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EDUCAZIONE MUSICALE
EDT/SIEM
22
Collana Educazione Musicale EDT/SIEM pubblicata sotto il patrocinio scientifico della Società Italiana per
l’Educazione Musicale
ISBN: 9788860409072
LA VOCE MUSICALE
ORIENTAMENTI
PER L’EDUCAZIONE VOCALE
INDICE
INTRODUZIONE
I • L’uomo vocale
1.1. Immagini della voce / Immagini dell’uomo
1.2. Gli studi sulla vocalità: verso un nuovo paradigma
1.3. Il sistema vocale: complessità e auto-regolazione
1.3.1. La materia e la struttura del corpo-strumento
1.3.2. Auto-organizzazione e differenziazione
1.3.3. Senso-motricità e auto-regolazione
1.4. Voce, identità, sviluppo emotivo
1.4.1. La voce e le emozioni
1.4.2. L’identità vocale
1.5. La voce musicale
1.5.1. La voce incontra la musica
1.5.2. Quale pedagogia per la “voce musicale”?
TAVOLE
RIFERIMENTI DISCOGRAFICI
BIBLIOGRAFIA
Sono avida di voci, che siano leggere o pesanti, scure o chiare, le amo per
la loro straordinaria capacità di farsi corpo.
Educare la voce di bambini, adolescenti, adulti: che cosa significa e perché lo reputiamo
così importante? Spesso noi insegnanti e direttori di coro, presi dall’entusiasmo e dal
piacere del canto collettivo, consapevoli della ricchezza implicita in questa esperienza,
sosteniamo con vigore la necessità di un’educazione vocale accessibile a tutti. Ma sulla base
di quale visione scientifica e pedagogica? È vero che la voce è uno strumento
immediatamente utilizzabile e alla portata di tutti, ma che tipo di strumento è? E quali
conoscenze e competenze deve avere l’insegnante che guida i propri allievi in un’attività
vocale? Il mondo educativo è sempre più aperto ai diversi apporti culturali, ma con quale
ottica e con quali strumenti conoscitivi e operativi ci avviciniamo ai diversi modelli vocali e
ai relativi repertori musicali?
Operando come formatore nell’ambito della didattica vocale invito spesso gli studenti a
riflettere su queste domande e a confrontarsi sulle possibili risposte, poiché il fatto che il
canto sia una pratica musicale tradizionalmente presente nella scuola e nella formazione
musicale di base porta spesso a dare per scontate le motivazioni e le finalità dell’educazione
vocale, trascurandone le premesse e le implicazioni pedagogiche e culturali. Per questo il
libro intende prima di tutto evidenziare e chiarire, anche alla luce delle più recenti
acquisizioni scientifiche, le ragioni che inducono a sostenere il valore educativo delle
pratiche vocali, soprattutto collettive, e la loro importanza ai fini della crescita psicofisica e
culturale dell’individuo, offrendo nello stesso tempo al lettore alcuni strumenti essenziali
per orientarsi nel vasto campo delle problematiche didattiche e metodologiche connesse
alla formazione della voce cantata.
Il libro è dunque rivolto a tutti coloro che si occupano di didattica vocale ma, poiché
privilegia le tematiche riguardanti l’approccio alla vocalità e le metodologie di lavoro
collettivo, è indirizzato in particolar modo agli insegnanti di educazione musicale, ai
direttori delle corali infantili, giovanili o adulte e a tutti coloro che nei diversi contesti socio-
educativi lavorano sulla vocalità di gruppo. In tutta la trattazione è anche implicito l’invito
rivolto al lettore/educatore a confrontarsi in prima persona con gli argomenti presentati e a
riconsiderare la qualità del proprio rapporto con la voce e con la pratica vocale. È infatti
ovvio che chi lavora musicalmente con delle voci in via di formazione deve avere
competenze non solo musicali e teoriche ma anche tecniche, derivanti da un’esperienza
diretta della voce cantata. Laddove questa manchi o si riveli insufficiente ci auguriamo che
il libro sia di stimolo e di supporto per il lettore nell’approfondire e sviluppare la propria
personale relazione con la voce.
Gli ambiti disciplinari che convergono sulla didattica vocale sono oggi numerosi,
altamente specializzati, e ancora scarsamente interagenti tra loro. Nel libro si tenta
pertanto di farli dialogare alla luce delle problematiche educative, mantenendo la
focalizzazione centrata sullo studente e sui suoi bisogni di espressione e comunicazione con
l’ambiente affettivo-sociale-culturale. Per questo ho ritenuto opportuno separare il meno
possibile la trattazione teorica dei vari aspetti della ricerca scientifica dalla loro concreta
applicazione in ambito didattico. Di conseguenza le indicazioni operative e metodologiche
non vengono presentate in forma manualistica ma si inseriscono all’interno dei vari temi
affrontati. Questa impostazione, certamente impegnativa per il lettore poiché implica di
tenere presenti contemporaneamente più punti di vista sulla voce, ha lo scopo di offrire
all’insegnante gli strumenti necessari per operare delle scelte didattiche consapevoli e
motivate.
Anche se una particolare attenzione è rivolta al periodo dell’età evolutiva, il libro nel suo
complesso non riguarda specifiche fasce d’età o specifici ambiti formativi, ma intende
delineare un quadro generale delle problematiche relative all’educazione vocale di base,
proponendo delle tipologie di esperienza vocale e analizzando dei processi di
apprendimento che possono essere attivati in qualunque contesto educativo, anche se con
tempi e modi differenziati a seconda delle caratteristiche degli studenti. Nel descrivere le
attività operative vengono talvolta specificate le fasce d’età a cui sono preferibilmente
indirizzate, ma si tratta di indicazioni di massima che il docente può vagliare alla luce delle
proprie competenze didattiche. Analogamente gli esempi musicali sono tratti da brani e
repertori molto diversi tra loro, sia per quanto riguarda il livello di complessità musicale sia
per la tipologia dei possibili destinatari, al fine di fare emergere gli elementi essenziali di
una competenza vocale di base accessibile tanto ai bambini quanto agli adulti.
Il testo è articolato in tre parti, ognuna delle quali propone un diverso approccio alla
vocalità e alle sue problematiche educative.
La prima parte ha l’obiettivo di fornire all’insegnante alcune parziali risposte riguardo a
una domanda fondamentale che è alla base di ogni ipotesi di progettazione didattica: che
cosa è la voce umana? qual è il reale oggetto del nostro intervento educativo? La delicata e
inscindibile connessione tra entità psicofisica e strumento musicale impedisce di avvicinarsi
alla voce con un’ottica semplicistica, e in ogni caso le problematiche vocali che si
presentano all’educatore in sede didattica sono tali da rendere necessaria una presa di
coscienza della natura vocale umana nella sua complessità. La voce viene quindi indagata
sotto varie angolature nel tentativo di restituirne una visione sfaccettata e multiforme, nella
quale le varie dimensioni – fisiologica, neurologica, psichica, emotiva, culturale – si
relazionano e si completano vicendevolmente. La riflessione su questo tema di fondo vuole
essere di stimolo all’insegnante non solo per la pianificazione di una più consapevole attività
didattica, ma anche per una più approfondita conoscenza e coscienza della voce quale
mezzo fondamentale per l’attuarsi della relazione educativa e della comunicazione
interpersonale. Non a caso, infatti, l’insegnante è oggi una delle figure professionali più a
rischio per quanto riguarda le patologie della voce, e dovrebbe per questo essere il primo
destinatario di un intervento educativo mirato a prevenire, prima che a curare, i
piccoli/grandi problemi vocali nei quali si riflette la perdita di equilibri funzionali più
generali.
Alla luce di questa visione globale della voce umana la seconda parte del testo propone un
approccio didattico-metodologico che pone al centro dell’attenzione non tanto le tecniche
vocali quanto gli ambiti di esperienza e di apprendimento nei quali lo studente può
acquisire consapevolezza delle caratteristiche e potenzialità della propria voce, avviandone
il processo di sviluppo e maturazione. La voce, infatti, apprende e cresce attraverso
esperienze che la pongono in contatto con la dimensione corporea e motoria, con la
dimensione percettiva, sensoriale e immaginativa, e con la dimensione dell’ascolto, inteso in
senso anche intersoggettivo. Ognuno di questi ambiti esperienziali è strettamente connesso
agli altri, ma la scelta di focalizzarli separatamente deriva dalla necessità di rendere chiari i
presupposti teorico-scientifici sui quali si fondano le attività didattiche e le tecniche
proposte. Spetterà poi all’insegnante, in base dell’età degli studenti, al contesto e alle
finalità formative del suo lavoro, elaborare dei percorsi didattici mirati integrando i diversi
ambiti di esperienza.
L’ultima parte del libro è invece dedicata agli aspetti più prettamente culturali della
vocalità e al suo rapporto con la dimensione musicale/poetica e quindi con il canto.
L’apertura multiculturale che impronta oggi la vita sociale e scolastica impone di guardare
al fenomeno vocale con un’ottica rinnovata e più ampia. Per questo l’indagine sul suono
vocale, nelle sue caratteristiche fisiologiche e acustiche, viene rapportata a parametri
culturali più larghi rispetto a quelli che caratterizzano la tradizionale estetica di origine
belcantistica. Ciò non toglie, tuttavia, che la pratica degli stili di canto e dei repertori
vocali/corali della nostra tradizione musicale renda necessario focalizzare l’attenzione
soprattutto su quelle tecniche che si rivelano più funzionali alla loro realizzazione. Nel
percorso che va dalla scoperta dello strumento vocale all’uso consapevole del canto come
forma di espressione personale e culturale, il filo conduttore è costituito dal rapporto tra la
voce e il linguaggio verbale, visto nella sua sostanza acustica e poetica; motivo per cui la
materia linguistica viene analizzata nei suoi aspetti fisici e simbolici, oltre che semantici, al
fine di evidenziare e valorizzare tutti i possibili livelli di incontro e interazione tra voce e
parola.
La connessione implicita tra gli argomenti delle diverse parti del libro è messa in rilievo
dai frequenti richiami e rimandi presenti nel testo. Tuttavia ognuna delle tre parti può
configurarsi anche come autonoma nei contenuti rispetto alle altre, e come tale può essere
consultata dal lettore.
I limiti più evidenti di un libro del genere stanno sicuramente nella inevitabile mediazione
della parola, che tenta di descrivere ciò che invece bisognerebbe percepire con il corpo e
con l’orecchio, rischiando così di rendere astratte, o più che altro complicate, molte attività
che in una pratica educativa diretta risulterebbero semplici e di immediata comprensione.
L’insegnante che ha una propria esperienza vocale, sia personale sia di insegnamento, potrà
sicuramente interpretare con facilità ciò che viene proposto. All’insegnante più inesperto
vocalmente non posso che raccomandare una pratica diretta, soprattutto attraverso
l’esperienza corale, non solo per acquisire maggiori strumenti di comprensione di questo o
di altri testi didattici, ma soprattutto per scoprire in prima persona il piacere di dialogare
attraverso la voce, il suono e la musica con lo spazio e con le altre voci.
Il mio ringraziamento, davvero sentito, va agli amici e colleghi Patrizia Angeloni, Roberto
Becheri, Claudia Bombardella, Stefania Civitarese, Anna Maria Freschi, Milvia Innocenti,
Ania Leila Rufo, Gianluigi Tosto e Annalisa Turroni, che mi hanno consigliato e sostenuto nel
lavoro. La mia profonda gratitudine va a tutti i miei maestri, e in particolare a Fosco Corti,
primo artefice del mio interesse verso la “voce musicale”, e a Gisela Rohmert, cui devo
l’entusiasmo, la curiosità e il piacere che accompagnano costantemente il lavoro di ascolto e
conoscenza della voce dei miei studenti.
NOTA: Le traduzioni dall’originale delle parti di testo riportate nelle citazioni (estratte da
libri non pubblicati in lingua italiana) sono a cura dell’autore.
I • L’UOMO VOCALE
Tutti abbiamo un’immagine dell’uomo. Essa può essere chiara e ricca. Spesso è incerta,
povera, carica di pregiudizi, confusa. Idee chiare generano un’azione efficace. Ma da idee
confuse non possono nascere che comportamenti confusi. […] Se abbiamo di noi stessi
un’immagine più realistica ed estesa di ciò che siamo e di ciò che per noi è possibile, il nostro
atteggiamento verso noi stessi e gli altri cambia, diventa più flessibile e aperto. […] In secondo
luogo l’immagine dell’uomo ha un’influenza determinante sul modo in cui concepiamo alcune
aree specifiche, come l’educazione e la terapia…
Ogni volta che ho provato a indagare sull’immaginario relativo alla voce, chiedendo ad
esempio a bambini o adulti: «Che cos’è la voce?», «Dove nasce la voce?», mi sono trovata
quasi sempre di fronte a risposte piuttosto fantasiose – talvolta poetiche («La voce è un’arpa
piccolina che abbiamo nella gola»), talvolta bizzarre («Le corde vocali sono sette come le
note musicali») – e in genere molto confuse. In alcuni casi ho percepito nei miei
interlocutori una sorta di pudore, un senso di sacralità e al tempo stesso di fragilità, a
conferma del fatto che la voce non è vissuta quasi mai come dato puramente
anatomico/meccanico, ma richiama, sia pure inconsapevolmente, livelli profondi
dell’esperienza sensoriale ed emotiva. È innegabile tuttavia che questa vaghezza descrittiva
sia determinata anche dalla inaccessibilità fisica dell’organo vocale. All’impossibilità di
vedere e di toccare, se non superficialmente, quella parte del corpo dove si genera il suono
si aggiunge il fatto che, soprattutto nel canto, le sensazioni fonatorie si collocano non tanto
nella laringe quanto nella testa o in altre parti del corpo; quasi per assurdo, meglio si canta
e più la zona laringea diventa leggera, trasparente, come se la sua consistenza non fosse
muscolare e cartilaginea ma piuttosto aerea: è il miracolo alchemico che la vibrazione
sonora opera nel corpo umano.
Ma – è doveroso chiedersi in questo contesto – che cosa significa conoscere la voce? Con il
termine voce noi indichiamo di fatto più oggetti: da una parte la manifestazione acustica, il
suono, frutto del gesto laringeo; dall’altra il mezzo, assolutamente personale, attraverso cui
ogni individuo dà espressione ai propri pensieri e alle proprie emozioni; nel caso del
cantore1 ci riferiamo anche allo strumento prescelto per fare musica. La molteplicità delle
possibili “letture” della voce rende certamente complessa la risposta al quesito.
Dal punto di vista di colui che canta la conoscenza della voce è un atto unitario, e si
concretizza in un’esperienza sensoriale in cui la percezione uditiva, quella corporea e il
senso di sé come strumento sono inscindibili. La consapevolezza del suono e quella del
mezzo si sviluppano di pari passo. Si tratta di un processo che non ha limiti, e che può
essere fonte inesauribile di scoperte entusiasmanti e di acquisizioni profonde che nessun
libro e nessun sapere scientifico possono dare. Per colui che canta è importante soprattutto
saper stare in contatto con il suono e con le sensazioni da esso generate, e rendere quindi
sempre più chiare le proprie immagini uditive e cinestetiche.
Per il cantore conoscere la propria voce significa in sostanza crearsi un’immagine del
proprio “Io vocale”, capire che cosa lo muove e che cosa lo inibisce; imparare a fidarsi di lui
e, musicalmente parlando, capire come costruire lo strumento per poi farlo suonare.
Nel caso dell’insegnante/educatore della voce l’affinamento della sensibilità percettiva
costituisce anche un’esigenza professionale. Infatti l’impossibilità di controllare visivamente
i processi muscolari messi in atto dallo studente, cosa attuabile nel caso di altri
insegnamenti strumentali, dev’essere compensata da un ascolto di qualità estremamente
fine, una sorta di “sim-patia”, nel senso etimologico del termine, cioè una capacità da parte
dell’insegnante di sentire le stesse sensazioni dello studente, grazie a un processo di
risonanza che trasforma il messaggio acustico proveniente dalla voce dell’allievo in una
percezione tattile-cinestetica. Questa particolare sensibilità, che matura nell’insegnante con
lo sviluppo della consapevolezza vocale e delle capacità relazionali, ha naturalmente
bisogno del supporto di competenze tecnico-teoriche che ogni educatore si costruisce
attingendo ai vari campi del sapere scientifico, e che tanto più saranno approfondite quanto
maggiore è il grado di specificità del lavoro svolto e di responsabilità che ne deriva.
In ogni caso, indipendentemente dal livello dell’intervento didattico, è importante che
l’educatore sia sempre consapevole delle molteplici “facce” della voce che, per quanto
distinte, rimangono comunque assolutamente inscindibili. Lavorando soprattutto con
studenti giovani è inevitabile scontrarsi con la complessità del fenomeno vocale. A volte la
nostra percezione di insegnanti si focalizza sullo strumento in costruzione, e siamo attratti
dalla bellezza del suono o dalle sue disarmonie, altre volte cogliamo nella voce l’urgente
manifestarsi di una personalità, o la ricerca di un’identità. Talvolta percepiamo un groviglio
di emozioni che non sanno come e dove incanalarsi, o una sensibilità straordinaria che
combatte con un corpo immaturo. Tutti questi dati si presentano contemporaneamente alla
nostra attenzione e possiamo forse metterli a fuoco indipendentemente, ma nella pratica
essi non sono separabili e vanno necessariamente affrontati nella loro globalità.
Per questo conoscere lo strumento voce, per un educatore, non può equivalere a
comprenderne la “meccanica” e la “tecnica”, come si intende invece per altri strumenti.
Attraverso l’anatomia e la fisiologia è possibile conoscere in parte la materia, la forma dello
strumento e prevederne grossolanamente il funzionamento. Ma ogni strumento è diverso
dall’altro e non è separabile dal suo costruttore. Per questo la conoscenza della voce implica
anche la comprensione della natura vocale dell’uomo.
Come afferma Ferrucci [citato in epigrafe], il modo in cui ognuno di noi concepisce
l’educazione è inevitabilmente influenzato dall’immagine di uomo che ci portiamo dentro, e
per questo è nostra responsabilità lavorare costantemente su di essa, per renderla
trasparente, libera da pregiudizi e proiezioni personali. L’insegnante che si dedica
all’educazione della voce ha particolarmente bisogno di rendere questa immagine “chiara e
ricca”, per poter trarre da essa una più ampia comprensione della vocalità umana. Ma è
ugualmente vera anche la considerazione opposta, vale a dire conoscere la voce attraverso
l’esperienza diretta del canto o attraverso la pratica educativa è uno dei tanti possibili modi
per scoprire l’enorme potenziale creativo dell’essere umano e per imparare ad avere fiducia
nelle sue infinite risorse.
Il paradigma che oggi sta perdendo valore ha dominato la nostra cultura per molte centinaia di
anni. […] Questo paradigma consiste in una quantità di idee e valori radicati, fra cui la visione
dell’universo come sistema meccanico composto da mattoni elementari, la visione del corpo
umano come macchina. […] Di fatto c’è ormai la necessità di una loro revisione radicale. […]
Potremmo definire il nuovo paradigma una visione olistica del mondo, considerando il mondo
come un insieme integrato piuttosto che come una serie di parti separate.
Il rischio connesso a questa visione, nella prassi didattica o terapeutica, sta nel pensare
che per modificare il prodotto vocale non c’è altra via se non quella di intervenire sul
meccanismo di produzione, agendo direttamente sulla muscolatura coinvolta.
Nell’educazione al canto questo tipo di approccio si traduce in una “manipolazione” dello
strumento vocale, quasi sempre per piegarlo alle logiche di modelli estetici precostituiti,
logiche che per loro natura non considerano la molteplicità dei fattori strutturanti la
vocalità individuale. Pertanto il successo dell’azione didattica viene misurato solo in termini
di modificazioni della qualità sonora, e non di raggiungimento di un benessere psicofisico
derivante dall’equilibrato integrarsi di tutte le funzioni messe in gioco nell’atto vocale.
L’eventuale insuccesso si trasforma, come ben sappiamo, in valutazioni negative del
soggetto, che diventano spesso un marchio a vita: voce brutta, inespressiva, stonata.
Convergendo sulla vocalità varie discipline scientifiche – in particolare la neurofisiologia,
l’acustica, la psicologia, la foniatria, le scienze della comunicazione e del linguaggio –
possiamo dire che tutti gli studi effettuati in questi settori, soprattutto a partire dagli anni
Settanta del secolo passato, hanno concorso ad ampliare la visione della vocalità umana. Da
sottolineare il contributo indirettamente portato alla sua conoscenza dalle ricerche
sperimentali sulla funzionalità del movimento umano, sviluppatesi all’interno di una
concezione olistica e integrata dell’uomo, che si sono concretizzate nell’elaborazione di
numerose tecniche corporee, oggi pienamente affermate e riconosciute, quali il Metodo
Alexander, il Metodo Feldenkrais, il Rolfling, l’Eutonia, il Metodo Craniosacrale, lo Shiatsu.
Negli ultimi anni è particolarmente attiva la sperimentazione intorno all’uso di queste
tecniche ai fini dello sviluppo della vocalità. Altrettanto determinante l’apporto conoscitivo
derivante dalle esperienze, relative alla voce e al canto, maturate nell’ambito della
musicoterapia. A molti di questi studi si farà esplicito riferimento all’interno del testo, in
base ai diversi argomenti trattati, mentre ora vorrei porre in evidenza alcuni dei contributi
che in questo nuovo panorama di ricerche si stanno rivelando particolarmente significativi
in rapporto alla pedagogia vocale e musicale di base, anche per l’attenzione che riservano
alle relazioni tra la musica e l’essere umano nella sua totalità psicofisica.
Grazie a una complessa serie di circuiti di retroazione (circuiti cibernetici), che chiamano
in gioco più parti del corpo e che vengono controllati e coordinati dall’orecchio nella sua
unità cocleo-vestibolare, il sistema nervoso garantisce la regolazione neurofisiologica dei
processi senso-motori implicati nell’attività vocale.
«L’orecchio – sostiene quindi Tomatis – è l’organo del canto. Senza orecchio, niente canto
e niente linguaggio» (ibid., p. 115). La logica che sottende questa affermazione acquista
maggiore chiarezza nel momento in cui Tomatis definisce il rapporto esistente tra organo e
funzione. Più volte, in testi diversi, egli sottolinea che per comprendere l’essere umano è
importante tenere conto del fatto che non esistono corrispondenze univoche tra organi e
funzioni. Così come l’orecchio non è solo organo dell’ascolto, ma deve garantire altre
funzioni essenziali quali l’equilibrio corporeo, la ricarica energetica del sistema nervoso5 e
la funzione vocale-linguistica, analogamente la laringe non è l’organo specifico del canto e
della parola.
Non esistono organi preposti specificamente alla funzione linguistica. Alcuni elementi posti a
contributo, quali la laringe, i polmoni ecc. si sono adattati più specificatamente a questa capacità,
seconda nella sua acquisizione, ma così fondamentalmente primaria di fatto, per raggiungere infine la
funzione verbalizzata. (Tomatis 2001, p. 12)
[…] poiché tutto chiama l’uomo alla verbalizzazione, nel senso in cui questa gli permette di accedere
al pensiero e da lì anche alla coscienza. (ibid., p. 23)
Il canto non è dunque semplicemente una delle tante possibili attività dell’uomo, ma è da
considerarsi come una vera e propria funzione umana (ibid., p. 36). Cantare risponde infatti
al bisogno di espressione e conoscenza di sé, permette all’uomo di comunicare e dialogare
con l’ambiente attraverso la vibrazione sonora e il feedback acustico e, grazie alle
componenti frequenziali più acute della voce, contribuisce ad alimentare il sistema nervoso,
fornendogli stimolazioni sensoriali preziose per la sua vitalità (v. nota 5). Una “bella voce” è
dunque una voce che per le sue qualità acustiche, in particolare la presenza di armoniche
acute, procura benessere sia a chi la emette sia a chi l’ascolta.
In sintesi la funzione vocale, nella sua complementarietà con la funzione d’ascolto,
contribuisce a far sì che l’uomo realizzi la propria natura senziente e comunicante nei
confronti dell’ambiente, dell’universo (Tomatis 1998). Il termine funzione non viene usato
quindi in senso puramente fisiologico, ma inquadrato in una dimensione più ampia, di
natura “realizzativa”.
Tutto contribuisce ad aiutare l’uomo a realizzarsi verso il proprio futuro, che è quello di riuscire a
vivere nella sua essenza e non nel suo corpo. Non si tratta di escludersi da quest’ultimo, ma di
inserirvisi coscientemente, di agire in modo tale che la coscienza si impadronisca del corpo nella sua
totalità per dare a questo la cognizione della propria esistenza, del proprio vivere nella maniera più
continua possibile. (Tomatis 2001, p. 22)
La concezione dei sistemi viventi come reti fornisce una prospettiva insolita sulle cosiddette
“gerarchie” in natura. Poiché a ogni livello i sistemi viventi sono reti, dobbiamo visualizzare la
trama della vita come sistemi viventi (reti) che interagiscono in una struttura a rete con altri
sistemi (reti). […] A ogni scala d’ingrandimento i nodi della rete si rivelano come reti più
piccole. La nostra tendenza è quella di ordinare questi sistemi secondo uno schema gerarchico,
ponendo i sistemi più grandi al di sopra di quelli più piccoli in una struttura a piramide. Ma
questa è una rappresentazione umana. In natura non c’è alcun “sopra” o “sotto”, e non esistono
gerarchie. Ci sono solo reti dentro altre reti.
La concezione reticolare, che è alla base della moderna ecologia, offre a mio avviso un
punto di vista particolarmente efficace per inquadrare la complessa natura della funzione
vocale, e per comprenderne il ruolo all’interno del “sistema-uomo”. Gli organismi viventi,
secondo questa concezione, sono considerati sistemi complessi, composti (non in senso
gerarchico) da sottosistemi o sistemi parziali, e facenti parte a loro volta di altri sistemi
complessi. Le proprietà di un sistema sono proprietà del tutto, che nessuna delle parti
possiede. La natura del sistema è pertanto sempre diversa dalla pura e semplice somma
delle sue parti, ma deriva dalla qualità delle relazioni e delle interazioni tra esse. Ciò
significa anche che il comportamento di un sistema non può essere compreso analizzando il
comportamento delle sue parti, così come, viceversa, le proprietà delle parti sono
comprensibili solo studiando l’organizzazione del tutto. L’uomo è dunque un sistema
complesso, la cui organizzazione è frutto, tra l’altro, delle diverse modalità di interazione
tra le varie funzioni che lo caratterizzano.
Alla luce di questa visione, la voce, in quanto funzione, può essere interpretata come un
sistema parziale rispetto alla globalità dell’essere umano, e a sua volta complesso in quanto
determinato dalle relazioni tra gli elementi che lo costituiscono (Rohmert 1995, p. 20).
Nel precedente paragrafo, parlando di Tomatis e del modello di Lichtenberg, abbiamo
accennato al fatto che la funzione vocale chiama in gioco non solo la laringe, il tratto vocale,
gli organi respiratori, ma anche il corpo nella sua totalità, gli organi sensoriali e in
particolare l’orecchio, la psiche, il cervello nella molteplicità dei suoi livelli e delle sue
funzioni, e infine il suono stesso. Prima di entrare in merito ai processi di interazione tra
questi elementi, ritengo opportuno focalizzare l’attenzione sulla dimensione corporea
implicata nel canto, sia per metterne in evidenza l’alto livello di coinvolgimento, sia per
osservare in maniera ravvicinata ciò che il corpo mette a disposizione del canto e il modo in
cui lo fa, sia pure a grandi linee. Dato il contesto, non è possibile né opportuno entrare in
dettagliate descrizioni anatomiche e fisiologiche, per le quali rimando a testi specifici
(Croatto 1985, Le Huche-Allali 1993, Trevisi-Ricci 1998). Mi limiterò pertanto a evidenziare
gli aspetti strutturali e funzionali che ritengo più significativi rispetto all’oggetto del nostro
studio.
La Voce rappresenta un uso, per così dire, improprio di organi vitali, un “insight corporeo”, la
fantasia applicata alla fisiologia.
Nell’effettuare questa veloce panoramica ritengo più efficace una modalità schematica e
sintetica, che permetta una rapida consultazione a chi, in qualunque fase di lettura del
testo, voglia richiamare i dati in essa contenuti. La sintesi ovviamente ha i suoi pregi e i suoi
difetti. Affido quindi alle note eventuali informazioni di chiarimento, che per alcuni lettori
più esperti potrebbero essere obsolete, sottolineando ancora una volta l’assoluta parzialità
dei dati presentati in rapporto alla vastità delle implicazioni scientifiche. L’ordine di
elencazione e presentazione dei dati strutturali e funzionali non segue un criterio
gerarchico.
Il sistema muscolo-scheletrico
– Garantisce innanzitutto la funzione posturale/motoria; la sua struttura è costituita da ossa,
muscoli, tendini e legamenti.
– La sua funzionalità è favorita dalla presenza di un buon tono muscolare di base, o
“eutono”: uno stato dinamico di eccitazione dell’apparato neuromuscolare, regolato dal
sistema nervoso centrale a livello della formazione reticolare10, che permette
l’ottimizzazione delle risorse energetiche e quindi la massima economia del movimento sia
negli adattamenti posturali sia nelle attività di coordinamento muscolare. Alterazioni
importanti del tono di base (ipotonia, ipertonia) si riflettono a qualunque livello del
sistema muscolare, e quindi anche sulla muscolatura laringea.
– L’attività motoria è caratterizzata in tutto il corpo dal gioco antagonistico e sinergico dei
muscoli flessori e dei muscoli estensori. Da sottolineare la loro presenza anche nella
muscolatura dell’orecchio medio (muscolo del martello e della staffa, tav. I) e della laringe
(muscolo vocale e muscolo cricotiroideo, tav. III). Nel gioco di equilibrio tra flessori ed
estensori si riflettono le dinamiche generali della comunicazione umana: sia l’iperflessione
sia l’iperestensione costituiscono delle condizioni sfavorevoli all’instaurarsi di modalità
comunicative, a livello corporeo in generale e a livello uditivo e vocale in particolare (v.
cap. 1.3.2).
– Una funzionalità difettosa comporta forme di compensazione a livello muscolare, ovvero
contratture che tramite le catene muscolari11 possono riflettersi in zone del corpo anche
lontane dal punto in cui si è generata la tensione.
– La struttura ossea è a disposizione della vibrazione vocale che, secondo Tomatis, trova in
essa il più fedele conduttore dell’informazione sonora al cervello uditivo (v. cap. 2.3.3).
La laringe
– Generatore della vibrazione, del suono primario, trasformatore dell’energia aerea in
energia acustica, la laringe garantisce la funzione fonatoria, ma in quanto valvola
(glottide) concorre anche all’esplicarsi della funzione respiratoria e sfinterica12 e
attraverso l’epiglottide di quella nutritiva13 (funzioni filogeneticamente più antiche).
– La laringe è un organo sessuale secondario, ed è perciò soggetta a tutte le trasformazioni
determinate dalla vita ormonale (vedi i problemi della muta vocale nel cap. 3.2). Essendo
inoltre innervata dal nervo vago (componente parasimpatica del sistema neurovegetativo),
risente particolarmente delle generali condizioni fisiche ed emotive della persona.
– La sua struttura è assimilabile a quella del più generale sistema motorio, con la sola
differenza che la parte scheletrica è costituita da tessuto cartilagineo invece che osseo
(tav. II). Per questa caratteristica strutturale la laringe è soggetta agli stessi principi di
regolazione neurologica di tutto il sistema muscolo-scheletrico esposti precedentemente.
– Le cartilagini sono mobili e si articolano tra loro grazie all’azione di alcuni muscoli
(muscolatura intrinseca) che coordinandosi determinano tutti i movimenti delle corde
vocali necessari alle attività di respirazione e fonazione, in particolare (tav. III) il
movimento di abduzione nella inspirazione, di adduzione nella fonazione (compressione
mediale), di allungamento, accorciamento e modifica della tensione e dello spessore
cordale per la regolazione soprattutto dell’altezza e della intensità del suono (v. cap. 3.1).
– Il corpo delle corde vocali (tav. IV) è costituito da un legamento elastico (legamento
vocale) e da fibre muscolari, il tutto rivestito da uno strato di mucosa, che può vibrare
indipendentemente dal corpo delle corde14.
– Il segnale acustico (voce) è frutto del transito della corrente aerea che viene frammentata
dalle corde vocali. L’alternarsi ciclico di compressioni e rarefazioni dell’aria viene
percepito come vibrazione e la sua frequenza determina l’altezza del suono emesso15.
– Al di sopra delle corde vocali vere e proprie sono collocate delle pieghe muscolari,
chiamate corde false (o pieghe ventricolari), che contribuiscono alla funzione sfinterica.
Tra queste e le corde vere si viene a creare una piccola cavità (ventricolo laringeo o di
Morgagni), che sembra costituire il primo risuonatore del suono vocale (tav. IV).
– Tutta la struttura laringea è mobile ed è sospesa attraverso una membrana all’osso ioide,
e tramite questo al cranio. Tale mobilità permette di sfruttare al massimo le proprietà
elastiche della struttura.
Il sistema respiratorio
– A livello organico la sua struttura è costituita dai polmoni e dalle vie respiratorie (naso,
faringe, laringe, trachea, bronchi). Gruppi muscolari specializzati determinano con la loro
attività le modificazioni del volume toracico associate alle fasi di inspirazione ed
espirazione. In questo senso il muscolo respiratorio per eccellenza è il diaframma toracico
(tav. VI).
– L’inspirazione è la fase attiva, nella quale il diaframma contraendosi e abbassandosi
determina una condizione di bassa pressione nel torace che richiama aria nei polmoni.
L’espirazione, fase passiva, avviene per semplice retroazione elastica. Le due fasi, in
situazione di veglia normale e di salute psicofisica, sono equilibrate. Esigenze di
particolare impegno respiratorio, consce o inconsce, possono implicare una modificazione
dei tempi e delle modalità in cui si svolgono le due fasi. Nel canto, ad esempio,
l’espirazione, che coincide con l’emissione, diventa più lunga della inspirazione.
– Il movimento ritmico di contrazione/decontrazione del diaframma toracico costituisce un
massaggio tonico per tutti gli organi e i visceri collocati nell’addome. In quanto connesso
al pericardio attraverso la parte superiore della cupola, il diaframma è in grado di
regolare con il suo movimento anche l’attività cardiaca. Tutto ciò giustifica l’importanza
che una buona attività respiratoria ha per il benessere di tutto l’organismo.
Il tratto vocale
– È costituito dalle cavità poste superiormente al tubo laringeo, i cui componenti anatomici
principali sono la faringe, il palato duro e molle, la lingua, la mandibola, i denti, le labbra
(tav. VIII). Tutto il tratto vocale è coinvolto, oltre che nella funzione fonatoria, anche in
quella respiratoria e nutritiva. In base alla funzione svolta, gli elementi del tratto vocale
interagiscono e si coordinano tra loro in modo diverso, modificandone così la struttura e
le dimensioni.
– Rispetto alla fonazione, e in particolare al canto, il tratto vocale svolge la funzione di
cavità di risonanza del suono laringeo, amplificandolo e arricchendolo di armoniche16 (cfr.
cap. 3.1.2). È inoltre responsabile dell’articolazione della parola sia parlata sia cantata.
– Non c’è parte o livello del corpo che non partecipi al gesto vocale.
– La materia che costituisce lo strumento è dotata di grande elasticità e dunque capace di
partecipare della vibrazione sonora. Questa è la prerogativa in base alla quale è possibile
trasformare il corpo umano in uno strumento musicale, obiettivo prioritario
dell’educazione al canto.
– Rispetto alla meccanica degli strumenti musicali la voce in un certo senso rappresenta una
sintesi. Essa si avvale infatti di membrane a tensione regolabile (diaframmi, pareti
faringea e palatale) come le percussioni e di valvole e di pressione come gli strumenti a
fiato. Il suo nucleo è costituito da corde come negli strumenti ad arco. È dunque uno
strumento a tutto tondo, la cui immagine può sicuramente sollecitare l’intuito didattico di
un insegnante dotato di fantasia.
– L’organizzazione della vocalità comporta la coordinazione di più livelli strutturali e implica
l’interazione di molteplici funzioni.
La complessità sembra essere uno strumento essenziale della natura. Tramite la complessità, la
natura fornisce agli esseri viventi i mezzi per sopravvivere e per sviluppare in questo modo
delle nuove qualità, perfino delle qualità che non sono necessarie per la sopravvivenza della
specie (la musica, le arti…).
Gli organismi viventi, in quanto sistemi aperti, sono in grado di sviluppare nuovi schemi di
comportamento e nuove strutture in risposta a stimoli ambientali, utilizzando energia
assorbita dall’esterno ai fini della propria organizzazione interna. Questa proprietà è
definita auto-organizzazione. Nell’uomo essa si manifesta in modo evidente innanzitutto nel
cervello e nel suo sistema nervoso, la cui complessità è tale da rappresentare in parte
ancora un mistero per la scienza.
