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PREMESSE A CASSANDRA
(Quattro lezioni su come nasce un racconto)
AVVERTENZA
Questo testo raccoglie le "lezioni di poetica" tenute da Christa Wolf nel
1982 all'Università di Francoforte.
Si tratta di quattro interventi in cui l'autrice illustra la genesi del racconto
"Cassandra" (Edizioni e/o, Roma 1984) a partire dal viaggio fatto in Grecia,
nel 1980, insieme al marito Gerhard (germanista e critico letterario)
indicato come G.
Per la traduzione mi sono attenuta al testo pubblicato da Luchterhand nel
marzo 1983.
Ma ho tenuto conto anche delle lievi modifiche stilistiche presenti
nell'edizione comparsa successivamente nella R.D.T. ("Kassandra.
Vier Vorlesungen.
Eine Erzblung", Berlin und Weimar 1983) che riunisce in un unico volume
le "Premesse" e "Cassandra".
Segnalo qui che in tale edizione la terza lezione presenta in calce la dicitura
versione ridotta ("gekrzte Fassung"), e risulta mutilata, in rapporto
all'edizione Luchterhand di 65 righe a stampa.
La versione che qui viene fornita è integrale.
Notevole importanza hanno nel testo le citazioni dall'"Orestea" di Eschilo.
Christa Wolf ricorre a quattro traduzioni dell'originale greco (indicate nella
bibliografia) lavorando sulle indicazioni e le suggestioni che da queste
traduzioni le derivano.
Per cercare di restituire al lettore italiano il percorso compiuto dall'autrice,
ho tradotto i brani citati direttamente dalle versioni tedesche di Eschilo,
rinunciando a fornire preesistenti traduzioni italiane.
Allo stesso modo mi sono comportata per i passi citati dalla "Poetica" di
Aristotele e per i versi dell'"Ode ad Afrodite" di Saffo.
Signore e signori,
questa iniziativa ha per titolo lezioni di poetica, ma ve lo dico subito: non
ho una poetica da offrirvi.
Mi è bastata una sola occhiata al "Dizionario enciclopedico del mondo
antico" per confermarmi nel sospetto di non possederne una.
Poetica: dottrina dell'arte di far poesia che, in fase avanzata Aristotele,
Orazio - prende forma sistematica, e le cui norme, dall'Umanesimo in poi,
acquistano in numerosi paesi ampia validità.
La via che porta a nuove posizioni estetiche, leggo, passerebbe per la
discussione di queste norme, tra parentesi: Brecht.
Non sto affatto scherzando, e ovviamente non nego l'influenza che le norme
estetiche dominanti hanno su chiunque scriva (anche su chiunque legga e
chiami le norme interiorizzate il suo gusto personale).
Ma il violento desiderio di discutere la poetica o l'esempio di un grande
scrittore, tra parentesi: Brecht, non l'ho mai provato.
La cosa mi è parsa singolare solo negli ultimi anni, sicché può darsi che
queste lezioni tratteranno, tra l'altro, anche di ciò che nessuno mi ha chiesto,
del perché io NON ho una poetica.
Ma soprattutto voglio pregarvi di seguirmi in un viaggio, in senso sia
letterale che metaforico.
Da uno o due anni a questa parte sono andata dietro a una parola-chiave,
vale a dire: CASSANDRA, e per una volta ho avuto voglia (ora mi passava,
ora mi ritornava), di ricalcare a grandi linee le vie lungo le quali la parola
mi ha condotto.
Molto, il più forse, e l'essenziale, resta non detto, resta probabilmente a
livello inconscio, e la trama - che del resto, in quanto forma estetica, si
troverebbe al centro della mia poetica NEL CASO CHE ne avessi una - la
trama che ora voglio sottoporvi non si è completamente ordinata, non è
possibile abbracciarla con uno sguardo, alcuni dei suoi motivi non sono
stati sviluppati, alcuni dei suoi fili si sono aggrovigliati.
Ci sono inserti che hanno l'effetto di corpi estranei, ripetizioni, materiali
fino alla fine non elaborati.
Ciò non è sempre intenzionale: la sovranità sulla materia me la son dovuta
prima conquistare io stessa, e vi faccio testimoni del modo di procedere di
questo lavoro.
Vi faccio testimoni anche di un modo di procedere che ha trasformato la
mia ottica, sebbene questo processo sia appena incominciato, e io stessa
avverta acutamente la tensione tra le forme dentro cui ci muoviamo per
convenzione e il materiale vivo che i sensi, l'apparato psichico, il pensiero
mi hanno trasmesso e che a queste forme non ha voluto sottomettersi.
Se mi è concesso già ora di formulare un problema poetologico, questo è:
non esiste poetica, né può esisterne una, capace di evitare che la viva
esperienza di innumerevoli soggetti sia uccisa e seppellita in oggetti d'arte.
Ciò significa che gli oggetti d'arte (opere) sono anche prodotti
dell'alienazione di una cultura i cui altri
perfetti prodotti costituiscono una produzione rivolta
all'autoannientamento?
Dunque il mio è un procedimento del tutto personale.
Pratico svariate forme soggettive di espressione esaminando il lavoro che
esse possono svolgere, che io posso svolgere su di esse.
La "prima" e la "seconda lezione, resoconto" in due parti di "un viaggio in
Grecia", testimoniano come la figura di Cassandra prenda possesso di me
sperimentando la sua prima provvisoria incarnazione. La "terza lezione"
cerca, nella forma di un "diario di lavoro", di ricalcare l'aggraffarsi di vita e
materia trattata; nella "quarta lezione", una "lettera", mi pongo domande
sulla realtà storica del personaggio di Cassandra e sulle condizioni della
scrittura femminile, ieri e oggi.
La quinta lezione è un "racconto" intitolato Cassandra (1).
Indirizzo pressantemente la mia domanda soprattutto: contro gli effetti
inquietanti dell'alienazione anche nell'estetica, anche nell'arte.
PRIMA LEZIONE
Resoconto di viaggio.
Casuale apparizione e progressiva costruzione di una figura letteraria.
"Puoi cambiare la città, non il pozzo".
Libro di sentenze cinesi.
Così, senza sapere ciò che cercavo, e solo perché sarebbe stato
imperdonabile lasciarsi sfuggire quell'occasione, volli partire per la Grecia.
Sui moduli scrissi turismo a motivo del viaggio, tacqui a tutti, anche a me
stessa, che guardavo con animo sereno al loro ritorno e alla loro
conversione in visti validi - procedimento imperscrutabile -, ho più simulato
che provato un'attesa gioiosa e mi sono attenuta soprattutto a una
disposizione ironica (... cercando con l'anima la terra dei Greci...!); col
pretesto di voler assaporare impressioni non mediate mi sono solo
scarsamente provvista di informazioni, senza poi meravigliarmi
eccessivamente del mio attacco di risa quando, a causa di un errore della
compagnia di volo, abbiamo perso l'aereo per Atene.
Da quel momento la cosa poteva farsi interessante.
Allegramente ripercorremmo in discesa le scale dell'aeroporto.
Non la legge, ma il caso avrebbe governato il nostro viaggio, un sovrano
dispotico, imprevedibile, che è difficile capire, complicato ingannare,
impossibile dominare.
Caso - sostanza volatile, senza cui non nasce racconto che voglia sembrare
naturale, eppure così difficile da catturare.
Un taxi.
Le graffe dell'Ineluttabile si allentarono.
In quell'unica occasione le premesse, che generano per ciascun secondo di
vita un effetto già determinato, non si incastrarono l'una nell'altra, ma
annasparono nel vuoto; Moira, il destino, ci cercò invano nell'aereo che
proprio allora atterrava ad Atene; irreperibili, parvenze non registrate e
senza bagagli, andammo per le strade di Berlino, capitale della R.D.T.;
stranieri, singolarmente turbati, irriconoscibili camminammo per una città
irriconoscibile, mangiammo all'asiatica nel Palasthotel per la somma
stabilita nella dichiarazione per la dogana e i visti, acquistammo i biglietti
per l'Opera e ci raccontammo, sull'animata Friedrichstrasse, la storia del
giorno donato.
Con le dovute misure precauzionali ci intrufolammo nel nostro
appartamento, che era vuoto; dormimmo; la sera assistemmo straniti al
"Ratto dal serraglio", rammentandoci a fatica delle convenzioni a cui ci si
deve attenere perché abbia effetto l'incanto.
Non potevamo ancora supporre che per quattro o cinque settimane non ci
saremmo più sbarazzati delle parole e della melodia delle ultime righe: Chi
tal clemenza può scordar / è uom soltanto da spre-e-giar.
Il mattino dopo, nell'appartamento vuoto dove nessuna telefonata, nessuna
lettera veniva più a perdersi, cominciai a leggere l'"Orestea" di Eschilo.
Ebbi appena il tempo di assistere a come l'estasi panica mi si allargava
dentro, montava e raggiungeva il culmine, quando una voce attaccò:
Cassandra.
La vidi subito.
Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le
erano estranei, si impadronì di me.
Più tardi mi sarei chiesta quando, dove e da chi fossero state trovate le
convenzioni necessarie: l'incanto ebbe subito effetto.
Credetti a ogni sua parola, provare una fiducia incondizionata era ancora
possibile.
Tremila anni dissolti.
Così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò
duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto.
Mi sembrò degna di fede in un altro senso: mi parve che in questo dramma
fosse l'unica a conoscere se stessa.
Priva di distacco, poiché non mi interrogai sulle ragioni della mia
commozione, non mi interrogai nemmeno su quali fossero state, su quali
potevano essere state le intenzioni di Eschilo nei confronti del suo
personaggio.
