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SEZIONE BASE - CAPITOLO 1

Digital Imaging: cos’è?

Definizione di “Imaging”

Definizione di Digital Imaging

Perché il digital imaging


è così importante?

Digital Imaging in tutte


le attività professionali
DEFINIZIONE DI “IMAGING”

Il termine “imaging” è stato “inventato” qualche anno fa negli Stati Uniti, per definire al meglio
l’evoluzione dei processi di produzione e riproduzione dell’immagine. Il suo significato è abba-
stanza profondo e comprenderlo a fondo consentirà di approfondire anche la sezione che
interessa questo spazio, dedicata al digital imaging.
Oggi in molti parlano di “imaging” pensando che, con questo termine, si identifichi inequivo-
cabilmente un processo in qualche modo legato alla tecnologia digitale; nella realtà, l’imaging
è svincolato dalla tecnologia specifica, ed identifica l’integrazione tra tutti gli elementi, prodot-
ti, tecnologie e servizi che portano alla realizzazione di una comunicazione visiva. Il termine
“imaging”, in definitiva, nasce per sopperire ai limiti che avevano ed hanno i termini settoriali
legati all’immagine: “fotografia”, “informatica”, “grafica”, “sviluppo”, “stampa”, eccetera.

DEFINIZIONE DI “DIGITAL IMAGING”

La sezione della grande sfera dell’imaging che utilizza tecnologie digitali viene definita “digital
imaging” ed è anche quell’area che sta subendo la maggiore evoluzione. Ormai ogni settore
della produzione dell’immagine offre interpretazioni digitali: la fotografia, la grafica, il cinema, il
fotolaboratorio, la stampa ad inchiostro, anche se non sempre il processo è tutto digitale.

PERCHÉ IL DIGITAL IMAGING È COSÌ IMPORTANTE?

La comunicazione visiva, di cui la fotografia fa ovviamente parte, diventa ogni giorno più digi-
tale. Pur non sostituendosi completamente alle altre forme di comunicazione più “fisiche”, il
digitale viene sempre più preferito perché offre l’eccezionale vantaggio di un costo molto
basso di distribuzione, una flessibilità elevatissima nell’aggiornamento, un azzeramento delle
distanze, la possibilità dell’ottimizzazione (trasmettere all’utente SOLO le informazioni che
desidera ricevere), il quasi annullamento dell’inerzia tra quando l’informazione (o la comunica-
zione in senso più allargato) viene creata e quando viene fruita.
La digitalizzazione è un processo che sta investendo moltissime aree economiche, e la sua
penetrazione è tanto più profonda quando la conversione tra atomi (prodotto analogico) e bit
(informazione digitale), è facilitata. L’informazione, nella sua globalità, è uno dei prodotti più
facilmente digitalizzabili: una fotografia, un testo dattiloscritto, un video, un disegno possono
anche nascere “fuori” da un computer, ma con poca “fatica” è possibile trasformali in dati
digitali; al tempo stesso - e questo è il fattore ancora più importante - sempre più sono alla
portata di tutti strumenti per la produzione diretta in digitale: poeti e maestri del giornalismo
esclusi (e coloro che di questi maestri imitano solo gli atteggiamenti di rigidità, senza riuscire
ad imitarli nella qualità dei prodotti che creano), tutti ormai producono testi con un computer,
e quindi questi dati sono già in formato “digitale”; fotocamere e videocamere digitali sono
sempre più alla portata delle tasche di tutti ed anche per il disegno è possibile usare con pro-
fitto opportuni software che generano illustrazioni paragonabili a quelle che potremmo realiz-
zare su una tela, direttamente all’interno di un computer.

A fronte di questo scenario, fusione della facilità della digitalizzazione delle informazioni e del-
l’immagine e la comparsa di strumenti per la creazione diretta di immagini in digitale, si può
dire che il processo della digitalizzazione sia riscontrabile molto più nel campo della comuni-
cazione visiva che non in altri ambiti, e che quindi i mercati che si alimentano di tale settore
(l’editoria, la pubblicità, la televisione, il cinema, i giochi) hanno fatto negli ultimi due anni dei
passi molto più consistenti verso l’uso di comunicazione digitale, preferendola agli strumenti
più tradizionali. Tutti coloro che operano, in qualità di fotografi o di specialisti dell’immagine,

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debbono rispondere a queste esigenze del mercato fornendo alla clientela le strade più dirette
verso il digitale, perché sempre più la competizione tra i media sarà relativa alla velocità nel
fornire le informazioni, all’ottimizzazione dei costi, alla creazione di automatismi (data base
dinamici, motori di ricerca, personalizzazione dell’informazione) che non possono essere ral-
lentati da flussi di informazioni che giungono in formati non digitali.

DIGITAL IMAGING IN TUTTE LE ATTIVITÀ PROFESSIONALI

Molte persone che lavorano, anche con successo, nel mondo della fotografia, spesso reputa-
no che il digitale possa non essere determinante nell’area di propria appartenenza. Tutti, o
quasi, sono ormai concordi sul fatto che l’immagine digitale sia molto utile laddove i minuti
“pesano” di più (fotogiornalismo, fotografia sportiva, elevata produzione di immagini per cata-
loghi), ma che l’efficacia del digitale sia molto più ridotta - e che quindi non sia conveniente
un maggiore coinvolgimento o investimento.
In queste brevi note, segnaleremo quanto invece il digitale sia ormai entrato nel lavoro quoti-
diano di qualsiasi attività collegata alla fotografia. Non si tratta di un tentativo goffo di dichia-
rare “indispensabile” la tecnologia digitale in tutti i settori, ma la presa di coscienza di un’evo-
luzione che non è più circoscritta ad alcune aree di sperimentazione, ma che ormai è diluita
ovunque.
1. Fotografia di architettura: l’uso di tecnologie digitali consente l’integrazione diretta con
software specifici per la correzione di prospettive (talvolta non correggibili nemmeno con i
movimenti di macchina), per la misurazione di aree, di distanze, di perimetri, per la fusione
di elementi fotografici a disegni tecnici, per inviare immediatamente le immagini via Internet
o altre reti telematiche per ricevere in tempo reale approvazioni, commenti, valutazioni. Nel
settore dell’arredamento, sempre più potenti sono le integrazioni tra la fotografia digitale ed
i programmi di rimappatura 3D che consentono di mostrare versioni non ancora prodotte di
mobili, di divani, di poltrone, fondendo insieme le “forme” fotografate e il materiale di
copertura (tessuto od altro).
2. Fotografia pubblicitaria: lavorare in pubblicità significa fornire immagini sempre più accatti-
vanti dei prodotti che sono oggetto della pubblicità. Per ottenere questo risultato, il digitale
è sempre più usato, per correggere, integrare, impreziosire, affascinare. Questa è una realtà
da diversi anni, ma quella che oggi si vive, sempre più fortemente, è una riduzione dei
tempi tra l’ideazione e la commercializzazione del prodotto, e gli orizzonti del commercio
elettronico renderanno sempre più breve questo tempo. Inoltre, l’utilizzo di media sempre
più digitali richiederà anche nella pubblicità un numero sempre crescente di immagini digi-
tali.
3. Riproduzioni per musei, istituti, enti: tutte queste strutture stanno iniziando a richiedere
riproduzioni digitali per poter creare archivi che possano al tempo stesso durare nel tempo
e consentire una consultazione anche via Internet, o anche per creare prodotti multimediali
per allargare la visibilità dei beni che conservano.
4. Fotografia scientifica: le applicazioni di telemedicina e di telepatologia sempre più fanno
uso di strumenti e soluzioni digitali, che stanno fornendo risultati spesso entusiasmanti dal
punto di vista della collaborazione tra strutture dislocate geograficamente in luoghi distanti,
della ricerca, del rendere disponibili esperti e strutture specializzate anche laddove non esi-
stano “fisicamente”.
5. Fotografia per privati: la cattura istantanea dell’immagine è un bene che viene percepito
immediatamente da chiunque, e che diventa un punto di forza anche nei confronti del pub-
blico privato. Dalla fototessera, al ritratto, alla fotografia di matrimonio: tutti i settori sopra
citati possono trarre il vantaggio dell’immediatezza, della possibilità di correzione, dei “gio-
chi creativi” che si possono realizzare grazie al digitale. La fotografia, visibile appena scat-

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tata, avvicina e rende complice il soggetto della fotografia con colui che l’ha scattata, ren-
dendo coinvolgente e diretta questa esperienza. La disponibilità di attrezzature in grado di
realizzare fotografie digitali di elevatissima qualità in digitale consentono già oggi di fruire e
di far fruire tutti questi vantaggi senza limiti.
6. Fotografia documentale: tutte le situazioni che prevedono l’uso di un’immagine per docu-
mentare un evento, per comprovare un fatto, per mostrare a distanza un determinato effet-
to, traggono vantaggio dal digitale. Pratiche assicurative (verifiche di danni, preventivi, peri-
zie), riprese per location, casting, già oggi utilizzano la ripresa digitale con profitto, e in pro-
spettiva tali utilizzi si allargheranno ulteriormente.
7. Fotografia di cronaca: questa è l’area che maggiormente ha tratto vantaggio del digitale.
Riprese di eventi di interesse giornalistico, documentazione sportiva, sfilate di moda, repor-
tage da luoghi distanti dai grandi centri. Ormai è consueta, in tutte queste aree, la ripresa
diretta in digitale e la trasmissione via reti telematiche (connessione a cellulari, modem,
satellite, onde radio).
8. …varie ed eventuali: è praticamente impossibile pensare ad un’applicazione fotografica che
non tragga vantaggi considerevoli dal digitale. Ciò non significa che tutte le attività profes-
sionali in breve faranno uso esclusivo di ripresa digitale, ma bensì che non vi siano più set-
torialità nel suo uso; si tratta solo di una scelta, di una valutazione dei vantaggi e dei limiti,
di opportunità. Ma che l’interesse e l’approfondimento verso la fotografia digitale dovrà
coinvolgere tutti, è dato anch’esso per scontato.

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SEZIONE BASE - CAPITOLO 2

Come si forma
l’immagine digitale?

La luce

Dalla luce ad un mondo di pixel e di bit

Definizione di Pixel, di bit, di Byte

Immagine Raster : una mappa di pixel

Come calcolare la risoluzione

La formazione del colore con la sintesi additiva (RGB)

L’immagine vettoriale

Bit/colore
LA LUCE

La luce è l’elemento primario sia della fotografia analogica che della fotografia digitale, la
materia prima del nostro lavoro. Quello che cambia, da un sistema all’altro, sta ovviamente
nel come vengono “catturate” le radiazioni luminose riflesse dai soggetti che desideriamo
riprendere: tramite alogenuri d’argento nel primo caso, mediante un sensore nel secondo
caso.
Altra differenza, parlando di rapporto con la luce tra sistemi di ripresa su pellicola e ripresa
digitale, sta nella sensibilità allo spettro: le pellicole fotografiche sono - nelle versioni più con-
suete, ovvero quelle pancromatiche - sensibili ad uno spettro di radiazioni paragonabile all’in-
circa a quello che viene percepito del nostro occhio umano (dal violetto al rosso, ovvero da
400 a 700µ), anche se leggermente allargata allo spettro dell’ultravioletto che, infatti, viene fil-
trato debitamente sia all’interno degli strati della pellicola che, spesso, anche in fase di ripre-
sa tramite opportuni filtri anti-UV. I sensori sono, invece, molto sensibili alle radiazioni infraros-
se e tale caratteristica impone l’uso di un filtro che tagli tutte le radiazioni oltre i 700µ per non
influire sulla riproduzione tonale dei soggetti da riprendere.

DALLA LUCE AD UN MONDO DI PIXEL E DI BIT

La luce raggiunge il sensore, cuore di un sistema di ripresa digitale, tramite un sistema ottico
(obiettivo). Va detto, a titolo di inciso, che è diffusa nel settore l’idea che da un obiettivo desti-
nato alla ripresa digitale non sia richiesta la medesima qualità richiesta da un’ottica destinata
alla ripresa su pellicola, ma questo è assolutamente falso; vero, invece, che alcuni costruttori
hanno sviluppato o stanno sviluppando ottiche specifiche per la ripresa digitale, le quali sono
ottimizzate per rispondere meglio alle esigenze della riproduzione digitale ma, in ogni caso, la
ripresa digitale richiede quanto meno la stessa qualità richiesta da una pellicola, per fornire il
miglior risultato dal punto di vista qualitativo.
Tornando al nostro tragitto “luminoso”, le radiazioni che raggiungono il sensore vengono con-
vertite da esso in flussi elettrici direttamente proporzionali alla quantità di luce ricevuta. Si
tratta di uno degli elementi più importanti dal punto di vista qualitativo: il sensore deve essere
in grado di produrre una corrente elettrica priva di disturbo sia nelle zone più intense (laddove
ha ricevuto più luce, ovvero nelle zone più chiare del soggetto) che in quelle più deboli (zone
scure) e uno degli elementi per definire la qualità dei sensori sta proprio nell’analisi del loro
comportamento in questi due estremi. Alcune costruzioni prevedono soluzioni per eliminare o
ridurre i difetti nella riproduzione dei punti più intensi della luce che altrimenti vengono ripro-
dotti sotto forma di aloni e non di punti nitidi (difetto denominato “blooming”) e per ridurre il
“rumore” delle zone d’ombra, che solitamente si ottiene raffreddando in modo forzato, oppure
usando soluzioni costruttive di altro genere, il sensore.

DEFINIZIONE DI PIXEL, BIT, BYTE

Sono alcuni dei termini più usati nel mondo dell’immagine digitale, e non hanno in realtà così
tanti segreti come in molti ancora credono.

