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Andrea Tarabbia

Un debito con il diavolo. Note sulla traduzione di Diavoleide di Bulgakov.

So che molti di voi, in questa sala, fanno i traduttori di professione o aspirano a farlo. Io no, io
non sono un traduttore, e onestamente credo di essere la persona, qui dentro, che ha meno
diritto di stare dietro questo tavolo a raccontarvi delle cose sul vostro mestiere. Però mi è
capitato di tradurre un libro, recentemente, e di fare alcune riflessioni non solo sulla
traduzione, ma sull’atteggiamento che ho nei confronti di quelli che considero i miei maestri e
sulla lingua degli altri. Questo ha a che vedere con il lavoro di traduttore, ma non solo: ha a
che vedere con la letteratura in senso lato. Dunque ve ne posso parlare.

Scrittori che traducono scrittori


Dal 1983 al 2000, Einaudi ha pubblicato una collana di cui avrete sicuramente sentito parlare:
si chiamava Scrittori tradotti da scrittori e, lo dice il nome, prevedeva che dei classici della
letteratura mondiale (soprattutto dell’800 e della prima metà del 900) venissero restituiti al
pubblico di lingua italiana non grazie alla mediazione dei traduttori, ma degli scrittori, che qui
si mettevano al servizio della lingua e del mondo di qualcun altro. Era una collana bellissima:
vi collaborarono, per esempio, Giorgio Manganelli – che tradusse Fiducia di Henry James –,
Natalia Ginzburg – sono sue le versioni di alcuni libri di Maupassant ‐, Gianni Celati – che si
occupò di Jack London; il senso dell’operazione era dare una seconda vita ai classici e di farli
dialogare, sulla pagina, con degli autori contemporanei. Io leggevo le traduzioni di Manganelli,
della Sanvitale, di Tadini, ed ero consapevole di trovarmi davanti, se posso dire, non a uno, ma
a due libri: quello il cui titolo e il cui autore campeggiavano in copertina e quello, invece, che
mi arrivava filtrato dalla penna di uno scrittore italiano, vivo, e che amavo. C’erano due libri in
uno: erano due mondi che si incontravano e di cui mi divertivo a scoprire i legami, gli amori, le
idiosincrasie. Manganelli che traduce James non è solo un traduttore: è uno scrittore che
rovescia sulla pagina una sua versione del mondo del grande scrittore americano.
Sono andato a vedere come Gian Carlo Ferretti parla di Scrittori tradotti da scrittori nella sua
Storia dell’editoria letteraria in Italia; ebbene, Ferretti non vi si sofferma granché: si tratta del
resto di una collana che in 17 anni ha prodotto solo 36 opere. Però dice una cosa per me molto
importante: «Scrittori tradotti da scrittori, o classici tradotti da contemporanei, (…) riprende
un’idea e impostazione praticata da Vittorini fin dai tempi del suo lavoro alla Bompianii».
È vero. È stato con Vittorini e con la sua Americana che, nel 1941, l’Italia ha cominciato a
conoscere un po’ di Stati Uniti. Tutti, poi, siamo più o meno cresciuti con la traduzione che

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Pavese fece di Moby Dick. Ancora oggi, benché, lo confesso, penso in certi passaggi la lingua di
Pavese risenta un po’ del peso degli anni, non riesco a immaginare di poter leggere il libro di
Melville in una versione che non sia quella. Allo stesso modo, ci sono delle traduzioni di
Landolfi (per esempio quella dei Racconti di Pietroburgo di Gogol’ii) o di Ripellino (su tutte,
quella delle poesie di Chlebnikoviii) che hanno fissato una volta per tutte la mia percezione di
quei mondi e delle voci dei loro autori. L’elenco, mi rendo conto, potrebbe essere lunghissimo,
dunque mi fermo qui. Mi preme però spiegare una cosa: che cosa intendo quando dico «fissare
dei mondi e delle voci». La letteratura è per me per prima cosa una questione di voce: ogni
volta che mi siedo al tavolo per scrivere un libro, o meglio, ogni volta che comincio a
rimasticare l’idea, l’ambientazione e i personaggi di quello che potrebbe diventare un mio
libro, la cosa su cui maggiormente studio, ragiono e mi informo non è, mai, la trama, la
vicenda. Mi è capitato di scrivere libri senza conoscerne in anticipo il finale o addirittura
alcuni snodi narrativi: il momento in cui capisco che è ora di sedermi e cominciare a scrivere,
in cui mi dico «Sono pronto, posso cominciare» è quando ho finalmente chiaro chi racconterà
la storia, come la racconterà e, soprattutto, perché. Il lavoro preparatorio a un romanzo, per
me, consiste principalmente nello stabilire da dove viene la voce che parlerà al lettore: mi
immagino spesso che scrivere un libro sia un po’ come sedersi al tavolo di un bar e raccontare
una storia a un interlocutore che non conosco di persona. Che cosa vorrà sapere, questo
interlocutore, prima che io inizi a parlare? Vorrà sapere chi sono, da dove vengo e con quale
diritto gli sto chiedendo alcune ore del suo tempo per ascoltare delle cose che lui, fino a poco
prima, non immaginava esistessero. Per questo, i miei narratori dicono sempre «io» e si
pongono nei confronti di ciò che narrano come se stessero fornendo una testimonianza.
Questa è, più o meno, la voce che cerco di restituire nei miei libri. Allo stesso tempo, questa è
la voce che cerco nei libri degli altri. Mi chiedo sempre da dove venga la voce che sta
raccontando, se abbia una sua giustificazione e un motivo sufficiente perché le dedichi il mio
tempo. Molti degli autori che preferisco, da Volponi a Malaparte, da Mo Yan a Sebald a
Bernhard, hanno questo in comune: individuano subito un «emettitore di voce», gli danno un
corpo e una biografia e lo fanno raccontare. La stessa cosa la fa Dostoevskij, anche se in modo
meno netto: i Karamazov, per esempio, sono raccontati da un anonimo cronista che ha
assistito al processo di Mitja ed è in grado, grazie alle informazioni che ha raccolto, di stendere
una cronaca degli avvenimenti. Non mi interessa che questa cronaca sia fedele o verosimile o
verificabile: mi interessa che ci sia qualcuno (un narratore, l’autore stesso e così via) che nel
corso del testo si assuma la responsabilità del dettato. Nel caso di un libro che leggo in
traduzione, questa responsabilità è per così dire doppia: c’è quella dell’autore/narratore, e