Il cervello umano è un sistema vivente per eccellenza. Dopo il primo anno di crescita non si
producono più neuroni, eppure mutamenti plastici proseguiranno per il resto della sua vita. Al mutare
dell’ambiente il cervello modella se stesso in risposta a questi mutamenti, e ogni volta che esso subisce
lesioni il sistema mette in atto adattamenti molto rapidi. È impossibile consumarlo; al contrario, quanto
più lo si usa, tanto più efficiente esso diventa. (Capra 1984, p. 241)
L’instancabile attività del cervello è possibile grazie alla trasformazione delle energie
incamerate attraverso la nutrizione, la respirazione e, come abbiamo visto secondo Tomatis,
anche attraverso le stimolazioni sensoriali, in particolare quelle acustiche. L’energia nervosa
viene poi ceduta per garantire tutte le funzioni umane.
Nuove strutture e schemi di comportamento possono derivare sia della storia evolutiva
dell’uomo (filogenesi), sia da necessità occasionali di adattamento all’ambiente. Ad esempio
la postura eretta, determinatasi nel momento evolutivo in cui l’uomo ha affidato ai suoi arti
superiori e alla sua laringe delle funzioni più complesse17, è frutto dell’auto-organizzazione
del sistema muscolo-scheletrico che ha adattato la propria struttura alla forza
gravitazionale. Ma adattamenti posturali e nuovi schemi comportamentali appaiono
ogniqualvolta si presentino nuove esigenze o giungano nuovi stimoli dall’ambiente. Così il
bambino apprende durante la sua crescita – come l’uomo nel corso della sua evoluzione –
scoprendo e integrando schemi d’azione sempre nuovi. L’auto-organizzazione è dunque una
proprietà attraverso la quale il sistema intelligentemente garantisce a se stesso la
possibilità di evolvere, allontanandosi dall’equilibrio per conoscere. Questo tipo di processo
è alla base anche di tutte le manifestazioni della creatività umana. Se, tornando all’esempio
motorio, l’equilibrio posturale non venisse spezzato, la bellezza della danza non esisterebbe.
Altrettanto possiamo dire per le diverse forme di virtuosismo vocale. Tuttavia il sistema, pur
conquistando nuovi equilibri e trasformandosi, tenderà sempre a mantenere una propria
“fisionomia”, ovvero a salvaguardare la propria identità in modo da non compromettere la
propria funzionalità e quella dei sistemi con i quali interagisce.
L’auto-organizzazione è dunque una risposta funzionale. Ciò significa che il sistema è in
grado di utilizzare e coordinare gli elementi che lo costituiscono in maniera differenziata a
seconda delle necessità. Tanto più un sistema è complesso tanto maggiore è la sua capacità
di differenziazione. Consideriamo ad esempio l’organizzazione del sistema respiratorio. Già
nella funzione primaria, che è quella di garantire l’ossigenazione, il suo comportamento è
diversificato a seconda delle necessità fisiologiche. Infatti la presa aerea (il modo cioè con
cui l’aria viene immessa durante l’inspirazione) è toracico-diaframmatica (medio-bassa)
durante il sonno o in condizioni di veglia tranquilla, ma diventa medio-alta durante le
attività motorie impegnative come la corsa, e addirittura alta in particolari situazioni
emotive. La muscolatura respiratoria quindi entra in gioco e si coordina in modo
differenziato per garantire il volume d’aria opportuno alle diverse situazioni; ma ancora più
fine è il suo lavoro quando essa deve assolvere alla funzione vocale, poiché in questo caso
non si tratta solo di assicurare la necessaria quantità d’aria, ma anche di regolare con
grande raffinatezza i modi e i tempi delle fasi inspiratoria ed espiratoria per supportare le
infinite forme dell’espressione parlata e cantata: anche il respiro è un’attività creativa! (cfr.
cap. 2.3.2) Vediamo pertanto che il sistema respiratorio nell’auto-organizzarsi e
nell’integrarsi con gli altri sistemi ai fini della funzione vocale viene a esprimere delle
qualità che altrimenti non emergerebbero.
È possibile fare considerazioni analoghe per il tratto vocale, del quale abbiamo una
percezione forse più concreta. Se pensiamo alla lingua e al modo in cui essa lavora nelle
diverse attività che svolge, noteremo che questo muscolo – ben più grande di quanto non
appaia all’esterno – grazie alla sua notevole elasticità, nella masticazione usa tutta la sua
forza e tutta la sua massa per formare il bolo e indirizzarlo verso l’esofago,
nell’articolazione del parlato usa in maniera differenziata la sua superficie, e in particolare
la punta e la parte mediana del dorso nel contatto con i denti e con il palato duro e molle,
mentre nel canto diventa una membrana vibrante all’interno della cavità orale, pur
continuando a garantire l’articolazione. Anche la mandibola nella masticazione si avvale
della grande forza del muscolo massetere, mentre nel parlato e nel cantato la sua
articolazione con la mascella risponde in maniera diversificata e più raffinata alle diverse
esigenze espressive. Altrettanto evidenti sono le differenze in tutti gli altri elementi del
tratto vocale – bocca, palato, faringe – così come evidente è il loro diverso modo di
coordinarsi nelle varie attività svolte.
Per quanto riguarda la laringe, già nella funzione di valvola la sua struttura si presenta
diversificata attraverso il sistema doppio delle corde vocali vere e false. G. Rohmert (1995,
pp. 26-32) sottolinea la loro importanza funzionale in rapporto all’organizzazione corporea e
vocale. Le corde false, evolutivamente più antiche, sono una valvola ad alta pressione, nel
senso che la loro chiusura è connessa a una condizione di mantenimento dell’alta pressione
nel torace, necessaria quando si svolgono azioni che implicano applicazione di forza verso
l’esterno, come spingere, sollevare, colpire, oppure nelle azioni che implicano espulsione
come tossire o partorire (funzione sfinterica). Muscolarmente deboli, per chiudersi si
avvalgono dell’azione di supporto di muscoli esterni. Le corde vocali vere sono invece
valvole a bassa pressione in quanto la loro chiusura è legata a una diminuzione della
pressione toracica, come avviene nella fonazione, e la resistenza che esse oppongono alla
pressione dell’aria subglottica è dovuta a un’autonoma muscolatura interna
(cricoaritenoideo laterale). Il sistema a doppia valvola comporta tuttavia il rischio che,
qualora durante la fonazione si crei un eccesso di pressione subglottica (come nel grido, nel
canto a forte intensità o forzato), le corde false tendano a chiudersi con relativo aumento di
tensione nei muscoli della gola e del collo, compromettendo così l’attività vibratoria delle
corde vere. Queste, come già osservato nell’esposizione schematica, sono dotate di una
struttura muscolare che si è altamente differenziata con l’evoluzione, consentendo
attraverso la sua attività finemente coordinata tutti gli aggiustamenti cordali che danno
luogo alle modificazioni di altezza e intensità del suono, necessarie soprattutto per il canto.
È dunque evidente, già da queste parziali esemplificazioni, che il massimo potenziale
umano di differenziazione si esprime nelle funzioni evolutivamente più recenti, connesse
soprattutto alla dimensione sociale, come quelle espressive e comunicative (funzioni
secondarie18). In altri termini quanto più una funzione è evoluta tanto più fa appello alla
complessità del sistema. Dove questa si manifesta ai massimi livelli, come nell’attività
artistica, si parla di funzione terziaria o “di lusso” (Rohmert 1995, p. 75; Magnani 2005, p.
178).
Pensate a una cosa secondaria come la capacità di differenziare il movimento dell’anulare in
entrambe le mani, gli anulari che sembrano così insignificanti. Bene, l’umanità è divisa in due gruppi
proprio da queste dita: quelli che sanno suonare o fare musica e quelli che possono solo comprare
biglietti per concerti o impianti stereo. (Feldenkrais 1991, p. 43)
La laringe, come ogni organo del corpo, ha una buona memoria delle proprie origini e
torna alle funzioni ancestrali ogni volta che la parte sottocorticale del cervello grida le sue
ragioni. «La laringe si ricorda infatti dell’originario primato emotivo sul razionale e fa di
tutto per non farcelo dimenticare» (Cadonici 2000, p. 27). Ecco allora il “nodo in gola” o le
difficoltà, spesso difficilmente analizzabili, nell’emissione vocale. Del resto la tendenza al
controllo delle emozioni, incentivata anche in età precoce dall’educazione familiare e dai
condizionamenti sociali, fa sì che le espressioni vocali “liberatorie”, come il pianto, il
sospiro, il lamento, l’urlo di rabbia, vengano costantemente represse. Ciò impedisce al
sistema neurovegetativo di auto-regolarsi, cioè di ristabilire attraverso l’attività laringea
l’equilibrio pressorio dell’aria e con esso il più generale equilibrio tonico-emotivo (sono
espressioni comuni “vivere in alta pressione” o “essere sotto pressione”).
Quando la funzione “di lusso” è disturbata dalle interferenze emotive, la capacità di
differenziazione viene compromessa. I diaframmi, che in quanto membrane elastiche
dovrebbero reagire alla vibrazione laringea e trasmetterla da una cavità all’altra del corpo,
diventano pareti rigide che isolano gli spazi interni; la mandibola, che con la flessibilità
della sua articolazione dovrebbe regolare gli spazi di risonanza faringei, è irretita dalla
muscolatura che inconsciamente si tiene pronta a “mordere”; la base della lingua
irrigidendosi (il nodo in gola) blocca l’osso ioide, impedendo l’auto-regolazione del sistema
di sospensione laringeo; e nel corpo contratto la percezione sensoriale diventa grossolana.
Di fronte a queste reazioni istintive, a questi modelli di organizzazione così ancorati nel
profondo, la volontà e la razionalità hanno ben poco potere. Spesso gli inviti al rilassamento
che in buona fede l’insegnante fa all’allievo sono pressoché inutili.
Non è difficile immaginare cosa succede se al sistema nervoso giungono due richieste
opposte: da una parte la volontà e la coscienza che chiedono al corpo di aprirsi e lasciar
passare l’aria e il suono, dall’altra l’istinto di autoprotezione che ne ordina invece la
chiusura. Gli esiti di questa inconsapevole e durissima battaglia sono costantemente sotto
gli occhi dei foniatri e dei logopedisti. Non sempre i disagi e le patologie vocali sono frutto
solamente di surmenage (affaticamento eccessivo) o di una cattiva tecnica vocale. Gli
insegnanti stessi nel faticoso lavoro quotidiano all’interno della scuola spesso vivono in
prima persona questo tipo di conflitto. È logico che la consapevolezza da una parte e delle
buone tecniche di respirazione ed emissione vocale dall’altra possono essere d’aiuto, ma
non sempre sono sufficienti. Altrettanto si può dire per i disagi connessi alla cosiddetta
“ansia da prestazione” che riguarda, con sempre più frequenza nella nostra epoca
competitiva, non solo i professionisti della voce, ma anche gli studenti di musica, e spesso
anche i bambini.
L’educatore in ogni caso non è un terapeuta e quindi la sua responsabilità sta più che altro
nel contribuire a far sì che questo genere di conflitti non si instauri o, ancor meglio, nel fare
in modo che il piacere e il benessere generati dall’esperienza vocale creino lo spazio
affinché la funzione “di lusso” prenda piede poco alla volta fino a far cadere le ragioni
dell’eccessiva autoprotezione. Sul piano concreto questo comporta innanzitutto un’attenta
osservazione degli studenti, evitando di sottovalutare segnali corporei e vocali significativi
e, da un punto di vista metodologico, l’attivazione di strategie che più che imporre modelli o
tecniche facciano appello alle risorse interiori dell’individuo, sollecitando le capacità di
auto-regolazione del sistema.
L’attività vocale, come ogni altra attività strumentale, è di tipo senso-motorio, dal
momento che la motricità viene guidata e controllata dai recettori sensoriali. Il gesto vocale,
per essere regolato, ha bisogno di un ritorno di informazioni (feedback) dall’ambiente
interno/esterno, che si concretizza in un atto percettivo. La voce può avvalersi della totalità
sensitiva del sistema nervoso. Non sono solo le sensazioni uditive a guidare la voce, ma
anche quelle tattili, vibratorie, pressorie, termiche, cinestetiche. Più volte Tomatis nei suoi
scritti sottolinea come l’attività comunicativa abbia bisogno sempre della totalità delle
funzioni sensoriali. Il sistema vocale, quindi, sotto l’impulso della volontà espressiva e
comunicativa, utilizzando il feedback sensoriale, è in grado di auto-regolarsi, coordinando le
proprie componenti e scegliendo l’organizzazione più funzionale ai propri intenti.
È stato già sottolineato che l’attività musicale, sia essa vocale o strumentale, necessita di
una motricità altamente differenziata, e questa si sviluppa in misura proporzionale
all’affinamento della sensibilità percettiva. La qualità del movimento è strettamente
connessa alla qualità delle sensazioni. L’educazione di un corpo musicale richiede quindi un
ampliamento e un arricchimento della dimensione sensoriale.
Delalande, confrontando la condotta senso-motoria del bambino con quella del musicista,
osserva che in entrambi i casi le labbra e le mani «operano simultaneamente nella
dimensione della produzione e della ricezione. Servono contemporaneamente a sentire e ad
agire» (Delalande 1993, p. 57). Questo funzionamento recettivo degli organi produttori, che
al bambino serve per entrare in contatto con l’ambiente e quindi apprendere ampliando i
propri schemi d’azione, nel caso del musicista rappresenta la condizione necessaria per
regolare e adattare il gesto strumentale alle esigenze espressive, affinando nel contempo la
motricità. Analogamente Rohmert afferma che l’auto-regolazione del gesto vocale si realizza
nel momento in cui la laringe «oltre che organo esecutivo diventa anche organo sensoriale»
(Rohmert 1995, p. 99). Ciò avviene quando essa è libera di reagire al suono, e cioè di
usufruire del feedback acustico, utilizzando le sensazioni generate dal circuito di
retroazione sonora che si viene a creare tra la laringe, il tratto vocale e l’ambiente esterno.
Le possibilità che ha un ambiente interno (tratto vocale) o esterno di veicolare
informazioni acustiche dipende naturalmente dalle sue proprietà qualitative. Quelle del
tratto vocale derivano, come vedremo meglio più avanti (cfr. cap. 3.1.2), dalla
conformazione che ad esso viene data, tale da impedire la dispersione dell’energia sonora e
permettere l’esaltazione delle formanti del suono. Per quanto riguarda invece l’ambiente
esterno, la sua qualità si identifica essenzialmente nel tempo di riverberazione. È infatti
esperienza comune che in un ambiente acusticamente sordo il canto si accompagna a un
senso di grande fatica e la voce perde in qualità timbrica e consistenza sonora. Gli studi di
psicoacustica hanno individuato come condizione ottimale per la fonazione un tempo di
riverberazione da 4 a 8 secondi (Righini 1972, p. 20). Tuttavia anche con tempi inferiori,
come quelli che caratterizzano solitamente i teatri o le sale da concerto (da 2 a 4 secondi)
l’emissione della voce risulta facile ed efficiente. Riferendosi agli studi di Husson, Righini
sottolinea anche, come effetto di una giusta riverberazione ambientale, la “euforizzazione”
della sensibilità interna della laringe e, grazie alla stimolazione del nervo trigemino, il
miglioramento del tono muscolare della glottide, con una conseguente ottimizzazione delle
capacità percettive e produttive (ibid., p. 21).
In effetti, come sa bene ogni cantante o direttore di coro, la qualità dello spazio acustico è
di fondamentale importanza per la voce. Svolgere delle prove di coro in un ambiente
sfavorevole, o perché troppo secco o troppo riverberante, può vanificare anche un buon
lavoro di tecnica vocale, e fa del canto un’occasione di stress invece che di piacere. La
questione comunque non riguarda solo il canto ma qualunque forma di comunicazione orale.
Frequentando le aule scolastiche, dalle materne alle superiori, purtroppo ho dovuto spesso
prendere atto della quasi totale mancanza di accorgimenti e di attenzione rispetto a questo
problema. Anche in istituti scolastici di recente costruzione è abbastanza comune trovare
ambienti, addirittura concepiti come auditorium, del tutto sfavorevoli acusticamente. Forse
la questione viene valutata da un punto di vista puramente estetico e per questo
sottovalutata (chissà poi perché: anche l’estetica dovrebbe avere il suo peso nella scuola!).
Pretendiamo attenzione e concentrazione da parte dei nostri studenti durante le spiegazioni
o altre attività, non solo musicali, senza considerare quanta parte di energia nervosa venga
sprecata nello sforzo di adattarsi a un ambiente acustico rumoroso o troppo riverberante, o
al contrario troppo assorbente. Dice giustamente Tomatis che un ambiente acusticamente
sordo “rende l’aria come morta” e “spegne il pensiero”. Se l’architettura scolastica tenesse
conto maggiormente del rapporto tra orecchio, voce, linguaggio e pensiero, forse alcuni
problemi di apprendimento troverebbero forme di soluzione. A questo proposito Murray
Shafer, nel suo importante testo sul paesaggio sonoro, afferma la necessità di studiare nuovi
metodi di educazione del pubblico, per sensibilizzarlo all’importanza dell’ambiente sonoro e
dare risposta a un quesito fondamentale: «il paesaggio sonoro del mondo è una
composizione indeterminata sulla quale non abbiamo alcuna possibilità di controllo, oppure
ne siamo noi stessi i compositori e gli esecutori, siamo noi i responsabili della sua forma e
della sua bellezza?» (Murray Shafer 1985, p. 15).
Tornando al rapporto tra spazio e voce, va tenuto presente che se l’orecchio è abituato a
essere attivo nei confronti dell’ambiente e sensibile a tutte le informazioni che da esso
provengono, la voce può comunque, anche in situazioni sfavorevoli, regolare la propria
emissione, basandosi maggiormente sull’acustica interna del tratto vocale e sul ritorno di
tutte le altre informazioni sensoriali (vibratorie, pressorie, cinestetiche). In questo modo è
possibile evitare che si inneschi un circuito vizioso nel quale la povertà del feedback
ambientale determini, a causa della sensazione di “ovattamento”, l’impressione di cantare
piano e quindi la tendenza a usare una maggiore pressione nell’emissione, con conseguente
affaticamento vocale e peggioramento della qualità sonora.
Lo spazio è dunque un fattore strutturante della voce, e il canto è un modo davvero
speciale di “dialogare” con esso. La voce mette in risonanza lo spazio, investendolo delle
proprie qualità, e viene a sua volta messa in risonanza dal ritorno dell’onda sonora, carica di
tutte le informazioni che lo spazio contiene, al punto che non è più possibile distinguere tra
spazio interno e spazio esterno, le barriere corporee spariscono e rimane solo la vibrazione.
Ancora una volta il canto si pone come metafora dei più generali processi della
comunicazione. Infatti, l’espressione personale, non necessariamente artistica, è sempre un
momento di incontro e di scambio, e si autoregola, acquistando così senso ed efficacia, solo
se c’è disponibilità ad ascoltare e reagire alle informazioni provenienti dall’ambiente
(acustico, sociale, interpersonale) che l’accoglie. Se quindi da una parte, come dice Tomatis,
«cantare per essere ammirati è drammatico, e cantare per narcisismo è più che penoso»,
dall’altra è importante essere consapevoli che l’atto del cantare, come qualunque altra
forma di comunicazione, non è di esclusiva responsabilità di colui che invia il messaggio: lo
spazio, come abbiamo visto a proposito dell’acustica, può non essere sempre disponibile
come noi pensiamo o vogliamo, ma in qualche modo risponde sempre; sta a noi
naturalmente decidere se continuare a dialogare, adattando la nostra modalità
comunicativa, oppure tacere.
L’auto-regolazione in un sistema è sinonimo di economia ed efficienza, ovvero di
ottimizzazione delle risorse interne del sistema stesso. Nel caso della voce significa che ogni
forma di energia, muscolare, aerea, nervosa, psichica, viene utilizzata senza sprechi e si
traduce completamente in suono. La stessa energia sonora non si disperde completamente
ma viene riutilizzata dal sistema (modello sinergetico retroagente). Pertanto anche il suono,
in quanto elemento costituente del sistema vocale, può contribuire alla sua auto-
regolazione, a condizione però, secondo Rohmert (cfr. cap. 1.2), di possedere sufficienti
qualità timbrico-energetiche. In altri termini la “funzionalità” del suono, come quella di ogni
altra componente del sistema, può influire sulla funzionalità del tutto. Tomatis esprime un
concetto analogo affermando che quando si canta male, si distrugge il proprio orecchio
(Tomatis 1993, p. 44), come del resto avviene con qualunque altro strumento di cattiva
qualità sonora. Il circuito orecchio/voce in particolare implica che una cattiva emissione
possa con il tempo danneggiare la funzionalità della voce cantata. Ribaltando la cosa in
positivo ciò significa che quando invece l’orecchio è in grado di riconoscere la qualità del
suono, il sistema nervoso ne può utilizzare l’energia a vantaggio della funzione vocale e del
più generale benessere psicofisico (teoria della ricarica corticale di Tomatis e della
brillantezza come ordinatore di Rohmert).
In entrambe le concezioni un suono “funzionale” è un suono timbricamente ricco e
caratterizzato in particolare dalla presenza di formanti acute, che favoriscono l’equilibrato
integrarsi di tutte le altre componenti parametriche. Ma come il cervello riconosce un suono
funzionale? Si tratta di un riconoscimento sensoriale prima ancora che cognitivo, poiché un
suono denso e brillante produce immediatamente degli effetti di risonanza nel tratto vocale
e nelle orecchie, e scatena sensazioni vibratorie a più livelli nel corpo. Anche un bambino
riconosce queste sensazioni e le vive con stupore, ne è catturato e affascinato. Afferma
Marco Dallari che lo stupore è «l’essenza originaria dell’atteggiamento estetico» (Dallari
1996, p. 17). È dunque attraverso l’esperienza sensoriale/estetica che il cervello impara a
riconoscere la qualità sonora. Quanto più l’orecchio sarà consapevole di essa, tanto più il
suono potrà agire come regolatore della funzionalità vocale.
Il peso che la componente qualitativa del suono assume all’interno di queste visioni
scientifiche e pedagogiche induce a riflettere sul ruolo che l’esperienza estetica ha non solo
rispetto alla crescita culturale dell’individuo ma anche rispetto al suo benessere psicofisico.
La formazione del gusto estetico – inteso come capacità di riconoscere e attribuire senso e
valore a qualità di natura sensoriale, lasciando che esse orientino e guidino l’azione e
l’espressione individuale – è un obiettivo che non ha certo priorità nella nostra scuola e che
non ha riconoscimento nella società attuale. Sappiamo bene che il gusto estetico non ha a
che fare solo con la percezione ed espressione di tipo artistico, bensì riguarda il vivere
quotidiano e quindi la qualità della vita, ma erroneamente si ritiene, spesso anche in
ambiente didattico, che si tratti di una prerogativa di tipo elitario o intellettuale. La
consapevolezza, anche su base scientifica e non solo esperienziale, di quanta importanza
possa avere per l’individuo la vivacità della dimensione sensoriale e la capacità di
apprezzamento estetico dovrebbe far riconsiderare l’importanza formativa delle discipline
di tipo artistico.
La voce è uno dei linguaggi più eloquenti che esistano, poiché è direttamente connessa con
l’emozione. Per me la voce è uno strumento spirituale, perché può avere accesso a luoghi del
sentimento e a stati dello spirito che non possiamo tradurre con le parole.
Meredith Monk
Da più parti viene anche rilevata l’importanza del cosiddetto baby talk, forma di
comunicazione preverbale che si instaura tra adulti e bambini, caratterizzata dalla
ripetitività, dall’imitazione reciproca e da una prosodia molto marcata, cioè da
un’enfatizzazione della musicalità della frase verbale. In particolare se è la madre a
interagire con il bambino, essa tenderà a usare il registro alto della voce e ad accentuare le
curve intonative per sollecitare l’attenzione del bambino21.
Ma soprattutto il baby talk è un’attività ad eco: la madre ripete fintantoché il suo bambino non la
imita, poi ella lo imita a sua volta in un’infinità di variazioni in cui si generano gioco e piacere. C’è qui,
incontestabilmente, la prima e universale esperienza musicale del bambino, quella che talvolta nella
nostra cultura, più spesso in culture lontane dalla nostra, si prolunga attraverso i canti della madre per
il suo bambino. (Imberty 2000, p. 7)
Bernardino Streito
L’“impronta” vocale di ogni singolo individuo è notoriamente una traccia acustica dalla cui
analisi emergono molteplici aspetti della persona, alcuni relativamente oggettivi, come l’età
e il sesso, altri più suscettibili di interpretazione, come i tratti del carattere, i lineamenti
della personalità, o i ruoli sociali e professionali, là dove ci sia una forte identificazione con
essi. Il potenziale comunicativo ed evocativo della voce è stato oggetto di studi e ricerche
nei più svariati campi, dalle discipline filosofiche, psicologiche, antropologiche, alla
musicologia, semiologia, alle scienze della comunicazione, producendo una vastissima
letteratura, parzialmente citata in bibliografia (Anolli-Ciceri 1992, Bologna 1992, Cadonici
2000, Cavarero 2003, Dogana 1988, Fonagy 1991), alla quale necessariamente rimandiamo
per approfondimenti in merito.
In sintesi possiamo comunque dire, richiamando la visione sistemica sopra analizzata, che
se la voce è la risultante delle peculiari e soggettive modalità attraverso cui interagiscono
molteplici funzioni umane, la vocalità individuale non può che essere il riflesso dell’identità
personale. In altri termini si può dire che la voce è frutto della storia di ognuno di noi, delle
persone e delle voci che abbiamo incontrato, del modo in cui ascoltiamo e in cui siamo stati
ascoltati, degli ambienti in cui abbiamo vissuto, delle emozioni che abbiamo condiviso o
soffocato, della cultura e dei valori che abbiamo respirato. Sul livello più strettamente fisico
la voce è il risultato anche della nostra organizzazione corporea, e quindi del nostro
equilibrio, del nostro modo di respirare, o più banalmente del numero di anni in cui la
nostra mandibola è stata prigioniera di apparecchi dentistici. Ma proprio per questo la voce
di ognuno di noi è costantemente soggetta a trasformazioni e nello stesso tempo è
assolutamente unica.
La costruzione dell’identità vocale, intesa in senso “processuale”23, inizia fin dai primi
giorni di vita, attraverso le dinamiche di interazione vocale tra il neonato e la madre e le
prime forme di dialogo sonoro con i genitori e gli altri componenti della famiglia. L’ambiente
acustico in senso lato, come già emerso a proposito di Tomatis, è determinante per le
caratteristiche vocali dell’individuo, ma un imprinting decisivo può venire soprattutto dalle
voci delle persone affettivamente più significative, che talvolta diventano un vero e proprio
modello acustico. Spesso, nel caso di voci infantili particolarmente caratterizzate, emerge
con evidenza il tentativo inconsapevole di imitazione della voce genitoriale (quasi sempre la
madre), che tanto più colpisce in quanto implica la riproduzione di un modello non solo
vocale ma anche relazionale e comportamentale.
La voce cantata è anch’essa un elemento che rimanda a un’identità familiare, prima
ancora che culturale. Nella storia di chiunque ami cantare, dilettante o professionista, quasi
sempre c’è una figura affettiva legata all’infanzia, il cui canto ha accompagnato
piacevolmente la vita quotidiana o ha suscitato emozioni durature: un genitore, una nonna o
una maestra. Sappiamo bene che questo tipo di vissuto è ormai piuttosto raro e che i
modelli di canto familiari vengono sempre più frequentemente sostituiti dai modelli
mediatici e in età sempre più precoce. In ogni caso, l’incontro e il confronto, per
similitudine o per differenza, con voci “altre”, parlate o cantate, amate o odiate,
contribuisce a far sì che il bambino e poi l’adolescente crei un’immagine della propria voce
e trovi quindi una propria identità vocale, grazie alla quale poter essere riconosciuto e,
possibilmente, amato.
È noto che la fase della vita più critica da questo punto di vista è la pubertà, caratterizzata
da un generale processo di destabilizzazione fisica ed emotiva, al cui interno si colloca
anche la muta vocale. In quanto organo sessuale secondario, la laringe è soggetta, come
tutto il corpo, a cambiamenti nelle dimensioni e nelle proporzioni, che determinano,
soprattutto nei maschi, delle modifiche sostanziali del segnale acustico vocale. Al di là delle
sue ricadute sulla voce cantata (cfr. cap. 3.2), la muta vocale si configura come un processo
particolarmente delicato dal punto di vista psicologico per l’estrema fragilità emotiva che la
caratterizza, dovuta non solo alle “tempeste” ormonali in atto, ma anche alla minaccia che il
cambiamento di voce rappresenta per l’identità dell’adolescente, il quale, a volte nel giro di
poche settimane, si trova improvvisamente investito di un ruolo vocale da adulto in un corpo
e una psiche ancora immature. Da una parte quindi «la voce diventa una risorsa per la
nuova identità perché segnala all’adolescente e agli adulti di riferimento che le loro
interazioni comunicative possono perdere le caratteristiche ludico-protettive dell’infanzia e
tendere a instaurarsi secondo formati paritari di rispetto reciproco» (Asprella-Mininni 2000,
p. 47); dall’altra le ansie connesse al cambiamento, il percepire la nuova voce come anomala
e inadeguata, il timore di non essere accettati, possono determinare disturbi di ordine
psicologico e funzionale. Questi si manifestano come vere e proprie disfonie o come
atteggiamenti vocali inconsapevoli di rifiuto del cambiamento (muta con falsetto o muta
incompleta), che si traducono nel mantenimento delle caratteristiche vocali infantili (ibid.,
pp. 53-6).
L’aspetto identitario della voce si esprime anche nella caratterizzazione e distinzione degli
attributi vocali maschili e femminili, che si manifestano soprattutto attraverso l’uso dei
registri vocali (cfr. cap. 3.1.1). La voce di testa, acuta, sottile e delicata è considerata un
attributo femminile, mentre la voce di petto, corposa e profonda, è ritenuta indice di virilità.
A questo proposito Cadonici osserva che mentre da una parte il mondo dei mass media,
attraverso i cartoon e gli spot, banalizza le differenze attribuendo alle bambine voci
caramellose e accattivanti e ai maschietti voci aggressive e imperiose, dall’altra a livello
sociale l’impressione è che «la Voce femminile, come viene descritta nei manuali di
foniatria, sia morta […] Al posto della spiccata differenza tonale tra la Donna e l’Uomo nel
parlato, c’è un tentativo pressoché riuscito di livellamento; la Donna sta cercando di
arrivare a una parità tra i sessi anche nella Voce […] Voci acute e fragili sono diventate
tanto rare da poter essere considerate dei fossili vocali […] Sembra invece più probabile che
la Donna si stia costruendo una identità vocale più consona alla nuova identità
professionale, che la Donna parli da Uomo perché vive da Uomo» (Cadonici 2000, p. 144).
Che i problemi di identità vissuti a livello familiare e sociale si manifestino anche
attraverso la voce è comunque un dato di fatto, di cui è bene che l’educatore sia
consapevole, soprattutto quando si trova di fronte a persone che dichiarano di non amare la
propria voce, o di non riconoscersi in essa, cosa che avviene purtroppo abbastanza spesso.
Si dice in questi casi, un po’ superficialmente, che la persona ha difficoltà ad accettare la
propria voce e in buona fede l’educatore cerca di far diventare “bella” quella voce
proponendo un modello acusticamente interessante dal punto di vista estetico, nella
speranza che il soggetto in questione “accetti se stesso”. Il problema tuttavia non è così
semplice, e di fronte a un disamore dichiarato per la voce, che si accompagna spesso
(guarda caso!) a una gran voglia di cantare, possiamo intravedere forse la necessità e il
bisogno di ricomporre dei conflitti, di rileggere in qualche modo una storia personale, di
riascoltare dentro la propria voce quella di altre persone, amate oppure odiate. Ma noi
insegnanti non siamo né psicologi né terapeuti, e in situazioni di questo genere possiamo
forse solo chiederci se ciò che la persona di fronte a noi sta cercando è una “bella” voce
oppure la “propria” voce, e possiamo tentare di capire se, modificando gli equilibri vocali di
quella persona, riescono ad aprirsi nuove vie per una nuova percezione della voce. Possiamo
in altri termini, rinunciando alla rigidità di modelli standardizzati, lasciare che siano il
suono e la musica a mettere in contatto la persona con la “verità” della propria voce.
Se il bambino acquisisce a scuola il piacere per il canto e per la buona musica lo conserverà
per sempre.
É. Jaques-Dalcroze
A conclusione di questo capitolo, del quale è stata protagonista la funzionalità della voce
cantata e la sua complessa organizzazione, è necessario chiedersi dove in questo quadro si
collochi la musica. In quanto sistema linguistico e culturale, essa ovviamente interagisce
con la voce, ma in che modo?
Si è soliti dire che la voce, in quanto strumento, è al servizio della musica, ma è possibile
affermare, viceversa, che la musica può essere al servizio della voce, o meglio della funzione
vocale e del suo sviluppo?
Quando si ascolta una voce che esegue con particolare naturalezza un certo genere o stile
musicale, si dice che “sembra fatta per quella musica”, un’espressione forse molto più vera
di quanto si creda. La cosiddetta “predisposizione” di una voce verso un particolare tipo di
espressione cantata, è dovuta certamente a più fattori, che vanno dalla morfologia dello
“strumento”, cioè dell’apparato fono-articolatorio del soggetto, alle sue caratteristiche
psico-emotive, alle influenze dell’ambiente culturale. Elementi di natura fisica, psichica,
ambientale entrano costantemente in gioco nello sviluppo di una voce e interagiscono tra
loro. Ma chi può dire se è la particolare gestualità vocale di una persona, e quindi la sua
natura psicofisica, a determinare la scelta musicale, oppure se invece è l’orientamento
culturale, e quindi musicale, a modellare la voce facendo sì che essa si sviluppi in una
direzione piuttosto che in un altra? È cioè la tipologia vocale che determina lo stile musicale
o viceversa? La cosa in sé non ha molta importanza. Rimane il dato di fatto che quando una
voce esegue della musica che ama, o che riconosce come propria, la canta con più facilità,
poiché sembra che tutto – corpo, orecchio, respiro – si armonizzi naturalmente con essa.
Usando un’immagine di tipo acustico potremmo dire che quando la voce e la musica
“entrano in risonanza” per simpatia la gestualità vocale si autoregola molto più facilmente.
Esperienze particolarmente significative di incontro con la musica possono dar luogo a degli
inaspettati salti di qualità nello sviluppo vocale di uno studente, che, motivato e coinvolto a
livello emotivo e intellettivo (soprattutto nel caso degli adulti), riesce ad attingere a tutte le
sue risorse interne per dar vita a nuovi schemi di organizzazione vocale, incrementando così
le proprie abilità tecniche ed esecutive. Ovviamente può innescarsi anche il processo
opposto là dove si verifichi l’imposizione, conscia o inconscia, per via esterna o interna, di
modelli estetico-musicali interiormente non accettati. Quando la voce non riesce a “entrare
in risonanza” con la musica, fa fatica a trovare la sua autoregolazione, al punto che spesso
la persona, che pure ama tanto cantare, si convince di non averne i mezzi.
Queste considerazioni ci inducono a ritenere che nella pratica educativa sia fondamentale
prestare attenzione a due fattori: la qualità e la varietà della musica che si canta e che si
ascolta. Cantare della buona musica, qualunque sia il genere o lo stile, non è importante
solo per l’educazione del gusto estetico e per lo sviluppo del pensiero musicale, ma è
sicuramente anche un modo per favorire la funzionalità vocale. È un dato di fatto che
cantare della buona musica, ossia della musica ben scritta, oltre che ben pensata per lo
strumento vocale, è più facile che non cantare della cattiva musica. È come se, in un certo
senso, il livello dell’organizzazione ritmica, melodica, armonica della frase musicale si
traducesse in un analogo livello di organizzazione del sistema vocale. Nello stesso tempo la
pratica e l’ascolto di musiche di vario stile, genere, provenienza culturale forniscono
all’orecchio una molteplicità di stimoli e di conseguenza spronano la voce a confrontarsi con
modelli di organizzazione diversi, aiutandola così a trovare le forme di espressione musicale
nelle quali il suo potenziale può manifestarsi con maggiore pienezza. Insomma la musica
rappresenta un vero e proprio nutrimento per la funzione vocale e per il suo armonico
sviluppo.