Il PIXEL - nome derivato dal termine: Picture Element - è l’elemento primario che descrive
un’immagine digitale di tipo “raster” (esiste un altro tipo di immagine non creata da pixel, che
si chiama “vettoriale”, come vedremo più avanti); rappresenta, quindi, la base delle fotografie
digitali, siano queste acquisite con uno scanner o frutto di una ripresa digitale diretta. Il pixel
potrebbe, in termini metaforici, essere definito la “grana” dell’immagine digitale. Le informa-
zioni contenute all’interno di ogni singolo pixel sono influenzate, come vedremo qui di segui-
to, dal campionamento A/D che il nostro sistema digitale ci fornisce; queste informazioni

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(possiamo chiamarli dati, se volete) possono essere 8, 10, 12 per ogni pixel e si esprimono
con un valore che viene chiamato BIT. In pratica il “computer” legge l’informazione di un pixel,
analizzando i singoli “bit” che lo descrivono.
Il BYTE non è altro che un “aggregamento” di 8 bit, il che significa che se un pixel è formato
(come spesso avviene) da 8 bit, si può anche dichiarare che quel determinato pixel è formato
da 1 byte di informazione. Il byte, in quanto tale, serve forse a poco nella spiegazione del
come i pixel vengono interpretati dal computer (dire 8 bit o 1 byte è la stessa cosa, e sembre-
rebbe quindi un’equivalenza inutile). Nella realtà, il linguaggio dei computer parla di Kilobyte,
di Megabyte, di Gigabyte, tutti valori che derivano direttamente dal byte, e quindi è bene abi-
tuarsi anche al byte per poter comprendere più facilmente i calcoli che vedremo più avanti
per calcolare la risoluzione.

È bene segnalare che


1024 byte formano un Kilobyte (Kb)
1024 Kb formano un Megabyte (Mb o “mega”)
1024 Mb formano un Gigabyte (Gb, o “giga”)

e che, se proprio volete saperlo…


1024 Gb formano un Terabyte (Tb, o “tera”).

IMMAGINE RASTER: UNA MAPPA DI PIXEL

La caratteristica che influenza maggiormente la qualità dell’immagine, ed anche l’immaginario


collettivo, è legato alla risoluzione spaziale del sensore, ovvero al numero di celle fotosensibili
che sono disponibili sull’area del sensore. Un numero elevato di celle è in grado di suddivide-
re l’immagine in più punti, consentendo quindi di catturare un numero superiore di dettagli. E’
corretto interpretare un’immagine digitale come ad una mappa composta da tanti quadratini (i
pixel) che suddividono l’immagine in piccoli tasselli. Appare ovvio che se la nostra immagine
viene rappresentata da una mappa di 2 milioni di tasselli ci fornirà una quantità di elementi di
informazione inferiore rispetto ad una mappa di 6 milioni di pixel. Nella realtà, però, la quantità
di pixel è determinante non in termini assoluti, ma in funzione della distanza di osservazione,
del fattore di ingrandimento al quale vorremo sottoporre l’immagine e della “qualità” che viene
richiesta dal mezzo che useremo per la visualizzazione dell’immagine (una stampa, un moni-
tor, un fotocolor).
Per essere ancora più corretti, esiste un rapporto diretto e “fisico” tra la quantità di pixel
necessari per visualizzare correttamente un’immagine digitale in una determinata area e la
capacità percettiva dell’occhio umano di distinguere o meno i singoli elementi che compon-
gono l’immagine. Un esempio pratico ci viene dalle pubblicità stampate sui cartelloni delle
strade: finché li osserviamo a media o grande distanza, non siamo in grado di percepire che
l’immagine è prodotta da tanti punti di un retino, ma quando li osserviamo da vicino “scopria-
mo” la tramatura evidentissima di tale riproduzione. L’occhio umano, infatti, non è in grado di
distinguere singoli elementi di un’immagine se essi sono più piccoli di una determinata
dimensione, e quindi li fonde insieme ottenendo la percezione di un “tono continuo”. La
dimensione dei singoli pixel non dovrebbe mai superare tale soglia, quindi è necessario inter-
rogarsi sulle applicazioni previste per le immagini digitali che andremo a produrre, sia per evi-
tare la carenza (che porterebbe a vedere ad occhio nudo la “tramatura” della mappa dei
pixel), sia l’eccesso (che ci impone di “trasportare” una quantità eccessiva ed inutile di infor-
mazioni, quindi di bit, byte, Kb, Mb…). La risoluzione, che in seguito vedremo come calcolare,
è il risultato della definizione della QUANTITÀ di informazioni necessarie per una determinata
applicazione, e per quanto riguarda il digitale, non è direttamente collegata alla QUALITÀ del-

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l’immagine in termini assoluti.

COME CALCOLARE LA RISOLUZIONE

Abbiamo visto che un’immagine raster è composta da pixel, e che la quantità necessaria di
pixel è influenzata dal rapporto tra dimensione finale dell’immagine, distanza di visione e tipo-
logia di mezzo usato per la visualizzazione. Partiamo da quest’ultimo elemento, perché ci
consente di fare subito un “distinguo” che ci faciliterà la comprensione successiva.
Nominalmente, è stato determinato che per ottenere una stampa di buona qualità, da osser-
vare ad una distanza normale di lettura (40/50 cm), sono necessari, circa, 300 punti per polli-
ce. Il condizionamento dei valori espressi in “pollici”, invece che in centimetri, dovremo tener-
celo per tutta la vita, perché i primi che hanno pensato di fare studi su questo tema usavano
comunemente i valori espressi in pollici, e non in centimetri. Poco male, se ci teniamo in
mente che 1” (pollice) è rappresentato da 2,54 cm. Questo significa, per essere molto pratici,
com’è necessario quando ci si esprime con calcoli matematici a persone che di professione
si occupano di immagine e di creatività, che:
una riga della lunghezza di 1” (2,54 cm) viene formata da 300 punti.

E che
in un quadratino di 1x1 pollice (1” pollice quadrato) potremo contare:
300x300 punti = 90.000 punti.

Per fare un confronto con dimensioni più reali, più vicine alla realtà fotografica, tutti noi sap-
piamo che la più conosciuta tra le pellicole di grande formato è il 4x5 pollici, ovvero una
dimensione in centimetri pari a 10,2x12,7 cm. Se dovessimo acquisire con uno scanner que-
sta pellicola per poi riprodurla sulla stampa in formato 1:1 (senza alcun ingrandimento, come
se la riproducessimo a “contatto”) alla risoluzione di 300 punti per pollice, dovremo fare que-
sto calcolo:

4 pollici x 300 punti = 1200 punti


5 pollici x 300 punti = 1800 punti
Questo significa che l’area complessiva dei punti richiesti è di
1200x1800 = 2.160.000 punti/immagine

Questi “punti” sono ovviamente dei “pixel”, i punti/immagine che se descritti con un campio-
namento “normale”, contengono 8 bit (o 1 byte) ciascuno (vedere sezione dedicata alla
profondità dei bit).
Proseguendo il nostro calcolo (ma siamo quasi alla fine…), se i nostri 2.160.000 pixel sono
formati ciascuno da 1 byte di informazione ciascuno, allora:
2.160.000 pixel = 2.160.000 byte
Abbiamo finalmente l’equivalenza tra numero di pixel e dimensione del file che otteniamo,
che, se seguiamo le equivalenze sopra citate, scopriamo che:
2.160.000 byte: 1024 = 2110 Kb
se desideriamo infine avere il valore in Mb, ovvero nei termini più consueti, dovremo ulterior-
mente dividere questo valore per 1024, ottenendo:
2110: 1024 = circa 2 Mb.
Un’immagine stampata quindi a 300 punti per pollice, di dimensione pari a 4x5” (10,2x12,7
cm) occupa, all’incirca 2 Mb.

SCORCIATOIA: Se non siete appassionati della precisione assoluta di calcolo, e volete avere
una valutazione obbiettiva, ma pratica, della dimensione, in Mb, di un’immagine digitale e ne

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conoscete il numero di pixel (per esempio, sapete che una fotocamera digitale usa un senso-
re da 6 milioni di pixel), potete tranquillamente, con un briciolo di approssimazione, valutare
che: 1 milione di pixel = 1 Mb.
Come potete vedere dai calcoli sopra riportati, non è esattamente così, ma il risultato è simile
e… si risparmia un sacco di tempo.
Attenzione: fino a questo momento, abbiamo parlato di immagini riprodotte con un’unica
mappatura di pixel, anche definita ad 1 canale. Questo significa che, nella realtà, noi abbiamo
riprodotto un’immagine solo considerando le componenti della densità (chiaro/scuro). Per
dirla più banalmente, il calcolo che abbiamo sopra spiegato si riferisce ad un’immagine in
bianco e nero.
La risoluzione, così come l’abbiamo calcolata, si riferisce al parametro (300 punti) che è quel-
lo definito nominalmente per una stampa di qualità. Questo parametro cambia, però, se si
usano le immagini per altre applicazioni. Qui di seguito riportiamo alcuni valori (sempre nomi-
nali) di risoluzione per applicazioni specifiche:

Stampe d’arte 400


Stampa su periodici/rotocalchi 225
Stampa su quotidiano 90
Monitor 72

Cosa significa tutto questo? Che se dobbiamo usare le immagini per applicazioni che richie-
dono una risoluzione inferiore, possiamo acquisire un numero inferiore di pixel, oppure - a
parità di numero di pixel - si potrà ottenere una riproduzione più grande rispetto a quelle che
potremmo ottenere ad una risoluzione più alta.
Non ci stuferemo mai di ricordare che MAGGIORE RISOLUZIONE nel digitale non significa
disporre di MIGLIORE QUALITA’, ma di poter ottenere IMMAGINI PIU’ GRANDI, a parità di
qualità finale.

LA FORMAZIONE DEL COLORE CON LA SINTESI ADDITIVA (RGB)

Una volta che abbiamo compreso il calcolo della risoluzione pixel di base x pixel di altezza x
indice qualitativo (per esempio: 300 punti) sappiamo che questo calcolo ci fornisce un valore
espresso in pixel e che ci definisce la risoluzione di un “canale”, ovvero dell’immagine acqui-
sita nelle sue componenti di densità, ma non di colore. Come fa un sistema di acquisizione
digitale a riprodurre il colore? Unendo le componenti di densità relative alle tre componenti
cromatiche primarie della sintesi additiva: il blu, il verde ed il rosso.
Maggiori informazioni sulle tecniche di acquisizione di una fotocamera digitale, di un dorso o
di uno scanner le potete trovare nella sezione dell’input, direttamente collegata a questo
discorso ovviamente, ma quello che ci preme è spiegare che, dal punto di vista della risolu-
zione, per riprodurre le immagini a colori dovremo sommare i tre canali - quello del blu, del
verde e del rosso - come se avessimo tre fette di prosciutto in un panino.
Se riprendiamo l’esempio citato nel paragrafo precedente, avremo:
2.160.000 pixel x canale = 2.160.000 x 3 canali (RGB) = 6.480.000 pixel
La nostra immagine a colori (RGB) alla profondità di 8 bit (8 bit per pixel) occuperà quindi
6.480.000 byte, e quindi all’incirca 6 Mb (usando la logica della “scorciatoia” sopra citata.
Quando si parlerà di immagini riprodotte in quadricromia (CMYK), scopriremo che dovremo
confrontarci non con 3 canali, ma con quattro (come ben chiarisce il termine “quadricromia”)
e che quindi la dimensione del nostro file crescerà di un ulteriore canale, e quindi, sempre
riferito all’esempio di cui sopra, avremmo: 2.160.000 x 4 canali = 8.640.000.

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TRANQUILLIZZATEVI: tutti questi calcoli, che sembrano complessi, in realtà sono molto
semplici quando si capiscono nella loro logica. Per fornirvi ulteriori sicurezze vi diciamo che:
1. i calcoli si possono fare in automatico, aprendo un qualsiasi programma di elaborazione di
immagini: si inserisce la dimensione che si desidera ottenere e la risoluzione di uscita (per
esempio, i soliti 300 punti) ed ecco, per magia, che otterrete la dimensione, che potrà essere
espressa in pixel, in Mb, oppure come preferirete.
2. per avere sotto mano una serie di dati che vi permettono di inquadrare il problema della
risoluzione, eccovi una tabella che vi potete trascrivere o scaricare, per averla sempre sotto
mano.

TABELLA CALCOLO RISOLUZIONE PER IMMAGINI IN BIANCO E NERO.


RAPPORTO TRA DIMENSIONE, RISOLUZIONE, DIMENSIONE IN MB (O KB)
E NUMERO PIXEL

DIMENSIONE RISOLUZIONE Kb/Mb Pixel

10x15 cm 300 2Mb 1181 x 1772

10x15 cm 225 1,1 Mb 886 x 1329

10x15 cm 72 118 Kb 283 x 425

13 x 18 cm 300 3,11 Mb 1535x2126

13 x 18 cm 225 1,75 Mb 1152 x 1594

13 x 18 72 200 kb 384 x 531

21 x 29,7 (A4) 300 8,3 Mb 2480 x 3508

21 x 29,7 (A4) 225 4,6 Mb 1860 x 2631

21 x 29,7 (A4) 72 490 Kb 595 x 842

42 x 29,7 (A3) 300 16,6 Mb 4961 x 3508

42 x 29,7 (A3) 225 9,3 Mb 3720 x 2631

42 x 29,7 (A3) 72 980 Kb 1191 x 842

Per le immagini a colori, sarà sufficiente moltiplicare x 3 la dimensione in Mb/Kb.


