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INTRODUZIONE

Non so perché nella vita non ce ne si possa stare un po' da parte. Nietzsche pensava quasi che l'uomo,
per essere completo, debba relazionarsi al mondo con piglio di conquistatore. Leopardi, seppur persona
dimessa fisicamente ed adusa alla solitudine (egli, in certi periodi della sua vita, visse in solitudine quasi
assoluta, tanto che moltissime pagine dello Zibaldone riecheggiano una voce profonda, intima, piena di
desiderio di comunicare), fu educato fin da giovanissima età, come ci racconta il Pascoli, al culto della
gloria. Leopardi stesso dunque, e in molti luoghi dei suoi scrtti questo atteggiamento risalta, credette
nella necessità dell'eroismo per l'uomo. Per l'uomo che desidera essere uomo.
Io non so, tuttavia, capacitarmi di questa smania di affermazione. Stando tra gli altri mi capita
spessissimo ormai, sia nei semplici che nei più complicati strati della società, di notare come moltissimi
non facciano altro che girare ansiosi intorno al lampione della vanità. Si parla di come fare molti soldi e
di come vestirsi meglio, di come divertirsi in maniera giusta, di come conquistare quel tale o quella tale
e di come dimenticarla. Si gira per la città come in preda ad una particolare varietà di smemoratezza, - si
cercano i luoghi più in penombra per sfoggiare una propria particolare fluorescenza.

Certamente quest'atteggiamento, questa attitudine alla vanità, è fatto assodato nelle antropologie critiche
di tutti i tempi. L'uomo è governato dalle passioni. L'uomo, desiderando, non può fare altro che cercare
di possedere l'oggetto della propria brama. Gi oggetti sono finiti, le brame infinite. Molti uomini si
troveranno a desiderare il medesimo. Si faranno guerra e ricorrerranno all'inganno. Presto perderanno
anche la coscienza di essere uomini, così immersi in un una atmosfera pericolosa nella quale colui che si
mostra più debole soccombe. Dovranno tanto spesso dissimulare le proprie reali intenzioni che finiranno
per essere loro stessi giochati dai propri maneggi. Questo, nelle antropologie, è risaputo. Quello che
però non riesco a mandare giù è il fatto che si dice sia inevitabile cascarci tutti quanti. Chi più facilemte,
chi in maniera più contorta.

Non ricordo come giunsi a questo sentimento, ma da quando accadde non ho potuto pù levarmi di dosso
quel puzzo che mi segna come individuo disgustato. Di me stesso in primo, insieme poi con tutti gli
altri. Questo puzzo, riesco ormai a dissimularlo attraverso i distillati della mia coscienza. Il problema
però si pone quando, ad esempio con qualche buon alcolico gustato con troppa noncuranza, la coscienza
e le sue difese mi si annebbiano per un bel tocco. Allora la riprovazione si fa calda nei cuori dei vicini.
Ed io, solo ed incosciente della mia goffa veracità, mi sento come un bifolco tra uomini della capitale.
Provo, allora, senso di vergogna.

Nel lavoro che segue ho cercato di comportarmi in maniera diligente, seguendo quelle che sono le
tecniche di composizione formale e le indicazioni del buon senso circa l'elaborazione di un discorso

1
coerente. Non sono però molto capace di coerenza, non ho mai studiato, da giovane, in maniera
efficiente. Così mi ritrovo in un'atmosfera piena di citazioni, sentimenti, abbozzi di idee, paesaggi, senza
però riuscire a tesaurizzare il tutto in una trama delicata ma d'effetto. In questo lavoro ci ho provato, il
risultato mi pare bello ma mediocre. Parlo innanzitutto di come Nietzsche abbia potuto conoscere
Leopardi, di cosa effettivamente poté conoscere ed analizzo qualche tematica che possa essere utilizzata
quale terreno di un confronto. Questo è il primo breve capitolo del mio lavoro. Nella seconda parte il
discorso entra nel suo nodo centrale: la Seconda Considerazione Inattuale ovvero Sull'utilità e il danno
della storia per la vita. Un libro nel quale si respira ancora l'atmosfera de La nascita della tragedia, solo
che qui si indagano i motivi, le possibilità e le prospettive dell'agire dell'uomo entr la storia. Sia a livello
intellettuale che pratico. Inizialmente si tratta degli animali e dei debiti che Nietzsche deve a Leopardi e
a Schopenhauer. Questo è la parte che parla del dolore. Dolore che arriva ad una propria cognizione. Poi
descrivo i processi che Nietzsche racconta essere processi portanti l'azione, ovvero come l'uomo agisce
e può agire. Azione che poi è considerata salute per l'essere umano. L'ultima parte del secondo capitolo
si addentra nell'argomento spinoso della ripetizione, dell'illusione e della volontà, il tutto entro il
discorso che il tedesco compone per caratterizzare quello che lui chiama individuo sovrastorico. Il
capitolo termina con la citazione di qualche verso di Leopardi. Nella conclusione tiro le somme del
lavoro svolto ed apro in maniera non proprio critica, qualche questione che era necessario esplicitassi in
vista del mio lavoro futuro.

E veniamo a quello che sarà di me. Io cerco un'altra strada rispetto a quella dell'affermazione. Per
poterla trovare, però, si è che devo inoltrarmi per i sentieri battuti. Siccome moltissimi di questi sentieri
poi non fanno altro che costeggiare la cresta montuosa del Possesso, proverò a camminare per questa
strada al fine di raccontare quello che incontrerò - e magari mostrarne qualche vicolo cieco. Ridisegnare
una cartina delle cose, questo è un compito stimolante e degno per uno che, come me, non sa che cosa
fare della sua vita. Camminando collezionerò paesaggi senza soluzione di continutà. Ritornando
traccerò una linea che da tutte le esperienze incontrate trarrà un ordine. Tornato a casa, se ancora ne
sentirò il bisogno, cercherò di disegnare una cartina del continente esplorato.

2
Avvertenza bibliografica

Per i testi leopardiani seguo G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e cura di Walter
Binni; con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Sansoni, Firenze 1969: il primo vol. è
indicato con TO, I; il secondo, che contiene lo Zibaldone, con Zib. Le note zibaldoniane sono
indcate con il n. della pagina e la data; i Canti e le Operette Morali sono citati con i titoli dati
per esteso.
Per quanto riguarda invece i testi nietzchiani l'edizione di riferimento è Opere di Friederich
Nietzsche (= ON), a cura di G. Colli e di M. Montanari, Adelphi, Milano 1970 sgg. Inoltre per
le lettere v. Epistolario 1850-1869 (= E, I) ed Epistolario 1869-1874 (= E, II). Il testo
principale in oggetto di questa tesi, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (= HL), è stato
consultato dall'edizione Adelphi, Milano 1973-74, tratta da ON vol. III tomo I, trad. Sossio
Giametta. Per i frammenti postumi, alla sigla fr. postumo si fa seguire il n. e la data.

3
I

NIETZSCHE E LEOPARDI

1.1 Fonti
Nella così detta Seconda Considerazione Inattuale, Friedrich Nietzsche tratta delle utilità e dei
danni che la storia può giovare o infliggere tanto alla vita di un popolo quanto a quella di un
individuo. Il capitolo che apre questo pamphlet fa espresso riferimento, indirettamente o
direttamente citando dalla traduzione tedesca di Hamerling, all'opera poetica di Giacomo
Leopardi. In particolare vengono affrontate le poesie Canto notturno di un pastore errante per
l'Asia e A se stesso. Non mancano inoltre affinità di contenuto come, ad esempio, un richiamo
alle tematiche contenute nel Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggere.
Occorre innanzitutto capire quali opere Nietzsche aveva a disposizione al tempo della stesura
dell'Inattuale in oggetto che si colloca tra la metà di dicembre del 1873 e la metà di febbraio del
1874; quali opere aveva a disposizione e quali opere, soprattutto, conosceva effettivamente.
Consultando il carteggio di Nietzsche si legge in una lettera a Erwin Rohde dell'11 aprile 1872:

Hans von Bülow, che ancora non conoscevo affatto, è venuto a trovarmi e mi ha chiesto se poteva
dedicarmi la sua traduzione di Leopardi (il risultato delle sue ore di ozio in Italia) 1.

La visita del pianista e scrittore von Bülow accade nel marzo di quell'anno. Più di due anni
dopo, lo stesso von Bülow, primo marito di Cosima Wagner, scrive a Nietzsche:

Il grande fratello romantico di Schopenhauer, Leopardi, attende ancora, sempre invano, di essere
introdotto nella nostra nazione. La sua prosa è più importante della sua poesia che, come Lei sa, Da
Brandes ed io credo recentemente da un altro, è stata tradotta in tedesco. … C'è bisogno di un pensatore
vicino e affine. Sia, tuttavia, Lei, questo “Schlegel”! … Una traduzione tedesca dei Dialoghi e dei
Pensieri sarà comparata come “pane caldo”.
Ma Possiede l'opera? Io potrei farLe spedire immediatamente da Monaco il mio esemplare (l'ottima,
ultima edizione di Livorno)2.

1 E, II, 290
2 A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritorno,(Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994, p. 13

4
La risposta di Nietzsche è composta, in data 2 gennaio 1975:

La sua lettera mi ha fatto molto piacere e mi sono sentito onorato della proposta fattami a proposito di
Leopardi. … Conosco i suoi scritti in prosa solo in minima parte [corsivo mio]. Uno dei miei amici, che
abita a Basilea, di tanto in tanto me ne ha tradotto e letto singoli brani, ogni volta con mia grande
sorpresa e ammirazione. Possediamo l'ultima edizione livornese. Io stesso, in verità, conosco poco
l'italiano e, in generale, benché filologo, non sono, purtroppo, versato nelle lingue (la lingua tedesca mi
riesce abbastanza dura).3

Walter F. Otto, in un saggio contenuto nella postfazione del libro Intorno a Leopardi, ci ricorda
che probabilmente Nietzsche conobbe Leopardi attraverso Schopenhauer, il quale nelle
aggiunte al quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione (cap. 46, Della nullità e
del dolore della vita) elogia il poeta-pensatore di Recanati «come pessimista irriducibile,
cantore monocorde della vanità e del dolore dell'esistere»4. Otto ci dà un’altra informazione:
egli afferma che gli scritti in prosa di Leopardi erano «ben noti a Nietzsche» portando a
sostegno di questa tesi il rapporto epistolare tenuto con Hans von Bülow. C. Galimberti, nella
prefazione allo stesso libro, afferma che Nietzsche conosceva i Canti, le Operette Morali e i
Pensieri di Leopardi ma non lo Zibaldone, rimasto inedito fino al 1898-1900. È vero, Nietzsche
conobbe Leopardi, e conobbe anche le Operette Morali; ma è importante capire quando egli le
conobbe, in relazione anche a quel Dialogo di un venditore di almanacchi e un paseggere
(1832) dal quale, sul finire del primo capitolo, l'autore dell'Inattuale pare prendere spunto. Il
passo in questione è il seguente:

Chi chiede ai suoi conoscenti se desiderino vivere di nuovo gli ultimi dieci o venti anni,
vedrà facilmente chi di loro sia predisposto a questo punto di vista sovrastorico: essi invero
risponderanno tutti “no!”, ma motiveranno diversamente questo “no!”. Gli uni forse
confidando: “ma i prossimi venti saranno migliori”; sono coloro di cui David Hume dice
ironicamente: “And from the dregs of life hope to receive, / What the first sprightly running
could not give”.5

Il punto che ci interessa è la domanda sul desiderio di rivivere gli ultimi anni passati. Questa
domanda è così simile a quella che compare nell'operetta di Leopardi che si è tentati di vedere
nel poeta di Recanati la fonte di Nietzsche. Infatti:
3 E, II, 439
4 Spazi di transizione. Il classico e il moderno, a cura di M Ponzi, Mimesis Edizioni, Milano 2009 p. 221
5 FRIEDRICH NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (= HL) , Adelphi, Milano 1999, p. 13.

5
«Passeggere . Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo
passato, cominciando da che nasceste?
Venditore . Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i
piaceri e i dispiaceri che avete passati?
Venditore . Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch'ho fatta io, o quella del
principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro,
risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta,
nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore . Lo credo cotesto»6

Per quanto riguarda le opere in prosa, come abbiamo detto escludendo lo Zibaldone, si può dire
che Nietzsche, all'epoca, ne avesse una conoscenza puntiforme. Infatti scrive nel 1875 a von
Bülow «Conosco le sue prose solo in minima parte; ec.». Viene anche in aiuto un testo, per noi
decisivo, Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, di Marco Brusotti. Il quale spiega che la
conoscenza nietzschiana delle Operette morali era «a quell’epoca ancora alquanto precaria», e
motiva questa affermazione anch'egli ricordando la lettera di Nietzsche a von Bülow sopra
citata. Infine fornisce alcune preziose indicazioni:

solo alcuni anni dopo, nel 1878, Nietzsche riceve in dono l’edizione delle opere curata da Heyse
(Giacomo Leopardi. Deutsch von Paul Heyse, Berlino 1878, 2 voll.; cfr. la lettera del 27 dicembre alla
madre e alla sorella in Epistolario, vol. III, p. 333 sg.). I due volumi (con dedica dei donatori) sono
conservati nella biblioteca di Nietzsche a Weimar. Anche l’edizione delle opere in lingua italiana il cui
secondo volume si trova nella sua biblioteca (G. Leopardi, Opere , Leipzig 1861) fu acquistata qualche
tempo dopo la stesura dell’Inattuale sulla storia (la ricevuta del libraio è datata 23 dicembre 1875) 7

Ma allora, per concludere, qual è la fonte del passo citato di Nietzsche? Nella citazione ho
incluso dilungandomi il riferimento di Nietzsche a Hume. E' questi, infatti, e precisamente il
suo Dialoghi sulla religione naturale, la fonte di Nietzsche. Il passo humeano in questione, per
esteso, è il seguente:
6 Dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggere.
7 M. BRUSOTTI, Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi , in Leopardi. Poeta e pensatore/Dichter und Denker , Atti
del terzo Convegno internazionale tenuto a Napoli nel 1996, a cura di Sebastian Neumeister e Raffaele Sirri, Alfredo
Guida Editore, Napoli 1997, p. 331, nota 44 (ringrazio l'Autore per l'aiuto fornitomi nel reperire il testo in oggetto).

6
Chiedete a voi stesso, chiedete a ognuno dei vostri conoscenti, se essi vorrebbero rivivere
gli ultimi dieci o venti anni della loro vita. No! Ma i prossimi venti, dicono, saranno
migliori: And from the dregs of life hope to receive, / What the first sprightly running could not give. E
così alla fine si trovano a lamentarsi della brevità della vita, ma allo stesso tempo della sua vanità e della
sua tristezza.8

Del resto, Brusotti ci segnala che Hume è uno degli autori citati da Schopenhauer in quel
capitolo Sulla nullità e il dolore della vita ove compare l’elogio di Schopenhauer a Leopardi.
Reminiscenze, e non solo, della poesia leopardiana però possono essere sicuramente accettate
entro il panorama intellettuale del filosofo tedesco anche ai tempi della stesura dell'Inattuale
sulla storia. Nietzsche, che non tentò mai di tradurre Leopardi se non parafrasandolo o
trasformando un suo pensiero in un nuovo aforisma (era infatti convinto, come abbiamo visto
più sopra, di non essere in grado di compiere una simile mediazione linguistica) si riferisce alla
versione in tedesco di Robert Hamerling che, pubblicata nel 1866, fu per alcuni decenni la
traduzione canonica della poesia leopardiana fra i parlanti in tedesco.