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quella di chi traduce. Se quest’ultimo è uno scrittore – cioè uno che è già arrivato al pubblico
con un mondo suo – capirete che la questione della voce e della responsabilità si amplifica a
dismisura. Mi spiego tornando a Moby Dick: recentemente, UTET ha pubblicato una nuova
traduzione del capolavoro di Melvilleiv; le note di copertina spiegano che il testo è stato
condotto sull’edizione critica pubblicata da Longman nel 2007, che mira a riproporre «For the
first time, Melville’s great novel as it was written, edited, and censored». Non entro
ovviamente nel merito dei criteri dell’edizione: dico solo che Giuseppe Natale, che l’ha
tradotta in italiano, la fa iniziare così: «Chiamatemi pure Ismaele»v. L’inizio, celeberrimo, di
Melville è, come sapete, semplicemente «Call me Ishmael». Ora, so bene che, per una serie di
implicazioni, è verosimile e persino corretto aggiungere quel «pure», ma non è questo il
punto: il punto è che Pavese ha fissato in «Chiamatemi Ismaele» uno degli inizi più
memorabili di tutti i tempi, e io, come lettore, da questa voce non voglio e non riesco a uscirevi.
Paradossalmente, la traduzione di Pavese è la più letterale e aderente al testo, quella di Natale
è, seppur più didascalica, meno diretta, più mediata. Ma in «Chiamatemi Ismaele» ci sono
un’epica, un’angelicità (per dirla con Elémire Zolla). In «Chiamatemi pure Ismaele» c’è solo
filologia.

Pagare i debiti
Quando ho avuto i primi contatti con Voland per una traduzione di un classico russo, io ho
pensato a tutte queste cose. Fin dalla sua nascita, ho considerato la collana Sìrin classica una
sorta di gioiello: da una parte rinverdiva i fasti degli Scrittori tradotti da scrittori, con tutto
quel che ne consegue; dall’altra, aveva rimesso sul mercato una serie di titoli, da Chadži­Murat
di Tolstoj alla Varen’ka Olesova di Gor’kij, che erano da tempo irrecuperabili: aveva dato loro
una nuova vita e una nuova voce grazie, se si può dire, agli eredi contemporanei di Manganelli,
Landolfi, Pavese. Ora mi veniva proposto di entrare a fare parte del novero di questi eredi,
benché, a differenza di tutti gli scrittori che avevano collaborato alla collana (da Paolo Nori a
Serena Vitale ad Alessandro Niero), io fossi quello con meno esperienza di traduttore, anzi:
ero l’unico che non aveva mai pubblicato una traduzione.
Io mi sono laureato in letteratura russa contemporanea alla Statale di Milano molti anni fa con
una tesi su Majakovskij. Posso dire che le poesie e i poemi del primo Majakovskij, insieme alle
Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, siano stati il motivo per cui, da una parte, a un certo
punto della mia vita ho deciso di iscrivermi a Lingue e studiare russo e, dall’altra, sono
diventato uno scrittore. È stato quel libro di Dostoevskij a cambiare la mia percezione delle
cose: le mie prime prove di scrittura – all’ultimo anno di liceo – erano delle terribili

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scopiazzature dei temi e dei modi dostoevskijani e gogoliani. Insieme a loro, ho amato e amo
un certo Čechov, un certo Tolstoj, e poi Andreev, Platonov. Quel secolo della letteratura russa
che va dalla pubblicazione delle Veglie alla fattoria di Dikan’ka alla Seconda guerra mondiale è
stato la stagione che più mi ha nutrito e a cui torno ogni volta che ho bisogno di leggere
qualcosa che mi faccia sentire “a casa”. Naturalmente, questa stagione e questo amore
comprendono i libri di Bulgakov: la prima volta che ho letto Il Maestro e Margherita ho fatto
fatica a credere che ci fosse stato qualcuno, nel mondo, che avesse pensato e scritto qualcosa
di così grande e, perché no?, di così strano; il “mio” Bulgakov è anche quello dei bozzetti
moscoviti, dei racconti fantastici, del Romanzo teatrale. Sono stato varie volte nella casa sulla
Sadovaja, a Mosca, dove visse e dove immaginò che il diavolo avesse affittato un
appartamento. Ho visto – da fuori, perché non ci si può entrare – la casa del maestro, ho
passeggiato agli Stagni dei Patriarchi cercando ogni volta di immaginare Michail, 80 o 90 anni
fa, seduto su una panchina attorno al laghetto a fantasticare su un libro da portare a termine a
ogni costo. Così, visto che, in un certo senso, avevo pagato il mio debito con Majakovskij
dedicandogli una tesi di laurea (mentre so che non riuscirò mai a pagare quello con
Dostoevskij), ho pensato di proporre a Daniela Di Sora, per la sua collana, il pagamento di un
altro debito: quello, appunto, con Bulgakov. Avevo a casa varie edizioni dei suoi racconti:
nessuna di queste era nuova e c’erano, in alcuni punti, dei passaggi che mi pareva giusto
rinverdire. Così ho pensato di proporre Diavoleide: è, tra i racconti lunghi di Bulgakov, quello
che nel corso degli anni ha ricevuto meno attenzione e meno traduzioni; allo stesso tempo, ho
sempre pensato che fosse, come ho scritto nella postfazione, una sorta di racconto‐
laboratorio: se è vero che, da alcuni punti di vista, si tratta di un racconto acerbo, veloce ed è
in definitiva il meno bello tra i cosiddetti “racconti fantastici”, è anche vero che, in esso, sono
evidenti i primi semi di una scrittura e una visione che porteranno Bulgakov a scrivere il
Maestro. È per questo – in un’ottica se si può dire di servizio – che ho proposto Diavoleide.
Abbiamo poi deciso di inserire nel volume anche Le avventure di Čičikov, perché ha molte
tematiche affini al primo racconto e perché qui Bulgakov paga il suo debito con Gogol’: così, in
questo piccolo libro, c’è uno scrittore che paga un debito traducendo un racconto di uno
scrittore che a suo modo paga un debito.

