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LABARIMINI

LIBERA ACCADEMIA BELLE ARTI


• ACCREDITAMENTO MINISTERIALE N° 278/2017 •

LABA

LIBERA ACCADEMIA DI BELLE ARTI

SEDE RIMINI

DIPLOMA ACCADEMICO DI I LIVELLO

IN

GRAPHIC DESIGN

Tesi di Laurea

L’ERA DELLA SEMPLICITÀ

Candidato: Relatore:

Francesco Fagioli Prof. Andrea Cavallotti

Anno Accademico (2018/2019)

III Sessione (Febbraio 2020)


Sommario
CAPITOLO 1
1. Visual non graphic
CAPITOLO 2
2. La semplicità è serenità
3. La semplicità nel mercato
4. SHE
5. Tempo
6. Impara
7. Differenze
8. Contesto
9. Emozione
10. Fiducia
CAPITOLO 3
11. Identità
12. Simboli
13. Storie
14. Aggiornamento
BIBLIOGRAFIA
Sommario
Ci sono tantissime definizioni della parola design. Se dovessimo darne una rigorosa,
potremmo usare una di quelle che si trovano su enciclopedie e dizionari. La Treccani,
per esempio, fornisce questa:” Nella produzione industriale, progettazione (detta più
precisamente industrial design ‹indḁ′striël ...›) che mira a conciliare i requisiti tecnici,
funzionali ed economici degli oggetti prodotti in serie, così che la forma che ne
risulta è la sintesi di tale attività progettuale; quando la forma dell’oggetto viene
elaborata indipendentemente dalla progettazione vera e propria, si parla più
propriamente di styling design”.
Ma se ci dovessimo basare solo su una definizione simile, non saremmo in grado di
raccontare e valutare come il design (da quello più concreto a quello digitale) sia
stato in grado di cambiare tutto, di cambiare il mondo. Concentrandoci
principalmente sull’impatto che ha avuto, sono tre le parole che più descrivono il
design.
1. ORGANIZZAZIONE
Il design ha reso facile e intuibile tutto ciò che ci circonda. Senza il design ci
ritroveremmo in una condizione di caos incontrollabile. Pensate ad una strada
senza cartelli, ad una stazione senza segnaletiche. Il design può essere quindi
considerato una sorta di nemico artificiale dell’entropia. Una soluzione che
l’uomo ha dovuto adottare sin dagli albori per progredire.
2. VELOCITÀ
Una delle caratteristiche del design è stata quella di velocizzare, soprattutto negli
ultimi anni in concomitanza con il digitale, le azioni quotidiana che svolgiamo.
Nel mondo odierno non dobbiamo sfogliare una cartina per capire la strada da
percorrere, non dobbiamo uscire di casa per comprare una sedia o ordinare del
cibo, non dobbiamo più andare da Blockbuster per guardare un film a casa. Questo
si traduce in minor tempo speso nel compiere azioni marginali. Tempo che nel
ventunesimo secolo è diventato uno dei fattori più importanti poiché l’unico a non
poter essere controllato.
3. SEMPLICITÀ
Il design ha semplificato gran parte delle cose che facciamo oggi. Riuscireste a
rinunciare a WhatsApp, Netflix, Spotify, Google, Wikipedia e così’ via? Tutto
questo è il frutto della combinazione della tecnologia, che ha fornito la materia
prima per lo sviluppo, e del design, che ha dato una forma alla tecnologia,
permettendone un facile uso non solo agli informatici ma anche al resto del
mondo.
In questa tesi dunque, ho cercato in primis di dare una forma al design, a come
viene percepito e a come invece dovrebbe esserlo. Successivamente, dopo aver
spiegato di cosa tratti realmente questa disciplina, ho delineato una serie di regole,
per la precisione sette, che rappresentano un punto di partenza verso il traguardo
della semplicità visiva. Infine, dopo aver esposto tali regole, ho inserito quattro
chiavi pratiche per “schiudere” la semplicità in ambito visivo. Pensate ad esse
come aree in cui investire risorse per lo sviluppo di un progetto, o semplicemente
da tenere d’occhio.

Visual non graphic


Per spiegare cos’è la semplicità e come si realizza nell’ambito creativo e del design
bisogna innanzitutto spiegare con precisione cos’è il visual design e perché si
distingue dall’ormai abusato termine graphic design.
Tutto inizia nel 1524 quando Marcantonio Raimondi, uno dei più grandi incisori di
tutti i tempi, viene arrestato e rinchiuso nelle carceri vaticane da Clemente VII,
accusato di un crimine nuovo, mai visto prima, che chiamiamo con un termine
moderno “design”.
Facendo un passo indietro Federico II marchese di Mantova commissionò a Giulio
Romano, un allievo di Raffaello, una serie di dipinti erotici, per adornare il Palazzo
Te. Le immagini erotiche sono esplicite a tal punto da poter essere considerate
pornografiche: falli eretti, amplessi e posizioni sessuali. Qui entra in scena
Marcantonio, sua infatti è l’idea di proporre tali figure ad un pubblico più vasto
mediante l’uso di matrici incise. Il lavoro viene realizzato alla perfezione, con
velocità e il papa vede bene di arrestarlo immediatamente. Le copie create vengono
recuperate e bruciate. Ricapitolando quindi, è Giulio Romano a dipingere le immagini
pornografiche ma è Marcantonio Raimondi a finire arrestato. L’aspetto criminoso non
viene individuato nell’aspetto pornografico ma nella pericolosità della prassi
produttiva: velocità e ampiezza di riproduzione permesse dalle copie stampate.
Il pericolo d’un tratto per la chiesa non sono più gli infedeli e le voci dissidenti ma la
loro diffusione. In tutta Europa infatti, circolano da tempo le copie dei testi luterani in
cui il papa è dipinto come l’anticristo.
La chiesa deve iniziare una battaglia contro il consenso di quella che verrà poi
identificata come società di massa. La massa infatti non solo fa numero, ma anche la
gestione del consenso.
Il visual design si identifica in tutte quelle cose progettate anzitutto per lo sguardo. E’
un insieme di pratiche molto diverse.
Non si tratta di una disciplina, ma di una serie di discorsi che riguardano ambiti
diversi della produzione e della conoscenza. È un campo che contiene di tutto:
oggetti, informazioni, racconti, eventi, aziende e persone.
Quando racconto a qualcuno quello che ho studiato, spesso la sua risposta è:” che
bello, un mestiere creativo” o “che bello, almeno fai qualcosa che ti piace”. Come a
sminuire le caratteristiche tecniche della professione. Senza dubbio il design ha molti
aspetti inerenti l’arte, ma sono solo una piccola parte di ragionamenti e problemi
molto più articolati. Bisogna documentarsi su un tema preciso, risolvere questioni
tecniche, occuparsi dei bilanci, preoccuparsi dei diritti d’immagine e d’autore,
rapportarsi ai clienti, mettersi nei panni dei destinatari e prevedere il risultato di una
campagna. Immaginate di dover semplicemente stampare una scritta rossa su un
foglio. Accendete il computer, aprite il vostro file in Word, controllate se la
stampante ha toner e carta, cliccate su stampa e il gioco è fatto. Per un graphic
designer il processo è leggermente più complicato: innanzitutto bisogna decidere per
quale supporto è pensata la scritta: se ad esempio è per un logo verrà realizzata in
Illustrator perché permette di scriverla in vettoriale e riadattarla in altre misure, se
invece il testo da stampare va impaginato in un articolo è il caso di usare Indesign
perché ci facilita nel processo lavorativo. A questo punto dobbiamo scegliere il
colore, abbiamo detto rosso, ma quale rosso? Ci sono varie tipologie di rosso.
Bisogna pensare anche al supporto sul quale verrà stampato: diverse grammature e
texture di carta hanno un risultato di stampa completamente diverso a seconda di
come l’inchiostro viene assorbito. Inoltre dobbiamo preoccuparci anche della
stampante. Che profilo colore usa? RGB o CMYK? Una stampante di casa infatti
stampa con sei cromie più luminose, mentre una stampante professionale stampa in
quadricromia con tinte più piatte. Abbiamo poi detto testo no? Andrebbe capito il
contesto per scegliere un font appropriato che possa esporre al meglio il concetto.
Potremmo andare avanti ancora molto a lungo, ma dovreste ormai aver capito che il
fattore creatività ricopre solo una piccola parte.
Se un designer si preoccupasse solamente degli aspetti espressivi e spettacolari
rischierebbe di realizzare un prodotto autoreferenziale, chiaro solo a chi ne conosce i
codici, poco utile alla maggior parte del pubblico provvisto di una formazione e di
una cultura diversa.
Nell’ambito del visual design rientrano quindi: cartelli stradali, scatole dei surgelati,
libri di analisi matematica, biglietti dell’autobus, bollette dell’acqua, manuali
d’istruzioni, font del passaporto, il marchio a fuoco su una coscia di prosciutto (che è
anche una delle prime forme di brand identity), la copertina di una rivista,
l’interfaccia di un’applicazione, un’illustrazione sul giornale o un sito web.
Rientra in quest’ambito quindi tutto quello che è progettato per essere visto secondo
certe intenzioni: che sia informare, raccontare, descrivere o sedurre.
Un prodotto di design va pensato in base al metodo di realizzazione, alla forma, alla
società in cui deve essere inserito, formata da un flusso culturale ed economico.
Ragionare al di fuori di queste condizioni risulta oltre che inefficace anche inutile.
Visual design è un termine diffuso, usato spesso erroneamente come sinonimo di
graphic design. Graphic sarebbe in realtà in senso più stretto un sistema di layout,
marchi, font e impaginazioni; mentre visual, il più generale ambito della
comunicazione visiva. Visual può infatti avere a che fare con: una scarpa che
appartiene al product design; una carta da parati che è pensata da un interior designer,
ad un’interfaccia di un app, realizzata da uno user interface designer e da uno user
experience designer o con una pubblicità animata realizzata da un motion designer.
Per capire il visual design però non dobbiamo commettere l’errore di dividerlo in
categorie ma bensì dobbiamo chiederci cosa aveva in mente chi ha progettato un dato
elemento, chi è il committente, qual è il contesto sociale e quali mezzi sono stati
utilizzati per realizzarlo.
Inoltre bisogna sottolineare che anche se parliamo più specificatamente di visual, non
esiste per l’uomo un guardare svincolato da elementi non solo visivi ma anche
acustici, tattili ed emotivi. I sensi non agiscono infatti in isolamento, il nostro modo
di percepire è sempre multisensoriale. Il visual design è quindi una disciplina
sinestetica e, anche quando parliamo di un semplice foglio stampato, dobbiamo
tenere presente il flusso multisensoriale in cui verrà percepito.
Posso porre come esempio la rivista cartacea di Wired Italia. L’ho scoperta per caso
vedendola sfogliata da un passeggero in treno. Dopo aver comprato il primo numero
ne sono rimasto entusiasta ed ora sono quattro anni che colleziono ogni numero. A
farmi innamorare non è stato semplicemente lo stile grafico con cui il magazine è
impaginato, o il fatto che parli dei miei temi preferiti. A suscitare questa mia
infatuazione è il fatto che la redazione di Wired ponga estrema cura in ogni minimo
dettaglio: la carta scelta, leggera eppure molto piacevole a causa della ruvidità risulta
facile da spaginare, la costante evoluzione della rivista che si reinventa cambiando
ogni volta il modo di raccontare, che in un numero si traduce in reportage fotografici
e in un altro in infografiche e illustrazioni, il fatto che prenda delle scelte mirate,
rinunciando ad un abbonamento mensile per poter uscire fuori soltanto quando si ha
un prodotto davvero finito. Potrei andare avanti per ore descrivendo ogni singolo
dettaglio.
Vedere è un atto complesso che non può essere ridotto alla semplice analisi della
composizione.
Visual design è la progettazione di tutto ciò che si percepisce con gli occhi, ma in
sinestesia con gli altri sensi e l’immaginazione.