1.2 Nietzsche intorno a Leopardi

Come si sa, un radice robusta e profonda accomuna Leopardi a Nietzsche, l'amore per i classici.
Si può dire che entrambi abbiano speso ben più di qualche goccia di sudore a lavorare nella
decifrazione di testi antichi, greci e latini. L'ingresso di entrambi nel mondo intellettuale è
avvenuto infatti attraversando a passi circospetti e analitici il mondo della filologia. Entrambi
vivono in un'epoca di approccio positivista ai testi antichi, un'epoca in cui si esprime, crescendo
esponenzialmente, sicuramente incoraggiata dallo sviluppo nella società di quelle istanze
tecnologico-industriali che porteranno ad un rapido cambiamento nel modo di vivere degli
europei, modo che si trascinava ormai da secoli, lentamente, appoggiato ai ritmi della terra,
della “natura”; vivono in un'epoca, dicevo, in cui la passione dell'erudizione fine a se stessa,
dell'eccessivo specialismo, della metodologia empiristico-razionalista impegnata a fare della
filologia una scienza, è tendenza dominate. E' ben nota infatti la collera di Nietzsche contro il
filologismo (e la cultura in generale) più accademicamente professionale. La sua sofferenza di
filologo che desidera emanciparsi dal canone positivista che trasforma la cultura in un atto

8 DAVID HUME, Dialoghi sulla religione naturale, Parte X, Einaudi, Torino 2006, pp. 194-195

7
meccanico e vuoto che annichilisce lo spirito è nota. Emancipazione che, già attraverso La
filosofia tragica nell'epoca dei greci (1870-73) e La nascita della tragedia (1872), ma anche
con l'opera postuma Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), si mostra già assai
poco timidamente alla fine del suo processo.
L'idea in Nietzsche che una filologia superiore debba possedere il “respiro della classicità”, la
forza intuitiva della poesia; l'idea, in fondo, che ogni attività dello spirito, debba consistere in
una ποίησις, porta il filosofo tedesco a dire che «Leopardi è l'ideale moderno di filologo; i
filologi tedeschi non sanno fare nulla»9. Bisogna tenere presente che per Nietzsche non c'è
azione dello spirito nella quale questo non si muova impugnando la spada (e talvolta anche il
martello). Che ogni suo giudizio, ogni sua presa di posizione, porta con sé dello “scandalo” 10:
anche tenendo presente questa sua attitudine si deve leggere quando scrive:

La fine dei filologi-poeti è dovuta in buona parte alla loro depravazione personale. La loro stirpe riesce
più tardi: Goethe e Leopardi, ad esempio, sono fenomeni di questo genere. Dietro di loro lavorano
semplici filologi-eruditi. Questa prima stirpe prende già inizio dalla sofistica del secondo secolo. 11

Tenuto conto delle considerazioni appena sopra espresse, si può notare la strategia messa in atto
dal filosofo tedesco in polemica contro i canoni imperanti della cultura positivista. Egli ostende
due modelli da contrapporre al mero erudito specializzato. Questi sono due poeti che hanno
però agito anche sul piano della “archeologia del sapere”, due poeti che tanto hanno amato i
classici da incorporare, ognuno a suo modo, parte dello spirito di un epoca estinta ma gloriosa.

Esisterebbe ancora la filologia come scienza se i suoi servitori non fossero educatori stipendiati? In
Italia ve ne erano. Chi può mettere, per esempio, un Tedesco accanto a Leopardi? 12

E' proprio in questo contesto che si gioca il giudizio superestimatorio che emerge dall'opera di
Nietzsche circa lo stile di Leopardi. Infatti, scrive nelle sue carte il tedesco:

Raccomando di coltivare lo stile greco, in luogo di quello latino, con riferimento soprattutto a
Demostene. Semplicità! Tener presente Leopardi, che è forse il più grande stilista del nostro secolo. 13

9 fr. postumo 3 [23] marzo 1875


10 Il termine scandalo deriva dal greco skàndalon, che significa ostacolo, inciampo.
11 fr. postumo 5 [17] primavera-estate 1875
12 fr. postumo 5 [56] primavera-estate 1875
13 fr. postumo 3 [71] marzo 1875

8
«Il più grande stilista del nostro secolo», forse. Un giudizio squilibrato, attenuato da un
«forse». E' plausibile che qui Nietzsche si riferisca più al Leopardi delle Operette Morali o dei
Pensieri piuttosto che al filologo. In tale prospettiva si colloca anche il seguente giudizio di
valore:

Ed io sopporto più i poeti che tra l'altro hanno anche dei pensieri, come Pindaro e Leopardi. 14

Dove certo si può discutere sull'accostamento di Leopardi a Pindaro ma non si possono avere
dubbi sulla liceità dell'affermazione secondo la quale Leopardi è un poeta con «anche dei
pensieri».
Leopardi, dunque, filologo-poeta, accostato a Goethe e a Pindaro, ma anche poeta con dei
pensieri, poeta-filosofo. Ma quale genere di filosofo? Per quello che se ne può ricavare dai
luoghi nietzschiani dove si dedica qualche attenzione al poeta italiano, filosofo del
“pessimismo romantico”, collocato accanto a Schopenhauer.
D'altra parte, se «i primi tedeschi che si sono accorti di Leopardi erano filologi; e il primo
Leopardi di cui si siano accorti i tedeschi fu il Leopardi filologo» come afferma H. Helbling15,
ciononostante prima di Schopenhauer e prima di Nietzsche si è cominciato a conoscere anche il
Leopardi filosofo. Attraverso le Operette Morali principalmente. Il 5 luglio 1835, von Bunsen,
teologo protestante, archeologo e storico (incontrato dal Leopardi nel 1923 a Roma, dove fece
conoscenza anche dello stimato Angelo Mai) scrive appunto all'italiano:

La lettura delle vostre opere filosofiche mi aveva ispirato alcune idee che desideravo comunicarvi. Per
confessarvelo francamente, non mi ritrovo in molte parti il mio antico platonico, ma bensì l'osservatore
acuto e ipocondriaco dell'ipocrisia degli uomini, della viltà dei caratteri del nostro tempo, dell'abuso che
si fa dei nomi eternamente sacri di virtù, di amor patrio, di religione. Vorrei che lasciaste alla vostra
nazione un'opera filosofica che non risentisse tanto della vostra malinconia di dover vivere in tali
tempi.16

Bunsen delinea qui una immagine di moralista sulla sagoma di Leopardi. Un moralista però che
lascia penetrare la «malinconia di dover vivere in tali tempi» di “barbarie” nell'intimo della sua
opera. Questo atteggiamento renderebbe Leopardi decisamente “inattuale”, nel senso
nietzschiano che andrà esplicandosi nel prosieguo di questa trattazione. Ma innanzitutto queste

14 fr. postumo 8 [2] estate 1875


15 H. Helbling, Leopardi e il pensiero tedesco, in AA.VV., Lepardi e il pensiero moderno, p.241
16 A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritorno,(Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994,, p.20

9
parole del Bunsen lasciano trapelare la figura di un pessimista chiuso e tetro, la stessa
immagine che se ne faranno altri dopo di lui. Così come farà Schopenhauer, compiaciuto di
trovare un modello umano tanto aderente alla sua teoria.
Un altro aspetto che il mondo tedesco prenietzschiano (ma non solo tedesco) si è costruito nella
visione dell'atteggiamento di Leopardi verso la vita fu quello che spiega il pessimismo del
poeta di Recanati con riferimento alle sue condizioni fisiche assolutamente precarie. Il Pascoli,
in certi suoi saggi17, poneva l'accento sulla infermità fisica del Leopardi, prendendo spunto
dall'epistolario dello stesso Recanatese:

(…) «dai 13 anni ai 17» scrisse dai sei ai sette tomi non piccolo sopra di cose erudite, come egli stesso,
aggiungendo: «la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato» 18 ; e in altro luogo afferma d'essersi
rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo; e si sa che studiava fino a tardissima notte,
19
ginocchioni avanti al tavolino, per poter scrivere fino all'ultimo guizzo del lume morente.

Al filologo svizzero Louis De Sinner, che inviò a Leopardi i fogli della rivista Hesperus di
Stoccarda che egli aveva provveduto a far dedicare al poeta italiano e nei quali appunto si
risaltava la connessione tra pessimismo e decadenza fisica sopra menzionata, il poeta di
Recanati rispose polemicamente prendendosela con chi «s'obstine à attribuer à ses
circonstances matérielles ce qu'on ne doit attribuer qu'à son entendement»20. E' importante
questo moto di ribellione che Leopardi ha contro il modo in cui il suo pessimismo intellettuale
sia ridotto alle mere sue circostanze materiali. D'altronde Leopardi però non può non
riconoscere il carattere profondamente pessimista della sua visione del mondo. Così
Schopenhauer può dire:

Nessuno ha trattato questo argomento [la miseria della vita] in maniera così profonda ed esauriente
come, ai giorni nostri, Leopardi. Egli ne è tutto compreso e compenetrato: lo scherno, il lamento di
questa nostra esistenza è il suo unico tema: ce lo presenta in ogni pagina delle sue opere e, tuttavia, con
una tale molteplicità di espressioni, con una ricchezza di immagini che non suscita mai insofferenza ed
anzi riesce sempre assolutamente stimolante ed avvincente. 21

«Stimolante ed avvincente»: Nietzsche avrà forse da ridire su questo giudizio. Per il resto però

17 GIOVANNI PASCOLI, Saggi e lezioni Leopardiane, a cura di M. Castoldi, Agorà Edizioni


18 Cfr. lettara al Giordani del 30 maggio 1817: «(...) ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra a cose erudite (la
qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato)»
19 GIOVANNI PASCOLI, Saggi e lezioni Leopardiane, a cura di M. Castoldi, Agorà Edizioni, p.26
20 Cfr. lettera al De Sinner del 24 maggio 1832 (TO, I, 1382)
21 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Vigliani, Milano, Mondadori, 1989, p.1507

10
pare seguire la tendenza cristallizzatasi nella intelligenza tedesca che vede in Leopardi un
importante filologo, un filologo che è in grado di fare poesia (nel 1837 K. L. Kannegiesser
procura la prima traduzione dei Canti), una poesia che veicola «anche dei pensieri».
Come fa notare Antimo Negri, «dal carteggio risulta che, nei confronti del poeta italiano,
accostato soprattutto a Schopenhauer,» (come del resto era prassi: si veda Francesco De Sanctis
che nel suo Dialogo tra A e D accosta e quasi sovrappone i due personaggi, Schopenhauer e
Leopardi appunto, trovandone solo poche e vaghe dissonanze22) «Nietzsche non assume altro
atteggiamento che quello di un filosofo che tende a distinguere il suo virile pessimismo, che
affonda le radici in una sofferenza esistenziale non sufficiente tuttavia a consumare ogni sua
gioia di vivere, da un pessimismo che a questa gioia sbarrerebbe la strada»23, un pessimismo
che potrebbe dirsi “romantico”. Nella lettera del 28 dicembre 1878 a Marie Baumgartner, che
Nietzsche ringrazia per l'invio dell’edizione delle opere leopardiane curata da Heyse (sopra
menzionata attraverso Brusotti), si legge inoltre:

Lei sa, tuttavia, che io non sono un “pessimista” come lui e la tetra tristezza in cui mi trovo, la constato
soltanto, non la deploro.24

In un'altra lettera al suo amico Peter Gast, il 22 gennaio 1879 scrive:

La mia salute è insopportabile – piena di dolori, come prima la mia vita molto dura e solitaria; io stesso
in tutto vivo … con animo sereno e paziente e guardando alla vita con gioia.
Io so che Leopardi, per ciò che riguarda l'esistenza dolorosa, non l'ha avuta più grande di quanto non
l'abbia avuta io. Nondimeno!25

Ancora nel 1882, a Erwin Rode, scriverà in lettera: «Chi, dunque, Ha sofferto più di me?
Leopardi certamente no»26.

22 Ad eccezione di una: «Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in
petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostategli, che non cerchi
innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. E scettico, e ti fa credente; e mentre
non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma
a nobili fatti. Ha cosi basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino
gli avesse prolungata la vita infino al quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore.»
23 A. Negri, Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi. Le Lettere, Firenze 1994, p.17.
24 E, III, 333
25 E, III, 528
26 E, IV, 657

11
1.3 Temi inattuali

Potrà sembrare che questo divagare attraverso il rispecchiamento di Leopardi nello sguardo di
Nietzsche ci abbia portato un po' lontano dall'argomento della trattazione che vuole essere
delimitato al contenuto della seconda delle Considerazioni Inattuali e in particolare al
significato dei richiami leopardiani che il filosofo tedesco utilizza nel primo capitolo del suo
libro. Mi pare necessario però, al fine di caratterizzare questo lavoro, inserire una una ulteriore
riflessione preliminare. Nelle considerazioni fin qui compiute è emerso in più punti un certo
atteggiamento comune a entrambi gli scrittori riguardo la realtà del presente storico in cui si
trovarono a vivere. Questo atteggiamento affine, sotto certi aspetti, potrebbe dirsi “inattuale”. E
siccome proprio di un'Inattuale questo lavoro vuole occuparsi, sarà meglio, seppur in modo
sintetico, fare emergere qualche tratto che chiarifichi questa particolare posizione.
E' percepibile, sia in Nietzsche che in Leopardi, una certa ostilità nei confronti della propria
epoca. Un'epoca che si pensa, nella maggioranza delle opinioni, un'epoca di progresso nella
quale si crede raggiunta una sorta di pienezza dei tempi. I nostri due pensatori non sono affatto
persuasi di ciò. Questo temperamento controcorrente, che fa di coloro lo provano, e lo
esprimono, degli «uomini non disponibili a bruciare incenso sull'altare del “dio del tempo”»27,
si può intendere inattuale.
Queste sono le raccomandazioni che il Mondo rivolge al Galantuomo:

In ogni cosa di fuori; e di dentro più che potrai, vale a dire che devi porre ogni studio a conformare non
solamente i detti i fatti e le maniere, ma anche i geni e le massime tue con quelle degli altri. … Non ci
deve essere un uomo diverso da un altro, ma tutti debbono essere come tante uova, in maniera che tu
non possa distinguere questo da quello. E chiunque si lascerà distinguere sarà messo in burla. 28

«Chiunque si lascerà distinguere» sarà allontanato con leggera indifferenza, un'indifferenza che
è derisione. «Tutti», infatti, «debbono essere come tante uova». Il che fa pensare che già prima
di nascere come persone individuate già si deve essere aperti all'influenza di ciò che si dice si
debba diventare. Ma Leopardi non si lascia affatto persuadere da queste raccomandazioni
“conformiste”. Nel Dialogo tra Timandro ed Eleandro, il primo personaggio, “colui che stima
gli uomini”, certamente uomo in sintonia coi tempi, dice:

27 A. Negri, Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi. Le Lettere, Firenze 1994, p. 23
28 Dialogo tra un Galantuomo e il Mondo, 1821

12
Quel continuo biasimare e derider che fate la specie umana, primieramente è fuori di moda … . Né sarà
nuovo che i vostri libri, come ogni cosa contraria all'uso corrente, abbiano cattiva fortuna … . Quaranta
o cinquant'anni addietro, i filosofi solevano mormorare della specie umana; ma in questo secolo fanno
tutto al contrario.