Per esempio:

A4 (21x29,7 cm) 300 Kb/Mb = 8,3 x 3 (R, G B) = 24,9 Mb

SEZIONE BASE - CAPITOLO 2 - Come si forma l’immagine digitale? 5


L’IMMAGINE VETTORIALE: QUANDO I PIXEL NON C’ENTRANO

Altro tipo di immagine, ma non composta - come nel caso delle immagini raster - da una
mappa di pixel, è quella vettoriale. La differenza sostanziale sta nel fatto che essa viene
descritta, come dice anche il suo termine, da vettori e non da pixel, e questa caratteristica
consente di essere esente da quella che è una definizione di “risoluzione”: un vettore è un
segno che viene calcolato descrivendo il suo punto di inizio e quello di fine; ma se modifichia-
mo tale distanza (banalmente, ingrandendo o rimpicciolendo l’immagine) i valori che descrivo-
no tale vettore vengono ricalcolati in funzione di questa variazione, ma la dimensione del “file”
non viene condizionata dalla dimensione di visualizzazione della stessa. Viceversa, un’imma-
gine raster, per poterla riprodurre in dimensioni maggiori, richiede un maggior numero di pixel
e, di conseguenza, la dimensione del file aumenta in modo considerevole.
Le immagini vettoriali, dal punto di vista “visivo” sono di fatto dei disegni: non esiste infatti
nessun sistema di ripresa digitale, né tantomeno scanner che siano in grado di creare imma-
gini vettoriali; nel caso venga riprodotta una stampa con un disegno, pur creata in modo vet-
toriale, con uno scanner o con una fotocamera digitale, si otterrà una versione raster (fatta di
pixel) della riproduzione su carta del disegno vettoriale. E’ consentito, invece, vettorializzare
un’immagine raster, usando opportuni programmi, ovvero creare un tracciato partendo da
un’immagine. Questa tecnica è molto utile quando si debbono riprodurre marchi e logotipi,
partendo da un’immagine acquisita con uno scanner. Alcune tecniche consentono di vettoria-
lizzare con buoni risultati anche delle immagini fotografiche ricche di dettaglio e a colori, ma
ovviamente il risultato che si ottiene è quello di un “disegno” derivato da una fotografia.
Le immagini vettoriali, tra le quali troviamo non solo i disegni, ma anche gli elementi di grafica
delle pagine stampate (titoli, forme grafiche, testi, lettere), per essere riprodotte correttamente,
richiedono un “interprete” per la stampa, denominato RIP, in grado di “leggere” gli elementi
che sono descritti in modo vettoriale all’interno della pagina. Nella quasi totalità dei casi, que-
sto “interprete” utilizza un linguaggio che si chiama “PostScript”, sviluppato dalla Adobe.

BIT / COLORE

Una componente molto importante nella riproduzione dell’immagine è però successiva al sen-
sore: la corrente elettrica che il sensore ha ottenuto partendo dalle radiazioni luminose che
l’hanno colpito viene inviata ad un circuito denominato A/D converter che si occupa di tra-
sformarla in dati binari, ovvero in bit. Questa conversione può essere più “precisa” o più
“grossolana” in funzione della tipologia di campionamento del quale il convertitore è capace:
8 bit/colore, 10 bit/colore, eccetera. In pratica, ogni singola informazione (pixel) può essere
descritta da un valore scelto per esempio tra:
2 valori - immagine campionata a 1 bit (nero e bianco)
256 valori - immagine campionata a 8 bit
4096 valori - immagine campionata a 12 bit
Appare evidente che il flusso elettrico, trasformandosi in dato digitale, sarà quanto più preciso
e fedele al soggetto originale, più ricco di sfumature se acquisito con un sistema in grado di
campionare ogni singola informazione in oltre 4000 variabili rispetto ad un altro che può ope-
rare la scelta su 256 valori disponibili.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 2 - Come si forma l’immagine digitale? 1


SEZIONE BASE - CAPITOLO 3

Il flusso digitale

I processo di digitalizzazione
e di gestione dell’immagine

Il computer come elemento centrale


del processo digitale
I PROCESSO DI DIGITALIZZAZIONE E DI GESTIONE DELL’IMMAGINE

Quest’area vorrebbe raccogliere gli elementi di base di tutte le varie sezioni che vengono
approfondite in questo spazio (input, output, elaborazione). Nella realtà, però, così facendo
rischieremmo di ripetere, inutilmente, molti dei concetti che esprimiamo negli altri capitoli, e
non ha senso vista che l’interattività di Internet consente facilmente di passare da un argo-
mento all’altro senza imporre una lettura sequenziale.
C’è però ancora qualcosa da dire sul concetto del flusso, per poter rispondere a tutte quelle
domande che hanno, alla base, il dubbio per eccellenza: conviene passare al digitale?
Per poter rispondere senza apparire come “consiglieri di parte”, ma come valutatori obiettivi,
bisogna fare una serie di considerazioni di base. La prima sta appunto nell’uscire dalla com-
petizione e dall’effetto “schieramento”: essere a “favore” o “contrari” al digitale non porta a
nulla e, specialmente, non fa guadagnare clienti e accrescere il fatturato.
Quello che il mercato sta richiedendo è di poter disporre di strumenti per comunicare con
maggiore flessibilità, dinamicità, rapidità, efficienza; il fatto che la tecnologia digitale risponda
a questo requisito non deve confonderci: si sta parlando di un mezzo, non di un fine.
Il flusso digitale è più importante dei singoli elementi dell’input, dell’output, dell’elaborazione.
L’importante è entrare nel circuito digitale, e bisogna comprendere che non sempre l’ingresso
avviene sempre dalla stessa “porta”. Il flusso digitale non è rappresentabile — considerando
una metafora grafica - da una strada a senso unico, e nemmeno da una strada a doppio
senso: a volte si “entra” nel circuito dalla parte iniziale del percorso, a volte dal fondo, a volte
a metà strada. Per alcune operazioni, la fase di input è quella più impegnativa e costosa (pen-
sate all’impegno necessario per la digitalizzazione di un archivio di 1 milione di immagini), a
volte i “documenti” sono già in formato digitale, ma lo sforzo sta nell’indicizzarli, per poterli
recuperare; a volte, invece, il problema è eseguire in automatico delle lavorazioni di modifica
delle immagini, oppure eseguire delle stampe.
Di una cosa bisogna essere certi: che il digitale non è vantaggioso perché, apparentemente,
ci permette di risparmiare delle lavorazioni o dei materiali, ma perché ci consente di lavorare
con una logica produttiva ottimizzata e più rapida ed efficiente, ci permette di raggiungere il
risultato potendolo “pilotare” e “misurare” con maggiore precisione, ci elimina di colpo una
serie di colli di bottiglia. Un singolo elemento digitale all’interno di un flusso analogico può
portarci piccoli vantaggi, ma il vero guadagno l’abbiamo quando la gestione digitale diventa
predominante, se non globale.
Se, come vedremo più avanti, possiamo equiparare l’immagine ad un’informazione (nel senso
più stretto, ovvero come viene interpretata da un computer: dati da memorizzare e da rendere
disponibili quando richiesti), bisogna comprendere che, alla base della gestione delle informa-
zioni digitali - il mondo che in gergo viene definito Information Technology —, si sta vivendo la
più importante rivoluzione economica dopo quella industriale. Ormai, anche in Italia, è conso-
lidato lo scenario di un nuovo modo di intendere l’economia (denominata New Economy, o
Digital Economy), che si basa sul potere derivato dalla capacità di disporre di strumenti per
monitorare, elaborare, integrare i dati che sono il frutto delle attività commerciali ed aziendali.
L’immagine si integra sempre di più in questi processi di gestione dell’informazione, purché
possa essere fruita tramite mezzi informatici (e quindi deve essere digitale): dobbiamo essere
in grado di rispondere a questa convergenza di media, che è la reale richiesta del mercato, e
lo potremo fare al meglio se impareremo ad essere noi stessi utenti diretti di un flusso di infor-
mazioni digitali; ne potremo scoprire i vantaggi, le difficoltà, i limiti, sapremo quali sono i reali
obiettivi di questa evoluzione/rivoluzione.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 3 - Il flusso digitale 1


IL COMPUTER COME ELEMENTO CENTRALE DEL PROCESSO DIGITALE

Esiste un problema che deve essere ancora risolto: il rapporto psicologico nei confronti del
computer che finora è stato associato, specialmente dai professionisti che hanno scelto per-
corsi di creatività come i fotografi, ad un’attività fredda, fatta di conti e di calcoli incomprensi-
bili, di processi di automatismi. Il problema è che, escluse poche eccezioni, che non fanno
altro che confermare la regola, la forma dei computer si è ammorbidita, la potenza è cresciu-
ta, ma sostanzialmente essi sono rimasti molto simili a quei computer che una volta potevano
fare solo i conti, e che si trovavano solo negli uffici, nelle banche, negli enti e negli istituti.
Se pensiamo ai “computer” come a dei “computer”, la freddezza prevale, inossidabile, e non
sarà certo un programma multimediale o un collegamento ad Internet che ci farà cambiare
approccio.
La chiave è quella di pensare, finalmente, al computer di oggi come ad uno strumento che
quasi nulla ha a che vedere con quello di ieri (ricordate i monitor monocromatici con le scritte
verdi-spacca-occhi?). Il computer, oggi, più che una “macchina da calcolo”, può essere assi-
milato in modo simile ad un telefono: qual è il fotografo che si trova a disagio nell’usare il
telefono che è, in prima battuta, uno strumento di comunicazione? Il computer è un telefono,
ma un telefono così vicino al mondo dell’immagine che ci consente di comunicare anche
attraverso le immagini: il web ne è la più lampante dimostrazione.
Bando quindi ai vecchi preconcetti, il “telefono-computer-che-comunica-per-immagini” non
può non trovare un posto centrale di uno studio fotografico, e non può essere più uno stru-
mento che non trova spazio all’interno della nostra borsa degli “attrezzi” (macchina fotografi-
ca, obiettivi, telefono cellulare, computer: la borsa del fotografo, oggi, contiene tutto questo).
Posto centrale del nostro flusso di lavoro, crocevia tra produzione, archivio, spedizione, ricevi-
mento: il computer è il punto di transito del flusso digitale, ed anche del lavoro del fotografo.
E non per questo saremo meno creativi, meno capaci di realizzare bellissime immagini, meno
affascinanti nel nostro essere interpreti del costume, della cultura, dell’estetica. Semmai, ne
potremmo trarre solo dei vantaggi: il digitale, il computer, aggiunge potenzialità e non ci impo-
ne, malgrado la sua famosa “rigidità”, alcuna rinuncia.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 3 - Il flusso digitale 2


SEZIONE BASE - CAPITOLO 4

Input

Definizione di Input

Fotocamere digitali

Scanner piani

Scanner a tamburo

Scanner per diapositive

Altri tipi di input


DEFINIZIONE DI INPUT

A grandi linee, si definiscono col termine “input” tutte quelle procedure e tecniche che con-
sentono di “inserire” dei contenuti all’interno di un computer, ovvero il passaggio da elemento
fisico (analogico) a dato digitale. Teoricamente si tratta di “input” anche quando si trasferisco-
no da una memoria all’altra dei dati già digitali (da un floppy alla memoria di un computer, per
esempio), e si tratta anche di input quando si digitano (con le dita…) dei dati, usando una
tastiera, così come stiamo facendo in questo momento, redigendo queste note. Nella pratica,
però, in questo specifico ambito, quando parliamo di “input” intendiamo la digitalizzazione di
un’immagine, partendo da un originale fotografico (un negativo, una diapositiva, una stampa)
utilizzando uno scanner, oppure dalla riproduzione di un soggetto reale, usando una fotoca-
mera, un dorso o una videocamera digitali. In tutti i casi che affronteremo, pertanto, stiamo
parlando di un’operazione che prevede la conversione di una radiazione luminosa, ovvero la
luce che viene riflessa o trasmessa dall’oggetto/soggetto, in una matrice di pixel alla quale
vengono assegnati dei valori numerici.

Maggiori informazioni sulla digitalizzazione li potete trovare nel capitolo precedente, dedicato
alla formazione dell’immagine digitale
Riassumendo, quindi, in questa sezione parleremo di input prendendo in esame le seguenti
tecnologie:

Fotocamere e dorsi digitali


Scanner piani
Scanner a tamburo
Scanner per diapositive

Dedicheremo poi alcune note nel paragrafo che abbiamo definito:


altri tipi di input all’interno del quale possiamo trovare raccolte altre tipologie di strumenti e di
tecnologie per l’acquisizione digitale di immagini.

FOTOCAMERE DIGITALI

In questo spazio ci occupiamo di definire le caratteristiche tecnologiche ed operative dei


sistemi di ripresa digitale, ovvero delle fotocamere e dei dorsi che consentono l’acquisizione
delle immagini fotografiche senza pellicola.
Differenze tra fotocamere e dorsi digitali
La prima considerazione da fare, per essere chiari, è stabilire le differenze costruttive e le spe-
cificità tra una fotocamera e un dorso digitale.
Entrambi i sistemi nascono per realizzare fotografie digitali, ma la fotocamera è un’apparec-
chiatura che nasce per produrre esclusivamente immagini digitali, mentre il dorso nasce come
un accessorio che trasforma una normale fotocamera di medio o grande formato in un appa-
recchio digitale.
Le fotocamere digitali possono anche derivare da apparecchi fotografici “tradizionali”, come
nel caso dei vari modelli professionali Kodak DCS nati sulla base di apparecchi reflex 35 mm,
ma sono modificati in fase di produzione per rispondere alle esigenze esclusive della ripresa
digitale.
I dorsi digitali, invece, si adattano agli apparecchi che nascono per la fotografia tradizionale,
integrando tutta la componentistica per la ripresa digitale in un unico blocco che si aggancia
o si inserisce sul retro dell’apparecchio stesso (da qui, il termine “dorso”). È ovvio che non
tutti gli apparecchi fotografici consentono l’applicazione di un dorso: lo sono solo quelli predi-

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 1


sposti alla sostituzione del magazzino porta-pellicola (come nel caso degli apparecchi medio
formato o delle fotocamere a banco ottico).
I vantaggi delle fotocamere digitali professionali stanno nella loro compattezza (analoga ad
una reflex “tradizionale” sia nella dimensione che nel peso), nella loro completa indipendenza
(dispongono di alimentazione propria e di sistemi di registrazione delle immagini su schede di
memoria ad elevata capienza), nella velocità di scatto (fino a 12 scatti in 4 secondi per i
modelli più rapidi, dedicati alla fotografia sportiva).
I vantaggi dei dorsi digitali, rispetto alle fotocamere digitali, sono legati alla possibilità di
disporre, in certi modelli, di maggiore risoluzione (dorsi a scansione) e per certe applicazioni,
utilizzando soluzioni a tre/quattro scatti, una potenziale maggiore qualità di riproduzione.

