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«LA COLOMBARIAi.
e STUDI i.
XLVI
IL CARTEGGIOAPOCRIFO
DI SENECA E SAN PAOLO
INTRODUZIONB.TESTO. COMMENTO
FIRENZE
LEO S. OLSCHKI EDITORE
MCMLXXVIII
INTRODUZIONE
I
IL CARTEGGIO APOCRIFO E LA LEGGENDA
DEL CRISTIANESIMO DI SENECA
1. G1111si
dli/a leggmda.
-7-
stiana,1 né tanto meno ci si può basare su questo passo per dimo-
strare che esisteva già nel II secolo una leggenda del cristianesimo
di Seneca, di cui Tertulliano si sarebbe fatto interprete.' Qui
infatti nostervale ,hristianm,1 ma non bisogna trascurare l'impor-
tanza del saepe:Tertulliano afferma che Seneca spesso (saepe)ra-
giona come un cristiano, ove implicitamente si riconosce che
Seneca non era cristiano, interpretazione confermata peraltro dal
fatto che Tertulliano citando altrove Seneca ne parla inequivo-
cabilmente come di un pagano. Con questa frase Tertulliano in-
tende solo far notare che il pensiero del filosofo si avvicina ta-
lora al Cristianesimo, come quello di tutti i più grandi pensatori
dell'antichità, conformemente con l'atteggiamento dei primi apo-
logisti che mettono costantemente in luce la convergenza delle
dottrine filosofiche antiche con la fede cristiana (cfr. Min. Fel.
O,t. 20, 1 : a11fn,mç Christianosphilosophosessea11tphilosophos f 11isse
ia11111111,Christianos).La testimonianza di Tertulliano pertanto,
lungi dal costituire una prova dell'esistenza di una diffusa leggenda
del cristianesimo di Seneca, è l'espressione della tendenza comune
agli apologisti dei primi secoli di dimostrare che il Cristianesimo
non era in contrasto con la tradizione classica.• Il giudizio di
Tertulliano Seneta saepe noster sintetizza efficacemente l'atteggia-
mento di tutti i Padri della Chiesa nei confronti del filosofo pa-
gano (cfr. anche Lact. / nst. 1, 5, 28: et q11a111 11111/ta
a/ia de deo
nostris [Christianis]simi/ia loe11tmest). Si può affermare dunque
che prima della comparsa del nostro epistolario Seneca è per gli
• Come ritiene ad es. Pamclius (Ttrhdliani optra, cd. Pamclii, Parisiis 158-4,
p. 621, """'11.n. 261, in cap. XX D, anima): Ctrll tliam t1trbi1hit eilatis [Tcrt. ani•.
20) •agisl,r D1111 ab ilio [Sm,ea ], agnostilllT.
' A. FLEURY, Sai11I Paul 11 SliùfJ"', Parigi 1853, I, p. 9 sgg.
1 Or. J. H. WASZINJC, Qlli11li S1J,1i111i T1rhdliani D, tlllÌ111t1,
Amsterdam 1947,
p. 98 ( dove iNXla noslra smlirl è interpretato: « pensare come . noi cristiani »).
• La tendenza dei Padri della Chiesa dei primi secoli a mettere in rilievo gli
clementi di convergenza della filosofia stoica e della dottrina cristiana è dovuta
essenzialmente al carattere apologetico delle loro opere rivolte a due specie di desti-
natari: i pagani e gli eretici. Come osserva M. Spanncut: « Lcs circostanccs impo-
saicnt donc aux Pères dc l'époquc un grand cffort de rationalisation. Il fallait se
fairc philosophc pour parlcr aux philosophcs, souci quc n'avaicnt pas Ics prcmicrs
disciplcs du Christ et Ics Pèrcs Apostoliqucs [...] Cettc circonstancc cxpliquc particl-
lcmcnt l'aspcct rationalistc dc la théologic [...] et sa parcnté naturcllc avcc la pcnséc
rcligicusc dcs Stoicicns » (L, Stoieim,1 des pìr11 MI' Églis,, Parigi 1957, p. 429). CTr.
anche M. LAUSBERG, Sm,ea t.•isebm Stoa 111111 t." S""'41
in U11ltrn«h1111gm
Cbrislm/11111,
Frag,,,mlm, Berlino 1970, p. 17; W. TllILLITZSCH,Sm,ea ;,. /il,rarinbm Urllil w
.A,,lilu, Amsterdam 1971, I, p. 126.
-8-
scrittori cristiani niente di più che un pagano spiritualmente vi-
cino al Cristianesimo: i Padri della Chiesa non si spingono oltre
e sono ben lontani dal credere ad una conversione del filosofo
al Cristianesimo. Significativa a tal proposito appare la testimo-
nianza. di Lattanzio, che afferma che Seneca avrebbe potuto es-
sere cristiano, se qualcuno lo avesse guidato (lnst. 6, 24, 14):
Pot11itesseverm Dei cu/tor, si quis i/li monstrasset,et contempsisset
profectoZenonemet magistrumsuum Sotionemsi veraesapientiaeducem
nactm essei.Qui risulta chiaramente che, anche se Lattanzio rico-
nosce che il pensiero del filosofo è assai vicino al Cristianesimo,
considera Seneca pur sempre un pagano per cui è esclusa ogni
diretta conoscenza e ogni contatto con la fede cristiana (homo
veraere/igionisignarm).1 Inoltre in base a questa affermazione di
Lattanzio si può dedurre che, almeno fino al IV secolo, non esi-
steva alcuna tradizione né scritta né orale relativa ai rapporti
tra l'apostolo e il filosofo ed alla conversione di quest'ultimo al
Cristianesimo. Dunque l'ipotesi di un'antica e diffusa leggenda
dei rapporti di Paolo e Seneca, a cui il Nostro si sarebbe ispi-
rato,8 è da escludere, poiché contrasta con l'esplicita affermazione
di Lattanzio, oltre che con il silenzio di tutti gli autori in merito
alla presunta amicizia dell'apostolo con il filosofo prima della
comparsa del nostro epistolario. Almeno allo stadio attuale delle
conoscenze, la corrispondenza apocrifa tra Seneca e S. Paolo
non può essere considerata la conferma scritta di una tradizione
orale preesistente, bensl il punto di partenza, l'origine della leg-
lenda stessa.• A quanto ci risulta, il nostro autore è il primo
7 Cfr. tutto il passo: Q11id,eri,a diri pol11ilab ,o qt1i tk11111 ,umel f/114111ditltml 111
· td, b o 111i 11, , , r a , r, I i g i o II i s i g II a r o 1 Na11111 111ai11lal1111 tki 1xpr1ssil
111aior1111 1111di,mdo f/114111 11110111 ,ogilalio m111tisb11111tma1,ap,r, poss,t, 11 ip11111111eritali1
alligil fo,r/11111111/imdo,ila111bo111in11111 mp,r,,a,1111111no111111,11IEpimrei ,oltml, std tko
td, iis op,ra111 ,i,mdo dari, 1iqt1ia1miuxt, a, pie 11ixeri11I.Po I" i I , s s, 11, r "s D , i
, "I I o r, s i IJ" i s i I I i 111o II s I r a s II I , 11 ,onl1111psi111I pro/1tlo Zenon,111el
•agistr1111111111111Solionem,si ,era, 1api1111ia1 dta1111na,111111111(/1111.6, 24, 13-14). Seneca
ha colto la verità (ip111111 11,ritalisalligil fon/1111):gli uomini vivono al servizio di Dio
(dlfJ[ •••] op,ra111,i,mdo dari) se vivono nella giustizia e nel timor di Dio (1ÌIJ"itk111
Ìllxll a, pi, •ix,rint) - aggiunge Lattanzio - accentuando la interpretazione cristiana
del pensiero di Seneca (cfr. ibid. 6, 24, 12: Exborlalion,s 11141 Seneeamirabili 1111t111lia
lmt1ma,il. Mag,,t1111 illqtlil nes,io qt1ia111aÌ1UIJIII
q1111m eogitaripotesi """'"' 111,tui ,i11mdo
op,ra111da111111).
• Cfr. tra gli altri, A. FLEURY, op. ,it.
• P. FAIDER, Etlllks 1111'Slniq111,Gand 1921, p. 91: « Soyons surs que la corre-
spondanccapocryphe de Sénèque et de St. Paul bien loin d'avoir été comme l'abou-
-9-
che mette Seneca direttamente in relazione con S. Paolo o che
comunque dà notizia di questa presunta amicizia. Se, tuttavia,
prima della comparsa del nostro epistolario non esisteva una
leggenda su Paolo e Seneca, c'erano però già le premesse per la
sua creazione, poiché oltre alla consapevolezza degli autori cri-
stiani che talora la filosofia stoica di Seneca si avvicinava al Cristia-
nesimo, esisteva tutta una complicata trama di leggende attestate
dagli Atti apoerift,che narravano le gesta di Paolo alla corte di
Nerone, e che si può dire contenessero già in n1«1la leggenda
di Paolo e Seneca. Quindi, se da un lato è sbagliato affermare
che l'anonimo del IV secolo, autore del carteggio apocrifo, si
è limitato a riferire una leggenda preesistente e già ben delineata
riguardo ai rapporti tra Paolo e Seneca, è altresl irrealistico pen-
sare che abbia creato questa leggenda dal nulla. Ambedue queste
posizioni estreme vanno rifiutate, o comungue ridimensionate
temperandole in una visione più obbiettiva. E legittimo dunque
supporre che il nostro autore, che mostra di conoscere gli Atti
apomfi,10 utrnzzi la leggenda di Paolo e Nerone, e, inserendo
Seneca come intermediario tra l'apostolo e l'imperatore, crei,
con questa felice innovazione, una ramificazione della leggenda
destinata a crescere e svilupparsi autonomamente. A questa con-
clusione dobbiamo attenerci, almeno finché non sarà possibile
dimostrare, con il progredire degli studi, che questa innovazione
era già stata introdotta precedentemente, cioè finché non sarà
possibile trovare delle testimonianze che infirmino (il che non
credo probabile) o comunque ridimensionino l'esplicita e per
ora determinante affermazione di Lattanzio (Pot11itessi v,rus D,i
fllltor, si q11isil/i monstrass1t,etc.) che esclude l'esistenza di una
diffusa leggenda dell'amicizia di Paolo e Seneca preesistente e
indipendente dal carteggio apocrifo.
-10-
2. Dalaz,iontd,J ,arieggioapomfo.
3. Lt /1slimonianz.1
di S. Girolamo, S. Agostill().
-11-
denza. In ogni caso, il fatto che Girolamo non dichiari espressa-
mente apocrifo il carteggio non significa che lo ritenga autentico.
Se Girolamo fosse stato davvero convinto dell'autenticità della
corrispondenza ed avesse creduto alla conversione di Seneca
al Cristianesimo, è da presumere che ne avrebbe parlato anche
in altre opere. Invece in nessun altro dei suoi scritti si menziona
il carteggio, né si allude a Seneca come ad un cristiano.13 Il Fleury
tenta di giustificare il fatto che Girolamo non dà adeguato rilievo
alla notizia della presunta amicizia tra Paolo e Seneca, affermando
che nel IV secolo il fatto era talmente noto, che non aveva bi-
sogno di dimostrazione.14 Il Fleury ritiene cioè che Girolamo non
avesse dubbi sull'autenticità del carteggio proprio perché, con
una petizione di principio, dà per scontato che esistesse già al-
lora una tradizione molto diffusa in merito ai rapporti personali
che sarebbero intercorsi tra l'apostolo e il filosofo. Ma la tesi
del Fleury, ripresa dal Kraus a e da altri studiosi, non regge pro-
prio perché poggia sul presupposto indimostrato dell'esistenza
di una leggenda dell'amicizia di Seneca con Paolo, preesistente
al carteggio e indipendente da esso. Invece, come abbiamo già
11 Girolamo considera Seneca un pagano, come risulta ad esempio da un passo
del Contra Rlljìmmt 3, 39 PL. 23, 506-507, in cui parla degli studi che ha fatto du-
rante la sua giovinezza degli autori pagani e nomina Cicerone, Bruto e Seneca:
S,d fa, m,wram in aJukmnlia, ,1 philotophonmr,id 111gmlili11111 shllliis wuditus, in prin-
tipio faJ,i ignoram dogmala,hristiana, 11ho, p11ta111 in apostolis,fJIIOd in Pythagora11 P/a-
ton, 11 Emp,do,/1 llg,rem. D, dogmalis '°"""'non tk libris lotlttus Sllllt, tp1111
po111iin Cit1-
rt1111,Br1110a, Sm1ta diu,r,. Alcuni studiosi (A. FLEURY,op. ,it., I, p. 12; C. PASCAL,
La falsa ,orrispondmz.aIra SIMta e S. Paolo, in L,t11ral11raLatina M,dinale, Catania
1909, p. 125, n. 1) citano un passo dcli' Ad,,,r/llS /o,,inian11111 (1, 49 PL. 23, 280 C)
come prova che Girolamo considerava Seneca cristiano: Strips,r1111I Arislollles ,t
Pl111ar,hus ,1 nosl,r S1Mtatk matrimoniolibros.Ma qui noslersembra significare «latino»,
« scrittore della nostra lingua » (in opposizione ai due greci accanto ai quali Seneca
è menzionato), come interpretano C. Aubcrtin (Slnèf/111 11 Saint Palli, Parigi 1872,
p. 382) e P. Faidcr (op. ,it., p. 98). Tutt'al più si potrà intendere nosl,r nello stesso
senso in cui Tertulliano lo chiama sa,p, nosler, cioè « vicino al Cristianesimo »,
« vicino al nostro modo di pensare» (così il TRILLITZSCH,op. ,it., I, p. 150), non
diversamente da come Girolamo considerava tutti i filosofi stoici; cfr. In Is. 4, 11
CCL. 73, p. 151 (= PL. 24, 147 D): Stoi&i,qui nostro dogmaliin pltrisfjlll ,ontordanl.
In ogni caso il Msler Snu,a non dimostra che Girolamo credesse alla conversione del
filosofo stoico alla fede cristiana, come ritengono invece il Fleury e il Pascal.
H Op. ,it., I, p. 270: « Il ne s'arr~te pas un seul instant à c:umincr si le bruit
dc lcur intimité qu'implique un parei) rccucil [l'epistolario apocrifo], est ou non
fondé. La moindrc hésitation est à scs yeux inadrnissablc, et la démonstration su-
perflue; tant il faut le croirc, Ics prcuves évidcntcs aboundaicnt, de son tcmps, sur
la réalité dea rapports qui avaicnt existé entrc Ics deux personnagcs ».
11 F. X. KRAus, Der Brilf1111,hsel Pallli mii Snu,a, « ThQ », 49, 1867, p. 606.
- 12 -
visto, non vi è traccia di questa leggenda prima del IV secolo.
Anzi, come fa notare il Faider, è proprio Girolamo che fornisce
con le sue stesse parole una ulteriore conferma di ciò. Nel De
viris illmtribm precisa infatti che si è deciso a citare Seneca in ca-
talogosanctor11m soltanto a causa delle lettere che il filosofo e l'apo-
stolo si sarebbero scambiati. Il fatto che Girolamo dica di esservi
stato spinto unicamente dalle lettere esclude di per sé l'esistenza
di una tradizione di presunti rapporti fra Seneca e S. Paolo, pre-
cedenti alla nostra corrispondenza. 111 Se cosi fosse, Girolamo non
avrebbe sentito infatti il bisogno di giustificare in questo modo
l'inclusione di Seneca in catalogosanctor11m. A questo punto, se è
vero che Girolamo non crede né all'autenticità della corrispon-
denza né tanto meno al cristianesimo di Seneca, c'è da chiedersi
come mai citi ugualmente queste lettere nel De viris illmtribm.
Il fatto è che Girolamo non aveva alcun interesse né a passare
sotto silenzio, né a bollare come apocrifa questa corrispondenza,
dal momento che la notizia di un tale scambio di lettere tra Se-
neca, simbolo della tradizione culturale romana, e S. Paolo, l'apo-
stolo di Cristo, non poteva che tornare a vantaggio della causa
del Cristianesimo. Contro l'accusa cosl spesso rivolta ai Cristiani,
di avere alle origini reclutato solo spiriti inferiori e gente senza
cultura, 17 quale argomento migliore ci poteva essere in favore
della religione nascente, se non la simpatia che Seneca avrebbe
manifestato a Paolo? La notizia di un tale epistolario rispondeva
dunque polemicamente allo scopo che S. Girolamo perseguiva
scrivendo il De viris il/11stribm:quello cioè di innalzare il pre-
stigio della letteratura cristiana, dimostrando che essa era degna
di essere opposta a quella profana.18 Nel passo del De viris i/111-
11 P. FAJDBR,op. di., p. 90: « St. Géròmc [...] spccific quc la sculc raison qu'il
a dc fairc mcntion dc Sénèquc dans son cataloguc dcs écrivains écclcsiastiqucs, c'cst
l'cxistancc dcs famcuscs lcttrcs. Cela cxclut l'hypothèsc, qui paraissait tout à l'hcurc
ai scduisantc, d'une tradition orale, d'une légcndc forgéc antcricurcmcnt aux docu-
mcnts apocryphcs ». La precisazione 11isi1111i/la, ,pillola, prDIID&arml tp1111/1gu,,l#r
11plwimis è un modo con cui Girolamo si giustifica e insieme si cautela contro even-
tuali critiche che potrebbero essergli mosse: il che significa che Seneca era comune-
mente considerato un pagano.
17 Si vedano ad es. le accuse mosse da Cecilio Natale ncll'O&ta,,im di Minucio
Felice (5, 5; 7, 4) e da Celso (ap. Origcn. C. C1/n1111, 1, 27; 3, 44; etc.): sull'argo-
mento, cfr. oltre, p. 53 sg.; 136 sg.
18 CTr. quanto afferma Girolamo stesso nel prologo del D, ,iris illmtribus:
Dis&1111I igil#r C,/nu, Porpbyrim, llliialUIS,rabidi ad,1rn1111Cbrisl11m&llllls,dimmi Slt•
llllor1s IDrtllll tJIIÌ p11111111
1çç/1siam11111/os
pbilosopbos,1 tlo(JIIIIIIII, nlli/01bab11i111
d6,tor11,
- 1.3 -
slribm, troviamo anche un riferimento preciso a un passo della
XII (XI) lettera: Nam q11imem IIIIISaplllite lot11.t, q11i1111avelimId
mem, che Girolamo interpreta nel senso che Seneca vorrebbe
essere presso i suoi concittadini nella stessa considerazione in
cui Paolo era tenuto presso i Cristiani (optarese dirit eim esselori
apllli mos mim sii Pa11/mapllli Cbristia111Js). 1• Questo riecheggia-
-14 -
noscenza diretta di quello stesso testo che è giunto anche a noi. È
probabile che queste lettere, della cui origine romana è difficile
dubitare, gli siano state inviate da amici a Betlemme, dove egli
si trovava prima di comporre, nel 392, il De viri.ri//mtribm.a
Qualche tempo dopo, verso il 413, la nostra corrispondenza è
menzionata da Agostino, che in una lettera a Maccdonio, in
cui esorta all'indulgenza verso i peccatori, inserisce un pensiero
di Seneca conforme ai suoi sentimenti (Epi.rt. 153, 14): M1rito
ait Sme,4, q11itemporibmapo.rtolor11111J11it,mim etiam q114eda111 ad
Patdtlm kgrmlllrepi.rtoiae:omne.rodit, q11imalo.rodit."' Anche qui
l'allusione è fatta « en passant », in una forma vaga e imperso-
nale.• Agostino non prende apertamente posizione né contro,
né a favore dell'autenticità delle lettere: di esse dice soltanto,
riecheggiando S. Girolamo, che« venivano lette» (/egrmt11r) come
sue, lasciando la questione mb iudice. Non a caso troviamo in
11
- 15-
di Girolamo, che utilizza questo apocrifo solo perché spinto da
motivi polemici, hanno avuto un'importanza determinante per
la sopravvivenza di questo testo e la sua fortuna nei secoli.11
Di fronte all'autorità di S. Girolamo e Sant' Agostino, infatti, i
posteri non hanno osato per molti secoli contestare l'autenticità
delle lettere che i due Padri della Chiesa non avevano espressa-
mente dichiarate apocrife.11 Che in particolare la testimonianza
di Girolamo giuochi un ruolo fondamentale per la conservazione
e la fortuna dell'epistolario, lo dimostra il fatto che il passo del
De viris ii/mtribm, avulso dal suo contesto, è inserito in quasi
tutti i codici della corrispondenza apocrifa, quasi a garantirne la
validità e l'importanza.
Nola (op. di., I, p. 166). Comunque, che il passo di Agostino contenga, o no, un
riferimento al nostro epistolario, resta saldo - ed è questo che importa - che egli
non aveva una conoscenza diretta delle nostre lettere.
11 Significativa a questo proposito è l'affermazione di Giovanni di Salisbury
(cfr. oltre, p. 21), di Giovanni Colonna (cfr. oltre, p. 23) e di Giusto Lipsio (cfr.
oltre, p. 25 n. 38).
• Come ha avuto occasione di osservare anche il TiraboS<:hi(Storia MIia /411,-
ral#ra italiflll4, Modena 1787', I, cap. V, par. XV, p. 189): « L'autorità di S. Girolamo
e di S. Agostino, che hanno scritto che queste lettere si leggevano da molti, ma che
non hanno affermato, ch'ease fosser sincere, ha tratto molti in errore, e ha fatto lor
credere, che tra l'Apostolo e il filosofo fosse veramente stato amichevol co1r1mercio
di lettere, e ch'esse fossero quelle appunto, che ora abbiamo ».
-16-
II
.
LA LEGGENDA DEI RAPPORTI TRA PAOLO E SENECA
E L'EVOLUZIONE DELLA CRITICA AL CARTEGGIO
APOCRIFO DAL MEDIO EVO ALL'ETA MODERNA1
1Mi sono limitata qui ad esaminare quelle testimonianze che mi sono sembrate
più significative per illustrare le fasi salienti della leggenda di Paolo e Seneca, sof-
fermandomi solo su quelle che documentano svolte decisive nell'evoluzione della
leggenda o che presentano particolare problematicità. Ho invece deliberatamente
evitato di insistere ulteriormente su quelle tcstimonianz.c già presentate e critica-
mente esaminate in dettaglio cd esaurientemente in studi precedenti; per una trat-
tazione dettagliata di tutte le fonti antiche e moderne 11ulla leggenda, rimando ai
lavori del Flcury, dcli' Aubcrtin a quello più recente del Momigliano, che è ancora
attuale e validiuimo.
1 Si tratta di una falsificazione medievale, forse del XII secolo: Pscud. Aug.
Slrlllfltll1ad fralr11 in ,r11110
,0111111oranl11 XVII: D, t1igilaliotu11olio1ilau r,ilanl/4)
(S1r1110
PL. 40, 1263: Vigilali ,rgo fralr11, olio1ilal1111 tkpo,,,,,111in '1111tli1.Qtdd mi111olullll 111,
llisi ,,;,,; bo111inil11p,dl11ra,111ail pag11111U i/11 1m,çlild111iApollo/i a111iau,baritd111111?
(cfr. Scn. Epill. 82, 3: OIUIIII 1i111lilllri1111or1
11111bo111inil ,,;,,; 11p,dhlra).
- 17-
2
« La foi au Christianismc dc Sénèquc B.curit pendant tout le
moyen agc ».•
Il Momigliano è il primo che rifiuta questa inter-
pretazione tradizionale e che dimostra come in realtà nel Medio
Evo si credesse all'amicizia tra Seneca e Paolo, ma non alla con-
versione del filosofo al Cristianesimo.• Infatti, analizzando i testi
degli autori medievali, citati come prova che Seneca era consi-
derato cristiano, constata che in nessuno di essi si afferma espli-
citamente che Seneca si è convertito al Cristianesimo. L'unico
riferimento a Seneca, durante il periodo che va dal VI secolo
alla Rinascita carolingia, si trova nella PassiosanciiPa11liapostoli, 1
-18-
Paolo e risale presumibilmente al VI secolo.10 L'episodio cli Se-
neca non si trova nell'originale greco - è stato aggiunto dall'ano-
nimo autore cli questa versione latina, che era a conoscenza dcl-
i' epistolario apocrifo - 11 e non può quindi essere addotto come
prova dell'esistenza cli una leggenda dell'amicizia tra Paolo e
Seneca, precedente al IV secolo.11 Se si eccettua lo Pseudo Lino,
lo sviluppo della leggenda subisce nel Medio Evo una lunga
battuta cli arresto e fino al IX secolo la corrispondenza, a quanto
ci risulta, non viene più menzionata. Il primo che fa nuovamente
riferimento ai presunti rapporti amichevoli tra Paolo e Seneca
è Freculfo, un cronista del IX secolo. In età carolingia si ridesta
infatti l'interesse degli studiosi per la nostra corrispondenza,
tanto che lo stesso Alcuino - come ormai si è concordi nel rite-
nere - ne cura un'edizione e la dedica a Carlo Magno.u Freculfo,
11 Come oaerva il Wcsterburg,(D,r Ursp,v,g tl,r Sag,, tkusS1111t11 Cbrist ,,.,.,,
ni, Berlino 1881, p. 5) quest'opera è sicuramente poatgcrooimiaoa, in quanto le cita-
zioni bibliche provengono in parte dalla Vulgata; sulla colloca?ionc cronologica
della Ptllrio sa,,çli Pauli apostoli, cfr. L. VouAux, L,s 111111ti, Palli 11ffl ullrls apony-
pl,,s, Parigi 1913, p. 23, n. 1, e p. 336; cfr. inoltre R. Sl:SDBll, Dii apoçrypb,,,Apost,/.
gmhkbm, 111111 Lil,rahlr tl,r A,,lilu, Stoccarda 1932, p. 10, n. 21; P.
dii ro111tlNJtljl1
FAIDBll, op. di., p. 94, n. 1; etc.
11 Lo Pseudo-Lino acguc liberamente l'originale greco~"°" -roGcly(ou
àocn6Àou Il~) e aggiunge nuovi particolari attinti ad altre fonti; cfr. J. QuA-
ITEN, Plllrology, Utrcct 1966', I, p. 134 ag.; H. l.ECLBllCQ. ari. di., in « DACL ••
15, 1, col. 1194; L. VouAux, op. di., p. 336.
u Come pensava invece il Flcury (op.di., I, p. 275 agg.). « Il y a là, sana aucunc
doutc powole, une addition dc l'interpolateur ».
u Frobcnio nella aua edizione delle opere di Alcuino del 1772 (riprodotta nel
1850 dal Mignc nella Patrologia latina: Aladni op,ra,Il, 606 = PL. 101, 1375) pub-
blica un epigramma da lui scoperto in un manoscritto di Millatadt contenente le
EpishllM S1t11t111 Pauli e un'altra opera spuria: la Collalio Ahxllllllri 11 DÌllllillli.
Frobcnio identifica con Alcuino lo sconosciuto Albino menzionato nell'epigramma:
Gnu Brag,,ttlllllll q,dt/,• miris IJlltll moribtu ,xtal
Hk ugihlr; ktlor mmli fa/,• ,idlal.
Hi, Pauli Il S1t11ttllJ,r,,it,r r11po,uaugw,lttr:
Q,,a,tu,1'1tlOlaPil tlOIIIÌnl f/llÌl(JIII l1IO,
/2,IIM libi, •ap dmu 11111111ii 11 tlaris1Ì1111
Ctlltar,
Albimu miril •11111ra pana ttau.
L'identificazione di questo Albino con Alcuino è senz'altro da accettare: nei mano-
lCritti infatti Alcuino è designato spcsao col nome di Albittlu o B. Albittlu Fbzçnu.
Si deve pensare quindi che Alcuino con questo epigramma abbia voluto dedicare a
Carlo Magno un'edizione da lui curata degli epistolari di Paolo e Seneca e di Alca-
11ndro e Dindimo, re dei Bragmani. Di questo avviso aono tutti gli studiosi che si
IODO occupati della questione (cfr., tra gli altri, A. Mor.nGLIANo,ari. di., p. 327, e in
pardc:olarc, CI.. W. BAIU.OW, Epistaku S11"tMad PfllliMIII 11 Pauli ad S1111t11111
(IJ#lll
'°"'11llr). Roma 1938, pp. 94-104) ad eccezione del Lia:wd (La Co/lalio Ahxtllldri
-19-
che definisce Seneca vir11mnobikm ti Pa11/iapostoliami'11m, 14 è il
-20-
mente, dello Pseudo-Lino. La diffusione dell'epistolario apocrifo
rispecchia quella delle opere autentiche di Seneca e degli autori
paganiin generale, conosce cioè due periodi di particolare for-
tuna: quello della Rinascita carolingia e quello della rinascita del
XII secolo.11 In questo periodo la corrispondenza è menzionata
da Abelardo 11 e Pietro Ouniacense," che ne riportano alcuni
passi contenenti espressioni di ammirazione verso S. Paolo, da
parte di Seneca, che, però, è considerato sempre come un pagano.
Anche Giovanni di Salisbury, discepolo e contemporaneo di
Abelardo, parla cautamente di fami/iaritas tra l'apostolo ed il filo-
loso e non di conversione di quest'ultimo al Cristianesimo.
.Affermache Seneca va onorato per la sua amicizia con S. Paolo,
e cita subito dopo S. Girolamo: S1111t /amen qui eorum[Sene,am]
tontemnereaudeant,Quinti/iani auç/oritatefreti; mihi /amen desipere
vidmtur qui, quemt11mque seçufi,non venerantureum quem et Apostoli
f ami/iaritalemmeruisse,onstat, et a do,tissimopatre Hieronymoin
san&lortmJ ,ata/ogopositum.• Come ha dimostrato il Momigliano,11
n crr.L D. RErNOLDS, op. di., 1965, p. 89; K-D. NOTHDUJlPT, Shlllim ll(JIIII
Emfl,us s,,.uuflllj du Pbilosopbi,IIIUiTblologi,d,s ,:_1116/jllll f abr/nwJ,rls,Leida-Colonia
1963, p. 38.
• Abelardo riporta per intero il testo della I epistola della nostra corrispondenza
e in parte quello della VII(che è la IV di Scncca):S,,..,o XXIV= Exposilio;,, ,pisto'-'
Ptlllii ad Ro111""°s, I, 1: Q111111hu t111l1111
,1 ap,tdpbilosopbosbabi1111 sii [se. Pauhu] (J1IÌ1i111
.,, pr111ditt1IÌOM111 tllllli1rt111I,,, smpla ,id,,-t111I, insi1,11is 1/oq,l,,,lit1t.pltllll 111orib111
ilk 111111
s,,.u in 1pis10/ist.J1ltllad nm, dirigil bis ,1rbis prol11l11lur:Libi/lo lllo u,to, d, pllll'i111is
ad IJIIOSdtllfl liluris, t.J1ltllad 11/Ìljlla111
,i,il11l1111
s,u pop,u,u,, ,11pu1pro,in,ia, dirtxisli 111ir11
txborllllÌOM,i111111 111or11k111 r,j,,li 111111111,
tonltlllMlllls 111qu,t.p111qu, Quos ll1UIIInon pulo
,x Il ditlos, std p,r Il, uri, 11/iqwz,,llo ,x l1 11p,r 11. T1111111 1lmi11111111i11l111'"""" ,,,.,,,,,
11I llllllt1qt11 gm,rosilall ,/armi ul ,ix n1jf1thlrt11 pul1111bo111ÙUIIII 111l11l11 (JUib,uinslilld
p,rfttiq,,, po11inl[Epist. I]. M1111Ùlil Il Hurony111111 bui111lmldis S1111tt11 ,rga Paultm, ÙI
libro Di il/1111rib111 ,iris, ,ap. XII, ila stribms ... [segue il noto passo di Girolamo];
lnlrodmlio ad TbeologÌIIIII, I, 24 = Tblologia,brislÌllllll,I [verso la 6ne]: S1111,11 IJIIOf{III
i,,ur 1111inr10s pblosopbos,l11111 111or11/is
M"111111 t.p111111
,illll gr11lia111
111Uphu, spiri/11111 st111tllllll
~ 0111ni11111 dirlributor,111 potml,r proftl1lw, ila d, ipso ad PalUIIIII aposlollllllin t.J1111rlll
smbms 1pi11o/11: ProjiJ,or 1111bm, 11tt1pllllllktlÌOM111 li111r11r11111 Galalis Co-
"'4rlllll t.J1ltll
rialbiis A,biis 111isis1i. Spirihu ,ni111st111thuin l1 supra 1xulsos lllb/i111ior salis HMruiks
-
mmu ,xpri,,,il.
N Tra,lllhu 1111,,,.1111
1111ilu pbilosopbUI
P,lrobrtlsiaMs,1150 PL. 189, 737 C: Nonn, ipd Paulo/111110-
Sm,u dixil nullasIl "'"'" n1jf1tlllt'aS 111111111
ad li111r11r11111 illtmutt 11/li•
IIIIIÌ111111
,apimdat,,? [Epist. I] Nonn, 11 il/a mMi,/is b111iaN,ro, bis ,od,111 pbilosopbor,-
ri1t11111tlllllilis,111irarist dixil, 1111M bo111ù,i,Id diubal, ÙUkltlo,ltllllllsdmlia ÌIIIIIIpohdl?
[Epist. VII].
11 Politralinu, VIII, 13.
-21-
dunque, contrariamente ad una diffusa quanto infondata convin-
zione, nel Medio Evo non si credeva che Seneca si fosse conver-
tito al Cristianesimo, ma soltanto - e la cosa è molto diversa -
che fra l'apostolo e il filosofo fossero intercorsi rapporti di ami-
cizia. La credenza medievale nell'amicizia tra Paolo e Seneca era
fondata sull'epistolario apocrifo, che godeva di grande credito
non certo per l'abilità del falsario, bensl grazie alla testimonianza
di Girolamo che, non a caso, quasi tutti gli autori si affrettano a
citare subito dopo aver menzionato la leggenda di questa ami-
cizia, quasi per dare credibilità alle loro affermazioni. Si è già
detto dell'importanza determinante della testimonianza di Giro-
lamo per la fortuna della leggenda su Paolo e Seneca: è vero in-
fatti che la leggenda trae origine dalla corrispondenza, ma è
vero alttesl che le quattordici lettere, da sole, senza il sostegno
della testimonianza di Girolamo, non basterebbero a giustifi-
carne il successo. La innocente reticenza di Girolamo sul carat-
tere palesemente apocrifo del carteggio di Paolo e Seneca ha in-
dubbiamente contribuito alla sua affermazione. Le nostre let-
tere, cosl maldestramente falsificate, tali da sollevare anche nei
più sprovveduti il dubbio sulla loro autenticità, non avrebbero
probabilmente goduto di quel credito, di cui sono state fatte
segno da parte degli autori antichi, e forse non sarebbero neanche
giunte fino a noi, se non avessero ricevuto, per cosl dire, l'avallo
di Girolamo.
2. Evolllz.ion,dellakggenda:« Senecaeristiano».
Alla fine del Medio Evo la leggenda si evolve: gli autori che
fino ad allora si erano limitati a dar notizia della presunta ami-
cizia di Paolo con Seneca, facendo del filosofo tutt'al più un sim-
patizzante del Cristianesimo, cominciano a presentare Seneca in
veste di cristiano: come ha dimostrato il Momigliano e confer-
mato il Reynolds,17 soltanto a questo punto, e non prima, è le-
cito parlare di « Seneca cristiano ». La leggenda medievale del
" Come nota il Rcynolds (op.di., p. 82), ~ possibile che del nuovo materiale
poua far luce sul tardo medioevo (a questo proposito sarebbe interessante approfon-
dire l'indagine sui documenti del XIl secolo, quando la corrispondenza di Paolo
e Seneca era già molto diffusa; cfr. K-D. NOTHDllllPT, op. til., p. 38) ma ~ difticile
che il quadro generale, delineato dal Momigliano, poua cambiare.
-22-
cristianesimo di Seneca, secondo il Momigliano, è essa stessa un
mito: gli scrittori moderni incautamente avrebbero esteso a
tutto il Medio Evo un atteggiamento che sembra proprio del
XIV secolo. L'idea di un « Seneca cristiano » sarebbe dunque il
frutto immaturo del primo acerbo Umanesimo. 18 La prima chiara
affermazione del cristianesimo di Seneca rimane per ora quella di
Giovanni Colonna: H1111,[sc. Sene,am]saepetredidi,hristian11mfllirse,
maxime '11111 magnm do,tor leronimm ipmm in san&torrm, ,atakgo
astribat [•••] Sedpotissimeindt«orad tredendtlmh1111,
J11isse
,hristian11111
qm i11strib11111Nr
ex hiis epistoiisnotis foti orbi tm-ar11111, 'Pa11Jiad
Sene,amet Smecead Pa11J11111 '.• Portavoce della nuova credenza
della conversione di Seneca al Cristianesimo si fa anche Giovanni
Boccaccio nel Commentoalla Divina Commedia(1373), dove, a
proposito di « Seneca morale », ricordando che Tacito raccontava
(Amz. 15, 64) che Seneca morente aveva libato a Giove Libera-
tore, interpreta la libagione come un'offerta a Gesù Cristo.• Se-
condo il Boccaccio questa interpretazione cristiana del passo di
Tacito sarebbe giustificata proprio dal carteggio tra Seneca e
S. Paolo: « Esser parole scritte da san Paolo, le quali, bene in-
tese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui avere per cri-
stiano ».11 Il Petrarca ha invece un atteggiamento assai più cauto:
crede all'amicizia di Seneca con Paolo, ma non alla sua conver-
sione al Cristianesimo. Anzi, il Petrarca, nella epistola a Seneca,
11 Op. ,il., p. 355: « ritengo infatti probabile che l'idea di un Seneca cristiano
non nacque nella mente dei soliti ingenui monaci medievali, ma fu il prodotto della
riflcuionc critica dell'Umanesimo ancora immaturo. Per quel che io so, taluni uma-
nisti italiani del XIV secolo, messi di fronte alla corrispondenza di Seneca e S. Paolo,
ancora universalmente ritenuta autentica, conclusero che Seneca dovette essersi
convertito al Cristianesimo. Invece di accettare le lettere senza pensarci, essi cercarono
di spiegarla e conclusero per la conversione che fu dunque in qualche modo la prima
interpretazione critica delle lettere ».
• R. SABBADINI, GitwtmniCom111111 biografoI bibliografodli "'· XIV, « AA T »,
46, 1910-1911, p. 852•
.. «Parendomi queste parole poteni con questo sentimento intendere: che esso,
il quale, che ai sappia, quantunque il battesimo della fede avcasc, il quale i nostri
santi chiamano « fla111inù », non essendo rigenerato secondo il comune uso dc• cri-
stiani nel battesimo dell'acqua e dello Spirito Santo, quelJ•acqua in fonte battesi-
male consccraasc a Giove Liberatore, cioè alesil Cristo [.•.] né osta il nome di Giove,
il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenini a Dio, anzi a lui, e non
ad alcuna creatura; e cosi, consccratala, in questa cascni bagnato e divenuto cristiano
col sacramento visibile, come con la mente era » (Erporit,ifmiroprala Co1111dia di Da1111,
a c:un di G. Padoan, Verona 1965, esp. litt. IV, 354, p. 258).
n L«. di., p. 257.
-23-
rimprovera il filosofo ritenendolo responsabile della crudeltà di
Nerone e, soltanto a causa del nostro epistolario, non osa credere
che sia stato addirittura complice delle persecuzioni contro i Cri-
stiani.• Innumerevoli testimonianze attestano la diffusione della
leggenda nel XV secolo: Sicco Polenton, autore di una vita di
Seneca, rifacendosi al Boccaccio, afferma che Seneca è morto in-
vocando il Redentore degli uomini sotto il nome pagano di l,p-
piter Libera/or,battezzandosi da sé con l'acqua del bagno con cui
fa una libagione. Sicco Polenton richiama anche all'attenzione
dei lettori un epitafio, attribuito a Seneca: Co111post1il
alllem [Se-
m,a] a1111in ba/moessei,sepllkrimi, 11Içredit11r, (JtlOdpostea
epitaphitn11
f 11it:
in marmoreinris11111
C11ra,labor, 111erit11111,
m111pti pro 1111111ere
honores,
/te, aliaspost han, solliritateanimasi
Me prottd a 110bisDem IIIIOtat; ilitet a#is
Rebm ten-enis,hospita ten-a, vale/
Corpm avara ta111en solemnibmatripe saxis
,aeloreddi111111,
Na111tpea11i111a111 ossatibi.18
-24-
anche la posizione cli Curione, editore cli Seneca.st Anche Giusto
Lipsio rifiuta come apocrifo il carteggio a noi pervenuto, 87 ma,
a proposito delle relazioni amichevoli tra Paolo e Seneca, afferma
che non osa metterle in dubbio perché esse hanno ottenuto l'as-
senzo cli San Girolamo, cli Sant'Agostino, cli papa Lino e cli
Giovanni cli Salisbury.88 Nonostante l'incal1JJ.redegli attacchi con-
tro l'autenticità della corrispondenza, un considerevole numero
cli studiosi continua tuttavia a considerarla autentica. Tra questi
Lcfebvre d'Étaples, che, all'inizio del XVI secolo, include il
carteggio tra Paolo e Seneca in un commento alle epistole ca-
noniche dell'apostolo.• Sisto Senese, che considera autentico il
carteggio, cerca ingenuamente cli giustificarne la rozzezza dello
stile come una misura prudenziale.40 Françisco de Bivar, com-
mentatore della cronaca dello Pseudo-Dexter,41 considera auten-
tica la corrispondenza tra l'apostolo e il filosofo, e, seguendo una
-25-
notizia riportata in questa cronaca apocrifa, ritiene che Seneca si
sia convertito segretamente al Cristianesimo: Anno Christi 64
- LNn11.t Anna111.t Seneça,Cordtlbensis, Hispama, missisultro tilro(JIII
ad san,111111 Paul11111 /itteris, de ,hristiana re bene sentii, J a, t II s
, h r i s t i a n II s o , , 11I t II s , ei11.t
f 11issedistip11/11.t
n-edit11r,
dllki-
terqm sn-ibitad Pa11/11111 in Hispania111orante111. 41 È interessante rile-
-26-
ostentano la stessa incredulità di Erasmo nei confronti delle let-
tere: Qllfl111,rod, Sen,,a j11'1111fllr,
sanenimi11111impm:l,nt,r11111/ton-
fota.41Muovono attacchi alla leggenda del Cristianesimo di Se-
neca anche i cattolici Baronio," Bellarmino,48 Duperron,ao il ge-
suita Raynaud,111 ed altri.
Nel XVII secolo, insomma, gli studiosi sono quasi unanimi
nel considerare apocrifa la corrispondenza tra Paolo e Seneca e
nel rifiutare anche la leggenda della loro presunta amicizia.
Uniche voci contrarie sono quelle di Noel Alexandre 111 e Tille-
mont,111che considerano apocrifo il carteggio pervenuto fino a
noi, ma non escludono la possibilità che il filosofo e l'apostolo
si siano realmente conosciuti ed abbiano stretto amicizia fra loro.
Nella seconda metà del XVII secolo e durante il XVIIl, so-
prattutto in Germania, in seno alle Università vengono pubblicate
numerose dissertazioni tese a dimostrare infondata la leggenda
del cristianesimo di Seneca: si distingue fra queste il D, S1n1,a1
,bristianismodi Godefroy Kaewitz, che appare la tesi più com-
pleta: in essa sono metodicamente riassunte le principali obbie-
zioni alla leggenda.114 In Spagna, Nicolaus Antonius 1111 non ha
dubbi sul carattere apocrifo del carteggio, di cui critica la vacuità
-27 -
del contenuto e la rozzezza della forma. Per quanto riguarda il
presunto cristianesimo di Seneca egli si limita cautamente a ri-
portare le testimonianze di Girolamo e Agostino e degli altri
autori cristiani che vi fanno riferimento, senza confutare questa
opinione, ma mostrando di propendere per la tesi di Erasmo,
che rifiuta l'immagine per altri suggestiva di un Seneca cristiano
e conferma, al di là degli apparenti punti di contatto con la con-
cezione cristiana, la matrice inequivocabilmente pagana della
sua filosofi.a.
Nel XVIII secolo, in Italia, il Tiraboschi II e il Lami 17 sol-
levano contro i sostenitori del cristianesimo di Seneca, come
principale obbiezione, la morte pagana del filosofo suicida. Il
Lanzoni osserva che « alcune leggende dopo una certa evolu-
zione, si fermano e ristagnano; altre, dopo un periodo di sosta,
come cratere di vulcano che dopo un lungo periodo di bonaccia
entra in una nuova fase di attività, riprendono a svilupparsi ora
nella stessa linea ora in un'altra diversa ».11 È questo il caso anche
della leggenda del cristianesimo di Seneca, che dopo essere stata
sdegnosamente rifiutata nel XVI e nel XVII secolo, rifiorisce
nel XIX e trova in questo periodo difensori convinti come J.