L'altro, Eleandro, il cui atteggiamento è alquanto insolito rispetto alla moda che corre,
risponde:

Anche il mio cervello è fuori di moda. E non è nuovo che i figliuoli vengano simili al padre … . Poco
male. Non per questo andranno a cercar pane in sugli usci … . Credete che quaranta o cinquant'anni
addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dicessero il falso o il vero?

«Quaranta o cinquant'anni prima», è piena stagione illuministico-materialista. Eleando, “colui


che ha compassione degli uomini”, afferma che il proprio «cervello» è fuori dalla moda. Egli
possiede dei pensieri propri che riesce a formulare grazie, appunto, al «cervello». Grazie a
quella disposizione che tutti possiedono materialmente in potenza e che tutti possono esercitare
facendola diventare una vera e propria facoltà in atto29. Egli si burla di colui che stima gli
uomini, ride di Timandro, che vuole mostrargli come sia sconveniente il suo pessimismo. Ma
questo pessimismo viene a Leopardi non da una semplice sensazione, bensì è attraverso la
ragione che egli perviene a decretare la vanità delle cose umane30, e conseguentemente a
provarne pietà. Ride di un riso coraggioso Eleandro perché si rivolge contro la moda
“ottimista” del tempo, contro quel comune sentire di tutta un'epoca che vede in ogni avanzare

29 Cfr. Zib. 12 settembre 1821, pag. 1680-82, (III, 1680, 1): «La nostra stesa ragione è una facoltà acquisita. … La
mente umana ha una disposizione ma per se stessa infruttuosa a ragionare: essa per se non è ragione … »
30 Cfr. a titolo di esempio Zib, 2 giugno 1824, pag. 4098-99: «Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose
e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere
insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della
nostra ragione. … L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e
inseparabile dall’esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe
intorno all’uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra
esperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria
dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio
inimico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. …
Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è
meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò
che non è, sia meglio di qualche cosa? L’amor proprio è incompatibile colla felicità, causa della infelicità
necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver
luogo senz’amor proprio, come ho provato altrove, e l’idea di quella suppone l’idea e l’esistenza di questo. Del resto
e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille
qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e
della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione “Non può una cosa a un tempo essere e
non essere”. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla
nostra ragione.»

13
un progredire. Nietzsche non crederà questo riso virile, ovvero adeguato a sostenere l'urto di
tale scontro. Egli vedrà Leopardi come gettato in un destino disperato. Lo compatirà
inizialmente, come ha compatito quella schiera di raffinati pessimisti (Holderlin ad es.), infine
deriderà la sua debolezza impotente. Ma Leopardi, come l'Empedocle di Holderlin, finirà col
gettarsi nell'Etna per sublimare il suo insostenibile stato di essere individuato? Sulle sponde di
un altro vulcano, lo «Sterminator Vesevo», si concluderà l'esperienza di Leopardi e in ben altro
modo.
Sto analizzando l'atteggiamento di due uomini riguardo la propria epoca, atteggiamento che si
rivela molto simile, senza per questo derivare il pensiero dell'uno da quello dell'altro.
Si parla dei tempi che corrono. Ma quali tempi erano questi? Un tema che può illuminarci al
riguardo può essere quello delle “masse”. Si legge nella lettera di Leopardi a Fanny Targioni
Tozzetti del 5 dicembre 1831:

Sapete ch'io abbominio la politica, perché credo, anzi vedo, gli individui infelici sotto ogni forma di
governo … ; e rido della felicità delle masse, perché il mio cervello non concepisce una massa felice,
composta d'individui non felici.31

Anche per questo il cervello di Leopardi è oggetto di scherno da parte di chi si schiera dal
punto di vista della moda: egli «abbominia la politica» e «ride della felicità delle masse».
Solleva inoltre un problema, quello della felicità degli individui.

Gli individui sono spariti dinnanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol
dire ch'è inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche
quel misero premio di gloria, gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. 32

L'individuo evapora nella massa e non può «sperare né in viglia né in sogno» di affermare la
sua esistenza particolare, ovvero di sperare nella propria felicità. Ormai «è inutile che
l'individuo si prenda nessun incomodo». Questo l'atteggiamento di ostilità verso la moda di far
numero che egli percepisce dilagare attorno a sé. Leopardi se la prende però contro quei
pensatori moderni che elogiano e sostengono questo processo trasportati da molto ottimismo e
poco cervello. Pensatori che nella Palinodia al conte Gino Capponi (1835) individua negli
«eccelsi / spiriti del secol suo» che «non potendo /felice in terra far persona alcuna, / l'uomo
obbliando, a ricercar si diero /una comun felicitade» e «di molti / tristi e miseri tutti, un popol
31 GIACOMO LEOPARDI, Tutte le Opere,a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze 1969 (=TO), vol I, p.1369
32 TO, I, 183

14
fanno /lieto e felice» (vv.199-202). Ecco la politica che rifiuta il poeta: quella di coloro che
tralasciano l'uomo per fingersi una felicità “di massa”. Una «comun felicitade» che
implicitamente pone l'uguaglianza tra gli individui, una uguaglianza però che, se intendere bene
si deve, non è altro che massificazione. Dicendo al rovescio: massa non è altro che un
livellamento generante disindividualizzazione degli uomini.
Il sarcasmo di Leopardi, come si nota, non investe direttamente le masse, come invece accadrà
al disprezzo di Nietzsche; Leopardi, come dice bene A.Negri nel saggio già citato, «ride di
fronte agli ideologi della massificazione»33:

Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d'individui,
desidero e spero che me lo spieghin gl'intendenti d'individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. 34

Chi sono poi questi pensatori moderni investiti dalla critica del Recanatese? Come si vedrà più
avanti, sono particolarmente i giornalisti, coloro che più direttamente si rivolgono all'opinione
pubblica, ne sono l'antenna e la guida. Anche Nietzsche percepisce la propria epoca come
«l'epoca delle masse», le quali «si sdraiano sul ventre dinanzi a tutto quanto è
quantitativamente esorbitante»35. Ma, come già si può percepire da questa considerazione, egli
non si limita a descrivere la situazione di queste o, come Leopardi, ad accusare chi incanala e
asseconda questa tendenza: egli le giudica anche le masse. Il filosofo tedesco preferisce un'altra
prospettiva rispetto a Leopardi di intendere l'individuo in rispetto alla moltitudine nella quale si
esprime un dualismo che fa della massa un assemblato indistinto di uomini rozzi contrapposto a
colui che è uomo egregio (ex-grege):

L'individuo può oggi realmente raggiungere una felicità impossibile per l'umanità. Un tempo, la nobiltà:
oggi basta sentire gli altri come schiavi, come il nostro concime. 36

Una considerazione ambigua questa, in cui si esprime nel fondo un'amara risata sulla realtà
degli uomini. Una considerazione anche pericolosa se intesa alla lettera. Forse, per meglio
comprendere come il tedesco si pone di fronte all'atteggiamento necessario al soggetto per
emanciparsi dal tipo di dinamica sociale che qui si discute, si può leggere il seguente passo, che
sintetizza il pensiero contenuto in molteplici luoghi della sua Opera:

33 A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritono (Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994, pag. 26-27
34 TO, I, 183
35 ON, VI, 2, 152
36 fr. postumo 10 [B51] inizio 1881

15
L'uomo che non vuole appartenere alla massa non deve fare altro che cessare di essere accomodante
verso se stesso; segua la coscienza che gli grida: «Sii te stesso! Tu non sei tutto ciò che adesso fai, pensi,
desideri!».37

Emerge il motivo dell'auto determinazione. Noi non siamo tutto ciò che siamo diventati durante
il trascorrere alterno e per lo più casuale delle circostanze della nostra vita. Il cammino verso
una migliore umanità non è attraverso il caos indifferente della massa. Auto determinarsi allora
è riaffermare, o per lo meno tornare a guardare, il problema che si è. Tornare a porre attenzione
a quella voce della propria «coscienza» che incanala l'espressione vitale più autetica e così
avere almeno la possibilità di spezzare le catene della “assuefazione”, per usare un termine di
Leopardi, che il sentire comune, antiindividuale, comporta.
Leopardi con estrema lucidità ci spiega così il fatto storico che lo circonda:

Col perfezionam. della società, col progresso dell'incivilimento, le masse guadagnano, ma l'individualità
perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de' moderni
considerati rispetto agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più
partigiani della modernità.38

Il fatto, il dolore di questo andare alla deriva verso la «barbarie» dell'uniformità, è percepito da
entrambi. Nietzsche non si pone con coloro che il Leopardi chiama «eccelsi / spiriti del secol»
ma si mostra pronto a gettarsi nella storia con lo spirito del guerriero che dice tra sé e la sua
spada: “E' questo il campo di battaglia, cara amica non tradirmi in quest'avventura”. E così
penetra la mischia selvaggia, superbo eroe che non teme usare violenza, se questa è un gesto
necessario. Odia la piccolezza, che questa si mostri sotto forma di viltà o debolezza. Ama il
coraggio, e con esso il suo destino. Lo zoppo poeta Leopardi-Simonide 39, invece, al quale non è
dato di combattere, dall'alto del passo delle Termopili osserva muto il sacrificio dei nobili
guerrieri suoi compagni che, sbarrando il passo al barbaro, dettero la vita – dettero la vita, e il
barbaro passò. Osserva il crudele spettacolo per raccontare il sacrificio di quei grandi uomini,
affinché qualcosa di loro rimanga, e lui con essi.
Entrambi rifiutano dunque di asservirsi al principio di appiattimento, di annichilimento, che
percepiscono. Ognuno in svariate direzioni, alcune personalissime, ma almeno un orizzonte li

37 ON III, I, 360
38 Zib., 5 sett. 1828, pag. 4368.
39 Si legga per la similitudine: nei Canti, la poesia All'Italia.

16
accomuna. Quello, come ho appena spiegato, che ha come effetto l'appiattimento nella massa.
Quando l'individuo comincia ad assumere quasi solo un valore numerico si assiste ad un
processo meramente materiale: la massa come agglomerato indistinto di funzioni. Al suo
interno vi è sì una sorta di specializzazione degli elementi, ma questa equivale a quanto è stato
sopra esposto riguardo la filologia e la critica serrata di Nietzsche ai canoni della sempre più
imperante filologia positiva. Esiste un processo intellettuale che agisce nei grandi agglomerati
di uomini che penso abbia molto ben descritto Alexis de Toqueville nelle sue opere,
specialmente in La democrazia in America (1835). Man mano che il principio dell'uguaglianza
livella gli individui e li racchiude nell'anonimato della massa, questi perdono la libertà di
autodeterminarsi, o comunque questa viene ristretta in ambito privatissimo e impotente. Questa
facoltà, che nell'individuo è libertà, si trasferisce alle regole dinamiche che dominano, se così si
può chiamare, l'esser-massa. Questa necessita di un forte baricentro che determini una certa
armonia funzionale che è condizione di esistenza di ogni insieme organizzato di elementi. Più
la massa si afferma, più il baricentro si cementifica. L'individuo, schiacciato fisicamente da
questo immenso apparato, disperso nel coacervo funzionale della massa, annientato in una sfera
di privatissime illusioni che lo rendono incapace di autodeterminare la propria esistenza, è
completamente in balia dell'influenza del grande numero il quale ha necessità di individuare
funzionalmente i suoi elementi. Lo fa materialmente, attraverso vari canali che a noi poco
interessano in questo contesto in quanto Leopardi viveva in una società quasi preindustriale40
mentre Nietzsche, che trascorre la sua esistenza un cinquantennio dopo e, cosa da non
trascurare, nel centro dell'Europa e in una Germania che si era andata vieppiù rafforzando fino
a diventare nel 1871 un Impero sotto la guida della Prussia, vede intorno a sé già avanzato il
processo di industrializzazione e, insieme ad esso, ne percepisce più chiaramente le
conseguenze. Questa individuazione funzionale si pone in atto, come dicevo, anche su di un
piano intellettuale. Infatti l'individuo, ormai inibito dal suo isolamento a formare pensieri propri
sulla realtà, li cerca in chi gli sta intorno. Anche il suo vicino però si trova nella medesima
condizione. In questo cortocircuito si innesta l'opinione pubblica il cui principale mezzo di
diffusione e sedimentazione fu ai tempi il giornale, ovvero un apparato di informazione delle
masse. In-formare significa, tra l'altro, dare forma, o meglio, mettere in una forma. E' chiaro
allora come in questa direzione si siano incontrate sia la critica del poeta «con anche dei
pensieri» italiano sia quella del filosofo tedesco. Una critica ironica e polemica ad un tempo.
Per quanto riguarda Leopardi, l'esempio forse più conosciuto che esprime questo atteggiamento

40 Leopardi nacque il 28 giugno 1798 a Recanti, un piccolo borgo dello Stato Pontificio, lo Stato più arretrato d’Italia
sia politicamente che culturalmente.

17
si può trovare nel Dialogo di Tristano e di un amico, quando il poeta, sotto le spoglie di
Tristano, risponde ironico all'amico che lo interroga:

Credo ed abbraccio la profonda filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro
studio, massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età presente. 41

Giornale, come fa notare A. Negri nel suo libro42, «viene da “giorno”, ed il giorno è portatore di
luce». Questi «maestri» allora hanno un ruolo illuministico, antitetico a quei filosofi che
mormoravano degli uomini «quaranta o cinquant'anni addietro» e che ancora oggi si ricordano
come “filosofi illuministi”. Nella Palinodia leggiamo: «Viva rifulse / agli occhi miei / la
giornaliera gazzetta» (vv.18-20). Ma che insegnamenti possono veicolare questi «maestri» a chi
dà loro retta? Così si spiega Tristano-Leopardi:

Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa
somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia.
L'istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il
resto del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. 43

Chiaro, parla questo frammento da sé. «Le cognizioni non sono come le ricchezze»,
«l'istruzione superficiale», quella che può essere spartita, non è cultura. Coloro che la
propagano non possono essere considerati dei veri maestri. La cultura autentica appartiene a
quelli che Leopardi chiama «dottissimi» e questo accade perché la sua acquisizione non è
questione di commercio, ma di «studio, massimamente grave e spiacevole». Le riflessioni di
Leopardi si contestualizzano in un clima di estesa critica alla volgarizzazione della cultura,
basti pensare, a Goethe o Kierkegaard44. Profonda affinità, si diceva, con Nietzsche:

Nel giornalismo, difatti, confluiscono insieme le due tendenze: qui si porgono la mano l'estensione della
cultura e la riduzione della cultura. Il giornale si presenta addirittura in luogo della cultura, e chiunque

41 TO, I, 183
42 A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritono (Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994, pag. 29
43 TO, I, 182
44 Per Goethe, cfr. J.P. ECKERMANN, Colloqui con Goethe, Sansoni, Firenze 1947, pp. 477-78: «E' indubitato che
attraverso il cattivo giornalismo, la più parte negativo, che estetizza e criticheggia, si è diffusa nelle masse una
specie di mezza cultura; me per gli ingegni produttivi essa è come una perfida nebbia, un insidioso veleno, che
guasta tutto l'albero della forza creatrice» (cit. in G. Leopardi, Operette morali, a cura di G. Galimberti, Guida,
Napoli 1990, p.510). Per Kierkegaard, cfr. Diario, trad. C. Fabro, Morcelliana, Brescia, 1962, p. 510: «Che fa ora il
giornale? Esso comunica tutto ciò che comunica (l'oggetto è indifferente: politica cultura critica ecc.) come se fosse
la Folla. La pluralità a saperlo. Per questo i giornali sono il sofisma più funesto che sia mai apparso » (cit. in A.
NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritono (Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994., p.65).