TECNOLOGIE PER LA RIPRESA DIGITALE

Fotocamere e dorsi riproducono digitalmente le immagini utilizzando differenti metodi;


eccoli nel dettaglio:

• Scatto unico
• Tre scatti
• Quattro scatti (movimento piezoelettrico)
• Scansione.

Gli apparecchi a scatto unico sono quelli “più amati” tra i fotografi perché sono quelli che
consentono di trarre tutti i vantaggi della ripresa digitale, senza dover accettare cambiamenti
radicali nell’operatività quotidiana. È possibile riprendere ogni tipo di soggetto: fermo, in
movimento, in esterni ed in interni, si possono usare tutti i tipi di illuminazione, compresa la
luce flash. Il tempo di esposizione, utilizzando un sistema di ripresa a scatto unico (definito, in
inglese, OneShot) è paragonabile a quello che ci verrebbe richiesto utilizzando una pellicola di
medio-bassa sensibilità per alcuni modelli e addirittura di alta-altissima sensibilità per i
modelli dedicati alla fotografia sportiva. I sistemi di ripresa OneShot utilizzano sensori CCD
“pancromatici” che sono caratterizzati da una matrice di pixel filtrata da una “griglia” di punti
blu, verdi e rossi (pensate a dei “micro-filtri” anteposti alle singole cellette del sensore che
permettono di far passare solo il proprio colore, mentre riflettono le altre radiazioni luminose);
in questo modo, il colore del soggetto viene riprodotto correttamente in un unico scatto.
Rispetto alla pellicola fotografica, che dispone di strati sensibili rispettivamente al Blu, al
Verde e al Rosso, il sensore CCD dei sistemi OneShot effettuano la filtratura cromatica tramite
questa griglia.

Gli apparecchi a 3 scatti si posizionano a metà strada tra la massima flessibilità dei OneShot
e la massima qualità e risoluzione offerta dai modelli a scansione, che analizziamo più avanti.
Utilizzano sensori CCD del tutto analoghi a quelli dei sistemi OneShot, ma sono di tipo
“monocromatico”, cioè non dispongono della griglia formata dai puntini blu, verdi e rossi. La
riproduzione del colore non avviene tramite un unico scatto, ma bensì grazie a tre esposizioni,
ciascuna delle quali viene realizzata anteponendo rispettivamente il filtro blu, il filtro verde e
quello rosso. L’immagine definitiva viene quindi composta dalla fusione (ottenuta automatica-
mente dal software che gestisce l’acquisizione) del “canale” dei tre colori primari, e non da un
unico canale (il “canale” è fornito dalla quantità di informazioni letta dai pixel del sensore),
come nel caso della ripresa OneShot. Ciò significa che la qualità complessiva della ripresa è
potenzialmente superiore; per contro, con questo tipo di apparecchiatura non è possibile
riprendere a colori soggetti in movimento, visto che le tre esposizioni, pur realizzate con rapi-
da cadenza, non consentono ovviamente di congelare soggetti non perfettamente fermi.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 2


Gli apparecchi a 4 scatti sono concettualmente tra i più nuovi e si basano su un sistema pie-
zoelettrico che “sposta” il sensore, eseguendo 4 riprese in rapidissima successione (blu,
rosso, e 2 verdi). Utilizzano gli stessi sensori degli apparecchi OneShot (quelli dotati della gri-
glia con i micro-punti colorati), ma spostandosi lateralmente e dall’alto verso il basso di un
pixel per ogni scatto, riproducono quattro volte la stessa scena sommandone le informazioni
(pixel). Garantiscono potenzialmente una qualità di immagine superiore agli apparecchi a
scatto unico, ma non possono eseguire (come succede con i sistemi a tre scatti) riprese di
soggetti in movimento. Alcuni modelli a 4 scatti consentono anche la funzione OneShot.

Gli apparecchi per la ripresa a scansione sono, dal punto di vista della costruzione di base,
analoghi ad uno scanner piano (dai quali deriva il loro nome): un sensore CCD ad alta risolu-
zione e composto da 3 righe di pixel (filtrate rispettivamente di blu, verde e rosso), si muove
parallelamente al piano di messa a fuoco (quello che in ambito fotografico tradizionale si defi-
nirebbe “piano pellicola”, ma che in questa sede si tratterebbe di una definizione quantomeno
inopportuna…), coprendo un’area di medio-grandi dimensioni, dal 3x3 cm al 7x12 cm a
seconda dei modelli. Consentono di ottenere files di grandi dimensioni (anche diverse centi-
naia di Mb); a loro svantaggio, i tempi di esposizione molto lunghi (diversi secondi, a volte
anche minuti), la necessità di utilizzare luce continua perfettamente stabilizzata e, possibil-
mente, luce tipo HMI. Non è possibile, con un dorso a scansione, effettuare la ripresa di sog-
getti in movimento, ed anche di soggetti che possono deperire se esposti ad una fonte molto
elevata di luce per diverso tempo (il classico esempio è il gelato, ma non solo, ovviamente).

DIFFERENZE TRA FOTOCAMERE DIGITALI PROFESSIONALI E CONSUMER

Sul mercato oggi esistono fotocamere di fascia professionale ed altre di fascia consumer e i
prezzi tra queste categorie sono molto differenti tra loro. Le motivazioni del costo più elevato
degli apparecchi professionali sono influenzate da diversi fattori, tra i quali vale la pena
segnalare:

1. Dimensione del sensore: nelle fotocamere professionali, il sensore è molto più grande
rispetto alle fotocamere consumer, per poter disporre di un’area compatibile con le migliori
ottiche, nate per gli apparecchi per i formati standard delle pellicole;
2. Controllo qualitativo: i sensori destinati alle fotocamere professionali sono sottoposti ad
una serie di test rigidissimi, per garantire tolleranze molto ristrette;
3. Velocità di scatto: i modelli professionali dispongono di componentistica elettronica che
consente la ripresa in rapidissima successione, fondamentale in moltissime attività fotogior-
nalistiche;
4. Connessioni super veloci: Le fotocamere professionali dispongono di connessioni che con-
sentono di scaricare ad alta velocità le immagini dalla memoria della macchina al computer
(per esempio, la nuova e velocissima connessione FireWire, disponibile con le fotocamere
digitali professionali Kodak DCS di ultima generazione).
5. Autonomia: le fotocamere professionali dispongono di un’autonomia molto elevata, sia per
quanto riguarda il numero di immagini registrabili sulla memoria- grazie all’uso di schede
PCMCIA di elevata capienza, fino a 1024 Mb - che per quanto riguarda l’alimentazione;
6. Robustezza, visione reflex, ottiche intercambiabili: si tratta, anche dal punto di vista pura-
mente “fotografico” di macchine rivolte al professionista, che non può, per sposare i van-
taggi del digitale, rinunciare alle prestazioni ottiche, costruttive ed ergonomiche di una foto-
camera “tradizionale”;
7. Risoluzione: lo abbiamo messo per ultimo, perché la risoluzione delle fotocamere consumer
cresce rapidamente e si avvicina a quella degli apparecchi professionali; sta di fatto,

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 3


comunque, che, mediamente, le fotocamere professionali dispongono di una risoluzione
superiore (da 2 a 6 milioni di pixel) rispetto a quella fornita dalle fotocamere consumer
(attorno ai 2 milioni di pixel i modelli più evoluti).

SCANNER PIANI

Si tratta dello scanner più popolare ed utilizzato: al mondo, ogni anno, se ne vendono milioni
e milioni di pezzi ed ormai sta diventando uno strumento che troviamo in quasi tutti gli uffici,
oltreché nelle strutture di produzione grafica e fotografica. Esteticamente, uno scanner piano
è del tutto analogo ad una fotocopiatrice, ed il suo funzionamento è anch’esso analogo: una
“barra” sulla quale è alloggiato un sensore CCD trilineare (tre fila di pixel, per riprodurre le
componenti blu, verdi e rosse del soggetto) si sposta linearmente leggendo l’originale che
viene appoggiato a “testa in giù” su un piano di vetro che viene contemporaneamente illumi-
nato da una lampada che può essere allo xeno, alogena al quarzo o al tungsteno, a seconda
dei modelli. Quando la luce colpisce il sensore CCD, essa si trasforma in flusso elettrico che
viene fatto convogliare all’interno di un convertitore A/D (analogico-digitale) che - come dice il
nome - “converte” gli impulsi elettrici in codice binario o, per dirla in modo più semplice, in
dati digitali, che possono essere interpretati ed elaborati dal computer.

Lo scanner piano nasce per la lettura di originali opachi (stampe, fotografie, documenti), ma
quasi tutti i modelli consentono anche di acquisire originali trasparenti (diapositive, negativi,
lucidi, radiografie) tramite accessori o - sui modelli più evoluti - grazie ad un sistema di lettura
ottica e di illuminazione espressamente dedicato. Normalmente, nascono per acquisire origi-
nali fino al formato A4, ma alcuni modelli possono leggere anche l’A3 o addirittura anche for-
mati superiori.

La risoluzione media degli scanner piani - ad esclusione dei modelli dedicati alla produzione
professionale, ormai giunti a livelli qualitativi eccellenti - non è elevatissima (600, 1.200, 2.400
ppi), quindi sono ideali per l’acquisizione di immagini che non prevedono poi di essere ripro-
dotte in stampa con un fattore di ingrandimento elevato, mentre non sono consigliabili per
acquisire, con buona qualità, diapositive e negativi, specialmente di piccolo formato, che soli-
tamente richiedono risoluzioni di input superiori.

SCANNER A TAMBURO

Sono scanner che, fino a poco tempo fa, erano i responsabili di tutte le acquisizioni di elevata
qualità, ma che via via stanno cedendo spazio ai più produttivi e semplici scanner piani di alte
prestazioni, che hanno raggiunto standard qualitativi che ormai hanno ben poco da invidiare a
quella garantita dagli scanner “a tamburo”. In certi settori, sono comunque ancora gli stru-
menti preferibili, ed è difficile negare anche il fattore-fascino di questi macchinari.

Gli scanner a tamburo (anche definiti: a cilindro, a causa dell’elemento di plexiglass, dalla
forma cilindrica appunto, sul quale vengono montati gli originali) utilizzano per la lettura una
testina che, a seconda del tipo di originale, invia luce riflessa o trasmessa dall’originale ad un
sistema ottico composto da un sistema ottico, da filtri e da un prisma che si occupa di scom-
porre la luce bianca nelle rispettive componenti primarie dell’RGB (blu, verde e rosso). La luce
così scomposta, a questo punto, raggiunge i sensori, che in questo caso non sono dei CCD,
ma dei fotomoltiplicatori che sono in grado di generare dei segnali elettrici di altissima qualità,
specialmente nelle zone più scure dell’immagine: per questo, l’acquisizione con scanner a
tamburo è potenzialmente superiore nella riproduzione delle ombre, che risultano più detta-

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 4


gliate e meno “chiuse”.

Accanto ai vantaggi qualitativi degli scanner a tamburo, vanno segnalati i suoi limiti: elevato
costo della tecnologia, complessità (o quantomeno tempi più lunghi) nella fase di montaggio
degli originali per l’input, impossibilità di acquisire originali che non possono essere montati
sul cilindro (e quindi curvati), necessità di trattare le pellicole con un bagno d’olio per elimina-
re difetti quali gli Anelli di Newton, e per far aderire meglio gli originali al tamburo stesso.

SCANNER PER DIAPOSITIVE

Gli scanner per diapositive (ma anche per negativi) sono particolarmente apprezzati dai foto-
grafi perché consentono di avvicinare la produzione “analogica” a quella digitale, con una
buona qualità e con rapidità. Gli scanner per diapositive dispongono di un sistema ottico e di
illuminazione ottimizzato per la lettura degli originali trasparenti, e solitamente si tratta di
apparecchi dedicati alla sola lettura di pellicole 35 mm, anche se alcuni modelli consentono di
acquisire anche originali di formato superiore (6x7 e 10x12 cm). La caratteristica principale sta
nella risoluzione: solitamente i modelli per il 35 mm dispongono di una risoluzione compresa
tra i 2700 ppi e i 4000 ppi, perché consentono di ottenere delle immagini che possono subire
fattori di ingrandimento rilevanti in fase di stampa: per esempio, un originale 35 mm, per
coprire un’area pari ad un formato A4 (21x29,7 cm) deve subire un fattore di ingrandimento
pari a 9x, quindi per avere una riproduzione a 300 dpi in stampa è necessario disporre, in fase
di input, di 2700 dpi (2700dpi: 9 = 300dpi).

Gli scanner per 35 mm vengono proposti oggi a costi abbastanza competitivi e garantiscono
tempi di acquisizione molto rapidi (solitamente, 30 secondi circa per ogni immagine); opportu-
ne soluzioni meccaniche consentono la robotizzazione dell’input da diapositive intelaiate o da
negativi, per garantire una produttività elevata, anche senza intervento diretto di un operatore.
La competizione, nell’acquisizione, sta anche in queste soluzioni che portano ad un aumento
del volume di scansioni/ora che si possono ottenere.

Gli scanner per originali di medio e grande formato sono rivolti ad utenze di professionisti che
richiedono alta qualità ed una corretta riproduzione di originali ricchi di dettaglio. Il loro costo
è superiore a quello degli scanner per 35 mm, e solitamente si tratta di apparecchiature che
privilegiano la qualità di lettura alla velocità di scansione, e quindi richiedono tempi di acquisi-
zione più lunghi (a volte anche alcuni minuti).