G. H. Greppo, 11 J. de Maistre,80 G. B. de Rossi,11 e molti altri.•
11 Op. di., p. 189 agg.; cfr. in particolare, p. 190: « Ma dccai almen credere,
che fosac tra cui qualche commercio di Lettere? La stoica alterigia di Seneca mc lo
rende quasi incredibile; e ac egli alcuna conoscenza ebbe, come non è invcrisimilc,
di Paolo, non giovosscnc certamente a salute, come dalle sue opere stesse, cd anche
dal sacrificio, ch'egli nell'atto di morir fece, come abbian detto, a Giove, è troppo
manifesto ».
17 D, lnlliilio,u ApotloiorNm, Florcntiac 1738, p. 102.
11 Op. ,il., p. 6.
-28-
La leggenda del cristianesimo di Seneca ha dunque due periodi
di grazia: il periodc, umanistico, quando, cioè, essa si afferma, e
l'età romantica, quando la nuova sènsibilità religiosa è attratta
dall'immagine suggestiva di un « Seneca cristiano ».88 A. Fleury,"
il più aggue~ito sostenitore della leggenda, nella sua opera ve-
ramente notevole per ricchezza di notizie e vastità di erudizione,
raccoglie tutte le testimonia.me, riassume tutte le posizioni degli
autori antichi e moderni pro e contro la leggenda del cristiane-
simo di Seneca. La sua dimostrazione si incentra su di un paral-
lelo tra il pensiero di Seneca e quello di S. Paolo, allo scopo di
evidenziare nell'opera del filosofo pretesi influssi cristiani. Pur
essendo la sua posizione ormai superata, non si può ancor oggi
ignorare l'importa.ma del suo intervento. 811 La leggenda rinasce
'
qucatll iscrizione può dimostrare soltanto che intorno al 200 ci furono dei Cristiani.
che si chiamavano Annci, forse lontani discendenti della famiglia di Annco Seneca.
ma non che il loro celebre antenato sia stato ugualmente cristiano e amico di S. Paolo.
Per una più ampia e dettagliata confutazione della tesi di G. B. DE Rossi. cfr. C.
AVBBB.TIN• Slniq• 11 Sainl Pmd ... cit.. pp. 383-388.
u e&. M. TB.OPLONG, D, l'injll#lltl "" ,bristiani11111 111T I, droil mii. Parigi 1848.
p. 76 sgg.; F. C. GBLPKB, Tra,tanti1111nda d, familiaritat,, (JIIQI Pmdo apostolo""" S1-
tl#taphi/osopboint1rmsis11tradilllr, t11risimillima,Lipsiac 1813.
11 « L'ipotesi della sua conversione attraeva in una età di conversioni » (A.
-29-
dunque più forte che mai, ma con un nuovo orientamento ri-
spetto al passato: mentre prima del XIX secolo ci si basava es-
seiwalmente sulla corrispondenza e unicamente in base a questa
ci si diceva spinti ad ammettere l'esistenza.di rapporti di amicizia
tra Paolo e Seneca, dal XIX secolo in poi, accantonata la corri-
spondenza palesemente apocrifa ed ormai completamente scredi-
tata dai vigorosi attacchi dei critici del '600 e del '700, si cercano
le prove dei presunti rapporti tra l'apostolo e il filosofo, enu-
cleando dalle loro opere autentiche i passi apparentemente simili.
Di fronte alle numerose possibilità di raffronto, si crede di avere
le prove di un contatto tra Paolo e Seneca e non ci si rende conto,
invece, che i passi che presentano delle analogie rimangono
sempre su linee rigorosamente parallele che escludono un punto
d'incontro. Affascinati dall'ipotesi suggestiva di un « Seneca
cristiano », alcuni studiosi vedono più di quanto ci sia in realtà
da vedere, traendo troppo in fretta le conseguenze. Nell'800
dunque la corrispondenza tra l'apostolo ed il filosofo passa in
seconda linea ed è relegata al ruolo di « conferma » del cristia-
nesimo di Seneca, già ampiamente dimostrato, secondo questi
studiosi, dagli influssi cristiani, che si pretende di individuare nei
suoi scritti autentici. Parallelamente alla corrente che tenta di
dimostrare che il Cristianesimo ha influito sulla concezione mo-
rale di Seneca, dalla seconda metà del XIX secolo si sviluppa
un altro filone della critica che affronta il problema del rapporto
Stoicismo-Cristianesimo con una prospettiva completamente di-
versa: i rappresentanti di questa corrente negano al Cristianesimo
il suo contenuto nuovo e il suo carattere originale e rivoluziona-
rio nei confronti della tradizione classica, e concepiscono la mo-
rale cristiana come frutto di una evoluzione spirituale iniziata
nelle scuole dei filosofi pagani: « pas une idée, pas un sentiment,
pas un mot dans la morale dite chrétienne - afferma Émile De-
schanel - que les philosophes n'aient exprimé et formulé avant le
Christ ».81 Il problema particolare del rapporto tra Paolo e Seneca
-30-
viene a risolversi cosl in modo del tutto nuovo: le opere di Seneca
presenterebbero affermazioni simili a quelle che si trovano in
S. Paolo, perché la filosofia del mondo greco-romano di cui
Seneca è l'erede e il depositario conterrebbe già in nuct la mo-
rale cristiana. Due autorevoli rappresentanti di questa corrente,
B. Bauer 17 e Van den Bergh Van Eysinga 18 considerano le epi-
stole paoline scritti fittizi cronologicamente posteriori alla morte
di Seneca, foggiati proprio sulla base delle opere del filosofo
stoico: ogni preteso influsso di Paolo su Seneca è perciò escluso.•
Ora, se da un lato è da rifiutare la tesi che spiega le analogie di
alcuni passi di Seneca e di S. Paolo con un preteso influsso cri
stiano sul filosofo, deve essere però ugualmente respinta anche la
conclusione opposta, a cui perviene la scuola radicale, che rove-
sciando i termini del problema, giustifica le similitudini in base
ad un rapporto di derivazione e di dipendenza del pensiero cri-
stiano dall'ultima tradizione stoica, di cui Seneca è il depositario.
Ambedue le impostazioni peccano infatti di dogmatismo e ri-
flettono una logica astratta che crista11izzai passi paralleli isolan-
doli dal vivo contesto di due ideologie profondamente diverse.
Come vedremo più oltre, non è misconoscendo il contenuto
nuovo del messaggio cristiano che si può rendere ragione della
sua analogia col pensiero stoico, ma anzi è proprio dall'analisi
obbiettiva della loro essenziale diversità che si perviene ad una
esatta valutazione delle somiglianze, come risultato di un pro-
cesso di «osmosi» ambientale.70
Dalla fine dell'800 in poi, una parte della critica è impegnata
a sfatare la rinata leggenda del cristianesimo di Seneca, mo-
strando come, ad un esame approfondito, il pensiero di Seneca
risulti assai lontano dal messaggio di S. Paolo. Proprio coloro
che si muovono in questa direzione contribuiscono a gettare defi-
" Cbrishu 1111d di, Cisarm, Berlino 18791 • Come indica il sottotitolo: Dn- Ur-
spr,,,,gdls Cbris11111tm11 rii111is,bm
t11U dl111 Gru,hmhllll, egli vuole dimostrare che il pcn-
licro greco, succcsaivamcntc evolutosi in ambito romano, è una delle scaturigini
del Cristianesimo •
Parigi 1926, L'autore considera la religione
.. Lii Lilllrt1hlr1 tbrllimnl pri111ili111,
primitiva cristiana come il culmine dell'evoluzione spirituale dell'antichità.
• Cfr. E. HAVET,op.,il., II, p. 291: « il n'y a pas dc pbilosophic chréticnnc, et
le christianismc n'a fait qu'héritcr dc la pbilosopbic dc l'antiquité: ccux qui ont fait
violcnce aux textcs ou à la cbronologic a6n dc rapportcr Ics idécs dc Sénèquc aux
aourca c:bmicnncl ont pris une pcinc bicn inutile ».
" Cfr., oltre, p. 33.
-31-
ruttvamente luce sulla questione del rapporto Stoicismo - Cri-
stianesimo, ponendola nei suoi giusti termini. Tra i primi che,
reagendo alla critica dell'800, sottolineano la diversità dei punti
di vista tra Paolo e Seneca si distingue C. Aubertin, 71 che, proprio
quando la leggenda gode di numerosi e autorevoli consensi,
sferra un decisivo attacco, confutando punto per punto le affer-
mazioni del Fleury e dimostrando come in realtà negli scritti di
Seneca non vi sia alcun influsso cristiano.71 Sulle stesse posi-
zioni di C. Aubertin sono i lavori di C. Martha,71 F. C. Baur,7"'
G. B. Lightfoot, 76 cui fanno seguito nel '900 i lavori di K. Deis-
sner,78H. Greeven,77 Th. Schreiner,78 P. Benoit,711ed altri. L'opera
più completa di questo filone della critica è senz'altro quella del
Sevenster,80 che riporta sistematicamente tutti i passi di Paolo
e Seneca che possono prestarsi ad un raffronto. Dal lavoro del
Scvenster risulta chiaramente che proprio i passi apparentemente
più vicini, se visti nei loro rispettivi contesti, rivelano punti di
partenza del tutto antitetici cd escludono ogni influsso diretto
tra l'apostolo cd il filosofo. Infatti se talora I'h11111anitas
di Seneca
sembra avvicinarsi alla taritas cristiana, ciò è dovuto al fatto che
sia Paolo che Seneca tentano, anche se per vie diverse, di dare
una risposta alle medesime esigenze spirituali del loro tempo.
u Op. til.
" La tradizione ha però radici molto profonde, e l'attacco mosso da C. Aubertin
non vale a sradicarla: alla fine dell'800, J. Kreyher (L. .Almanu SIINtll 1111d niM B1-
z.ub1111gm z.11111
Ur,brirtmhDII,Berlino 1887, p. 159 sgg.) ritiene che Seneca abbia
conosciuto Paolo e che sia esistita realmente una corrispondenza tra i due, che sa-
rebbe poi andata perduta, di cui il carteggio in nostro possesso non sarebbe altro
che un tardo rifacimento (per una confutazione di questa ipotesi, cfr. p. 152 e 186).
,. us 111or-tlli1l11 SO#Il'E111pir,ro111f1Ìn, Parigi 1872'.
,. Smttll 1111d Ptltd#I, dm V1rhti/1ni1tkr S1oiz.is111#1 z.- CbrislmhDlllllltb tÙ1I Stbri/-
lm Smttll't, « Hilgenfeld's Zeitschrift fttr wisscnschaftl. Thcologie », Jena, 1858,
p. 161 sgg.; 441 sgg.; cfr. anche Ptltd#I, Stoccarda 1845.
,. SI. Ptltd tllld Sm1u, in SI. Ptltd's Episl/, lo 1b, PbilippilllU,Londra 1891, pp. 270-
333.
,. Ptltd 1111d SIMtll, « Beitrige fur Forderung christlicher Thcologie, 21, 1917,
2, p. 81 sgg.
" Dllt Hllltplprobl,111 Sloll 1111d
tkr Soz_itzktbil,ili 1111111'111 ;,,, Ur,brislmhDII,Neutesta-
mentliche Forschungcn, m, 4, GUtershol 1935.
78 Sm1tll ;,,, G1gmtlllt, t" Pllllltu, Tubinga 1936.
-32-
Se alcuni passi di S. Paolo rivelano contatti con lo Stoicismo,
ciò non è da attribuire ad una presunta influenza diretta di Se-
neca, ma è dovuto al substrato tradwonale ellenico proprio del-
1'ambiente in cui Paolo è vissuto, e al fatto che l'apostolo ha
improntato naturalmente le sue forme di espressione alla lingua
filosofica del tempo in cui si è formato. Infatti, benché il cardine
dell'educazione di S. Paolo rimanga l'elemento giudaico, già il
Pohlenz metteva in rilievo l'importanza e il ruolo della cultura
classica nella formazione dell'apostolo.81 Ora, anche alla luce degli
studi del Sevenster, mi pare si possa affermare che S. Paolo si
avvale di quegli elementi stoici che sono entrati ormai come
-r61toL nella tradwone e che hanno perduto la loro carica ideolo-
gica.81 È naturale che l'apostolo delle genti. attinga a questo
substrato tradwonale classico, per rivolgersi ai suoi contempo-
ranei di cultura greca; è naturale che, per essere compreso dai
suoi uditori, o dai lettori dei suoi scritti, usi un linguaggio ad
essi familiare, e adoperi concetti e metafore note all'orecchio dei
gentili. Tanto più che l'apostolo stesso dice espressamente di
sforzarsi sempre di adattarsi il più possibile alla mentalità degli
individui a cui si rivolge, per guadagnarne il maggior numero
alla causa del Cristianesimo (I Cor. 9, 22): omnibusomniaJactus
mm, 111omnesJaceremsalvos. 88 Può sembrare superfluo, al giomo
-33-
risalire ad una « conoscenza diretta della predicazione paolina ».81
Ma se Paolo e Seneca usano le stesse metafore, ciò non è dovuto
a pretesi influssi diretti che il filosofo e l'apostolo avrebbero
avuto l'uno sull'altro, ma è dovuto ad un fenomeno di « osmosi »
ambientale, dal momento che Paolo e Seneca vivono nello stesso
clima spirituale ed attingono ad un patrimonio culturale comune.
- .34 -
m
L'UNITA DEL CARTEGGIO E LA CRITICA MODERNA
pp. S-23.
-35-
spondenza di Simmaco: poiché le prime lettere di Simmaco sono
del 364 (o del 365) e le ultime del 402, questo concorderebbe
sostanzialmente con i termini cronologici (324-392) fissati in
base alla testimonianza di Lattanzio e di Girolamo.1 Ma un
tale raffronto ha un valore relativo ai fini della cronologia, poiché
gli esempi citati dal Liénard come prova che i due epistolari sono
contemporanei, sono in realtà dei T61to1. epistolari molto banali
che Simmaco e il nostro autore possono aver attinto separata-
mente dal vario repertorio di espressioni topiche della tradizione
epistolare classica. Il Liénard inoltre avanza l'ipotesi che chi ha
scritto l'epistolario di Paolo e Seneca sia anche l'autore della cor-
rispondenza apocrifa tra Alessandro e Dindimo, re dei Bragmani,
risalente anch'essa al IV secolo.1 Ma questa ipotesi non regge,
poiché il carteggio di Alessandro e Dindimo ha un carattere
molto diverso dal nostro: è ricco di digressioni e di disquisizioni
filosofiche, mentre le lettere di Paolo e Seneca hanno un conte-
nuto assai banale: si riducono, per la maggior parte, solo ad uno
scambio di lodi e frasi di convenienza. L'ipotesi del Liénard si
basa tutta su un epigramma di dedica, che in alcuni mss. precede
la corrispondenza di Paolo e Seneca e la Co/JatioA/exandri et
Di11dimi,e che associa i due apocrifi sotto l'unico nome di Al-
bino.' Ma, come si è già visto, è ormai appurato che l'Albino
menzionato nell'epigramma non è l'autore dei due scritti, come
pretenderebbe il Liénard, bensl è da identificare con Alcuino. che
dedica a Carlo Magno una edizione da lui curata delle due opere
apocrife.1 Anche il Momigliano considera l'epistolario un tutto
unico, con la sola eccezione delle date, che, a suo avviso, sono
un'aggiunta di poco posteriore al resto della corrispondenza.• Il
Barlow concorda con la maggior parte dei critici moderni nel
far risalire il nostro epistolario al IV secolo. Egli pensa che le
quattordici lettere costituiscano un'esercitazione scolastica e pro-
spetta la possibilità che si tratti di un lavoro di più mani, forse
di due o tre scolari della medesima scuola di retorica.7 L'ipotesi
-36-
del Barlow rappresenta un tentativo di conciliare la tendenza
unitaria con quella separatista che· distingue nella corrispondenza
nuclei di autori diversi. Il primo che mette in dubbio che l'epi-
stolario a noi pervenuto sia un tutto unico e che avanza l'ipo-
tesi che esso derivi dalla fusione di scritti di secoli diversi, è E.
Westerburg,8 che distingue un nucleo più antico, comprendente
le lettere X, XI e XII, che risalirebbe al IV secolo, ed un nucleo
più recente, comprendente tutte le altre epistole, che sarebbe po-
steriore al VI secolo. Il primo gruppo di lettere sarebbe il re-
siduo di un'antica corrispondenza, a cui farebbe riferimento Gi-
rolamo nel De viris i/Jtatribta. Il nucleo più recente risalirebbe
invece al tempo di Carlo Magno.• Ma questa ipotesi è contrad-
detta dal fatto che la tradizione manoscritta della corrispondenza
risale almeno fino al VI secolo.10 Il Westerburg enumera poi al-
cune differenze di forma e di contenuto che, a suo giudizio, di-
stinguerebbero un gruppo dall'altro: cercheremo ora di dimo-
strare che non tutti gli elementi di differenziazione rilevati dal
Westerburg sono probanti. Egli sostiene che il gruppo più an-
tico (Epist. X, XI e XII) si distingue, in quanto datato esatta-
mente, dal gruppo più recente comprendente tutte le altre epi-
stole che in massima parte non sono datate, eccetto la XIII e la
• Op. di.
• Per collocare questo secondo gruppo cli lettere nel IX secolo, il Westcrburg
si basa au un paaao della IX epistola, in cui il falsario immagina che Seneca invii a
Paolo un manuale cli retorica per aiutarlo a migliorare lo stile e la forma dei suoi
ec:ritti: Misi libi /i/mm, d, nrbonm, t0pia.Tra le opere autentiche cli Seneca non esiste
ncasuno scritto con questo titolo. Allora il Wcsterburg (e non è il solo) pensa che
il libro citato dal falsario sia da identificarsi con un'opera falsamente attribuita a Se-
neca, più nota con il titolo D, 11,rb,,,._ ,opia. Noi sappiamo chi è l'autore cli questa
opera: si tratta di Martino Dumiense, vescovo cli Braga (morto nel 580). Perciò
- sostiene il Wcstcrburg - il gruppo di lettere del nostro epistolario in cui è menzio-
nata l'opera cli Martino, deve essere posteriore al VI secolo. Siccome poi proprio
nei secoli VI-Vlll, la leggenda del cristianesimo cli Seneca subisce una stasi, il We-
atcrburg suppone che la seconda falsificazione sia stata composta al tempo cli Carlo
Magno, quando la leggenda riprende nuovo vigore. Ma l'identificazione del D,
HriHmmtt0pia, citato nell'epistola IX della nostra corrispondenza, con lo scritto cli
Martino Dumicnsc, è da rifiutare, poiché l'opera del vescovo cli Braga è cli contenuto
morale, mentre la lettera IX del nostro epistolario allude inequivocabilmente ad un
manuale cli retorica. In realtà, contrariamente a quanto pensa il Wcsterburg, è pro-
prio l'opera cli Martino Dumiensc che ha assunto il titolo D, Hrbonm, ,opia per in-
flusso del nostro epistolario. Qui si è voluto solo accennare per sommi capi alla com-
plessa questione del D, 11,rbonm, ,opia: per una trattazione più ampia e dettagliata
sull'argomento, cfr. oltre, p. 152.
11 ar. Cl. w. BAllLOW, op. ,il., p. 35.
-37-
XIV che, a suo avviso, porterebbero però una data falsa. Nei
manoscritti troviamo l'indicazione Leone el Sabino çonm/ibm: i
nomi dei due consoli sarebbero, secondo il Westerburg, frutto
della fantasia del secondo falsario, autore di questo preteso gruppo
più recente di epistole. Ma ciò non risponde a verità. Infatti,
come più tardi ha dimostrato Felice Ramorino, 11 le date delle
lettere XIII e XIV sono formalmente corrette. Nel nostro testo,
la lezione Leone, che si trova nella maggior parte dei codici,11
è da emendare col Ramorino in Lllrçone. L'esistenza dei consoli
citati nell'epistola XIII e XIV è storicamente accertata: si tratta
di A. Petronim Lur,o e A. Pa,onim Sabinm consoli suffetti del-
l'anno 58, come provano alcune tavole cerate di Pompei (CTL
IV, 3340, N. 142 e 150). La lettera XIII porta dunque la data del
6 luglio 58 e la XIV quella del 1 agosto dello stesso anno. Il
Momigliano osserva che, allo stato attuale delle conoscenze, è
difficile immaginare che dopo il IV secolo qualcuno sia ancora
capace di utilizzare i consoli suffetti per datare le lettere. Infatti
l'ultimo documento in cui è attestata la datazione per consoli
suffetti è una iscrizione di Cuma del ID secolo.a Quindi non solo
la datazione delle lettere XID e XIV non è falsa, come pensava
il Westerburg, ma una simile forma di datazione non è neppure
pensabile dopo il IV secolo. Da questa considerazione del Mo-
migliano si può dedurre che, se le date sono state aggiunte, come
pare probabile, in un secondo momento da una persona diversa
da chi ha scritto il resto dell'epistolario, bisogna presupporre che
ciò non sia avvenuto a molta distanza di tempo dalla composi-
zione della corrispondenza. Il Westerburg sostiene poi che un
altro elemento di differenziazione tra i due gruppi di epistole è
-38-
dato dalla forma del linguaggio che nelle tre lettere del gruppo
più antico (X, XI e XII) sarebbe più corretta che in quelle del
gruppo più recente.
Ora, questa discriminazione è del tutto arbitraria, come di-
mostra l'analisi linguistica che mette in luce una omogeneità di
fondo delle lettere, e consente di collocarle tutte nel IV secolo;
in ogni caso, porta ad escludere che l'epistolario a noi pervenuto
derivi dalla giustapposizione di parti di epoche diverse. Ora, se
da un lato è legittimo far giustizia di molte affermazioni arbi-
trarie, su cui è costruita la macchinosa e complessa ipotesi del
Westerburg, non si può però disconoscergli il merito di aver
messo in luce per la prima volta certe contraddizioni presenti
nell'epistolario: in particolare, il Westerburg osserva che, mentre
nel gruppo più antico di lettere (X, XI e XII) Seneca si mostra
invelenito contro Nerone, il persecutore implacabile dei Cristiani,
il responsabile dell'incendio di Roma destinato al fuoco dell'in-
femo,14 nelle altre lettere invece, Nerone appare ben disposto
verso Seneca e verso i Cristiani, tanto che manifesta la sua ammi-
razione per gli scritti di Paolo. Secondo il Westerburg, 16 questa
interpretazione di Nerone ben disposto verso il Cristianesimo
deriverebbe dagli Atti apocrifi, in cui Paolo appare amico di
Nerone e della sua concubina, che nel nostro testo sarebbe
adombrata nella seconda moglie di Nerone, Poppea Sabina,
menzionata nelle epistole V e VIII. 18 Invece la presentazione di
Nerone come responsabile dell'incendio di Roma e ingiusto
persecutore dei Cristiani, quale si trova nella Xl epistola, dove
è fatto oggetto di una feroce invettiva da parte di Seneca, deri-
verebbe da una fonte diversa, che appare conforme peraltro alla
interpretazione tradizionale cristiana, per cui Nerone è visto
essenzialmente come il persecutore implacabile dei Cristiani, l'in-
carnazione stessa del male, la manifestazione dell'Anticristo, con
H Op. ,il .• p. 20: Wie grimmig ist Senecas HassI Wie labt er sich an der Hof-
fnung, dass Nero filr seine Schandthaten im Fegfeuer braten werde I Man solite
meinc:n. zwischen Nero und dem Christentum konne keine Brocke mehr geschlagen
werden. und doch fordert Paulus. als wenn nichts geschehen wiire, im letzten (XIV)
Briefe den Seneca auf, eben diesen Nero zu bekehren ». In realtà questa interpreta-
zione di Nerone si trova solo nella XI epistola: Grassalor isl, IJIIÌlf/llÌs 111. ffli r,olllJ>lu
,,la,nmltml, 1,111porilflO d,1/Ìlla/111 111, 11 [ •••] d,r,olllJ pro 0111ni-
""11iftçilla11111 111nuh,i11111
lnu ig,,i n-1111a/Jihlr.
11 Op. di., pp. 22-36.
-39-
cui spesso è identificato.17 Questa diversa interpretazione di
Nerone è l'unico elemento di differenziazione, tra quelli rilevati
dal Westerburg, che regga ad un esame obbiettivo del testo. Va
detto però che, in ogni caso, questo argomento non autorizza
a separare le lettere X, XI e XII da tutte le altre, ma porta solo a
concludere che la XI epistola - e questa sola - si differenzia da
tutte le altre lettere del nostro epistolario. Fermiamoci per ora
a questa prima constatazione, cui siamo pervenuti, per accennare
all'ipotesi di A. Kurfess, che distingue nella corrispondenza vari
nuclei in modo però del tutto diverso dal Westerburg: il Kurfess
è incline a datare le lettere 1-Xll nel II-ID secolo, le lettere XIIl
e XIV nel IV.18 Si .può muovere al Kurfess questa obbiezione
fondamentale: se parte della corrispondenza risalisse veramente
sino al Il secolo, è inspiegabile come mai nessuna fonte la men-
zioni prima del IV. Infatti il primo a citare l'epistolario è Giro-
lamo nel 392. Prima di lui nessun autore né cristiano, né pagano,
fa il minimo accenno all'epistolario tra Paolo e Seneca, né ad
alcuna parte di esso. Inoltre, dal punto di vista linguistico, non
vi sono ragioni per attribuire le lettere I-XII a un secolo diverso
da quello della xm e XIV, che il Kurfess giustamente riconosce
doversi collocare nel IV secolo. Il Kurfess pensa che queste due
epistole siano state aggiunte da una mano diversa. Ritiene fra
un lungo arco di tempo: Z11Pmuh-PmJ111ad Sm,,11111 ,p. XIV,« ZNTW », 35, 1936,
p. 307; Z11111 apol:rypbm Bri,j1111,bs,J s,,,,,a llnd PmJ111,« ThGI », 29, 1937,
z.111i1,bm
pp. 317-322; D,r Braflll Ro1111 ;,,, Jabr,64 N. Cbr., « Mncmo-
,md Cbrislem,,rfo/gllng
sync », 6, 1938, pp. 261-272; Z11111 aporrypbenBri,f111etbsel z.111is,bm
Sm,,a und P"""'1,
« ThQ », 119, 1938, pp. 318-331; Zu PS-S,111,111 ad Pau/11111Ep. IJ, « Mncmosync »,
7, 1939, p. 240; Z11111 apol:rypbmBri,f111etb1elz.111i1,bmSm,ea ,md PmJ111,« ZRGG »,
2, 1949-1950, pp. 67-70; Z11 d,111apol:rypbenBri,j1111,b11/ z.111is,bmJ,,,, Pbilosopl,a
Sm,,a ,md d,,,, Apo111/PmJ111,« Acvum », 26, 1952, pp. 42-48; cfr. anche D,r apo-
luypbeBri,j1111,b11/ z.w,bm Sm,,a ,md Pmdtu, presso E. HENNEcx.E, N1111111a,,,m1/klR
Apol:rypbm, II, Tubinga 1964, pp. 84-89. Il Kurfcss pretende di collocare le lettere
I-XII intorno al 200, in base ad un generico raffronto con la letteratura apocrifa
del m secolo (cfr. ari. ,il., » ThQ », 119, 1938, p. 330). Il Kurfcsa non fa confronti
precisi, non porta alcuna prova che convalidi questa sua ipotesi. Per quanto riguarda
la XI epistola, egli è incline a collocarla nel II secolo, perché crede di poter indivi-
duare degli clementi di contatto con la letteratura apocrifa giudaica del II secolo
(per una confutazione più dettagliata degli argomenti del Kurfcsa, cfr. oltre, p. 169).
-40-
l'altro anche che queste mancassero nella raccolta nota a Giro-
lamo e menzionata nel 392 nel De viris i/Ju.rtribus,a arguendolo
dal fatto che Girolamo parafrasa un passo dell'epistola XII
(optarese didt eius esse/od apllliSIIOS t11iussii Pa11/usapllliChristia-
nos),• mentre, a suo avviso, non avrebbe taciuto della XIV,
l'unica in cui si auspica un'attività missionaria di Seneca, se
questa epistola avesse fatto parte della raccolta a sua disposi-
zione. Deduzione arbitraria, come tutti gli argomenti ex silentio,
ma più ancora poiché la XIV lettera è più significativa della XI,
non per Girolamo, ma per gli studiosi moderni, affascinati dal-
l'idea di un Seneca cristiano. Il Kurfess incorre qui in un errore
di prospettiva storica, proiettando su Girolamo un punto di
vista modemo. 11 Girolamo, infatti, nel De viris illustribusnon
vuole dimostrare che Seneca è stato convertito da Paolo al Cri-
stianesimo, (posizione arrischiata che Girolamo non si è mai
sognato di far sua). A Girolamo interessa dimostrare che anche
uno scrittore come Seneca, depositario della tradizione classica,
aveva saputo apprezzare gli scritti di S. Paolo verso cui molti
letterati contemporanei di Girolamo ostentavano disprezzo.
Quindi per avvalorare la sua tesi era particolarmente significa-
tivo il passo della XII, che contiene una espressione di stima di
Seneca nei confronti dell'apostolo: nam q11imeus IIIIIS apud le
UJtllS,q11iIIIIIS velim11/ meus.11 In ogni caso, il fatto che Girolamo
parafrasi questo passo della XII epistola, non può dimostrare
di per sé che alla raccolta in suo possesso mancasse la XIV né
tanto meno la XIII. Del resto poi è molto improbabile che la
XIII epistola sia interpolata poiché è coerente per forma e conte-
nuto al tema dominante di tutta la corrispondenza, in cui, da un
lato, si propugna una educazione retorico-stilistica dei Cristiani
e dall'altro si raccomanda comunque ai letterati pagani la let-
tura delle epistole paoline (si vedano in particolare i raffronti
interni con l'epistola VII, che a mio avviso non lasciano dubbi
-41-
sulla appartenenza della X1Il al gruppo originale).• Rimane il
fatto che le epistole X1Il e XN mancano di alcuni codici (P
e X; in C manca solo la XN), il che sembrerebbe avvalorare
l'ipotesi del Kurfess." Ma la mancama delle due::ultime lettere
in P e X si spiega con la loro posizione finale che ne ha indub-
biamente favorito la perdita e non è sufficiente a provare di per
sé che siano interpolate. Per quanto riguarda la XIV, non si può
negare che questa presenti una maggiore complessità rispetto
alle altre: il falsario si avvale qui di una terminologia retorico-
teologica, l'epistola sfiora problemi teologici: si accenna alla
concezione emanatistica del Verbo (di ispirazione neoplatonica?) :
verb11m stabileDei, derivamentum tres,entiset manenlisin a1tern11m.I
chiari echi biblici (I Petr. 1, 23; 1, 25; A,t. 6, 7; 12, 24; 19, 20;
I ]oh. 2, 14; Itala, I Cor. 15, 42; etc.), il richiamo esplicito alla
immagine paolina dell' « uomo vecchio » contrapposto ali'« uomo
nuovo », presuppongono una certa conoscenza delle Sacre Scrit-
ture. Questa è anche l'unica epistola in cui si auspica un'attività
missionaria di Seneca: alla considerazione che Seneca ha quasi
raggiunto la inreprehensibilis sophia si accompagna l'esortazione
a « farsi testimone di Gesù Cristo alla corte di Nerone»; ma ad
una con~iderazione meno superficiale queste differenze tra la
XN e tutte le altre non sono di per sé determinanti. Solo qui si
auspica un'attività missionaria di Seneca, proprio perché si
tratta dell'ultima epistola di Paolo. L'esortazione a farsi testi-
mone di Gesù Cristo che sarebbe del tutto inopportuna e intem-
pestiva nelle prime lettere, cade invece a proposito nell'ultima
lettera di Paolo, quando - nell'intenzione del falsario - lo scam-
bio epistolare ha già cementato l'amicizia con Seneca, ha favorito
la confidenza fra i due amici, ha permesso in certo modo a Paolo
di saggiare il terreno, prima di gettare il seme dell'apostolato
(Certusigilllregoin agroiamfertili semenfortissim11m sero). La bene-
vola disposizione di Nerone (rex temporalis),quale si presuppone
qui, è coerente con il nucleo originario del carteggio (cfr. in parti-
colare, le epistole II, VII e VIII). La considerazione dell'abilità
retorica di Seneca (praetoniisostendendorhetoricisinreprehensibilem
11 Cfr. oltre, p. 184.
" Cfr. anche L. Moli.AI.DI,Apotrift tul NIIOH T11la111mlo,Torino 1971,Il, p.1731:
« come ipotesi pita probabile, riteniamo che le prime 12 lettere siano state scritte
nel ill-lV secolo e che ad esse siano state aggiunte posteriormente le ultime due»;
cfr. anche i dubbi cautamente espressi dal Barlow (op. di., p. 87 sgg.).
-42-
sopbiam)è coerente con tutto il resto della corrisponderu:a in cui
è presentato come maestro di stile. Dunque, in mancaru:adi prove
valide che dimostrino che la XIII e la XIV siano state aggiunte
da un'altra mano, almeno allo stato attuale delle nostre cono-
sceru:e, bisogna considerarle come facenti parte del nucleo origi-
nario. Non vi sono infatti ragioni valide per dubitare che le let-
tere dell'epistolario risalgano tutte al IV secolo e non siano state
scritte dalla medesima persona, ad eccezione della XI epistola,
in cui vi sono delle evidenti contraddizioni con tutto il resto
dell'epistolario. In questa epistola si nota infatti un atteggiamento
radicalmente diverso oltre che nei confronti di Nerone - come già
aveva notato il Westerburg - anche nei riguardi dei Giudei. In-
fatti mentre tutto il resto dell'epistolario è pervaso di polemica
antigiudaica; 96 nella XI lettera i Giudei sono affratellati ai Cri-
stiani e sono considerati come vittime innocenti dello spietato
Nerone: Christianiet lllliaeiquasi machinatores incendii- prof - sup-
plicio adfectifieri soleni;rispetto a tutte le altre epistole, nella XI
si ha cioè un completo rovesciamento della situazione ed un
cambiamento radicale dell'atteggiamento di chi scrive, che di-
venta decisamente ostile a Nerone - il quale è considerato be-
nevolmente nelle altre lettere della corrisponderu:a - ed è favo-
revole ai Giudei, che, in tutto il resto dell'epistolario, sono con-
siderati con ostilità in quanto nemici di Paolo. Per quanto ri-
guarda Nerone, il mutamento è cosl brusco e radicale che appare
difficile giustificarlo solo con la spiegazione che il falsario vuole
descrivere la degenerazione della personalità di Nerone da so-
vrano illuminato a tiranno e persecutore implacabile.28 Ma anche
ammettendo che per Nerone valga una simile giustificazione,
come si spiega il mutato atteggiamento nei confronti dei Giudei?
A mio avviso l'unica spiegazione plausibile è che questa lettera
sia stata aggiunta da una mano diversa,87 probabilmente con l'in-
11 Nella XIV epistola i Giudei sono avvicinati ai Pagani: Paolo esorta Seneca a
non partecipare ai riti né degli uni n~ degli altri: Ethni&onm,/Jrah1/ilarti111tJIII
ob11rPa-
lKHll1,ms1r1,ilanllas.Nella V e nell VIII epistola si parla dell'ostilità di Poppca adepta
del Giudaismo a causa della conversione di Paolo al Cristianesimo.
" Visione conforme peraltro alla tradizione storiografica, che distingue il
principato di Nerone in due periodi: il primo in cui governa rettamente sotto la
guida illuminata di Seneca, il secondo, in cui diviene un tiranno spietato, dando
libero sfogo ai suoi istinti perversi.
17 L'ipotesi che la XI lettera sia di un'altra mano è affacciata « cn passant •
-43-
tento di ridimensionare la figura di Nerone - di cui nelle altre
lettere il falsario dà un'interpretazione particolarmente benevola -
per adeguarla alla tradizione più diffusa presso gli scrittori eccle-
siastici che vedono in lui il persecutore dei Cristiani e l'incarna-
zione stessa dell'Anticristo. In questa lettera poi - in cui è espressa
per bocca di Seneca un'aperta condanna dell'operato di Nerone -
traspare anche l'intento di scagionare il filosofo dal sospetto di
complicità nei delitti perpetrati dal suo discepolo in occasione
dell'incendio di Roma.18 Inoltre, anche la posizione di questa
epistola nella tradizione manoscritta lascia piuttosto perplessi
e basterebbe di per sé a suscitare il sospetto di interpolazione. In-
fatti nei codici questa epistola si trova tra la X e la XII, che trat-
tano ambedue della questione del prescritto,• · è inserita cioè
inspiegabilmente tra due lettere di cui interrompe bruscamente il
filo logico.80 A questa difficoltà hanno creduto di ovviare gli edi-
tori precedenti al Barlow,81 facendo semplicemente scalare di
un posto l'epistola dell'incendio, cosicché essa risulta XII,•
ma anche in questo modo viene a mancare una continuità logica
con le lettere successive. Infatti dopo la feroce invettiva contro
Nerone, identificato con l'Anticristo, Seneca, subito dopo, nella
XID, come se nulla fosse, esorta Paolo a dedicare maggiore
attenzione alla forma e allo stile (I) e nella XIV l'apostolo invita
Seneca a diffondere la religione cristiana presso l'imperatore (rex
lemp_ora/is) e la sua corte.
È indubbio che l'epistola dell'incendio, ovunque la si collochi,
è fuori posto, e l'unica spiegazione plausibile è che sia stata ag-
giunta alle altre lettere della corrispondenza in un secondo mo-
mento, da una mano diversa. L'epistola non può essere stata ag-
u Si potrebbe qui affacciare l'ipotesi che la XI lettera sia stata aggiunta dal me-
desimo autore delle altre epistole, che una volta venuto in posscsso di altre notizie
storiche relative al tempo di Nerone, abbia pensato, in un secondo momento, di uti-
lizzarle per accreditare il suo falso. In tal caso la diversa interpretazione di Nerone
sarebbe dovuta all'inflll880 della fonte storica utilizzata. Ma questa ipotesi mi sembra
meno attendibile, perché è improbabile che il falsario sia cosi sprovveduto, che at-
tingendo a fonti diverse, non si accorga della loro evidente contraddizione.
11 La XII di Seneca è la risposta alla X di Paolo sulla questione sollevata dal-
l'apostolo della opportunità o meno che il suo nome figuri nel prescritto accanto
a quello del filosofo.
11 In un codice (L) compare due volte.
81 Eccetto Erasmo.
n In uno solo dei codici a noi noti essa occupa questa posizione ~).
-44-
giunta però dopo molto tempo, poiché è datata come le ultime
lettere, e, come ha rilevato il Momigliano, la datazione per con-
soli suffetti non è pensabile dopo il IV secolo.• Inoltre anche
all'analisi linguistica non emergono elementi che facciano pen-
sare ad una età diversa da quella del resto dell'epistolario. Si noti
poi che la lettera è datata 28 marzo 64: Data V Kal. Apr. Fr11gi
et Basso,on111/ib11s(= C. Licinio Crasso Frugi e C. Lecanio Basso),
cioè cronologicamente è l'ultima della raccolta, anche se nei
codici non occupa l'ultimo posto. Le lettere nella tradizione ma-
noscritta non si succedono infatti secondo l'ordine cronologico
prefigurato dalla datazione. Le epistole X-XIV sono cosi datate:
27-6-58 (X); 28-3-64 (XI); 23-3-59 (XII); 6-7-58 (XIIl); 1-8-58
(XIV). Si noti in particolare che la XII, che contiene la risposta
alla X del 27-6-58, sulla questione del prescritto, porta l'assurda
data del 23-3-59, assurda non tanto per il ritardo con cui si pre-
suppone che Seneca risponda a Paolo, quanto piuttosto perché le
epistole Xlli e XIV, che portano la data del luglio e agosto 58,
si inseriscono senza alcun filo logico tra la X e la XII. Tutti gli
studiosi si dichiarano perplessi di fronte a questo disaccordo tra
l'ordine logico e l'ordine cronologico, per cui l'unica spiegazione
plausibile è che le date siano state aggiunte da un'altra mano,
come suppone il Momigliano.
Si può anche andare oltre ed integrare questa ipotesi con le
conclusioni a cui siamo pervenuti esaminando il testo dell'episto-
lario e cioè che bisogna considerare interpolata, oltre le date, tutta
la Xl epistola a causa delle sue evidenti contraddizioni con il
resto della corrispondenza. A mio avviso, l'autore della XI epi-
stola sull'incendio di Roma, è lo stesso che aggiunge le date:
molto probabilmente questo secondo falsario aveva a disposi-
zione una fonte storica, oggi perduta, sulla Roma neroniana, a
cui ha attinto sia i particolari dell'incendio, sia i nomi dei consoli
di quegli anni (cfr. oltre, p. 173). Il fatto che la datazione con-
trasti con l'ordine logico si può giustificare pensando che questo
secondo falsario trovi già le lettere in ordine sbagliato. Infatti
mentre è inammissibile che uno stesso autore abbia datato le let-
tere in maniera cosi assurda (e tutti sono concordi nell'ammet-
• Ari. di., p. 333. Va precisato che la XI non ~ datata con i consoli suffetti,
ma lo sono la XIII e la XIV. Tuttavia l'argomento vale anche per la XI, se le date
riaalgono tutte alla stessa mano (e di questo mi pare non vi aia ragione di dubitare).
- 4.5 -
tere la difficoltà), la svista è perdonabile per un secondo falsario
che trova già le lettere in ordine sbagliato. Dunque molto pro-
babilmente la datazione attuale dell'epistolario non rispecchia
l'ordine originario in cui le epistole furono concepite, ma ri-
flette l'ordine (e meglio il disordine) in cui esse si trovavano
quando il secondo falsario ha aggiunto l'epistola sull'incendio
e le date: 84
"Soltanto le epistole X-XIV sono datate: se ne deve arguire dunque che questo
secondo falsario aveva a disposizione solo le epistole X, XII, XIII, e XIV? Cfr.
anche l'ipotesi del Momigliano (ari. til., p. 331): « Non sono riuscito a trovare una
spiegazione interamente soddisfacente per il fatto curioso che solo le lettere dicci-
quattordici sono datate, ma sospetto che il compilatore volesse mettere in chiaro
che mentre la lettera 11 (12) appartiene al 64, la lettera precedente e le seguenti ri-
salgono al 58 e 59: da questo punto di vista le lettere 1-9 potevano rimanere senza
data, se dovevano essere considerate anteriori alla lettera 10. [...] Supposto che tutte
le lettere fossero in origine senza data, si comprende che qualcuno sentisse il bi-
sogno di datare le lettere 10-14 che importavano per la retta comprensione della bio-
grafia di S. Paolo ».
16 Si noti che l'ordine prefigurato dalle date prevede che ad ogni lettera di Se-
neca segua una di Paolo e viceversa (ad eccezione dell'ultima). Se ciò non è casuale.
si può pensare che le ultime epistole, di cui era andato perduto per qualche ragione
l'ordine originario, siano state ordinate alla meglio badando solo che ad una lettera
di Seneca, seguisse una di Paolo. In quest'ordine approssimativo sarebbero poi capi-
tate nelle mani del 1CCOndofalsario, che, secondo la nostra ipotesi, aggiunge le date
e la lettera sull'incendio.
-46-
terpolata, si può pensare che originariamente anche queste ultime
epistole si alternassero regolarmente come le prime: X (di Paolo),
XII (di Seneca), XIV (di Paolo), XIlI (di Seneca).11
-47-
IV
SULLE CARATTERISTICHE E GLI SCOPI
DEL CARTEGGIO APOCRIFO
i Op. ,;1.
-49 -
4
ideologiche. Manca a questa corripondenza una vera problema-
tica filosofico-religiosa. Si tratta invece di un libello propagandi-
stico con cui si raccomanda, anche ai cultori dello stile e della
forma, la lettura dei testi biblici, in particolare delle lettere di
S. Paolo, anche se queste - a giudizio del falsario - non rispon-
dono pienamente ai modelli formali e stilistici più raffinati. Si
auspica perciò una educazione retorico-stilistica dei Cristiani. Il
falsario è influenzato, più o meno consapevolmente, dalle vivaci,
talora aspre polemiche agitate negli ambienti pagani, tutori di
una cultura che appariva minacciata dall'incalzare delle istanze
cristiane, una cultura impegnata allora più che mai a djfendere i
valori formali della tradizione classica, di contro alla forza inno-
vatrice cristiana, percepita, dalla parte conservatrice della intel-
ligentia del tempo, come sovvertimento di valori universali e
assoluti di equilibrio e di armonia elaborati nel corso dei secoli
dal genio greco e romano.• La Nuova Sofistica, che proprio nel
IV secolo conosce il suo massimo splendore, rappresenta una
reazione alla rivoluzione cristiana ormai vittoriosa e operante
nella vita spirituale, un ultimo tentativo di affermare e di restau-
rare i valori formali del mondo classico. Negli ambienti cristiani
colti, d'altro canto, si manifestava parallelamente una spiccata
tendenza ad adeguarsi sempre di più ai modelli classicie alle norme
retoriche, cioè ad appropriarsi progressivamente di quei mezzi
stilistici la cui padronanza avrebbe permesso agli scrittori cri-
stiani di raggiungere una condizione di parità rispetto ai lette-
rati pagani. E questo è quello che auspica anche il nostro autore.
