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Relatore Presentato da
Addessi Anna Rita Scarfò Emilia
Correlatore
Beseghi Emma
Sessione III
Introduzione 3
3. Il progetto “Pinocchio”
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3.4.1 Valutazione dei possibili ostacoli durante la fase di esecuzione 92
3.4.4 Il sentimento del tempo: dal tempo musicale al tempo personale 106
4. Conclusioni
Bibliografia 126
Sitografia 131
Allegati 132
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INTRODUZIONE
“Che cos’è la musica? Ecco una domanda talmente generale da poter sembrare
accademica ed inutile. I musicisti non hanno bisogno di una definizione della loro
arte per praticarla, e nemmeno i musicologi per avanzare nella loro ricerca, che il
più delle volte riguarda un campo limitato. Allora, perché sollevare questo vecchio
ed inesauribile problema dei fondamenti universali della musica? Perché è la
pedagogia che pone attualmente la questione […]” (Delalande, F. 1993).
Delalande mette al centro della sua riflessione non solo la questione che riguarda la
definizione della musica ma anche quella della didattica musicale che divide in due
orientamenti. Il primo è quello che viene eseguito nelle scuole di musica. Si tratta
di un insegnamento specializzato che ha come obiettivo lo sviluppo di tutta una
serie di competenze tecniche (leggere uno spartito, suonare uno strumento, ecc.). Il
secondo, che si è andato sviluppando nel corso degli anni Novanta, è destinato alla
scuola di base e ha degli obiettivi molto più difficili da circoscrivere in quanto si
vorrebbe dare ai bambini un gusto, una sensibilità alla musica, a tutte le musiche,
senza passare attraverso un apprendimento tecnico proprio di un genere
particolare (Delalande, F. 1993).
Come è evidenziato nel primo capitolo del lavoro di tesi esposto nelle pagine
seguenti, il secondo tipo di approccio individuato da Delalande è quello che sta (o
che dovrebbe stare) alla base della didattica musicale in ambito non solo scolastico
ma anche extra-scolastico. Questo approccio che abbandona il tecnicismo si
sviluppa in seguito ai molti studi ed alle molte riflessioni sulle potenzialità
comunicative del suo oggetto: la musica.
Numerosi sono gli studiosi e gli esperti di didattica musicale che partono dalle
capacità espressive e comunicative della musica per impostare delle attività che non
si concentrano sull’aspetto tecnico/esecutivo ma sul bambino, sulle sue competenze
pregresse e sulla scelta di quelle da sviluppare. È Monique Frapat (1994) a parlare
di osservazione del gioco spontaneo del bambino e della necessità di pensare alle
attività da proporre partendo dalla quotidianità. È dalle situazioni della vita di tutti
i giorni che si possono costruire efficaci attività didattiche, che coinvolgano il
bambino nella sua totalità.
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Questa è l’idea che sorregge il lavoro di scrittura di questa tesi il cui nucleo centrale
è costituito dalla realizzazione del progetto “Pinocchio” alla base del quale vi è la
sonorizzazione di una storia (“Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi). Il
romanzo, per questioni legate al fattore tempo, non poteva essere sonorizzato per
intero. Sono state scelte alcune parti che ci hanno permesso di approfondire diversi
aspetti della sonorizzazione (dalla creazione musicale di un personaggio alla
comunicazione emotiva attraverso i suoni, dalla costruzione di un ambiente come
la pancia del pescecane alla sonorizzazione del paesaggio “mare”).
Nel secondo capitolo lo sguardo si sposta dal mondo musicale a quello della
letteratura, in particolare della letteratura per l’infanzia. Anche se si tratta di due
mondi diversi c’è un filo conduttore che li unisce: la capacità di comunicare (Acone,
L. 2015).
Alla base della comunicazione vi è la necessità di far conoscere qualcosa. Sia la
musica che la letteratura sono inserite e diventano espressione di uno specifico
contesto storico-culturale tanto che se quest’ultimo, nel corso del tempo, subisce
dei cambiamenti anche loro cambiano. Sia la musica che la letteratura comunicano
quelle che sono le principali ideologie, i costumi, i gusti di una specifica epoca. È
il caso di “Le avventure di Pinocchio” in cui l’autore decide di rappresentare l’Italia
post-unitaria (Faeti, A. 2010; Grilli, G. 2016; Beseghi, E. 2003). Ma non si tratta
solo di questo. La letteratura, come anche la musica, è uno strumento che può
aiutare, può incentivare la comunicazione interpersonale soprattutto se viene
coinvolta la sfera emotiva (Imberty, M. 1993; Tafuri, J. 1995; Levorato, M. C.
2000; Bruner, J. 2002).
Una determinata melodia può comunicare uno specifico stato d’animo, una
specifica emozione come anche un romanzo o un singolo personaggio in esso
presente hanno dei valori e dei sentimenti da trasmettere. Spetta al soggetto che
ascolta e/o che legge riuscire a cogliere/interpretare i significati/messaggi che gli
autori ed i compositori decidono di trasmettere. Occorre però ricordare che non si
tratta di interpretazioni certe, oggettive.
La musica, infatti, ha delle caratteristiche comunicative molto diverse da quelle del
linguaggio verbale (strumento che sta alla base di qualsiasi componimento
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letterario), che si basano su un’interpretazione che definiremo soggettiva (Imberty,
M. 1993; Tafuri, J. 1995).
Al terzo capitolo è affidato lo sviluppo del nucleo centrale di questa tesi: il progetto
“Pinocchio”. L’attività di progettazione non è una cosa semplice e deve essere ben
organizzata, occorre tenere in considerazione molte variabili, e valutare i possibili
ostacoli e rischi (Lipari, D. 2009). La situazione si complica quando la
programmazione riguarda delle attività di didattica musicale. La difficoltà di
progettazione che si riscontra è dovuta alla vastità della disciplina musica e,
conseguentemente, alle molte articolazioni che può avere (Tafuri, J. 1995). Tra i
numerosi punti di vista offerti dalla musica in quanto disciplina didattica ci si può
indirizzare verso quello che parte dalla libera produzione del singolo,
allontanandosi dal concetto di tecnicismo, per creare delle attività che coinvolgano
la totalità dell’individuo e permettano, contemporaneamente, lo sviluppo di
competenze musicali (Frapat, M. 1994; Tafuri, J. 1995). Per realizzare ciò sono
necessari dei dispositivi che possono avere diversa natura (dispositivi materiali,
sonori, legati al corpo, ecc.). È grazie a loro che l’insegnante può condurre i bambini
da una situazione di libera esplorazione a un gioco organizzato e finalizzato allo
sviluppo di competenze non solo sonoro/musicali ma anche corporee.
I dispositivi suggeriti da Frapat (1994) possono trovare una loro organizzazione
(che varia a seconda dei contesti) nella creazione di un progetto di didattica
musicale.
Poiché si tratta di una materia molto difficile da definire la progettazione di queste
attività deve essere aperta ai possibili cambiamenti che, in alcuni momenti, possono
risultare necessari (Tafuri, J. 1995; Lipari, D. 2009).
Molte sono le variabili che possono portare a dei “cambiamenti di rotta”. Tra le più
rilevanti vi sono quelle relative al contesto in cui si svolgeranno le attività e quelle
relative al tempo.
Numerose sono le riflessioni relative al tempo. Un tempo socialmente definito
oggettivo ma che, soprattutto nel momento dell’ascolto di brani musicali, può
dilatarsi, restringersi. Questa variazione dipende dalla percezione che ogni soggetto
ha del tempo musicale che viene percepito e vissuto in modo differente in quanto
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entra in contatto col tempo soggettivo che possiamo definire “interno” (Imberty, M.
1993; Hersch, J. 2009).
Per poter gestire tutte le problematiche relative a questo tipo di didattica occorre
una preparazione molto approfondita sia nell’ambito musicale che in quello
pedagogico (Tafuri, J. 1995; Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A. M. 2012).
In conclusione possiamo dire che attraverso questo approccio, che prevede la
preparazione dell’esperto di educazione sia in ambito musicale che
pedagogico/didattico, comprendiamo che la musica può essere intesa come
componente della cultura globale e mezzo di espressione che deve essere
accessibile a tutti e può essere vissuta come fattore identitario, di
coesione/integrazione sociale, di sviluppo della sensibilità estetica, di educazione
e controllo consapevole delle emozioni e degli affetti […]. Mezzo per stimolare la
motricità e la capacità di ascoltare se stessi e gli altri sviluppando atteggiamenti
empatici […]. Inoltre la musica riesce a promuovere lo sviluppo di saperi
trasversali, in quanto, facendo leva sulle emozioni, è capace di motivare e rendere
gratificante l’apprendimento […]. La musica permette di raggiungere la totalità
della persona sviluppando l’ascolto di sé e l’accettazione dell’altro, la disponibilità
allo scambio e al confronto, l’assunzione di atteggiamenti di rispetto e
responsabilità (Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A. M. 2012).
Tutto ciò ci conferma che la musica può essere intesa come facilitatore di
apprendimenti afferenti alla sfera cognitiva, psicomotoria, affettivo-socializzante e
vissuta in modo globale (Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A. M. 2012).
Affinché questo sia possibile occorre sempre operare nell’ottica di
quell’interdisciplinarità che permette uno sviluppo totale dell’individuo e che
interessa non solo il mondo scolastico ma anche tutto ciò che lo circonda.
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CAPITOLO 1
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Per poter parlare di questa forma di intelligenza occorre soffermarsi sulla
definizione delle emozioni. Per Mancini e Trombini (2011) le emozioni sono stati
affettivi intensi e di breve durata. Gli stati affettivi più duraturi e pervasivi vengono
indicati con il termine umore.
Gli studi di Paul Ekman (in Mancini, G. e Trombini, E. 2011) hanno permesso di
comprendere che le emozioni fanno parte della nostra eredità biologica e, quindi,
coinvolgono tutto l’organismo. Sono un’esperienza eterogenea, multidimensionale
e processuale con una forte funzione d’organizzazione cognitivo-affettiva che
media il rapporto tra l’organismo e l’ambiente. L’emozione è uno stato affettivo
intenso, basato su un insieme complesso di interazione tra fattori soggettivi e
oggettivi filtrati da sistemi neuronali ed ormonali, che si manifesta attraverso
cambiamenti fisiologici, nell’espressione facciale e nel comportamento, spesso con
un significato adattivo. Coinvolgendo l’intero organismo a livello psicofisiologico,
cognitivo e comportamentale le emozioni ricoprono una funzione adattiva rispetto
agli stimoli, agli eventi di vita ed alle interazioni sociali.
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Ricerche abbastanza recenti hanno evidenziato come le emozioni ricoprano un
ruolo fondamentale all’interno delle relazioni tra pari in età evolutiva e hanno
individuato quattro diversi costrutti che parzialmente si sovrappongono:
- Competenza sociale: è collegata al benessere personale e collettivo e
comprende l’utilizzo di risorse per sé stessi, per la propria famiglia e per
l’ambiente sociale di appartenenza.
- Regolazione emotiva: è una delle abilità della competenza sociale e riveste
un ruolo fondamentale nella gestione delle varie richieste provenienti dalle
diverse situazioni sociali. È, dunque, al successo nelle relazioni ed alla
dimostrazione da parte dei bambini di comportamenti socialmente adeguati
alle loro interazioni.
- Competenza emotiva: abilità usata, soprattutto dai bambini, per interagire e
creare relazioni con gli altri. Ha una forte valenza esterna in quanto consente
di affrontare la variabilità delle diverse situazioni. Il bambino, riconoscendo
le emozioni, sia proprie che altrui, è in grado di gestirle adeguatamente
rispetto al contesto ed alla situazione.
- Consapevolezza emotiva: abilità di identificare e descrivere le proprie
emozioni e quelle degli altri. Uno dei modi in cui la consapevolezza emotiva
potrebbe influenzare l’interazione sociale è attraverso la modulazione delle
espressioni emotive. Tale modulazione è a sua volta influenzata sia dalle
regole sociali che dalle esigenze delle situazioni. Il più elevato grado di
consapevolezza emotiva corrisponde alla maggiore appropriatezza
dell’espressione delle emozioni nel contesto sociale (Mancini, G.,
Trombini, E. 2011).
Da questo breve excursus riguardante le emozioni e l’intelligenza che da esse
dipende abbiamo potuto riflettere sulla forte incisione che questi aspetti (legati
all’emotività ed alle sue espressioni) hanno anche e soprattutto nell’ambito
relazionale.
Parlando di relazione tra individui spesso ci si concentra solo su uno dei suoi
aspetti: l’aspetto verbale. L’attenzione che si ha di questo ambito ci porta a
considerarlo una delle principali componenti comunicative. Questo è vero se non
pensiamo ad un individuo appena nato o comunque nelle sue prime fasi di vita.
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Gli studi relativi alle relazioni nel periodo infantile (Bowlby, J. 1973; Ainswoth,
M. 2006) ci permettono di volgere l’attenzione alla comunicazione non verbale in
quanto, nella fase neonatale, il bambino non è in grado di parlare ma deve
acquisire gradualmente le capacità e le competenze che gli permettono di
comunicare verbalmente. Quindi è solo da un certo momento della vita in poi
(cioè dopo l’acquisizione delle competenze linguistiche) che il linguaggio verbale
diventa il principale canale comunicativo che la persona ha a disposizione. Il
principale ma non l'unico. Non l'unico in quanto abbiamo appena detto che,
osservando il bambino ci accorgiamo della forte presenza di una componente non
verbale che, aggiungiamo ora, è strettamente legata alla componente corporea
(aspetto che risulta fondamentale per l’intero periodo che denominiamo infanzia).
E col corpo l'uomo sente, percepisce ed è in grado di comunicare. Tra le varie
esperienze corporee e sensoriali vi è anche la percezione dei suoni (Delalnde, F.
1993; Frapat, M. 1994;): ciò che inizialmente arriva al neonato/bambino che
ascolta non sono certamente le parole, con il loro grande carico di significati
simbolici, ma le sensazioni che i suoni prodotti nell’articolarle trasmettono al
corpo.
Si comprende allora che la percezione dei suoni è una tra le prime e tra le più
importanti esperienze di ogni individuo.
La voce stessa che usiamo per parlare è un suono specifico, che parte da dentro di
noi e che, quindi, possiamo definire unico. Questo suono è udibile dal bambino che
è ancora nel ventre materno già dal quinto mese. La capacità d’ascolto che il
bambino ha ancora prima di nascere è stata scoperta grazie agli studi di Alfred
Tomatis (in Tafuri, J. 2007). Lo studioso francese era un otorinolaringoiatra il
quale, sulla base dei suoi esperimenti, ipotizzò che l’orecchio inizia a funzionare
già nella fase prenatale. Poiché il bambino sente ancor prima di nascere, possiamo
anche dire che il primo strumento comunicativo con cui l’essere umano (ogni essere
umano) entra in contatto non è tanto il linguaggio come componente ricca di
significati simbolici ma il linguaggio in quanto suono, in quanto produzione sonora.
Infatti il bambino, già molto prima di nascere, ascolta i suoni della voce materna
che per lui rimarranno sempre familiari. Ed è attraverso questi suoni che inizia ad
aprirsi al mondo esterno e ad attribuirgli significato.
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Frapat (1994) dice: “Il mondo sembra doversi prima ascoltare”.
Questa apertura del bambino verso il mondo è caratterizzata da uno sguardo
incontaminato e aperto alle manifestazioni artistiche che gli giungono intensamente
agli occhi, alle orecchie, al cuore. Tutto arriva al bambino come riverbero di una
esperienza estetica che esercita una sollecitazione emotiva che non è incline a
chiudersi in recinti disciplinari precostituiti (Anceschi, A. 2009).
Anceschi ci dice che l’ascolto del bambino è più puro rispetto a quello di un adulto
che riversa, nella propria esperienza uditiva e, successivamente, comunicativa, il
consolidamento di dati in cui si trova culturalmente immerso.
Allargando lo sguardo possiamo dire che non sono solo i suoni ma sono anche le
discipline artistiche, a cui appartengono i suoni stessi e quindi anche la musica, che
fanno prendere forma al mondo che circonda il bambino.
Le parole tratte dal testo di Acone ci fanno ben comprendere quanto la natura
dell'infanzia, fase in continua evoluzione e trasformazione, si adatti bene al mondo
mutevole delle arti; in modo particolare le arti della musica e della letteratura.
Queste due forme artistico-espressive sono importanti per il bambino in quanto
raccontano delle storie. Hanno entrambe alla base componenti minimali (fonemi e
morfemi per quanto concerne il linguaggio della letteratura; note e accordi per la
musica) capaci di generare e produrre, mediante una organizzazione
semanticamente indirizzata, frasi, narrazioni, idee, ecc... I prodotti di queste forme
artistiche raccontano sempre qualcosa. Ovviamente per quanto riguarda le
produzioni musicali occorre uno sforzo proiettivo e immaginativo che permetta a
chi ascolta di costruire una trama che susciti in lui le stesse emozioni che
provengono dalla lettura di un testo (Acone, L. 2015).
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L'infanzia a cui arriva un racconto, una musica, una storia, è uno spazio di
accoglienza incontaminato che avverte il movimento emotivo che queste
produzioni provocano senza però dargli una specificazione formale. Ed è per questo
che il bambino risulta anche esser un grande artista ed improvvisatore: riesce a
cogliere i movimenti emotivi che una narrazione di qualsiasi genere (letterario,
musicale, ecc..) può suscitare ma, in virtù del suo essere puro, non li definisce
razionalmente ma li rimanda all'esterno sotto forma di produzione artistica
personale. Si può così affermare che l'arte dei suoni non si rivela mai fine a sé stessa
ma è testimone diretta dell'essenza più profonda della realtà (Anceschi, A. 2009).
"Per il filosofo della volontà, il mondo potrebbe essere inteso come vera e propria
incarnazione della musica; allo stesso modo in cui il medesimo potrebbe essere
concepito quale determinata incarnazione della volontà" (Donà, M. 2006).
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1.2 La didattica musicale e le sue difficoltà
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conoscenze in quanto entrambi sono portatori di esperienze uniche. Queste
situazioni di incontro possono nascere in contesti non formali, informali e formali.
La relazione, che è alla base dell’esistenza di ogni individuo, sostiene e fonda anche
l’esperienza educativo/didattica. Nella relazione educativa entrambi i soggetti
(insegnante e allievo) sono attivi e costruiscono personalmente la propria esistenza
e i propri saperi (Tafuri, J. 1995).