La semplicità è serenità
Ripensate per un istante al momento in cui vi siete uniti ad un qualsiasi social
network come Facebook o Instagram. Inizialmente avevate pochi amici, pochi like,
pochi follow. Piccole gocce isolate. Poi, a mano a mano che inviavate o accettavate
altre richieste e mettevate altri like, il flusso di comunicazione aumentava, giorno
dopo giorno, fino a diventare una pioggia di piccole gocce.
Scorrere le homepage inizialmente risultava facile, ma dopo un po’ di tempo vi siete
trovati a dovervi districare in un labirinto. I nuovi mezzi di comunicazione infatti
tendono a creare uno stato di stress costante nei fruitori. Si ha come la sensazione di
annegare in un oceano di informazioni.
Questi media sono stati pensati appositamente per suscitare nell’utente finale uno
stato di ansia. Le grafiche dinamiche chiamano l’attenzione dell’occhio, l’infinite
scroll permette un flusso infinito, i popup e così via sono invenzioni realizzate
appositamente per tenere incollati gli utenti agli schermi.
Tutto questo mare di informazioni ha finito per privare le persone della loro serenità.
Proprio per questo negli ultimi anni la semplicità nella comunicazione ha acquisito un
vero e proprio valore economico. Le aziende stanno pagando per trovare soluzioni
semplici che possano soddisfare gli acquirenti frustrati.
La semplicità nel mercato
Il mercato è pieno di promesse di semplicità.
Si è affermata, a causa dell’abuso del termine semplicità, una struttura di mercato che
consiste nel vendere la stessa cosa “nuova e migliorata”, dove migliorata significa in
realtà “con più cose”.
Il consumatore è stato istruito attraverso dei principi economici errati secondo cui più
è sempre meglio. Chiedendo a un bambino di dividere un biscotto il bambino terrà
per se sempre la parte secondo lui più grande.
Tuttavia negli ultimi decenni la tendenza si è invertita poiché si è capita l’importanza
della semplicità.
Esempi concreti ne sono l’Ipod e Google. Apple ha creato un dispositivo che fa di
meno e costa di più. Dove meno però non è un’accezione negativa. Per meno si
intendono infatti tagli eseguiti ad arte. Tagli estetici nel design, tagli nelle funzioni
volti ad un utilizzo più immediato. Un prodotto talmente efficace che ancora oggi, a
distanza di molto tempo, dopo l’uscita degli Iphone e degli Ipad, continua a vendere.
Sul sito della Apple si possono trovare i modelli più aggiornati a 249 euro. Anche
Google ha perseguito lo stesso scopo andando a rendere la propria interfaccia più
snella, più immediata e dunque più semplice.
Le persone non si limitano più a comprare, ma amano e cercano prodotti frutto di una
sintesi che riesca a rendere la loro vita più semplice, perché, come abbiamo detto nel
capitolo precedente, la semplicità è essenzialmente serenità, caratteristica che nel
mondo attuale risulta essere essenziale.
Tale processo però non va identificato solamente nel prodotto finale volto al
consumatore. Non deve essere soltanto il tentativo di mission per identificare un
marchio. Tale processo si deve rispecchiare in tutte le politiche aziendali: dal
marketing alle linee di prodotto.
La ricerca della semplicità non deve tradursi in una visione del mosto semplicistica,
banale e superficiale. La complessità e la semplicità non sono trascendibili l’una
dall’altra. Devono essere come dei rivali che combattono l’uno contro l’altro
migliorandosi a vicenda. Dunque liberarsi della complessità, anche se può apparire la
strada più immediata per raggiungere il nostro scopo, potrebbe non essere quella che
veramente desideriamo.
SHE
Molti dei sistemi odierni possono essere semplificati attraverso la rimozione di alcune
funzionalità.
Basti pensare ai telecomandi delle televisioni. Ci sono molti pulsanti che usiamo
davvero poco. Potrebbe essere una soluzione togliere quelli colorati, o i pulsanti di
scorrimento dei film. Se però volessimo rivedere delle scene preferite? Oppure
mettere in pausa il film a causa di una chiamata? Questi strumenti che nel passato
potevano sembrare inutili con l’avvento delle smart tv e di applicazioni come Netflix
o Sky sono diventati essenziali.
Ci troviamo quindi di fronte ad una questione fondamentale: dove si trova il
baricentro che tiene in equilibrio il connubio complessità e semplicità?
Da un lato vogliamo che un prodotto sia facile da usare, immediato e veloce.
Dall’altro che faccia tutto ciò che una persona potrebbe desiderare.
Il modo migliore per conseguire la semplicità senza però incappare nel banale è la
riduzione ragionata. Bisogna rimuovere stando ben attenti a ciò che si elimina.
Decisioni come questa, a causa della natura umana, risultano essere davvero ardue.
Tipicamente, preferiamo lasciare in vita ciò che già esiste, e nel caso del telecomando
sceglieremmo di mantenere tutte le funzionalità.
La semplificazione è raggiunta quando vengono ridotte la funzionalità di un sistema
senza pagarne costi significativi. Una volta che si è raggiunta tale condizione, si può
passare a dei metodi alternativi chiamati con l’acronimo “SHE” S= Shrink
(rimpicciolisci) H= Hide (nascondi) e E= Embody (incorpora).
Shrink: Quando vediamo compiere a un piccolo oggetto qualcosa che va oltre le
nostre aspettative ne rimaniamo sorpresi e contenti. Questa caratteristica accomuna
tutte le persone ed è stata sempre vera. Basti pensare ai miti tramandati di Davide e
Golia. Non saremmo rimasti stupiti se lo scontro si fosse svolto tra due persone di
uguali dimensioni. Ciò che ha reso il racconto così peculiare è proprio l’enorme
divario di dimensioni che c’era tra i due, un ragazzo piccolo contro un gigante e il
fatto che in Davide erano nascoste capacità incredibili.
La semplicità ha dunque a che fare con un piacere inatteso derivato da ciò che sembra
insignificante e che altrimenti passerebbe inosservato. Più un oggetto è piccolo (sia
fisicamente che concettualmente) più restiamo sbalorditi quando mostra un
comportamento inaspettato.
I computer sessant’anni fa pesavano 27 tonnellate e occupavano 167 metri quadrati.
La stessa potenza di calcolo che avevano può essere oggi racchiusa in un frammento
di metallo grande letteralmente 1/10 della nostra unghia. Le CPU dei computer,
cellulari e tablet sono fra le principali cause della complessità odierna.
Il gioco consiste in questo: più l’oggetto è piccolo, minori saranno le aspettative. Ma
in realtà, più sono i microprocessori contenuti in una CPU, maggiore sarà la sua
potenza. Si è passati da CPU che contengono un solo core (l’unità lavorativa vera e
propria) a CPU che di core ne contengono 16 e sono capaci di svolgere decine di
attività molto complesse contemporaneamente ed in tempi ridotti.
La fragilità è una forza essenziale per contrastare la complessità perché trasmette
compassione. Far sì che un oggetto sembri fragile e delicato è un’abilità che si
tramanda da anni in tutta la storia dell’arte.
Gli artisti venivano educati su come evocare negli esseri umani emozioni come
compassione, paura, rabbia e altri sentimenti, soli o in combinazione.
Alcuni degli strumenti che si possono utilizzare per raggiungere la riduzione di un
oggetto sono la leggerezza e la sottigliezza.
Pensiamo ad uno schermo piatto di 60 pollici. Questo schermo risulta avere una
superficie molto più grande anche delle vecchie televisioni, tuttavia il fatto che risulti
essere così sottile lo rende molto semplice. Inoltre, se collochiamo questo schermo su
un supporto minimo, snello o addirittura invisibile come i bracci a muro, questo
televisore sembrerà ancora più leggero.
Qualsiasi prodotto in grado di incorporare leggerezza e sottigliezza dà l’impressione
di essere più piccolo e più modesto di quanto non sia in realtà. Il fatto che poi
fornisca un valore maggiore di quello atteso fa mutare la compassione in rispetto.
Talvolta poi, come vedremo successivamente, si attuano anche delle strategie di
marketing come il “foreign branding” che attribuiscono indirettamente delle qualità
che il prodotto non ha senza dunque mentire al consumatore.
Il rimpicciolimento quindi alla fine dei conti può sembrare una sorta di inganno. Ed
in realtà lo è. Ma anche se si tratta di un trucco risulta essere efficace come mezzo di
contrasto per la complessità. La riduzione può essere considerata una sorta di
medicinale placebo per la complessità: funziona perché ci fa credere che funzioni.
Hide: Quando tutte le cose che si potevano rimuovere sono state rimosse e un
prodotto è stato reso snello, leggero e sottile, si procede con il secondo metodo:
nascondere la complessità attraverso sistemi brutali.
Un esempio pratico può essere il coltellino svizzero. Dotato di moltissimi strumenti
che risultano però visibili soltanto nel momento in cui vogliamo utilizzarli. Anche
nella fase hide però bisogna attuare un camuffamento ragionato. Nel coltellino
svizzero ad esempio i vari utensili sono posti da un lato di apertura o dall’altro in
base alle funzioni combinate. Non troverete così mai la lama centrale al di fuori di
quella posizione, questa infatti, pensate come oggetto principale, risulta essere molto
meno dura da aprire rispetto agli utensili, che si trovano invece all’esterno per
proteggerla.
Un altro esempio di hide possono essere i vecchi telecomandi degli anni 90. Una
soluzione di design comune era infatti nascondere le funzioni meno usate, collocando
i pulsanti del videoregistratore dietro uno sportellino e mantenendo invece i tasti dei
canali e di accensione e spegnimento in bella vista.
Questo approccio oggi non è più popolare, probabilmente a causa dei costi di
produzione. Il design ha oggi attuato metodi molto più ingegnosi passando prima per
il design a conchiglia e poi, grazie al digitale a metodi visivamente più efficaci. Molti
modelli recenti applicano dei meccanismi a scorrimento o scomparsa. Basta pensare
agli obiettivi delle fotocamere compact o ai nuovi smartphone pieghevoli.
Anche le interfacce software si sono appropriate di questa tecnica. Ci troviamo
difronte a delle barre di menù che contengono altri menù e strumenti che appaiono
con un semplice click. La grande potenzialità del computer sta nel fatto che ha la
capacità infinita di nascondere creando l’illusione di semplicità.
Proprio questa capacità ha portato alla creazione del sistema touch. Parti hardware
come la tastiera sono state sostituite dal software. La tastiera viene nascosta agli
occhi dell’utilizzatore fino a quando non si ha realmente bisogno di essa così come i
pulsanti per rispondere o riagganciare. Oggi giorno poi, la tecnologia è arrivata al
punto tale da nascondere completamente la parte hardware. Dispositivi come Google
Home o Amazon Alexa permettono di controllare qualsiasi elettrodomestico della
casa esclusivamente utilizzando la voce, così da non dover cercare i vari telecomandi.
La televisione ormai si accende con un semplice “Alexa accendi la tv” così come la
macchina del caffè può entrare in funzione con un altro comando vocale.
Questa repentina evoluzione è il frutto di un mercato che esige innovazione ed è
disposto a pagare per ottenere soluzioni intelligenti che nascondano la complessità.
Dunque ricapitolando: il rimpicciolimento di un oggetto riduce le aspettative e
l’occultamento delle complessità permette ai possessori di gestirle da sé. La
tecnologia crea il problema della complessità ma allo stesso tempo offre nuovi
metodi per modellarne le relazioni.
Sebbene ricorrere a mezzi come il “suscitare compassione” e scegliere come
“controllarla” evochi un approccio draconiano alla semplicità, considerata la
soddisfazione e i risultati che procurano possono anche essere visti sotto una luce
positiva.
Incorpora: Una volta che il prodotto è stato rimpicciolito e alcune funzionalità
nascoste, diventa importante la necessità di incorporare nell’oggetto un senso di
“valore” che viene sminuito dopo le prime due fasi.
I consumatori saranno infatti attratti dall’oggetto più piccolo e meno funzionale
solamente se lo percepiranno come dotato di maggior valore rispetto alla versione più
grande o al prodotto con un numero maggiore di funzionalità.
Incorporare è un’azione più commerciale che di design o tecnologia. La qualità da