L'epistolario infatti è prima di tutto un frutto del suo tempo, di
cui rispecchia tendenze, contrasti, polemiche. Solo tenendo
conto di questo, solo inserendo la corrispondenza in questa
visione concreta si possono collocare nella giusta prospettiva i
problemi che essa presenta. Bisogna cioè spogliare l'epistolario
di tutte le sovrastrutture ideologiche da cui è stato svisato nel
corso dei secoli e occorre ridimensionare criticamente il suo signi-
1 Per i Pagani le Sacre Scritture erano una continua minaccia al rispetto dovuto
alla tradizione, al 111or111aÌor#III,per cui pensavano che il senato dovesse ordinare la
loro distruzione; cfr. Amob. Nal. 3, 7: S,d tpdd tllmlpia p,rbor,m,1p/mdor,111(JI# m-
lllOflUp,ti ab ho, dkam, """ 1,iatn 1111 non ptnuor, t.JNi a,rm,hlr 1I Jugianl /ibror di bot
lilu "" in "''""' Hlinl ad111ilhrl/,rlion,111opi1U011N111
lfllJ1'IIIII prt11111111pta
,;"'"'''•• tlll#f/'11
indigna,,t,r,1 dim-,, oporllr, 1/ahli p,r rma/11111,
alior a11dia1111111111itar, abokanhlr lii /,a,,
nripla I.JllibtuCbrislÌflnlJ r,/igio to111prob,hlr
1I Hllllllllir oppri111ahlr tlll&lorilfls 'I
-50-
ficato partendo da una indagine obiettiva del testo, senza la-
sciarsi influenzare dalle « stratificazioni posteriori ». Infatti è un
errore idealizzare il nostro epistolario sino a farne un generico
simbolo della convergenza dell'ideologia stoica e cristiana e
vederlo solo in questa prospettiva astratta. Nonostante la grande
mole di studi su Paolo e Seneca, difettano opere specifiche sul-
1'epistolario, che, prive di pregiudiziali, resistendo alla tenta-
zione di ridurre l'epistolario ad un simbolo, si addentrino nei
difficili problemi testuali, alcuni dei quali ancora aperti, che co-
stituiscono il principale ostacolo alla comprensione del testo, in
certe parti ancora oscuro, e che tentino di individuarne gli scopi
e le caratteristiche inserendo l'opera nel vivo contesto del suo
tempo. Nonostante la vastissima bibliografia; l'epistolario costi-
tuisce ancora un campo aperto all'indagine e alla ricerca.
Il nostro epistolario non è un'opera isolata nel suo genere,
ma si inserisce nel fortunato filone della letteratura pseudoepi-
grafa, peraltro molto in voga nel IV secolo: 8 la lettera di Ari-
stotele ad Alessandro, le epistole dello Pseudo-Ambrogio (Talete
a Ferecide, Talete a Solone, Pisistrato a Solone ...), la corrispon-
denza di Alessandro e Dindimo, re dei Bragmani, risalgono allo
stesso periodo in cui è stato composto il nostro epistolario. Il
Peter' considera la nostra corrispondenza una esercitazione re-
torica su tema fittizio. Cosi pensa anche il Barlow, che, come
abbiamo già accennato, avanza l'ipotesi che le quattordici let-
tere siano opera di due o tre scolari di una medesima scuola di
retorica.11 Nessuno può negare che il falsario abbia ricevuto una
educazione retorica: lo prova l'analisi della lingua e del conte-
nuto delle lettere, in cui viene raccomandata caldamente la cura
dello stile e della forma e in cui troviamo vocaboli ed espres-
sioni tecniche prese dalla terminologia retorica; ma quanto a
considerare il nostro epistolario un semplice esercizio scolastico
di emulazione stilistica, bisogna andare molto cauti. Infatti manca
-51-
alla nostra corrispondenza la carattenst1ca fondamentale della
esercitazione scolastica, cioè la costante imitazione dei modelli,
il riecheggiamento di frasi e costrutti degli scrittori imitati,
manca insomma al nostro epistolario la caratteristica fisionomia
centonaria delle composizioni di questo tipo. Se la nostra corri-
spondenza non può essere considerata un esercizio scolastico fine
a se stesso, su di un tema fittizio, a quale scopo sono state scritte
le nostre lettere, quali sono le motivazioni che hanno spinto il
falsario a comporre quest'opera? Per tentare di dare una risposta
a queste domande, es~mioiamo brevemente il contenuto delle
lettere stesse. Se si eccettua la XI, che contiene importanti dati
storici relativi all'incendio di Roma - e che con ogni probabilità
è stata aggiunta da un'altra mano - il contenuto delle lettere è
piuttosto banale: non ci sono affermazioni dottrinali e religiose,
non c'è niente insomma di ciò che ci si aspetterebbe di trovare
in una corrispondenza tra il filosofo stoico e l'apostolo delle
genti.
Il falsario immagina che Seneca e S. Paolo si limitino a un
cerimonioso scambio di lodi e complimenti, come nella X e nella
XII (Xl) epistola, che sono tutte imperniate sulla questione della
opportunità o meno che l'apostolo collochi il suo nome nel
prescritto accanto a quello di Seneca, anziché limitarsi a met-
tere la firma in calce: • nell'una, Paolo manifesta la sua incertezza
in proposito, nell'altra, Seneca lo rassicura dicendosi lusingato che
il nome di Paolo compaia vicino al suo. All'inizio dell'epistolario,
Seneca comunica all'apostolo di essersi intrattenuto insieme a
Lucilio con alcuni Cristiani incontrati casualmente negli orti
Sallustiani e di avere avuto cosl l'occasione di leggere alcune epi-
stole di Paolo. Seneca ne loda l'alto contenuto morale e ne esalta
l'ispirazione divina (Epist. I). Paolo si dice assai lusingato da
tali lodi (Epist. II). Seneca comunica di aver letto a Nerone al-
cuni scritti di Paolo e lo informa che l'imperatore è rimasto
favorevolmente colpito da tale lettura (Epist. VII); 7 ciò nono-
stante l'apostolo rimprovera Seneca per aver preso questa ini-
ziativa che alla lunga potrebbe rivelarsi pericolosa (Epist. VIII),
tanto che Seneca si scusa poi per l'imprudenza commessa
(Epist. IX).
-52-
Paolo infatti vuole evitare tutto ciò che può portare ad uno
scontro diretto con i Giudei e i Pagani: esorta perciò Seneca a
non urtare con un suo atteggiamento filocristiano l'imperatrice
Poppea, proselita giudaica, che è ostile all'apostolo perché si è
convertito dal Giudaismo al Cristianesimo (Epist. V e VI). Non
con lo scontro diretto, Paolo si propone, infatti, di guadagnare
alla causa del Cristianesimo quelli che alla corte di Nerone gli
sono ostili, ma con la patientia.8 Seneca potrà validamente con-
tribuire con l'ausilio della sua abilità retorica a diffondere, con
una cauta opera di propaganda, il messaggio cristiano alla corte
di Nerone (Epist. XIV). Un motivo ricorrente in tutto l'episto-
lario è la necessità di curare lo stile e la forma: il nostro autore
torna a ribadire più volte, per bocca di Seneca, che le epistole
paoline sono degne di lode per il loro elevato contenuto morale
dovuto all'ispirazione divina, ma sono assai criticabili per quanto
riguarda la forma (Epist. VII e XIlI). Paolo è considerato come
un uomo privo di cultura, che non ha frequentato un corso re-
golare di studi (11011 legitimeimb11tm),è paragonato a Vaticno,
contadino ingenuo e ignorante (homormtiC11/m), e ha dal canto
suo un atteggiamento di ammirata deferenza nei confronti del
sophistamagistertanti principis etiam om11i11m (Epist. II). Seneca è
presentato come maestro di stile nei confronti di Paolo: mostra
sl grande ammirazione per il contenuto delle epistole paoline,
ma per quanto riguarda la forma non può esimersi dal fare al-
l'apostolo qualche appunto; afferma che è un peccato che dei
concetti cosi elevati siano espressi in uno stile indegno della
loro grandezza e della loro nobiltà, e invia a S. Paolo perfino un
manuale di retorica, affinché l'apostolo perfezioni il suo stile:
misi libi /ibrum de verbor11m copia(Epist. IX). L'immagine di Se-
neca depositario della sapienza pagana, che porge un manuale di
retorica all'apostolo di Cristo ha un suo valore simbolico: esprime
l'esigenza - profondamente sentita al tempo dell'anonimo - che
i Cristiani si valgano del patrimonio della tradizione classica per
dare ai contenuti religiosi una adeguata veste esteriore.
Come afferma il Momigliano,• in tutto l'epistolario è ricono-
sciuta implicitamente la necessità di una educazione retorico-sti-
listica dei Cristiani. Il falsario proietta anacronisticamente su Se-
• Episl. VI: Q11ib111si palimlÌllm dtmm, omni modo 101 11 fJll4fJll4pari, ,inm11111.
• Ari. ,il., p. 333.
-53-
neca le aspirazioni e gli stati d'animo dei letterati cristiani del IV
secolo. Infatti, se il nostro autore da un lato vuole combattere
la svalutazione, da parte dei letterati del suo tempo, del testo
biblico, mostrando come invece Seneca sapesse giustamente ap-
prezzare gli scritti di S. Paolo,10 contemporaneamente, però,
vuole anche esortare i Cristiani ad appropriarsi di quei mezzi sti-
listici che permettano loro di elevare la letteratura cristiana allo
stesso livello letterario di quella pagana. Certamente il nostro
autore, quando critica, per bocca di Seneca, lo stile di S. Paolo,
non esprime una sua convinzione personale, poiché, nonostante
affermi ripetutamente la necessità di curare la forma e lo stile,
dimostra, in pratica, con il suo latino rozzo, di non essere certa-
mente all'altezza di formulare un giudizio critico sulla lingua della
Bibbia: 11 egli è solo portavoce delle idee che circolavano nel suo
ambiente: si limita a riportare, nel nostro epistolario, l'eco dei
dibattiti e delle polemiche che agitavano i letterati del suo tempo,
quando le lettere cristiane erano ancora guardate da molti con
sufficienza. Gli uomini colti del IV secolo educati nelle scuole
di retorica, abituati al rigore formale, avvicinandosi ai testi bi-
blici erano spesso influenzati negativamente da uno stile che si
distaccava profondamente dai canoni classici e che doveva spesso
urtare il loro gusto raffinato.11 Perfino Agostino e Girolamo
-54-
confessano che lo stile delle Scritture aveva più d'una volta ur-
tato il loro gusto e che erano arrivati a preferire al testo biblico
le composizioni eleganti del genio greco e romano. 18 Già la forma
del greco biblico era oggetto di critica da parte dei letterati pa-
gani, ma, come osserva il De Labriolle,1' gli attacchi si moltipli-
carono quando la Bibbia greca fu tradotta in latino da interpreti
ben intenzionati ma mediocremente esperti (cfr. Amob. Nat. 1,
58: ab indotlis hominibm et rudibm stripta s,mJ; Hier. Praef. in
(j1lllllNOrEvangelia,PL. 29, 527 A: a viliosisinterpretibmmale edita,
ve/ a praesumplioribllSimperilisemendataperversim,ve/ a librariisdor-
milanlibm addita s,mJ aut mutata). Il Cristiano colto comprende il
senso di fastidio che un letterato prova avvicinandosi alle Sacre
Scritture; come si ricava anche da Hier. Epist. 53, 10: Nolo
offendarisin stripturis santlis simplitila/e e/ quasi vi/ila/e verborum,
quaeve/ vilio interpretumve/ de indmtria si, prolataes,m/, ul rmlitam
,onliommf atilim ins/rueren/e/ in 1111aeademquesentenliaa/iter dotlm,
a/iter audirel indo,tm (cfr. anche Amob. Nat. 1, 59). I Cristiani
colti, cioè, non rimangono insensibili alle critiche che i Pagani
muovevano allo stile della Bibbia.11 Anzi queste critiche dovevano
pesare soprattutto a coloro che ricordavano di aver ritardato la
loro conversione proprio per una certa inconscia avversione allo
stile della Bibbia,19 come, ad esempio, Agostino (Con/. 3, 5, 9):
Visa est mihi indigna[striplura]quam Tullianaedignilatis,omparem.
Anche Girolamo ricorda come la sua educazione stilistica gli fa-
cesse provare un senso di fastidio nei confronti dello stile delle
Sacre Scritture (Epist. 22, 30): ltaque miser ego letturm Tullium
ieitmabam.Post nottium trebrasvigilias,post latrimas,quasmihi prae-
teritorum retordatiopettatorum ex imis visteribm eruebat, Plautm
u Cfr. sotto.
H Hisl. d4ltl /ili. "11.,brll., Parigi 1920, p. 22: « Ccs transpositions très littéralcs,
puisqu'il ne s'agissait dc ricn dc moins quc dc rcndrc dans sa tcncur cxactc la pa-
role dc Dicu, très populaircs aussi dans lcur langagc, piusqu'cllcs dcvaicnt ~tre
comprises dcs plus ignorants, fournircnt aux advcrsaircs du christianismc quclqucs-
uns dc lcurs plus injuricux pcrsiflagcs ».
11 MOHR.MANN, I, p. 56: «mais ce livrc, qui a cxcrcé une si grande influcnce, qui
était la nourriturc spiritucllc journalièrc dcs chréticns était, d'après Ics normcs dc
la littératurc antique et classiquc, un livrc cxotiquc, un livrc qui négligcait Ics règlcs
dc la littératurc courantc, un livrc dont Ics chréticns lettrés dea prcmicrs sièclcs ont
en honte, du point dc vuc littérairc, dont ils ont rougi dcvant lcurs contcmporains
palens ••
11 ar. DE LABlUOLLE, op.di., p. 31, nota 3.
-55-
mmebaturin manibm. Si (JIIIJlldo in memet reverSIISprophetam/egere
toepissem,sermoho"ebat i11t11/tm. La forma e lo stile dei testi bi-
blici, che si distaccava dai canoni tradizionali, rappresentava
l'ostacolo maggiore che le persone colte, educate alla scuola dei
retori, dovevano superare, prima di abbracciare in toto la fede
cristiana.17 Lo stile della Bibbia, dunque, era oggetto di critica da
parte dei letterati pagani e di serio imbarazzo da parte di quelli
cristiani, che se da un lato condividevano il gusto degli avversari,
dall'altro si sentivano anche in dovere di difendere la letteratura
cristiana da questi attacchi.18 Di questo imbarazzo risente anche
il nostro autore, che pur volendo fare l'apologia della letteratura
cristiana, finisce per rimarcarne le manchevolezze formali, piut-
tosto che metterne in luce i pregi. L'anonimo, infatti, influenzato
dalla sua educazione retorica, finisce per rimanere invischiato in
quegli stessi pregiudizi che in teoria vorrebbe combattere. Si noti
in particolare l'atteggiamento eccessivamente deferente di Paolo
nei confronti di Seneca, che, dal canto suo, appare benevolmente
condiscendente: il religioso rispetto ispirato dalla persona del-
l'apostolo non riesce ad avere la meglio sul prestigio letterario di
Seneca e quest'ultimo appare elevato su di un piedistallo. Qui
l'anonimo si tradisce inconsapevolmente riconoscendo implici-
tamente la superiorità della tradizione classica - su piano for-
male - rispetto a quella cristiana, e lascia trasparire il conseguente
senso di inferiorità, di cui soffrivano i letterati cristiani nei con-
fronti dei pagani. Comunque lo scopo che il nostro autore per-
segue è prima di tutto quello di raccomandare la lettura delle
epistole paoline agli uomini colti del suo tempo, mostrando come
Seneca non si sia lasciato influenzare dalla forma, ma abbia sa-
puto apprezzarne il contenuto. Significativa a questo proposito
è la risposta che il falsario immagina che Seneca dia a Nerone,
meravigliato che un uomo che non ha ricevuto un'educazione
regolare possa concepire pensieri cosl elevati: Cui ego respondi
soleredeosore innocentiumeffari, haud eorumqui praevaritaredottrina
sua quid possint (Epist. VII). Questa frase polemica, messa in
17 Cfr. Hier. In lt111. 3, 6 SC. 43, p. 100 sg.: Dij/i,i/1 ho111iM1 po1111111 11 nobi/1111
di,i111,11111,dto his dij/i,ili111,toqu,,,111trtdlllrl D,o [...] Mn /JOSJUlll
,idn-1 ,ir111111si111plkta-
l1111f1111
1tripllll'a1san,ta,, non ,,., 111ai11ta11 11d,x ,1rbon1111
111U111l111, iudi,anl ,ililall.
11 A quelli che negavano valore artistico allo stile biblico, Ambrogio risponde
-56-
bocca a Seneca, suona come un rimprovero del nostro autore
verso i dotti del suo tempo, che urtati dalla rozzezza della forma,
non sanno apprezzare il contenuto delle Sacre Scritture. 19 È un
errore perciò considerare il nostro epistolario - che è cosl ricco
di spunti polemici e che ha un preciso aggancio con la realtà del
suo tempo - una semplice esercitazione scolastica su un tema
fittizio,111 tanto più che gli manca anche la caratteristica peculiare
delle composizioni di questo tipo, cioè l'emulazione stilistica dei
modelli (il falsario non si sforza di imitare né Paolo, né Seneca).
È più giusto dunque considerare la corrispondenza come un'opera
di parenesi con cui il falsario raccomanda la lettura delle epistole
paoline ai contemporanei, ed in cui, interpretando le aspirazioni
dei letterati del suo tempo, afferma anche la necessità di una
educazione retorico-stilistica dei Cristiani.
19 Girolamo ritiene che difronte al contenuto delle sacre scritture ogni conside-
razione sulla forma aia del tutto secondaria (/11Gal. 1, 11 PL. 26, 347 A: Ntt j,11-
#IIIIU;,, Hrbis striphirfllfl1111 E,1111g,li11111,
s,d in 1111111: in 1111d,J/a,·"""
in slt'11101111111
foliis,
ml ;,, radili ralUJ11is.
• Si noti come il Barlow, che considera l'epistolario una esercitazione scolastica
au un tema fittizio, sia costretto a giustificare in modo troppo semplicistico l'insi-
stenza del falsario sulla presunta inadeguatezza della forma rispetto all'altezza del
contenuto delle epistole paoline, dicendo che può essere una reminiscenza delle
nccomandazioni di un maestro in una scuola di retorica (op. ,il., p. 91): « Tbc
conatant admonitions of Paul to Seneca may re-cebo tbc vcry words which a tcachcr
in such a school would use to onc of bis pupils: « You bave some good idcas in
your casays, but you cxprcss youraclf vcry badly ».
-57 -
EPISTOLAE SENECA.E AD PAULUM
ET PAULI AD SENECAM
AVVERTENZA
-61-
0). 1 Ma anche questa edizione non vale a risolvere tutte le difficoltà
testuali, come riconosce lo stesso Kraus. 1 E. Westerburg (Der Urspnmg
der Sag,, dass Smeta Christ g11111s1n
sei, Berlino 1881, pp. 41-50) utmua
tutti e due i codici noti allo Haase. Egli si avvale, oltre che del prece-
dente studio di Kraus sui codici Le J, anche di una collazione completa
di L, fatta per lui dal Wachsmuth. Ma solo con il Barlow (Epistola4
Seneça,ad Pau/11111et Pallli ad Smetam (qt141110,ant11r),
American Academy,
Roma 1938) si ha uno studio ampio e approfondito sulla tradizione
4
-62-
simo in smplllra m1tin1111.
Lo st1111111a elaborato dal Barlow viene
""1ku111
dunque ad essere cosl integrato dal Franceschini:
-63-
bile a questo punto uno studio di quella parte della tradizione manoscritta
rimasta ancora inesplorata, cioè uno studio dei codici recenziori, finora
del tutto trascurati, che sono peraltro la parte più cospicua. Si calcola
che vi siano in totale più di trecento manoscritti sparsi un po' dovun-
que in Europa, soprattutto in Francia. L'indicazione è necessariamente
approssimativa perché non esiste ancora un elenco completo di tutti
i manoscritti.• Il loro grande numero, la loro varia dislocazione, costi-
tuiscono tutt'ora la maggiore difficoltà che materialmente si frappone
ad uno studio veramente completo cd esauriente, il che giustifica in
parte la scdta metodologica del Barlow. È rilevante la sproporzione
tra il numero dei r1tmlior1se quello degli antiqllioresa noi noti, che
sono in tutto una trentina. In età umanistica la leggenda del cristia-
nesimo di Seneca ha indubbiamente favorito la diffusione di tutte le
opere di Seneca, autentiche ed apocrife. La brevità del nostro episto-
lario ha poi contribuito a che esso venisse facilmente inserito nei mano-
scritti contenenti gli altri scritti del filosofo. Alcuni studiosi, esagerando
l'importanza del ruolo del nostro epistolario per la conservazione delle
opere autentiche di Seneca, ritengono che la corrispondenza di Paolo
e Seneca sia in qualche modo responsabile della sopravvivenza delle
Lettere a Ltldlio.10 Invece, come ha dimostrato il Reynolds,11 le opere
del filosofo stoico si sono conservate indipendentemente dalla corri-
spondenza apocrifa, poiché solo a cominciare dall'XI secolo l'episto-
lario figura nei manoscritti insieme alle opere autentiche di Seneca.11
Dal XIV secolo in poi, esso compare in quasi tutti i codici di Seneca.
Solo a partire dal XIV secolo, quando cioè si diffonde la leggenda del
cristianesimo di Seneca - e non prima - si può affermare dunque che
l'epistolario apocrifo abbia influito sulla tradizione delle opere auten-
tiche del filosofo, contribuendo effettivamente ad accrescere la fortuna
di un autore, le cui opere si erano, però, già conservate per ragioni indi-
pendenti.
Il presente lavoro vuole essere dunque un contributo, necessaria-
mente non definitivo, alla comprensione di un testo che è considerato, 18
• ar. E. FRANCESCHINI, ari. til., p. 1SO,n. 7; Cl. w.BARLOW, op. di., p. 68 ag.
10 ScHANz-Hosrus, Gmhirht, tkr romit,hn, Liuraha-, II, Monaco 1935, p. 715;
F. X. KllAus, ari. di., p. 609; W. TRILLITZSCH, op. di., I, p. 170.
11 Op. rii., pp. 81-88.
11 Il Barlow, nell'appendice della sua edizione delle lettere (op. di., pp. 113
-64-
non a torto, « uno dei documenti più enigmatici della letteratura ai-
stiana antica », per cui è auspicabile uno studio sistematico della tra-
dizione manosaitta ancora inesplorata, che faccia luce sui problemi
testuali ancora aperti e che costituiscono - ne sono consapevole - il
primo dei limiti di questo lavoro.
Colgo l'occasione per esprimere la mia più viva e profonda gra-
titudine al prof. Alessandro Ronconi, che con generosa cura ha se-
guito la mia ricerca fin dalle prime fasi, suggerendomi molti mi-
glioramenti e dandomi consigli preziosi per la realizzazione di questo
lavoro.
- 6.5 -
CONSPBCTUS SIGLORUM 1t
ix conscnsus codicum B A R S E W G Q V C D Z
8 conscnsus codicum B A R S E W G Q
li conscnsus codicum Z F O L Y U M T
t conscnsus codicum L Y U M T
11 Uso per tutti i codici le medesime sigle del Batlow. À è Il cod. Ambr. C. 72 Inf.
collazionato dal Pran=bioi. Ho esaminato inoltre alcuni codici trascurati dai precedenti
editori, il Laur. Plut. 45 cod. 26 (11) del XII secolo, il Ricc. 391 (v) del XIV secolo e il
Bodl. 292 (~ della prima metà del XIV secolo con commento falsamente attribuito al
Trevet (MoMIGLIANO, art. ,it., p. 336; R. DEAN, Mr. Bodl. 292 and tb, tt1111»1of NitoltU
Tr,,,t'r worl:r, « Speculum », 17, 1942, pp. 243-249). Per quanto concerne la tradizione
indiretta, ho tenuto presenti due diversi volgarizzamenti dell'epistolario apocrifo: uno del
XIV secolo cbe ai trova nel Ricc. 1304, già pubblicato da Cesare Guasti (L',pirtou tli S,-
#KII , S. PIIOkJ , di S. PookJa SIIIKa, volgarizzate nel XIV secolo ora pubblicate per cura
di Cesare Guasti, Pircozc 1861). l'altro del XV secolo, cbe ai trova nel Ricc. 1094, inedito.
-66-
INCIPIUNT EPISTOLAE SENECAE AD PAULUM
ET PAULI AD SENECAM
-67-
II. Annaco Senecae Paulus salutem.
Litteras tuas hilaris heri accepi, ad quas rescribere statim potui,
si praesentiam iuvenis, quem ad te eram missurus, habuissem.
Scis enim quando et per quem et quo tempore et cui quid dari
committique debeat. Rogo ergo non putes neglectum, dum per- 5
sonae qualitatem respicio. Sed quod litteris meis vos bene ac-
ceptos alicubi scribis, felicem me arbitror tanti viri iudicio. Nec
cnim hoc diceres, censor sophista, magister tanti principis, etiam
omnium, nisi quia vere dicis. Opto te diu bene valere.
-68-
primum itaque venire coeperis, invicem nos et de proximo vi-
debimus. Bene te valere opto. 5
-69-
VII. Annaeus Seneca Paulo et Theophilo salutem.
Profiteor bene me acceptum lectione litterarum tuarum quas
Galatis Corinthiis Achaeis misisti, et ita invicem vivamus, ut
etiam cum honore divino eas exhibes. Spiritus enim sanctus in
te et super excelsos sublimi ore satis venerabiles sensus exprimit. 5
Vellem itaque, cum res eximias proferas, ut maiestati earum
cultus sermonis non desit. Et ne quid tibi, frater, subripiam
aut conscientiae rneae debearn, confiteor Augusturn sensibus
tuis motum. Cui perlecto virtutis in te exordio, ista vox fuit:
mirari eum posse ut qui non legitirne irnbutus sit taliter sentiat. 10
Cui ego respondi solere deos ore innocentium effari, haut eorum
qui praevaricare doctrina sua quid possint. Et dato ci exemplo
Vatieni hominis rusticuli, cui viri duo adparuerunt in agro Rea-
tino, qui postea Castor et Pollux sunt nominati, satis instructus
videtur. Valete. 15
-70-
VIIl. Senccae Paulus salutem.
Licet non ignorem Caesarem nostrum rerum admirandarum,
(ni)si quando deficiet, amatorem esse, permittes tamen te non
Iaedi, sed admoneri. Puto enim te graviter fecisse, quod ei in no-
titiam perferre voluisti quod ritui et disciplinae eius sit con- 5
trarium. Cum enim ille gentium deos colat, quid tibi visum sit
ut hoc scire eum velles non video, nisi nimio amore meo facere
te hoc existimo. Rogo de futuro ne id agas. Cavendum est enim
ne, dum me diligis, offensum dominae facias, cuius quidem
offensa neque oberit, si perseveraverit, neque, si non sit, pro- 10
derit; si est regina, non indignabitur, si mulier est, offendetur.
Bene vale.
vm. Senecae Paulus salutem om. F Paulus Seneca salutem E Pau-
lus Senece W G C 2 Liceat P ignoremus IX ). nostrum] non IX P no-
a
strum non H nostrarum Kram IX silmtio) ; ammirandarum B R e z L
(eorr. L1) admiratorem ; ammira.torem v 3 si quando 1111/g. Bar/o.,
nisi &0nied deficient D P deficiat C amatorem] admirator ; am-
miratorem v permittes] W ~ K ). permittet J permittit IX P Barlow
permitte v ; 4 te] se P Bar/o., om. R D T (.t 5-6 contrarium sit 8 À 7
eum scire 8 ). C 7-8 hoc facere te 8 P). 8 te om. f.t 9 offensum] offen-
sam D H J K offensus '°"· Z 1 domini O M T om. (.t 10 perseveraverit]
perseuerit R S (,ON'.R•) preseuerauerit E perseuerauerarit W perseuer &
G perseueraberit P perseuerauit H perserauerit '°"· K 1 12 va-
lere P
-71-
X. Senecae Paulus salutem.
Quotienscumque tibi scribo et nomen meum subsecundo, gra-
vem sectaemeaeetincongruentem rem facio. Debeo enim, ut saepc
professus sum, cum omnibus omnia esse et id observare in tua
persona quod lex Romana honori senatus concessit, perfecta 5
epistola ultimum locum eligere, ne cum aporia et dedecore cu-
piam efficere quod mci arbitrii fuerit. Vaie, devotissime magister.
Data V Kal. lui. Nerone m et Messalla consulibus.
-72-
destinatus est, et ut optimus quisque unum pro multis datum
est caput, ita et hic devotus pro omnibus igni cremabitur. Cen-
tum triginta duae domus, insulae quattuor milia sex diebus arsere;
septimus pausam dedit. Bene te valere, frater, opto. Data V Kal.
Apr. Frugi et Basso consulibus. 20
H K A v t cffccti P aftlicti D affici 1.1. adfecti fieri solcnt] quod
fieri solct P Bario,,,(quod P so/111 0111. cctt. ut tOIIÌ. Kra111) affici so-
Icnt 1.1. solcnt] 8 C D H J K A 1.1.v t solct teti.
1 cuius R S E.I W C
16-17 dabitur CD 1.1. donatum est Z ~ (prater U) H J K A t 18 quat-
tuor milia] 8 A lllI W Z X O M t et F teste Biitheler IIII L U 1.1.v
qucmadmodum P milia 0111. teti. 19-20 Data-consulibus 0111. A R F O U
M K v t frater] scmpcr v t
-73-
colliguntur et ideo rerum tanta vis et muneris tibi tributa non
ornamento verborum, sed cultu quodam decoranda est. Nec
vereare, quod saepius dixisse retineo, multos qui talla adfectent 5
sensus corrompere, rerum virtutes evirare. Certum mihi velim
concedas latinitati morem gerere, honestis vocibus et speciem
adhibere, ut generosi muneris concessio digne a te possit expediri.
Bene vale. Data pridie Non. Iul. Lu(r)cone et Sabino consulibus.
usquequaque W eo usquequaque opera IX (praeter W) IL opera usquc-
quaque F usquequaque opera tel1. Bar/0111 3 concluduntur ex? L1
cooduntur v colliduotur teti. Bar/0111 5 dixisse te C D J te dixisse
H L1 :>..IL t affectent B A R S E W Z F L1 M K affectant D H :>..~ 6
Ccterum Kra111 velim] W Y U F? J? 0111.C D H vdut teti. velim
postcoocedas exhib,nt ,odd. 0111ne1(praeter
W Y U F? J?) 7 et 0111.~ H J K À
v ~ 9 Bene 0111.M Bene vale 0111.WY U valeas 3 :>.. Data-con-
sulibus 0111.A R F O M K IL v Lurcone-consulibus 0111.Y U Lurcone]
smpsit Bar/0111 Lvcolle B locone CD ZLH locne J lucone çetl.
-74-
COMMENTO
I EPISTOLA
- 11 -
111111
tpdd [...] hablllrim,acon W G U N T À ~. cd ammettere un inso-
lito uso pregnante di habeoaliqllidcon de e l'ablativo (de apomjis el aliis
rebta). Si potrebbe pensare ad un calco dd greco qeLv -r( mp( TLvoi;,
come nella Epistola di Barnaba,10, 10: qe-re -rw(<i>t;xcd mpt 'njt; ~pC:,..
ae<i>t;(qui qeu significa con ogni probabilità: « siete avvertiti, avete
capito); cfr. anche lbid. 12, 1: qeLt; 1tcxÀLv -rept -rou a-rotupoux«t -rou
a-rotupoua.&otLµé).).ov-ro,;..Il Thesflllrlllnon offre alcun esempio di simili
usi di habeoin latino; ho trovato peraltro un costrutto analogo al nostro
testo nel linguaggio retorico di Fortunaziano, Rhet. 3, 4, RLM. p. 122,
20-21 : Habeo de 11erbor11111 ,opia: bonitasIJIIBIII
ad 111odu111
,omparafllr?UI
mala 11ite111tael optima adpetamta(qui habeosignifica « va bene per »,
« sono d'accordo su»). CTr. ibid. 3, 6, RLM. p. 124, 1.
Concludendo si potrebbe a mio avviso intendere quid[ ...] hablllri-
111,a:« a quali conclusioni siamo pervenuti intot"no a... , quali punti
abbiamo fissato intorno a .. ».
-78-
pha, id est abs,ondita(Qui apoçryphasignifica invece « segrete », come
risulta chiaro dalla chiosa id est abs,ondita).Le parole che hanno un si-
gnificato ambiguo, infatti, sono spesso unite ad altre più comuni che
ne chiariscono il senso, come nell'endiadi epesegetica apoçryphaet falsa
che si trova in Tertulliano, P11Jjç.10, 12 CCL. 2, p. 1301, dove il si-
gnificato di apoçryphaè precisato da falsa. Alcuni pensano che apomfa
nel nostro testo abbia il significato di « falsi » e che indichi i libri non
canonici. Di questo avviso è tra gli altri M. Erbetta (Apoçrypha,To-
rino 1969, II, p. 88, nota 1) : « Sono senza dubbio i libri non canonici,
tanto deprecati dagli scrittori ecclesiastici ». È improbabile però che il
falsario immagini qui Seneca e Lucilio intrattenersi coi discepoli di
Paolo sugli scritti non canonici, quando solo dalla fine del II secolo
in poi gli scrittori cristiani cominciano a denunciare opere apocrife
ed eretiche. Possibile che l'autore del nostro epistolario fosse tanto
sprovveduto da non accorgersi del palese anacronismo? Nel nostro
testo apomfa significa verosimilmente « argomenti profondi » che solo
a pochi iniziati è dato toccare e perciò «segreti», in un'accezione molto
vicina all'originario significato di uso agnostico. Tutto ciò è stato bene
inteso da Lefebvre d'Etaples che ritiene che gli apomfa menzionati nel
nostro testo siano gli arcani della scienza divina, e che si richiama per
questa interpretazione al testo paolino, Col. 2,3: Et qll()dait de apoçryphis,
id est de absçonditisrebus, sive disdplinis. Ferme quau11mq11e s1111t
a spirit11
superiore,q110r11111
a11&tor agmud nonpotesi, apoçryphaJiçeresoknt [...] Nam
et diVIISPamus thesaurossapientiaeet ,ognitionisin Christo appellat apoçry-
phos, id est abs,onditos.si, ,apite sulllUloepistolaead Colossensessmbens:
év l> ElaLV1t(XV't'f:t;
ot -lnja«upot njt; aocp(«t;x«t njt; yvwac6>t;cx1t6xpucpoL.
id est « in qlios1111t
omnesthesaurisapientiaeet ,ognitionisabs,onditi». Neq11e
hjç Sene,a in 111ala111
partem ho, vo,abulo11tit11r,sedpro disdplinischristiano-
r11m,q11ar11111
absconditavirtuset hominibuss11perior
era/a11Ctor
(Faber, f. 266v).
Nel latino biblico non troviamo mai il vocabolo apo,ryphus,neppure
per tradurre cx1t6xpucpot;(cfr. ad es. anche Mar,. 4, 22: èyéve-ro cx1r6xpucpov
che è tradotto fa,111111est o,mlt11m),forse per evitare di usare nella tradu-
zione del testo sacro un vocabolo il cui senso avrebbe potuto anche
essere frainteso.
-79-
[...] Palll11mtol11111111Zm
immobilemdistiplillllf'llm,·
ibid. 11, 11, p. 1316: in
nos dirigit integritat,m,t plmitllliinemdistiplinar11111.
Il fll4nlm esclude che
il falsario voglia fare di Seneca un convertito.
-80-
all'interno degli horti. Data la loro vastità, a/io lendmlessarà da intendersi
« diretti da un'altra parte», ma sempre all'interno dei giardini. Circa il
valore storico della notizia relativa al libero accesso del pubblico agli
horti, quale si ricava implicitamente dal nostro testo e che contrasta con
le altre fonti, ritengo si debba essere molto cauti. Basarsi, come fanno
alcuni (cfr. ad es. PLATNER-ASHBY, p. 271), unicamente sulla testimo-
nianza del nostro autore per affermare che al tempo di Nerone gli horti
erano aperti al pubblico, significa confondere realtà e fantasia, storia e
finzione letteraria: l'incontro negli horti immaginato dal falsario ha tutta
l'aria di essere nient'altro che un -t61tot;, cioè un motivo puramente let-
terario, che non ha alcuna pretesa di aderenza alla storia: molto pro-
babilmente l'autore ha presenti i dialoghi ciceroniani ambientati nella
campagna di Tuscolo, di Cuma, etc., o, come il Br111us, durante una pas-
seggiata in un viale; e qui, proprio in conformità a questi modelli clas-
sici, immagina che l'incontro di Seneca con i seguaci di Paolo sia avve-
nuto nell'amena cornice degli Horti Sallustiani;pago di aver trovato nei
vasti e suntuosi Horti un'ambientazione degna del dialogo immaginario
tra l'illustre filosofo cd i suoi interlocutori, il nostro autore non si è
posto il problema se la presenza di questo gruppo di Cristiani nei giar-
dini dell'imperatore fosse veramente attendibile dal punto di vista storico.
3VCD z ~ µ. p
/oço lori lo,o
nostri nostra nostri
-81-
6
pararmi ne, essei tortinis attollendislapidNmoççasio(non essendovi l'oc-
casione di imbattersi, di trovare delle pietre); inoltre ibid. 23, 82: Si
11ehlsti[olei]non sit oççasio,detoqllihlr,111vetmtatem repraesentet(qualora
non sia possibile trovare ...).
-82-
si osservi però che qui il genitivo 111,i è usato per accentuare la contrap-
posizione con absmtia 1111a. Quello della 1ttxpoua(tx è un motivo conven-
zionale che ricorre frequentemente nella letteratura epistolare cd anche
nell'epistolografia popolare (cfr. H. KosKENNIEMI,Stlldim z.11r/de, 1111d
Phraseologi,desgrieçhischmBriifes bis 400 n. Chr., Helsinki 1956, pp. 38-
42; R. ANDRZEJEWSKI, Nova et vet,ra qua, in ,pistulis latinis IV p.
Chr. saeruloapparmt, « Eos », 57, 1967-1968, p. 245 sgg.). Il -r61tot;; si
presenta sotto varie forme: ora si afferma che la lettera dà l'illusione
che la persona cara sia presente (wt;; 1ttxp~v:questo aspetto del -r61tot;;
è sviluppato nella quarta epistola: Quotienscumque litteras lllas alldio,prae-
smtia111l1li cogito;cfr. oltre, p. 109), ora si mette in rilievo, come nel
nostro testo (pra1sentia111 tm optavimus)il desiderio della presenza del-
l'assente, dove il motivo della 1ttxpoual.tx si fonde con quello della no-
stalgia della persona cara {1t6&ot;;, desideri11111),
che è uno dei luoghi co-
muni più diffusi della tradizione epistolare greca e romana (cfr. K.
THRAEDE, Gnmdz.iige grieçhisch-romischer Briiftopik, Monaco 1970, pp. 77
e 166); cfr. Cic. Epist.Jam. 5, 8, 5: 111[...] desideri11111 praes,ntia, tuae meo
labore111inualllr; ibid. 15, 21, 1 : tum discedisa nobismequetanto desiderioad-
jicis, 111111/afll mihi ronsolationem relinquas,·
/ore 111utriusquenostr11111 absentis
crebriset longisepistulisleniatur.Nel passo paolino sopra citato
desideri11111
(Phil. 2, 12) troviamo anche la contrapposizione 1ttxpoua(tx-&1toua(tx che
ricorre spesso nelle epistole paoline e in tutta la letteratura epistolare,
soprattutto cristiana (K. THRAEDE, op. dt., p. 96 sgg.), dove il motivo
della 1ttxpoual.tx si arricchisce di un nuovo significato cristiano per la
contrappostizione awµtx-1tVeuµtx: l'assente è lontano col corpo, ma vi-
cino con lo spirito (praesentiaspiritalis), come ad es. in Paul. Noi. Epist.
20, 1 : quantominus absentiacorporalis,quaenonpotesi praesmtiam spirita-
lem so/vere?(cfr. ancora K. THRAEDE, op. cii., p. 122 e passim).
-83-
È interessante osservare che in tutto l'epistolario si presuppone che
esista già una raccolta delle epistole paoline mentre sono ancora in
vita Paolo e Seneca, quando invece la costituzione del torpm delle epi-
stole di S. Paolo è certamente posteriore al I secolo. Secondo il Loisy
(La naissanc,dHChristianism,,Parigi 1933), tutto il canone ecclesiastico,
che nasce per l'esigenza della Chiesa primitiva di istruire i fedeli, si
costituisce dopo il II secolo. L'anonimo dunque anacronisticamente pre-
suppone già in circolazione, prima della morte dell'apostolo, un torp111
di epistole la cui genesi è dovuta ad esigenze che andranno maturando
solo più tardi, cioè quando le comunità cristiane sentono il bisogno
di fissare le intuizioni della fede in termini teologici precisi, per evitare
i pericoli dell'eresia, il che avviene a partire dal II secolo.
-84-
che la frase è interpolata, è meglio attenersi, come fa Barlow, alla tra-
dizione e considerarla parte integrante del testo.
Quanto alla lezione ali(JIIIIS
/ittera.r,è interessante notare come l'accu-
sativo abbia rappresentato sempre una difficoltà, a cui alcuni copisti
hanno tentato di ovviare semplificando il testo con un ablativo al posto
dell'accusativo: alitpdbllS/itteris (C D H J). In alcuni mss. poi in luogo
di ali(JIIIIS
è attesta la lezione ad I.JIIOSdam (8 praeter W) che con ogni pro-
babilità è una correzione dovuta al fraintendimento del significato del-
l'espressione ad [...] ,ap11tprovinri11e che non significa « governatore
di una provincia» (come pensa, ad esempio, l'autore di un volgarizza-
mento trecentesco dell'epistolario che si trova nel cod. Ricc. 1304:
« cioè alcune delle tue molte lettere che tu hai mandate ad certe ciptadi,
o vero ad certi principi della provincia »), ma significa « capoluogo
di provincia », indica cioè la città principale di una regione. S. Paolo
infatti, nelle lettere che possediamo, si rivolge ad intere comunità di
fedeli di varie città, ai suoi discepoli e collaboratori (Filemone e Tito),
ma a nessun governatore di provincia. Inoltre le città, ai cui abitanti
sono indirizzate le epistole autentiche di Paolo, sono effettivamente dei
« capoluoghi »: Tessalonica era la capitale della provincia romana della
Macedonia, Corinto dell' Acaia, per non parlare poi di Roma stessa.
Efeso e Filippi erano anch'essi centri molto importanti. Si noti inoltre
che se11nell'espressione rivitalemse11,ap11tprovinriaeha valore correttivo
e significa « o piuttosto », « o per meglio dire », e che quindi ,ap11t
prOtlinriaenon si contrappone a rivitalem, ma ne precisa il significato.
Dunque bisogna intendere « città o piuttosto capoluogo di provincia ».
L'uso di ,ap11tcon questo significato ha una sua tradizione. Si osservi
,ap11tprovinriaeè già attestata nel Bel/. Hisp. 3, 1 : Era/
che la i1111,tlll'a
idem temporis Sex. PompeillSfraler (Jlli "'111praesidio CordNbamtenebat,
I.Jlll)d
eillSprovinriae,ap11tesseexistimaballll'.C11p11t
col significato di capo-
luogo, seguito dal nome della regione si trova anche in Cicerone (Epist.
fa111.15, 4, 9: Eranam a11tem,quaefllit non viri instar, sed lll'bis,q110d era/
Àlltani ,ap11t)ed in Livio (42, 44, 2: Thebaeq110q11e ipsae, q110dBoetiae
taj»II est, in magnomo/11erant). L'uso di ,ap11tin questa accezione che è
raro nel latino classico e limitato ai pochi esempi citati, diventa fre-
quente nel latino tardo: si trova anche nella V11/gata,per es. in /s. 7,
8-9: sed ,ap11tSyriae Dama.r,usf...] et ,ap11tEphraim Samaria. È attestato
in Frontino (Strab. 1, 8, 12: Ipse [se. Agesi/aus]Lydiam, 11bi,ap11thosti11111
regni era/, inrllJil), Giustino (11, 14, 10: Exp11gnatet Persepolim,,ap11t
Persiri regni), Agostino (Civ. 16, 17: In As.ryriaigitlll'praeva/mrantdomi-
nattu impiae rivitatis; hllim ,ap11tera/ il/a Baby/on),Oaudiano (20, 571:
,ap11tSyriaejlammis hosti/ibllSarsit); etc. CTr. in particolare Ulp. Dig.
