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La Teoria Polivagale del neurofisiologo di Stephen Porges (2014) si basa sull’evoluzione

biologica del nostro sistema nervoso e un elemento centrale da capire è innanzitutto


che esiste un’enorme differenza tra i nostri antenati rettili e noi mammiferi. I
mammiferi hanno bisogno, per sopravvivere, di instaurare relazioni sociali, hanno
bisogno di avere legami affettivi e di proteggersi l’un l’altro, mentre i rettili no, sono
animali solitari.

Per questo nel passaggio evolutivo tra rettili e mammiferi il sistema nervoso autonomo
si è dovuto modificare per aumentare le possibilità di sopravvivere in condizioni di
pericolo: il sistema di difesa è infatti caratterizzato da due branche fondamentali del
sistema nervoso autonomo, l’una in grado di promuovere reazioni di attacco, fuga,
congelamento (sistema simpatico) e l’altra in grado di innescare la reazione di morte
apparente (sistema parasimpatico dorso-vagale).

Successivamente nei mammiferi si sarebbe sviluppata una terza branca, il sistema


parasimpatico ventro-vagale, in grado di attivare comportamenti di affiliazione e
vicinanza, di collaborazione e aiuto reciproco. Quest’ultima branca è attiva solo in
condizioni di sufficiente sicurezza ed è quella più legata ai comportamenti di
attaccamento e di cooperazione tipici degli esseri umani.

La branca del sistema simpatico si attiva invece in condizioni di medio-pericolo, in cui


sentiamo cioè di poter provare a reagire o a fuggire, mentre la branca del
parasimpatico dorso-vagale è simile alle reazione retti liana e si attiva nell’uomo solo in
condizioni di grave pericolo di vita.

Paradigma classico VS Teoria Polivagale


Il paradigma classico e più diffuso vede il sistema nervoso come un’alternanza tra due
sistemi principali tra loro in competizione: il sistema simpatico e il sistema
parasimpatico.

In questo approccio il sistema simpatico è responsabile della nostra reattività


(attacco/fuga) e dunque della nostra sopravvivenza, mentre il parasimpatico (vagale)
ha un ruolo protettivo di riduzione dell’arousal e recupero dell’omeostasi. Questo è
come è stato pensato e studiato negli anni, determinando una maggiore attenzione ed
enfasi sul ruolo del simpatico nell’attivare le nostre risposte allo stress e una minor
attenzione nel comprendere le funzioni specifiche del sistema parasimpatico. Anche se
il dualismo antagonista della visione “simpato-centrica” spiega bene il funzionamento
di alcuni organi specifici a livello locale, non costituisce un modello esaustivo per
spiegare come noi esseri umani reagiamo alle sfide del mondo.

L’iper-reattività è davvero l’unico modo di cui disponiamo per difenderci? Nello studio
di come il nostro sistema nervoso reagisce è importante considerare prima di tutto che
il modo in cui rispondiamo alle sfide ambientali ci viene dalla nostra evoluzione come
specie e questa cornice è la prima differenza tra “dualismo antagonista” e Teoria
Polivagale.
La cornice filogenetica permette di considerare le risposte del sistema nervoso come
un’organizzazione per livelli gerarchici seguendo il concetto di dissoluzione che Jackson
(1958) ha utilizzato per le malattie del sistema nervoso derivanti da danno cerebrale.
Secondo questo principio i circuiti più evoluti del sistema nervoso inibiscono quelli più
primitivi e solo quando i circuiti più nuovi falliscono, allora intervengono i più antichi.

Il sistema nervoso autonomo dell’uomo lavora nello stesso modo: utilizza dapprima le
risposte adattive che vengono dai gradini più recenti della nostra evoluzione, ma
quando queste non servono più a metterci al sicuro, utilizza via via le risposte più
primitive, seguendo a ritroso la storia evolutiva della nostra specie. Perciò quello che
diventa davvero importante nella Teoria Polivagale è la nozione stessa di “nuovo
circuito” in senso filogenetico, perché riguarda proprio il modello di funzionamento e
la struttura stessa del sistema vagale.