18
coltivi ancora pretese culturali, anche come studioso, si appoggia abitualmente a quel viscoso tessuto
connettivo, che stabilisce le giunture fra tutte le forme della vita, tutte le classi, tutte le arti, tutte le
scienze, e che è solido e resistente come suole esserlo appunto la carta di giornale. Nel giornale culmina
il vero indirizzo culturale della nostra epoca.45

Ma se «nel giornale culmina il vero indirizzo culturale» dell'epoca, se al problema


dell'educazione subentra quello dell'informare, cosa mai accadrà nelle scuole? Appare chiaro a
Nietzsche quello che è il compito reale affidato alla cultura dei suoi tempi: quello di «educare
uomini quanto più possibile “correnti” nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta» 46.
Uomini «correnti», ad esempio uomini da immettere nel mercato del lavoro in risposta di una
domanda che giunge da luoghi estranei alla cultura, estranei alla scuola. Ma già da questo
punto, il discorso di Nietzsche si complica enormemente rispetto a quello di Leopardi,
soprattutto a causa delle contingenze storiche nelle quali i singoli pensatori si trovavano a
vivere.
Da quanto evocato in maniera sommaria, questa “inattualità” che ho cercato di descrivere, che è
comune a questi due pensatori, che li rende pensatori “inattuali” in rispetto ai tempi “correnti”
in cui si trovarono a vivere; questa inattualità potrebbe essere interpretata come distanza dalle
tendenze di un mondo “moderno” in cui si mostrava già chiaramente un oblio di tutti quei
fattori che determinarono proprio l'avvento di quello stesso mondo. Fattori, tutti, che si
riassumono in un elemento: l'uomo. Profetico, anche perché tratto dalle parole scritte da un, a
suo modo, profeta: il corollario a La Ginestra: «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la
luce»47. Ma ponendo questa “distanza” tra sé ed il mondo presente, dove potrà quest'uomo che
ho detto inattuale trovare la forza motrice per spingersi attraverso la sua “epoca” in maniera
attiva ed efficace?
Sarà meglio, a questo punto, addentrarci nel discorso che questa tesi vuole come suo centro
quello, appunto, che si riferisce alla Considerazione Inattuale sulla storia di Nietzsche e al
modo in cui l'opera di Leopardi è inserita in questo testo.

45 ON, III, 2, 113-114


46 ON, III, 2, 109
47 Giovanni, III, 19

19
II
L'ISTANTE, LA STORIA, IL SOVRASTORICO

Sull'utilità e il danno della storia per la vita 48 si apre con una prefazione nella quale Nietzsche
fa esplicita dichiarazione dell'intento che lo ha portato a comporre il pamphlet in oggetto:

Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente
la mia attività.49

Nietzsche contestualizza questa frase inserendola nel problema educativo che egli vede
caratteristico della propria epoca ovvero, contrappone il bisogno che «l'ozioso raffinato nel
giardino del sapere» ha di storia al bisogno “reale” che «noi» abbiamo. Un «bisogno per la vita
e per l'azione, non per il comodo di ritirarci dalla vita e dall'azione … . Solo in quanto la storia
serva la vita, vogliamo servire la storia»50. Da queste prime battute risulta chiaro come il
discorso del filosofo tedesco si riferisca all'esistenza individuale della persona. Non dobbiamo
scordare nel prosieguo della trattazione che Nietzsche è spinto a problematizzare questo tema
della storia e della vita da «un sentimento che mi ha molto spesso tormentato». Un sentimento
che si genera di fronte ad un modo di trattare la storia «in cui la vita intristisce e degenera»,
modo che presuppone quell'approccio alla cultura tipico del canone “positivista” che, come
abbiamo visto sopra, Nietzsche avversava.
Negli appunti preliminari51 si legge in una polemica con le concezioni di von Hartmann che in
seguito affronteremo:

Noi ci vogliamo astenere da tutte le costruzioni della storia dell'umanità, e non considerare affatto le
masse, ma soltanto gli individui spersi ovunque; questi costituiscono un ponte sulla corrente
impetuosa.52

48 Mi riferirò, per quanto riguarda il testo in oggetto (Sull'utilità e il danno della storia per la vita; = HL), all'edizione
della Piccola Biblioteca Adelphi, 1973-74, traduzione di Sossio Giametta; tratta dalle Opere di Frederich Nietzsche,
volume III, tomo I, edizione italiana diretta da Giorgio Colli e Mazzino Montanari.
49 HL, Prefazione, p. 3 (cit. dalla lettera di Goethe a Schiller del 19 dicembre 1798).
50 ibid.
51 Per le stesure preliminari e i testi postumi che girano attorno alla comosizione della Seconda Considerazione
Inattuale, si prenderà a riferimento: Opere di Frederich Nietzsche, vol III, tomo 3/2 (fr. postuni 1869 – 1874), parte
seconda, Milano 1992: (= ON III,3/2)
52 ON III,3/2, 29 [52], p.250

20
2.1 Il piuolo dell'istante

In uno schema preliminare del primo capitolo della Seconda Considerazione Inattuale, il tema
portante viene abbozzato così: «I. Nessuna considerazione del passato. Animale – Leopardi.»53
A seguire dello schema la prima stesura del paragrafo introduttivo, nella quale ricorre una
citazione diretta dal leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell'Asia:

Il gregge ci pascola innanzi, e non sente nessun passato, salta mangia riposa digerisce, torna a saltare, e
così dall'alba al tramonto, di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato
cioè al piuolo dell'istante: perciò l'uomo a quella vista è costretto a sospirare e vorrebbe rivolgersi al
gregge come Giacomo Leopardi nel canto notturno del pastore dell'Asia:

Quanta invidia ti porto!


Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi. (vv. 107-112 )54

Nella caratterizzazione che il tedesco pone in atto della psicologia animale è da tenersi conto
una importante influenza schopenhaueriana. Reminiscenze di Parerga e Paralipomena55 nei
quali Schopenhauer parla del «completo risolversi» dell'animale «nel presente». Così
Nietzsche dice che «l'animale si risolve come un numero nel presente, senza che ne resti una
strana frazione»56. Schopenhauer pensa ancora, e afferma, che dell'animale sono propri solo un
timore ed una speranza «legati in maniera estremamente breve»; per Nietzsche il gregge è
«legato brevemente col suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante» 57. Tra l'altro,
come fa notare M. Brusotti, Hamerling (il curatore della edizione in lingua tedesca dei Canti a
cui Nietzsche si affidava) traduce quel «subito scordi» che leggiamo nella citazione sopra
trascritta con «dimenticando all'istante», «offrendo così a Nietzsche quel concetto di istante, di
attimo, che non si trova nell'originale leopardiano»58. Per Schopenhauer gli animali non hanno

53 ON III,3/2, 29 [97], p.277


54 ON III,3/2, 29 [98], p.277. La cit. del Canto ricorre nella traduzione tedesca di R. Hamerling (1866).
55 I passi citati provengono dal §153 delle Aggiunte alla dottrina del dolore del mondo scondo volume di Parerga.
56 HL, cap.I, p.6
57 Ibid.
58 M. BRUSOTTI , Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, p. 325

21
alcun reale rapporto col futuro, infatti, liberi dal «tormento della cura e della preoccupazione»,
non possedendo nemmeno la facoltà di sperare, da un lato mancano loro le gioie appunto della
speranza e dell'aspettazione, dall'altro la preoccupazione dei mali a venire. Gli animali sono,
rispetto all'uomo, veramente saggi dunque. Essi si rapportano esclusivamente al presente. Ne
Sulla storia59 sempre Schopenhauer sostiene che l'uomo ha «solo grazie al suo passato molto
più esteso» una «vera e propria comprensione del presente», e del futuro. 60 Bisogna allora
tenere conto che Nietzsche, parafrasando Leopardi, prende soprattutto spunto dalle
considerazioni contenute nei Parerga con la prospettiva presente ne Sulla storia, ovvero con
l'attenzione rivolta alla «specificità dell'esistenza storica dell'uomo»61.
Nella stesura definitiva del primo capitolo cade la citazione diretta della poesia di Leopardi:

Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia,
riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente
con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante, perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa
male all'uomo, perché al confronto dell'animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con
invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l'animale né tediato né fra
dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l'animale.62

Traspare da queste righe un aspetto che nelle considerazioni menzionate di Schopenhauer non è
presente, ma è ben presente nel Canto leopardiano: è quello del dolore che l'uomo prova dalla
commisurazione di sé con l'animale. L'uomo «è costretto a sospirare» alla vista della naturale
attitudine del gregge a dimenticare immediatamente e a vivere come un'assoluta esperienza il
suo presente. Sospira per l'infelicità propria: egli non può essere «legato al piuolo dell'istante».
Un sentimento contraddittorio poiché questo stato che l'uomo invidia «lo vuole però invano,
perché non lo vuole come l'animale». Questo fenomeno, unito al tedio generato dal pensiero
«del tacito, infinito andar del tempo»63, porta Nietzsche a distinguere tra l'animale, che «vive in
modo non storico», e l'uomo che, «continuamente legato al passato», per ciò stesso non può
«imparare a dimenticare». Attraverso questo paragone il tedesco desidera evidentemente
figurare al lettore una definizione della condizione umana che esprime bene in una delle sue
carte composta nel periodo della creazione della Inattuale:

59 Mondo come volontà e rappresentazione, vol.II, cap 38


60 Per un confronto sull'argomento, si veda M. BRUSOTTI , Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, p.324-26
61 M. BRUSOTTI , Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, p. 326
62 HL, p. 6.
63 Canto notturno, v.72

22
Sentire “storicamente” significa sapere che in ogni caso si è nati per il dolore, che tutto il nostro lavoro
può raggiungere, nel caso migliore, l'oblio del dolore.64

L'esistenza storica è cosciente di essere nata per soffrire. Poi però Nietzsche introduce un
argomento che nella poesia di Leopardi non compare:

(…) una strana frazione; non è in grado di fingere [l'animale], non nasconde nulla e appare in tutto e per
tutto come ciò che è, quindi non può essere nient'altro che sincero.

Sicuramente, come dice bene Brusotti, qui Nietzsche mira ad una «critica della modernità»
perché «l'istrionismo, l'abisso che separa interiorità ed esteriorità, è una caratteristica
generalmente umana e nel contempo uno dei principali problemi della modernità»65. Riguardo a
ciò si può anche richiamare ciò che è stato esposto nel primo capitolo circa la dinamica di
annichilimento degli individui nelle masse. Quello che qui ci interessa è però il sentiero che
imbocca questa considerazione. L'invidia per l'animale diventa, nel proseguire del testo
nietzschiano, anche commozione. Non solo verso il gregge. L'uomo

resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo
piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello, che egli
può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti coi suoi simili rinnega fin troppo volentieri
(…).

Questa commozione l'uomo la prova, «quasi si ricordasse di un paradiso perduto», per il


bambino. Per quanto Nietzsche avvicini l’immagine del gregge a quella, più familiare, del
fanciullo, si deve notare che, mentre l’animale rappresenta l'immagine dell’istante, che, fermo
alla semplice presenza, non conosce né passato né futuro, né necessità né libertà; il bambino
presuppone il dispiegarsi dell’intera scena del divenire, del ricordo come dell’attesa, al punto
che, sospeso tra di essi, «giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro».
Certamente Nietzsche non poté leggere lo Zibaldone ma non è così lontano dal sentimento di
Leopardi quando questi scrive nel 1823:

Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione col futuro, se non considerando come futuro
l'istante che dee succedere al presente momento, perrocché il presente non è in verità che istantaneo, e

64 ON III,3/2, 29 [172], p.305


65 M. BRUSOTTI , Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, p.327

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fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto, o passato o futuro. Ma considerando il presente e il
futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di
concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. 66

Ancora più aderente alla particolare prospettiva in cui si trova a vivere il bambino può essere
quell'immagine che si trova ne L'elogio degli Uccelli, in particolare nel seguente frammento:

Perrocché nel modo che l'uccello quanto a vispezza e alla mobilità di fuori, ha col fanciullo una
manifesta similitudine; così nelle qualità dell'animo di dentro, ragionevolmente è da credere che gli
somigli. I beni della quale età se fossero comuni alle altre, e i mali non maggiori in queste che in quella;
forse l'uomo avrebbe cagione di portar la vita pazientemente. 67

Leopardi parla dell'impossibilità che l'uomo ha «di portar la vita pazientemente» perché,
rimanendo in lui il ricordo della “felice” e vitale infanzia, ed essendo questa età ormai passata
assai più felice di quella adulta, egli «non ha cagione» che gli permetta di trascorrere la vita in
maniera quieta. Ed è proprio «il grande, sempre più grande carico del passato» ad impedire a
colui che ha ormai alle spalle l'elementare stato dell'esser-bambino di ritrovare quella felicità
originaria. Da qui l'invidia per una condizione, quella animale, la quale quasi sembra di avere
un tempo posseduta. E' per questa strada che si deve leggere Nietzsche quando afferma che la
quiete dell'animale la si vuole invano, perché non la si vuole come lui. Il bambino,
caratterizzato dall'autore come creatura dell'istante, sarà uomo. Questo fa del suo stato già un
qualcosa di differente da quello in cui versa il gregge perché questo non è stato e non sarà mai
uomo. L'uomo invece è stato bambino ed anche questo, per dir così, lo segna come creatura
infelice. Sotto questa connotazione il fanciullo sembra configurarsi come un anello di
collegamento tra la originarietà dell'essere natura dell'animale, lontanissima da quella
dell'uomo, e la conformazione storica dell'uomo.
La felicità del bambino che gioca sarà presto «disturbata». «Anche troppo presto» egli «si
risveglia dal suo oblio» e «impara a intendere la parola “c'era”». E quale consapevolezza porta
con sé questo «“c'era”»? Che l'esistenza, in fondo, è «qualcosa d'imperfetto che non può mai
essere compiuto». Esiste qualcosa d'irrisolto nell'uomo (e questo traspare come percezione
comune ai due pensatori che stiamo considerando): quella «strana frazione», quella anomalia
che questi è nel suo esser-presente.