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solamente un organo percettivo -l’orecchio- dimenticandosi di tutti gli altri aspetti)
ma anche corporea, emotiva, ecc. (Delalande, F. 1993).
L’elemento principale della musica sono i suoni che, grazie alle nozioni teoriche,
vengono poi organizzati in quelli che sono i componimenti musicali di vario genere.
Ma i suoni per un individuo c’erano anche prima che venisse a conoscenza delle
teorie che permettono di organizzarli in componimenti. I suoni, come è stato già
detto, fanno parte della vita di ognuno di noi da prima della nascita. Possiamo
dunque dire che la musica, e di conseguenza la didattica musicale, prima che
esperienza intellettiva e insieme di regole da memorizzare è un’esperienza corporea
ed emozionale: la musica si percepisce con tutto il corpo e provoca emozioni molto
diverse in ogni ascoltatore. In quanto esperienza corporea la didattica musicale deve
prestare attenzione a quelle che sono le esperienze musicali dell’alunno.
L’esperienza d’ascolto che caratterizza la prima parte della vita di un individuo è
un fatto culturale (Tafuri, J. 1995).
Tafuri ci fa notare come la musica sia un campo nel quale operano numerose
discipline (teoria musicale, analisi, composizione, storia della musica, esecuzione,
ecc.) che richiedono alla didattica che deve gestirle una certa flessibilità di base che
consenta di adattare le varie attività alle esigenze dei soggetti a cui sono rivolte. Si
tratta di una flessibilità che non dovrebbe andar a discapito dei soggetti più
svantaggiati ma dovrebbe facilitare proprio ad essi l’acquisizione degli strumenti
necessari per partecipare consapevolmente alla vita culturale (Anchesci, A. 2009).
L’educazione musicale nelle scuole generali, cioè non orientate a una formazione
professionalizzante, non deve essere un collage di discipline musicali diverse,
adattate ai bambini, ma deve essere una disciplina autonoma, che permetta agli
studenti di crescere sotto il profilo musicale attraverso l’acquisizione di maggiori
competenze (Tafuri, J. 1995). Rimanendo nell’ottica della crescita attraverso le
relazioni, le attività musicali possono essere occasioni di comunicazione, di
scambio (musicale, verbale, emotivo, corporeo, ecc.) nelle quali il cambiamento è
reciproco. Una scuola centrata sulla relazione è una scuola che non costringe adulti
e bambini all’interno di una normativa prescritta; ma è una scuola che costruisce un
progetto proprio sulla presenza di quegli adulti e di quei bambini e offre loro la
possibilità di esprimere attraverso vari linguaggi, tra cui anche quello musicale, se
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stessi e le loro personali immagini del mondo (Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A.
M. 2012).
Ponendo al centro di un’azione didattica non la disciplina ma la relazione educativa
si lascia il posto a diverse modalità di appropriazione dei saperi piuttosto che al
semplice immagazzinamento di dati e informazioni (attività che risulta essere un
puro addestramento tecnico). L’educazione musicale, soprattutto nelle scuole
dell’infanzia e nelle scuole primarie, dovrebbe mirare a realizzare esperienze in cui
bambini e bambine trovino da un lato, gratificazione e benessere, dall’altro,
sviluppino e approfondiscano conoscenze e abilità nello specifico campo della
musica (Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A. M. 2012). Questo può essere possibile
facendo sì che un’attività didattica parta dal mondo e non dalla musica (Frapat, M.
1994).
Questo approccio al mondo e, di conseguenza, alle proprie origini è stato intrapreso
e portato avanti da Pierre Schaeffer (1996). Questo musicista, inventore della
musica concreta, ha contribuito a rimettere in discussione le definizioni culturali
della musica e ha costretto gli studiosi a un “ritorno alle origini”. Eliminando la
separazione esistente fra i rumori, immediatamente associati a un avvenimento sul
quale essi ci informano (passaggio di una macchina, caduta di un oggetto, ecc.), ed
i suoni, che provengono da uno strumento, egli parla di “oggetti sonori”, le cui
caratteristiche dipendono dall’ascolto che vi si presta. Non si ascolta più
un’automobile o un violino, ma una forma sonora, con la sua materia, attacco,
evoluzione. Per far comprendere questo spostamento di attenzione dell’ascolto, che
dimentica la causa per soffermarsi sul suono in sé (cioè sull’oggetto sonoro),
Schaeffer immagina la nascita della musica all’epoca dell’uomo di Neandertal.
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piacere di urlare a pieni polmoni, il piacere anche di battere su oggetti, senza che
necessariamente siano dissociati il gesto e l’effetto sonoro, la soddisfazione di
esercitare i propri muscoli e quella di “fare del rumore”? Bisogna cercare in tali
giochi, che saranno in seguito perfezionati in corrispondenza dello sviluppo dei
loro significati, l’origine simultanea del canto, della danza e della musica?
Non sviluppiamo ulteriormente un’ipotesi non verificabile e precisiamo i limiti
delle nostre intenzioni: vogliamo indicare la presenza fin dall’origine, di questo
doppio orientamento-azioni, che rispondono alle sollecitazioni esterne, e esercizi
disinteressati, che rispondono ad un desiderio autonomo. Pur diversi nella loro
essenza, questi tipi di attività sono costantemente interrelati nella vita reale; li
separiamo qui solo per un artificio espositivo.
Anche se progressivamente si differenziano, l’utensile e lo strumento musicale
potrebbero dunque essere oltre che contemporanei, anche legati nell’essenza.
Potremmo davvero scommettere che nella realtà quotidiana non erano distinti, e
che la stessa zucca serviva indifferentemente per la minestra e per la musica.
Probabilmente, una sola zucca non sarebbe stata sufficiente. Ma due, tre zucche?
Il segnale, che arriva all’utensile, forma pleonastica, si annulla attraverso la
ripetizione dello stesso. Soli, restano gli “oggetti sonori” percepiti assolutamente
in maniera disinteressata, che “saltano all’orecchio” come qualcosa di totalmente
inutile, ma la cui esistenza invece si impone ed è sufficiente per trasformare il cuoco
in musicista sperimentale.
Egli ha appena scoperto, legata alla propria attività e al corpo sonoro, ma anche,
paradossalmente, da essi indipendente, la MUSICA - poiché si tratta già proprio
di Musica - e, allo stesso tempo, ha scoperto la possibilità di suonare ciò che più
tardi chiameremo uno strumento” (Schaeffer, P. 1996).
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sviluppo musicale inteso come studio dei processi percettivi e cognitivi
nell’esperienza musicale (Tafuri, J. 1995).
Come è stato già ricordato, oltre alla componente fisico-emotiva-percettiva, vi è
anche una forte componente culturale che influenza la didattica musicale ed è
presente in ognuno di noi, anche nei più sofisticati specialisti (Delalande, F. 1993).
La competenza culturale ha però una caratteristica: non può essere acquisita
semplicemente vivendo ma va imparata. Di solito la si impara a scuola. È evidente
che occorre una nuova concezione di didattica musicale che, seguendo il
cambiamento delle altre discipline, si concentri maggiormente sull’alunno e sulla
valorizzazione della relazione come vero momento di apprendimento. In
quest’ottica occorre pensare ad una nuova didattica musicale che voglia porsi come
soluzione di un problema non corporativo, non solo musicale, ma culturale e
sociale. Perché ciò sia possibile, occorre che la didattica musicale non segua un
percorso di sviluppo autonomo, ma inizi a collocarsi all’interno di un vasto e
coerente contesto didattico che la comprenda e di cui essa sia una parte organica
(Lucchetti, S., Ferrari, F., Freschi, A. M. 2012).
Spostando l’accento dal soggetto alla relazione stessa, si scopre che in una attività
didattica ci sono due protagonisti che hanno uguale importanza. Il primo
protagonista è l’educatore che, all’interno della complessa situazione che
costituisce la relazione educativa, ha il compito di favorire l’apprendimento e di
predisporre al meglio le situazioni necessarie (Tafuri, J. 1995). L’altro protagonista
è l’educando cioè colui che deve mettere in atto il processo di apprendimento
interagendo con quanto gli viene offerto.
Esistono tre modalità educative che fanno riferimento al contesto in cui la relazione
avviene: educazione informale, l’educazione formale e l’autoeducazione.
Queste tre diverse situazioni si posso individuare anche in ambito musicale e Tafuri
(1995) ce ne fornisce la descrizione.
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Si parla di educazione musicale informale quando si pensa ai brani, componimenti,
canzoni, ecc., che chi ruota attorno ai bambini (genitori, altri familiari, insegnanti,
ecc.) sottopone al loro ascolto in modo discontinuo.
L’educazione musicale formale è costituita da tutte le esperienze musicali che
vengono svolte in contesti dedicati all’istruzione ed è intesa come apprendimento
di specifiche capacità e concetti.
L’autoeducazione fa riferimento ad una delle principali caratteristiche dell’uomo:
l’imparare osservando o ascoltando gli altri o gli stimoli che provengono
dall’ambiente circostante. “I bambini hanno fame di vedere, fare, sperimentare,
sapere” (Tafuri, J. 2002) e un ambiente stimolante può favorire anche
l’acquisizione di determinate capacità musicali.
Che si tratti di educazione formale, informale o di autoeducazione, occorre sempre
tenere presente che il risultato di una relazione educativa avviene sempre all’interno
di una comunità e si confronta con il sistema valoriale di quest’ultima. La scelta di
obiettivi, metodi, contenuti risente dell’idea che si ha di relazione educativa il cui
orientamento è dato da norme e prescrizioni.
La definizione degli obiettivi (come vedremo più avanti) è una delle tappe
fondamentali dell’azione educativa e didattica. Ma, nonostante la loro importanza,
gli obiettivi didattici non devono prendere il sopravvento rispetto alle finalità
educative; rispetto a quella realizzazione di sé a cui ciascuno aspira, e che non può
essere subordinata al raggiungimento di un sia pur eccelso livello tecnico (Tafuri,
J. 1995).
Tafuri (1995) ci fa notare come la definizione dei contenuti (materiali con cui
compiere le operazioni necessarie per acquistare una determinata capacità)
comporti diversi problemi da affrontare legati alla definizione dei campi
disciplinari, al rapporto con le diverse età, alle strategie didattiche, al rapporto tra
libertà e direttività nel processo di apprendimenti/insegnamento.
Poiché ogni oggetto musicale è un prodotto culturale, nella scelta dei contenuti non
entrano in gioco solo gli obiettivi, ma anche i propri orientamenti politico-culturali
nei confronti degli oggetti del sapere e della cultura in genere. Da un punto di vista
socioculturale la scelta dei contenuti all’interno di un curricolo, fa emergere quanto
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questo sia di fatto “l’espressione di un progetto culturale di una certa classe
sociale” (Mottana, P. 1992).
Occorre relativizzare il proprio sistema simbolico-culturale per potersi accostare
con favore e interesse ad altri sistemi da cui poter apprendere le modalità diverse di
fare musica. In Europa, l’incontro e la convivenza tra culture diverse può trovare
un terreno particolarmente favorevole proprio in ambito musicale. Spetterà poi
all’insegnante scegliere adeguatamente materiali che siano finalizzati al progetto
didattico, che suscitino interesse, che siano utili.
Per coinvolgere sempre di più gli alunni occorrerà renderli il più possibile partecipi
anche nella scelta dei materiali su cui lavorare (Tafuri, J. 1995).
Sempre Della Casa (1985) ricorda di evitare un metodo meccanico, dove i nuovi
concetti e le nuove esperienze vengano acquisiti senza legami con le strutture già
possedute. Occorre, invece, favorire un apprendimento significativo, dove il nuovo
sia collegato con concetti e con abilità acquisite precedentemente e si incorpori
organicamente ad esse. Seguendo questa linea di pensiero ci accorgiamo che, dei
tre metodi sopraelencati, il secondo (metodo euristico-guidato) risulta essere il più
efficace, soprattutto in ambito scolastico, in quanto è il più adatto a sollecitare
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l’apprendimento senza mai dimenticare che l‘alunno non è una tabula rasa ma porta
con sé delle conoscenze pregresse (Tafuri, J. 1995).
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Al centro di ogni progettazione scolastica deve esserci la relazione educativa. In
base ad essa verranno anche determinati gli spazi, i tempi, le modalità che
permetteranno un sempre maggiore sviluppo del bambino, nella direzione
dell’autonomia personale.
Bertolini (1990), con le sue direzioni intenzionali, ci dà delle indicazioni molto utili
affinché la programmazione e l’attività didattica siano effettivamente valide nel
contesto in cui e per cui sono state pensate.
Poiché l’evento educativo ha una natura sistemica, la direzione intenzionale della
sistemicità risulta essere una struttura portante della relazione educativa. Parliamo
di natura sistemica in quanto nell’evento educativo si incontrano e si intrecciano
diversi elementi: l’individuo, la comunità, il patrimonio culturale, ecc. La loro
correlazione è tale che al modificarsi di uno subiscono delle variazioni anche gli
altri.
Questa direzione intenzionale ci fa riflettere su “che cosa” considerare attività
educativa. Nei paragrafi precedenti abbiamo accennato a tre diversi tipi di
educazione (educazione, formale/scolastica, educazione informale,
autoeducazione). Riflettendo secondo la direzione della sistemicità ci rendiamo
conto che non è possibile fare una netta distinzione tra questi tre tipi di educazione:
fanno tutti parte del percorso di formazione dell’individuo; ognuno dei tre tipi
influenzerà gli altri due, in un gioco sistemico che, in un’ottica di formazione
permanente, non si arresterà mai.
La relazione reciproca mette in luce il rapporto tra almeno due protagonisti
(insegnante e alunno). Questo rapporto di reciprocità prevede sempre un continuo
movimento di andata e ritorno, facendo sì che entrambi cerchino sempre le modalità
migliori per entrare in contatto.
22
Nell’ottica di questa direzione intenzionale rientra ciò che è stato detto nei
precedenti paragrafi: l’insegnante non deve considerare l’alunno come soggetto
passivo, ma come portatore di esperienze e di conoscenze pregresse. Bisogna
scoprire quali sono queste conoscenze e da lì partire, attraverso l’osservazione ed il
dialogo, per la costruzione di una nuova e buona attività educativa. La figura
dell’insegnante deve gradualmente abbandonare quell’aura di prescrittività e
trasmissività. Le sue competenze non sono superiori a quelle dell’alunno/degli
alunni che ha di fronte, sono solo diverse. Imparando ad osservare attivamente
l’altro, un insegnante scoprirà che anche l’alunno che ha di fronte può arricchirlo
grazie alla sua originalità e singolarità esperienziale. Reciprocità è approcciarsi
all’altro con una modalità di apertura, consapevoli che il diverso non è per forza
sbagliato e, anzi, può aprirci a nuove strade e visioni (Tafuri, J. 1995).
La musica è un ottimo esempio di convivenza di diversità e, non a caso, è definita
un linguaggio universale. Racchiude in sé suoni molto diversi tra loro, che
rappresentano altrettanti mondi e culture che condizionano, implicitamente o
esplicitamente, la creazione di un brano musicale, la sua percezione, il suo ascolto,
la sua analisi, la sua esecuzione, ecc. Basti pensare che le percezioni che un adulto
ha di diversi brani musicali sono molto limitate. Questo avviene perché, nel corso
del tempo, il suo orecchio è stato abituato a percepire esclusivamente alcuni suoni
e alcune loro organizzazioni, eliminandone altre. Contrariamente a quanto avviene
per gli adulti, le percezioni e le analisi di brani musicali molto diversi tra loro per
struttura, organizzazione dei suoni, organizzazione del tempo, ecc., sono molto più
ricche e profonde se effettuate dai bambini in quanto la loro esposizione a
determinate composizioni musicali e la conseguente eliminazione di altre è molto
meno presente poiché non ancora totalmente effettuata e interiorizzata (Delalnde,
F. 1993).
Questo è uno degli aspetti per i quali i bambini hanno molto da insegnare agli adulti;
aspetto che un insegnante non deve mai sottovalutare.
La direzione originaria della possibilità ci ricorda che l’evento educativo è sempre
costruito sul possibile in quanto è basato sul cambiamento ed è proiettato verso il
futuro. Si tratta di un’avventura che l’insegnate e l’alunno vivono insieme, senza
23
che nessuno dei due sappia quale sarà il risultato finale, anche se le tappe sono state
precedentemente programmate.
Questa della possibilità è una direzione che ci porta a riflettere sulla flessibilità che
un progetto educativo deve avere in quanto non si potranno mai prevedere al 100%
i suoi sviluppi e i suoi esiti. Occorre sempre tener presenti tutte le variabili che
possono influenzare, direttamente o indirettamente, l’attività didattica.
All’insegnante è richiesta una attenta analisi del gruppo con cui si troverà a lavorare,
del contesto (scolastico e sociale) dentro cui quel determinato gruppo è inserito,
ecc. Questo tipo di analisi e di attenzione ha le sue basi nel pensiero di
Bronfenbrenner (2002) che, attraverso la sua “teoria ecologica” ha dato una chiara
spiegazione di quanto l’individuo ed il suo sviluppo siano in stretta correlazione
con l’ambiente circostante, un ambiente che lo influenza non sempre direttamente
e non sempre in egual misura. Bronfenbrenner immagina l’ambiente come “una
serie ordinata di strutture concentriche incluse l’una nell’altra”. Tali strutture sono
dette rispettivamente: microsistema, mesosistema, esosistema e macrosistema.
24
determinano, o sono determinati da ciò che accade nella situazione ambientale che
comprende l’individuo stesso.” (Bronfenbrenner, U. 2002).
Il macrosistema “consiste delle congruenze di forma e di contenuto dei sistemi di
livello più basso (micro- meso- ed esosistema) che si danno, o si potrebbero dare,
a livello di subcultura o di cultura considerate come un tutto, nonché di ogni
sistema di credenze o di ideologie che sottostanno a tali congruenze.”
(Bronfenbrenner, U. 2002).
25
Anche l’esperienza musicale ha una forte sostanza sociale: è un prodotto sociale, è
un mezzo di comunicazione emozionale, è una forma di linguaggio. Che sia più o
meno professionale e professionalizzante, l’esperienza musicale consente ad ogni
individuo di trovare nuovi canali comunicativi, nuovi punti di incontro, nuovi
mondi (sonori e non) da conoscere. Tutto questo incentiva l’ampliamento di quelle
competenze necessarie per la crescita personale.