Esistono due principali branche del sistema parasimpatico appartenenti a periodi


diversi della nostra storia filogenetica: un circuito vagale più nuovo e mielinizzato
(ventrovagale) che ha fibre afferenti agli organi sopra-diaframmatici e che guida i
muscoli del volto, della faringe, dei polmoni, del cuore e determina la nostra capacità
di esprimere le emozioni con il volto, la voce, la prosodia e il respiro; poi c’è un circuito
vagale più antico (dorsovagale) che ha fibre afferenti agli organi sotto-diaframmatici e
che ha un ruolo importante del mantenere l’omeostasi e il controllo delle funzioni
viscerali di base (stomaco, intestino tenue, colon e vescica).

In condizioni di pericolo il circuito ventrovagale ha un effetto calmante sul cuore,


riduce la reattività simpatica e promuove comportamenti di ingaggio sociale, mentre al
contrario questo secondo circuito più antico in condizioni di pericolo ha un’unica
risposta difensiva da mettere in campo: il collasso (shut down), risposta che abbiamo
ereditato dai rettili ma che può essere potenzialmente letale oggi nell’uomo.

Dunque la Teoria Polivagale pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché
uno unico, sull’importanza della relazione gerarchica tra loro e sull’importanza di
considerare tutte le risposte difensive come adattive di fronte alle sfide ambientali:
esiste dunque una reazione simpato-adrenergica, responsabile delle nostre risposte di
mobilizzazione (attacco/fuga), ma c’è anche una rezione dorsovagale che quando è
attiva in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi,
consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare
pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria.

Quello che la Teoria Polivagale vuole sottolineare in sintesi è che quando il nostro
sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, come può
accadere in situazioni traumatiche o di stress prolungato, queste stesse possono
diventare potenzialmente dannose per la nostra salute fisica e mentale poiché viene a
mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso
autonomo.

Teoria Polivagale e neurofisiologia del nervo vago


La Teoria Polivagale quindi ripensa il funzionamento del Sistema Nervoso Autonomo
non in termini di antagonismo tra il sistema simpatico e parasimpatico, bensì in termini
di gerarchie di risposta; un aspetto molto importante è l’esistenza di un ramo
mielinizzato del parasimpatico (detto nervo vago mielinizzato o ventrovagale) che
funge da sistema di regolazione e origina in un’area del tronco encefalico denominata
nucleo motorio del vago.

Il nervo vago è costituito da una famiglia di nervi (da qui il nome di teoria polivagale): il
ramo dorsovagale e il ramo ventrovagale, a sua volta suddiviso in due componenti, una
componente viscero motoria, che regola le viscere al di sopra del diaframma (cuore e
respiro), e una componente somatomotoria, che regola i muscoli del collo, della faccia
e della testa (il sorriso, il contatto oculare, la vocalizzazione, l’ascolto), in altre parole
tutto ciò che è implicato nell’interazione sociale verso cui noi mammiferi siamo
orientati in condizioni di sicurezza.

Il primo circuito che compare (il più arcaico filogeneticamente) è quello denominato
dorsovagale, osservabile nei rettili e nei mammiferi superiori; è collegato con la
regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto
del diaframma. Si attiva in condizioni di pericolo estremo, creando uno stato di
rallentamento che arriva fino all’immobilizzazione (la difesa dei rettili), e determina,
quindi, uno stato di immobilità che non nasce da una condizione di sicurezza, bensì da
estrema paura. Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione con
paura è collegata all’ottundimento mentale e alla perdita del senso di controllo e le
emozioni sottostanti sono tristezza, disgusto, imbarazzo e, ovviamente, paura. Quando
il circuito dorsovagale è attivo riscontriamo, nella persona, uno stato di prostrazione:
muscoli flaccidi, sguardo perso nel vuoto, cuore bradicardico e movimento del collo
all’indietro (il movimento della tartaruga, come a volersi nascondere). Il corpo è stanco
e pesante e tende al movimento verso il basso; si verifica un rallentamento delle
risposte muscolari e scheletriche con riduzione dell’apporto di ossigeno. Lo stato
dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.