ALTRI TIPI DI INPUT

Nelle altre categorie di input troviamo:

• Videocamere digitali
• Scanner per documenti
• Scanner per grandi formati

Le videocamere digitali consentono un diretto interfacciamento al computer non tramite un


collegamento video (analogico), ma di tipo digitale e questo consente una serie di vantaggi
pratici, ivi compresa la digitalizzazione di frame con una buona qualità, dove però il termine
“buona qualità” è in relazione a quella che solitamente è una “bassa qualità” di un frame
video analogico. Alcune videocamere consentono sia la ripresa in movimento (per la quale
sono nate), sia quella fissa (paragonabile a quella di una fotocamera digitale). È utile per certe

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 5


applicazioni, ma ovviamente quando la richiesta primaria è quella di un’immagine fissa, è pre-
feribile usare apparecchi nati a questo scopo.

Gli scanner per documenti esistono di due categorie: quelli da piccolo/medio ufficio e quelli
professionali per i centri di gestione di documenti. In entrambi i casi, il loro scopo è quello di
acquisire fogli scritti e trasformarli - tramite opportuni programmi adatti al riconoscimento dei
caratteri denominati OCR - in testo scritto analogo a quello che potremmo realizzare con un
programma di videoscrittura, consentendone quindi l’archiviazione, la correzione, la modifica
del testo stesso. La differenza sta, essenzialmente, nella produttività che possono garantire: in
un piccolo ufficio, l’esigenza è quello di digitalizzare qualche documento nell’arco della gior-
nata lavorativa, nei centri copia o nelle strutture specializzate nell’archiviazione documentale
la richiesta può raggiungere le decine di migliaia di fogli/ora; va da sé che la meccanica, la
robotizzazione, l’elettronica e i costi sono coerenti con queste diverse esigenze ed aspettati-
ve. Si tratta comunque di scanner di derivazione da quelli piani, che dispongono di meccani-
che studiate per la lettura di fogli dattiloscritti.

Gli scanner per grandi formati nascono per la lettura (acquisizione) di originali quali i disegni
su lucido degli architetti (piantine, mappe, progetti) e solitamente si trovano nei centri copia
che forniscono tale servizio? Nulla di nuovo dal punto di vista tecnologico, sono solo diverse
le dimensioni.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 4 - Input 6


SEZIONE BASE - CAPITOLO 5

Output

Definizione di output
Tipologie di output principali: Stampa, Monitor, reti

Stampanti e tecnologie di stampa


Stampa: tipologie di stampanti

Il futuro della stampa


Output su monitor
Risoluzione dell’immagine per la visione a monitor
Nuove tecnologie per i monitor
DEFINIZIONE DI OUTPUT

Dopo avere affrontato il mondo dell’input - forse quello più vicino al mondo della fotografia -
ci soffermiamo su un altro argomento importantissimo per l’immagine digitale: l’output. Nella
maggior parte dei casi, quando si parla di “output” si tende a legarlo indissolubilmente alla
“stampa”, anche se, nella realtà, il concetto di output è molto più allargato. Se ci consentite
una piccola digressione “filosofica”, ma ricca in realtà di fondamentale realismo tecnologico,
l’output è quel momento che consente, a noi “umani” di percepire l’immagine digitale che, nel
suo stato più puro, non è da noi interpretabile. Non esiste immagine “digitale” che siamo in
grado di vedere, dobbiamo necessariamente fruirla attraverso una sua rappresentazione ana-
logica che le consenta di “uscire”, tramite un qualsiasi mezzo, dal computer: una stampa, un
monitor, una proiezione. Grazie all’output, insomma, noi entriamo in contatto con i bit, con i
byte, con l’essenza della comunicazione digitale: un bello smacco, per chi dedica tutta la sua
vita a creare degli “input” come fanno i fotografi, il comprendere che, senza un output, le
forme, le emozioni, la verità, la finzione catturate con così tanta maestria non sono nulla, sono
immagini latenti che nessuno mai potrà vedere, apprezzare, amare.
Appare efficace una dimostrazione che ben fa capire che i dati “digitali” non siamo in grado di
percepirli, e che non sempre, quando si parla di “digitale”, si comprende realmente ciò che
stiamo definendo. Un dato digitale non emette rumore quando cade, non si rompe, è esente
da peso. Se prendiamo un dischetto, un cd-rom, un DVD, troppo spesso definiti “media digi-
tali”, e lo buttiamo per terra, lo rompiamo in due, lo poggiamo sul piatto di una bilancia, ci
accorgiamo che abbiamo tra le mani un “media analogico” esattamente pari, nella sua “fisi-
cità”, ad un giornale, ad un libro, ad un quadro. La scusante che viene a questo punto addot-
ta da chi si accorge dell’errore nel definire “digitale” un oggetto fisico - ma che tenta ancora
di difendersi - è quella di dichiarare “Si, è vero, il Cd-rom è un oggetto, ma contiene dati digi-
tali”. Bene, anche un giornale contiene dati digitali, che sono stati stampati dal computer alla
pellicola da stampa e poi riportati sulla lastra ed infine impressi con l’inchiostro sulla carta.
No, la differenza, in termini puramente accademici, è inesistente: entrambi - cd-rom o altro
media che contengono “file” e giornali/riviste/libri - sono degli output di dati che, in un certo
momento, sono stati digitali. Comprendere questo approccio filosofico ci fa capire che noi
viviamo circondati da interpretazioni analogiche delle immagini digitali, interpretazioni che
sono, di fatto, output di vario genere, ma pur sempre output. E, visto che l’output influenza la
riproduzione, la resa dei dettagli, il colore, l’interattività, è bene conoscerne tutte le sue poten-
zialità, i suoi limiti, le sue tecnologie.

TIPOLOGIE DI OUTPUT PRINCIPALI: STAMPA, MONITOR, RETI

Un’immagine può uscire da un “computer” in vari modi: può essere stampata su carta, car-
toncino, stoffa, metallo, plastica (esistono vari tipi di tecniche che consentono la riproduzione
su tutti questi materiali); può essere viceversa visualizzata da un monitor, può essere proietta-
ta su uno schermo tramite un videoproiettore, oppure può essere registrata su un supporto
magnetico o ottico o, ancora, trasmessa tramite un cavo, usando una rete locale o telematica.

Ciascuno di questi output ci impone un approfondimento, per valutarne le potenzialità ed i


limiti.

La stampa, il più usato degli output, rappresenta un universo di dimensioni incalcolabili: ormai
sono tantissime - come vedremo più avanti - le possibilità fornite dalle tecnologie di stampa
digitale diretta che si sommano a quelle indirette, ovvero a quelle ibride che partono dal digi-
tale e poi si integrano a processi analogici, come nel caso più classico della stampa ad

SEZIONE BASE - CAPITOLO 5 - Output 1


inchiostro, che è frutto di un output di dati digitali su pellicola litografica, che viene scritta tra-
mite dei plotter o fotounità in grado di riprodurre ad altissima risoluzione i punti del retino da
stampa su pellicola trasparente - una per ogni passaggio di colore della quadricromia - usan-
do un’esposizione luminosa; questo procedimento, digitale in partenza, una volta sviluppata
la pellicola, prosegue verso una strada del tutto analogica.

Il monitor è il mezzo di visualizzazione delle immagini (e quindi l’output) che sta subendo in
questi ultimi anni il maggiore tasso di crescita. Il suo è un output che potremmo definire meno
“drastico” rispetto alla stampa, che di fatto esce realmente dal computer: la visualizzazione a
monitor è in realtà rappresentata da una lettura temporanea delle informazioni contenute
all’interno di un file di immagine, che vengono trasferite dalla memoria centrale (hard disk) a
quella volatile della ram. La visualizzazione del monitor avviene nello spazio colore RGB,
ovvero l’immagine viene creata tramite il processo inverso rispetto all’azione del sensore di
una fotocamera digitale o di uno scanner: dai dati digitali, si ricostruisce l’immagine composta
da luce; nella sua essenza, la visualizzazione del monitor si avvicina ad una diapositiva
appoggiata su un visore, e sempre più diventa anche il surrogato della visione del mirino
(anch’essa una proiezione di luce). Con questo, vogliamo dire che la visione a monitor sarà
sempre più legata al fotografo che l’adotterà in sostituzione di molte procedure tipiche del
processo analogico, e per questo deve dedicare particolari attenzioni alla scelta del monitor,
che diventa sempre più il suo compagno per la valutazione delle immagini, per il controllo del-
l’inquadratura, per la verifica della messa a fuoco, per il controllo del colore, il suo “terzo
occhio”.

Tutto quello che è output più propriamente “informatico” (salvataggio su supporti magnetici
ed ottici, trasmissione via rete) richiede valutazioni che sono di tipo meno istintivo, come per
esempio il costo per megabyte dei vari supporti, la loro universalità (sia dei supporti, che dei
formati di registrazione per l’immagine, sia dei protocolli di connessione) e la loro durata nel
tempo.

STAMPANTI E TECNOLOGIE DI STAMPA

Le tecnologie di stampa sono essenzialmente legate alla tipologia di “punto” che sono in
grado di produrre.

1. Riproduzione tonale tramite punti a densità variabile: punti di dimensione fissa consento
no la riproduzione delle sfumature tramite l’attribuzione di una densità scelta all’interno di
una determinata scala di valori (determinata dalla profondità di bit consentita). Si tratta
della tecnica che viene anche definita a “tono continuo” ed è riscontrabile in sistemi di
stampa di alta qualità. E’ in assoluto la tecnica che più assomiglia al modo in cui viene
riprodotta un’immagine in fase di input: per ogni pixel di immagine viene riprodotto un
punto di stampa. Esempi di sistemi di riproduzione a tono continuo: stampa a sublimazio
ne, stampa laser o led su carta fotografica.

2. Riproduzione tramite punti di dimensione variabile: laddove le tecniche di stampa non con
sentono di utilizzare le soluzioni di punti riprodotti a densità variabile, si utilizza, per simu
lare la variazione di densità, la variazione “spaziale” (no, StarTrek non c’entra nulla!): il
punto, cioè, può essere riprodotto in dimensione più piccole o più grandi, rendendo così,
all’occhio, una resa di minore o maggiore densità. Questi punti vengono “aggregati”
seguendo una precisa e fissa geometria. Esempi di sistemi che adottano la riproduzione
dei punti a dimensione variabile: stampa offset

SEZIONE BASE - CAPITOLO 5 - Output 2


3. Riproduzione tramite punti a frequenza variabile: viene anche definita stampa a punto “sto
castico” ed è caratterizzata da un punto di dimensione e di intensità fissa, che però varia
di frequenza: numericamente superiore nelle zone scure, più “diradato” nelle zone chiare.
Non si ha quindi più la forma precisa e geometrica che troviamo nella riproduzione a punti
di dimensione variabile (la classica “rosetta”, così come viene definita nell’ambito della
stampa offset). Il punto a frequenza variabile è stato presentato con grande enfasi nel set
tore della pre-stampa qualche anno fa, ma ha trovato maggiore successo nella stampa
inkjet ed elettrostatica.

STAMPA: TIPOLOGIE DI STAMPANTI

STAMPA A GETTO D’INCHIOSTRO.

La stampa a getto d’inchiostro, definita in termini inglesi “inkjet” è senz’altro la tecnologia di


maggiore successo in questo periodo, in particolare grazie ai modelli “drop-on-demand”, che
utilizzano testine in grado di rilasciare l’inchiostro solo quando esso è “richiesto” per la forma-
zione dell’immagine. Questo “rilascio a richiesta” di inchiostro viene pilotato usando due tipi
di tecnologie: quella a “bolle” e quella che viene definita “piezoelettrica”: nel primo caso il
calore forma all’interno della testina delle bolle di pigmento che poi vengono espulse dagli
ugelli, nel secondo caso, sono gli impulsi elettrici che agiscono su dei “piezocristalli” che pro-
vocano l’espulsione del pigmento che raggiunge il supporto. Una variante alle stampanti
inkjet che utilizzano pigmento sono quelle che usano come base speciali coloranti a base
cera che, tramite calore, passano dallo stato solido a quello liquido e possono quindi essere
“pompate” dagli ugelli sul supporto ricevente.

I limiti dei sistemi a getto d’inchiostro sono tempi di produzione abbastanza lunghi, la richie-
sta di supporti speciali (dei quali oggi c’è un’offerta molto ampia e diversificata). I vantaggi
sono, anche grazie all’uso di retinature stocastiche (vedere paragrafo precedente), risultati
qualitativi eccellenti, con risoluzioni di stampa anche superiori ai 1400 dpi.

STAMPANTI A SUBLIMAZIONE.

Sono state le regine della stampa di immagini fotografiche di alta qualità, ed ancora oggi
riscontrano buon successo in molti campi, specialmente dove si richiede una riproduzione
“fotografica” di eccellente qualità in tempi molto brevi e senza trattamenti chimici. In queste
stampanti, il colorante è inserito su un nastro continuo già creato con la corretta alternanza di
pigmento Cyan, Magenta, Giallo (e nero, per i modelli che lo prevedono). I coloranti presenti
in questo nastro passano dallo stato solido a quello gassoso (reazione fisica che si chiama
“sublimazione”, giust’appunto) grazie alla testina che è in grado di raggiungere temperature di
400 °C e vengono trasferiti sul supporto, riproducendo quindi l’immagine a colori.

Accanto all’alta qualità delle immagini ottenibili con la stampa a sublimazione ed alla rapidità
di produzione, vanno segnalati i limiti: l’elevato costo dei materiali ed il costo delle stampanti
(superiori al costo medio di una stampante a getto d’inchiostro).