Assumere competenze anche in ambito musicale può e deve essere vista come
un’ulteriore possibilità che l’individuo ha per conoscersi più a fondo e per aprirsi
maggiormente agli altri ed al mondo di cui fa parte.
Per parlare dell’attività di sonorizzazione di una storia occorre fare una distinzione
iniziale tra i termini “musicare” e “sonorizzare” (Mugnari, P. M. 2014).
Il musicare è attribuito ai cantastorie, figure presenti in tempi lontani che, come
dice il termine stesso, raccontavano le storie cantandole.
Il sonorizzare è invece attribuito al sonorizzatore. La sua attività non è quella di
raccontare storie cantandole ma di inserire elementi musicali in una storia già scritta
e che può essere raccontata/letta in ogni momento.
L’uso che il cantastorie fa della musica, e in particolare del canto, è assolutamente
strumentale alla narrazione e, ponendosi come suo semplice ausilio, permette a chi
narra di scandirne meglio i ritmi e le fasi in modo da migliorare la comprensione
del pubblico. Il cantastorie non sonorizza, perché non aggiunge alcun elemento
descrittivo alla narrazione.
26
Affinché possa lavorare un sonorizzatore occorre che una narrazione sia di tipo
drammaturgico. Questo tipo di narrazione può considerarsi un’evoluzione recente
dell’attività del cantastorie e risulta più efficace in quanto l’attore trasferisce
l’azione narrata nella stessa dimensione spaziotemporale del narrare,
rappresentandola nel suo contingente divenire.
Nella narrazione drammatizzata l’evento sonoro diventa parte concreta della
narrazione, materiale reale ed insieme simbolico, come il corpo dell’attore
(Mugnari, P. M. 2014). Obiettivo del sonorizzatore è inserirsi nella realtà scenica a
pieno titolo, operando attraverso i suoni un atto di concreta rappresentazione, e non
di descrizione astratta.
Attraverso queste riflessioni Mugnari ci dice che il musicista deve avere la piena
consapevolezza e comprensione della dimensione drammaturgica della narrazione.
L’atto del musicare di per sé non aggiunge elementi narrativi al testo, ma fornisce
un ausilio pratico a chi narra e a chi ascolta. L’atto del sonorizzare è, invece, parte
integrante della drammatizzazione, e fornisce al pubblico un arricchimento del
materiale raccontato in termini descrittivi, narrativi e simbolici.
Per poter sonorizzare occorre avere una conoscenza accurata del testo e,
possibilmente, di tutto il suo contesto narratologico e storico. Questo tipo di
conoscenza è necessaria affinché il lavoro di sonorizzazione sia coerente ed efficace
(Mugnari, P. M. 2014).
27
Vi è uno stretto rapporto tra bambino, suoni e narrazioni.
Spesso, nelle percezioni infantili, suoni e narrazioni si intrecciano, si confondono,
diventano l’una parte dell’altra a tal punto che è impossibile dividerle. Ecco allora
che la musica ed i suoni che i bambini percepiscono, diventano, a tutti gli effetti,
uno strumento comunicativo e, di conseguenza, narrativo (Acone, L. 2015).
28
12. Far analizzare ai bambini i movimenti usati. Questa analisi permette ai
bambini di avere sempre maggior consapevolezza del proprio corpo e dei
suoi movimenti.
Queste fasi possono anche avere un ordine differente ma convivono tutte all’interno
dell’attività di sonorizzazione di una singola storia.
29
CAPITOLO 2
L’infanzia ed il racconto: importanza e significati
Gianna Marrone (2002) afferma che per ricostruire la storia della letteratura per
l’infanzia, e della letteratura in generale, occorre risalire ai tempi in cui non
troviamo letteratura. Nonostante il concetto di letteratura sia legato alla forma
scritta, la sua esistenza e le sue radici sono molto più lontane nel tempo poiché
l’uomo, anche quando non aveva ancora definito simboli o segni per fissare il suo
pensiero, ha sempre cercato di utilizzare forme di comunicazione e di informazione
che gli permettessero di tramandare la propria storia. Stiamo parlando della
letteratura orale che poi, nel corso del tempo, è confluita in quella che definiamo
letteratura scritta.
Continuando a scorrere le pagine del testo di Marrone leggiamo che “il raccontare
oralmente ha permesso di trasmettere molte narrazioni attraverso un sistema
musicale ritmico, molto simile alla filastrocca”. Ancora oggi il bambino, in
famiglia o nella scuola dell’infanzia, ricorda molte filastrocche. Questo è per lui
possibile in quanto le filastrocche hanno un certo ritmo (la Marrone lo chiama
“cantilena”) che aiuta nella loro memorizzazione.
L’autrice continua il suo excursus storico ed evolutivo della letteratura dicendo:
“la storia del genere umano è identica a quella della crescita dell’uomo, nel senso
che durante l’infanzia impara prima a parlare, poi a scarabocchiare e a disegnare,
e solo successivamente impara a scrivere e a leggere. Quindi si esprime prima
attraverso l’oralità (la parola) attraverso l’immagine (lo scarabocchio e il disegno)
30
e solo successivamente attraverso la scrittura. Il genere umano ha seguito lo stesso
iter, per cui per arrivare a parlare di una letteratura scritta dovremo aspettare
molto tempo” (Marrone, G. 2002).
Bruner (2002) ci dice anche che la narrativa è un’arte profondamente popolare, che
maneggia credenze comuni circa la natura della gente e del suo mondo. È
specializzata in ciò che è, o si presume che sia.
Queste radici che affondano nel contesto popolare e che sono influenzate dai suoi
mutamenti storici ci vengono descritte all’interno del saggio di Giorgia Grilli nel
testo di Beseghi (2003).
La studiosa parla della letteratura come “qualcosa a cui si è voluto, ad un certo
punto della nostra storia sociale, assolutamente avvicinare i bambini, ma come
qualcosa che, in sé, poi, è sfuggita di mano a chi la voleva considerare come uno
31
strumento di semplice riproduzione di apprendimenti e di atteggiamenti perché si
è andata piuttosto ad alleare con i lettori e con le loro più intime esigenze, anche
di contro ai progetti, alle intenzioni, alle aspettative degli adulti, che pure di quelle
letture erano stati i promotori e i creatori” (Grilli, G. in Beseghi, E. 2003).
Per quanto concerne la letteratura per l’infanzia Grilli ci dice che le prime esigenze
che avvicinarono il mondo dell’infanzia a quello della letteratura furono di carattere
religioso: nei paesi protestanti, in quanto non erano previste mediazioni tra Dio e
l’uomo, i bambini dovevano imparare a leggere le sacre scritture. La lettura era un
atto devozionale che ogni singolo fedele doveva compiere per ottenere la salvezza
della propria anima.
Continuando nel suo excursus storico l’autrice scrive che un’ulteriore spinta che il
mondo dell’infanzia ha ricevuto verso l’universo della letteratura fu data dal
diffondersi di quel movimento educativo che considerava l’infanzia come quell’età
che andava specificatamente educata. Il bambino veniva visto come principale
strumento d’investimento per il futuro e, quindi, andava necessariamente formato
ed influenzato. Ecco che inizia ad avvertirsi, partendo dai paesi più sviluppati,
l’esigenza di ideare un sistema scolastico di qualche tipo che fosse capace di
accogliere e raccogliere sempre più bambini.
Ma vi era un ostacolo da affrontare: l’apprendimento della lettura poneva il
problema di cosa oltre la Bibbia i bambini potessero leggere.
Si incominciò allora a produrre una serie di testi indirizzati specificatamente a loro
e che presentavano letture controllate, supervisionate dalle autorità pedagogiche.
Questi testi, oltre ad avere come obiettivo quello di rafforzare le capacità di lettura,
contenevano un forte elemento morale. Per evitare che le letture “basse”
influenzassero anche i bambini le autorità che vegliavano sulla formazione dei più
giovani crearono dei Comitati Generali di Lettura ed Educazione che avevano come
obiettivo quello di monitorare la diffusione della letteratura popolare.
32
Ma in breve tempo l’offerta divenne vastissima e difficile da controllare e gli
educatori si accorsero che i testi commissionati e/o consigliati oltre a trasmettere
importanti messaggi non dovevano risultare pesanti, seriosi, troppo moralistici. Era
quindi necessario creare sempre nuovi ostacoli (un nuovo male) che rallentassero i
protagonisti ed alimentassero la voglia dei ragazzi di proseguire nella lettura.
Attraverso questa esposizione Grilli (in Beseghi, E. 2003) ci fa notare che
all’interno delle storie veniva inevitabilmente mostrato, con tutta la sua potenza,
spesso affascinante il male che si cercava di evitare.
Per catturare l’attenzione dei più giovani gli scrittori e gli editori iniziarono ad
affidarsi alle strutture proprie della letteratura popolare, con precisione al
“romance”.
Questo genere di romanzo aveva come unica preoccupazione quella di mettere in
scena una un percorso che segue delle tappe ben precise: il distacco dalle cose note,
il viaggio verso un altrove, l’incontro con il muovo ed il diverso, il pericolo, il
confronto con il male, l’errare, il superamento di prove, il ritorno finale. Come si
può immaginare ci si concentrava solo sulla narrazione di un tipico itinerario e non
sui valori e/o messaggi da trasmettere. La trama avvincente catapultava il lettore in
una dimensione che trascendeva il quotidiano in quanto venivano raccontate
esperienze che non era possibile fare nella vita concreta che permettevano al lettore
di costruire e ridefinire in maniera più complessa la propria identità.
Nel momento in cui hanno iniziato a seguire una determinata struttura, uno schema
preciso, le storie scritte per l’infanzia si rivelarono più potenti di quanto gli stessi
autori si aspettassero. Infatti la lettura di queste storie permetteva ai bambini di fare
un viaggio di esplorazione del mondo e di sé, cosa che non potevano fare in nessun
altro modo se non leggendo.
La letteratura per l’infanzia diventa l’unico spazio approvato dagli adulti nel quale
si poteva curiosare oltre la dimensione data, altrimenti da accettare, da apprendere,
da interiorizzare solo come tale.
33
La progressiva assunzione del punto di vista dell’infanzia, l’abbassamento dello
sguardo al suo angolo di prospettiva, l’affidarsi al suo modo di notare tutto come se
non fosse normale, la restituzione ai bambini della loro voce perché dicessero in
prima persona come ogni cosa è, fu un altro modo per rendere sempre più
definitivamente la letteratura per l’infanzia il luogo dell’espressione di chi non si
lascia sfuggire nulla, perché tutto nel mondo è interessante, è significativo, è
sorprendente, perché tutto è ciò che è ma è anche un pretesto per dare vita a una
domanda.
Grilli ci fa notare che tutta la letteratura per l’infanzia, che aveva anche come fine
di essere sicura, in quanto ha usato metafore per giungere più facilmente ai bambini,
si è rivelata sfuggente, ambigua, ricca di imprevedibili implicazioni, divenne
sempre più la dimensione dell’andata oltre la superficie, oltre le cose evidenti e
note, oltre ciò che era possibile.
Questo percorso storico tracciato da Giorgia Grilli (in Beseghi, E. 2003) ci rende
ancora più consapevoli dello stretto legame che intercorre tra letteratura (anche
dell’infanzia) e la cultura.
Molti sono gli studiosi che si sono occupati di analizzare a fondo questo legame.
Tra tutti vogliamo ricordare Jerome Bruner che nel suo libro “La fabbrica delle
storie” (2002) scrive:
“Nessuna cultura umana può operare senza qualche mezzo per trattare gli squilibri
prevedibili o imprevedibili inerenti alla vita comune. A parte tutto il resto, ciò che
una cultura deve fare è escogitare dei mezzi per tenere a freno interessi e
aspirazioni incompatibili. Le sue risorse narrative-racconti popolari, storie
antiquate, la sua letteratura e evoluzione, perfino i suoi tipi di pettegolezzo-
servono a convenzionalizzare le ineguaglianze che essa genera, tenendo così a
freno i suoi squilibri e le sue incompatibilità”.
34
2.2 Gli impieghi del racconto
35
a persone, oggetti, eventi del mondo reale attraverso espressioni che li
rappresentano in modo narrativo.
La narrativa, anche quella fantastica, conferisce un senso e dà forma alle cose del
mondo reale conferendo un titolo di realtà. Questo processo spesso è così rapido e
automatico che nemmeno ce ne accorgiamo.
Per conseguire il suo effetto la narrativa letteraria deve affondare le sue radici in
ciò che è familiare e che appare reale.
Pur prendendo le mosse da ciò che è familiare la narrativa ha lo scopo di superarlo
per addentrarsi nel regno del possibile, di quel che potrebbe essere, potrebbe essere
stato, potrebbe essere in futuro. La visione d’insieme che cerca di tenere presente
la complessità della realtà congiunta al cammino personale dell’uomo è stata,
probabilmente, una delle prime ragioni per cui la letteratura si è occupata di
prendere la vita in mano, astraendola dal reale per poterla osservare, smontare,
comprendere e interpretare. In seguito a questa attività di osservazione e di
scomposizione la realtà poteva essere ricomposta e descritta attraverso una forma
narrativa e poetica.
È sempre Bruner (2002) a ricordarci che la narrativa è una continua dialettica tra
ciò che si attendeva e ciò che è stato.
Lo studioso newyorkese ci dice che la letteratura e le narrazioni cercano di
rielaborare la realtà per riproporla e restituirla ai lettori con nuove sembianze
metaforiche e simboliche che permettano di decifrare, spiegare e svelare ma, al
contempo, anche di contenere, consolare, appagare e comprendere le differenti
soglie di vivibilità e tollerabilità di una restituzione complicata che si modifica al
modificarsi delle forme e delle modalità che i generi letterari attraversano nelle
differenti epoche e fasi. Ed è anche per questo suo aspetto di mutevolezza e
ricchezza di generi che la letteratura è considerata un prodotto ed una modalità
d’espressione di una specifica cultura in una altrettanto precisa epoca storica.
La cultura, per la sua tensione non solo verso ciò che è ma anche verso ciò che
potrebbe essere umanamente possibile, trova nei racconti il suo fondamento.
Citando Tomasello, Bruner ci dice che ciò che inizialmente aveva differenziato la
specie umana dalle altre fu la capacità di leggere le reciproche intenzioni e gli altrui
stati mentali (capacità di comprensione ed empatia). Queste sono capacità
36
fondamentali per vivere in una cultura, in un gruppo socialmente costituito.
Capacità che stanno alla base della socializzazione. Tenendo presente che l’uomo
è un essere sociale, quella della socializzazione è un’esperienza fondamentale per
ogni individuo.
È sempre Bruner a ricordarci che ogni rapporto interpersonale ha come fondamento
principale la condivisione di esperienze che è favorita dalla possibilità di
raccontare.
La vita collettiva faticherebbe ad esistere se l’uomo non avesse la capacità di
organizzare e comunicare l’esperienza in forma narrativa.
Utilizziamo la forma del racconto per descrivere eventi della vita umana, della
nostra vita, e non elenchi di luoghi, date, amici, nemici, ecc., poiché la sua è una
struttura flessibile, pronta a trattare gli esiti incerti dei nostri progetti e delle nostre
aspettative.
Infatti scrive:
“I racconti non sono solo prodotti del linguaggio, così notevole per la sua
fecondità, che consente di narrare versioni diverse, ma il narrarli diventa ben
presto fondamentale per le interazioni sociali”. (Bruner, J. 2002).
Questo spiega come mai il bambino impara in fretta a trovare la storia giusta per
ogni occasione. In questo senso il racconto si intreccia con la vita della cultura, ne
diventa parte integrante.
Sempre grazie alle parole di Bruner (2002) comprendiamo che i bambini entrano
presto nel mondo della narrativa. Come gli adulti, sviluppano aspettative sulla
realtà, su come dovrebbe essere il mondo, ed anche le loro attese mostrano singolari
prevenzioni. E come gli adulti, sono sensibili all’inaspettato, sono attratti da ciò che
è strano. Il fascino dell’imprevisto caratterizza anche i loro primi giochi. Sembra
che fin dalla nascita abbiamo una qualche predisposizione, un’intima conoscenza
della narrativa.
Questa conoscenza narrativa inziale va poi sviluppata attraverso un diretto
approccio con le storie raccontate nei libri, per bambini, nei numerosissimi romanzi
che oramai fanno parte della nostra cultura letteraria.
37
Le narrazioni rivestono un ruolo di fondamentale importanza educativa in quanto
si propongono come ambiti dell’altrove, in cui proiettarsi lontano dal qui, e
permettono di guardare più da vicino quanto e cosa il qui nasconde ed opacizza.
Anche Emy Beseghi nel suo testo “Il giardino segreto” (2003) ci fa comprendere
come vi sia un dialogo tra mondo reale e mondo della narrazione.
La visione d’insieme che cerca di far dialogare la complessità della realtà congiunta
al cammino e la ricerca personale dell’uomo è stata da sempre una delle ragioni per
cui la letteratura si è occupata di prendere la vita in mano, astraendola dal reale per
poterla osservare, smontare, comprendere ed interpretare, per provare poi a
ricomporla raccontandola in forma narrativa e poetica. La letteratura e le narrazioni
cercano di rielaborare la realtà per restituirla ai lettori con sembianze nuove,
simboliche, capaci di svelare le differenti soglie di visibilità e tollerabilità di una
restituzione così complicata.
“Nei luoghi impossibili in cui vivono molti protagonisti di romanzi per l’infanzia il
tempo sfugge alle categorizzazioni che saranno di successive storie ed età della
vita. Il dilungarsi negli ambiti della letteratura per l’infanzia si può considerare
quasi un ruminare, un soffermarsi sul tempo - spazio che comunque, e per fortuna,
appartiene alla storia della formazione” (Beseghi, E. 2003).
È sempre nel testo di Beseghi (2003) che viene affermato che la letteratura per
l’infanzia contribuisce a ritrarre le rappresentazioni narrative, letterarie,
iconografiche del continuum esistenziale delle età giovanili, collocandosi nell’area
dell’altrove che la collega al romanzo di formazione attraverso gli intrecci ed i
depositi della letteratura fiabesca. La letteratura per l’infanzia può incrociare e
tessere insieme trame iniziatiche e formative.
