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Descrizione:
Intervista al filosofo Giorgio Agamben per l'uscita del libro "Idea della prosa" a cura di Adriano Sofri.
da “Reporter”, sabato 9/domenica 10 novembre 1985, pp. 32 – 33
Titolo originale
"Un’Idea Di Giorgio Agamben" intervista di A. Sofri (1985)
Intervista al filosofo Giorgio Agamben per l'uscita del libro "Idea della prosa" a cura di Adriano Sofri.
da “Reporter”, sabato 9/domenica 10 novembre 1985, pp. 32 – 33
Intervista al filosofo Giorgio Agamben per l'uscita del libro "Idea della prosa" a cura di Adriano Sofri.
da “Reporter”, sabato 9/domenica 10 novembre 1985, pp. 32 – 33
da Reporter, sabato 9/domenica 10 novembre 1985, pp. 32 33 Colloquio con un filosofo filopoeta, contento delluscita di un suo nuovo libro, Idea della Prosa. Giorgio Agamben nato a Roma nel 1942. Filologo erudito, non per venuto a capo del problema dellorigine del suo cognome. Forse lArmenia, gli ha suggerito una volta Gianfranco Contini. Da ragazzo andava al cinema spesso, anche due volte al giorno. Suo padre era proprietario di sale cinematografiche, sua madre era chimica. In casa cerano libri, anche qualcuno di filosofia. Al momento delluniversit, aveva gi predilezioni letterarie e filosofiche spiccate, cosicch si iscrisse a legge, di cui non gli importava nulla. Ottenne almeno di fare la tesi su Simone Weil e la nozione di persona. Aveva letto con profitto il saggio di Mauss sulla persona e la maschera, un piccolo modello di storia delle categorie fondamentali della cultura occidentale. Ma sono ancora prodromi. Lincontro vero con la filosofia avviene nel 66, a Le Thor, in Provenza. L vicino viveva Ren Char e Heidegger quellestate aveva deciso di andarlo a incontrare. E, per non starsene con le mani in mano, tenne un seminario di un mese nellalbergo del paesino. Agamben era stato avvisato da un allievo di Char, suo amico. Cos si un agli altri partecipanti, cinque in tutto. Aveva ventiquattro anni e qualche buona lettura e il seminario era su Eraclito. Ma pi ancora di quello che vi fu detto, Agamben fece tesoro dellincontro con chi lo diceva e col paesaggio della Provenza. Ci sono tornato questanno, sapendo che avrei visto un paese reso irriconoscibile dal turismo, e invece ho ritrovato lo stesso albergo, ma completamente abbandonato, invaso dallerba e con le finestre spalancate, come se fosse rimasto per ventanni ad aspettarmi. Nel 1968 ci fu, nello stesso posto, un seminario su Hegel. Questa volta eravamo una decina, fra poeti e filosofi. Si faceva vita comune, il seminario allaperto la mattina, i pasti insieme e lunghe passeggiate in campagna. Il seminario era assolutamente privo di ogni formalit e si fondava sullattenta lettura dei testi. Heidegger ricordava allinizio che in un seminario non pu esserci altra autorit che la cosa stessa. A volte la lentezza del lavoro seminariale mi spazientiva, e cercavo di rifarmi durante i pasti in comune interrogando Heidegger su tutto quel che mi stava a cuore. Fra i partecipanti cera anche Jean Beaufret, il destinatario della Lettera sullumanesimo, un conversatore infaticabile, che Heidegger presentava come un filosofo francese che non ha la nozione del tempo. A volte ci spostavamo nella casa di Char a Lisle-sur-Sorgue, dove una volta discutemmo a lungo su una frase di Rimbaud che affascinava Heidegger come un enigma: la posie ne rythmera plus lacion, elle sera en avance. Hai avuto dei maestri, dei grandi vecchi amati? E strano che tu me lo chieda, perch ci pensavo proprio in questi giorni, dopo il ritorno a Le Thor. Heidegger, certo. Ma altrettanto decisivo fu a partire dal 1967 e fino alla sua morte due anni fa, lincontro con Jos Bergamin e la Spagna. Certo erano entrambi molto pi anziani di me, ma, in particolare nel caso di Bergamin, io li ho sentiti