1, 16, 7, dove troviamo la stessa i111utlll'a (,ap11tprovin,iae)del nostro
testo: Si in a/iq11am çe/ebremrivitatemve/provinriae,ap11tadvenerit.È signi-
ficativo che un'esemplificazione di ,ap11tcol significato di « capoluogo »
-85-
Hispaniense,dove è molto frequente l'uso di
si trovi proprio nel Be/111111
forme del latino parlato destinate ad imporsi più tardi nel linguaggio
letterario (cfr. Be/111111
Hispaniense,Introduz., testo critico e comm. a
cura di G. Pascucci, Firenze 1965, p. 46 sgg.); ed è significativo anche
che l'esempio offerto da Cicerone provenga dalle lettere, cioè dal lin-
guaggio che più si avvicina alla lingua parlata: tutto questo ci auto-
rizza a pensare che ,ap11tnel senso di capoluogo abbia una lunga tradi-
zione ininterrotta nel latino parlato e che solo tardi acquisti dignità
letteraria, divenendo frequente presso gli autori della tarda latinità..
- 86-
che pur essendo assurda testimonia la lezione cli À. La iunctura 11ila
lll(Jf'/alis- nel senso cli vita temporale, caduca contrapposta alla vita
spirituale, eterna - è già nel latino classico, appartiene al linguaggio
poetico a cui conferisce particolare enfasi (cfr. ERNOUT-MEILLET, II,
p. 414); cfr. Verg. Georg.4, 326: m etiam h1111ç ipst1111
11itaemortalis ho-
norem; Lucr. 3, 869: 111ortak111 11itammors ,11111i111111ortalisademit; Sen.
Aporol. 4, 1, 21: 11inça/mortalis tempora llitae. Nel latino cristiano in-
vece, la i11Mt11ra acquista un significato decisamente spregiativo; cfr. ad
es. Aug. Trin. 13, 7, 10: in ista mortali vita e"oribm am1111nisque pienis-
sima; Petr. Chrys. Serm. 1 PL. 52, 186 A: mortalisest ista vita; qtda mo-
rillir llirt11tibm:q1lillitiis 11illit,sepelil11r
famae, perii/ gloriae,· q1limane/ t11r-
pitlldini, &resdtinfamiae. Per i Cristiani la vita mortalis è la vita vissuta
nel peccato, che conduce alla dannazione e si contrappone alla vita
aeterna, la beatitudine celeste che si realina nel regno dei cieli. Mentre
per i pagani, mortalis è ciò che comporta la morte fisica e si contrap-
pone poeticamente ed enfaticamente a ciò che è immortale, nel Nuovo
Testamento, invece, e in particolare in S. Paolo, la morte è la danna-
zione eterna, conseguenza e castigo del peccato (la « seconda morte »
cli Dante): vi è una stretta concatenazione tra peccato e morte (da cui
il concetto cristiano cli « peccato mortale»). Per Paolo il peccato è
>C&VTpov (I Cor. 15, 56). La lezione cli À vitam 111ortale111
-roù -8-otvcx,O,ou ron-
le11111mtes è degna cli essere presa in considerazione, tuttavia qui non mi
pare sia il caso cli allontanarsi dal Barlow. Infatti un'allusione ai con-
tenuti etici dell'opera cli Paolo (vitam 111orale111 çontinentes)mi pare si adatti
al nostro contesto più cli un'allusione al disprezzo della vita «mortale»
(llitam 111ortale111ronlemnentes),che rimarrebbe una notazione isolata in
questo passo in cui si loda proprio il contenuto morale e l'alto valore
educativo dell'insegnamento paolino (Tania enim maiestas ear11111 est
rerum tantaquegenerosi/aietlarml, 11/vix s11jfeçt11ras p11te111aetalesho111in11111
(J1la4bis instittd perftdquepossint). Inoltre il cod. P, ramo separato della
tradizione, ha ,ontinenlemche non dà senso, ma che convalida rontinmles
contro rontemnentes.
-87-
con 11erb,rando o con deftssi: Incerta distin&tioest: ve/ 11,rb,rando IISIJIII
11e/
IISIJIII
deftssi; et est IISIJIIIadverbi11111:
signifttat enim al di11a11t111tdt11111.Per
con il significato di «ininterrottamente», cfr. Hor. Sai. 2, 7, 24:
IISIJII'
si q,ds ad i/la deNSmbito te agat, IISIJII' retmes; qui mqm significa « ininter-
rottamente », e quindi « ostinatamente ». Per mqm con il significato
di « completamente », cfr. se mai Petron. 66, 3: Italjlll de stiribi/ita q,d-
dem non 111ini11111111 edi, de 111e//e
111emqm tetigi (cfr. inoltre LEuMANN-HOP-
MANN-SzANTYR, p. 253). A mio avviso, però, nel nostro testo, invece
di mque è più opportuno leggere con il Kurfess (art. dt., « Aevum »,
26, 1952, p. 47) IISIJlll(JIIIJIJ"', poiché questa variante si trova in alcuni
codici di l: (8 H) e anche in P, che rappresenta una tradizione separata.
Inoltre è attestata anche da À, che secondo il Franceschini è il migliore
testimone di l: (art. rii., p. 167). Il medesimo vocabolo è usato poi dal-
l'anonimo anche in un'altra epistola: Al/egorite et aenigmatitemtdta a le
tolligllfllllr(Epist. XIII). In questa prima epistola mqm-
IISIJlllf/lllUJll4
lJIIIHl"6significa « in sommo grado » oppure « completamente », « del
tutto». In questa accezione il vocabolo è attestato nell'Itala (cfr. RONSCH,
Itala 1111d Vtdg., p. 230) in Psa/111.37, 9: et h11mi/iatusmm IISIJIIIIJ1llllllle
(lc.><;ap68pct; V11~.: et h11111i/iatm 111111ni111is);cfr. inoltre Psa/111.118, 8,
passo che è citato da Ambrogio: ne dtre/in(jllllmme mqt1e(jlllltp14 (lc.><;
ap68pct),ho, est 111tdt11111 (Ambr. In Psa/111. 118 Serm. 1, 16). Diversamente
da Ambrogio che interpreta glossando mqt1eqlltlljt1e ho, est 111td1t1111,
anche
in Psa/111.118, 8 conviene intendere mqmq1111q111 « completamente, del
tutto», come interpreta il BLAISE 1 (s.v. mqueq1111(Jlll,
p. 861). Solo che qui
la frase è negativa e IIS(jlll(JIIIJIJIII
prende il significato di « in nessun mo-
do », « in nessun caso ». Concludendo: in base a Psa/111. 37, 9 possiamo
interpretare libellot,,o letto [••.] mqm(JIIIJIJm rejetti s11111m:« con la lettura
dei tuoi scritti ci siamo completamente ricreati ».
Reftrio, comune nel latino classico, diventa negli autori cristiani
quasi un tecnicismo religioso per indicare quel senso di intimo appaga-
mento che deriva dalla soddisfazione delle più alte esigenze spirituali
(cfr. Greg. M. In E1111ng. 8, 1: qlli elettor11111
mentes interna satietale reft-
ç,rel), è quello stato di grazia dell'anima vivificata e ritemprata da un
nutrimento soprannaturale (Satra111.Greg. PL. 78, 34C: rejetti ribo
po11«fNe taelesti,· ibid. 40 B: q110stllis reftrissatramentis). Nel nostro testo,
fonte di godimento spirituale sono le epistole di S. Paolo, sublimi per
la loro ispirazione divina.
-88-
divina di S. Paolo è un tema che ricorre anche altrove nella nostra·
corrispondenza: Spirilus enim san,tu.rin le et superexcelsossublimiore salis
11111erabiles
sensus exprimil (Episl. VIl); solere deos ore innocenli11111 effari
(Episl. Vll): il nostro autore ha qui presenti gli scritti autentici del-
l'apostolo, in cui egli afferma che la forza del Cristiano, il suo apostolato
è unicamente merito di Dio. S. Paolo dichiara di essere uno strumento
nelle mani di Dio e sostiene che le sue azioni, le sue parole, la sua forza,
tutto proviene da Dio; cfr. ad es. Eph. 6, 19: et pro me, 111delllr mihi
sermo in aperlioneoris mei ,11111 foiuçia,no/11111
facere 111ysteri11111
evangelii,
pro quolega/ione fungor in ,alma, ila 11/in ipso audeamproul oportelme loqlli;
inoltre Gal. 1, 11-12: No/11111 enim vobisfario,fratres, evangeli11111,
q,,odevan-
geliz.alllmest a me, qllia non est secllltdMm
hominem,· neq11eenim egoab homine
a&cepii/11111ne(JIIIdidid, sed per revelalionemles11Christi; cfr. poi anche
/oh. 14, 10: Verba (Jllllee!!' /oqll()rvobis,a me ipso non loq,,or.Pater a11le111
in me manms, ipsefarit opera;inoltre /oh. 7, 16-18; /oh. 8, 26; 40; etc.
- 89-
tarda latinità. Presso gli autori cristiani talora la parola ha un senso più
pregnante che non nel latino classico: designa infatti la nobiltà, la gran-
dezza che deriva all'uomo dalla sua origine divina; cfr. Novatian. Trin.
25 (20) PL. 3, 963 C: Si enim han, habetgentro.ritatem immortalitatisanima
homine,111nonpos.ritinttrfai; Aug. Gen. ad litt. 11, 32, 42 PL.
in IJlll)dvis
34, 447): SII/legentro.ritatisindex anima rationalis; Cypr. Zel. 15 CSEL.
3, p. 430: q1111nto maior in Deo patre laetitia est, '11mqllis.ti, spirita/iter
nasdt11r,111in a,tibllSeillSet lflllliibllS
di11ina
gentro.ritas
praeditehlr.Nel nostro
testo l'anonimo fonde nella parola gentro.ritasil significato retorico-
classico (di cui sopra abbiamo riportato alcuni esempi) con il nuovo
significato religioso che il vocabolo ha assunto per influsso cristiano.
Quindi il nostro autore, usando il vocabolo gentro.ritasper designare la
nobiltà della espressione in Paolo, ribadisce implicitamente il concetto,
già espresso prima, che la loro grandezza è sovrumana, deriva da Dio.
Il Kraus, in luogo di darmi, legge ,allms con C Z ~ N J µ, lezione che
però è da scartare poiché non dà senso plausibile alla frase. Callens
sarebbe attributo assai improprio di maiestas. Seguendo il Barlow e
il Kurfess, è preferibile leggere darmi, com'è nella maggior parte dei
codici, tenuto conto anche della lezione darente di P, che pur essendo
erronea, depone a favore di ,/areni. Tanta [...] genero.ritate darmi: il sog-
getto res (cioè, i pensieri, i concetti di Paolo) è ricavabile facilmente da
ear11mrer11111che precede. Si noti che l'uso di ,/areo con l'ablativo, già
attestato nel latino classico, è ancora più frequente nella tarda latinità;
si confronti, in particolare, tanta [...] gentro.ritate ,/areni, 11111ixSllj/etlllf'as
p11temaetatescon una frase di Agostino, che ha una struttura abbastanza
simile ( C. Peti/. 3, 14, 15): Q1111m(jllllfll tanta manifestatione,/areni IJllll6
di,t11rs11S
s11m,111[...] ttrle apllli nosmetipsosin ,ordib11S vestrisver11mme di-
xisse fateamini, e conferma che i pensieri darent « ricevono luce » per
il modo in cui sono espressi.
[p. 67, r. 13] - QUAE ms: è lettura del Barlow, fondata su (jlllhis
di P, che rappresenta una tradizione separata dal resto dei mss. Il Barlow
preferisce questa lezione a qflib11Sche compare nella maggior parte di
essi, poiché in V D Z U N J ). compare la lezione qtdbllShis che con
ogni probabilità è un errore dovuto ad assimilazione per IJllllehis, che
può quindi considerarsi lezione autentica. Si nota in C un tentativo di
correggere il testo guasto: quibm hae,. Anche il Kurfess segue il Barlow
e accetta q1111ehis.
-90-
dans l'Eglise, se trouve primitivement consacrée dans Ics épltres de
saint Paul » (op. cii., II, p. 302, nota 2); cfr. anche SVENNUNG, pp. 25
e t 53. Si noti che il nostro autore usa la formula cristiana Jrater senza
porsi neppure il problema se questa si adatti o meno allo stile di Seneca.
Ciò non deve sorprendere poiché l'anonimo usa formule generiche di
saluto, pressoché uguali tanto per Paolo che per Seneca, senza sforzarsi
di persooaliu.arle. Per es. la formula Bene te valere,frater, çupiosi ripete
lievemente variata anche nella II e nella IV epistola, che il nostro autore
finge scritte da Paolo (Opto te diu benevalere,·Bene te valereopto). Ciò fa-
cendo l'anonimo non tiene conto del fatto che invece nelle epistole auten-
tiche di S. Paolo il saluto ha un'ampiezza ed un significato assai diverso
da quello delle Epistole Morali di Seneca. Infatti nelle epistole paoline
le formule di saluto sono assai varie e complesse perché si tratta di let-
tere vere e proprie, che nascono per dare una risposta alle esigenze reali,
ai problemi vivi delle varie comunità ecclesiali, cui l'apostolo si rivolge
per dare consigli di morale pratica e per fornire direttive circa questioni
dottrinali. Il commiato è una parte integrante della lettera, in cui sono
menzionati gli amici ed i collaboratori più stretti, che dimorano presso
le varie chiese (come ad es. in Rom. 16, 3-16); talvolta S. Paolo appro-
fitta proprio del saluto finale per fare le ultime raccomandazioni e dare
gli ultimi consigli (come ad es. in II Cor. 13, 11: De ce/ero,fratres, gau-
dete, perftcti estote, exhortamini, idem sapile, pacem habete, et Deus pacis
et dilectioniserit vobiscum)e poi, prima di accomiatarsi definitivamente,
non tralascia mai di rendere grazie a Dio. Diversamente, nelle Epistole
a LNdlifl, vi è un'unica sintetica formula di saluto: vale.In Seneca infatti
la forma epistolare è solo un artificio letterario per esporre dei precetti
morali ed il saluto è solo una formula stereotipata, che Seneca pone
alla fine di ogni epistola per dare la parvenza di una lettera vera (sul
diverso carattere delle lettere di S. Paolo e delle Epistole Morali di Se-
neca, cfr. J. N. SEVENSTER, op, cii., p. 23 sgg.). Dunque l'anonimo non
si preoccupa minimamente né di imitare Seneca, né di imitare Paolo,
ma usa delle formule convenzionali, comuni nel linguaggio epistolare;
cfr. ad es. Cypr. Epist. 1, 1: Opto vos,fratres carissimi,semperbenevalere:
ibid. 1, 4: Opto te,Jrater carissime,semperbenevalere.Confrontiamo inoltre
il saluto della X epistola (vale,devotissimemagister)e della XIV (vale, Se-
necacarissimenobis)con alcune formule di commiato che si trovano nel-
l'epistolario di Frontone, Epist. 5, 47 (Van den Hout p. 80): Vale, mi
magisterillllllldissimemihi,· ibid. 3, 5 (Van den Hout p. 39): Vale, mihi
Fronto carissimeet i11&undissi111emihi. La genericità delle formule di com-
miato pressoché uguali per Paolo e per Seneca fa già intravedere come
lo scopo del falsario non sia l'emulazione stilistica; e questo ci permette
di trarre fino da ora una prima conclusione, che cioè è molto impro-
babile che la nostra corrispondenza sia una esercitazione scolastica,
come si pensa comunemente (cfr. BARLOW, op. cii., p. 92). In tutto l'epi-
- 91 -
stolario, come vedremo meglio analiznndo le altre lettere, l'anonimo
attinge molto raramente alle opere autentiche del filosofo e dell'apostolo.
Se si trattasse di una esercitazione retorica invece, le citazioni di passi
di Seneca e S. Paolo si susseguirebbero a ritmo serrato e tutta la corri-
spondenza avrebbe la fisionomia più o meno ccntonaria che caratterizza
questo genere di componimenti scolastici.
-92-
EPISTOLA II
-93-
l'apostolo: Paolo, in quanto cristiano, colloca il suo nome dopo quello
del destinatario, in segno di umiltà; Seneca, in quanto pagano, si at-
tiene all'uso classico, anteponendo il proprio nome a quello dell'apo-
stolo.
-94-
nire in tempo la risposta, è un luogo comune che ricorre spesso nella
letteratura epistolare da Cicerone in poi: cfr. Cic. Epist. ad Att. 6, 7,
2: Tiro ad te dedissetlitteras, nisi e11111 graviter aegr11111 Issi reliqtdssem;cfr.
anche Plin. E pist. 2, 12, 6: """' et festillllnfi et diligenti tabellariodedi;
,tisi (JIIÌdimpedimentiin tlÌa pasSIISest. Simmaco ricorre più volte a questo
-ro'ltot;nel suo epistolario; in Epist. 3, 28 egli accusa il tabellarillSla-
mentandosi della sua assenza : tabellarior11111 (JIIO(JlleneglegentiaS11Scepta111
operampler11mqm jr11Stretllf'.Lo stesso motivo si trova anche in Epist.
8, 34: Smbere ad te ante voltdssem,·sed commeantibmmultisfaiam occasionem
debet excerperesmbentis electio. Accepisti ca11Sam tardioris ojjfrii, (Jllllesi
animo IIIIJ satisftdt, Cllf'aredignaberis111ad me (JIIIJ(Jlleresponsa11111 idoneis
ço111111Ìssa perveniant.In un'altra epistola (3, 4) Simmaco pone la carenza
di messaggeri in un elenco di scuse abituali: P11tasme solemnigenerede-
/ ensionislevarepeccat11m?« Di11abftd: longaofio in secess11 ruris exegi, ta-
bellarii defuer1111t»? Per quanto concerne l'opportunità di valersi di un
messaggero fidato e non di una persona qualsiasi, cfr. ancora ibid. 1, 87:
Intellexi mim ilKlllldiores fore litteras meas,si has libi familiarior tabellarillS
tradidisset, (jllÌ non so/11111epistolam, sed insin1111tione111 (JIIO(Jlle111eor11111
libi
fide/iter exhibebit.
[p. 68, r. 4-5] - Sc1s ENIM QUANDO ET PER QUEM ET QUO TEMPORE
BT CUI QUID DARI COMMITTIQUE DEBEAT: l'anonimo ribadisce la neces-
sità di valersi di una persona fidata per far recapitare la corrispondenza
e cosi mette implicitamente in rilievo anche la delicatezza dell'incarico.
Questa prolissa enumerazione è secondo il Barlow (op. dt., p. 90) una
reminiscenza retorica. Non è questo un caso isolato: analizzando la
corrispondenza troveremo infatti altri elementi retorici, che metteremo
in rilievo di volta in volta. La loro presenza costante conferma che il
nostro autore ha avuto un'educazione retorica. Nel caso specifico, ha
ragione il Barlow nel sentire nella enumerazione q1111ndo [...] (JIIOtempore,
dari co111111ittiqmun riecheggiamento delle liste di termini che si trovano
nei manuali di retorica o la reminiscenza di pedantesche norme rice-
vute in qualche scuola di eloquenza; cfr. ad es. [Aug.] Rhet. 7 RLM.
p. 141, 19-21: S1111t igitur haec:qtds, q11id,q1111ndo,
11bi,cur, quemad 111odu111,
(JIIÌbllSad111ink11/is,
q1111s Graui vocant; cfr. anche Fortun. Rhet.
cxcpopµ.«t;
3, 20 RLM., p. 132, 27-29 (il passo è citato oltre, a p. 96). Questo dcl-
( = « occasione ») è anche un 1:6'ltot;della letteratura epistolare;
i' cxcpopµ.~
cfr. THRAEDE, op. dt., pp. 117 e 142; etc. H. KosKENNIEMI,op. dt.,
pp. 81-87; nelle lettere infatti si accenna talora all'occasione colta per
rispondere (occasiosalutandi, rescribendi,etc.); cfr. ad es. Hier. Epist.
104, 1: n11m(Jllllm mihi melior occurritoccasio,q1111m 111per Dei serv11111 at
fidelissi11111m
111inislrtl111 mihiquecarissi11111111,
mea libi adferreturepistula,q1111/is
est ftlim noster CyprianllSdiacon11S; cfr. anche Aug. Epist. 145, 1: Sa/11-
tandi sinçeritatem11111111faiissima occurritoccasiohonorabili11111servor11111Dei,·
-95-
ibid. 191, 1: restribendio,N11Tit
o&&asiop,r dik,tissimumftlium nostruma&oli-
thum Albinum; cfr. anche ibid. 189, 1 ; 192, 1 ; etc. In questi esempi come
nel nostro testo l'occasione è data dalla presenza e dalla disponibilità
di una persona fidata a cui far recapitare la corrispondenza. Il nostro
autore, che mette cosl in rilievo la prudenza usata nella scelta del tabel-
larillS,vuole forse alludere anche al clima di segretezza in cui immagina
si svolga la corrispondenza epistolare tra Seneca e S. Paolo. Soprattutto
Paolo sembra preoccuparsi che tutto avvenga nel più assoluto riserbo:
cioè all'insaputa di Nerone e della sua corte. Ciò sembra confennato dal-
1'ottava epistola in cui Paolo rimprovera con fermezza Seneca per avere
parlato di lui e della fede cristiana all'imperatore, considerandola una
pericolosa imprudenza: PIiio enimle grauiterferisse,(JIIOd,i in notiliamp,r-
f '"' 110/llisti ritlli ,1 disriplina,1i11S
(JIIOd sii rontrarium.
-96-
certo linguaggio: cfr. Sulp. Vict. Rhet. 15 RLM. p. 321, 13-14: Cmtodit,
trlf} f adendtl111 est, 111rebm personis(JIII aççom111odenl11r11erbafJ1lllt de,ent;
cfr. inoltre [Aug.] Rhet. 8 RLM. p. 141, 24-20: Qllis signifoantiamhabet
persona,,(J1llltspe#ahlrdlllJbmmodis,ex nomineet qualitale[...] Ex qualitale:
tpds? Dilles et pauper, imperator.Est aulem definita in nominibm,infinita
in qualitalibmpersonar11m perspe,tio, fJlltlllllo
in appellationemnibil praeter
no111en ,adii, in qualita/1111
,t f orllllllZ
et aetaset çonJiçjoet disriplinaet retera,
(J1lllt Sllllf infinita numero;cfr. anche Fortun. Rhet. 2, 1 RLM. p. 103,
3-4; Personaquot 111odis ,onsiderahlr?[...] nomine[...] natione[...] patria,
etc. (per ulteriori esempi, cfr. Lausberg, pp. 508-509). Nel nostro testo
si può vedere in tanti 11irie ancora di più in rensorsophista,magistertanti
prinripisetiam 011111i11m
una precisazione appunto di qualitatempersona,.
Questi appellativi, che il falsario usa subito dopo, definiscono gli aspetti
della poliedrica personalità di Seneca e mettono in rilievo la sua elevata
posizione sociale, il prestigio di cui godeva presso i contemporanei:
del resto personaè proprio la dimensione sociale dell'individuo, il ruolo
che svolge nella società (non dimentichiamo che in origine personaera
la maschera dell'attore e per metonimia la parte recitata sulla scena).
[p. 68, r. 6-7] - LITI'ERIS MBIS vos BENE ACCEPTOS: si nota qui un
insolito uso di atripere,di cui abbiamo un altro esempio all'inizio della
VII epistola di questa stessa corrispondenza: Proftteorbeneme aççep/11111
leetionelillerar11mt11ar11m.Si confronti con un uso riflessivo di atriper,
di cui ho trovato solo un esempio in Arnobio, Nat. 7, 29:fre(jlllfltissim,
inrig11111 se vino; in questo passo s, a,riperesignifica « dilet-
atripi1111f(JIII
tarsi », « prendere gusto a qualcosa », come nel nostro testo. CTr. anche
Cic. Ali. 16, 3, 1: H1111, [se. libr11111]
111trala/11111
in 111açroçol/11111
legear,ano
tollllillistllis s,d, si me amas,hilariset beneaççeptis,ne in me stomadmmer11111-
pant mm sinl libi irati: qui l'espressione hilaris et beneaççeptispuò con-
siderarsi come un'endiadi dove beneatreptisha pressoché lo stesso signi-
ficato di hilaris: « contenti e soddisfatti»; cioè atreptm (« che gradi-
sce ») è usato in senso mediale, è analogo a una forma di deponente:
cfr. la duplice accezione di gratm. Si consideri infine un passo di Fron-
tone, dove l'espressione è all'attivo (Epist. 4, 13, p. 68 Van den Hout):
Aristonis libri 1111 hat tempestatebenea,ripi1111t
af(JIIIidem habentmale: ,11111
dotent meliora,111111 srilket benea,ripi1111t.
[p. 68, r. 6-7] - SED [ ...] FELICEM ME ARBITROR TANTI VIRI IU-
DICIO: qui std è una ripresa del concetto precedente: Seneca non è stato
trascurato da Paolo, anzi I Possiamo interpretare cosi tutto il passo:
« Anzi, poiché tu mi scrivi da qualche parte che vi siete dilettati leg-
gendo le mie lettere, io mi considero fortunato per il giudizio di un
uomo cosi illustre ». Paolo è lusingato dalle lodi che gli sono state ri-
volte da Seneca: anche questo è un luogo comune del linguaggio epi-
- 97 -
7
stolare, come si può vedere ad es. in Symm. Epist. 3, 10: Expe,tu
a 1111/itt,r,u /argior,s:d,/,ç/or i,ldido /Ilo.
-98-
.ud sttdta 111lllldi elegit Pater, Id shdlllS essei saeadi,prlllims Dei;
st111111111S
qui Prudenzio si rifà a I Cor. 1, 27: sed (Jlllll sttdta st111t
111lllldi
elegit De11S,
Id t0nfllllllatsapimtes(-roòi; aocpoui;).Ma qui preme considerare piuttosto
l'altro filone più conservatore della tradizione, quello cioè che sviluppa il
significato positivo della parola sophistae che ricalca più da vicino il
greco aocpLa-riJt;. Questo secondo filone, in cui si inserisce anche il no-
stro testo, si rifà all'ideale sofistico-isocrateo della retorica come filo-
sofia, che si tramanda nel mondo antico fino a Cicerone, il quale riesce
a conciliare la retorica e la filosofia cosi nella pratica di scrittore, come
nella teoria, quando afferma che l'oratore ideale deve essere fornito di
dottrina filosofica (cfr. Orat. 14; De orat. 3, 55 sgg.; etc.). A Cicerone
si ricollegano poi Quintiliano e Tacito (in particolare, per sophistain
senso positivo, cfr. Cic. Orat. 65; Fin. 2, 1). Gli esempi di sophistacon
significato positivo sono in complesso relativamente pochi, certamente
molto m:no numerosi di quelli in cui il vocabolo è usato in senso dispre-
giativo, cioè nell'accezione più comune. Il vocabolo dall'originario
significato in cui sono fuse le nozioni di filosofo e di retore (cfr. il greco
aocpLa-riJt;)nel corso del suo sviluppo semantico, finisce per designare
l'esperto dell'arte del dire, mentre la nozione di filosofo passa decisa-
mente in seconda linea (cfr. aocpLa-riJt;, ERNESn,gr. p. 311 sg.). Nel IV
secolo, quando il vocabolo è usato, come nel nostro testo, in senso po-
sitivo, significa « maestro di retorica », e non può intendersi « filosofo ».
È interessante la definizione che di sophista dà Mario Vittorino, una
delle personalità di maggior rilievo della seconda Sofistica, che conosce
nel IV secolo un periodo di nuovo splendore: DitendN111 etia111videlfll"
(Jlllll distantia sii inter rhetorem,sophistamet oratorem.Rhetor est (jlli dotet
litteras atq,,e artes tradii eloqumtiae,sophista est apud q,,em di&mdiexerd-
#11111 disdt11r;orator est, qui in ta11sisprivatis at publi&ispiena et perfetta
(Rhet. 1, 1 RLM., p. 156, 21-25). Secondo Mario Vitto-
tdilfll" elo1J11111tia
rino, mentre rhetorè colui che insegna letteratura e teoria dell'eloquenza,
sophistaè colui che mettendo in pratica le regole dell'ars rhetoritainsegna
con l'esempio: è il maestro di pratica oratoria (cfr. MARII V1CTORINI,
Ars gra111111atita, Introduz., testo critico e comm. a cura di I. Mariotti,
Firenze 1967, p. 14). Distinzione sottile questa di Mario Vittorino,
poiché in un passo di Girolamo (Chron. a. Abr. 2380 (a. 366), PL. 27,
691-692) sophisla significa « maestro di retorica», senza ulteriori di-
stinzioni: Prohaeresi11S sophista Athmimsis, lege data ne Christiani libera-
li11111 arti11111
dotloresesseni,t11111sibi speda/iter/11/ianllS
tontederet,111Christia-
flllS doterei,stholamsponte deserllit(Girolamo allude qui alla disposizione
dell'imperatore Giuliano, che, nell'anno 362, vieta ai Cristiani l'inse-
gnamento delle arti liberali). Inoltre, diversamente da come stabilito
da Mario Vittorino, anche ora/orè spesso usato col significato di « pro-
fessore di retorica». Per esempio all'inizio del IV secolo, nell'editto di
Diocleziano del 301 (Edi&/11111 Dio&letianiet &0llegar11111
de pretiis rer11111
ve-
- 99 -
nali11111),
ora/ore sophistasono sinonimi di rhetor« professore di retorica »:
Gra111111alit0Gr111t0 sib, Latino 1/ g,01111/r111
in singulisdisdptdis 111mslrllos
dl«mtos. Oratori sib, sophis/111 in singulisdisdp11lis1111nslrllosdtlmttostpdn-
(Jllllginta.Nel testo greco: rp«µ.!J.Ot-rr.xij> 'ElllJvLxij> ~-roL 'P<a>µ.cxt>«j>
~ ye<a>µ.brpnù[1t]èpbt[<ia]-rou1tcxL8b~
(-1,lJ a 'P~-ropL~-roLaocpLcn-jj
(vLCXi:cx) ùmp
av(Edi,t. Dio,/. 7, 70-71, QL. m, 2, P· 831). Si
!x<ia-rouµ.cx~ou (-1,lJVLCXi:cx
deve pensare quindi che la distinzione di Mario Vittorino in Rhet. 1, 1
miri proprio a disciplinare l'uso indiscriminato di rh,tor,sophistae ora/or
che ormai erano sentiti dai contemporanei pressoché come sinonimi
e di cui allora non si percepiva più chiaramente la differenza. Dagli
esempi citati risulta che nel IV secolo, quando è stata composta la
nostra corrispondenza, sophista,in senso positivo, significa « maestro
di retorica», in un'accezione molto vicina a quella di rh,tor. Ora nel
nostro testo, se da un lato l'uso di sophistain senso positivo è del tutto
plausibile in quanto è attestato in scrittori contemporanei ed è perfetta-
mente coerente con lo spirito della seconda Sofistica, di cui è permeato
l'ambiente culturale in cui vede la luce il carteggio apocrifo, d'altro
canto viene fatto di rilevare come l'appellativo di « maestro di retorica»
mal si adatti al filosofo Seneca: proprio Seneca, che nei suoi scritti auten-
tici afferma che ogni ricerca di effetti oratori è indegna della filosofia
e che è necessario badare al contenuto e non alla forma: Q1144r1(Jllid
smbas, non tp14111ad111odu111
(Epist. 115, 1); non d,l,çt,n/ 11,rbanostra, s,d
prosint (Epist. 75, 5; cfr. inoltre Epist. 52, 9-15; 100; 114; Dia/. 9, t,
14; etc.). Uno dei motivi ricorrenti nelle Epistol, Morali è proprio la
polemica contro il culto della forma, contro la retorica intesa come fine,
mentre da Seneca è sentita solo come un mezzo per avvicinarsi alla filo-
sofia. È vero però anche che Seneca. pur enunciando nei suoi scritti una
teorica opposizione alla retorica, nella prassi si avvale ampiamente degli
artifici retorici per mettere in rilievo il suo pensiero, tanto, da poter
essere considerato il rappresentante più importante dell'asianesimo
romano del suo tempo, proponendosi cosl ai contemporanei ed ai
posteri come maestro di stile. Si potrebbe cosi tentare di giustificare
l'uso di sophistanel nostro testo pensando che l'anonimo adoperi questo
vocabolo nel senso rigorosamente stabilito da Mario Vittorino di « mae-
stro di pratica oratoria », ben distinto da rhetor« insegnante di tecnica
oratoria », in quanto Seneca, pur non avendo mai insegnato retorica,
costituisce lo stesso un modello da imitare; ma a questa interpretazione
si oppone, a mio avviso, un altro passo dell'epistolario, in cui si im-
magina che Seneca invii a Paolo un manuale De 11,rbor11111 ,opia (Epist.
IX) ove si presuppone, mi pare, un Seneca teorico dell'eloquenza, un
Seneca « rhetor» (sulla complessa questione del De 11,rbor11111 ,opia,
cfr. oltre, p. 151). Ciò, a mio avviso, induce a supporre che il nostro
autore confonda in una sola persona Seneca figlio e Seneca padre, cul-
tore di retorica. Proprio all'inizio di questa II epistola Seneca è definito
-100-
,nuor [111ort1111]sopbista,magistertanti prindpis, etiam omni11111, dove ,ensor
è indubbiamente un'allusione a Seneca «morale», cioè al filo-
111ort1111
sofo, mentre sophista,che, come abbiamo visto, è usato qui col signi-
ficato di « maestro di arte oratoria », cioè come sinonimo di rhetor,
sembra alludere piuttosto a Seneca retore, la cui personalità e la cui
opera non appare distinta da quella del figlio: ci troviamo di fronte
ad una sovrapposizione di personaggi. La figura di Seneca cosl come è
tratteggiata in tutto l'epistolario dove emerge ora il filosofo moralista,
ora il maestro di arte oratoria, è il risultato di una contaminazione. Non
dobbiamo ritenere però che la erronea fusione dei due Seneca in una
persona sola sia frutto di un fraintendimento personale del nostro
autore: qui l'anonimo si limita a seguire passivamente quella che era
opinio. Sappiamo con certezza che durante tutto il Medio
la ço1111111111is
Evo e l'Umanesimo i due Seneca, padre e figlio, non erano distinti
(K-D. NOTHDuRFr, op. dt; R. SABBADINI, Le s,opertedei ,odid latini e
gred ne' setoliXIV e XV, NIIOVeri,er,he,Firenze 1914 [ed. anastatica a
cura di E. Garin, Firenze 1967], II, p. 250; P. DE NoLHAC, op. dt.,
II, p. 117; G. MARTELLOrn, La q1111tione dei due Sene,ada Petrar,a a
B1111111111to,« Italia medioevale e umanistica», 15, 1972, pp. 148-168).
Ma abbiamo prove sufficienti per affermare che già nella tarda anti-
chità il retore e il filosofo erano confusi in una persona sola
(W. TRILLITZSCH,op. di., I, p. 143; cfr. anche E. B1cKBL, Lehrb1«h
d. rom. Lit., Heidelberg 1937, p. 411). Prisciano ad es. nel De ftgu-
ris 1111111eroru111,3, 14 (Gra111111. m Keil p. 410) cita una presunta rac-
colta di lettere a Novato: Seneta in dedmo epistular11111 ad Nwalllm:
« lliginti (Jlltlllllorsestertia, id est ta/111111111Attit11111 pan,11111
». La cita-
zione è tratta dalle ConlrOtlersiae di Seneca padre (10, 5 [34], 21):
C11111donare/i/li Caesartalen/11111 in fJIIOtliginti(JlltlllllOr
sestertia111111
Athe-
llimsi11111 n-
mor,: "1Jxp6a&cç,cpl)aiv,"1Jcicpw, tv« µ.~,AnLXÒV Inoltre l'indi-
cazione fornita da Prisciano circa il destinatario di questa presunta rac-
colta di epistole riecheggia inequivocabilmente, se pure in forma ab-
breviata, la dedica di Seneca padre Seneta Nwato, Sene,aeMela, ftliis
salutem, che si trova proprio all'inizio delle Controversia,.È evidente
che qui Prisciano confonde Seneca filosofo, autore delle Epistole a
Ltldlio con Seneca padre autore delle Contrwersiae(cfr. P. GERMANN,
Di, sogennanten SententiaeVa"onis, (« Studien zu.r Geschichte und Kul-
tur dcs Altertums ») Paderbom 1910, p. 83 sg.; W. TRILLITZSCH,
op. dt., I, p. 202). La tradizione di un unico Seneca retore e filosofo
è talmente radicata già nella tarda latinità che Sidonio Apollinare,
di fronte ad un passo di Marziale che parla di due Seneca (Mart. 1, 61,
7: IUIOSIJIII SenettJS1111it111111J111
L1"an11111),anziché riparare alla fusione tra
Seneca padre e Seneca figlio, opera un erroneo sdoppiamento, distin-
guendo Seneca filosofo da Seneca tragico, anticipando cosl le conclu-
sioni degli Umanisti, che sottoporranno la questione dei due Seneca
-101-
ad una approfondita indagine aitica (Sidon. Car111. 9, 230 sgg.): Non
(JIIOd Cordllbapr114potmsa/11111nis del, bit p11teslegena, / (JIIONIIII
/ fatt1111U1111
IIIIIIS ,o/il hispidumP/atona/ in,asst11111J111
SIIIIIII 11101111
Neronem,/ or,hestra111
(JIIIJIÌI alter Emipidis, / pi,111111
f Mdbm Aes,hylon set11111.J / a11tplall.Jtris
solilllmsonar, Tbespin,/ tpd post ptJpita trita mb ,othllf1lo/ dtl&ebant olida#
111are111 ,apellae.Gli Umanisti che si occupano della questione a comin-
ciare da Boccaccio e Coluccio Salutati, per citare solo i più noti, fanno dei
due Seneca, il retore e il filosofo una persona sola, mentre attribui-
scono le tragedie ad un figlio o fratello del filosofo (M. PASTORE-STOCCHI,
Un ,hapitr, d'histoirelittlrair, allX XIV• et XV• siètles: « Smeta poeta
tragitll.J », in AA.VV., Les tragldiesti, SlnèlJIII et le thlatreti, la Renaissan&t,
Parigi 1964, p. 34). È significativo che anche nell'età umanistica si
giunga ad uno sdoppiamento tra Seneca « morale » e Seneca « tragico »,
ma si continui senz'ombra di dubbio ad attribuire al filosofo le opere
retoriche dd padre. Del resto in tutta la tradizione manoscritta e ancora
nelle prime edizioni a stampa l'opera dd retore non è distinta da qudla
dd filosofo (un accenno alla distinzione di Seneca padre da Seneca
figlio si trova per la prima volta in Rafade Volterrano, Co111111mlar.
Urban., Basileae 1559, XIX, p. 446, come attesta R. SABBADINI,op.
di., II, p. 178). Ciò a dimostrazione di quanto fosse profondamente ra-
dicata la tradizione di un unico Seneca retore e filosofo.
Tornando al nostro testo, l'uso di sopbislacome sinonimo di rhetor
è uno degli indizi che portano a supporre che anche il nostro autore
confondesse in una sola persona il retore e il filosofo. Comunque è
certo che l'anonimo, come giustamente gli si rimprovera, pecca per
troppo zelo, attribuendo impropriamente a S. Paolo l'uso di sopbista
in senso positivo: Vo,abtJor11111 mmtio se offert in ea signifoationefJIIIJI
PatJo [...] inllSÌlalaera/ (L. W. LoESCHER, De epistolisPtlllli ad Smeta111
l!]pobolimMis,diss., Wittembergae 1694; cito da FLEURY, op. dt., II,
p. 261, nota 2). È evidente la forzatura od fare di Paolo un ammiratore
dell'doquenza raffinata di Seneca. Paolo, che in II Cor. 11, 6 si fa un
vanto di essere profano nell'arte del dire: Nam etsi i111peri111s sermone,
sed non sdentia; cfr. anche Col. 2, 4: Hot a11te111 dito, 1111111110
vos d,dpiat
in mb/imitaleser111on11111.Paolo non era un retore né ci teneva ad esserlo.
In Paolo l'ostentato disprezzo della retorica non è solo un luogo co-
mune, un vezzo di chi in fondo è consapevole della propria abilità
retorica, come spesso è in Seneca, ma ha radici più profonde. La
critica di Paolo va ben oltre quella di Seneca: si ricollega infatti al di-
scorso più ampio intorno alla sapienza umana che per Paolo è comunque
sempre una pseudoscienza, in quanto imperfetta, parziale e perciò
ingannevole, di fronte alla Sapienza divina che è l'unica veritiera in
quanto manifestazione della infallibilità e ddla perfezione di Dio (cfr.
ad es. Col. 2, 1 sgg.). Nd nostro testo dunque, l'anonimo, presentando
Paolo come un fervido ammiratore dell'abilità retorica di Seneca, tra-
-102-
discc il suo intento che, come risulta chiaro anche da tutto il resto del-
l'epistolario, è quello di controbattere e neutralizzar'! in qualche modo
le accuse rivolte ai primi Cristiani di essere gente rozza e ignorante,
insensibile alla cultura e alla tradizione classica. Queste accuse polemiche
si inseriscono nell'ambito del contrasto tra l'elemento pagano e l'ele-
mento cristiano, che nel IV secolo, quando è stata scritta la nostra cor-
rispondenza, conosce sl momenti di distensione, ma attraversa anche
periodi di acuta crisi. Il nostro testo rispecchia le polemiche e le aspi-
razioni del IV secolo, quando, come dice il Boissier (Le ,hrislianismed4
Sinèq,,e, « Revue des deux mondes » 92, 1871, pp. 40-71) il Cristia-
nesimo sente l'esigenza di «nobilitare» le proprie origini agli occhi
della parte conservatrice pagana, che ostenta disprezzo per i testi sacri
ritenuti rozzi in confronto ai testi classici. Il nostro epistolario che pre-
senta S. Paolo come un deferente ammiratore di Seneca, e Seneca viva-
mente interessato agli scritti di Paolo, è la risposta polemica ai letterati
del IV secolo che disdegnavano le Sacre Scritture considerandole ina-
datte alle persone colte.
[p. 68, r. 9] - NISI QUIA VERE DICIS: nisi qtda con l'indicativo
si trova anche nel latino classico (cfr. ad es. Ter. B1111.
737; Cic. Mii.
19; etc.) ma è molto più comune nel latino ecclesiastico, per influsso
del greco Et µ~ IS·nsoprattutto nella letteratura di traduzione (cfr.
BLAisE1 , p. 173; si veda anche LEUMANN-HoFMANN-SzANTYR, p. 587).
- 103 -
piena di lodi e convenevoli, si mantiene su di un tono formale e oon ha
niente a che vedere con le lettere autentiche dell'apostolo, che non di-
vagano mai dal loro scopo che è quello di annunciare il V angelo: omaggi
e lodi alla sapienza umana non sono nello stile di Paolo (I Cor. 1, 20:
No11TJestultamftcit Dem sapienliamhllim mlllldi?Col. 2, 8: Videte ,u tpds
r,osdet:ipiatperphilosophiamet inanemfalladam). Il falsario non imita qui
né Paolo, né Seneca: aaiticamente e anaaonisticamente immagina che
il filosofo e l'apostolo corrispondano tra loro come farebbero due suoi
contemporanei, cioè limitandosi a scrivere frasi banali e generiche, scam-
biandosi vicendevolmente lodi e attingendo ai più triti luoghi comuni
(come la carenza di messaggeri sicuri). Si pensi ad esempio alla banalità
del contenuto delle lettere del contemporaneo Simmaco, che tralascia
volutamente ogni riferimento alle vicende storiche, alla lotta politica,
a cui pure prese attiva parte, e che si limita ad un cerimonioso scambio
di convenevoli, per cui il Boissier ebbe a dire: « jamais on n'a taot écrit
pour dire si peu dc chose » (I.A ftn dNpaganisme,Parigi 1871, II, p. 183).
- 104-
EPISTOLA ill
- 105-
qtdaj>trlintl,proj>tra.tnlf vis tXJ>ttlartlibrostplOS &11111
Std nihilomin11.t, 111a-
xi111tordino,ontinmlts lola111 111oralt111
philosophiatparltm. (Seneca si rife-
risce qui ad un trattato di filosofia morale che non ci è pervenuto (si
veda a questo proposito, M. LAusBERG,op, rii., pp. 168 sgg.); cfr. anche
Episl. 109, 17: Perso/,,;id, IJIIOd txtgtra.t, (Jlllllll(JIIIZIIIin ordinertr11111
trai,
IJllllSmoralis philosophiat ,,o/11111inib11.t
,0111ple,ti11111r. Nel nostro testo la
menzione in termini volutamente vaghi (q11114dam t10l11111ina)
di un'opera
che il filosofo avrebbe composto non è altro che una finzione letteraria,
un espediente per dar modo a Seneca di dimostrare quanta considera-
zione nutra nei confronti di S. Paolo, quanto tenga al suo giudizio:
Seneca arriva ad affermare che, pur di consultarsi prima con Paolo,
sarebbe anche disposto a rimandare la lettura della sua opera davanti
all'imperatore, se questo potesse avvenire senza rischio, cioè senza
urtare Nerone.