Uno stadio filogenetico successivo ha portato allo sviluppo del sistema simpatico, che
regola la capacità metabolica e il battito cardiaco, ossia tutte quelle reazioni che, a
livello fisiologico, sono collegate al meccanismo di attacco-fuga, la reazione di difesa
elettiva del mammifero di fronte al pericolo; il sistema simpatico, quando si attiva,
inibisce il tratto gastrointestinale, che è molto dispendioso in termini energetici (se
devo difendermi da un pericolo la digestione passa in secondo piano…). L’attivazione
del sistema simpatico è osservabile attraverso uno stato di mobilizzazione: aumentano
le tensione muscolare, l’ossigenazione, la vasocostrizione e la frequenza del battito
cardiaco; l’energia fluisce verso l’avanti e verso l’alto, la mandibola si serra. In questo
caso, le emozioni sottostanti sono la paura e la rabbia.

Lo stadio filogenetico ancora successivo ha portato allo sviluppo del circuito


ventrovagale, che è specifico dei mammiferi superiori e dell’uomo; si tratta di un
circuito che ha un effetto calmante e frenante, perché frena l’attività del simpatico; il
battito cardiaco decelera, ma, in questo caso, si tratta di un’immobilizzazione senza
paura, in assenza di pericolo. Quando la persona è in uno stato ventrovagale il battito
cardiaco rallenta (ma non è la bradicardia dovuta alla paura, come avviene nello stato
dorsovagale), il respiro diventa più lento e profondo, avviene la modulazione dei
muscoli dell’orecchio medio (che migliora la capacità di prestare ascolto e
comprendere) e possiamo osservare movimenti armonici del collo e della testa.

Il sistema di autoregolazione parte, quindi, da un sistema primitivo di inibizione (il


sistema rettiliano), si affina, nel corso dell’evoluzione, con il sistema di attacco-fuga, e
culmina in un sistema sofisticato di ingaggio sociale mediato dalle espressioni facciali e
dalla vocalizzazione.

Come conseguenza, un individuo in interazione sociale può stabilizzare la sua


condizione neurofisiologica: se l’ambiente viene percepito come sicuro le risposte di
difesa vengono inibite e la condizione di sicurezza che deriva dalla relazione si riflette
nelle sensazioni viscerali.

Lo stato dorsovagale e lo stato di attivazione del sistema simpatico, nella loro


apparente antiteticità, sono accomunati dal fatto che la persona si sente in pericolo e
questo non le consente di coinvolgersi in una serena interazione sociale, dato che
l’organismo sta fronteggiando una minaccia. Il nostro sistema nervoso autonomo è
evoluto per passare rapidamente dalla condizione di coinvolgimento sociale (sicurezza
– circuito ventrovagale attivo) ad una di reazione per affrontare un pericolo (minaccia
– sistema simpatico attivo); se il pericolo viene meno la persona ritorna ad uno stato di
regolazione, se persiste si attiva uno stato dorsovagale, associato a pericoli estremi, in
un continuum che va dalla sicurezza all’immobilizzazione.

Possiamo individuare un altro stato ibrido denominato stato di freezing, che si colloca
su una linea di confine quando, in presenza di una minaccia costante, la reazione
simpatica sta lasciando il posto ad una reazione dorsovagale; è un blocco vigile,
caratterizzato da completa cessazione del movimento ad eccezione della respirazione
e dei movimenti oculari, frequenza cardiaca sostenuta, muscoli rigidi e tesi, acutezza
sensoriale. Si tratta di uno stato di congelamento vigile, in cui si prova forte paura e si
comincia a dissociarsi dalle sensazioni corporee, per ridurre la sofferenza emotiva.

Il passaggio opposto, quello da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema
simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione), o da uno stato dorsovagale ad
uno ventrovagale, presuppongono una risalita più difficile da attuarsi: il sistema
nervoso autonomo è configurato per scendere facilmente, non altrettanto facilmente
per risalire verso una condizione di autoregolazione correlata ad uno stato di sicurezza.
Di conseguenza, accade che il sistema nervoso di una persona che ha subito un trauma
sia intrappolato nello stato di allerta dorsovagale o simpatico, come se il pericolo fosse
sempre in atto, perdendo la propria flessibilità.

