ieri le immagini che gli americani hanno ripreso durante la liberazione del
campo di concentramento di Dachau.
Mucchi d'ossa.
Mucchi di cadaveri.
Tedeschi di Dachau che gettano energicamente i cadaveri sui carri dei
contadini per portarli alla sepoltura.
Facce di americani ben nutriti sotto gli elmetti - figure di un altro mondo.
Questa costellazione: vinti e vincitori, umiliati e trionfatori - costellazione
fondamentale nella storia dell'umanità; la conquista di Troia è uno dei primi
casi a noi noti - a sua volta già una concentrazione per fini artistici di
dozzine di conquiste di città di allora.
Ma che i vincitori si imbattessero in testimonianze come quelle di
Auschwitz, come quelle di Dachau questo probabilmente è stato un caso
unico.
Una parola come inumano non dice nulla, poiché occulta piuttosto che
svelare.
La sordità dei sentimenti e l'industriosità da formiche che caratterizzano
questi misfatti di cieco furore, non sono anche i segni di una tendenza
all'autoannientamento che deriva da una cattiva incapacità di agire
ristagnata a lungo? Una povertà d'azione come quella a cui furono costrette
per ampi periodi della storia tedesca le forze progressiste, non conduce di
necessità a misfatti? Spezzare la coppia di opposti povero d'azione e ricco
di idee?

"Meteln, 1 maggio 1981"


Per impedire le guerre bisogna anche che la gente di volta in volta eserciti,
nel proprio paese, la critica nei confronti di ciò che nel proprio paese non
va.
Ruolo dei tabù nella preparazione della guerra: incessantemente,
smisuratamente cresce il numero dei segreti ignobili.
Come diventano insignificanti tutti i tabù della censura e le conseguenze
della loro trasgressione, quando è la vita a essere minacciata.
Sulla realtà.
Il fatto insensato che la letteratura di tutti i paesi industrializzati e
civilizzati, quando è realistica, parla una lingua completamente diversa da
quella di qualsiasi comunicazione pubblica.
Come se ogni paese esistesse due volte.
Come se ogni abitante esistesse due volte: una volta in quanto se stesso e in
quanto possibile soggetto di una rappresentazione artistica; l'altra in quanto
oggetto della statistica, della pubblicistica, della pubblicità, dell'agitazione e
della propaganda politica.
Il ridurre-a-oggetto: non è questa la fonte principale della violenza? La
feticizzazione, all'interno della comunicazione pubblica, di uomini e
processi vivi e contraddittori, fino a cristallizzarli in pezzi prefabbricati e
quinte teatrali: morti essi stessi, e che uccidono gli altri.
In che senso esiste realmente una scrittura femminile? Nel senso che le
donne, per motivi storici e biologici, sperimentano una realtà diversa da
quella degli uomini.
Nel senso che sperimentano la realtà in modo diverso dagli uomini e a ciò
danno espressione.
Nel senso che le donne da secoli non fanno parte di chi domina, ma di chi è
dominato, sono cioè oggetti di oggetti; oggetti di secondo grado, oggetti
abbastanza spesso di uomini che sono a loro volta oggetti, e dunque, stando
alla loro condizione sociale, appartenenti in ogni caso a una cultura di
second'ordine.
Nel senso che non cercano più di integrarsi nell'aberrazione dei sistemi
dominanti, smettendo così di logorarsi.
Nel senso che, scrivendo e vivendo, puntano all'autonomia.
E poi incontrano uomini che puntano anch'essi all'autonomia.
Le persone, gli stati e i sistemi autonomi possono aiutarsi reciprocamente;
non devono combattersi come accade a chi per incertezza e immaturità
interiore esige continuamente limiti e atteggiamenti intimidatori.
Cosa ne verrebbe fuori se uno provasse una volta a sostituire gli uomini con
le donne nei grandi modelli della letteratura mondiale? Achille Eracle
Odisseo Edipo Agamennone Gesù Re Lear Faust Julien Sorel Wilhelm
Meister.
Donne attive, violente, che perseguono la conoscenza? Scivolano attraverso
il reticolo della letteratura.
E questo è chiamato realismo.
L'intera esistenza della donna fino ad oggi è stata non realistica.

"Meteln, 7 maggio 1981"


Ma: di che cosa si alimenta il mio disagio alla lettura di tante pubblicazioni
- anche nel campo dell'archeologia, della storiografia antica -, che si
pongono sotto la definizione di letteratura femminile? Non solo della mia
esperienza dei vicoli ciechi cui sempre conduce il pensiero settario, che
esclude punti di vista diversi da quelli sanzionati dal proprio gruppo;
soprattutto provo un vero orrore per quella critica del razionalismo che
finisce in un irrazionalismo sfrenato.
Non è solo un fatto tremendo, umiliante e scandaloso per le donne che nel
corso dei millenni il contributo femminile ufficiale e diretto alla cultura in
cui viviamo sia stato praticamente inesistente - esso costituisce
propriamente il punto debole di questa cultura, a partire dal quale essa
diventa autodistruttiva: vale a dire la sua incapacità di maturare.
Ma non si acquista maturità se alla follia maschile si sostituisce la follia
femminile, e se le conquiste del pensiero razionale, solo perché opera di
uomini, vengono gettate a mare dalle donne in nome dell'idealizzazione di
stadi pre-razionali dell'umanità.
La stirpe, il clan, sangue e terra: non sono questi i valori ai quali possono
collegarsi l'uomo e la donna di oggi; proprio noi dovremmo sapere che
queste formule possono offrire pretesti per terribili regressioni.
Non c'è via che possa aggirare la formazione della personalità, i modelli
razionali della soluzione dei conflitti, cioè anche il confronto e la
collaborazione con coloro che la pensano diversamente e, ovviamente, con
l'altro sesso.
L'autonomia è un dovere per tutti, e le donne che si ritirano nella loro
femminilità come in un valore, agiscono in sostanza così come si è fatto con
loro: rispondono con una grande manovra diversiva alla sfida della realtà
rivolta a tutta quanta la loro persona.

"Meteln, 10 maggio 1981"


L'archeologia degli ultimi cento anni offre l'occasione di osservare come
viene fabbricata una verità che poi è chiamata storica.
Per esempio Troia: un uomo, Heinrich Schliemann, che prende alla lettera
l'epos omerico considerato comunemente una pura invenzione, verso la fine
del secolo scorso trova le rovine di fortificazioni sovrapposte a strati
proprio nel luogo designato da Omero: il colle Ate presso il fiume
Scamandro, e a dire il vero sullo strato da lui ritenuto la Ilio omerica si
sbaglia, poi verrà corretto dal suo collaboratore Dorpfeld, ma aprirà
comunque gli occhi alla scienza sul fatto che la storia della Grecia arcaica
non è un mito - o meglio: che i miti rispecchiano la verità.
Sir Arthur Evans, più o meno nello stesso periodo alle prese, a Creta, col
palazzo di Cnosso, tenta di collegare la storia di Creta con le tavole
cronologiche egiziane già esistenti utilizzando datazioni della cultura
minoica da cui poi si cercherà di derivare anche la datazione di Troia.
Contraddizioni, lacune, incongruenze fino ad oggi, ma intanto si va
affermando una certa scuola fondata sul fatto che siamo capaci di percepire
la realtà, la realtà storica, solo in un sistema di coordinate spazio-temporali,
come a dire che l'espressione tardo minoico 3 B - all'incirca il periodo in cui
viene datata Troia 7 A - in sé e per sé non vuole dire niente.
Come può venire ricordata la storia nei popoli privi di scrittura: storia che si
svolge sequenzialmente e nello stesso tempo simultaneamente come dice
Fritz Schachermeyer?

L'essenziale e l'inessenziale, il graduale e il repentino, il noioso e il


divertente, il tempo fruttuoso e quello infruttuoso, le crisi e le catastrofi si
avvicendano.
La storia è, di regola, anche defatigante, intricata e complicata.
Così come si è realmente svolta non può essere conservata nella memoria
non educata e nel ricordo ingenuo.
Perciò la storia, così come realmente si è verificata, non può essere
ricordata dai non-specialisti, ma solo acquisita attraverso la scrittura.

Nelle culture che non conoscevano la scrittura o che comunque non


avevano una storiografia, c'erano solo due vie per rendere accessibile il
passato, almeno in maniera limitata, alla capacità umana di
memorizzazione: compilare cataloghi e concentrarsi su quanto
l'immaginazione poetica considera essenziale.
Nel corso di questo processo di concentrazione alla fine del quale, se si è
fortunati, può darsi che ci sia un epos omerico - verrà sfoltita la gran
quantità di personaggi, fatto salve poche chiare e vitali figure ideali; la
massa degli eventi sarà sostituita da pochi atti simbolici.
Enormi distese temporali verranno fuse insieme.
Non esiste memoria né del prosastico né del prosaico.
Ma migliaia di versi sono stati conservati senza fatica.
Che significato ha quest'esperienza per una letteratura che non vuole più
creare grandi e vitali figure ideali, che non vuole più raccontare storie ben
connesse - ben connesse grazie alla guerra e all'assassinio e al crimine e alle
gesta degli eroi che ne derivano? Quale sorta di memoria richiede e puntella
la prosa di Virginia Woolf? Perché il cervello, che pure viene spesso
paragonato a un reticolo, dovrebbe riuscire a ritenere la narrazione lineare
di una storia meglio di un reticolo narrativo? In quale altro modo un autore
potrebbe combattere contro l'abitudine (che non corrisponde più alle
esigenze del tempo) di ricordare la storia come storia di eroi? Gli eroi sono
intercambiabili, il modello resta.
E' su questo modello che si è sviluppata l'estetica.

"Meteln, 11 maggio 1981"


Un politico della Germania Federale afferma che nell'ultimo decennio c'è
stato un generale mutamento di coscienza, paragonabile a quello
rinascimentale. - Quale sarebbe la sostanza di un tale mutamento? Forse la
rinuncia? La rinuncia al dominio e alla sottomissione della natura, la
rinuncia alla colonizzazione di altri popoli e continenti, ma anche alla
colonizzazione della donna da parte dell'uomo? E' un piacere vivere - una
volta che non si è signori del mondo e che NON si aspira nemmeno ad
esserlo?
Mi colpisce che l'accusa di non essere realistici, di essere lontani dalla
realtà, venga mossa sia contro la letteratura, sia contro il movimento
pacifista, e dalle stesse persone.
Realista è oggi chi resta sul terreno dei fatti - terreno che è già inquinato,
nei piani degli stessi realisti. - Che conseguenze comporta per l'estetica
questo concetto di realismo?

"Meteln, 16 giugno 1981"


Lewis Mumford: "Il mito della macchina".
Muove dall'idea che non furono i mezzi di produzione la principale
invenzione dei popoli arcaici, ma i simboli - il rituale, per esempio -, con
l'aiuto dei quali essi canalizzarono la spinta dei loro sogni e del loro
inconscio; e che la loro impresa intellettuale più grande fu l'invenzione del
linguaggio.
Una grossa polemica contro l'interpretazione materialistico-volgare
dell'uomo e della storia.

"Meteln, 16 giugno 1981"


Difficoltà a connettere interpretandoli i singoli elementi della storia di
Cassandra.
Mi balenano alcune possibilità, e cioè: la sua follia potrebbe essere una
reale follia, una regressione a stadi indifferenziati della sua persona (e anche
della storia dell'umanità), scatenata per esempio dalla pretesa che lei
infranga un tabù: che effettui forse, in quanto sacerdotessa, un sacrificio
umano - un fanciullo, può darsi, in memoria di certe pratiche che si
suppongono in uso presso le monarchie rette da donne.
E' una cosa che non è capace di fare.
E' possibile che questo fatto sia in relazione con l'arrivo di Pentesilea, che
impersona la via senza sbocchi del matriarcato? - Ma non è per la sua follia
che viene imprigionata.
Finisce nella torre a causa del CONTENUTO delle sue visioni.
Per ragioni puramente pragmatiche è promessa in matrimonio ad Euripilo,
che col suo esercito di Misi porta rinforzi ai troiani.
Sperimenta fino in fondo che cosa significhi essere oggetto di fini che le
sono estranei.
Si sottrae quindi in misura crescente al servizio che svolge per i suoi,
all'ingranaggio sociale in cui è inserita, e frequenta quelli che - vuoi per
obbligo, vuoi spontaneamente - si sono posti anche loro fuori del sistema,
come lei.
La sua storia interiore: la lotta per l'autonomia.
Mostrare come la Cassandra storica, da cui prendo le mosse, e il suo
ambiente storico siano governati dal rituale, dal culto, dalla fede e dal mito,
mentre per noi TUTTO QUANTO il materiale è mitico.
Il personaggio si trasforma continuamente mentre lavoro a questi materiali;
sempre più si dilegua il suo contegno eccessivamente austero, quanto in lei
c'è di eroico, di tragico, e di conseguenza si dileguano anche la
compassione e la mia parzialità nei suoi confronti.
La vedo con maggiore lucidità, perfino con ironia e umorismo.
Le leggo dentro.
Poi mi è precipitato addosso il suo ambiente: le amiche, la famiglia.
Devo conoscerlo.
Concludo: lo conosco, e già da tempo.
Le astrazioni acquistano sempre più carne e sangue, visi, gesti. - Per il
racconto, che sempre più vedo come un racconto a chiave, avrò bisogno di
molto più tempo di quanto avessi calcolato per il pezzo didattico che
probabilmente avevo in mente all'inizio.