-106-
sfuggito al Barlow cd esaminato poi dal Franceschini, che ha Jors. Lo
stesso codice è il solo ad avere proper,(in luogo di prospere),lezione che,
pur essendo difendibile, è da considerarsi errata. Erasmo biasima l'uso
di fors in luogo di D,m o Providentia:nonallSIIS est nominareD111mq111m
S1111,a paganmtotiesnominaiin smptis stds (Erasmus, p. 679). Non deve
invece sembrare strana questa invocazione alla sorte neppure in un
cristiano quale si presuppone sia l'autore della nostra corrispondenza,
prima di tutto perché egli immagina che questa frase sia stata scritta
da Seneca, considerato ancora come un pagano, poi perché le invoca-
zioni alla sorte sono un motivo convenzionale che non implica necessa-
riamente una mentalità pagana, ma che fa parte del patrimonio comune
della tradizione classica: sono echi letterari e non ideologici. Il Lié-
nard (art. dt., « RBPh » 11, 1932, pp. 5-23) confronta il nostro testo
con l'epistolario di Simmaco: q110tiens fors dederitfandtatem (Epist. 3, 8);
si fors praemmpta,onfirm,t(7, 8); si fors ditt11mi1111et (7, 30); si fors i1111erit
(8, 17); etc. Il Liénard, con questo ed altri raffronti, mira a dimostrare,
se non un influsso diretto di Simmaco, almeno un ambiente comune
(cfr. introduz.); il che potrebbe anche corrispondere a verità essendo
ormai generalmente ammesso che la corrispondenza risale al IV secolo.
In ogni caso comunque i raffronti tra il nostro testo e l'epistolario di
Simmaco, nella maggioranza dei casi (come anche in questo che stiamo
esaminando) di per sé non hanno valore probante, poiché si tratta di
formule, a cui i due autori potrebbero essersi rifatti indipendentemente
l'uno dall'altro; cfr. del resto Stat. A,h. 1, 738: Adnlllrit for/1111a, pretor,
settmdent/ ista dei; Prop. 1, 7, 4; etc.
dexlri(JIII
-107-
[p. 68, r. 6-8] -ET POSSEM NON [PRIUS] EDERE BI BAM SCRIPTU-
llAK, NISI PRIUS TBCUM CONPERREM, SI MODO IMPUNB HOC FIERI POTUIS-
SET, HOC UT SCIRES, NON TE PRAETERIRI: probabilmente uno dei due
pri111è un'aggiunta interlineare inserita poi nel testo (N li omette en-
trambi; cxomette il secondo; U1 invece lo aggiunge). Il Barlow li accetta
entrambi. L'incertCZ%adella tradizione soprattutto per il secondo pri111
tradisce l'imbarazzo dei copisti, che avvertono come uno dei due sia
di troppo e risolvono la difficoltà tralasciando il secondo dei due, mentre
è con ogni probabilità il primo che va omesso. Seneca, nell'intenzione
del falsario, tiene tanto al giudizio dell'apostolo che, pur di consultarsi
con lui, sarebbe disposto anche a differire la lettura della sua opera da-
vanti a Nerone, se ciò fosse possibile senza rischio (imp11111), cioè senza
urtare l'imperatore. Lo sforzo di persuadere il destina.tarlo a non essere
vittima né della negligenza, né dell'oblio, è un noto -r61toc;epistolare
(cfr. sopra, p. 96 sg.). Seneca rassicura Paolo cosi come Paolo aveva
fatto con Seneca: Rogoergononp11tesneglut11m (Epist. Il). Il falsario at-
tribuisce all'apostolo ed al filosofo frasi ugualmente banali e non si
sforza di differenziare lo stile delle lettere che immagina saitte da Paolo
da quelle che finge scritte da Seneca, e ciò dimostra ancora una volta che
il nostro epistolario non è un'esercitazione scolastica su un tema fit-
tizio (come ritiene, tra gli altri, BARLOW,op.dt., p. 90) a scopo di emu-
lazione stilistica, perché in tal caso ci sarebbe un costante sforzo di
imitare ora l'apostolo, ora il filosofo.
- 108 -
EPISTOLA IV
- 109 -
Sen. Epist. 67, 2: Si (JlltJlldo inllfW11mllllepi.rttdaelllfU, let11messe mihi
llideoret si, aj/idor animo, lamqt111m libi non resmbam, sed respondeam.lta-
f/111et de ho,,(JIIOd q,,aeris,(Jlltlsi,onloqt111rlet11111:
cfr. anche ibid. 40, 1:
N11mqt111111episttdamlllam a,dpio 11/nonprotin1111111a si111111.
Si imaginesnobis
a111içor11111
absmti11111 SIIIII, q11ae
i11&1111dae memoriamrenovanlet desideri11111 ab-
smtiaefalso a/q114inani solado levant, (JlltllllO SIIIII litterae, '1""'
i11&1111diores
vera amici absmtis vestigia,verasnotas adfer1111tl; cfr. inoltre Aug. Epist.
230, 4: smbms ad le vmtus mihi IIIOS la111qt111m praesmtis i111aginor et, ,11111
olim me ser111O rllliis et inops ling1111defoiat, /amen (Jlltlsi,oram lu11m,onlo-
(Jllllr
fab11lerq114,
non satior. Quasi tutti interpretano il nostro testo: « pen-
so che tu sei presente e non immagino altro se non che tu sei sempre
con noi », con una interpretazione che può apparire banale e tautologica,
ma che mi sembra l'unica valida in quanto può essere confrontata con
frasi simili, come ad es. Ps. Cypr. Spe,t. I CSEL. 33, p. 3: t10bi.rt11111 me
essearbitror, ,11111 vobisper litteras lo(JIIOr; cfr. anche Paul. Nol. Epist.
13, 2: tu11messeme to/11111 videbiset smties,·ibid. 20, 1: se111per let11111
111111111
IIIIJIII
nobis,11111.
Il Fleury (op. dt., ll,p.341) interpreta: «je ne songc qu'à
une chosc, à t'avoir toujours avec moi ». Ma existimoin questo senso non
è attestato altrove, né è pensabile.
- 110-
Ioga di questo epistolario: d, f11t11ro (Episl. VIII). Il de è un rafforzativo
tipico della lingua popolare che serve a dar corpo alla parola. Si tratta
di formazioni tipiche (cfr. LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, pp. 283-284)
della lingua parlata che confluiscono poi nella lingua scritta (cfr. il
latino tardo de s11bito,da cui il dantesco « di subito »). L'espressione de
proximo è attestata in scrittori della tarda latinità, soprattutto cristiani,
generalmente nel senso di «vicino», « u,timameote » (cfr. ad es. Min.
Fel. 27, 7; Aug. Ser111. 69, 3, 4 PL. 38, 442) ricorre con particolare fre-
quenza in Tertulliano; cfr. ad es. Uxor. 1, 8, 2 CCL. 1, p. 382: Li,et
in illis integrilaJsolidaet Iota san,lilaJde proximo tlis11ra sii fadem Dei; cfr.
inoltre ibid. 2, 3, 1 p. 387; Apol. 27, 6 p. 139 (delongintpl() [.•.] deproximo);
Palimt. 5, 13 p. 304; 7, 7 p. '307; etc. H. Hoppe (Beitragez.11Sprathe1111d
Krilik Tertllilians,Lund 1932, p. 86) osserva che in Tertulliano deproxi-
1110può avere anche valore temporale come in /ei1111. 12, 2 CCL. 2,
p. 1271: q11ae [anima)iam saepeiei1111a111
morlemdeproximo norit. Nel nostro
testo l'espressione de proximo significa « da vicino», « faccia a faccia»,
cioè è usata nella sua accezione più comune. Paolo cioè, nell'intenzione
del falsario, auspica di potersi incontrare con Seneca ' vis à vis ', per
conoscerlo di persona e' approfondire l'amicizia nata per corrispondenza,
anche perché, come dirà poi, ci sono questioni che non si possono trat-
tare per iscritto (cfr. Epist. VI: De his q11ae mihi s,ripsislisnon lite/ har1111-
dine et alrammlo eloq111). Quasi tutti interpretano invitem: « a vicenda»;
c'è però da rilevare che in altri due passi del nostro epistolario invitem
significa « insieme » e non « vicendevolmente » (Epist. m: 111hoç op111
intli,eminspidam111; Episl. VII: et ila invitem11i11am111, 111eliam ,11111 honore
di11ino eaJexhibes;per invitemnel senso di «insieme», cfr. oltre, p. 127).
Si può pensare che anche qui invitem significhi « insieme » e che in11i-
te111 [ ••• ] et de proximo sia solo un'endiadi epesegetica, in cui de proximo
« faccia a faccia » non fa altro che puntualizzare ulteriormente invi,em:
«insieme», come probabilmente intende il Moraldi (op.dt., II, p. 1750)
che traduce i1111item nos et de proximo 11idebi111111,semplicemente: « ci ve-
dremo da vicino ». Ma è più probabile che invitemqui - diversamente
dagli altri due passi sopra citati - significhi proprio « vicendevolmente ».
Infatti quando invitem(come nel nostro testo: invitemnos[...] videbim111)
è accompagnato (generalmente seguito, più raramente preceduto) dal
pronome personale significa quasi sempre « a vicenda» (cfr. Thes.
VII, 2, 180, 76 sgg.); cfr. ad es. Quint. Ded. 305, p. 194 Ritter: i111sil
111inui,em se oççiderenl (qll()dgravissim11millisfidi) sdenles;Tac. Agr. 6, 1:
tlixer1111tq11e mira tonrordiaper 11111t11a111
,aritalem et invitem se anteponendo.
Si direbbe anzi che, in generale, la presenza del pronome personale raf-
forzi in invitem l'idea della reciprocità. Si noti in particolare Max.
Taur. Hom. 49 PL. 57, 633 B: Jnvi,em se loqmmt11r, invi,em se 111ill1111I,
in11ite111 sibi oboedi11111
(spirit111et Christ111).Qui è evidente che il primo se,
insolitamente in dipendenza di un verbo intransitivo, si giustifica solo
- 111 -
in quanto rafforzativo di invitt111 (cfr. anche Ho111.11, 245 C: s1 im,iç1111
çoneordantib111 smtmtiis in cui il s1 precede in11it1111).
Direi che nel nostro
testo la presenza del pronome nos subito dopo illtlitt111 serve proprio ad
accentuare - si direbbe a recuperare - in illtlitt111 l'idea della vicendevo-
lezza che nella tarda latinità tende progressivamente ad attenuarsi,
come testimoniano anche i due passi citati del nostro epistolario in cui
illtlitt111
significa « insieme », in cui cioè predomina ormai decisamente
sull'idea della vicendevolezza, l'idea della contemporaneità e della
compartecipazione. Inoltre non mi pare che tlidtr1sia qui sinonimo di
tliser1:« far visita» (come intende tra gli altri il Vouaux, op. dt., p. 353:
« nous nous visitcrons réciproquement et intimcment ») poich~ questa
interpretazione mal si accorda, mi pare, con l'inizio della frase: '11111
pri11111111
ita(JIIIvmir, t0tperis: « non appena verrai, ci faremo vicendevol-
mente visita» (I?). Intenderei piuttosto: « non appena verrai, ci vedremo
l'un l'altro faccia a faccia», cioè potremo finalmente conos~rci di
persona, dopo aver corrisposto per lettera. Il falsario prefigurando questo
incontro, cioè immaginando che Paolo desideri trovarsi faccia a faccia
con Seneca, non fa altro che sviluppare ulteriormente il -r61toc;della
1tctpouat«(cfr. sopra, p. 109) che ~ poi il motivo centrale, il pernio at-
torno a cui ruota tutta l'epistola IV. I luoghi comuni con cui essa ~
costruita (e cioè: la lettura della corrispondenza che crea l'illusione che
l'amico sia presente, il desiderio di un incontro) sono tutte variazioni
di un unico tema che ~ quello convenzionale del desiderio della pre-
senza dell'amico lontano.
- 112 -
EPISTOLA V
- 113 -
8
per tradurre il testo sacro il più fedelmente possibile (cfr. MoHRMANN, I,
p. 57; m, pp. 132-148). Queste costruzioni di facere sono frequenti
soprattutto nell'Itala; cfr. per es. Psal111.72, 14 (Hier. Epist. 39, 2):
factus s11111 Vtdg.: /lii jlagellatus);
jlagellatus (èy&v6µ.11vµ.eµ.«o-rLy(t)µ.évoc;;
Dan. 2, 35 (Finn. E". 20, 4 CSEL. 2, p. 108): et argen/11111 et 1111r11111
ja&ta
nmt 111in11Ja(è-ylve-ro>.em-6-repov;Vtdg. ,ontrita s1111t); II Reg. 7, 9 (Aug.
Ci11.17, 8): et /ed te no111inat11111 se'1111dll111
nomenmagnor11111 qlli nmt stptr
l8"a111 (xcxl. i~o(11acxòvoµ.«o-r6v; Vtdg. fedque libi 110111en grande illXta
no111en magnor11111 qlli nmt in l8"a). Anche se con minor frequenza che
nell'Itala, costruzioni simili si trovano anche nella Vulgata; cfr. ad es.
Rom. 6, 5: Si enim ,0111plantati facti sumus similitudini mortis eius ••. (el
ycìp croµ.q>U"C'OL yey6vcxµ.ev"C'<j>O!J,OL6>!J,«"C'L
"C'OU.&cxvcx"C'OU •••) ; cfr.
CXIYt'OU
inoltre Lei/. 26, 22; Psal111. 31, 5; 65, 8; etc. Il falsario immagina dunque
che Paolo sia lontano da Seneca e dalla corte: non specifica però dove
si trovi. In merito a ciò sono state fatte varie congetture. Françisco
De Bivar, che si basa sulla Cronata dello Pseudo-Dexter (cfr. inttoduz.,
p. 25), ritiene che il nostro testo alluda alla presunta permanenza del-
l'apostolo in Spagna: In aliis 11ero ad absente111 longeepistolam111ittit(1111a
ex his 11ideturea quam Dexter aiJ smpsissead Patd11111 in Hispaniam degmte111)
111et il/a nimio JIIIJangi111urse,essu[••.] et,. (Bivar, ff. 123-124). In effetti
la maggioranza degli studiosi moderni ritiene che l'apostolo si sia re-.
cato proprio in Spagna nel lasso di tempo intercorso tra le sue due pri-
gionie a Roma (cfr. A. WncENHAUSER, Einleit1111gin das Nem Testa111ent,
Friburgo 1953; per ulteriore bibliografia, cfr. R. ETIENNE, Le ,tdte
implrial dansla pbtinstdeibériqued' Auguste à Diodetim, Parigi 1958, p. 513,
nota 2). Ma l'ipotesi di Bivar presuppone nel falsario un bagaglio di
conoscenze intorno alla vita e all'opera di S. Paolo che egli forse non
aveva. Lefebvre d'Etaples ritiene che il nostro autore immagini che
Paolo scriva a Seneca stando a Roma, dove però vivrebbe nascosto per
sottrarsi alle ire dei suoi nemici: Interim Patdus in suess11se ,ontinebat:
et minus prodibat in publi,11111 '11111Judeor11111 111111
gmtium de,linans mali110-
lmtias (Faber, f. 227r). A mio avviso è fuori luogo affannarsi qui a cer-
care di identificare ad ogni costo il luogo in cui si troverebbe Paolo.
Non è necessario giustificare storicamente questa allusione del nostro
autore all'assenza dell'apostolo, poiché il falsario sviluppa qui sempli-
cemente uno dei più noti luoghi comuni: quello della lontananza della
persona cara.
- 114 -
[.•.] IJIIOda ritu et setta veltri rttesstris et aliormm ço,werteris).Il nostro
testo presuppone dunque che la persona di cui si teme l'ostilità sia un
adepto del Giudaismo e non può trattarsi certo di Nerone che è presen-
tato chiaramente come pagano: ,11111 mim ili, g,nti11mdeos ,olat (Epist.
VIII). In ogni caso è opportuno preferire a dominila variante domina,
che è nella migliore tradizione. Domina è la « imperatrice ». Con questo
significato il vocabolo è usato da Svetonio (Clallli.39, 1 e Dom. 13, 1),
da Frontone (Van den Hout pp. 42; 44; etc.) e da Gregorio Magno
(Epist. 4, 30). Il nostro testo allude certamente alla seconda moglie di
Nerone, Poppea Sabina, che pare fosse effettivamente un'adepta del
Giudaismo, stando almeno alle testimonianze di Flavio Giuseppe e di
Tacito (cfr. G. RxccIOTI'I,Il gillliaismoa Roma, in Roma. Gllida allo stlldio
della dviltà romana,a cura di V. Ussani, Roma 1948, III, p. 254; E. RE-
NAN, L'Antéthrist, Parigi 1873, pp. 133, 157-159). Il primo narra nelle
Antithità gillliaiche(20, 8, 11) come Poppea intercedesse presso Nerone
in favore di alcuni Giudei, fra i quali due rimasero addirittura presso
di lei: Ntp<a>v8è 8L«xOua0t1.; cxù-rwvoù µ6vov auvtyv<a> mpl -roù 1tpcxx&Moç;
«il« xcxl auvex_wp7J<nV oG-rwç;é«v 'O)V otxo8oµEcxv,-rjj yuvcxLxlIlo1t1tcxE~,
8-eoGC~ljt;;ycxp ijv, unèp -rwv 'lou8cxE<a>v 8t1)hEan ):0tpLt6µevoç;. "E -roi:ç;µèv
8txcx1tpom0t~E:VCX7t~CXL, -rov 8è 'EÀX.(cxv xcxl -ròv 'Iaµ«7JÀOVO!J,7JpE:uaov-rcu;
(dove si noti che &e:oac~l)t;;
1t0tp'é«u-rjjxcx-rta):E:V ycxpijv è un'espressione cor-
rente per designare i proseliti). Un altro passo (De vita s11a3, 16) con-
ferma che Poppea era la protettrice dei Giudei alla corte di Nerone
(cfr. anche ibid. 20, 11, 1 dove si parla della moglie di Floro procuratore
ddla Giudea, come di un'amica intima di Poppea). Inoltre apprendiamo
da Tacito (Ann. 16, 6) che Poppea fu sepolta secondo usi orientali e
non secondo la tradizione romana: Corp111 non igni abolit11m, 111Roman111
mos, sed r11,11m 1xt1rnor11m ,ons111tlldin1
dijfert11modorib111 tonditur l11mllio(Jll4
Illiior11minfert11r.È interessante notare che l'autore del volgarizzamento
trecentesco del cod. Ricc. 1304 dà a tutta l'epistola un tono generico
e impersonale, togliendo ogni riferimento all'imperatrice Poppea:
« Noi abbiamo assai fatica per la tua lunga separazione. Or qual'è
quella cosa che ti fa tardare? Se forse ne sarà cagione lo sdegnio (il
testo latino precisa indignatiodomina,),perché tu ti sei partito della tua
setta e della tua usanza antica, e rivoltoti in altra setta; sarà di bisogno
che tu ne faccia chiaro che n'avesse dubbio, acciò che niuno stimi che
tu l'abbi fatto per levitade, ma per ragione ». Forse l'autore del volgariz-
zamento ha a disposizione un manoscritto in cui domina,è omesso (do-
mina, om. G), oppure, ma è meno probabile, ignora completamente
la tradizione del giudaismo di Poppea, anzi rimane cosi perplesso di
fronte ad essa, che preferisce semplificare il testo togliendo il riferi-
mento all'imperatrice e dandogli un'intonazione generica. L'adesione di
Poppea al Giudaismo non deve invece suscitare alcuno stupore, poiché
durante il periodo imperiale, i culti orientali a Roma sono molto diffusi:
- 11.5 -
la religione tradizionale è in crisi, l'individuo sente l'esigenza di pla-
care la sua insicurezza aderendo a queste religioni che promettono la
salvezza, che garantiscono la sopravvivenza dopo la morte. Il Giudaismo
si diffonde prima fra gli strati più umili, poi per mezzo degli schiavi e
dei liberti fa proseliti anche nelle classi elevate, « specialmente tra le
donne che non trovavano l'ostacolo della circoncisione ed erano meno
tenute a partecipare ai riti del culto ufficiale» (A. OMoDEO,Paolo di
Tarso,Messina 1922, p. 12). Anche il Boissicr (La religionromained'Allg,,-
st, aNXAntonins, 18781 , I, p. 359 sgg.) mette in rilievo il ruolo determi-
nante delle donne nella fortuna dei culti orientali a Roma, e in parti-
colare del giudaismo: « Le cultc Juifétait aussi cn grande favcur chcz
Ics fcmmcs qui chcrchaient Ics émotions religcuscs après avoir épuisé
Ics auttcs; clles jcOnaicnt rigourcusemcnt et se gardaient bicn dc rien
fairc le jour du Sabbat » (lo,. dt).
-116-
[p. 69, r. 4-5] - ERIT POSTULANDI LOCUS, UT RATIONE PACTUM
NON LEVITATE HOC EXISTIMET: « sarà il caso di chiederle di pensare che
tu hai fatto ciò non per leggerezza, ma a ragion veduta» (cfr. II Cor.
1, 17: C11111ergoho, vobdssem,1111111q,ddlevitateIISIIS mm?). Il fatto che Poppea
sia offesa perché Paolo, dal Giudaismo si è convertito al Cristianesimo
(cfr. l'epistola VIII in cui troviamo un altro riferimento all'ostilità
dell'imperatrice nei confronti di Paolo: CatJmdN111 est mim ne, dllm 1111
domina,fadas ... etc.) e che Seneca ritenga opportuno che
diligis,offms11111
l'apostolo giustifichi il suo comportamento davanti all'imperatrice,
presuppone, come giustamente rileva il Westerburg (op. dt., p. 27),
che, prima della conversione, Paolo fosse in buoni rapporti con Poppea.
Ora questa amicizia, che (almeno prima della conversione al Cristia-
nesimo) avrebbe legato l'apostolo a Poppea, come pure l'atteggiamento
relativamente benevolo di Nerone nei confronti di Paolo - che in alcune
epistole appare interessato alla dottrina di S. Paolo (Epist. VII e VIII)
e disponibile anche per una eventuale conversione (Epist. XIV) - non
sono invemioni del nostro autore. Con ogni probabilità egli utilizza
infatti una tradizione di antiche leggende relative ai rapporti di Paolo
con la corte di Nerone, nate intorno al II secolo e attestate negli Atti
apomft. Esistono varie redazioni greche, copte e latine degli Atti apo-
mft: si tratta talora di rifacimenti tardi in cui la tradizione subisce mo-
dincazioni notevoli e in cui le leggende sono attestate con moltissime
varianti: (cfr. L1Psrus, A,ta Apost. apotr., VouAux, op. dt., SoDER,
op. dt., passim).Il rapporto di Paolo con Poppea, a cui allude il nostro
testo, è avvicinato dal Westerburg (op. dt., pp. 22 sgg.), dal Kreyer
(op. dt., p. 174), e da altri, al rapporto dell'apostolo con una concubina
di Nerone, a cui si riferisce Giovanni Crisostomo (A,ta apost. hom. 46
PG. 40, 325: Àtytratl Nép<i>voc; xatl olvo:x,6ovx«t 1till0tX(80t «a1téia0ti,
cfr. anche Contraoppugnai.vitaemonast.,1, 3 PG. 47, 323: oinoc; ò Nép<i>v
TÒvµ.«X«piov IlatuÀov (x«t yiip l-ru:x,exat-rix-roùc;«ò-roùc;èxe(vou yev6µevoc;
:x,p6vouc;)-roi0tu-r0tb(xlltÀwv, otimp Ù(J.E:i:c;-roi:c;ciy(oic; -roò-roic;&.v8piaw,
yiip llt1Yt'OU
7tlltÀÀ00((80t aq>68patèmpata-rov m(t:10tc;-ròv 1tept njc; 1t(an<i>c;
~ata.&ati ).6yov, lmr.-&evòµ.ou x«t njc; cxxat&!Xp-rou auvoua(atc;«1till0tyiiv0ti
m(Vl)c;): cioè l'amicizia di Paolo con Poppea ovvero di Paolo
con la concubina dell'imperatore sarebbero varianti di una stessa leg-
genda. Il nostro autore attinge con ogni probabilità ad un testo per-
duto che doveva contenere una delle tante versioni della leggenda
dei rapporti di Paolo con la corte di Nerone. Contrariamente però al-
l'opinione del Fleury (op. dt.), del Westerburg (op. dt.) e di molti altri,
non vi è nessuna prova per affermare che Seneca figurava già in questo
testo cui presumibilmente attinge il nostro autore. Anzi, le testimonianze
degli autori antichi sembrano provare il contrario (cfr. introduz., p. 9
sg.). Almeno allo stato attuale delle conoscenze dei testi canonici e apo-
aifi, siamo autorizzati a supporre che sia stato proprio l'autore della
- 117 -
nostra corrispondenza che, utilizzando la leggenda di Paolo alla corte
di Nerone attestata negli Atti apomft, inserisce per la prima volta Seneca
come intermediario tra l'apostolo e l'imperatore, dando cosi origine
alla leggenda di Paolo e Seneca, destinata ad avere tanta fortuna nel
corso dei secoli. Il falsario si avvale dunque di fonti apocrife e canoni-
che indiscriminatamente, ma questo non deve meravigliarci, poiché
nel IV secolo, quando è stata composta la nostra corrispondenza, gli
Atti apomft (e in particolare gli A,ta Patd1)godono ancora di qualche
considerazione presso gli scrittori ecclesiastici e sono considerati quasi
alla stessa stregua delle opere canoniche (cfr. L. VouAux, op.&it., pp. 31
sgg.; G. BARDY, Fa11xetfrallliesJittlrairesdansl'antiqllitl,hrltimne,« RHE»,
32, 1936, p. 10).
- 118 -
EPISTOLA VI
- 119 -
lamento e dal suo nascondiglio e parlare francamente a Poppca. giusti-
ficando apertamente le sue azioni, dimostrandole di aver agito in piena
coscienza e non sconsideratamente. Ma Paolo non ritiene opportuno
seguire il consiglio di Seneca, poiché teme di irritare ancora di più l'im-
peratrice cd i suoi nemici e non vuole neppure trattare questo argo-
mento per iscritto: non/it,t harlllllD,u 11alrammto 1kJtpd.Il nostro autore
sembra riecheggiare qui m /oh. 13: MIiita habtdlibi smhlr,, mi no/tdp,r
atra111mlll111 smb,r1 libi; cfr. anche II /oh. 12: P/ura habms
11 ,altz11111111
uobissmb1r1 no/tdp,r ,hartam ,1 atra111mlll111. Il -r6,roçdella penna, del-
l'inchiostro e della carta, presente già nel latino classico (cfr. ad es.
Cic. Epist. ad Q. Jr. 2, 14, 1: Caltzmo11atrammto l1111p,rato, tharla ,,,;,,,
dmtala r,s agetur),per influsso del testo biblico, si conserva presso gli
scrittori della tarda latinità; cfr. Origm. In Matth. to111111. s,r. 16 PG.
13, 1622 D: Ha,, prolixi111,t 1111111iftsli111 trader, p,r atrammllllllet taltz-
1111111111
,hartam llist1111 inoltre Rufin. Orig.InExod.
mihi est nonessetau/11111;
4, 2 PG. 12, 318 C: non iudkans dign11111 pro intapadtat, audilort1111 thartis
,1 atra111mlo htd111te111odi
abso/11tion11111
setrela to111mill,r1.Il nostro autore
che riecheggia m /oh. 13 (in cui c'è lo stesso binomio penna-inchiostro),
usa harlllldoladdove il testo biblico ha ,a/a111111. Si noti che nelle versioni
latine della Bibbia (compresa l' ltaltz, che è poi quella di cui mostra di
valersi il nostro autore) harlllldonon si trova mai nell'accezione di« pen-
na ». Perciò si possono fare due ipotesi: o il falsario cita a memoria
il passo biblico e, usando harlllldoinvece di ta/a111111, introduce inconsa-
pevolmente delle varianti, oppure, come mi sembra più probabile,
varia consapevolmente il testo con l'intento di abbellirlo e sostituisce a
il vocabolo hartllldo.Hartllldocol significato di « penna » è usato
,altz111111
in poesia e nella prosa aulica; cfr. Mart. 1, 3, 10: "'"' note/ IIISIIS trislis
harlllldolllos; ibid. 9, 13, (12), 13: nomm Atida/ia 111,rtdttJIIOd hanmdine
pingi; Pers. 1, 3, 11: inq1111111111111 ,baria, nodosa(JIII11mitharlllldo;infine
Auson. Epist. 15 (7), 49 sgg.: Net iam ftssip,disp,r talami 11ias/ grasselur
Cnidia, sllk111harlllllDnis / pingms arid,da, Sllbditapagina, / Cadmi ft/io/is
alrit0kJrib111.
- 120 -
della lettera precedente: Q1111e
te r,s r,1110111111
fad1111t?
Si indigna/iodo111i111U,
(JIIOda rilll et seçta 111/eri
retesseris,t alior111111 "'1111tf'leris,
erit posttdamlilo-
tt11,Id rationef açlll111,
non l,,,itate ho, 1xisti1111t. L'altera res potrebbe essere
la indignatiodo111i111U, che l'apostolo, nell'intenzione del falsario, non
oserebbe nominare esplicitamente preferendo fare qui una velata allu-
sione comprensibile solo a Seneca e a pochi intimi, che conoscono il
contenuto della lettera precedente: predp111,11111 sda111inter IIOS esse,ho,
ut aptid vos et in vobis,qlli 1111 inte/legant.L'inizio di questa epistola si ri-
chiama proprio agli argomenti affrontati da Seneca nella V lettera; si
potrebbe interpretare cosl tutto il passo: De bis qt1111 111ihismpsistis
(cioè sulla collera della dominae sulla opportunità di una giustificazione)
non /içet hartllldineet atra111ento eloqlli,tpar11111 altera res [se. indigna/iodo-
mina,] notai et designaialiqllid(pone l'accento su di una mancanza), altera
[se. posllllatio Pam1] lllidmter ostendil (la rende pubblicamente nota).
Peraltro il secondo degli argomenti (la posttdatio Pmd1) si ricava con
una certa difficoltà dal testo della V epistola: erit posttdamli lo,111,111
ralion,Jaç1t1111,non"'1itat, ho, existimet. Inoltre notareet designare(la i1111,111ra
è già in Cicerone, che la usa però in senso traslato : Cali/. 1, 2: notai
et designaiOflllis ad ,aede111 IJlll1IIIJIII
111111111 nosh"11111;
Id. De ora/. 2, 236:
Hae, eni111 ridmlllr, 111/sola 11e/111axi111e fJII"' notant et designantt11rpitllliine111
alitpta111non t11rpiler)nel loro significato proprio, che è quello di « se-
gnare », « tracciare segni », richiamano piuttosto harlllldoe ah'a111enlll111
della frase precedente (cfr. il luogo citato di Mart. 1, 3, 10: 116111 note/
/mm tristis harundol111Js; Colum. 8, 11, 12: 1111apars OIIONIIII nolandaest
atra111ento). Perciò, delle due interpretazioni possibili, è forse più pru-
dente seguire quella che considera harundosoggetto di notai et designai
e ah'a111enlll1JIdi IIIÌdenterostendit,interpretazione che ha il vantaggio di
offrire una più precisa corrispondenza tra altera res [...] altera e i due
termini harlllldoe ah'a111ent11111. Si noti l'analogo costrutto di Seneca in
Epist. 84, 1 : Net smbere tanlllm net tanlllm legeredeb,111111: altera res ,on-
tristabit IIÌreset exhallfiet, de stilo dito, altera so/11el aç di/1111.Quanto alla
iunctura lllidenterostendere,essa ricorre con particolare frequenza in Oau-
diano Mamerto; cfr. ad es. Anim. 1, 9 CSEL. 11, p. 48, 17: lllidmter
ostendit;ibid.1, 12, p. 54, 1; 1, 12, p. 54, 9; 1, 12, p. 55, 7; 2, 6, p. 119,
2-3; etc.
[p. 69, r. 4-5] - PRAECIPUE CUM SCIAM INTER VOS ESSE, HOC EST
APUD vos ET IN VOBIS, QUI ME INTELLEGANT: secondo il falsario, Paolo
giudica dunque sconveniente mettere per iscritto ciò che riguarda la
collera dell'imperatrice e le cause che l'hanno provocata, tanto più perché
sa che tra quelli che sono vicini a Seneca c'è chi può capirlo ugualmente.
Insomma Paolo non vuole compromettersi con dichiarazioni scritte
quando sa che può fame a meno. Tra tutti quelli che stanno vicino
a Seneca (inter 110s),il falsario prolissamente distingue il nucleo degli
-121-
amici più stretti (in t10bis)dalla cerchia presumibilmente più ampia di
amicizie meno intime (apud vos). La ripetizione del pronome personale
preceduto da preposizioni di volta in volta diverse (inter vos [...] apud
vos [...] in vobis) non deve sembrare forzata: essa rientra nello stile del
nostro autore. Ne abbiamo un altro esempio nella prima epistola:
Q111Jd ex te et per te.
sen.rusnonp11toex le dictos, sedper te, certealiq11a11do
- 122 -
usa questa parola non riesce a caricarla del suo significato evangelico;
nel nostro testo infatti essa risulta banaliz%ata: l'esortazione a dar,
pati1ntia111è nella nostra corrispondenza un semplice invito a evitare
uno scontro. Il nostro autore cioè, allo scopo di far risaltare la cristiana
mansuetudine dell'apostolo, finisce per farcelo apparire troppo blando
e remissivo. Infatti il precetto cristiano dell'amore (caritas) verso i pro-
pri nemici appare banalizzato e si trasforma nel nostro testo in una sorta
di deferente ossequio ai potenti (honor[...] habendus111);in tutto l'epi-
stolario Paolo appare fin troppo timoroso di compromettersi e di atti-
rarsi le ire di Nerone e di Poppea, come si vede nell'epistola VITI, in
cui Paolo esorta Seneca a non urtare l'imperatrice e gli rimprovera di
aver letto i suoi scritti all'imperatore: Puto enim /1 graviterfedss,, tJIIOd
,i in notitiam p,rferre voluisti tJIIOdritui 1/ disciplina, eius sii contrari11111.
- 123 -
(I Ti111.2, 2), è attestata l'espressione g,rerellila111
(Tob. 4, 23). L'espres-
sione pamilmlia111 gerere,usata dal nostro autore, è molto più rara del
corrispondente pamilmlia111ag,re: è documentata esclusivamente in
autori cristiani: cfr. ad es. Tert. Adv. Mar,. 2, 24, 6 CCL. 1, p. 502:
ndpandm est, qtd iustiliae11ti(JI# nonpamilmdaepaenilmtia111 gessi/: Cypr.
Episl. 55, 22: Nisi pamilmlia111 gesserilab operibussllis. Negli autori cri-
stiani è attestata anche un'altra espressione analoga: pamillldi111111 gerere
(dr. ad es. Filastr. Di111rs. haeres.107, 12 CSEL. 38,p. 68;Cassian. Coni.
20, 5, 1 CSEL. 13, p. 558). Si noti come il significato tradizionale clas-
sico di pamitmtia sia diverso da quello cristiano: in senso classico è
soltanto il riconoscimento di un errore, mentre nel suo significato
cristiano più profondo, la pamitmtia implica un completo rinnovamento
spirituale (è un calco del greco !J,ffcfvor.«),è quasi un tecnicismo reli-
gioso per indicare l'inizio della convcrsione (cfr. Hebr. 6, 6: rmot1ariad
pamilmtia111); la nozione di pamilenliaè spesso accompagnata da quella
di çom,ersio;cfr. ad es. A,I. 26, 29: 111
pamilmlia111 agermlel çom,erlermlllr
ad De11111, dove l'espressione pamitmtia111 agereè subito seguita da f01l-
r,ertiad De11111,che ne completa il significato. Cosi anche in Tert. Ad,,.
Mar,. 2, 24, 7 CCL. 1, p. 503; el (lsra.be/]IIOII çom,erlelllr ne(JI#pae-
nilmlia111agel(cfr. BLAISE 8, pp. 208; 594). Nel nostro testo il vocabolo
pamilmtia è usato nel suo significato cristiano pregnante; anche qui il
concetto di pentimento implica quello della conversione: Paolo vor-
rebbe che i suoi avversari giudei e cristiani si ravvedessero e si conver-
tissero al Cristianesimo.
- 124 -
EPISTOLA VIl
Seneca loda l'alto contenuto delle lettere paoline, ma critica il loro stile
privo, secondo il falsario, cli eleganza formale. L'apostolo è presentato come
un uomo senza cultura, che non ha frequentato un corso regolare cli studi
(""" legiti1111
i111btlhu),
in funzione del motivo che Dio si rivela ai semplici.
- 125 -
111,istJOsbenea&ceptos a/içubismbis (Epist. II); per questa insolita costru-
zione, cfr. sopra, p. 97. Il falsario menziona qui alcune lettere del
çorpus paolino e cita tra queste una « epistola agli Achei ». A questo
proposito Lefebvre d'Etaples afferma: QIIOd didt Corinthis Achaeis,
A,haeis epithe/11111est; iidem enim s1111/ Corinthii et Achaei, (JIIÌ isth11111111
0&&11pantes, Helladi q11aeGraeda nominat11r, proximi s1111t.
Il Fleury, rifa-
cendosi a questa interpretazione, intende: « aux Galates et aux Corin-
thiens d' Achaie ». Seguendo Lefebvre, sostiene che: « Cc sont ainsi
deux denominations pour une, celle de la ville et celle de la province »
(op. dt., Il, p. 311 sg.). Ma ciò è inesatto, poiché in età greca classica
Corinto non è in Acaia e in età romana l' Acaia è tutta la Grecia ridotta
a provincia, dopo la distruzione di Corinto. Il Kreyher (op. ,it., p. 183)
pensa alle lettere ai Tessalonicesi, in cui questi sono chiamati « i modelli
di tutti i credenti in Macedonia e in Acaia » dove essi hanno divulgato
la parola del Signore (I Thess. 1, 7-8): ita 11/fatti sitis forma omnibuscre-
dentibusin Maçedoniaet in A,haia. A mio avviso, l'interpretazione più
attendibile rimane ancora quella di Fabricius (II, p. 896, nota s), per cui
il falsario vorrebbe alludere alla II ai Corinzi, che è indirizzata alla
Chiesa di Dio che è a Corinto ed a tutti i fedeli qui SIIIIIin 1111iversaAthaia
(li Cor. 1, 1): Pa11/usaposto/11s /es11Christi per voluntatemDei et Timo-
theusfrater ec&lesiae omnibussan&tis,qui s1111t
Dei, (Jlllll est Corinthi, ,11111 in
1111iversaAthaia. Gratia tJObiset pax a Deo Patr, nostro et Domino /em
Christo.
- 126-
al linguaggio profetico. L' ho"or divinus richiama alla mente la divina
1JOl11ptasaflJll4lxm-ordi Lucrezio (3, 28-29: IJlllledam
divinavol11ptas
perdpit
aflJll4ho"or) o il sa&erho"or di Stazio (Theb. 10, 160: Eççe repenss11peris
ani11111m ho"or / Thiodamantasllbit), non certo il timor Dei
/11111phantibus
cli S. Paolo I Exhibes poi sembra la più probabile ricostruzione del testo
(cfr. BARLOW,op. dt., p. 46); infatti le numerose varianti dei codici di
f3possono essere fatte risalire ad un originario exibes(per exhibes).DCZµ.
danno exigeremmentre exirem è in 8. P, che rappresenta una tradizione
separata, ha exiui, ma il Barlow osserva (lo,. dt.) che P ha molti altri
casi di II per b e che quindi anche in questo caso si può pensare ad un
originario exhibes.Il cod. À ha exirent (cfr. exirem di 8), che però non da
senso. Le lezioni susupimus (H), sus,eperimus (G), exuperim (Q), che
sono tanto lontane da exhibescome si suppone fosse nel testo originale,
sono tutti tentativi di sanamento. Si tratta a mio avviso di correzioni
dovute all'influsso di Rom. 15, 7: Propter quod susdpite invkem, sk11t
et Christus S11Sçepitvos in honoremDei. Stabilito dunque che la lezione più
probabile è exhibes, si può intendere cosi tutto il passo: « e possiamo noi
vivere insieme (gli uni con gli altri), cioè possano essere i nostri rap-
porti, cosi come tu scrivi quelle lettere onorando Dio », cioè Seneca
auspica di poter vivere uniti nell'onorare Dio come lo onorano le epi-
stole paoline. Si noti che qui invium significa « insieme », come anche
in un altro passo della nostra corrispondenza (Epist. III): 111ho, opus
invi,eminspidamus. Non è questa una peculiarità del nostro autore, poi-
ché invium, in cui predomina nel latino classico l'idea della reciprocità,
accentua nella tarda latinità l'idea della contemporaneità e della compar-
tecipazione ad una medesima azione e finisce dunque per significare
«insieme» (cfr. Thes. VII, 2, 178, 53 sgg.), come ad es. in Vict. Vit.
3, 28 CSEL. 7, p. 86: iuravimus,11/pro eo [Christo]invkem patiamur (cfr.
sopra: 11/una poenaparique s11pplidotorquerentur);Sulp. Sev. Dia/. 1, 1
PL. 20, 185 A: invkem jlentes gaudio; numerosi altri esempi in A,t.
Petr. 2 (Lipsius, A,ta Apost. apoçr.,p. 47, 16): oramuste invkemperfili11111
t1111m lesum Christ11m;3 (p. 48, 15): invkem ,11mPa11/o;18 (p. 65, 26):
Fratres ,arissimi a, dilutissimi, ieiunemusinvkem pruantes domin11m.
-127 -
dot1bitt101in ipsa bora tpdd oport1att101dit1r1; Matth. 10, 20: Not1 ,,,;,.
t10111#1IJllilolJlli111ini,
11dSpirillll Patris 1111tri,IJllilolJllihlrin t10bis;cfr.
inoltre /oh. 14, 26; 16, 13; Lw. 21, 15. Negli Atti S. Paolo è detto r1-
pk1111Spirihl Jflllflo(Att. 13, 9). Lo stesso concetto anche in A,t. 9, 17:
Stllli, frat,r, Domin111misit 1111/11111 IJlliapparllit libi in via, (Jllll "'11kbas,
111vid,u 11 i111pkari1 Spirihl Slllltlo.
- 128 -
Quanto a 1/ mp,r,il cod. >., ei;aminat:o dal Fraoceschini, ha 1/ mpra
come W O U H J K (cfr. la lezione supradi C O N v 3 praetcr W).
Ma ad 1/ mprasembra preferibile la lezione ,t mp,r,che oltre ad essere
attestata da alcuni mss. della famiglia di ~ si trova anche io P, che rap-
presenta una tradizione separata (cfr. BARLOW,op. dt., p. 46). S,p,r
ha qui valore di preminenza, come io Scn. Dia/. 9, 17, 11: Non pot,sl
grand,aliq,dd1/ mp,rç,/erosloqtdnisi 1110/a 111111s;ma si veda per quest'uso
di mp,ranche Vcrg. Am. 8, 303 sgg.; Svet. Vit. 13; Quint. lnst. 11,
3, 169; Plin. Epist. 1, 13, 2: hl mp,r0111111s b,atus. Nel nostro testo 1/
mp,r1x&1/sos significa. « e al di sopra di tutti i più alti ingegni umani »:
cioè Paolo, in virtù della sua ispirazione divina, supera tutti i sapienti
della terra. Cosi interpreta anche il Barlow: « surpassiog the highest »
(op. dt., p. 142). Diversamente intende l'Erbetta: « lo Spirito Santo io
te e sopra gli spiriti celesti » (op. dt., p. 89), ma qui mi pare che 1xt1IS11S
designi un'altezza, un'elevatezza esclusivamente umana (diversamente da
Sllb/imis di sllblimior, che sta ad indicare l'altezza sovrumana dovuta
all'ispirazione celeste); per ext1/smin questa accezione, cfr. ad es. Hicr.
/11Is. 8, 24 CCL. 73, p. 317 (= PL. 24, 282 D): Dem mpn-bisr,sislit,
,t btlmi/ibmdal gratia111. Untk prima smtentiaest ,ontra ,os qtd ext1/sis1111/
terrae;inoltre Itala, LN. 16, 15 (Cypr. Epist. 68, 4): (jllOdext1/mm 1st i11
hominibtls,exen-atio1st i11,onsputu Dei.