Prima che Cassandra apra bocca, già sappiamo: la guerra contro Troia è
finita.
Agamennone, il re che ha guidato gli achei e davanti alla cui rocca, Micene,
ci troviamo, ritorna, dopo dieci anni di assenza, atteso da sua moglie
Clitennestra e dai vegliardi che sono stati costretti a restare a casa.
Egli arriva, accanto a lui siede sul carro del trionfo Cassandra, la troiana,
figlia del re troiano Priamo, che è morto come sono morti i fratelli e la
maggior parte delle sue sorelle.
Troia è distrutta, e lei tutto questo lo ha predetto, ma i suoi compatrioti non
le hanno creduto.
Ora si permette di predire agli stranieri che l'attorniano che il loro re,
appena invitato dalla moglie Clitennestra ad entrare nella rocca calcando il
tappeto di porpora del vincitore, proprio da questa verrà assassinato.
Ha immediatamente subodorato la maledizione che pende sulla casa degli
Atridi.
Il coro dei vegliardi argivi si stupisce: ella non accoglie il nobile invito di
Clitennestra a prendere parte al sacrificio che si prepara all'interno.
Non si sa: capisce il greco?
CORO:
Va', Cassandra! Entra.
Lascia questo carro, sottomettiti al giogo!
CASSANDRA:
Apollo! Apollo!
Che segni la via! Tu!
A tutti gli altri
dai soccorso!
E annienti me,
Apollo,
per la seconda volta!
Non c'è dubbio che il coro saprebbe dire alla veggente sconvolta i nomi
delle sue visioni da incubo: Atreo, padre di Agamennone, che scanna i figli
di suo fratello Tieste e ne serve al padre la carne: pare che in Asia Minore
una cosa simile non si facesse neppure nelle lotte per il trono.
Ma no; ora i patriottici vegliardi proibiscono di parlare alla straniera che
non ne ha l'autorità:
Taci!
Ci è noto che sai l'arte del veggente.
Ma noi non cerchiamo profeti:
non qui!
E in lei io avverto un sollievo che forse non è documentabile con le sue sole
parole.
Il sollievo di essersi finalmente sbarazzata di una vocazione opprimente, di
non dovere più niente al dio (E ora il veggente la veggente conduce alla
scure), più niente ai suoi compatrioti (Hanno distrutto Ilio.
L'ho visto come accadde); ma, priva di quella vocazione, anche se non
libera dalla coazione a vedere, deve ancora qualcosa a se stessa - che cosa?
Conoscenza di sé, distacco, lucidità credo di cogliere nella sua voce,
insieme al più profondo sbigottimento.
Una sorta di trionfo? E' ora superiore a coloro che un tempo la derisero -
amici e nemici! e che l'hanno chiamata pazza, accattona, ciarlatana,
scriteriata, miserabile, morta di fame? Li accusa? No di certo.
Il suo non è il tono della vendetta.
Sembra che io sappia di lei più di quanto sia in grado di dimostrare.
Sembra che lei mi guardi più intensamente, che anzi più intensamente mi
riguardi di quanto io sia in grado di volere.
I bambini più piccoli, quattro o cinque ragazzini della stessa età, si sono
mostrati le loro armi-giocattolo, poi si sono divisi in minigruppi che
combattono tra loro, e ora, sparando a salve, impazzano per i corridoi verso
le porte della dogana.
Quando c'è stato bisogno di pezzi da 10 pfennig e da 1 marco per
l'apparecchio telefonico, abbiamo dovuto rivelare la nostra identità di unici
cittadini della R.D.T. tra i passeggeri.
Frattanto una ragazza dodicenne ha scoperto che, per funzionare, il secondo
telefono non ha bisogno di monete, e adesso l'apparecchio è circondato da
adolescenti che chiamano senza problemi l'amico o l'amica a New York, ad
Atene o a Stoccolma.
Se noi, come ci fanno sperare, potessimo decollare verso le 22,20, saremmo
ad Atene verso le 2.
La voce di C., dall'altra parte del primo telefono, molto lontana e
scoraggiata: venite veramente? La tavola è apparecchiata già da un pezzo.
Per l'ultima volta la stanca cameriera al buffet delle bevande accetta
ordinazioni, in cambio di valuta estera ovviamente, poi chiude anche lei e
spegne la luce sul bancone.
Siamo abbandonati a noi stessi e al dubbio che fuori di questa spoglia sala
illuminata ci sia ancora alcunché: un aeroporto, una città di cui esso faccia
parte, un paese, altri paesi, il continente.
Al dubbio che davvero un aereo il quale, come si ode da una voce fantasma,
è stato bloccato in una città di nome Copenaghen da uno sciopero bianco
del personale di volo scarsamente retribuito, ora si stia aprendo un varco
attraverso la notte fino a noi, mucchietto di naufraghi finiti insieme
casualmente, di cui noi non dovremmo far parte, se le cose fossero andate
come dovevano.
E il telefono, che va senza soldi - non è forse un complotto e non simula per
i suoi utenti, magari con l'ausilio di complicati dispositivi di registrazione
(oggigiorno tutto è possibile, non credete?), voci che fingono un mondo
esterno, mentre in realtà Cassandra davanti alla porta di Micene (non vedo:
la porta dei leoni? La porta del palazzo all'interno della cinta muraria?):
CORO:
Perché, come animale pungolato dal dio,
ti avvii tranquilla all'ara del sacrificio?
CASSANDRA:
Il tempo è maturo, amici, e la morte è vicina.
Finanche l'ora estrema ha il suo peso.
E' già qui, e insensato è fuggire.
Ti faccia animo il dolore.
Forse.
Alla felicità il coraggio non serve.
Come, in che modo accadde che le crollò ogni alternativa? E che le resta
ora solo quest'unica via, lungo cui non si lascia trascinare, che percorre da
sola.
Lasciatemi! Devo entrare! Addio.
E poi un errore di Eschilo.
Mai lei avrebbe detto: Anche dentro posso / piangere la sorte di
Agamennone.
Agamennone - l'ultimo della serie degli uomini che le fecero violenza (il
primo fu Apollo, il dio) piangerlo? Allora vuol dire che la conosco male.
I bambini si scatenano come pazzi.
Uno si è isolato dagli altri, un piccolo sbruffone grassoccio e
supersmaliziato che correndo fa il giro delle madri e le informa: quelli mi
chiamano sempre puttana.
Dato che le madri non reagiscono - quanto sono progressiste tutte quante! -,
insegue i più piccoli, fino a che uno di loro cade, batte malamente la testa,
viene rialzato e consolato da sua madre.
Il piccolo sbruffone, imperturbabile (dio mio, anche questo ragazzino un
giorno diventerà un uomo): l'ho cacciato via quello, mi chiamava sempre
puttana.
La nostra risata all'unisono ci permette di fare conoscenza.
Sigrid.
Ci sarà una sera in cui siederemo vicine in una taverna di Atene a mangiare
costolette di montone arrosto.
Il suo amico greco, uno scrittore che lavora a una nuova traduzione di
Eschilo, ad Atene, durante la notte, ha aspettato lo stesso aereo insieme al
nostro amico greco.
Ci siamo scambiati, si sono scambiati gli stessi numeri di telefono.
Tyche, il caso.
Cosa quasi insperata: una stretta porticina che dà sulla pista si apre.
Quando mi siedo: una lucida, sovreccitata tensione in luogo dell'agognata
stanchezza.
Un Boeing.
Due stewards, due hostess che seguono le istruzioni dei loro colleghi
maschi.
Il gruppo rigidamente chiuso dei passeggeri siriani, che non pensano
minimamente a spostarsi anche solo di un posto, in modo che una coppia di
Berlino Ovest possa sedere insieme al figlio adottivo vietnamita - Thomas.
Le mogli dei siriani, sfiorite, vestite totalmente di nero, che obbediscono in
maniera incondizionata ai cenni dei mariti: è possibile che Cassandra abbia
avuto l'aspetto di una di queste, una delle più giovani; ma nessuna di loro
oggi, dopo tanti secoli, riuscirebbe a parlare come lei (che cosa hanno fatto
loro, nel frattempo?):
Quale colpa? Che cosa vuole dire il poeta greco? O che cosa lascia
trasparire, pur senza volerlo dire effettivamente? Parla solo della vecchia
colpa che lei commise quando, come ora vedremo, ingannò il dio
vendicativo? E' questo che ha confessato al coro dei vegliardi, capaci
tuttavia anche di bonaria compassione:
La fede nei profeti è, penso, in gran parte fede nella forza della parola.
Come per rispondere a una contestazione, mi sorprendo a sperare che il
caos estraneo di questo luogo, a cui mi sento esposta più fortemente che a
casa, possa assumere una struttura ordinata intorno alle parole come la
limatura di ferro intorno a una calamita.
La centratura intorno al Logos, la parola come feticcio - forse la più
profonda tra le superstizioni dell'occidente, in ogni caso quella a cui io sono
visceralmente attaccata.
Al punto che l'impotenza linguistica, da sola, mi fa presagire gli orrori
possibili dell'esilio.
Infelice abitudine di saggiare città straniere come luoghi dov'è pensabile
vivere - quando incominciò? La questione del momento in cui andò
smarrito il senso della patria. (L'attimo che nella vita di Cassandra forse ha
significato capire che i suoi ammonimenti erano insensati, perché la Troia
che voleva salvare non esisteva affatto.
Peggio per lei.
Che diavolo poteva farci Troia?).
Probabilmente i fili che ci legavano ai nostri obblighi a un certo punto
furono spezzati, allorché sulla nostra arca oltrepassammo i Balcani.
Quando? Dove? Impossibile stabilirlo.