Tradurre Diavoleide.
Voland, lo sapete bene, è nata come una casa editrice con uno sguardo rivolto all’est europeo,
in particolare alla Russia. Nel corso degli anni il suo catalogo è diventato molto vario, tuttavia
la letteratura della Russia e dell’Unione Sovietica rimangono al centro del progetto editoriale.

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Io non conosco le strategie di Daniela Di Sora e delle persone che lavorano con lei ma, come
lettore, ho sempre avuto una sensazione precisa: i primi destinatari delle opere che Voland
pubblica sono i lettori forti, consapevoli, e che magari hanno alle spalle degli studi che hanno
avuto a che fare con la lingua e la cultura russa. Non si spiegherebbero altrimenti alcune scelte
straordinarie e coraggiose che la casa editrice ha fatto nel corso degli anni, dal Viaggio da
Pietroburgo a Mosca di Radiščev ai libri di Prigov, dalla Boč’orisvili a Mamleev: tutti libri e
autori grandissimi, sia chiaro, ma che difficilmente possono intercettare grandi masse di
lettori non specializzati. Dico questo perché voglio spiegare che, mentre ragionavo su come
avrei potuto lavorare su Bulgakov, avevo ben presente che il pubblico a cui la mia traduzione
si sarebbe rivolta era un pubblico di esperti o, comunque, di persone che hanno una certa idea
della letteratura e per le quali, probabilmente, Diavoleide non sarebbe stata la prima lettura
bulgakoviana. Addirittura, penso che qualcuno si sia comprato Diavoleide o qualche altro
titolo di Sìrin classica per vedere com’è tradotto. Come me, anche i miei potenziali lettori,
dunque, potevano già avere in casa due o tre versioni del racconto. Questo, insieme al fatto di
essere uno scrittore e non un traduttore, mi dava qualche libertà e, insieme, qualche
responsabilità in più. La libertà risiedeva nel fatto di potermi permettere di fare delle scelte
audaci: dopotutto, se si chiede di tradurre a uno scrittore gli si chiede implicitamente di dare
un’interpretazione, di trovare un equilibrio tra la sua lingua e quella del classico con cui si
cimenta; inoltre, se è vero che chi leggerà Diavoleide è con ogni probabilità qualcuno che
Diavoleide l’ha già letto e conosce bene Bulgakov, potevo forse concedermi qualche deviazione
dalla norma. Allo stesso tempo, e per gli stessi motivi, dovevo stare molto attento a non uscire
dal seminato, perché i lettori mi avrebbero atteso al varco. Come se non bastasse, poi, c’era
un’altra questione: chi sono io per dare una nuova voce a un maestro? Quanto potevo, per così
dire, mancargli di rispetto? Ero (e sono) all’altezza di confrontarmi con Bulgakov nel suo
territorio, nella sua lingua?
Naturalmente, ho lavorato tenendo sulla scrivania le traduzioni di cui ero in possesso, in
particolare queste tre: quella che Serena Prina fece per Garzanti nel 1990, quella di Luciana
Montagnani (BUR, 1991) e quella che Chiara Spano fece per Newton nel 1997. Si tratta di tre
buone traduzioni, che rispettano il ritmo del testo e propongono spesso soluzioni originali. So
bene che non ha senso fare un discorso generale e che dovrei analizzarle una a una, ma mi
pare che tutte e tre avessero, qua e là, alcuni punti oscuri e che non sempre risolvevano con la
soluzione più bella i punti di difficile traduzione o di difficile resa (di tutte queste cose parlerò
più avanti). Ho anche ricevuto un grande aiuto da Valentina Parisi che, a traduzione ultimata,
ha preso il mio testo e l’ha rivoltato, suggerendomi soluzioni che rendevano più “veloce” il