66 Zib., 26 agosto 1823, p. 3265


67 Operette Morali, Elogio degli uccelli; TO, I, 155)

24
Se tu parlar sapessi68

dice Leopardi alla greggia. E Nietzsche così parafrasa:

L'uomo chiese una volta all'animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi?
L'animale, dal canto suo, voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che
devo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque.69

Ironia della natura. Come dice A. Negri 70 «l'animale resta in-fante (in-fanzia da in-for = non
parlo), tutto chiuso com'è nel suo presente. Non sa dir neppure della sua felicità, perché
dimentica subito ciò che dovrebbe dire». Esiste allora una stretta connessione tra la capacità di
linguaggio propria dell'uomo ed il suo essere legato al passato, il suo non poter dimenticare.
Come nel linguaggio i termini, inseriti in una grammatica e in una sintassi, acquistano
continuità e valore; così il passato e il presente si collegano e articolano nella coscienza
dell'uomo creando una sorta di spazio artificiale nel quale l'essere animale umano svolge la
propria attualità. L'uomo, che è stato bambino, e sicuramente porta ancora in sé qualcosa di
quello stato non storico nel quale il bambino si muove, percepisce il mondo come un divenire
continuo nel quale ogni attimo reca con sé, legato in relazione inscindibile, quello che è stato,
come una catena nella quale ogni anello è saldato all'altro quasi senza interruzione. E' per
questo sentiero che l'esistenza storica giunge alla cognizione del proprio dolore. Cognizione
che è un atto forzato in quanto

continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente
indietro, in grembo all'uomo.71

L'uomo, attraverso il suo vivere una esistenza storica, non può scollarsi di dosso quello che è
stato, sia nel bene (non tornerà più), sia nel male (è stato e rimarrà presente alla mia esistenza).
L'uomo è incapace di dimenticare alla maniera dell'animale 72 che non è entrato nella
dimensione che abbiamo descritto del tempo e del divenire. Infatti vuole vivere come lui, ma
invano, in quanto « non lo vuole come l'animale». Si potrebbe sollevare qui il problema delle

68 Canto notturno, v. 128


69 HL, cap.I, p.6
70 A. NEGRI, Interminati spazi ed eterno ritono (Nietzsche e Leopardi), Le Lettere, Firenze 1994, p.72
71 HL, cap.I, p.6
72 l'animale, per dir con esattezza, non dimentica neppure, vive in un «orizzonte puntiforme», ovvero nella pura
discontinuità, il suo sviluppo è un lungo istante

25
due (e più) nature: problema che, sia in Leopardi con il discorso dell'assuefazione e della
conformabilità dell'uomo, sia in Nietzsche è presente e sta forse alla base di questa “nostalgia”
di una condizione originaria dalla quale l'essere umano si è distaccato. Discorso però che ci
porterebbe lontano da ciò che questo capitolo vuole avere come oggetto.
Continuando a leggere la Seconda inattuale, Nietzsche ci spiega che anche l'uomo può avere
una esistenza non storica, tutta sua però, differente da quella dell'animale.

2.2 L'uomo e la storia

Nella memoria tutto si riassesta e muta. Anche questa cognizione del dolore che l'essere umano
porta forzosamente con sè può dimostrarsi relativa. Basti osservare i differenti modi si
consapevolezza che le persone dimostrano. Dimenticando certe parti di ciò che è stato e
risaltando nell'attenzione certi altri aspetti, attraverso l'evento presente, è possibile interpretare
il passato in funzione del futuro. Per dire in altro modo: nell'azione i contorni delle cose si
dilatano o restringono, cosicché è possibile utilizzare anche un fatto doloroso senza la sua
carica negativa, valorizzando il potenziale energetico contenuto in questo fatto entro l'orizzonte
determinato dallo scopo che l'azione, che si svolge nel presente, si pone in un tempo che deve
ancora venire.
Il primo abbozzo del capitolo I si concludeva con una esortazione alle durezza contro quelle
considerazioni dolorose ispirate dalla poesia di Leopardi. Scrive Nietzsche che chi, forgiato
dalla necessità di contemplare il passato, sarà diventato duro a sufficienza,

arriverà al punto di lodare la sorte umana proprio per quell'impossibilità di dimenticare, proprio perché
in noi ciò che è passato non può morire e ci spinge avanti senza tregua, con l'inquietudine di un
fantasma, per tutte le gradazioni della scala di ciò che gli uomini chiamano grande, stupefacente,
immortale, divino.73

Nel corso della stesura della Inattuale il filosofo tedesco però non può accontentarsi di risolvere
un problema tanto critico con una semplice esortazione. Nella continuazione del capitolo,
costruita, per uso che si faccia di metafore coinvolgenti, con rigorosa coerenza logica, l'autore
puntualizza:

73 ON, III,3/2, 29[98], p.279

26
Se è una felicità, se è un correr dietro ad una nuova felicità ciò che in un certo senso trattiene in vita il
vivente e continua a spingerlo alla vita, nessun filosofo ha forse più ragione del Cinico, poiché la felicità
dell'animale, come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo. La felicità più piccola,
purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza confronto una felicità maggiore della più grande,
che venga solo come episodio, per così dire come capriccio, come idea folle, fra mera sofferenza, brama
e privazione. Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la
felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire in modo
non storico.74

In un vero e proprio aforisma, poi, chiarisce la sua posizione:

Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace
di star ritto su di un punto senza vertigini e paura, come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa
sia la felicità e, ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. 75

Si precisa qui il senso della «capacità di sentire in modo non storico». La dimenticanza di tutte
le cose passate, propria dell'animale o del bambino, fa perdere all'uomo una posizione stabile. Il
«piuolo dell'istante» diventa «soglia dell'attimo», dove si provano «vertigini e paura». Non
potendo l'uomo tornare a partecipare della condizione del bambino, né tantomeno di quella
dell'animale, deve affidarsi alle proprie forze, deve innanzitutto accettare la propria condizione.
Non tutti, quando si trovano in equilibrio sulla soglia dell'istante, sanno star saldi e senza
disagio. E' come la storia di colui che sta sospeso ad una certa altitudine e guarda in basso. Non
importa quanto sia solido il suo sostegno, in quei momenti il cuore vacilla.

… l'esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato
dappertutto a vedere un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo essere, non crederebbe più a
sé … alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe alzare più il dito. 76

Si delinea chiara in queste righe, scritte con semplicità e sinteticità molto espressive, una
particolare prospettiva nei confronti delle cose. «Quasi non oserebbe alzare più il dito». Cosa fa
un dito alzato? Indica, innanzitutto. Che cosa? Qualcosa di “altro”. Un oggetto, una direzione,
un mondo. Nella situazione delineata dal filosofo il mondo scompare, e con esso anche

74 HL, cap.I, p.7-8


75 HL, cap.I, p.8
76 HL, cap.I, p.8

27
l'«essere» di chi indica. Cosa rimane? Un divenire, «dappertutto».
Nietzsche ci spiega, disegnandoci l'esempio di colui che non possiede «la forza di
dimenticare», che «per ogni agire ci vuole oblio». Un oblio diverso però da quello dell'animale
in quanto l'uomo, essendo individuato in uno spazio e in un tempo, ed essendo consapevole di
“questo” spazio e di “questo” tempo, possiede a priori quell'essere «storico» che, abbiamo
visto, tanti problemi può creare alla sua esistenza. «Oblio» significa in questo caso particolare
la possibilità di riguadagnare, parzialmente, la «capacità di sentire in modo non storico» 77.
L'uomo in questa prospettiva si trova in bilico tra due modi di essere. Uno, il «non storico» 78,
verso il quale non può regredire, quasi potesse abitare ancora «in un orizzonte puntiforme»
quale è quello dell'animale; l'altro, lo «storico»79, nel quale corre il rischio di immergersi e di
annegare. La coesistenza di questi modi è, nella concezione di Nietzsche, «necessaria per la
salute dell'individuo, di un popolo o di una civiltà»80. Entrambi sono consustanziali alla
condizione dell'esser-uomo.
Non si può dimenticare il passato e, se si vuole conservare la salute, è necessario delimitare
l'influenza di questo «affossatore del presente». Ciò dipenderà dal grado di «forza plastica» che
possiede l'individuo (o il popolo, o la civiltà):

quella forza di crescere a proprio modo su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed
estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate. 81

«Crescere a proprio modo su se stessi» ovvero, come Nietzsche si esprime più avanti, chiudere
intorno a sé «un orizzonte» proporzionato alle proprie forze. Infatti, l’uomo genera «una linea»,
che divide in due il peso del passato, separando ciò che viene assimilato e riscattato da ciò che,
invece, deve essere dimenticato. Non potendo, per la sua essenza contraddittoria, redimere
l’intera estensione del tempo, l’uomo costituisce questo orizzonte determinato, che gli consente
non di essere felice e libero, ma di agire e vivere. Perché così stanno le cose: «ogni vivente può
diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte»82.
Accanto all'uomo che “non sa dimenticare” Nietzsche ci disegna un altro modello nel quale si

77 Le parole «storico e «non storico» stanno appunto a indicare la relazione essenziale che, nel suo fondo, costituisce la
natura umana: una relazione che si presenta nella forma logica di un’opposizione, e più precisamente di
un’opposizione tragica, in quanto reca in sé il divieto a venire oltrepassata.
78 L’uomo è essenzialmente vita e azione, ossia partecipa di un’energia originaria, elementare, che non gli appartiene
in senso proprio, ma che condivide con la dimensione totale e cosmica della natura.
79 L’uomo trova declinata e complicata la propria vitalità naturale nel senso di una vita storica, che non gli appartiene
accidentalmente, ma che lo segna come una necessità: scrive Nietzsche, «noi abbiamo bisogno di storia» (HL, p.3)
80 HL, cap.1, p.8
81 HL, cap.I, p. 9
82 HL, cap.I, p.9

28
viene descritta la «natura più potente e immane» per la quale

non ci sarebbe nessun limite al senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa
passata, propria ed estraneissima, essa l'attribuirebbe a sé, l'introdurrebbe in sé, trasformandola per così
dire in sangue.83

Una tale natura, infatti, «ciò che non vince lo sa dimenticare», vive in un solido orizzonte,
«chiuso e completo» ad ogni istante. Fuori dal suo spazio, per quest'individuo, nulla esiste:
entro i confini del proprio mondo esiste un mondo, fuori di questi nulla. Tra questi due modelli
antitetici che rappresentano due estremi, lo «storico» e il «non storico» umano appunto, si
giocherà molta parte del discorso nietzschiano di critica alla storia presente nell'opera che
stiamo discutendo. Già qui si può notare incidentalmente che, seppur così differenti, c'è
qualcosa che li avvicina questi due individui. Ovvero un certo rapporto problematico e
doloroso con la realtà che li circonda. Il primo, quello che «è malaticcio e deperisce», vede «le
linee del suo orizzonte» che «tornano continuamente a spostarsi» perché non sa «districarsi
dalla rete delicata delle sue giustizie e verità» (ovvero da un mondo interiore molto complicato
dalla sua sensibilità per la conoscenza) «per passare di nuovo al rude volere e bramare»84.
Mente l'altro vive entro un orizzonte ben definito, nel quale nulla può entrare che non sia stato
accettato e incorporato, si può dire interpretato, muovendosi, lui e questo suo orizzonte che con
lui si muove, entro una sfera di oblio (quel “resto” lasciato fuori dai confini del proprio
orizzonte) che per la persona è nulla ma in sé mantiene tutto un valore positivo, in quanto non
perché questi l'abbia negata essa cessa di esistere e di agire. Così, l'uno sopraffatto dalla
“conoscenza” l'altro dall'azione, rischiano entrambi di intrattenere con il mondo una relazione
squilibrata.
Siamo in presenza qui di un terzo fattore che si aggiunge a quello del rapporto uomo / animale.
Nella fase iniziale del capito abbiamo visto come l'animale sia legato al presente mentre l'uomo
sia invece condannato al passato. Questi dunque i due primi fattori: presente e passato. Ora,
attraverso l'introduzione di quella forza plastica che l'uomo possiede e che gli permette di
riplasmare “ciò che fu” Nietzsche apre finalmente la prospettiva di chi sta leggendo verso il
futuro. Dunque, presente come «soglia dell'attimo», passato come immancabile forza negativa

83 HL, cap.I, p.8


84 Cfr. lettera del 23 giugno 1823 di Leopardi al letterato belga A. Jacopssen: «E' vero che l'abitudine a riflettere,
propria degli spiriti sensibili, fa spesso venir meno la facoltà di agire e anche di godere. La sovrabbondanza di vita
interiore spinge sempre l'individuo verso l'esteriore, ma nello stesso tempo fa sì che egli non sappia come fare. Egli
abbraccia tutto, egli vorrebbe sempre essere pienamente soddisfatto; però tutti gli oggetti gli sfuggono, più
precisamente perché essi sono più piccoli della sua capacità.» (TO, I, 1165-66)

29
traente a sé l'individuo e futuro come controforza, invece positiva, bilanciante la postura
dell'individuo che si trova ben deciso a non lasciarsi andare a «vertigini e paura».