Il circuito ventrovagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di


promuovere altra sicurezza; noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione
sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e
dalla voce, inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo
l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.
Sindrome polivagale
Stephen Porges ha cercato di decostruire la Teoria Polivagale e di individuare 4
differenti cluster che possano definire una progressione di sintomi in relazione alle
risposte fisiologiche interne. Il dato da osservare è quando il sistema ventrovagale
mielinizzato tende a spegnersi e accendersi durante un’interazione e lasciare spazio a
momentanee risposte più o meno intense, per poi tornare ad una condizione di
equilibrio. Questo andamento “on/off” del sistema vagale ventrale è molto frequente
anche in una popolazione sana.

Un primo cluster patologico si può osservare quando c’è un’attenuazione del sistema
di coinvolgimento sociale e, dunque, una riduzione dell’attività vagale ventrale, che si
manifesta con un’espressione del volto piatta, in particolare nella parte superiore dei
muscoli orbicolari, bassa reattività e un’elevata sensibilità ai suoni.
Il secondo cluster è caratterizzato invece da elevata reattività e mobilitazione
direttamente correlate all’attività del sistema simpatico: qui si osservano una
regolazione atipica dello stato emotivo con rapidi shift tra calma e reattività e uno
stato di ipervigilanza tipico dei disturbi d’ansia e dei comportamenti impulsivi.
Il terzo cluster è caratterizzato dall’alternanza tra sistema simpatico e dorsovagale e si
manifesta con una vulnerabilità al collassamento e alla dissociazione. Si manifesta con
episodi di ipotensione, assenze o restringimenti dello stato di coscienza, fibromialgie,
problemi intestinali e comportamenti di ridotta mobilizzazione.
L’ultimo cluster è quello della dissociazione vera e propria che si manifesta con il
collassamento cronico (shut down) determinato dall’attivazione del sistema
dorsovagale, come risposta difensiva generalizzata a diverse situazioni di stress o di
pericolo percepito. Questo ultimo cluster è molto frequente in persone vittime di
abuso o di violenze e si tratta di una risposta estrema di difesa ad una minaccia
potenzialmente letale.
Teoria Polivagale ed esperienze traumtiche
La Teoria Polivagale cerca di rispondere alle seguenti domande:

in che modo le esperienze traumatiche e/o di abuso cronico alterano i processi


omeostatici fisiologici e il comportamento sociale?
in che modo il trauma distorce i processi percettivi e sostituisce i comportamenti
sociali spontanei con reazioni di difesa?
quali trattamenti clinici consentono di intervenire su queste problematiche?
Si parte dalla premessa che gli esseri umani sono collegati gli uni agli altri (si tratta di
una forma di adattamento funzionale alla sopravvivenza) e sono in grado di co-
regolarsi. In questo quadro il comportamento rappresenta una qualità emergente che
ha un substrato biologico: quando gli esseri umani non riescono ad entrare in relazione
si verificano delle ricadute anche a livello corporeo; parimenti, lo stato fisiologico e
psicologico influenza il comportamento.

La corteccia temporale è in grado di decodificare l’intenzionalità dei movimenti nei


mammiferi; un ruolo molto importante viene rivestito dal muscolo ubicolare
dell’occhio, dotato di una doppia innervazione, il quale entra in gioco nei contatti
oculari (il contatto oculare è essenziale nel creare un senso di connessione tra esseri
umani, diventa meno importante solo quando c’è una connessione a livello fisico).

Nei processi comunicativi tra esseri umani non sono le parole e i contenuti verbali,
bensì le caratteristiche melodiche, la prosodia, l’intonazione, i contenuti emotivi che
agiscono sul nervo vago mielinizzato, il quale controlla anche l’attivazione del sistema
di difesa.

Nelle esperienze traumatiche (nell’ambito della relazione di attaccamento)


l’interazione sociale non è più fonte di sicurezza, cosa che può determinare uno stato
dissociativo nella persona, la quale cerca, in questo modo, di distanziarsi da contenuti
emotivi dolorosi; si verifica, a livello cerebrale, la violazione di “un’aspettativa
neurale”, determinata dalla mancanza di reciprocità nella relazione e dall’assenza di
sintonizzazione.

