Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Per questo nel passaggio evolutivo tra rettili e mammiferi il sistema nervoso autonomo
si è dovuto modificare per aumentare le possibilità di sopravvivere in condizioni di
pericolo: il sistema di difesa è infatti caratterizzato da due branche fondamentali del
sistema nervoso autonomo, l’una in grado di promuovere reazioni di attacco, fuga,
congelamento (sistema simpatico) e l’altra in grado di innescare la reazione di morte
apparente (sistema parasimpatico dorso-vagale).
L’iper-reattività è davvero l’unico modo di cui disponiamo per difenderci? Nello studio
di come il nostro sistema nervoso reagisce è importante considerare prima di tutto che
il modo in cui rispondiamo alle sfide ambientali ci viene dalla nostra evoluzione come
specie e questa cornice è la prima differenza tra “dualismo antagonista” e Teoria
Polivagale.
La cornice filogenetica permette di considerare le risposte del sistema nervoso come
un’organizzazione per livelli gerarchici seguendo il concetto di dissoluzione che Jackson
(1958) ha utilizzato per le malattie del sistema nervoso derivanti da danno cerebrale.
Secondo questo principio i circuiti più evoluti del sistema nervoso inibiscono quelli più
primitivi e solo quando i circuiti più nuovi falliscono, allora intervengono i più antichi.
Il sistema nervoso autonomo dell’uomo lavora nello stesso modo: utilizza dapprima le
risposte adattive che vengono dai gradini più recenti della nostra evoluzione, ma
quando queste non servono più a metterci al sicuro, utilizza via via le risposte più
primitive, seguendo a ritroso la storia evolutiva della nostra specie. Perciò quello che
diventa davvero importante nella Teoria Polivagale è la nozione stessa di “nuovo
circuito” in senso filogenetico, perché riguarda proprio il modello di funzionamento e
la struttura stessa del sistema vagale.
Dunque la Teoria Polivagale pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché
uno unico, sull’importanza della relazione gerarchica tra loro e sull’importanza di
considerare tutte le risposte difensive come adattive di fronte alle sfide ambientali:
esiste dunque una reazione simpato-adrenergica, responsabile delle nostre risposte di
mobilizzazione (attacco/fuga), ma c’è anche una rezione dorsovagale che quando è
attiva in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi,
consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare
pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria.
Quello che la Teoria Polivagale vuole sottolineare in sintesi è che quando il nostro
sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, come può
accadere in situazioni traumatiche o di stress prolungato, queste stesse possono
diventare potenzialmente dannose per la nostra salute fisica e mentale poiché viene a
mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso
autonomo.
Il nervo vago è costituito da una famiglia di nervi (da qui il nome di teoria polivagale): il
ramo dorsovagale e il ramo ventrovagale, a sua volta suddiviso in due componenti, una
componente viscero motoria, che regola le viscere al di sopra del diaframma (cuore e
respiro), e una componente somatomotoria, che regola i muscoli del collo, della faccia
e della testa (il sorriso, il contatto oculare, la vocalizzazione, l’ascolto), in altre parole
tutto ciò che è implicato nell’interazione sociale verso cui noi mammiferi siamo
orientati in condizioni di sicurezza.
Il primo circuito che compare (il più arcaico filogeneticamente) è quello denominato
dorsovagale, osservabile nei rettili e nei mammiferi superiori; è collegato con la
regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto
del diaframma. Si attiva in condizioni di pericolo estremo, creando uno stato di
rallentamento che arriva fino all’immobilizzazione (la difesa dei rettili), e determina,
quindi, uno stato di immobilità che non nasce da una condizione di sicurezza, bensì da
estrema paura. Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione con
paura è collegata all’ottundimento mentale e alla perdita del senso di controllo e le
emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura. Quando
il circuito dorsovagale è attivo riscontriamo, nella persona, uno stato di prostrazione:
muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo
all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco
e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle
risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato
dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.
Uno stadio filogenetico successivo ha portato allo sviluppo del sistema simpatico, che
regola la capacità metabolica e il battito cardiaco, ossia tutte quelle reazioni che, a
livello fisiologico, sono collegate al meccanismo di attacco-fuga, la reazione di difesa
elettiva del mammifero di fronte al pericolo; il sistema simpatico, quando si attiva,
inibisce il tratto gastrointestinale, che è molto dispendioso in termini energetici (se
devo difendermi da un pericolo la digestione passa in secondo piano…). L’attivazione
del sistema simpatico è osservabile attraverso uno stato di mobilizzazione: aumentano
le tensione muscolare, l’ossigenazione, la vasocostrizione e la frequenza del battito
cardiaco; l’energia fluisce verso l’avanti e verso l’alto, la mandibola si serra. In questo
caso, le emozioni sottostanti sono la paura e la rabbia.