"Meteln, 30 giugno 1981"


Alla televisione, poco tempo fa, uno scienziato parlava di quanta gente
abbandona dovunque le strutture istituzionali che preparano la distruzione;
cosa che faceva ben sperare; anche se sotto sotto era convinto che una gran
parte dell'umanità un giorno sarebbe stata annientata dall'atomica: c'erano
già tutti gli strumenti...
Lewis Mumford: "Il mito della macchina", dopo che ha descritto e
analizzato per ottocento pagine l'origine e la sostanza della megatecnica
nella sua attuale forma di organizzazione, dopo che ha messo a confronto i
sistemi attuali di dominio con il blocco di potere dell'impero romano,
tecnicamente avanzato per il suo tempo, apparentemente incrollabile, e
tuttavia minato e sgretolato a poco a poco dalla minoranza cristiana:

Se tale rinuncia e tale distacco furono possibili nell'orgoglioso impero


romano, allora può verificarsi una realtà analoga dovunque, qui, ora: tanto
più facilmente oggi dopo oltre mezzo secolo di depressioni economiche,
guerre mondiali, rivoluzioni e sistematici programmi di sterminio che
hanno ridotto in polvere le fondamenta morali della civiltà moderna.
Se il potere stesso in sé non è mai sembrato tanto saldo come oggi, oggi che
una dopo l'altra brillanti e sconcertanti imprese tecnologiche
incessantemente si avvicendano, tuttavia le sue controparti negative, la sua
antimateria, non è parsa mai così minacciosa...
Sì, la struttura fisica del potere non è mai stata più fittamente articolata: ma
i sostegni umani di essa non furono mai così fragili, indecisi e vulnerabili...
Tutto ciò è accaduto così in fretta che moltissimi stentano a comprendere
che sia accaduto realmente; ma è così, negli ultimi anni le basi stesse della
nostra vita sono crollate: istituzioni umane e convinzioni morali che per
giungere a un certo, minimo, grado di efficienza, richiesero millenni di
sforzi, sono scomparsi, dissolvendosi sotto i nostri occhi...
Le prime prove di questa trasformazione si presenteranno come un
mutamento interiore, e questi mutamenti spesso colpiscono all'improvviso e
lavorano in fretta.
Ognuno di noi, finché ha vita, può svolgere un ruolo districandosi
personalmente dal sistema, affermando la priorità della sua persona con
tranquilli atti di astensione mentale o fisica, gesti di anticonformismo,
rifiuti, restrizioni, inibizioni, tutto ciò che serve per scrollarsi dalle spalle il
giogo del Pentagono di Potere.
Anche se la salvezza immediata e completa dal sistema di potere non è
possibile, e meno che mai ad opera della violenza di massa, tuttavia le
trasformazioni che restituiranno autonomia e iniziativa all'uomo sono alla
portata d'ogni singola anima, una volta risvegliatasi.
Per il mito della macchina e per l'ordine sociale disumanizzato che ne è il
prodotto, niente potrebbe diventare più pericoloso della costante sottrazione
di interesse, della costante decelerazione dei tempi, della fine delle abitudini
insensate e delle azioni spensierate.
E tutto questo, nei fatti, non è già incominciato (3)?

"Meteln, 21 luglio 1981"


Tecniche narrative che, chiuse o aperte che siano a seconda dei casi,
veicolano anche paradigmi di pensiero.
Sento la forma chiusa del racconto su Cassandra in contraddizione con la
struttura frammentaria che, per quel che mi riguarda, lo compone.
La contraddizione non si può risolvere, si può solo indicare.

"Meteln, 12 agosto 1981"


Nell'anniversario della bomba su Hiroshima, il 6 agosto, il presidente
americano ha deciso che bisognava produrre la bomba al neutrone; il
ministro della difesa ha reso noto che l'installazione delle prime testate è
stata ultimata e che in poche ore esse potrebbero essere nell'Europa
occidentale, se ce ne fosse bisogno. - Ho pensato che forse quella era la
nostra condanna a morte, ma cosa ho provato veramente? Impotenza.
Ho portato la colazione sul tavolo nel cortile.
Ho conversato con gli altri.
Ho riso.
Il 6 agosto, di sera, un documentario su una famiglia giapponese di
Hiroshima.
La donna era rimasta esposta alle radiazioni durante la gravidanza, aveva
partorito una figlia handicappata e nel 1979 era morta miseramente di
cancro alle ossa per effetto delle lesioni.
La cinepresa mostrava gli stadi del suo declino.
Il marito, che è barbiere.
Il viso della figlia indifesa che, quando la madre non riesce a fare più nulla,
l'assiste per quel che può.
Il medico, che dice alla donna che la colonna vertebrale è stata colpita.
La vicina, che le fa visita regolarmente.
Lo straziante commiato tra le due donne.
La malata, che a ogni cambiamento di posizione è costretta a temere che le
si spezzino le ossa fragili.
Il viso piangente.
Le braccia smagrite, le mani imploranti.
La figlia piangente.
Che al funerale si rifiuta di separarsi dalla madre morta.
E, settimane più tardi, chiede di andare al cimitero.
E bacia la pietra levigata sulla tomba della madre.
Alla fine arriva una scolaresca che ha visto il film e vuole interessarsi del
destino di quella famiglia: la maggior parte dei giovani in Giappone non sa
niente delle conseguenze di Hiroshima.
Nessun documento potrebbe essere più efficace.
Ma non avrebbe nessun effetto su coloro che dispongono dell'uso delle
armi, anche se lo vedessero.
Perché no? Non sarebbe meglio, in questo caso, commuoversi piuttosto che
fare una sola mossa? E se nessuno di quelli che operano nel campo degli
armamenti muovesse più un dito? Resterebbero tutti disoccupati.
Be', e allora? pensiamo.
Meglio disoccupati che morti.
Così però non la pensano loro, perché temono la morte sociale, che è certa,
più di quella fisica, che è incerta.
Io chiamo ciò: false alternative.
Il loro numero è in aumento.
"Meteln, 17 agosto 1981".
Conversazione con un funzionario della economia, un uomo simpatico.
Sua sensazione che siamo oltre lo zenit; per quelli che sono giovani oggi
prova una gran pena.
Quanto al futuro, grande scetticismo.
Eppure conserva intatta la convinzione che gli stati e le loro economie
possono essere governati solo pensando col metro della concorrenza e del
rendimento.
Mi meraviglia tuttavia che nemmeno il comprendere che problemi di
importanza vitale sono insolubili, spinga queste persone a riflettere sulla
relazione, per esempio, tra la corsa sfrenata agli armamenti da ogni parte, e
le strutture patriarcali del pensiero e del governo.
Una dottoressa mi racconta che quando, durante un corso di addestramento
alla difesa civile, il relatore richiese che tutti imparassero a pensare senza
mai dimenticarsi della guerra, nella sala si fece improvvisamente un gran
silenzio.

"Meteln, 21 agosto 1981"


Leggo gli scritti di Hans Henny Jahnn che il 6 maggio 1949, quando si
mostrarono le prime crepe nella coalizione degli alleati contro Hitler,
constata: la terza guerra mondiale è già in programma.
Si accorge subito del significato devastante della bomba atomica.
E conclude: non esiste una pace armata.
La pace o è disarmata o non è pace qualsiasi cosa uno pensi di dover
difendere.
Per due volte, in questo secolo, dalla pace armata è nata la guerra, e ogni
guerra è stata più dura della precedente. - Brecht disse esattamente la stessa
cosa negli anni Cinquanta: se non ci armiamo, avremo la pace.
Se ci armiamo, avremo la guerra.
Non vedo come si possa pensarla diversamente.

"Meteln, 23 agosto 1981"


Le cose mentali che non son passate per il senso son vane e nulla verità
partoriscano se non dannosa, Leonardo da Vinci.
Se questa idea - sperimentata a lungo e pericolosamente dalla razionalità
astratta, approdata poi al pensiero strumentale - ritornasse a dare dei frutti:
ci potrebbe essere davvero un nuovo Rinascimento della coscienza.
Che cosa si oppone a ciò? Che il senso di molti - non per colpa loro - si è
inaridito e che, a ragione, essi hanno paura di riattivarlo.
Che forse non ne sono più capaci.
Cosa ci perderebbe l'umanità, se le venisse tolto l'uomo europeo così come
ora si profila? Che possiamo addurre a nostro favore? Che furono gli
europei a ricavare - o a rafforzare, dalla subordinazione e dallo sfruttamento
di altri popoli e continenti, quella coscienza del dominio e della razza che
poi ha deciso anche la direzione dello sviluppo tecnico (incluso lo sviluppo
della tecnica bellica) e le strutture economiche e statali? Che noi stessi
abbiamo messo al mondo le forze che ci minacciano? Che la
megamacchina, nella sua irrazionalità distruttiva, è diventata il prodotto
finale della nostra cultura?
Tra gli archeologi il dibattito sulle origini della cultura, sulla sua
definizione, è naturalmente dirompente, saturo di ideologia.
Marie E. P. Konig si oppone all'opinione secondo cui l'inizio della cultura
sia da ricercarsi laddove è nata la scrittura - quindi tra le culture avanzate
dell'oriente -, perché, se fosse così, si smarrirebbe la dimensione della
profondità spirituale della cultura: se fosse così, noi avremmo smarrito le
nostre origini storiche e il sapere di tutte le generazioni precedenti, che è il
presupposto del progresso.
In Europa, ella afferma, la popolazione che è rimasta nelle campagne
non ha mai reciso i fili con la preistoria: i celti, per esempio, sarebbero
ancora in possesso del sapere di tutte le generazioni passate.
In nessuna altra parte del mondo il suolo contiene così ricchi tesori delle
culture passate, e in nessun posto si conserva la possibilità di spingere
indietro lo sguardo con continuità, senza lacune, fino al paleolitico.
Finché non ci saranno analoghi documenti di altre regioni del mondo,
dobbiamo ammettere che la culla della cultura venne a trovarsi in occidente.
Con lei intrattiene un dialogo immaginario - pur senza conoscerla - Hans
Georg Wunderlich; egli, alla fine del libro in cui sostiene la tesi, fortemente
contestata, che i grandi palazzi della cultura minoica a Creta siano stati
luoghi per il culto e la sepoltura dei morti, non centri di dominio mondano,
pone la seguente domanda: per quale ragione la culla della cultura europea
venne a trovarsi proprio in Grecia? Per quale ragione non in Etruria, in
Gallia, nella Germania settentrionale o da qualche altra parte?...
La cultura occidentale, i cui inizi risalirebbero all'eredità minoica e
micenea, durerebbe ormai da 3500 anni e, al presente, starebbe per
affermarsi come indiscussa cultura mondiale, sicché la sua fine
equivarrebbe alla fine dell'umanità - una tesi discutibile.
Mi sembra invece degna di dibattito la sua idea che il processo di
formazione di tale cultura, il quale ha prodotto nel corso di molte
generazioni risultati elevatissimi, sia passato non attraverso annotazioni
scritte, ma in principio attraverso la lingua parlata e ascoltata; che il punto
di partenza per lo sviluppo del greco antico sia stato il culto degli eroi,
"originariamente un culto dei morti", che custodiva il vivo ricordo dei
grandi defunti cari al popolo in un numero enorme di racconti epici.
Sarebbe stato proprio questo culto dei morti, una forma per allontanare la
paura dell'Aldilà, ad assorbire, in un modo che noi non riusciamo nemmeno
a immaginare, gli uomini del millennio prima di Cristo, e a produrre anche i
monumenti architettonici della cultura dell'Asia Minore e di quella
egizia, opere di pietra dedicate a singoli eroi, le quali impegnarono la forza-
lavoro e le energie di intere popolazioni; invece per le piccole tribù greche
arcaiche, divise, relativamente povere, non erano perseguibili simili
realizzazioni, sicché genialmente esse si risolsero per necessità a fare, in
luogo dei monumenti di pietra, giochi in onore degli eroi morti, non solo
per misurare la forza fisica, ma anche per identificarsi con la storia dell'eroe
nella forma epica che era stata modellata sul teatro, diventato così una sorta
di sfondo intercambiabile.
E' a questo modo che il culto degli eroi, il sapere sugli eroi, sarebbe
diventato patrimonio comune.
E' a questo modo che sarebbe nato il teatro greco, una delle radici della
cultura europea.
E' a questo modo che l'incredibile sarebbe diventato realtà: i sovrani
orientali, chiusi fino alla fine dei tempi nei palazzi dei morti, dispendiosi
ma spiritualmente sterili, sarebbero stati dimenticati.
La parola parlata degli eroi greci sarebbe invece rimasta viva e avrebbe
conservato nel nostro ricordo coloro di cui raccontava, fino ad oggi.
Opporre all'odierna necrofilia, che si manifesta in acciaio, vetro, cemento (e
che, d'altronde, non si ferma certo di fronte al teatro), qualcosa come la
parola viva? La quale bisognerebbe che fosse sovversiva, noncurante,
incisiva nel senso letterale, e non dovrebbe chiedersi se raggiunge il suo
scopo - anzi, non dovrebbe nemmeno avere uno scopo, in modo da riuscire
a derivare, forse, dalla situazione che accomuna gli scrittori contemporanei,
e dei quali Max Frisch dice che non si aspettano più una posterità, proprio
l'unica conseguenza possibile, quella che concorrerebbe a creare di nuovo
una posterità, forse perfino un futuro.
Essa non dovrebbe più fornire storie di eroi, e neanche di anti-eroi.
Dovrebbe piuttosto essere non appariscente e tentare di dare concretamente
un nome a ciò che è non appariscente, alla preziosa vita quotidiana.
Così finirebbe col sorridere, forse, dell'ira di Achille, del conflitto di
Amleto, delle false alternative di Faust.
E sarebbe costretta a aprirsi la strada in ogni senso dal basso, in direzione di
quei materiali che le appartengono e che, se uno (e una) li potesse osservare
attraverso un'ottica diversa da quella usata finora, rivelerebbero possibilità
finora mai ravvisate.