Ciò pone le premesse per un atteggiamento conservativo, osservabile nelle persone


che hanno subito dei traumi, le quali sono portate ad interpretare le situazioni neutre
come situazioni potenzialmente pericolose da cui bisogna difendersi. Quando il trauma
è relazionale, infatti, ogni essere umano può essere percepito come fonte di estremo
pericolo.

Secondo Liotti la disorganizzazione dell’attaccamento nel primo anno di vita è un


potente predittore della dissociazione, più di quanto lo siano traumi successivi, e
avanza l’ipotesi che l’interazione fra ricordi traumatici e attaccamento disorganizzato
possa essere il necessario antecedente della dissociazione patologica.

Il possibile meccanismo alla base di ciò sembrerebbe risiedere nella particolare


interazione tra due sistemi motivazionali innati frutto dell’evoluzione: il sistema di
difesa e il sistema di attaccamento. Mentre in condizioni ottimali questi due sistemi
funzionano in perfetta armonia (il bambino scappa dal pericolo rifugiandosi dalla
mamma ed essendone confortato disinnesca il sistema di difesa), nell’attaccamento
disorganizzato la figura di attaccamento è nello stesso tempo fonte di pericolo e di
conforto, generando nel bambino un terrore senza sbocco.

La Teoria Polivagale di Porges aiuta a spiegare come la mancata inibizione del sistema
di difesa da parte del sistema di attaccamento una volta che l’evento traumatico sia
terminato favorisca la dissociazione: dato che attacco/fuga sono impossibili è
probabile che l’unica difesa possibile sia la finta morte, con l’attivazione del nucleo
dorsale del vago che ostacola le funzioni integrative superiori della coscienza.

Ma come mai non sono così evidenti e frequenti i sintomi dissociativi in bambini con
attaccamento disorganizzato? L’ipotesi è che la maggior parte di loro sviluppi delle
strategie per controllare i genitori senza attivare l’attaccamento, utilizzando altri
sistemi motivazionali, come per esempio il sistema di rango o quello di accudimento.

La Teoria Polivagale nella pratica clinica


In ambito terapeutico, ricorda Porges, è necessario individuare la stato fisiologico del
cliente e capire come ne condiziona il comportamento. Inoltre, è estremamente
importante prestare attenzione al linguaggio non verbale e alla prosodia della voce,
tenendo presente che un paziente che ha subito un trauma può essere molto sensibile
a stimoli acustici a bassa frequenza che ispirano un senso di pericolo; si tratta di una
forma di vulnerabilità del sistema nervoso del cliente.

Infatti mentre l’attivazione del sistema simpatico è intensa, ma ben tollerata dal nostro
organismo, quella del sistema dorso-vagale è intollerabile e paragonabile ad un vera
esperienza di morte. Per questo motivo in situazioni di grave traumatizzazione, come
aggressioni, tortura, abusi fisici o catastrofi, questa reazione dell’organismo può
spaventare e imprimere quel ricordo nella nostra memoria.

 L’importanza del lavoro
di Porges nel lavoro terapeutico è data soprattutto dalla possibilità che ci dà di
osservare l’attivazione o la dis-attivazione di questi sistemi fisiologici e innati nella
relazione terapeutica.

Come sappiamo, la percezione soggettiva di essere o sentirsi al sicuro può essere


molto compromessa nelle persone che mostrano una qualche sofferenza psicologica,
dal disturbo di panico ai comportamenti legati all’impulsività e, in quest’ottica, la
comprensione dei sintomi in una chiave evolutiva può offrire una valida spiegazione a
reazioni altrimenti incomprensibili e apparentemente prive di razionale fondamento.

La minaccia alla sicurezza personale, ad esempio, può essere sperimentata in


condizioni di solitudine o al contrario di eccessiva intimità. Ci si può sentire in pericolo
nelle mura di casa o per strada, in ascensore o all’aperto, in una folla o in una piazza
vuota.