incorporare può essere sia reale, quando si concretizza nell’uso di materiali pregiati o
nell’abilità produttiva; oppure può essere percepita, come quando viene descritta da
una campagna di marketing.
Possiamo prendere come esempio la cuffie Beats. Quando vediamo un grande artista
come Dr. Dre indossare tali cuffie, non possiamo fare a meno di associare le virtù del
testimonial al prodotto. Le cuffie ne diventano l’incarnazione stessa. Ma anche senza
un personaggio famoso un messaggio di marketing può diventare uno strumento per
sottolineare le qualità di un prodotto. La Vodka Absolute ha fatto coincidere nel
tempo il prodotto e il visual al punto che, ad oggi, possono anche permettersi di non
mostrarla nelle pubblicità. Lo stesso accade con il vino rosso, che è associato ad una
tipologia precisa di bottiglia. Questa forma “da vino”, inventata dai francesi, è finita
per diventare una sineddoche, la parte per il tutto. Esempio ancora più lampante è il
marchio Nike che tramite il visual ha dato forma ad un modo di vivere e pensare e
può permettersi ora di mostrare soltanto il pittogramma del baffo, non solo sulle
scarpe, ma anche nel resto del marketing. Quando dico la parola Nike infatti, non ci
viene in mente soltanto il semplice prodotto, ma anche un modello visivo che vive
nella nostra mente. Arriviamo di nuovo ad un punto importante esplicitato
precedentemente: il visual design progetta anzitutto rappresentazioni. E una
rappresentazione è qualcosa che parte dallo sguardo ma che finisce per abitare i nostri
pensieri. Se penso Nike, penso Just do it!
Talvolta è inoltre necessario pubblicizzare qualità che non possono essere trasmesse
in maniera implicita, specie quando il messaggio ad esse relativo corrisponde alla
verità. Ciò accade molto spesso nel mondo della tecnologia dove le qualità risultano
essere invisibili fino a quando non se ne fa realmente uso. Un processore più potente
o una fotocamera con maggiori megapixel non possono essere pubblicizzati
efficacemente se non esplicitando il miglioramento stesso.
Riassumendo quindi SHE consiste in un processo ragionato in cui riduciamo quello
che possiamo e nascondiamo tutto il resto senza però perdere il senso del valore
intrinseco dell’oggetto.
Il design, la tecnologia e il business lavorano insieme per trovare una soluzione finale
che porti a stabilire l’equilibrio tra i tre strumenti.
Tempo
In media ciascuna persona trascorre almeno un’ora al giorno in coda. Di parte di
queste attese non siamo consapevoli. Aspettiamo che l’acqua esca dal rubinetto
quando giriamo il pomello, aspettiamo che l’acqua sul fornello bolla, aspettiamo che
cambi la stagione ecc.
Delle attese restanti siamo invece più consapevoli e queste possono rappresentare una
grande fonte di stress: attendere il caricamento di una pagina web, aspettare in coda
alle poste o nel traffico e così via.
Nessuno sopporta la frustrazione dell’attesa e così tutti cercano un modo per vincere
il trascorrere del tempo. Ad esempio da quando ho scoperto che le poste hanno creato
un’app per prenotare il ticket l’esperienza di attesa è cambiata totalmente.
Quando tutte le interazioni con i fornitori di servizi o beni sono veloci, l’esperienza
viene percepita come più semplice. Basti pensare al servizio di Amazon che ci
permette di acquistare in pochi secondi un prodotto di nostro interesse per poi
riceverlo grazie ad Amazon Prime il giorno successivo.
Quando siamo costretti ad aspettare la vita appare inutilmente complicata. I risparmi
di tempo somigliano alla semplicità. Esiste poi un beneficio implicito altrettanto
importante: la riduzione del tempo trascorso ad aspettare si trasforma in momenti
dedicabili ad altro.
Risparmiare tempo vuol dire ridurlo e lo SHE applicato prima può esserci d’aiuto
anche qui.
Ridurre un compito che richiede cinque minuti è la ragione d’essere della gestione
della produzione, la disciplina che ci ha portati nel mondo che non dorme mai e dove
tutto è sempre in orario. Un esempio ne sono i codici a barre sui prodotti dei
supermercati che hanno permesso di fare inventari istantanei.
Uno dei modi per ridurre il tempo è quello di rimuovere i vincoli. Pensate allo shuffle
presente ormai su tutti i software di riproduzione musicale. Lo shuffle fu
un’invenzione della Apple che creò un modello di Ipod privo di schermo. Facendo
così non solo risparmiava sui materiali e guadagnava in resistenza ma permetteva ai
possessori di avere un taglio di tempo nella scelta dei brani. L’Ipod decideva al posto
nostro in maniera casuale. Tuttavia lo shuffle non è altro che l’evoluzione naturale
dello zapping televisivo. In un mondo sempre più frenetico in cui il tempo sembra
essere l’unico fattore non ancora controllabile, l’uomo è disposto a perdere una
piccola parte di controllo sulle sue decisioni per guadagnare ogni giorno dei minuti.
Sono stupito del fatto che nei televisori del ventunesimo secolo non sia ancora
presente un tasto “zapping” che permetta di scorrere tutti i canali o almeno quelli
contrassegnati come preferiti.
I software attuali sulla base di questo modello si sono evoluti in maniera radicale
riuscendo oggi a scegliere per noi non in maniera casuale ma bensì calcolata.
Spotify ci consiglia musica che ci potrebbe piacere, Netflix e Youtube ci
suggeriscono video e serie tv di nostro gradimento così come Amazon ci offre ogni
giorno prodotti in base ai nostro interessi.
Scorrere gli inventari in cerca di qualcosa potrebbe richiedere molto tempo, e così,
prendendola più alla leggera, possiamo risparmiare del tempo. Lasciare che altri
prendano scelte meno importanti al posto nostro potrebbe dimostrarsi una strategia
efficace.
Una volta ridotto il tempo, sempre secondo il metodo SHE è possibile nasconderlo ed
incorporarlo.
Un esempio concreto sono i casinò di Las Vegas progettati dagli psicologi proprio per
nascondere il tempo passato all’interno. Entrando in un casinò non ci rendiamo conto
dell’assenza degli orologi e addirittura delle volte possono non esserci nemmeno le
finestre che rivelino l’ora del giorno. Questa organizzazione dello spazio è mirata
proprio a nascondere il tempo trascorso all’interno così da far giocare le persone il
più possibile.
Certo, nascondere il tempo non significa risparmiarlo; crea semplicemente l’illusione
che in quell’istante non sia importante.
Ci piace vedere scorrere il tempo, poiché è normale che esso vada avanti seguendo
una progressione lineare e ci troviamo difronte ad un senso di fastidio e smarrimento
quando vediamo un orologio fermo le cui lancette non si muovono.
Dall’altra parte, quando non vediamo un orologio non ci poniamo il problema del suo
funzionamento ma proviamo piuttosto un senso d’incertezza non sapendo che ora sia.
Un esempio pratico di questo problema sono nuovamente i computer.
Agli albori dei pc quando avveniva un trasferimento di un file da una memoria
interna ad un’altra come un floppy disk ci potevano volere da pochi secondi a molte
ore. Si inviava il comando senza sapere quanto tempo sarebbe realmente passato. Un
computer bloccato è come un orologio fermo. Per affrontare questo problema hanno
fatto la loro comparsa strumenti di design come le “barre di progressione”.
Le barre di progressione ci danno l’impressione che il tempo passi in maniera molto
più repentina. Dire alle persone quanto tempo devono aspettare è una pratica sempre
più diffusa.
Display sui forni a microonde, timer sulle pubblicità televisive, tracking dei pacchi
per le consegne online e orologi alle fermate dei bus e della metropolitana.
Il tempo inoltre può essere incorporato sotto forma di stile ricreando l’illusione di
movimento e velocità.
Un esempio ne sono varie auto sportive che montano alettoni apparentemente
finalizzati alla velocità ma che in realtà non hanno alcuna funzione aereodinamica.
Lo styling è una forma di inganno che, sebbene fuorviante, può costituire un attributo
desiderabile dal punto di vista del consumatore.
Quando non è possibile accelerare un processo, l’esperienza di attesa può essere resa
più tollerabile fornendo attenzioni extra. Quanti di voi sono stati costretti ad un
ritardo di almeno un’ora dentro ad un treno? Vi ricorderete senz’altro un controllore
che viene a portarvi un sacchettino con dentro un succo di frutta o dell’acqua e
qualcosa da mangiare.
Il metodo SHE quindi può essere applicato anche al problema del tempo. Da una
parte infatti, si riducono i vincoli di tempo e dall’altra si nasconde e incorpora la sua
dimensione. Il processo SHE ci aiuta a manipolare la relazione con il tempo in modo
da renderla migliore. Quando si risparmia o sia ha l’impressione di farlo ciò che è
complesso sembra semplice.
IMPARA
La conoscenza rende tutto più semplice. Ciò è vero per qualsiasi oggetto, non importa
quanto complesso sia. Il problema di dedicarsi all’apprendimento di un compito è
quello di avere l’impressione di perdere del tempo, violazione della terza legge.
Spesso utilizziamo l’approccio diretto “non leggo le istruzioni, lo faccio”. Ma questo
metodo spesso richiedere più tempo che seguire le istruzioni.
I migliori designer sposano funzione e forma per creare esperienze intuitive da
comprendere immediatamente, senza bisogno di alcuna lezione. Il buon design si
basa sull’abilità di instillare un senso di immediata familiarità. “Hey, questo l’ho già
visto!” è una reazione a cui aspirare e che genera la fiducia necessaria a indurre le
persone a testare il prodotto.
Questa caratteristica è alla base dello user experience design, disciplina nata proprio
per studiare l’interazione dell’utente con le varie interfacce non solo di siti web e
applicazioni degli smartphone, ma di tutte le interfacce che ci circondano: dai display
nelle auto a quelli sugli elettrodomestici, dalle biglietterie elettroniche nelle stazioni
alle casse automatiche nei supermercati.
Il design sfrutta l’istinto umano di cercare relazioni, le traduce in oggetti utili e
tangibili e alla fine aggiunge un po’ di sorpresa per far sì che lo sforzo dei fruitori non
sia stato vano. Riassumendo metti in relazione, traduci e sorprendi.
Un esempio può essere la metafora di scrivania introdotta negli anni ottanta. Prima
delle interfacce grafiche per l’utente, la norma era uno schermo abbastanza grande da
poter visualizzare 80 x 24 caratteri di testo. Il mondo interno alla macchina era
rappresentato da un flusso lineare di codici alfanumerici. I ricercatori di Xerox
sfruttarono la potenza grafica dei computer insieme con il comune paradigma di
scrivania da ufficio per stabilire una relazione riconoscibile tra una persona e le sue
informazioni. (metti in relazione). Certi aspetti della scrivania vennero tradotti
facilmente in una virtuale: alle cartelle contenenti documenti cartacei vennero fatte
corrispondere cartelle con file di dati, al cestino per i rifiuti fisici un cestino per la
spazzatura virtuale dei dati cancellati.
Da un punto di vista cognitivo, la nota relazione con la scrivania fisica ha fatto
accettare subito il prodotto, rafforzandolo con concetti che ne hanno poi permesso
una buona traduzione. Ma per spingere gli utenti a passare a questa nuova “tecnologia
dirompente” serviva o un compenso sostanziale o una significativa sorpresa. Questa
sorpresa si è manifestata nell’opportunità di raccogliere, categorizzare, ridistribuire e
riproporre molti più documenti di quanto ritenuto possibile fino ad ora grazie al
passaggio all’informazione digitale.
Questa tecnica ha tuttavia dei lati negativi. Si basa infatti sull’esistenza di
un’esperienza comune al quale far corrispondere una particolare esperienza, il che
purtroppo si traduce in una limitazione verso abitudini specifiche. Per esempio la
prima icona di cestino dell’Apple Macintosh risultava irriconoscibile agli utenti
giapponesi, i quali non avevano mai visto contenitori metallici per i rifiuti a coste
verticali.
Le metafore sono dunque utili piattaforme per trasferire una grande massa di
conoscenza da un contesto a un altro con un minimo, spesso impercettibile sforzo da
parte della persona che attraversa il ponte concettuale.