L'espressione con cui N. si guardava intorno, nella taverna, testimoniava la
sua sensibilità per le più sottili vibrazioni di questo mondo interiore.
Lo vedevo fiutare l'aria: in che misura il paese straniero era ormai patria e la
patria ancora paese straniero? Questa lo accettava? Ne sentiva l'odore
straniero e gli si negava? L'emigrazione non lo aveva reso incapace di
tenersi a galla? Mi sbagliavo oppure gli stava particolarmente a cuore quella
vecchia che, lacera, emaciata, andava di tavolo in tavolo con mazzolini di
fiori? Mughetti, ah, mughetti.
Un'ondata di nostalgia per un posto umido e ombroso sotto un cespuglio di
rododendro in un giardinetto del Meclemburgo.
Cosa dice la donna? Il marito è malato, dice N. di malumore, come se il suo
malumore le potesse guarire il marito.
Quella donna lo turbava.
Esilio, pensai ancora, cioè: essere salvi e senza punti di riferimento.
Quale dei gironi dell'inferno? Invece quelle tre zingare dalle lunghe gonne
colorate, dalle camicette vivacemente scintillanti, dagli scialli sfrangiati,
che si erano messe a sedere a un tavolo accanto all'ingresso, portavano con
sé la loro cerchia di riferimenti, che quindi non necessariamente erano casa,
cortile, proprietà, un luogo, un paese e un particolare tipo di cielo come per
noi sedentari.
Com'era invece vincolato in maniera stabile e definitiva quell'uomo con
cappello e cartella che entrava adesso - ogni pomeriggio alla stessa ora, ci
informò N., non più giovanissimo, ma ancora in servizio; uno che fino
all'ultimo avrebbe avuto un portamento eretto (quella sorta di rigido
orgoglio, vidi, sia che gli fosse connaturato, sia che fosse sorto un giorno
per libera decisione, era il ricovero e la gabbia di quell'uomo); che si mise a
un tavolo accanto al bancone, salutò misuratamente l'oste, fu ricambiato con
rispetto, mentre il cameriere già gli poneva sul tavolo il bicchiere di oúzo,
che lui vuotò immediatamente ma tuttavia con dignità, fino all'ultima
goccia, poi mise una moneta sul tavolo, portandosi due dita al cappello
salutò l'oste il quale ringraziò con un inchino, e se ne andò. - Due minuti,
disse G., ma tutti i giorni.
Proprio così.
E neanche una traccia d'ironia nei gesti grandi e piccoli di questo popolo.
Ci passa la voglia di parlare, quando ci troviamo di nuovo per strada,
coinvolti a forza nel traffico pomeridiano, allorché dagli uffici e dalle
aziende la lotta per la sopravvivenza si sposta per la strada.
Una volta mi colpisce lo sguardo di una Medusa scolpita nella pietra,
l'orrendo capo di Gorgone, ma di pietrificarmi non trovo il tempo, in mezzo
a quella folla.
L'effetto dell'antico malaugurio sembra annullato; quasi soffocando nell'aria
appestata degli autobus stracolmi, sfiniti, grondanti sudore, non riusciamo
ad augurarci nient'altro se non che questo abbia fine.
Con la pietrificazione? E sia pure.
N. chiede se ci accorgiamo di come opprima il petto la miscela dei gas di
scarico.
Allora è questo che mi opprime il petto, la miscela dei gas di scarico,
consolante a sapersi.
Forse è un incubo, che però deve essere stato fabbricato anche coi desideri
degli uomini; solo che le loro divinità malvagie, in un punto indeterminato
tra desiderio e realizzazione, glieli hanno stregati e stravolti in qualcosa di
smodato, raccapricciante, grottesco.
Come si dice fortuna da voi? - Eutychìa, dice N., il caso favorevole.
Molto bello, dico.
Non è da questo popolo che potrebbe venire una frase come Solo l'uomo di
valore alla lunga ha fortuna.
Infatti, a partire da Omero, dai tempi di Eschilo, non sono riusciti a
descrivere la sfortuna come colpa.
Che magnanimità da parte del tragico greco mettere in bocca alla barbara
prigioniera la profezia di sventura per la casa reale della Grecia arcaica.
Quale profezia potrebbe ancora sorprenderci, strapparci lai e lamenti come
al coro dei vegliardi argivi l'annuncio che il loro re sta per essere scannato
dalla loro regina? Noi non siamo al di là di ogni annuncio o profezia, quindi
al di là della tragedia?
Così il poeta maschio vuole vedere queste donne: piene d'odio, gelose,
meschine tra loro - come possono diventare le donne, quando sono
allontanate dalla sfera pubblica, ricacciate in casa e accanto al focolare;
accadde proprio questo nei secoli dei quali tira le somme la grande tragedia
di Eschilo.
Se ne potrebbe parlare a lungo, diciamo nell'accomiatarci.
In estate, quando avremo lasciato da tempo questo paese, a Epidauro gli
interpreti di Clitennestra, di Cassandra, di Agamennone e di Oreste
reciteranno i testi antichi nella lingua di Valtinos.
Capisco che è sovraccarico di lavoro.
Nella sua stanza vedo la macchina da scrivere affogare nella carta.
Cassandra del resto, monto in cattedra io sulla via del ritorno attraverso la
città notturna e vuota, Cassandra non ha interessato veramente Eschilo; non
come lo hanno interessato gli assassini.
A noi, conveniamo, gli assassini ci annoiano fino alla nausea.
A volte potrei ammazzare, dico, ma non descrivere gente in preda a follia
omicida.
Cassandra, presumo, si definisce non assassina, non posseduta dalla follia.
Da dove le vengono la voglia e la forza di opporsi?
Il libro che Valtinos ci ha dato per il viaggio entra nel bagaglio per Creta,
visto che è piccolo e leggero.
Giacché è fuori discussione che dobbiamo andare a Creta, all'improvviso
tutti parlano della culla dell'occidente, all'improvviso tutti parlano della
cultura minoica.
Il traghetto, che si chiama KRITI, fa rivivere ogni sera, nel porto del Pireo,
uno spettacolo antichissimo: una nave salpa.
Adesso è questo ciò che conta.
L'attività di tutto il bacino si raccoglie davanti alla scura imboccatura
quadrangolare della nave, dal ponte di coperta vediamo l'ingorgo dei
veicoli, che più si avvicina l'ora della partenza, più ci appare disperato.
Se si può credere ai gesti, alle grida che arrivano quassù, tra i conducenti
degli autocarri aggrovigliati ci sono questioni di vita o di morte, volano
pugni, uno si siede sul molo, le mani sul viso, un uomo distrutto, mai e poi
mai i berretti bianchi della polizia portuale, che adesso si mescolano alle
teste brune, riusciranno a ottenere qualche risultato, a che servono i loro
cenni, penso, finché mi rendo conto che l'autocarro carico di legname
universalmente osteggiato, il cui conducente sembrava deciso a tutto,
scivola lentamente, lentamente, millimetro dietro millimetro, sul traghetto;
che ora anche gli altri veicoli si danno un ordine, secondo modelli
imperscrutabili, come se quello grande se li tirasse dietro.
E che l'uomo che sedeva piangendo sul molo non guida nessun veicolo, non
aveva alcun interesse personale al risultato, ma solo allo spettacolo che, non
essendo più interessante, abbandona per andarsene a zonzo fischiettando.
Queste scene di partenza, di commiato e di porto non le vivo per la prima
volta; nessuno che abbia dovuto prendere commiato, o lasciare qualcosa che
chiamava patria, può viverle per la prima volta.
Non per la prima volta, mi sembra, una nave su cui me ne sto ritta, scivola
via dal molo, non per la prima volta si spalanca questo scuro abisso tra me e
la riva, e resta indietro, a terra, una figura nera, C., cui facciamo a lungo
cenni di saluto, che diventa più piccola, infine minuscola.
Poi sollevai lo sguardo e vidi la luce.
Erano le sette di sera.
Il sole, molto basso, ci stava alle spalle e illuminava l'arco del porto del
Pireo, ma ogni oggetto risplendeva autonomamente del proprio colore, in
una luce incantata che da allora ogni sera non mi lasciai sfuggire.
Può darsi che in questo chiarore, nel caso che anche le navi degli achei
siano partite a sera dalla costa di Troia, le troiane prigioniere, stipate a
poppa, abbiano visto per l'ultima volta le macerie della loro città e la riva
della patria.
Ciò avrà reso più acerbo il loro dolore e contemporaneamente avrà
rinsaldato quell'amore cui forse si saranno aggrappate una volta in terra
straniera.
Ma dei narratori che hanno scritto di loro, nessuno fu presente, e nessuno ha
menzionato questa luce.
SECONDA LEZIONE
Il resoconto di viaggio continua seguendo una traccia
Apollo! Oh Apollo!
Tu che segni la via! Tu che mi sei avverso! Dove mi hai condotta,
ahi, a quale casa!
...
una casa macello d'uomini e il suolo chiazzato di sangue.
Con cui allude a quell'orrendo pasto che dietro queste mura imponenti
l'Atride Atreo serve a suo fratello, il rivale: le carni cotte dei suoi figli
maschi.
La donna rabbrividisce, un brivido causato anche dalla natura umana, non
solo dal proprio destino.
Adesso sta tra le mura ciclopiche.
Dalla porta la fissano i leoni, che ora sono senza testa.
Deve entrare.
Mura, mura, anche nella cerchia interna della rocca.
L'impietrita paura della vita manifestata dagli abitanti, e il loro timore degli
stranieri - non c'è da stupirsi del cattivo presagio che assale la straniera.