Il primo punto centrale dell’applicazione della Teoria Polivagale alla pratica clinica è il
concetto di regolazione fisiologica, che come clinici siamo abituati a chiamare
“regolazione o disregolazione emotiva”. L’osservazione clinica in psicoterapia permette
di notare cambiamenti repentini nell’espressione delle emozioni, ad esempio il
passaggio da un’espressione neutra ad una arrabbiata, e di osservare in vivo i
comportamenti di autoregolazione che vengono messi in atto per ritornare ad una
condizione di equilibrio.

Un aspetto su cui può essere utile focalizzarsi come terapeuti è l’intonazione della voce
nel dialogo clinico, poiché sappiamo dalla neurofisiologia che la nostra attenzione
come esseri umani è più focalizzata sulla prosodia che sulle parole utilizzate.
All’interno di un dialogo riusciamo a cogliere intuitivamente che le frequenze più alte
sono associate alla presenza di ansia e paura e che la presenza di toni bassi e volume
alto sono associati solitamente a rabbia e aggressività. Anche i pazienti dunque sono
portati a giudicare costantemente lo stato emotivo del terapeuta ascoltando
innanzitutto l’intonazione della sua voce, come espressione della sua regolazione
interna (neurocezione).

Potrebbe essere utile sapere che quello che davvero guida l’interazione è questo
rapporto diadico tra la propria neurocezione e quella dell’altro, in un costante rimando
di feedback che regolano l’affettività e promuovono sensazioni di sicurezza e fiducia.
Da questo deriva un terzo aspetto importante legato al ruolo possibile del terapeuta
come co-regolatore della stato emotivo e mentale del paziente; quando questo
scambio avviene in modo positivo e adattivo, la co-regolazione degli stati emotivi
favorisce l’emergere di nuove e incredibili capacità prima inesplorate. Porges sostiene
che gran parte del processo terapeutico abbia molto a che fare con questo.

Il senso di sicurezza sperimentato all’interno del contesto terapeutico, cioè nella


relazione tra terapeuta e paziente, rappresenta, una condizione essenziale affinché
una persona possa stare bene e possa fare dei cambiamenti: senza sicurezza non ci
può essere né relazione né regolazione, perché senza sicurezza la nostra energia, il
nostro metabolismo e il nostro battito cardiaco sono impegnati nella difesa.

Quando un paziente viene da noi terapeuti, che lavoriamo con la relazione, dovremmo
sempre domandarci come possiamo strutturare questa relazione terapeutica in modo
da offrire un contesto sicuro; in linea di massima, noi facciamo questo dando la nostra
disponibilità, con la coerenza del setting che offre contenimento, mettendo a
disposizione la nostra conoscenza e le nostre tecniche. Questo discorso diventa ancora
più importante quando si lavora con i bambini, intervenendo sulle relazioni
d’attaccamento, che rappresentano il luogo in cui si costruisce la sicurezza e quando ci
si confronta con le tematiche dell’adozione e dell’affido, che non sono altro che una
nuova opportunità, che viene data all’essere umano, di costruirsi sicurezza.

A livello diagnostico è importante fare una mappatura delle reazioni del sistema
nervoso autonomo del paziente, ponendole su un continuum, mettendo sulla sinistra
la condizione di ipoarousal estremo dovuto all’attivazione del circuito dorsovagale,
passando poi per l’iperarousal dovuto all’attivazione del sistema simpatico, per
arrivare ad uno stato ventrovagale che riflette sicurezza; torna utile individuare quale
sia lo stile abituale di attivazione del paziente.

Di fatto, sia con i bambini che con gli adulti è importante lavorare su quello che accade
dopo che la persona ha subito un trauma o una serie di traumi minori che hanno
cumulato i loro effetti: la neurocezione, ossia capacità di valutare l’ambiente come
sicuro o pericoloso, è compromessa, nel senso che si continua ad avere, a livello
corporeo, la percezione di minaccia, di essere in pericolo. In questo quadro, è
essenziale restituire al paziente un senso di sicurezza che passi anche attraverso le
sensazioni corporee:

se è attivo il circuito dorsovagale si cerca di stimolare l’energia riportandola verso l’alto