Possiamo individuare un altro stato ibrido denominato stato di freezing, che si colloca
su una linea di confine quando, in presenza di una minaccia costante, la reazione
simpatica sta lasciando il posto ad una reazione dorsovagale; è un blocco vigile,
caratterizzato da completa cessazione del movimento ad eccezione della respirazione
e dei movimenti oculari, frequenza cardiaca sostenuta, muscoli rigidi e tesi, acutezza
sensoriale. Si tratta di uno stato di congelamento vigile, in cui si prova forte paura e si
comincia a dissociarsi dalle sensazioni corporee, per ridurre la sofferenza emotiva.
Il passaggio opposto, quello da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema
simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione), o da uno stato dorsovagale ad
uno ventrovagale, presuppongono una risalita più difficile da attuarsi: il sistema
nervoso autonomo è configurato per scendere facilmente, non altrettanto facilmente
per risalire verso una condizione di autoregolazione correlata ad uno stato di sicurezza.
Di conseguenza, accade che il sistema nervoso di una persona che ha subito un trauma
sia intrappolato nello stato di allerta dorsovagale o simpatico, come se il pericolo fosse
sempre in atto, perdendo la propria flessibilità.
Un primo cluster patologico si può osservare quando c’è un’attenuazione del sistema
di coinvolgimento sociale e, dunque, una riduzione dell’attività vagale ventrale, che si
manifesta con un’espressione del volto piatta, in particolare nella parte superiore dei
muscoli orbicolari, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni.
Il secondo cluster è caratterizzato invece da elevata reattività e mobilitazione
direttamente correlate all’attività del sistema simpatico: qui si osservano una
regolazione atipica dello stato emotivo con rapidi shift tra calma e reattività e uno
stato di ipervigilanza tipico dei disturbi d’ansia e dei comportamenti impulsivi.
Il terzo cluster è caratterizzato dall’alternanza tra sistema simpatico e dorsovagale e si
manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si manifesta con
episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie,
problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione.
L’ultimo cluster è quello della dissociazione vera e propria che si manifesta con il
collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema
dorsovagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di
pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di
abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia
potenzialmente letale.
Teoria Polivagale ed esperienze traumtiche
La Teoria Polivagale cerca di rispondere alle seguenti domande:
Nei processi comunicativi tra esseri umani non sono le parole e i contenuti verbali,
bensì le caratteristiche melodiche, la prosodia, l’intonazione, i contenuti emotivi che
agiscono sul nervo vago mielinizzato, il quale controlla anche l’attivazione del sistema
di difesa.
La Teoria Polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema
di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia
terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è
probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo
dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.
Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con
attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle
strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri
sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento.
Infatti mentre l’attivazione del sistema simpatico è intensa, ma ben tollerata dal nostro
organismo, quella del sistema dorso-vagale è intollerabile e paragonabile ad un vera
esperienza di morte. Per questo motivo in situazioni di grave traumatizzazione, come
aggressioni, tortura, abusi fisici o catastrofi, questa reazione dell’organismo può
spaventare e imprimere quel ricordo nella nostra memoria.
L’importanza del lavoro
di Porges nel lavoro terapeutico è data soprattutto dalla possibilità che ci dà di
osservare l’attivazione o la dis-attivazione di questi sistemi fisiologici e innati nella
relazione terapeutica.
Il primo punto centrale dell’applicazione della Teoria Polivagale alla pratica clinica è il
concetto di regolazione fisiologica, che come clinici siamo abituati a chiamare
“regolazione o disregolazione emotiva”. L’osservazione clinica in psicoterapia permette
di notare cambiamenti repentini nell’espressione delle emozioni, ad esempio il
passaggio da un’espressione neutra ad una arrabbiata, e di osservare in vivo i
comportamenti di autoregolazione che vengono messi in atto per ritornare ad una
condizione di equilibrio.
Un aspetto su cui può essere utile focalizzarsi come terapeuti è l’intonazione della voce
nel dialogo clinico, poiché sappiamo dalla neurofisiologia che la nostra attenzione
come esseri umani è più focalizzata sulla prosodia che sulle parole utilizzate.
All’interno di un dialogo riusciamo a cogliere intuitivamente che le frequenze più alte
sono associate alla presenza di ansia e paura e che la presenza di toni bassi e volume
alto sono associati solitamente a rabbia e aggressività. Anche i pazienti dunque sono
portati a giudicare costantemente lo stato emotivo del terapeuta ascoltando
innanzitutto l’intonazione della sua voce, come espressione della sua regolazione
interna (neurocezione).
Potrebbe essere utile sapere che quello che davvero guida l’interazione è questo
rapporto diadico tra la propria neurocezione e quella dell’altro, in un costante rimando
di feedback che regolano l’affettività e promuovono sensazioni di sicurezza e fiducia.