Noi invece: su per sentieri sassosi e soleggiati nella corrente dei turisti,
intorno studenti di qualche college americano, davanti, cinguettanti, le
quattro butterflies giapponesi.
A destra: il circolo delle tombe.
Sguardo sulle tombe a fossa del sedicesimo secolo avanti Cristo: così
venivano seppelliti gli eroi degli achei e non, come descrive Omero, cremati
sui roghi.
L'altare; la via delle processioni; i resti delle mura del palazzo.
Qui, qui da qualche parte, Clitennestra, uscendo dalla porta del palazzo,
disse:
Entra, Cassandra.
Entra in casa, scendi.
Parlo a te.
Offre alla prigioniera di prender parte al sacrificio, pare che non voglia farle
pesare ulteriormente la sua sorte di schiava.
Cassandra tace, il coro congettura:
Al che Clitennestra:
questa è la legge,
sangue,
che a terra scorre,
chiama altro sangue.
Pieni di forza allo stesso modo i cori delle Erinni, dee vecchissime,
personificazione delle anime degli avi, che lamentano il tramonto del diritto
antico, considerato come tramonto della morale in assoluto.
Fiacca poi a paragone, un epilogo da agit-prop, un finale a tesi,
l'assoluzione di Oreste e l'addomesticamento delle Erinni matriarcali ad
opera della saccente Pallade Atena; l'intento politico del cittadino ateniese
Eschilo gli attenua il finale del dramma.
Ma anche in questo agosto dell'anno 1980, i 15000 visitatori, greci ma
soprattutto turisti da tutto il mondo, che nel teatro antico vedranno l'antico
dramma, non torneranno a casa, credo, con la sensazione di aver assistito a
un happy end.
La disputa cavillosa che ha per oggetto se in quell'uomo infelice, Oreste, sia
da ravvisare l'assassino della madre o il vendicatore del padre, è solo
espressione del contrasto che, apertosi là dove invece avrebbe dovuto
svilupparsi accordo e conciliazione, nel maschio si ritrova in forma di
dissidio e che, proprio perché incessantemente negato, mascherato,
reinterpretato, rimosso, genera paura, odio, ostilità con pesanti conseguenze
per millenni, fino a noi e a quelli che tra quattro mesi lasceranno il teatro di
Epidauro, come adesso appunto stiamo facendo.
La Troia che ho davanti agli occhi è - molto più di una descrizione che
guarda al passato - un modello per una sorta di utopia.
TERZA LEZIONE
Un diario di lavoro sulla materia di cui sono fatti la vita e i sogni
Poi fuggì, la vecchia Elena orientale, in Egitto, forse rapita da Paride che
però, secondo una tradizione, fu prima fatto prigioniero dal re Proteo, e poi
fu rispedito a Troia; mentre lui, Proteo, il re egiziano, si tenne la bella
Elena, sicché la guerra di Troia fu combattuta per una chimera: un
personaggio inventato dai poeti. - A tale confusione, a tale intreccio quasi
inestricabile, a profondità sempre più profonde conduce la via che porta alle
Madri.
La divisione del lavoro tra dee estremamente diversificate, che si
consolidano in un prodotto finito solo nelle statue greche, rispecchia lo
sviluppo della cultura umana.
Suscitare amore diventa ora la sorte (moira) di Afrodite.
... e quale dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto alla
psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa
combinazione poiché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano
il mito agli oscurantisti fascisti e trasfunzionarlo in umanità.
Questa unione rappresenta per me addirittura il mondo avvenire,
un'umanità benedetta dall'alto, dallo spirito, e dal Profondo che è sotto di
noi.
Un progetto-utopia in nuce.
Cosa può significare ciò oggi, quando quelli che progettano la distruzione
di interi continenti non sono, in base al senso comune, né oscurantisti né
fascisti, e nemmeno si danno la pena di adattare l'Olimpo germanico o
romano ai loro fini? D'altronde anche loro hanno bisogno di miti, nel senso
che frattanto ha assunto la parola: nel senso di falsa coscienza.
Il loro mito sarebbe questo: la pace che stiamo vivendo è gravida di futuro.
E arriviamo all'anno 1947 e a Thomas Mann, per il quale, come egli ha
predetto nel 1941, l'esilio non è più uno stato d'attesa in previsione del
ritorno in patria, ma paradossalmente è diventato una sorta d'anticipazione
di una condizione che sarà più generalizzata in futuro, e che prelude cioè a
un dissolvimento delle nazioni e alla unificazione del mondo - a Thomas
Mann, ancora a Pacific Palisades, California, ma alle prese adesso con il più
personale, sotto vari aspetti il più arrischiato e per lui il più eccitante dei
suoi libri, il romanzo di Faust e, all'interno di questo, con la composizione
della cantata sinfonica "Lamentatio doctoris Fausti".
Ebbene, egli scrive al filologo classico e all'umanista, che però non si
chiama Zeitblom, ma continua pur sempre a chiamarsi Kerényi,
Se questa guerra va avanti, diventerà la cosa più orribile che gli uomini
abbiano mai conosciuto, la totale eliminazione dell'Europa.
Eppure io - per indolenza, coraggio o fedeltà che sia - non ho nessuna
voglia di fuggire... - Non si dovrebbe crepare insieme all'Europa?...
Noi, che viviamo dei e nei vecchi concetti, siamo perduti; ho già preparato
una certa fialetta.
Come insegnare ai giovani la tecnica per vivere senza alternative, per vivere
comunque? - Quando è incominciato? ci chiediamo.
Era inevitabile questo corso degli eventi? Ci sono stati incroci e svolte dove
l'umanità, voglio dire: l'umanità europea e nordamericana, gli inventori e gli
esponenti della civiltà tecnica avrebbero potuto prendere altre decisioni il
cui corso avrebbe potuto essere non autodistruttivo? Furono poste le basi, ci
chiediamo, dello sviluppo successivo proprio con l'invenzione delle prime
armi - per la caccia -, usandole contro i gruppi in concorrenza per il cibo,
passando dai gruppi strutturati in modo matriarcale e di scarsa efficacia
economica a quelli patriarcali e di maggiore efficacia? Saltando oltre ciò
che è proporzionato all'esperienza umana? La radice della distruttività si
annida forse nella caccia ai prodotti, a un numero sempre maggiore di
prodotti? Se ci fossimo orientati verso altri valori, i nostri paesi avrebbero
avuto una qualche possibilità di ritirarsi da questa competizione?
M. dice che molto dipende, secondo lui, dal fatto che abbiamo vissuto in
modo così miope da pretendere tutto subito, da pretendere tutto per noi -
anche quello che non avevamo seminato.
Il cristianesimo, dice, per lui diventerà sempre più importante, perché sente
che noi uomini d'oggi viviamo senza trascendenza.
Io dico che, anche se condivido questa frase, essa tuttavia non riesce a
sciogliere le mie riserve nei confronti del cristianesimo; le quali negli ultimi
tempi a causa del mio lavoro si sono ulteriormente alimentate, essendomi
chiarita che le religioni semitico-cristiane hanno assegnato per secoli alla
donna il ruolo di schiava; e che proprio queste religioni hanno fornito lo
sfondo ideologico per quella disciplina, quella operosità, quella
subordinazione e quell'abnegazione necessarie al sistema della manifattura
e della fabbrica, al primo capitalismo. - Parliamo delle parole che servono a
preparare la guerra: non sono pericolose solo quelle che uno riconosce
subito per guerrafondaie, dice R. Potrebbero diventare pericolose le parole
più tutelate, libertà da una parte, socialismo dall'altra, se fossero usate come
giustificazione per preparare la guerra.
Allora è proprio S. a dire, con meraviglia di tutti noi, che si domanda cosa
resta veramente da fare a un paese che sa con assoluta certezza di non
potersi difendere dal tipo di minaccia che lo sovrasta.
Di noi non resterà niente, dice.
In una situazione del genere, esiste un valore più alto della vita? E si
interroga sullo slogan che rovescia quello tedesco occidentale e che si sente
a volte in questi giorni: meglio rosso che morto.
Che tipo di pensiero radicale si esige oggi da noi? Quale contenuto
dovremmo dare alla parola rosso per preferirla a qualsiasi altra cosa, perfino
alla vita di tutti quelli che verranno dopo di noi? O le alternative sono ben
altre da tempo?
Che la gente come lui, penso, si spinga fino a domande come queste.
Mentre A. dice che non c'è niente da fare.
Noi, che ci definiamo liberi scrittori, non sappiamo niente di com'è minato e
diviso chi ha un impiego fisso.
A. dice che lui è UNA specie d'uomo durante il lavoro in istituto; un'altra
specie in assemblea; e una terza nel privato, la sera, quando torna a casa.
E che nelle sue tre vite senza connessione tra loro, usa anche diverse specie
di parole: quelle della scienza, quelle della politica, quelle del privato - e
solo queste ultime considera veramente umane.
A suo parere, ciò di cui discutiamo, ciò che ci auguriamo, sarebbe
un'utopia: a quale parte di quest'uomo diviso vogliamo rivolgerci con la
nostra visione della pace, che d'altra parte richiede anche coraggio? O paura
sì, nel migliore dei casi.
Perché già la paura sarebbe - quando non si tratta della paura nevrotica del
nulla - una manifestazione dietro cui c'è una persona.
A. invece vede soltanto che la persona sta scomparendo. - Ma questo,
obietta E., riguarda anche noi liberi scrittori: pensiamo in modo diverso da
come parliamo, parliamo in modo diverso da come scriviamo: quanto a lei,
dato che ha capito che la censura e l'autocensura sono fomentatrici di
guerra; dato che si è resa conto che non abbiamo il tempo di rimandare a
più tardi i nostri veri libri - lei ha smesso di parlare e scrivere con lingua
biforcuta...