38
2.3 Basi psicologiche della narrativa e ricerca di senso
39
“Le diverse forme narrative sembrano essere il prodotto di una tendenza universale
a trasmettere la nostra esperienza della realtà, a comunicare i significati che
cogliamo in essa”. (Bruner, J. 2002).
Ricordando le origini “naturali” della narrazione è sempre Bruner (2002) a dirci che
l’impulso a narrare sembra così naturale che non possiamo immaginare una cultura
o anche semplicemente delle relazioni tra individui, in cui le narrazioni siano
assenti. Occorre, però, ricordare che il discorso narrativo non è una semplice
traduzione linguistica di una sequenza di eventi, poiché esso conferisce una
struttura al continuo fluire dell’esperienza.
Seguendo le orme di Bruner, Levorato (2000) ci dice che “la narrativa è una
struttura simbolica per tradurre in discorso il mondo degli eventi e delle azioni, e
prima ancora per interpretarlo; è una procedura che la cultura usa per assegnare
significato ad azioni ed eventi sulla base dei sistemi di credenze e valori accettati
e condivisi”.
Quindi la narrativa parla delle azioni compiute dagli uomini sulla base delle loro
credenze; essa si manifesta attraverso forme diverse (forme individuali o private)
che rispecchiano l’idea che abbiamo di noi stessi come individui e della nostra
esistenza, a quelle in cui si riconoscono le origini sociali, culturali e religiose di
gruppi, anche molto grandi e numerosi, di persone.
Secondo Bruner le diverse narrative hanno la funzione di fornire delle spiegazioni
e delle interpretazioni a quelle azioni, a quei fatti, a quelle vicende che si discostano
dall’ordinario.
“La narrazione è utile per trovare delle spiegazioni quando si verifica una
discrepanza rispetto a ciò che è culturalmente codificato, quando una sequenza di
eventi è caratterizzata da uno scostamento dalla norma. Compito della narrativa è
di perpetuare le norme e i valori della cultura e di fornire anche una legittimazione
ai comportamenti che se ne discostano” (Bruner, J. 2002).
40
narrative possono esprimere i diversi tipi di equilibri o di tensioni tra la tendenza
della cultura ad autoconservarsi e la tendenza delle persone ad innovarla. Le
narrative sono capaci di stabilire legami tra l’eccezionale e l’ordinario, tra il
singolare e l’universale.
Levorato (2000) scrive che il discorso narrativo è un discorso per tutti, perché tutti
devono impadronirsi del sistema di conoscenze che può dare senso all’esistenza
umana. La narrazione realizza questo obiettivo in quanto è una forma di
comunicazione facile, interessante, emotivamente carica. L’universalità
dell’esperienza narrativa ed il suo precoce sviluppo in ogni individuo suggeriscono
che il discorso narrativo, come il pensiero narrativo, abbia un valore per la vita della
specie umana: la condivisione dei significati che gli individui attribuiscono alla
propria ed altrui esperienza e la trasmissione e conservazione dei valori
fondamentali per la sopravvivenza del gruppo. Questa spinta interna ad organizzare
l’esperienza in forma narrativa è, secondo Bruner, alla base dell’acquisizione del
linguaggio. Bruner (2002) afferma che il linguaggio non viene acquisito dal
bambino con lo scopo prioritario e referenziale di dire il nome delle cose, ma
inizialmente ha come priorità quelle di raccontare la propria esperienza soggettiva
e intersoggettiva. Levorato (2000) traccia un percorso di sviluppo del linguaggio e
della competenza narrativa di un individuo partendo dall’età infantile. La
conoscenza, ed il linguaggio per esprimerla, nasce in contesti significativi in cui il
bambino e la madre comunicano e cooperano per il raggiungimento di qualche
scopo comune (pappa, bagnetto, gioco, nomi, ecc.). Il linguaggio svolge
inizialmente una funzione comunicativa e conoscitiva, ma più che di una
conoscenza del mondo fisico si tratta di conoscenza delle situazioni in cui avviene
uno scambio comunicativo. Quindi, quando parliamo di conoscenza nella prima
fase della vita di ogni soggetto, parliamo una esperienza che riguarda le esperienze
soggettive e intersoggettive. Però, fino ai 2/3 anni, il bambino non avverte
l’esigenza di rivivere e di rivisitare le proprie esperienze passate attraverso la
narrazione. Rivolgersi al passato è una cosa complessa: la narrazione di eventi
passati richiede una capacità di rielaborare e rappresentare gli eventi per mezzo di
strumenti simbolici (come il linguaggio), applicando le regole del discorso
(coerenza, organizzazione sequenziale). Inoltre la narrazione implica l’esigenza di
41
condividere le proprie esperienze con gli altri. Questa capacità di condivisione non
è posseduta dai bambini fino ali 5/6 anni.
Prima di riuscire a produrre delle narrazioni che presentino lo scenario della
coscienza accanto a quello delle azioni, i bambini sono in grado di comprendere
ascoltandole dagli adulti che tendono sempre a condividere, tramite le narrazioni,
le proprie esperienze personali e che spesso riguardano anche il vissuto del bambino
che le ascolta.
L’ascolto del bambino sarà anche orientato alle storie fantastiche, emozionanti,
ambientate in luoghi magici e pieni di mistero, che sono presenti nei numerosi
romanzi che fanno parte del mondo della letteratura dell’infanzia e che gli vengono
letti dagli adulti che sono al suo fianco.
Nel testo di Beseghi (2003) l’infanzia viene descritta come una fase di libertà
dell’individuo che, spinto dalla curiosità, allarga anche oltre i suoi limiti, lo sguardo
cercando un senso al suo esistere e all’esistere del mondo che lo circonda ed a cui,
gradualmente, sente di appartenere. La letteratura per l’infanzia è ricca di piccoli
personaggi ribelli, curiosi, che anche un po’ per incoscienza si trovano in luoghi e
situazioni particolari, alcune volte pericolose.
Nell’ascoltare queste storie il bambino inizia a rapportarsi con esse, coi personaggi
ed i luoghi che le caratterizzano, in pratica li interiorizza. Questa interiorizzazione
avviene in quanto gradualmente il bambino inizia a capire, rapportandosi con
l’aspetto simbolico del racconto, che immagini e parole possono rappresentare non
solo persone ed oggetti ma anche intenzioni, desideri e sentimenti.
La narrazione, il linguaggio, le modalità del discorso offrono al bambino un
orizzonte simbolico in cui collocare la propria esperienza. Il racconto può offrire
una lente per vedere la realtà come la vede il personaggio, ma allo stesso tempo
permette al bambino di vedere la storia con i suoi stessi occhi.
Il bambino è il destinatario privilegiato di una comunicazione letteraria e diventa
anche parte attiva di un processo di cooperazione col testo. Le esperienze
emotivamente piacevoli ed i coinvolgimenti nell’ambito della narrazione possono
arricchire il catalogo mentale di fenomeni e sentimenti che cresce insieme al
bambino ed influisce sui suoi atteggiamenti e comportamenti.
42
“I bambini, con occhi famelici e colmi di desiderio, si dispongono all’ascolto,
cercando nello sguardo di chi narra la presenza viva e pulsante della storia
attraverso il suono della parola. Per poi lasciare che ogni elemento del racconto si
depositi nelle orecchie che trattengono le immagini e le parole narrate. Non è poi
solo il valore delle storie che accende una segreta scintilla ma la consapevolezza,
per il bambino, di essere ritenuto così importante da diventare depositario di una
comunicazione privilegiata” (Beseghi, E. 2003).
Nel suo testo Levorato (2000) afferma che tutti gli stati mentali e tutti gli atti
cognitivi hanno una dimensione affettiva.
L’attività cognitiva è intessuta di affettività: piacere, desiderio, noia, curiosità
interesse, ma anche indifferenza, sono stati affettivi che hanno origine nella
valutazione soggettiva dell’esperienza.
La presenza di una componente affettiva accanto a quella cognitiva è evidente negli
stati della mente originati da simboli o segni, come nel caso del linguaggio.
“Le risposte degli esseri umani ai segni della lingua contengono una consistente
componente emotiva o affettiva, tant’è che oltre al significato denotativo le parole
possiedono anche un significato connotativo, che esprime l’atteggiamento
affettivo-emotivo del parlare” (Anderson e McMaster 1992).
43
riconoscimento ed etichettatura linguistica) e una cognizione che è lo stato affettivo
che si associa ad ogni atto mentale. Non è possibile avere una comprensione
dell’esperienza della lettura se si prescinde da una di queste due componenti.
Mandler sostiene che l’esperienza emotiva della comprensione del linguaggio è
costituita da una componente di attivazione fisiologica (i cambiamenti fisiologici
che si verificano all’insorgere dell’emozione) e una componente di valutazione
(consapevolezza del vissuto emotivo e giudizio ad esso associato). Quando
attraverso i cambiamenti fisiologici si fa esperienza di una emozione, la si valuta,
la si riconosce, si esprime un giudizio più o meno implicito: in questo consiste
l’aspetto di valutazione.
Mentre il processo di elaborazione è oggettivo, in quanto ricerca il significato nel
testo, il processo di valutazione è soggettivo: quello che per alcuni può essere bello
e buono per altri non lo è. Anche all’interno della stessa cultura coesistono le
preferenze più varie.
“La valutazione è soggettiva non perché sia arbitraria o aleatoria, anzi c’è
sistematicità all’interno delle valutazioni di una stessa persona, ma perché una
valutazione è sempre un dato razionale: la bellezza e la bontà non sono nella cosa
giudicata tale. Ma nella relazione tra le qualità e le caratteristiche intrinseche della
persona che compie la valutazione da un lato e le qualità e caratteristiche
dell’oggetto su cui la valutazione si compie dall’altro” (Levorato, M. C. 2000).
44
un processo all’altro: non solo vengono valutati i prodotti della comprensione, ma
le valutazioni compiute influenzano i successivi processi di comprensione. Se il
processo di elaborazione compie un lavoro che costituisce la condizione necessaria
per la lettura, il processo di valutazione è quello che la connota, la orienta,
determina il suo impatto sul lettore ed influenza le successive esperienza di lettura.
I significati che la narrativa trasmette non sono solo quelli elaborati mediante il
processo di comprensione, ma anche quelli che il lettore ricava attraverso i processi
interpretativi. Il sistema di valutazione, oltre ad attivare risorse attentive, guida
l’esperienza soggettiva della fruizione sostenendo il processo interpretativo.
Il processo di valutazione, di fronte alla narrazione, produce stati affettivo - emotivi
che rendono attivi schemi di conoscenza e sistemi di valori che servono alla
comprensione ed all’interpretazione.
La componente valutativa utilizza i sentimenti e gli affetti del lettore per proiettare
i sistemi di concezioni del mondo sul racconto. Da ciò discende l’interpretazione
che è una comprensione arricchita da un valore di senso aggiunto che rende
l’interpretazione del testo qualcosa di diverso dalla sua semplice elaborazione
cognitiva, e che consente di parlare di fruizione come processo impregnato della
soggettività e della individualità del lettore.
Le emozioni che scaturiscono dalla lettura influenzano il suo rapporto con essa, un
rapporto che inizia nel periodo dell’infanzia ed è destinato a durare tutta la vita.
Infatti il libro incontrato nell'infanzia può divenire oggetto di una passione che
accompagna una persona per tutta la sua vita.
“L’infanzia è una stagione di vita carica di sorprese e di scoperte, di conquiste e
di paure, dove la prima volta che si stabilisce il rapporto con il libro è un momento
davvero irripetibile spesso collocato nel sogno e nel mistero di una educazione
sentimentale” (Beseghi, E. 2003).
È sempre Beseghi (2003) a dirci che le storie costituiscono per i bambini delle
esperienze emotivamente piacevoli e coinvolgenti, che risultano essere portatrici di
numerosi significati in quanto sono arricchite dai simboli trasmessi dal linguaggio.
Nella lettura e nell’ascolto delle storie giocano un ruolo fondamentale l’interesse,
45
la curiosità, la scoperta, che permettono ai bambini di compiere un viaggio
“fantastico” tra parole ed immagini.
Come per il linguaggio, ed utilizzando anche il linguaggio come strumento
espressivo, l’universo dei libri appare misterioso, assume le forme più diverse. Ed
è proprio grazie a queste diversità che riesce a catturare i bambini, a coinvolgerli in
un viaggio (quello della lettura) che si presenta sempre diverso, sempre
accattivante, sempre pronto a stupire.
46
2.5 Pinocchio: riflessioni ed interpretazioni
“Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi è uno dei libri più letti e più tradotti
al mondo.
Numerosi sono i motivi che hanno contribuito ad accrescere la sua fama e, nel corso
di questo paragrafo ci impegneremo ad approfondirli tutti nel miglior modo
possibile.
La prima cosa che si può notare è come il ribelle burattino sia diventato un’icona
rappresentativa del bambino bugiardo e disobbediente che può sempre cambiare.
Faeti (2010) ci dice che Pinocchio, in quanto icona dell’infanzia, appartiene
all’umanità intera. Ma, continua l’autore, nonostante questa sua universalità,
Pinocchio è profondamente italiano.
“È il più sincero testimone (lui, bugiardo dei bugiardi) di un’Italia che è esistita, e
che un poco esiste ancora, l’Italia più strana, più misteriosa, più amabile, più bella
fra le tante Italie possibili” (Faeti, A. 2010).
47
Ma nel romanzo di Collodi non vi è solo la descrizione, attraverso simboli e
metafore, dell’Italia post - unitaria.
Come abbiamo precedentemente detto Pinocchio è sicuramente una metafora della
condizione infantile. I diversi studiosi dell'opera hanno individuato numerose
metafore legate all'infanzia fino ad affermare che l’intero romanzo è esso stesso una
metafora di quel viaggio fantastico e strabiliante che è l'infanzia.
Il burattino Pinocchio è una perfetta immagine dell’infanzia, quando non viene
costretta precocemente a farsi simile agli adulti.
“Nei sui modi aperti di rapportarsi al mondo, nelle sue azioni sincopate, nei suoi
discorsi tutti scombinati, nelle sue personalissime interpretazioni di ciò che accade,
nel suo continuo movimento, nella sua incapacità, anzi, di stare fermo, nel suo
essere fiducioso e pronto ad incontrare tutto ciò che è possibile - e anche quello
che non lo è propriamente - Pinocchio incarna, essendo di legno, il modo d’essere
non di un burattino ma del ‘Bambino’. Del bambino inteso come condizione
dell’anima, una condizione nei fatti forse mai davvero esistente […]” (Grilli, G.
2016).
Grilli (2016) ci fa notare che non si dice nulla di Pinocchio quando diviene poi un
bambino vero: il libro si chiude lì, come se non ci fosse più niente da raccontare di
un bambino normalizzato, di un bambino che è come lo vogliamo noi, e che quindi
non è più veramente un bambino.
Non c’è più niente da raccontare, non c’è più niente da dire rispetto ad un’infanzia
standardizzata, priva di originalità, adattata ai canoni prestabiliti dagli adulti.
48
Proprio per la sua disobbedienza Pinocchio può essere visto non solo come
metafora d’infanzia, ma anche come tipico esempio di personaggio in generale
definibile come “trasgressore del senso comune” (Grilli, G. 2016).
Nella tradizione mitologica di tutti i popoli vi è la figura, che gli antropologi hanno
chiamato Trickster, cioè colui che gioca dei tiri, che è un briccone, un briccone
però divino (Grilli, G. 2016).
Questa figura mitologica è sempre in movimento, vive sulla soglia, nei crocicchi,
per strada. È una figura legata al disordine, che porta scompiglio. Grilli ci dice che
questo scompiglio non è da intendersi in senso negativo, ma è l’opportunità che si
ha di ricreare la realtà in modi inediti e rigeneranti.
Il briccone, come Pinocchio in molte situazioni, è mosso dalla fame: è per la fame
che si ingegna, si muove, inganna il prossimo e diventa piano piano padrone di
quella forma di finzione creativa che è un prerequisito dell’arte (Grilli, G. 2016).
Solo fin quando è un burattino ed è monello Pinocchio è utile al contesto che però
così non lo vuole. Per potersi nutrire (o per poter soddisfare un suo desiderio) anche
Pinocchio, come il briccone, manda all’aria ogni cosa. Questa disobbedienza che
porta al capovolgimento delle situazioni permette alla vita di continuare,
interrompe la stagnazione (Grilli, G. 2016).
Un espediente molto utilizzato da Pinocchio per poter soddisfare i suoi bisogni e
desideri è costituito dalle bugie.
Beseghi ci dice che questo delle bugie è un tema molto importante nella letteratura
per l’infanzia dove “sfilano bambini bugiardi di celebri libri che ci mostrano
attraverso i volti delle bugie letterarie spesso il lato nascosto o il rovescio della
medaglia di ciò che viene chiamata verità”.
Faeti (2010) sottolinea che il romanzo del ribelle burattino altro non è che la
rappresentazione della menzogna nella società adulta. Una menzogna che
raggiunge il suo punto più alto nell’episodio del tribunale che assolve i ladri e
arresta i derubati.
49
Infatti, nonostante la precisa ambientazione temporale e spaziale, Pinocchio viene
collocato dall’autore in un mondo di burattini, di creature come lui, un regno
fantastico tutto spostato da un’altra parte, parallelo a quello quotidiano, ma che è
riconoscibilmente - dalle strade campestri alle aie contadine alle case povere dei
piccoli artigiani ai moli dei pescatori battuti dalle interperie alle osterie di paese -
lo stesso nostro mondo (Grilli, G. 2016).
Tutto il romanzo sembra tracciare la via per condurre il piccolo burattino dal mondo
della fiaba, in cui è stato collocato, al mondo della realtà. Pinocchio diventa un
bambino vero solo nel momento in cui, imparando dalle sue numerose e fantastiche
avventure, comprende come comportarsi (o meglio come i grandi vogliono che si
comporti). E così il nostro protagonista abbandona il mondo del fantastico, del
surreale, dell’atemporalità per aprirsi un varco verso la dimensione temporale della
quotidianità fatta di serietà, sacrifici, responsabilità, rinunce diventando così un
bambino vero, un bambino che rispecchia perfettamente le aspettative degli adulti
che lo circondano.
L’abilità di Collodi, ci dice ancora Grilli (2016), è stata quella di rendere un contesto
geograficamente specificato uno spazio della mente, una sorta di summa
emblematica di tutti quei luoghi che al mondo esistono e sono fatti nello stesso
modo.