DIFFERENZE
La semplicità e la complessità sono necessarie l’una all’altra.
A nessuno piace mangiare solamente il dessert. Seppur vi trovaste di fronte al vostro
dolce preferito, dopo qualche fetta il sapore inizierebbe ad essere non più così
gustoso. L’unico modo per farlo tornare ad essere piacevole è spezzare il pasto con
qualcosa di salato che faccia da contrasto. Allo stesso modo nessuno vuole soltanto la
semplicità. Senza la controparte della complessità non potremmo riconoscerla quando
la vediamo. I nostri occhi e i nostri sensi ruotano intorno alle differenze.
Riconoscere il contrasto aiuta a identificare le qualità che desideriamo. Sappiamo
apprezzare meglio qualcosa quando lo mettiamo a confronto con qual cos’altro.
Inoltre nella realizzazione di un oggetto di design, che sia un prodotto in serie o un
pezzo unico, le differenze sono l’espressione fenotipica di un processo di lavorazione
contraddistinto da fattori irripetibili.
Immaginiamo di voler ricopiare un disegno eseguito da noi stessi in precedenza.
Inizieremo con il riutilizzare lo stesso tipo di carta, la stessa matita e agiremo nello
stesso contesto, quindi stessa luce, stesso tavolo e stessa sedia. Se facessimo una
copia ogni ora, per ventiquattro ore, nessuna sarebbe perfettamente identica
all’originale; la matita avrà ogni volta grana e tratti differenti e soprattutto ogni volta,
anche se pensiamo di copiare, in realtà staremo interpretando e quindi creando da
zero un pezzo unico.
Anche l’esecuzione di un brano ripetuta da parte di un pianista esperto, seppur molto
simile, apparirà diversa ad un orecchio esperto. Noi non funzioniamo come
macchine: in fondo se sapessimo ripetere esattamente qualcosa, attività come lo sport
e tutti i tipi di gare sarebbero privi di senso.
Apprezziamo di fatto la precisione proprio perché innaturale.
Anche i processi industriali, seppur serializzati, sono soggetti tal volta a differenze.
Vuoi che un macchinario spruzzi la vernice in maniera diversa, vuoi che una carta
venga tagliata male, queste imperfezioni spesso indesiderate, talvolta possono
impreziosire l’oggetto donandogli proprio un alone mistico. Tempo fa un mio amico
mi parlò di una carta di Magic, un gioco di carte collezionabili, venduta ad un’asta a
diverse migliaia di dollari. Quando chiesi il perché di tale prezzo mi rispose che a
conferirglielo fu un difetto di produzione che era ritrovabile soltanto in poche
centinaia di carte.
Nell’industria le differenze non sono riscontrabili esclusivamente nel prodotto finito
ma anche nel processo che porta alla sua creazione. L’opposto di industriale infatti
non è “manuale” o “artigianale” ma “non pensato per la serie”. Spesso oggetti simili,
se non visibilmente uguali, sono contraddistinti da processi di realizzazione
profondamente diversi. Basti pensare ad una borsa griffata molto costosa e ad una sua
copia altrettanto economica. A primo impatto le due borse potrebbero sembrare
uguali. Nel tempo però quella più economica finirà per rivelarsi sicuramente più
scadente. Scopriremo infatti che il produttore l’aveva realizzata prestando poca cura
al processo di creazione. La pelle quindi, seppur del medesimo materiale, trattata in
maniera diversa inizierà a distruggersi, la cerniera, seppur in ferro, magari finirà per
bloccarsi dopo pochi utilizzi, così come le cuciture, effettuate con lo stesso filo,
finiranno per allentarsi perché eseguite da una mano meno esperta in poco tempo.
Progettare poi, in ambito di design, è solo in parte inventare le forme. Progettare è
anche stabilire le strategie e i canali di diffusione di un’idea; e queste due attività,
anche se avvengono in tempi diversi, vanno pensate insieme. Questo contesto è
legato soprattutto all’ambito del graphic design. Chi realizza la campagna
pubblicitaria deve pensare all’implementazione dell’artefatto, cioè il suo essere
messo in opera nella società. Un medesimo prodotto può essere pubblicizzato in
centinaia di modi differenti, ma in tutti i casi, per evitare di risultare troppo banale o
troppo complesso, dovrà trovare un giusto equilibrio tra i due estremi.
Nella mia camera ho una libreria e due scaffali pieni di libri eppure non ho mai
utilizzato dei segnalibri ad eccezion fatta di uno. Generalmente ricordo a memoria la
pagina e il punto a cui sono arrivato, tuttavia questo mi ha colpito particolarmente. E’
un normale segnalibro, realizzato in cartoncino nero, con sopra stampato un pattern di
diverse parole scritte con font diversi. L’unica peculiarità è la stampa con cui sono
fatte, una stampa color argento che riflette la luce. Una piccola peculiarità che non
avevo mai visto e che ha conferito a quel segnalibro un valore particolare.
CONTESTO
Ciò che sembra periferico non lo è.
C’è qualcosa di magico nel modo in cui ci muoviamo, la coordinazione con cui occhi,
mani e gambe si muovono come fossero strumenti di un concerto. Immaginiamo di
lavorare a un progetto, curando con attenzione ogni dettaglio. Tutto ciò sta accadendo
in un ristretto campo visivo. Sentiamo il telefono squillare e il controllo viene meno a
causa dello sfondo che travolge il primo piano.
Le parole limitare e focalizzare significano la stessa cosa, la prima però ha
un’accezione negativa, mentre la seconda positiva. Un atleta che arriva alle olimpiadi
non è limitato ma focalizzato. Tuttavia anche focalizzarsi non è sempre un bene.
Bisogna tenere sempre sotto controllo ciò che può essere perduto durante il processo
di progettazione. Pensate a un laser: questo è in grado di illuminare una zona ristretta
con un fascio di luce molto potente, tuttavia la stessa quantità di luce può essere
utilizzata per illuminare in maniera meno intensa tutto ciò che ci circonda. Il nostro
scopo è quello di arrivare ad una sorta di superficialità illuminata.
Nel mio caso specifico ad esempio: quando creo l’interfaccia di un sito web, mi devo
preoccupare non soltanto di ciò che appare in prima vista come le immagini o i font,
ma anche del rapporto che si viene a creare tra i vari elementi, della composizione
finale e di come questa influirà anche sulle prestazioni del sito stesso. Un’immagine
ad alta definizione ad esempio susciterebbe sicuramente un maggiore stupore nel
visitatore grazie alla sua qualità, ma nel pratico si tradurrebbe in un caricamento del
sito molto più lento che farebbe perdere tutta quella parte di utenza con una
connessione meno veloce.
Per riuscire in questo obiettivo dobbiamo preoccuparci anche di ciò che viene
identificato come “nulla” inteso anche come bianco, vuoto, mancante.
Innanzitutto va infatti sottolineato che il nulla è qualcosa.
Anche in questo caso, in parte a causa dell’entropia che regola il mondo, in parte per i
cattivi costumi che ci sono affermati nel corso della storia dell’uomo ci siamo ridotti
a pensare che uno spazio vuoto debba essere necessariamente occupato. Un ingegnere
pensa a come poter inserire altre funzioni nel suo prodotto e un imprenditore edile
vede un hotel in un pezzo di terra vuoto.
I designer, gli architetti e tutti quei professionisti che si occupano invece dell’estetica
sceglierebbero di fare del loro meglio per preservare quegli spazi vuoti, perché
credono che il nulla sia qualcosa di importante.
L’opportunità persa a seguito dell’aumento dello spazio vuoto infatti è compensata
dalla maggior attenzione per ciò che resta.
Per rendere più concreta questa affermazione supponiamo di essere all’interno di un
museo e di avere di fronte, poste a distanza quasi inesistente, due opere d’arte come il
“David” di Michelangelo e “Amore e Psiche” di Canova. La mancanza di spazio tra
le due sculture porterebbe i nostri occhi e il nostro cervello ad un’impossibilità di
concentrazione. Entrambe le opere sarebbero svalutate seppur indiscutibilmente
magnifiche soltanto a causa della mancanza di spazio. Come detto nel primo capitolo,
la mancanza di una pausa, di uno stacco sia fisico che mentale ci porta ad una
condizione di profondo stress emotivo.
Più spazio bianco significa che viene presentata meno informazione e, allo stesso
tempo, che una maggior attenzione sarà dedicata a ciò che è stato reso meno
disponibile. Quando le cose di cui disponiamo sono poche, le apprezziamo molto di
più.
Pensiamo a una delle tante sere in cui non riusciamo a prendere sonno. Viviamo in
quel frangente, attraverso quasi tutti i sensi, un’esperienza unica. A causa della
mancanza della luce solare i nostri occhi sono infastiditi da quei piccoli LED del
cellulare o delle prese elettriche che di giorno non notiamo. Sentiamo come fossero
passi di un gigante il ticchettio delle lancette dell’orologio, gli infiniti scricchiolii
degli oggetti in casa e il nostro stesso battito cardiaco. Avvertiamo perfino la
morbidezza del cuscino e peli delle lenzuola felpate.
Tutta le attività basate sull’esperienza pongono un’attenzione scrupolosa a queste
minuzie che prese singolarmente vengono di norma ignorate, ma che unite insieme
acquisiscono un’enorme rilevanza.
Un’agenzia turistica presterà attenzione alla qualità dei servizi di trasporto, alle
condizioni metereologiche, al contesto sociale e ad innumerevoli altri fattori per
garantire un’esperienza piacevole ai turisti.
L’ambiente è quello che si definisce ingrediente segreto. Che siate al ristorante, in
aperta montagna o a lavoro, l’ambiente permette a ciò che sta sullo sfondo di
emergere e raggiungere uno stato di armonia con esso può aiutarci nel gestire quello
che abbiamo di fronte.
Il compito più difficile risulta quello di trovare un equilibrio tra la condizione di
controllo e caso di questi fattori. Una vacanza potrebbe risultare eccessivamente
sicura e tradursi in un’esperienza noiosa, così come improvvisare completamente
potrebbe significare perdersi nel caos delle possibilità.
Un elemento di altissimo valore simbolico è il volto con cui ci presentiamo agli altri,
tutti compiono un’opera di brand identity personale: il colore della pelle (naturale o
artificiale), la pettinatura, gli occhiali o il cappello sono portatori di significati
articolati.
Per millenni ad esempio il pallore è stato segno di distinzione: l’espressione “sangue
blu” si riferiva alle vene chiaramente visibili sotto la pelle; l’abbronzatura invece era
il tratto distintivo delle classi subalterne e di chi lavorava all’aperto. Nell’Ottocento
poi, le classi umili non furono più identificate con i contadini ma con gli operai,
pallidi perché chiusi nelle fabbriche: così, quando Coco Chanel tornò dalle vacanze
abbronzata, quel segno, che fino a pochi anni prima sarebbe stato considerato rozzo,
fu subito usato dalle classi più ricche come segno di distinzione. Da quel momento in
poi l’abbronzatura era diventata il segno di chi poteva permettersi le vacanze. Tutto
continuò così fino a che anche gli operai non poterono permettersi le vacanze.
L’abbronzatura a quel punto diventò il segno di chi è ricco ma non abbastanza
evoluto da sapere dove va il mondo. Così rimasero abbronzati solo i ricchi grossolani
e i poveri che volevano imitarli. Questa storia parla di design: anche le mode sono
forme di serializzazione, le pratiche sociali obbligano i corpi a standard che sono
sempre forme simboliche e queste forme simboliche sono legate al contesto in cui si
formano.
Anche quando parliamo di dare troppa importanza alle forme (o non dargliene
affatto), stiamo solo usando una metafora per riferirci allo spessore morale che
attribuiamo ad alcune di queste forme. E’ ingenuo chi afferma di infischiarsene delle
convenzioni sociali e di vestirsi con la prima cosa che capita: anche vestirsi con la