soprattutto come esempi e come amici. Solo dopo la morte ho cominciato a sentirli come maestri. Quello con i morti un rapporto molto difficile, su cui Kierkegaard ha scritto pagine bellissime. I morti sono insieme gli esseri pi impotenti e pi potenti, pi indifferenti e pi amabili. In questo senso, anche quello con Benjamin stato per me un incontro decisivo, anche se avvenuto soltanto sui libri. Quando hai fatto la conoscenza di Benjamin? Lo lessi la prima volta negli anni sessanta nelledizione italiana di Angelus Novus, curata da Renato Solmi. Mi fece subito unimpressione fortissima: per nessun altro autore ho provato unaffinit cos inquietante. Mi capitava quel che Benjamin racconta del proprio incontro col Paysan de Paris di Aragon, che dopo un istante doveva richiudere il libro per il batticuore. Qualche anno fa a Roma andai a trovare un uomo, Herbert Blumenthal, che era stato in giovinezza intimo amico di Benjamin, negli anni in cui questi era il leader del Movimento della giovent berlinese. Puoi immaginare la mia sorpresa quando Blumenthal, appena cominciammo a parlare, manifest un rancore incontrollabile per lamico morto da quasi 40 anni, dicendo che aveva sbagliato tutto, che non aveva voluto seguire i consigli degli amici, che era pienamente responsabile della propria tragica fine. Non mi ci volle molto per sentire bruciare dietro quelle accuse la ferita di un amore straordinario. Blumenthal aveva conservato per 60 anni tutte le lettere di Benjamin, e anche due manoscritti dellunica stesura esistente. Attraverso di lui, sentivo Benjamin vivo e vicino come se lavessi davanti ai miei occhi. In seguito ho conosciuto tanti altri che gli erano stati amici, Gershom Scholem, Gisele Freund, Pierre Klossowski, Jean Seltz, ma nessuno mi ha restituito limpressione che ricevetti da Blumenthal. Tu non sei mai diventato accademico, e forse non lo diventerai neanche ora, coi concorsi che tirano. Che cosa hai fatto negli anni dopo la laurea? Nel 1965 andai una prima volta a Parigi, con una borsa di studio. Vi tornai nel 70 per tre anni come lettore di italiano. Poi passai a Londra, forse inseguendo lideale nietzschiano del buon europeo. Italo Calvino mi aveva presentato Frances Yates, che mi introdusse al Warburg Institute e alla sua meravigliosa biblioteca, dove trascorsi un anno di indimenticabile e accanita ricerca filologica. La biblioteca di Warburg era ordinata secondo quella che egli chiamava la legge del buon vicino, per cui chi andava a prendere un libro scopriva che il libro che veramente gli interessava era quello accanto, e cos praticamente senza fine, finch non si fosse percorsa tutta la biblioteca. Allora, nel 74, la voga di Warburg in Italia non era ancora iniziata: quando mi misi a scrivere su di lui, mi accorsi che non cera altro che il vecchio e bel saggio di Pasquali e un articolo di Carlo Ginzburg sui direttori dellIstituto. Quando nel 75 tornai in Italia, lUniversit era diventata una corporazione chiusa, che non aveva molto a che fare con la cultura. Concorsi a un incarico, ma mi spiegarono che doveva essere assegnato a una signora del partito comunista. Da allora le cose non sono cambiate. E nel 68? Col 68 non sono stato del tutto a mio agio. In quegli anni io leggevo Hannah Harendt, che i miei amici della sinistra consideravano un autore reazionario, di cui non si poteva assolutamente parlare Un mio saggio sui limiti della violenza, che faceva i conti col pensiero della Arendt, fu rifiutato da una rivista del movimento e dovette uscire su una rivista letteraria. Non ti nascondo che ora, di fronte a celebrazioni e convegni sulla Arendt, provo un certo fastidio, e non per la gelosia di chi si vede sottratto un autore riservato, ma per un senso di ritardo irreparabile, di appuntamento storico mancato. Pu succedere in momenti di