- 129-
9
[p. 70, r. 6-7] - VBIIBM ITAQUB CUM RBS BXIMIAS PROPBRAS,
UT MAIBSTATI BARUM CULTUS SBRMONIS NON DBSIT: si noti che qui non è
rispettata la ,onseçutiote111porN111 (11el/e111
[••.] desii), ma questo è piuttosto
comune nel latino tardo; cfr. ad es. sempre nel nostro testo: sii [•••]
11,J/es(Epist. VIII) e potllissel[••.] sii[ ...] Ji,erel[•••] vidlrmt (Epist. XI).
Quanto alla lezione mm resexi111ias proferas(perferasat praeter Z), adottata
dal Barlow e già accettata da alcuni dei precedenti editori (Fleury,
Kraus ed altri), è senz'altro preferibile a tures et teiera adottata dallo
Haase e dal Westcrburg (in una parte della tradizione ((3)in alternativa
a eximiasproferasdi at, compare et teleras: ,11111 res et telerasX O L U,
t11111
res esseiet telerasM T, t11res et telerasF). Il Barlow si sofferma anche
sulla lezione di P: tures et teiera mittas, la cui interpretazione potrebbe
essere: « fa' attenzione e metti da parte ogni altra preoccupazione »
(op. tit., p. 47), ma ad essa preferisce giustamente '11111res eximiaspro-
feras. Infatti tures è con ogni probabilità una corruzione di '11111 res.
La lezione eximias proferasè poi del tutto coerente con il contenuto
di questa VII epistola e con l'idea generale della IX e soprattutto della
XIII, per cui Paolo, trattando argomenti cosi elevati, deve stare attento
ad esprimersi in un adeguato latino ( I) : gli scritti di Paolo, in virtù
dell'ispirazione divina, sono sl sublimi per contenuto (res), ma lasciano
a desiderare per la forma ('1111111 ser111onis). Lo stesso concetto si ritrova
nella XIII epistola: rer11111 tanta vis et 1111111eris
libi trib11tanon orna111mto
11erbortl111,
sed '111111 detorandaest. Il '1111111
q111Jda111 sermonisè frutto dell'ars,
cioè della tecnica retorica, che Paolo, secondo il nostro autore, non co-
noscerebbe poiché non avrebbe ricevuto un'educazione regolare (non
legiti111ei111b111111).
Il falsario ignora che Paolo era un uomo colto (cfr.
oltre, r111ti,td111),
e in tutto l'epistolario tende a presentare Seneca come
maestro di stile: immagina che egli lodi il contenuto delle lettere del-
l'apostolo, ma si permetta di fare qualche appunto sulla loro forma.
-130-
..
antichi retori, per cui lo stile sublime si fondava essenzialmente sul-
l'elevatezza del contenuto, ma raggiungeva la perfezione solo quando
questi pensieri gravi erano espressi in una forma adeguata, cioè forbita
cd elegante, quando cioè vi era anche il ,llitus s,r111onis (cfr. ad es. mpl.
Gljlou,;8, 1-2; a questo proposito, cfr. LAusBERG, passim). Si noti però
che, rispetto al significato retorico classico, il vocabolo 111ai1stas acquista
nel linguaggio cristiano una diversa pregnanza: si anima cioè di una
nuova sfumatura religiosa e indica la profondità e l'altezza di contenuto
delle Sacre Scritture, dovuta all'ispirazione divina. In questo senso è
usato ad esempio anche da Girolamo e proprio in contesti in cui - come
nel nostro epistolario - si contrappone la sublimità del contenuto alla
inadeguatezza della forma; cfr. Hier. In fon. 3, 6 SC. 43, p. 101: Non
posS1111ttJider1virt11t1ssi111plidtat1111(JIII
smptura, santtae, non 1x 111ai1stat1
s111.t1111111,
s1d 1x ,,,,-bor11111
iuditant vi/itali. Si confronti inoltre col nostro
testo un altro passo di Girolamo, in cui si mette in rilievo proprio la
inadeguatezza della forma delle epistole paoline di fronte all'altezza del
loro contenuto (Epist. 120, 11): divinoru111 smS1111111
111aiestate111
dignonon
pot,rat graed 1/oquii1xplitar1ser111on1. Da questo e da altri giudizi del con-
temporaneo Girolamo (cfr. oltre, p. 182) sulla forma stilistica delle
epistole paoline, risulta che il nostro autore, per quanto concerne lo
stile di S. Paolo, non esprime una sua opinione personale, ma riflette
le critiche dei letterati del suo tempo (significativo a questo proposito
anche il passo citato di Filastrio, cfr., oltre, p. 184) esasperandone però
i termini fino a presentarci l'apostolo come un illetterato, che non ha
seguito un corso regolare di studi (non /egitim1i111b11tus). In questa VII
epistola i termini retorici ricorrono con particolare frequenza: l'ele-
mento retorico si rivela come una delle componenti fondamentali
della lingua del nostro epistolario. Se si eccettuano le lodi ed i conve-
nevoli, gli argomenti su cui il nostro autore si sofferma più spesso e
tratta più ampiamente sono questioni di stile. La preoccupazione sti-
listica è il Leitmotiv di tutta la corrispondenza. Chi legge per la prima
volta queste quattordici lettere rimane colpito dal fatto che manca
tutto ciò che ci si aspetterebbe di trovare in un epistolario di Seneca e
S. Paolo: manca a queste lettere una reale problematica filosofi.cae re-
ligiosa e non c'è da parte dell'anonimo la volontà di porre intenzional-
mente a confronto Stoicismo e Cristianesimo. I problemi a cui l'autore
dimostra di essere più sensibile sono quelli riguardanti la forma e lo
stile. Ciò avvalora l'ipotesi, a cui abbiamo già accennato (cfr. sopra,
p. 101 sgg.), che l'anonimo, presentando Seneca come maestro di stile
nei confronti di Paolo, confonda in una sola persona Seneca padre e
Seneca figlio.
- 131 -
non essere in debito con la.mia coscienza». Il Scvcnst'Cr(op. dt., p. 84
sgg.) rileva come la.nozione di «coscienza» sia presente tanto in Paolo
come in Seneca, ma mentre per Seneca la.coscienza è il giudice supremo,
poiché è la voce stessa di Dio, ovvero la.voce dello spirito divino im-
manente nell'uomo, per S. Paolo invece il giudizio della coscienza
(auve(SlJa~)non ha. come per Seneca, valore incondizionato: solo in
particolari momenti di grazia, la. coscienza è testimone di verità. è
cioè quando essa è illuminata dallo Spirito; cfr. Rom. 9, 1: Vmta/1111
dito in Christo, non 111entior,lesti111oni11111
mihi perhibentetonsdentia1111ain
Spiri/li santlo. Nel nostro testo l'anonimo non si rifà né a Paolo, né a
Seneca: il richiamo alla.coscienza è molto generico, non ha alcuna im-
plicazione ideologica, si tratta di un'espressione comune del linguaggio
epistolare. Il Liénard (art. dt., « RBPh », 11, 1932, p. 5 sgg.) confronta
questo passo con Symm. Epist. 1. 25: Si respondisses epistolae1111a,
lnasses
onere{Oflldm/ia111
llla111.
-132-
exordi11111 come « trattato » (interprcta2ionc che comunque mi pare
inaccettabile), rifacendosi probabilmente, anche se non lo cita, al The-
S4IITIIS (voi. V, II, 1569, 72-73) dov'è riportato questo passo della VII
epistola, e interpretato: sdlieel Ps-Sm. dePmdi tJirl11le traçtat11S.
Il Barlow
coerentemente con questa interpreta2ione, nell'epistola IX, legge
epistolanu,,111ear11111, anziché epistolan,111
ltlar11111
(Stio le 111Jn
la111ltd ftJIISa
ço111111ollllll litteris fJ11aSad le de edilione1pistolarN1111111ar11111
Caesariftd
fJIIIJIII••• etc.), pensando che si alluda alla medesima opera menzionata
in questa VII epistola (op. di., pp. 37-38 e 71). Ma nella IX è senz'altro
da preferire la lezione 111111'11111 cd è opportuno pensare che Seneca legga
all'imperatore le lettere di Paolo (cfr. oltre, p. 150). Inoltre se qui in-
terpretiamo 1xordi11111 come « trattato », ci troviamo difronte alla inac-
cettabile costruzione tJirllllisin 1, 1xordi11111, che starebbe per 1xordi11111
de Pmdi tJir1111,. Questo costrutto non si potrebbe neppure giustificare
pensando che tJirllllissia un genitivo oggettivo, come in lalldatiotJirltdis
(si noti che alcuni codd. omettono in le: ot N J µ.). Ma, in ogni caso,
l'ipotesi del Barlow, secondo cui Seneca leggerebbe a Nerone una sua
opera di argomento cristiano, non mi pare fondata. A mio avviso, qui
è meglio riprendere in considerazione l'interprcta2ionc del Flcury
(op. di., II, p. 314, nota 2), per cui le parole p,r/eçtotJirt111is in le exordio
si riferiscono all'epistola ai Galati (che è menzionata dal falsario proprio
all'inizio di questa VII lettera), in cui S. Paolo racconta la sua conver-
sione (5, 12): « le pseudonymc a pu très-bicn appcllcr ccttc conversion
l'cxordc dc sa vie virtueuse ». Per 1xordi11111 in questo senso, cfr. 1xor-
di11111 ftdei in Hier. Ho111.Orig. in Ez.eçh. 8 PL. 25, 751 C: 111111 qtllZlrit,
q,d pri11111111
Eçç/esiamingredit11r, q,d ftdei e/1111mlaS11Sdpit, q,d rllliisest in
sa&ra111mtis, q,d in exordioftdei çonslillllllSest [...] etc.; cfr. exordi11111
111111,
pr,,dentituin Hil. Trin. 5, 6 PL. 10, 146 C: 11 Dei timor, q,d sapimtlll
est, ubi deest, mifert seç11111
inili11111 0111n,exordi11111prllllmtitu; cfr. infine
1xordi11111
luds in Firm. E". 2, 9 CSEL. 2, p. 78: (Jlllltrt potillSsp,111 sallllis,
fJIIIU"'1xordi11111
lllds, fJIIIU"'tJIIOd
le s111111110
Deo a11Iço111111mdel mli reddal.
Quanto a tJirllllisperò, non interpreterei, come il Fleury: « vita virtuosa ».
Infatti mi sembra che nel nostro testo il vocabolo sia usato non tanto
nel senso di &pn-lJ,quanto piuttosto in quello di 8uvotµ.,ç,cioè nell'ac-
cezione di « potere », «facoltà», com'è attestato nella Bibbia; cfr. ad
es. A,t. 1, 8: sed atdpi,tis tJirl11le111 s11p,rvmienlis
SpirilllS san,li in tHJs,·
A&I. 3, 12: Viri /srahelila,, q,dd 111ira111ini in ho, aut IIIJS tJtddinlue111ini,
(Jll4Si111Jslra
tJirlll/1a11tpotestat,feçeri11111S
h1111,
a111bular1?Nel testo biblico
la parola tJirlmè sempre un calco di 8uvotµ.~.Il SEVENSTER (op. di.,
p. 146 sgg.) mette in rilievo che il vocabolo &pe:-rJi e la corrispondente
nozione di virtù, è quasi assente nella Bibbia. Se si eccettuano
le epistole di Pietro (I Petr. 2, 9; II Pelr. 1, 3 e II Pctr. 1, 5), la
parola ricorre una sola volta nell'epistola ai Filippesi (4, 8); il Vec-
chio Testamento non ha equivalenti per la parola greca «ptnj, Infatti
- 1.33 -
questa nozione è estranea al Giudaismo: è solo per influenza ellenistica
e soprattutto stoica che essa viene introdotta nel Nuovo Testamento
(cfr. anche M. PoHLENz,Die Stoa ... cit., I, p. 406). La quasi assenza
della nozione di «ptrlj nella Bibbia non è cosl strana come può appa-
rire a tutta prima, se si considera il fondamentale antropocentrismo della
«ptrlj che focalizza l'attenzione sopra l'eccellenza ed i meriti umani
anziché sulle azioni di Dio, su cui s'impernia essenzialmente la Bibbia.
Nel nostro testo, 11ir1N.t è nella sua accezione biblica e designa la straor-
dinaria facoltà dell'apostolo, ispirato dalla divinità, di concepire pen-
sieri tanto elevati (la/iter sentire)pur non essendo legiti111e i111b111N.t
(mirari
posselii qtdnonlegiti111e
e11111 i111b11t11S
sii la/iter sentiat);cfr. Sulp. Sev. Chron.
2, 28 PL. 20, 145 B: ad q11e111 [se. Pa11/11111] 111111
amiiendll111 pl11resçom,e-
niebant; qtd, 11eritaleinie/Iuta, 11irllltib11S(JlleApostolor11111,
(JlltlS 111111
çrebro
edideranl,per111oti, ad N1/t11m Dei sese ,onferebanl.Perleger1significa qui
« leggere per esteso », in modo da mettere al corrente chi ascolta,
implica cioè l'attenzione di Nerone. Una situazione analoga a quella
descritta nel nostro testo (&IIÌperluto IIÌrllltisin le exordio,ista 11oxfllit)
si trova anche nella Passiosanttor11111 apostolor11111
Petri et Pallli. Qui Ne-
rone ordina che gli sia letta la relazione inviata da Ponzio Pilato a Clau-
dio sulla morte e sulla resurrezione di Cristo e, dopo aver ascoltato la
lettura del testo, esprime la sua meraviglia per i fatti appresi (LIPsrus,
Atta Apost. apoçr., p. 139, 4 sg.: C11111(Jlle perfettafllissel epistola,Nero
8è Tijç tm.CJ"t'OÀijç
dixit («vot"(Vc.>a&t:(<njç Népc.>ve!1tEV):Di& 111ihiPetre,
ila per i/111111
omniagestas1111t? PetrllSait: Ila, non le fallo,· si, eni,n est, bone
imperator.
[p. 70, r. 9-10] - ISTA VOX FUIT: MIRARI BUM POSSB trr QUI NON
LBGITIMB IMBUTUS SIT TALITBR SBNTIAT: Nerone si meraviglia del fatto
che una persona che non ha ricevuto un'educazione regolare possa
concepire pensieri tanto elevati. Si noti che il codice P ha sis [...] sentias
in luogo di sii e sentiat, che è in tutti gli altri codd. Questo è uno dei
casi in cui, secondo Barlow, è molto difficile scegliere tra la lezione di
P e quella del resto della tradizione (op. rii., p. 41). Stando cosl le cose,
direi che è meglio attenersi cautamente alla tradizione e accettare cioè
sii [...] sentiat (come poi finisce per fare anche Barlow) anche perché
mi pare che la 3• persona si adatti di più al contesto, in cui il caso di
Paolo dà lo spunto per una riflessione più generale. Si consideri la ri-
sposta di Seneca: ,lii egorespondisoleredeosore innotenli11111 effari: essa fa
supporre che già da Nerone la questione, pur senza astrarre del tutto
dal caso di Paolo, fosse già stata posta in termini più generali e non
fosse esclusivamente limitata alla persona di Paolo, come implicherebbe
invece la 2• persona; direi quindi che la risposta di Seneca è un indizio
(non una prova s'intende) a favore di sii [...] sentiat contro sis [...] sm-
tias.
- 134 -
[p. 70, r. 10] - MIRARI: la sapien%a degli apostoli, che pure sono
uomini privi di istruzione è spesso, anche nel Nuovo Testamento,
motivo di stupore e di ammirazione per coloro che li ascoltano; cfr.
ht. 4, 13: Vidmtes au/1111 Petri &onstantia111 et Iohannis, &0111pertoIJIIOd
hominesessenisine letteris et idiota,, admirabantur.Lo stesso motivo si ri-
trova anche negli Atti apo&rift,dove è proprio Nerone, come nel nostro
testo, che ha spesso un atteggiamento di stupore e di meraviglia di
fronte alle parole ed alle azioni degli apostoli Pietro e Paolo e di fronte
ai prodigi di Simon Mago; si prendano ad es. alcuni passi della Passio
san&lort1111 Petri et Pauli (Lipsius, A,ta Apost. apo&r.,cap.
apostolor11111
XXXIII, p. 149, 2 sgg.): [Nero] &011t1er.rusad Pau/11111
ait: tu Paule, IJllll"I
nibil lolJll4rls?Aut qllis te do,llit a11tIJIIIIII habllisti... ? Al ca-
111agistr11111
pitolo XXXVIlI (ibid., p. 153, 1 sgg.) troviamo la risposta di Paolo:
Hae&a11t1111 111ihi
do&trinanon ab hominibusnequeper ho111in1111 ali1J111111
data
est, nd per /1su111 ... Segue al capitolo XXXIX (ibid., p. 153, 7)
Chris/11111
la reazione di Nerone al discorso di Paolo: Nero his allliitisobstupllit.
Analogo atteggiamento di meraviglia, Nerone manifesta nei confronti
di Simon Mago: Et Nero 111irari ,oepit et prae&epitveniresena/11111et omnibus
retulit ges/11111
rei et multi 1or11111
111irabantur (cap. II, ibid., p. 225, 5 sgg.);
Nero a11t1111amplius 111irari ,oepit et 0111nes qtd &11111
eo erant (cap. ID, ibid.,
p. 225, 11 sg.); lmperator Nero ,t 0111nis senatusmirati sunt (cap. V, ibid.,
p. 227, 2 sg.). Come pensava il Westerburg - e la sua opinione è con-
divisa in gran parte dal Graf, dal Kreyher, dal Kurfess e da altti stu-
diosi - il nostro autore conosce et utilizza una tradizione di leggende
fiorite soprattutto intorno al II secolo (L. V ouAux, op. &it.; M. R. JAMES,
The apoeryphalNew Testa111ent, Oxford 1924) circa i rapporti di S. Paolo
con Nerone. Non possiamo però essere d'accordo col Westerburg,
quando sostiene che il falsario attinge ad una fonte ora perduta, in cui
doveva già comparire Seneca. Infatti questa sua ipotesi non è convali-
data da alcuna prova, ma anzi è smentita dal silenzio di tutti gli autori
pagani e cristiani (prima del IV secolo), in merito ad un presunto rap-
porto tra Paolo e Seneca (cfr. introduz., p. 9). Nei limiti delle attuali
conoscenze delle fonti pagane e delle fonti cristiane canoniche e apo-
crife dei primi secoli dell'età cristiana, in mancanza di una prova del
contrario, bisogna supporre che sia stato il nostro autore, nel IV secolo,
che ha messo in rapporto per la prima volta Paolo e Seneca, dando
cosl origine alla leggenda della loro presunta amicizia, e traendo spunto
da una tradizione preesistente, relativa ai rapporti tra Paolo e Nerone,
attestata negli Atti apo&rift.
-136-
A queste critiche dei Pagani, i Cristiani rispondono polemicamente che
spesso le sovrastrutture culturali sono un velo che ottenebra ed impe-
disce di penetrare la pura essenza dell'insegnamento cristiano. Si può
citare qui un passo di Paolino da Nola, dove si afferma che la cultura
spesso oscura piuttosto che illuminare le verità della fede (Car111. 10,
33 sgg.): V atarevanis,ofio a11t111gotio, / et fabulosis litteris / vela/,·sllis11/
par1a11111S
kgibllS/ l11t,111tJ114
terna11111S
ma111,/ (JlltJIIIvis sophor11111
,allidaars-
F rhelONlmet / ftgmentava/11111 ntlbilant,/ qui ,ordaf alsis atq,,e vanisi111-
blltmt/ tanlll111q,,e
lingt111S
inrlrllllnt,/ nihil ftrent,s, 11/1a/11t1111,onferanl, /
veritat, nor tegant;cfr. anche Amob. Nat. 1, 59.
11111
Notiamo infine che quasi tutti i mss. hanno egoad eccezione di K
in cui la parola è omessa e di Z e P, che hanno ergo.Questa lezione,
che pure è sostenibile, non è accettata dal Barlow. In effetti in questo
caso la presenza di ergoin Z e in P, che rappresenta una tradizione se-
parata, non prova che ergosia la lezione autentica: può trattarsi di un
cuore in cui facilmente i due copisti possono essere incorsi indipenden-
temente l'uno dall'altro.
-137-
tmim hominisinobedimtia111 non si,111awlivit,
P,tta/or,s tonstilllliStllll111tdti,
illlii,avit,·qllia tJIIOd Il Ronsch (Itala 111111
awlivitprtlltlarit1111it. Vtdg., p. 298)
osserva che nell'Itala si trovano più frequentemente che nella Vtdgata
delle forme attive in luogo di forme deponenti: tra le numerose esem-
plificazioni c'è anche prtlltlaritare.Ricordiamo che il nostro autore legge
la Bibbia in una versione prevulgata, poiché quando scrive l'epistolario
(il che avviene - come si è visto nell'introduzione - tra il 324 cd il 392)
forse Girolamo non aveva neppure cominciato la sua opera di traduzione
in latino del testo biblico. I raffronti tra la lingua dell'Itala e quella
del nostro testo sono significativi, perché confermano che è proprio
questo tipo di versione pregeronimiana che è utilizzata dal falsario,
come dimostra in particolare un passo della XIV (XII?) epistola (cfr.
oltre, p. 200).
- 138-
dimostra come la leggenda dell'apparizione dei Dioscuri fosse diffusa
ancora nel IV secolo, quando è stato scritto anche il nostro epistolario.
Si noti che Pacato (come anche Floro, del resto) cita la leggenda omet-
tendo il nome di Vatieno: Nam si olim 1etllricredidn-e111aiore1 Cartorat
gemino1,albmtib111 equit, et 1tellati1apidb,u in.rig1111,
puluerem m10re1111J114
The11alku111 aqtdt Tiberi1 abl111nte1, et n1111tia.r1e
ui,toriam, et i111puta11e111i-
litia111, '111' non l11a1publi,ae uindktae,onf111a111
aliq1111111
i111111ortalù
dei ,11ra111
plll,111111 Quanto al nostro autore, il Kurfess (lo,. dt.) ritiene
tJ1111ixa111?
si rifaccia a Cicerone (anche il BARLOW, lo,. dt., è del medesimo avviso),
poiché il pensiero che gli dei si rivelano attraverso i semplici, gli in-
colti, si trova espresso solo in Cic. Nat. deor.3, 11: QIIOtigit11rtu Tyn-
daridas,app,llabat,id et/ ho111in11 hominena/01[•..] 101tu çu111,antherii1a/bit
nu/li1 ,alonib111 obuia111Vatinio 11enit1e exùtimat et uktoriampopuli Romani
Vatinio poti111homininuti,o [cfr. il nostro testo: Vatieni hominù r111ti,u/1]
IJ.lllllllM. Catoniqtd tum era/prinçep1n1111tiaui11e? Kurf ess si basa su questo
raffronto con il testo di Cicerone per sostenere che questa VII epistola
non è stata scritta nel IV secolo, ma è più antica di uno o due secoli
almeno. Il Kurfess sostiene che un autore del IV secolo si sarebbe
rifatto a Lattanzio piuttosto che a Cicerone. Ma Lattanzio non è la
fonte della VII epistola, poiché Lattanzio non menziona la patria di
Vatieno, come fa invece il nostro autore (in agro Reatino). Del resto
non si capisce veramente perché uno scrittore del IV secolo debba ne-
cessariamente attingere a Lattanzio e non possa rifarsi invece a Cicerone.
Il probabile riecheggiamento di Cicerone in ogni caso non dimostra,
come vorrebbe il Kurfess, che l'epistola VII è anteriore al IV secolo
(anche W. Trillitzsch, op. dt., I, p. 174, rifiuta, a questo proposito, la
teoria del Kurfess). La leggenda era molto conosciuta nel IV secolo e
questo lo possiamo affermare indipendentemente dall'epistolario di
Paolo e Seneca: per esempio, in base al Panegiri,odi Pacato, in cui, come
nel nostro testo, la menzione dell'episodio è fatta 'en passant', come
per accennare ad un fatto largamente noto, senza stare a raccontare tutto
per filo e per segno, dando per scontati particolari che erano evidente-
mente risaputi. Dobbiamo forse pensare che si tratti di una leggenda
popolare, con una lunga, ininterrotta tradizione orale, accolta di tanto
in tanto e occasionalmente anche dalla letteratura ufficiale? Se noi con-
frontiamo i passi in cui gli autori in tempi diversi menzionano l'epi-
sodio di Vatieno, ci accorgiamo che la leggenda non subisce alcuna
modificazione nel corso dei secoli e questo è inconcepibile se si ammette
che la sopravvivenza della leggenda e la continuità della tradizione sia
stata affidata essenzialmente alla voce popolare. Non si tratta dunque
di una leggenda popolare, ed è proprio il nostro testo a darcene una
conferma. Il modo incolore con cui viene introdotto e sbrigativamente
liquidato con poche parole l'episodio di Vatieno (et dato ei exemplo Va-
limi hominù r111ti"'11) fa pensare ad un luogo comune: il nostro autore
- 1.39 -
attinge meccanicamente al ricco patrimonio di exempla, di cui ci si
serviva ampiamente nelle scuole di retorica. Si può ricordare qui quan-
to afferma Giulio Paride (IV-V secolo) nella prefazione della sua epi-
tome di Valerio Massimo, sull'utilità degli exempla: Exe111plor11111 ton-
tpdsilione111'11111
scirem esse non mintn disputanlibmqua111 detlamanlibus111-
tessariam,dett111Valerli Maximi libros di,tor11111 et fa,torum 111emorabili11111
ad 111111m110l11111en
epitoma,,oegi:tJIIOdlibi misi, 11/etf anlim im,eniressi (J1ll,llldo
(Jllidquaereres,et apta semper111ateriisexemplasubiungeres. Più oltre Giulio
Paride menziona per l'appunto anche l'exe111pl11111 Valieni (Paris 1, 8,
Ext. 1), cosi anche il contemporaneo Ianuario Ncpoziano, un altro
cpitomatore di Valerio Massimo ·(Ncpotian. 8, 2). Quello di Vaticno
è appunto un esempio topico che appartiene al repertorio tradizionale,
(sulle raccolte di exe111pla,cfr. E. BxcKEL,Ges,h. der romis,h.Lit ... cit.,
pp. 373-374). Quanto al nostro autore, la fonte può essere dunque Ci-
cerone, come tutti sono concordi nel ritenere (Kurfess, Barlow, Tril-
litzsch, etc.) non senza però la mediazione di una qualche scuola di
retorica, in cui gli exempla erano oggetto di discussione e materia di
esercitazione: il tema è quello dell'ingenuo, dell'ignorante a cui la
divinità misteriosamente si rivela, e che al nostro autore sembra adat-
tarsi perfettamente anche a S. Paolo. Non vi è dubbio che alla sopravvi-
venza nei secoli e alla fortuna dell'exe111pl11m Valieni ha contribuito di
più la scuola che non la tradizione popolare. La leggenda nasce dalla
fertile e ingenua fantasia popolare, ma una volta menzionata da Cice-
rone e da Valerio Massimo acquista dignità letteraria cd entra a far
parte della tradizione classica. L'azione conservatrice, che la scuola
naturalmente svolge nei confronti del patrimonio culturale di cui è
depositaria, spiega la staticità della leggenda nel corso dei secoli e la
cristallizzazione scolastica dcll'exemplumValimi che è menzionato dagli
autori più diversi in una forma molto simile e spesso quasi con le stesse
parole.
-140-
un uomo colto. ll Pohlenz (cfr. Di, Stoa •••cit., I, pp. 402 sgg.; inoltre
Patd11.r di, Stoa •.• cit., pp. 5-6) mette in rilievo come Paolo fosse un
111111
ebreo appartenente ad una classe sociale elevata che parlava greco.
Egli avrebbe assimilato in notevole misura la cultura greca e avrebbe
avuto dei contatti anche con lo Stoa (cfr. introduz., p. 33). Non bisogna
pensare che presentando S. Paolo come un uomo ingenuo e incolto,
il nostro autore dia un'interpretazione personale. Molto probabilmente
egli si rifà a quella che era al suo tempo l'immagine convenzionale di
S. Paolo, a cui era comunemente applicata l'etichetta di uomo ingenuo
e ignorante, in funzione del motivo che Dio si rivela ai semplici. Quello
della ifmoçenfiae della pretesa ru.rtintasdell'apostolo doveva essere un
luogo comune piuttosto diffuso nel IV secolo, come dimostra un'epi-
stola di S. Girolamo (Epist. 49 (48 Vall.), 13 (Apolog,ti,11111 ad Pam111a-
thi11111): Patd11maposto/11111 pro/1ra111 qu,111qll(J/ims,11111q111
legovideor111ihi
fl01I verballllliir,, sed lonitrua. Legit, ,pishllas 1i11.r1/ 111axim1 ad Romanos,
ad Galatas,ad Ephesios,in qllibu.r/ollls in ,er/a111in1 posillls est, 1/ videbitis
111111in /1sti111oniis
qua, 111111itd, vet,ri t1sla111enlo,
qua111
artiftx, qua111 prlll:!ms,
IJll4111dissi111ulatorsii 1i11.r
IJIIOd
agii. Videntllf'qllid,111
verbasi111plina, 1/ IJll4si
i11110fmlisho111inis aç rusti,ani, 1/ qlli net fa,er, net dedinar, norit insidias ,·
s,d IJIIO'lllllfJIII
respexerisf 11/111ina
SIIIII.Girolamo polemizzando qui contro
questa interpretazione convenzionale e semplicistica di S. Paolo, dice
che solo apparentemente le parole dell'apostolo sono semplici come
quelle di uomo ingenuo di campagna, incapace sia di tendere che di
evitare insidie, ma in realtà, se si considerano bene ci si accorge che
sono dei tuoni veri e propri. Si noti in particolare l'espressione inno-
tmtis ho111inis a, ru.rti,ani,che sembra quasi una glossa di ho111inis r11.rti,11/i,
del nostro testo, in cui, come si è visto, r111ti,lll11.r unisce all'idea della
rustintas quella della inno,entia(come si ricava dal contesto, cfr. in par-
ticolare il precedente or, inno,enti11111). Non è escluso che S. Girolamo
riecheggi qui, più o meno consapevolmente, il nostro testo, in cui l'apo-
stolo è paragonato a Vatieno, homor111ti,11/111. Ciò è cronologicamente
possibile poiché quando Girolamo scrive l'epistola XLIX conosceva
già l'epistolario di Paolo e Seneca. Infatti l'epistola XLIX risale al 393
(Saint Jérd111e, Lettres. Texte établi et traduit par J. Labourt, Parigi II
1951, p. 119 nota 1) e la nostra corrispondenza è citata nel XII capitolo
del D, viris i/111.rtribu.r, nel 392. Questo raffronto mi pare interessante,
poiché, anche se non si può dimostrare che Girolamo allude in partico-
lare al nostro testo, si può affermu:e però con certezza che egli pole-
mizza proprio contro quell'imm1gine convenzionale di S. Paolo che si
ritrova anche qui. Tanto il nostro autore che Girolamo alludono tutti
e due ad una stessa interpretazione di S. Paolo, ma mentre il nostro
autore la accetta passivamente e acriticamente, Girolamo vuol farne
giustizia e si sforza di ridimensionare criticamente la figura e l'opera
di S. Paolo.
- 141 -
[p. 70, r. 13] - ADPARUERUNT: è la lezione di P, contro tutti gli
altri codici che hanno adparllissmt,compreso il cod. À esaminato più
tardi dal Franceschini. Secondo il Barlow, questo è uno dei casi in cui
P conserverebbe la lezione autentica (op. di., pp. 36-37) contro tutti
gli altri mss. Adparllissml sarebbe una correzione fatta sulla base del
testo ciceroniano (Nat. dtor. 2, 6), dove l'episodio di Vaticno è narrato
con una sequenza di verbi al congiuntivo piuccheperfetto: dixissmt
[...] ,onstiti.rsel(cfr. sopra, il passo citato per intero).
[...] 111111/iat,isset
Il Barlow fa notare che anche in altri casi il testo di Cicerone ha influen-
zato la tradizione manoscritta di questa epistola, come ad esempio nel
caso di nutittdi sostituito da rNSticiin 8 e P e per Valimi sostituito da
Vatini in 8 e v (cfr. sopra, p. 138 sg.).
- 142 -
EPISTOLA VIII
-143-
con quanto attestano Svetonio, Plinio il V. e Seneca intorno alla perso-
nalità dell'imperatore (cfr. Scn. Nat. 6, 8, 3; Svet. Nero 56; Plin. N.H.
11, 261; 19, 39; 30, 15; 37, 45; etc.). Da queste testimonianze risulta
che Nerone era avidamente curioso di tutto ciò che era nuovo e straor-
dinario (cfr. E. RENAN, op. rit., p. 137: « il avait le gout des exespérienccs,
des nouvellcs inventions, des choses ingénieuses »). Questo aspetto
della singolare personalità neroniana, cioè questa sua naturale curiosità
questo suo gusto stravagante per ciò che esce dalla
verso il 111onslrtl111,
norma, che si distacca dall'ordine naturale delle cose, si ritrova poi forte-
mente accentuato, anzi grottescamente esasperato nella trasfigurazione
fantastica degli Atti Apoçrifi, dove l'imperatore, la cui figura storica
appare bizamunente distorta, è rappresentato spesso in atteggiamento
di stupita e ingenua meraviglia davanti ai prodigi di Simon Mago e degli
Apostoli. Come abbiamo già rilevato (cfr. sopra, p. 135 sg.) è a questa
interpretazione che si rifà anche il nostro autore. Qui poi rm1111 admiran-
danl111 [...] a111ator1111
mi pare riecheggi volutamente 111irari 111111
poss, lii
(Jldnon /1giti1111i111b11tus
sit ta/it,r 11ntiat,dell'epistola precedente, in cui
Nerone colpito dall'elevatezza dei pensieri di Paolo (smsib111 tllis 1110hl111),
appariva stupito che fossero stati espressi da un uomo incolto, e in cui
l'ispirazione divina di Paolo era posta sullo stesso piano della rivela-
zione dei Dioscuri al contadino Vatieno: agli occhi di Nerone tutti
e due i fatti apparivano ugualmente meravigliosi e straordinari.
- 144 -
che serve ad attenuare il tono di rimprovero; cfr. anche Plin. Epist.
8, 24, 1 : Amor in /1 111111! togit, non 111pra1tipia111(n1tp14
mim pra,ç,ptor,
1g,s),euilll0flla111 tamm 111,(JIIIII stis, tm,as 11obsm11s,aut n1stir11111li11S.
Qui
lld111oner1 indica, come nel nostro testo, un ammonimento bonario, che
non offende chi lo riceve, ma che anzi è una testimonianza di affetto.
Mi sono qui distaccata dal Barlow che preferisce invece la lezione per-
lllittit (a. P) [...] s, (P), e interpreta: « stili he allows himself not to be
rebuked, butto be informed » (cfr. op. tit., p. 143). Si noti che s, è solo
in P, mentre tutti gli altri mss. hanno /1. A mio avviso qui la lezione
preferibile è p,rmitt1s (). W ~ K) [...]t,, poiché dal contesto risulta
chiaramente che la persona che deve essere ammonita è Seneca e non
l'imperatore: P11toenim /1 grlltlit,rfotisse, (Jll(Jd •.. etc. Paolo intende ri-
chiamare l'attenzione di Seneca sul fatto che, sebbene Nerone abbia
dimostrato interesse per il Cristianesimo, rimane pur sempre un pagano,
e quindi Seneca avrebbe dovuto essere più cauto.
- 145-
10
[p. 71, r. 7] - NIMIO AMORE MEO: Seneca avrebbe dunque errato
per troppo affetto verso l'apostolo. Lo stesso motivo è in Simmaco:
Sdo (JIIOdamorefalleris(Epist. 9, 87); si tratta di un motivo convenzionale:
il nostro autore attinge qui al noto -r6TCoç della dile&IUJ (amor, cpLÀC«),
di cui si avvalgono ampiamente gli autori latini e greci (cfr. K. THRAEDB,
op. di., pp. 127 sg. e 132 sgg.); cfr. anche il passo di Plinio, ncll'Epist.
8, 24, 1 (già citato nelle pp. prec.): Amor in le 111e11S ,ogit, non lii praed-
pia111[.••] ad111onea111 e più oltre (ibid. 10): Qllippe non vereorin
la111en,
amorene 111odN111 ex,esseri111.
Il motivo della dile,tioricorre con frequenza
anche nella tarda latinità cristiana (cfr. ad es. Aug. Epist. 58, 2: q,,ak-
'1111/(JIIIsped111en,ordiset a111oris
ergale 111ei; Paul. Noi. Epist. 51, 2 CSEL.
85, p. 424, 31-32: testimoniaanimi et a111oris in IIOS 111ei
hae, mea smpta
retine/e).Anzi, presso gli scrittori cristiani, per influsso della nozione di
,aritas (ciycxmi),intesa come vincolo universale di amore, il -r6TCOç epi-
stolare della dile,w si arricchisce talora di un nuovo significato e si ani-
ma di una nuova vibrazione mistica: come ad es. in Paul. Noi. Epist.
51, 3 CSEL. 29, p. 425, 15: Non eni111 h11111anaamidtia sed divinagratia
invite111 nobisinnoltdmmet ,onnexi 111111,u per vistera,aritatis Christi. Paolo
dunque teme che Seneca, parlando all'imperatore della religione cri-
stiana, possa avere turbato la sua coscienza di uomo pagano (C11111 mi111
i/le
genti11111 sii 11Iho, sdre e11111
deosço/at,(Jllidlibi vis11m 11elles
nonvideo,nisi nilltÙJ
amore111eo f aterele ho, existi1110:
« infatti, poiché egli adora gli dei del paga-
nesimo, non riesco a capire come ti sia potuto venire in mente di esporgli
questi argomenti, a meno che io non pensi che tu hai agito cosi per il
troppo affetto che nutri verso di mc »). Il falsario ha qui forse in mente al-
cuni passi della prima epistola ai Corinzi, in cui S. Paolo esorta al rispetto
della personalità altrui e dice che bisogna stare attenti a non turbare
con la propria condotta i « fratelli deboli », cioè quelli che non sono
spiritualmente maturi oppure non ancora saldi nella fede (cfr. J. N.
SBVENSTBR, op. di., p. 89 sgg.). S. Paolo afferma inoltre che, nel rivol-
gersi ai non cristiani, ha cercato sempre di conformarsi al loro modo di
vedere, evitando ogni atteggiamento brusco e intransigente (I Cor.
9, 22): Omnibm omniafaçt,u 111111, 11Iomnesfatere111 sal110s.
Del resto, che
il falsario conosce bene la prima ai Corinzi, risulta chiaramente da un
passo della lettera X del nostro epistolario, che si rifà esplicitamente a
questo passo paolino: Debeo eni111, 11Isaepeproftss,u mm, ,11111olllnib,u
omnia esse (cfr. oltre, p. 156).
- 146-
poi Tert., A.dv. Mar,. 1, 24, 7 CCL. 1, p. 468; Si de JNturomthls es,
&lii' no,, et de praesenti,Nt perft&te?;Mart. Brac. Con-. 17: de praeteritis
peççatisindtdgentia111 ne ad ipsa itm1111
petat, et de jNtNf'oça1Jeat revo/11atur
[...] etc. Paolo dunque, dopo aver rimproverato Seneca per l'impru-
denza commessa, lo esorta a non ripetere nel futuro il suo errore (Rogo
deflll1'1'one id agas): « Ti prego di non farlo più».
[p. 71, r. 10] - 0PFENSA: mentre ojfensmè ciò che urta, indispet-
tisce, ojfensadesigna la conseguenza dell'offesa: significa infatti « risen-
timento»; cf'r. Phil. 1, 10: "' sitis sin,eri et sine offensa(,htp6axo1toL)i11
die111Christi (in Plinio, Quintiliano e Giustino, offensaè contrapposto a
grafia: «favore»). Nel nostro testo Paolo teme di cadere ulteriormente
in disgrazia presso l'imperatrice Poppea. L'apostolo raccomanda a Se-
neca di essere prudente nei confronti dell'imperatrice (Ca11endll111 est
eni111ne dM111 me diligis, offensN111
dominaefadas, Nlim (jllidemoffensane1J114
oberi/, si perse11era11erit,
neq11e,si non sii, proderit): « bisogna che tu stia
attento, per il troppo affetto che nutri verso di me, a non urtare l'impe-
ratrice, il cui rancore, se ella dovesse persistere in questo suo atteggia-
mento, non potrà ostacolarci, ma nemmeno favorirci », dove implicito
è il concetto che l'opera di apostolato di Paolo continuerebbe in ogni
caso (ne1J114oberit: « non potrà ostacolare la nostra opera»), meglio sa-
rebbe, comunque, come viene raccomandato a Seneca, evitare di met-
tersi ulteriormente in urto con l'imperatrice, poiché ciò potrebbe, se
non compromettere l'opera di apostolato, creare certamente qualche
difficoltà.
-147-
cfr. inoltre E. WESTBRBURG, op. di., p. 28; J. KRBYER, op. di., p. 176;
A. KURPBSs, ari. di., « ThQ » 119, 1938, p. 322, nota 4). Il motivo della
castità e dell'astinenza giuoca un ruolo importante negli Atta Ptlllli
,1 The,!tu cd in generale in tutti gli Aili apotrift (cfr. L. VouAux, op.
di., p. 78 sgg.). Qui però, a mio avviso, non è necessario ricorrere a
questa spiegazione; le ragioni del risentimento di Poppca sono state
chiaramente espresse nell'epistola V: Poppca avversa Paolo perché
lo ritiene un giudeo rinnegato e quindi è naturale che sia urtata anche
dai tentativi di Seneca di iniziare Nerone al Cristianesimo. Quanto poi
alla contrapposizione regina- 111tdilr,il testo mi pare voglia significare
semplicemente che la collera cd il risentimento non si confanno alla
dignità regale e che se Poppca si adirerà, dimostrerà di essere una donna
qualsiasi e non una vera regina.
-148 -
EPISTOLA IX
[p. 71, r. 2] - Scio TE:il Liénard (ari. di., « RBPh », 11, 1932,
n. 19) osserva che con queste parole cominciano anche alcune lettere di
Simmaco, come ad es. l' Episl. 11, 31: Sdo 1, a111i,1111i i111Jitiae
et a111anle111
mei; 1, 60: Sdo te nonforllllklrt1111
hab,rediletlllm,s,d 111mlor11111;
cfr. anche
ibid. 11, 65; 4, 42; etc.
[p. 71, r. 2] - TUI CAUSA: cfr. quanto è stato osservato a propo-
sito di ottasion,nostri (Episl. I), a p. 81.
[p. 71, r. 2) - COMMonJM LITTERIS: la iunctura /illms ço111111ovm è
attestata in Celio, presso Cic. Epist. fam. 8, 10, 1: Sane q11a111 liltms
C. Cassi et D,iolari 111111111
to1111110Ji:
cfr. anche ibid. 8, 16, 4: lilleras [.••
••.] qllib111
[..•] ,ommoveriposs,s.
[p. 71, r. 2-3] - LITTERIS QUAS AD TE[ ... ] FECI: la iunctura fatere lil-
J,ras(o lilleram)è già in Plauto e Cicerone, dove però significa semplice-
mente «darsi a scrivere »; cfr. ad es. Plaut. Asin. 767: "'il/i sii tera,11bi fa-
'"' possil lilleras;Cic. A,. 2, 6: N, litteramqllide111 111/amf,dmtn, nisiform-
sem. La costruzione lillerasfatere ad aliq111111 è frequente nel latino tardo,
proprio con il significato, che ha nel nostro testo, di « scrivere una
lettera a qualcuno»; cfr. Hil. CSEL. 65, p. 171, 8-9: Et ho, a11l1111 sdr,
vosvolo,(Jll(}d p,tii, 111[,11111]
fratr,111Fortlllkllian11111 litt,ras 111,as
ad ç/e111mlis-
si11111111
i111p,ra1or1111perf,ral, q11a1ad ori,nla/11epis,oposfed [•••] etc.; ibid.
p. 111, 6: letlae s1111I 1ni111
li1teraefa,1a,a Theognilo,·Cypr. Episl. 80, 1:
litlerar11111,
fJllaJ ad praesidesprovindar11111de nobisfedi; ibid. 75, 1 ; Iustin.
27, 2, 6: litlerasfadl; Leo M. Episl. 117, 5 PL. 54, 1039 A: epislolas
fed; etc.