e l’esterno (far alzare in piedi la persona, farla spingere o afferrare qualcosa, stimolare
braccia e gambe, assecondare i movimenti, anche molto piccoli, di reazione attiva);
oppure possiamo aiutare il paziente a riagganciare le sensazioni corporee, conducendo
un processo esplorativo volto ad aumentare la consapevolezza delle proprie sensazioni
corporee e delle emozioni connesse, per ricreare uno stato di regolazione e
permettergli di uscire dallo stato dorsovagale facendo, ad esempio, il confronto tra la
situazione traumatica e il presente della situazione terapeutica, procedendo con molta
gradualità;
se, invece, c’è un’attivazione eccessiva del sistema simpatico si cerca di riportare
l’energia verso il basso (ad esempio attraverso il sentire il contatto con il terreno, ossia
il grounding) valorizzando le sensazioni di autoregolazione;
per far uscire il paziente dal freezing (in cui il sistema simpatico è attivo, ma in termini
di paura) l’attenzione va spostata al dopo (cosa è successo dopo l’evento traumatico?)
e dobbiamo fare attenzione, perché se ci limitiamo ad attivare il sistema simpatico
rafforziamo lo stato di freezing;
vi sono, inoltre, persone che sono in una costante agitazione dovuta ad attivazione del
sistema simpatico, perché continuano a percepire un pericolo che non c’è oppure
perché si aggrappano a questo stato come estrema difesa per non cadere in una
reazione dorsovagale (un’agitazione apparente, in parole povere si difendono
dall’abbattimento e dalla tristezza con l’eccitazione eccessiva).
In tutti i casi sopradescritti cerchiamo il più possibile di lasciare fuori il contenuto, il
racconto dell’esperienza traumatica, concentrandoci sul presente, sul qui e ora, e sulle
sensazioni corporee; l’obiettivo finale da porsi è arrivare a riattivare il sistema
ventrovagale.

Il circuito ventrovagale ci permette, quando siamo in condizione di sicurezza, di


promuovere altra sicurezza; noi intercettiamo questi segnali attraverso l’interazione
sociale, decodificando in modo istintivo messaggi che derivano dal contatto oculare e
dalla voce, inviando segnali di risposta, entrando in relazione e promuovendo
l’autoregolazione delle sensazioni fisiologiche.

Per attivare il circuito ventrovagale abbiamo a disposizione anche alcuni espedienti,


che agiscono a livello corporeo e hanno un effetto regolante:

lavorare sul respiro (inspirazione corta, espirazione lunga, senza forzare per non
andare in iperventilazione), incluso il canto (perché è un’attività che induce il respiro
lungo) e il canto corale, che presuppone anche la necessità di sintonizzarsi con gli altri;
esercizi di coerenza cardiaca (respiri lunghi, immaginando il cuore al centro, respiro
che “culla il cuore”);
musica ad alta frequenza (che ha un’influenza regolante sul circuito ventrovagale).
L’obiettivo è, in generale, condurre il paziente a sperimentare sensazioni corporee e
vissuti positivi, in modo che acquisti confidenza e familiarità con uno stato di
regolazione. Si cerca di traghettare il paziente da sensazioni ed emozioni negative a
sensazioni corporee ed emozioni positive, insegnandogli a riconoscere le sensazioni
piacevoli; si tratta di un lavoro che richiede tempo e gradualità.

Molto importante è anche il contatto oculare, che rappresenta anche la via maestra
attraverso cui il bambino apprende dal caregiver i comportamenti di regolazione; un
buon contatto oculare presuppone una microregolazione continua (il contatto deve
esserci senza essere, però, prolungato ed eccessivo), come, ad esempio, i contatti
oculari brevi, non forzati e con un’intensa coloritura affettiva osservabili nella relazione
madre-bambino quando siamo in presenza di un attaccamento sicuro.

Possiamo spiegare ai nostri pazienti l’importanza del contatto oculare, renderli


consapevoli di eventuali disregolazioni nelle loro modalità di contatto oculare,
legittimando anche il bisogno di evitare il contatto, quando vissuto come troppo
intenso; possiamo scegliere di non adottare un contatto oculare diretto, che può
essere vissuto come intrusivo. Tutto ciò aiuta il paziente ad diventare più consapevole
dei propri vissuti e influisce positivamente sulle sue capacità di regolazione.