STAMPANTI ELETTROFOTOGRAFICHE

In “gergo” vengono anche definite “stampanti laser” e si basano sulla creazione, per mezzo di
un raggio laser, di un’immagine “latente” su una superficie fotoricevente (solitamente un cilin-
dro), caricandosi così elettrostaticamente. Una volta “impresso” questo cilindro entra in con-

SEZIONE BASE - CAPITOLO 5 - Output 3


tatto con il toner, anch’esso carico elettrostaticamente; il toner aderisce alle zone “attivate”
sul cilindro e, tramite contatto, finisce sulla carta e fissato a caldo. Nella stampa a colori, ci
sono 4 cilindri, uno per ogni colore della sintesi sottrattiva (Cyan, Magenta, Giallo e Nero).

La stampa elettrofotografica viene adottata in molte attrezzature di stampa: dalle “stampanti


laser” da tavolo, ai sistemi di copia a colori e bianco e nero che sempre più si interfacciano ai
computer, trasformandosi in vere e proprie stampanti di media ed elevata produzione, fino ad
arrivare ai sistemi di stampa digitale per elevatissime produzioni.

I vantaggi sono quelli di una buona qualità, della possibilità di usare carta dal costo molto
contenuto, dell’elevata produttività. Si tratta comunque di attrezzature costose e che richiedo-
no una buona dose di attenzioni e di frequente manutenzione.

STAMPANTI LASER E LED PER CARTA FOTOGRAFICA.

Si tratta della nuova frontiera che avvicina sempre di più la stampa digitale alla fotografia
“vera”: si tratta della tecnologia che adotta la “luce” (ottenuta tramite sistemi laser o sistemi a
led) per esporre l’immagine direttamente su carta fotografica, ottenendo così una stampa in
tutto e per tutto analoga a quella che si ha tramite il processo fotografico di stampa di un
negativo o di una diapositiva su carta fotografica.

Questa tecnologia, nata inizialmente per la gigantografia, sta via via proponendosi anche per
il medio formato e addirittura - con lo sviluppo dei minilab digitali - anche per il piccolo for-
mato, rendendosi disponibile anche per le applicazioni amatoriali degli utenti delle fotocamere
digitali consumer.

I vantaggi della stampa su carta fotografica sono quelli dell’altissima qualità delle immagini,
della durata delle stampe (almeno paragonabile a quella delle “normali” fotografie), il bassissi-
mo costo (rispetto alle tecnologie inkjet e a sublimazione) della carta e la positiva percezione
da parte di coloro che ancora guardano con un certo distacco le evoluzioni dell’immagine
digitale. Per contro, tali sistemi richiedono, dal punto di vista hardware, investimenti elevati e
un trattamento chimico che è normale trovare all’interno di un fotolaboratorio, ma meno in
altre realtà (anche se ultimamente molte strutture, anche non fotografiche, stanno scoprendo i
vantaggi di tale tecnologia e la stanno implementando).

IL FUTURO DELLA STAMPA

I prossimi step per la stampa digitale saranno sostanzialmente la crescita della produttività
dei sistemi a getto d’inchiostro, la presentazione di soluzioni per la stampa digitale diretta che
possano competere anche nelle fasce di medio-alto volume (all’incirca: 10.000 copie), mentre
al momento l’area che vede la stampa digitale in vantaggio rispetto alla tradizionale offset si
aggira attorno alle poche centinaia di copie. In questo momento, si stanno facendo strada le
soluzioni intermedie, come per esempio il Computer-To-Plate, che consente di bypassare la
fase della produzione delle pellicole e di scrivere direttamente la lastra da stampa inviando i
dati digitali del computer, e questa strada viene indicata come quella vincente a medio termi-
ne, in attesa che le soluzioni “totally digital” possano risultare pienamente soddisfacenti per
una gamma di applicazioni ampia.

Altro elemento sul quale il futuro vede un forte impegno sta nella gestione del colore: sono
necessari processi che consentano una trasportabilità del colore efficiente e fedele. Molto si

SEZIONE BASE - CAPITOLO 5 - Output 4


sta facendo, ma c’è ancora molto da fare per creare un linguaggio realmente “trasparente” nel
passaggio del colore da un ambiente all’altro, da uno spazio colore all’altro (da RGB a CMYK,
per esempio).

OUTPUT SU MONITOR

L’output su monitor, lo abbiamo visto nei paragrafi iniziali, sarà sempre più importante anche
perché attraverso il monitor si sviluppa tutto il contenuto di Internet.
Internet, per poter ridurre le problematiche della scarsa ampiezza di banda di connessione
(detta in parole molto povere: la lunghezza dei tempi necessari per visualizzare i contenuti),
adotta ancora, in molte situazioni, immagini molto povere di colore, ed anche a bassissima
risoluzione (vedere prossimo paragrafo). Ciò significa che, invece che descritte con una
profondità “standard” di 8 bit per colore (che corrispondono a 24 bit in totale: 8 per il blu, 8
per il verde ed altrettanti 8 per il rosso, sfumature che moltiplicate tra loro ci forniscono più di
16 milioni di varianti), le immagini sono riprodotte in “soli” 256 colori, o a volte addirittura in
un numero ancora inferiore (un valore abbastanza comune è pari a 216 colori, che sono quelli
che sono gestibili dalle “palette” di colori dei sistemi di visualizzazione legati all’ambiente
Internet). Come vedremo più avanti, le immagini in questo caso sono salvate in formato GIF,
caratterizzato appunto proprio da una “povertà cromatica” che nella realtà viene vissuta come
un vantaggio per ridurre i tempi di connessione.

L’assurdo di questo momento sta quindi nel fatto che la visualizzazione delle immagini sul
monitor, nel suo campo di maggiore crescita, fa uso in realtà di una descrizione molto inferio-
re a quella potenziale. Tale limite verrà gradualmente superato grazie alle connessioni ad alta
velocità che cominciano ad essere disponibili, e presto quindi si farà sempre più uso di imma-
gini ricche di dettagli e di sfumature di colore, che renderanno piena giustizia all’altissimo
livello qualitativo dei monitor di ultima generazione.

RISOLUZIONE DELL’IMMAGINE PER LA VISIONE A MONITOR

Lo abbiamo spiegato nella sezione che spiega il calcolo della risoluzione (vedere: Come si
forma l’immagine digitale): un’immagine destinata alla visione a monitor richiede, a parità di
dimensione fisica, una “risoluzione” molto più bassa rispetto alla stessa immagine destinata
alla stampa sulla carta. Il monitor dispone di una matrice di pixel che viene regolata dalla
scheda video, per esempio: 640x480 pixel, oppure 600x800 pixel, ma può essere anche
superiore, per fornire un’immagine più nitida.
Dal punto di vista della dimensione delle immagini, è bene ricordare che per ottenere una cor-
retta riproduzione sul monitor è richiesto all’incirca 1/4 della risoluzione necessaria per una
stampa di pari dimensione (72 contro 300 punti per pollice).

NUOVE TECNOLOGIE PER I MONITOR

Le nuove frontiere dei monitor sono legate ai miglioramenti delle tecnologie LCD, ormai
migrate dai monitor dei computer portatili a quelli desktop, ma ancora insufficienti, special-
mente per quanto riguarda la fedeltà cromatica. I vantaggi, in termini di riduzione dello spazio
e dello spessore, portano a dire però che presto la maggior parte dei monitor che tronegge-
ranno sulle nostre scrivanie saranno di tipo LCD.
Molta attenzione - ma per ora costi proibitivi - per gli schermi al plasma, che promettono
grandi dimensioni, spessori ridottissimi e buona qualità di immagine. Per ora, comunque, il
tubo catodico ci terrà compagnia per ancora parecchio tempo.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 5 - Output 5


SEZIONE BASE - CAPITOLO 6

Il software per l’immagine

Elaborazione di immagine

Impaginazione

Illustrazione e per grafica

Gestione del colore


ELABORAZIONE DI IMMAGINE

Tra i software — ovvero quegli elementi che consentono alle "macchine" di eseguire delle
determinate operazioni, delle "funzionalità" che possano dimostrarne una certa utilità
(una "macchina" senza operabilità può al limite servire come ferma carte e a poco altro…)
— quelli che interessano maggiormente ai fotografi sono senz’altro i software di elaborazione
dell’immagine, ma è bene definire in prima battuta quanto vasto sia il mondo dell’elaborazio-
ne dell’immagine.

In un momento in cui gli "effetti speciali" vanno per la maggiore, si tende a parlare
di elaborazione solo riferendosi alle modifiche radicali sul contenuto espressivo dell’immagine:
cambiamento del colore, della forma, degli sfondi. Tutto questo è in effetti molto importante
sia dal punto di vista creativo che "comunicativo", ma il "trattamento" dell’immagine (termine
più criptico, meno evocativo e meno alla moda di "elaborazione") include molte altre voci, tra
le quali la compressione, la conversione di formati, la conversione di spazi colore, la riduzione
di difetti, l’inserimento di elementi grafici ed altro ancora.

Alcuni programmi (software) hanno fatto la loro fortuna riuscendo a proporsi per risolvere
uno specifico problema: per esempio, riuscire a manipolare immagini molto "pesanti" con
macchine poco potenti, oppure riuscire ad effettuare delle "maschere" (ovvero isolare una
porzione dell’immagine dal suo fondo) con grande rapidità, oppure convertire con particolare
efficacia le immagini per poterle visualizzare su Internet. La tendenza, oggi, è quella
che porta alla scelta di una vera a propria "piattaforma" che viene costruita adhoc per rispon-
dere con la massima qualità e produttività alle esigenze di ogni singolo professionista.
E’ stato compreso, infatti, che gli utenti professionali preferivano dedicare più tempo,
per raggiungere un determinato risultato, all’uso di un unico software, piuttosto che "saltare"
da un programma all’altro per ogni singola operazione, a causa della fatica
nell’apprendimento di tanti differenti programmi, alla complessità dell’uscire da un software
all’altro — operazione quasi mai perfettamente trasparente ed efficace , allo spazio
di memoria occupato da tanti programmi sull’hard disc della macchina.

Chi ha vinto, fino a questo momento, è stato chi ha deciso di offrire uno spazio di lavoro
molto ampio, offrendo però "porte di ingresso" a terze parti che hanno investito non in
"programmi" a sé stanti, ma in "cellule" che si sono integrate al programma di base,
aumentandone le prestazioni, laddove gli utenti richiedevano maggiore flessibilità o maggiore
potenza. Tale architettura di software, definita "plug-in", ha generato la possibilità di creare
una base di produzione molto uniforme, universale, e al tempo stesso ha offerto una crescita
dell’investimento in funzione delle reali esigenze dell’utente.

Nella scelta di un programma di elaborazione di immagine bisogna tenere in considerazione


alcuni elementi di base:

1. Compatibilità con l’esterno: è finita l’era delle macchine "dedicate", ora la parola d’ordine
è la possibilità di comunicare a 360 gradi, non solo con tutte le "altre macchine", ma anche
con tutti gli altri media. Non è sufficiente fermarsi al discorso "mac/windows compatibile",
che appare ormai il minimo indispensabile, ma significa potersi interfacciare rapidamente
e con la massima versatilità ad ogni soluzione di comunicazione: un programma moderno
di elaborazione deve essere ormai multimediale, deve permettere alle immagini di flettersi
alle esigenze della carta stampata, del video, dell’immagine interattiva.

2. Compatibilità con la macchina: altra banalità, che citiamo solo per stabilire il metodo giusto

SEZIONE BASE - CAPITOLO 6 - Il software per l’immagine 1


di scelta di hardware e software. Un fotografo che desidera lavorare sull’immagine digitale
non deve scegliere il computer (la macchina) e poi il programma che ovviamente possa
"girare" sulla macchina, ma il contrario: è il programma che gli farà ottenere i risultati, che
gli darà soddisfazione, che gli fornirà materiale che potrà "vendere" alla sua clientela.
Oggi, i principali e i migliori programmi di elaborazione di immagine sono disponibili per
entrambe le piattaforme primarie: Mac e Windows, e questo rende meno "importante" la
scelta dell’hardware (e forse, proprio per questo, più difficile: bisogna studiare i dettagli),
ma se scoprirete che un determinato programma risponde esattamente alle esigenze del
vostro lavoro, ed esiste per una determinata ed unica piattaforma, avrete scoperto che
dovete comprare proprio quella determinata macchina, o che dovrete sostituire la vostra.

3. Potenza, tanta potenza: ormai la "potenza fisica" costa poco rispetto a pochi anni fa: ram,
hard disc, megahertz sono disponibili a vagonate e costano pochi soldi. Fate quindi affida
mento su programmi che nascono per gestire file di grandi dimensioni, e che per farlo
efficacemente vi richiedono anche molte prestazioni dal vostro computer. Date potenza ai
software che, a fronte di questa "fame", vi promettono il massimo in termini di prestazioni,
e non cercate invece soluzioni abbastanza superate che vi promettono miracoli con poca
potenza: sono soluzioni interessanti per il settore consumer, non per quello professionale,
che non può nemmeno pensare di poter lavorare con macchine che non siano al massimo
delle prestazioni "fisiche";

4. Formati, formati, formati: i formati sono il linguaggio della comunicazione digitale. Fate in
modo di avere pochi limiti nel "passaggio" dei dati. Esistono sul mercato dei meravigliosi,
piccoli programmini che si occupano solo della conversione di formati grafici, e offrono
infinite modalità. Alcuni di questi programmi sono addirittura shareware
(shareware significa: io te lo cedo gratuitamente per poterlo provare, se ti piace acquistalo
per pochi soldi. In pratica, un gesto di fiducia nei confronti dell’utente finale, che dovrebbe
ripagarlo con identica dimostrazione di stima).

5. Mascheratura: è in assoluto la lavorazione che fa "perdere più tempo" e quindi quella che
richiede maggiori attenzioni nella scelta. Viene definita anche "scontorno" ed è un’opera
zione che sempre più si automatizza, anche se l’intervento manuale non è scomparso del
tutto, specialmente quando dobbiamo scontornare immagini complesse
(del tipo: un coniglio bianco candido appena lavato con il pelo tutto vaporoso su un fondo
bianco ben illuminato ed uniforme). Usare programmi per ottimizzare e velocizzare
al massimo questa operazione rientra negli investimenti che prima o poi si finisce col dover
affrontare.