Parliamo fino a notte.
Un'utopistica assemblea.
Immagino: centinaia, migliaia, milioni di simili assemblee, distribuite sul
nostro continente...
QUARTA LEZIONE
Una lettera su univocità e pluralità di senso, determinazione e
indeterminazione; su situazioni antichissime e nuove ottiche; sull'oggettività
Cara A., quando finalmente, nel trasferirmi come sempre sul finire
dell'inverno da Berlino nel Meclemburgo, ho disfatto le valigie, ho svuotato
le borse dei libri in quella stanza da lavoro che è per me la più cara - una
stanza che odora di legno; da una finestra della quale, detta occhio di bue,
guardo il nostro cortile erboso, i salici che sono cresciuti sulla riva dello
stagno, lo stagno, il letamaio e il muro della stalla del nostro vicino O., il
bucato di Edith (è il giorno dei suoi lavori domestici), le mie due querce
intrecciate l'una all'altra, spoglie e promettenti, e le case del villaggio che
poi, nel corso dell'anno, dal fogliame di queste querce saranno coperte; una
stanza dove da un altro occhio di bue, davanti al quale su una pedana di
legno sta la mia scrivania, godo di quella vista che desidererei avere davanti
agli occhi nell'ora della mia morte: il grande prato ancora sbiadito, in mezzo
il ciliegio maestoso da primavera incipiente, diafano, circondato da meli più
piccoli, da cespugli di more; la rossa fattoria dei P., addossata al laghetto
che si cela quasi del tutto dietro un'ondulazione del terreno; e poi, in
lontananza, fino al basso orizzonte, a onde uniformi, campi, salici, gruppi di
alberi: allora sento che le mie aspettative crescono.
Non comincio neanche a parlarti dei colori, e nemmeno dei cieli - perché mi
tocca ancora enumerarti, alla fine della frase che è cominciata con le borse
dei libri svuotate, un po' dei titoli che stanno in cima alla montagna di libri,
ben leggibili, o, più sotto, mezzo coperti: "In principio era la donna".
"Madri e amazzoni". "Dee".
"Il patriarcato". "Amazzoni, guerriere e donne forzute". "Donnesesso
matto?" "Le donne nell'arte". "Auspici, incantesimi d'amore, culto di
Satana". "Fantasie maschili". "Utopie femminili - sconfitte maschili".
"Donna e potere". "Questo sesso che non è un sesso". "Oracoli". "Utopia
del passato".
"Outsiders". "Tracce storico-culturali di una femminilità rimossa". "Il
potere femminile". "L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
stato". "I frutti selvatici della donna". "La dea bianca". "L'immagine della
femminilità".
"Una stanza tutta per sé". "La femminilità nella scrittura".
Eppure questa enumerazione, anche se continuassi, non ti darebbe un'idea
esatta della singolare commistione delle mie letture da un anno a questa
parte, perché gli autori di archeologia, di storia antica, i classici, stanno in
un'altra valigia.
Cominciò in modo innocente, e cioè con una domanda che fui costretta a
pormi: chi era Cassandra prima che qualcuno ne scrivesse? Ed è questo che,
tanto per cominciare e tra l'altro, proprio adesso, non a caso mentre rastrello
l'erba, pulisco le aiuole, poto la siepe del giardino, mi porta a credere anche
di aver capito all'improvviso una poesia della Bachmann, che da tempo
conosco e amo: "Spiegami, Amore".
Perché tu non debba cercare: essa si trova nel primo volume dell'edizione
completa delle sue opere a pagina centonove.
La penultima strofa la conosci probabilmente a memoria come me.
Un vuoto - per chi? Un vuoto - per che cosa? Per queste semplici attività
forse, per questo portar dentro la legna, stendere il bucato, arrostire aringhe,
che mi divertono soltanto qui? Che il pensatore cura di evitare; che perciò
non ne influenzano il pensiero, e non riescono nemmeno a colorirlo,
giacché la sua professione è il pensare, fin dall'antichità.
Non il toccare.
Non il fare.
E' questo che contribuisce a determinare il libero cittadino della polis - una
minoranza nello stato, dalla quale si stacca ulteriormente il filosofo: il non
lavorare con le mani.
Trova però il tempo di prestare orecchio ai rapsodi i quali, avvicendandosi,
salmodiano tra l'altro un tal poema epico di un tale Omero, che, è vero,
canta innanzitutto l'ira di un eroe di nome Achille e la lotta micidiale di
molti altri eroi dei tempi antichi; ma in cui compaiono anche nomi di
donne, in qualità di seduttrici, di spose, di madri (dunque in relazione al
maschio, naturalmente), e appunto anche il nome di una profetessa di
sventure, Cassandra.
A partire da quei primi pensatori, che si coltivano, che scrivono, dato che la
scrittura ci ha tramandato i loro nomi, vedo attraverso due millenni e mezzo
l'impressionante galleria di teste maschili pensanti.
Che uno pensi bisogna potrebbe forse voler dire: bisogna che uno o una? -
pensi A QUESTO MODO? A questo modo - che esclude? Che esclude
l'amore, ciò che è amorevole... accompagnarmi solo ai pensieri, e io
soltanto / non sapere né fare nulla d'amorevole....
Spiegami, Amore: tu come lo leggi? A chi si rivolge? All'Amore astrazione
personificata - o a una donna che chiama amore? Parla come donna, parla
come uomo? Tu dici: altro è lo spirito che su di lui fa conto....
Si tratta dell'amato, al pensiero del quale soltanto, l'Io della poesia dovrà
accompagnar[si] poiché non può sapere né fare nulla d'amorevole, e dunque
avverte il vuoto che lui, il pensatore, lascia? Si tratta di lei stessa che,
pensando A QUESTO MODO, è costretta a sentire il vuoto che si lascia
dentro, e lascia un vuoto?
Altrettanto plurivoco è il Tu della poesia.
Il tuo cappello si leva leggero, saluta, fluttua nel vento, / il tuo capo
scoperto ha incantato le nuvole, / il tuo cuore altrove si affaccenda, / la tua
bocca di nuovi linguaggi s'insapora: a chi si rivolge? A se stessa come a un
tu? A colei che più avanti chiama amore? (Ammesso che sia una colei...).
E' così anche per te? Quanto più profondamente mi calo nella poesia, sul
suo fondo, che però non avverto sotto i piedi, tanto più fortemente sono
catturata anch'io dalla confusione che essa testimonia e che non tenta di
dissolvere descrivendo i giochi d'amore della natura con immagini che si
fondano l'una sull'altra, si levano l'una dall'altra e reciprocamente si
superano (Il pavone fa la ruota con stupore solenne), chiamando perfino a
testimoni l'acqua, l'onda, la pietra (l'onda all'onda prende la mano,...
Una pietra sa come intenerire l'altra!), per poi sprofondare nella propria
insufficienza, nella propria irreparabile perdita.
Dovrò in questo breve orribile tempo... - Di fronte alla parola orribile che
cosa pensi? Subire gli abusi di colui, di coloro che amiamo più di tutto.
Non poter essere io, non tu, ma quella: oggetto di fini che ci sono estranei.
Accompagnarsi solo a pensieri rivolti a un fine, non a colui che (non a me)
pensa.
Tu dici: altro è lo spirito che su di lui fa conto...
Certo non lo spirito dell'amore.
Lo spirito, invece, che conta e misura e valuta e ricompensa secondo il
merito e punisce.
Non mi spiegare nulla.
La salamandra vedo
passare attraverso ogni fuoco.
Non un tremito l'incalza, e non prova dolore.
Spiegami, Amore
Spiegami, Amore!
L'acqua sa bene cosa dire,
l'onda all'onda prende la mano,
nella vigna il grappolo si gonfia, si spacca e cade.
Com'è ingenua la lumaca che esce dalla casa!
Intendimi bene! Di uno fai dieci, togli il due, pareggia tre, e ricco sarai...
Giacché Goethe, per il quale - come per tutti i suoi contemporanei - la storia
incominciava là dove i greci l'avevano arbitrariamente posta, nell'anno della
prima Olimpiade, il 776 avanti Cristo: Goethe sapeva della natura triforme
delle antiche dee madri (la prima trinità in assoluto, da cui sono derivate
tutte quelle successive) nella quale il tre era pareggiato in quanto l'unica
dea, corrispondente ai tre piani del mondo, si manifestava in tre modi: come
fanciulla dell'aria, luminosa, giovane, cacciatrice (Artemide), come dea
delle donne, centrale, dispensatrice di fertilità, sovrana della terra e del
mare, divinità erotica (Demetra, Afrodite, Era, che prima si chiamava Era-
Terra, e i cui altri nomi sono Gea e Rea: la Grande Madre Terra di Creta e
del vicino Oriente); e infine come vegliarda che vive negli inferi, dea della
morte che contemporaneamente procura la rinascita (Io, la dea-vacca
cretese, un aspetto di Era, e naturalmente Ecate-Ecuba).
Il rosso, il bianco, il nero ne sono i colori, corrispondenti alle fasi della
luna, che ne è il simbolo e di cui sono le dee (ti accorgi di che sforzo
bisogna fare, quando si deve parlare dei molti come di uno? Lo stampo
delle nostre circonvoluzioni cerebrali, il nostro modo lineare di parlare si
oppongono alla tavola pitagorica della strega).
E ora vai a leggere nel "Faust", parte seconda, quel passo della notte
classica di Valpurga dove Anassagora e Talete discutono delle forze che
tengono profondamente unito il mondo; dove Anassagora, sostenitore della
teoria delle catastrofi, fa sorgere un monte popolato da nani che cadono in
disgrazia a causa della carneficina e della vendetta compiute, sicché il
filosofo dopo una pausa, solennemente è costretto a rivolgersi adesso ai
celesti.