[p. 71, r. 2-3] - DE EDITIONE EPISTOLARUM TUARUM CAEsARI: il
Barlow (op. di., p. 37 sg.) accetta qui la lezione epislolar11111
111ear11111
che
- 149 -
si trova solo nel codice P contro tutto il resto della tradizione che (com-
preso >..)ha t111m1111. Ora le lezioni di P, che rappresenta un ramo indi-
pendente da tutto il resto dei manoscritti, sono da accettare solo quando
sono attestate anche in qualche codice di l:, poiché in tal caso P costi-
tuisce come una conferma della validità di tali lezioni. Ma quando in
nessun altro codice di l: compare la lezione che troviamo in P (come
nel caso di 1111llt'N111),allora bisogna andare molto cauti e non si può pre-
ferire a priori quella di P (tanto più che il copista di Psi dimostra spesso
assai maldestro). A mio avviso è meglio accettare la lezione ,pistolartl111
hlarll111 e pensare che il falsario si riferisca all'epistolario paolino; questa
interpretazione mi sembra preferibile all'altra poiché, mentre queste ipo-
tetiche epistole di Seneca di argomento cristiano non sono citate al-
trove nel nostro epistolario, le lettere di Paolo sono menzionate più
volte; cfr. ad es. Epist. I: Lib,Jlo IIIIJJ,çto,id 1st depluribm aliq,,asJitt,ras
q,,asad dvitat,111s,11,ap11tprwinda, dir,xisti; Epist. VII: Projit,or bme 1111
att1plll111Je,twn, Jitt,rar11111hlarllm (JIIIZSGalatis Corinthiis A,haeis 111isisti.
- 150 -
[p. 71, r. 6) - NOTISSIMUM HABBAM: la iunctura notissimumha-
,,,,.,. a quanto mi risulta, non è attestata altrove, mentre è assai fre-
quente la costruzione simile ,ognilllmhaber, (ad es. Cic. Epist. fam. 15,
20, 3: Ego tantum me sdre putabo, (Jll41llllm ,x lllis /itteris hab,bo ,ogni-
111111); cfr. se mai Cic. Orat. 118: Net veroa dia/e,tids modosii inslrll&/111
,1 habeal 011111isphilosophiaenotos aç lratlatos /o,os.
- 151 -
titolo ed inoltre, come abbiamo già avuto occasione di osservare (e&.
introduz., p. 37, n. 9), è assolutamente da scartare anche l'ipotesi del
Fleury (op. dt., II, p. 267 sgg.), del Westerburg (op. dt., p. 11 sgg.),
dell'Hauréau (Notku et extraits de (Jllt/qms111t11111.Imls lalins de la Biblio-
thtqm Nalionale,Parigi, 1890-1893, Il, p. 195 sgg.) e di molti altri, che
pretendono di identificare il De verbor11111 çopiacitato nella nostra corri-
spondenza con un'opera falsamente attribuita a Seneca: la For111llla
1/Ìlaehoneslae,composta nella seconda metà del VI secolo da Martino
Dumiense, vescovo di Braga, nota anche come De (Jlllllllior 1/Ìrttdibm,
e che in alcuni codici porta anche il titolo De verbor11111 ,opia, come ad es.
nel Paris. lat. 8542 (cfr. BARLOW,op. dt., p. 144). Nell'intestazione del
Paris. 6707 si legge: lndpit liber De ,opia verbor11111 Sene,ae,(Jlltfllsmpsit
apostoloPatdo(cfr. FLEURY,op. di., II, p. 273); intestazioni simili hanno
anche i codd. 8544 e 8545. Ma ad una considerazione più attenta si vede
che il titolo De verbor11111 çopianon è riferito propriamente al lavoro del
vescovo di Braga, ma ad un"opera composita che deriva dalla fusione
di alcuni ex,erpta della Formlllavitae honestaee delle epistole autentiche
di Seneca (cfr. HAAsE,op. dt., S,pplemen/11111, praef. XXII; Marlini epi-
sçopi Bra&arensis operaomnia,edidit O. W. Barlow, New Havcn 1950,
pp. 208-210). Il titolo De verbor11111 çopiaè dunque stato applicato a que-
sti ex,erpta solo in un secondo momento e indipendentemente dal loro
contenuto, proprio per influsso del nostro epistolario (cfr. T. ZAHN,
op. dt., pp. 616-617, nota 3). Il titolo originario dell'opera di Martino
Dumicnsc è soltanto Formllla1/Ìlaehoneslae,come afferma chiaramente
!"autore stesso nell'epistola dedicatoria a Mironc, re degli Svevi: Ti-
111/ma11te111 libelliest Formlllavitaehonestae(p. 237 cd. Barlow), e origi-
nariamente non ha niente a che vedere con l'opera menzionata nel nostro
epistolario (sull"argomcnto cfr. inoltre E. BxcKEL,Die S,hrijt des Mar-
linm I/OnBra&ara formllla 1/Ìlaehoneslae« RhM », 60, 1905, pp. 505-551;
R-D NoTHDURPT,op. dt., Lcida-Colonia 1963, p. 30 sg.; W. TRILLI-
TZSCH,op. dt., II, p. 213 sgg.). Secondo il Fleury, che identifica erro-
neamente l'opera del vescovo di Braga con il De verbor11111 çopiacitato
dallo Pseudo-Seneca, il nostro epistolario sarebbe posteriore all'opera
di Martino Dumicnse, cioè posteriore al VI secolo: « Nous ne risquons
donc pas de nous éloigner bcaucoup de la verité, en presumant que la
[...] falsification des lcttres de Saint Paul et Sénèquc n'est pas antérieurc
au scptièmc ou huitième siècle » (op. di., II, p. 272). Contro una simile
ipotesi si possono sollevare molte obiezioni (si vedano ad esempio
gli argomenti di J. B. LIGHPOOT,op. dt., p. 331 sgg.) e in primo luogo
che la tradizione manoscritta risale almeno fino al VI secolo (e&. BAR-
LOW,op. dt., p. 35) - e già questo è un argomento che fa cadere l'ipo-
tesi del Fleury e di coloro che dopo di lui hanno continuato a soste-
nerla - ma anche a prescindere da ogni altra considerazione, !"identi-
ficazione della Formlllavitae honutaecon il De verbort1111 ,opia citato nel
-152 -
nostro epistolario, è da rifiutare, poiché l'opera del vescovo di Braga
è un trattato di contenuto morale, mentre il libro che il nostro autore
immagina che Seneca invii a Paolo è un manuale di retorica. Infatti
secondo il compilatore del nostro epistolario, negli scritti di Paolo è
la forma che lascia a desiderare, non certo il contenuto che anzi è consi-
derato sublime in quanto ispirato dalla divinità. Del resto poi, che si
alluda ad un manuale di retorica risulta chiaro dal titolo D, v6f'bort1111
topia,che è un'espressione tolta dalla retorica. La verbor11111 ,opia è la fa-
condia, la facilità nell'uso delle parole, prerogativa questa che, a detta
di Cicerone (Brut. 216) da sola vale più d'ogni altra a far apprezzare
un oratore: nllllare 1111a111agisorator,111,0111111mdari
(Jlllllll V6f'boru111
spmdor,
et topia. E questo è il pregio che anche Quintiliano, altrove cosi duro
nei confronti di Seneca, non può fare a meno di riconoscergli (Inst.
12, 10, 11); In his 1tia111,(JIIOIipsi vidimNJ,,opia111
Smetae, vires Ajri,ani,
111alllf'itat1111
Afri, illnlllditat,111
Crispi, son11111Trathali, elegantiamSettmdi.
La mpia verbor11111 è una prerogativa ddla forma, serve ad ornare e ad
amplificare l'orazione (cfr. Cic. Orat. 97; De orat. 3, 55: ,opia di,mdi;
cfr. inoltre Fortun. R.het.3, 3 RLM. p. 121 sgg.; Aquila, Rhet. 44 RLM.
p. ~. 15; per ulteriori esempi, cfr. LAusBERG, passim), è un aspetto del
'1111111
16f'111onis
che, a giudizio del nostro autore, manca agli scritti del-
l'apostolo (Epist. VII: VeJ/1111 ila(Jll4,&11111
res eximiasproj6f'as,111maiestati
earumtult111s,rmonisnondesii: cfr. anche l' Epist. XIII). Una volta dimo-
strato che il D, V6f'bor11111 ,opia del nostro epistolario non può identi-
ficarsi in nessun modo con l'opera di Martino Dumiense, e una volta
appurato che la prima menzione a questa presunta opera di Seneca si
trova nel nostro epistolario, c'è da chiedersi se questo D, V6f'bor11111
topia sia un parto ddla fantasia del nostro autore, oppure se egli faccia
riferimento qui ad un'opera realmente esistita e a noi non pervenuta.
La seconda ipotesi sembrerebbe a rigor di logica la più probabile, poiché
è più facile che in uno scritto apocrifo il falsario cerchi di accreditare la
sua compilazione facendo dei riferimenti a scritti autentici, piuttosto che
ad un'opera immaginaria con un titolo inventato di sana pianta, che po-
tre bbe più facilmente sconfessarlo agli occhi del lettore. È probabile
pca-ciò che nel IV secolo, quando viene composta la nostra corrispon-
dcmza, circolasse effettivamente sotto il nome di Seneca un manuale
di retorica, intitolato De V6f'bor11111
,opia. Ora, ammettendo che questo
scritto sia veramente esistito, come è molto probabile, dal momento
eh.e l'autore dell'epistolario apocrifo - che è il primo che ne fa men-
zione - confonde in una sola persona Seneca padre e Seneca figlio, e
poiché si tratta di un manuale di retorica, è più opportuno, a mio av-
viso, attribuire quest'opera a Seneca padre cultore della materia, piut-
tosto che al figlio, che nei suoi scritti autentici è duramente polemico
contro il culto della bella forma (cfr. sopra, p. 100).
Il nostro autore dunque che in tutta la corrispondenza presenta
- 153 -
Seneca in veste di maestro di stile nei confronti dell'apostolo, in questa
IX epistola immagina addirittura che egli invii premurosamente a S.
Paolo un manuale per aiutarlo a perfezionare il suo stile latino (!).
L'anonimo, facendosi interprete delle aspirazioni dei letterati del suo
tempo che vorrebbero innalzare la letteratura aistiana allo stesso li-
vello letterario di quella pagana, afferma simbolicamente in questo
modo la necessità di un'educazione stilistico-retorica dei Cristiani da
parte dei pagani. Come sostiene il Momigliano: « il compilatore è uno
di quelli che vogliono conservare i valori stilistici pagani negli saitti
aistiani » (art. dt., p. 333).
- 1.54 -
EPISTOLA X
Paolo afferma cli essere in imbarazzo scrivendo il suo nome nel prescritto
accanto a quello cli Seneca. Come osserva Lcfebvre d'Etaplcs: Epistolam
stribit [Pam'm)in (j1lll ,t S1111,a111
ho110rat,t s, ip111111
h11111ilial
(Fabcr, f. 228r).
-155-
prima fad,, cioè nel prescritto (Si no111initJ114
11110IIÌrtanhlset a D,o dik,1111
omnibus111odis,nondi,ofueris i1111,tus,
sedneçessario açttm, eril
11/Ìxllll,(opti1111)
de SeneçatllO)e non fa questione se il nome di Paolo debba essere prima
o dopo il suo: Ha11titatJll4te indign11111
prima f ad, ,pistolar11111no111inandll111
,ms,as. Gli scrupoli di Paolo, ndl'intenzione del falsario, nascerebbero
dal vedere il proprio nome vicino a quello di Seneca: quasi che S. Paolo
considerasse un onore troppo grande scrivere il suo nome di homo
rusti,llluse non /1giti1111
i111b11tus
(Epist. VII), nel prescritto subito dopo
quello di Seneca ,msor sophista 111agister tanti prindpis, ,tiam omni11111
(Epist. II).
- 156-
33), dove S. Paolo spiega che questo suo conformarsi alla mentalità
altrui non è dettato dal desiderio di trame un utile personale, ma di sal-
vare il maggior numero di anime: Jiçu/ 1/ llfJ p,r olllflia011111Ìb11.t
p/aç,o
,um (Jll41rm.t (JIIOd
mihi 11/ik1st, sed(JIIOd
1111"/is,
lii salvifamt.
[p. 72, r. 5] - I.EX ROMANA: l'apostolo che nei suoi scritti af-
ferma di aver sempre cercato di adattarsi completamente alla mentalità
dei diversi individui cui si rivolgeva, afferma di sentirsi ora in contrad-
dizione con tali principi, poiché, scrivendo a Seneca e ponendo il suo
nome nel prescritto, non ha rispettato la presunta regola romana se-
condo cui, scrivendo ad un senatore, si dovrebbe mettere il proprio
nome solo in calce alla lettera (Debeomim, [...] ,11111 omnib11.t omnia ess,
1/ id observar,in 111ap,rsona (JIIOd l,x Romanahonorisena/11.t tontessit,pw-
fetta epistola11/tim11111
lo,11111
,ligere).Il Momigliano (op. tit., p. 329) osserva
che nessun'altra fonte conferma la notizia di questa /ex Romanain onore
dei senatori. Ma qui forse bisognerà intendere /ex più come consuetu-
dine, come norma, che come vera e propria « legge »; cfr. ad es. lui.
Vict. Rhet. 27, RLM. p. 448, 23-25: Praefationesat sllbstriptiones lit11-
rart1111 ,omp11tandae
SIIIIIpro distri111in,
amitiliaea11/ dignitalis,habita ration,
to11S114tllliinis.
Che Seneca, precettore di Nerone, era senatore, il compila-
tore suppongo lo ricavi da Svetonio, Nwo, 7: [Nwo] lllldetimoanno a
Clalldioadoptalll.fest Annaeo(JlllSme,ae ia111 /1111t
s1naloriin distiplina111 tra-
dilll.f.
-157-
perft,ta, dans le sens donné par Lefebvre qui traduit: finita» (Faber,
f. 228r). Altrimenti - se non si accetta la congettura del Kraus - bi-
sogna interpretare perle,ta epistolaulti11111111 eligere:« riletta la let-
lot11111
tera, scegliere l'ultimo posto », pensando cioè che Paolo, dopo aver
scritto o dettato la lettera, la rilegga, prima di firmarla ed inviarla a
Seneca.
-158 -
Ntr01UIIII, ma bisogna emendare, con il Barlow, IIII in m, poiché
durante il IV consolato (cioè nel 60) Nerone aveva Lentulo e non Mes-
salla come collega. Nel nostro testo si allude invece al m consolato
di Nerone, in cui l'imperatore aveva come collega M. Valerim Mes-
sa/la Corllinm.La data è omessa in molti codici (), ~ B A R S E D F O U
M K: difficile stabilire se l'omissione della data da parte dei copisti
sia dovuta a cause accidentali oppure sia invece dettata dal bisogno di
eliminare l'insanabile contradd.izione esistente tta l'ordine logico e
quello aonologico quale si ricava dalla datazione: l'epistola XII, che
contiene la risposta di Seneca ai dubbi di Paolo, formulati in questa X
epistola circa l'opportunità di collocare il suo nome nel prescritto, è
datata 29 marzo 59. Ma non è il ritardo, con cui si presume che Seneca
risponda a Paolo, che suscita la nostra perplessità, quanto il fatto che
tra la X e la XII si inseriscono cronologicamente la XII (6-7-58) e
la XIV (1-Pr58), interrompendone il filo logico (su tutta la complessa
questione delle date, si veda l'introduz. pp. 45 sg.).
- 159 -
EPISTOLA XI (XIV?)
- 160-
[p. 72, r. 4] - OBNOXIOSREATUI: vuol dire che possono essere
facilmente accusati, indiziati di qualsiasi reato. Secondo il falsario il
popolo ha un tal concetto dei Cristiani da ritenerli responsabili di tutto
ciò che avviene di male nella città: obnoxiosIIOS reatuiomnispopu/111 illdi,et,
p11tansa 110bisejfidquidtpddin urbe,ontrariumftt: è un'allusione all'incendio
esplicitamente menzionato subito dopo. La notizia che ai Cristiani si
imputava tutto quanto era negativo, corrisponde al vero. Tacito che de-
finisce il Cristianesimo exitiabilis mperstitio, dice che i Cristiani erano
odiati per i loro delitti (per ftagitiainvisos)e che erano meritevoli di ogni
pena esemplare (Ann. 15, 44): Ergo, abolendorumori, Nero mbdidit reos
et quaesitissimispoenis affedt (JIIOS,per flagitia invisos, vulg111Christianos
appellabat[...] repressaq,ain praesensexitiabilis superstitio rursum erumpe-
bat, non modoper ludaeam,originemei111 mali, sedper urbemetiam, (jllO N111çta
lllldi1J118
atroda allt plldenda çonjl111111t
,elebranturqm.lgitur primum ço"epti
qui fatebantur, tkinde indido eorum multitlldoingens,haut proinde in mmine
in,endii I.Jllllmodio humanigenerisçoni1111,ti
s1111t(sull'odium humanigeneris,
cfr. A. OMODEO,op. dt., p. 8 sgg.; G. Rxcc1orn, op. dt., p. 254; A.
RoNCONI, Tadto, Plinio e i Cristiani in Filologiae Linguisti,a, Roma
1968, p. 165 sgg.).
- 161 -
11
pr1Z1111i11111;Tert. Ad,,. H1r111og. 7, 3 CCL. 1, p. 403: solidtll,t p,rft,tae
ftlidtatis, IJllll',ens,hlr 1Z1tm1ila.r; Min. Fel. 0,11111. 38, 4: 1p,111 f11hlr1Z1 ftli-
dlatis; Aug. Civ. 7, 1: IZllmtlZI11it1Z1 f1/idlal1111. L'aggettivo in11itlamette
in rilievo che si tratta cli una felicità soprannaturale, contro cui nulla
possono le foo:e terrene; cfr. Lact. [111I.6, 17, 7: illtlÌ#apatimtia. Nel
latino biblico i1111i,1111 è spesso attributo divino, come ad es. &di. 18,
1: D,111so/111 [...] 111an1tinlli,1111
r,x in 1Z1lm111111. Anche negli scritti auten-
tici cli Seneca si parla cli felicità eterna; cfr. ad es. Dia/. 7, 2, 2: Q111Z1ra11111S
,rgi [.••] (JIIÌdnoi in po1111sione felidtatis IZlllf'IIIZI ,0111/illlat. Ma solo appa-
rentemente il concetto cli ftlidta.r è simile a quello cristiano: in realtà
per Seneca non vi è nulla cli soprannaturale in senso cristiano: Ergi in
llirlllteponta 11111,raftlidla.r (ibid. 16, 1); per Seneca la 11,raJelidta.rdi-
pende unicamente dall'uomo, che la può raggiungere con il solo ausilio
delle sue foo:e. L'espressione jin,111111a/is impone,-,del nostro testo rie-
cheggia un passo delle Epistol, Morali: in ho, 111111111 11111Idi11,in ho, no,1,1,
hot opm 111111111 111,haet ,ogitatio,i111poner1 111terib111 111ali1 ftne111 (Epist. 61,
1). Qui Seneca a sua volta sembra rifarsi a Virgilio: ftne111que imponm
tllris (Am. 4, 639). L'anonimo conosce gli scritti autentici cli Seneca, e
sa che vi si trovano spesso espressioni improntate alla speranza cli una
futura cessuione cli tutti i mali, di una pace eterna; cfr. Dia/. 6, 19, 5:
11,orsdolON1111 ,xsollllio 11/et finii,Nitra IJlllllllmalanostranon 1x11111t
011111i11111
f/ll'l4 noi in illa111 tran(JIIÌJ/ital1111,
in fJllll anllfjlllllll llas(lrllllllr Ìllfllillllll, r,..
ponit. Gli accenni cli Seneca a questa pace futura non hanno in realtà
niente a che vedere con la speranza escatologica cristiana, cioè la fede
nell'immortalità dell'anima e della ricompensa nell'aldilà, ma sono
espressioni del tutto coerenti con la dottrina stoica. In Seneca si trovano
affermazioni contrastanti riguardo al problema dell'aldilà (per un con-
fronto fri la concezione escatologica cli Paolo e quella cli Seneca, si
veda SEVENSTER, op. dt., p. 202 sgg.). Osserviamo però che in generale
Seneca tende a considerare la morte e la sopravvivenza dopo la morte
una IJllll4IIÌO non risolta (cfr.; ad es. Dia/. 9, 14, 8; Episl. 71, 16; etc.).
Talvolta Seneca afferma con Epicuro che lo stato dopo la morte è lo
stesso che prima della nascita: la morte è la non esistenza (Episl. 54, 5;
77, 11; 99, 30; Tro. 397 sgg.; etc.); altrove invece sembra sicuro cli una
vita dopo la morte, ma si tratta di contesti in cui egli deve rassicurare
e confortare qualcuno, come nelle Con10/ation11 a Marcia ed a Polibio.
In questi contesti, dove Seneca, smussando le asperità della dottrina
stoica, parla dell'aldilà in termini volutamente poetici e sentimentali,
può sembrare che si avvicini alla concezione cristiana, ma si tratta cli
una somiglianza solo superficiale. Seneca è consapevole che l'immorta-
lità dell'individuo è solo un bel sogno: illflllltmlllso11111i11111, be/111111 solllllÌ11111
(Epist. 102, 1 e 2); sull'argomento, cfr. R. HoVEN,Stoid11111 et Stoide,u
Jaçea11problè1111 de l'all-delà,Parigi 1971, pp. 109-126. L'anonimo dunque,
in questa epistola, ricalca passi di Seneca apparentemente vicini al pen-
- 162 -
siero aistiano, ma in realtà schiettamente stoici e ne dà. un'interpreta-
zione cristiana, cosicché la tJtraftlidtas (DiaJ. 7, 16, 1) di Seneca diventa
nel nostro testo la illtJi,taftlititas, cioè la beatitudine celeste. L'atteggia-
mento dell'autore di questa epistola si distingue nettamente da quello
che carattcrlu.a tutte le altre lettere, da cui è assente lo sforzo di mettere
in luce la convergenza tra il pensiero di Seneca e la fede cristiana, e in
cui tutto l'interesse è incentrato su questioni non di contenuto, ma di
forma.
-163 -
Possiamo ricordare qui, tra i numerosissimi esempi, quello del D,
ira, 3, 8, 3 in cui c'è la stessa contrapposizione tra il passato e il presente,
ma con più lli.r polemica che nel nostro testo, dove è un motivo pura-
mente letterario: non c'è bisogno di risalire tanto addietro per trovare
esempi di crudeltà, basta prendere Caligola: Quid anliq11apersm1tor?
Modo C. CaesarS,x. Papini11111, Nd pat,r ,ra/ ,tms1"aris,B1tilim11111 Basst1111
q11a1slor1111 profllraloris SIii ftli11111,
S1111111, aliostp111/ s1natoreset eqllites Ro-
11/all()S
lll10 die jlagellis çeddit, lorsit, non fjlllllSlionibm sed animi faJISa.Si noti
poi in un altro passo (ibid. 3, 19, 1) il graffiante sarcasmo della dimax
degli strumenti di tortura che culmina inaspettatamente con 1111/111 SIIO
(ibid. 3, 19, 1): Q11a111 stp1rbaflllrit mu/elitas eim ad rem perline/ sdre [•.•]
Cedderat flag,llis so1111tores: ipse effedt 111did possel: « so/et fari»,·tors,rat
per omnia q,,a, in r1r11111 1111/11ratristissima s1111t,·ftdindis talaribm, efllieo,
igne, 1111/111s110;cfr. ancora Dia/. 2, 18, 2; 3, 20, 8-9; 4, 33, 3-6; 5, 21, 5;
9, 11, 10; 14, 4-6; 9; Bmif. 2, 21, 5; 4, 31 2; etc. Si può osservare che
gli esempi di crudeltà nel passato sono citati probabilmente in ordine
alfabetico: Matedonem, Philippi ftli11111 [ = Alexandr11111], Cyros, Dari11111,
Dionysi11111. Se ciò non è casuale, se ne può dedurre che il falsario non
attinge gli esempi di crudeltà direttamente da Seneca, ma probabilmente
da un compendio, o da un prontuario, in cui erano già raccolti in ordine
alfabetico.
- 164 -
ottimo senso, tanto più che anche Ciro, come gli altri tiranni, è menzio-
nato da Seneca come esempio topico di crudeltà e sfrenatezza; cfr. Bmif.
7, 3, 1; Cyrum et Cambism et 10111111 regni Persid stemmaper,mse: quem
im,enies,'1li 111odu111
imperli satietasfeterit? Nel De ira (3, 21, 1 sgg.) Se-
neca narra poi come questi abbia sfogato la sua crudeltà addirittura
contro un fiume, che non era riuscito ad attraversare: Hi, irat111 f11it
genti et ignotaeet i111111eritae,
sens11raeta111m;Cyr111 jl11111ini
[•.•] Ht« deinde
omnemtransttditbelliapparahlmet tamdi11 asseditoperiJoneççm/11111et LX X X
amiadis diuis11111
al11e11111
in lretmtos et sexagintarivos dispergeretet sitt11111
re-
linqlleretin di11er111111
fl11mtib111
aqllis.
- 165 -
Ma la notizia dei frequenti incendi della Roma neroniana sembra con-
fermata da Plinio il V. (N.H. 17, 1): Hae, f.,., loto, pahllara111on1111
[•••] ad N,ronis printipis intmdia ttdhl
opatitat, /asti,,ia, [•••] dllr1111mmltp11
,iridls i11111111stp11,
mi pri11t1psil/e adt1/erass1t1tia111
arbort1111111ort1111.
In ogni caso i due termini saep,e 11111# sembrano in contraddwone:
la frequenza implica piuttosto la casualità, mentre 11111# allude chia-
ramente alla responsabilità di Nerone {e su questo punto il consenso
quasi unanime della tradwone manoscritta non ci autorizza ad inter-
venire sul testo: saep, ~ casualmente omesso solo in C). Probabilmente
il nostro autore contamina due versioni molto diverse, e ci~ quella
che attribuisce la responsabilità del disastro a Nerone e l'altra che tende
a presentare l'incendio del 64 come un tasti/ in 11rb,JrefJllffll.
-166-
«ml1111ptus p,rittd11111, omnib,apalml: SIIIII,n;,,,tpdfaslidianl tpdt-
si OIIJflia
tpddpropi,a adim1111. Esempi di ~oÀom<i>Tov sono anche in S. Paolo (I
Cor. 9, 22): o,,,,,;b,uolllfliafattus 111111
1110111111s
fater1111salt10s
,· ibid. 10, 33:
siad 11,gop,r olllflia0111nib,a plateo non 1J1141"lflS
fJIIOd111ihi11/il,1sl, sed (JIIOd
111,dtis,111sa/liijianl.
-167-
tazionc cita un passo di Curzio Rufo (Historiae Akxtmdri Magni, 4,
16, 1O), in cui pro occupa nella frase una posizione simile al nostro testo:
Prop,111ot:Ùl111 saetllli r,s in 111111111i/111111 pro! forhma t11111tilat,erit.
die111, Il
Barlow, sempre seguendo il cod. P legge poi: SlljJplidoad/etti, IJIIOl,l fori
so/et. Si noti che (JIIOl,l è solo in P cd è omesso in tutto il resto della tra-
dizione (ma già il Kraus, a cui, era ignoto il codice P aveva congetturato
lii fori so/et, congettura accettata poi anche dal Westcrburg). La lezione
so/et è nella maggior parte dei codd. Ma qui probabilmente la lezione
autentica è adft,ti fori soleni(soleni8 C D H J K• À µ. v ~). Il (JIIOd sembra
interpolato, nel tentativo di salvare il senso e la sintassi. S,pplido adft,ti,
(JIIOdfori sokt è con ogni probabilità una baoaUzzazionc di mpplido ad-
ft,ti fori soleni(cfr. anche ajfid soleni di µ.). Probabilmente non è stato
compreso il costrutto adfeçtifori [= adftal soleni,del tipo misst1111 f "'er,
« mandare libero» « prosciogliere da un'accusa», e degli esempi già
citati (cfr. f"'IIIS s11111
flagellalllS,a p. 114).
- 168 -
peccati, ftlim perditionis,e di colui che lo frena (o x«ffX<a>v), che è parsa
un'allusione a Seneca (cfr. J. N. SEVENSTER, op. dt., p. 10): Et """'•
tpdd tktineat sdtis, 111revelefllrin SlltJ tempore.Nam mysteri11m iam operahlr
imtpitatis,· t1111fll111lii q,d tmet n1111t
teneatdone,tk mediofa,t (sulla leggenda
di Nerone-Anticristo, cfr. E. RENAN,op.dt.; A. GRAP,op. dt., I, p. 357
sgg.; II, p. 581; W. BoussET, Der Alltithrist in tkr Vberliifer1111g tks
Gottinga 1895, pp. 93-98). L'identificazione di Nerone
Jlllienth11111s,
con l'Anticristo è evidente soprattutto negli Or11&11la Sibylli1111
(5, 385
sgg.; 8, 140 sgg.). Il Kurfess si sente autorizzato per questo a far risa-
lire questa epistola al II secolo, quando sono stati composti gli Oraç,da
Sfby//ina.Secondo il Kurfess, anche la notizia che i Giudei sono persegui-
tati da Nerone riporterebbe al II secolo, cioè al tempo delle persecu-
zioni di Adriano contro le popolazioni giudaiche insorte, rifletterebbe
cioè un ambiente giudaico vicino all'autore degli Orll&tllaSiby//i1111:
« Am auffallendsten ist die Verbindung von Christiani et lllliaei qtlllSÌ
1111Uhi1111tores
in&endii. Das fiihrt m.E in die Zeit, da Juden und Christen
gleichermassen unter der romischen Knute zu leiden hatten, also in die
Zeit Hadrians, als der letzte Aufstand der Juden unter Bar Kochba
zusammengebrochen war und an Stelle des alten Jehovatempels ein
Juppitertempel errichtet wurde. Der Brief scheint mir aus der Mitte
des zweiten Jahrhunderts zu stammen » ( « Mnemosyne », 6, 1938,
p. 269; cfr. anche « ThQ », 119, 1938, p. 330). Ma, come abbiamo già
rilevato, la notizia che i Giudei sono accusati dell'incendio di Roma e
perseguitati da Nerone insieme ai Cristiani, non riflette una mentalità
giudaica, ma fa pensare piuttosto ad una fonte storica pagana che con-
fonde Giudei e Cristiani. Inoltre l'identificazione di Nerone con l' Anti-
cristo non è sufficiente di per sé a datare l'epistola nel II secolo: la
letteratura apocalittica non si esaurisce nel II secolo, ma è un genere
largamente diffuso anche nel III e nel IV secolo: Nerone appare come
Anticristo nel Carmen Apologeti,11m (820 sgg.) di Commodiano; anche
Lattanzio (Mori. pers. 2), Sulpicio Severo (Dia/. 1, 14 PL. 20, 211 B;
Chron. 2, 28-29 PL. 20, 144-145), Girolamo (In Dan. 11, 715 PL. 25,
568 B) e Agostino (Civ. 20, 19) menzionano questa leggenda. Inoltre
non solo dall'analisi filologico-lingustica non emerge alcun elemento
che consenta di collocare questa epistola nel II secolo, ma, anzi, al con-
trario, si trovano, se mai, indizi che confermano che essa risale al IV
secolo, come il resto dell'epistolario (cfr. le pp. sgg. per un raffronto
con la poesia centonaria del IV secolo).
- 169 -
topiche del tiranno; per tarnijidflll,e&. Lact. /1111.5, 12, 1 : Qllitl iisfl'Jdas
tpd im l)(Jttlllltarnijidnas111tm1111 tyrt11111or11111
ad,,,rsus i11110tmt1s rabidl sa-
llimti11111?;Cypr. D,111,tr.13 CSEL. 3, p. 361: Q1141haet 1st i111atiabilis
tarnijitina, rabks, qtta4 i111xplebilis libido samtiae? Per 111/a111mf11111, e&.
Tac. Am,. 13, 47: HattlllllS Nero jlagitiis et steleribm111/a111mta qtta4sillit.
Il motivo del tiranno che nasconde le proprie colpe è anche in Seneca,
Dia/. 7, 12, 4: qtta4rmt1slibidi11ib11.t .rtdspatrori11i11111
ali(JIIOdat 111/a111mf11111.
Qui 111/a11111111111Jè un'allusione evidente all'incendio di cui Nerone è
responsabile, ma la cui colpa è stata fatta ingiustamente ricadere sui
Cristiani; cosl commenta Lefebvre d'Etaples: Etti grassatoril/e, diabo-
lm ili, Nero, P,tri Palllif/116 111tator, tpd 11rb,111i11,mdit,ttd tlll'llijidfllli11110-
tmti11111et llllk#Orlllllet Christianorll111 IIOlll}Jtati
erat, et ttd 111mdad11111 (JIIOd
Christiam ig,,1111 mbi mppo.rtdssmt,11tla111111hl111 (Faber, f. 228v). La descri-
zione della audeltà di Nerone, qui identificato con l'Anticristo riecheggia
le profezie apocalittiche, secondo cui l'inganno e la memogna carat-
terizzeranno l'Anticristo nelle sue manifestazioni, cfr. II Thess. 2, 8
sgg.: Et 11111, r,v1/abilllril/e ini(JIIIIS
[...] ttdm 1st ad,,mtm s,"'111111111 op,ratù>-
111111satillllllin 011111i
llirhl/1et sig,,iset prodigiis111mdadb11.t [.••] Ideo 111itt1I
illis D,m op,ratio111111 lf'rOris,lii tredant111mdado. Nella persona di Nerone
(tiranno, persecutore, Anticristo) r.nlmioa la sintesi cristiana della tradi-
2:ione letteraria antitirannica pagana con la letteratura apocalittica giu-
daica: nei Cristiani si ritrovano tutti gli elementi topici dell'invettiva
antitirannica pagana arricchiti dei toni profetici e oscuramente minac-
ciosi delle Apocalissi.
[p. 72-73, t. 15-16] - TEMPORI suo DESTINATUS EST: si allude qui alla
credema cristiana per cui Nerone-Anticristo sarebbe destinato alla fine
dei tempi, credema che si fonda sui testi apocalittici (cfr. II Thess. 2,
6: 111r,v1l1tmin S111Jt1111por1) e di cui si fa interprete anche Commodiano
nel Car111111 Apolog,ti,11111
(820 sgg.): Disrimm h1111, a11t1111
Nm,111111 1ss1
111fllst11111
/ Qlli P1tr11111 pri11S
et Patd11111 pllllivitin mb,: / Ipse redit itmmt mb
ipso sa1t11/iftn, / Ex loris apoçryphis,qllifllit resm,afllsin ista (CSEL, 15,
p. 169). C. Pascal (op. di., p. 137) fa notare che questa credema è conser-
vata anche in Sulpicio Severo (Chron. 2, 29 PL. 20, 145 D): lntlri111
Nero iam 1tia111 sibi pro tons,i,ntia st1l1r11111
i1111isu.r,
h11111anis
r,bm 1xilllihlr:
inter/11111an ipse sibi mor/1111 ,onsri11,rit.Certe torpm illim inter1111phl111.
Unti, treditm, ,tiam si se gladio ipse transftxlrit, Nlralo,,,dn,r11i11.t sm,ahls,
illlld quodd, 10 smpt11111
s1t1111du111 1st: 11plaga mortis ,im ,mala 1sl [Apol.
13, 3]; s11bsa1t11li ftn, mittmdlls111111.JSl1ri11111
initpdlatis1xert1al.
-170-
virgiliano). Questo verso si riferisce a Palinuro, la cui morte permette
al resto dei compagni cli approdare sani e salvi. Nel nostro testo
opli11111Stpas(JIII
significa « tutti i migliori», con allusione ai martiri cri-
stiani e a Cristo stesso, cioè il verso dell'Eneide è interpretato in chiave
cristiana, sfruttando forse la vaga assonanza (111111111 pro 111,dlis)con il
testo paolino (II Cor. 5, 14): aeslimanlesho,, (JIIOnia111 si IIn 111 pro
o 111 est, "li' omnes111orltd
11i b 111111orlllll.r 111111,et pro omnib11S111orl11111
est
ChristllS,lii, et qtd lli111111t,
ia111 sede~.qtdpro ipsis 111orlllll.r
nonsibi 11it1anl, est
et re1111Texil (cfr. anche Rom. 5, 11 sgg.). È interessante osservare poi
che lo stesso verso cli Virgilio, chiaramente riecheggiato nel nostro
testo, si ritrova anche nel Centonecli Proba (v. 568), che immagina che
Cristo preannunci con queste parole la sua morte futura e la reden-
zione dell'umanità. Da ciò si può arguire che l'adattamento cristiano
cli questo verso dell'Eneide,non è frutto del genio inventivo del nostro
autore, come hanno creduto fin qui i commentatori. Con ogni proba-
bilità si tratta cli una reminiscenza virgiliana, non attinta direttamente
dalla fonte, ma giunta al falsario attraverso la mediazione della poesia
centonaria del IV secolo. Naturalmente questo non basta per dimostrare
che il falsario attinge a Proba, anche se questa possibilità non è crono-
logicamente impossibile. Infatti le lettere del nostro epistolario si collo-
cano tra il 324 e il 392 (cfr. introduz., p. 11) e il Centonecli Proba è della
seconda metà del IV secolo.
[p. 73, r. 17] - ITA ET HIC DEVOTUS PRO OMNIBUS IGNI CREMA-
BITUR: come tutti i migliori fra gli uomini si sacrificano essi soli per
molti, cosl Nerone, votato alla morte per tutti, arderà nel fuoco dell'In-
che riecheggia II Cor. 5, 14 ribadisce il parallelo Cristo-
ferno. Pro 0111nib111
Nerone, che qui è in contrapposizione (Nerone = Anticristo). La morte
del tiranno in espiazione delle sue colpe è un -r61toç tradizionale che
affonda le sue radici nel campo della legge del taglione e che ha le sue
ramificazioni nella letteratura greco-romana e in quella giudaica, dove i
persecutori d'Israele vengono puniti da Dio, come ad esmpio il faraone
che muore inghiottito dalle acque del Mar Rosso, insieme al suo esercito
(cfr. M. L. Riccr, ari. rii., p. 96 sg.). Anche nella mitologia greca si
trovano esempi cli personaggi puniti perché si oppongono alla volontà
di un elio, come Salmoneo, Bellereronte, Capaneo, etc. Anche in Platone
(cfr. ad es. Gorgia,525 d) e in Aristotele (Poi. 1311 e 25) i tiranni rice-
vono la giusta punizione per le loro iniquità. Questo motivo ricorre poi
in Cicerone, Seneca, Plutarco, Dione Cassio, etc. Il -r61toç attraverso i
due filoni della tradizione greco-romana e cli quella giudaica giunge alla
letteratura cristiana, dove appare sovente, come nel nostro testo, il mo-
tivo del persecutore dei Cristiani che è punito da Dio, a cui si ispira tra
gli altri Lattanzio nel De 111orlib11S perseç11tor11111.
- 171 -
[p. 73, r. 17] - IGNI CREMABITUR: çremareper « offrire in sacri-
ficio o in voto bruciando (vittime, etc.)» è già in Livio (10, 29, 18;
23, 46, 5) e in Ovidio (Met. 13, 637; Fast. 4, 639). Qui nel caso di Ne-
rone è applicata. la legge del taglione: Nerone che ha fatto morire i
Cristiani arsi vivi, appare votato per tutti al supplizio del fuoco: ma
ora si tratta del fuoco dell'inferno. Si può osservare che negli scrittori
cristiani il verbo çremoè usato spesso in contesti in cui si fanno presagi
di pene infernali o profezie apocalittiche; cfr. ad es. Prud. Ham. 735
CSEL. 61, p. 155: Nemo, memorSodomae,(Jlllll m1111di forma çremandiest;
Aug. Civ. 18, 23: sontesaeternajlamma çremabit;Comm. Apol. 1053 CSEL.
15, p. 186: in infernoçremanhlr.In questa. epistola l'atteggiamento vctSo
Nerone è profondamente diverso da quello delle altre lettere: mentre là
Nerone è il principe illuminato che sa apprezzare le epistole di S. Paolo
(Epist. VII) il quale gli rivolge espressioni di ossequiosa deferenza
(come nella II epistola, dove Seneca è magister tanti p rin, i pi s
e nella XIV, dove Nerone è detto rex temporalis)qui è il carnefice di
tanti innocenti, destinato a bruciare nel fuoco dell'inferno. Probabil-
mente questa. epistola è stata. aggiunta. da un'altra mano per correggere,
in qualche modo, la visione troppo benevola di Nerone, che caratte-
rizza le altre epistole, in cui i rapporti del filosofo e dell'apostolo con
Nerone sono sempre molto buoni, mentre è evidente l'ostilità di Poppea
devota. al Giudaismo. L'autore di questa. epistola, prestando a Seneca
la sua feroce invettiva contro Nerone, si propone di ridimensionare la
figura dell'imperatore, ricordando che Nerone è stato il più feroce per-
secutore dei Cristiani, e contemporaneamente anche di affrancare Seneca
da ogni eventuale accusa di complicità nella persecuzione. Contro questa.
ipotesi si può obbiettare che il mutato atteggiamento verso Nerone,
anziché essere dovuto all'intervento di un autore diverso, potrebbe
riflettere lo sviluppo (o meglio la degenerazione) della personalità di
Nerone, nel cui governo già la tradizione storiografica pagana distingue
due periodi; il primo nel quale il giovane imperatore agisce sotto l'in-
flusso di Seneca, il secondo in cui rivela la sua vera natura e dà sfogo
alla sua malvagità. Ma come giustificare il mutato atteggiamento anche
nei confronti dei Giudei, che in questa epistola sono affratellati ai Cri-
stiani, vittime anch'essi della ingiusta. persecuzione di Nerone, mentre
tutto il resto dell'epistolario riflette la polemica antigiudaica?
- 172 -
Westerburg, etc.), prima di tutto perché non è ammissibile che l'ano-
nimo supponga che in un incendio di sei giorni siano bruciate soltanto
quattro inmlae, cioè solo quattro stabili con alloggiamenti plurimi,
inoltre perché (Jllllll111Jr milia è anche nell'ottimo À, e ciò convalida la
scelta del Barlow. Per la verità il Barlow a sua volta non fa che accet-
tare l'ipotesi del Biicheler (Kleine S,hriften, Lipsia 1927, II, pp. 61-62
« Jahrb. fiir Phil. » 105, 1872, pp. 556-567) che difende il numero 4000
(contro (JlllllllllJr
adottato dallo Haase) sulla base del cod. F, da lui con-
sultato qualche tempo prima che andasse distrutto nell'incendio di
Strasburgo del 1870. Il Biicheler rileva innanzitutto l'assurdità del rap-
porto tra le 132 domme le quattro ins11/ae: nonIJlieof11itmente,aptm (Pselldo-
sen,ça) 111ad domm CXXXII ins11/as Jaçeret non plm q11att111Jrdejlagratas.
Poi precisa che l'errore non è del nostro autore ma degli editori: na111
ex Argentoratensi,odke optimo ( = F) IJIIOd egoolim enotaviinsulae lilÌ, id
signifoat(JlllllllllJr
milia. L'anonimo fornisce qui dati molto precisi relativi
al numero delle abitazioni distrutte dalle fiamme, che non sono attestati
né in Tacito, né in Svetonio, che si tengono ambedue molto sulle ge-
nctali: cfr. Svet. Nero, 38: T1111, praeter im111ens11111n11111er11minsllla1'11111
do111111
pris,or11111 dl«11marser1111t;Tac. Ann. 15, 41: Dom11111 et inslllal'llm
et templor11111q11aeamissa s1111t, n11111er11m
inire halldprompt11111 f11erit.Tacito
è più preciso sul numero delle regionesdevastate dall'incendio: Qtdpp,
in regiones(Jllllll110rde,i111
Roma dividitllf',q11ar11111
q11atl110rintegra, 111an1bant,
tris solo tenm Jei,çta,,· s1ptem r1/iqllispat«a /,ç/or11111 vestigia s11p,r1rant,
/açera1/ s1mmta (Ann. 15, 40). Donde attinge il nostro autore le cifre
delle case incendiate (132 domm e 4000 ins11/ae) che già il Jordan (I,
p. 488 sg.) riteneva autentiche? J. Beaujeu (L'inç,ndil de Rom, ,n 64
11 /es Chrétiens, « Latomus », 19, 1960, p. 68 sg.) rileva che nel nostro
testo il rapporto (1 : 30) tra il numero di domm e quello di ins11/a1 non ha
niente d'inverosimile ed anzi a suo avviso sarebbe pressapoco quello
che si ricava dai Regionari del IV secolo, da cui risultano 1781 do111111
contro 44850 ins11/a1 per tutta la città, e 337 domm contro 8149 inslllae,
per le tre regioni andate distrutte. Dobbiamo forse pensare che le cifre
del nostro testo siano state calcolate approsimativamente in base al
numero delle abitazioni di Roma nel IV secolo? L'ipotesi che le cifre
fornite dal falsario siano una sua invenzione non appare però sostenibile.
Già il Momigliano osservava che « riesce più facile immaginare un fal-
sario pronto a servirsi di cifre preesistenti che non un falsario cosi raf-
finato da calcolare il rapporto tra domm e ins11/ae nel IV secolo prima di
dare delle cifre di sua invenzione per le case distrutte dall'incendio nero-
niano » (art. rii., p. 332). Quasi certamente l'anonimo attingeva ad una
fonte storica perduta che doveva trattare dei tempi di Nerone. Per M.