6. Compatibilità con gli standard ICC: un programma di elaborazione dell’immagine deve


necessariamente integrarsi agli strumenti di gestione del colore, che sono tutti collegati ad
uno standard definito ICC. Di questo parleremo nelle sezioni più evolute dedicate al color
management, ma è bene che si possa da subito sapere che deve essere prevista
la compatibilità con questo standard.

IMPAGINAZIONE

I software di impaginazione sono meno utilizzati dai fotografi che di professione, infatti,
producono - in linea di principio — immagini che poi qualcun altro si incarica di "impaginare",
ovvero di confezionareall’interno di un determinato spazio (una pagina, un manifesto,
una cartolina).

L’evoluzione del flusso dell’immagine digitale ha portato però il fotografo sempre più vicino

SEZIONE BASE - CAPITOLO 6 - Il software per l’immagine 2


all’ambiente dell’impaginazione: a volte solo per realizzare piccoli interventi di contorno
(l’inserimento di scritte, numeri di codice, marchi) per la realizzazione di cataloghi fotografici
dove l’elemento primario è quello dell’immagine; un lavoro semplice che consente
al fotografo, con poco sforzo, di fornire un "prodotto finito". Ci sono però settori che erano
assolutamente distanti dall’impaginazione e che oggi stanno invece guadagnando terreno:
anche nel reportage di matrimonio, sono molti quelli che stanno proponendo vere e proprie
"riviste illustrate", composte dalle immagini del matrimonio, poi arricchite con articoli,
titolazioni, frasi con un look tipico dei rotocalchi o delle riviste di moda. Ancora una volta,
viene quindi richiesto al fotografo un allargamento delle proprie competenze. Ecco alcuni con-
sigli per chi deve seguire questa strada:

1. I programmi di elaborazione d’immagine non sono degli impaginatori di testo: e’ una delle
cose più fastidiose che si stanno vivendo nel mondo della grafica. Sono, infatti, molti gli
utenti che, conoscendo solo un programma di elaborazione di immagini (che, in quanto
tale, lavora in modalità "raster" e non "vettoriale" — vedere sezione dedicata al come si
forma l’immagine digitale), lo usano anche per fare interventi grafici con scritte ed anche
testi lunghi e complessi, pagine di pubblicità, cataloghi, eccetera. Ogni applicativo
per elaborazione di immagini ha una funzionalità di inserimento testi, ma il risultato del
creare delle scritte con un programma raster è quello di una resa molto "morbida" dei
caratteri (a causa dell’effetto "anti-aliasing" che viene inserito per migliorare la visualizza
zione a monitor, una specie di sfumatura dei bordi). Per ottenere in stampa una buona resa
di scritte "raster" bisognerebbe usare risoluzioni elevatissime (per esempio: 1.200 punti per
pollice). Abituatevi ad usare programmi di impaginazione che si incaricano di unire i vari
"pezzi" della comunicazione: testi, titoli, immagini; ne guadagnerete in qualità e — appena
ci farete l’abitudine — anche in produttività;

2. Impaginare significa mettere insieme degli elementi. Solitamente si usa tale termine per la
fase di progettazione ed esecuzione di uno stampato, ma ormai per "impaginazione" si
intende anche la preparazione di pagine per Internet. Qualsiasi strumento che nasce per
creare un risultato partendo dall’organizzazione di elementi di vario genere (fotografie,
disegni, testi, video) è, di fatto, un "impaginatore";

3. La qualità dell’impaginazione è fatta da tre elementi: la capacità tecnica, la fantasia nella


grafica e nell’estetica e la conoscenza degli elementi fondamentali della costruzione di una
pagina. Troppo spesso, chi si avvicina a questo mondo provenendo da altre realtà cade
nell’errore di concentrarsi troppo nella tecnica (ovvero nello scoprire quali tasti dover
premere per ottenere un certo risultato), oppure eccede nell’utilizzare troppi "effetti grafici"
(tanti colori, tante font, ombreggiature, eccetera). Dopo tanti anni di "effetti speciali" —
frutto dell’eccitazione del poter usare programmi e macchine davvero meravigliose che
hanno consentito in un istante di superare enormi difficoltà di produzione che fino a quel
momento esistevano — oggi vince chi li utilizza non puntando sull’effetto, ma sul valore del
segno, sul rafforzamento del messaggio attraverso la grafica, e non vice-versa (per molti
anni abbiamo visto la grafica "spaziale" che sopperiva — o tentava di farlo — alle idee).
Le cose inaccettabili, avendo a disposizione programmi che sono in grado di garantire
delle raffinatezze nella composizione dei testi davvero strepitose, sono quelle derivate dalla
mancata conoscenza del terzo elemento che abbiamo citato — ovvero la conoscenza degli
elementi fondamentali della costruzione di una pagina — che viene tralasciata da troppe
persone: lo spazio tra le lettere, tra le parole, l’uso corretto dei capo lettera, lo leggibilità di
una font, l’uso più o meno corretto delle parole in maiuscolo, eccetera. Se non siete
eccessivamente interessati a sviluppare la conoscenza di questa componente (che a prima
vista fa percepire, però, se il lavoro è stato eseguito — al di là della fantasia grafica - da un
professionista o da uno sprovveduto), almeno cercate un confronto diretto tra i risultati che

SEZIONE BASE - CAPITOLO 6 - Il software per l’immagine 3


ottenete, dal punto di vista della leggibilità e dell’eleganza, con quelli che trovate stampati
sulle riviste (anche se alcune sono anch’esse impaginate in modo sempre più disattento per
quanto riguarda questi equilibri che, prima ancora che estetici, sono funzionali: rendono più
facile o più difficile la lettura, e non è poco!);

4. A volte l’operazione di impaginazione viene considerata inutile, perché per esempio


l’immagine da stampare è priva di altri elementi grafici, è solo una "fotografia". Sappiate
che, in quasi tutte le applicazioni della pre-stampa, è sempre preferibile effettuare l’output
(su pellicola litografica, su prova colore, in computer-to-plate, eccetera) partendo
comunque da un file prodotto con un programma di impaginazione, perché una importante
componente di questi software è relativa al loro motore di stampa, ricco di controlli ed in
grado di sfruttare al massimo le potenzialità delle apparecchiature di produzione
(rip, intepreti postscript, eccetera). Banalmente, nella maggior parte dei casi conviene
"importare" l’immagine all’interno di una pagina bianca di un programma di impaginazione
e stamparla da quel file: si otterrà il risultato più rapidamente e con maggiore qualità.

ILLUSTRAZIONE E PER GRAFICA

Sono i programmi per "disegnare", che quindi lavorano essenzialmente con immagini vettoria-
li. Vengono usati da grafici ed illustratori, da designer e da architetti. Molto poco dai fotografi,
che però possono trarne vantaggio nella realizzazione di elementi grafici di abbellimento di
pagine e di cataloghi, oppure per vettorializzare marchi e scritte acquisite in modalità raster
(con scanner o sistemi di ripresa digitale). Nella maggior parte dei casi, però, per gli usi che
possono interessare ai fotografi, gli strumenti grafici inclusi nei programmi di impaginazione,
sono più che sufficienti, senza la necessità di addentrarsi in un mondo di illustrazione
vettoriale che, pur affascinante, crediamo appartenga ancora ad ambiti differenti da quelli di
competenza del fotografo.

GESTIONE DEL COLORE

I sistemi di gestione del colore dispongono di elementi software ed hardware. I primi si incari-
cano di correlare dati cromatici, i secondi di analizzare e misurare tali dati.

Il circuito è il seguente: attraverso degli strumenti (spettrofotometri, densitometri, colorimetri)


vengono misurati i valori di alcune specifiche cromie risultanti dalla visualizzazione del nostro
monitor, della nostra stampante, della prova colore, della stampa finale riprodotta sulla rivista
"XXX". I dati raccolti vengono confrontati con i valori nominali che sono contenuti all’interno
dei programmi di color management che agiscono da strumento di confronto tra "quello-che-
doveva-essere-e-quello-che-invece-viene-fuori". Per essere più "scientifici", il programma
opera "scoprendo" di quanto si discosta l’interpretazione di ogni periferica analizzata singo-
larmente (lo scanner, il monitor, la stampante, la macchina da stampa) rispetto ai valori "esat-
ti" di cui lui detiene le informazioni. La seconda operazione è quella di regolare il flusso per
fare in modo che input ed output vengano allineati tra loro, e che siano quanto più vicini ai
valori nominali. Una volta allineato il processo — che si ottiene creando delle specie
di "targhette digitali" che identificano le caratteristiche di resa cromatica di ogni periferica uti-
lizzata — è possibile produrre e trattare immagini che siano coerenti e calibrate correttamente
dal punto di vista cromatico.

Le difficoltà da affrontare in relazione a questo discorso sono le seguenti:

1. Se il processo di color management ha un elemento non "controllato" dal sistema di color

SEZIONE BASE - CAPITOLO 6 - Il software per l’immagine 4


management, non riusciremo ad ottenere risultati precisi, ma solo una piccola approssima
zione. In molti casi, non ci è possibile operare avendo sotto controllo tutte le periferiche. La
strada dovrebbe essere quella di una maggiore interazione tra input e stampa tipografica
per poter effettuare correlazioni più precise dal punto di vista cromatico

2. Il "motore" che effettua i calcoli di comparazione dei valori cromatici, e che quindi genera i
profili (che abbiamo definito "targhette digitali") può essere più o meno efficiente: tutti cal
colano, ma alcuni lo fanno con maggiore precisione (solitamente, sono quelli che costano
di più, ma non vogliamo apparire banali nell’affrontare in questo modo l’argomento)

3. Molti sono convinti che il "vero problema" della riproduzione del colore sia la "conversione"
da RGB a CMYK (anche perché tutti ne parlano). Il problema è invece sempre di "gestione
e trasportabilità del colore". Esistono programmi di "conversione colore" che promettono
risultati miracolosi "con un click", senza prevedere misurazioni precise e dirette; probabil
mente, promettono più di quello che sono in grado di mantenere. Esistono soluzioni che
migliorano apparentemente il risultato delle conversioni, ma solo affrontando il problema
nella sua essenzialità, ovvero nella misurazione dei valori di output finali, sarà possibile
ottenere delle conversioni adeguate e corrette dei vostri file.

4. Molte discussioni si stanno affrontando in questo periodo sulla possibilità di creare un


"profilo" per sistemi di ripresa digitale. Alcuni esperti sono dell’opinione che non sia possi
bile applicare, con gli strumenti oggi in nostro possesso, tale procedura, altri invece
ne sono convinti. Di sicuro, però, le caratteristiche specifiche della ripresa digitale la disco
stano nettamente da un input che pur appare — nella sua essenza — molto simile, ovvero
quella di uno scanner: lo scanner usa sempre la stessa luce, posizionata sempre nella
stessa posizione, i "materiali" che legge sono sempre gli stessi e sono riconoscibili
(pellicole, carte, negativi, diapositive); nel caso della ripresa fotografica le variabili sono
molte di più. E’ quindi ipotizzabile che, su questo versante, ci saranno evoluzioni
considerevoli.

SEZIONE BASE - CAPITOLO 6 - Il software per l’immagine 5


SEZIONE BASE - CAPITOLO 7

Distribuire immagini

Immagini = dati

Archiviare per trovare

La ricerca dello standard universale per le immagini

La compressione delle immagini

Distribuire = condividere, vendere e comprare

Distribuire immagini e mercato globale


IMMAGINI = DATI

Inutile girarci attorno: pur comprendendo il giusto risentimento, per un computer la più mera-
vigliosa immagine di un Avedon e l’istantanea realizzata dalla zia Pina all’ultima festa di com-
pleanno sono identiche dal punto di vista strutturale: per la "macchina", entrambe sono com-
poste da pixel, quindi da numeri, da dati. Peggiorando quindi il confronto, non solo un’imma-
gine, per un computer, è identica ad un’altra, ma…(tremate, inorriditevi!) la stessa opera d’arte
di Avedon è identica, dal punto di vista dell’essenza, ad un documento fiscale, ad un trattato
sull’apicultura, ad un programma multimediale sulle galline. I dati, per un computer, sono dati,
e nulla di più. Certo, per interpretare un "dato-immagine" sono richieste delle specifiche e dei
software differenti rispetto a quelli che sono necessari per interpretare un dato-scritto, ma si
tratta di un dettaglio: alla base, si tratta sempre di dati binari.

Questo elemento, sicuramente poco poetico, lo comprendiamo, deve essere sfruttato a pro-
prio vantaggio, per comprendere che l’immagine digitale può trarre grandi, grandissimi van-
taggi dal fatto di poter assimilare le immagini a dei "normali" dati. Significa che, come spie-
gheremo qui di seguito, è possibile — come accade con le altre tipologie di dati, all’interno di
un computer — archiviare, ricercare, salvare in diverse "lingue", comprimere, condividere, tra-
sferire, distribuire immagini. Con facilità, con efficacia, con successo.