Grande, sempre più grande, si avvicina il trono della Dea iscritto nel disco,
terribile all'occhio ed immane! Il suo fuoco si arrossa, s'infosca! Non
accostarti, o potente e minaccioso disco, ché sarebbe la distruzione nostra
e della terra e del mare!
Ma un tempo la magia era arte esclusiva delle donne (che, sospinte nella
mancanza d'amore, non senza motivo ritornano alle formule e ai sortilegi):
delle più anziane della tribù, nelle società agricole arcaiche, poi per lungo
tempo delle sacerdotesse, alle quali i primi sacerdoti riuscirono a sottrarre il
rituale soltanto infilandosi a forza le magiche vesti femminili.
Annotare questo con voce sdegnata mi sembrerebbe ridicolo, giacché non ci
si poteva certo fermare alla magia e agli incantesimi.
Se però era necessario arrivare al punto in cui siamo ora, quando l'uomo se
ne sta davvero solo di fronte alla natura - davanti, non dentro di essa questo
lo chiedo a me e a te.
Recentemente, mentre in una cerchia di giovani studiosi di scienze naturali
discutevo non solo dei problemi attuali della loro scienza, ma anche della
storia della donna in occidente, uno dei giovani - evidentemente deciso una
buona volta a parlar chiaro - affermò: bisognava smetterla di piangere sulla
sorte della donna in passato.
Che lei si assoggettasse all'uomo, che lo curasse, che lo servisse -
esattamente questa era stata la condizione perché l'uomo potesse
concentrarsi sulla scienza, o anche sull'arte, e dare risultati di altissimo
livello in entrambi i settori.
Il progresso era stato ed era impossibile in altro modo, per il resto si trattava
di ciance sentimentali.
Un mormorio si levò nella sala.
Trovai che l'uomo aveva ragione.
Solo così si può ottenere il genere di progresso nell'arte e nella scienza cui
siamo abituati: risultati record, fuori della norma.
Si può ottenere solo con la spersonalizzazione.
I partecipanti alla discussione avevano appena definito non realistica la mia
proposta di introdurre una specie di giuramento di Ippocrate per le scienze
esatte, che proibisse ad ogni scienziato di collaborare a ricerche per scopi
militari.
Mi si era obiettato che se non qui, questi giuramenti sarebbero stati
comunque violati da qualche altra parte.
Per la ricerca non potevano esistere tabù.
Il prezzo di quel genere di progresso che l'istituzione scienza da tempo
produceva, avevo detto, per me era diventato a poco a poco troppo alto. -
Udii più tardi che alcuni dei partecipanti alla discussione avevano notato in
me una tendenza ostile alla scienza.
Un malinteso assurdo! pensai in un primo momento, poi mi bloccai: nei
confronti di una scienza che si è a tal punto allontanata da quella sete di
conoscenza da cui deriva e con la quale tuttavia segretamente io continuo a
identificarla - come potevo essere animata da sentimenti amichevoli? -
Credo che dobbiamo smetterla di prendere sul serio le etichette che ci
attaccano.
Dov'eravamo rimasti? Alla magia delle donne, a Goethe, alla domanda su
cosa sia oggi il progresso.
Alla strada che porta alle Madri.
Alla bella Elena, di cui Faust ha un indicibile desiderio, e che Mefistofele
non riesce a procurargli così come gli ha procurato tutto ciò di cui finora ha
avuto voglia, con ciurmerie magiche, fantasmoscenografiche.
C'è però un mezzo...
Non ci si meraviglierà mai abbastanza che una parola come questa- Madri!
- costretta da tempo all'uso basso del quotidiano, continui a conservare la
sua irradiazione, continui ad avere in sé un elemento mitico, prodigioso,
appena percepibile razionalmente, perché al tempo di Goethe in realtà non
si SA proprio niente di ciò che le sta dietro; non si sa niente di scavi
archeologici, di ricerca sul campo, di stratificazioni temporali della
mitologia greca, delle impronte locali che prende.
Si SA solo di una stirpe di dèi discendente da Urano, il quale nascondeva
nel grembo della terra tutti i figli maschi che la Grande Madre Gea gli
partoriva perché in seguito non rivaleggiassero con lui per il trono;
dell'evirazione del padre ad opera del figlio suo e di Gea, Crono, su
istigazione di Gea.
Dell'unione tra Crono e Rea - un matrimonio tra fratelli, poiché entrambi
erano figli di Gea, e il tabù dell'incesto è stato inventato solo molto più
tardi; della paura di Crono di perdere il potere, paura che gli fece divorare i
suoi figli maschi, anche Zeus, con indicibile lutto di Rea (Esiodo).
Per salvare Zeus, che è destinato a diventare il padre degli uomini, Gea fa
mangiare a suo figlio Crono invece del neonato una pietra avvolta in fasce,
sicché lui vomita con la pietra tutti i figli divorati: nessun idillio, certo; ma
dato che l'idea che il mito potesse rispecchiare lotte reali era lontana dai
contemporanei di Goethe; dato che essi non potevano sapere nulla della
funzione dell'eroe nelle società matriarcali, e di come questi dovesse
congiungersi una volta all'anno in sacre nozze con la Madre della tribù, la
sacerdotessa, la regina, per poi essere sacrificato con un solenne
cerimoniale un avvenimento che, come l'evirazione di Urano, molto
probabilmente fondò la paura maschile dei rituali femminili -; dato che il
classicismo tedesco vedeva in quello greco un esempio di riuscito legame
tra il singolo (maschio) e la collettività (Sono quel che noi eravamo; sono
quel che dobbiamo di nuovo diventare, Schiller): un autoinganno
storicamente comprensibile, anzi necessario: favorì infatti l'immagine
armonica delle condizioni di vita dei greci da dove viene allora, se non dalla
propria esperienza, questa paura istintiva delle Madri, che si rispecchia
anche nella tradizione di Medea, in quella delle amazzoni, e che rese
particolarmente odiosa a Goethe la "Pentesilea" di Kleist...
Il brivido è fatto di reverenza e timore.
Spesso penso che agli uomini d'oggi è rimasto solo il timore.
Devo pregarti di non diventare impaziente.
Non che io abbia perso di vista la domanda che realmente mi interessa: chi
era Cassandra, prima che si scrivesse di lei? (Poiché però è una creazione
dei poeti; poiché parla solo attraverso di loro, è solo nella loro visuale che
lei è giunta a noi...
Questa perciò è anche una delle piste che seguo, finché non se ne dirama
un'altra lungo cui mi sento spinta, finché la successiva non mi costringe ad
abbandonare la seconda).
Mi piacerebbe comunicarti la sensazione che mi causa l'irrequietezza
rispecchiata da questa lettera: in fondo, dal fondo, tutto è in relazione con
tutto; e un approccio rigorosamente concentrato su una sola via, l'isolare
una matassa per farne un racconto e un'indagine danneggia l'intera trama e
la stessa matassa.
Ma, semplificando, è proprio questa la via percorsa dal pensiero
occidentale, la via della selezione, dell'analisi, della rinuncia alla
molteplicità dei fenomeni a favore del dualismo, del monismo, a favore
della compiutezza delle immagini del mondo e dei sistemi; la via della
rinuncia alla soggettività a favore di un'oggettività garantita.
Per questo, ANCHE per questo il classicismo tedesco si è servito degli
antichi: le norme estetiche oggettive che Goethe, non ancora quarantenne,
sviluppa dalla contemplazione delle copie d'opere d'arte greche o dei loro
originali in Italia, sono certamente anche il sintomo del suo fallimento nella
vita pubblica del granducato di Weimar:
In questo viaggio, spero, voglio placare il mio spirito con le arti belle.
imprimermi bene la loro sacra immagine nell'anima e serbarla per
godermela in pace.
Poi però voglio volgermi a chi opera praticamente e, quando ritorno,
studiare chimica e meccanica.
Giacché il tempo del Bello è finito, i nostri giorni impongono solo il
bisogno e la severa necessità.
In strofe che scorrono lievi e armoniose appare una Cassandra che lamenta
la sua sorte di veggente, un personaggio dell'epoca del sentimentalismo, che
preferirebbe essere borghesemente sposata anziché continuare a gemere
sotto il peso delle sue visioni:
E così via.
La semplicioneria quasi insuperabile di questa interpretazione di Cassandra,
che non ha niente da invidiare alla comune avversione filistea nei confronti
della grandezza, soprattutto della grandezza che si manifesta in una donna,
certamente non è dovuta solo all'ideale femminile di Schiller, ma anche e
altrettanto fortemente al suo modello di classicismo, che non permette di
presumere in un'eroina un lungo e contraddittorio sviluppo storico.
E qui tornerei alle Madri di Goethe e all'ordine di Mefistofele a Faust
perché sottragga loro un tripode.
Un tripode ardente ti farà capire che hai toccato il fondo dell'abisso; al suo
chiarore scorgerai le Madri; seggon le une, stanno le altre e vagano.
Formazione, trasformazione, eterno giuoco dell'eterno pensiero, intorno ad
esse aleggiano le immagini di tutte le creature.
Esse non ti scorgeranno, poiché solo quelle ombre esse scorgono.
Fatti allora coraggio, ché il pericolo è grande; va diritto a quel tripode e
toccalo con la chiave!...
Ecco, così; e il tripode alla chiave si salderà, la seguirà come un servo
fedele.
Tranquillo risalirai, la tua buona sorte ti riporterà in alto, e, prima che le
Madri se ne avvedano, eccoti di ritorno col tripode.