Per meglio comprendere ciò che Nietzsche ci sta dicendo al riguardo, è bene fare un salto oltre
il primo capitolo ed uno indietro nella sua epoca storica. Forse così, con questa
contestualizzazione e con questo ampliamento dell'area di analisi del testo, si riuscirà a
penetrare un po' più a fondo le intenzioni del filosofo tedesco e il senso che la Considerazione
Inattuale veicola.
Nietzsche scrive in un momento culturale in cui si registra nettamente la «tendenza a prendere
eccessivamente sul serio la storia», non tanto dimenticando il passato, quanto piuttosto
lasciandosene sopraffare, quasi fosse l'unico oggetto degno di conoscenza, perseguendo la
quale però ci si isola dal presente e dal futuro. Negli appunti preliminari all'opera, l'autore
individuava due attitudini principali (alle quali poi aggiunse una terza nella stesura definitiva)
che possiede «vivente»85 nel rivolgersi alla storia. La prima è quella che dimostra colui che «è
attivo ed ha aspirazioni» e che corrisponde al tipo di storia che viene chiamata nel testo
«monumentale». A questo tipo era posto in opposizione quello che corrisponde
all'atteggiamento di chi «persevera e venera» il passato. In questo deciso contrasto il tedesco
esprimeva la sua profonda ostilità contro ogni modo di «risolvere il passato in pura scienza» 86,
ostilità contro ogni storia erudita o, come viene chiamata nel testo, antiquaria. Si individua per
questa via l'obbiettivo polemico in una storia che nulla concede, da parte di chi la coltiva, a
«ciò che non è storico» e, messa «al servizio unicamente della conoscenza», riesce
estremamente nociva per la vita. Infatti:

si osserva il ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionista, di una raccolta incessante di tutto ciò
che è una volta esistito. L'uomo si rinchiude nel tanfo; riesce ad abbassare con la maniera antiquaria
anche un talento più significativo, un bisogno più nobile a un'insaziabile curiosità o meglio a un'avidità
di cose vecchie e di tutto; spesso scende così in basso, che alla fine è contento di ogni cibo e mangia di
gusto anche la polvere delle quisquiglie bibliografiche. 87

La storia monumentale invece, che occorre «all’attivo e al potente», il quale cerca nel passato
modelli ed esempi, e cerca di imitarli e proseguirli nel presente, rappresenta l'ideale “classico”
di virtù (ἀρετή). Questa, nelle stesure preliminari, veniva indicata da Nietzsche come farmaco

85 HL, cap.II, p.16


86 HL, cap.III, p.25
87 HL, cap.III, p. 27

30
inattuale, ritrovato in disuso di tempi passati. Quest'uomo, che onora la vita e tutto quello che
alla vita fa bene, è convinto che

ciò che una volta poté estendere oltre e adempiere in modo più bello l'idea di “uomo”, deve anche
esistere in eterno, per poter fare ciò in eterno. 88

Egli crede «che i grandi momenti nella lotta degli individui formino una catena» e che questa
catena «formi lungo i millenni la cresta montuosa dell'umanità» e si intrattiene in lunghe
passeggiate su queste vette che sono «ancora vive, chiare e grandi». Come si può vedere, questa
prospettiva non dissolve il senso storico, bensì illumina il passato con una luce molto diversa
da quella al neon di un tavolo autoptico.
Durante la preparazione della Seconda considerazione inattuale Nietzsche si accorse però che,
come la tendenza antiquaria porta con sé un aspetto positivo, che egli individua nel fatto che
colui che «custodisce e venera» con pietà il passato, trovando in esso le radici di un «noi», e
con esso anche senso di appartenenza ad una Patria, «vuole preservare le condizioni nelle quali
è nato per coloro che verranno dopo di lui – e così serve la vita»; così nella storia monumentale
si rivela una sorta di metafisica latente, che concepisce la grandezza, ovvero quell'evento nella
catena della storia dell'umanità che è stato il grande uomo, come una struttura eterna e senza
tempo, che può solo ripetersi. L'aspetto problematico consiste proprio nell'impossibilità di una
ripetizione identica nel divenire del tempo. Infatti scrive:

Quanta diversità dev'essere al riguardo trascurata, se esso [il paragone con quegli uomini] vuol aver
quell'effetto corroborante, quanto violentemente l'individualità del passato deve essere costretta in una
forma generale e smussata in tutti gli angoli acuti, e le linee spezzate a favore di una concordanza. 89

Così argomentando Nietzsche ha trovato un motivo molto forte che può scoraggiare
nell'individuo quell'impulso di imitare i grandi uomini e di continuare il loro destino per
portarlo un po' più avanti. «Ciò che fu possibile un giorno potrebbe presentarsi come possibile
per la seconda volta solo se i Pitagorici avessero ragione». «Solo se la terra ricominciasse ogni
volta la sua commedia dopo il quinto atto … il potente potrebbe desiderare la storia
monumentale secondo una piena, iconica veracità»90.

88 HL, cap.II, p. 17
89 HL, cap.II, p. 19-20
90 HL, cap.II, p. 20

31
Tornando ora a quella dimensione di oblio che il « sentire non storico» implica nella sua azione
di promotore di vita, possiamo leggere:

Ciò che non è storico assomiglia a un'atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi, per
sparire di nuovo con la distruzione di quest'atmosfera.91

L'uomo è come immerso in un'«atmosfera» che gli permette di respirare aria salutare. Più il
respiro si fa profondo, più si alza livello di forza plastica necessaria a sostenere l'ampiezza del
proprio orizzonte. Ci sono individui che riescono ad abbracciare la storia dell'umanità
passeggiando sulle sue «vette», questi sono i più potenti, coloro che vedono un compito più
grande della loro vita e scelgono di portarlo avanti. Abbiamo visto che questo modo di
rapportarsi alla storia implica un certo scarto tra uno sguardo lucido e «verace» e quello invece
necessario a sostenere questa visione delle cose. Infatti

solo per il fatto che l'uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo limita
quell'elemento non storico, solo per il fatto che dentro quell'avvolgente nuvola di vapore nasce un chiaro
e lampeggiante raggio di luce … l'uomo diventa uomo.

L'uomo pensa e decide, ragiona, entro un'«avvolgente nuvola di vapore». Solo per il fatto che
l'impulso alla ragione «nasce» nell'«elemento non storico» limitandolo, l'uomo cresce e, da
fanciullo che era, «diventa uomo». Nietzsche tiene però a precisare che in «un eccesso di storia
l'uomo viene nuovamente meno» perché se quel «chiaro e lampeggiante raggio di luce» si fa
troppo intenso, incontrollato, c'è il pericolo che possa incendiare l'atmosfera tanto preziosa per
la vita di ogni vivente. Infatti la vita sparisce «con la distruzione di quest'atmosfera».

2.3 Oltre la storia

Abbiamo genericamente determinato quell'elemento che permette l'azione nell'oblio.


Analizzando poi velocemente i modi di approccio alla storia, in particolare quello
monumentale, esposti da Nietzsche nei capitoli iniziali della sua opera, abbiamo visto come
quest'oblio sia una sorta di presa di distanza dalla piena «veracità». L'uomo, dotato di una certa

91 HL, cap.I, p.10

32
forza interpretativa, pone l'attenzione del suo sguardo sulle similitudini tra passato e futuro e si
immagina una possibile ripetizione di quegli eventi che lui percepisce come importanti. Ignora
il fatto che i contesti nei quali si dovrebbero ripetere quegli eventi sono differenti; ignora che la
ripetizione, per essere completa, implica identità di contenuto. Questo autoinganno dà però la
possibilità all'uomo di diventare uomo. Quindi, in questo oblio che caratterizza il «non storico»
si inserisce un principio di finzione, di errore, che permette appunto il crescere della vita. La
capacità di ragionare, quella che cerca e trova la verità delle cose, ovvero quella facoltà che
permette di definire la realtà nei suoi elementi, «nasce» all'interno dell'atmosfera non storica ed
entro di essa cresce ed agisce «pensando, paragonando, separando, unendo» e così la delimita e
la organizza. Se si sviluppasse in maniera eccessiva potrebbe far cadere l'orizzonte vitale entro
il quale l'uomo è immerso, farebbe sì che le linee dell'orizzonte personale «tornerebbero sempre
a spostarsi irrequietamente», impedendo al malcapitato di sostenere la propria esistenza con
forza e fecondità. Ed è proprio questo pericolo che Nietzsche vede come prossimo alla cultura
europea. Che un siffatto eccesso di storia possa poi portare ad una totale estinzione del senso
storico, lasciando un uomo svilito e muto in balia di forze indipendenti da lui che lo
determinano, non smette mai di ricordarlo durante tutto lo svolgimento del testo che stiamo
considerando.
Il principio di ragione agisce in maniera storica entro l'elemento non storico. Dalla prospettiva
della pura ragione, come dire del puro esser-storico, il mondo organizzato dall'uomo entro il
proprio orizzonte è molto imperfetto e, sotto questo rapporto, è oggettivamente pieno di errori.
Questi errori però sono errori solo dal punto di vista di una ragione ipertrofica che ha ormai
squarciato la bolla vitale che tiene in vita l'uomo. Per una ragione che potremmo dire naturale,
invece, gli errori di valutazione scoperti non sono altro che illusioni che hanno permesso di
vivere con una parvenza di felicità fino al momento del loro disvelamento ma che ora si
rivelano solamente dei confini varcati sull'itinerario della vita, punto di partenza per nuove
scoperte, per nuove imprese che porteranno ancora un po' più in là l'influenza del vivente
sull'ignoto che lo circonda.

Scrive Leopardi nelle prime pagine dello Zibaldone, è il mese di dicembre del 1818:

Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l'uomo è
snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del
mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata. 92

92 Zib., pag.22, dicembre 1818

33
Si può rilevare una certa affinità con il discorso nietzschiano. L'eccesso di senso storico è
nocivo all'uomo, «senza quell'involucro del non storico non avrebbe mai cominciato e non
oserebbe mai incominciare»93; come dire che «le illusioni sono … inerenti al sistema del
mondo». Risale alla memoria l'ncipit di quel bello scritto intitolato Su verità e menzogna in
senso extamorale nel quale si descrive la nascita della ragione:

In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c'era
una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza.

Il tedesco sottolinea poi il «modo penoso, umbratile, fugace, … insensato e arbitrario» in cui si
atteggia «l'intelletto umano nella natura». Naturalmente l'intento polemico genera un tono
degno del più tetro dei pessimisti. Continuando a scorrere la pagina si legge che

per quell'intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita
dell'uomo.

E' quello di cui si sta parlando in questo lavoro. Il lavoro razionale opera entro l'elemento non
storico e distingue, in parte, l'uomo dall'animale. L'uomo pensando articola il proprio mondo,
cresce, si sviluppa come uomo. Nel testo che si sta citando si afferma inoltre che la ragione
«inganna … sul valore dell'esistenza» perché questa è sorta per «conservarle [le deboli creature
umane] … nell'esistenza». Ma questo ingannare l'uomo sulla propria esistenza che fa l'organo
proprio della conoscenza, l'intelletto, porta con sé già «la valutazione più piena di lusinghe
circa la conoscenza» stessa. Da qui al cadere nell'eccesso del senso storico, come lo si descrive
nell'Inattuale, il passo è conseguente. Ma ancora questa supervautazione è illusione, infatti
«soltanto uno smemorato può giungere a credere questo: che l'uomo è capace di una verità» (e,
di conseguenza, che la vita per se stessa possieda un qualche valore. Può dire così Nietzsche
degli uomini, sempre in quella pagina che stiamo citando, che:

Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie
delle cose.

Tornando alla nostra Inattuale. Nel descrivere quello che si intende per atmosfera non storica

93 HL, cap.I, p. 11

34
l'autore ricorre all'esempio di «un uomo che sia agitato e trascinato da una violenta passione,
per una donna o per una grande idea». Questi vede il suo mondo cambiare dal suo stato di
“normale” attenzione, «ciò che in genere percepisce, non lo aveva mai percepito così». Questo,
dice Nietzsche, «è lo stato più ingiusto del mondo, stretto, irriconoscente verso il passato …».
Questo è lo stato «antistorico … matrice di ogni azione ingiusta, ma anche e soprattutto di ogni
azione giusta». Così, con questo esempio, Nietzsche vuole descrivere l'uomo che agisce. Questi
è come «un piccolo vortice in un mare morto e di oblio», sovrastima la propria azione al punto
di amarla «infinitamente più che essa non meriti di essere amata» 94. Come innanzi leggevamo,
«è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: … la capacità di sentire,
mentre essa dura, in maniera non storica».

Il primo appunto nell'ambito degli scritti che ruotano attorno alla preparazione dell'Inattuale in
cui Nietzsche menzioni Leopardi consiste in una nota ad un estratto della Filosofia
dell'inconscio (1869) di Eduard von Hartmann.95. Il nome del poeta compare verso la fine:

Ma se l'umanità deve vivere la propria età senile come una sorta di Leopardi, dovrebbe essere più nobile
di quanto è in realtà, e soprattutto avere un'età virile diversa da quella assegnata da Hartmann. Il vecchio
che corrispondesse a una tale età virile sarebbe assai nauseabondo e sarebbe attaccato alla vita con una
ripugnante avidità, avviluppato più che mai alle illusioni più basse. 96

Nel suo libro Hartamnn, in una prospettiva lieneare di sviluppo delle sorti umane, prospettava
tre stadi di illusione. Uno (infantile) dove l'uomo pensa la felicità raggiunta nel presente e come
tale raggiungibile dall'individuo. Un secondo (giovanile) nel quale ci si pone la felicità come
raggiungibile solo in una vita trascendente. Un terzo (virile), che rappresenta l'età moderna in
cui vivono anche Nietzsche ed Hartmann, nel quale la realtà viene pensata come raggiungibile
nel futuro del processo cosmico. Hartmann profetizza poi una età senile nella quale l'umanità
smaschera le proprie illusioni comprendendo la vanità delle mete di tutte le proprie aspirazioni.
Nietzsche dunque assume qui Leopardi come simbolo di un'umanità che si è liberata da ogni
illusione. Stadio però irraggiungibile a parer del filosofo perché egli è persuaso che la libertà
dalle illusioni presuppone un inverosimile «sviluppo delle forze morali e intellettuali», mentre
con l'invecchiamento e il conseguente indebolimento le illusioni dovrebbero al contrario

94 HL, cap.I, p.12-13


95 M. Brusotti, ibid, p. 320
96 ON III,3/2 29[51], p. 248

35
«diventare sempre più potenti e l'età senile concludersi con un rimbambimento»97. Il tedesco,
bisogna puntualizzare, si pone qui in una dimensione logica coerente con quella che muove il
pensiero di Hartmann. Inoltre egli dubita che l'età in cui si trova a vivere possa essere
considerata virile. Secondo lui

la coscienza viene favorita e sviluppata soltanto per mezzo di illusioni sempre più elevate. Noi ci
troviamo così in basso con la nostra coscienza (per esempio rispetto ai greci) perché le nostre illusioni
sono più basse e più volgari delle loro. … Se si pensano le illusioni sparite, la coscienza si dissolve fino
alla condizione vegetale. Le illusioni del resto non sono altro che l'espressione che usiamo per uno stato
di cose sconosciuto.98

L'umanità non potrà mai diventare «una sorta di Leopardi». Egli ha tutto un altro atteggiamento
di fronte alle illusioni ed in questo fa consistere la differenza fra la propria e quella che crede
essere la posizione dell'italiano. E' da tener presente che in questo periodo Nietzsche si
riconosce ancora nella filosofia di Schopenahuer (che vede nella illusione ciò che separa gli
individui portando quindi con sé la lotta di tutti contro tutti) soprattutto attraverso la ricezione
che ne fa della sua filosofia Richard Wagner, il quale intendeva mediarla con progetti di
trasformazione non solo artistica, ma anche sociale e culturale. Nietzsche trova in Wagner,
come argomenta Brusotti99, una concezione dell'illusione che, pur non prescindendo
dall'assunto schopenahueriano, la fa consistere in una forza con un valore positivo se
sapientemente guidata perché senza una qualche illusione nulla può andare a compimento.100
Tutti gli uomini sono «profondamente immersi in sogni e illusioni». Lo descrive bene l'esempio
dell'«uomo trascinato da violenta passione» che sopra abbiamo riportato. Nietzsche dice di lui
che è «cieco». Egli non è padrone del suo destino, la linea in cui è circoscritto è determinata da
una passione che prende il sopravvento su di lui, che lo trascina. Tutti noi, chi più chi meno,
siamo trascinati. Siamo come dei «vortici» nel mare che diviene. Il grado di ampiezza di questo
«vortice» che siamo rispetto al «mare morto di notte e di oblio» che circonda; il grado,
insomma, di questa cecità, sarà determinato dalla forza che ognuno possiede di attirare a sé
ogni cosa, di introdurla in se stesso, di contemplare entro il proprio orizzonte quella notte e
quell'oblio che lo circondano. Questo aspetto della vita di un uomo è chiamato da Nietzsche
antistorico. Speculare a questa condizione si pone colui che si eleva al punto di vista

97 ON III,3/2, 29 [52], p.250


98 ibid
99 M. BRUSOTTI, Figure della caducità. Nietzsche e Leopardi, p. 323
100 Cfr. R. WAGNER, Maestri Cantori, atto III: «l'illusione che avvolge come un'atmosfera tutto ciò che è vivo ed attivo –
ovvero / in tutte le cose grandi, / che mai riescono senza un po' di illusione»

36
sovrastorico.