Un’immagine molto forte presente nel romanzo e quella che riguarda Pinocchio
come creatura lignea. Questo suo essere un burattino, e quindi essere fatto di legno,
ci trasporta in quella dimensione che Grilli (2016) chiama “vegetalità”. Il legno,
continua Grilli, è qualcosa che ci riguarda. Nelle mitologie germaniche ed in molte
religioni precristiane l’uomo è fatto discendere dagli alberi: gli dei lo intagliarono
e lo scolpirono nel legno e lui conserva per questo un legame strettissimo con i
50
boschi, con le selve e con la sensazione che esse abbiano, come noi, non solo una
vita ma un’anima.
Il rapporto tra umanità e vegetalità è molto complesso in quanto, se è vero che
all’interno della cultura occidentale l’uomo si è vantato e illuso di rappresentare,
nel regno dei viventi, un gradino superiore alle piante (e agli animali) è anche vero
che proprio noi, figli di questa particolare visione, da un certo momento storico in
poi (l’epoca moderna e ancor più quella industriale) abbiamo iniziato a sentire
come propria degli alberi, dei boschi, delle foreste, una “naturalità”, una purezza,
una selvatichezza, un’originarietà che tristemente, tragicamente, non appartiene
più al nostro mondo e alla nostra possibilità di essere […] Alle foreste, ai boschi,
al verde, allora si inizia a guardare non come a qualcosa da abbandonare, in favore
della civiltà, ma come una meta, come a un luogo verso cui tornare come a casa.
(Grilli, G. 2016).
Tutto ciò non concerne il famosissimo burattino Pinocchio.
“In lui si compie un salto ulteriore: non c’è nemmeno bisogno, per lui, di andare
verso la natura, perché la natura è in lui, con quel suo corpo vegetale” (Grilli, G.
2016).
“Se Pinocchio, scapestrato, consente come ogni divino briccone alla vita sociale
di continuare, cioè di non morire, è anche vero che, in modo paradossale, lui la
morte, come dimensione più profonda, simbolica, universale, se la porta addosso.
Con il suo fuggire da ciò che è noto e sicuro, col suo scappare sempre via da tutti
e da tutto, con il suo correre come se avesse sempre il fiato sul collo, Pinocchio il
rischio di morire lo sfiora ad ogni passo (Grilli, G. 2016).
Ma non si tratta solo della condizione del burattino Pinocchio; Grilli ci fa notare
che nel romanzo di Collodi la dimensione della morte è onnipresente e Pinocchio,
con le sue azioni, la rende una costante. Quello di Pinocchio altro non è che un
viaggio nel mondo dei morti che è reso esplicito fin da quando giunge e bussa
disperato alla porta della Fata Turchina che abita in una casa dove sono tutti morti
(Grilli, G. 2016).
51
Ma la morte in Pinocchio non è la condizione di fine della vita che socialmente e
culturalmente intendiamo. La condizione della morte, nel romanzo collodiano,
riguarda tutti noi, tutti gli esseri viventi e ha come caratteristica quella del divenire,
del mutare, del cambiare.
“La morte in Pinocchio è una faccia della trasformazione universale. Come tale è
dimensione strettamente intrecciata alla vita, ne consente il proseguimento in veste
nuova, si confonde con una capriola morfologico - esistenziale, in un passaggio, il
varco di una soglia, una rinascita” (Grilli, G. 2016).
Sempre Beseghi ci dice che a conclusione del libro si apre il grande interrogativo:
“Dove è finito il vecchio Pinocchio di legno”?
Il burattino muore ma lascia tutto se stesso in eredità al bambino, un bambino vero
che, alla fine del romanzo, contempla le spoglie del burattino che era stato.
Ecco la dimensione della morte come rinascita: il burattino Pinocchio muore per
rinascere come bambino vero, in carne e ossa.
52
L’aspetto dell’illustrazione è cruciale nella storia di Pinocchio.
Casella (in Beseghi, E. 2003) ci dice infatti che “Le avventure di Pinocchio”, fin
dalle prime puntate apparse ne “Il giornale dei bambini” nel 1882 ornate da poche
e piccole figure, furono sempre illustrate.
Per la realizzazione del progetto che sta alla base di questa tesi ho fatto riferimento
alle illustrazioni di Roberto Innocenti. Ma più che riprendere le immagini che si
trovano all’interno progetto (che troveremo nel capitolo successivo) ho ritenuto
interessante analizzare le due illustrazioni che Innocenti fa della “morte” di
Pinocchio.
53
R. Innocenti
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Altra parte importante e con aspetti cupi e ricchi di significato è il finale del
romanzo.
R. Innocenti
55
Nel romanzo Collodi ci racconta di Pinocchio che si sveglia e si accorge di essere
un bambino vero. Ma gli sorge un dubbio: che fine avrà fatto il suo corpo da
burattino?
Geppetto gli fa vedere le spoglie del burattino che era stato in un angolo.
Innocenti, con la sua illustrazione finale sembra voler procedere in avanti nel
racconto. Ci propone un classico ritratto di famiglia che, però, presenta delle
particolarità. Non vi sono solo Geppetto e il figlio Pinocchio (che oramai è
diventato un bambino vero), ma su una sedia trai due sono adagiate le spoglie, ormai
senza anima, del burattino che rappresenta ciò che Pinocchio era prima di diventare
un bambino vero, un bambino responsabile, studioso ed obbediente. Ma le spoglie
di ciò che era prima sono ancora lì e, nonostante il suo aspetto sia ormai quello di
un bambino, la sua ombra rimane quella del burattino che era.
Innocenti rappresenta graficamente il messaggio che, citando Beseghi, Collodi
vuole trasmettere attraverso questo finale, un messaggio rivolto agli adulti che dice
loro “non uccidete il bambino che è in voi”.
Molte altre sono le scene che risultano essere paurose e ricche di particolari. Ma ho
scelto di concentrarmi su queste due rappresentazioni della “morte” del
protagonista perché, come detto in precedenza, questa condizione mortifera
accompagna Pinocchio per tutto il suo cammino rivelandosi, però, non come la fine
di tutto ma come l’inizio di un nuovo percorso, di una nuova vita.
Nonostante questa funzione salvifica ed evolutiva della morte, per Bernardi (2011)
il finale appare deludente.
Delude per la rapidità poiché in poche righe si consuma un’intera vicenda epica. Il
tempo narrativo si avvicina a quello reale ed il tutto si conclude con un finale di
segno mortifero che pazza via l’atmosfera illusoria che aveva sempre caratterizzato
le avventure, ritornando nel qui ed abolendo l’illusione della permanenza
nell’altrove.
Delude in quanto il libro si chiude su un vissuto e con un’immagine luttuosa. Lutto
del lettore, del burattino caduto sulla sedia, dell’itinerario di auto - formazione che
56
spinge ad una importante e desiderata metamorfosi che avviene in seguito ad una
rinuncia di ciò che si era prima.
Bernardi (2011) cita Peter Brooks il quale spiega che si tratta di un finale deludente
in quanto solitamente ci si aspetta la restituzione della quiete dopo l’inquietudine
della narrazione. Nonostante Pinocchio sia contento della sua nuova condizione il
lettore non condivide questa sua felicità, questa sua esultanza. Non ci riesce in
quanto è preso dal rimpianto e dalla nostalgia che permea l’abbandono e la
separazione dal passato fanciullesco. Un passato che, in una visione pascoliana, può
tradursi in eterno presente compresente in ciascuno lungo il proprio ciclo
esistenziale
Un ciclo che, come le avventure di Pinocchio, ci consente di passare, grazie alla
lettura, attraverso il mondo fantastico e fiabesco dei romanzi, per poi tornare alla
realtà imboccando nuovi percorsi, rimanendo aperti ai possibili cambiamenti,
predisponendoci ad un maggiore ascolto di noi stessi e degli altri. Un ascolto che
ha inizio da quando si è nel grembo materno e, attraverso le storie raccontatesi
sviluppa diventando sempre più attivo. Un ascolto che ci permette di relazionarci
con il mondo che ci circonda e con coloro che, come noi, lo popolano. Un ascolto
che ci rende sempre più consapevoli di noi stessi.
57
CAPITOLO 3
Il progetto “Pinocchio”
58
strutture, forme, concetti, comuni processi di pensiero”. (Lucchetti, S., Ferrari, F.,
Freschi, A. M. 2012).
59
deve inglobare i fattori esterni e le aspettative degli insegnanti e degli allievi rispetto
all’insegnamento in questione.
Un curricolo viene impostato secondo presupposti pedagogici generali che possono
variare da insegnante a insegnante e da scuola a scuola.
Scurati (1976) fa emergere, dopo vari confronti tra diversi autori, tre tipi di
curricolo:
- Curricolo centrato sulle materie che mira a conservare e a trasmettere la
cultura esistente. Gli insegnanti impostano la loro didattica sull’esposizione
verbale e su prestazioni degli alunni di tipo espositivo – mnemonico;
- Curricolo centrato sull’attività dell’alunno che mira a trasformare e
migliorare la cultura esistente. Gli insegnanti privilegiano il metodo della
ricerca e del problem solving;
- Curricolo centrato su punti focali che mira a garantire il massimo sviluppo
dell’individuo in quanto tale.
Questa flessibilità nella progettazione è alla base del lavoro di Monique Frappat.
Il suo approccio consiste nel creare delle situazioni educative partendo dalla
semplicità del quotidiano.
Per comprendere meglio il suo lavoro occorre risalire al quadro teorico e
metodologico tracciato dalla pédagogie musicale d’éveil che in Francia, a partire
dagli anni Settanta, ha dato vita ad una ricerca e ad una sperimentazione che ha
visto la Frappat svolgere un ruolo importante come promotore e protagonista.
60
Il modello della pédagogie musicale d’éveil, ispirato alla musica concreta e basato
su una pratica creativa con i suoni, si struttura secondo alcuni principi metodologici
che tendono ad evidenziare i legami esistenti tra ambito educativo e musicologico,
tradizionalmente lontani se non addirittura contrapposti. In questo modo l’attività
di creazione attraverso i suoni assume un ruolo centrale che trasporta l’educazione
musicale verso l’attività inventiva: un’attività dove il bambino può ricercare
autonomamente, partendo dalle proprie esperienze empiriche, per poi passare
gradualmente ad attività intenzionali fino ad arrivare, poi, all’invenzione ed alla
composizione.
Occorre, dunque, partire dalle condotte.
Questo nuovo punto di partenza porta a considerare l’attività musicale dei bambini
non soltanto per i risultati raggiunti ma anche per le motivazioni e le funzioni
specifiche che sottintende.
Il ruolo dell’insegnante cambia in quanto diventa importante valorizzare
l’osservazione dei comportamenti musicali del bambino senza arrivare subito ad
una loro valutazione, ma puntando a scoprire i bisogni che hanno portato all’azione
osservata. L’insegnate diventa “organizzatore di contesti di gioco” che favoriscano
l’osservazione dei comportamenti dei bambini e, soprattutto, la loro evoluzione.
61
- Dispositivi materiali;
- Giochi guidati;
- Dispositivi di scambio;
- Dispositivi legati all’ascolto;
- Dispositivi legati alla vita di classe.
62
Nel caso dello strumentario ritmico (molto presente nel progetto Pinocchio)
va sempre dato del tempo ai bambini per sperimentare tutti i suoni che ogni
singolo strumento può produrre senza dare subito delle indicazioni su “come
si suona”.
La registrazione e l’amplificazione sono strumenti che possono stimolare
molto il miglioramento delle produzioni sonore: “il microfono isola il suono
dall’atto complesso della produzione, che è visivo, tattile, cinestetico e
uditivo, e l’amplificatore lo ingrandisce, lo proietta all’altro lato della
stanza (…). Il dispositivo materializza così il distanziamento psicologico,
che consiste nell’ascoltare ciò che si produce, proprio quello che ci
aspettiamo dal bambino” (Frapat, M. 1994).
63
sia per migliorare la propria produzione di gruppo (come nel caso degli ultimi due
incontri).
64
L’ascolto di brani musicali è il dispositivo che ci fa comprendere che anche
una musica può offrire lo spunto per le attività dei bambini. Per essere
efficace non deve solo essere scelta con criterio ma deve anche essere
introdotta nel momento giusto, a seconda del ruolo che le è stato
determinato.
Nel caso del progetto “Pinocchio” i brani musicali sono stati proposti nel
primo incontro come scelta di una musica su cui possono ballare i burattini.
Non si tratta di una scelta compiuta dall’insegnante. Come si può leggere
nella stesura del progetto (vedi par. 3.3), l’insegante può proporre ai
bambini l’ascolto di tre brani diversi e successivamente può chiedere loro
quale sia il più adatto per una danza festosa dei burattini. I bambini sono i
protagonisti della scelta e, di conseguenza, dello sviluppo dell’attività.
Al semplice ascolto dei brani musicali si affianca l’ascolto corporeo. La
stessa Frapat (1994) afferma che “l’ascolto più efficace e più completo è
quello che passa per il corpo”.
Attraverso l’ascolto corporeo il bambino riesce a dire col corpo ciò che dice
la musica.
“L’ascolto corporeo della musica è il riflesso della musica” (Frapat, M.
1994). Con questa affermazione la studiosa francese vuole far sempre più
presente che quando parliamo di ascolto corporeo non stiamo parlando di
danza. Nella danza è l’immaginazione ad essere incoraggiata: come
armonizzare i movimenti, come creare delle rotture, ecc. Si può danzare
anche senza musica, i bambini sono invitati a farlo spesso, ma la presenza
della musica sostiene l’espressione del corpo conferendogli una dimensione
supplementare, apportando, così, un’ulteriore emozione.
L’atteggiamento dell’insegnante sarà diverso a seconda che si situi in
un’ottica d’ascolto o di danza. Nel primo caso è essenziale che il gesto sia
adeguato alla musica, nel secondo caso l’essenziale sarà la creatività
gestuale, mentre la musica resterà in secondo piano.
Come si vede nell’incontro I del progetto “Pinocchio”, nonostante l’ascolto
e la scelta di uno dei tre brani musicali proposti, l’intento è quello di
sviluppare l’ascolto corporeo, un ascolto che vede l’elemento musicale
65
come ausilio e stimolo per la creatività gestuale del bambino che deve
riprodurre i movimenti di un burattino di legno.
Oltre a questi dispositivi molto tecnici, Monique Frapat ci parla anche dei
dispositivi legati alla vita di classe: è solo grazie alle situazioni offerte dalla
quotidianità che i bambini possono abbandonare il gioco d’esplorazione per
intraprendere il gioco musicale.
Questi dispositivi sono strettamente legati ai giochi simbolici che i bambini
compiono durante la loro vita in classe. Ed è proprio nella quotidianità di cui fa
parte anche la vita di classe che viene fuori la vera espressione del bambino.
L’insegnante deve osservare bene per comprendere quali situazioni sfruttare e come
trasformarle in attività musicali. È, dunque, necessario stimolare sempre
l’improvvisazione perché è attraverso di essa che il bambino struttura il suo tempo
musicale nel presente. Egli impara chi è, musicalmente parlando, come strutturare
i suoni, scopre il suo modo personale di creare anche rotture e silenzi, ecc. Se
dall’improvvisazione del singolo si passa all’improvvisazione collettiva il bambino
imparerà, grazie ad essa, a trovare il proprio posto all’interno del gruppo, a
mescolarsi agli altri e, contemporaneamente, a distinguersene.
Nella vita di classe la cosa più importante è che l’educatore sviluppi sempre di più,
man mano che aumenta la conoscenza dei e coi bambini, quelle situazioni che si
presta6ìno meglio ad una attività musicale che potrà essere subito proposta ai
bambini e potrà poi essere gradualmente sviluppata.
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Uno degli aspetti più importanti dell’attività di programmazione in campo
educativo è la definizione degli obiettivi di ordine generale (relativi alle mete
proprie dell’esperienza), e degli obiettivi di ordine specifico (che si riferiscono ai
concetti e alle capacità che appartengono ad un determinato insegnamento). La loro
definizione deve sempre tener presenti sia le finalità educative generali (contenute
anche nei programmi scolastici), sia quelle relative a tutte le discipline (formazione
della persona umana e del cittadino, formazione del pensiero critico, ecc.), sia
quelle proprie ad ogni singola disciplina (nel caso della didattica musicale possono
riguardare l’espressione e la comunicazione attraverso la musica, la comprensione
di messaggi musicali, ecc.). Tali finalità dipendono dal concetto e dal ruolo umano
che la persona, la relazione, la cultura, la libertà, ecc., assumono nel sistema di
pensiero di ognuno. Ma quali obiettivi possono essere definiti nella fase di
programmazione di un’attività musicale? Quali sono i concetti e le capacità più
importanti da apprendere?
Due obiettivi che occorre tenere presenti nella programmazione di un’attività di
educazione musicale sono il saper capire e il saper produrre.
Si tratta di due obiettivi didattici a lungo termine da cui far scaturire quelli a medio
e a breve termine.
Con saper capire non intendiamo l’avere nozioni di teoria musicale, ma ci riferiamo
alla “capacità di cogliere i significati, le funzioni, i contesti e le strutture della
musica attraverso una serie di attività che possiamo sintetizzare in interpretazione,
analisi e correlazioni semantiche, dove l’interpretazione punta su significati,
funzioni e contesti, l’analisi punta sulle strutture che ne permettono
l’individuazione, e le correlazioni semantiche sull’esplicitazione (e quindi la
consapevolezza) dei meccanismi di produzione di senso” (Tafuri, J. 1995).
Attraverso questi due obiettivi si vuole promuovere la capacità di capire la musica
offrendo agli studenti esperienze d’ascolto nelle quali si possano cogliere ed
esplicitare i significati, le funzioni e i contesti mettendo in evidenza, mediante
l’analisi, le strutture sonore che hanno favorito le diverse produzioni di senso. Non
si tratta solo di accrescere la capacità di capire la musica basandosi sui suoi aspetti
strutturali ma significa anche favorire lo sviluppo della capacità di rapportarsi alla
musica come sorgente di produzioni di senso e di profonde esperienze emotive.
67
L’obiettivo del saper produrre rappresenta l’insieme delle capacità improvvisative,
compositive e di esecuzione che, ovviamente, avvengono con modalità ed a livelli
differenti.