Appena quassù l'avrai recato, evoca dalla Notte l'antico eroe e l'antica
eroina...
Ora il tripode, con l'aiuto del quale Faust evoca con molta precisione le
sembianze di Elena, è un antichissimo oggetto sacro, lo vediamo sui sigilli
cretesi accanto alle raffigurazioni delle dee più antiche.
Trova impiego nelle pratiche cultuali.
Nell'atto del Faust dedicato a Elena, Forcide-Mefistofele lo annovererà tra
gli oggetti che sono usati per preparare un sacrificio.
In Grecia la più famosa portavoce dell'oracolo, la Pizia di Delfi, sedeva,
com'è noto, su un tripode, evidentemente da tempi remoti, non solo da
quando Apollo, il dio delle molte facce, si impossessò, nel corso della
patriarcalizzazione, anche dei culti, anche dei miti, e assunse quel santuario:
in qualità di primo vincitore del drago.
Dovette infatti uccidere con un tiro di freccia il drago Pitone, nato da Gea -
cosa che non può significare altro se non la detronizzazione della
genealogia femminile delle portavoci dell'oracolo (precorritrici di
Cassandra) per installare i suoi sacerdoti di sesso maschile, a quel che si
dice provenienti dalla Creta minoica.
Senza alcun dubbio questo Apollo, figlio di Leto, fratello di Artemide
(Febo, il raggiante), gradualmente sviluppatosi dai culti matriarcali di
Artemide in Asia Minore, intorno al 1000 avanti Cristo balzò da Delo (dove
pare che sia nato, figlio di Zeus!) sulla terraferma greca e si elevò non solo
a sommo dio dell'oracolo, il più chiaroveggente, ma anche a Musagete,
guida delle Muse (cosa a cui gli dava diritto il suo attributo, la lira a sette
corde) e a Moiragete, guida delle Moire, le tessitrici del destino che
originariamente, in quanto Moirai, erano probabilmente le parenti anziane
che, come levatrici, aiutavano il neonato a venire al mondo e gli tessevano
sui primi panni i contrassegni magici che lo distinguevano dagli altri; grazie
ai quali tutti i parenti e i membri del clan potevano riconoscerlo - così come
in innumerevoli fiabe il figlio abbandonato dal re è grazie a un segno che
viene riconosciuto.
Affascinante la trasformazione di queste ave in dee del destino (quando il
clan diventò tribù, e questa regno); la loro affinità con le Erinni cretesi; la
loro conversione nelle Ore che, personificando legge e ordine, pace e
giustizia, sono emerse soltanto con la società di classe, con la formazione
delle città-stato.
Eschilo sa ancora che il mondo all'inizio fu dominato dalle Moire triformi e
dalle fedeli Erinni.
Anche Zeus - la concezione del quale può sorgere solo se esiste un regno
con una successione maschile consolidata - per lungo tempo non poté
ignorare le decisioni delle anziane dee del destino, le Moire.
In parallelo col processo di formazione dello stato, le antiche dee della tribù
soccombono ai nuovi dèi riconosciuti per decisione statale.
E proprio nel corso di questi secoli avvenne che dal culto della ninfa
montana Dafne (alloro), la quale, nominata sacerdotessa divinatrice dalla
Madre Terra Gea, officiava a Delfi in una semplice capanna di rami d'alloro,
nel secondo millennio avanti Cristo (al tempo cioè della Cassandra storica!)
- dal culto esclusivamente matriarcale di sacerdotesse che accompagnavano
ogni importante occasione pubblica del loro clan, della loro tribù, col canto
corale, la danza, i riti sacrificali e gli annunci dell'oracolo; da un più tardo
tempio di cera e piume, costruito probabilmente dalle api (animale dei clan
femminili), sorse infine a Delfi, nel settimo secolo, il primo grande tempio
bronzeo che, consacrato ormai in modo univoco ad Apollo, conserverà le
cantanti d'oro solo come figure ornamentali sul frontone: le cosiddette
Celedonie, donne evocanti, le quali una volta al mese si recano ai crocevia e
invocano la luna - un culto che è collegato a Demetra e ad Artemide, la
sorella di Apollo...
Ormai le donne erano murate in alto, nel fregio del frontone del dio
maschio.
In basso però, all'interno del tempio, sedeva la Pizia vaticinante, l'unica
donna rimasta nel culto dell'oracolo, altrimenti esclusivamente maschile, la
quale, in trance a causa dei vapori che stordivano, dell'alloro masticato,
forse dell'autosuggestione o dell'ipnosi, proferiva balbettando, torcendosi,
ormai un medium nelle mani dei potenti sacerdoti, le sue sconnesse parole
oracolari, la cui interpretazione, la cui formulazione in parte poetica
spettava ancora una volta ai maschi - i sacerdoti, i primi poeti.
Nella situazione precedente: gli uomini si identificavano con le donne,
mimavano le fasi del parto, si eviravano per poter diventare sacerdoti (è ciò
che si dice perfino di Apollo), s'intrufolavano in abiti femminili al posto
delle sacerdotesse nella celebrazione dell'uffizio (così pure Apollo) - adesso
però questa situazione è più che rovesciata, la donna è uno strumento nelle
mani degli uomini.
Nelle professioni di poeta, di veggente, di sacerdote, che hanno tutte radici
magiche, si può leggere con la massima chiarezza: la donna, un tempo
preminente, è stata o esclusa o ridotta a oggetto.
Da allora sono trascorsi secoli.
A uno dei punti di congiunzione tra questi avvenimenti così carichi di
conflitti si trova Cassandra.
Nasce da una casa reale dove la successione patrilineare sembra
consolidata, senza che per questo la regina, Ecuba, secondo alcuni
proveniente dalla cultura matristica dei Locri, abbia perso importanza; dove
è ancora nota la forma di transizione secondo cui il pretendente rapiva la
principessa (Paride - Elena) in quanto solo la donna poteva trasmettere il
trono all'uomo.
Dove gli antichi culti matriarcali possono essere praticati accanto ai giovani
culti dei nuovi dèi, forse soprattutto dalla popolazione rurale, soprattutto
dagli strati popolari inferiori.
Dove una giovane donna può diventare sacerdotessa, ma quasi mai prima
sacerdotessa.
Dove lei, sopraffatta dalle visioni, può essere veggente, e tale può essere
considerata, ma non portavoce ufficiale dell'oracolo: sono gli uomini che
leggono il futuro nel volo degli uccelli, nelle viscere degli animali
sacrificati: Calcante, Eleno, Laocoonte.
Una cultura che forse era incapace di far fronte a quella rigidamente
patriarcale degli achei micenei, alla loro rigida volontà di conquista.
Forse Cassandra in realtà ti prego, nessuna obiezione, è esistita! - non era
una sacerdotessa di Apollo? O comunque era la sacerdotessa di un Apollo
diverso da quello raggiante, che colpisce lontano dell'Olimpo greco
classico? Di un Apollo più antico, cui si conveniva l'appellativo di Lossia,
l'oscuro; la cui discendenza dai lupi, il cui essere doppio della sorella
gemella Artemide era ancora ben presente alla gente.
Come pure Atena, adorata in un altro tempio della città, probabilmente non
era la Pallade Atena classica, ma il simbolo di un culto collocabile tra le
ave-idoli di origine ctonia e la vergine regina-dea, nata non dal grembo
materno, ma dalla testa del padre Zeus: proprio come il pensiero, di cui ora
si occupano i greci-maschi, intellettuali naturalmente, per portarlo ad
altezze sorprendenti, ad un'astrazione mirabile, e che anch'esso non ha
madre, solo padri.
Ti pare fuorviante ritenere che oggi il pensare avrebbe una vita diversa se le
donne da più di duemila anni avessero contribuito a pensarlo? (Ce ne
dimentichiamo troppo facilmente: la donna esiste come intellettuale in
misura rilevante solo da sessanta-settant'anni.
Conosciamo storie di lei e su di lei, ma la sua storia - una storia di fatica e
di coraggio incredibile, ma anche di incredibile sacrificio di sé e di rinuncia
alle esigenze della sua natura - è ancora da scrivere.
Essa sarebbe contemporaneamente la storia del rovescio della nostra
cultura).
Ritorno alla natura dunque, o, cosa che per qualcuno è lo stesso, a stadi
arcaici dell'umanità? Cara A., non è possibile che noi vogliamo una cosa
simile.
Conosci te stesso, la massima dell'oracolo di Delfi, con la quale noi ci
identifichiamo, è un motto di Apollo; a una dea di un'epoca indifferenziata
questa frase non sarebbe mai venuta in mente solo che al dio il quale,
accanto a molti altri appellativi porta anche quello di Ecatos, l'eternamente
lontano, con cui si intende la sua raggiante purezza e la sua eterna distanza
dalle cose terrene - solo che a questo dio della nobile libertà dello spirito,
che per definizione non viene a contatto con la terra, la conoscenza di se
stesso, cui tende, è destinata a restare vietata.
Egli non ha occasione di mettersi alla prova realmente e praticamente.
Le rarefatte regioni in cui lui, in cui i suoi seguaci si ritirano pieni di paura
del contatto - a pensare, a poetare, sì -, sono gelide.
Per sfuggire alla morte per gelo hanno bisogno ormai di giochetti di
prestigio.
Uno di questi giochetti è la loro tendenza ad appropriarsi delle donne in
quanto fonti di energia.
Cioè: adattarle ai propri modelli di vita e di pensiero.
Per dirla schiettamente: sfruttarle.
Non mi privo, saltando duemilacinquecento anni, di trascriverti dal
"Tiefseefisch" (Il pesce degli abissi) di Marie-Luise Fleisser un paio di frasi
del dialogo tra Wollank, una ex star del ciclismo, e Tutu, il capo di una
cricca letteraria.