Sovrastorico sarebbe da dire un tale punto di vista, perché chi l'assumesse, non potrebbe più risentire
nessuna seduzione a vivere oltre e a collaborare alla formazione della storia, per il fatto che avrebbe
riconosciuto la sola condizione di ogni accadere, quella cecità e ingiustizia nell'anima di chi agisce …
avrebbe imparato a rispondere a se stesso … circa la questione del come e perché si viva. 101

Descrive bene Leopardi, in una pagina dello Zibaldone102, questo «come e perché» si vive,
delineando la struttura sottostante l'esistenza materiale di ogni essere umano. Scrive che
«l'anima umana desidera essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al
piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere». Questo desiderio è
illimitato in quanto è elemento fondante l'esistenza stessa e «non può avere fine in questo o
quel piacere» particolare che, poiché tale, è individuato in un tempo e in uno spazio. Fa poi
l'esempio di quel tale che desidera un cavallo. Desiderandolo egli è persuaso di «desiderarlo
come cavallo e come un tal piacere» ma in realtà lo sta desiderando «come un piacere astratto e
illimitato». Infatti giunto a possedere un cavallo trova «un piacere necessariamente
circoscritto» e sente come «un vuoto nell'anima». Questo perché quel desiderio che egli aveva
effettivamente «non resta pago». «Quando l'anima desidera una cosa piacevole … desidera
veramente il piacere, e non un tal piacere». Così il poeta può concludere che

tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere … perché l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello
che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.

Ma in cosa consiste questa «inclinazione dell'uomo all'infinito»? Così ce lo spiega Leopardi


nella stessa pagina dello Zibaldone. Esiste nell'uomo una facoltà immaginativa, «la quale può
concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono». Visto la tendenza
innata dell'uomo al piacere, è naturale che questa facoltà «faccia una delle sue principali
occupazioni della immaginazione del piacere». E' così che «il piacere infinito [illimitato per
tempo e per spazio] che non si può trovare nella realtà, si trova nella immaginazione, dalla
quale derivano la speranza, le illusioni, ec.».Per questa via si può constatare facilmente che la
speranza supera ogni «bene» reale e che

la felicità umana non possa consistere se non nella immaginazione e nelle illusioni.

101 HL, cap.I, p. 13


102 Zib, 165-172, 12-23 luglio 1820

37
Quanto è vicino Leopardi a Nietzsche quando scrive che «la cognizione del vero cioè dei limiti
e definizioni delle cose, circoscrive l'immaginazione» ma

la natura ha voluto che l'immaginazione non fosse considerata dall'uomo come tale, cioè non ha voluto
che l'uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e
perciò avesse i sogni dell'immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall'immaginario come
dal vero.

Anche l'italiano, poi, scorge un pericolo incombente sulle «persone istruite» dell'epoca
moderna che, anche quando sono «fecondissime d'illusioni» le seguono «più per volontà che
per persuasione» al contrario degli uomini «antichi degl'ignoranti de'fanciulli e dell'ordine della
natura».
E' proprio questa contingenza delle cose umane che risalta alla percezione di colui che guarda
dall'alto lo svolgersi delle vicende umane, anche delle più importanti. Come scrive Niebhur,
citato da Nietzsche stesso sul finire del primo capitolo dell'Inattuale,

ad una cosa almeno la storia, intesa in modo chiaro ed esauriente, è utile: che si sa come anche gli spiriti
più grandi ed alti del genere umano non sappiano quanto fortuitamente il loro occhio ha assunto la
forma attraverso cui essi vedono e attraverso cui essi violentemente pretendono che tutti vedano,
violentemente in quanto l'intensità della loro coscienza è eccezionalmente grande. 103

La catena si frantuma di fronte a questa consapevolezza, cui l'uomo sovrastorico perviene. Che
anche l'uomo grande si manifesti «fotuitamente» chiarisce bene cosa deve essere inteso per
sovrastoricità. Il suo avvento, le sue gesta, il ruolo che ha assunto nel racconto, come dice
Leopardi, di «avvenimenti susseguenti gli uni agli altri» 104: tutto è arbitrario. Non può essere
spiegato a partire dal processo storico perché non proviene da cause e ragioni apparenti, ma
irrompe improvviso, spezzando l’ordine del tempo. Per realizzarlo, la personalità ha agito
«violentemente», in maniera passionale, ha come spezzato il proprio legame con il divenire.
L'uomo sovrastorico, per usare le parole che De Sanctis mette in bocca al seguace di
Schopenahuer, giunge a dire che

il molteplice è apparenza, i popoli e la loro vita sono astrazioni, come nella natura è astrazione il genere;

103 HL, cap.I, p. 12


104 Zib., p.4215, 13 ottobre 1826

38
e perché solo l'individuo, non l'umanità, ha reale unità, la storia dell'umanità è una finzione. I fatti storici
sono il lungo e confuso sogno dell'umanità; e volergli spiegare seriamente ti fa simile a colui che vede
nelle figure delle nuvole gruppi di uomini e animali.

Come si è visto più sopra riguardo all'approccio monumentale alla storia, l'illusione della
analogia, della similitudine, del linguaggio, agisce potentemente sull'immaginario degli uomini,
tanto che un eccesso di senso storico, il prendere piede della «furia collezionista» tanto
avversata dal gusto di Nietzsche, può trasformare l'uomo più propenso all'azione nel suo
opposto. Egli constaterà infatti che nessuno di quei grandi eventi che sono rappresentati dai
grandi uomini che egli ammira può ritornare, che quella «cresta montuosa dell'umanità» tanto
vanamente agognata dall'uomo “monumentale” non è altro che l'ennesimo errore giocato dalla
cecità propria del sentimento umano. Questo percepirà l'uomo che guarda la storia dall'alto:
l'inconsistenza di ogni cosa.
Nietzsche illustra questa situazione, e dunque la differenza che corre tra il punto di vista
«sovrastorico» e quello «storico», attraverso la singolare risposta che rappresentanti
immaginari nelle due posizioni potrebbero dare alla domanda sulla nostalgia105, cioè sul
desiderio, o meno, di rivivere il passato. Se si chiedesse ai conoscenti – scrive – «se
desiderino vivere di nuovo gli ultimi dieci o venti anni», individui «storici» e «sovrastorici»
offrirebbero bensì la medesima risposta, opponendo un «No!» a quella richiesta, ma con una
motivazione e un intendimento sostanzialmente diversi. Gli uni, infatti, gli «storici»,
risponderebbero con i versi che, qui attribuiti a David Hume, vennero invece composti dal
poeta inglese John Dryden, e che sarà bene citare per esteso, nella versione originale:

None would live past years again,


Yet all hope pleasure in what yet remain;
And, from the dregs of life, think to receive,
What the first sprightly running could not give.106

Gli individui «storici», insomma, non vivrebbero gli anni passati, perché, come scrive il poeta,
«all hope pleasure in what yet remain», confidano nel futuro, credono nel fatto che il processo
storico svelerà un senso ancora nascosto e che, «from the dregs of live», dai “residui” o dalla
“feccia” della vita, riceveranno ciò che «the first sprightly running could not give», che “il

105 HL, cap.I, p.13


106 J. DRYDEN, Aureng-Zebe, a Tragedy, in The Works of John Dryden, vol. V, a cura di W.Scott, James Ballantyne and
Co., London 1808, p. 171.

39
primo vivace accadere non poteva dare”: ritengono, come aggiunge Nietzsche, che «il senso
dell’esistenza verrà sempre più alla luce nel corso del suo processo». Nella fede che il processo
del tempo sia un continuo e inarrestabile progresso, in ciò consiste, propriamente, il loro punto
di vista.
Anche gli individui «sovrastorici» rispondono «No!». Anch’essi si sottraggono alla semplice
ripetizione del passato, non la desiderano, ma, come si diceva, sulla base di una motivazione
del tutto diversa. Essi hanno perduto, infatti, la fede nel progresso, e ritengono ormai che da
«the dregs of life» nulla di nuovo, o di meglio, potrebbe derivare. Per l’individuo
«sovrastorico» «in ogni momento il mondo è completo e tocca il suo termine»107. Di più, se
ogni istante manifesta la compiutezza del mondo, tra di essi non può essere posta alcuna
differenza, sono «uguali in ogni varietà», cioè perfettamente identici. Il passato e presente non
possono più distinguersi, perché il nesso che li aveva costituiti come tali è dissolto: essi si
identificano, dunque, in un in «una struttura, ferma, immobile, di valore inalterato e di
significato sempre, eternamente, eguale».
Il problema che è posto dal sovrastorico è posto come un problema della conoscenza, e per
questo Nietzsche trova apparentemente una soluzione. Su questo piano esso trascende il
semplice discorso circa l'illusorietà dell'agire storico dell'uomo. Esso si espande in una visone
cosmica entro la quale il mondo abitato dall'essere umano non è che una scintilla impercettibile.
La terra stessa non è che un granello di sabbia nella distesa infinita dell'universo. E' così che
Leopardi può dire riguardo al perenne avvicendarsi di distruzione e produzione che domina i
cicli della natura che esso «non è diretto alla felicità degli esseri sensibili o animali» 108. E così
Nietzsche quando afferma che «non c'è scopo nella felicità del circolo». Di fronte a questa
consapevolezza allora, di fronte all'irrisolta «sovrabbondanza di ciò che accade», contemplando
dall'alto quello spettacolo inutile, «come potrebbe infatti non giungere … alla sazietà, alla
saturazione, anzi alla nausea» l'uomo saggio. «Vanità delle venaità, a cosa vale il il lavoro
dell'uomo sotto al sole» ripete il re Salomone, testimoniando una saggezza atavica.
Nietzsche conclude questo discorso su sovrastorico utilizzando dei versi di Leopardi però
decontestualizzati ad arte. I versi sono questi:

Non val cosa nessuna


I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
107 HL, I, p.
108 Zib., 9 aprile 1825, p. 4133

40
T'acqueta ormai.

41
CONCLUSIONE

Abbiamo visto nel primo capitolo di questo breve lavoro come sussista solo un flebile legame
diretto tra Nietzsche e Leopardi, soprattutto ai tempi della stesura della Seconda
Considerazione Inattuale. L'interesse del tedesco per il poeta di Recanati è stato l'interesse di
un uomo colto dell'epoca che si occupava di filologia ed apprezzava la poesia. Una conoscenza
nella quale si iscrive l'interpretazione fatta da Schopenhauer di Leopardi. Abbiamo anche visto
però, ritagliando un campo ad hoc che è stato quello dei giornali e delle masse analizzate entro
la prospettiva della inattualità, che esistono importanti affinità di atteggiamento per quanto
riguarda il rapporto che essi hanno intrattenuto con la loro epoca storica. E' stato necessaria
questa previa analisi delle fonti, del Leopardi nietzschiano e dei temi affini, per poterci
addentrare con un certo orientamento entro l'analisi che si è svolta nel secondo capitolo di
questo lavoro. Qui abbiamo incontrato la Seconda Considerazione Inattuale. Questa si apre con
la citazione indiretta dei versi del Canto di un pastore errante per l'Asia e si conclude con
quella diretta della seconda parte della poesia A se stesso. Nel mezzo Nietzsche sviluppa un
discorso affatto autonomo da quello di Leopardi, intrecciando creativamente intuizioni
personali entro un importante e solido fascio di competenze culturali. Vi sono gli animali, che
se da un lato sono rappresentati dal gregge invidiato dal pastore leopardiano, dall'altro sono
compenetrati delle considerazioni schopenhaueriane circa la coscienza animale. Risultato: un
approfondimento della percezione che l'animale ha del mondo e un ampliamento di questa
entro un rapporto empatico uomo-animale. Un rapporto di invidia ma anche di nostalgia. E qui
il tema del bambino è introdotto ed accantonato in poche battute ma la sua presenza sarà ben
percepibile per tutto il primo capitolo del pamphlet. Ecco Lepardi ed ecco il dolore, il primo
dolore di Leopardi: dolore dell'uomo che si commisura alla vita e si trova inadeguato.
Incomprensibile la situazione dell'animale, lontana ormai la condizione del bambino, l'uomo si
trova ad essere al mondo come una creatura incapace di vivere in maniera completa la propria
esistenza. La memoria, ricordo su ricordo, carica di un pesante fardello le spalle dell'uomo che
fatica a trovare la strada verso il proprio futuro. La sua azione libera nel mondo è impedita da
un ostacolo che è insormontabile proprio perché implicito nella struttura dell'essere umano.