Sordi l'attendibilità delle cifre fornite dal falsario, attinte - come tutti
concordano nell'ammettere - da una fonte bene informata sui tempi di
Nerone, sarebbe anche una prova della storicità dei rapporti tra Paolo
- 173 -
e Seneca. La studiosa pensa che se sono veritieri i dati storici dell'in-
cendio, anche il rapporto di amicizia tra Paolo e Seneca, presupposto
nell'epistolario, corrisponda a verità,' in quanto ricavato dalla medesima
fonte: « si deve ammettere che gli argomenti a favore dell'autenticità
dei rapporti amichevoli fra Seneca e Paolo presupposti dall'epistolario
apocrifo dd IV secolo sono numerosi e degni di considerazione» (op.
dt., p. 464). Si noti innanzitutto che l'ipotesi della Sordi è valida solo
nel presupposto (che si è cercato di dimostrare fin qui errato) che l'epi-
stola sull'incendio sia stata scritta dalla stessa persona che ha composto
il resto della corrispondenza. Infatti se questa epistola è - come io credo -
un'aggiunta ad un carteggio tra Paolo e Seneca ad essa preesistente, le
fonti dei due falsi sono diverse e l'attendibilità dei dati storici dell'epi-
stola sull'incendio non può servire in alcun modo per dimostrare l'auten-
ticità dei rapporti tra Paolo e Seneca, presupposti già nd resto dell'epi-
stolario. Ma per non contrapporre ipotesi ad ipotesi, si noti che, anche
ammettendo che l'epistolario sia tutto opera della stessa persona, resta
da dimostrare che nella fonte storica a cui sono attinti i dati dell'incendio
si facesse menzione anche all'amicizia tra Paolo e Seneca. In realtà l'at-
tendibilità dei dati relativi all'incendio dimostra solo che chi scrive
questa epistola era ben informato e si era premurato di documentarsi
storicamente con precisione, con uno scrupolo del tutto estraneo al-
l'autore delle altre lettere: questo, lungi dal poter dimostrare la stori-
cità dei rapporti tra Paolo e Seneca, non fa altro che sottolineare la di-
versità dell'epistola XI rispetto alle altre e accreditare l'ipotesi che essa
sia stata aggiunta da una mano diversa.
-174-
il falsario attinge quei dati e quei particolari dell'incendio neroniano
che non sono citati altrove. Probabilmente si trattava di una cronaca
dove erano elencati anche i consoli di ciascun anno. Penserei che l'autore
di questa epistola, che mostra di avere precise cognizioni storiche, sia
la stessa persona che ha aggiunto le date. L'ipotesi che le date siano state
aggiunte da una mano più tarda è del Momigliano cd è l'unica spiega-
zione plausibile per lo strano disaccordo tra l'ordine logico delle lettere
e la loro incoerente datazione. Limitiamoci qui a ricordare che, in base
alla datazione, Seneca risponderebbe con un anno di intervallo (23-3-59)
alla lettcra di Paolo (Epist. X: 27-6-58) e che tra queste due lettere stret-
tamente legate tra di loro, si inserirebbero senza alcun filo logico la
XIlI (6-6-58) e la XIV (1-8-58; per una discussione più dettagliata
sulla complessa questione delle date e dell'ordine delle epistole, cfr.
introduz., p. 45 sgg.). Ora, poiché è improbabile che le date siano state
aggiunte dopo il IV secolo (cfr. MoMIGLIANO, art. dt., p. 330) e l'epi-
stola XI sembra risalire anch'essa, come il resto della corrispondenza,
al IV secolo, si può supporre che questa XI lettera e le date siano state
aggiunte da un'altra mano a breve distanza dal resto dell'epistolario.
- 175 -
EPISTOLA XII (XI)
- 176-
vuta alla ripetizione delle lettere TVME (op. dt., p. 44 sg.). A questo
proposito mi sembra significativa anche la lezione apt11111 aç/11111
dei codd.
X.PO: il Barlow considera ap111111 una correzione di a&/11111 inserita poi
nel testo, ma apt11111 potrebbe anche essere invece una errata lettura di
op111111e.Un'altra alternativa è offerta dai codici C e K che hanno
1111&111111,
ma la costruzione impersonale di a11gere con de e l'ablativo noq è
attestata altrove. Concludendo, mi sembra che la soluzione migliore
sia quella prospettata dal Westerburg: opt11111e aç/11111
ml de Seneçalllo.
Una costruzione simile è attestata in Scn. Dia/. 6, 20, 6: Marmm Cato-
nem si [...] mare detlorasset,[...] nonnei/li beneaç/11111
foret? Qui però c'è il
dativo della persona, mentre nel nostro testo troviamo de con l'ablativo,
che non è attestato altrove. La costruzione impersonale di agicon un av-
verbio (bene,male, optime, etc.) è attestata solo con il dativo e con ç11111
e l'ablativo (cfr. Cic. Lael. 15: mm il/o q,ddem[...] a&/11111 optime est; Sen.
Dia/. 1, 3, 12; Epist. 104, 8: etc.): si tratta probabilmente di contamina-
zione (o estensione analogica) di a&/11111 est de aliquo con beneaç/11111 est
aliNli. Possiamo dunque interpretare tutto il passo (si mihi nominimeot1ir
lanllls et a Deo Ji/eçtm omnibm modis, non Jiçofueris i1111çtm sed neçessario
mixllls, opt11111e erit de SeneçaINO):« se il nome di un cosi grande
aç/11111
uomo e prediletto da Dio in tanti modi, sarà - non dico congiunto -
ma naturalmente tutt'uno col mio, questo non potrà che essere quanto
di meglio per il tuo Seneca». È la risposta alla X epistola, in cui l'apo-
stolo si dichiarava titubante a scrivere il suo nome nel prescritto ac-
canto a quello di Seneca.
-177 -
12
b,r1 libro, / diff,ral 111nihilo,sii llllu flll114 (Jld
111nu(cfr. il nostro testo: 1111111
111111Jllllu apllli 11 loctu, (Jld111111111li111lii 111111J).Ausonio dice che come
Siagrio ha un posto nel suo cuore e vive in lui come un all,r tifi, cosi
egli farà il suo nome all'inizio del suo libro perch~ non si possa distin-
guere se sia di Siagrio oppure suo. La vicioaou dei nomi dei due amici
- in Ausonio come nel nostro testo - è sentita come un simbolo della
vicioaou spirituale: scrivere il proprio nome vicino a quello dell'amico
(come accade nel prescritto delle lettere o nella dedica delle opere) è
già una professione di amicizia. Nel passo di Ausonio c'è la stessa con-
catenazione logica di motivi, che si trova anche nel nostro testo, cioè:
la vicinanu dei nomi che richiama l'idea della coomoaou spirituale,
per cui l'amico è un alter llfJ, Si tratta di motivi convenzionali, di cui il
falsario si avvale meno abilmente del contemporaneo Ausonio, e la
cui prcsenu oel nostro epistolario è comunque significativa in quanto
conferma l'educazione retorica del nostro autore.
-178-
itlll ariett111t1Sllbt,erterit.Nello Pseudo-Rufino, fro,u optris significa
« l'inizio dell'opera»; cfr. In Os. 1, 1 PL. 21, 961 D: ordi1111t1 ni111ir11111
in front, optris t)()(abtdar,g,m, a1tat1stp14
"'11Stit111111t
[•••]• Analogamente in
Tcrtullia.no (Alli111.13, 2 CCL. 1, p. 799) jad,s op,ris significa « prima
pagina », « pagina del titolo »: /psi posh'11110 philosophi ipsitp14111,did,
(jllt»lltlisde t111i1110 disp11talllri,
(JIIOIJll4 f ade111
ta•m optrisjr011l1111tp14
111ateriae
detllli111a111111Sq11istp14
prosmpsit.
- 179 -
rato a Paolo la qualità di cittadino romano, il Flcury (op. dt., II, p. 326)
osserva che il nome di Tarso, città natale di S. Paolo, non figura nel-
l"elenco delle colonie della Cilicia che ci ha lasciato Ulpiano. Grotius
(Co111111tnl.in A,t. apost. xxn. 28. Crit. Satr. t. VII, col. 397) suppone
che il diritto di citta.dinanzadi cui godeva S. Paolo, fosse un appannaggio
particolare della sua famiglia, dovuto forse a qualche brillante azione
bellica compiuta da un antenato dell'apostolo, che potrebbe essersi
distinto per esempio ai tempi delle guerre civili tra Ottaviano e Cassio,
o tra Ottaviano e Antonio. L'Omodco (op. dt., p. 105) suppone che ca-
postipite della sua famiglia fosse qualche giudeo di Cilicia catturato du-
rante la guerra piratica da Pompeo, e poi liberato (cfr. anche W. SE-
STON, Tert11/lim et /esoriginesde la dtoyemutlromainede S. Patd, in AA.VV.,
Neoleslammti,a et Patristi,a, Lcida 1962, pp. 305-312).
[p. 73, r. 9-10) - NAM QUI MEUS TUUS APUD TE LOCUS, QUI TUUS
VBLIM ur MEUS: S. Girolamo nel noto passo del De viris illustribus,12
(cfr. introduz., p. 11 sgg.) sulla base di Gal. 4, 12 (Estole si,111ego,q,da
et egositui vos,fratres, obsetroIIOs)interpreta questo passo nel senso che
Seneca vorrebbe essere presso i suoi concittadini nella stessa conside-
razione in cui Paolo era tenuto presso i Cristiani: optare se didt eius
esse/od apud Sll()S Nliussii Patdus apud Christianos.Ma il testo, cosl come
ci è tramandato, non corrisponde all'interpretazione di Girolamo. Per
questo Erasmo ricorre ad un emendamento che si trova già proposto
almeno in una correzione interlineare del cod. Bodl. 292 (~), che dà
il senso di Girolamo: na111 qNi IIIIISest apud lllos /oçus,veli111
111111eos
sii
111eus.Ma si tratta di una evidente forzatura del testo, suggerita dal passo
di Girolamo. Il Westcrburg, che intende lo,us come «posizione» del
nome nel prescritto, espungc apud te: ne risulta una frase (na111 qNi111nu,
IIIIIS/oçus,qNiIIIIISveli111
11/111eus)che non dà neppure cosl il significato
presupposto da Girolamo. Ma qui non mi pare il caso né di espungere
apud te, né di emendare in apud IIIOs.L'espunzione sarebbe arbitraria e
l'emendamento non è necessario poiché apud te può benissimo signi-
ficare « nel tuo ambiente » cd equivalere ad apud lllos (cioè: « presso i
Cristiani », cosl come interpreta Girolamo). Poi, come osserva giusta-
mente il Trillitzsch (op.dt., I, p. 177), /oçusindica qui tanto la posizione
di Seneca e Paolo nel mondo, quanto la posizione dei loro nomi nel
prescritto. Girolamo dà rilievo ovviamente all'interpretazione di /oçus
come « prestigio », « considerazione », perché maggiormente si pre-
stava al suo scopo, che era quello di « nobilitare » le origini del Cri-
stianesimo agli occhi dei pagani, mostrando quanta stima Seneca nu-
trisse nei confronti di Paolo. Noi, però dobbiamo tener conto anche
dell'altro significato, poiché qui si giuoca proprio sul doppio significato
di lot11.t.C'è chi interpreta il passo come una esortazione di Seneca
affinché Paolo collochi il suo nome al primo posto nel prescritto, invece
-180 -
che al secondo che il filosofo vorrebbe fosse riservato a sé: contro
questa interpretazione, oltre agli argomenti già discussi (cfr. quanto è
già stato osservato a proposito di mbsetlllldo,a p. 155), basti qui notare
che Seneca si contraddirebbe subito apertamente nel prescritto della
lettera successiva (XIII), dove il suo nome è come sempre al primo
posto: SENECA PAuLO SALUTEM (per il prescritto della XIV, si veda
la discuss_ione a p. 188). Quindi è errato interpretare questo passo
come un reale invito a scambiare l'ordine dei nomi del prescritto: si
tratta di una frase convenzionale, di una formula di cortesia, con cui si
immaginache Seneca, oltre a rassicurare ulteriormente l'apostolo del-
l'opportunità di collocare il suo nome nel prescritto, ribadisca anche
tutta la sua stima nei confronti di Paolo, proprio giocando sul doppio
significato di lo,u.r.Intenderei: nelle tue lettere (apllli le) il mio lo'11f
(cioè il mio posto, che può essere solo nel prescritto) è anche il tuo:
magari il tuo lo'11f(cioè il tuo prestigio) valesse anche per mc (1111111111):
potessi considerarlo come mio. Si potrebbe anche intendere: la mia
posizione di cittadino è già secondo te (aplllite: cfr. """ snas 1, n111111
use R) anche la tua, etc.
- 181 -
EPISTOLA XIII
- 182 -
pro """ potesi lrans/6"1ser111on1.
Q111111 in ""1IIJadaling,,ahabeatdiser-
tt1111
tissi11111111
(tpdpp, H1bra111S ,x Hebrads, et mldilllS ad p,des Ga111ali1/is,,iri
in leg, dotlissi1111)
seipm111 interpr,tari t,pims, imJOltlilllt'.
Si IZll/1111
in Gr1Uta
ling,,aho, li atddit, (Jtl4111
n111ril11S
in Tarso Cilidae a partJaaela/1inbiberal,
tpddde Latinis ditmdll111, tpd 11erb11111
d, verbo1xpri111er1 tonanl1s,osbsttlrior,s
f ad11111eillSsmtmlias: vel11tiherbistrestmlibus,fr111,11111
strang,Jant11bertale111?
(sul giudizio di Girolamo intorno allo stile di S. Paolo, cfr. G.Q.A.
MlmRsHOBK, L, lalin biblifJIII
d'aprèssainlJirA1111,
Utrecht 1966, p. 18 sg.).
- 183 -
OlltflÌS ,,,;,,, lottlS to1111111111is
loNdiOIIIIIII """'" orna111mladesitkral, (Jllll4 ""'
111rbortl111 SIIIII fllll smlmlianl111.
[p. 74, r. 3-4) - ET IDEO RERUM TANTA VIS ET MUNERIS TIBI TRI-
BUTA NON ORNAMENTO VERBORUM, SED CULTO QUODAM: DECORANDA
EST: ancora una volta Paolo è criticato perché non si esprime in una
forma degna della forza della sua ispirazione: i suoi scritti sono lodati
per il contenuto, ma sono criticati per il loro stile privo di eleganza (co-
me nella VII epistola: Ve/l,111itaque,""" res eximiasproferas,111makstali
ear11111ttdhls sermonisnon desii). Il falsario sembrerebbe riferirsi qui, come
nella VII epistola, agli scritti autentici di S. Paolo e non al carteggio
fittizio (dello stesso avviso è il Ku&FESS, ari. dt., « Acvum » 26, 1952,
p. 46). Nella VII epistola, infatti, il falsario, che muove all'apostolo le
medesime critiche, fa esplicito riferimento alle epistole ai Galati cd ai
Corinzi. Inoltre, poiché in questa XIlI epistola Seneca esorta Paolo ad
« attenersi al puro stile latino » (lalinitali 111ore111
gerere),nasce il sospetto
che il falsario, che leggeva la Bibbia in una versione latina prcvulgata,
ritenesse che anche le epistole paoline fossero state redatte originaria-
mente in latino. Sta di fatto che in tutto l'epistolario, il nostro autore
ignora, o finge di ignorare, che la lingua di Paolo è il greco. Nel IV
secolo lo stile delle prime versioni latine della Bibbia, cosi lontano dai
modelli classici, era oggetto di forti critiche da parte dei letterati edu-
cati al culto della bella forma, che ostentavano un atteggiamento di suf-
ficienza nei confronti di tutta la letteratura cristiana. Le loro critiche
erano in parte condivise anche dai Cristiani colti, che in questo periodo
sentivano vivamente l'esigenza di dare ai contenuti cristiani una ade-
guata veste esteriore, cosi da competere anche sul piano formale e stili-
listico con la letteratura pagana (cfr. introduz. p. 53 sgg.). Il falsario
che auspica una educazione retorico-stilistica dei Cristiani, si fa dunque
portavoce di questo stato d'animo dei letterati colti: da un lato vuole
combattere la prevenzione dei suoi contemporanei nei confronti del
testo biblico, dall'altro, però, riconosce la necessità di un'educazione
retorico-stilistica dei Cristiani. Ed è proprio quest'ultimo aspetto che
inconsciamente prevale sullo scopo apologetico. Cioè il nostro autore,
qui, si lascia prendere la mano, e più che mettere in rilievo i pregi di
contenuto degli scritti paolini, come probabilmente era sua intenzione,
ne mette in luce i difetti stilistici (o pretesi tali). Che lo stile di S. Paolo
non fosse particolarmente apprezzato dai letterati, appare chiaro anche
da un passo di Filastrio che osserva, a proposito dell'epistola agli Ebrei,
che si dubitava della sua autenticità perché era scritta con una certa
eleganza stilistica (Di11ers.haeres.89, 3 CSEL. 38, p. 49): Et in ea tpda
rhetorite smpsit, sermoneplallSibili, inde non plllanl esse ei11Sde111 apostoli.
-184-
[p. 74, r. 4-5) - NEC VEREARE, QUOD SAEPIUS DIXISSE RETINEO:
il falsario immagina che Seneca esorti Paolo a non lasciarsi influenzare
da quei luoghi delle sue opere in cui egli ricorda di aver messo in guardia
contro l'eccessiva cura formale. Il nostro autore sembra qui essersi reso
conto di aver calcato un po' troppo la mano insistendo sulla necessità
di una maggiore cura della forma e dello stile negli scritti di Paolo, at-
tribuendo cosl a Seneca preoccupazioni di eleganza formale che non
troviamo negli scritti autentici del filosofo; perciò va considerato come
interpolato il te di alcuni codici (dixisse te C D J te dixisse H L• ). µ. ~)
con cui si alluderebbe a un timore espresso da Paolo che la cura formale
sia a danno del contenuto. Il nostro autore, che conosce le opere di
Seneca, sa che egli esorta più volte a non dare importanza alla forma e
a badare invece al contenuto: Q11aere quidsmbas, nonq,taemodmodllm (Epist.
115, 1); Non tkle,tent verba nostra, sed prosint (Epist. 75, 5; cfr. anche
Epist. 52, 9-15; 100; 114; etc). Il falsario cerca di minimizzare quindi la
contraddizione esistente tra ciò che egli fa dire a Seneca ripetutamente
in questa corrispondenza e le affermazioni che si trovano negli scritti
autentici del filosofo, in merito al ,11/trasermonis.Infatti Seneca, al con-
trario del nostro autore che raccomanda il bello stile, mette spesso in
guardia dai possibili eccessi in cui può cadere chi dà troppa importanza
alla fonna; cfr. Epist. 114, 1O:pro t11lt11 habetllf'atldax translatioaç freql#IIS;
Epist. 114, 17: si, Sai/ratio vigenteanp11tatae sententiaeet verbaante expe,-
lalllm ,atkntia et obstllf'abrevitasjllef'epro ç,d/11.Ma, del resto, il nostro
autore non ha poi tutti i torti quando invita a non prendere alla lettera
e a ridimensionare le affermazioni di Seneca riguardo all'opportunità
di dare poca importanza alla forma. Infatti, benché il filosofo enunci
una teorica opposizione ad ogni ricerca di effetti oratori, nella prassi
usa spesso artifici retorici per dare rilievo ai suoi pensieri. Inoltre qui,
a mio avviso, è in giuoco anche la confusione tra i due Seneca: il nostro
autore infatti, come i suoi contemporanei, non fa distinzione tra Seneca
figlio e Seneca padre e attribuisce al filosofo anche gli scritti retorici del
,0"11mpere,e il raffronto con un
padre (cfr. oltre: qui talia adft,tent seflSIIS
passo delle Controversiaedi Seneca padre).
-185 -
[p. 74, r. 5-6) - QUI TALIA ADPBCTBNT SENSUS COR.R.UMPERB: chi SÌ
preoccupa troppo della forma finisce per guastare il contenuto. Pos-
siamo confrontare la iunctura smstlS '°"""'p,r,con s111t111tias
torr11111p,r1
di un passo di Seneca padre (Contr. ,x,. 9, 5): Habtt ho, MontllllllSr,iti11111:
smt111tiasSllas rep,tmdo '°"""'Pii, dM111noneontml#s1111a111r,111s,111,Ibnu
dker,, ,j/idt ne benedixerit. Qui probabilmente l'anonimo riecheggia Se-
neca padre confondendolo col filosofo.
Il concetto che l'affettazione, il troppo zelo può far degenerare l'ora-
zione è un -r6noc;che ricorre spesso, tra gli altri, in Quintiliano (IMI.
8, 3, 56: x«X6t;YJÀov,id 111malaadft,tatio: e&. anche ibid. 8, 3, 58; etc.).
- 186 -
barici ») e ne sarebbero state censurate, per un qualche scrupolo dogma-
tico, alcune parti di contenuto dottrinale. Della lingua originaria, però,
sarebbero rimaste traccie nella nostra corrispondenza in alcuni vocaboli
come sopbia(Epist. XIV) e aporia(Episl. X). Ma sophiaè un vocabolo
piuttosto comune cd aporiaè un tecnicismo usato normalmente dai re-
tori latini (cfr. sopra, p. 158). Come si vede, gli argomenti addotti dal
Pascal sono del tutto inconsistenti. Infatti la presenza di qualche voca-
bolo di origine greca non dimostra affiitto che la nostra corrispondenza
è stata tradotta dal greco, poiché la lingua degli scrittori della tarda la-
tinità, anche per influsso del latino biblico, è assai ricca di grecismi
(cfr. BLAISB 1, passim; MoHRMANN,I, p. 41 e passim).
- 187 -
EPISTOLA XIV (Xll?)
-188-
è illuminato da Dio (ea Sllllt rnelata fJllal palld1 divinita1çonçe1.rit)
mentre
è immerso nelle sue riflessioni filosofiche (p,rpmdenli libi). Secondo il
nostro autore dunque sarebbero proprio le meditazioni filosofiche a
mettere Seneca in condizione di essere illnroioat.o da Dio intorno a
quelle verità che a pochi è dato conoscere; qui sembra implicitamente
riconosciuto il valore propedeutico della filosofia nei confronti della
fede. Il nostro autore considera infatti la filosofia come il gradino di un
iter che avrebbe portato Seneca alla fede. In questo presunto itinerario
mistico di Seneca, S. Paolo svolgerebbe un'importante funzione, quella
di stimolare la coscienza religiosa del filosofo. Tale funzione, o per
meglio dire, missione sarebbe facilitata dal fatto che Seneca è un campo
estremamente recettivo per questo tipo di stimoli: in agro iam fertili
11111111jorli1.rim11111
llrO.
- 189 -
fona e della potenza di Dio è connessa con quella della eternità e della
immortalità; cfr. Lact. lnst. 2, 8, 28: homo[.•.] per morta/itatemimbed//m
est [•••] dem [.••] per aeternitate111fortis est. La metafora della semina-
gione ricorre spesso nel Nuovo Testamento; cfr. u. 8, 12: Semm est
t1erbtmlDei; cfr. inoltre Matth. 13, 3 sgg.; 13, 31 sgg.; Mar,. 4,
3 sgg.; u. 8, 5 sgg. (sul -r61rot; della seminagione nel N.T.,
cfr. BLAISE, pp. 305 e 498; A. FLEURY, op. dt., I, p. 25 sgg.). L'imma-
1
-190-
,oopm111mhl111(mpL~6>.atLOv),
(bt(~À"lfLGt),
111,nhllll(~3auyµ.ci), as111111mhl111
dnota111mhl111(~11ar.), etc. (cfr. MoHRMANN,I, p. 239; cfr. anche
RONSCH, Itala 1111d Vtdg., p. 22 sgg.). È interessante qui osservare che
il vocabolo deri11atio (cbt6ppoLat)- che ha lo stesso significato di deri11a-
- nel latino cristiano è usato generalmente in contesti in cui si
111t11hl111
allude ad una concezione eretica della Trinità; cfr. Tcrt. Adii. Prax.
9, 2 CCL. 2, p. 1168: Pater mim tota substantiaest, Filim 11ero deri11atio
totim ,t portio; Hilar. Tri11.2, 22 PL. 10, 65 A: IIOII ex deri11atio111 j/11X11111
tkt/,/çhllll,sed ex 011111ib11.t
et i11om11ib11.t
11at11mab eo; cfr. ibid. 5, 37, 155 A:
Non mim per desettione111 aut protensionemaut deri11atione111 ex Deo De11.t
est, sed ex 11irt11t1 11aturaein 11aturameamdem 11ati11itat, mbsistit; cfr.
inoltre ibid. 6, 35, 185 C; 7, 28, 224 B; etc. Il nostro autore dunque
riecheggia qui I Petr. 1, 23: renali nonex seminetON"IIJ>tibili, sedinçorrup-
tibili per 11erb11m Dei 11iviet permanentisin aetmz11m, ma aggiunge al passo
biblico, l'idea per cui il Verbo deriverebbe dal Padre per un processo
di « emanazione ». Non ci è dato sapere a quale fonte il falsario attinga
questa concezione. Il termine cbt6ppoLat si ritrova in ambito giudaico,
cristiano, gnostico e pagano (soprattutto stoico); cfr. ad es. Plot. Enn.
2, 1, 7; Oem. Prot. 68, 2; Plut. ls et Osir. 59, 375 b; etc. Lo Spanneut
(op. dt., pp. 302 e 305) rileva che la matrice della nozione di deri,,atio
(cbt6ppoLar.) è essenzialmente stoica. Per quanto concerne il nostro testo,
si potrebbe pensare ad un riflesso della filosofia neoplatonica, molto dif-
fusa nel IV secolo, soprattutto in ambito greco (cfr. J. DANIELOU,
Plato11isme et Théologiemystique,Parigi 1953). La frase Dei [...] trestentis
et manentisin aetmz11mcontiene echi di passi biblici; per manmtis,oltre
al già citato I Petr. 1, 23, che il falsario aveva certamente presente, si
può citare anche I Petr. 1, 25: Verb11ma11temDomini manetin aetmz11m;
I /oh. 2, 14: 11erbum Dei manetin 11obis. Per rres,entis,cfr. A,t. 19, 20: lta
fortiter trestebat11erbum Dei; ibid. 6, 7: et 11erbum Domini trestebat;12, 24;
V erb11mautem Domini trestebat.
-191-
(1thnkor11111 lsrah1/itan1111qt11 obsm,alion,s ,ms,,., 11itandas).Penserei piut-
tosto che (JIIOd si riferisca a 11,rb11111Dii della frase precedente ed inter-
preterei: « la parola di Dio che la tua saggezza è arrivata a compren-
dere - ad.r1N1la [1st]- dovrà essere un punto fermo ». Diversamente dal
Barlow, farei terminare la frase dopo d,b,bil (come nel cod. v) e consi-
dererei 1thnkor11111 [...] tlitandascome faciente parte della frase seguente
(cosl il Fleury). A questo proposito è interessante osservare che >..
ha no1111111q111
11,com'è attestato in 3. Accetterei senz'altro questa lezione
che permette di unire le due frasi mediante la coordinazione: Ethni-
çor11111 /srah1/itar11mqt11 obsm1alion1s,ms,r1 tlitandasno1111111qt1111 a11&lor1111
ft,eris Chrisli /1st1,etc. (cosl anche nel volgarizzamento trecentesco del
cod. Ricc. 1304: « Appresso voglio che tu fugga le cerimonie de' Pa-
gani et de' Giudei, et che tu ti facci discepolo cli Iesù Cristo ». Cms,r,,
com'è attestato in tutti i codd., costituisce però una difficoltà: il con-
testo richiede infatti un imperativo (le edizioni di Sisto Senese e Fa-
bricio hanno çens1to).Secondo il Fleury (op. di., II, p. 336), ,ms,r1 sa-
rebbe un infinito con valore iussivo (l'infinito con valore iussivo è at-
testato da vari esempi della tarda latinità; cfr. ad es. Rom. 15, 9: gmt1s
a/111111s,p,r miseri,ordiahonorar1D111111; cfr. BLAisE1, p. 185; RoNCONI,
Il ,,,,.bolat., p. 224; LEUMANN-HoFMANN-SZANTYR, p. 366), ma questa
ipotesi non è accettabile per la coordinazione: ,m.r,,.,
[...] IIOtllllllqtll
ft,eris [...] insin1111bis. Si potrebbe emendare cms,re con ,ms1bis, futuro
con valore iussivo come insin1111bis (sul futuro iussivo si veda oltre quanto
è detto a proposito dift,eris [...] insin1111bis) ma qui forse non è neppure
il caso di emendare, poiché probabilmente cms,o è usato in forma me-
diale. Per questo uso di ,mseor cfr. ad es. Ov. Poni. 1, 2, 137-138: ha1lt
probat et primo Jil,çta111 s1111p,r
ab alllO est int,r ço111it1s
Marda ,msa [dcp.]
StlaJ.
-192-
pr,,d,nliallla. Come risulta da questi esempi pr,,d,nlia11111
è un'espressione
che ricorre spesso nel linguaggio epistolare del IV secolo.
- 19.3 -
u
1304 interpreta cosi il passo: « Appresso voglio che tu fugga le ceri-
monie de' Pagani et de' Giudei ... ». Per obsen1atio in questa accezione,
cfr. Cod. Theod.12, 1, 112: ne /amena te111plor11111çuJ/11observatione
Christia-
nitatis abs,esserit:cfr. anche Licin. ap. Lact. Mori. 48, 3 CSEL. 27, p. 229:
IJlli11e/obsen1ationiChristianorum11e/ei religionimentems1111111
dederat(JIIIIIII
ipse sibi aptissimamessesentirei; cfr. inoltre Apul. Sotr. 14: Unde etiam
re/igion11111
di11ersis
observationib111
et sa&ror11111
11ariis
s11ppliàisftdes impertienda
est. Il falsario immagina dunque che Paolo esorti Seneca a non parteci-
pare né ai riti pagani, né a quelli giudaici. I culti orientali (e tra questi
anche quello giudaico) erano molto diffusi a Roma in età imperiale;
la stessa imperatrice Poppea, come abbiamo visto, era simp1.1tizzaote
del Giudaismo (cfr. Epist. V).
-194 -
19, 3: Diverso 111'/emremedio11/elllf'sapiensadje,talorquesapientiae.Non è
questo un uso colloquiale ma piuttosto tecnico, di cui si serve il latino
per esporre retoricamente delle norme; nella Rhet. ad Her. si trovano
futuri con valore imperativo alla 3a persona, come ad es. in 2, 3: De-
fensor ll#lem negabitfuisse &a111a111,
si poteri/, 111'1eam vehemenlerexten1111bit.
- 195 -
quindi attribuiva al filosofo anche gli scritti retorici del padre (cfr.
sopra, p. 101 sg.).
-196-
Nerone è detto rex temporalisin opposizione al rex rael,stis,a,fm,u.r,
che è Dio: cfr. ad es. Comm. Instr. 2, 1, 32 CSEL. 15, p. 60: transiit
ad ll()J/ra,11mi1111trllfll r,g, rae/este;cfr. I Tim. 1, 17: Regi alllemsaerldor11m
i111mortali, iflllisibili,soli Deo honor,t gloria in .raertdasaerldor11m; Faust.
Rei. S,rm. 4 P L. 58, 876 D: ad dext,ramregisaetm,i. Si osservi che spesso
nella Vtdgata rex è appellativo di Dio, cosi pure in tutta la letteratura
ecclesiastica (e non solo in quella cristiana: infatti rex come appellativo
della divinità si trova già nel linguaggio elevato e poetico della tradi-
zione classica: è già in Accio, Virgilio, Plauto, Ovidio, etc.). L'uso di
questo appellativo (rex t,mporalis)mi pare significativo, poiché implica
una spartizione dei poteri divini e terreni e giustifica cosi il potere tem-
porale dell'imperatore (subordinandolo implicitamente a quello del
r,x aeternu.r).Tutta l'epistola presuppone cioè un atteggiamento leali-
stico dei Cristiani nei confronti dell'imperatore: si presuppone cioè
che il Cristianesimo e l'Impero siano in armonia. Ben diversa la situa-
zione prefigurata nell' Epist. XI (XIV?) a mio avviso interpolata, in cui
Nerone è il feroce persecutore dei Cristiani e viene assimilato all'Anti-
cristo I
-197 -
ratorc e la sua corte. Come osserva il Boissier (art. dt. « Rev. des dem:
mond. », 92, 1871, p. 42) mentre alle origini il Cristianesimo si era fatto
un vanto di disprezzare i sapienti e di rivolgersi alla gente semplice,
nei secoli successivi si fa viva negli ambienti cristiani colti l'esigenza
di • nobilitarne • le origini collocando tra i primi adepti del Cristiane-
simo illustri personaggi del mondo classico.
- 198 -
sta accezione è attestato spesso nel latino cristiano, dove però ha di
solito significato dispregiativo: accompagnato da aggettivi come sa-
mlega, 111orlif1ra,designa o un'eresia o una religione fanatica (Cypr.
Epist. 65, 1: samlegap,rstl4Sionedeteptus;[Ps. Aug.] S1r111. 176. 2 PL. 39,
2081 : Qtli mim 1111ius
nat11raeSalvatoremnoslrllm111orlif1ra p,rstl4Sionen-edi-
derit). Non ho trovato invece esempi di p,rslllZSiocon specifico riferi-
mento alla religione cristiana, come nel nostro testo. Qui la p,rstl4Sio
è definita asp,ra et imapabilis. Asp,ra significa « difficile da capire e da
accettare per la sua austerità, per la sua rigidezza », cioè « ostica »,
come in Eçç/i. 6, 21 : Q11t1m asp,ra est nimium sapientiaindo,tis. In,apabilis
significa « incomprensibile », « difficile da accettare », con un significato
molto simile ad asp,ra. La parola non è usata prima del Il secolo; cfr.
Filastr. Divtrs. hatres. 155, 8 CSEL. 38, p. 132: Nam (JNQd inuisibiliset
in,apabilissii divinaq11t1litatis
naturaeSllbstantiain legeet prophelisostendit11r.
La parola è attestata in Ireneo, nello Pseudo Leone Magno, in Massi-
mino, nello Pseudo Agostino, negli A,ta Conciliorumoetummi,orum,
etc. Il falsario immagina che S. Paolo preveda sconsolatamente il falli-
mento dell'arduo compito di apostolato affidato a Seneca.
- 199 -
tJllllllllihifJIIÌdda111fj1ltUÌ 1111i11111/a,
insti/lanmt), in Orazio (Epist. 1, 8, 16:
pra,t1plll111 flllriç11lisho, instillar, 1111111mto),cd anche in Seneca: cfr. Dia/.
9, 3, 3: fjllÌ in /1111/a bonor11m pra,t1ptor11m inopiatJirlllteminstillai flllÌmis,·
Bmef. 6, 16, 6: praeleril/a, tJIIIIIa praedpimtib111 in t0111m11111 alitpla
diG1111111r,
instillatJitaç tradidit,hortandobonamindolemerexit. Ma il maggior numero
di esempi di instillo,usato, come nel nostro testo, in senso traslato, ap-
partengono alla tarda latinità, cfr. Leo M. Epist. 99, 3 PL. 54, 967 B:
IJIIOd diabol111 h11mana, sal11tiset 11,rltatisinimi,111instilla/ (ma altri legge
stillat); Hicr. Episl. 73, 5, 2: tJIIIIIdiditi, ftdis allf'Ìb111 instillanda11111I;
instillarenon è attestato nella Vtdgata, ma si trova una volta nell'Itala:
II Maçç, 8, 27 ree. P (cfr. Thes. VII, I, 1982): initi11mmiserationisinstil-
lante deoillis de ça,lo( V tdg.: Domin11111, fjllÌ liberat1iteosin islo di, miseri-
eordiaeinili11111 stillans in eos),· cfr. in particolare Ps. Athan. Ad mon.
PL. 18, 71 B: Et fJUfll ista tradens, non de 11tdgi fai, lolJIIOr,
pro111is'1lll
IJIIOd omnipotmsDei /1111/llm insin11ata çonftssio,et inno,mtiaesing11/aris instil-
lata do,trina,11,niasola,jfidt esset011lenl11m; si noti che nel passo di questo
anonimo dd IV secolo compaiono, come nd nostro testo, a breve di-
stanza l'uno dall'altro i vocaboli instilloe insin110).
- 200 -
(cfr. BARLOw, op. dt., p. 48), anche se l'aggettivo proper1J11t1m
fa una dif-
ficoltà, peraltro superabile ammettendo che l'aggettivo sia concordato
con homi111m. La lezione di À (perp,hlam(Jlllanimam) è probabilmente
frutto di una contaminazione, come rileva il Franccschini (art. dt.
p. 162). Animai, nel senso di essere vivente, essere animato, è già nel
linguaggio filosofico classico: a proposito dcll,uomo è attestato in Se-
neca (cfr. A. Pn 1B-r, Vot philos. d, Sln~(Jlll,s.v. 1J11imal).
Nel latino cri-
stiano il vocabolo in questa accezione è proprio del linguaggio teologico
(Tertulliano, Agostino, etc.). È interessante osservare che il vocabolo
è attestato anche in Rufino, contemporaneo del nostro autore, che,
traducendo un passo di Ori gene, usa animai a proposito del V crbo
(Origcn. mpt «px.<7>v 1, 2, 3 PG. 11, 132): Und, et r,ç/1 mibi di&IIISllidetlll'
sermoili, (Jlliin A,tibm P1111li
smptm est, (Jllia:« hi, est 111rb11m
animailli-
llllU » (qui Origcne allude ad una versione degli A,ta P1111li, oggi per-
duta, in cui era trattato il problema del À6yo~).
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- 210-
INDICI
t. INDICE DEGU AUTORI
- 213 -
HOMO L., 80 Ottone di Frisinga, 20
HoPPB H., 111
HoVEN R., 162 PASCAL C., 11, 12, 14, 17, 170, 186, 187
PASCUCCI G., 86
JAMBS
M. R., 135, 144 PASQUALI G., 63
]ANNACCONB S.,14 PASTORE-STOCCHI M •• 102
JoNBSA. H. M., 54 PBTER H., 51
JoaoAN H., 80, 173 Petrarca 23, 24
PIGANIOL A., 11
Kos!CENNIBMI
K., 83, 95, 109 Pietro Cluniaccnsc, 21, 136
KRAUS F. x .. 12, 61, 62, 64, 77, 90, Pietro Comcstorc, 20
116, 126, 130, 143, 156, 157, 168, 176 PIGHI G. B., 116
KRBYERJ., 32, 117, 126, 135, 148 POHLENZ M .• 33, 128, 134, 141
KuRPBSs A., 40, 41, 42, 63, 77, 82, 84,
88, 89, 90, 135, 138, 139, 140, 148, QUACQUARBLLI A., 195
169, 183, 184, 193 QUASTBN J.,
19
0MODEO A., 116, 161, 180 VouAux L., 11, 14, 19, 109, 112, 117,
Onorio d' Autun, 20 118, 120, 125, 128, 135, 148, 197
OTTo A., 161, 165 Vivcs, 15, 24
- 214 -
Vinc:cn~ di Bcauvasis, 20 40, 43, 62, 113, 117, 126, 128, 129,
Valla, L., 24 1~1~1~1•1~1~1~1n
V ACHSMUTH C., 61, 62 176, 1n, 1ao, 188
WIICENHAVSER A., 114
WASZINX J. H., 8
WERNER P., 165 ZAHN T., 15, 152
WESTEIUIURG E., 17, 19, 37, 38, 39, ZIEMANN F., 93
- 215-
2. INDICE DELLE PAROLE E DELLE COSE NOTEVOLI
- 217
del mittente e del destinatario, 45, 52, gerundio in luogo dell'infuiito, 178
93 sg., 155 sg., 176, 178 sg., 180 sgg., grassa/Or,168
188; loti n,11111111111s: gioia che pro- gra,is, 156
cura la lettera della penona cara, 94; grniltr, 145
dil,ttio (fllllor, ipv.!ot),146; dolore per bab,o: uso pregnante di balM a/iq,ddcon
la lontananza, 113 sg.; -ro,roç della Me l'ablativo, 78; Mlissi- bal,,o, 151
pra,smlia (na:pooo!at),e in particolare: hanttu/o, 119 sg.
a) nostalgia e desiderio della pre- bolflo nulitRl111,v.s.v. nulindlu
senza dell'amico lontano (Tt'O&oç -d#si- bonor,126 sg.
dwi11111), 82 sg., 107; b) la lettera dà borli Sa/butiani, 52, 77, 80 sg.
l'illusione che l'amico sia presente(~ b11111i/itas hlllllflllll, 166
na:p&>v - IJIIIZIÌtora111),83, 109 sg.; ras-
sicurare il destinatario che non è vit- /11111, 194
tima né di negligenza né di oblio, ignis, V.S,V. trllllD
96, 108; rammarico per la mancanza Ìlltapabi/is, 199
o la negligenza del talH/larw, 94 sg.; incendio di Roma del 64: data, 174;
dirsi lusingati per le lodi ricevute, dati relativi al numero delle abita-
97 sg. zioni distrutte, che non sono atte-
escatologia scnccana, 162 stati altrove, 172 sgg.; Nerone incen-
espressioni proverbiali: q,ddtpdd /ib,dt diario, v .s.v. Nerone; Ebrei e Cri-
/itllÌI, 165; Rlallllll' foro, 161 stiani perseguitati quasi 111athÌlllljor,1
Et/miti, 193 iMmdii, 43, 167, 169; trcqucnza degli
niro, 186 incendi a Roma, 165 sg.
1xtelnu, 129 inn,ngr,mu, 156
1x1111p/11111 Valimi, 138-140, 142, 144 ufi,ims, 193
1xordi11111 ,irhllis, 131 sgg. infuiito con valore iussivo, 192
innomu, 137
ati1s: f ad,s op,ris, 179; pri•a fam ,pi- innotmlÌIJHslra, 160 sg.
i slo'4rlllll, 178 in pra,lmhllll, 151
fati/,, 151 mr,pr,hmsibilis, 196
fatio (e adfitio), costrutti perifrastici: ,,_ mrogo, v.s.v. Hf1Ìa111
111ohllll fatiRIII = [r,,,,o,mt], 113 sg.; insi111111lio (e insiflllD), 198
adf1tli fari [ = adftd] so/ml, 168 instillo, 199 sg.
/1/ititas, 161 sgg. innda, 172 sg.
finis, 161 sg. ÌMÌtllll, 110 sgg., 127
jlttlo, 199 ;,,,itl,u, 162
ForlflRia ,ila, IHnusta,,152 /sralH/ila, 193
formule di saluto, v.s.v. epistolografia Itala, raffronti lingui~tici, 42, 82, 88,
forlis, 189 sg. 110, 114, 138, 147, 200
fraltr, 90 sg. llllla,111,193
frons: frons ,pistola,, 178; fro111optris,
179, pri111afront,, 178 lalinilas: lalinitali ,,,,,,.,,,,u,ur,, 184, 186
futuro iussivo, 192, 194 sg. sg.
ltgili1111 ilflbllhu, 136 •
Galata,, 125 /,x &111tlfl4:consuetudine secondo la
Gallione, presunto intermediaro tra quale, scrivendo ad un senatore, ai
Paolo e Seneca, 29 dovrebbe collocare il proprio nome
glfNrosilas, 89 sg. in calce, anziché nel prescritto, 157
gmm,nu, 187 (vedi anche s.v. prescritto)
genitivo del pronome penonale in luogo lottu, 180 sg.
del possessivo: ottasÙJM tRJsJri, 81 ; Uld/io (amico di Seneca), 77, 119
IIIÌ pra1smlÌIJ111, 82; pra,smlÌIIIII hd, lflatbwtor, 167
109; hd ta111a,149 111agisllr,103, 158
218 -
111aurlal,89, 130 ag. Pacudo-Dcxtcr, 25, 114
111altria,189 Pseudo-Lino, 18 agg., 25, 197
111mdad11111, 169 ag.
111orali1, 86 sg. 1J1111lita1,
96 sg.
111orlali1, 86 ag. q,,od,congiunzione dichiarativa ( gr. IS·n
llllllUU, 183 sg., 187 e ~i;), 77
219 -
INDICE
!NTRODUZIONE
Avvertenza » 61
Consp,çtm siglor11m » 66
Testo » 67
CoMMENTO
Epistola I. » 77
Epistola II » 93
Epistola ID » 105
- 221-
Epistola IV p. 109
Epistola V » 113
Epistola VI » 119
Epistola VII » 125
Epistola VIII. » 143
Epistola IX . » 149
Epistola X » 155
Epistola XI (XIV?) . » 160
Epistola XII (XI) » 176
Epistola XIII. » 182
Epistola XIV (XII?) » 188
BmuoGRAFIA . » 203
INDICI
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