QUARTA LEZIONE
Una lettera su univocità e pluralità di senso, determinazione e
indeterminazione; su situazioni antichissime e nuove ottiche; sull'oggettività

Giacché i fatti che costituiscono il mondo hanno bisogno dell'ineffettuato,


perché esso li riconosca.
Ingeborg Bachmann, "Il caso Franza"

Cara A., quando finalmente, nel trasferirmi come sempre sul finire
dell'inverno da Berlino nel Meclemburgo, ho disfatto le valigie, ho svuotato
le borse dei libri in quella stanza da lavoro che è per me la più cara - una
stanza che odora di legno; da una finestra della quale, detta occhio di bue,
guardo il nostro cortile erboso, i salici che sono cresciuti sulla riva dello
stagno, lo stagno, il letamaio e il muro della stalla del nostro vicino O., il
bucato di Edith (è il giorno dei suoi lavori domestici), le mie due querce
intrecciate l'una all'altra, spoglie e promettenti, e le case del villaggio che
poi, nel corso dell'anno, dal fogliame di queste querce saranno coperte; una
stanza dove da un altro occhio di bue, davanti al quale su una pedana di
legno sta la mia scrivania, godo di quella vista che desidererei avere davanti
agli occhi nell'ora della mia morte: il grande prato ancora sbiadito, in mezzo
il ciliegio maestoso da primavera incipiente, diafano, circondato da meli più
piccoli, da cespugli di more; la rossa fattoria dei P., addossata al laghetto
che si cela quasi del tutto dietro un'ondulazione del terreno; e poi, in
lontananza, fino al basso orizzonte, a onde uniformi, campi, salici, gruppi di
alberi: allora sento che le mie aspettative crescono.
Non comincio neanche a parlarti dei colori, e nemmeno dei cieli - perché mi
tocca ancora enumerarti, alla fine della frase che è cominciata con le borse
dei libri svuotate, un po' dei titoli che stanno in cima alla montagna di libri,
ben leggibili, o, più sotto, mezzo coperti: "In principio era la donna".
"Madri e amazzoni". "Dee".
"Il patriarcato". "Amazzoni, guerriere e donne forzute". "Donnesesso
matto?" "Le donne nell'arte". "Auspici, incantesimi d'amore, culto di
Satana". "Fantasie maschili". "Utopie femminili - sconfitte maschili".
"Donna e potere". "Questo sesso che non è un sesso". "Oracoli". "Utopia
del passato".
"Outsiders". "Tracce storico-culturali di una femminilità rimossa". "Il
potere femminile". "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
stato". "I frutti selvatici della donna". "La dea bianca". "L'immagine della
femminilità".
"Una stanza tutta per sé". "La femminilità nella scrittura".
Eppure questa enumerazione, anche se continuassi, non ti darebbe un'idea
esatta della singolare commistione delle mie letture da un anno a questa
parte, perché gli autori di archeologia, di storia antica, i classici, stanno in
un'altra valigia.
Cominciò in modo innocente, e cioè con una domanda che fui costretta a
pormi: chi era Cassandra prima che qualcuno ne scrivesse? Ed è questo che,
tanto per cominciare e tra l'altro, proprio adesso, non a caso mentre rastrello
l'erba, pulisco le aiuole, poto la siepe del giardino, mi porta a credere anche
di aver capito all'improvviso una poesia della Bachmann, che da tempo
conosco e amo: "Spiegami, Amore".
Perché tu non debba cercare: essa si trova nel primo volume dell'edizione
completa delle sue opere a pagina centonove.
La penultima strofa la conosci probabilmente a memoria come me.

Spiegami, Amore, ciò che non so spiegare:


dovrò in questo breve orribile tempo
accompagnarmi solo ai pensieri, e io soltanto
non sapere né fare nulla d'amorevole?
Che uno pensi bisogna? E non lascerà un vuoto?

Un vuoto - per chi? Un vuoto - per che cosa? Per queste semplici attività
forse, per questo portar dentro la legna, stendere il bucato, arrostire aringhe,
che mi divertono soltanto qui? Che il pensatore cura di evitare; che perciò
non ne influenzano il pensiero, e non riescono nemmeno a colorirlo,
giacché la sua professione è il pensare, fin dall'antichità.
Non il toccare.
Non il fare.
E' questo che contribuisce a determinare il libero cittadino della polis - una
minoranza nello stato, dalla quale si stacca ulteriormente il filosofo: il non
lavorare con le mani.
Trova però il tempo di prestare orecchio ai rapsodi i quali, avvicendandosi,
salmodiano tra l'altro un tal poema epico di un tale Omero, che, è vero,
canta innanzitutto l'ira di un eroe di nome Achille e la lotta micidiale di
molti altri eroi dei tempi antichi; ma in cui compaiono anche nomi di
donne, in qualità di seduttrici, di spose, di madri (dunque in relazione al
maschio, naturalmente), e appunto anche il nome di una profetessa di
sventure, Cassandra.
A partire da quei primi pensatori, che si coltivano, che scrivono, dato che la
scrittura ci ha tramandato i loro nomi, vedo attraverso due millenni e mezzo
l'impressionante galleria di teste maschili pensanti.
Che uno pensi bisogna potrebbe forse voler dire: bisogna che uno o una? -
pensi A QUESTO MODO? A questo modo - che esclude? Che esclude
l'amore, ciò che è amorevole... accompagnarmi solo ai pensieri, e io
soltanto / non sapere né fare nulla d'amorevole....
Spiegami, Amore: tu come lo leggi? A chi si rivolge? All'Amore astrazione
personificata - o a una donna che chiama amore? Parla come donna, parla
come uomo? Tu dici: altro è lo spirito che su di lui fa conto....
Si tratta dell'amato, al pensiero del quale soltanto, l'Io della poesia dovrà
accompagnar[si] poiché non può sapere né fare nulla d'amorevole, e dunque
avverte il vuoto che lui, il pensatore, lascia? Si tratta di lei stessa che,
pensando A QUESTO MODO, è costretta a sentire il vuoto che si lascia
dentro, e lascia un vuoto?
Altrettanto plurivoco è il Tu della poesia.
Il tuo cappello si leva leggero, saluta, fluttua nel vento, / il tuo capo
scoperto ha incantato le nuvole, / il tuo cuore altrove si affaccenda, / la tua
bocca di nuovi linguaggi s'insapora: a chi si rivolge? A se stessa come a un
tu? A colei che più avanti chiama amore? (Ammesso che sia una colei...).
E' così anche per te? Quanto più profondamente mi calo nella poesia, sul
suo fondo, che però non avverto sotto i piedi, tanto più fortemente sono
catturata anch'io dalla confusione che essa testimonia e che non tenta di
dissolvere descrivendo i giochi d'amore della natura con immagini che si
fondano l'una sull'altra, si levano l'una dall'altra e reciprocamente si
superano (Il pavone fa la ruota con stupore solenne), chiamando perfino a
testimoni l'acqua, l'onda, la pietra (l'onda all'onda prende la mano,...
Una pietra sa come intenerire l'altra!), per poi sprofondare nella propria
insufficienza, nella propria irreparabile perdita.
Dovrò in questo breve orribile tempo... - Di fronte alla parola orribile che
cosa pensi? Subire gli abusi di colui, di coloro che amiamo più di tutto.
Non poter essere io, non tu, ma quella: oggetto di fini che ci sono estranei.
Accompagnarsi solo a pensieri rivolti a un fine, non a colui che (non a me)
pensa.
Tu dici: altro è lo spirito che su di lui fa conto...
Certo non lo spirito dell'amore.
Lo spirito, invece, che conta e misura e valuta e ricompensa secondo il
merito e punisce.
Non mi spiegare nulla.
La salamandra vedo
passare attraverso ogni fuoco.
Non un tremito l'incalza, e non prova dolore.

E' questo, mi sembra, il prezzo dell'invulnerabilità che l'Io e il Tu della


poesia, cui preferisco pensare come a un insieme, non vuole pagare: essere
insensibile.
Colui che pensa, che ha pensato in centinaia di anni per indurirsi: ora lascia
un vuoto.
Della fraternità, della naturalezza, dell'innocenza che ha escluso dal suo
pensiero, ora avverte la mancanza.
Riesce ancora ad accorgersi, temprato e corazzato com'è, se attraversa il
fuoco o il gelo? Porterà con sé strumenti per misurare la temperatura,
perché ciò che lo circonda deve essere univoco.
Considerando, compiangendo e anche lamentando ciò, la poesia arriva a
dare un esempio dell'indeterminazione più precisa, della molteplicità di
senso più limpida.
Questo e non altro, dice, e contemporaneamente - cosa impossibile da
pensare secondo la logica -: Questo.
Altro.
Tu sei me, io sono lui, non si può spiegare.
Grammatica delle relazioni multiple e simultanee.

Spiegami, Amore

Il tuo cappello si leva leggero, saluta, fluttua nel vento,


il tuo capo scoperto ha incantato le nuvole,
il tuo cuore altrove si affaccenda,
la tua bocca di nuovi linguaggi si insapora,
la gramigna tremante gremisce la campagna,
fiori ad astro alitando l'estate accende e spegne,
i fiocchi ti accecano, il viso sollevi,
e ridi e piangi e non ti fai che danno,
che altro ancora ti potrà mai accadere
Spiegami, Amore!