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ritmo, semplificando alcuni punti francamente un po’ ritorti e facendo un grande lavoro di
pulizia.
Il primo problema è stato quello di capire quale ritmo imprimere alla lingua: la lingua di
Diavoleide (e anche quella di Čičikov) sono, come ho detto, molto veloci. Questo vale sia per il
ritmo, che è incalzante e in alcuni punti addirittura vertiginoso, che per il fatto che Bulgakov
non si dilunga nelle descrizioni e con un paio di colpi di pennello riesce a ritrarre
perfettamente i propri personaggi. Spesso, anzi, è addirittura brusco, come succede per
esempio alla fine del capitolo V: dopo alcune pagine passate a descrivere delle situazioni
assurde che stanno a metà tra il comico e il grottesco – e sono allo stesso tempo, come solo
Bulgakov riesce a fare, divertenti e angoscianti – Korotkov, che ha bisogno di certi documenti,
si tormenta sul fatto se sia meglio tornare in ufficio o andare dal capo‐caseggiato. Ma il
capitolo è già chiuso, è già stato pieno di avvenimenti, e Bulgakov sa che il ritorno in ufficio e
la visita al capo‐caseggiato saranno il nerbo di capitoli futuri. Per cui deve, semplicemente,
trovare il modo di chiudere questo e passare al successivo. E cosa fa? Mette un punto, va a
capo, fa suonare un orologio che non aveva ancora nominato e mette nella testa di Korotkov
un pensiero brusco e veloce: «è tardi. Vado a casa». Fine. Il testo è pieno di questi “colpi di
testa” e decisioni improvvise. Sembra a volte che Bulgakov, mentre scriveva, avesse fretta di
tagliar corto con certe scene perché nella sua testa avevano già preso vita le immagini della
scena successiva, che premeva con urgenza per uscire sulla pagina.
Stabilire, pertanto, la dominante del testo è stato di fondamentale importanza. Per me, la
dominante è stata appunto la velocità, il ritmo sostenuto, il continuo rincorrersi di cose,
personaggi ed eventi. Se leggo Kaputt di Malaparte, io mi immagino un uomo di mezza età,
pettinato ed elegante, che sorseggia un bicchiere di buon vino e con un tono da insopportabile
viveur mi racconta una cosa pazzesca. Mi immagino di essere lì con lui, nel salotto di una villa
di Capri, seduto comodamente: il ritmo è lento, io all’inizio sono rilassato e forse anche un po’
annoiato. Se leggo Bulgakov, e in particolare Diavoleide, mi immagino invece che chi racconta,
nel momento stesso in cui racconta, stia correndo sulle scale, e che io, per ascoltarlo, debba
correre insieme a lui: questo è il ritmo che devo dare all’italiano se voglio che il lettore entri
nel testo e corra con noi. Credo anzi che per rispettare il tono sia addirittura lecito in alcuni
momenti “dimenticarsi” una parola che rallenta, un concetto che in russo è racchiuso in quei
loro meravigliosi participi che dicono cinquanta cose insieme e che invece l’italiano potrebbe
rendere solo attraverso una perifrasi: d’altronde, quando si corre non è detto che dalle tasche
non cada una moneta. Per lo stesso motivo – il ritmo – ho a volte invece deciso di aggiungere
una parolina. Faccio un esempio: nel secondo capitolo di Diavoleide, Korotkov viene pagato,

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anziché in denaro, con delle scatole di fiammiferi. Sbalordito, rimane per un po’ a fissare le
scatole colorate, e poi dice tra sé e sé:

- Ну‐с, унывать тут долго нечего. Постараемся их продать.

Che, tradotto alla lettera, suona più o meno come: «Beh, scoraggiarsi a lungo non serve.
Cercheremo di venderli». Le altre traduzioni proponevano le seguenti soluzioni:
«Be’, qui c’è poco da perdersi d’animo. Cercheremo di venderli» (Garzanti)
«Beh, non c’è da scoraggiarsi troppo. Cercheremo di venderli» (Newton)
«Beh, è inutile star tanto a prendersela. Cercheremo di venderli» (BUR)
La mia preferita è l’ultima, perché, benché sia, delle tre soluzioni, la più lunga, è quella che
mantiene un tono spiccio e colloquiale – che è poi il tono generale di Diavoleide.
La mia soluzione è questa:

«Be’, star qui a deprimersi non serve. Cercheremo di venderli»vii.

Sembra più lunga di quella di Luciana Montagnani (anche se non contiene più parole), ma a
me pare che, in un contesto di questo tipo, un italiano difficilmente usi il verbo “scoraggiarsi”
e che “prendersela” sia un’espressione che si usa quando ci si rivolge a qualcuno («Non
prendertela!») e non a se stessi. Io, in casi come questo, mi dico «Non star lì a deprimerti».
Vorrei riportare un esempio che renda l’idea del ritmo, dell’affastellarsi di verbi di moto e
della complessità di rendere in un buon italiano il testo di Diavoleide. Più o meno a metà del
capitolo IV, Bulgakov scrive:

Нет! Я объяснюсь. Я объяснюсь! ‐ высоко и тонко спел Коротков, потом кинулся влево, кинулся вправо,
пробежал шагов десять на месте, искаженно отражаясь в пыльных альпийских зеркалах, вынырнул в
коридоре и побежал на свет тусклой лампочки, висящей над надписью "Отдельные кабинеты".

Ho tradotto il passo in questo modo:

«No! Chiarirò tutto! Chiarirò tutto!» cantò con voce alta e sottile Korotkov, quindi scartò a sinistra, scartò a
destra, percorse sul posto una decina di passi, mentre i polverosi specchi alpini riflettevano la sua immagine
deformata; poi riemerse nel corridoio e corse verso la luce fioca della lampadina appesa sopra la scritta “Studi
riservati”viii.