prima cosa che capita è un modo di vestire ed ha un significato ben preciso, quello di
infischiarsene delle convenzioni sociali. Non solo non possiamo non avere una forma,
ma soprattutto non possiamo non comunicare perché ogni nostra mossa verrà
comunque interpretata dagli altri in qualche modo.
Anche le campagne pubblicitarie vivono di ambiente: sarete sicuramente stati all’Ikea
e avrete, anche per caso, sfogliato un catalogo dei loro prodotti. Tale catalogo opera
in maniera coordinata con gli oggetti venduti e lo spazio espositivo: il mobile
rimanda contemporaneamente alla sua figura stampata e allo spazio in cui è esposto;
lo spazio espositivo a sua volta somiglia al layout del catalogo; il catalogo infine li
riflette entrambi. L’idea di fondo è di usare il catalogo non come un listino prodotto,
ma come fiction, visualizzando non i prodotti ma il mondo accogliente di chi li abita.
Il catalogo non mostra un mobile ma un gusto, un modo di illuminare lo spazio e
perfino un modo di viverlo e di essere. Un perfetto esempio di graphic design, un
catalogo trasformato in magazine, in cui la visualità precede le merci.
Le multinazionali contemporanee, risiedenti per lo più negli Statu Uniti, hanno
imparato velocemente la lezione, ed hanno iniziato a proporre il consumo come fatto
globale e non più nazionale. La stessa Coca Cola o McDonald’s sono oggi
difficilmente definibile come prodotti statunitensi in senso stretto; le strategie di
marketing si adattano ai vari paesi e ai vari contesti in maniere diverse. Andare al
McDonald’s in Cina è vissuta come esperienza di lusso esotico, un po’ come quando
noi andiamo a mangiare Sushi. Nell’economia globale tutti i Paesi industrializzati
esportano, distribuiscono e vendono le proprie merci, attraverso un’immagine
studiata appositamente per ogni caso. L’Italia ad esempio esporta principalmente
gastronomia e moda: la scala della nostra esportazione è molto più piccola, ma si
tratta anche di prodotti mediamente molto più costosi. Negli Stati Uniti i prodotti
italiani, sono associati a un tenore di vita elevato e sono percepiti e desiderati come
segno di status. Un semplice pacco di pasta può arrivare a costare anche sei dollari
nei supermercati.
Come abbiamo detto nel primo capitolo, la prima regola della società di massa è il
consenso. Non riceviamo ad esempio tutti i canali della televisione americana. Se
avete viaggiato un po’ vi sarete accorti che la Coca Cola non ha lo stesso sapore in
tutti i Paesi, così come i menù del McDonald’s cambiano da stato a stato. Quello che
viene venduto in Italia, così come nel resto del mondo, non è un prodotto americano,
ma un prodotto multinazionale pensato per risultare americano al palato degli italiani.
Oggi giorno, proprio per misurare il consenso della popolazione e per capire quali
siano state le decisioni più funzionali sono nati nuovi lavori come i Data Analyst che
si sono dimostrati fondamentali in tutti i settori: dalle elezioni del presidente
americano Trump alla scoperta di cure personalizzate per ogni paziente. La
semplicità nel fattore contesto si ottiene attraverso la sintesi di moltissime
informazioni che vengono analizzate, scremate e razionalizzate.
EMOZIONE
La semplicità può essere considerata sgradevole. Prendete mia madre come esempio.
Più volte ci siamo trovati a discutere sull’estetica di vari oggetti ed è emerso sempre
questo suo disprezzo assoluto nei confronti di tutto ciò che abbia un colore neutro o
una forma minimalista; ama gli ambienti rustici, fiori vistosi, piatti di porcellana
appesi e altre forme di decorazioni. Quando si parla di estetica, per lei ciò che conta è
il luccichio.
Da un punto di vista razionale, la semplicità è economicamente desiderabile. Produrre
oggetti semplici è più facile e meno costoso e ciò che si risparmia può essere
convertito in prezzi più bassi per il consumatore.
Un esempio di questa corrente sono catene come Ikea e Tiger.
Tuttavia, alcune tipologie di persone, non sono soddisfatte dal possedere semplici
oggetti dozzinali, ma vogliono che questi appaiano anche come dozzinali.
Ogni essere umano prova un forte desiderio di esprimere se stesso e molte delle
decisioni che prendiamo non sono guidate unicamente dalla logica. Gli oggetti
acquistati diventano in pratica un’espressione della nostra personalità.
La regola da tenere bene in mente è: meglio emozioni in più che in meno. Quando
pensiamo che le emozioni vengano prima di ogni altra cosa, non dobbiamo temere di
aggiungere strati di significato ulteriori.
Dopo la funzione viene la forma e dopo la forma le sensazioni. Le sensazioni
competono più al campo della complessità che a quello della semplicità, come
quest’ultima talvolta richiede.
Un esempio pratico che si sta evolvendo tutt’ora sono gli emoji. Vi siete mai chiesti
come sono nati? L’atto di scrivere a mano non porta di per sé al loro uso.
E’ come se il medium testuale abbia richiesto il fiorire del barocco, di qualcosa di più
articolato. Questa forma di scrittura permette infatti di esprimere meglio le proprie
emozioni, catturando nella comunicazione scritta, quelle sfumature che diamo per
scontate quando parliamo.
Quando comunichiamo attraverso il testo, è facile allontanarsi dalle normali regole
sociali. Gli smiley sono nati per rappresentare quelle forme implicite come l’ironia
che altrimenti sarebbero andate perse.
Possiamo ritrovare un’ulteriore forma di semplicità riguardante l’ambito delle
emozioni nel design dei prodotti.
Nell’industria infatti si è affermata la tendenza a costruire dispositivi elettronici
portatili, di piccole dimensioni, lisci e privi di giunture per soddisfare la domanda di
semplicità del mercato. Utilizzare il metodo SHE significa infatti produrre oggetti
ridotti all’essenziale ma che possono apparire scarni e freddi.
È così spopolato e in continua espansione il mercato degli accessori decorativi come
la cover. Questo mercato da un lato risolve il problema ma dall’altro solleva un’altra
importante questione: perché le persone che sono state attratte proprio dal design
minimalista di un dispositivo si affrettano a riempirlo di accessori?
Il fattore emozione fa emergere i pochi punti deboli del metodo SHE.
Prima di tutto, rendere un oggetto più piccolo, riducendo insieme il timore nei
confronti delle macchine più grandi e complesse (come nel caso dei processori),
significa far nascere una nuova preoccupazione riguardo la sopravvivenza
dell’oggetto. E’ capitato a tutti di comprare un oggetto nuovo e di tenerlo protetto e al
sicuro come fosse un neonato. Talvolta ci limitiamo addirittura nell’utilizzo per paura
di rovinarlo precocemente. Il mercato degli accessori è nato proprio per cercare di
contrastare questo problema. Una custodia resistente fornisce la protezione perfetta
ad un cellulare magro e denutrito.
La seconda ragione è invece insita nel bisogno di esprimere se stessi e di bilanciare la
freddezza ideale del mercato con un po’ di calore umano. L’oggetto in sé mantiene la
pura e semplice nudità; ma il suo rivestimento può essere più caldo e vivace se lo si
desidera.
Il risultato perfetto è quindi rappresentato dalla combinazione di un prodotto semplice
con una moltitudine di accessori opzionali che permette ai consumatori di esprimere
le loro sensazioni e i loro sentimenti nei confronti degli oggetti.
Ne abbiamo una perfetta rappresentazione grazie all’Iphone: nell’anno sono stati
rimossi peso, bordi dello schermo e prese per ottenere un oggetto liscio e compatto.
Tutte queste rimozioni hanno però portato alla vendita dei gadget come le cuffie
wireless.
Per chi ha mai giocato a qualche videogioco come “The sims” o “GTA” in cui era
possibile personalizzare il proprio personaggio base, gli oggetti odierni seguono
sempre più questo andamento, anche grazie alla nascita degli accessori smart.
Lampadine che cambiano colore, Alexa che può programmare delle routine
personalizzate. Questa tendenza non si limita soltanto agli oggetti concreti. Anche
siti, applicazioni e servizi si sono evoluti per rispondere a questa esigenza: Sky nato
inizialmente con un’unica offerta propone adesso infiniti pacchetti a seconda del
bisogno dei clienti, i videogiochi che un tempo venivano acquistati sono ora gratuiti e
traggono maggior guadagno dalle micro-transizioni, perfino gli emoji hanno subito
un’ulteriore evoluzione in meme e gif.
Un’altra considerazione molto importante e da tenere bene a mente riguardo il
connubio semplicità-emozioni è una sorta di sentimento simbiotico per un prodotto
che merita affetto non per quello che fa, ma per quello che è. Le persone possono
infatti provare una sorta di naturale attaccamento emotivo alla forza vitale
dell’oggetto, che rappresenta una sorta di qualità intrinseca e nascosta, conosciuta dai
pochi che sono in grado di coglierla.
Questo sentimento ha radici nella popolazione moderna e dunque risulta piuttosto
nuovo. Se provassimo a immaginare il rapporto di un antico romano con una sedia,
con molta probabilità scopriremmo che non ne aveva mai comprata una: che sia
perché ereditata o perché le aveva comprate in blocco con la casa. Siamo noi moderni
a distinguere con classe il vecchio dall’antico. In passato una sedia vecchia era
vecchia e basta, non era dotata di qualità ma di difetti. Inoltre in un’ottica antica, una
sedia nuova, acquistata non perché necessaria ma perché ci piace, sarebbe un oggetto
superfluo o di lusso. Ma la vera differenza con il mondo antico è che noi non stiamo
comprando una sedia per sederci, ma per consumare cultura.
Nella società attuale anche i beni di prima necessità vengono inquadrati secondo
parametri estetici.
Crescendo mi è stato insegnato che nel nostro ambiente tutto, compresi gli oggetti
inanimati, è dotato di una sorta di qualità interiore e dunque merita rispetto. Anche
quando uso i bicchieri mia madre mi dice di prestare attenzione ad utilizzare i più
vecchi per non rovinare i nuovi e di non lasciarli nel lavandino perché si possono
scheggiare. Con questo rigido codice di vita, se avessi preso un foglio bianco, l’avessi
strappato e buttato, sarei stato punito.
Da bambino, capire che ogni singolo oggetto in qualche modo “vive”, era un
qualcosa che facevo fatica a comprendere. Da adulto, invece, mi piace questo modo
di pensare. La tecnologia ci ha aiutati molto ad estendere l’illusione della vita in
senso letterale, con robot che camminano, parlano e persino ballano.
Un esempio è il robot Anki Cozmo, una sorta di robottino cane che è stato
programmato per reagire proprio come un cane in tutto e per tutto. Sebbene avessero
potuto farlo parlare con voce umana, i creatori hanno invece preferito incrociare una
fisionomia robotica ad un anima animale. Il robot, volutamente, non obbedisce
sempre ai comandi, è stato programmato per prendere spesso iniziativa e si distingue
quindi molto dai primi prototipi di cuccioli robot che eravamo abituati a regalare ai
bambini.
E’ ovvio che non si tratta di un essere reale, eppure qualche suo possessore ci
interagisce quasi fosse un vero animale domestico, accarezzandolo dolcemente e
coccolandolo, come a esprimere amore per un animato, ma non vivo, prodotto di
consumo.
La mania dei tamagotchi alla fine degli anni novanta così come la pokemania che si è
riscoperta nell’ultimo decennio concretizzano il nostro desiderio di prenderci cura di
ciò che è puramente immaginario.
Se si può quindi amare un animale sullo schermo di un computer, è ancora così strano
amare e rispettare un pezzo di carta?