Il pavone fa la ruota con stupore solenne,


il colombo alza il bavero piumato,
del tubare ricolma l'aria si dilata,
stride il germano, di miele selvatico si nutre tutta
la campagna, ed anche nel parco composto
ogni aiuola si orla di polline dorato.

Il pesce arrossisce, sorpassa il branco


e per grotte sprofonda nel letto di corallo.
Alla musica della sabbia d'argento timidamente lo scorpione danza.
Il coleottero fiuta la bella tra le belle di lontano;
avessi almeno i suoi sensi, avvertirei anch'io
le ali che sotto la corazza le scintillano
e la strada prenderei del remoto calicanto!

Spiegami, Amore!
L'acqua sa bene cosa dire,
l'onda all'onda prende la mano,
nella vigna il grappolo si gonfia, si spacca e cade.
Com'è ingenua la lumaca che esce dalla casa!

Una pietra sa come intenerire l'altra!


Spiegami, Amore, ciò che non so spiegare:
dovrò in questo breve orribile tempo
accompagnarmi solo ai pensieri, e io soltanto
non sapere né fare nulla d'amorevole?

Che uno pensi bisogna? E non lascerà un vuoto?


Tu dici: altro è lo spirito che su di lui fa conto...
Non mi spiegare nulla.
La salamandra vedo
passare attraverso ogni fuoco.
Non un tremito l'incalza, e non prova dolore (4).

Cara A., è una stregoneria: da quando - mettendomi innanzi il nome


Cassandra come una sorta di parola d'ordine legittimante ho incominciato a
impegolarmi nei settori in cui esso mi porta, sembra che tutto ciò che di
solito mi capita vi abbia a che fare, che si sia riunificato senza che me ne
accorgessi ciò che finora era separato, che un po' di luce cada in spazi una
volta oscuri e ignoti sotto i quali, prima dei quali (le definizioni di luogo e
di tempo confluiscono) si possono sospettare, nelle tenebre, altri spazi, e il
tempo di cui sappiamo è solo una sottilissima striscia luminosa su un corpo
immenso, in gran parte buio.
Con l'ampliarsi del punto di vista, con l'assunzione di una nuova profondità
di campo, la mia ottica, attraverso cui percepisco il nostro tempo, tutti noi,
te, me stessa, si è trasformata in modo tanto decisivo da essere paragonabile
a quella decisiva trasformazione sperimentata in passato, più di trent'anni
fa, dal mio pensiero, dalla mia visuale, dal mio senso di me e dalle cose che
da me pretendevo, con la prima liberatoria e illuminante conoscenza della
teoria e della concezione marxista.
Se cerco di chiarirmi che cosa accade e accadde, si tratta, ridotto al minimo
denominatore comune, dell'ampliamento di ciò che per me è reale; ma
anche la natura, la struttura interna, il movimento di questa realtà si sono
trasformati e continuano a trasformarsi quasi quotidianamente, e,
impossibile a descriversi, il mio vigile interesse professionale, che mira
appunto a descrivere, deve trattenersi, tirarsi indietro, ha dovuto imparare
ad augurarsi perfino la propria sconfitta, perfino a provocarla. (Trarre gioia
dal diventare insicuri - ma chi ce l'ha insegnato!) Un poeta intelligente e
colto mi disse una volta che non mi capiva; perché non volevo più accettare
l'autorità dei generi letterari? Che invece erano l'espressione realmente
oggettiva di quelle regole consolidate - passate al filtro di un lavoro
secolare, che nell'arte sono necessarie e da cui noi possiamo riconoscerla e
misurarla.
Non riuscii a rispondergli per lo sbalordimento.
Misi mano ad Aristotele.
L'artista che plasma imitando rappresenta uomini che agiscono.
Questi uomini devono essere necessariamente o buoni o cattivi.
Ciò corrisponde all'incirca, pensai sorpresa, ai criteri usati ancora oggi sui
giornali dalla maggior parte dei nostri recensori di libri.
Rapidamente passai in rassegna davanti al mio occhio interiore - e ti prego
di fare lo stesso - parenti, amici, conoscenti e nemici, anche me stessa,
sottoponendomi alla prova del buono o cattivo.
Secondo il metro di Aristotele, tra loro non c'erano modelli adatti all'artista
che plasma imitando.
Ma questi sa trarsi d'impaccio: Omero per esempio disegna uomini con
qualità superiori agli uomini medi. (Mentre la commedia rappresenta
uomini inferiori.) Già, pensai, Omero.
E non rinuncio a citarti il pezzo che ho sottolineato nel quindicesimo canto.
Omero, a ragione, a gran ragione famoso per le sue immagini e le sue
similitudini, descrive il volo che Era, la sposa di Zeus, spicca per ordine di
questo verso gli altri dèi dell'Olimpo.

Come quando si slancia la mente d'un uomo, che molta


terra percorse, e pensa nei suoi pensieri sottili
qui sono stato e qui! e molte cose ricorda,
così velocemente volò bramosa Era augusta;

Ma il fatto - dunque il mito -, che concerne Era, è il seguente (ti prego di


rassegnarti alla digressione da Aristotele, piuttosto lunga, che ora seguirà):
come le altre dee, come Artemide, Afrodite, Atena, che i greci hanno
inserito nel loro pantheon a struttura patriarcale già ai tempi di Omero,
dunque nell'ottavo secolo avanti Cristo, quando adottarono (di nuovo) la
scrittura dei fenici, anche Era, la sposa di Zeus, ha una lunga preistoria
interpretabile solo in senso matriarcale, che, credo, ancora traspare anche
nell'apparentemente astrusa tavola pitagorica della strega del "Faust" di
Goethe:

Intendimi bene! Di uno fai dieci, togli il due, pareggia tre, e ricco sarai...

Giacché Goethe, per il quale - come per tutti i suoi contemporanei - la storia
incominciava là dove i greci l'avevano arbitrariamente posta, nell'anno della
prima Olimpiade, il 776 avanti Cristo: Goethe sapeva della natura triforme
delle antiche dee madri (la prima trinità in assoluto, da cui sono derivate
tutte quelle successive) nella quale il tre era pareggiato in quanto l'unica
dea, corrispondente ai tre piani del mondo, si manifestava in tre modi: come
fanciulla dell'aria, luminosa, giovane, cacciatrice (Artemide), come dea
delle donne, centrale, dispensatrice di fertilità, sovrana della terra e del
mare, divinità erotica (Demetra, Afrodite, Era, che prima si chiamava Era-
Terra, e i cui altri nomi sono Gea e Rea: la Grande Madre Terra di Creta e
del vicino Oriente); e infine come vegliarda che vive negli inferi, dea della
morte che contemporaneamente procura la rinascita (Io, la dea-vacca
cretese, un aspetto di Era, e naturalmente Ecate-Ecuba).
Il rosso, il bianco, il nero ne sono i colori, corrispondenti alle fasi della
luna, che ne è il simbolo e di cui sono le dee (ti accorgi di che sforzo
bisogna fare, quando si deve parlare dei molti come di uno? Lo stampo
delle nostre circonvoluzioni cerebrali, il nostro modo lineare di parlare si
oppongono alla tavola pitagorica della strega).
E ora vai a leggere nel "Faust", parte seconda, quel passo della notte
classica di Valpurga dove Anassagora e Talete discutono delle forze che
tengono profondamente unito il mondo; dove Anassagora, sostenitore della
teoria delle catastrofi, fa sorgere un monte popolato da nani che cadono in
disgrazia a causa della carneficina e della vendetta compiute, sicché il
filosofo dopo una pausa, solennemente è costretto a rivolgersi adesso ai
celesti.

O tu che brilli lassù, eternamente giovane, dea trinomia e triforme, te nelle


iatture del mio popolo invoco, Diana, Ecate, Luna.
Tu che dilati il petto in meditazioni profonde, pacifica all'aspetto, violenta
nel tuo segreto, apri delle tue ombre il minaccioso abisso, rivela [senza
magia] il tuo antico potere! (5)

Diana è la forma romana della greca Artemide, la fanciulla cacciatrice.


Luna corrisponde alla greca Selene, la dea lunare, che prendeva anche
l'aspetto di Artemide ed Ecate e che, secondo Ledergerber, probabilmente è
stata in un rapporto di identità singolarmente ambiguo con la Cassandra
mitica (non letteraria!): in quanto Eleno-Cassandra, la coppia di gemelli,
dovettero essere originariamente uno, vale a dire Selene, l'argiva dea della
luna, che si fuse con l'Elena greca all'Elena troiana; sicché rimase
Cassandra, sorella di Paride e versione grecizzata per differenziazione
dell'Elena troiana: bella (come Elena), provvista del dono della veggenza
come l'Elena greca e l'Eleno troiano - una capacità di vedere, d'altronde, che
un tempo era in stretta relazione con la divinità lunare e non al servizio del
dio della luce e del sole Apollo, il quale è molto più giovane di Ecuba,
Selene, Elena, Eleno, Cassandra e fa già parte dei riflessi mitologici di quel
rovesciamento patriarcale dei valori che annovera anche, proprio nel campo
delle leggi artistiche, la "Poetica" di Aristotele.
E' appunto questa avevano abrogato, insieme al ciarpame delle regole
aristocratiche francesi, i precursori di Goethe e Goethe stesso, il giovane
borghese, senza mai polemizzare tuttavia, per quanto ne so, con quel passo
del quindicesimo capitolo, titolo: I caratteri, in cui Aristotele prega i poeti
di badare a che i loro caratteri possiedano bontà.
E prosegue: Anche la donna e perfino lo schiavo possono essere buoni,
benché la donna sia generalmente un essere inferiore all'uomo e lo schiavo
perlopiù di poco valore.
Ne conseguiva che le donne non partecipavano alla tragedia greca
nemmeno come attrici.
Ifigenia, Antigone, Clitennestra, Elettra, Medea, Ecate, le troiane, tutti
uomini in costumi femminili, su coturni, sicuramente di membra delicate,
graziosi, se possibile omoerotici - però uomini.
Tutto questo tramenio e trama di terrigna fertilità, questo convertirsi-l'uno-
nell'altro, questo fondersi-intrecciandosi difficile da sottomettere, questo
brulichio di donne, madri e dee difficile da nominare, quasi impossibile da
classificare e da censire, ci è arrivato, insieme al diritto di successione
maschile e alla proprietà privata, dopo secoli evidentemente lunghi e
difficili che sono detti bui e che sono stati dimenticati.
Da che cosa ci si senta minacciati, possiamo ancora leggerlo nei divieti.
Aristotele: Per esempio, il carattere è buono quando un uomo possieda
coraggio; a una donna invece generalmente non si addice essere coraggiosa
e virile, o perfino atterrire.
Atterrire? Ma chi l'uomo? Che le ha sottratto ogni cultura, ogni attività
pubblica, e ovviamente il diritto di voto? Sì, proprio per questo.
Lo sappiamo per esperienza: ciò che si esclude e si esilia, si deve temere.
Così accade anche all'Anassagora di Goethe, che con leggerezza, ti ricordi,
ha invocato la dea della luna, e che ora è costretto ad ammettere inorridito:
viene!

Grande, sempre più grande, si avvicina il trono della Dea iscritto nel disco,
terribile all'occhio ed immane! Il suo fuoco si arrossa, s'infosca! Non
accostarti, o potente e minaccioso disco, ché sarebbe la distruzione nostra
e della terra e del mare!

Un bolide è caduto dalla luna e ha schiacciato la stirpe dei nani.


Ma forse è questo l'esempio invocato di come si svela senza magia l'antico
potere: sicuramente un'anticipazione della significativa, dolorosa
ammissione che il vecchio Faust farà alla presenza spettrale delle quattro
donne grigie (Indigenza, Insolvenza, Cura, Miseria - se fossero tre,
l'analogia con le tre Moire, Parche, Norne, tessitrici del destino, sarebbe
perfetta):

Ah se potessi scartare la magia dal mio cammino, dimenticare tutte le


formule e i sortilegi, stare solo di fronte a te, Natura, io, un uomo; allora di
essere uomo varrebbe la pena!