Una “voce musicale”, se così posso definirla, è dunque una voce che da una parte
presenta tutte le caratteristiche di flessibilità, duttilità, ricchezza timbrica, necessarie per
fare musica ad ampio raggio, dall’altra è uno strumento sensibile, recettivo, libero di
reagire alle stimolazioni che la musica stessa offre, e quindi disponibile a crescere e
svilupparsi, lasciandosi “mettere in forma” dalla musica. È ovvio che la musicalità della voce
non è che il riflesso della musicalità globale della persona, è frutto cioè di una raffinata
sensibilità uditiva, capace di cogliere e apprezzare differenze e sfumature all’interno delle
componenti del linguaggio musicale, e di una mente aperta e disponibile nei confronti
dell’ambiente culturale. Da qui l’importanza che l’educazione vocale sia inserita nel
contesto di un più generale percorso di educazione musicale, fatto che se può dirsi
abbastanza scontato per quanto riguarda la scuola di base o le scuole di musica, forse non
lo è altrettanto per le esperienze che si svolgono in ambito corale.
Si ritiene in molti casi che l’emissione cantata abbia bisogno più che altro del supporto di
un’attività percettiva di discriminazione di altezze e durate, al punto tale che la formazione
vocale viene spesso quasi del tutto identificata con l’alfabetizzazione musicale, e quindi con
attività di lettura e intonazione di intervalli melodici e figure ritmiche, rischiando in questo
modo di sbilanciare l’educazione dell’orecchio e della voce verso aspetti quantitativi più che
qualitativi (cfr. cap. 2.2). È stata già sottolineata l’importanza di educare l’orecchio alla
percezione del suono soprattutto nelle sue qualità timbriche, poiché un orecchio che non ha
consapevolezza sonora non può aiutare lo strumento vocale a prendere forma. Allo stesso
modo una mente che concepisce la musica come frutto di semplici rapporti di altezza e
durata (questo è ciò che passa, ahimè, la pratica del solfeggio!) non può sostenere
adeguatamente lo sviluppo della gestualità vocale. Percorrere un’ottava cantando una
melodia non significa solo misurare distanze all’interno di uno spazio uditivo mentale, ma
implica la coscienza delle tensioni dinamiche attraverso le quali lo spazio sonoro può essere
percorso, ed è su questo dinamismo che la voce modella la propria motricità.
La voce ha dunque bisogno, per svilupparsi, del supporto di una musicalità globale, che
investa il corpo nella sua totalità. Come già sosteneva quasi un secolo fa Dalcroze,
un’educazione musicale vissuta attraverso il movimento corporeo educa la sensibilità
generale, grazie alla stimolazione del sistema nervoso, e potenzia quindi le sensazioni sia
corporee che uditive. La capacità del “senso muscolare”, come lo chiama Dalcroze, di
percepire sfumature di durata, intensità, velocità, di tensione e distensione (sensibilità
cinestetica) che si sviluppa educando musicalmente tutto il corpo, rende la motricità
globale, e di conseguenza quella vocale, più raffinata e capace di reagire prontamente alle
esigenze espressive dettate sia dalla musica sia dai bisogni comunicativi. La voce si avvale
dunque per il suo sviluppo di ogni aspetto dell’esperienza musicale.
Nel momento in cui si ipotizza un intervento educativo sulla voce per favorirne lo sviluppo
in senso musicale, la riflessione si sposta sul modello pedagogico da assumere come base
per la progettazione didattica. La complessità del modello funzionale della voce umana, così
come è stato delineato in questo capitolo, porta necessariamente verso un modello di
insegnamento/apprendimento anch’esso non lineare e basato su una complessa rete di
relazioni24. La didattica musicale, e quella strumentale in particolare, hanno iniziato a
confrontarsi con le tematiche psicopedagogiche connesse alle teorie sistemiche e alle teorie
della complessità, dando inizio a un dibattito che auspichiamo sia fecondo di sviluppi25. In
questa sede ritengo opportuno, più che affrontare queste tematiche a livello generale,
entrare direttamente in merito agli aspetti specifici della pedagogia vocale, esponendo in
forma schematica e sintetica alcune linee guida per l’educazione vocale, e cioè dei principi
generali, anche di carattere metodologico, che saranno poi ripresi nei capitoli seguenti,
dove troverà spazio l’esposizione dei vari aspetti e delle diverse problematiche della
didattica vocale.
Favorire i processi di auto-regolazione stimolando le interazioni tra gli elementi
del sistema vocale. La non prevedibilità dei tempi e dei modi di auto-organizzazione del
sistema vocale nello studente, dovuta al suo soggettivo interagire con più fattori
interni/esterni, fa sì che all’educatore spetti il compito non tanto di valutare la correttezza
del meccanismo di produzione sonora o di proporre un modello vocale da imitare, quanto
piuttosto di creare un contesto esperienziale che favorisca la conoscenza, e al cui interno
egli abbia cura di assumere anche il punto di vista dell’allievo. «Ciò significa chiedersi non
perché l’alunno sbaglia, ma perché ha ragione, cioè quali sono i presupposti da cui è partito,
quali i quadri concettuali e i riferimenti di valore che lo hanno guidato» (Freschi 2002, pp.
9-10). Certamente l’insegnante con il suo personale modo di porsi vocalmente rappresenta
di per sé un modello, e questa è già una forma di stimolazione e nello stesso tempo un
elemento di responsabilità, ma bisogna fare attenzione a non reprimere e soffocare altre
possibili forme di organizzazione vocale che possono comparire nello studente, e che
all’ascolto della qualità sonora si rivelano altrettanto funzionali. Rohmert sottolinea la
differenza tra l’insegnante “allenatore” che manipola la voce dell’allievo e il pedagogo che,
offrendo adeguate stimolazioni, favorisce la fusione e l’integrazione di tutte le componenti
della voce.
La stimolazione si basa su un modello di domanda/risposta. Nessun insegnante può sapere
esattamente quale elemento o quale livello abbia messo maggiormente in movimento all’interno del
“sistema-cantante”. Forse, in seguito a una proposta relativa al suono, ha modificato un movimento
corporeo abituale, o sollecitato una determinata emozione, scatenato una frustrazione o introdotto un
elemento di disturbo nell’ambito concettuale del cantante. […] Per l’insegnante l’essenziale è la
risposta, sotto forma di reazione nel suono e/o reazione nel corpo, reazione psichica, reazione verbale…
(Rohmert 1995, p. 54)
L’attenta valutazione delle risposte dello studente assume un particolare rilievo nel
processo di educazione della voce, data l’inaccessibilità visiva dell’organo vocale.
L’imposizione di modelli standardizzati, ad esempio di articolazione o di impostazione
faringea, comporta infatti il rischio di ostacolare lo studente nella ricerca del giusto
feedback sonoro attraverso cui regolare l’emissione. Inoltre,
[…] qualunque occasione in cui l’allievo possa valutare – sia sul piano emotivo sia su quello sensoriale
e motorio – non solo ciò che sta facendo, ma come si sente mentre lo fa, che cosa ha avvertito o pensato
quando non è riuscito a farlo o quando invece ha ritenuto di aver superato la difficoltà, rappresenta un
potente rinforzo della motivazione a continuare lo studio e ad approfondire i problemi. Sta
all’insegnante di volta in volta scegliere il mezzo più appropriato per sviluppare questa riflessione in
relazione all’età e allo stile cognitivo di ciascun allievo. (Freschi 2002, p. 8)
È dunque essenziale che allo studente vengano proposte esperienze attraverso le quali la
percezione diventi significativa e, come afferma Bateson, la percezione opera solo per
differenza. «Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di
differenza, e la percezione della differenza è sempre limitata da una soglia. Le differenze
troppo lievi o presentate troppo lentamente non sono percettibili: non offrono alimento alla
percezione» (Bateson 1984, p. 46). Mettere a confronto schemi d’azione diversi, opponendo,
ad esempio, due modi differenti di respirare o di articolare, per percepire il relativo
cambiamento nell’emissione sonora, è una modalità esplorativa che favorisce la creazione di
rappresentazioni mentali chiare e stabili, ovvero la consapevolezza del rapporto tra uno
schema d’azione e la qualità sonora corrispondente; ed è attraverso questa consapevolezza
che lo studente può operare ogni volta le scelte più funzionali alle sue esigenze espressive
ed esecutive. Infatti «l’allievo impara non ciò che noi gli diciamo di fare, ma ciò che egli
riesce a distinguere e assimilare nel contesto che insieme siamo riusciti a creare» (Pepicelli
2002, p. 70)
Dare sempre importanza alla dimensione comunicativa. Anche nei momenti in cui il
lavoro è concentrato su un problema tecnico, di emissione o articolazione, o su una
difficoltà d’intonazione, è importante non perdere di vista l’intenzione espressiva, l’unica
che può motivare davvero l’attivazione delle strategie necessarie per il superamento del
problema. Certamente anche lo sviluppo delle abilità tecnico-vocali può essere motivante in
sé: un vocalizzo, un esercizio può essere vissuto come gioco, e affrontare con successo le
piccole sfide della voce cantata genera soddisfazione e divertimento. Ma quando le difficoltà
si presentano all’interno di un brano cantato, indipendentemente dal livello di abilità
acquisito, le soluzioni più veloci e più durature nel tempo sono sempre quelle in cui la
ricerca tecnica viene guidata da quella espressiva. È importante che lo studente non
dimentichi mai che la voce è soprattutto un canale di comunicazione, e che cantare implica
anche la responsabilità, gioiosa, di trasmettere significati testuali musicali, e di condividere
impressioni, sensazioni ed emozioni personali.
Utilizzare nel lavoro educativo materiali musicali vari e di buona qualità. Ho già
esposto le mie personali convinzioni su questo argomento e non intendo dilungarmi oltre.
Mi limito a sottolineare che musica di qualità esiste all’interno di qualunque genere
musicale e a qualunque livello di complessità. Molto spesso si rischia di sottovalutare le
capacità di apprezzamento dei bambini, e si cade nell’equivoco di proporre musica banale
perché la si ritiene più facile e quindi più fattibile. Anche all’interno dei repertori più
elementari è possibile trovare brani “antimusicali” o banali così come, invece, brani di
buona qualità musicale. Altro problema è poi quello delle composizioni “anti-vocali”, cioè
non ben scritte per la voce o più specificatamente per la voce infantile e adolescenziale, che
non facilitano quindi le capacità esecutive.
Mi preme sottolineare che queste generali linee programmatiche sono del tutto
indipendenti dall’età e dal livello di competenza tecnica e musicale degli allievi cui è rivolto
l’intervento educativo. La vocalità, sia essa infantile o adulta, individuale o collettiva,
amatoriale o aspirante alla professionalità, ha bisogno di confrontarsi con la molteplicità
degli aspetti che il “fare musica con la voce” chiama in gioco, e chiede di essere rispettata e
guidata con la dovuta attenzione alle complesse relazioni che essa sottende. Un percorso di
educazione vocale che tenga ben presente la natura intrinseca della vocalità umana può
essere iniziato a qualunque età e in qualunque contesto, può svilupparsi con maggiore o
minore gradualità e velocità, può raggiungere mete più o meno ambiziose dal punto di vista
tecnico-musicale. La verifica della sua efficacia sta, oltre che nelle acquisizioni specifiche
vocali e musicali, nella misura del benessere che induce negli allievi, nella forza del legame
affettivo che riesce a instaurare in ognuno di essi con la propria voce e con la musica, nel
livello di curiosità e di fascino che riesce a risvegliare nei confronti della dimensione sonora
e musicale. In sintesi il suo valore sta nel contributo che riesce a portare al miglioramento
della qualità di vita dello studente.
A conclusione di questo capitolo il pensiero non può non andare alla voce dell’educatore.
È quasi superfluo dire che ogni insegnante deve avere un’esperienza personale in merito a
quanto propone, e che ha bisogno di rivedere costantemente non solo la propria didattica,
ma anche il rapporto con la propria voce, attraverso lo studio, la pratica esecutiva e
l’attività stessa di insegnamento, che gli offre la preziosa occasione di specchiarsi nelle voci
degli allievi e di maturare nella capacità di ascolto. Ritengo che ogni momento della
riflessione pedagogica possa sempre costituire uno stimolo a rimettersi in gioco e ripensare
la propria vocalità. In riferimento a quanto esposto precedentemente non credo sia
superfluo per l’insegnante chiedersi, ad esempio, con quanto benessere e piacere viva la
propria voce, parlata e cantata, se di essa ha una percezione chiara, tanto nella
comunicazione interpersonale quanto nell’espressione musicale, se valorizza
sufficientemente le proprie peculiarità vocali. Anche l’insegnante che ha ancora poca
esperienza vocale può apprendere molto di più sulla voce, e può quindi essere più efficace
nel proprio operare didattico, se non si fa prendere dal senso di inadeguatezza generato dal
confronto con i modelli estetici di origine mediatica, ma affronta con gioia e curiosità la
propria crescita vocale, vedendo i propri limiti come invitanti porte aperte verso
un’ulteriore conoscenza di se stesso.
In ogni caso la presenza della voce nella quotidianità comunicativa è tale da poter
affermare che non esiste momento della vita di relazione, non solo professionale, in cui un
educatore non possa imparare qualcosa a proposito della voce, ascoltando se stesso e gli
altri. È evidente che il lavoro sulla voce cantata richiede competenze specifiche che
comportano una formazione mirata, ma qualunque insegnante, pur con i suoi limiti, può
comunque contribuire all’attivazione di un processo di educazione vocale, anche solo
prestando un ascolto attento alla voce dello studente e dando valore al suo impegno
espressivo. È importante mantenere viva la consapevolezza che la voce è fatta soprattutto
per essere ascoltata. Anche un bambino sa rendersi conto perfettamente se l’interesse
prioritario di noi insegnanti è pesare e giudicare la sua voce, oppure ascoltarla davvero.
II • VOCE, ESPERIENZA, APPRENDIMENTO
Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.
Marcel Proust
L’inquadramento della vocalità cantata all’interno della visione sistemica ha portato, nella
prima parte del testo, a prospettare l’esigenza di una pedagogia attenta ai processi di
autoregolazione, e quindi orientata a creare le condizioni affinché la voce venga guidata
dall’ascolto, cioè da una recettività globale coordinata dall’orecchio e supportata da una
volontà “affettiva” di comunicazione.
Favorire i processi di autoregolazione vocale nella pratica educativa significa innanzitutto
aiutare lo studente a rimuovere gli ostacoli che possono impedirne l’attivazione, e non solo
quelli di carattere emotivo. Osserva, infatti, Feldenkrais: «Per lo più non riusciamo a
compiere esattamente quello che vogliamo, non tanto perché non sappiamo fare la cosa
essenziale, quanto piuttosto perché facciamo anche altre cose di cui non siamo consapevoli»
(ibid., p. 35). Nel caso della voce l’errore molto spesso non sta nel fare qualcosa di scorretto
ma nel fare troppo, ad esempio usare troppa pressione o coinvolgere troppa muscolatura, o
semplicemente mettere in atto troppa volontà di fare o troppo autocontrollo; tutte cose che
avvengono perché ognuno di noi ha una determinata percezione del proprio sé vocale e una
determinata idea di che cosa significhi respirare bene, cantare bene o ascoltare la propria
voce, il che è assolutamente inevitabile e legittimo. Il punto è, dunque, riuscire a
trasformare e ampliare questa percezione. Grazie alle esperienze e agli stimoli offerti dal
contesto educativo lo studente può allargare il suo orizzonte percettivo e con esso il campo
delle sue possibilità d’azione. Quando infatti nasce la tranquilla consapevolezza di poter
disporre di schemi d’azione alternativi, connessi a sensazioni di facilità e benessere
generale, l’allievo automaticamente abbandona i modelli meno funzionali e lascia cadere le
azioni “parassite” poiché arriva a valutarle, anche solo inconsciamente, del tutto inutili.
Di fatto ogni percorso di formazione strumentale è un costante cammino teso al
riconoscimento e alla conquista di ciò che è davvero essenziale, nella gestualità come
nell’espressione. Nel caso dello strumento vocale la necessità di configurare l’intervento
educativo, soprattutto nella sua fase iniziale, più come attività di “destrutturazione” che di
“impostazione”, nasce proprio dalle implicazioni psico-affettive che l’uso della voce
comporta, già ampiamente discusse nel precedente capitolo. Oggi sempre più precocemente
i comportamenti posturali, motori, respiratori, percettivi, comunicativi dei bambini vengono
condizionati da modelli socialmente condivisi ma non per questo sani. Nella voce si
scaricano costantemente tensioni, paure, insicurezze, che generano atteggiamenti fonatori
fisiologicamente squilibrati. L’educazione della voce viene quindi a delinearsi innanzitutto
come un percorso di “alleggerimento”, di liberazione da zavorre, da sovrastrutture generate
da abitudini comportamentali o da modelli di riferimento esterni, per fare in modo che il
corpo, attraverso la propria intelligenza, riconosca ed eventualmente riconquisti ciò che per
natura sa fare. Non si tratta di mitizzare la “voce naturale”, ma piuttosto di mirare
all’instaurarsi di condizioni minime di equilibrio sulla cui base la vocalità possa svilupparsi
armoniosamente. Del resto la naturalità di alcune belle voci è, per fortuna, un dato di fatto.
Queste voci, che definiamo dotate, e che in sostanza sono semplicemente e naturalmente
capaci di autoregolarsi, sono forse oggi più rare ma esistono, nei bambini come negli adulti.
Ciò non toglie che anche voci apparentemente meno dotate possano ugualmente
conquistare, attraverso un percorso educativo, la libertà e la naturalezza necessarie
innanzitutto per un’espressione facile e gioiosa di sé, e in seconda istanza per condividere
con altri il piacere del fare musica. L’educazione vocale di base è in questo senso il terreno
sul quale si pongono le fondamenta per tutte le future possibili “tecniche vocali”. Porre delle
tecniche specifiche su un terreno non ancora sgombro da inutili sovrastrutture, e quindi su
una voce che non possiede un proprio naturale equilibrio, comporta dei rischi molto alti,
non solo in termini di demotivazione dello studente, ma anche di salute della voce e
dell’orecchio.
L’equilibrio nella voce nasce, come abbiamo visto, dall’equilibrio tra tutte le funzioni
coinvolte nell’atto cantato, e quindi dalla qualità delle interazioni tra l’attività laringea e
l’attività respiratoria, uditiva, sensoriale e motoria supportate, ovviamente, dalle
motivazioni comunicative ed espressive. Compito dell’educazione vocale di base è quindi
creare un contesto attivo in cui lo studente possa sperimentare queste interazioni, nella
molteplicità delle loro forme, valutandole percettivamente ed emotivamente.
– In fase iniziale il gruppo offre un contesto protetto nel quale ogni individuo può lasciare
andare la propria voce senza sentirsi eccessivamente esposto e può gradualmente
familiarizzare con le proprie modalità fonatorie, prendendone coscienza.
– Il suono collettivo rappresenta per il singolo uno stimolo importante, in quanto energia
sonora capace di attivare i sensi, l’ascolto e le emozioni.
– Le voci si arricchiscono vicendevolmente grazie alla loro diversità e complementarietà.
Anche inconsciamente ogni singolo individuo capta nelle voci degli altri delle informazioni
preziose per se stesso e, grazie all’intelligenza del corpo, apprende per risonanza ciò che
gli è più utile.
– Il gruppo aiuta il singolo a pensare la propria voce in una dimensione spaziale e quindi
comunicativa. A tal fine è importante che nell’attività laboratoriale la disposizione del
gruppo nello spazio sia favorevole anche alla comunicazione visiva. Il cerchio è la
situazione migliore e prepara adeguatamente la disposizione a semicerchio più
comunemente utilizzata dai cori. È ovvio che nelle attività connesse al movimento ogni
uso dello spazio da parte del gruppo sarà funzionale al raggiungimento degli obiettivi che
l’attività proposta si pone.
– Nel gruppo possono realizzarsi delle esperienze di contatto fisico che aiutano a potenziare
la percezione di alcuni aspetti corporei relativi alla vocalità (ad esempio respirazione,
postura). Sarà naturalmente cura dell’insegnante proporre queste esperienze con la
dovuta attenzione in rapporto all’età degli studenti e alla situazione psico-emotiva del
momento.
– Mettendo a confronto, attraverso lo scambio verbale, le esperienze vissute, le scoperte e le
sensazioni, la percezione del singolo si focalizza più facilmente sugli aspetti evidenziati
dal lavoro e diventa più consapevole.
– In quanto “sistema sociale” il gruppo costituisce per gli studenti una preziosa opportunità
educativa, aiutandoli a comprendere che la qualità vocale e musicale di un insieme
dipende dalla qualità delle relazioni tra gli individui che lo compongono, a partire dalla
capacità di ascolto, in senso sonoro e musicale, nella quale si riflette il reale livello di
disponibilità di ognuno alla comunicazione e alla condivisione.
Possiamo dunque definire “laboratorio vocale” un contesto nel quale le singole voci,
attraverso il gioco, lo studio, la ricerca e l’esperienza sonora condivisa, apprendono insieme
e le une dalle altre. In concreto può essere laboratorio vocale uno spazio che il docente di
educazione musicale dedica periodicamente alla vocalità, oppure i momenti di studio e di
prova di un coro, o anche un ambito di formazione specifica all’interno di una scuola di
musica o di altri contesti socio-educativi. La dimensione laboratoriale non caratterizza
necessariamente solo la fase iniziale di approccio alla vocalità, ma può accompagnare
costantemente la crescita di un gruppo vocale o corale, indipendentemente dal livello di
competenze e di abilità tecnico-musicali acquisite. Il termine “laboratorio” descrive infatti
una situazione di studio collettivo improntata alla problematizzazione dell’esperienza, alla
ricerca, all’ascolto attivo, e quindi una condizione favorevole al maturare, nel gruppo e nel
singolo, di capacità valutative e autovalutative. È importante nella vita di un gruppo vocale
che non sia solo l’insegnante o il direttore di coro a valutare la qualità del prodotto
espressivo, ma che tutto il gruppo venga educato a essere, più che giudice, osservatore
consapevole del proprio operare sul piano vocale e musicale.
Non si tratta solo di conoscere e sviluppare la voce nei suoi aspetti parametrici, ma anche
di capire come metterla in relazione con il linguaggio musicale. Un accordo, una scala, una
frase melodica, un brano cantato possono essere semplicemente appresi ed eseguiti, oppure
“esplorati” attraverso la voce, e cioè percepiti attivamente e in profondità, valutati
qualitativamente ed emotivamente nelle loro varie possibilità realizzative, insomma ascoltati
e conosciuti davvero. Con il maturare del gruppo l’attività esplorativa avrà per oggetto
entità sempre più complesse: dalle libere espressioni vocali o dai semplici glissandi alle frasi
musicali con le loro caratteristiche melodiche, ritmiche e agogico-dinamiche; dal cluster,
frutto di emissioni vocali casuali, alle relazioni armoniche e contrappuntistiche tra le parti;
dai fonemi linguistici, “assaporati” come semplice materia sonora, alla parola cantata, ai
significati veicolati dal testo e dalla musica.
In quest’ottica si ricompone più facilmente la dicotomia spesso riscontrabile tra tecnica ed
espressione musicale, poiché dove si coltiva l’attitudine alla ricerca la tecnica acquista una
nuova valenza e diventa una modalità consapevole di attingere a tutte le necessarie risorse
– sensoriali, motorie, emotive, cognitive – sintonizzandole sulla stessa “frequenza”
espressiva. Del resto se si accetta l’idea che la voce è quella complessa entità descritta nella
prima parte di questo testo, diventa praticamente impossibile pensare la tecnica come
attività di puro allenamento motorio. Ciò non significa negare il valore dell’esercizio. La
voce senza dubbio si sviluppa e apprende grazie all’esperienza costante e alla ripetizione,
come ogni forma di gestualità strumentale. Il nemico subdolo, come ben sappiamo, è la
passività e la meccanicità. Ma in un’ottica di ricerca e di valorizzazione della musicalità
della voce, anche un vocalizzo può essere visto come una cellula melodica da “esplorare”:
può essere proposto non solo a diverse altezze, ma anche nelle sue possibili sfumature
timbriche e dinamiche, o con diverse “letture” emotive, oppure può essere ascoltato in modi
diversi (cfr. cap. 2.4). Così una frase melodica estratta da un testo cantato può essere
“esplorata” collettivamente, vocalizzandola con diverse sillabe, variandone il testo,
l’articolazione o l’altezza, facendola cantare da voci diverse per apprezzare le differenze
timbriche, o collocandola in un contesto armonico diverso. Attraverso il confronto – talvolta
intuitivo/globale, talvolta analitico – tra le differenti sensazioni corporee e uditive generate
dalle varianti sperimentate, la voce trova gradualmente le sue modalità più funzionali per
organizzarsi nell’espressione cantata.
Ogni attività di sperimentazione, produzione e ascolto ha bisogno, com’è noto, di un
supporto motivazionale. La dimensione sociale, la condivisione delle esperienze all’interno
del gruppo, è sicuramente uno dei fattori che maggiormente incentiva l’apprendimento,
come ben sanno i direttori delle corali infantili e adulte, ma non sempre è sufficiente a
sostenere la crescita qualitativa del lavoro. L’adulto può essere talvolta motivato anche da
una personale ricerca estetica o culturale, ma il bambino e l’adolescente hanno
particolarmente bisogno di essere conquistati attraverso il benessere delle sensazioni
vissute, il piacere delle scoperte, il fascino del suono, la significatività della musica.
Soprattutto con i bambini (ma non solo) il gioco svolge un ruolo fondamentale
nell’apprendimento. All’interno del laboratorio vocale esso può esplicarsi in tutte le sue
forme1, sostenendo pienamente lo sviluppo della consapevolezza vocale.
È stato già rilevato come il gioco senso-motorio, presente fin dal periodo neonatale nel
dialogo sonoro tra madre e bambino, sia alle radici stesse della nascita della coscienza
vocale. Esso può trovare nel contesto dell’educazione vocale di base il suo naturale luogo di
evoluzione, ed esplicarsi nelle attività di imitazione di voci e rumori, di esplorazione della
voce in rapporto al corpo e allo spazio, nella ricerca timbrica, contribuendo così a raffinare
le capacità percettive e la gestualità vocale dell’allievo. Il gioco esplorativo diventa ancor
più coinvolgente nel momento in cui si arricchisce della componente simbolica e affettiva,
poiché l’esperienza percettiva, attingendo energia dall’immaginazione e dalla fantasia, si
colora emotivamente e diventa così più pregnante e significativa. Associare a sensazioni
uditive e corporee immagini reali o fantastiche, fare affiorare corrispondenze sinestesiche
mettendo l’udito in relazione con altre percezioni sensoriali, è un modo per incentivare la
creatività del pensiero uditivo, per dare vitalità alla voce, ponendo le basi per un’attività
interpretativa/esecutiva consapevole. Il gioco di regole, infine, trova spazio nell’attività
laboratoriale ogni volta che il gruppo decide di dare una forma organizzata alla materia
vocale elaborando un progetto esecutivo o improvvisativo. La maggior parte delle attività
didattiche proposte in questo testo possono configurarsi soprattutto come giochi senso-
motori o simbolici. Infatti ciò che segna il confine, e quindi la differenza, tra un esercizio
tecnico e un gioco è la motivazione e il piacere che caratterizza l’esperienza, nonché il
contesto in cui essa viene inserita.
L’educatore è una componente attiva del “sistema-gruppo”. Dal suo reale interagire con
gli studenti dipende il crearsi di una situazione costruttiva in cui le esperienze proposte
abbiano un senso effettivo per tutti i componenti del gruppo. Più che un istruttore è un
facilitatore: deve cioè creare le condizioni affinché ogni studente abbia lo spazio e le
opportunità per porre in atto dei cambiamenti e acquisirne consapevolezza. Talvolta egli
può essere concretamente partecipe e non solo osservatore delle attività del gruppo,
soprattutto quando esse acquistano un carattere ludico. In ogni caso egli condivide
l’emozione delle scoperte, mettendosi realmente in gioco attraverso un impegno percettivo
e un ascolto sincero, motivato dal desiderio di conoscere i propri studenti e di acquisire
nuove conoscenze attraverso l’esperienza educativa. Le dinamiche laboratoriali e di gioco
fanno sì che nei momenti in cui l’educatore interagisce vocalmente con il gruppo, il suono
della sua voce offra stimolazioni e informazioni importanti agli studenti, senza tuttavia porsi
come modello da imitare e con il quale confrontarsi.
Gli strumenti di cui l’insegnante dispone nel relazionarsi con gli studenti sono
prevalentemente di natura verbale. Da una parte egli invita e guida gli studenti allo
svolgimento di attività di produzione o di ascolto, indicando gli elementi da mettere in gioco
e descrivendo il processo da attivare. In questo tipo di comunicazione è molto importante la
scelta dei termini linguistici. L’uso di verbi – meglio se al plurale (“facciamo”, “proviamo”,
“cerchiamo” ecc.) – che incitano a mettersi in gioco allontana dagli studenti il timore della
prova e del giudizio predisponendoli mentalmente a un atteggiamento di ricerca. La
preferenza per indicazioni che vanno più nella direzione del lasciar fare che del fare
(“lasciare che la mandibola cada”, “lasciare che l’aria entri”, “lasciare che il suono trovi lo
spazio” ecc.) aiuta l’allievo a trovare un migliore equilibrio tra l’agire e il percepire,
favorendo in lui i processi di autoregolazione vocale e limitando l’insorgere di azioni
muscolari superflue determinate da un eccesso di tensione nel fare. Dall’altra parte
l’insegnante sollecita gli studenti all’osservazione di sé e all’ascolto della voce attraverso
domande (di cui il lettore troverà numerosi esempi nelle pagine seguenti) che inducono a
portare l’attenzione su particolari aspetti del suono, su caratteristiche della voce o su
sensazioni propriocettive2. Nella misura in cui queste domande serviranno a favorire la
focalizzazione degli studenti sulle proprie sensazioni (ad esempio: «Vi sembra che la
respirazione sia più fluida rispetto a prima?») non necessiteranno sempre di risposte
esplicite: ogni studente dev’essere in grado di rispondere soprattutto a se stesso. È possibile
anche rimandare l’esplicitazione delle risposte a una fase conclusiva dell’esperienza, nella
quale, attraverso uno scambio verbale, verranno messe a confronto le sensazioni vissute da
ogni componente del gruppo.
[…] il fatto che persone diverse osservino e percepiscano cose diverse non significa affatto che esse
non possano intendersi in merito; esse sono invece spinte a scambiare le proprie opinioni. Il processo
cognitivo diviene quindi un processo collettivo – un aspetto importante per l’apprendimento […].
(Günter 1990, p. 68)
Al di là di ciò che il suono vocale degli studenti trasmette, il feedback verbale è comunque
sempre importante per l’insegnante, che da esso può desumere preziose informazioni sulle
modalità percettive degli studenti stessi.
I recenti studi nell’ambito delle neuroscienze ci dicono che la percezione è una
rappresentazione interna, soggettiva, degli eventi fisici, e dipende dalle informazioni che il
sistema nervoso trae dallo stimolo sensoriale, filtrandole sulla base della pregressa
esperienza del soggetto. Quando uno studente ci descrive le proprie sensazioni uditive o
corporee di fatto ci parla anche della storia del suo sviluppo psicomotorio e sensoriale. Ci
sono individui che, ad esempio, affermano di sentirsi perfettamente bilanciati nel loro
equilibrio posturale, mentre a noi è del tutto evidente che basterebbe toccarli con un dito
per farli cadere. Analogamente alcuni studenti affermano di percepire la propria bocca ben
aperta, mentre i loro denti sono praticamente serrati. Altri sostengono di sentire la propria
voce risuonare nella parte alta del tratto vocale, mentre il suono che ci arriva manda
informazioni del tutto diverse, o si dicono sicuri di pronunciare una “a” mentre noi sentiamo
una “o”. Del resto serve a poco far notare loro l’erronea percezione oppure forzarli al
cambiamento attraverso un’azione imposta dall’esterno, poiché questa non intaccherebbe
minimamente l’immagine che essi hanno di sé e della propria voce.
La percezione è insomma un atto interpretativo della realtà fisica, non un suo semplice
riflesso, e può essere modificata solo attraverso l’esperienza. Non possiamo pertanto dire a
uno studente come e cosa deve sentire, o meglio non possiamo giudicare la sua percezione
giusta o sbagliata, poiché non avrebbe senso. Possiamo soltanto prendere atto di ciò che lo
studente afferma di percepire in un dato momento, cercare di capire quali immagini egli
abbia di sé e della propria voce, e guidarlo attraverso l’esperienza operativa ad acquisire
nuovi parametri di valutazione del dato sensoriale. Le domande indagatrici che l’insegnante
pone non mirano quindi alla formulazione di giudizi in positivo o negativo, ma svolgono
essenzialmente la funzione di educare gli allievi a un ascolto attivo di sé stessi, della voce
propria e altrui. Nella dimensione collettiva l’osservazione del modo di reagire degli altri e
lo scambio verbale di impressioni relative alle esperienze vissute, rinforza percettivamente
ed emotivamente le sensazioni individuali, e nello stesso tempo aiuta il gruppo a maturare
come organismo collettivo.
Parlare di gestualità vocale significa parlare di motricità. Cantare è un atto motorio che
implica il coinvolgimento e la coordinazione di più gruppi muscolari. Il bambino, come
abbiamo già visto, fin dai primi mesi di vita è produttore di suoni vocali e attraverso
l’attività imitativa amplia progressivamente il suo repertorio di “schemi d’azione” vocali,
affinando nel contempo le sue capacità di controllo uditivo, così da mettere in relazione ogni
gesto vocale con un determinato prodotto sonoro. L’educazione al canto non è che il
proseguimento di questo processo di apprendimento che, inizialmente spontaneo, viene poi
guidato e indirizzato alla ricerca di una vocalità capace di farsi veicolo di espressione
musicale.
L’imitazione, sulla base di modelli prima familiari, poi educativi e culturali, costituisce il
meccanismo fondamentale per la formazione di schemi motori/vocali sempre nuovi. Il
desiderio o il bisogno di confrontarsi con questi modelli porta il bambino/ragazzo a
esplorare la voce, a sperimentare modalità di coordinamento muscolare e associazioni di
movimenti, diventando sempre più consapevole del modo in cui usa il corpo per la
produzione sonora, fino a che l’intenzionalità espressiva diventa la guida più importante per
l’organizzazione della gestualità vocale.
La strutturazione del gesto vocale implica un uso ad ampio raggio del potenziale
sensoriale. La ripetizione e variazione delle sequenze motorie, e il confronto tra le
sensazioni uditive, tattili e cinestetiche che da esse si generano, portano
all’interiorizzazione degli schemi d’azione sperimentati, dando luogo a rappresentazioni
mentali di modelli senso-motori che con il progredire dell’esperienza vengono
costantemente ampliati, chiariti e riorganizzati, e quindi utilizzati nell’attività esecutiva
(Sorbi 2002).
L’importanza che nella nostra educazione musicale tradizionale viene attribuita alla
correttezza dell’esecuzione ritmica e melodica, per quanto giustificata, rischia tuttavia
troppo spesso di far cadere in secondo piano la cura degli aspetti qualitativi del suono,
trascurando il fatto che l’orecchio per guidare la gestualità strumentale ha bisogno di
crearsi un immaginario timbrico-dinamico. Nel caso della voce cantata, in particolare,
questa necessità è del tutto prioritaria, poiché se la mente non è in grado di rappresentarsi
le qualità del suono vocale, se le immagini ad esso relative sono troppo poche o troppo
confuse, la costruzione dello strumento-voce risulterà difficoltosa, rendendo di riflesso
problematica l’attività vocale sotto molteplici aspetti, compresa l’intonazione. Bisogna
sempre tener presente che colui che canta è anche il costruttore dello strumento, ed è ovvio
che intonare bene è più facile se lo strumento è di buona qualità. Se quindi l’orecchio ha
chiare le qualità sonore che vuole sentire, la gestualità si organizza facilmente e senza
sprechi di energia, cioè si autoregola. Questo principio, che vale per qualunque gesto
strumentale, nel caso della voce acquista un rilievo particolare dal punto di vista didattico.
Se infatti l’organizzazione motoria di un allievo violinista o pianista può essere controllata
visivamente dall’insegnante e indirizzata anche attraverso indicazioni verbali (ad esempio
«Tieni il polso più basso» oppure «Articola di meno»), e lo studente stesso può modificare il
gesto intervenendo volontariamente sulla muscolatura, nel caso della voce tutto ciò è molto
più difficile. Le indicazioni verbali che un insegnante di canto può dare permettono di
intervenire parzialmente sulla muscolatura del tratto vocale o su quella estrinseca della
laringe, ma non su quella intrinseca, che risponde solamente a impulsi neurologici. È vero
che la voce prende forma soprattutto nel tratto vocale, dove si arricchisce di armonici, ma
non va trascurata l’importanza dell’attività muscolare intrinseca della laringe, da cui
dipende la qualità del suono originario (la formazione di un suono con un ricco spettro
armonico è strettamente connessa alla giusta adduzione delle corde vocali).