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Ci sono, dopo «Chiarirò tutto!», sette verbi, alcuni dei quali (кинулся e бежал) si ripetono e
dettano il passo della lettura. Ho cercato di mantenermi fedele e ripetitivo, perché in questo
passo la frase, si può dire, avanza al ritmo della sceneggiata di Korotkov. È come se ad ogni
verbo corrispondesse un capriccio, e la prosodia del periodo ricalcasse lo stato d’animo del
personaggio. Bisogna, traducendo, provare a restituire tutto questo. È una lezione che ho
imparato anni fa, leggendo un libro di Roberto Bolaño che per la verità non avevo apprezzato
molto: Notturno cilenoix. In questo libro, però, c’è una scena che dura una pagina in cui il
protagonista e un amico parlano. L’amico, all’inizio, tiene un falco appoggiato all’avambraccio:
non appena comincia a parlare, il falco prende il volo, e il protagonista ascolta l’amico
guardando l’animale volare. Nel momento esatto in cui il falco decide di tornare dal padrone,
questi finisce il suo monologo. Per chi ha tradotto questo discorso, sono convinto, non ha
contato molto la scelta della parola migliore (che pure è importante) quanto che il tono del
monologo rispecchiasse, prosasticamente, l’andamento del volo del falco.
Ci sono poi dei punti di Diavoleide che mi hanno creato qualche grattacapo. Ecco il primo:

Он повернулся, и тотчас перед ним вспыхнули на человеческом шаре слоновой кости две коридорных
лампочки, (…).

Non riuscivo a capire come rendere bene quel на человеческом шаре слоновой кости.
Montagnani, per esempio, traduce la frase in questo modo:

Si voltò, e di colpo davanti a lui sulla palla umana d’avorio guizzò la luce delle lampadine del corridoio, (…)x.

«Sulla palla umana d’avorio», che traduce in modo abbastanza letterale, non ha molto senso:
sembra che nel testo sia già comparsa una palla di quel tipo e che abbia avuto un ruolo.
Invece, quell’immagine è messa lì da Bulgakov all’improvviso. Inoltre, mi dicevo, non esistono
palle umane d’avorio, e l’articolo determinativo rende invece il fatto qualcosa di scontato, di
normale.
Prina propone questa soluzione:

Si voltò, e subito dinanzi a lui s’accesero, su un globo umano d’avorio, due lampadine da corridoio, (…)xi.

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Questa versione mi torna di più: perlomeno si capisce meglio che cosa sia la palla d’avorio –
che viene resa con «una», con l’indeterminativo, e non «la» ‐ anche se non so perché la
traduttrice abbia pensato che esistano lampadine «da» corridoio.
Ecco la mia versione:

Si voltò e, all’improvviso, davanti a lui, su una palla eburnea dall’aspetto umano, si accesero le lampadine del
corridoioxii.

Ma il punto più controverso, per me, è qualche pagina più avanti nello stesso capitolo:

‐ Эх, ваше здоровье, погибать, что ли?

Mutandoner, fuggendo da Korotkov, acciuffa una carrozza e picchia sulla schiena il vetturino
ordinandogli di partire al volo e di viaggiare a rotta di collo. Il vetturino, colto di sorpresa, urla
disperato e, sostanzialmente, impreca. Ma come farlo imprecare?
Di nuovo Montagnani:

«Eh, la vita è sua, che, vuole rimetterci la pelle?»xiii

Prina:

«Eh, Vostr’Eccellenza, si può solo morire, che altro?»xiv

Spano:

«Eh, Vossia, dobbiamo proprio morire?»xv

Due traduzioni su tre propongono di rendere ваше здоровье con un epiteto rivolto a
Mutandoner: Vossia o Vost’Eccellenza; Prina, addirittura, la butta sul filosofico («si può solo
morire»). Montagnani, invece, opta per un «la vita è sua» che a me, istintivamente, sembra più
vicino all’intenzione dell’autore. E tuttavia chi parla è un vetturino, sorpreso dalla violenza
delle percosse e dalla perentorietà degli ordini. Io non credo che esista qualcuno che,
aggredito, dica all’aggressore qualcosa come «eccellenza», e non credo neppure che si limiti a
dire «la vita è sua», perché di vite in ballo, in quel frangente, non c’è solo quella del
passeggero. Non credo inoltre che sia verosimile che qualcuno, mentre impreca, sia gentile e

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rispettoso come si dimostra il vetturino – pur con gradazioni diverse – nelle tre versioni che
abbiamo visto. Credo, invece, che possa dire qualcosa di molto vicino a

«Eh, accidenti a lei, vuole che ci ammazziamo?»xvi

Per questa frase ho chiesto aiuto e consiglio a due o tre amici russisti: ho mandato loro via
mail l’originale e due o tre mie proposte di traduzione, tra cui quella che alla fine ho scelto (ce
n’era anche una dove il vetturino, a mio modo di vedere a ragione, ci andava anche piuttosto
pesante: ma siccome il linguaggio di Bulgakov non è mai violento, non l’ho mai presa
seriamente in considerazione).