FIDUCIA
Ogni giorno che passa i mezzi informatici diventano più potenti e scaltri. Conosce già
il nostro nome, il nostro indirizzo, i legami familiari, il numero della nostra carta di
credito, i nostri gusti e così via.
Circa due anni fa sono andato in una libreria ed ho acquistato un libro della National
Geographic “Il mondo (in un secolo di grandi immagini)” che si trovava in sconto del
50%. Tornato a casa mi sono messo al computer ed ho iniziato a spulciare qualche
sito per poi andare a vedere le offerte di Amazon. Appena entrato nell’home sono
rimasto basito quando ho visto che tra i vari articoli consigliati, proprio al primo
posto, c’era il libro che avevo appena comprato. Non lo avevo mai cercato fino a quel
momento, non ne conoscevo nemmeno l’esistenza, eppure Amazon, semplicemente
conoscendo i miei gusti è riuscita a predire il mio acquisto. Volendo essere più
paranoici potremmo dire che il portale abbia anche esaminato il mio luogo di
residenza, le librerie nella zona e gli sconti effettuati da tali librerie per propormi un
articolo non solo interessante, ma anche concorrente. Se io non fossi infatti passato
quel giorno in libreria, avrei comprato quel libro online, perdendomi uno sconto
maggiore.
Questo è il prezzo da pagare per non dover pensare. Noi crediamo nella semplicità.
Tuttavia, è facile dimenticare che le varie aziende o il governo possono avere accesso
sul web a tutti i dettagli della nostra vita sociale. La questione fondamentale quindi è
capire quanto apprezziamo il fatto che il computer sappia tutto di noi e, quanto siamo
disposti a tollerare che tali informazioni siano rese pubbliche.
Un caso esempio può essere quello delle elezioni americane, del referendum della
Brexit e della società inglese Cambridge Analytica che ha fatto molto parlare di sé
proprio a causa dello scandalo connesso alla gestione dei dati. Tale scandalo è stato
riassunto nella serie tv Netflix “The Great Hack”. Il succo della questione,
tralasciando le varie violazioni della privacy, è che grazie alla profilazione di milioni
di utenti, la società inglese ha potuto creare delle campagne pubblicitarie ad hoc che
hanno indiscutibilmente cambiato il voto di una fascia di elettori considerati ancora
“indecisi”. L’influenza di tale azione non può essere quantificata ma come è stato
detto durante il processo che ha investito la società “in una competizione sportiva
come le Olimpiadi, non conta quanto uso di sostanze dopanti abbia fatto un atleta,
conta solamente se ne abbia fatto o meno uso”.
La maggior parte delle persone è contenta di liberarsi di alcune piccole routine della
vita quotidiana e avere così più tempo per sé. Ma il rischio di affidarsi a questi
dispositivi è compensato dalla semplicità guadagnata?
E’ proprio su questo aspetto che alcune aziende come la Apple, la Herman Miller e la
B&O fanno peso.
Non sono una fan della Apple. Mi piacciono alcuni dei loro prodotti ma mi rendo
conto che sono principalmente degli ottimi venditori. Sono stati capaci di trasformare
ogni nuova idea che hanno avuto in un bisogno primario equiparabile alla corrente
elettrica. Il claim “think different”, la vision di Steve Jobs “Il mio sogno è che ci sia
un computer in ogni casa” e la loro mission “Apple si impegna a fornire la migliore
esperienza informatica a studenti, educatori, progettisti, scienziati, ingegneri,
imprenditori e consumatori in più di 140 Paesi in tutto il mondo” fa sì che le persone
arrivino a fidarsi dei loro dispositivi, non per la qualità, non per i prezzi ma per la
promessa della facilità d’uso. Quando parliamo con un utente Apple non ci vengono
elencate le specifiche tecniche ma la semplicità d’uso e la validità di un ecosistema
che ci aiuta in tutto: dal sentire la musica, al pagamento con le carte di credito al
provider di posta, Apple ci permette di mantenere tutta la nostra vita collegata
mediante un solo account.
La B&O, azienda leader nel campo dei sistemi audio, per esempio non si concentra
sulla sua indiscussa qualità del suono, ma sulla qualità del distendersi e del godersi,
semplicemente, la musica.
Questa è l’inattesa lezione di spostare l’attenzione su ciò che sta alla periferia come
espresso nella regola del contesto.
Lo scopo di distendersi è arrivare a rilassarsi, uno stato che l’audio e il video possono
invadere senza però violarlo. Possiamo sentirci davvero rilassati soltanto quando
confidiamo nel fatto di trovarci nelle migliori mani e di essere trattati con le maggiori
intenzioni.
B&O non vende un prodotto ma un’esperienza: nella nostra società competitiva,
avere la possibilità di distendersi e rilassarsi sembra spesso impossibile. Il design
squisito della B&O vi induce ad abbassare la guardia, offrendoci la possibilità di farci
cullare dai loro prodotti.
Un’ulteriore considerazione da fare è quella sul terrorismo psicologico attuato dai
media, che ha condizionato profondamente anche i giudizi personali. Sempre più
spesso vediamo servizi negativi: dagli scandali dell’industria alimentare all’aumento
della criminalità, dall’aggiunta di tasse alla crisi del lavoro. Si finisce così per entrare
in una condizione di stress cronica che ci mette in difficoltà ogni volta che dobbiamo
attuare una scelta. Non vado al cinema perché i film puntano solo agli incassi, non
guardo la tv perché è tutta brutta e non compro una bistecca perché leggo mucca
pazza.
La difficoltà provata nel momento della decisione ha portato alla nascita di nuove
modalità sempre più diffuse ed apprezzate, modalità che hanno però alla base una
richiesta di fiducia totale.
Troviamo spesso il “menù dello chef”. Dagli aperitivi ai piatti principali arrivando al
dessert. Ad ogni portata viene offerta la possibilità di scegliere tra due o tre squisite
opzioni. John Maeda racconta che in Giappone, nei migliori ristoranti di sushi è
presente una formula simile chiamata omakase, che si traduce più o meno con “lascio
fare a te” dove a te si riferisce al cuoco. Il processo è molto semplice. Il cuoco vi
guarda, procede con un analisi approssimativa dei vostri gusti, riflette sulla stagione e
sul tempo di quei giorni, valuta la varietà di pesce disponibile, si fa un’idea del menù
ideale e inizia a servire il pasto in maniera incrementale, osservando attentamente la
vostra reazione e aggiusta il menù di conseguenza.
Lo stratagemma per ottenere soddisfazione culinaria si basa sulla sicurezza con cui il
cuoco esercita la sua arte. Questa forma di egoismo si basa sull’orgoglio del maestro,
che è quasi più importante della sua vita (così dice la tradizione).
Ci sono però alcune differenze cruciali tra i due. Per esempio, l’approccio del menù
dello chef è meno rischioso, perché alla fine la colpa, in caso di errore, è del cliente
che sceglie ogni portata; quello dell’omakase, invece, implica un rischio più elevato
poiché la responsabilità è tutta del maestro. Inoltre, nel primo caso il cuoco sta in
cucina, lontano da chi prende l’ordinazione, e non è quindi in grado di valutare se il
cibo offerto risponde alle attese. Invece, nel secondo, il cliente siede a pochi metri dal
maestro di sushi che può analizzare le sue espressioni e capire cosa fare.
Maggiore è la conoscenza di un sistema sul nostro conto, minore sarà lo sforzo che
dovremo fare per pensare. Allo stesso tempo, maggiore è la nostra conoscenza sul
sistema, superiore sarà il controllo che potremo esercitare su di esso. Così, il dilemma
futuro per l’utente di ogni genere di prodotto o servizio sarà trovare un equilibrio tra i
seguenti aspetti: quanto dobbiamo sapere del sistema? Quanto il sistema deve sapere
di noi? La privacy viene sacrificata in nome di una maggiore convenienza a farsi
guidare dal maestro.
IDENTITA’
Si racconta che, quando alla fine degli anni Ottanta i lavoratori della Disney stavano
lavorando alla “Sirenetta”, ricevettero una visita del responsabile marketing della
società di giocattoli che aveva la licenza per il merchandising. Questi sostenevano
che non si poteva fare la protagonista rossa di capelli perché le bambole rosse non
vendevano. La storia, vera o mitica che sia, racconta un passaggio fondamentale per
il visual design: fino a quel momento si portavano i consumatori a un unico modello
di merce (la bambola bionda), dopo quel momento si è iniziato a ragionare per tribù:
la bambola rossa individua così una precisa identità e soprattutto un preciso segmento
di mercato.
I linguaggi visivi non sono entità isolate ma diffuse: la fiction interagisce col
marketing, con i valori morali e culturali. Quando operiamo con il visual design,
siamo già dentro a un flusso di cultura e di comunicazione.
Questo gioco di identità appartiene anche alle idee e alle istituzioni, non solo alle
merci.
Alcuni rami del visual design utilizzano anche la paura per influenzare
comportamenti ed acquisti. Cosa intendiamo quando parliamo di paura?
Se ad esempio parliamo di morte, rispetto a com’era intesa nel passato, la morte oggi
è un concetto opaco e, essendosi allungata l’aspettativa di vita, gli incubi quotidiani
sono divenuti altri: l’inadeguatezza, l’imperfezione fisica, la vecchiaia, la malattia.
C’è poi una paura che supera perfino quella della morta, una paura più tragica e
moderna: la paura di un’esistenza mancata.
Una volta soddisfatte le necessità elementari, qualunque società elabora sistemi
simbolici complessi a cui corrispondono altre necessità più articolate e astratte;
passiamo a questo punto dai bisogni ai desideri, e l’insoddisfazione di questi ultimi
non porta alla morte, ma ad una condizione più infima, la frustrazione. Una
condizione prontamente sfruttata dal mercato del consumo, che inizialmente sembra
offrire la soluzione per l’appagamento ma che in realtà sta proponendo nuovi desideri
da soddisfare.
Tuttavia i pubblicitari non sono gli inventori di tale strategia; questo sistema è stato
creato dai narratori dell’Ottocento. Un esempio lampante è il racconto “la
metamorfosi” di Kafka, uno dei primi insieme a Stendhal a raccontare la difficoltà di
armonizzare sé stessi con le circostanze sociali, e un dilemma del genere è
impensabile al di fuori del mondo moderno.
Dico mondo moderno perché nel passato questo problema non si poneva affatto. In
altre epoche non contavano le identità ma le pratiche. Nel medioevo un cavaliere, un
re o un contadino hanno innanzitutto un ruolo nella società, non un’identità.
Nell’Ottocento poi la situazione cambia drasticamente: matura la società capitalista,
si avviano i processi di industrializzazione e di alfabetizzazione di massa e soprattutto
nascono nuovi organi di controllo come scuole, ospedali e prigioni. Tutte queste
nuove istituzioni non hanno più bisogno di ruoli, ma di identità: coincidenza tra ciò
che si fa e ciò che si è.
Da un lato, la possibilità di scegliersi o modellarsi l’esistenza è una grande conquista
e un grande occasione, dall’altro questo sistema premia solamente i più volitivi e
determinati, e impone ai più incerti innumerevoli mortificazioni. Viviamo infatti in
una società sempre più veloce e competitiva, dove il tempo per scegliere ciò che si