Tuttavia anche per quanto riguarda gli aggiustamenti del tratto vocale attuabili
volontariamente, bisogna tenere presente che si tratta di movimenti muscolari minimi e
spesso non visibili esteriormente (ad esempio, spostamenti piccolissimi della lingua possono
determinare grandi cambiamenti sonori), per cui la richiesta da parte dell’insegnante di
agire direttamente sulla muscolatura del tratto vocale, per modificarne la forma e
l’ampiezza, si confronta necessariamente con la soggettività delle caratteristiche
morfologiche del singolo studente; l’insegnante cioè non può conoscere a priori la misura e
l’entità di questi aggiustamenti (se, ad esempio, la bocca deve aprirsi di due o di quattro
centimetri, o il velo palatino alzarsi di tre o sei millimetri). A volte un esempio diretto può
essere più efficace non tanto perché offre un modello motorio («Ti faccio vedere come si
fa»), quanto perché lo studente può apprendere dall’insegnante “per risonanza”, dal
momento che in generale chi canta trasmette a chi ascolta le proprie sensazioni vibratorie e
cinestetiche.
Anche un bambino è in grado di riconoscere se la voce di chi canta sta risuonando più
nella testa, nel naso o nel petto. In ogni caso nell’esemplificare l’insegnante offre
un’immagine di suono, ed è il tentativo di riprodurre quell’immagine che spinge lo studente
alla ricerca di un gesto adeguato. Il rischio nel basare tutto solo sull’imitazione è che lo
studente si focalizzi più sul gesto che sul suono e che quindi faccia proprio il modello di
organizzazione motoria dell’insegnante (che non è necessariamente quello più funzionale
per lui) invece di cercarne uno personale. Lasciando invece spazio alla sperimentazione, al
“gioco” vocale, lo studente ha modo di confrontare schemi motori differenti e i relativi
risultati sonori e può, sempre guidato dall’insegnante, imparare a valutarli e metterli in
relazione, affinando contemporaneamente il suo orecchio timbrico e la sua motricità: ora è
un atto motorio che porta alla scoperta di un suono nuovo, ora è un’idea di suono che apre a
una nuova gestualità. È chiaro, naturalmente, che tanto prima l’orecchio dello studente sarà
in grado di riconoscere e valutare gli aspetti qualitativi del suono, tanto più facilmente la
sua gestualità vocale sarà capace di autoregolarsi.
Oltretutto non bisogna dimenticare che nel parlare di gesto vocale, e quindi di
organizzazione motoria, non si fa riferimento solo all’attività muscolare laringea e del tratto
vocale, ma anche alla motricità respiratoria, che è anch’essa fondamentalmente involontaria
e autoregolata. Come vedremo più avanti (cfr. cap. 2.3) è possibile, ma non sempre
opportuno dal punto di vista funzionale, intervenire attivamente sulla muscolatura
respiratoria. Anche il respiro, che è matrice del suono vocale nel canto, deve essere guidato
il più possibile da un’idea qualitativa del suono e dal senso musicale.
Se dunque l’educazione vocale consiste nell’attivazione di un circuito in cui il suono e il
gesto si arricchiscono vicendevolmente, quali strategie la mente può utilizzare per
alimentare questo circuito? E quali immagini mentali possono guidare la voce nella sua
ricerca qualitativa?
Da questi primi esempi risulta evidente che nel chiedere di sperimentare le due opposte
qualità tattili non si intende contrapporre una gestualità giusta a una sbagliata, ma
semplicemente stimolare attraverso il confronto la percezione di sé, e mettere in rapporto
ogni qualità e ogni gesto vocale con un particolare risultato sonoro. Quali reazioni e
acquisizioni può determinare un simile procedimento?
– Non è detto che la stessa immagine produca in tutti gli allievi gli stessi effetti. Per
qualcuno essa può risultare funzionale, aiutando a trovare una più efficiente gestualità
respiratoria o vocale, per altri potrebbe invece risultare non significativa o difficoltosa, e
questo dipende dalle caratteristiche psicofisiche del soggetto. Ad esempio l’idea di ruvido
può rivelarsi stimolante, nell’emissione o nell’articolazione consonantica, nel caso di una
persona tendenzialmente ipotonica, mentre l’idea di liscio nella respirazione può aiutare
coloro che tendono a una modalità forzata di inspirazione. È evidente dunque che le
stimolazioni offerte dall’insegnante devono essere varie e diversificate per far sì che ogni
allievo abbia l’opportunità di fare esperienze per lui significative, che inducano cioè delle
trasformazioni.
– Può essere utile talvolta enfatizzare delle sensazioni fino a farle diventare fastidiose,
chiedendo ad esempio di inspirare più ruvidamente a qualcuno che inconsapevolmente lo
fa già, così da rendere ancora più evidenti, per contrasto, gli effetti positivi generati
dall’idea opposta. A volte per mettere in atto un processo funzionale è necessario
sperimentare ed estremizzare il processo opposto, così che vengano colte più facilmente
le sensazioni negative ad esso connesse. L’intelligenza del corpo sceglierà sempre la
soluzione più funzionale, anche se non necessariamente alla prima esperienza.
– Il comune vissuto sensoriale permetterà all’insegnante o direttore di coro, in fase di lavoro
interpretativo di un brano, di chiedere ai cantori, ad esempio, un’emissione più ruvida in
funzione di un attacco del suono intenso, oppure un respiro più liscio in preparazione di
un attacco morbido. È importante che il vocabolario espressivo del direttore si basi su
un’esperienza condivisa.
Più astratto, ma possibile con i ragazzi più grandi, è il procedimento che vede proiettate le
immagini sensoriali direttamente sul suono o sul fraseggio musicale. Ad esempio:
• chiedere al gruppo di cantare immaginando che un unisono o un accordo sia ruvido può
stimolare la produzione di un suono più timbrato, cioè più ricco di armonici, poiché si va
a modificare inconsapevolmente la “grana” della voce (cfr. cap. 3.1.2);
• l’idea di ruvido o liscio nell’articolazione di una melodia può essere funzionale alla
ricerca di una differenziazione del legato.
È bene, inoltre, tenere presente che rispetto al suono l’immaginazione tende a operare in
modo gestaltico12. Nei bambini, in particolare, la cui percezione ha caratteristiche
globali/intuitive e non analitiche, il suono viene rappresentato mentalmente come
configurazione unitaria in cui i parametri non sono isolabili e scindibili. Delalande
richiamandosi alle ricerche di Shaeffer ricorda come le principali caratteristiche del suono,
comprensibili intuitivamente, siano la forma e la materia, ed è con questi parametri che
esso viene più frequentemente raffigurato dai bambini (Delalande 2004, p. 67). In alcune
delle mie esperienze didattiche il suono della voce è stato descritto, ad esempio, come una
sfera luminosa e pulsante che avvolge il corpo, oppure come un sottile filo d’argento che
esce dalla bocca, o anche come una materia elastica a cui le mani possono dare forma. Si
tratta di configurazioni complesse che rappresentano sinteticamente più fattori acustici del
suono e descrivono contemporaneamente più sensazioni relative allo spazio e al corpo,
cogliendo spesso più l’aspetto dinamico del suono che non le sue componenti fisiche.
L’immaginazione può intervenire su queste forme complesse modificandone parzialmente
le proprietà. Dietro sollecitazione dell’insegnante lo studente può immaginare, ad esempio,
che la materia elastica tra le mani diventi più morbida o più dura, che la sfera cambi la sua
intensità luminosa o pulsi più velocemente, che il filo diventi più spesso o muti la sua
sostanza materica. L’orecchio e la laringe reagiscono a questi cambiamenti di immagine e il
suono vocale si trasforma, attraverso un processo di autoregolazione alimentato dall’energia
emotiva. Si tratta in sostanza di fare in modo che la “tecnica” diventi un momento creativo,
e cioè che il gesto vocale possa utilizzare non solo le risorse motorie e cognitive ma anche
quelle intuitive e affettive, grazie alle quali, in particolar modo, la mente riesce a
rielaborare l’esperienza e a farla maturare interiormente.
[…] è evidente l’importanza che ha, sul piano dell’educazione alla creatività, la disposizione a
“interrogare” percettivamente il mondo, cioè la quantità di dati sensoriali, per cercare la “forma
migliore” in cui possono essere organizzati, a seconda delle tensioni operanti nel campo vitale. Per
quanto possa sembrare secondaria, quest’area può impegnare un’intensa attività educativa, dal
momento che l’abitudinarismo, anche a livello percettivo, è davvero logorante. (Mencarelli 1987, pp.
33-4)
Un altro livello sul quale l’immaginazione creativa può operare è quello della
visualizzazione e trasformazione mentale del movimento. Si tratta in questo caso di
immagini anticipatrici, possibili nel bambino, secondo Piaget, solo a partire dal periodo
delle operazioni concrete (7-8 anni). Queste permettono di modificare la qualità di un
movimento respiratorio, fonatorio o articolatorio, rendendolo più efficiente. Infatti, osserva
lo stesso Piaget, «dal punto di vista neurologico, l’evocazione interiore di un movimento
provoca le medesime onde elettriche, corticali (E.E.G.) o muscolari (E.M.G.), che
l’esecuzione materiale del movimento, ciò equivale a dire che la sua evocazione presuppone
un abbozzo di questo movimento» (Piaget-Inhelder 1970, p. 64). In effetti il procedimento
immaginativo può essere in molti casi più efficace dell’azione volontaria, dal momento che il
fare attivamente si trasforma spesso in un fare troppo e comporta quindi delle tensioni,
mentre il solo abbozzo del movimento, provocato dal pensiero, è sufficiente a indurre un
cambiamento significativo.
Si può pertanto immaginare, ad esempio, che nell’inspirazione le costole si allarghino
molto di più rispetto alla realtà o che il torace si espanda posteriormente, oppure che le
corde vocali si avvicinino tra loro durante l’emissione di un suono (può essere efficace
quando si avverte aria nella voce o quando si vuole ottenere un suono più forte senza usare
maggiore pressione). Su questa capacità creativa della mente si basano le tecniche di
visualizzazione utilizzate da molte discipline di rieducazione corporea, anche con fini
riabilitativi13.
Con i bambini più piccoli l’immaginario sensoriale apre invece le porte al fantastico,
all’invenzione di storie sonore, un campo di attività i cui limiti dipendono solo dal tempo che
ad esso si vuole dedicare. Come esempio e spunto propongo qualche incipit di storia da
sviluppare con i bambini, che può servire a stimolare l’esplorazione del tratto vocale, dal
momento che la voce ne è protagonista sia come struttura fisica sia come suono.
• La bocca è una caverna buia, vi soffia il vento che passa attraverso delle piccole
aperture nella roccia. Il vento giunge ora dall’alto, ora dal basso, ora debolissimo ora
violento. A un certo punto una piccola luce appare in fondo alla caverna e pian piano
diventa sempre più grande e splendente…
• La lingua è un pesce che dormicchia galleggiando sul fondo sabbioso dell’oceano (Che
tipo di pesce è? Che cosa fa? Com’è il rumore dell’oceano?). Delle correnti più fresche
cominciano ad arrivare e il pesce, disturbato…
Il gioco simbolico, il “far finta che” è un’attività sicuramente propria dell’infanzia; tuttavia
nel lavoro con la voce, facendo i dovuti aggiustamenti dettati dall’età e dalle caratteristiche
del soggetto, non solo diventa possibile ma direi anche auspicabile proporre ad adolescenti
e adulti attività di invenzione (anche se non vere e proprie storie) in cui l’evoluzione, il
movimento del suono vocale sia guidato dall’immaginazione. L’adulto tende infatti ad
analizzare costantemente la sua motricità, per controllarla, rischiando però di perdere il
senso più profondo del movimento, legato appunto alla dimensione affettiva. Del resto il
gioco simbolico, come sottolinea Delalande, contraddistingue l’attività del musicista
professionista non meno delle sue competenze tecniche e stilistiche. Con il maturare delle
capacità interpretative del cantore, la gestualità vocale ha sempre più bisogno di essere
guidata dalla dimensione simbolica e affettiva. È interessante a questo proposito il lavoro
della vocalista Gabriella Bartolomei, interprete e coautrice (con Bussotti, Sciarrino e altri)
di opere vocali, che imposta la preparazione del brano da eseguire su un puntuale lavoro di
carattere simbolico, producendo delle “scritture vocali”, con l’uso di segni, colori e forme,
che fanno da traccia per l’esecuzione14; l’eventuale ascolto della loro realizzazione sul
piano sonoro ed espressivo (CD10) può dare la misura di quanta ricchezza porti alla voce il
pensiero simbolico unito ad avanzate competenze tecnico-musicali.
Il rapporto fecondo tra la voce e l’immaginario sensoriale trova infatti il suo massimo
livello di esplicazione nel lavoro sulla parola cantata, dove il fonosimbolismo stesso del
linguaggio verbale (cfr. cap. 3.3.3) diventa base per l’attività interpretativa. Così il nostro
ipotetico allievo cantore che sia educato a utilizzare le sue risorse immaginative, quando nel
testo cantato incontrerà sillabe, parole o concetti che richiamano il ruvido o il liscio
(volendo utilizzare un’ultima volta la stessa categoria tattile), avrà la sensibilità e gli
strumenti necessari per permettere al suono di modellarsi direttamente sul senso del testo
poetico, senza passare da complicate operazioni intellettualistiche, poiché avrà imparato a
mettere la voce in rapporto diretto con l’intuizione e con il mondo simbolico interiore15.
Che sia prodotto con la voce o con uno strumento, è necessario imprimere al suono una
dinamica precisa e ritrovare nella qualità sonora la stessa qualità vitale che esiste in un
movimento spontaneo.
Per la sua matrice muscolare il gesto vocale è a tutti gli effetti un gesto corporeo, e in
quanto tale racchiude in sé ed è in grado di esprimere ogni pulsione vitale.
Nella primissima infanzia la comunicazione tra madre e bambino si realizza attraverso un
“dialogo tonico”, basato cioè sulle modulazioni del tono muscolare che si caricano di volta in
volta dei contenuti affettivi caratterizzanti la relazione, mentre le interazioni vocali tra il
bambino e i genitori vengono sempre accompagnate da gesti e ritmi corporei che esprimono
le stesse qualità dinamiche del movimento sonoro/vocale (ad esempio nel calmare il
bambino un’intonazione melodica discendente accompagna il gesto dell’accarezzare). Gesto
vocale e gesto corporeo nascono quindi da una stessa matrice comunicativa nella quale gli
aspetti sensoriale, motorio e affettivo sono strettamente connessi.
Alla base di queste prime esperienze di natura globale vi è la manifestazione di alcuni
caratteri di natura emotiva, definiti da Stern “affetti vitali”, cioè dei modi di sentire affettivi,
che possono essere espressi in termini dinamico-cinetici – come ad esempio gonfiarsi,
esplodere, decrescere, svanire, fluttuare ecc. – e che sono frutto di una percezione amodale
in base alla quale il bambino può trasferire il proprio “sentire”, e quindi le diverse qualità
affettive, da una modalità sensoriale all’altra (Buzzoni 2000, Imberty 2002). «Si può
ipotizzare – sostiene Buzzoni – che gli affetti vitali rappresentino una sorta di primo livello di
simbolizzazione di musica e danza» (Buzzoni 2000, p. 12). In effetti nelle dinamiche
muscolari del corpo che danza e della voce che canta si traducono e vengono simbolizzati gli
stati interiori di tensione, distensione, apertura, chiusura, sospensione, risoluzione e i
cambiamenti di stato in rapporto al tempo e all’intensità. La musica in generale con la sua
organizzazione temporale e dinamica è riflesso e manifestazione simbolica di questi stati
interiori e corporei (Imberty 1986).
Esiste a livello del quotidiano una gestualità vocale-corporea spontanea e molto
espressiva in senso emotivo, che ogni individuo tende a esaltare o inibire a seconda del
proprio carattere più o meno estroverso. Mi riferisco a tutti quei gesti vocali, di diversa
rilevanza acustica, ma dotati di grande efficacia comunicativa, come il grido, il lamento, il
sospiro, l’esplosione di rabbia, il pianto, il singhiozzo, la risata, la tosse, la raschiata di gola,
lo sbadiglio. Si tratta di emissioni vocali in prima istanza funzionali all’autoregolazione del
sistema neurovegetativo, poiché attraverso di esse la laringe, nella sua funzione sfinterica,
ristabilisce l’equilibrio pressorio dell’aria, laddove esso venga compromesso da alterazioni
dello stato emotivo o fisiologico. Tuttavia per la loro eloquenza comunicativa e la loro
pregnanza emotiva questi gesti sono stati inglobati nel vocabolario espressivo della vocalità
artistica musicale, che li ha utilizzati nella loro forma originale (in particolare nella musica
contemporanea), oppure trasformati in strutture melodiche che mantengono nel loro
carattere timbrico-dinamico la matrice del gesto originario. L’elemento più emblematico in
questo senso è il grido, musicalmente evocato da melodie cantate con forte intensità nelle
zone più acute dell’estensione.
In generale la vocalità cameristica del Novecento ha dato spazio a una gestualità vocale
fortemente connotata dal punto di vista emotivo. Uno degli esempi più noti e significativi è
certamente la Sequenza III di Luciano Berio per voce sola (CD1), che non solo include molti
dei gesti vocali quotidiani sopra elencati, ma presenta anche una quarantina di
“suggerimenti emotivi”, che devono guidare l’interprete femminile nell’enunciazione dei
frammenti testuali, come ad esempio affrettato, teso, sognante, impassibile, ansioso,
frenetico, tenero, gioioso16. La carica espressiva di questo tipo di gestualità vocale richiede
ovviamente una forte partecipazione corporea e mimica, che fa dell’interprete un vero e
proprio attore, e della performance una sorta di pièce teatrale (AA.VV. 1986). In effetti
molte composizioni vocali contemporanee sono al confine tra musica cameristica e teatro
musicale17. Diverso è naturalmente il discorso nella musica corale che, pur accogliendo una
vocalità alternativa a quella classica, e quindi sviluppando una gestualità vocale molto più
ampia, rimane soggetta ai vincoli dettati dalla dimensione collettiva.
Bisogna tenere presente che la modalità performativa tipica della nostra cultura, il fatto
cioè di cantare stando fermi e in molti casi con lo spartito in mano, implica soprattutto per i
bambini un grosso lavoro di astrazione, poiché tutta l’energia affettiva deve incanalarsi nel
suono e nella musica, in una dimensione cioè molto più astratta di quella corporea. Non è
un caso che nelle culture musicali tradizionali, meno intellettualizzate di quella occidentale
colta, la vocalità sia inscindibile dal movimento corporeo, a partire dal gospel, per questo
molto amato dai giovani. Anche i canti di lavoro di tradizione europea testimoniano come
nelle forme più istintive di espressione della vitalità umana gesto fisico ed emissione vocale
coesistano sempre e si rinforzino reciprocamente.
I bambini nelle attività di gioco della prima infanzia associano spontaneamente voce e
movimento, incanalando le loro energie contemporaneamente nel gesto corporeo e in quello
vocale, ma nel momento in cui, con l’inizio della vita scolastica, l’attività motoria spontanea
regredisce, anche l’espressione vocale, sempre più incentrata sul verbale, perde il contatto
con il corpo e le emozioni. Nel canto, inoltre, la focalizzazione sulle problematiche di ordine
tecnico, unita spesso all’opera di “de-musicalizzazione” del solfeggio parlato, fa sì che la
voce perda la sua innata capacità di aderire spontaneamente e immediatamente agli stati
emotivi interiori e si appiattisca in una modalità espressiva asettica e intellettualizzata.
Recuperare in ambito educativo l’associazione voce/movimento è talvolta l’unico modo per
porre nuovamente la voce in relazione con le energie affettive. La possibilità di esplorare,
contemporaneamente con il corpo e la voce, gli “affetti vitali” sottesi a una frase musicale
permette al bambino (ma anche all’adulto) di vivere con maggiore concretezza le sensazioni
cinestetiche relative e di interiorizzarle più facilmente. L’immagine cinestetica, carica di
valenze simboliche, acquista così maggiore forza e supporta con più efficacia l’espressione
musicale/vocale.
Torniamo così dunque al gioco simbolico, all’immaginare, al “far finta di essere…”, al
“sentire come se fossi…”. A proposito dell’attitudine immaginativo-mimetica dice Orazio
Costa18:
[…] il bambino per se stesso è spontaneamente disposto a divenire ciò che si propone di divenire;
qualche volta non se lo propone nemmeno, si trova di fronte alla realtà e risponde alla realtà. A un
livello più severo questa attitudine la potremmo chiamare la capacità istintiva che noi tutti possediamo
di adeguarci con opportune reazioni fisiche e persino mentali alla realtà che ci viene offerta. Non c’è
bisogno che ci obblighiamo, che ci costringiamo. Ponendoci all’aperto, davanti al mare, in montagna, in
un bosco, davanti a una cascata, sotto un cielo stellato, la nostra risposta è istintiva: diventiamo la
cosa. Ma non è che diventiamo soltanto nella nostra immaginazione interiore; qualche cosa nella nostra
attività muscolare si adegua all’immagine che abbiamo di fronte, “diventa!”, ci sentiamo effettivamente
diventare, qualche volta persino con un certo sgomento. (Boggio 2001, p. 71)
Nel gioco simbolico il corpo e la voce insieme possono diventare un oggetto in movimento
ed esprimerne le qualità cinestetico-affettive:
• Scegliamo con i ragazzi alcune parole che indicano cose o oggetti che nella loro vita
hanno una certa importanza e quindi un valore simbolico. La scelta sarà diversa
naturalmente a seconda delle età. Qualche esempio: il gatto, il motorino, la scuola, la
mia camera. Una volta scelta la parola ognuno propone un modo di cantarla, aiutandosi
se vuole anche con la gestualità corporea, in base all’immagine affettiva che ha
dell’oggetto e quindi alla qualità emotiva sollecitata dall’immagine stessa. Potrebbe
seguire un’improvvisazione vocale sui temi inventati.
• Chiediamo a ogni membro del gruppo (ragazzi o adulti) di inventare un movimento, con
tutto il corpo o solo con una parte di esso, che rappresenti simbolicamente il proprio
carattere o la propria personalità, associando a questo un modo di dire o di cantare il
proprio nome: una modalità giocosa o semiseria di presentare se stessi agli altri. Quando
tutti sono pronti ognuno mostra e fa ascoltare la propria invenzione. Il lavoro può essere
fatto anche in coppia, se lo si ritiene opportuno. Può seguire eventualmente una
performance collettiva, vocale e coreografica, formalizzata dal gruppo o improvvisata e
guidata da un direttore che combina estemporaneamente i gesti vocali-corporei di tutti i
partecipanti. Lavorare con i nomi degli studenti, sonorizzandoli, cantandoli e
coreografandoli è un’esperienza sempre molto bella e ricca di sorprese, ma richiede
estrema delicatezza, per la carica emotiva connessa all’enunciazione del nome. Da una
parte l’allievo è timoroso nel mettere in gioco la voce e il corpo insieme al nome, tutti
elementi forti della propria identità, ma ne è allo stesso tempo affascinato, come Narciso
che si specchia nello stagno. L’insegnante valuterà in ogni singola situazione come
meglio condurre l’esperienza.
Rispetto alla pratica del canto il fine a cui tende il lavoro qui esemplificato è quello di fare
in modo che la gestualità vocale sia capace di reagire con naturalezza e immediatezza sia
alle immagini suscitate dal testo cantato sia alle dinamiche di sviluppo della frase musicale.
È evidente che le caratteristiche del lavoro cambiano molto in base all’età. Propongo quindi
alcuni esempi differenti:
• Nel brano Sotto la luna di Tullio Visioli20, per coro all’unisono e pianoforte, adatto a
bambini del primo ciclo elementare, il compositore chiede espressamente che le
indicazioni dinamiche e agogiche nascano dalla lettura attenta e consapevole del testo
poetico, dal momento che il canto è strofico e quindi costituito da un’unica frase
melodica, molto semplice, che viene ripetuta più volte. Ogni strofa del testo poetico
presenta un’immagine diversa (una piuma leggera, la pioggia primaverile, il cielo
stellato ecc.).
Il brano, pensato proprio per favorire una ricerca espressiva da parte dei bambini, si
presta dunque a un lavoro di tipo mimico, come illustrato in precedenza, che potrà
portare a un’esecuzione in cui ogni strofa musicale abbia una sua precisa
caratterizzazione timbrico-dinamica e articolatoria (v. anche cap. 3.3.3). Ad esempio nel
punto in cui si passa repentinamente dalla forza del leone alla leggerezza della piuma
(es. 2) può essere interessante “studiare” davvero questa trasformazione con tutto il
corpo per far sì che il cambiamento non venga vissuto solo come un banale passaggio dal
forte al piano, ma come un vero cambiamento di stato fisico e quindi di “materialità”
sonora. Essendo il brano accompagnato da una parte pianistica, si suppone che il lavoro
di ricerca delle varianti espressive vada fatto insieme al pianista accompagnatore.
Es. 2. Tulli Visioli, Sotto la luna, batt. 16-23
L’intento didattico implicito nella proposta di un brano così costruito è chiarito dallo
stesso Visioli in altra sede:
[…] se si tratta di definire quando cantare forte o piano, quando inserire un crescendo o un
diminuendo, questo va fatto in relazione al preciso contesto del canto sul quale si sta lavorando, in
relazione alle differenti situazioni emozionali o al contenuto del testo. Non è corretto imporre delle
direzioni espressive se queste non sono motivate da una precisa necessità. Per il bambino, il contesto
musicale non ha una valenza immediatamente estetica, ma ha invece una valenza funzionale […] e
quindi, se si decide insieme di dare a un canto una direzione espressiva, questa deve essere giustificata
dal bisogno di imprimere maggiore impatto e chiarezza a ciò che si vuole comunicare. (Visioli 2004, p.
175)
L’indicazione del forte fin dall’inizio, unita a una struttura fraseologica frammentaria e
ripetitiva, rischia di portare il coro a una realizzazione musicale piatta e a un suono
forzato. L’immagine poetica viene in aiuto alla voce: il sole sorgendo incendia di rosso
l’orizzonte e il cielo chiaro. Come diceva Costa poco sopra, questa è una di quelle
immagini di fronte alle quali il nostro corpo reagisce spontaneamente: si apre, si
espande, si tonifica con l’intensificarsi della luce. Può essere questa la nostra chiave di
studio con il coro. Proponiamo ai cantori di vivere il processo di espansione della luce
con il movimento corporeo e insieme con la voce, facendo in modo che esso inizi con le
prime battute del pianoforte e si concluda sulla parola rougeoie (rosseggia). La dinamica
di questo processo deve svilupparsi gradualmente per tutta la frase senza interruzioni,
tanto più laddove le durate sono lunghe e la melodia sembra fermarsi (batt. 6 e 8).
Questo aiuterà innanzitutto a percepire la frase come un’unica arcata, e il suono, pur
rimanendo “intenso” cambierà la sua qualità nel corso della frase, aumentando la sua
brillantezza con il diffondersi del colore rosso e con il suo espandersi sull’orizzonte. La
forza della “luce che incendia” non può essere la stessa forza del “leone” (mi riferisco
all’esempio precedente), e l’energia del corpo che si apre ed emana calore non è quella
del corpo che aggredisce.
Gli esempi in questo senso sono ovviamente infiniti, anzi possiamo dire che non c’è brano,
sacro o profano, che non possa essere studiato anche attraverso questa modalità.
Naturalmente ci sono brani che si prestano maggiormente e che, soprattutto nel contesto
didattico, sono preziosi proprio per il loro valore formativo. Ad esempio alcuni degli Haiku
di Victor Flusser21 si prestano molto bene per attività di drammatizzazione o
“coreografizzazione” in quanto sintetiche immagini poetiche (come sono appunto gli Haiku
per definizione) e quindi dei veri e propri stati emotivi “fotografati” dal suono nel giro di
pochi istanti. Le soluzioni sonore proposte dal compositore (scelta di particolari fonemi e
modalità di emissione), legate strettamente al testo, aiutano naturalmente a ricostruire lo
stato affettivo evocato dalla poesia. Non potendo qui riportare interamente i brani mi limito
ad alcuni esempi, nei quali la stessa scrittura musicale di tipo analogico è ricca di
suggestioni emotive.
– L’immobilità del mare ghiacciato all’alba in Aube, souffle des baleines, mer glacée (es. 4).
Es. 4. Victor Flusser, Aube (da Haiku, frammento)
– Lo stupore all’ascolto del cu-cù nel silenzio notturno in Hé! C’est la lune qui ha chanté cou
cou? (es. 5).
Es. 5. Victor Flusser, Hé! C’est la lune (da Haiku, frammento)
La voce, prima di manifestarsi ed essere percepita, è quasi dissimulata nel silenzio del corpo. Il
corpo è la sua matrice; in ogni istante essa può nascere, ma, contrariamente a noi, in ogni
istante può ritornare a tale matrice, e ritrovarvi l’energia per una vita ulteriore. Sicché, a
prestarle ascolto, l’orecchio accorto sente risuonare in essa una sorta di respiro prenatale,
l’eco attutita di una profondità inimmaginabile ove nessuna rottura separa ancora le parti
dell’essere.
Il corpo è strumento della voce, sia perché nella sua totalità costituisce il mezzo
attraverso cui l’uomo stabilisce una relazione sonora con l’ambiente, sia perché offre la
materia grazie alla quale prende forma lo strumento musicale vero e proprio. Come
abbiamo visto nella prima parte del testo, il corpo è coinvolto totalmente nell’atto cantato e
la gestualità vocale è frutto di una complessa organizzazione motoria che implica il
coordinamento di più gruppi muscolari e di più funzioni.
Il lavoro sul corpo e attraverso il corpo nel contesto dell’educazione vocale dovrebbe
essere finalizzato innanzitutto a incentivare lo sviluppo della consapevolezza corporea,
ponendo attraverso di essa le basi per l’evolversi di una motricità raffinata e ben coordinata,
capace di dare espressione al pensiero musicale e alle emozioni ad esso correlate. In
particolar modo nell’età evolutiva la consapevolezza corporea non è semplicemente un
requisito per il formarsi della gestualità vocale, ma ha un suo valore autonomo, tale da
motivare e giustificare l’inserimento dell’educazione vocale nel contesto educativo.
Il canto, infatti, implicando l’attivazione della muscolatura fono-articolatoria, respiratoria
e posturale, comporta il risveglio di un’ampia sensibilità corporea, di natura soprattutto
cinestetica e tattile, e quindi lo sviluppo di quella facoltà propriocettiva, che Oliver Sacks
definisce “sesto senso”, indispensabile per acquisire coscienza di sé, poiché grazie ad essa
«noi avvertiamo il nostro corpo come veramente nostro» (Sacks 1986, p. 69). Per questo
motivo il canto nell’infanzia può dare, insieme ad altre esperienze motorie e sensoriali, un
importante contributo al formarsi dello schema corporeo22, mentre nel caso dell’adulto può
costituire una preziosa opportunità per vivacizzare la coscienza della dimensione corporea,
spesso offuscata da un eccesso di intellettualismo. Il corpo che canta è un corpo che si
ascolta.
D’altra parte anche il coordinamento pneumo-fono-articolatorio messo in atto nel canto,
grazie all’alto grado di differenziazione muscolare e motoria che comporta (cfr. cap. 1.3), fa
sì che la pratica vocale possa inserirsi a pieno titolo, quale fattore d’incremento, nel
processo di sviluppo psicomotorio dell’individuo. Un lavoro di natura corporea connesso alle
pratiche vocali può dunque contribuire a:
• Nelle situazioni in cui ci sembra che il suono sia particolarmente “stanco” e non
abbiamo molto tempo per attivare il corpo, possiamo proporre agli studenti di cantare
ponendo a contatto le due mani attraverso il palmo con i gomiti aperti e sollevati (come
nel saluto di tipo orientale), in modo da poterle spingere leggermente l’una contro
l’altra. Questo piccolissimo movimento, di tipo isometrico, sarà sufficiente a innalzare la
tonicità del corpo. Un’esperienza analoga si può fare a coppie, ponendosi l’uno di fronte
all’altro e spingendo leggermente le mani contro quelle del compagno.
Va infatti considerato che gran parte della muscolatura antigravitaria, quella cioè che
tiene eretto il corpo, e che è collocata nella parte dorsale del corpo, è coinvolta anche
nell’attività respiratoria e nella mobilità del collo, per cui ogni forma di tensione in questa
muscolatura compromette la gestualità vocale. Un lavoro sulla postura implica pertanto in
primo luogo un’attenzione rivolta alla colonna vertebrale e al suo allineamento con la testa
e il bacino, per fare in modo che il corpo, trovando il suo baricentro, scarichi il peso in modo
equilibrato, e la muscolatura antigravitaria, grazie al bilanciamento delle tensioni
muscolari, lavori senza aggravio di fatica.
Il lavoro di riequilibrio posturale è complesso e sono numerose le tecniche specifiche che
lo affrontano, per cui rimando necessariamente ad esse per una conoscenza più
approfondita dell’argomento24, limitandomi a mettere in evidenza solo alcuni aspetti che
dovrebbero essere oggetto di particolare attenzione e cura da parte dell’insegnante. Non è
di poco conto il fatto che l’attività esecutiva del cantore si svolga in piedi e quella di
esercitazione corale quasi sempre a sedere; in ogni caso si tratta di posizioni statiche e
quindi non facili da mantenere a lungo, a meno che, appunto, non si riesca a guadagnare un
buon equilibrio posturale.
La dinamicità posturale implica in prima istanza che le articolazioni di tutto il corpo siano
sciolte e disponibili al movimento, in particolare quelle delle ginocchia, del bacino
(articolazione dell’anca) e della testa (vertebre cervicali). È importante quindi che non si
instaurino atteggiamenti di fissità articolatoria, come avviene ad esempio quando si sta in
piedi con le ginocchia iperestese, bloccando il bacino e sbilanciando il peso il avanti. Sia in
piedi sia seduti è importante che l’articolazione dell’anca sia libera di muoversi, anche per
assecondare i movimenti respiratori (cfr. cap. 2.3.2). Un’attenzione particolare richiede poi
l’articolazione della mandibola, responsabile sotto molti punti di vista della funzionalità
della voce cantata, ma è bene tenere presente che anche la sua scioltezza dipende dalla
postura e dalla mobilità della colonna vertebrale. Nel lavoro sulla flessibilità, a qualunque
articolazione del corpo si lavori (testa, colonna vertebrale, bacino, gambe) è bene
privilegiare il più possibile movimenti piccoli e leggeri, poiché questi non solo arrivano in
profondità quanto e più dei movimenti molto ampi, ma soprattutto educano il corpo a quella
motricità fine che è nostro interesse sviluppare. Ad esempio:
• In piedi o seduti. Immaginiamo che il nostro cranio sia appoggiato sopra una piccola
sfera e che in cima alla testa, più o meno dove c’è la fontanella (punto di sutura tra
l’osso frontale e le due ossa parietali), sia collocata la punta di una matita. Con questa
iniziamo a disegnare sul soffitto un piccolissimo cerchio che un po’ alla volta si allarga
ma senza mai diventare troppo grande. A un certo punto cominciamo a stringere il
cerchio fino a farlo diventare di nuovo molto piccolo. Facciamo la stessa cosa ruotando la
testa e disegnando il cerchio nel senso opposto. Alla fine, possiamo dire in quale senso il
movimento di rotazione era più fluido? Il cerchio si allargava facilmente in entrambe le
direzioni? La stessa cosa può essere proposta disegnando un cerchio con la punta del
naso su di una parete immaginaria posta davanti al viso.
• I movimenti e le andature degli animali sono fonte inesauribile di modelli da imitare per
esercitarsi al rilassamento e alla flessibilità articolatoria: simulare un serpente che
striscia sul pavimento mobilita tutta la colonna vertebrale, così come imitare il gatto che
facendo le fusa si fa accarezzare dalla mano del padrone (si può giocare a coppie: uno è
il gatto, l’altro il padrone), mentre lo scimpanzé che cammina goffamente induce a
rilassare spalle e ginocchia.
• Gioco della marionetta. A coppie, un bambino finge di sollevare una parte del corpo del
compagno attraverso un filo immaginario legato a un’articolazione (gomito, polso,
ginocchio ecc.) e poi la lascia ricadere il più lentamente possibile. I movimenti lenti sono
molto difficili anche per gli adulti, ma estremamente utili per la consapevolezza
corporea.
• In piedi o seduti, con le braccia appese lungo i fianchi. Immaginiamo che la testa sia
piena di sabbia come quella di una bambola di pezza, e che a un certo punto la sabbia
cominci a scendere lungo le braccia e lungo la schiena, e poi lungo le gambe fino a
riempire la sedia e il pavimento. Analoga immagine è quella di essere un vestito bagnato
appeso a una gruccia: l’acqua gocciola lungo le braccia e la schiena, finché, diventando
asciutto, il vestito comincia a ondeggiare leggero nel vento.