Un altro problema di carattere generale che ho dovuto affrontare da subito è legato a quella
che potrei definire la «questione del contesto culturale». Credo si tratti di un problema molto
comune per chi traduce i classici, ma nel caso della letteratura russa del 900 mi pare
particolarmente spinoso. Sono convinto che chi non è russista faccia una certa fatica a cogliere
tutti i riferimenti al mondo sovietico contenuti nei romanzi: me ne sono accorto un paio di
anni fa, quando ho letto e commentato con delle persone di ottima cultura, i lettori forti ma
non russisti, proprio Il Maestro e Margherita. Già nei primi capitoli, Bulgakov inserisce
moltissimi riferimenti all’attualità, alla NEP, al problema degli alloggi; tutto il testo è costellato
di riferimenti a un tipo di quotidianità – quella spesa negli appartamenti collettivi – che non
sono di prima comprensione per un lettore italiano. Eppure, se non si colgono questi aspetti, il
romanzo perde gran parte della sua forza (per esempio risulta difficile capire perché i
personaggi si stupiscano del numero di stanze dell’appartamento n. 50). La faccenda si
complica se, come accade in Čičikov, ai riferimenti continui alla vita nella Mosca degli anni 20
si aggiunge il fatto che tutti i personaggi vengono da un romanzo dell’800: Bulgakov non si
sofferma a descriverli né fisicamente né psicologicamente, li dà per scontati. È come se uno
scrittore italiano, oggi, scrivesse un libro dove i protagonisti si chiamano Renzo, Lucia,
l’Innominato, don Rodrigo: trattarli come dei personaggi normali li svilirebbe,
mortificherebbe del tutto la potenza del loro ri‐uso. Sono caratteri fissi, ormai, canonizzati e
interiorizzati, e il lettore italiano non ha bisogno (o non dovrebbe averlo) di farseli spiegare
un’altra volta, pena la perdita della forza metaforica del testo. Si rischia la cacofonia. Ma un
conto sono Renzo e Lucia, un conto Čičikov e Nozdrëv. Come fare? Inizialmente, lo confesso,
avevo riempito il testo di note. Per ogni personaggio avevo preparato una piccolissima scheda
in cui spiegavo chi è e che ruolo ha nelle Anime morte o in altri testi gogoliani: veniva fuori una

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sorta di mini‐vademecum in cui raccontavo i caratteri di un testo che non stavo traducendo.
Inoltre, una volta fatto il lavoro, mi resi conto che il numero delle note era elevatissimo e
appesantiva il testo, rallentando irrimediabilmente la corsa della lettura. Stavo facendo un
buon servizio a Bulgakov? No. Mi venne in mente, mentre pensavo a come risolvere l’impasse,
una telefonata che mi fece Federica Manzon, la mia editor in Mondadori, quando stavamo
lavorando al Demone. All’inizio, avevamo pensato di preparare un piccolo glossario da
mettere in coda al libro, in cui spiegavo, per esempio, che cos’è un tejp, piuttosto che un
tarakan o il kvas. Federica, a un certo punto, mi disse: «Senti lasciamo perdere, non lo
facciamo».
«Perché?» chiesi.
«Perché questo non è un saggio e non è un reportage. È un romanzo, e un lettore non deve per
forza capire tutto. Per leggere il glossario, o una nota, deve interrompere la lettura e uscire dal
testo, mentre a noi interessa che non lo molli un attimo».
Non sono proprio le parole esatte che mi disse, ma il senso è quello: anch’io, adesso, credo che
sia fondamentale che un lettore non capisca tutto. Io stesso non voglio capire tutto: voglio che
ogni libro che leggo mi lasci un piccolo buco e una voglia, che sarò io a dover colmare. Così, se
la storia di Čičikov e le poche indicazioni che ho dato in coda al volume faranno venire voglia
almeno a qualcuno di andare a prendersi le Anime morte, ci sarà ancora spazio per la
letteratura. Ho pertanto deciso di ridurre all’essenziale il numero di note in coda al volume;
allo stesso modo, scrivendole non mi sono dilungato e ho cercato di essere il più breve
possibile. Solo la nota 12 è un po’ più lunga ed esplicativa del lecito: ma è stato l’unico
episodio in cui non ho potuto fare altrimenti.
Anche la nota 1, a dire il vero, spiega molto. Ma era necessaria, perché parla del modo in cui
Bulgakov gioca con i nomi dei personaggi e motiva, implicitamente, una scelta di traduzione: il
nome del diavolo, nella versione originale di Diavoleide, è Kal’soner, che è una parola che
deriva da kal’sony, mutandoni. A più riprese, nei primi capitoli, Bulgakov gioca su questa
ambivalenza. Tutte le traduzioni italiane esistenti usano Mutander o Mutandoner, insomma
italianizzano il cognome del diavolo. Anche Korotkov, così come altri nomi all’interno del
testo, ha un significato: viene da korotkij, che significa “corto”, “breve”: qualcuno, in passato,
ha provato a tradurlo con Cortini o Brevini. Io sono istintivamente poco propenso a rese di
questo tipo: per me, un cognome è un cognome, e infatti esiste una versione di Diavoleide in
cui tengo il nome originale del diavolo (e faccio una nota in cui spiego il gioco di parole). Io e
Daniela ci siamo scritti a proposito di questo problema: lei sosteneva – a ragione – che, benché
la versione italianizzata fosse meno bella e fosse soprattutto un’eccezione all’interno del testo,

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era l’unico modo per mantenere inalterato l’effetto comico voluto da Bulgakov. Così, di
comune accordo, abbiamo usato Mutandoner. Mi rendo conto che si tratta di un paradosso:
per essere fedele a un testo a volte bisogna violentarlo, modificando perfino i nomi dei
personaggi principali. Ma ciò che conta è l’intenzione di Bulgakov, e lui aveva voluto essere
comico e straniante in modo diretto: non tenere in considerazione questo aspetto sarebbe
stato un pessimo servizio al testo. Un discorso simile è stato fatto anche nel Čičikov, quando ho
preferito italianizzare i nomi dei personaggi di Doezžaj‐ne‐doedeš’, Neuvažaj‐Koryto,
Kubšinoe Rylo e Elizaveta Vorobej: si tratta di quattro figure che non hanno un vero ruolo nel
testo fuorché quello di essere dei nonsense. Senza la traduzione, al lettore sarebbe stato
impossibile percepire in modo immediato tale nonsense, per cui i loro nomi sono diventati,
senza colpo ferire, Vai‐tanto‐non‐arriverai, Frega Il Trogolo, Brocca Obolo e Elizaveta Passero.