All’interno di questo obiettivo possiamo individuare da un lato quelle capacità che
riguardano l’invenzione in senso stretto, che si manifestano e si sviluppano tramite
l’improvvisazione o la composizione ragionata; dall’altro quelle capacità che
riguardano l’esecuzione di ciò che già esiste dove chi esegue fa suo l’oggetto sonoro
e lo crea nuovamente rendendolo strumento del suo progetto. Questa
riappropriazione richiede sia capacità tecniche che capacità interpretative a livello
esecutivo che riguardano, quindi, il come rendere o dar vita a un brano musicale
scegliendo all’interno di un’ampia gamma di possibilità.
Agli obiettivi del saper capire e del saper produrre se ne aggiunge un terzo: il saper
percepire. Questo obiettivo è sempre compresente agli altri due ed è funzionale per
entrambi.
Questi tre obiettivi non vanno intesi in senso progressivo ma sono da promuovere
in un’ottica di circolarità che consente il continuo e repentino passaggio dall’uno
all’altro.
Poiché poggiano sugli assi portanti di qualsiasi esperienza musicale, questi obiettivi
possono essere declinati in modo differente per costruire progetti indirizzati a
destinatari che sono diversi tra loro per età, bisogni ed interessi.
Ognuno di questi obiettivi dovrà poi essere articolato in obiettivi a medio e a breve
termine. Una tale articolazione consente all’esperto in educazione di adattare un
progetto ad un gruppo specifico, che ha determinate esigenze, permettendogli anche
di tracciare un quadro più ampio e dettagliato delle capacità raggiungibili e quindi
degli obiettivi che sono sullo sfondo nella strutturazione dell’attività didattica.
Gli obiettivi didattici non possono prendere il sopravvento rispetto alle finalità
educative che stanno alla base dell’intera attività didattica: “[…] tutto comunque
deve convergere verso la maturazione della persona, cioè delle sue capacità di
autonomia e responsabilità; anche il più duro allenamento tecnico dovrebbe essere
sempre scelto e praticato non a scapito della propria integrità psicofisica ma in
funzione dello sviluppo della capacità di esprimersi e comunicare
consapevolmente” (Tafuri, J. 1995).
68
3.3 “Pinocchio”: il progetto e le sue origini
Situazione iniziale
Destinatari del progetto sono i bambini di sei anni della classe prima della scuola
paritaria “Maria Ausiliatrice e San Giovanni Bosco”.
In questa istituzione scolastica ogni classe ha un insegnante unico (che viene
chiamato tutor) ed un gruppo di specialisti a cui è affidato l’insegnamento di
specifiche materie (educazione motoria, educazione musicale, lingua inglese). A
me è stato affidato per la prima parte dell’anno (da Settembre a Febbraio), un
laboratorio musicale da attuare con ogni classe, una volta alla settimana, per un’ora.
Nel collegio di inizio anno, il tutor della classe prima ha proposto come lettura per
i suoi alunni “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi. Ho subito pensato che
fosse un buon testo per costruire delle attività musicali con e per i bambini.
Per questioni di tempo non è possibile lavorare sull’intera storia e sonorizzare ogni
sua parte quindi, dopo una attenta e approfondita lettura ed analisi del testo, ho
scelto i capitoli 10 e 34 che contengono, a mio avviso, sufficienti elementi che ci
permetteranno di riflettere sui diversi aspetti che legano il racconto e la musica, e
che permetteranno ai bambini di arricchire il proprio bagaglio esperienziale e di
competenze.
Durante ogni incontro verrà utilizzata per la sonorizzazione, solo una parte di uno
dei capitoli scelti e sopraelencati.
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Obiettivi
Saper capire
Saper produrre
Saper percepire
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Incontro I: “Pinocchio e i burattini”
Obiettivi:
-Saper capire: saper dare un significato alle qualità dei suoni e motivarlo.
I bambini devono saper riconoscere ed analizzare i suoni prodotti dagli
strumenti ritmici che sono messi a loro disposizione.
I bambini devono saper classificare i diversi suoni prodotti dai singoli
strumenti e poi utilizzarli nella rappresentazione sonora dei movimenti di
un burattino.
-Saper percepire: saper ascoltare le fonti sonore ed i modi di produzione del suono.
I bambini devono saper individuare lo strumento che produce un
determinato suono.
I bambini devono saper spiegare come sia possibile ottenere il suono
precedentemente individuato.
I bambini possono sperimentare quanti suoni è in grado di produrre un
singolo strumento. (Utilizzando lo strumentario ritmico tutto questo risulta
molto difficile, ma è un esercizio che porta il bambino a migliorare il suo
ascolto e la sua consapevolezza rispetto allo strumento che sta utilizzando).
71
Dispositivi materiali
72
d'orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico. È impossibile figurarsi gli
abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell'amicizia e le zuccate della
vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffio dagli
attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico vegetale. Questo spettacolo
era commovente, non c'è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la
commedia non andava più avanti, s'impazientì e prese a gridare: - Vogliamo la
commedia, vogliamo la commedia! Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece
di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio
sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.".
I bambini dovranno scegliere tra tre diversi brani musicali quello che più
rappresenta il movimento dei burattini.
I 3 brani sono: -"Trisch-Trash Polka" (J. Strauss II)
73
Metodo
Fasi di lavoro
74
Insegnante Bambini
Durata: 1 ora
75
Incontro II: "Mangiafuoco"
Obiettivi
-Saper capire: saper dare un significato alla qualità dei suoni e dei gesti e motivarlo.
I bambini devono saper spiegare perché i suoni ed i gesti prodotti
rappresentino Mangiafuoco.
I bambini devono saper dare un significato alle rappresentazioni dei
compagni. Devono saper riconoscere, nei suoni e nei gesti dell'altro,
Mangiafuoco.
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Dispositivi materiali
Mangiafuoco
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due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva
schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate
insieme. All'apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno
fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e
femmine, tremavano tutti come tante foglie. - Perché sei venuto a mettere lo
scompiglio nel mio teatro? - domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione
d'Orco gravemente infreddato di testa. - La creda, illustrissimo, che la colpa non è
stata mia!... - Basta così! Stasera faremo i nostri conti. Difatti, finita la recita della
commedia, il burattinaio andò in cucina, dov'egli s'era preparato per cena un bel
montone, che girava lentamente infilato nello spiedo. E perché gli mancavano la
legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse
loro: - Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo. Mi pare
un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul
fuoco, mi darà una bellissima fiammata all'arrosto. Arlecchino e Pulcinella da
principio esitarono; ma impauriti da un'occhiataccia del loro padrone,
obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero
Pinocchio, il quale, divincolandosi come un'anguilla fuori dell'acqua, strillava
disperatamente: - Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, non voglio morire!..."
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Metodo
Fasi di lavoro
79
Insegnante Bambini
Durata: 1 ora
80
Incontro III: “Nella pancia del Pesce-cane”
Obiettivi
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Dispositivi materiali
Pesce-cane
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Saranno messi a disposizione gli strumenti ritmici ed i tubi sonori. Questi
strumenti permetteranno ai bambini di riprodurre i suoni che, secondo loro,
sono presenti all'interno della pancia del pesce-cane.
"...era già a mezza strada, quando ecco uscir fuori dall'acqua e venirgli incontro
una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata, come una voragine,
e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte. E sapete chi
era quel mostro marino? Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco
Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua
insaziabile voracità, veniva soprannominato «l'Attila dei pesci e dei pescatori».
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cercò di
scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca
spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta. - Affrettati,
Pinocchio, per carità! - gridava belando la bella Caprettina. E Pinocchio nuotava
disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi. - Corri,
Pinocchio, perché il mostro si avvicina! E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue
forze, raddoppiava di lena nella corsa. - Bada, Pinocchio!... il mostro ti
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raggiunge!... Eccolo!... Eccolo!... Affrettati per carità, o sei perduto! ... E Pinocchio
a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E
già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli
porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall'acqua! Ma oramai era
tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero
burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza
e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, batté un
colpo così screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d'ora. Quando ritornò
in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che
mondo si fosse. Intorno a sé c'era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero
e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno
d'inchiostro. Stette in ascolto e non sentì nessun rumore: solamente di tanto in tanto
sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva
intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del
mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d'asma, e
quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana. Pinocchio, sulle
prime, s'ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand'ebbe la prova e la riprova
di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a
strillare: e piangendo diceva: - Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c'è nessuno che
venga a salvarmi? - Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?... - disse in quel buio una
vociaccia fessa di chitarra scordata. - Chi è che parla così? - domandò Pinocchio,
sentendosi gelare dallo spavento. - Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal
Pesce – cane insieme con te. E tu che pesce sei? - Io non ho che vedere nulla coi
pesci. Io sono un burattino. - E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto
inghiottire dal mostro? - Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi
ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?... - Rassegnarsi e
aspettare che il Pesce – cane ci abbia digeriti tutt'e due!... - Ma io non voglio esser
digerito! - urlò Pinocchio, ricominciando a piangere. - Neppure io vorrei esser
digerito, - soggiunse il Tonno, - ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo
pensando che, quando si nasce Tonni, c'è più dignità a morir sott'acqua che
sott'olio!... - Scioccherie! - gridò Pinocchio. - La mia è un'opinione, - replicò il
Tonno, - e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate! - Insomma...
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io voglio andarmene di qui... io voglio fuggire... - Fuggi, se ti riesce!... - È molto
grosso questo Pesce – cane che ci ha inghiottiti? - domandò il burattino. - Figurati
che il suo corpo è più lungo di un chilometro, senza contare la coda. Nel tempo che
facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano
una specie di chiarore. - Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? - disse
Pinocchio. - Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il
momento di esser digerito!.... - Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso
che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire? - Io te
l'auguro di cuore, caro burattino. - Addio, Tonno. - Addio, burattino; e buona
fortuna. - Dove ci rivedremo?... - Chi lo sa?... È meglio non pensarci neppure!"
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Metodo
Fasi di lavoro
86
Insegnante Bambini
Durata: 1 ora
87
Incontro IV: “I suoni del mare”
Obiettivi
-Saper capire: saper dare un significato alle qualità dei suoni ed interpretarli con un
linguaggio non solo sonoro ma anche gestuale.
I bambini, durante e dopo l’improvvisazione libera che prevede la ricerca
dei suoni del mare, devono iniziare a saper distinguere i suoni prodotti in
base alle loro diverse qualità (altezza, durata, timbro, ecc…).
Dopo l’analisi dei suoni prodotti, i bambini devono saper associare a quei
suoni dei movimenti del corpo.
-Saper percepire: saper ascoltare i modi di produzione del suono e saper individuare
le variazioni ritmiche e melodiche di una produzione musicale.
I bambini devono saper ascoltare come e con quale strumento può essere
prodotto un suono che si rivela utile alla creazione dell’ambiente sonoro del
mare.
Nell’esecuzione sonora dei diversi movimenti del mare, i bambini devono
riuscire a percepire le variazioni ritmiche che verranno inserite (diverse
sono le caratteristiche sonore tra il mare calmo ed il mare in tempesta).
Questo permetterà loro di riuscire a muoversi tra diverse esecuzioni
adattandosi e anche arricchendole ogni volta.
88
Dispositivi materiali
L’ ascolto da parte dei bambini delle registrazioni del mare, prima, e dei
loro prodotti sonori, poi, li rende più consapevoli su come portare a termine
la consegna: riprodurre i suoni del mare.
In questo incontro è previsto anche l’ascolto del silenzio. L’ambiente sonoro
del mare permette di sperimentare l’ascolto del silenzio. Infatti quando il
mare è calmo si può parlare di silenzio, di quiete.
L’ ascolto del materiale audio a loro disposizione, e l’ascolto delle
produzioni proprie e degli altri compagni, consentiranno ai bambini di
costruire più consapevolmente il paesaggio sonoro del mare.
89
Metodo
Fasi di lavoro
- L’insegnante farà partire una riflessione sul mare parlando del fatto che il mare è
l’ambiente in cui vive il pesce-cane.
- L’insegnante farà ascoltare ai bambini, più di una volta, delle registrazioni del
mare sia quando è calmo che quando è in tempesta.
-Dopo gli ascolti, l’insegnante lascerà ai bambini il tempo e la libertà di
sperimentare suoni e movimenti che possano ricordare il mare nelle sue fasi
principali (quiete e tempesta).
-Con l’aiuto dell’insegnante, i bambini organizzeranno le produzioni sia sonore che
corporee raccolte durante la fase di libera produzione, in una esecuzione collettiva
dei movimenti del mare.
90
Insegnante Bambini
Fa partire una riflessione sul mare, sui Riflettono insieme con l’insegnante
suoi suoni e sui suoi movimenti sulle caratteristiche del mare, dei suoi
suoni e dei suoi movimenti
Durata: 1 ora
91
3.4 Riflessioni sulla progettazione
Se pensiamo alla valutazione in senso lato dobbiamo fare riferimento a tutto ciò che
ciascuno di noi, consapevolmente o no, fa quotidianamente prima di agire, mentre
agisce e ad azione conclusa. L’orizzonte semantico appare dilatato a tal punto da
risultare senza un confine definito e da includere nell’idea di valutazione ogni
92
nostra azione, ogni nostro pensiero: persino a un livello inconsapevole tutto è
valutazione.
Così tematizzata, la valutazione risulta essere parte integrante della maggior parte
delle nostre azioni, di modo che la si può considerare come un atto inseparabile da
ogni comportamento sociale (Lipari, D. 2009).
93
alla classificazione di Lipari (2009), nel nostro caso si tratta di una valutazione ex
ante.
Anche se non è stato attuato, il progetto “Pinocchio” ci offre la possibilità di
riflettere sulla futura fase di esecuzione e, quindi, valutare gli ostacoli che si
potrebbero incontrare.
Un secondo ostacolo che accompagna tutta la durata del progetto è legato al fattore
tempo. Ogni attività è inserita all’interno di un incontro alla settimana della durata
di un’ora.
Negli incontri I e II sono sempre previsti, in linea con le indicazioni di Frapat
(1994), dei momenti di esplorazione libera (sia corporea che sonora). Si tratta di
momenti che non hanno una durata definita, quindi potrebbero essere molto lunghi
e rallentare (se non impedire) lo svolgimento delle altre attività.
La durata delle libere esplorazioni non è stata volutamente definita perché può
variare da classe in classe, da giorno a giorno ed anche da bambino a bambino.
Sarà compito dell’insegnante decidere quale sia il momento giusto per porre fine
all’esplorazione libera ed iniziare ad organizzare le successive attività.
94
Soprattutto negli incontri III e IV, che sono dedicati alla sonorizzazione di luoghi
(pancia del pescecane) e paesaggi (il mare), è probabile che un’ora soltanto non sia
sufficiente per lo svolgimento di tutte le attività previste.
Anche in questo caso sono possibili due soluzioni:
1. Ridurre il numero di attività da proporre in ogni incontro, ridefinendo quelle
rimanenti;
2. Chiedere la possibilità di avere più tempo (almeno un’altra ora per ogni
incontro) in modo da poter portare a termine l’attività.
Come è stato evidenziato nel capitolo 1, sin dalla nascita ogni individuo compie
delle esperienze sonore (Tafuri, J. 2000). Si tratta di esperienze sia di ascolto che di
riproduzione. Numerosissime sono le fonti che, producendo suoni, mandano stimoli
alle nostre orecchie e condizionano le nostre idee ed i nostri gusti musicali. Tutto
ciò avviene in modo spesso inconsapevole: nessuno di noi si mette ad analizzare
95
ogni percezione sonora effettuata dal suo orecchio anche perché si tratterebbe di un
lavoro di analisi che avrebbe inizio da quando ci svegliamo e si concluderebbe
quando andiamo a dormire (almeno per quanto concerne la percezione cosciente),
in un circolo infinito e sempre attivo che ci accompagnerebbe per tutta la nostra
vita, senza fermarsi mai.
Da ciò emerge che già nel periodo dell’infanzia, vista la vastità delle esperienze di
percezione e di produzione musicale che si possono avere e che provengono da
numerosissime fonti (radio, tv, lettori mp3, smartphone, ecc…), ognuno di noi ha
(consciamente o inconsciamente) delle idee e degli schemi musicali ben precisi che
costituiscono un ricco e complesso patrimonio di conoscenze (Tafuri, J. 1995).
Tafuri (1995) consiglia agli insegnanti che si accingono ad elaborare la
programmazione didattica, collegialmente e/o singolarmente, di effettuare
un’analisi del contesto nel quale i loro alunni, ed essi stessi, si trovano inseriti.
Questa analisi serve ad evidenziare le dimensioni socio-politico-culturali della
società a cui appartengono, che possono essere subite acriticamente o dialettizzate
consapevolmente, ma non eluse.
L’ambiente in cui vive l’insegnate, e in cui vivono i suoi alunni è fortemente
dominato dalla presenza della musica. Dappertutto c’è musica. La quotidianità è
talmente ricca di musica che produce familiarità con i repertori più diffusi e questa
familiarità produce competenza (Tafuri, J. 1995).
Ignorare la ricchezza e la varietà di esperienze che costituiscono il vissuto musicale
di ognuno significa creare una profonda dicotomia tra “il fatto musicale vissuto e
la materia scolastica” (Stefani, G. 1987).
Gli insegnanti sono chiamati a individuare la condizione di partenza dei propri
alunni che comprende le risorse ed i bisogni, le potenzialità ed i limiti, in modo da
elaborare una programmazione, o semplicemente proporre un progetto, adeguato
ad essi.
96
Ci sono diverse modalità per conoscere le competenze già in possesso dei
destinatari di un progetto (test, questionari, osservazione diretta, ecc.) ma Tafuri ci
ricorda che è soprattutto durante la stessa attività didattica che gli allievi hanno la
possibilità di manifestare ciò che sanno e sanno fare.
L’esperienza musicale risulta essere molto complessa, poiché molti sono gli
elementi da tenere in considerazione, e dunque risulta difficile individuare capacità
minime isolabili e verificabili in modo significativo. Potrebbe allora essere
opportuno e più utile utilizzare delle attività già abbastanza complesse (saper
cantare una canzone o saperla riconoscere da pochi suoni iniziali) che ci permettano
di verificare i livelli di partenza (Tafuri, J. 1995).
L’individuazione dei livelli di partenza varia a seconda dell’età. Questo vuol dire
che occorre prendere in considerazione le fasi dello sviluppo dei processi
percettivo-cognitivi musicali con i quali interagisce l’esperienza e che forniscono
dei punti di riferimento fondamentali per l’individuazione degli obiettivi di
apprendimento. La didattica dell’educazione musicale non può prescindere dalla
conoscenza di tali processi ed è per questo che si è andato profilando recentemente
un nuovo campo di studio: la psicologia dello sviluppo musicale.