accelerazione e di rivoluzione, che un libro letto da pochi arrivi per corto circuito ai molti e faccia da detonatore storico. Pu non succedere, com avvenuto nel 68 per la Arendt. Ma questa inerzia storica, per cui le idee si diffondono solo quando passata loccasione del loro uso reale e non meramente accademico, una delle esperienze pi umilianti che la storia ci riservi. Parliamo ora del tuo ultimo libro, Idea della prosa. Da che cosa ti viene la preferenza per una scrittura aforistica? Per me la riflessione sulla forma del pensiero stata sempre centrale e non ho mai creduto che un pensiero responsabile potesse eludere questo problema, come se pensare significasse semplicemente esprimere opinioni pi o meno giuste su un certo argomento. Proprio questa centralit della forma fonda la vicinanza di poesia e filosofia. Ho sempre pensato che quel che Nietzsche dice per larte, e cio che non si artisti se non a patto che ci che i non artisti chiamano forma diventi lunico contenuto, fosse altrettanto vero per il pensiero. In questultimo libro, decisivo appunto il problema della presa del pensiero . Per questo ho cercato di resuscitare le risorse di quello che Jolles chiama forme semplici: lapologo, laforisma, il racconto breve, lenigma, la favola. Si tratta di forme che non si propongono tanto di esporre teorie pi o meno convincenti, quanto di far compiere unesperienza, di trar fuori dallinganno, di risvegliare. Per questo mi affascinano i dossografi, i raccoglitori di aneddoti e di fatterelli apparentemente insignificanti, che rimasticano la memoria sociale fino a ridurla a un cristallo di pura trasmissibilit, in cui venuta meno ogni distinzione fra cosa da trasmettere e atto della trasmissione. Questi cristalli sono le mattonelle sconnesse nellimpiantito della memoria sociale inciampando nelle quali pu accadere allo storico di veder vacillare le proprie categorie temporali. Inoltre mi stava a cuore il problema della brevit, della brachilogia come forma filosofica, quella brevit che Benjamin raccomanda per antifrasi nei suoi principi per scrivere mattoni. E anche Platone, nella Settima lettera, un testo su cui lavoro da tempo, dice che nella filosofia in questione qualcosa di misura cos breve, che non puoi in nessun caso dimenticarlo. Per questo nel libro ti sei proposto di rinunciare alle note? Proprio perch la poesia, come la filosofia, essenzialmente unesperienza di linguaggio, anzi unesperienza del linguaggio come tale, di ci che in questione nelluomo per il fatto stesso di parlare, il luogo in cui si situa il soggetto che parla devessere estremamente chiaro. Le note, le virgolette, il rinvio bibliografico, il si veda, rimandano a un soggetto del sapere arroccato come un ventriloquo dietro il soggetto parlante, come se fosse possibile parlare da due luoghi nello stesso tempo. Per questo la prosa accademica corrente cos spesso infelice, divisa com fra unautentica esperienza della parola, che non pu avere nulla da dire prima di misurarsi con la parola, e larroccamento in una posizione di sapere. E per questo la poesia non ha note (anche se da Montale in poi essa arrivata a un uso particolare delle note a fine volume, in un senso del tutto diverso).- Qual stato il tuo primo libro? Luomo senza contenuto, uscito nel 70 da Rizzoli. Lesigenza di una diversa esperienza dellarte, al di fuori della sfera tradizionale dellestetica, era un po il filo dArianna del libro, che ricostruiva la scissione fra artisti e spettatori e le vicende dellopera darte nel mondo moderno dalla sua secolarizzazione fino al suo autoannientamento. Ma al centro del libro stava una lettura incrociata di Heidegger, di Marx e della Arendt alla ricerca di un nuovo statuto del fare e della produzione umana, il cui senso, dopo la sua determinazione moderna come lavoro, si completamente