42
Non resta all'uomo, o meglio alla natura che vive nella forma umana, che inventarsi un qualche
stratagemma. Così inizia l'uomo. Già presupposto nell'intendere la temibile espressione «c'era»,
oltre appunto alla cognizione del proprio dolore, vi è la nascita dell'esperienza umana come
menzogna, finzione, trucco, espediente necessario alla salute e sopravvivenza di una intera
specie. Una strana frazione, qualcosa che non torna quando le cose vengono considerate con la
chiarezza positiva della nuova potente ragione della scienza ottocentesca. Già l'empirismo
aveva posto l'attenzione di tutti sulla debolezza del fondamento di ogni intendendere dell'uomo
circa il mondo e circa se stesso. La realtà è poco meno di una ipotesi, l'io si sostiene nella sua
costanza su di un sentimento che a volerlo rappresentare razionalmente è impercettibile.
Cogito, ergo sum: ci basta andare a vedere la catena di deduzioni con la quale Cartesio perviene
a questa categoria fondamentale dell'esistenza per farci tremare. Io sono: un conatus che ogni
essere individuato, ci dice Spinoza, esprime nel fatto stesso di essere al mondo. Sforzo di un
sasso ad esistere, di una pianta, di un animale, dell'uomo, di un pianeta, dell'universo stesso.
Dio è conatus universale che si esplica in infiniti modi. percepita in modo lucido dall'individuo
sovrastorico, che nella nausea trova la propria affermazione esistenziale e insieme la sua
giustificazione al non essere. Una strana frazione: vissuta in maniera cieca dall'individuo
antistorico che è un piccolo vortice che si agita in un mare scuro e di oblio.
L'uomo è in crisi. E' sempre stato in crisi. La condizione esistenziale dell'essere umano è la
crisi. Stasis era il termine utilizzato da Tucidide per descrivere la guerra civile che si agitava
entro le mura di Atene. La Peste l'espressione simbolica nella quale espresse artisticamente
questa condizione umana a livello sociale individuale e universale al contempo. Lo storico
greco ci descrive Atene in preda al morbo come un luogo di confine, dove ogni valore sociale
fondamentale, la compassione per il dolore, la famiglia, il rispetto per la morte, ogni evento
insomma circoscritto entro recinto del sacro (sacro nel senso di intoccabile), è estinto, sospeso.
Dubbio e scetticismo, cinismo e follia, disumanità. La Peste è espressa da Tucidide attraverso
un linguaggio sconnesso ove le normali relazioni sintattico grammaticali entrano in crisi in un
cortocircuito che compenetra l'intero universo esistenziale e conoscitivo dell'uomo. Nietzsche
ci parla dell'esperienza umana presupponendo questo orizzonte di crisi universale. Non prende
mai in considerazione nella Seconda Inattuale un punto di vista esterno alla persona e se lo fa,
come ad esempio per quanto riguarda l'animale, lo fa solo per caratterizzare ulteriormente il
punto di vista umano. La domanda a cui si cerca di rispondere è la seguente: come può un
essere tanto lontano da un modo di vivere autentico, tanto distante da un pieno vivere nel
presente, portare la propria esistenza in avanti? Come è possibile un futuro? Come abbiamo
visto l'essere umano ricorre allo stratagemma, sostanzializza l'errore, così che l'individuo

43
travolto da violenta passione assume un rapporto ingiusto nei confronti della realtà. Questo
stato ingiusto, però, è anche la fonte di tutte le azioni giuste. Paradossi e contrapposizioni si
accumulano nel testo. Paradossi vitali però, non semplici contraddizioni logiche utilizzate per
affermare un'impossibilità ad esistere degli elementi in considerazione oppure per rafforzare
l'esistenza di uno di essi. Non è scetticismo e neppure ricorso all'assurdo. É un progetto di
risoluzione del contrasto interno all'esistenza. Così si parla di forza plastica, di orizzonte e di
atmosfera, di determinazione a tracciare dei confini solidi, confini adeguati alla propria
grandezza. Ci sarà così chi cammina entro la circonferenza descritta da tutte le possibili
translazioni del proprio baricentro, chi sarà costretto al solo modo della propria postura (zoppo,
gobbo, monco, ec.), chi invece riuscirà ad ampliare i propri confini con un sapiente dosaggio
tra le capacità del proprio corpo e quelle del proprio sapere. Il problema che si pone in questa
concezione però, come abbiamo accennato più sopra nel capitolo secondo attraverso il
confronto dei due tipi, quello immensamente potente e quello molto debole, consiste nel fatto
che al di là di questo orizzonte, osservato attraverso il vetro opaco della propria atmosfera, oltre
l'estensione variabile della capacità vitale dell'individuo, un mare di morte e di oblio si estende.
Questo è quell'abisso verso il quale l'uomo sovrastorico si sente irresistibilmente trascinato.
Questa la nausea, il male di vivere, la noia come categoria fondante l'uomo che si alza sopra la
storia delle cose umane. Nella Considerazione Inattuale, il cui scopo era quello di trovare
argomenti a favore della vita, Nietzsche non andrà oltre questo accenno per quanto riguarda
l'immenso abisso che separa l'uomo dalla reale conformazione delle cose. Si congeda infatti dal
primo capitolo, che è forse il capitolo più teoretico di tutta questa operetta, dicendo:

Ma lasciamo agli uomini sovrastorici la loro nausea e la loro saggezza: oggi vogliamo piuttosto
allietarci di cuore della nostra mancanza di saggezza e concedere a noi stessi, come uomini attivi e
progressivi, come adoratori del processo, una giornata buona.

II

Ma dove abbiamo lasciato Leopardi? Fino ad ora l'abbiamo trovato appiccicato nella rete di
concezioni tesa dentro gli occhi di Nietzsche. Oppure impegnato a discutere su argomenti
attuali nell'Ottocento per trovare parallelismi con i pensieri del filosofo tedesco. Questo lavoro
non può andare oltre questa analisi. E' possibile però evidenziare alcune questioni che il
percorso sin qui compiuto porta alla luce.

44
Come abbiamo visto Nietzsche fa rientrare Leopardi entro il tipo dell'uomo sovrastorico
corondando il suo discorso con la citazione parziale della poesia A se stesso. Mi piacerebbe
restituire al lettore il testo della intera poesia:

Or poserai per sempre,


Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta ormai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Ormai disprezza
te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera
E l'infinita vanità del tutto.

Questa poesia è scritta in seguito alla delusa esperienza d'amore con Fanny Targioni Tozzetti.
Leopardi sta vivendo qui non lo stato saggio e “distaccato proprio dell'individuo sovrastorico,
bensì quello cieco e ingiusto dell'uomo travolto da intensa passione: fallisce il suo amore,
fallisce ogni esperienza umana del mondo. Le concettualità utilizzate sono certamente possibili
espressioni di saggezza sovrastorica ma la poesia, presa nel suo complesso, trova ispirazione
entro un'altra dimensione di vita. Non si vuole per nessuna ragione qui biasimare Nietzsche per
aver utilizzato la citazione in vista delle necessità del discorso: bisognerebbe invece elogiare la
sua inventiva e la capacità di instaurare una coerenza tra il contenuto e lo stile del suo lavoro.
Ciò che però si deve notare è il fatto che il Leopardi che ci viene presentato nella
considerazione Inattuale e il Leopardi invece che ci tramandano i suoi scritti non sono
propriamente la stessa persona.

45
III

All'inizio della sua opera più conosciuta Boccaccio ci descrive la peste di Firenze del 1348.
Egli stesso fu spettatore dell'infuriare del morbo e il suo racconto ha il valore di un prezioso
documento storico. Tra le altre cose egli ci racconta di come, chi ne aveva la possibilità,
cercava riparo dalla morte chiudendosi in qualche villa fuori dalle mura e lì, secondo differenti
convinzioni circa le cause della peste, trascorreva lontano dalla tragedia il proprio tempo in
attesa della fine delle afflizioni. Raramente lo stratagemma si rivelò efficace. La gente moriva,
le istituzioni più sacre della comunità umana e civile andavano in frantumi, e questi individui
passavano il loro tempo chiusi nelle proprie magioni, chi vivendo l'astinenza e la penitenza, chi
abbandonandosi alla libertà dei desideri, chi instaurando una dieta di vita equilibrata, e così via.
Ognuno viveva circoscritto entro un proprio orizzonte. Nella città era pressoché impossibile
trascendere lo spazio vitale del proprio baricentro, chi si allontanava invece aveva la possibilità
di tracciare dei confini un poco più ampi. E' interessante notare però come in tutti i casi il
comune denominatore era quello di lasciare fuori di sé la peste. Pochi ce l'avrebbero fatta.
Quello che ci vuole prescrivere Nietzsche nel suo libro è proprio questo: determinata l'esistenza
consustanziale della crisi entro la struttura fondamentale dell'uomo, descrivere quali possibilità
ha l'individuo di trascendere questa crisi. Essendo l'esistenza un fatto naturale, cioè dato, essa
racchiude in sé e i fattori di squilibrio e, soprattutto, quelli che permettono a questo squilibrio
strutturale di rimanere nell'esistenza. Ma è questa una soluzione definitiva? L'uomo può con le
sole sue energie restaurare uno squarcio nel tessuto dell'esistenza tanto profondo? Non credo.
La conclusione più coerente a cui si possa giungere attraverso questa strada è quella della
accettazione del dolore e insieme della accettazione della illusorietà del superamento di questo
dolore e della conseguente felicità dell'esperienza. Ma sarà necessaria una nuova teoria della
conoscenza, un nuovo statuto epistemologico dell'illusione. Cosa molto difficile, io credo, in
quanto il termine illusione porta con sé la radice della sua debolezza.

IV

In tutto lo scritto di Nietzsche è percepibile una precisa caratterizzazione della teoria del
sublime. Di fronte al conflitto violento che esperisce l'individuo la soluzione, sempre, è indicata
nel superamento di questo attraverso l'affermazione nella grandezza. Perché non può trovare
spazio, invece, un sublime della piccolezza (come invece accade in molte pagine di Leopardi)?

46
Perché l'anelito non può, invece che sublimarsi in espressione di potenza, umanizzarsi in
comprensione delle proporzioni reali delle cose? Certo, per una teoria che implica una
impossibilità di conoscere effettivamente il mondo da parte dell'uomo, sarebbe un traguardo
difficile. Perché però intestardirsi su questa strada, portando alle estreme conseguenze il
dualismo che si esprime nel contrasto uomo-mondo, rappresentazione-cosa in sé, intelletto-
oggetto, piuttosto che cercare una soluzione migliore e adeguata? Non è possibile estirpare alla
radice queste opposizioni? Non si può forse vedere in questo dualismo semplicemente un modo
di interpretare la relazione che l'uomo instaura con le cose, un punto di vista parziale e per così
dire guercio? Un fatto rimane: certo è necessario constatare la presenza di quel mare di morte e
di oblio che tutto ci circonda, constatare anche, entro questa prospettiva, l'impotenza strutturale
del fragile uomo. E' necessario perché questo modo di vedere le cose ci viene da secoli di
evoluzione culturale ed è stato incorporato in maniera molto profonda. Copernico ci ha detto
che non siamo al centro dell'universo, che l'uomo non è che un granello, e da Pascal a Kant ed
ancora fino al giorno d'oggi l'orgoglio della nostra specie si è spinto più in alto della luna
estendendo le coordinate terrestri fino a stelle che non vedremo mai. Mare scuro e d'oblio,
universo gelido e vuoto, infinito silenzio, ancora ci affliggiamo. Forse Nietzsche e Leopardi,
così vicini nel sentimento per la poesia, hanno cercato un modo di superare questo conflitto
attraverso la poesia stessa. O meglio: attraverso l'arma della poetica. La poetica non è solo un
sistema razionale e non è nemmeno pura poesia. Poetica sono delle coordinate che permettono
alla poesia di crescere entro un mondo, poetica è come una sottile pelle che viene stesa sopra le
cose e le abbraccia, senza soffocarle, e da questo abbraccio nasce una comprensione poetica del
mondo. La poetica, in questo modo, si pone come ponte tra l'animo umano e l'universo.
Certamente queste parole poco hanno a che fare con la filosofia. La filosofia però serve solo a
creare consapevolezza, la consapevolezza crea problemi. I problemi possono essere certo
articolati ma ci si deve fermare qua. Quando si vuole trovare una soluzione ai problemi con la
sola filosofia si cade in un circolo vizioso. In questo modo si potranno trovare risposte a molte
domande ma sarebbe come pretendere che un computer risolva problemi per i quali non è stato
programmato. La nostra intelligenza attinge da radici profonde che la sola consapevolezza non
può fare altro che ignorare. Il nocciolo vivente dal quale scaturisce ogni domanda domanda non
verrà mai toccato per questa via.

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Il temine che forse compare più di frequente nei capitoli precedenti è “individuo”. Sento spesso
parlare del nostro presente come il tempo degni individui. E magari lo fosse, inteso però come
lo è stato in questo lavoro. Ma come è da intendersi il termine individuo? Leggendo un libro
intitolato L'unico e la sua proprietà ho trovato scritto che

Il divino è la causa di Dio, l'umano la causa “dell'uomo”. La mia causa non è né il divino né l'umano,
non è ciò che è vero,ciò che è giusto, ciò che è libero, ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è causa
generale, ma -unica, così come io stesso sono unico.109

Non voglio stare qui ad analizzare il contenuto di questa proposizione, anche perché qualcuno
mi ha detto che si potrebbe fare un discorso su questo libro solo nel contesto della
disgregazione della scuola egheliana. Penso che però la frase sia indirizzata contro l'ascendente
delle parole, dei concetti, contro la capacità che essi hanno di veicolare dei codici di potere, che
sono poi codici di assoggettamento delle masse desideranti. La pubblicità ha capito bene questo
tipo di dinamiche visto che il mondo intero è tenuto impegnato in maniera consistente da loro.
La pubblicità e la moda. Una parola che ritorna. In qualche luogo della sua Opera 110 Leopardi
accosta la Moda alla Morte che vengono accomunate dal fatto che la loro «natura e usanza
comune è di rinnovare continuamente il mondo». La moda è orgogliosa di dire che, grazie a lei,
«questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte». Ad ogni modo, che
tipo di individuo sostengono esistere di questi tempi coloro che sostengono siamo nell'epoca
degli individui rispetto a quello sostenuto da Nietzsche e Leopardi? In-dividuo, significa non-
diviso. Come può avvenire che un soggetto sia tutto d'un pezzo? Può essere un uomo
indivisibile come un a-tomo? Secondo Lucrezio gli atomi cadono. Se dovesse affidarsi solo al
loro moto il mondo non si formerebbe, o sarebbe sempre identico, perché non ci sarebbe
variazione nella caduta rettilinea degli atomi e così questi non potrebbero mai incontrarsi. Egli
allora deve introdurre un principio, il clinamen, che determina una particolare angolatura di
caduta cosicché gli elementi, scontrandosi, possano dare vita al mondo. La domanda che ci si
deve porre è: questo principio di variazione, è uno, che si applica ugualmente a tutti gli atomi,
oppure ogni atomo ha il proprio nel senso di un principio ma molteplici manifestazioni? Questo
discorso ci porterebbe troppo lontano. Rimane tuttavia aperta la questione dell'individuo.
Richiama anche l'idea dell'indivisibilità, la forza di integrità che può manifestare una persona.
Integrità come coerenza, logica morale fisica. Ma anche integrità come capacità di far
convergere entro un preciso canale il proprio sforzo. Virtù allora, intesa alla maniera greca.
109 MAX STIRNER (alias Johann Kaspar Schmidt), L'unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, p. 2
110 Dialogo della Moda e della Morte

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Oggi invece cosa troviamo? Viene da pensare alle parole già citate di Nietzsche:

Noi ci troviamo così in basso con la nostra coscienza (per esempio rispetto ai greci) perché le nostre
illusioni sono più basse e più volgari delle loro.

Illusioni sono anche i modelli di “uomo” di “umanità” di “sé”. Si può capire dove va a finire il
discorso e finirlo qui. Solo un'altra citazione, che mi pare importante e coerente con quanto
sopra detto. Sono parole di Roland Barthes:

Così ogni giorno l'uomo è fermato dai miti, rimandato da essi a quel prototipo immobile che vive al suo
posto, lo soffoca come un esteso parassita interno, ed alla sua attività traccia stretti confini entro cui gli
è concesso soffrire senza muovere il mondo: la pseudo-physis borghese è interamente un divieto
dell'uomo ad inventarsi.

Dice poi che compito del filosofo è destrutturare la mitologia inscritta nell'esistenza di ogni
presente. Scrive anche però che così l'uomo non può vivere, perché ha bisogno di modelli.
Forse allora individuo sarà colui che è modello di se medesimo, che pone da sé i suoi modelli,
con coscienza critica e virtù creativa, rimanendo sempre fedele a quello che può dirsi il suo
destino.

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