Epoca: gli anni Venti.
Luogo: la capitale del Reich, Berlino.
Cara A., credi che sia questo il pensare oggettivo da cui nasce un'estetica
oggettiva? Enumerati tutti i grandi nomi della letteratura occidentale, non
dimenticare né Omero né Brecht, e chiediti a quale di questi giganti dello
spirito tu, come scrittrice, potresti riallacciarti.
Noi non abbiamo autentici modelli, e questo ci costa tempo, giri viziosi,
errori; ma non necessariamente è solo uno svantaggio.
Poche, pochissime voci di donne giungono fino a noi, a partire da quando,
intorno al 600 avanti Cristo, Saffo cantò:
oppure:
A quel tempo Lesbo era uno dei cinque luoghi della Grecia dove ancora
esistevano scuole per fanciulle - Saffo ne dirigeva una.
Era una donna autonoma che esercitava una professione.
Poi tutto questo finì, e, dopo la veggente, ammutolì per millenni la poetessa,
che le era succeduta.
Soltanto uomini assunsero l'uffizio un tempo femminile, cantarono la luna,
l'amore, lamentarono la progressiva freddezza del mondo, non di rado
furono trattati dai loro compagni di sesso, più aderenti alla realtà, da
lacrimosi, sentimentali, femminei, e soprattutto da poco realistici.
Divenne, credo, sempre più oneroso essere un uomo.
E' bene essere una donna, e non un vincitore (Heiner Muller, "Quartett")
oggi sentiamo dire in maniera credibile da alcuni di loro.
D'altra parte: solo chi conosce i conflitti ha qualcosa da raccontare.
Il canto corale delle sacerdotesse, totalmente inserito nelle scansioni
dell'anno ritualizzate da un gruppo umano scarsamente differenziato, è un
inno, non vi si racconta nulla.
Solo quando sorge la proprietà, la gerarchia, il patriarcato, viene estratto
dalla trama della vita umana che è in mano alle tre donne primigenie, le
Moire, un unico filo rosso sangue, rinforzato a spese dell'uniformità della
trama: la narrazione, cioè, della lotta, della vittoria o della sconfitta degli
eroi.
E' così che nasce una storia.
L'epos, sorto dalle lotte per il patriarcato, ne diventa GRAZIE ALLA SUA
STRUTTURA anche lo strumento di formazione e di consolidamento.
All'eroe sarà attribuita, fino ad oggi, la forza di un modello.
Il coro delle oranti è sparito, ingoiato dal suolo.
La donna può diventare ora, in qualità di eroina, oggetto del racconto
maschile.
Per esempio Elena, che, irrigidita in idolo, sopravvive nei miti.
Elena, la tanto lodata e tanto vituperata - ti cito il "Faust" per l'ultima volta
e purtroppo non l'intero discorso di Elena, che caduta la fortezza di Troia -
ritorna di nuovo a Sparta, da dove Paride l'aveva rapita, nelle mani del
consorte Menelao, e non riconosce più se stessa.
Saranno mandate a memoria le tappe del suo vagare per i letti degli uomini,
indifferente, una cosa che si desidera, si sposa, si rapisce, per cui si
combatte.
Elena sarà rappresentata in teatro sempre in modo sbagliato, i registi la
vedranno come la civetta corruttrice d'uomini, invece che come trastullo;
nessuno legge ciò che Goethe le fa dire, e nessuno pare credere che lui (e
lei) parli seriamente.
E' Achille l'ultimo a unirsi appassionatamente a lei.
Di TUTTI e cento i fratelli dice Musil, e chi ricorda la storia della coppia
reale di fratelli egizi, la storia della diffusione di quel culto, il significato del
pasto rituale con parti del corpo di vittime umane, non potrà aspettarsi alcun
idillio fratello-e-sorella.
Tuttavia il loro essere uniti, il loro fraterno e sororale venirsi incontro, i loro
reciproci errori sono il presente del quale e nel quale si narra, mentre non si
può condividere, tutt'al più si può ricordare, e anche questo non subito, non
sempre, ciò che è totalmente altro, ciò che porta alla follia, l'Insopportabile,
ambiguamente chiamato tempo di Jordan.
Il professor Jordan, con cui Franza è sposata, il famoso psichiatra, una
morale superiore, un'autorità, una misura che lei voleva fare propria: in tutti
i sistemi che conosco è proprio questo il punto in cui l'emancipazione della
donna è costretta ad arrestarsi - di fronte al dubbio su questo modello
assiomatico.
L'uomo a cui si è votata (Che vergogna!), non poteva tollerare che una
persona oltrepassasse i limiti che lui le aveva imposto.
Perché mai sono stata così odiata, no, non io, l'altra cosa che è dentro di me,
lui ha sezionato anche lei come tutti gli altri, è stata l'oggetto inconsapevole
di un tentativo diabolico, tu dici fascismo, strano, è una parola che non ho
mai sentito per un comportamento privato, ma da qualche parte deve pur
cominciare, sì, è malvagio, anche se oggi non si deve dire malvagio, ma
solo malato, dev'essere pazzo.
E non c'è nessuno che sembri più ragionevole... separata dalla società, me
ne stavo con un uomo in una giungla, in mezzo alla civiltà, e vedevo che lui
era ben armato e io non avevo armi.
Ha fatto in modo che vedesse gli appunti che prendeva su di lei, un voyeur
scientifico, come ne esistono tanti tra gli artisti.
Mi voleva ridurre a un caso, a quel che lei (e certo anche lui) definisce le
sue pose, atteggiamenti coatti ai quali soggiace sempre più e per i quali,
come per tutto in questa civiltà, esistono modi di dire, denominazioni
scientifiche, che ora lei si scrolla di dosso, come fa con tutto ciò che
l'intelletto dell'uomo bianco ha voluto imporle.
Io parlo dell'angoscia.
Chiudete tutti i libri, l'abracadabra dei filosofi, questi satiri dell'angoscia che
scomodano la metafisica e non sanno l'angoscia cosa sia.
Nella scala dei valori, ti chiedo ora, come si colloca l'angoscia non
l'angoscia dei manuali di psichiatria, l'angoscia nuda e cruda con la quale si
è sole, le membra scosse dai brividi e insonni, e nessuno che ci creda: come
si colloca quest'angoscia persistente nei manuali di estetica, là dove si tratta
del dominio di sé e della materia?
La donna che ha nome Franza deve riconoscere che è stata colonizzata, io
sono di razza inferiore,... lui è l'esemplare che oggi domina, che oggi ha
successo, che è fatto dell'odierna crudeltà, che aggredisce e di questo vive.
Avrebbe dovuto saperlo, ma dato che per tanto tempo lui l'aveva esclusa
dalle sue attività, se ne accorge solo ora che scende in campo come sua
collega, collaboratrice, partner, rivale, concorrente, e tuttavia impreparata.
Seguono quelle frasi cifrate che riescono a mettere insieme tutte le donne di
cui oggi ti ho parlato la veggente, la poetessa, la sacerdotessa, l'idolo, la
figura letteraria:
Si può derubare davvero solo chi vive magicamente, e per me tutto ha
significato...
In Australia gli aborigeni non sono stati sterminati, e tuttavia si estinguono,
e le analisi cliniche non sono capaci di trovare le cause organiche, per i
Papua si tratta di una disperazione mortale, di una sorta di suicidio, perché
essi credono che i bianchi si siano impossessati per magia di tutti i loro
beni...
Lui ha preso i miei beni.
La mia risata, la mia tenerezza, la mia capacità di gioire, la mia
compassione, la mia disponibilità, la mia animalità, il mio splendore, e ha
calpestato ciascuna di queste cose ogni volta che è spuntata, fino a quando
non è spuntata più.
Perché uno faccia una cosa del genere, non riesco a capirlo...
Gli ingredienti magici del suo mondo sono contemporaneamente i più reali.
E in quanto porta questi ingredienti nella sua narrazione, in quei capitoli che
evocano mondi magici, remoti, in Egitto, nelle camere sepolcrali depredate
della magia dai bianchi, e sì, perfino nella sua quasi magica morte per
spavento, causatale da uno che è malato a sua volta, e che non sa fare a
meno di spaventare-a-morte la donna: muore della violenza che si ripete su
di lei; in quanto, dico, ruota intorno alla sua irragionevole, mortale tristezza
con parole il cui magico significato è inconfondibile, lei si avvicina a un
altro modo di narrare.
I bianchi, che siano maledetti, sono le ultime parole di Franza, e io, cara A.,
e certo anche tu, noi crediamo all'efficacia di una simile maledizione e
dobbiamo far di tutto per cancellarne l'effetto.
Scrivendo, sì, ma come, sotto questo sole cocente della ragione, in questo
territorio rigorosamente amministrato, misurato e decifrato, depredate dei
beni che ci appartengono, tra cui le nostre parole capaci di incantesimi.
Una domanda, anche questa, cui ci si può accostare solo continuando a fare
domande.
Se solo riuscissimo a guadagnare tempo.
Cosa dice Cassandra oggi, ovviamente schernita, inascoltata, dichiarata
fuori della norma, abbandonata, consegnata alla morte? Dice:
Vengono i bianchi.
I bianchi sbarcano.
E se saranno ricacciati indietro, torneranno di nuovo, non c'è rivoluzione e
risoluzione e legge valutaria che tenga, torneranno in spirito, se non
riusciranno più a venire in altro modo.
E che risorgano in un cervello bruno o nero, continueranno a essere i
bianchi, anche dopo.
E per queste vie traverse torneranno ad occupare il mondo.
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NOTE