• In piedi con le gambe leggermente divaricate fino alla larghezza del bacino, le ginocchia
rilassate e i piedi paralleli, a occhi chiusi se può aiutare, passiamo in rassegna il corpo
partendo dall’alto e chiediamoci: la testa è appoggiata tranquillamente sul collo? Si fida
di lui? E il collo, come sta appoggiato sulle spalle? Facciamo dei piccoli movimenti di
aggiustamento se necessario. E poi continuiamo scendendo. Il torace si fida del bacino?
E il bacino delle gambe? Proviamo rilassando i muscoli della pancia e i glutei. La
sensazione è migliore o peggiore? Che cosa cambia se spostiamo il peso del corpo più
indietro oppure rilassiamo un po’ di più le ginocchia? E infine le gambe si fidano dei
piedi? Sentiamo tutta la pianta del piede nello stesso modo? Alla fine dell’esperienza
attraverso uno scambio verbale nel gruppo ognuno potrà dire quali sono le parti del
corpo più affidabili e quali meno. Collegare la postura a una sensazione di fiducia è
importante: chi canta deve fidarsi del proprio corpo e di ciò che esso sente. Inoltre
fidarsi del corpo è già un buon modo di fidarsi di se stessi.
• Accompagnando tutto il movimento con un’espirazione, rilassiamo tutte le articolazioni
(collo, spalle, colonna vertebrale, anche, ginocchia, caviglie), e partendo dalla testa
lasciamo che tutto il corpo si ripieghi su se stesso, come arrotolandosi, avvicinando
quindi il torace alle cosce. Sentiamo che il peso sui piedi aumenta sempre più e che è
distribuito su tutta la pianta. Senza andare troppo giù, ci fermiamo un po’ respirando
liberamente. Quindi di nuovo espirando facciamo il percorso opposto di “srotolamento”
usando una leggera spinta della pianta dei piedi: possiamo avvertire che più i piedi
affondano nel pavimento più il corpo si raddrizza facilmente. La testa sarà l’ultimo
segmento che si riallinea con la colonna. Rifacendo l’esperienza possiamo provare nella
seconda parte del percorso ad associare al movimento ascendente del corpo
un’inspirazione al posto dell’espirazione. Che cosa cambia? È più facile venire su
espirando o inspirando? È possibile proporre un’esperienza analoga stando seduti: sarà
così ancora più chiara la funzione dell’appoggio dei piedi al suolo.
• Chiediamo agli studenti di appoggiare i polpastrelli dell’indice e del medio delle due
mani sulle articolazioni temporo-mandibolari, all’incirca davanti al lobo delle due
orecchie, e di aprire la bocca come per prepararsi a ingoiare un cucchiaio di minestra.
Che tipo di movimento fa l’articolazione? Se invece lasciamo che la bocca si apra da sola
– come in un gesto un po’ ebete di meraviglia quando si è sorpresi da una visione
piacevole – che cosa sentiamo sotto le dita? L’articolazione si muove in un modo diverso?
Possiamo sperimentare lo stesso percorso aggiungendo un elemento: mettiamo i pollici
delle due mani sotto il mento, a contatto con il pavimento della bocca, e sentiamo come
reagisce questo muscolo alle due modalità di apertura. In quale rimane più morbido? Si
può provare ad associare l’emissione di un suono lungo a ognuna delle due modalità. In
quale situazione l’emissione è più facile? Come cambia il suono dall’una all’altra?
Possiamo provocare il rilassamento della mandibola anche chiedendo di immaginare che
l’articolazione temporo-mandibolare sia fatta di gelatina, invece che di cartilagini e
legamenti (i polpastrelli delle mani devono sentire con l’immaginazione la consistenza
della gelatina). Una volta che le sensazioni di rilassamento mandibolare sono state
sufficientemente interiorizzate, si può proporre di cantare una melodia conosciuta
sostituendo a tutte le sillabe del testo la sillaba “ja”, lasciando quindi che ad ogni suono
e ad ogni “ja” la mandibola cada verso il basso.
L’affidarsi alla parte posteriore del corpo, usando bene la colonna vertebrale e facendo
lavorare correttamente la muscolatura antigravitaria, è molto importante per una migliore
funzionalità dei diaframmi e quindi per la libertà del respiro e della voce.
La spina dorsale è il contesto in cui si inseriscono le strutture implicate nel canto poiché esse si
collocano lungo l’intera lunghezza della colonna che supporta il peso, e al di là di essa. La faringe orale
e quella laringea si trovano proprio davanti alle vertebre cervicali; la metà posteriore di ogni polmone
giace lungo la nostra colonna; il diaframma si àncora saldamente alle vertebre lombari e la
muscolatura pelvica profonda che è in continuità con la base del diaframma si apre a ventaglio dalla
zona lombare. È come se le strutture del canto si raccogliessero il più vicino possibile alla spina dorsale
che le supporta in ogni punto della sua lunghezza. I cantori devono visualizzare le loro strutture del
canto in relazione alla colonna vertebrale e non indipendentemente da essa. (Conable 2000, p. 40)
Altrettanto importante è che si sviluppi una chiara percezione del baricentro corporeo e la
consapevolezza del bacino come zona focale del corpo, cardine, generatore e propulsore di
energia sia per il movimento corporeo sia per l’attività respiratoria25. Affidare alla parte
bassa del corpo le responsabilità maggiori per quanto riguarda gli adattamenti posturali e la
respirazione significa sollevare da un notevole carico di lavoro la parte alta (spalle, collo),
lasciando libera la muscolatura extralaringea di rispondere alle necessità dettate dalla
organizzazione fonatoria.
Fosco Corti
Il respiro è l’anima della voce, è l’energia vitale che si trasforma in suono. Ritmo del
respiro e ritmo della frase musicale si modellano vicendevolmente in un gioco dinamico che
coinvolge come in una danza tutto il corpo. Il modo di respirare è fondamentale nel canto
non solo per una buona funzionalità laringea, ma anche per l’esplicarsi della musicalità
della voce. La qualità del respiro influisce sulla qualità del suono, sulle modalità di attacco
di una frase e sul modo in cui essa si sviluppa e prende forma nel tempo. Il respiro, come la
musica, scandisce e articola il tempo. L’inspiro e l’espiro, i rapporti di tensione/distensione
muscolare ad essi collegati, prefigurano l’arsi (il levare) e la tesi (il battere) della metrica
musicale e le relazioni dinamiche all’interno della frase musicale. Per questo imparare ad
ascoltare il respiro è già un modo di educare alla musicalità.
Introducendo questo capitolo ho sottolineato come un intervento educativo di base sulla
voce debba partire dallo smantellamento di tutto ciò che può essere di ostacolo ai processi
di autoregolazione vocale. La respirazione è forse uno degli ambiti di lavoro che più
necessita di questo tipo di approccio. Un individuo, bambino o adulto che sia, non ha
bisogno tanto di imparare a respirare, visto che lo fa naturalmente dalla nascita, quanto
piuttosto di diventare consapevole del suo essere un corpo che respira, e di lasciare che
questa natura ritmica e pulsante sia libera di manifestarsi e di mettersi a disposizione della
musica. Il lavoro dovrebbe quindi essere orientato prevalentemente a rimuovere i fattori
che ostacolano una respirazione naturale ed equilibrata, e a coordinarla con l’emissione. Un
eccesso di enfasi sul controllo attivo della respirazione, e quindi sulla muscolatura
respiratoria, rischia di generare dei circoli viziosi in cui la voce e il respiro, invece di
interagire, si ostacolano vicendevolmente.
La respirazione è un’attività vegetativa e dunque involontaria, ma è anche l’unica
funzione vegetativa che può essere condizionata da un intervento volontario. Nella
respirazione naturale le fasi di inspiro ed espiro sono, salvo problemi soggettivi, abbastanza
equilibrate. Nel canto la regolarità del ciclo si spezza, dal momento che la durata dell’espiro
coincide con quella della frase musicale, e diventa quindi molto più lunga dell’inspiro. Ciò fa
sì che dove esiste già una respirazione poco equilibrata o compromessa da tensioni
muscolari, nascano delle difficoltà a livello di emissione. Una delle lamentele più comuni nei
cantori alle prime armi è: «Non ho abbastanza fiato!». La reazione istintiva a questa
difficoltà consiste nell’agire direttamente sulla muscolatura inspiratoria, nel tentativo di
aumentare la quantità d’aria immagazzinata, o sulla muscolatura espiratoria, con l’idea di
sostenere la spinta dell’aria durante l’emissione; ma entrambe le soluzioni si rivelano
solitamente inefficaci. L’idea che per cantare serva molta aria o molta spinta dell’aria è non
solo errata ma produce spesso effetti deleteri. Ciò non significa che la sensazione di
mancanza di fiato sia falsa o infondata, il punto è come interpretare il dato percettivo e
come affrontare il problema.
In realtà il corpo conosce la respirazione più funzionale, naturalmente ampia e profonda,
cioè quella che avviene durante il sonno o in uno stato di veglia normalmente rilassato. Si
tratta della respirazione definita toracico-diaframmatica o costo-diaframmatica. In essa il
diaframma contraendosi si abbassa nella inspirazione, provocando anche un leggero
innalzamento delle ultime costole toraciche (costole fluttuanti), per poi decontrarsi e risalire
nella fase espiratoria, per reazione elastica. L’abbassamento del diaframma, creando bassa
pressione nella cassa toracica, fa sì che l’aria venga immessa naturalmente nei polmoni
senza che nessun’altra muscolatura venga attivata. Il processo inspiratorio si manifesta
all’esterno come leggera espansione della parte inferiore della cassa toracica e dell’addome,
mentre la parte alta del torace e le spalle mantengono una tranquilla rilassatezza. Questo
tipo di respirazione viene alterata fisiologicamente, per necessità funzionali (ad esempio
attività sportive) o a causa di stress psichici (ansia, forti emozioni ecc.). Sebbene per molti
non sia affatto spontanea né scontata, la respirazione costo-diaframmatica nel canto si
prospetta come la più funzionale in quanto economica sotto ogni punto di vista. Laddove
essa è libera di esplicarsi, le sue fasi si adeguano spontaneamente e senza particolari
problemi ai ritmi dettati dal fraseggio musicale, e fintantoché il canto si muove in
un’estensione vocale contenuta non è necessario un intervento attivo sulla muscolatura, ma
è sufficiente che una buona tonicità generale supporti la respirazione affinché la voce sia
adeguatamente sostenuta. Un’attività corale amatoriale che non affronti repertori
particolarmente impegnativi, dal punto di vista vocale, può avvalersi tranquillamente di una
corretta ma naturale respirazione costo-diaframmatica. In ogni caso questa costituisce la
base per l’eventuale successiva acquisizione di tecniche di supporto all’emissione – come
l’appoggio o il sostegno – che implicano una manipolazione diretta della muscolatura
respiratoria. Si tratta infatti di tecniche utilizzate soprattutto nel canto lirico, finalizzate al
potenziamento del suono e al suo supporto nelle zone estreme dell’estensione, e che si
basano sull’attivazione volontaria di gruppi muscolari toracico-addominali per rallentare la
risalita del diaframma e controllare il grado di pressione sottoglottica durante l’emissione
vocale. Applicare queste tecniche precocemente, o sulla base di una respirazione spontanea
non libera né equilibrata, comporta dei rischi per la salute vocale da non sottovalutare.
Dunque il percorso educativo deve aiutare lo studente a riconquistare, laddove sia
ostacolata o compromessa, una respirazione tonica ma rilassata, che non impegni
muscolarmente la parte superiore del torace. Anche al fine di comprendere quelli che
possono essere gli eventuali fattori di disturbo in tal senso, è importante tenere presenti
alcuni dati di carattere funzionale.
– Nel ciclo respiratorio normale la fase attiva è quella inspiratoria, nella quale il muscolo
diaframmatico contraendosi si abbassa, mentre l’espirazione avviene per retroazione
elastica. Nella sua discesa il diaframma comprime i visceri trovando una certa resistenza
nella parete addominale. I visceri vengono quindi spinti contro il pavimento pelvico (o
diaframma pelvico), cioè la muscolatura posta alla base del bacino, tra il pube e l’osso sacro.
Se questa è contratta o poco elastica, il diaframma verrà ostacolato sia nella sua discesa in
fase inspiratoria sia nella sua naturale risalita durante l’espirazione, per la mancata risposta
elastica dei tessuti muscolari. La rigidità del pavimento pelvico si ripercuote attraverso la
catena dei diaframmi fino alle corde vocali e talvolta fino al velo palatino, e viene
automaticamente compensata dall’uso di una maggiore pressione sottoglottica
nell’emissione. Pertanto qualunque azione volontaria che irrigidisca la muscolatura pelvica
e addominale, come ad esempio contrarre i glutei o mandare in dentro la pancia, è
controproducente sia per l’inspirazione sia per l’espirazione.
Il ritorno elastico della parete addominale e del pavimento pelvico è una sensazione dinamica e di
vitalità, che va distinta dalla sensazione di lavoro attivo in queste zone. Il lavoro volontario in queste
aree interferisce con la loro naturale azione involontaria. “Tono” è un buon termine per descrivere ciò
che vogliamo sentire in questi muscoli, dal momento che il tono rappresenta quella caratteristica di
consistenza e dinamicità propria dei tessuti del nostro corpo. (Conable 2000, p. 39)
– Il flusso d’aria durante l’emissione è gestito dalle corde vocali. Se queste non si
adducono efficientemente, per cattiva coordinazione o per stress della muscolatura
laringea, si determina una dispersione d’aria, e quindi la sensazione di mancanza di fiato.
– Il livello medio del respiro, cioè l’ampiezza dell’oscillazione ciclica che caratterizza
l’attività respiratoria involontaria, cambia a seconda del livello di tonicità della persona. «In
una posizione pigra, per esempio, è molto più basso che in una buona postura diritta. Anche
lo stato d’animo cambia il respiro. Se a questo si aggiunge un aumento di ascolto, il livello
medio si alzerà ancora» (Coblenzer-Muhar 2004, p. 37). Torniamo così alla postura d’ascolto
di Tomatis: se esiste un’intenzione comunicativa, tutto il sistema vocale si auto-organizza
efficientemente, la respirazione diventa pertanto più tonica e ampia, e acquista la fluidità e
la prontezza necessarie per adattare i propri ritmi alle esigenze espressive del canto.
Il lavoro sul respiro in una fase di approccio alla vocalità non richiede dunque
l’apprendimento di tecniche particolari, ma solo la salvaguardia di alcune condizioni
posturali e comunicative, all’interno delle quali il respiro si senta gradualmente sempre più
libero di affidarsi alla parte inferiore del corpo senza perdere in tonicità e dinamicità.
Anche nella respirazione il modello offerto dall’adulto è determinante per il bambino. Il
genitore o l’insegnante che parla in fretta, con frasi troppo lunghe, prendendo fiato in modo
esagerato e rumoroso (spesso sintomo di ansia), può vanificare il lavoro educativo. Di fatto,
data l’importanza che la respirazione riveste per l’equilibrio psicofisico della persona, lo
sviluppo nel ragazzo di una sana ed equilibrata respirazione dovrebbe essere obiettivo
comune di tutte le discipline scolastiche, a partire dall’attenzione rivolta ai modi e ai ritmi
dell’esposizione orale durante le interrogazioni. Anche nell’ambito dell’educazione
strumentale spesso si dimentica il ruolo determinante che il respiro ha sia per la
funzionalità motoria sia per il lavoro sul fraseggio musicale. Questo è un altro dei motivi per
cui l’educazione della voce cantata dovrebbe essere alla base di ogni percorso di formazione
musicale, indipendentemente dalla specialità strumentale scelta.
La buona qualità della respirazione nel canto è riconoscibile da alcune semplici
caratteristiche che lo studente può imparare a riconoscere e quindi a ricercare: silenziosità,
fluidità, leggerezza, agilità. Si tratta di qualità tutte essenzialmente legate all’elasticità dei
tessuti muscolari e alla morbidezza delle articolazioni. Queste qualità possono diventare dei
parametri di riferimento nelle attività didattiche che vengono proposte in questo ambito di
esperienza.
La mobilità della colonna vertebrale, come emerso dal paragrafo precedente, è
determinante per la libertà della respirazione. Come osserva Conable (2000, p. 41), le fasi di
inspiro ed espiro si accompagnano naturalmente a un movimento involontario della colonna,
così come schematizzato nella fig. 1, con il quale è importante non interferire affinché possa
generarsi la sensazione di un respiro profondo proveniente dalla zona pelvica.
Fig. 1. Colonna vertebrale e respirazione [da CONABLE Barbara, 2000, The Structures and Movement of
Breathing, Chicago, GIA Publications]
In questo movimento naturale l’inspirazione coincide con una leggera accentuazione delle
curve fisiologiche, cervicale e lombare, e con l’anteroflessione del bacino (il pube si
allontana dalle costole), mentre nell’espirazione si ha una leggera distensione della colonna
e un avvicinamento del pube alle costole. Parliamo di un movimento appena percepibile.
Esso fa sì che nell’inspirazione la parte anteriore del corpo si apra, come a ricevere aria ed
energia dall’ambiente, mentre l’addome si rilassa consentendo al diaframma di abbassarsi
agevolmente. Assecondare questo movimento significa contrastare la tendenza, spesso
diffusa tra i ragazzi, a inspirare mandando in dentro la pancia e sollevando il torace, e
portarlo all’estremo può servire a rendere più evidenti le sensazioni che si associano a una
respirazione elastica e dinamica.
• Chiediamo agli studenti di buttare fuori tutta l’aria improvvisamente, come fingendo di
ricevere un cazzotto nello stomaco, ripiegandosi un po’ su se stessi. Le mani sullo
stomaco e sulla pancia aiutano a sentire meglio cosa avviene a livello muscolare. Dopo
una brevissima apnea si torna lentamente in posizione eretta, come accorgendosi con
soddisfazione che il pericolo è scongiurato, rilassando tutta la muscolatura che sta sotto
le mani. Come entra l’aria? Che sensazione si prova? L’esperienza si può ripetere più
volte, cambiando i tempi della seconda fase (inspiro più lento o più veloce). Se nel
tornare diritti lasciamo che la bocca si socchiuda, come quando si riceve una piacevole
sorpresa, sentiamo qualcosa di diverso nell’inspiro? La stessa esperienza si può ripetere
anche stando sdraiati a terra con le ginocchia piegate.
• Sia con i bambini sia con gli adulti è particolarmente gradito il lavoro con i profumi, e
soprattutto con gli oli essenziali, che hanno una notevole capacità di penetrazione
olfattiva. Per i bambini riconoscere profumi è un gioco divertente, che equivale a un
buon esercizio di respirazione. Nell’odorare con delicatezza, tutto il viso si distende
mentre la muscolatura faringea si tonifica, preparando così in modo adeguato l’ambiente
per la risonanza del suono vocale. Da non dimenticare, poi, che anche gli stimoli olfattivi,
come tutti gli altri stimoli sensoriali, hanno la proprietà di vitalizzare il sistema nervoso.
• Seduti su una sedia, o meglio ancora su una palla di gomma di grande diametro (come
quelle che si usano per la ginnastica), con i piedi ben appoggiati al suolo, si inspira
sentendo che i muscoli del pavimento pelvico si appoggiano bene sulla sedia o si
adattano alla rotondità della palla sentendone tutta l’elasticità. Poi si espira mantenendo
il diaframma pelvico a contatto con la sedia o la palla, e immaginando che, come in un
ferro da stiro a vapore, l’aria esca non solo dalla bocca ma anche verso il basso
spandendosi sulla sedia come il vapore sul bucato. Ad ogni espiro immaginiamo che il
getto del vapore si espanda maggiormente. L’esperienza tonifica la muscolatura pelvica e
addominale e contrasta la tendenza del torace a collassare durante l’espirazione. Che
cosa succede se proviamo a sostituire l’espiro con l’emissione di un suono? Può rimanere
l’immagine del ferro a vapore? È possibile mantenere il suono a lungo? Possiamo
confrontare il suono prodotto in questo modo con il suono prodotto invece “strizzando”
la pancia? Che differenza c’è?
Un altro aspetto della respirazione che può essere osservato negli allievi è il rapporto tra
l’inspirazione e l’espirazione. Ho già evidenziato più sopra le possibili cause delle difficoltà
espiratorie, cioè della mancanza di fiato, e la conseguente necessità di lavorare sulle
tensioni muscolari ad esse connesse. Rimane quindi il fatto che se il ciclo respiratorio è
squilibrato non possiamo riequilibrarlo con un’attività muscolare volontaria, poiché ciò
significherebbe forzarlo. Tuttavia è possibile fare ricorso all’immaginazione per stimolare il
sistema neurovegetativo.
• In piedi poniamo le braccia davanti a noi alla larghezza delle spalle con i gomiti ben
rilassati, immaginando di tenere tra le mani una palla non molto grande che, quasi
magicamente, si gonfia e si sgonfia da sola. Lasciamo che le braccia in tutta la loro
lunghezza, compresi i gomiti e fino alle ascelle, assecondino questo movimento,
allargandosi e avvicinandosi mentre inspiriamo ed espiriamo con un soffio o dicendo una
“s”. Ogni studente esegue il movimento secondo un proprio ritmo (le braccia non devono
essere attive ma solo pensare di essere appoggiate alla palla!). L’esperienza può fermarsi
qui o proseguire: la palla diventa sempre più grande finché il nostro torace ne viene
incluso e le braccia con la parte posteriore e laterale delle costole ne vanno a delimitare
la circonferenza; sentiremo le scapole che si avvicinano e si allontanano mentre il torace
si restringe e si dilata. Ripetendo l’esperienza in un altro momento proveremo a
sostituire il soffio con un suono vocalico.
• Immaginiamo questa volta che siano le nostre mani a comprimere una palla di medie
dimensioni mentre espiriamo. La palla però cambia di consistenza: ora è molle come
gelatina, ora invece è dura come creta. Se passiamo da un’immagine all’altra
l’espirazione cambia di conseguenza? Se usiamo una “sc” per espirare come cambia il
suo suono nelle due situazioni? E se invece utilizziamo una “h”?
Nel canto l’espirazione determina il crearsi della pressione necessaria alla nascita e al
mantenimento del segnale vocale. È noto che tanto più è costante la pressione sottoglottica,
tanto minore sarà il dispendio di aria e di energia durante la fonazione. Pertanto ogni
esperienza nella quale si metta in atto il controllo della gradualità dell’espiro, costituisce
una preparazione alla regolarità dell’emissione cantata. Si tratta naturalmente di un
controllo non stressante, che sarà tanto più efficace quanto più avverrà in forma
inconsapevole attraverso attività giocose.
• Proponiamo ai ragazzi una gara: ogni partecipante deve soffiare in una cannuccia
immersa in un bicchiere d’acqua; le bollicine non devono mai smettere di formarsi. Vince
colui che riesce a mantenere più a lungo l’acqua “in ebollizione”. Ancora più
interessante è sostituire al soffio l’emissione di un suono tenuto, oppure un semplice
vocalizzo su pochi suoni. L’acqua deve continuare a muoversi anche passando da un
suono all’altro.
• Altra sfida giocosa: mantenere in aria una piuma il più a lungo possibile con un soffio
graduale. Il gioco può essere fatto anche a squadre, tipo staffetta: in ogni squadra,
costituita dallo stesso numero di persone, il secondo giocatore subentra al primo quando
questi sta per esaurire il proprio fiato, e così via; naturalmente la piuma non deve mai
cadere tra un giocatore e l’altro.
• In quanti modi è possibile fischiare? Ogni ragazzo può sperimentare i vari tipi di fischio
e trovare quello che gli permette di emettere il suono più a lungo o di modularlo meglio.
• In un gioco di invenzione sonora estemporanea, ogni componente del gruppo sceglie
una consonante sorda o sonora (cfr. cap. 3.3.1) che possa essere prolungata nel tempo
(ad esempio “f”, “s”, “r”, “n”). Un direttore decide la successione e la combinazione dei
suoni consonantici. L’unica consegna è che ognuno dei partecipanti faccia durare più a
lungo possibile l’emissione del proprio suono.
• Partendo anche da attività imitative si propone ai ragazzi di far rullare la lingua con una
“r” oppure di far vibrare le labbra con “br” su un suono lungo tenuto. Utile, oltre che
divertente, è fare la stessa cosa su dei glissandi ascendenti e discendenti o su un’intera
melodia. La vibrazione della lingua o delle labbra non deve mai fermarsi: ciò è garanzia
che la pressione è regolare e non subisce sbalzi, né diminuisce né aumenta
improvvisamente27.
Il corpo vibrante è il luogo dove si forma la voce, e di conseguenza, la parola. Il corpo vibrante,
con la sua intonazione e/o con le sue stonature, esprime lo stato emotivo interiore […]. Prima
della nascita il corpo vibrante è stato fatto con-vibrare dal corpo materno […]. Le esperienze
vissute prima della nascita passano attraverso il corpo vibrante. Esse sono gli apprendimenti
dai quali dipenderanno gli altri apprendimenti. L’essere stato accolto e ascoltato è la base per
imparare ad ascoltare, per imparare ad ascoltarsi.
Uno degli aspetti più piacevoli del canto sta nella sua proprietà di risvegliare e
sensibilizzare il corpo che, attivato dal suono e trasformato in strumento, vive la bellissima
esperienza della risonanza e della vibrazione. Infatti «il suono emesso dal soggetto mobilita
le sensazioni interne e quelle dei tessuti mucosi, anche viscerali, più di quanto non potrebbe
riuscire a fare la percezione di un suono proveniente dall’esterno» (Tomatis 1993, p. 30). Ed
è grazie all’ascolto consapevole di queste sensazioni che il cantore a sua volta può
controllare e modificare il gesto vocale.
La consapevolezza di essere un corpo capace di vibrare è alla base stessa della
formazione dello strumento vocale, per cui ogni esperienza che sviluppi e potenzi tale
consapevolezza ha un valore prioritario28. Ma che cosa vibra nel corpo?
Le sensazioni vibratorie più evidenti nel cantare sono quelle che si generano nelle cavità
di risonanza, orofaringea e nasale, ma, a seconda della frequenza del suono prodotto e della
conformazione che assume il tratto vocale nella emissione, la vibrazione viene trasmessa
attraverso tutti i tessuti organici ad altre parti del corpo: il cranio, le orecchie, il torace, e a
volte l’intera colonna vertebrale29.
Tomatis attribuisce una particolare importanza alla vibrazione ossea dell’intera colonna
vertebrale, innanzitutto perché essa rinforza naturalmente la voce, e in secondo luogo
perché trasmettendo il suono all’orecchio per via ossea, senza cioè la dispersione d’energia
che si verifica per via aerea, il controllo cocleo-vestibolare della voce è più efficace e
immediato. Inoltre secondo Tomatis l’osso opera come un filtro “passa-alto” e seleziona le
frequenze più acute a detrimento di quelle gravi, favorendo così l’attività di ricarica
corticale esercitata dalla voce (Tomatis 1993, p. 206). La produzione di una voce ossea non
è tuttavia un obiettivo a breve termine in un percorso formativo. Ciò non toglie che la
ricerca della vibrazione a livello osseo sia un’esperienza proponibile anche ai bambini più
piccoli e rappresenti per loro una scoperta entusiasmante e gratificante.
La vibrazione corporea è infatti la rappresentazione concreta di un fenomeno molto
astratto qual è il suono. Il suono è vibrazione. Toccare il corpo che vibra è come toccare il
suono stesso, ed è quindi un modo per rendere tangibile un’energia impalpabile. Inoltre
l’esperienza della vibrazione corporea, per il suo delicato effetto di micromassaggio, risulta
essere particolarmente piacevole tanto per i bambini quanto per gli adulti.
Queste due ultime attività proposte risultano spesso particolarmente efficaci per chi le
sperimenta, poiché la sensazione della vibrazione a livello della colonna cervicale, oltre a
risultare piacevole, si rivela funzionale alla stimolazione dell’attività laringea. L’energia
della vibrazione sonora sembra infatti trasmettersi alle cartilagini della laringe e da queste
alle corde vocali, che così stimolate per risonanza, danno vita a un suono più ricco. Inoltre
l’idea che il suono non venga solo proiettato in avanti verso la bocca, ma si espanda con la
sua vibrazione anche verso la parte posteriore del corpo, induce nel tempo un’emissione più
piena e corposa.
Le sensazioni vibratorie a livello corporeo possono essere incentivate anche attraverso
l’utilizzazione di oggetti sonori o strumenti musicali. Se l’insegnante dispone, ad esempio, di
un violino o di un violoncello, appoggiandone la cassa armonica allo sterno o alla colonna
vertebrale dell’allievo e suonando con l’archetto una corda a vuoto, può provocare in lui la
nascita di evidenti sensazioni vibratorie e di risonanza. L’allievo prima canterà insieme al
violino, non necessariamente all’unisono (il violino potrebbe suonare un pedale sottostante
alla melodia vocale), e poi canterà da solo ricordando le sensazioni provate.
Molto spesso si usa il diapason (440 Hz) per spiegare ai ragazzi il fenomeno
dell’amplificazione del suono attraverso la risonanza, utilizzando come cassa armonica
scrivanie, armadi e tutto ciò che si presta al caso. Quando si ha il tempo e la pazienza di far
provare loro l’“effetto diapason” sul corpo (testa, sterno, vertebre…), le reazioni sono
sempre entusiastiche. Sentire che il suono si propaga attraverso le ossa e si amplifica grazie
alle cavità della testa e del torace è un’esperienza eccitante e nello stesso tempo utile per
comprendere la natura risonante del corpo umano. L’esperienza è ancora più efficace se si
fa uso di diapason a bassa frequenza30 (172 o 128 Hz), in grado di trasmettere vibrazioni di
maggiore ampiezza, più facilmente percepibili.
• Divisi a coppie, ogni coppia dispone di un diapason a bassa frequenza. Uno studente,
dopo aver messo in vibrazione il diapason, lo appoggia su parti ossee del corpo del
compagno (colonna vertebrale, scapole, ginocchia, testa…). Questi si concentra sulla
vibrazione e sente come essa si espande e dove la stimolazione è più efficace. Si
invertono i ruoli nella coppia. Alla fine si confrontano le sensazioni.
• Ogni studente individualmente sperimenta con un diapason la risposta vibratoria di
parti ossee del proprio corpo, in particolare lo sterno, il setto nasale, il mento, l’osso
mastoide (dietro le orecchie). Appoggia il diapason sulla parte prescelta, dopo averlo
messo in vibrazione, e canta dei suoni o una breve melodia immaginando di mandare la
voce lì dove sente la vibrazione. Successivamente, senza diapason, ricanta la stessa
melodia immaginando questa volta che sia la sua voce a mettere in vibrazione quella
zona ossea.
Nel caso della stimolazione del setto nasale, attraverso la quale entrano in vibrazione gli
zigomi e il palato duro, viene di fatto enfatizzata una sensazione che è possibile creare
anche cantando a bocca chiusa, e che si rivela molto utile, soprattutto per il risveglio della
voce di testa in coloro che hanno difficoltà a individuarla (v. cap. 3.1.1).
Il lavoro a bocca chiusa è in genere sempre molto efficace per attivare le sensazioni
vibratorie nel tratto vocale e favorire dunque i processi di scoperta della risonanza vocale.
• Cantare a bocca chiusa un suono lungo (“hum”) prima con i denti molto vicini e poi con i
denti più separati possibili (sempre tenendo le labbra chiuse). Le vibrazioni cambiano
luogo, intensità? E come cambia il suono? Chiediamo agli studenti di cantare un suono
lungo a bocca chiusa prima con la consonante “m”, poi con la “n”. Che cosa fa la lingua?
Le sensazioni vibratorie si spostano nella cavità orale? Come cambia il suono, sempre a
bocca chiusa, se dilatiamo le narici? Sempre cantando la “n” proviamo a lasciar cadere
lentamente la mandibola aprendo anche le labbra. Le sensazioni vibratorie rimangono
inalterate oppure cambiano? E se ora, sempre a bocca aperta, la lingua assume la
posizione della “gh” (come a dire “nghè”) le vibrazioni si spostano e fin dove arrivano
nella gola?
• Utilizziamo dei canti non troppo veloci per sostituire tutte le sillabe del testo verbale
con la sillaba “dum”, chiedendo agli studenti di fare attenzione, soprattutto sulle note
più lunghe, a sentire bene la risonanza che la “m” provoca internamente.
• Che cosa succede se cantando a bocca chiusa chiudiamo anche le orecchie con i
polpastrelli degli indici: è possibile sentire la vibrazione sotto i polpastrelli? Se togliamo
le dita e apriamo le orecchie possiamo continuare a sentir vibrare l’interno delle
orecchie? Con i ragazzi più grandi si può chiedere di visualizzare il suono che attraverso
le trombe d’Eustachio passa dalla bocca alle orecchie. L’obiettivo è attivare la risonanza
delle orecchie.
• Con i più piccoli inventiamo una storia che ha come protagonisti vari tipi di insetti
volatili, mosconi, api, zanzare ecc. La sonorizzazione vocale permetterà ai bambini di
sentire le vibrazioni spostarsi dalle parti alte della testa (zanzara dispettosa) alla gola
(calabrone).
• Per rendere più evidenti le sensazioni vibratorie delle labbra e della lingua si può
proporre di cantare una melodia appoggiando molto leggermente un foglio di carta da
forno alle labbra. Si può provare sia vocalizzando sia articolando le parole del testo.
Dopo un po’ le labbra cominceranno a fare il solletico, e così pure la lingua se verrà
appoggiata al foglio. Il suono risulterà fortemente amplificato poiché la carta e la laringe
entreranno in risonanza. È un gioco che a volte si fa da bambini (far suonare un pezzo di
carta, una foglia, un pettine), ma è molto utile recuperarlo in sede didattica per prendere
coscienza del coinvolgimento vibratorio delle labbra e della lingua nell’emissione
cantata. È infatti grazie anche a questo coinvolgimento che la voce acquista colore e
brillantezza.
• Un’esperienza che provoca sensazioni analoghe è quella di cantare dentro un tubo di
cartone, come quello, ad esempio, su cui è avvolta la carta assorbente da cucina.
Tenendo il tubo con le mani i ragazzi potranno sentire la vibrazione del suono
trasmettersi al cartone mentre la cavità della bocca, di cui il tubo diventa un
prolungamento, risuonerà fortemente fino a coinvolgere anche le orecchie. Dopo aver
cantato un po’ in questo modo, chiediamo di togliere il tubo e di cantare normalmente.
Possiamo ricordare le sensazioni di risonanza? Possiamo provare a ricercarle anche
senza il tubo di carta?
Lo sviluppo delle sensazioni fisiche, che può essere sollecitato attraverso le esperienze
esemplificate in questo capitolo, contribuisce alla costituzione di quello che viene chiamato
“schema corporeo-vocale”, strumento essenziale per il controllo della voce. Esso è
l’immagine interiorizzata, tridimensionale che ci si fa del proprio corpo attraverso
l’esperienza vocale. De la Bretèque sottolinea in essa tre tipi di schemi: quelli posturali,
relativi all’immagine del corpo nello spazio; quelli sensoriali, che permettono di localizzare
le sensazioni di pressione, vibrazione, tensione e movimento muscolare; e quelli temporali,
che riguardano la percezione degli scarti temporali tra gli stimoli percepiti. Naturalmente
questi schemi entrano in relazione con l’orecchio, creando un unico circuito di controllo
audiofonatorio. Questo schema corporeo-vocale, che si forma a partire dalla nascita, tende
tuttavia a sfuggire alla coscienza poiché rientra in processi abitudinari (De la Bretèque
1991, p. 46). Ha bisogno pertanto di essere sollecitato e portato a livello di consapevolezza.
E questo è uno degli obiettivi fondamentali dell’educazione vocale.
[…] un gusto per il suono – questa è la prima qualità del musicista – una certa sensibilità per la
sonorità che si accompagna all’abilità di ottenerla sullo strumento. Perché […] saper fare e
saper ascoltare sono in questo caso una sola e unica competenza.
Il suono, prima ancora di essere elemento fondante del linguaggio musicale, è una forma
di energia che può essere conosciuta e compresa per essere utilizzata consapevolmente ai
fini del benessere umano. Questa conoscenza è sicuramente uno degli obiettivi prioritari
dell’educazione all’ascolto, poiché un individuo consapevole della dimensione sonora ha
maggiori strumenti per valutare e selezionare gli stimoli sonori dell’ambiente, e per
costruirsi un “paesaggio sonoro” adeguato alle proprie esigenze vitali. In tal senso
l’esperienza del canto e del gioco vocale è la prima e forse la più importante forma di
educazione all’ascolto, poiché attraverso il canto l’uomo dialoga con la dimensione sonora,
diventando consapevole delle sue possibilità di interagire con essa. Dal momento che la
voce non esiste al di fuori della condizione d’ascolto, coscienza della voce e coscienza del
suono diventano due fattori inscindibili del processo di crescita musicale e vocale, che
maturano progressivamente e parallelamente.