Da questo deriva un terzo aspetto importante legato al ruolo possibile del terapeuta
come co-regolatore della stato emotivo e mentale del paziente; quando questo
scambio avviene in modo positivo e adattivo, la co-regolazione degli stati emotivi
favorisce l’emergere di nuove e incredibili capacità prima inesplorate. Porges sostiene
che gran parte del processo terapeutico abbia molto a che fare con questo.
Quando un paziente viene da noi terapeuti, che lavoriamo con la relazione, dovremmo
sempre domandarci come possiamo strutturare questa relazione terapeutica in modo
da offrire un contesto sicuro; in linea di massima, noi facciamo questo dando la nostra
disponibilità, con la coerenza del setting che offre contenimento, mettendo a
disposizione la nostra conoscenza e le nostre tecniche. Questo discorso diventa ancora
più importante quando si lavora con i bambini, intervenendo sulle relazioni
d’attaccamento, che rappresentano il luogo in cui si costruisce la sicurezza e quando ci
si confronta con le tematiche dell’adozione e dell’affido, che non sono altro che una
nuova opportunità, che viene data all’essere umano, di costruirsi sicurezza.
A livello diagnostico è importante fare una mappatura delle reazioni del sistema
nervoso autonomo del paziente, ponendole su un continuum, mettendo sulla sinistra
la condizione di ipoarousal estremo dovuto all’attivazione del circuito dorsovagale,
passando poi per l’iperarousal dovuto all’attivazione del sistema simpatico, per
arrivare ad uno stato ventrovagale che riflette sicurezza; torna utile individuare quale
sia lo stile abituale di attivazione del paziente.
Di fatto, sia con i bambini che con gli adulti è importante lavorare su quello che accade
dopo che la persona ha subito un trauma o una serie di traumi minori che hanno
cumulato i loro effetti: la neurocezione, ossia capacità di valutare l’ambiente come
sicuro o pericoloso, è compromessa, nel senso che si continua ad avere, a livello
corporeo, la percezione di minaccia, di essere in pericolo. In questo quadro, è
essenziale restituire al paziente un senso di sicurezza che passi anche attraverso le
sensazioni corporee:
lavorare sul respiro (inspirazione corta, espirazione lunga, senza forzare per non
andare in iperventilazione), incluso il canto (perché è un’attività che induce il respiro
lungo) e il canto corale, che presuppone anche la necessità di sintonizzarsi con gli altri;
esercizi di coerenza cardiaca (respiri lunghi, immaginando il cuore al centro, respiro
che “culla il cuore”);
musica ad alta frequenza (che ha un’influenza regolante sul circuito ventrovagale).
L’obiettivo è, in generale, condurre il paziente a sperimentare sensazioni corporee e
vissuti positivi, in modo che acquisti confidenza e familiarità con uno stato di
regolazione. Si cerca di traghettare il paziente da sensazioni ed emozioni negative a
sensazioni corporee ed emozioni positive, insegnandogli a riconoscere le sensazioni
piacevoli; si tratta di un lavoro che richiede tempo e gradualità.
Molto importante è anche il contatto oculare, che rappresenta anche la via maestra
attraverso cui il bambino apprende dal caregiver i comportamenti di regolazione; un
buon contatto oculare presuppone una microregolazione continua (il contatto deve
esserci senza essere, però, prolungato ed eccessivo), come, ad esempio, i contatti
oculari brevi, non forzati e con un’intensa coloritura affettiva osservabili nella relazione
madre-bambino quando siamo in presenza di un attaccamento sicuro.
Questo significa che le reazioni di difesa non sono il frutto di una decisione volontaria e
razionale, ma sono automatiche, non controllabili e producono il comportamento che
il cervello in quel momento ritiene più utile alla sopravvivenza. Quattro sono le
possibili risposte del sistema di difesa: freezing, fight, flight e faint.
Questo è molto più frequente negli stupri di gruppo, dove il senso di pericolo per la
propria vita e l’impotenza sono ancora più estremi. Ecco perché spesso le vittime di
aggressioni sessuali non gridano e non si ribellano ai loro aggressori. Non perché siano
consenzienti, ma perché il loro sistema di difesa ha stabilito che restare immobile e
non reagire è il modo migliore per sopravvivere in quella situazione.
Purtroppo il sistema giudiziario non tiene conto di tutto ciò e giudici e avvocati non
sono sufficientemente informati sul trauma e i vissuti ad esso correlati. È un problema
molto serio quello sollevato da certi casi di cronaca, che dovrebbero costringere a
riflettere sulla necessità di lavorare alla costruzione e diffusione di una cultura del
trauma che tuteli le vittime e, riconoscendone il danno, le aiuti ad affrontare il difficile
cammino di superamento ed elaborazione del trauma stesso. Le sentenze assolutorie
verso gli abusanti, infatti, non solo non rendono giustizia alle vittime, ma peggiorano
l’impatto dell’episodio traumatico, amplificando emozioni di colpa e vergogna
intrinsecamente connesse all’aggressione subita.