trasformato, anche se manchiamo di categorie adeguate per pensarlo. In questo senso il libro conteneva gi tutti i motivi del libro successivo. In un certo senso i miei libri sono in verit un unico libro, che, a sua volta, solo una specie di prologo a un libro mai scritto e inscrivibile. Proprio in questi giorni le ultime copie dell Uomo senza contenuto stanno andando al macero. Comunque anche grazie a questo libro che feci a Parigi la conoscenza di Italo Calvino, che laveva letto. Il secondo libro? E uscito nel 1977 da Einaudi, col titolo Stanze, la parola e il fantasma nella cultura occidentale. Era il frutto di un immenso lavoro di ricerca nelle biblioteche di Parigi, di Londra, di Roma, su testi di ogni specie, dai padri della chiesa al catalogo dellEsposizione universale di Londra. Gran fatica, ma anche gran divertimento. E in quegli anni che sono andato pi vicino a una pratica filologica in senso stretto, ma anche in quel periodo che cominciai a misurarne i limiti. C, in ogni lavoro filologico originale, un elemento magico (Benjamin ne parla in un carteggio con Adorno). Come ogni autentico filologo sa, la loro compenetrazione tale che distinguerli diventa a un cero punto impossibile. E questa compenetrazione il fascino della ricerca, ma anche il rischio che essa contiene. Per questo il filologo che sia andato veramente al fondo della sua pratica ha bisogno della filosofia, deve a un certo punto (lesperienza di Nietzsche lo insegna) diventare filosofo.- Riprendiamo la storia della tua carriera. Hai lavorato da Einaudi. S, per qualche tempo, come consulente. Con Calvino e Claudio Rugafiori mettemmo insieme anche il progetto per una rivista, che ho pubblicato in appendice al mio terzo libro, Infanzia e storia. Era un tentativo di individuare alcune categorie portanti della cultura italiana, per esempio Architettura-vaghezza, oppure tragedia-commedia, o filologia-diritto. Il libro successivo, Il linguaggio e la morte, uscito da Einaudi nel 1982, era la rielaborazione di un seminario sul luogo della negativit, tenuto con alcuni giovani napoletani laureati in filosofia, tra il 1979 e il 1980. Si partiva dalla definizione delluomo come dotato della facolt di parlare, e di morire. Ci incontravamo a Roma, a Siena, a Capri. Senza lo schermo delluniversit, il rapporto di studio comune meno ambiguamente accademico, pi apertamente di amicizia. Torniamo a Benjamin. Tu ne curi le opere per Einaudi. Ne sono usciti 3 volumi, nella collana Letteratura, in ordine cronologico; ora sta uscendo il quarto, che cronologicamente lundicesimo, che comprende lopera postuma, un immenso corpo di frammenti. Poich si sa che i Passagen erano composti come un montaggio, si equivocato, prendendo il materiale accumulato della Forschungweise, la ricerca, come quello della Darstellungweise, la stesura, lesposizione. E molto probabile che il manoscritto maggiore sia andato perduto durante la fuga attraverso i Pirenei. Nelledizione tedesca, che noi abbiamo almeno in parte dovuto seguire, non si sono distinti i frammenti riguardanti lopera su Baudelaire. Tu hai trovato manoscritti importanti di Benjamin a Parigi. Com andata? Cercavo tracce di Benjamin nella corrispondenza con Bataille, e mi imbattei in una lettera di Bataille a un amico, conservatore alla Biblioteca Nazionale, che lo pregava di recuperare una busta con manoscritti di Benjamin lasciata in deposito durante la guerra. Manoscritti depositati da Bataille erano stati ritirati e consegnati ad Adorno gi molto prima della data di quella lettera, che dunque doveva riguardare altri. Chiesi, ma nessuno, neanche il destinatario, ormai pensionato, seppe dirmi niente; solo dopo un mese di ricerche vennero fuori due grosse buste rimaste in deposito privato della moglie di Bataille, dopo la sua morte. Puoi immaginare