97
Secondo l’autore il bambino di 7/8 anni è già partecipe del processo artistico, e non
ha bisogno di ulteriori riorganizzazioni qualitative in quanto sarebbe già in grado
di capire le proprietà metriche ed armoniche del proprio sistema musicale. Oggi
però, alla luce degli studi sperimentali effettuati, sappiamo che a sette anni non si
ha ancora coscienza della struttura armonica. Uno dei punti fondamentali della
teoria di Gardner, è costituito dal fatto che il bambino dai sette anni in poi, può
essere considerato un vero artista in virtù della crescente familiarità con la graduale
padronanza dei mezzi simbolici.
98
esplorativo: i bambini scuotono, grattano, battono ecc., e mettono in atto
comportamenti motori nei quali è possibile scorgere dei movimenti intenzionali in
risposta alla musica che si ascolta.
Queste esperienze sono vissute come gratificanti, e l’interesse per queste attività è
accompagnato da quello che Piaget (1968) chiama gioco senso-motorio (un gioco
in cui muoversi, lasciar cadere, toccare, far rumore, esplorare con la bocca e con i
sensi, sono azioni che strutturano il rapporto con l’esterno). Da sei mesi ad un anno
abbiamo la comparsa di risposte motorie alla musica (anche se non ancora
sincronizzate) e le prime "lallazioni musicali" (musical babbling) le quali
consistono in produzioni vocali, che, se il bambino riceve dall’ambiente stimoli
adeguati, verso la fine del primo anno di età diventeranno veri e propri abbozzi di
canzoni che aumenteranno gradualmente in lunghezza e varietà. Da un anno a due
anni compare la capacità di esplorare le possibilità sonore degli oggetti e di
combinare i suoni secondo le regole della ripetizione e dell’alternanza,
l’introduzione di parole nei canti spontanei con l’uso di durate diverse, l’aumento
di risposte motorie con accenni di danza. L’attività produttiva, che fin qui è di tipo
esplorativo, comincerà ad assumere verso i tre anni delle forti valenze simboliche e
ad avviarsi verso l’organizzazione temporale: come il bambino scopre una
successione e poi concatenazione di eventi in una storia, così scopre una
concatenazione tra i frammenti di un brano musicale, i quali vengono ad assumere
il valore di una successione di accadimenti. A tre anni i bambini cominciano ad
imitare, anche se in modo approssimativo, le canzoni degli adulti e riescono a
riprodurre il ritmo delle parole; inoltre accennano tentativi di coordinazione
musica-movimento. Da questa età in poi troviamo una ricca produzione di canti
inventati dai bambini con caratteri e strutture particolari. A quattro-cinque anni
comincia a realizzarsi una presa di coscienza del ritmo come capacità di individuare
cambiamenti e di manifestare preferenze. In questa fascia d’età si riscontra una
buona capacità di accompagnare una musica battendo le mani in coincidenza con
gli accenti metrici, mentre il "camminare a tempo" sincronizzato con gli accenti
metrici di una melodia (detti anche pulsazione), e il mantenere una pulsazione in
assenza di musica, presentano delle difficoltà ancora a sei anni. Intorno ai quattro
anni e mezzo i bambini manifestano preferenza per i suoni della stessa altezza
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organizzati ritmicamente in cellule isocrone che generano una forte pulsazione
ritmica, a suoni non organizzati ritmicamente. Nei bambini di cinque-sei anni si ha
l’impressione che parole, ritmo e melodia comincino ad essere entità con una
propria dimensione e quindi trattabili indipendentemente l’una dall’altra. Il
percorso completo della capacità di imitare un canto riproducendo esattamente i
rapporti intervallari, non è comunque ultimato neanche quando i bambini stanno
per andare a scuola, ma richiede un paziente lavoro di affinamento dell’orecchio
riguardo alla percezione precisa degli intervalli (cioè, della distanza tra suoni di
diversa altezza) e di coordinamento orecchio-voce.
Verso i sette-otto anni comincia anche a comparire il senso della forma di una
canzone
Il senso tonale si sviluppa abbastanza presto: già ad otto anni i bambini sono capaci
di percepire quando una melodia cambia improvvisamente tonalità, se una melodia
è chiaramente tonale e infine, quando una melodia termina sulla tonica (termine che
indica la prima nota di una scala maggiore o minore, la quale determina la tonalità
del brano stesso). Intorno ai nove anni viene percepita la funzione sospensiva della
dominante (che corrisponde alla V nota di una scala maggiore o minore, e che in
genere precede la tonica al termine di un brano musicale), e tra gli undici e i tredici
anni viene compreso pienamente l’insieme delle gerarchie tra i suoni che
compongono una scala.
Nella fascia di età che va dagli otto ai dieci anni si acquisisce la capacità di
riprodurre il ritmo presente in una melodia e di sincronizzarsi correttamente con la
scansione metrica di un brano musicale.
Anche se la capacità di riproduzione e di invenzione ritmica compare più
precocemente rispetto a quella melodica, solo gradualmente i bambini prendono
coscienza di ciò che è il ritmo e di alcune sue caratteristiche.
La percezione armonica richiede invece un percorso più lento: verso gli otto anni i
bambini dimostrano di possedere un certo grado di percezione armonica (l’armonia
è il risultato della combinazione simultanea di suoni diversi), e di riuscire ad
individuare in una polifonia (insieme simultaneo di suoni o di successioni
combinate di suoni aventi distinta individualità e dignità melodica), il tema (idea
musicale assunta come elemento caratterizzante di un brano), ma solo verso gli
100
undici anni sanno riconoscere se un’armonizzazione è corretta. Dopo gli otto anni
il progresso diventa più lento. Migliorano le capacità già acquisite e se ne
aggiungono altre più complesse come appaiare suoni della stessa altezza ma
prodotti da strumenti diversi (9 anni), differenziare le funzioni di tonica e dominante
(10 anni), percepire le modulazioni ai toni vicini (il passaggio da una determinata
tonalità ad un’altra basata su una scala costituita da note il meno possibile diverse
da quelle della tonalità d’impianto) (12 anni), ecc.
Come abbiamo precedentemente detto, i livelli raggiungibili nell’ambito delle varie
capacità musicali sono determinati da diversi fattori: dall’età, e quindi dalla
maturazione dei processi percettivo-cognitivi; dalla pratica, cioè dall’esperienza e
dalle stimolazioni che il bambino riceve in modo informale e casuale
quotidianamente e senza i quali non ci sarebbe possibilità di crescita; dall’esercizio
inteso come pratica organizzata ed indirizzata verso un obiettivo di apprendimento
preciso. Sia lo sviluppo mentale che quello fisico costituiscono due fattori
fondamentali, in quanto, così come non si può pretendere che un bambino cammini
o parli a tre mesi, non ci si può aspettare che sia possibile riconoscere la conclusione
tonale di una frase a quattro anni, cioè quando ancora non si è raggiunto un livello
di sviluppo adeguato a determinati compiti.
La pratica e l’esercizio nei tempi e nei modi più appropriati, possono comunque
accelerare i tempi di sviluppo, seppure entro certi limiti. Dopo i dodici-quindici
anni, l’esercizio rappresenta il fattore principale di miglioramento dei livelli di
competenza, per cui assume ancora più importanza un’attività educativa mirata ed
organizzata.
Con il termine esperto di educazione in Tafuri (1995) vengono indicati tutti coloro
che operano nel campo dell’educazione ricoprendo diversi ruoli e svolgendo
diverse mansioni. Tra questi vi è anche la figura del pedagogista che, affiancando
l’insegnate, si occupa della progettazione di alcune attività agendo, prima di
101
qualsiasi altra cosa, per il bene del bambino/dei bambini/ a cui queste attività sono
rivolte.
Volendo entrare nello specifico delle attività musicali occorre riflettere su quali
competenze devono essere presenti nel bagaglio di questi professionisti
dell’educazione.
Addessi (2004) ci fa notare che spesso la musica è insegnata da musicisti o teorici
della musica i quali, pur possedendo un’alta specializzazione disciplinare, non
hanno una preparazione adeguata dal punto di vista pedagogico. Ecco allora che la
figura del pedagogista entra a pieno titolo nell’equipe che si occupa della
progettazione e dell’attuazione di attività di didattica musicale. Il suo compito non
dovrà essere solo quello di affiancare l’insegnate esperto di musica, ma dovrà anche
renderlo sempre più pedagogicamente attento alle esigenze dei propri alunni.
La consapevolezza dell’importanza della relazione e del ruolo attivo dell’allievo
(che sappiamo essere importante tanto quanto quello del docente) sono aspetti
fondamentali che ci vengono trasmessi dai numerosi studi pedagogici. Aspetti che
guidano l’azione didattica rendendo l’insegnante molto più consapevole del proprio
operato.
102
Competenze tecnico-professionali: si riferiscono all’insegnamento della
disciplina;
Competenze trasversali: riguardano la capacità dell’insegnante di mettersi
in relazione con gli altri soggetti del contesto lavorativo.
103
- Decisioni in merito alle strutture organizzative del sistema scolastico. Si
ritiene importante che l’insegnate di base che insegna musica abbia degli
spazi e dei tempi specifici all’interno della struttura.
104
- Conoscere le principali metodologie della didattica della musica in modo da
scegliere quale utilizzare per la creazione di progetti ed attività musicali
nella scuola.
- Conoscere gli strumenti adatti alla didattica interdisciplinare ed utilizzarne
alcuni. Questo permette ad un insegnante di base, che non è un insegnante
di musica, di inserire l’educazione musicale nel percorso di formazione del
bambino.
Alla luce delle numerose competenze che un’insegnante di musica deve avere, esso
può essere definito come “insegnate di musica professionista riflessivo” (Addessi,
A. R. 2010). Si tratta di un’insegnante in continua formazione, che sviluppa un
sapere musicale e delle competenze professionali riflettendo ed operando allo stesso
tempo, in un continuo processo tra teoria e pratica.
Sfortunatamente lo spazio attribuito alla musica nel percorso formativo
universitario di un docente è veramente limitato e nel caso di un pedagogista nullo.
Da ciò che è stato fin qui riportato si può comprendere quanto sia utile intraprendere
questo percorso formativo in modo da acquisire una adeguata autonomia
progettuale e realizzativa. E poiché queste competenze mancano spesso ci si rivolge
ad esperti esterni per gestire un ambito di intervento che ancora oggi viene
considerato per “addetti ai lavori”.
105
Ma anche nella situazione in cui si richiede l’intervento di uno specialista questo
può essere utilizzato al meglio solo se l’insegnante di base comprende e condivide
le motivazioni e la metodologia utilizzata, ripromettendosi di ampliare e potenziare
le proposte degli specialisti.
Nel corso della valutazione sui possibili ostacoli alla attuazione del progetto,
abbiamo potuto vedere quanto il fattore tempo sia di fondamentale importanza.
Sappiamo infatti che nella fase di realizzazione di un progetto è necessario calcolare
anche il tempo da dedicare ad ogni attività. Ma Frapat (1994) ci ricorda che non
occorre essere troppo fiscali e trasmissivi. Nonostante il tempo calcolato e pensato
dall’adulto esperto di educazione occorre tenere sempre presente l’importanza della
libera esplorazione e sperimentazione del bambino. Questa attività richiede una
visione diversa del tempo che dalla considerazione oggettiva si sposta verso la
dimensione personale. Parleremo allora di tempo soggettivo, che varia da bambino
a bambino ma anche in base alla situazione, all’atmosfera che si possono percepire
e creare all’interno di uno specifico contesto, come quello caratterizzato dall’aula
di musica.
Se pensiamo alla musica in generale (o nel nostro caso alle attività musicali
proposte ai bambini) e proviamo semplicemente ad analizzarla, uno dei primi
elementi a comparire nel nostro lavoro di analisi iniziale è sicuramente quello del
tempo. Il tempo è infatti uno degli aspetti fondamentali, centrali e portanti della
musica.
106
Baroni (2004) ci dice che un fattore strettamente legato al tempo (e quindi alla
misurazione delle durate temporali) è il ritmo. Ma mentre la parola durata si
riferisce ad una singola entità, la parola ritmo sta ad indicare una successione di
eventi: non è il singolo suono ma la successione di più suoni che possiede un ritmo.
In musica con il termine ritmo indichiamo il rapporto esistente fra più durate (valore
di un singolo suono) successive.
La successione di più suoni altro non è che una composizione musicale. Ogni
composizione musicale segue un preciso stile.
È proprio dal concetto di stile che parte la riflessione di Michel Imberty.
Lo studioso francese, in “Le scritture del tempo” (1990), sposta l’attenzione sugli
stili musicali ed afferma che essi sono, per l’appunto, le scritture del tempo; scritture
che danno all’uomo l’illusione di poter aggirare la morte.
Questa considerazione della musica da cui parte Imberty è spiegata in un suo scritto
precedente “Suoni, emozioni, significati” (1986). Lo studioso francese parte da
quello che definisce uno dei tratti fondamentali della formazione della personalità
nella cultura occidentale: il concetto di ambivalenza. Alla base del suo
ragionamento vi sono le riflessioni di M. Klein sul concetto di scissione: nei primi
tre/quattro mesi della sua vita il lattante è in preda a molteplici sensazioni, a intense
esperienze affettive contraddittorie che discrimina in modo elementare separando
ciò che è piacevole da ciò che è sgradevole e provando ad allontanare il più possibile
tutto quello che appartiene alla seconda categoria. Questa divisione viene applicata
a tutto ciò che lo circonda (oggetti, persone, situazioni) e ha come scopo non far sì
che il cattivo o lo sgradevole contaminino tutto ciò che è buono o piacevole. Anche
il soggetto stesso si trova in una situazione di scissione: è privo di unità in quanto
non esiste un legame tra l’odio provato per ciò che è cattivo e l’amore avvertito per
ciò che è buono. La scissione interna divide il soggetto stesso in cattivo (che odia)
107
e in buono (che ama). Affinché la personalità si sviluppi in modo armonioso è
necessario il superamento della scissione da parte del bambino che, così, compie la
dolorosa scoperta dell’ambivalenza. Egli impara a riferire al medesimo oggetto, alla
medesima sensazione, alla medesima persona le esperienze che possono essere di
volta in volta piacevoli o sgradevoli. Tali oggetti e persone non subiscono più
alcuna scissione ma assumono una caratteristica di totalità e, in questa nuova
condizione, il soggetto stesso coglie il legame tra i sentimenti diversi che prova nei
loro confronti. Questa ambivalenza risulta però angosciante: il bambino scopre,
attraverso l’unità degli oggetti e delle persone, che odiando e volendo distruggere
ciò che è sgradevole rischia di odiare e, quindi, distruggere ciò che è piacevole, ciò
che ama.
Klein, continua Imberty (1986), dimostra che nell’intero corso della vita l’uomo
deve periodicamente rielaborare l’ambivalenza, ossia ridarne la scoperta mediante
un intenso lavoro psichico durante crisi successive che scandiscono la sua
adolescenza, la sua maturità, la sua vecchiaia. Non accettiamo mai completamente
l’ambivalenza, in quanto essa ci minaccia, o piuttosto perché rappresenta per noi
l’incertezza di fondo della nostra identità e del nostro divenire, perché coincide con
l’ambivalenza della pulsione che è al tempo stesso sia di vita che di morte.
108
Per Imberty (1990) la forma musicale viene identificata attraverso un insieme di
condotte percettive di decodificazione alcune delle quali sono rigorosamente
determinate dall’organizzazione stilistica.
Ma lo stile, continua lo studioso francese, può essere identificato anche ascoltando
brani non conosciuti, mai sentiti precedentemente. Non viene identificato come
somma di elementi o di tratti caratteristici memorizzati, ma come una struttura
temporale codificata e decodificata in base a processi mentali identici che si devono
scoprire.
109
ed ogni composizione viene compresa come un qualcosa di unitario fatto di molte
parti che si equivalgono”.
Il primo e maggiore mistero che sembra nascondere la musica è quello di non darsi
mai nell’attualità, ma di distendersi tra passato e futuro, eppure noi la concepiamo;
diciamo “conosco la Nona di Beethoven”, allo stesso modo in cui diciamo “conosco
il David di Michelangelo”, ossia un oggetto che mi sta davanti tutto intero e di cui
concepisco in uno stesso istante tutte le parti.
Marco Dallari (in Anceschi, 2009), citando Sciarrino, afferma che la musica ha un
senso architettonico:
“Il tempo interno, proprio del brano musicale, mentre lo stiamo ascoltando ci porta
fuori dal flusso presente e ci costringe a collegare e localizzare gli elementi
dell’esecuzione secondo una logica spaziale, perché il tempo nel quale la musica
prende corpo è quello di una temporalità fortemente spazializzata”.
Tornando alle riflessioni filosofiche sul tempo, interessante è ciò che Jeanne Hersch
sostiene in “Tempo e musica” (2009).
L’autrice afferma che il presente è, per l’’uomo, l’unica dimensione del tempo che
gli dà un appuntamento reale col mondo:
Hersch parla di “tempo pratico” che si fonda sul presente; un tempo in cui
l’individuo, solo agendo attivamente e nella consapevolezza di ciò che è stato il
passato, può rendere migliore il futuro. Nella sua riflessione solo il presente è un
tempo reale; passato e futuro non esistono in quanto non ci sono. È in base al tempo
presente che si struttura il tempo pratico. Il passato si allontana sempre di più dal
nostro presente e il futuro si trascinerà verso l’avvenire.
110
Quello di cui ci parla Hersch non è un presente che assume la forma di un istante
puntuale. Esso scorre e passa tanto che ad ogni istante abbiamo già un passato.
Non viviamo il presente come un flusso puntiforme ma come “una piccola durata
che, a dire il vero, non passa; che in un certo senso ci accompagna nel corso del
tempo, incontro al futuro. Passa e tuttavia non passa” (Hersch, J. 2009).