ARCHIVIARE PER TROVARE

La prima chiave per sfruttare al meglio l’essenza di "dato" dell’immagine digitale sta nel poter
creare un efficiente sistema di archiviazione che consenta e faciliti la ricerca e quindi l’allunga-
mento della vita utile (e attiva) delle immagini. Il vero problema sono però le chiavi di ricerca:
nella maggior parte dei casi nascono necessità che non vengono direttamente collegate ad
una specifica immagine già scattata; dopo tanti anni di lavoro, le migliaia, decine di migliaia di
immagini scattate non possono essere ritrovate, se non facendo grandi sforzi mentali per
ricostruire l’attimo, la situazione, il cliente. Ma c’è di peggio: a volte non si sa quale sia l’im-
magine che ci serve, abbiamo solo bisogno di soddisfare una determinata "emotività" del
tipo: "famiglia", oppure "passione" o, ancora: "golosità". In altri casi, stiamo cercando la foto
di uno specifico prodotto, il ritratto di una persona in particolare. Cosa vogliamo dire? Che la
stessa immagine dovrebbe essere archiviata in tanti modi, con tante "chiavi" che consentano
di estrapolare il suo contenuto in tutti i casi in cui sia necessaria una componente (magari
considerata secondaria) che ci potrà essere di utilità nel futuro. L’archiviazione "fisica" rende
più difficile questa moltiplicazione di chiavi di accesso, che invece il computer gestisce con
estrema semplicità ed efficienza. Non che sia un’operazione semplice: bisogna disporre di
molto tempo per codificare correttamente ogni singola immagine: soggetto primario, secon-
dario, titolo, elementi che sono ripresi, l’inquadratura (orizzontale, verticale), i colori predomi-
nanti, eccetera. Investendo su questo lavoro, però, si può "scoprire" che le immagini già rea-
lizzate possono essere utili per tantissime necessità, e non solo per quelle che consideriamo
"primarie".

L’archiviazione digitale dell’immagine richiede molta attenzione, è un lavoro complesso ed


organico, e solo se progettato inizialmente con grande cura darà i suoi frutti (ed eviterà i rifa-
cimenti). Alcuni consigli:

1. Indicizzare le immagini con chiavi di ricerca "universali", che consentano non solo a voi di
ritrovare le immagini. Evitare "chiavi" del tipo "Tavolo della zia Pina", se poi — a parte voi

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— nessuno conosce la zia Pina.

2. Gli archivi si intendono sempre più come delle strutture composte da un server (stazione
che contiene i dati) e da vari "client" (computer che hanno accesso al server ed alle su
informazioni). Nell’ottica più moderna, questa logica si trasforma in un sito internet (che
funge concettualmente da "server", ovvero da depositario delle informazioni) e in computer
che interrogano il sito usando un normale browser (il programma che ci permette
di visualizzare le pagine del Web); la rete che collega i dati ai suoi utenti può essere
Internet (ed in questo caso, tutti possono accedere al sito in questione) anche se
è possibile impedire l’accesso alle informazioni usando delle password; in alternativa, può
essere una rete esterna ad Internet, collegata sempre per via telematica (una connessione
modem da punto a punto, per esempio, per consentire l’accesso al "server" solo alle
persone alle quali daremo il numero di telefono e le password di accesso), oppure una rete
locale (anche una Ethernet, di quelle che usiamo per esempio per collegare un computer
ad una stampante), se le persone che debbono accedere al data-base delle immagini si
trovano tutte in uno spazio ristretto (un palazzo, per esempio). Qualunque sia la strada che
prenderete, qualunque siano le necessità dell’oggi, fate il possibile per avere un archivio
che sia in qualche modo interfacciabile con Internet e consultabile tramite i normali brow
ser Internet: forse oggi non vi apparirà utile, ma nel futuro siamo sicuri che non averlo pre
visto sarà per voi motivo di grande arrabbiatura.

3. L’archivio delle immagini impone, da subito, una scelta difficile: archiviamo solo le basse
risoluzioni, solo le alte o entrambe? Considerando che il tempo di scansione (se dobbiamo
partire da originali "analogici") tra una bassa e un’alta risoluzione non è così differente
(parliamo di tempo globale: scelta dell’originale, pulizia, inserimento nello scanner, lettura,
salvataggio, indicizzazione), punteremmo su un archivio che contenga direttamente anche
le alte risoluzioni, per evitare che, una volta identificata nel data-base l’immagine che ci
serve, sia ancora necessaria la ricerca dell’originale e la scansione. L’ideale è quello di
avvalersi di formati che consentano la multi risoluzione (vedere più avanti, nella sezione
dedicata agli standard per le immagini).

4. Lo spazio colore è un altro importante problema da affrontare: conviene archiviare


le immagini nello spazio colore più "ricco" possibile, quindi, nell’ordine (dal migliore al
peggiore): LAB, RGB, CMYK, scala di colore.

5. Il costo del software di archiviazione è spesso legato alla sua capacità di gestione in termi
ni quantitativi: il vostro archivio avrà 1000, 10.000, 100.000, 1.000.000 di immagini? Fate
delle valutazioni e scegliete il programma che meglio risponde ai quantitativi che state
richiedendo.

LA RICERCA DELLO STANDARD UNIVERSALE PER LE IMMAGINI

Le immagini digitali hanno — rispetto a quelle su pellicola — un forte limite: la quantità di


informazione (quindi la loro dimensione, in termini di pixel e di Mb) consente un range di ripro-
duzione molto stretto; un negativo 35 mm può essere stampato, con una qualità accettabile,
dalla sua dimensione 1:1 (a contatto) fino ad un 70x100 cm, e forse oltre. Un file digitale da
10 Mb consente una riproduzione in stampa più o meno del formato di una cartolina, al limite
si può — usando accorgimenti e trucchetti nel trattamento del file e nella retinatura di stampa
— a raggiungere l’A4, ma di sicuro non si può andare "oltre", perché la quantità di informazio-
ni contenute non lo consente. Viceversa, un file da 100 Mb — che sembrerebbe risolvere ogni
problema di "dimensione" - se riprodotto in piccolissima dimensione, verrebbe distrutto
dall’eccessivo ridimensionamento, anch’esso portatore di perdita qualitativa come l’eccessivo

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ingrandimento.

Questo problema si vive molto nella realizzazione di un archivio di immagini digitali: quando si
archivia, non si può sapere quali potranno essere i potenziali utilizzi futuri di queste immagini:
dovranno essere stampate su una pubblicazione artistica, a 100 linee/cm, oppure dovranno
finire su Internet a 72 ppi? Verranno richieste per un’affissione 6x3 metri, oppure dovranno
essere inserite su un biglietto da visita? Non si può sapere, quindi è bene trovare soluzioni
che possano fornire il maggiore range di utilizzi potenziali.

Sul mercato sono state molte le strade che hanno proposto soluzioni per questo discorso, ed
in particolare la multirisoluzione (per esempio offerta dal sistema Kodak Photo Cd, oppure
dallo standard FlashPix) è stata vista come una delle chiavi per affrontare il problema: un solo
file, che però è in grado di "rilasciare" la quantità di pixel necessaria per ogni specifica appli-
cazione.

Il problema che si vive ancora, però, è la mancanza di uno standard che possa essere definito
"universale", così come nel mondo della stampa si è consolidato il linguaggio PostScript.
Mancando il "punto di riferimento", ognuno segue propri orientamenti e proprie opinioni. Nel
futuro, ci si aspetta una soluzione a questa mancanza di uniformità; nel frattempo, i formati
più utilizzati per l’archiviazione di immagini sono il jpeg, il Kodak PhotoCd, il tiff, il bitmap ed
altri ancora. Alcune aziende propongono formati di nuova concezione che si stanno in questo
momento posizionando sul mercato (e siamo in attesa di verificarne i risultati).

Un ultimo dettaglio riguarda una tecnologia che si chiama Metadata, che ha la funzionalità di
integrare all’interno dello stesso file dell’immagine la sua descrizione, il nome, le chiavi di
ricerca, facilitando la sua ricercabilità anche all’esterno di uno specifico data-base.

LA COMPRESSIONE DELLE IMMAGINI

La "compressione" è un’operazione che consente la riduzione del "peso" dell’immagine, per


facilitarne l’archiviazione e specialmente la trasmissione usando reti telematiche che quasi
sempre hanno il limite della scarsa banda passante (ovvero: ci si mette tanto tempo a tra-
smettere tanti dati).

Le compressioni agiscono in questo modo: analizzano un’immagine, identificano le varie


zone, le calcolano, ne tengono gli elementi primari e "buttano via" o "riorganizzano" quelli
secondari. Le informazioni "primarie" vengono salvate insieme ai calcoli (in gergo definiti
"algoritmi") in un file che può essere più piccolo, rispetto all’originale, da un minimo che si
aggira al 50% fino ad un massimo che può essere rappresentato anche dall’1%, o a volte
anche meno. Quando le immagini compresse vengono riaperte, il calcolo viene effettuato al
contrario, ricostruendo l’immagine nella dimensione originaria.

Le compressioni sono di due tipi:

Senza perdita (LossLess) = forniscono il migliore risultato perché nella fase di compressione
non vengono "eliminate" informazioni, ma solo riorganizzate. La loro azione solitamente non
porta però a forti compressioni. Esempi di compressione Lossless sono la modalità LZW del
Tiff (disponibile come opzione al momento del salvataggio del Tiff con i più comuni applicativi
di elaborazione dell’immagine), la compressione all’interno del sistema Kodak PhotoCd, ed
altri meno "popolari".

Con perdita: sono i formati che consentono le massime compressioni, però generano un

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decadimento dell’immagine. In pratica agiscono in questo modo: dove per esempio vedono
un cielo azzurro "uniforme" operano tenendo un pixel e ricostruendo con un calcolo che
attorno a quel pixel blu ci saranno, adiacenti, altri pixel blu. Tutto questo funziona abbastanza
bene fino a quando i valori di compressione (e quindi il "campo di azione") sono ridottti (soli-
tamente attorno a 10:1 o al limite 20:1); quando invece si lavora con compressioni maggiori
(40:1, 60:1 o addirittura oltre), la perdita qualitativa è molto evidente. Il più famoso formato di
compressione è il Jpeg, ampiamente usato sia in campo fotografico, che grafico. Molto la
tecnologia sta sviluppando su questo tema, e lo stesso gruppo che ha sviluppato il Jpeg pro-
pone all’industria la sua evoluzione, definita Jpeg2000, che però in questo momento non ci
risulta adottato in nessuna applicazione commerciale.

DISTRIBUIRE = CONDIVIDERE, VENDERE E COMPRARE

Negli ultimi anni, molto si è detto in relazione alle problematiche di copyright a fronte della
crescente digitalizzazione. Si è detto che la facilità di distribuzione e di copia di un’immagine
digitale è tale da rendere sempre più difficile proteggerne la proprietà intellettuale (e commer-
ciale). Del tema entreremo più nel dettaglio in uno dei capitoli della sezione "evoluta", ma vor-
remmo da subito dire che uno dei grandi vantaggi dell’immagine digitale è quella di combat-
tere un effetto a nostro giudizio ancora più negativo: quello del patrimonio che viene chiuso e
dimenticato in un cassetto. Negativi e diapositive archiviati con una logica sbagliata non sono
riutilizzabili; viceversa, sono riutilizzabili (e vendibili) immagini digitali ben codificate, disponibili
per la consultazione on-line ad ogni ora del giorno e della notte, da utenti ubicati sia in un
ufficio dietro l’angolo o dall’altra parte del mondo, immagini che possono essere "scaricate"
dal cliente che le può pagare direttamente con carta di credito. Ci sono i problemi di "prote-
zione", ma esistono opportuni software che possono inserire delle "barriere digitali" all’uso
indebito (usano quasi sempre la tecnica del watermark, ovvero di un marchio o di una scritta
che non può essere eliminata, se non seguendo una determinata procedura segreta, che
viene rilasciata solo all’atto del pagamento). Certo, non si risolvono tutti i problemi, ma con
ogni probabilità un’immagine digitale, quando viene distribuita, può essere protetta meglio di
una fotografia "tradizionale", quando anch’essa viene distribuita. Ancora più certo che il
modo migliore per non "farsi rubare" le immagini è di chiuderle in un cassetto a chiave, non
mostrarle a nessuno e tenerle al buio. Forse, però, i risultati commerciali non saranno entusia-
smanti…

Il digitale, nella sua concezione più completa, fatta di dati che sono consultabili, distribuibili,
trasferibili ad alta velocità, è la chiave commerciale e promozionale da seguire, con le dovute
attenzioni, ma anche con l’entusiasmo nel percepire che il mercato può essere più grande di
quello che la suola delle nostre scarpe ci consente di raggiungere.

DISTRIBUZIONE IMMAGINI E MERCATO GLOBALE

Lavorare in un mercato "globale" ci porta vantaggi, ma ci impone una riflessione: qual è il


nostro valore e la nostra esperienza, confrontata al mercato globale e non alla cittadina dove
abitiamo e dove, finora, abbiamo lavorato? Questa riflessione non deve portare ad una reazio-
ne di rifiuto: scoprire che, pur "bravissimi" nella nostra realtà, siamo solo "bravini" rispetto ad
una comunità più allargata è già un bel punto di partenza. Dobbiamo solo cercare di ridurre
eventuali gap (e qual è il modo migliore per crescere che scoprire qualcuno più bravo di noi?)
e al tempo stesso mostrare al meglio gli elementi che altri non hanno, e non possono avere.

Forse nel nostro archivio mancheranno i meravigliosi panorami delle Montagne Rocciose o
delle Seychelles, ma al tempo stesso avremo i paesaggi (altrettanto meravigliosi)

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dell’entroterra toscano, o il verde dell’acqua della Sicilia. Scusate le banalità: vogliamo dire
che abbiamo, nei nostri archivi, patrimoni che forse consideriamo poco, ma che nel mondo
possono avere un fascino prorompente (e non è detto che si tratti solo di "paesaggi", ma
anche di cultura visiva, di design, di architettura, o anche solo di "gusto" diverso).
Confrontarsi, avere l’umiltà nello scoprirci ancora "con la voglia ed il dovere di imparare", tro-
vare in noi elementi di forza che prima davamo per scontati: queste sono le armi per compe-
tere sul panorama globale, con un prodotto che — grazie al cielo — può essere distribuito in
modo semplice, efficace, vincente. Col digitale, più che con altre attività, possiamo davvero
costruire nuove attività, che sono allargabili e replicabili — una volta lanciate — quasi a costo
zero. Su questo si basa la nuova economia; voi volete farne parte, o leggerne l’esito sui libri
di storia?

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