L’ascolto è una condizione, uno stato, un modo di porsi di fronte alla realtà, e quindi al
suono e alla voce. Ascoltare è un po’ come respirare, è un atto di apertura rispetto
all’esterno, per questo richiede disponibilità e desiderio. Ascoltare non è più facile che
produrre. Ottenere qualità di ascolto – specialmente in questo momento storico-sociale –
non è affatto semplice, e gli insegnanti ne sono perfettamente consapevoli. Per questo
sviluppare la qualità dell’ascolto è un obiettivo importante dell’educazione musicale in
genere, e in particolare dell’educazione vocale.
La capacità di ascoltare il suono vocale viene data molto spesso per scontata nella pratica
corale. Che cosa serve in fondo per ascoltare? Attenzione, concentrazione e orecchie ben
aperte, si è soliti dire. Questo è vero, almeno in teoria, poiché nella pratica abbiamo visto
che, stando agli studi di Tomatis, l’orecchio, o meglio il cervello, può chiudersi
inconsapevolmente a determinate frequenze oppure può essere impigrito e stressato
dall’inquinamento acustico, o non disponibile all’ascolto e alla comunicazione. Quindi anche
l’orecchio, così come la sensibilità corporea, ha bisogno sempre di essere risvegliato e
stimolato, in particolare all’inizio di ogni sessione di lavoro vocale, ma spesso anche nel
corso del lavoro, affinché l’ascolto rimanga sempre attivo. Nel paragrafo precedente è stato
comunque già evidenziato che il livello di attenzione, anche dal punto di vita uditivo,
dipende dallo stato di vitalità del sistema nervoso nel suo insieme, e che a questo stato
devono andare le cure dell’educatore.
L’aspetto più problematico del “saper ascoltare” riguarda tuttavia la capacità dell’orecchio
di desumere e selezionare informazioni dal segnale acustico recepito. Nel momento in cui si
canta, le informazioni che giungono all’orecchio e che il cervello deve o può controllare,
verificare, analizzare, interpretare sono numerosissime. Infatti dal punto di vista fisico il
suono è un’entità complessa, multidimensionale, e per questo nella prassi educativa si tende
a lavorare anche separatamente sui diversi parametri sonori, per portare lo studente da una
percezione globale e indifferenziata del suono a una capacità analitica nei confronti delle
sue componenti acustiche.
Nell’ultima parte del testo verranno affrontati in dettaglio i diversi parametri del suono
vocale, entrando in merito alle problematiche didattiche specifiche relative alla percezione
e produzione di ognuno di essi. Qui l’attenzione sarà invece focalizzata sulle modalità
generali di approccio uditivo al suono vocale, cioè sulle strategie che costituiscono la base
per un ascolto analitico della produzione vocale, sottolineando ancora una volta che
conoscere la voce significa innanzitutto imparare a riconoscerne le qualità sonore, e in
particolare quelle timbriche, poiché su questa capacità percettiva si fonda la costruzione
dello strumento vocale. Come già detto, il riconoscimento qualitativo avviene soprattutto
grazie alle sensazioni fisiche di risonanza e di vibrazione, ma è importante che anche
l’orecchio impari al più presto a identificare le sensazioni uditive legate al formarsi di un
ricco spettro armonico, così da poter guidare la voce nell’emissione sonora.
Soprattutto nelle prime fasi di lavoro è opportuno che il lavoro di ricerca e ascolto venga
fatto anche su suoni liberi e non solo su melodie intonate, su espressioni vocali spontanee e
non solo su repertori musicali, permettendo così allo studente di focalizzare l’attenzione sul
potenziale sonoro della voce e di porsi in relazione “energetica”, prima ancora che
armonica, con la voce degli altri. Chiedere a delle voci immature, cioè non ancora
consapevoli della propria vitalità e delle proprie capacità percettive, un eccesso di controllo
per rispondere a richieste di precisione ritmica o melodica, comporta il rischio di deprivarle
del piacere di scoprire la loro potenziale energia sonora.
I giochi e le esperienze di ascolto proposti qui di seguito rispondono dunque ai seguenti
obiettivi:
– far nascere nello studente il piacere e il gusto di ascoltare la propria voce, non per
giudicarla ma per conoscerla;
– risvegliare e attivare il suo potenziale di ascolto;
– stimolare in lui la curiosità nei confronti del suono, della sua multidimensionalità, e del
suo rapporto con lo spazio;
– aiutarlo a scoprire e a saper utilizzare le molteplici strategie per il controllo audio-vocale;
– renderlo consapevole che cantare è un modo di relazionarsi con gli altri attraverso il
suono e lo spazio.
Il suono è la manifestazione primaria, esistente persino nel silenzio della percezione umana.
L’aria resta per l’uomo il suo bagno sonico e diviene acusticamente differenziata quando un
apporto di energia più consistente la individua a livello della percezione che si risveglia, si
illumina. Ma il suono continua a sussistere al di fuori di ogni percezione, poiché esso è la
manifestazione stessa di ogni movimento molecolare soggetto al campo attivo delle sue
particelle.
Il suono vocale è una delle forme di manifestazione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
È noto che alcuni mammiferi, come il delfino e il pipistrello, usano il suono per orientarsi
nello spazio, e sembra che anche l’uomo, in qualche fase della sua storia evolutiva, abbia
utilizzato la voce per questo stesso scopo. Nel gioco dell’eco è rimasta una traccia residua di
questa antica attitudine umana.
Per un uso efficiente della voce è importante essere consapevoli che lo spazio è una
componente essenziale per la formazione del suono vocale e che proprio grazie al feedback
acustico, e cioè alla risposta che lo spazio rimanda all’orecchio, è possibile regolare
l’emissione (cfr. cap. 1.3.3). Il ritorno del suono arriva alle orecchie non solo come
informazione acustica, ma anche come sensazione di pressione o di vibrazione.
Di solito per conoscere un nuovo ambiente e familiarizzare con esso se ne osservano le
dimensioni, la luce, gli oggetti contenuti e la loro disposizione, qualche volta se ne annusano
gli odori, se sono evidenti. Più raramente si pensa che sia possibile conoscere un ambiente
sondandone l’acustica attraverso la voce. Essa diventa in questo modo un elemento della
persona, come le mani, gli occhi, il naso, capace di “toccare” lo spazio e, attraverso la
percezione uditiva, di conoscerlo.
Con il coro la pratica esplorativa (prova d’acustica) dell’ambiente, una chiesa o una sala,
diventa essenziale prima di un concerto per preparare i cantori a calibrare l’emissione
vocale in base alle caratteristiche di riverberazione ambientale, pur nella consapevolezza
che la presenza del pubblico cambierà sicuramente il ritorno del suono.
Ogni ambiente, anche il più silenzioso, ha un suo suono, inteso come “rumore continuo
dell’incessante movimento molecolare” (Tomatis 1993), una sorta di trama sonora che solo
orecchie molto raffinate sanno percepire, per cui emettere la voce in un ambiente significa
andare a rompere un equilibrio preesistente.
In altri termini, viviamo in uno stato di pressione, in una specie di equilibrio di cui non abbiamo
alcuna consapevolezza […]. Uno dei mezzi per rendere avvertibile questo fenomeno, che resta sempre
ai confini del percettibile, è appunto il suono o, meglio ancora, il canto. Il canto sembra fatto apposta
per rendere più presente l’ambiente circostante e quindi per rendere più attiva la stimolazione di fondo
[…]. È come se un pesce, che vivendo in permanenza in acque calme tanto da non sapere che sta
nell’acqua, riprendesse improvvisamente contatto con la materia acquatica circostante per effetto di
qualche turbolenza arrivata a disturbare la calma iniziale. Accade anche a noi quando ci troviamo
immersi nell’acqua da un po’ di tempo e ci dimentichiamo di esserlo. La nostra percezione si riattiva
non appena si forma un minimo di corrente o di vibrazioni dell’acqua, insomma qualsiasi cosa che
aumenti la possibilità di rendere più “tangibile” il superamento della soglia della nostra sensibilità.
(Tomatis 1993, p. 31)
L’idea che la voce modifichi l’ambiente, venendone a sua volta modificata, è molto
fruttuosa per il lavoro didattico, poiché proietta subito i nostri allievi in uno spazio animato,
con il quale è possibile interagire. L’immagine di un movimento molecolare che viene
dinamizzato dall’emissione vocale si trasforma di fatto in una dinamizzazione della voce, che
trova così maggiore energia.
Ogni esperienza che rinforzi l’idea dello spazio come luogo di relazioni, anche a distanza,
è importante non solo dal punto di vista comunicativo ma anche per la costruzione degli
equilibri sonori nel gruppo vocale. Va sempre fatto presente ai cantori che per lasciare
spazio uditivo alla voce degli altri non è necessario reprimere la propria, che così
perderebbe in qualità sonora, ma è sufficiente riuscire a sentire bene le voci dei compagni
anche più distanti come se fossero realmente vicini. Questo implica un ascolto molto attivo e
un parziale decentramento dall’ascolto della propria voce, ed educa il gruppo ad attivare dei
processi di autoregolazione sonora (cfr. cap. 2.4.3). Pertanto un’esperienza analoga a quella
appena descritta può essere proposta a un coro che, prima raccolto in cerchio o
semicerchio, cantando aumenterà poi gradualmente le distanze tra i suoi componenti,
verificando di mantenere il più possibile inalterata la percezione dell’insieme.
Il contatto uditivo, e se possibile anche visivo, tra i cantori è un tema di grande
importanza dal punto di vista sia psicologico sia musicale, suscettibile di continui sviluppi
durante la vita di ogni gruppo vocale, e che riguarda la maturazione socio-musicale del
gruppo e la conquista della sua autonomia nei confronti del direttore/insegnante. Il successo
di un direttore rispetto al lavoro corale si misura infatti nel livello di autonomia musicale
che il gruppo raggiunge. In altri termini un buon direttore è quello che in sede di concerto
potrebbe lasciar solo il coro perché capace di autogestirsi. Ovviamente il discorso è vero
solo in parte, poiché la funzione del direttore in concerto non è solo quella di guida
musicale. Tuttavia lavorare nella direzione dell’autonomia musicale (capacità di attaccare
simultaneamente con la stessa qualità sonora, di sintonizzarsi espressivamente ecc.) porta
sempre ottimi frutti dal punto di vista espressivo, ed è possibile anche con i bambini. Vanno
naturalmente rimossi i possibili ostacoli, prima di tutto quelli di natura relazionale (le
dinamiche di gruppo difficoltose) e poi quelli esteriori (ad esempio gli occhi fissi nello
spartito) più facilmente superabili, magari abituando il coro a cantare a memoria.
La pratica esecutiva del cantare a memoria, oltre a offrire enormi vantaggi dal punto di
vista dell’intonazione e della musicalità in genere, crea anche le condizioni per un migliore
rapporto comunicativo del gruppo con un eventuale pubblico. Lo spazio, infatti, in quanto
luogo di relazioni, è anche la dimensione nella quale la voce dei cantori incontra e
raggiunge l’orecchio degli ascoltatori. Il canto, se vissuto non solo come gratificazione
personale ma anche come dono agli altri della propria voce e della musica, acquista un
senso diverso, anche dal punto di vista educativo, poiché implica la responsabilità di
mettere gli ascoltatori in una condizione di benessere fisico, mentale ed emotivo.
Afferma Tomatis che «cantare è un po’ come suonare il corpo dell’altro, del resto come il
parlare. Quando un vero professionista della voce, esperto della tecnica, ci trascina con lui
nelle sue stesse sensazioni propriocettive (respiratorie, faringee, laringee, boccali) noi
respiriamo insieme a lui, insieme a lui la nostra faringe si apre, la nostra laringe funziona
senza contrazioni» (Tomatis 1993, p. 42). Di questo fenomeno – suppongo – abbiamo
esperienza tutti nel quotidiano rispetto al parlato. Capita frequentemente di provare
sensazioni di vero e proprio disagio fisico quando si ascolta qualcuno che parla con forti
tensioni in gola o che respira faticosamente, e non si tratta di risonanza solamente emotiva,
bensì anche corporea e acustica. Sebbene il potenziale di comunicazione sonora di uno
studente non sia certo quello di un cantante professionista, la consapevolezza di
trasmettere a chi ascolta le sensazioni fisiche ed emotive vissute nel canto, è importante fin
dall’inizio del percorso formativo, e costituisce un ulteriore incentivo a ricercare il massimo
benessere nell’emissione vocale.
L’idea di spazio come luogo di relazioni tra chi canta e chi ascolta può essere rinforzata e
concretizzata attraverso esperienze esecutive nelle quali lo spazio acustico viene “giocato”
disponendo i cantori nell’ambiente in modo diverso rispetto a quello tradizionale, che vede
esecutore e pubblico contrapposti frontalmente. La spazializzazione del suono (ottenuta
facendo circolare il suono nell’ambiente e ponendo gli esecutori in mezzo al pubblico) è
stata oggetto di sperimentazione da parte dei compositori del Novecento (a partire da
Stockhausen), utilizzando strumenti sia tradizionali sia elettroacustici, e facendo così
assurgere lo spazio a fattore strutturante della composizione31. In ambito vocale la
policoralità ha di fatto origini molto antiche, risalenti al XVI secolo (dai “cori spezzati” di
Willaert, ai doppi cori di Gabrieli, a Monteverdi e Bach), e le odierne esecuzioni di questi
repertori, dove gli ambienti concertistici lo consentono, ripropongono filologicamente delle
soluzioni spaziali che pongono l’ascoltatore in una dimensione acustica animata e cangiante.
Questo tipo di esperienza può essere affrontata anche in ambito didattico individuando dei
brani che per struttura e senso si prestino a essere eseguiti sfruttando in modo creativo
l’ambiente, a patto naturalmente di non compromettere gli aspetti di intonazione e di
precisione ritmica. Il compositore Guy Reibel è autore di alcune proposte di “giochi”
destinati a gruppi vocali e presentati come progetti improvvisativi32 incentrati sul rapporto
tra voce e spazio; in essi il materiale sonoro è indicato dall’autore, mentre la sua
strutturazione è affidata al gruppo degli esecutori. La realizzazione dei giochi vocali
prevede una disposizione spaziale dei cantori (divisi in sottogruppi) tale da circondare gli
ascoltatori o mescolarsi ad essi con varie modalità.
Chiunque ascolti la propria voce registrata rimane quasi sempre sconcertato, se non
addirittura sconvolto, nello scoprirne la diversità rispetto a quella solitamente percepita. Se
parte della colpa è attribuibile alla scarsa qualità degli apparecchi di riproduzione usati, che
tagliano alcune frequenze, rimane comunque il dato di fatto che esiste una reale
discrepanza percettiva tra colui che emette il suono vocale e coloro che lo ascoltano. E ciò
per diversi motivi.
Innanzitutto il suono emesso da una voce che parla o canta giunge all’orecchio del
soggetto emittente attraverso canali diversi (fig. 2): 1) per via aerea attraverso l’orecchio
esterno che raccoglie le informazioni acustiche dallo spazio; 2) per via ossea giungendo
direttamente alla coclea (orecchio interno); 3) per via muscolare interna attraverso le tube
d’Eustachio, giungendo all’orecchio medio.
Fig. 2. Circuiti audio-vocali [da TOMATIS Alfred, 1987, L’oreille et la voix, Paris, Éditions Robert Laffont]
Il suono che il cantore percepisce è frutto della sintesi operata dal cervello sulla base
delle informazioni pervenutegli attraverso tutti questi canali, ed è quindi necessariamente
diverso da quello che può sentire un ascoltatore esterno. In secondo luogo, come evidenzia
lo schema riportato da Tomatis (fig. 3), gli armonici associati ai suoni fondamentali prodotti
dalla voce si propagano nello spazio in modo diverso a seconda della loro frequenza: gli
acuti, più “direttivi”, si muovono in linea retta disperdendosi, mentre i gravi si espandono
sfericamente raggiungendo più facilmente e velocemente l’orecchio del cantore. Pertanto
nell’ascolto della voce da parte del soggetto cantante tende a prevalere la componente
frequenziale più grave.
Fig. 3. Propagazione e ripartizione delle frequenze [da TOMATIS Alfred, ibid.]
A tutto ciò si aggiunge il fatto che l’ascolto è binaurale, viene cioè effettuato attraverso le
due orecchie, anche per garantire l’orientamento spaziale, ma così come avviene nella vista
anche nell’udito può svilupparsi una dominanza destra o sinistra; ciò comporta che in ogni
soggetto il controllo uditivo della voce avvenga in modo diverso a seconda del tipo di
dominanza. Tomatis, sulla base di studi sperimentali e di motivazioni di carattere
neurofisiologico, sostiene che solo la dominanza dell’orecchio destro garantisce un controllo
audio-vocale di qualità (Tomatis 1993, pp. 63-77). Evitando di addentrarci ulteriormente in
una materia molto complessa e ancora del tutto sperimentale33, possiamo comunque
affidarci all’esperienza diretta per cercare di comprendere in che modo l’orecchio esercita il
proprio controllo sulla voce. Ricordo che, secondo il “principio Tomatis”, la voce è lo
specchio di ciò che l’orecchio percepisce e che modificando l’ascolto cambia la qualità
dell’emissione vocale.
• Chiediamo agli allievi di pronunciare qualche parola oppure di cantare dei suoni liberi o
una breve melodia chiudendo alternativamente con il dito indice delle due mani
l’orecchio destro e il sinistro, senza fretta così da percepire bene le differenze. È diversa
la voce che sentite quando è aperto l’orecchio destro oppure il sinistro? Da quale parte
sembra più scura? Dove risuona di più o sembra più vicina (o più lontana)? Quale voce vi
piace di più o vi sembra più simile a quella che sentite a orecchie aperte?
• Proponiamo agli studenti di cantare per un po’ con entrambe le orecchie chiuse,
escludendo così il circuito di controllo aereo esterno. Com’è la “voce interna”? Più scura,
più opaca, più sonora di quella familiare? Che cosa vi piace e che cosa invece vi disturba
in questa voce? Se aprite ora le orecchie il suono vocale è molto diverso? È possibile
mantenere il ricordo della voce “di dentro”?
• Mettiamo le mani a conchiglia dietro il padiglione delle due orecchie, come a voler
creare un orecchio esterno più grande (elefantiaco!) e intoniamo qualche suono
ascoltandone bene le caratteristiche timbriche, poi togliamo le mani e sentiamo come è
cambiata la voce. Ripetiamo più volte l’esperienza, confrontando le due modalità
percettive. Possiamo provare anche chiudendo gradualmente le mani a conchiglia verso
il viso e poi riaprendole lentamente, come a imitare il movimento delle orecchie degli
elefanti. Come sentiamo la voce quando le mani sono più raccolte verso il viso?
• Cantiamo un suono lungo ponendo questa volta le mani davanti alle orecchie con il
palmo ben aperto e rivolto verso la parte dorsale del corpo, senza ostruire il condotto
uditivo esterno: immaginiamo cioè di girare le orecchie all’indietro e ascoltiamo34. In
questo modo l’orecchio raccoglierà il suono più dall’ambiente e meno direttamente dalla
bocca, e tutte le frequenze armoniche, dalle più acute alle più gravi, arriveranno al
condotto uditivo contemporaneamente. Verranno così maggiormente evidenziati
all’ascolto soprattutto gli armonici acuti, che essendo più direttivi vengono percepiti più
difficilmente dalle orecchie “pigre”. Con lentezza allontaniamo le mani dalle orecchie
cantando lo stesso suono e percepiamo le differenze rispetto a prima. Ripetiamo
l’esperienza avvicinando e allontanando più volte le mani dalle orecchie. Sentiamo la
voce in modo diverso nelle due modalità? È possibile sperimentare anche con la voce
parlata.
Le prime reazioni a questo tipo di esperienze sono solitamente di stupore, sia nei bambini
sia negli adulti, di fronte alla scoperta di quanto la voce risulti diversa a seconda del modo
in cui viene ascoltata. Le differenze tra le varie “voci” possono essere a volte davvero
notevoli. In una prima fase di sperimentazione è importante che prevalga l’aspetto giocoso
dell’esplorazione, così da stimolare la curiosità nei confronti della voce e favorire la nascita
di nuove sensazioni. Soprattutto nei più piccoli lo stupore, il divertimento e l’alone di magia
che accompagna il fenomeno di “trasformazione” della voce contribuiscono a colorare
emotivamente l’esperienza, rendendo più facile l’acquisizione delle nuove strategie di
controllo uditivo. Diciamo che l’obiettivo più immediatamente raggiungibile è che gli
studenti scoprano la natura poliedrica della percezione vocale, e comprendano che il suono
della voce, una volta prodotto, non viene proiettato solo in avanti, ma si espande in ogni
direzione e in ogni spazio interno ed esterno, avvolgendo e compenetrando il corpo. Sulla
base di questa consapevolezza si svilupperà, con il tempo e la pratica, la capacità del
cantore di sfruttare la percezione interna/esterna del suono per organizzare più
efficacemente il gesto vocale.
Nel ripetere in seguito e nell’applicare a materiali musicali diversi queste strategie di
ascolto, il lavoro potrà essere sviluppato portando gli studenti, soprattutto quelli più grandi,
a comprendere con maggiore chiarezza il rapporto tra percezione ed emissione. Facendo
sperimentare le attività su esposte a un singolo studente mentre il resto del gruppo ascolta,
non sarà difficile scoprire che cambiando le modalità di ascolto la voce non viene
semplicemente sentita in modo diverso da chi la emette, ma è realmente diversa anche alle
orecchie di chi ascolta, proprio perché cambiando il feedback acustico e quindi le modalità
di ricezione da parte dell’orecchio, anche la voce cambia le proprie caratteristiche sonore.
Si tratta naturalmente di cambiamenti timbrici, talvolta minimi talvolta molto significativi,
che vengono a determinarsi perché l’orecchio riceve informazioni differenti a seconda del
circuito di controllo selezionato. Se ad esempio nel chiudere le orecchie il suono viene
percepito più scuro, la voce comincerà effettivamente a produrre un suono più scuro35.
Naturalmente nel proporre queste strategie d’ascolto36 l’obiettivo dell’insegnante non è
solo quello di rendere gli studenti consapevoli di un fenomeno di natura psicoacustica, ma è
di stimolare effettivamente in ognuno di essi l’attivazione dei diversi circuiti di controllo
audio-vocale, non tutti sempre ugualmente attivi ed efficienti. Secondo gli studi di psico-
audio-fonologia ogni persona ha infatti, rispetto alla propria voce, delle abitudini percettive
di cui non è consapevole, e che possono rivelarsi eccessivamente sbilanciate. C’è chi è più
orientato a un ascolto della voce dall’interno, e chi invece dall’esterno (in questo sembra
influisca anche il carattere più introverso o estroverso), chi è più pigro nell’ascolto a destra,
chi a sinistra (qui entrano in gioco fattori psichici connessi agli equilibri degli emisferi
cerebrali). Modificare sia pure temporaneamente le modalità di ascolto vocale in un
soggetto è un po’ come far fare degli esercizi visivi a un astigmatico, o coprire l’occhio
buono per far lavorare quello pigro, insomma fare in modo che il cervello scopra e impari a
utilizzare le proprie risorse per migliorare la funzionalità sensoriale. Se l’orecchio è
consapevole della possibilità di ascoltare la voce in modi diversi, il soggetto che canta potrà
decidere, se ne ha necessità, di focalizzarsi volontariamente più sulla voce interna o su
quella esterna, più sull’ascolto destro o sinistro, anteriore o posteriore, senza bisogno di
ricorre a manipolazioni del padiglione uditivo. In particolare la capacità di orientare
l’ascolto verso l’esterno per raccogliere tutte le possibili informazioni acustiche
dall’ambiente garantisce la percezione di un più ampio spettro di armonici del suono, e
quindi la produzione di un suono più ricco e più intonato. L’orecchio può insomma imparare
ad ascoltare, a sfruttare tutte le dimensioni dello spazio, grazie a un vero e proprio
allenamento uditivo.
Le esperienze di ascolto della voce di cui abbiamo finora parlato riguardano naturalmente
l’uso dello strumento vocale all’interno di una acustica naturale. Ciò non toglie che
l’esplorazione della voce possa essere ulteriormente incentivata attraverso l’uso del
microfono e dell’amplificazione elettroacustica. Si tratta di un ambito di sperimentazione
totalmente diverso, che apre verso dimensioni differenti da quella corale. L’amplificazione
permette di esplorare suoni vocali minimi e quindi di giocare con modalità di produzione più
varie e fantasiose: il rimbombo nel microfono di un sospiro, di uno schiocco di lingua, di una
consonante sorda, aprono l’ascolto alla conoscenza di un “microcosmo” vocale affascinante
e stimolante per l’immaginario sonoro. Si tratta naturalmente di esperienze prettamente
solistiche, più difficili da gestire in gruppo, anche se non è assolutamente da escludere che
soprattutto con ragazzi più grandi possano essere pianificate attività creative con la voce
facendo uso dell’amplificazione.
T. Visioli
Per lo studente il contatto con voci diverse dalla propria rappresenta, come abbiamo già
sottolineato, non solo un’opportunità educativa dal punto di vista relazionale, ma anche uno
stimolo alla maturazione della propria voce, grazie al confronto con sonorità vocali diverse e
grazie all’esperienza della “immersione” nel suono collettivo.
Soprattutto all’inizio il cantore teme di essere giudicato per la propria voce, della quale
molto spesso si vergogna. Può quindi essere d’aiuto focalizzare la sua attenzione sulle voci
degli altri attraverso giochi d’ascolto o di imitazione.
Quando si inizia un’attività di laboratorio con un nuovo gruppo, proporre delle attività
incentrate sull’ascolto della voce dei compagni serve anche a favorirne la conoscenza.
• Chiediamo agli studenti di camminare per la stanza in ordine sparso, salutando con un
“ciao!” o un “buongiorno!” i compagni che incontrano, oppure scambiandosi il nome,
come due sconosciuti che facciano le presentazioni. Chiediamo espressamente di
scambiare insieme con il saluto anche lo sguardo. Dopo un po’, quando ognuno ha avuto
modo di incrociare più persone, a un segnale sonoro dell’insegnante (ad esempio un
colpo di tamburo) tutti si fermano e l’insegnante pone alcune domande per sollecitare la
memoria sonora: «Quali voci vi hanno colpito di più e vi sono rimaste più impresse e
perché?», «Ricordate più lo sguardo o la voce dei compagni?». Gli studenti non devono
rispondere a voce alta, ma concentrandosi a occhi chiusi devono cercare di richiamare
alla memoria le voci ascoltate e le impressioni ricevute. Alla fine ognuno racconta che
cosa ha sentito e ricordato. L’esperienza può essere completata facendo seguire un gioco
di riconoscimento a occhi chiusi delle voci dei compagni, provando anche a ricollegare le
voci ai volti.
• Una variante più complessa, che può essere proposta successivamente al gioco
precedente oppure in prima istanza, consiste nel camminare come sopra cantando però
questa volta tutti lo stesso canto. Nel passare accanto ai compagni, senza smettere di
cantare, bisogna ascoltare bene la loro voce, per poterla poi riconoscere. Al segnale
sonoro tutti si fermano e come prima l’insegnante chiede di richiamare alla mente le voci
dei compagni e le loro caratteristiche più evidenti. L’esperienza ovviamente è più
complessa della precedente perché implica, data la contemporaneità delle emissioni
vocali, la capacità di decentrarsi percettivamente dalla propria voce e di ascoltare quella
degli altri, cercando in questo modo spontaneamente un equilibrio sonoro.
• Proponiamo al gruppo un gioco di riconoscimento a coppie: uno è la guida, l’altro il
cieco. La guida cammina liberamente nella stanza chiamando il compagno attraverso il
suo nome cantato o un segnale vocale predeterminato. Il “cieco”, ovviamente a occhi
chiusi, segue la sua guida riconoscendone la voce. Le varie coppie si muovono
contemporaneamente: ogni cieco può essere chiamato anche da una persona diversa dal
proprio compagno, ma si muoverà solo per seguire la propria guida. Il gioco sarà tanto
più complicato, quante più le guide si divertiranno a interferire con i segnali vocali delle
altre coppie. Il giocare a occhi chiusi (cosa che non è sempre proponibile, soprattutto
con i più piccoli) serve naturalmente anche a stimolare la concentrazione uditiva:
muoversi nello spazio solamente grazie al suono aguzza l’udito rendendolo più sensibile
a tutte le sfumature sonore.
Una volta superata la prima fase di contatto con le altre voci, dedicata a giochi di
riconoscimento e imitazione, è bene comunque mantenere negli studenti l’abitudine
all’ascolto reciproco, per conoscere meglio le voci dei compagni e imparare dal confronto
con esse. Ad esempio studiando un canone è utile, dopo aver appreso il canto all’unisono e
prima di montarlo in canone, dividersi in gruppi e ascoltarsi reciprocamente sentendo come
ogni gruppo esegue il canto sotto vari punti di vista (pronuncia, fraseggio, dinamiche ecc.):
ognuno scoprirà probabilmente qualcosa di nuovo e sicuramente ascolterà in modo diverso
anche l’insieme.
Già trattando del rapporto tra la voce e lo spazio abbiamo accennato al fatto che porsi in
relazione con altre voci implica la capacità, oltre che la volontà, di decentrarsi
percettivamente dalla propria voce e di rimanere in contatto uditivo con il suono degli altri,
capacità che si sviluppa grazie alla pratica d’insieme e che può essere educata attraverso un
lavoro mirato.
• Riprendendo una delle esperienze di autoascolto proposta poco più sopra, chiediamo
agli studenti di porre le mani davanti alle orecchie con il palmo aperto e rivolto verso la
schiena, e di concentrarsi questa volta non solo sulla propria voce ma anche sul suono
del gruppo, cantando dei suoni liberi o una melodia all’unisono. Allontanando le mani
dalle orecchie come cambia dal punto di vista percettivo il rapporto tra la vostra voce e
quella degli altri? Quale delle due diventa più nitida? Le voci dei compagni vi arrivano
più fuse con la vostra o più distinte rispetto a prima? Con un coro l’esercizio può essere
proposto anche in sede di studio di brani corali, soprattutto se polifonici, essendo utile
per la ricerca di un suono collettivo equilibrato.
• Gioco del canone. Si formano tre gruppi (A, B e C) composti dallo stesso numero di
studenti e disposti spazialmente in punti diversi della stanza. A tutti viene insegnata la
melodia di un canone che sia composto di tre sezioni o frasi. I gruppi A, B e C eseguono
il canone più volte di seguito per impararlo bene. A un cenno dell’insegnante i gruppi si
sciolgono e i cantori cominciano a camminare liberamente per la stanza continuando a
cantare e continueranno fino a che i componenti dei tre gruppi si saranno mescolati. A
un ulteriore segnale ogni giocatore (ad esempio del gruppo A) andrà a cercare altri due
compagni (del gruppo B e C) che cantano parti del canone diverse dalla propria, così da
formare più gruppi di tre solisti, ognuno dei quali contenga in sé tutte le sezioni del
canone. Il gioco non è facile, e non è quindi adatto ai bambini più piccoli, poiché implica
la capacità da parte del singolo cantore di mantenere il tempo e l’intonazione del brano
polifonico autonomamente e di ascoltare e riconoscere le parti cantate dagli altri
compagni senza perdere la propria: in questa abilità sta lo scopo del gioco.
L’ascolto reciproco delle voci può essere stimolato anche modificando la disposizione
spaziale del gruppo e dei cantori al suo interno. Cambiare spesso la posizione dei cantori,
facendo in modo che essi abbiano accanto voci sempre diverse, induce il loro udito a non
impigrirsi in abitudini percettive. Questi cambiamenti non sono solitamente molto graditi ai
cantori, sia bambini sia adulti, per le preferenze affettive che essi manifestano nei confronti
dei compagni, ma se si ha la pazienza di insistere, lo sforzo di relazionarsi con voci diverse
darà dei frutti estremamente interessanti. Un significato ancora maggiore acquista
l’esperienza se riportata alla situazione del coro polifonico: la pratica di cantare mescolando
spazialmente i cantori delle diverse sezioni corali (soprani, contralti ecc.), difficile dal punto
di vista musicale per la sicurezza che richiede ai coristi, produce effetti euforizzanti sui
singoli cantori, la cui voce è fortemente sostenuta dal denso contesto armonico, e dà luogo a
impasti timbrici di particolare ricchezza, che colpiscono immediatamente l’ascoltatore.
Nell’attività di ricerca vocale e di studio dei brani può essere proficuamente utilizzato
anche il cambiamento di disposizione spaziale del gruppo nel suo insieme. Ricordo che la
disposizione in cerchio, sempre raccomandabile nelle esperienze di laboratorio, viene
assunta molto spesso dai gruppi di improvvisazione vocale, come ad esempio i tenores sardi,
al di là della sua funzione rituale, proprio per favorire un ascolto migliore dell’insieme. Con
il gruppo di studenti o con il coro possiamo proporre in fase di studio di cantare in cerchio
rivolti normalmente verso l’interno, ma anche rivolti con la schiena verso l’interno e il viso
verso l’esterno del cerchio, per potenziare un ascolto meno focalizzato nella parte anteriore
del corpo, dove la propria voce è più presente, e più orientato invece a raccogliere le
informazioni uditive dallo spazio ambientale in tutto il suo volume. Un po’ curiosa ma ricca
di sorprese e divertente per i più piccoli è la disposizione in fila indiana (a trenino), dove
ognuno indirizza la propria voce verso il collo dell’altro (cfr. cap. 2.3.3). L’immagine da
sviluppare è quella che il suono sia un flusso che attraversa le teste dei cantori dal primo
all’ultimo della fila; naturalmente i ragazzi si scambieranno continuamente di posizione (via
via l’ultimo diventa il primo). Il gioco aiuta soprattutto le voci più timide e deboli, sostenute
e rinforzate dal suono degli altri che raggiunge le loro orecchie con particolare intensità.
Una delle esperienze più eccitanti del cantare in gruppo è quella di “essere messi in
risonanza” dalle altre voci. Alcune sensazioni precise accompagnano questo fenomeno: gli
spazi interni entrano fortemente in vibrazione, non si riesce più a distinguere la propria
voce da quella degli altri, non si fa alcuna fatica a cantare, come se la laringe non compisse
alcun lavoro muscolare. Naturalmente questo “stato di grazia” si verifica, come sa bene chi
ha esperienza corale, solo quando lo spettro armonico delle voci che si incontrano è molto
simile. È di fatto una vera e propria accordatura della voci, non tanto sulla nota
fondamentale, quanto sugli armonici e quindi sul colore timbrico. Si può cantare qualunque
intervallo o accordo, consonante o dissonante; ciò che fa scattare la risonanza è l’analogia
timbrica. La consapevolezza di questo fenomeno è pertanto uno strumento prezioso per
lavorare sull’omogeneità del suono vocale collettivo e anche, ovviamente, sull’intonazione.
Tuttavia nelle prime fasi di esplorazione collettiva vocale si può proporre questa esperienza
senza necessariamente razionalizzarla, ma solo per provocare la nascita di sensazioni
piacevoli a livello fisico ed emotivo.
• Chiediamo agli studenti di disporsi in coppie, meglio se di statura analoga, uno di fronte
all’altro a distanza ravvicinata, e di cantare entrambi una vocale chiusa (“o”, “u”) su un
suono tenuto di uguale altezza, pensando ognuno di inviare la propria voce verso la
bocca del compagno. Quando le due cavità orofaringee entreranno in risonanza (e cioè
quando il colore vocalico sarà uguale) il suono si rinforzerà automaticamente, diventerà
più brillante e andrà a stimolare la vibrazione laringea di entrambi, scatenando le
sensazioni di cui sopra. Si tratta in sostanza di un rinforzo del feedback acustico, grazie
a uno spazio “supplementare” messo a disposizione dalle cavità di risonanza del partner,
che determina un effetto di retroazione piuttosto forte sulla laringe. Si potrà ripetere
l’esperimento anche con intervalli diversi dall’unisono, sia consonanti sia dissonanti, ma
usando ovviamente sempre un’unica vocale. Con il tempo la coppia si potrà trasformare
in un trio, in un quartetto e così via fino all’intero gruppo.
Questa esperienza è in grado di risvegliare negli studenti delle sensazioni fisiche che,
ovviamente, nella pratica del canto corale non potranno essere ritrovate con la stessa
evidenza e la stessa forza, ma costituiranno in ogni caso un’immagine sensoriale molto
nitida che potrà essere ricercata e ricostruita attraverso un ascolto attento sul piano sia
corporeo sia uditivo. La risonanza simpatica che si realizza nel cantare insieme, quando si
realizza, è non solo metafora ma anche sostanza di quella di “sim-patia” che pone in
relazione affettiva due individui, poiché di fatto richiede un ascolto molto attento dell’altro e
una grande disponibilità nei suoi confronti. Quando cantando si entra in risonanza si
permette al suono di farsi reale mediatore di una relazione interpersonale significativa.