Scrive ancora:
“Uno dei tratti fondamentali della condizione umana è proprio questo. Che essa si
realizza in una volta, senza distinzione, nel tempo naturale senza presente della
successione ̶ il tempo del prima e del dopo ̶ e nel presente decisivo che struttura
il tempo di un essere libero. Dalla sovrapposizione, o meglio, dalla fusione di due
tempi essenzialmente diversi, dipendono quindi la complessità infinita e il problema
irriducibile della condizione umana. Il determinismo, che regna sulla successione
senza presente del «prima» e del «dopo» del tempo naturale, rimane, per il soggetto
umano che agisce liberamente nell’ «ora», una condizione limitante e, insieme, la
condizione di ogni decisione efficace. L’essere umano non è mai completamente
libero, non inizia mai il gioco; non conosce un principio, perché il tempo del
«prima» e del «dopo» è sempre già lì, con la sua causalità vincolante” (Hersch, J.
2009).
L’idea della musica, di un brano, di una sola melodia, è sempre costruita tra il prima
ed il poi non solo da chi ascolta ma anche da chi compone e da chi esegue la musica.
In tutti i casi si tratta di legare insieme ciò che il tempo pone separato.
Imberty (1986) ci dice che è proprio attraverso l’espressività musicale che l’uomo
rappresenta e ricostruisce il mondo seguendo quei codici propri della sua
soggettività.
“L’arte oppone la cultura alla natura, l’arte sostituisce la realtà fisica del mondo
con la realtà psicologica dell’uomo. L’espressività delle forme musicali consiste
interamente in quella soggettività fondamentale ed appassionata del compositore
che le crea, in quella soggettività entusiasta dell’ascoltatore che le reinventa a ogni
nuovo ascolto. In un certo senso, la musica non dice e non esprime niente di diverso
da ciò che in essa proiettano coloro che la fanno o che l’ascoltano. Ma non per
questo tale senso rimane individuale o occasionale: esso si radica in quella
111
soggettività formata dalle esperienze universali inconsce e antinomiche
dell’integrazione e della disintegrazione dell’Io di fronte al mondo, alle sue
promesse o alle sue minacce” (Imberty, M. 1986).
112
del tempo perché in quel momento è lì, abita quell’istante, vi è dentro, immerso. Ci
si tuffa dentro e non scivola sopra, come l’adulto su una lastra di ghiaccio.
Attraverso queste riflessioni comprendiamo che per l’uomo quella del tempo è
un’esperienza molto più complessa di quanto uno strumento meccanico, come un
orologio, ci ricordi ogni giorno. Inoltre sempre Baldi (2010) ci fa riflettere sul fatto
che non è detto che il tempo suggeritoci da questi mezzi meccanici, che vengono
considerati oggettivi e scientifici, sia più reale del tempo che il singolo percepisce.
Questo aspetto delle differenti percezioni relative al tempo è ben rappresentato nella
musica. Infatti in un tempo non omogeneo come il flusso musicale, ogni evento è
nuovo, anche se è una ripetizione di ciò che è già stato. Non si tratta di un tempo
che appartiene alla quotidianità pratica, e nemmeno un tempo della logica
discorsiva, che procede con premesse e conseguenze.
Come detto precedentemente, la musica ci mostra il tempo, ma si tratta di una
dimensione interiore del tempo, e ci mostra anche il paradosso del tempo, che non
possiamo mai possedere, se non nell’istante presente.
Strawinsky parla della musica come del dominio nel quale l’uomo realizza il
presente, lo afferra, lo rende reale.
“La musica è il solo dominio nel quale l’uomo realizza il presente. A causa
dell’imperfezione della sua natura, l’uomo è destinato a subire il passare del tempo
– delle sue categorie, del passato e dell’avvenire – senza poter mai rendere reale,
e pertanto stabile, quella del presente. Il fenomeno della musica ci è dato al solo
113
scopo di stabilire un ordine nelle cose, ivi compreso, e soprattutto, un ordine fra
l’uomo e il tempo” (Clartè, 2015).
Hersch (2009) scrive che grazie alla musica, e senza separarcene, viviamo l’essere
e il non-essere nel tempo, inconciliabili e riconciliabili all’incrocio delle loro
dimensioni.
“La musica suonata ed ascoltata non potrà mai essere cancellata dal passato,
qualunque cosa accada. Niente potrà cancellare questo fatto: la musica è stata
suonata, voi l’avete ascoltata. Se un giorno la terra congelasse, oppure si
riscaldasse eccessivamente, se gli uomini sparissero, anche allora il tempo della
musica vissuta si conserverebbe nel passato. Se sparisse, senza lasciare alcuna
traccia, quel tempo continuerebbe, misteriosamente, ad arricchire l’universo
d’umanità” (Hersch, J. 2009).
114
CAPITOLO 4
Conclusioni
115
Bisogna tenere presente che in una relazione educativa non si producono
cambiamenti solo in chi “riceve” ma anche in noi stessi. Un insegnante deve sempre
interrogarsi su quanto sia disposto a cambiare, prima di pretendere di cambiare gli
altri. Occorre che prenda coscienza della propria identità generale (esperienze,
abilità, preferenze, ecc…), dei propri bisogni, interessi, motivazioni e delle proprie
competenze. Deve anche interrogarsi sulla propria identità professionale e, di
conseguenza, anche sullo stile educativo che possiede, cioè sul suo modo di
comportarsi nelle diverse situazioni educative.
Numerosi sono gli studi che hanno cercato di classificare le diverse modalità di
insegnamento, definendo anche dei modelli, ma ancora oggi manca una seria
indagine sulle motivazioni che reggono ognuno di essi (Tafuri, J. 1995). Ecco
quindi che, nonostante le classificazioni loro fornite, gli insegnanti dovranno
sempre compiere una ricerca approfondita e personale delle motivazioni che stanno
dietro al loro stile per scoprire la propria identità. Attraverso questa si diventa anche
più consapevoli del proprio posto nella storia e nella società di un determinato
periodo.
Numerosi sono i metodi di approccio all’Io suggeriti da diversi teorici. L’approccio
più recente (approccio autobiografico) cerca di scoprire lo sviluppo di ogni identità
sulla base della storia personale di ciascuno (Tafuri, J. 1995).
116
Secondo Stefani (1987), le attività umane sono segnate dall’interazione di tre
componenti:
1. L’attività umana segue sempre una motivazione, un progetto, da cui è
determinata e condizionata;
2. L’uomo è variamente musicale, la sua attività è sempre condizionata da
diverse pulsioni e motivazioni;
3. Queste motivazioni differenziate portano a diversi modi di appropriazione
di una stessa attività e quindi, anche di tutte quelle attività che riguardano la
musica.
Attraverso questa analisi della propria identità si può scoprire, tenendo presenti i
vari livelli della relazione persona/musica, che vi è anche una identità musicale
sociale. Questa identità riguarda gli aspetti musicali prodotti da una società o da un
gruppo etnico a cui si appartiene. Andando ancora più a fondo si può individuare
una identità universale che riguarda le funzioni ed i comportamenti musicali comuni
a tutte le culture (Tafuri, J. 1995).
Come gli insegnanti, anche gli alunni hanno una propria identità. A seconda dell’età
sarà più o meno ricca e complessa ed è l’insegnante che deve scoprirla. Questo non
sarà per lui/lei un compito difficile se parte dalla consapevolezza che l’identità
dell’alunno esiste.
È sempre Dallari nel testo “Musica ed educazione estetica” (Anceschi, A. 2009) a
dirci che è impossibile, o totalmente fuorviante, parlare di conoscenze, di
competenze, di apprendimenti, senza incrociare il problema della strutturazione
delle identità personali. La scuola, e il suo progetto educativo che l’insegnate deve
117
portare avanti, non può mai dimenticare l’inscindibilità del binomio sapere/identità,
in quanto, se ciò accadesse, rischierebbe di promuovere apprendimenti di cui i
soggetti non condividono il senso, che non sentono capaci di aggiungere qualcosa
alla propria identità personale e valorizzarla, o che addirittura “si possono costituire
occasioni di alienazione, di perdita della coscienza di sé nell’esibizione di
conoscenze avulse dalle dinamiche quotidiane di esistenza, di relazione e di
costruzione della rappresentazione identitaria”.
L’insegnante dovrà considerare sempre l’alunno come parte attiva della relazione.
Quindi la conoscenza della storia del bambino deve essere il primo passo per poter
impostare una relazione educativa caratterizzata dalla reciprocità.
In questa relazione reciproca l’insegnate può aiutare ed accompagnare l’allievo alla
scoperta della propria identità musicale, una scoperta che avviene passando
attraverso diversi modelli e stimoli ambientali da scegliere ed organizzare.
118
4.2 Ricadute della tesi nella formazione professionale
Giunti alla conclusione di questo lavoro di tesi, risultano necessarie delle riflessioni
personali che, poggiando sulle basi teoriche e bibliografiche sopra riportate,
permettano di tracciare un percorso che da queste pagine conduca alla mia
esperienza e formazione professionale.
Negli ultimi 3 anni mi sono ritrovata ad insegnare musica all’interno di una scuola
paritaria di Bologna e nel corrente anno (2017/2018) mi è stata assegnata la gestione
di un laboratorio musicale con i bimbi della primaria.
La mia tesi (e l’idea che ne sta alla base) parte da qui: dalla necessità di dover
pensare e strutturare delle attività di didattica musicale per bambini dai 6 ai 10 anni.
Si parte sempre con tante idee e tanti progetti per poi scontrarsi coi limiti della realtà
educativa in cui si deve operare e che, ribadisco, non riguardano solo i destinatari
dell’azione didattica ma anche chi la mette in atto; in questo caso la sottoscritta.
Ho acquisito consapevolezza di tutto ciò nella fase di studio che ha preceduto quella
di scrittura di questa tesi.
La ricerca e la selezione dei testi non è stata molto semplice: il campo della musica
e della didattica musicale ha mille strade ed altrettanti volti che non consentono, ad
una persona con poca esperienza, di orientarsi con facilità. Numerosi sono i libri
che mi sono stati consigliati dalla mia esperta relatrice ed altrettanto numerosi sono
stati quelli personalmente trovati procedendo nel lavoro di scrittura.
119
Con gli scritti di Delalande (1993) e Tafuri (1995) ci inoltriamo nel campo di nostro
interesse, la didattica musicale. È proprio partendo dallo studio di questi testi che
ho potuto comprendere non solo quanto sia importante la preparazione dell’esperto
di educazione in ambito musicale ma che anche quella in ambito pedagogico -
didattico ha una certa rilevanza. La conoscenza musicale risulta fondamentale in
quanto tutte le attività che l’insegnante si troverà a proporre avranno a che fare con
la musica.
Numerosi sono gli approcci alla didattica musicale, ma quello che ho scelto di
seguire potrebbe esser definito come la fusione fra quello proposto da Frapat (1994)
e quello di Tafuri (1995) che impostano la loro didattica partendo dall’ “oggetto”
suono. Un suono che non serve solo a comporre melodie, sonate, canzoni, ecc., ma
che può consentire a chi, gradualmente, inizia a conoscerlo, a saperlo percepire di
andare oltre la classica “composizione” e poter descrivere personaggi, stati
d’animo, ambienti, raccontare piccole storie, ecc.
In questa idea di musica il suono è considerato nella sua totalità tanto che non vi è
più alcuna distinzione tra suono e rumore (Delalande, F. 1993) ma acquista
importanza la loro organizzazione. Per me, che provengo da studi classici,
comprendere e provare ad interiorizzare questo concetto non è stato semplice.
Dover pensare al “rumore” come un possibile suono da organizzare mi sembrava
assurdo. Ma, grazie anche alle numerose documentazioni di esperti nell’ambito
della didattica musicale, ho potuto constatare che la musica fa parte della nostra
quotidianità più di quanto potessi immaginare, ci avvolge ed è presente in ogni
nostra azione, in ogni nostro movimento. Ciò che le attività didattiche di cui si è
largamente discusso, e che sono state proposte in questa tesi, ci consentono di
migliorare sono le competenze relative all’ascolto, alla organizzazione ed alla
riproduzione di questi “suoni”.
120
L’idea che “tutto è suono” viene portata avanti da Frapat (1994) e prima di lei è
presente negli studi di Delalande (1993; 2009). Il bambino, dice Frapat, gioca
istintivamente con i suoni, non ha alcuna conoscenza riguardante la “teoria
musicale”. L’educatore allora deve partire dalla quotidiana produzione e
riproduzione dei suoni del bambino e, dopo un ascolto ed un’osservazione attenti,
potrà organizzarli, incoraggiando così la scoperta e la produzione creativa.
Delalande (1993) parla di condotte per indicare quei comportamenti che hanno alla
base un determinato scopo da raggiungere.
Un progetto didattico basato sulle condotte, continua Delalande (1993), è
certamente una proposta che porta ad una presa di posizione importante da parte
dell’insegnante che, scegliendo di partire dalle condotte piuttosto che dai
comportamenti, sarà obbligato a spostare l’attenzione dalle semplici prestazioni
osservabili dei suoi allievi, alle motivazioni, ai bisogni ed a quei meccanismi messi
in atto per soddisfarli. E sono proprio questi meccanismi a costituire il nucleo
centrale del concetto di condotta.
Vista la complessità del punto di partenza proposto da Delalande (1993) sia Frapat
(1994) che Tafuri (1995) sostengono che non basti conoscere ciò che si vuole
insegnare; sono necessarie altre competenze che permettano di gestire con buoni
risultati una situazione di apprendimento. Questo ci permette di dire che anche un
pedagogista deve avere competenze in ambito musicale che gli consentano di poter
meglio analizzare, progettare, valutare queste attività specifiche.
Come accennato in precedenza, oltre ai problemi legati alla definizione del concetto
di didattica musicale, molte sono state le difficoltà relative alla progettazione.
121
generali ad obiettivi specifici, che riguardano ogni singola attività presente nel
progetto e che devono essere minuziosamente descritti.
Una definizione così approfondita già in fase di progettazione mi ha reso molto più
attenta e consapevole. Attenta a non pensare e creare delle attività di carattere
esclusivamente trasmissivo in modo da lasciare spazio alla libera espressione del
bambino; attenta a calcolare bene l’utilizzo del tempo a disposizione e quindi
proporre attività che fossero possibili da realizzare nell’arco di un’ora; attenta alla
definizione dei dispositivi (per utilizzare un termine molto caro a Frapat) che
permettessero all’insegnante ed ai bambini di poter proseguire nell’attività in modo
da raggiungere gli obiettivi precedentemente prefissati, e ancora, consapevole delle
difficoltà esecutive legate all’elevato numero dei bambini, consapevole dei miei
limiti che dipendevano dalla poca esperienza sia in ambito di progettazione che
didattico, consapevole del poco tempo a disposizione che probabilmente avrebbe
portato a delle necessarie modifiche in itinere del progetto. Ma sappiamo che i
cambiamenti in itinere (Lipari, D. 2009) sono una componente fisiologica della
progettazione, anche e soprattutto in ambito musicale.
Sia Frapat (1994) che Tafuri (1995), ma anche molti altri studiosi che si interessano
di didattica e di progettazione (per es. Lipari, D. 2009), ci ricordano che quando si
parla di didattica i termini rigidità, fissità, immutabilità non possono e non devono
essere contemplati.
Il partire dal quotidiano di Frapat, la centralità dell’alunno e il suo ruolo attivo
all’interno della relazione didattica esaltati da Tafuri consentono, a chi come me
decide di addentrarsi nell’ambito della didattica musicale, di comprendere che
nonostante la precisa e dettagliata definizione in fase progettuale, un’attività
didattica deve sempre essere flessibile.
122
In questa lunga e complessa fase di progettazione ho imparato che:
- Il punto di partenza deve essere sempre il bambino, nella sua quotidianità e con le
sue esigenze espressive e comunicative;
- Bisogna essere consapevoli che non sempre si raggiungeranno gli obiettivi che ci
si era prefissati e, quindi, il progetto potrà subire delle modifiche in itinere.
Alle difficoltà della progettazione sopra descritte, vanno aggiunte quelle legate alla
progettazione di una “storia musicata”.
123
Come detto precedentemente, la scelta della storia è stata attuata in funzione di una
continuità didattica. Non è stata musicata nella sua totalità ma sono state scelte
quelle parti che potevano consentire, sia ai bambini che all’insegante di concentrarsi
sui diversi aspetti musicali e, di conseguenza, sviluppare diverse competenze.
Non è stato semplice attuare questa selezione ed ancora di più riuscire a pensare a
delle attività che potessero interessare e coinvolgere attivamente i bambini senza
privarli della loro libertà espressiva ed esecutiva.
È grazie a questi presupposti che per ogni incontro sono stati pensati dei momenti
di libera esplorazione sonora, ritmica e corporea, senza nessun’altra indicazione da
parte dell’insegnante se non quella riguardante il tema dell’incontro.
Anche per questo aspetto della programmazione mi sono stati molto utili i testi di
Frapat (1995) e Tafuri (1984).
Il primo mi è stato utile per la definizione dei dispositivi e per il concetto di libertà
dell’alunno; il secondo mi ha aiutato dal punto di vista pratico in quanto, attraverso
numerosissimi esempi e indicazioni dettagliate, mi ha guidato nell’articolazione dei
diversi incontri.
In virtù di ciò che è stato fino ad ora esposto, ed a conclusione di questa tesi, mi
sento di dire che l’esperto di educazione (sia esso insegnate, educatore, pedagogista,
formatore, ecc.) deve operare ed agire nell’ottica di una formazione continua che
gli dia la possibilità di mettersi in discussione, ampliare e/o modificare i propri punti
di riferimento ed i propri presupposti teorici, che gli consenta di scoprire nuove
realtà non solo sui libri ma anche nella pratica.
Soprattutto nell’ambito della didattica musicale questa predisposizione alla
formazione continua deve essere la base su cui poggia l’intera attività dell’esperto.
124
È solo grazie alla formazione continua e all’esperienza sul campo che colui che
indichiamo col termine di “esperto di didattica musicale” può dare sempre più
forma al proprio oggetto didattico: la musica (o in modo più generale, il suono). Un
oggetto fortemente intrecciato alla cultura tanto da rappresentare il suo
cambiamento nel corso del tempo; un oggetto che è parte intrinseca dell’esperienza
umana, modalità di espressione del sé e di possibilità comunicativa con l’altro.
125
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www.musicheria.net
www.treccani.it
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ALLEGATI
Impiccagione di Pinocchio
132
Ritratto di famiglia
133
-Immagini inserite come dispositivi visivi nel progetto Pinocchio tratte da
Innocenti, R. / Collodi, C. (2006). Le avventure di Pinocchio, La Margherita
Edizioni, Milano.
Mangiafuoco
Il pescecane
134
La pancia del pescecane
135