vuole fare diminuisce drasticamente.
Da questo momento non si appartiene più alle classi per ricchezza o educazione ma
per il riconoscersi o meno in un gruppo. Una volta che il sistema sociale ha stabilito
le coordinate, il marketing ha vita facile, perché l’identità non è più solo un fatto
personale ma il fondamento di tutta la comunicazione. Nascono le identità sociali
(prodotti D.O.P., D.O.C. e simili che in passato nessuno si sarebbe sognato di
rivendicare); identità nazionali (made in Italy, Novelle Cousine francese); identità
aziendali (Nike, Google) e soprattutto nasce internet dove le cose vengono stravolta
completamente dal momento che si può avere un’identità alternativa, un avatar.
La condizione da rispettare è solo una: gusti, interessi, comportamenti ed idee devono
essere fenomeni inerenti la nostra essenza.
Il visual design a questo punto, seguendo il metodo SHE e i codici sociali, conferisce
a ciascuna identità uno stile, un logo, un colore, un’immagine coordinata, delle
narrazioni. Il pubblico scegliendo l’identità visiva sceglie anche la tribù.
Il mercato, una volta stabiliti i canoni, ha bisogno semplicemente di inglobare nuovi
gruppi e idee per continuare a vendere. Così ad esempio le multinazionali di
abbigliamento possono fagocitare le subculture di strada, usando graffiti e street art
all’interno del proprio visual. Offrono jeans già strappati e consumati, trasformando
un segno di emarginazione in una forma accettabile. I jeans calati sotto le mutande,
che andavano di moda tempo, erano tipici delle prigioni, dove era vietato indossare le
cinture. Gli stilisti hanno tradotto in moda questa usanza sposandola perfettamente
alla necessità di ribellione degli adolescenti.
Società ed enti, ancor prima di produrre servizi o beni, producono discorsi; questi
hanno lo scopo di formare un immaginario che in inglese viene chiamato “brand”. Il
brand non è la merce, ma la sua idea psicologica. Uno degli elementi più impattanti
del brand è senza dubbio il marchio che fa da vessillo per l’azienda o il servizio. Una
delle prime fondazioni a munirsi del marchio è stata la Croce Rossa. Nel tecnico il
termine marchio non indica solo un simbolo o un lettering ma la loro unione: come
nel logo della Barilla o della Disney. Quando invece è presenta solamente la parte di
lettere come La Coca-Cola o Chanel si parla di logogrammi o logotipi. E’ sufficiente
che il lettering sia ben progettato per essere memorizzato come marchio. A volte
invece, il pittogramma diventa talmente riconoscibile da poter tralasciare il lettering.
Questo accade solamente quando un marchio è davvero consolidato nel collettivo
come nel caso della Nike che negli ultimi anni ha eliminato completamente il nome
dai prodotti lasciando esclusivamente il “baffo”.
Il design del marchio, insieme a tutti gli elementi grafici coordinati, rende tangibili
un’immagine mentale. Ancora prima della forma è necessario però scegliere il
naming. La scelta del nome è una parte cruciale perché inserisce l’azienda all’interno
di una narrazione. In alcuni casi addirittura, può avere talmente tanto successo da
diventare l’oggetto stesso: Scottex, Domopak, Thermos nascono come nomi di
marche e finiscono per diventare nomi comuni di prodotti.
Nella scelta del nome non importa trovare una corrispondenza reale, ma evocare
qualcosa nella mente delle persone tramite delle associazioni con quello che già
sanno o pensano di sapere. Si sfruttano in particolare gli stereotipi: un caso esemplare
ne è il gelato Haagen-Dazs, creato a New York nel 1961, unendo due parole
inesistenti, inventate per sembrare europee e in particolare dell’Europa del nord ai
suoi consumatori. Identico è il caso della compagnia videoludica Atari, anche lei
americana ma che vuole palesemente apparire come entità Giapponese.
Oltre a questo nella scelta del naming si gioca anche con l’orecchio, specie se
straniero e quindi non familiare. Chanel suona elegante perché francese così come
Barilla rimanda subito all’Italia a causa della doppia l.
Il marchio oltre ad essere una questione di identità, talvolta ha a che fare anche con
questioni di diritto industriale. L’idea consapevole di copyright è nata nel XVI secolo
ma ne ritroviamo esempi più antichi nei marchi a fuoco sul bestiame così come nella
filigrana inventata a Fabriano addirittura nel 1200. Ad affermare l’uso di questa
tecnica fu l’azienda Louis Vuitton che, scoraggiata difronte alla massiccia dose di
imitazioni, iniziò a ricoprire i suoi bauli con il marchio dell’azienda, creando uno dei
pattern ad oggi più famosi e desiderati a tal punto che, la ripetizione del marchio, è
finita per diventare il simbolo della pelletteria. Fendi, Prada, D&G e numerose altre
marche hanno imitato l’idea del motivo, stampate magari anche su gomma o plastica.
La stessa Vuitton ha infine imitato i suoi più modesti concorrenti andando a creare
borsellini meno lussuosi, che con un centinaio di euro illudono chi li compra di
partecipare a una ricchezza da cui sono in realtà esclusi.
L’identità purtroppo, nel ventunesimo secolo, spesso non coincide più con qualcosa
che si è o si fa, ma con qualcosa che si consuma. Siamo sempre il target, o ancora
meglio, il bersaglio, di un mercato che seduce le masse incolte.
SIMBOLI
I simboli sono norme consolidate, consuetudini mentali che ci permettono di
comunicare senza fraintendimenti.
Nel visual design ne esistono di numerosi tipi: dalla grandezza di un foglio all’uso dei
colori, dalla disposizione nello spazio alla grandezza dei caratteri.
Ogni volta che comunichiamo dobbiamo però ricordare che lo stiamo facendo
all’interno di un sistema culturale.
Nella cultura greca le immagini e i testi si consideravano come figure non
comunicanti. Le prime erano il ricalco del visibile, i secondi della parola. Uno
mostra, l’altro dice. Nella realtà però, soprattutto dall’avvento dei nuovi media, ci
siamo resi conto che molto spesso il verbale diventa visivo (come nella lettura di una
pagina scritta) e il non-visivo è spesso anche non-verbale (come nella musica).
Ancora oggi, fin dalla scuola primaria, parole e figure vengono separate da una netta
e rigida distinzione. Mentre ci viene insegnato con cura e attenzione come scrivere e
come leggere, quella del disegno è invece considerata un’attività ricreativa. Quando
un bambino ripete male una poesia, oppure scrive un testo usando una grammatica
errata, viene corretto repentinamente. La stessa cosa non accade con i disegni, che
non vengono trattati come comunicazione, ma come espressione personale, quindi
non correggibile.
In realtà il disegno non solo è comunicazione, ma, se trattato come talento innato, si
va a privare i bambini di un potentissimo strumento utile al ragionamento e alla
visualizzazione del pensiero.
Qualsiasi forma d’arte dalla pittura alla scultura ha come base di partenza il disegno,
utilizzato come mezzo per ragionare. Le figure quindi, non vengono tracciate ma
inventate. Il disegno è infatti una rappresentazione grafica di oggetti della realtà o
dell’immaginazione; con lo stesso termine si va poi a fare riferimento all’ambito
progettuale, all’intenzione, alla rappresentazione a grandi linee di una serie di
operazioni: proprio con questa accezione è passato nell’inglese come design.
Leonardo da Vinci disegnava le sue invenzioni così come Fellini disegnava le sue
sceneggiature.
Si dà per scontato identificare la scrittura con il linguaggio verbale e quindi coi
pensieri, ma in realtà tutti i segni in qualche modo sono rapportati con il linguaggio
(quando guardiamo un quadro astratto ci proiettiamo dentro la nostra mente).
La particolarità della scrittura sta nel fatto che, almeno in Occidente, l’alfabeto riesce
ad instaurare un rapporto di corrispondenza tra segni e suoni.
Con il termine parola si intende infatti non solo quella pronunciata, ma pure quella
scritta o pensata, sebbene un segno fatto con l’inchiostro sia profondamente diverso
da un pensiero o da un suono.
Nella scrittura poi, ci sono numerosi segni che non hanno niente a che fare con il
parlato. La punteggiatura ad esempio non ha nessun rapporto col modo in cui un testo
vada pronunciato, indica in realtà la struttura logica di una frase. C’è poi una vasta
serie di altri segni che sono inerenti la formattazione del testo come i neretti, i corsivi,
rientri di riga e tutta una serie di pittogrammi proveniente dai testi digitali come i
messaggi di Whatsapp che servono più ad esplicitare stati mentali.
Guardiamo, leggiamo e decifriamo simultaneamente. Non stiamo mai solo leggendo
o solo guardando poiché tutta la comunicazione visiva è ibrida e abbiamo
quotidianamente a che fare con sistemi impuri in cui vengono mischiate scritture,
figure e notazioni senza confini rigidi: spartiti musicali, cartine geografiche,
equazioni matematiche.
Dunque si può stabilire che le immagini non dicono più delle parole e viceversa.
Ciascuna ha il suo compito. Alle immagini spetta mostrare ma non possono negare.
Posso disegnare un albero, ma non posso raffigurare “non c’è neanche un albero”.
Il visual design si è impadronito dei segni facendone un prezioso deposito di scorte.
Le iconografie non sono però esclusivamente figure, spesso sono modi di inquadrare
le cose. Il termine stesso si riferisce infatti al contenuto della raffigurazione, è invece
il termine “tipologia” a fare riferimento al modo in cui un contenuto è rappresentato e
alla sua funzione.
Il cowboy in piedi a gambe larghe è un’iconografia, il tipo di inquadratura in piano
americano e il primissimo piano del volto con la sigaretta sono una tipologia
iconografica.
Bisogna tenere però sempre presente, come detto nel secondo capitolo, che questi
stereotipi non sono universali ma frutto della cultura e del contesto. In Cina ci si
sposa di rosso e ci si veste di bianco ai funerali perché richiama il colore delle ossa.
Specialmente nel mondo del design bisogna tenere presente che anche ciò che ora
viene visto come norma comune potrebbe diventare in futuro un’iconografia. I
significati di un’immagine e il fatto che diventi un’iconografia nascono dal contesto
sociale, dal luogo e dal periodo in cui questa è posizionata. Un volta di una donna
fotografato in primo piano assume un significato diverso se posto dentro la cornice di
un museo, se sopra una confezione di shampoo o sulla copertina di una rivista.
Con l’avvento dei nuovi media, della massiccia disponibilità di immagini tramite
schermi di varie dimensioni come monitor, cellulari, tablet, i vari significati si stanno
perdendo. I motori di ricerca ormai suddividono le parole tramite i tag: parole chiave
ad ampio spettro che classificano le immagini in base all’iconografia, al colore, alla
composizione, al numero di figure, allo stile fotografico e così via. Tutti questi
significati sovrapposti sono al di fuori della capacità dei consumatori d’immagini e
spesso vengono quindi per perdersi o trasformarsi.
STORIE
Il visual design ha come scopo quello di raccontare, progettando le storie. A narrare
infatti non sono solamente i libri o i fumetti: i cataloghi ci dicono come usare un