Franca Cavagnoli, nel suo La voce del testo, fa la seguente considerazione:

Un’altra tendenza deformante sempre pronta a interferire nella traduzione dei classici è l’espansione, l’eccessiva
chiarificazione. Se l’inclinazione a esplicitare è comunque sempre presente, essa si manifesta in particolare dal
confronto con gli esempi di scrittura più complessi e lontani nel tempo.xvii

Si tratta di un problema fondamentale, che racchiude molte delle considerazioni fatte fin qui a
proposito dei nomi e del contesto culturale da cui il testo di Bulgakov proviene e a cui
costantemente si riferisce. Come ho detto, laddove ho potuto, ho cercato di spiegare il meno
possibile e di mantenermi su un registro linguistico il più possibile sobrio e veloce. Ciò non
toglie che, in alcuni punti, la tentazione di spiegare si è fatta sentire e, in alcuni passaggi, è
entrata addirittura nel testo. Faccio alcuni esempi.
Nel sesto capitolo del Čičikov, Bulgakov fa un elenco di enti, commissioni e istituti, per la
maggior parte dei quali esisteva in Unione Sovietica una sigla di riferimento:

Комиссия построения в комиссию наблюдения, комиссия наблюдения в жилотдел, жилотдел в


Наркомздрав, Наркомздрав в Главкустпром, Главкустпром в Наркомпрос, Наркомпрос в Пролеткульт, и
т. д.

Nella traduzione, ho deciso di scioglierli:

La Commissione Edilizia interpellò la Commissione di Vigilanza, la Commissione di Vigilanza l’Ufficio per


l’Assegnazione delle Abitazioni, l’Ufficio per l’Assegnazione delle Abitazioni il Commissariato del Popolo per la

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Sanità, il Commissariato del Popolo per la Sanità la Direzione per l’Industria e l’Artigianato, la Direzione per
l’Industria e l’Artigianato il Commissariato del Popolo per l’Educazione, il Commissariato del Popolo per
l’Educazione l’Ente per la Cultura Proletaria e così via.xviii

Il risultato, si vede a occhio nudo, è che la mia versione è lunga più del doppio dell’originale:
ne guadagna, mi pare, in comprensibilità e, in definitiva, in velocità di lettura, perché
risparmio al lettore una lunga trafila di note. Ciò che va perso, naturalmente, è il ritmo, e molti
di voi penseranno che io abbia fatto un errore: se l’idea è quella di mantenersi veloci, ho
mancato un’occasione. Ma ho pensato a cosa avrebbe fatto un traduttore straniero davanti a
un elenco di sigle italiane: INPS, ASL, MIUR ecc. Io credo che le avrebbe sciolte, per evitare al
lettore la pena di cercare continuamente le note: cosa che non gli avrebbe in ogni caso
permesso di entrare nel clima di quella specie di filastrocca delle istituzioni che è il passo
originale. In altri punti, dove la concentrazione di sigle e abbreviazioni non era così
significativa, sono stato più rispettoso dell’originale.
In generale, la prosa di questi due racconti presenta qualche problema di chiarezza: spesso
Bulgakov abbozza un’azione, oppure fa un riferimento oscuro. C’è un caso che considero
emblematico, ed è di nuovo nel Čičikov: alle fine del terzo capitolo Čičikov e Nozdrëv sono
nella stanza di quest’ultimo e il protagonista si sta sorbendo una sorta di monologo in cui
Nozdrëv millanta delle ricchezze mai avute. A un certo punto, poche righe prima che il
capitolo di chiuda, compare un personaggio che non è mai stato nominato prima e non sarà
più nominato dopo: il cognato Mižuev. La frase è questa:

Когда же зять его Мижуев выразил сомнение, обругал его, но не Софроном, а просто сволочью.

Il problema, per chi conosce il russo, non è ovviamente la comparsa improvvisa del cognato –
per quanto a livello di senso essa sollevi qualche dubbio: il problema è Sofron. È un
riferimento particolarmente criptico a un personaggio minore della Anime morte. Una prima,
possibile traduzione fedele, avrebbe potuto essere questa:

Quando suo cognato Mižuev osò sollevare dubbi in proposito, si mise a insultarlo, ma senza dargli del Sofron: gli
diede semplicemente del bastardo.

Questa versione ricalca la traduzione di Emanuela Guercetti, che dice così:

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E quando suo cognato Mižuev espresse un dubbio, lo insultò, ma non dandogli del «Sofron», bensì semplicemente
del farabutto.xix

Il problema, per me, era che una soluzione à la Guercetti non risolveva il passo, che rimaneva
incomprensibile. Avevo poi il dubbio che la parola «farabutto» fosse poco incisiva: benché
l’abbia usata anch’io nel corso del libro, non suonava bene in questo contesto, dove Nozdrëv è
completamente ubriaco e ha perso un senso della misura che, a dire il vero, dal 1842 in qua
non ha mai avuto. Un ubriaco truffatore e millantatore, in ogni caso, non dice «farabutto» al
cognato: dice «bastardo».
La mia versione definitiva del passo è:

Quando suo cognato Mižuev osò sollevare dubbi in proposito, si mise a insultarlo, ma senza dargli del
sapientone: gli diede semplicemente del bastardo.xx

Perdo Sofron, insomma, ma in un racconto infestato di personaggi gogoliani può non essere
un dramma: al suo posto, restituisco il clima di un botta e risposta tra ubriachi. Va in questo
senso anche il «si mise a», che a mio modo di vedere dà un po’ più di enfasi al battibecco. Si
tratta dell’esempio più lampante di intervento del traduttore, che qui è stato poco mimetico:
le libertà che mi sono preso sono tutte rivolte a piccoli passi come questo, dove il senso è
oscuro e dove entrano in scena personaggi che non hanno un vero e proprio ruolo nella
vicenda. Ci sono in tutto due o tre momenti di questo tipo nel testo, e quello su cui mi sono
appena soffermato è il più lungo e quello dove sono intervenuto più pesantemente.