Ma un tempo la magia era arte esclusiva delle donne (che, sospinte nella
mancanza d'amore, non senza motivo ritornano alle formule e ai sortilegi):
delle più anziane della tribù, nelle società agricole arcaiche, poi per lungo
tempo delle sacerdotesse, alle quali i primi sacerdoti riuscirono a sottrarre il
rituale soltanto infilandosi a forza le magiche vesti femminili.
Annotare questo con voce sdegnata mi sembrerebbe ridicolo, giacché non ci
si poteva certo fermare alla magia e agli incantesimi.
Se però era necessario arrivare al punto in cui siamo ora, quando l'uomo se
ne sta davvero solo di fronte alla natura - davanti, non dentro di essa questo
lo chiedo a me e a te.
Recentemente, mentre in una cerchia di giovani studiosi di scienze naturali
discutevo non solo dei problemi attuali della loro scienza, ma anche della
storia della donna in occidente, uno dei giovani - evidentemente deciso una
buona volta a parlar chiaro - affermò: bisognava smetterla di piangere sulla
sorte della donna in passato.
Che lei si assoggettasse all'uomo, che lo curasse, che lo servisse -
esattamente questa era stata la condizione perché l'uomo potesse
concentrarsi sulla scienza, o anche sull'arte, e dare risultati di altissimo
livello in entrambi i settori.
Il progresso era stato ed era impossibile in altro modo, per il resto si trattava
di ciance sentimentali.
Un mormorio si levò nella sala.
Trovai che l'uomo aveva ragione.
Solo così si può ottenere il genere di progresso nell'arte e nella scienza cui
siamo abituati: risultati record, fuori della norma.
Si può ottenere solo con la spersonalizzazione.
I partecipanti alla discussione avevano appena definito non realistica la mia
proposta di introdurre una specie di giuramento di Ippocrate per le scienze
esatte, che proibisse ad ogni scienziato di collaborare a ricerche per scopi
militari.
Mi si era obiettato che se non qui, questi giuramenti sarebbero stati
comunque violati da qualche altra parte.
Per la ricerca non potevano esistere tabù.
Il prezzo di quel genere di progresso che l'istituzione scienza da tempo
produceva, avevo detto, per me era diventato a poco a poco troppo alto. -
Udii più tardi che alcuni dei partecipanti alla discussione avevano notato in
me una tendenza ostile alla scienza.
Un malinteso assurdo! pensai in un primo momento, poi mi bloccai: nei
confronti di una scienza che si è a tal punto allontanata da quella sete di
conoscenza da cui deriva e con la quale tuttavia segretamente io continuo a
identificarla - come potevo essere animata da sentimenti amichevoli? -
Credo che dobbiamo smetterla di prendere sul serio le etichette che ci
attaccano.
Dov'eravamo rimasti? Alla magia delle donne, a Goethe, alla domanda su
cosa sia oggi il progresso.
Alla strada che porta alle Madri.
Alla bella Elena, di cui Faust ha un indicibile desiderio, e che Mefistofele
non riesce a procurargli così come gli ha procurato tutto ciò di cui finora ha
avuto voglia, con ciurmerie magiche, fantasmoscenografiche.
C'è però un mezzo...

FAUST: Parla, e senza indugi!


MEFISTOFELE: Malvolentieri scopro questi sublimi arcani...
Auguste Dee troneggiano in solitudine; l'eterno le circonda senza luogo né
tempo.
La lingua si confonde a voler parlare di esse.
Sono le MADRI.
FAUST (sgomento): Le Madri?
MEFISTOFELE: Rabbrividisci?
FAUST: Le Madri! Madri! Che strano suono!
MEFISTOFELE: E strano mistero è infatti.
Dee sconosciute a voi mortali, da noi malvolentieri nominate.
A ricercar la loro dimora scaverai nel profondo.
Colpa tua se dobbiam ricorrere ad esse.
Dopo un tentativo di descrivere il vuoto indescrivibile, il Nulla, attraverso
cui Faust deve passare (e in cui spera di trovare il Tutto), gli viene
consegnata una chiave: Seguila nella sua discesa! ti guiderà alle Madri.

FAUST (rabbrividendo): Alle Madri! Come un fulmine sempre mi colpisce


questa parola.
Che mai contiene, che ho terrore di udire?

Mefistofele è lì apposta per banalizzare questo brivido - un brivido che


Goethe, per propria ammissione, a questo punto e a questa parola ha sentito
davvero, e a proposito del quale Faust confessa:

Non nell'imperturbabilità cerco la mia salvezza.


So che il brivido è il meglio dell'umanità.
E per quanto il mondo cerchi di avvelenargli questo istante, l'uomo, quando
è commosso, ha il senso profondo del prodigio.

Non ci si meraviglierà mai abbastanza che una parola come questa- Madri!
- costretta da tempo all'uso basso del quotidiano, continui a conservare la
sua irradiazione, continui ad avere in sé un elemento mitico, prodigioso,
appena percepibile razionalmente, perché al tempo di Goethe in realtà non
si SA proprio niente di ciò che le sta dietro; non si sa niente di scavi
archeologici, di ricerca sul campo, di stratificazioni temporali della
mitologia greca, delle impronte locali che prende.
Si SA solo di una stirpe di dèi discendente da Urano, il quale nascondeva
nel grembo della terra tutti i figli maschi che la Grande Madre Gea gli
partoriva perché in seguito non rivaleggiassero con lui per il trono;
dell'evirazione del padre ad opera del figlio suo e di Gea, Crono, su
istigazione di Gea.
Dell'unione tra Crono e Rea - un matrimonio tra fratelli, poiché entrambi
erano figli di Gea, e il tabù dell'incesto è stato inventato solo molto più
tardi; della paura di Crono di perdere il potere, paura che gli fece divorare i
suoi figli maschi, anche Zeus, con indicibile lutto di Rea (Esiodo).
Per salvare Zeus, che è destinato a diventare il padre degli uomini, Gea fa
mangiare a suo figlio Crono invece del neonato una pietra avvolta in fasce,
sicché lui vomita con la pietra tutti i figli divorati: nessun idillio, certo; ma
dato che l'idea che il mito potesse rispecchiare lotte reali era lontana dai
contemporanei di Goethe; dato che essi non potevano sapere nulla della
funzione dell'eroe nelle società matriarcali, e di come questi dovesse
congiungersi una volta all'anno in sacre nozze con la Madre della tribù, la
sacerdotessa, la regina, per poi essere sacrificato con un solenne
cerimoniale un avvenimento che, come l'evirazione di Urano, molto
probabilmente fondò la paura maschile dei rituali femminili -; dato che il
classicismo tedesco vedeva in quello greco un esempio di riuscito legame
tra il singolo (maschio) e la collettività (Sono quel che noi eravamo; sono
quel che dobbiamo di nuovo diventare, Schiller): un autoinganno
storicamente comprensibile, anzi necessario: favorì infatti l'immagine
armonica delle condizioni di vita dei greci da dove viene allora, se non dalla
propria esperienza, questa paura istintiva delle Madri, che si rispecchia
anche nella tradizione di Medea, in quella delle amazzoni, e che rese
particolarmente odiosa a Goethe la "Pentesilea" di Kleist...
Il brivido è fatto di reverenza e timore.
Spesso penso che agli uomini d'oggi è rimasto solo il timore.
Devo pregarti di non diventare impaziente.
Non che io abbia perso di vista la domanda che realmente mi interessa: chi
era Cassandra, prima che si scrivesse di lei? (Poiché però è una creazione
dei poeti; poiché parla solo attraverso di loro, è solo nella loro visuale che
lei è giunta a noi...
Questa perciò è anche una delle piste che seguo, finché non se ne dirama
un'altra lungo cui mi sento spinta, finché la successiva non mi costringe ad
abbandonare la seconda).
Mi piacerebbe comunicarti la sensazione che mi causa l'irrequietezza
rispecchiata da questa lettera: in fondo, dal fondo, tutto è in relazione con
tutto; e un approccio rigorosamente concentrato su una sola via, l'isolare
una matassa per farne un racconto e un'indagine danneggia l'intera trama e
la stessa matassa.
Ma, semplificando, è proprio questa la via percorsa dal pensiero
occidentale, la via della selezione, dell'analisi, della rinuncia alla
molteplicità dei fenomeni a favore del dualismo, del monismo, a favore
della compiutezza delle immagini del mondo e dei sistemi; la via della
rinuncia alla soggettività a favore di un'oggettività garantita.
Per questo, ANCHE per questo il classicismo tedesco si è servito degli
antichi: le norme estetiche oggettive che Goethe, non ancora quarantenne,
sviluppa dalla contemplazione delle copie d'opere d'arte greche o dei loro
originali in Italia, sono certamente anche il sintomo del suo fallimento nella
vita pubblica del granducato di Weimar:

In questo viaggio, spero, voglio placare il mio spirito con le arti belle.
imprimermi bene la loro sacra immagine nell'anima e serbarla per
godermela in pace.
Poi però voglio volgermi a chi opera praticamente e, quando ritorno,
studiare chimica e meccanica.
Giacché il tempo del Bello è finito, i nostri giorni impongono solo il
bisogno e la severa necessità.

Secondo me non è in contrasto con la dottrina goethiana delle forme


estetiche che egli, con la sua nuova concezione della vita come rinuncia da
praticare nelle cose politiche e in parte anche in quelle umane, abbia
introdotto in essa una componente soggettiva, cioè il suo bisogno di
certezza, durevolezza, compiutezza e sicurezza, una nostalgia di immutabili
leggi vere, e della loro attuazione: Queste grandi opere d'arte sono state
create dagli uomini contemporaneamente alle massime opere della natura
secondo leggi vere e naturali.
Tutto ciò che è arbitrario, immaginario, crolla, qui c'è la necessità, qui c'è
Dio.
Qui, anche nella rappresentazione dell'orrido, c'è misura, autocontrollo,
severità formale.
Schiller ha scritto una "Cassandra", una poesia, che inizia così:

Nelle splendide sale esulta Troia,


mentre Pergamo surge, e danze intesse,
e manda dalle cetre inni di gioia.

Perché l'inclito Achille a sposa elesse


la bella Priamide, Ilio è gioconda,
e l'armi, stanca della guerra, ha smesse.

Si tratta di una situazione presente non nell'"Iliade", ma in altre tradizioni:


l'eroe greco Achille, un bruto per la verità, si è innamorato della sorella di
Cassandra, Polissena, costei gli ha carpito il segreto della sua vulnerabilità
al tallone, e
inoltre la promessa di metter fine all'assedio di Troia, se lei acconsente a
sposarlo.
Per consolidare questo patto con un sacrificio lui va scalzo e disarmato nel
tempio di Apollo Timbreo - di cui Cassandra è sacerdotessa -, e qui Paride
gli trafigge il tallone con una freccia avvelenata.
Dunque non è il caso di parlare di nozze nel vero senso della parola, e, visto
che ogni cosa era già pianificata, non c'era bisogno di una veggente per
predire che quella giornata sarebbe finita male; Schiller modifica le
premesse, per mettere Cassandra in contrasto con l'atmosfera generale:

Cassandra, sola sospirosa in tanto


giubilo cittadino, il bosco aggira
consacrato ad Apollo, in muto pianto.

In strofe che scorrono lievi e armoniose appare una Cassandra che lamenta
la sua sorte di veggente, un personaggio dell'epoca del sentimentalismo, che
preferirebbe essere borghesemente sposata anziché continuare a gemere
sotto il peso delle sue visioni:

E sono i miei lamenti all'aura sparsi,


scherniti i miei dolori, e l'alma oppressa
cerca lochi deserti, ove celarsi.

Nessun volto felice a me s'appressa


che non m'irrida! O Pizio acerbo nume,
grave salma al mio tergo hai ben commessa!

Perché dato m'hai tu divino acume?


Perché farmi, o spietato, annunciatrice
d'oracoli fra questi orbi di lume?

E svelarmi un destin che non mi lice


dalla patria sviar? che irrevocato
compiere si dovrà sull'infelice?

E così via.
La semplicioneria quasi insuperabile di questa interpretazione di Cassandra,
che non ha niente da invidiare alla comune avversione filistea nei confronti
della grandezza, soprattutto della grandezza che si manifesta in una donna,
certamente non è dovuta solo all'ideale femminile di Schiller, ma anche e
altrettanto fortemente al suo modello di classicismo, che non permette di
presumere in un'eroina un lungo e contraddittorio sviluppo storico.
E qui tornerei alle Madri di Goethe e all'ordine di Mefistofele a Faust
perché sottragga loro un tripode.