con che emozione aprii quegli involucri. Cerano alcuni sonetti scritti dopo la morte dellamico di giovent e poeta Heinle; e poi una gran mole di testi degli anni Trenta. Ne feci una catalogazione provvisoria: tuttavia la prima pubblicazione spettava, e spetta ancora, per ragioni di diritti, alla Suhrkamp. Non mancata, nella vicenda della pubblicazione di Benjamin, qualche superflua gelosia nazionale e professorale. Sempre a Parigi, ma in diversa circostanza, ho trovato anche il dattiloscritto originale delle Tesi sulla filosofia della storia. Qual stata la tua formazione classica di filologo? Nessuna, accademicamente. Per il latino e il greco, c stato un ottimo liceo, e una ripresa pi tarda da autodidatta. Ho seguito pi organicamente studi di linguistica generale. Benveniste, Meillet. Abbiamo abbozzato una biografia decisamente cartacea. Qualche fatto nella tua vita ci devesser stato. Per restare discretamente a quelli pubblici, hai nel tuo carnet una partecipazione al Vangelo di Pasolini. S, ero lapostolo Filippo. Avevo conosciuto Pasolini attraverso Elsa Morante Lavorare nel film non mi piacque molto. Non ero del tutto convinto di quel Vangelo, della figura del Cristo. E poi quei tempi morti, le attese di ore che sono proprie del cinema, e di quello in particolare, abbastanza disorganizzato. E la seconda volta che parli di uninsofferenza alla lentezza. Eppure non hai laria di una persona dai ritmi fulminei Gi, del resto il mio motto prediletto il Festina lente, pazienza e impazienza insieme. Di qui limmagine nel controfrontespizio del mio ultimo libro. Anche nel film, poi, Cristo risultava velocissimo. Tu sei persuaso delleccezionalit delluomo come animale parlante. S, per solo in un certo senso. Il linguaggio umano, rispetto a quello degli altri animali, non interamente iscritto nel codice genetico ed invece legato a una tradizione esosomatica. Il linguaggio avviene allinfante dallesterno, storicamente, e se egli non esposto al linguaggio entro una certa et perde per sempre la possibilit di parlare. Ma per questo il linguaggio anticipa anche sempre il parlante, lo priva per cos dire della sua voce (il linguaggio umano non mai voce, come quello animale) e pu diventare la sua prigione in una misura sconosciuta alle specie animali. Ma anche la sua unica possibilit di libert. Per riprendere limmagine di Wittgenstein, luomo sta nel linguaggio come una mosca intrappolata nella bottiglia: quel che egli non pu vedere proprio ci attraverso cui vede il mondo. Tuttavia la filosofia consiste appunto nel tentativo di aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia. O almeno, a prenderne coscienza. C un rapporto fra questa ricerca sul linguaggio e la politica? Un rapporto fortissimo: il linguaggio il comune che lega gli uomini. Se questo comune concepito come un presupposto, diventa qualcosa di irreale e di inattingibile, di cui il singolo non pu mai venire a capo, che lo si concepisca come nazione, come lingua o come razza. Qualcosa, cio, che gia stato e, come tale, pu solo esistere nella forma di uno Stato. Lunica esperienza politica autentica sarebbe invece quella di una comunit senza presupposti, che non pu mai decadere in uno stato. Non facile pensarla, ma si pu pensare, per certi aspetti, alla comunit cristiana primitica, che solo dopo circa due secoli, quando si rese conto del ritardo ormai irremediabile della parousia, cre il canone neotestamentario come un deposito da trasmettere. Le tradizioni funzionano sempre come presupposizione di ci che viene tramandato. Veramente umano e fecondo sarebbe invece venire a capo di questo presupposto. (Reporter Fine secolo, sabato 9/domenica 10 novembre 1985, pp. 32-33) a pag. 32, sotto il titolo, una bella foto: Martin Heidegger, Giorgio Agamben e Ginevra Bompiani a Le Thor, in Provenza, nel 1968