In ultima analisi, è importante procedere lentamente, avendo cura di effettuare una


corretta processazione: se partiamo da una cognizione negativa dobbiamo arrivare ad
una cognizione positiva e, di conseguenza, alle sensazioni ed emozioni positive
correlate; viceversa, se partiamo da una sensazione corporea negativa dobbiamo
arrivare ad una sensazione positiva e all’emozione e alla cognizione positiva correlata.

La Teoria Polivagale ci aiuta a comprendere reazioni che a volte appaiono


incomprensibili, incluse quelle che si notano in molte vittime di stupro. Quando ci si
sente in pericolo, nel nostro cervello si attiva immediatamente il sistema di difesa.
Immediatamente nel senso letterale del termine: questa reazione repentina, infatti,
non è mediata dalle zone corticali, dalle funzioni superiori, ma si sviluppa nella parte
evolutivamente più antica del cervello, il tronco encefalico, in cui hanno sede gli istinti
che ci accomunano con gli altri animali.

Questo significa che le reazioni di difesa non sono il frutto di una decisione volontaria e
razionale, ma sono automatiche, non controllabili e producono il comportamento che
il cervello in quel momento ritiene più utile alla sopravvivenza. Quattro sono le
possibili risposte del sistema di difesa: freezing, fight, flight e faint.

Il freezing, o congelamento, è immobilità tonica: è quello che succede al cervo in


mezzo alla strada, che s’immobilizza quando arriva un’auto. In quel momento il corpo
è bloccato, ma i muscoli sono in tensione, pronti a scattare non appena il cervello,
sempre a livello automatico e involontario, avrà valutato il comportamento più utile
alla sopravvivenza da mettere in atto. Nel frattempo l’immobilità consente di essere
meno visibili ai predatori. Poi ci sono le reazioni di attacco (fight) o fuga (flight).
L’ultima, e più importante in relazione a questi casi di aggressione sessuale, è
l’immobilità ipotonica (faint): quando nessuna delle reazioni precedenti pare utile a
fronteggiare il pericolo, l’unica risposta possibile è la brusca riduzione del tono
muscolare, accompagnata da una ridotta percezione di ciò che sta accadendo in quel
momento, un distacco dall’esperienza. I centri inferiori si disconnettono da quelli
superiori (Liotti e Farina, 2011). Come l’opossum pare morto sotto attacco del
predatore, la vittima di aggressione perde il controllo del proprio corpo che collassa
per l’attivazione del sistema dorso-vagale, a volte fino allo svenimento. Molte vittime
di stupro raccontano proprio questo tipo di esperienza: si subisce l’aggressione senza
avere più il controllo del proprio corpo, senza poter muovere un muscolo, senza poter
nemmeno parlare o gridare. In alcuni casi l’esperienza dissociativa è talmente forte che
ci si vede da fuori nella scena, come se stesse capitando a qualcun altro.

Questo è molto più frequente negli stupri di gruppo, dove il senso di pericolo per la
propria vita e l’impotenza sono ancora più estremi. Ecco perché spesso le vittime di
aggressioni sessuali non gridano e non si ribellano ai loro aggressori. Non perché siano
consenzienti, ma perché il loro sistema di difesa ha stabilito che restare immobile e
non reagire è il modo migliore per sopravvivere in quella situazione.

Purtroppo il sistema giudiziario non tiene conto di tutto ciò e giudici e avvocati non
sono sufficientemente informati sul trauma e i vissuti ad esso correlati. È un problema
molto serio quello sollevato da certi casi di cronaca, che dovrebbero costringere a
riflettere sulla necessità di lavorare alla costruzione e diffusione di una cultura del
trauma che tuteli le vittime e, riconoscendone il danno, le aiuti ad affrontare il difficile
cammino di superamento ed elaborazione del trauma stesso. Le sentenze assolutorie
verso gli abusanti, infatti, non solo non rendono giustizia alle vittime, ma peggiorano
l’impatto dell’episodio traumatico, amplificando emozioni di colpa e vergogna
intrinsecamente connesse all’aggressione subita.

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