Un tripode ardente ti farà capire che hai toccato il fondo dell'abisso; al suo
chiarore scorgerai le Madri; seggon le une, stanno le altre e vagano.
Formazione, trasformazione, eterno giuoco dell'eterno pensiero, intorno ad
esse aleggiano le immagini di tutte le creature.
Esse non ti scorgeranno, poiché solo quelle ombre esse scorgono.
Fatti allora coraggio, ché il pericolo è grande; va diritto a quel tripode e
toccalo con la chiave!...
Ecco, così; e il tripode alla chiave si salderà, la seguirà come un servo
fedele.
Tranquillo risalirai, la tua buona sorte ti riporterà in alto, e, prima che le
Madri se ne avvedano, eccoti di ritorno col tripode.
Appena quassù l'avrai recato, evoca dalla Notte l'antico eroe e l'antica
eroina...

Ora il tripode, con l'aiuto del quale Faust evoca con molta precisione le
sembianze di Elena, è un antichissimo oggetto sacro, lo vediamo sui sigilli
cretesi accanto alle raffigurazioni delle dee più antiche.
Trova impiego nelle pratiche cultuali.
Nell'atto del Faust dedicato a Elena, Forcide-Mefistofele lo annovererà tra
gli oggetti che sono usati per preparare un sacrificio.
In Grecia la più famosa portavoce dell'oracolo, la Pizia di Delfi, sedeva,
com'è noto, su un tripode, evidentemente da tempi remoti, non solo da
quando Apollo, il dio delle molte facce, si impossessò, nel corso della
patriarcalizzazione, anche dei culti, anche dei miti, e assunse quel santuario:
in qualità di primo vincitore del drago.
Dovette infatti uccidere con un tiro di freccia il drago Pitone, nato da Gea -
cosa che non può significare altro se non la detronizzazione della
genealogia femminile delle portavoci dell'oracolo (precorritrici di
Cassandra) per installare i suoi sacerdoti di sesso maschile, a quel che si
dice provenienti dalla Creta minoica.
Senza alcun dubbio questo Apollo, figlio di Leto, fratello di Artemide
(Febo, il raggiante), gradualmente sviluppatosi dai culti matriarcali di
Artemide in Asia Minore, intorno al 1000 avanti Cristo balzò da Delo (dove
pare che sia nato, figlio di Zeus!) sulla terraferma greca e si elevò non solo
a sommo dio dell'oracolo, il più chiaroveggente, ma anche a Musagete,
guida delle Muse (cosa a cui gli dava diritto il suo attributo, la lira a sette
corde) e a Moiragete, guida delle Moire, le tessitrici del destino che
originariamente, in quanto Moirai, erano probabilmente le parenti anziane
che, come levatrici, aiutavano il neonato a venire al mondo e gli tessevano
sui primi panni i contrassegni magici che lo distinguevano dagli altri; grazie
ai quali tutti i parenti e i membri del clan potevano riconoscerlo - così come
in innumerevoli fiabe il figlio abbandonato dal re è grazie a un segno che
viene riconosciuto.
Affascinante la trasformazione di queste ave in dee del destino (quando il
clan diventò tribù, e questa regno); la loro affinità con le Erinni cretesi; la
loro conversione nelle Ore che, personificando legge e ordine, pace e
giustizia, sono emerse soltanto con la società di classe, con la formazione
delle città-stato.
Eschilo sa ancora che il mondo all'inizio fu dominato dalle Moire triformi e
dalle fedeli Erinni.
Anche Zeus - la concezione del quale può sorgere solo se esiste un regno
con una successione maschile consolidata - per lungo tempo non poté
ignorare le decisioni delle anziane dee del destino, le Moire.
In parallelo col processo di formazione dello stato, le antiche dee della tribù
soccombono ai nuovi dèi riconosciuti per decisione statale.
E proprio nel corso di questi secoli avvenne che dal culto della ninfa
montana Dafne (alloro), la quale, nominata sacerdotessa divinatrice dalla
Madre Terra Gea, officiava a Delfi in una semplice capanna di rami d'alloro,
nel secondo millennio avanti Cristo (al tempo cioè della Cassandra storica!)
- dal culto esclusivamente matriarcale di sacerdotesse che accompagnavano
ogni importante occasione pubblica del loro clan, della loro tribù, col canto
corale, la danza, i riti sacrificali e gli annunci dell'oracolo; da un più tardo
tempio di cera e piume, costruito probabilmente dalle api (animale dei clan
femminili), sorse infine a Delfi, nel settimo secolo, il primo grande tempio
bronzeo che, consacrato ormai in modo univoco ad Apollo, conserverà le
cantanti d'oro solo come figure ornamentali sul frontone: le cosiddette
Celedonie, donne evocanti, le quali una volta al mese si recano ai crocevia e
invocano la luna - un culto che è collegato a Demetra e ad Artemide, la
sorella di Apollo...
Ormai le donne erano murate in alto, nel fregio del frontone del dio
maschio.
In basso però, all'interno del tempio, sedeva la Pizia vaticinante, l'unica
donna rimasta nel culto dell'oracolo, altrimenti esclusivamente maschile, la
quale, in trance a causa dei vapori che stordivano, dell'alloro masticato,
forse dell'autosuggestione o dell'ipnosi, proferiva balbettando, torcendosi,
ormai un medium nelle mani dei potenti sacerdoti, le sue sconnesse parole
oracolari, la cui interpretazione, la cui formulazione in parte poetica
spettava ancora una volta ai maschi - i sacerdoti, i primi poeti.
Nella situazione precedente: gli uomini si identificavano con le donne,
mimavano le fasi del parto, si eviravano per poter diventare sacerdoti (è ciò
che si dice perfino di Apollo), s'intrufolavano in abiti femminili al posto
delle sacerdotesse nella celebrazione dell'uffizio (così pure Apollo) - adesso
però questa situazione è più che rovesciata, la donna è uno strumento nelle
mani degli uomini.
Nelle professioni di poeta, di veggente, di sacerdote, che hanno tutte radici
magiche, si può leggere con la massima chiarezza: la donna, un tempo
preminente, è stata o esclusa o ridotta a oggetto.
Da allora sono trascorsi secoli.
A uno dei punti di congiunzione tra questi avvenimenti così carichi di
conflitti si trova Cassandra.
Nasce da una casa reale dove la successione patrilineare sembra
consolidata, senza che per questo la regina, Ecuba, secondo alcuni
proveniente dalla cultura matristica dei Locri, abbia perso importanza; dove
è ancora nota la forma di transizione secondo cui il pretendente rapiva la
principessa (Paride - Elena) in quanto solo la donna poteva trasmettere il
trono all'uomo.
Dove gli antichi culti matriarcali possono essere praticati accanto ai giovani
culti dei nuovi dèi, forse soprattutto dalla popolazione rurale, soprattutto
dagli strati popolari inferiori.
Dove una giovane donna può diventare sacerdotessa, ma quasi mai prima
sacerdotessa.
Dove lei, sopraffatta dalle visioni, può essere veggente, e tale può essere
considerata, ma non portavoce ufficiale dell'oracolo: sono gli uomini che
leggono il futuro nel volo degli uccelli, nelle viscere degli animali
sacrificati: Calcante, Eleno, Laocoonte.
Una cultura che forse era incapace di far fronte a quella rigidamente
patriarcale degli achei micenei, alla loro rigida volontà di conquista.
Forse Cassandra in realtà ti prego, nessuna obiezione, è esistita! - non era
una sacerdotessa di Apollo? O comunque era la sacerdotessa di un Apollo
diverso da quello raggiante, che colpisce lontano dell'Olimpo greco
classico? Di un Apollo più antico, cui si conveniva l'appellativo di Lossia,
l'oscuro; la cui discendenza dai lupi, il cui essere doppio della sorella
gemella Artemide era ancora ben presente alla gente.
Come pure Atena, adorata in un altro tempio della città, probabilmente non
era la Pallade Atena classica, ma il simbolo di un culto collocabile tra le
ave-idoli di origine ctonia e la vergine regina-dea, nata non dal grembo
materno, ma dalla testa del padre Zeus: proprio come il pensiero, di cui ora
si occupano i greci-maschi, intellettuali naturalmente, per portarlo ad
altezze sorprendenti, ad un'astrazione mirabile, e che anch'esso non ha
madre, solo padri.
Ti pare fuorviante ritenere che oggi il pensare avrebbe una vita diversa se le
donne da più di duemila anni avessero contribuito a pensarlo? (Ce ne
dimentichiamo troppo facilmente: la donna esiste come intellettuale in
misura rilevante solo da sessanta-settant'anni.
Conosciamo storie di lei e su di lei, ma la sua storia - una storia di fatica e
di coraggio incredibile, ma anche di incredibile sacrificio di sé e di rinuncia
alle esigenze della sua natura - è ancora da scrivere.
Essa sarebbe contemporaneamente la storia del rovescio della nostra
cultura).
Ritorno alla natura dunque, o, cosa che per qualcuno è lo stesso, a stadi
arcaici dell'umanità? Cara A., non è possibile che noi vogliamo una cosa
simile.
Conosci te stesso, la massima dell'oracolo di Delfi, con la quale noi ci
identifichiamo, è un motto di Apollo; a una dea di un'epoca indifferenziata
questa frase non sarebbe mai venuta in mente solo che al dio il quale,
accanto a molti altri appellativi porta anche quello di Ecatos, l'eternamente
lontano, con cui si intende la sua raggiante purezza e la sua eterna distanza
dalle cose terrene - solo che a questo dio della nobile libertà dello spirito,
che per definizione non viene a contatto con la terra, la conoscenza di se
stesso, cui tende, è destinata a restare vietata.
Egli non ha occasione di mettersi alla prova realmente e praticamente.
Le rarefatte regioni in cui lui, in cui i suoi seguaci si ritirano pieni di paura
del contatto - a pensare, a poetare, sì -, sono gelide.
Per sfuggire alla morte per gelo hanno bisogno ormai di giochetti di
prestigio.
Uno di questi giochetti è la loro tendenza ad appropriarsi delle donne in
quanto fonti di energia.
Cioè: adattarle ai propri modelli di vita e di pensiero.
Per dirla schiettamente: sfruttarle.
Non mi privo, saltando duemilacinquecento anni, di trascriverti dal
"Tiefseefisch" (Il pesce degli abissi) di Marie-Luise Fleisser un paio di frasi
del dialogo tra Wollank, una ex star del ciclismo, e Tutu, il capo di una
cricca letteraria.
Epoca: gli anni Venti.
Luogo: la capitale del Reich, Berlino.

WOLLANK: Sono terribili queste donne che le brulicano attorno, ciascuna


delle quali si spegne a forza di renderle i servizi più disparati.
TUTU: Non capisco perché io non debba prendere quello che posso.
Ne ho fatto un sistema.
Tutto ciò che può stimolarmi mi viene sottoposto senza che debba muovere
un dito.
Tutto il lavoro minuto che logora inutilmente i nervi mi è risparmiato.
WOLLANK: Non ne ha paura?
TUTU: Paura di che?
WOLLANK: Cristo, lei così si atrofizza.
TUTU: Al contrario, mi sviluppo più rapidamente.
La mia vita si affolla di momenti culminanti, sicché ne faccio più
intensamente esperienza.
Le mie forze sono libere di rivolgersi all'Essenziale...
Posso seguire con impegno totale i miei istinti, i capricci, la mia brama di
fare.

Cara A., credi che sia questo il pensare oggettivo da cui nasce un'estetica
oggettiva? Enumerati tutti i grandi nomi della letteratura occidentale, non
dimenticare né Omero né Brecht, e chiediti a quale di questi giganti dello
spirito tu, come scrittrice, potresti riallacciarti.
Noi non abbiamo autentici modelli, e questo ci costa tempo, giri viziosi,
errori; ma non necessariamente è solo uno svantaggio.
Poche, pochissime voci di donne giungono fino a noi, a partire da quando,
intorno al 600 avanti Cristo, Saffo cantò:

Tramontata è già Selene,


e le Plèiadi: il ciel tiene
mezzanotte: l'ora vola;
io son qui, sopita e sola.

oppure:

Una schiera questi dirà di fanti,


quei di cavalieri, che su la negra
terra sia la cosa più bella: io dico
ciò che innamora.