Allora cantare insieme con altri può essere davvero un’occasione di crescita affettiva.
Viceversa se emotivamente due individui si respingono non ci sarà tecnica né orecchio che
potrà accordare davvero le loro voci. Se vogliamo vedere la cosa sotto un’altra luce, ancora
più pertinente alla dimensione educativa, possiamo dire che l’educazione alla convivenza
pacifica e all’accoglienza del diverso, di cui tanto si discute, può avvalersi anche di una
ricerca sonora e musicale di questa natura. Si può infatti cantare e suonare insieme
pensando di essere tutti amici, ma se non si tocca con mano, nel nostro caso attraverso il
suono e la voce, che insieme si è davvero qualcosa di diverso da una semplice somma di
entità, finita la prova di coro o il concerto ben poco sarà cambiato di fatto nei componenti
del gruppo.
L’esigenza che il canto sollecita di ascoltarsi e di ascoltare gli altri in profondità induce a
portare l’attenzione su un tema controverso che è sempre più d’attualità nella scuola a
causa degli sviluppi della tecnologia e dell’editoria didattica. Mi riferisco all’uso delle basi
musicali preregistrate sulle quali far cantare gli allievi. I prodotti editoriali che il mercato
offre sono davvero allettanti perché spesso ben fatti in senso tecnico e musicale, ed è
difficile per gli insegnanti resistere alla tentazione di gratificare con qualcosa di gradevole e
ben confezionato sia gli stessi studenti sia i genitori che, sempre più condizionati dai media,
affollano le platee dei saggi finali armati di telecamere e colmi di aspettative. L’antico
problema, relativo alle discipline artistiche, del rapporto di valore tra processo e prodotto
continua a porsi nelle realtà educative con sempre maggiore forza. Non si tratta di
demonizzare la pratica del canto sulle basi, che una tantum può essere un’esperienza
piacevole e utile, ma là dove essa arrivi a configurarsi come una costante di lavoro, diventa
a mio avviso problematica.
Personalmente intravedo due ordini di problemi. Il primo è di carattere educativo
generale. Che la mancanza di ascolto sia uno dei mali maggiori che affliggono la nostra
attuale società è un dato di fatto, e ad esso si aggiunge il dato statistico del forte aumento
delle disfonie nei bambini e nei ragazzi, a causa dello stress acustico e psicologico cui sono
sottoposti quotidianamente. Il ragazzo che canta sulla base elettronica, molto spesso ad alto
volume, necessariamente urla, perché ha bisogno di ascoltarsi per cantare ma non ci riesce,
quindi inconsapevolmente si stressa in senso fisico e psichico; in più non ascolta le voci dei
compagni ma la base musicale, che gli dà il ritmo e i riferimenti necessari per intervenire
correttamente, per cui si relaziona con qualcosa di esterno al gruppo, perdendo così una
preziosa occasione per fare esperienza del processo di autoregolazione collettiva, un
meccanismo che qualifica e dà insostituibile valore educativo al far musica insieme.
Un accompagnamento strumentale acustico ha certamente maggiori possibilità di
interagire con le voci, a patto che vi sia attenzione agli equilibri sonori, e può essere anzi
stimolante se la qualità acustica degli strumenti è buona e la strumentazione ben fatta.
Sappiamo bene che la scuola offre scarse possibilità in questo senso, ma credo che
qualunque insegnante possa essere in grado di usare il proprio strumento (anche se
monodico) per accompagnare gli allievi o che possa inventarsi uno strumentario didattico
per arricchire, se non armonicamente, almeno timbricamente la melodia cantata. In ogni
caso è importante che il lavoro sulle voci venga fatto senza strumenti, così che i ragazzi
ascoltino bene la propria voce e quella dei compagni e valutino il loro prodotto sonoro, sia
pure ancora immaturo e traballante. È ovvio che, affinché questo lavoro di ascolto abbia
senso è necessario che la parte cantata sia musicale e ben pensata per le voci degli
studenti, o comunque ben “giocata”, cioè resa interessante dall’insegnante nella fase di
apprendimento. Se per apprendimento di un canto si intende solo imparare la melodia con il
suo testo, può in effetti andar bene tutto, anche estrapolarlo da una base registrata e
ripeterlo su di essa, se invece si intende altro (cfr. cap. 3.5), allora le voci hanno sempre
bisogno di una cura a parte. Credo che il messaggio importante che il cantare “a cappella”
può dare ai giovani è prima di tutto quello, brutale se si vuole, che prima di aprire bocca
bisogna ascoltarsi e pensare a ciò che si sta per dire o cantare, e in secondo luogo che il
silenzio ha molte cose da comunicare e non bisogna averne paura. Le voci che nascono dal
silenzio hanno un potere comunicativo assolutamente unico e insostituibile. Sul versante
della qualità dell’ascolto penso che si giochi la differenza fondamentale tra “educazione” e
“animazione” vocale.
L’altro problema è di ordine educativo musicale. Secoli di esperienza nelle cappelle vocali
hanno dimostrato che, come sa bene ogni direttore di coro, un gruppo non si formerà mai
dal punto di vista timbrico né i cantori risolveranno mai i loro problemi di intonazione se
permane l’abitudine a cantare con l’accompagnamento strumentale, poiché questo non
permette lo svilupparsi di un efficiente circuito audio-vocale. Voci musicali che cantano bene
con gli strumenti sono voci abituate ad ascoltarsi, poiché solo se ci si conosce vocalmente,
come singolo e come gruppo, e si è capaci di ascoltare, è possibile interagire realmente con
altri e non semplicemente lasciarsi trascinare. Imparare a godere del suono della voce è
molto più facile nella dimensione collettiva, ed è una chance che è davvero peccato lasciarsi
sfuggire.
III • Dal suono al canto
Dal sospiro all’urlo, dalla conversazione alla declamazione, dalla ninna-nanna alla grande aria
d’opera, il campo d’azione della voce è immenso…
Dal grido, la voce trae il suo potere istintivo: la voluttà, la potenza, la lacerazione. Essa è il
riflesso della nostra forza vitale.
Dalla parola, la voce trae il suo carattere sociale: la strutturazione e la comunicazione del
pensiero. La sua esigenza è l’intellegibilità.
Dal canto, la voce trae la sua trascendenza: il rapporto con la bellezza. La sua esistenza è la
materializzazione di un ideale.
Per quanto si cerchi nel vasto panorama degli strumenti musicali, non si trova una sorgente
sonora la cui complessità sia pari a quella della voce umana.
P. Righini
È importante per il ragazzo prendere atto della diversità dei valori estetici su cui ogni
cultura musicale si fonda: lo stesso tipo di emissione vocale, considerata scorretta e
sgradevole in alcuni contesti musicali, è invece apprezzata in altri; non esistono cioè modi di
cantare giusti o sbagliati in assoluto, voci belle o brutte per definizione, ma solo delle
sensibilità musicali differenti, e delle tecniche più o meno funzionali per dare espressione a
quelle sensibilità. Un’educazione vocale che promuova attraverso l’ascolto e la
sperimentazione il confronto con tecniche vocali e stili di canto diversi da quelli familiari
permette agli studenti di avvicinarsi con maggiore competenza alle altre culture musicali, e
nello stesso tempo li aiuta a prendere coscienza della propria identità vocale, sia personale
sia socioculturale.
Se dunque è ovvio che nella nostra scuola l’educazione della voce si fondi essenzialmente
sull’acquisizione e la pratica di tecniche e stili appartenenti alla nostra tradizione musicale –
sarebbe assurdo e illogico che così non fosse – ciò non toglie che sia possibile
l’avvicinamento a forme diverse di vocalità per comprenderne con i sensi, il corpo e la
mente la portata espressiva. L’esperienza vocale acquisterà più senso se affiancata da
attività di ascolto, che possono precedere o seguire la sperimentazione di una determinata
tecnica. Per questo il capitolo è corredato da alcune indicazioni discografiche, del tutto
parziali, che l’insegnante saprà sicuramente integrare utilizzando i propri strumenti di
ricerca2. È fondamentale ovviamente che l’ascolto dei documenti sonori, in disco o dal vivo,
sia sostanziato da un’attività di contestualizzazione storica o etnografica; altrimenti, che si
tratti del falsetto di un contraltista, della voce roca di un bluesman o di una tecnica di canto
popolare, la loro semplice imitazione, per quanto utile come esperienza vocale, rischierebbe
di rimanere uno sterile gioco di scimmiottamento.
I paragrafi che seguono analizzeranno dunque la voce in base alle sue principali
caratteristiche sonore, facendo riferimento, in maniera sintetica, da una parte ai
meccanismi fisiologici che le determinano e dall’altro ai contesti stilistici di utilizzazione,
tenendo fermo naturalmente il punto di osservazione didattico. La vastità dell’argomento,
tale da richiedere in teoria una trattazione a sé stante, induce necessariamente a una
semplificazione e riduzione delle problematiche e dell’informazione, per cui l’intento di
questa breve panoramica è semplicemente quello di offrire al lettore una prospettiva
generale di carattere tecnico-culturale, al cui interno inquadrare le tematiche
dell’educazione al canto.
Particolarmente emblematico della natura complessa della voce è il fenomeno dei registri,
la cui comprensione, da un punto di vista fisiologico, è premessa necessaria per l’analisi
delle caratteristiche sonore della voce. Il fatto che il meccanismo dei registri entri in gioco,
come vedremo, sia nei processi di regolazione dell’intensità e dell’altezza sia nella
definizione delle caratteristiche timbriche della voce, il fatto cioè che la sua manifestazione
da un punto di vista percettivo non sia univoca, ha determinato la nascita, all’interno della
trattatistica didattica, di numerose e spesso ambigue definizioni del termine registro. A
fronte del caos interpretativo la scienza foniatrica chiarisce che i registri sono “eventi di
tipo esclusivamente laringeo” (Fussi-Magnani 1994, p. 47), cioè modi di comportamento
della muscolatura laringea, identificabili anche acusticamente. Pertanto il termine registro,
nella sua accezione corretta, andrebbe a indicare degli ambiti di frequenze consecutive
prodotte attraverso uno stesso meccanismo muscolare.
Per comprendere la fisiologia dei registri è bene focalizzare la funzione di due importanti
muscoli laringei (tavv. III e IV): il muscolo vocale (fascio interno del muscolo
tiroaritenoideo), che ha il compito di accorciare e ispessire le corde, aumentandone la
sezione a contatto, e il muscolo cricotiroideo, che contraendosi fa ruotare la cartilagine
tiroidea su quella cricoidea, determinando l’allungamento delle corde che entrano in
contatto solo nel bordo libero. In base alle modalità di interazione tra questi due muscoli
vengono individuati due registri “primari”: il registro pieno, detto anche registro modale, e
il falsetto, detto anche loft register o registro leggero (ibid., p. 48). Il primo, tipico della
modalità parlata e della zona più grave dell’estensione vocale, è caratterizzato dalla
prevalente azione del muscolo vocale, che determina un saldo contatto delle corde in tutto il
loro spessore e quindi un’ampia vibrazione, acusticamente rilevabile in un ricco spettro
armonico. Nel registro di falsetto, connesso alla zona più acuta dell’estensione, prevale
invece l’azione del muscolo cricotiroideo, per cui le corde, più tese, vibrano solo nel bordo
libero, con la risultante di un suono acusticamente più povero.
Nella pedagogia vocale la focalizzazione percettiva sulle sensazioni vibratorie connesse a
questi due comportamenti laringei ha determinato la più comune accezione di registro di
petto e di testa, termini che secondo Fussi e Magnani sono da considerare impropri e
imprecisi in quanto riferiti non all’attività laringea ma a fenomeni di consonanza vibratoria
(ibid., p. 51). In sostanza, secondo i due foniatri, una volta dati come fondamentali i due
registri primari, cioè le due modalità di comportamento laringeo, se si prendono in
considerazione gli aggiustamenti del tratto vocale che ad essi possono sovrapporsi e le
sensazioni di risonanza e vibrazione che ne derivano, è possibile identificare e definire altri
tipi di registri, che sarebbero eventualmente da classificare come “secondari”, in quanto
derivanti appunto dalla combinazione dei due meccanismi laringei con diverse modalità di
adattamento delle cavità di risonanza.
Di fatto nei testi didattici i termini in genere più usati sono quelli di registro di petto e di
testa, ai quali si aggiunge il registro misto, relativo alle zone centrali dell’estensione vocale,
caratterizzato da un’attività di bilanciamento degli altri due registri. Pochi invece i testi che
allargano la tipologia, entrando in particolari e differenze molto dettagliate. La materia,
come già detto, rimane comunque complessa, e il suo approfondimento esula dalle finalità
di questo testo. Ritengo invece più utile indagare sui modi in cui le diverse prassi esecutive,
connesse ai diversi stili e generi di canto, utilizzano i registri, nella loro più o meno ampia
accezione.
Il registro pieno è quello che comunemente tutti usiamo nel parlato e, di conseguenza, è
quello che la maggior parte delle persone non educate vocalmente tende a usare nel canto,
anche perché favorisce una enunciazione più naturale della parola e quindi una sua migliore
intelligibilità. Essendo connesso alla zona grave dell’estensione, e per la risposta vibratoria
che determina nella cassa toracica, viene definito anche registro di petto. Le sue
caratteristiche di densità e spessore, determinate dall’ampia vibrazione delle corde, lo
pongono in relazione privilegiata con la drammaticità dell’espressione cantata; se tale
registro viene forzato nell’altezza tonale diventa grido. È caratteristico quindi della vocalità
popolare in genere, del rock e delle voci nere femminili del blues e del gospel. Il suo limite
sta nell’estensione. Infatti se si cerca di portare la modalità piena oltre la zona medio-bassa
dell’estensione si avvertirà una sorta di rottura nella voce, in un punto (definito passaggio)
oltre il quale per continuare a salire entrerà in gioco automaticamente la modalità leggera.
Naturalmente è possibile forzare questo punto di passaggio continuando a salire in voce
piena, come fanno spesso i ragazzi per imitare i loro idoli rock, con il rischio però di
danneggiare le corde vocali. Esistono tuttavia delle tecniche che usano la modalità di
registro pieno portato verso l’acuto; tra queste in particolare il belting, tipico della vocalità
del musical americano, caratterizzato da un suono pieno, brillante e talvolta aggressivo,
come quello, ad esempio, della cantante Liza Minnelli3.
Quando la voce si sposta verso le frequenze molto gravi viene a configurarsi il cosiddetto
strohbass o vocal fry, registro caratteristico di alcune particolari voci di basso asiatiche o
dell’Europa orientale, il cui meccanismo non è ancora del tutto conosciuto a livello
fisiologico, anche se è evidente una non completa chiusura delle corde vocali con relativa
perdita di aria ed emissione roca. Ovviamente non è mai usato nel canto classico. Un
esempio nel jazz è dato dalla voce universalmente nota di Louis Armstrong.
Il termine falsetto è sicuramente uno dei più ambigui quanto a interpretazione, poiché la
terminologia tecnica spesso si confonde con l’uso che viene fatto della parola stessa nel
linguaggio corrente. Se riferito alle voci maschili, comunemente identifica una modalità,
spesso umoristica, di imitazione della voce femminile o infantile, che porta l’uomo a
spostarsi su frequenze per lui inusuali. In questo caso la voce acuta è prodotta
fisiologicamente attraverso una vibrazione parziale delle corde vocali, come in qualunque
altro strumento a corde. Nella produzione artistica il falsetto maschile è utilizzato talvolta
dai tenori leggeri delle compagini corali, quando la melodia richiede l’uso di tessiture molto
elevate, e nel repertorio rinascimentale e barocco dai controtenori (o tenori contraltisti),
che compensano la povertà del suono originario attraverso tecniche di risonanza
particolarmente raffinate4. Non è raro l’uso del falsetto maschile anche nel jazz e nella
musica leggera5. Nell’ambito della musica rock uno degli esempi di falsetto considerati
storici è il solo “I only want to say” cantato dal personaggio di Jesus nel musical Jesus Christ
Superstar (1972).
Nel caso della voce femminile e infantile, con voce di falsetto si intende solitamente una
modalità di emissione molto chiara e fissa (cioè priva di vibrato), che caratterizza la zona
più alta dell’estensione. Si parla anche di voce di testa pura, per distinguerla da una voce di
testa – cioè da una modalità leggera – armonicamente più ricca. Come vedremo più avanti
(capp. 3.1.3 e 3.2), il lavoro sul registro leggero acquista nella didattica vocale infantile una
particolare importanza per lo sviluppo dell’estensione e dell’intonazione. Molti ragazzi
infatti nella riproduzione di una melodia medio-alta tendono a stonare perché, non
conoscendo e non sapendo usare il registro di testa, cercano di riportare la melodia nella
zona del registro modale, con inevitabili aggiustamenti intervallici che si traducono in
storpiature della melodia.
Alcune voci femminili e infantili molto leggere, frutto di un organo laringeo di piccole
dimensioni, nei “sovracuti” (al di sopra del do5)6 utilizzano il cosiddetto registro di fischio o
flautato.
Da questa prima veloce panoramica emergono subito due considerazioni importanti dal
punto di vista didattico:
– ogni registro è correlato a una particolare zona dell’estensione individuale, cioè della
gamma di frequenze che ogni voce può produrre, ma è bene tenere presente che i confini
dei registri non sono netti, e che è possibile produrre una stessa frequenza con diverse
modalità di registro (cfr. cap. 3.1.3);
– ogni registro si manifesta all’interno della vocalità soggettiva attraverso caratteristiche
timbriche diverse, più ricca quella del registro pieno (come dice il termine stesso), più
povera di armonici quella leggera o di falsetto.
Relativamente a questo secondo punto è sicuramente utile per l’educatore rendersi conto
di come le diverse prassi esecutive gestiscono i registri, al fine di comprendere meglio le
possibilità espressive offerte dall’uso di questo aspetto così peculiare della voce umana.
Schematizzando possiamo dire che esistono tecniche e stili che utilizzano distintamente i
registri, contrapponendoli ed esaltandone (a volte esasperandone) le differenze timbriche,
mentre altre tecniche mirano ad avvicinarli il più possibile, minimizzandone le differenze al
fine di rendere timbricamente omogenea tutta la tessitura vocale.
L’esempio più eclatante della prima categoria è lo jodler, tecnica da noi conosciuta
attraverso i canti popolari dell’area alpina tedesca, caratterizzata da passaggi repentini da
un registro all’altro anche grazie all’uso di intervalli melodici piuttosto ampi (Wise 2007)7.
La stessa tecnica, sia pure in contesti musicali molto diversi, è presente anche in altri
generi popolari, come il country americano, di cui è rappresentativo per l’uso dello jodler lo
stile vocale di Hank Williams (CD39). Numerosi esempi di giustapposizione netta dei due
registri sono riscontrabili nella musica jazz8, mentre assolutamente particolare è il caso di
Bobby McFerrin che, grazie alla sua incredibile agilità vocale, può passare molto
velocemente dal registro modale al falsetto, dando così da solo la sensazione di una
polifonia a due parti9.
Nell’ambito della musica colta la vocalità contemporanea ricorre con frequenza alla
contrapposizione dei due registri10, mentre la vocalità classica giustifica un loro uso
scopertamente distinto solo nel caso di espressioni drammatiche particolarmente forti, ai
limiti del teatrale, come ad esempio nel Lied di Schubert Erlkönig, dove il dialogo tra il
fanciullo e il padre, realizzato dal punto di vista melodico distribuendo in ambiti diversi
dell’estensione le voci dei due personaggi (es. 7), viene risolto dall’interprete
contrapponendo un registro leggero (il bambino) a uno più pieno e scuro (il padre)11.
Es. 7. Franz Schubert, Erlkönig, batt. 35-45
In effetti l’estetica del belcanto che è alla base anche della vocalità corale classica, ritiene
inaccettabile qualunque forma di cambiamento timbrico – tanto più se repentino –
all’interno della stessa linea melodica, e tende quindi a mascherare i cosiddetti “passaggi”.
Nell’uso del registro misto o medio si può identificare la modalità più naturale per fondere
e miscelare i due opposti registri. Esso è determinato fisiologicamente da un gioco di
equilibri tra il muscolo vocale (principale responsabile del registro di petto) e il muscolo
cricotiroideo (principale responsabile del registro di testa) che nella zona media della voce
bilanciano la loro azione intervenendo in misura diversa a seconda che la melodia scenda
verso il grave o salga verso l’acuto. Questo raffinato meccanismo di bilanciamento della
muscolatura intrinseca è favorito da una posizione neutra della laringe, cioè una posizione
in cui la muscolatura estrinseca (sistema di sospensione laringea) gode di un equilibrio
ottimale. Attraverso il registro misto le caratteristiche timbriche della voce di testa e di
petto possono avvicinarsi: la voce di petto, e quindi la zona grave della voce, guadagnerà in
leggerezza mentre il registro di testa potrà acquistare più corpo e rotondità. L’uso del
registro misto permette quindi di omogeneizzare la parte centrale della tessitura vocale,
evitando così di lasciare allo scoperto i punti critici di cambiamento di registro (passaggi).
Nell’impostazione vocale che caratterizza il canto lirico per rendere omogenea l’emissione
in tutta l’estensione vocale, per passare cioè dai suoni medi a quelli acuti, si ricorre alla
cosiddetta “copertura” dei suoni, ottenuta intervenendo sulla posizione laringea e sulle
dimensioni del tratto vocale, in particolare attraverso l’innalzamento del velo palatino e
l’abbassamento di lingua e mandibola. Queste modificazioni danno luogo a un suono
brillante ma rotondo, più pieno rispetto al semplice falsetto (o registro leggero), e quindi a
degli acuti molto risonanti ma morbidi.
Per quanto concerne la vocalità infantile corale, le scuole di pensiero riguardo all’uso dei
registri sono molteplici. Kenneth Phillips, nel suo testo (1992) rivolto ai direttori di coro,
valuta negativamente il modello inglese di vocalità infantile tramandato per secoli dalla
Royal School of Church Music. Secondo questa tradizione i maschi possono cantare
esclusivamente in voce di testa e cantano pertanto solo parti di soprano, fino a che,
sopravvenendo la muta, cessano di cantare per tutto il periodo del cambiamento. Secondo
Phillips questo modello, pur apprezzato nel mondo, non è pedagogicamente corretto perché
l’approccio esclusivo alla pura voce di testa determina un suono scarsamente bilanciato e
poco vitale nella zona media della voce, mentre l’uso del registro basso o di petto (visto
favorevolmente nelle altre scuole corali europee e in quelle americane) determina una
qualità sonora più corposa, sviluppa le abilità necessarie per affrontare anche le parti di
contralto, e prepara meglio i ragazzi alle trasformazioni della pubertà, non impedendo loro
di continuare a cantare nel periodo della muta vocale (cfr. cap. 3.2). In sostanza, pur
cercando di evitare il canto a intensità elevata nel registro basso, e dando sempre molto
rilievo alla voce di testa, è importante, secondo Phillips, coltivare tutti e tre i registri – di
petto, misto e di testa – al fine di omogeneizzare timbricamente tutta la gamma vocale e
produrre una qualità sonora piena e quindi più interessante e accettabile per gli stessi
ragazzi (Phillips 1992, p. 45).
Nelle attività di laboratorio incentrate sull’esplorazione vocale la scoperta dei registri può
avvenire più facilmente partendo dalla voce parlata:
• È possibile avere un’idea del registro di strohbass nel parlato provando a riprodurre
quel tipo di voce un po’ roca e gorgogliante che si ha al mattino appena svegli quando
tutto il sistema nervoso è ipotonico e con esso anche i muscoli laringei. Proponiamo di
parlare con questa voce molto rilassata e di improvvisare qualche conversazione a due o
tre persone. Interessante è anche sperimentare il passaggio dallo strohbass al registro
modale (voce piena) e viceversa: aiuta gli studenti a capire qual è il livello minimo di
tensione e di chiusura delle corde necessario per passare da un rumore laringeo
(gorgoglio) a un suono pieno.
• Chiediamo ai ragazzi di trovare vari modi di ridere: risatina isterica-nervosa, risata
malvagia (tipo strega), cattiva (tipo orco), sguaiata, contenuta ecc. La ricerca può
concludersi con un’improvvisazione sul tema “risata” (non difficile da realizzare,
considerando quanto sia contagioso il riso!). Questa attività svolge la funzione di far
nascere sensazioni evidenti di risonanza in zone diverse del corpo (testa, gola, petto) e
serve quindi a preparare il passaggio successivo, che sarà quello di parlare utilizzando le
stesse zone di risonanza della risata: ciò porterà a individuare delle tipologie di
personaggi, anche fantasiosi, la cui voce si collocherà appunto in registri diversi del
parlato, e che potranno dialogare tra loro o diventare personaggi di storie da inventare.
Naturalmente questo è solo un modo per avvicinarsi ai registri della voce cantata la cui
esteriorizzazione, come già detto, è più connessa ad aspetti relativi all’estensione e al
timbro vocale (vedi paragrafi successivi).
• Un’esperienza che nel cantato rende molto evidenti i due registri opposti è, come
abbiamo detto, lo jodler. Serena Facci (1997, pp. 55-6) riporta l’esperienza svolta in una
classe di scuola media, dove i ragazzi partendo dall’ascolto e dall’imitazione di alcuni
canti pigmei si sono cimentati nella produzione di jodler. È possibile inventare delle
melodie in questo stile utilizzando intervalli ampi e avendo cura, per facilitarne la
realizzazione vocale, di porre vocali aperte (“a”, “o”, “e”) sulle note di petto e la “i” sulle
note di testa, come in questo esempio tratto da Wise (2007):
Es. 8. Jodler refrain da “Dear Old Sunny South by the Sea” di J. Rogers (1928)
Un’emissione sempre focalizzata sul registro di petto, ma meno pressata e più morbida è
quella delle voci di contralto della musica leggera, in particolare delle cantanti cosiddette
“realiste”, come ad esempio Edith Piaf, il cui timbro un po’ opaco e velato, decisamente
caldo e affascinante, arricchisce di drammaticità l’enunciazione del testo poetico, così
importante nella canzone francese.
Quando le sensazioni di risonanza si spostano nella faringe medio-alta e verso il naso, il
timbro diventa marcatamente metallico mentre la vocalizzazione rimane piuttosto
schiacciata. Tra gli esempi più evidenti di questa tipologia di emissione spiccano sul
versante maschile i tenores sardi (CD45) e su quello femminile le “voci bulgare” (CD44),
entrambi rappresentativi di una polivocalità molto densa sul piano sia timbrico sia
armonico. Una discreta nasalizzazione, sempre unita a un’emissione di gola caratterizza
anche il “canto armonico” della tradizione mongola, sul quale ci soffermeremo più avanti,
date le sue particolarità di produzione (cap. 3.1.3).
La voce nasale dal punto di vista fisiologico è determinata dall’abbassamento del velo
palatino (tav. VIII), che permette alla vibrazione sonora di mettere in risonanza anche le
cavità nasali. Essendo il velo palatino molto mobile ed elastico, la nasalizzazione del suono
può variare notevolmente in quantità e qualità, anche in base all’atteggiamento complessivo
del tratto vocale e della muscolatura laringea. Nella tradizione vocale dell’estremo Oriente
(Cina e Giappone), ad esempio, la nasalizzazione si accompagna molto spesso al registro di
testa, producendo un suono molto chiaro e talvolta stridente. Un timbro nasalizzato
caratterizza anche la vocalità dei nativi indiani del Nord America (CD43).
All’emissione aperta e chiara, tipica di gran parte delle tradizioni etniche, e in genere
delle forme di vocalità spontanea, si contrappone l’emissione più scura e “coperta” della
voce lirica, simbolo della vocalità occidentale colta, e frutto dell’estetica ottocentesca. Ho
accennato a questa parlando dei registri poiché la tecnica di “copertura” della voce è
determinata dalla necessità di omogeneizzare timbricamente tutta la tessitura vocale e di
mimetizzare le zone di passaggio tra un registro e l’altro, permettendo alla voce di muoversi
in un ambito melodico molto ampio con agilità e potenza nello stesso tempo, come richiesto
dalla scrittura e dall’estetica del melodramma ottocentesco. Essa viene realizzata attraverso
particolari aggiustamenti del tratto vocale (abbassamento della mandibola e della laringe,
appiattimento della lingua, elevazione del velo palatino) e richiede una buona tonicità della
muscolatura delle labbra, delle narici e della faringe. Le sensazioni vibratorie sono
focalizzate nella testa e in particolare nella zona anteriore (suono “in maschera”).
L’emissione “coperta” dà luogo a una sonorità di colore più scuro rispetto a quello della voce
naturale, ma nello stesso tempo brillante (viene esaltata in particolare la formante dei 3000
Hz), e si accompagna a un’enunciazione delle vocali chiusa e arrotondata. È la voce
“impostata” per eccellenza, modello dominante delle scuole di canto occidentali. La sua
estremizzazione verso il timbro scuro avviene con l’emissione “intubata”, ottenuta
attraverso un abbassamento artificioso ed eccessivo della laringe ad opera dei muscoli
sottoioidei, che ha come risultato un suono pesante e sfocato (Juvarra 1987).
Gli aggettivi con cui sono state fin qui descritte le qualità della voce rappresentano
ovviamente solo una minima parte rispetto a quelli ipoteticamente attribuibili. Il suono
vocale infatti assume nella mente dell’ascoltatore delle caratteristiche differenziate in base
alle sensazioni fisiche e uditive percepite, che trovano una corrispondenza interiore in
immagini qualitative di carattere emotivo/affettivo e di natura sensoriale (cfr. cap. 2.2). Ecco
allora che la voce viene sentita come calda o fredda, avvolgente o penetrante in base alla
composizione dello spettro armonico e al modo in cui esso mette in risonanza l’ambiente,
come pesante o leggera in base alla massa vibrante delle corde, come dura o morbida in
base alle modalità di attacco e di tenuta del suono derivanti dalla forza di accollamento
delle corde vocali. Il loro modo di entrare in contatto dal punto di vista quantitativo e
qualitativo è certamente uno degli elementi che maggiormente sollecita l’immaginario
sensoriale dell’ascoltatore. L’aspetto materico delle corde vocali viene colto nelle sue qualità
di consistenza, spessore, trama, grana, e fa parlare di voce fine o grossa, esile o corposa,
compatta o sfibrata, liscia o ruvida. Così il semiologo francese Roland Barthes si esprime
riguardo alla “grana” della voce, da lui definita “il corpo nella voce che canta”:
Ascoltate un basso russo di chiesa […]: c’è qualcosa, di manifesto e ostinato (non si percepisce altro),
che è al di là (o al di qua) del senso delle parole, della loro forma (la litania), del melisma, e anche dello
stile d’esecuzione: qualcosa che è direttamente il corpo del cantore, portato in un unico moto, al vostro
orecchio, dal fondo delle caverne, dei muscoli, delle mucose, delle cartilagini, e dal fondo della lingua
slava, come se una stessa pelle tappezzasse le carni interne dell’esecutore e la musica che egli canta.
(Barthes 1972, p. 58)
Tra le pieghe della materialità della voce ha indagato e trovato nuovi spunti espressivi la
musica vocale del Novecento, valorizzando molti aspetti timbrici considerati inaccettabili
dall’estetica belcantistica che ha sempre attribuito alla purezza dello spettro armonico un
valore basilare. Componenti di rumore sono entrate nella voce cantata, mutuando tecniche
dalla musica etnica e dal rock. L’esempio estremo è forse la voce di Demetrio Stratos,
ineguagliato vocalista prematuramente scomparso14, che sperimentando anche le tecniche
di fonazione “ingressiva” (cantare inspirando invece che espirando)15, ha dato alla voce dei
colori quasi disumani (si vedano in particolare le Criptomelodie infantili, CD25). Sia Stratos
sia altri vocalisti contemporanei (tra cui Meredith Monk) nell’usare la tecnica “ingressiva”
si sono ispirati ai katajjait, giochi vocali di imitazione a canone praticati dagli Inuit
(Eschimesi) nei quali il ritmo è scandito proprio dall’alternanza di atti inspiratori ed
espiratori, che acquistano sonorità e colori timbrici diversi grazie a un uso differenziato del
tratto vocale e dei registri (CD42).
Il colore timbrico, connesso alle varie modalità di emissione, è sicuramente uno degli
aspetti della voce che più affascina i ragazzi. È infatti il sound vocale, insieme con
l’immagine fisica, a delineare la personalità artistica e umana dei loro idoli pop/rock. «Noi ci
innamoriamo – racconta un adolescente – di certe caratteristiche della voce che ci appaiono,
più o meno consapevolmente, come i sintomi della personalità di un certo individuo. […]
Sentiamo la voce, la sua “grana” come qualcosa che quella persona possiede senza aver
fatto nulla per possederlo: un dono… ed è proprio questa innocenza a sedurci» (Ferrari
2002, p. 849). Da questo fascino, legato anche alla ricerca di un modello di personalità con
cui identificarsi, prendono l’avvio i tentativi, più o meno timidi o sfacciati, da soli o in
gruppo, di imitazione delle voci modello, attraverso cui il ragazzo impara a conoscere la
propria voce e chiarisce a se stesso la propria immagine, e quindi la propria identità.
Il confronto, necessariamente parziale, con modelli vocali/culturali diversi può essere
incoraggiato nel contesto educativo non solo attraverso l’ascolto, ma anche attraverso
un’attività di ricerca laboratoriale incentrata sulle diverse modalità di emissione e quindi
sulla materia timbrica della voce. I percorsi possibili sono molteplici, e naturalmente si
dovrà avere cura di non spingere mai la sperimentazione oltre i limiti fisiologici delle voci
degli studenti (soprattutto se sono piccoli di età), limitando quindi anche nella durata le
esperienze vocali più ardue.
• Partendo dall’ascolto dei brani vocali, senza fornire preventive spiegazioni tecniche,
chiediamo agli studenti di individuare “per risonanza” (partendo cioè dalle sensazioni
fisiche provocate all’ascolto) le tecniche usate e di provare a imitarle.
• Dato un canto tradizionale (ad esempio sardo o napoletano), invitiamo gli studenti a
individuare attraverso l’ascolto di documenti sonori originali le caratteristiche timbrico-
stilistiche proprie di quella particolare tradizione vocale e di riprodurle applicandole al
canto scelto.
• È possibile al contrario partire dall’esplorazione di varie modalità di emissione vocale,
attraverso la ricerca di differenti sensazioni di vibrazione e risonanza corporea, o
attraverso delle attività di tipo sinestesico (v. cap. 2.2.2) per approdare poi all’ascolto di
esempi tratti dai vari repertori musicali.
• Una volta individuate alcune differenti tipologie di emissione vocale, proponiamo agli
studenti di sperimentarle tutte su uno stesso canto, valutando i cambiamenti espressivi e
anche stilistici che ne conseguono. È infatti inevitabile che cambiando la tecnica vocale
cambi anche lo stile16. La variazione timbrica di uno stesso canto può sottolineare anche
delle sfumature espressive: la stessa melodia cantata con voce più chiara o più scura, più
corposa o più esile, può infatti acquistare significati diversi.
• Alla ricerca timbrica contribuiscono le attività di deformazione della voce17, spesso
usate spontaneamente nei giochi infantili e praticate con varie tecniche: l’uso di oggetti
esterni applicati alla cavità orale (ad esempio mani davanti alla bocca o tubi che
prolungano le cavità di risonanza), oppure manipolazioni del tratto vocale che portano a
emissioni sonore particolari, come il fischio, che nelle sue tante varianti si può
considerare una vera e propria forma di virtuosismo vocale quando è usata a livello
artistico (si pensi all’uso che ne ha fatto Morricone nelle sue colonne sonore Western18).
L’esplorazione timbrica può essere alimentata, come abbiamo visto, dall’attività imitativa.
In particolare l’imitazione della voce di altre persone comporta, oltre a una buona duttilità
vocale, anche un discreto livello di sensibilità uditiva unito alla capacità propriocettiva di
registrare “per risonanza” le sensazioni fonatorie della persona ascoltata. Chi imita,
insomma, deve saper ascoltare anche con il corpo. La pratica imitativa è pertanto un ottimo
esercizio per l’orecchio e la voce, e se raffinata attraverso un lavoro consapevole crea le
premesse per lo sviluppo di attitudini importanti per l’attività corale, quali la ricerca
dell’omogeneità timbrica nelle sezioni corali o la calibratura dell’intonazione (cap. 3.3.1).
Contraffare la voce implica inoltre una manipolazione delle cavità di risonanza che può
stimolare soprattutto le voci rigide, poco flessibili, nel trovare nuove forme di emissione e
nuovi colori. In generale i ragazzi si divertono a imitare e non hanno bisogno di essere
molto sollecitati. L’obiettivo può essere casomai quello di andare oltre il puro gioco per
renderli consapevoli delle sonorità trovate, utilizzandole in attività di invenzione o di
esecuzione di repertori corali.