Finale. Davanti a un Maestro.


Diavoleide e Le avventure di Čičikov sono due racconti che Bulgakov scrisse nei primi anni 20
per poi pubblicarli nel 1925, quando aveva 34 anni. Io, oggi, ho 34 anni. Non mi sono reso
subito conto di questa coincidenza che, naturalmente, lascia il tempo che trova. C’è però un
particolare, in questo fatto, che in qualche modo mi è stato d’aiuto. Bulgakov, come ho detto, è
uno dei miei maestri, uno degli autori su cui mi sono formato come persona e come scrittore.
L’idea di tradurlo, all’inizio, mi spaventava proprio per questo: pagavo un debito, d’accordo,
ma allo stesso tempo mettevo le mani – io, traduttore inesperto – su una lingua e su un mondo
grazie ai quali ero cresciuto, uno scrittore di cui avevo cercato e visitato i luoghi in giro per
Mosca e al quale tornavo e torno ogni volta come una sorta di “ritorno a casa”. Oltretutto, la
grafica delle copertine di Sìrin classica prevede che il nome del curatore del volume sia scritto

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grande come quello dell’autore. È una responsabilità e un onore, d’accordo, ma anche, per
quanto mi riguarda, una «lesa maestà». Siamo abituati a percepire i grandi scrittori del
passato come dei cristalli, delle figure immutabili dispensatrici di classici e di insegnamenti. In
parte, lo so, è inevitabile che sia così, e forse è perfino giusto. Però il Bulgakov con cui mi sono
misurato io non era ancora un classico intramontabile: era un giovane scrittore di belle
speranze, pieno di pregi e di difetti, che si affacciava sul mondo della letteratura. A 34 anni
non aveva ancora nemmeno immaginato Il Maestro e Margherita, e aveva scritto solo alcune
delle cose che in seguito sarebbero divenute immortali. Era insomma uno scrittore in fieri
(Zamjatin, letto Diavoleide, parlò di Bulgakov come di una promessa e disse – a ragione – che
dalla sua prosa traspariva un grande talento che si sarebbe sicuramente espresso negli anni a
venire): ecco, forse io sono riuscito a tradurre Bulgakov, con tutto il peso che questo
comporta, perché mentre lavoravo ho finto di non sapere che esiste Il Maestro e Margherita,
perché non ho pensato a una figura canonizzata ma a uno che, alla mia età, rimboccandosi le
maniche prova a trovare un posto da dove raccontare agli altri la sua visione del mondo.

i
G.C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Einaudi, Torino 2004, p. 273
ii
V. Gogol’, Racconti di Pietroburgo, Rizzoli, Milano 1949
iii
V. Chlebnikov, Poesie, Einaudi, Torino 1968
iv
H. Melville, Moby-Dick o la Balena, UTET, Torino 2010
v
Ho poi scoperto, facendo una ricerca veloce, che esiste anche un «Ishmael – chiamatemi così»: è nella
traduzione che Cesarina Melandri Minoli fece, sempre per UTET, nel 1982.
vi
Mi viene in mente che, nel suo ultimo libro, L’unico scrittore buono è quello morto (e/o, Roma 2012), il mio
amico Marco Rossari – che di mestiere fa il traduttore dall’inglese e dall’americano – ha proposto una
versione post-moderna dell’incipit del celebre monologo dell’Amleto, perché «Era ora di dare una
sterzata a quel monologo rifritto con un nuovo scintillante incipit: “Vivere o morire? Qui casca
l’asino!”» o anche, poco oltre, in versione veneta: «“Sogio o non sogio, è qui che te vogio”». (ivi, p. 121)
vii
M. Bulgakov, Diavoleide, Voland, Roma 2012, p. 8
viii
ivi, p. 18
ix
R. Bolaño, Notturno cileno, Palermo, Sellerio 2003
x
M. Bulgakov, Racconti fantastici, BUR, Milano, 1991, p. 73
xi
M. Bulgakov, Cuore di cane, Diavoleide, Una storia cinese, Milano, Garzanti 1990, p. 119
xii
M. Bulgakov, Diavoleide, cit., p. 34
xiii
M. Bulgakov, Racconti fantastici, cit., p. 77
xiv
M. Bulgakov, Cuore di cane, Diavoleide, Una storia cinese, cit., p. 123
xv
M. Bulgakov, Cuore di cane, Diavoleide, Le uova fatali, Roma, Newton Compton 1997, p. 105
xvi
M. Bulgakov, Diavoleide, cit., p. 39
xvii
F. Cavagnoli, La voce del testo, Milano, Feltrinelli, Pos. 1805
xviii
M. Bulgakov, Diavoleide, cit., p. 75
xix
M. Bulgakov, Racconti fantastici, cit., p. 317
xx
M. Bulgakov, Diavoleide, cit., p. 70

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