A quel tempo Lesbo era uno dei cinque luoghi della Grecia dove ancora
esistevano scuole per fanciulle - Saffo ne dirigeva una.
Era una donna autonoma che esercitava una professione.
Poi tutto questo finì, e, dopo la veggente, ammutolì per millenni la poetessa,
che le era succeduta.
Soltanto uomini assunsero l'uffizio un tempo femminile, cantarono la luna,
l'amore, lamentarono la progressiva freddezza del mondo, non di rado
furono trattati dai loro compagni di sesso, più aderenti alla realtà, da
lacrimosi, sentimentali, femminei, e soprattutto da poco realistici.
Divenne, credo, sempre più oneroso essere un uomo.
E' bene essere una donna, e non un vincitore (Heiner Muller, "Quartett")
oggi sentiamo dire in maniera credibile da alcuni di loro.
D'altra parte: solo chi conosce i conflitti ha qualcosa da raccontare.
Il canto corale delle sacerdotesse, totalmente inserito nelle scansioni
dell'anno ritualizzate da un gruppo umano scarsamente differenziato, è un
inno, non vi si racconta nulla.
Solo quando sorge la proprietà, la gerarchia, il patriarcato, viene estratto
dalla trama della vita umana che è in mano alle tre donne primigenie, le
Moire, un unico filo rosso sangue, rinforzato a spese dell'uniformità della
trama: la narrazione, cioè, della lotta, della vittoria o della sconfitta degli
eroi.
E' così che nasce una storia.
L'epos, sorto dalle lotte per il patriarcato, ne diventa GRAZIE ALLA SUA
STRUTTURA anche lo strumento di formazione e di consolidamento.
All'eroe sarà attribuita, fino ad oggi, la forza di un modello.
Il coro delle oranti è sparito, ingoiato dal suolo.
La donna può diventare ora, in qualità di eroina, oggetto del racconto
maschile.
Per esempio Elena, che, irrigidita in idolo, sopravvive nei miti.
Elena, la tanto lodata e tanto vituperata - ti cito il "Faust" per l'ultima volta
e purtroppo non l'intero discorso di Elena, che caduta la fortezza di Troia -
ritorna di nuovo a Sparta, da dove Paride l'aveva rapita, nelle mani del
consorte Menelao, e non riconosce più se stessa.

Nell'impeto scostumato della vostra rabbia avete qui evocato funeste


immagini di mostri che mi incalzano, sicché io stessa mi sento spinta verso
l'Ade, nonostante che mi circondino le campagne della patria mia.
Sono memorie o fu follia quella che mi assalì? Fui io tutto ciò? Lo sono?
Sarò in avvenire il fantasma e la personificazione terrifica di una
devastatrice di città?

Saranno mandate a memoria le tappe del suo vagare per i letti degli uomini,
indifferente, una cosa che si desidera, si sposa, si rapisce, per cui si
combatte.
Elena sarà rappresentata in teatro sempre in modo sbagliato, i registi la
vedranno come la civetta corruttrice d'uomini, invece che come trastullo;
nessuno legge ciò che Goethe le fa dire, e nessuno pare credere che lui (e
lei) parli seriamente.
E' Achille l'ultimo a unirsi appassionatamente a lei.

ELENA: Io idolo a lui mi congiunsi che era idolo.


Fu un sogno, son le parole stesse che lo dicono.
Ecco, svanisco, e idolo divento ormai a me stessa (6).

Idolo, dal greco eidolon = immagine.


Alla donna è strappata la memoria viva, le viene attribuita l'immagine che
gli altri si sono fatti di lei: il processo atroce della pietrificazione, della
reificazione nel corpo vivo.
Ora lei fa parte delle cose, della res mancipi - come la casa, i bambini, gli
schiavi, i campi, il bestiame -, che il proprietario può, con la mancipatio, un
negozio giuridico, affidare ad un altro, il quale dal canto suo le può manu
capere, prendere con la mano, metter loro le mani addosso.
La emancipatio d'altra parte, l'affrancamento dalla potestà del pater
familias, fu per molto tempo prevista solo per i figli maschi, e quando
finalmente la parola emancipazione fu usata per le donne (tuttora,
frequentemente con valore peggiorativo: ma che sei un'emancipata?), allora
i più - e le più hanno fatto ricorso a questo concetto, il cui significato
rivoluzionario, radicale, disturbava e disturba, nel senso di equiparazione,
riducendolo e fraintendendolo.
Bene, cara A., questo è un campo vasto, ma probabilmente dobbiamo
arrivare ai suoi confini, se vogliamo farci guidare dalla parola-chiave
Cassandra.
Si ha idea, abbiamo idea di quali difficoltà, anzi di quali pericoli ci possono
essere se nella cosa ritorna la vita; se l'idolo comincia a percepirsi di nuovo;
se quella ritrova la parola? Se deve dire io, in quanto donna? Un territorio
che abbraccia generazioni, dove la donna che scrive continua pressoché o
effettivamente a perdersi: nell'uomo, nelle istituzioni maschili, nelle
associazioni, chiese, partiti, stato.
Abbiamo verbali di testimoni che hanno visto e sentito come essi si parlano.
Ancora dal "Tiefseefisch" della Fleisser, prendiamo come Elnis, il marito, si
rivolge a Ebba, la moglie: Una donna che vuol bene a un uomo, riesce a far
di tutto. - Sono così tenero. - Le mie pene sono le tue pene.
Siamo un corpo e una carne sola. - Non devi avere volontà.
Non devi essere più tu.
Voglio assorbirti tutta. - Tu devi diventare completamente mia schiava, e io
devo diventare completamente tuo schiavo. - T'ho presa come un animale
che punta la sua femmina.
Difendo la mia preda.
Ti analizzerò così a fondo che non ti potrai più staccare da me. -
Dimenticherai che sei sacrificata.
Io sono un mago. - Devi avere in me una cieca fiducia.
Ovviamente non posso avere accanto una persona che ha dei dubbi.- Falla
finita, se ti fai pena.
Impiccati, affogati! Così ce n'è una di meno. - Riuscirò a fare di te di nuovo
un essere umano.
E quali sono, in questo territorio perduto, le frasi della donna? Che cosa può
ribattere a quest'uomo malato di sé? Qualcosa come: non ci capisco più
niente della mia esistenza.
Sono o non sono un essere umano con una sua sensibilità? - Tu schiavo non
diventerai mai, tu no. - E' terribile. - Non tormenteresti la gente, se non fossi
bello. - Io sono una che le cose le prevede.
Sono capace di rinunciare. - Devo sempre toccare il fondo.
Vorrei cavarmi gli occhi dalla testa.
Desidero diventare diversa. - I suoi occhi mi accusano.
Vorrei cancellarmi dalla faccia della terra.
Contro frasi simili, cara A., lo sai bene quanto me, non si può argomentare -
per esempio con altre frasi che cominciano con un ma.
Io sostengo che ogni donna che in questo secolo e nel nostro ambito
culturale si sia avventurata nelle istituzioni segnate dall'immagine che gli
uomini hanno di sé - la letteratura, l'estetica sono istituzioni di tal genere - è
stata costretta a sperimentare il desiderio di autodistruzione.
Nel romanzo "Malina" Ingeborg Bachmann alla fine fa sparire la donna
nella parete, e all'uomo, Malina, che è un pezzo di lei, fa dire pacatamente
come stanno le cose: qui non c'è nessuna donna.
Fu omicidio, suona l'ultima frase.
Fu anche suicidio.
Cara A., ti ho già avvertito che il tema intorno a cui ruotano i miei pensieri
è difficile da circoscrivere.
Ciononostante non mi lascerò trascinare a parlare della condizione della
donna, a esporre osservazioni, a fare citazioni da lettere.
Eppure questo una volta o l'altra dovrà accadere finalmente, foss'anche per
legittimare quello che le donne scrivono delle donne e di se stesse, e che i
critici non vogliono accettare.
Naturalmente vedo bene che questo desiderio di legittimazione ha a che fare
ancora con l'idea fissa che bisogna adattarsi o scomparire; che ha a che fare
anche con l'indottrinamento ad opera della concezione estetica cui
sottostiamo e che d'altra parte stiamo qui discutendo.
Ma ecco che, dopo quasi tremila anni di mutismo, o al massimo di
sporadiche parole, una donna ci viene a dire (7): io raccolgo solo storie
senza risonanza e solo storie ad esito letale. - "Todesarten" (Modi di
morire). - Cara A., non posso portare prove - forse potrei in casi singoli, ma
che prova porta il caso singolo a favore di un'affermazione sommaria come
quella che per una volta voglio fare qui in tutta tranquillità: l'estetica, nella
misura in cui sostiene un'opera conforme ai generi e alle regole, e
soprattutto quando e dove sostiene opinioni determinate a proposito
dell'oggetto dei vari generi, e dunque a proposito della realtà (la quale, me
ne accorgo io stessa, ma non posso fare altrimenti, finisce sempre più
spesso tra le mie virgolette): l'estetica, dico, come la filosofia e la scienza, o
perlomeno in egual misura, risulta inventata all'apparenza con l'intenzione
di avvicinarsi alla realtà, nei fatti per tenere lontano la realtà dal corpo, per
proteggersi da essa.
Pensi che la Bachmann non sapesse in che modo Goethe, Stendhal, Tolstoj,
Fontane, Proust e Joyce scrivessero romanzi? O che non avesse saputo
prevedere con quanto sbigottimento un'opera quale quella che lei divulgò
come romanzo sarebbe dovuta passare davanti a tutte le possibili regole e
categorie estetiche autorizzate sollevando rumore - anche nel caso che
fossero state interpretate con larghezza, certo! - e precipitare diritto al suolo,
senza che ci fosse anche solo una rete sottile ad afferrarla? Madame Bovary
sono io, lo ha notoriamente detto Flaubert, e noi ammiriamo questa frase da
più di cento anni, e ammiriamo le lacrime di Flaubert quando deve far
morire la Bovary, e il magnifico romanzo cristallinamente meditato che è
riuscito a scrivere nonostante le lacrime, e non dobbiamo smettere e non
smetteremo di ammirarlo.
Ma Flaubert per l'appunto NON ERA Madame Bovary, e tutto sommato
questa non è una cosa che si può fingere di ignorare, anche con tutta la
buona volontà e con tutto ciò che sappiamo sulla segreta affinità tra autore e
personaggio.
La Bachmann invece E' la donna senza nome di "Malina", è la Franza del
frammento di romanzo, che semplicemente non sa prendere in pugno la
propria storia, non sa darle forma.
Che semplicemente non è in grado di trarre dalla sua esperienza una storia
presentabile e porla fuori di sé come creazione artistica.
Mancanza di talento? L'obiezione cade, almeno in questo caso.
D'altra parte è difficile capire che la sua qualità di artista si manifesta
proprio e anche nel fatto che lei non riesce a uccidere nell'arte l'esperienza
della donna che è.
Un paradosso, certo.
Poter essere autentica anche questa è una parola del linguaggio artistico -
solo rinunciando alla distanza offerta da determinate forme.
A dover trovare le parole è un'ossessione che non riesce ad attenersi al
rituale dominante, che non riesce ad attenersi ad alcunché, che è indomita,
selvaggia.
Una donna selvaggia, c'è solo da alzare le braccia perplessi; un altro tipo di
logica (lei che come quasi nessuna conosce il pensiero maschile del se -
allora, del poiché - quindi, del non solo - ma anche), un altro tipo di
domande (non più il micidiale: chi nei confronti di chi?), un altro tipo di
forza, un altro tipo di debolezza.
Un'altra amicizia, un altro antagonismo; ed ecco che dovunque guardiamo,
dovunque sfogliamo una pagina, le alternative che finora hanno sorretto e
dilaniato il nostro mondo crollano, e così anche la dottrina del bello e quella
dell'arte, e un nuovo tipo di tensione cerca affannosamente espressione, nel
terrore e nell'angoscia e nel perturbamento che fa tremare.
Nemmeno la consolazione che a ciò forse è possibile dare ancora forma;
non nel senso tradizionale.
A ciò? Ma a che cosa? Alla vittima che prende coscienza del suo ruolo di
vittima e che rifiuta la sua funzione nel rituale, la cui estasi, dovuta al fatto
che non ha riconosciuto il macellaio e lo ha amato e l'ha considerato il suo
amato, sa anche essere autodistruttiva.
La vittima che fugge invece di accettare l'offerta dell'amato che la vuole
simile a lui, sua collaboratrice; sì, ma possibilmente nell'anonimato, e in
ogni caso: oggetto. - Che cosa ha potuto distruggerla così?, è la domanda
che nel frammento di "Franza" si pone il fratello, l'unica presenza maschile,
l'unica presenza umana che la sorella sconvolta può chiamare in aiuto; si
tratta, per quel che posso vedere, della domanda che organizza la materia,
cui però purtroppo, sì: purtroppo, non si può rispondere in modo oggettivo,
né nella vecchia o nella nuova, o anche nella modernissima forma del
romanzo.
Nessuno dei due, né la sorella malata a morte, né il fratello che arriva a
comprendere di dover restare al suo fianco - nessuno dei due riuscirà fino
alla fine a dare una risposta chiara - perlomeno non con le parole di cui
disponiamo.
E anche noi finiremo col ricavarne spavento piuttosto che risposte, o ci
dobbiamo convincere che lo spavento è la risposta a questo nostro tempo,
un terrore senza nome, e che noi - uomini e donne - non progrediremo, non
ci assolveremo, non ci emanciperemo, se ci rifiutiamo di vivere questo
terrore, se vogliamo sottrarci a questo orrore?
E' solo difficile da raccontare, viene detto una volta, con affanno, e ciò che
poi, con parole che non ci sono e parole che ci sono, perché si insiste su di
esse, ciò che poi è raccontato, messo insieme, tessuto, è una trama dai fili
più singolari e, in parte, tirati da molto lontano, cosa che si può supporre
quando due versi della poesia "Iside e Osiride" di
Musil assumeranno per i fratelli valore di parola di riconoscimento e
d'ordine, nonché di assicurazione di incondizionata fiducia reciproca:

Tra cento fratelli soltanto costui,


e lui mangiò il mio cuore, e io il suo.

Di TUTTI e cento i fratelli dice Musil, e chi ricorda la storia della coppia
reale di fratelli egizi, la storia della diffusione di quel culto, il significato del
pasto rituale con parti del corpo di vittime umane, non potrà aspettarsi alcun
idillio fratello-e-sorella.
Tuttavia il loro essere uniti, il loro fraterno e sororale venirsi incontro, i loro
reciproci errori sono il presente del quale e nel quale si narra, mentre non si
può condividere, tutt'al più si può ricordare, e anche questo non subito, non
sempre, ciò che è totalmente altro, ciò che porta alla follia, l'Insopportabile,
ambiguamente chiamato tempo di Jordan.
Il professor Jordan, con cui Franza è sposata, il famoso psichiatra, una
morale superiore, un'autorità, una misura che lei voleva fare propria: in tutti
i sistemi che conosco è proprio questo il punto in cui l'emancipazione della
donna è costretta ad arrestarsi - di fronte al dubbio su questo modello
assiomatico.
L'uomo a cui si è votata (Che vergogna!), non poteva tollerare che una
persona oltrepassasse i limiti che lui le aveva imposto.
Perché mai sono stata così odiata, no, non io, l'altra cosa che è dentro di me,
lui ha sezionato anche lei come tutti gli altri, è stata l'oggetto inconsapevole
di un tentativo diabolico, tu dici fascismo, strano, è una parola che non ho
mai sentito per un comportamento privato, ma da qualche parte deve pur
cominciare, sì, è malvagio, anche se oggi non si deve dire malvagio, ma
solo malato, dev'essere pazzo.
E non c'è nessuno che sembri più ragionevole... separata dalla società, me
ne stavo con un uomo in una giungla, in mezzo alla civiltà, e vedevo che lui
era ben armato e io non avevo armi.
Ha fatto in modo che vedesse gli appunti che prendeva su di lei, un voyeur
scientifico, come ne esistono tanti tra gli artisti.
Mi voleva ridurre a un caso, a quel che lei (e certo anche lui) definisce le
sue pose, atteggiamenti coatti ai quali soggiace sempre più e per i quali,
come per tutto in questa civiltà, esistono modi di dire, denominazioni
scientifiche, che ora lei si scrolla di dosso, come fa con tutto ciò che
l'intelletto dell'uomo bianco ha voluto imporle.
Io parlo dell'angoscia.
Chiudete tutti i libri, l'abracadabra dei filosofi, questi satiri dell'angoscia che
scomodano la metafisica e non sanno l'angoscia cosa sia.
Nella scala dei valori, ti chiedo ora, come si colloca l'angoscia non
l'angoscia dei manuali di psichiatria, l'angoscia nuda e cruda con la quale si
è sole, le membra scosse dai brividi e insonni, e nessuno che ci creda: come
si colloca quest'angoscia persistente nei manuali di estetica, là dove si tratta
del dominio di sé e della materia?
La donna che ha nome Franza deve riconoscere che è stata colonizzata, io
sono di razza inferiore,... lui è l'esemplare che oggi domina, che oggi ha
successo, che è fatto dell'odierna crudeltà, che aggredisce e di questo vive.
Avrebbe dovuto saperlo, ma dato che per tanto tempo lui l'aveva esclusa
dalle sue attività, se ne accorge solo ora che scende in campo come sua
collega, collaboratrice, partner, rivale, concorrente, e tuttavia impreparata.
Seguono quelle frasi cifrate che riescono a mettere insieme tutte le donne di
cui oggi ti ho parlato la veggente, la poetessa, la sacerdotessa, l'idolo, la
figura letteraria:
Si può derubare davvero solo chi vive magicamente, e per me tutto ha
significato...
In Australia gli aborigeni non sono stati sterminati, e tuttavia si estinguono,
e le analisi cliniche non sono capaci di trovare le cause organiche, per i
Papua si tratta di una disperazione mortale, di una sorta di suicidio, perché
essi credono che i bianchi si siano impossessati per magia di tutti i loro
beni...
Lui ha preso i miei beni.
La mia risata, la mia tenerezza, la mia capacità di gioire, la mia
compassione, la mia disponibilità, la mia animalità, il mio splendore, e ha
calpestato ciascuna di queste cose ogni volta che è spuntata, fino a quando
non è spuntata più.
Perché uno faccia una cosa del genere, non riesco a capirlo...

Gli ingredienti magici del suo mondo sono contemporaneamente i più reali.
E in quanto porta questi ingredienti nella sua narrazione, in quei capitoli che
evocano mondi magici, remoti, in Egitto, nelle camere sepolcrali depredate
della magia dai bianchi, e sì, perfino nella sua quasi magica morte per
spavento, causatale da uno che è malato a sua volta, e che non sa fare a
meno di spaventare-a-morte la donna: muore della violenza che si ripete su
di lei; in quanto, dico, ruota intorno alla sua irragionevole, mortale tristezza
con parole il cui magico significato è inconfondibile, lei si avvicina a un
altro modo di narrare.
I bianchi, che siano maledetti, sono le ultime parole di Franza, e io, cara A.,
e certo anche tu, noi crediamo all'efficacia di una simile maledizione e
dobbiamo far di tutto per cancellarne l'effetto.
Scrivendo, sì, ma come, sotto questo sole cocente della ragione, in questo
territorio rigorosamente amministrato, misurato e decifrato, depredate dei
beni che ci appartengono, tra cui le nostre parole capaci di incantesimi.
Una domanda, anche questa, cui ci si può accostare solo continuando a fare
domande.
Se solo riuscissimo a guadagnare tempo.
Cosa dice Cassandra oggi, ovviamente schernita, inascoltata, dichiarata
fuori della norma, abbandonata, consegnata alla morte? Dice:

Vengono i bianchi.
I bianchi sbarcano.
E se saranno ricacciati indietro, torneranno di nuovo, non c'è rivoluzione e
risoluzione e legge valutaria che tenga, torneranno in spirito, se non
riusciranno più a venire in altro modo.
E che risorgano in un cervello bruno o nero, continueranno a essere i
bianchi, anche dopo.
E per queste vie traverse torneranno ad occupare il mondo.

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NOTE

NOTA 1: Christa Wolf, "Cassandra", a cura di Anita Raia.


Edizioni e/o, Roma 1984.
NOTA 2: Per il rilievo che assumerà nel testo l'opera di Ingeborg
Bachmann, scrittrice e poetessa austriaca (Klagenfurt 1926 - Roma 1973),
indico qui di seguito le sue opere di maggior rilievo di cui esiste traduzione
italiana: "Der gute Gott von Manhattan", 1958 ("Il buon Dio di Manhattan",
traduzione di S.
Molinari, Il Saggiatore, Milano 1961); "Das dreissigste Jahr", 1961 ("Il
trentesimo anno", traduzione di C. Schlick, Feltrinelli, Milano 1963),
"Malina", 1971 (Malina, traduzione di M. G. Mannucci, Adelphi, Milano
1973); "Simultan.
Neue Erzhlungen", 1972 ("tre sentieri per il lago", traduzione di A.
Pandolfi e Pizzetti, Adelphi, Milano 1980), "Poesie", traduzione di M. T.
Mandalari, Guanda, Milano 1978.
Del frammento di "Franza", qui citato, sono stati pubblicati alcuni brani su
Orsaminore numero 5, marzo 1982, nella traduzione di A. Bolner.
NOTA 3: La traduzione dell'ultimo capoverso è mia.
Non figura nell'edizione da me consultata (Lewis Mumford, "Il pentagono
del potere", citato nell'Avvertenza).
NOTA 4: La presente traduzione della poesia di Ingeborg Bachmann si
sforza di riprodurre per il lettore italiano gli stimoli e i suggerimenti che
Christa Wolf ha ricevuto dal testo e su cui ha fondato le sue argomentazioni.
Mi sono preoccupata perciò che, come nell'originale tedesco, il senso
dell'IO e del TU, protagonisti della poesia, non sia mai grammaticalmente
individuabile.
Ho inoltre cercato di mantenere in italiano la diffusa presenza, nel testo, del
genere maschile: presenza sulla quale la Wolf lavora per sostanziare le sue
ipotesi sul pensiero maschile, come all'interno della frase Muss EINER
denken? (Pensare si deve?, ma letteralmente: Che UNO pensi bisogna?).
Rimando, per una lettura meno vincolata, alla bella e intensa traduzione di
Maria Teresa Mandalari in: Ingeborg Bachmann, "Poesie", Guanda Milano
1978.
NOTA 5: La versione tra parentesi quadra è mia.
La traduzione di B. Allason (W. Goethe, "Faust", citato nell'Avvertenza)
recita invece: rivela tosto il tuo antico potere.
I legami che Christa Wolf stabilisce tra questo passaggio goethiano, le altre
citazioni del "Faust" e le successive argomentazioni fondate su citazioni da
"Der Fall Franza" di I. Bachmann, mi impediscono di accogliere fino in
fondo la versione del "Faust" fin qui utilizzata.
NOTA 6: In questo caso non ho potuto far ricorso alla traduzione di B.
Allason.
Sia la sua, sia le altre versioni italiane del "Faust" che ho avuto modo di
consultare non traducono l'originale idol con l'italiano idolo.
D'altra parte Christa Wolf, riconducendo la parola alla sua origine greca e
ragionando su di essa, obbliga a una versione in cui il vocabolo figuri.
NOTA 7: Si tratta di Ingeborg Bachmann. "Todesarten" (Modi di morire) è
il titolo di una trilogia con cui l'autrice intendeva narrare come le donne
soccombono a raffinatissime forme psicologiche di oppressione e di
soppressione, legalmente non perseguibili, ma che costituiscono nella
nostra società una diffusa forma di omicidio.
Della trilogia, rimasta incompiuta, fanno parte il romanzo "Malina", e i due
frammenti "Requiem fur Fanny Goldmann" (Requiem per Fanny
Goldmann) e "Der Fall Franza" (Il caso Franza).
La storia di Franza non è riassumibile.
A titolo orientativo, diremo che narra di Franza, sposata al famoso
psichiatra Leo Jordan; delle sottili, ripetute violenze che costui compie su di
lei fino a indurla a sentirsi, e a studiarla, come una sorta di caso
psichiatrico; dell'incontro col fratello Martin; della sua morte in Egitto,
dove un uomo bianco la violenta: ennesima ripetizione della violenza cui è
stata sottoposta, in forme diverse, nel corso della sua vita con Jordan.

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