determinato oggetto, i titoli di coda ci raccontano chi e come ha partecipato ad un
film, i manuali d’istruzioni ci spiegano come funziona un oggetto.
Spesso questi racconti seguono proprio un filo narrativo, arrivando ad un climax. Un
set fotografico di moda segue in genere una storia intorno a cui ruotano i vestiti.
Talvolta anche il supporto stesso può diventare una storia: la rilegatura, lo spessore e
la texture della carta, il tipo di colori, il riflesso di un materiale sono tutti elementi
fisici che trasmettono emozioni precise e a cui un designer ha pensato.
Le riviste, i libri e da qualche anno i supporti digitali come i siti web sono stati
indagati per capire dove un medium può spingersi.
Bisogna però sottolineare che ogni medium ha una sua forma precisa, e questo è un
fattore che durante la nascita delle nuove tecnologie è stato spesso ignorato.
Oggi giorno si crede, secondo una visione molto semplicistica, che gli strumenti
digitali ci permettano di poter trasportare tutto al loro interno, smaterializzandolo e
trasponendolo in un unico linguaggio, quello informatico. Tuttavia la realtà dei fatti è
ben diversa.
Prendendo come esempio i libri, è stata condotta un’analisi ISTAT dalla quale è
emerso che a preferire i mezzi di lettura digitale come gli E-book o i Kindle sono
esclusivamente i lettori casuali, che li adottano principalmente per il fattore cloud. La
maggior parte dei lettori invece sembra continuare a preferire la carta stampata.
Sempre attraverso questa analisi è stato constatato che per il 94% delle case editrici il
mercato e-book rappresenta meno del 10% del fatturato.
Dobbiamo dunque stare attenti a non far diventare questi nuovi strumenti una
semplice imitazione di un tipo di narrazione che adotta un linguaggio già completo e
perfetto.
John Maeda ha ad esempio realizzato nel 1994 diversi lavori inerenti il rapporto tra
cartaceo e digitale: le “Flying Letter”, manovrate con il mouse si comportano come
tumultuose marionette alfabetiche. Nella visione di Maeda, le lettere reattive
ristabiliscono una relazione diretta con l’utente, un po' come quelle manoscritte. Se le
lettere stampate mantengono una fisionomia inalterabile, l’inchiostro reattivo dello
schermo può produrre una successione infinita di variazioni in relazione al tocco
dell’utente che agisce direttamente. Un altrettanto interessante progetto del Media
Laboratory del MIT è intitolato Electronic Ink, una sorta di scrittura basata su codici
visivi dinamici: una sorta di alfabeto che si scrive attraverso il movimento invece che
lungo una riga, rendendo la lettura più fluida e veloce.
In conclusione ogni layout racconta una storia. L’arte del design, in particolare quello
grafico, ha il potere di manipolare gli elementi della comunicazione visiva guidando
l’osservatore da uno scenario all’altro, da un concetto all’altro lungo dei percorsi
lineari o tortuosi. Bisogna pensare al lettore come un pilota libero di accelerare o
rallentare, ma indirizzato dal designer con segnali stradali, dossi e delineatori sotto
forma di caratteristiche quali tipografia e iconografia.
L’esempio più eloquente è quello del francese Massin, la cui prima e più famosa
affermazione come autore di design è stata la sua rivoluzionaria edizione del 1964 del
testo teatrale surrealista “La cantatrice calva”. Con questo lavoro Massin ha creato il
primo prototipo di storyboard animato: i personaggi sono rappresentati con fotografie
del cast contrastate al massimo (bianco e nero) e ad ogni personaggio è assegnato un
equivalente tipografico della voce, un particolare font, che lo contraddistingue. Testo
e immagini fuse insieme invitano il lettore a sperimentare una messa in scena virtuale
della commedia, e il girar pagina diventa una battuta ritmica.
AGGIORNAMENTO
Il futuro si costruisce comprendendo i bisogni, e dando loro risposta. Partire da quelli
dei clienti per far crescere le imprese, nel campo del business, ma anche considerare i
bisogni dei ragazzi per pensare al futuro.
Il tempo dedicato ai mezzi di informazione cresce, ma si frammenta: spesso uno
schermo non basta e il nostro sguardo è costantemente conteso da pc, tablet, cellulari,
tv e carta stampata. Il sistema dunque è in crisi? No, semmai il contrario: ci sono
nuove opportunità per editori e pubblicitari. Il mondo si sta evolvendo verso
piattaforme sempre meno testuali e più visuali. Un esempio lampante di questo
cambiamento è l’imporsi prepotente di Instagram, che ha scavalcato ogni altro social
in pochissimo tempo. La tv generalista si prenderà la rivincita sullo streaming e
Amazon sfiderà il duopolio di Google e Facebook.
Il frazionamento dell’attenzione ha modificato le modalità di fruizione a tal punto che
ogni canale è oggi in fase di riassestamento. I social, tipicamente empatici, hanno
generato un rapporto paritario tra cittadini e brand, con un codice espressivo diverso e
complementare rispetto a quello tradizionale. Una campagna di comunicazione, oggi,
non può non essere una combinazione di mezzi e messaggi: resta solo da capire quale
sia, tra i tanti canali, il miglior veicolo per una call-to-action o per arricchire il
patrimonio valoriale di un brand.
Gli investimenti pubblicitari si concentrano sempre più sull’online. La pianificazione
pubblicitaria automatizzata non sempre però non ha un ritorno d’investimento
convincente. La pressione degli annunci digitali, spesso invasivi, causa reazioni di
rifiuto da parte degli utenti, che in più di un caso su due attivano gli “ad block” per
evitare interferenze a navigazione e fruizione dei contenuti.
Occorre dunque focalizzarsi su cosa, in questo preciso contesto, potrebbe permettere
al mezzo online di esprimere le proprie potenzialità.
Con un pubblico facile da raggiungere ma difficile da agganciare, con una soglia di
attenzione scesa a sei secondi, con l’attrattiva della pubblicità in generale scarsa,
l’unica leva a disposizione di brand e investitori è la qualità dei contenuti.
Non esiste altro antidoto per sopravvivere alla battaglia per l’attenzione; le strategie
di contenimento dei budget (per puntare sui risultati a breve termine) hanno già
mostrato la loro inefficacia.
Solo un’idea forte e brillante oggi può ricavarsi lo spazio d’attenzione necessario a
convincere lo spettatore a dedicare qualche istante a un determinato contenuto.
A ciò, poi, si aggiunge il bisogno di un formato adatto al contesto digitale (spesso
fruito senza audio) nonché di un messaggio semplice, chiaro, coerente e che crei una
connessione profonda con il pubblico per stimolarne una risposta innanzitutto
emozionale.
Perché l’investimento di un brand risulti davvero efficace, anche dal punto di vista
creativo, occorre fare un passo indietro in modo da ripensare all’intera esperienza di
fruizione. Oggi dominano spot spesso irrilevanti o di scarse qualità ed efficacia,
vissuti spesso come un fastidio, in formati come i pop-up e i video non saltabili che
allontanano l’utente invece che attrarlo.
Il trend a cui si deve puntare quindi consisterà nella sostituzione delle tonnellate di
pubblicità con un minor numero di contenuti di qualità superiore, armonici anziché in
antitesi con il contesto ricettivo del digitale: questo è un processo importante anche
per ristabilire il valore della pubblicità che ha assunto ormai una connotazione molto
negativa.
Ciò implica di rimettere le persone al centro, a partire dal modo in cui essere
interagiscono nell’ecosistema mediatico e digitale, per comprendere e riflettere su ciò
che è davvero importante per la crescita dei brand.
Questo sforzo deve partire anche dal consumatore che deve cercare di agire con un
atteggiamento di consapevolezza, cosa che spesso non accade. Consapevolezza
significa capire quello che ci sta attorno, comprendere il senso e il valore di ciò che si
acquista, che si utilizza, che si consuma, ma anche degli stimoli ai quali si reagisce. Il
pubblico potrà riacquistare in parte il controllo solo se sarà consapevole di ciò che sta
leggendo, ascoltando e guardando. Se riuscirà ad acquisire nuovamente il potere di
valutazione e di scelta sulla mole sempre più grande di informazioni.
Per concretizzare questo concetto pongo come esempio uno dei miei temi preferiti: il
cinema.
Il mondo del digitale ha saputo cogliere il bisogno delle persone, progettando una
piattaforma che permette di vivere il cinema a casa, in qualsiasi istante. È molto
importante sottolineare “in qualsiasi istante” perché proprio questo ha determinato
l’esplosione delle piattaforme simil Netflix. Le serie televisive permettono una
modalità di fruizione completamente diversa da quella del cinema: dividere una storia
in più puntate asseconda i bisogni di una società sempre più in movimento, con meno
tempo libero da dedicare all’intrattenimento. Nel 2020 è difficile seguire un film della
durata di tre ore consecutive, risulta invece molto più semplice trovare trenta minuti
al giorno per godersi una puntata, magari la sera prima di andare a letto.
Dall’altro lato, con la creazione di serie televisive quali Breaking Bad, il pubblico ha
capito che, per realizzare un prodotto di qualità, non è più necessario che una grande
star partecipi a un progetto.
Conclusioni
Vivere è diventato molto più semplice. Che tutto questo sia un male o un bene non è
facile da stabilire. La tecnologia e il design ci semplificano la vita e ci consentono di
liberare tempo dalle nostre giornate. Tutto è diventato più immediato. Diventiamo più
incapaci su alcuni aspetti, ma più capaci su altri. La semplificazione è ovunque, ma
solo per gli occhi di chi riesce a vederla. Pensate anche solo al reparto vendite delle
aziende. Un tempo la maggior parte delle aziende doveva avere centinaia di
rappresentanti per poter contare su una distribuzione nazionale. Oggi, con qualche
centinaia di euro spesi in Facebook Advertising, possiamo mostrare un video
dimostrativo del nostro prodotto a decine di migliaia di persone. Secondo Ginni
Rometty, amministratrice delegata di Ibm, presto il 10% dei lavori scomparirà,
mentre il 100% dei lavori dovrà cambiare. Io aggiungo che chi non sarà pronto a
cambiare presto si ritroverà a essere buttato fuori. Un mondo più semplice si può
ottenere solo attraverso un cambiamento difficoltoso. L’intelligenza nel futuro non
sarà nelle mani di chi riuscirà ad orientarsi senza navigatore, o a fare calcoli a mente.
Piuttosto, come disse Stephen Hawking, credo che l’intelligenza appartenga a chi ha
la capacità di adattarsi al cambiamento. Così è sempre stato e così sempre sarà.

BIBLIOGRAFIA:
Dario Russo, Free Graphics. La grafica fuori delle regole nell’era digitale, Lupetti
(2009)
Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network,
Einaudi (2017)
John Maeda, Le leggi della semplicità, Bruno Mondadori (2006)
Steven Heller e Gail Anderson, Il libro del Graphic Design. 50 maestri da cui trarre
ispirazione, Vallardi (2016)
Daniele Baroni e Maurizio Vitta, Storia del design grafico, Longanesi (2003)

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