Oggetto di imitazione possono essere anche i timbri strumentali. Gli esempi sono tanti,
soprattutto nel jazz, a partire dalla perfetta imitazione della tromba che Bobby McFerrin
usa spesso nelle sue performance19. Diversi sono i gruppi vocali che giocano con
l’imitazione strumentale, traducendo talvolta in “orchestre vocali” delle intere composizioni
sinfoniche. Mi riferisco prima di tutto agli storici Swingle Singers20, ma anche a gruppi
italiani che operano nel settore della musica leggera (come i Neri Per Caso).
Esistono inoltre nel repertorio cameristico contemporaneo delle composizioni in cui è
richiesto alla voce, sganciata completamente dal testo verbale, di vocalizzare
omogeneizzandosi il più possibile con gli strumenti, come nel brano di R. Pezzati Figure (per
soprano, due violini e viola) dove la voce è concepita come un elemento dell’ensemble di
archi (es. 9).
• I repertori vocali didattici sono ricchi di brani, molto spesso canoni, ispirati agli
strumenti musicali, che danno l’opportunità di provare le capacità imitative dei ragazzi.
Il lavoro consiste nel differenziare il più possibile il timbro vocale per avvicinarsi, nei
limiti consentiti dall’articolazione delle parole, al suono dei diversi strumenti. Ad
esempio, nel caso del Canone dell’orchestra (es. 10, p. 166) per rendere più facile
l’imitazione si può cantare non a canone ma per accumulazione; il gruppo verrà cioè
diviso in “sezioni strumentali”, specializzate ognuna in uno strumento diverso anche in
base alle tessiture vocali dei cantori, che entreranno l’una dopo l’altra e si
aggiungeranno l’una all’altra completando “l’organico orchestrale”. Nel canto originale
ogni strumento viene associato a sillabe onomatopeiche, ma quello che si richiede ai
ragazzi non è una semplice onomatopea verbale (della quale parleremo più avanti) ma
un vero e proprio lavoro di deformazione delle cavità di risonanza, che porti la voce il più
vicino possibile al suono strumentale. A tal fine si può eliminare completamente la
componente verbale lasciando la pura vocalizzazione. Con un criterio simile si può
cercare, magari con i ragazzi più grandi, di trasformare totalmente o parzialmente dei
brani strumentali in brani vocali, tenendo presente che per fare questo l’estensione delle
singole parti dovrà essere contenuta, poiché è molto difficile riuscire a intonare
deformando la voce se la tessitura vocale è troppo ampia.
Es. 9. Romano Pezzati, Figure (frammento iniziale) [Milano, Suvini Zerboni 1978]
Anche nel caso di imitazione di suoni e rumori di oggetti (la porta che cigola, la sirena
della polizia ecc.) o di animali21, un efficace lavoro sull’emissione richiede che non ci si
limiti alla semplice pronuncia delle sillabe onomatopeiche, ma che si attivino realmente i
risuonatori necessari alla creazione del particolare suono dell’oggetto. Voci realmente
“miagolanti”, ad esempio, sono richieste, oltre che nel famoso Duetto buffo dei gatti di
Rossini (CD22), anche in un’intera scena della fantasia lirica L’Enfant et les sortilèges (es.
11) di Ravel (CD23).
Es. 11. Maurice Ravel, L’Enfant et les sortilèges, scena dei gatti (frammento iniziale)
Nel laboratorio i suoni imitativi sperimentati possono servire per sonorizzare delle storie,
oppure possono essere utilizzati come codici sonori per guidare i compagni in giochi di
orientamento spaziale (percorso a occhi chiusi, caccia al tesoro ecc.)22.
Ogni individuo ha una propria estensione vocale (o range), cioè una gamma di frequenze
che è in grado di riprodurre attraverso la voce. Nel parlato ordinario la voce si muove
solitamente in un ambito frequenziale piuttosto limitato (all’incirca una quinta), mentre nel
cantato l’estensione assume valori decisamente più ampi, che possono mutare sensibilmente
con lo sviluppo della consapevolezza vocale e con la pratica del canto. In realtà già nell’uso
della voce legato a particolari stati emotivi (ad esempio nel grido e nel lamento), o a
situazioni che esigono una forte energia comunicativa (come nel richiamo a distanza), si
assiste a uno spontaneo e a volte significativo ampliamento della gamma sonora,
fisiologicamente determinato da un generale aumento del tono muscolare e dall’uso di una
maggiore pressione nell’atto fonatorio. Per lo stesso motivo bambini anche molto piccoli
durante le attività di gioco, soprattutto se accompagnate dal movimento, possono
raggiungere altezze tonali estreme, che rimangono poi del tutto inutilizzate nella vocalità
quotidiana. Esse infatti sono espressione del bisogno di manifestare la propria presenza e di
una esuberante energia che, salvo repressioni ambientali, tende a incanalarsi e scaricarsi
spontaneamente nella voce e nel movimento del corpo.
Proprio partendo da queste considerazioni Alfred Wolfsohn, cantante e insegnante di
canto operante nella prima metà del Novecento prima in Germania e poi a Londra, elaborò
la pedagogia vocale sulla cui base nacque e si sviluppò il lavoro artistico e didattico del Roy
Hart Theatre24. Wolfsohn, impressionato dalla ricchezza e potenza delle espressioni vocali
spontanee dei feriti e dei moribondi durante la guerra, giunse alla convinzione che i limiti
della voce sono legati non tanto alle caratteristiche dell’organo vocale quanto al livello di
relazione che attraverso la voce l’individuo instaura con la propria energia interiore.
Secondo la visione di Wolfsohn non solo la gamma timbrica di ogni voce è infinita, ma anche
la gamma tonale può estendersi ben oltre le due o tre ottave considerate “fisiologiche”,
come testimoniano alcune registrazioni storiche della voce stessa di Roy Hart.
In effetti la sperimentazione musicale del ventesimo secolo, valorizzando la dimensione
più strettamente “strumentale” della voce, ha spinto la produzione vocale e corale a
sganciarsi, almeno parzialmente, dalla parola in quanto entità semantica (cfr. cap. 3.3),
permettendo così alla voce non solo di ampliare la sua gamma timbrica ma anche di giocare
più liberamente con l’altezza del suono. Lo “spazio” vocale/frequenziale viene utilizzato fino
ai suoi estremi limiti e viene percorso in modi un tempo inusuali: glissando, muovendosi per
microintervalli o invece per salti molto ampi che portano la voce a spostarsi repentinamente
da un registro all’altro. Propongo come esempio due brevissimi frammenti corali. Nel primo,
tratto da Scherzo di Edlund (es. 12), si può osservare come la scrittura richieda alle sezioni
corali di intonare non un suono preciso ma il suono “più alto possibile” e quello “più basso
possibile”, che ovviamente non sarà lo stesso per tutti i coristi. Nel secondo frammento (es.
13), estrapolato da un brano di Lorentzen per coro misto, è chiesto a tutte le sezioni di
muovere dei cluster glissando dall’acuto al grave per poi convergere su un unisono.
Es. 12. Lars Edlund, Scherzo, da Körstudier (frammento iniziale) [Stockholm,W. Hansen 1982]
Es. 13. Bert Lorentzen, Olof Palme (frammento iniziale) [Copenhagen, W. Hansen 1986]
Una tecnica vocale particolare, che ha più a che fare con la dimensione timbrica, ma di
fatto permette alla voce di ampliare lo spazio frequenziale conquistando la dimensione
armonica, è quella del canto difonico, che la vocalità occidentale colta ha mutuato dal
folklore extraeuropeo.
Il canto armonico o difonico, presente in Tibet e in Mongolia, è caratterizzato dalla
sovrapposizione di due linee melodiche eseguite da un’unica voce. Di esse la prima è
costituita da suoni lunghi tenuti (suoni fondamentali) e la seconda dagli armonici
(overtones) dei fondamentali, selezionati e amplificati attraverso particolari tecniche di
modificazione delle cavità di risonanza25 e organizzati in sequenze melodiche. La forte ed
evidente nasalizzazione è funzionale al rinforzo degli armonici e all’attenuazione dei suoni
fondamentali. Si tratta in sostanza di un processo nel quale le variazioni di frequenza non
dipendono dalla muscolatura delle corde vocali, che emettono un solo suono (la
fondamentale), ma dal lavoro di filtraggio della cavità orale (una sorta quindi di melodia
timbrica). Mentre dai monaci tibetani il canto armonico non è considerato una pratica
musicale, essendo parte dei rituali del buddismo tantrico (CD41), per i cantori di Tuva è
invece una vera e propria forma di virtuosismo vocale (CD40). David Hykes, fondatore e
direttore dell’Harmonic Choir, gruppo vocale che usa il canto armonico nella dimensione
polifonica (CD27), sostiene che la difonia non è poi così estranea all’occidente e che, stando
ad alcuni documenti dell’Europa medievale, alcuni monaci cristiani avrebbero constatato
occasionalmente la presenza di un “movimento armonico” sovrastante il loro canto,
attribuendolo però a un intervento angelico (Murray Schafer 2000). In ogni caso l’occidente
europeo, affascinato da queste tecniche, le ha studiate con i propri strumenti scientifici26 e
le ha acquisite all’interno della propria produzione musicale. Il primo compositore a
utilizzarle fu Stockhausen in Stimmung per 6 voci (CD8), un brano la cui uscita nel 1968
fece grande scalpore, mentre particolare, perché inesistente e proibito nella tradizione
orientale, è l’uso al femminile proposto da Meredith Monk (ad esempio in Silo, CD28). In
Italia il canto armonico acquistò popolarità soprattutto attraverso le performance di
Demetrio Stratos, la cui discografia è ricca di esempi di diplofonie e triplofonie, cioè accordi
di due e tre suoni (CD26)27.
In molti stili vocali del folklore orientale e occidentale, e della musica rock/pop
attualmente diffusa, l’accesso alle zone acute dell’estensione vocale è ottenuto, dal punto di
vista fisiologico, attraverso la manipolazione della muscolatura extralaringea e attraverso
l’uso di una forte pressione sottoglottica, determinando la produzione di sonorità dure e
aspre. È infatti possibile, innalzando la laringe attraverso l’azione della muscolatura
estrinseca e dando maggiore pressione al flusso aereo (ovvero “spingendo”) provocare uno
stiramento e assottigliamento delle corde vocali, ottenendo in questo modo la produzione di
frequenze acute. Analogamente è possibile, sempre attraverso la muscolatura esterna alla
laringe, provocare al contrario un accorciamento e ispessimento delle corde, forzando la
voce verso il grave. Questi espedienti vengono utilizzati in modo inconsapevole anche dalle
persone che non hanno una vocalità spontaneamente autoregolata e che non sono educate
vocalmente, ma se il loro uso è protratto nel tempo possono mettere seriamente a rischio la
salute della voce.
Dove invece l’estetica vocale dà valore a un’emissione morbida e a un suono
acusticamente equilibrato nelle sue componenti, come nel genere colto solistico e corale, o
là dove si ricerchi un uso economico della voce (massimo risultato con il minimo sforzo) la
gestione delle altezze avviene esclusivamente attraverso processi laringei intrinseci. La
regolazione dell’altezza del suono è infatti frutto dell’azione coordinata del muscolo
cricotiroideo, che determina l’allungamento e l’assottigliamento delle corde vocali, e del
muscolo tiroaritenoideo (vocale), che contraendosi le accorcia e ne aumenta la massa (tav.
III). Poiché questo raffinato meccanismo di regolazione implica che le cartilagini laringee si
articolino liberamente tra loro (in particolare la cartilagine tiroidea ruota su quella
cricoidea) si rende necessaria la massima “neutralità” della muscolatura estrinseca, cioè
una condizione di bilanciamento ottimale del sistema di sospensione, che permetta alla
muscolatura intrinseca della laringe di poter lavorare con il minimo dispendio energetico.
Questa condizione è favorita in modo particolare dal rilassamento dei muscoli sottoioidei e
quindi della mandibola, motivo per cui nella didattica del canto classico la scioltezza
dell’articolazione mandibolare è considerata un requisito fondamentale per lavorare
sull’ampliamento dell’estensione verso l’acuto.
È stata già precedentemente evidenziata la relazione tra registri vocali ed estensione (cfr.
cap. 3.1.1). Si può riassumere dicendo, e un po’ anche semplificando, che l’intera gamma di
frequenze prodotta da ogni voce è divisa in zone gestite da registri diversi, per cui se una
voce dovesse percorrere tutta la propria estensione, attraverso una scala o con un
glissando, verso l’acuto o il grave, si troverebbe inevitabilmente a cambiare di registro.
Questo spiega anche perché una melodia che contenga dei salti intervallici molto ampi sia
più difficile da cantare rispetto a una melodia che si muove per gradi vicini: l’adattamento
laringeo richiesto da uno spostamento significativo all’interno del range frequenziale può
risultare infatti destabilizzante per l’emissione, compromettendo la qualità del suono e a
volte anche l’intonazione.
Il rapporto tra registri ed estensione è naturalmente diverso tra uomo e donna: la voce di
petto nell’uomo occupa circa i due terzi dell’estensione, mentre nella donna il rapporto si
inverte (un terzo di petto e il resto di testa). È bene inoltre ricordare che, non avendo i
registri dei confini così netti, la zona media dell’estensione individuale può in realtà essere
affrontata con diverse modalità di registro. Ad esempio in quasi tutte le voci dei ragazzi e
delle donne la zona all’incirca tra il sib2 e il la3 può essere cantata tanto in modalità di
petto quanto di testa. Pertanto la vocalità corale lavora su questa zona cercando di
bilanciare e miscelare i due opposti registri attraverso il cosiddetto registro misto per
permettere alla voce di muoversi in tutto il suo range frequenziale senza grossi
cambiamenti timbrici. In sintesi i suoni appartenenti a questa zona media dell’estensione
possono in teoria essere cantati con diverse modalità di emissione e quindi con diversi
colori timbrici, cosa di cui l’insegnante dovrà tenere conto in sede di apprendimento di un
canto (cfr. cap. 3.5).
All’interno della gamma di frequenze, più o meno ampia, che caratterizza ogni voce, è
possibile individuare all’ascolto una zona in cui le qualità timbriche del soggetto sembrano
manifestarsi al meglio: il suono appare ricco di armonici, naturalmente brillante, l’emissione
risulta più facile, come pure l’intonazione. Questa zona particolarmente favorevole, è
definita tessitura e la sua individuazione da parte dell’insegnante è importante per il
processo educativo poiché entro i limiti della tessitura la voce può imparare a gestire con
maggiore facilità il colore e la dinamica del suono così come l’articolazione della melodia e
della parola cantata (cfr. cap. 3.2). Anche il compositore che scrive per voci, infantili o
adulte, dovrebbe tenere conto della tessitura di ogni tipologia di voce, poiché al suo interno
il cantore può offrire delle prestazioni (agilità, chiarezza di articolazione, differenziazione
vocalica) che fuori dei limiti della tessitura diventano difficili, se non impossibili.
La tessitura concorre insieme con l’estensione e con il colore timbrico alla classificazione
delle tipologie vocali, sia solistiche28 sia della compagine corale. A parità di estensione una
voce femminile, ad esempio, viene classificata in un coro tra i soprani primi se il suo colore
è chiaro e la sua tessitura si colloca nella parte superiore dell’estensione, o invece tra i
soprani secondi se la tessitura è centrata nella zona media dell’estensione, dove la voce
trova maggiore pienezza e talvolta un colore più scuro. Sia l’estensione sia la tessitura di
una voce cambiano nel tempo con la pratica vocale, per cui è prassi che il direttore di un
coro infantile o adulto verifichi periodicamente i cambiamenti dei cantori così da spostarli,
se necessario, nelle sezioni corali più idonee alle loro caratteristiche.
• Il glissando si può considerare sicuramente una delle tecniche più efficaci per lavorare
sull’estensione. Inizialmente è importante lasciare che i glissandi siano liberi, proprio
per far sì che la voce scopra il piacere di muoversi agilmente nello spazio frequenziale.
È efficace unire alla voce il movimento corporeo per dare più energia al suono e
permettergli di uscire dai limiti della voce parlata. Giochi con glissandi liberi possono essere
proposti ai bambini o con il pretesto di una gara (a chi arriva più in alto) o attraverso
attività imitative (la sirena) o in giochi simbolici (ad esempio dare voce a una piuma che
scende, a un palloncino che sale). Con i più grandi il glissando potrà essere poi “misurato”
rispetto a uno spazio predefinito (ad esempio all’interno di due ottave) o rispetto a un punto
di riferimento (da un cluster arrivare glissando a un unisono e viceversa). Ripetendo queste
esperienze l’insegnante potrà chiedere agli allievi di provare a glissare con maggiore
gradualità e lentezza, cosa non facile ma estremamente importante anche per lavorare in
seguito sulla calibratura dell’intonazione. • Attraverso la pratica del glissando è possibile
migliorare anche l’omogeneità timbrica della gamma tonale. Chiediamo ai cantori di partire
da un suono medio-alto in registro leggero e di scendere glissando verso il grave senza
cambiare registro fin dove è possibile. La stessa cosa potrà essere fatta poi con una scala o
con una melodia discendente. Questo abituerà gli studenti a controllare l’uso dei
risuonatori, e quindi il colore timbrico, nel muoversi melodicamente da una zona all’altra
dell’estensione.
• Soprattutto con i più piccoli tutti i giochi di imitazione di voci, rumori o versi di animali
che portano la voce verso le zone estreme dell’estensione, si rivelano utili per la
scoperta dello spazio frequenziale. Per lo stretto legame esistente tra registri, estensione
e colore timbrico, ogni attività svolta rispetto a ciascuno di questi parametri influisce
sullo sviluppo degli altri.
• Per contrastare la nascita di tensioni parassite (soprattutto nella catena dei diaframmi),
che frequentemente si accompagnano al movimento della voce verso l’alto (acuto), può
essere utile associare immagini opposte, cioè di movimento discendente: pensare, ad
esempio, che più il suono sale, più i piedi affondano nel pavimento o le ginocchia cedono;
lasciare che la mandibola assecondi la forza di gravità; portare lo sguardo verso terra;
fare un movimento corporeo direzionato verso il basso (abbandonare la testa e il busto in
avanti), soprattutto quando si constata la tendenza a “salire” con la testa o con tutto il
corpo (qualcuno va addirittura in punta di piedi!). L’importante è sviluppare la
percezione che per salire il suono non ha bisogno di essere “spinto”, ma solo liberato
dalle tensioni muscolari.
Nell’attività didattica va tenuta ben presente la differenza sostanziale che corre tra il
lasciare che le voci spazino liberamente in altezza, attraverso giochi e libere esplorazioni
vocali, cosa che difficilmente può arrecare danno, e il richiedere loro espressamente di
raggiungere determinate altezze muovendosi verso l’acuto o il grave, cosa che richiede
invece molta cautela e attenzione. La pratica dei vocalizzi nella fase iniziale di una prova di
coro, qualora la si voglia adottare, non va necessariamente finalizzata allo sviluppo
dell’estensione. Osserva McRae (1991, p. 146) che i pochi minuti di vocalizzo iniziali
rischiano di diventare un’abitudine meccanica poco produttiva, e che potrebbero più
proficuamente essere diluiti nel corso della prova e relazionati con i problemi che emergono
dallo studio dei brani. In ogni caso lo sviluppo dell’estensione vocale non è un obiettivo da
perseguire immediatamente nelle prime fasi del lavoro educativo e soprattutto non va
forzato, ma richiede tempi lunghi e molta delicatezza. La voce già lavorando nell’ambito
della tessitura media diventa più flessibile e l’abitudine all’uso della muscolatura laringea
favorisce di per sé il graduale ampliamento dell’estensione. In particolare con i bambini in
età evolutiva è assolutamente necessario rispettare le tappe del loro sviluppo fisiologico (cfr.
cap. 3.2), puntando invece a curare soprattutto la loro musicalità globale.
3.1.4. Il vibrato
Esso rappresenta il “battito cardiaco” della voce, il ritmo nel suono, l’elemento “movente” e,
quando pulsa con ritmo regolare, anche la tranquillità.
È evidente che la presenza del vibrato nella voce è legata ad altri fattori di natura
fisiologica, tra cui l’uso dei registri. Nel falsetto, infatti, data la posizione elevata della
laringe, lo stato di maggiore tensione delle corde e l’assenza di attività del muscolo vocale,
il vibrato non trova le condizioni per generarsi. Per questo un’emissione di testa pura si
manifesta come suono fisso, oltre che timbricamente chiaro. Quando nella voce di testa
comincia a entrare in gioco il muscolo vocale, come nel registro misto, il vibrato può
manifestarsi e, se contenuto nei limiti fisiologici, diventa uno strumento utile per sostenere
il legato nel fraseggio, per supportare le escursioni dinamiche (ad esempio la “messa di
voce”), per aumentare il potenziale collettivo di risonanza del gruppo. Anche nella coralità
infantile esistono tradizioni che privilegiano un suono di testa puro e quindi assolutamente
privo di vibrato (in particolare tra i cori inglesi) e altri che invece valorizzano la maggiore
pienezza del registro misto, lasciando spazio a un vibrato discreto e stilisticamente
misurato.
È importante in ogni caso tener presente che, in quanto fenomeno ritmico, il vibrato può e
deve entrare in relazione costruttiva e armonica con tutti gli elementi ritmici della frase
musicale cantata, diventandone il supporto energetico. Inoltre, quando più voci che cantano
insieme si relazionano in maniera non superficiale, il loro vibrato, anche se a livello
inconsapevole, si sincronizza31.
• La sensibilità nei confronti del vibrato si sviluppa a partire dalla consapevolezza dei
ritmi corporei. Possiamo proporre agli studenti più grandi delle esperienze in tal senso.
Chiediamo loro, ad esempio, di ascoltare il ritmo del battito cardiaco, inizialmente nel
silenzio e poi associando l’emissione di un suono lungo tenuto. Il suono ha una sua
pulsazione interna? E che rapporto ha con la pulsazione cardiaca? È più lenta o più
veloce? Possiamo immaginare che nel suono si sviluppi una pulsazione molto veloce,
come un multiplo del battito cardiaco?
Quando nel canto la durata fisiologica della voce si cala nella dimensione musicale, deve
fare i conti con le logiche metriche, con l’articolazione ritmica, con le durate dei fonemi
verbali, e rischia così di perdere il suo rapporto naturale con il respiro. Perciò è importante
che nella gestione della frase musicale non si perda il senso della unicità dell’emissione e
quindi del continuum sonoro. La frase cantata va vista come articolazione interna di un
unico suono, un suono con una vita interna molto ricca, animato dalle pulsazioni del metro
musicale, dalle figure ritmico-melodiche, dalle inflessioni dinamiche, ma sempre e solo un
unico suono, un’unica durata. Da questo punto di vista il gregoriano rappresenta
certamente l’esempio più significativo e per questo motivo continua a fare scuola
nell’ambito vocale.
In musica non esiste un suono “fermo”, che non abbia cioè una sua vita dinamica e una
direzione. Evitando di tornare su considerazioni già esposte altrove a proposito del solfeggio
parlato32, non posso esimermi in questa sede dal considerare quanto sia importante che nel
percorso di alfabetizzazione musicale le esperienze di lettura dei valori di durata vengano
effettuate all’interno di contesti musicalmente significativi. La voce, in quanto strumento
primario della formazione uditiva, può essere davvero funzionale allo scopo, a patto però
che le si lasci esprimere il suo potenziale musicale. Se la voce non è imbrigliata nel recto
tono del solfeggio parlato o nelle logiche della suddivisione matematica, ed è libera di
esprimere dinamicità, energia e direzione, può davvero costituire la base per la formazione
di un senso musicale della durata. È piuttosto triste ascoltare giovani che dopo anni di
studio strumentale continuano a sentire, e quindi a suonare, una minima come somma di
due semiminime, cosa vera dal punto di vista matematico, ma assolutamente falsa rispetto
al senso musicale. Per questo motivo l’esperienza del canto rimane fondamentale per la
costruzione della dimensione temporale e quindi dinamica della musica. L’organizzazione
dinamica della voce comporta la capacità di gestione dell’intensità sonora, un aspetto non
facile da educare anche a causa dei modelli mediatici.
L’attuale musica di consumo, pur avendo molti pregi e molte possibilità d’impiego didattico, ha però
decretato la totale sparizione di ogni variabile agogica e dinamica (la musica di consumo attuale non
conosce l’emisfero che va dal pianissimo al mezzoforte). A causa di questo, attraverso i normali canali
di comunicazione il bambino (e i ragazzi) entrano in contatto con una serie di ascolti relativi al canto
(purtroppo anche infantile) che riassumerei coniando un neologismo ad hoc: il “cantargridando”. In
questo, ci possono chiaramente istruire le cosiddette culture “primitive”: «Quando sei allegro canti;
quando sei adirato fai rumore. Se uno grida è segno che non pensa; se canta, pensa. Se uno grida la
voce è sforzata, se canta no» [detto dei basongi del Congo]. Le conseguenze negative le conosciamo
ampiamente… (Visioli 2004, p. 171)
– Il muscolo vocale e i registri. Quando il muscolo vocale vibra in tutto il suo spessore,
come nel registro di petto, il suono già all’origine si presenta più denso e quindi
percettivamente più intenso. Nella voce di testa pura, o falsetto, il suono è per sua natura
più esile. Attraverso il registro misto, cioè mettendo in gioco maggiormente il muscolo
vocale, è possibile rinforzare il suono anche nelle zone medio-alte dell’estensione. La
cosiddetta “messa di voce”, usata sia dai solisti sia dai gruppi vocali, che caratterizza
l’attacco in pianissimo di suoni lunghi e la loro evoluzione dinamica, consiste quasi sempre
in un passaggio graduale dal registro di testa al registro misto.
– La risonanza e il timbro. Le cavità di risonanza, comprese le orecchie, sono i naturali
amplificatori del suono, e si può imparare a usarli in modo da sfruttarne tutto il potenziale.
Entrando in risonanza, arricchiscono di armonici il suono, che acquista così maggior
spessore.
– Le formanti del suono e la brillantezza. Ci sono voci che a distanza ravvicinata sono
assordanti, ma da lontano spariscono, poiché prive della qualità della brillantezza. Un suono
piccolo ma brillante ha possibilità di farsi ascoltare anche a distanza e di emergere sulle
masse strumentali. È il caso, ad esempio, delle voci infantili soliste impiegate nelle opere
sinfoniche.
– La pressione dell’aria. All’aumento della pressione aerea corrisponde un aumento
dell’ampiezza del segnale sonoro e quindi dell’intensità della voce, ma è importante non
abusare di questa modalità, poiché a un aumento della pressione sottoglottica corrisponde,
per reazione, un aumento delle forze adduttorie delle corde; esse infatti per garantire la
vibrazione, e cioè il suono, devono rimanere chiuse, e quindi opporsi alla pressione che
spinge dal basso. Questa battaglia, se protratta nel tempo, causa infiammazioni e traumi
anche gravi a livello cordale. Dove le prestazioni artistiche richiedono costantemente il
potenziamento dell’intensità sonora diventa essenziale un training specifico per il controllo
della pressione attraverso l’uso della muscolatura addominale (tecniche di sostegno e
appoggio)33.
Una voce educata è dunque una voce che sa utilizzare tutte queste risorse, senza cadere
nel tranello di un’emissione forzata, che inevitabilmente si traduce in un suono distorto. Chi
ha esperienza dei cori sa bene che incitare i coristi a cantare molto forte può portare di
riflesso a un suono duro e schiacciato, derivante da una eccessiva compressione e tensione
delle corde vocali, oppure a un’intonazione crescente, come avviene in qualunque
strumento a fiato quando si imprime troppa pressione alla colonna d’aria. Del resto anche i
bambini, se si chiede loro di aumentare il volume di un suono, spesso tendono a glissare
verso l’acuto, oppure, viceversa, scivolano verso il grave se si richiede di diminuire. Si tratta
di una reazione del tutto fisiologica, legata cioè allo stato di tensione delle corde vocali e
alla variazione del tono muscolare, che non va “bollata” come scorretta, pensando
erroneamente che si tratti di una confusione concettuale relativa ai parametri musicali
(forte = acuto / piano = grave). In qualche caso potrebbe esserlo, ma in realtà, data la
complessità dei fattori che entrano in gioco nella regolazione dell’intensità, inizialmente può
essere difficile dissociare i parametri. Per questo è importante prima di tutto un lavoro
accurato sulle variazioni dinamiche nella tessitura media delle voci. Passando dal forte al
piano può a volte risultare difficile non solo la tenuta dell’intonazione, ma anche la
continuità qualitativa del suono; se infatti nel forte la timbratura della voce è facilitata dal
maggiore spessore delle corde a contatto, nel piano il suono tende a svuotarsi di armonici, a
diventare più povero. Il lavoro non sta dunque sul piano concettuale, quanto sulla capacità
dell’orecchio di controllare contemporaneamente più aspetti del suono.
D’altro canto è importante la consapevolezza che, come già rilevato precedentemente,
l’intensità in musica, in particolare nel canto, è sempre un dato relativo, e soprattutto non è
mai una questione di decibel. È ovvio, ad esempio, che il forte di una voce sola non è lo
stesso di un coro. Che cosa significa l’indicazione mf < fortissimo in una partitura? Quanto è
“forte” questo fortissimo? Dipende naturalmente dal contesto, e in ogni caso dietro
un’indicazione dinamica c’è sempre una qualità espressiva che vuole essere portata alla
luce. La domanda più efficace quasi sempre non è “quanto forte?” ma “quale forte?”.
L’intensità, abbiamo già visto, è infatti uno dei parametri vocali più legati allo stato tonico
del corpo, e ne può realmente sottolineare le infinite sfumature connesse agli stati
emozionali.
La voce è, come noto, soggetta a cambiamenti molto significativi dalla nascita fino a
quando viene completata la maturazione fisiologica dell’individuo. Essendo tutto il corpo
coinvolto nell’atto cantato, ogni modificazione degli organi e delle strutture muscolari
interessate si riflette sulle caratteristiche sonore della voce. Data inoltre la complessità del
sistema vocale, lo sviluppo e la maturazione di tutte funzioni correlate al canto inducono
cambiamenti profondi che possono manifestarsi talvolta anche in modo repentino.
Le caratteristiche della voce infantile nel periodo prepuberale sono determinate dalle
dimensioni ridotte sia della laringe, e quindi delle corde vocali, sia del tratto vocale. La
laringe, pur essendo già completamente formata, è comunque una struttura ancora fragile e
quindi facilmente traumatizzabile, se sottoposta a sforzi nell’emissione. Infatti il legamento
vocale (cfr. cap. 1.3.1), che è ancora rudimentale a quattro anni, si sviluppa
morfologicamente solo verso i dieci, e la muscolatura laringea in generale ha ancora una
capacità limitata di regolazione tensionale. La lunghezza del tratto vocale è limitata dalla
posizione ancora elevata dalla laringe rispetto alle vertebre cervicali (tra C5 e C6) e le
dimensioni dei risuonatori sono necessariamente ridotte. Anche la coordinazione
pneumofonica (tra respirazione e fonazione) evolve nei primi anni di vita giungendo a
maturazione verso gli otto anni (Magnani 2005). La voce infantile è dunque di base una voce
chiara, leggera, con delle buone potenzialità di estensione verso l’acuto, ma non dotata nel
canto di grande volume, per cui è importante che non venga né forzata nell’intensità né
spinta oltre i limiti della sua tessitura.
Nei primi anni di vita non ci sono differenze molto evidenti tra i due sessi. Anche la
frequenza fondamentale della voce, che nei primi due anni oscilla, come valore medio,
intorno a 440 Hz (la3) si modifica in modo analogo nei maschi e nelle femmine, con leggere
distinzioni, più o meno fino ai dieci anni, età nella quale i bambini si esprimono nella voce
parlata con una frequenza media (intorno al la2) di una terza circa più bassa rispetto a
quella delle bambine (do3) (Fussi-Bertocchi 1983).
Per quanto riguarda invece lo sviluppo dell’estensione della voce cantata le statistiche
sono molto più complesse. Come osserva Lucchetti (1992), le indagini scientifiche su questo
aspetto della vocalità, condotte soprattutto in area angloamericana, hanno portato in genere
a risultati discordanti, anche per la disomogeneità dei criteri e dei metodi utilizzati nella
ricerca (vedi fig. 5).
Fig. 5. Estensioni vocali infantili [da LUCCHETTI Stefania – BERTOLINO Stefania, 1992, Alle origini dell’esperienza
musicale, Milano, Ricordi]
Tutti gli esperti concordano in linea di massima nel rilevare che l’estensione vocale
infantile nel canto intonato è molto più ridotta rispetto a quella del gioco vocale spontaneo,
soprattutto se associato al movimento, e ciò per diversi motivi tra cui la difficoltà nel
coordinare l’emissione con l’articolazione del testo, o nel controllare contemporaneamente
sia la giustezza dell’intonazione sia la corretta riproduzione degli schemi ritmico-melodici
(Phillips 1992). Un altro elemento determinante, già evidenziato (cfr. capp. 3.1.1 e 3.1.3), è
la consapevolezza dei risuonatori alti (di testa). L’estensione di molti bambini può apparire a
un primo approccio molto limitata perché essi tendono a usare esclusivamente la zona del
parlato, ma l’esperienza insegna che la scoperta e l’uso del registro leggero permettono alla
voce di salire con molta più facilità.
In effetti vi sono molteplici fattori di carattere ambientale che influenzano lo sviluppo
della vocalità infantile nelle sue caratteristiche di emissione e quindi di estensione. Sono
determinanti i modelli vocali con cui il bambino viene a contatto fin dalla nascita, sia quelli
familiari (in particolare la mamma), sia quelli legati all’etnia di appartenenza e alle sue
caratteristiche linguistiche, sia infine quelli scolastici (il modo in cui l’insegnante canta).
Non a caso la voce femminile chiara e leggera è ritenuta la più idonea per aiutare i bambini
a trovare una vocalità che favorisca l’ampliamento dell’estensione.
Se dunque nelle attività di esplorazione vocale spontanea o guidata si può, anzi si deve
lasciare che i bambini usino liberamente tutta la loro gamma di altezze e le varie modalità
di registro, nel canto intonato è opinione condivisa che, se si vuole evitare di forzare la voce
e si vuole curare la qualità dell’emissione e dell’intonazione, è bene abituare i bambini a
usare, soprattutto nella fase iniziale dell’attività corale, una modalità di emissione leggera
(ma sempre ben timbrata) e rispettare lo sviluppo naturale del range vocale tenendo
presenti, anche per la scelta dei repertori, i seguenti ambiti di estensione e tessitura
(Phillips), che sono ovviamente indicativi e possono variare anche in base alla pratica e
all’esercizio:
Fig. 6. Estensione e tessitura delle voci infantili
Solitamente si evita di forzare le voci infantili verso l’acuto ritenendo che ciò sia
pericoloso per la salute vocale, ma più raramente, soprattutto nelle realtà scolastiche, si
presta attenzione a non forzarle verso il basso, cosa che avviene abbastanza di frequente a
causa dell’uso di repertori non adeguati. Il desiderio dei bambini di cantare le canzoni dei
cartoon o dei cantanti pop preferiti e la spontanea imitazione delle loro modalità di
emissione viene spesso assecondata dagli insegnanti inconsapevoli delle conseguenze.
Lasciando da parte i discutibili risultati musicali, bisogna tener presente che il
raggiungimento dei suoni gravi ottenuto attraverso l’azione della muscolatura extralaringea
(cfr. cap. 3.1.3) è altrettanto, se non addirittura più dannoso della forzatura verso l’acuto,
soprattutto se si accompagna a intensità elevate, e comporta il rischio di serie patologie.
Errori analoghi possono essere fatti da direttori di coro inesperti, che classificano nelle voci
di contralto bambini con estensione limitata nell’acuto, ma non per questo idonei a tenere la
voce nelle tessiture gravi. Il problema è dunque quello della oculatezza con cui si procede
alla scelta e all’uso dei repertori34 (cfr. cap. 3.5).
La capacità di intonare nei bambini è anch’essa dovuta in buona parte alle influenze
dell’ambiente familiare e agli stimoli che esso è in grado di offrire (Gordon 2003, Tafuri
2007). Le ricerche sul canto nell’età prescolare (Bjørkvold 1985, Moog 1988, Lucchetti 1991
e 1992) rilevano che il bambino nella prima fase del canto, sia spontaneo sia imitativo (tra i
due e i tre anni), utilizza più che altro una forma di enfatizzazione della parola parlata con
inflessioni più o meno ampie dei tratti prosodici, poiché prevale l’intenzione
narrativa/comunicativa e l’attenzione è rivolta in particolare alle parole, alle loro
caratteristiche sonore e al modo di pronunciarle, più che agli aspetti melodici. In seguito, e
con tempi soggettivamente diversi, il bambino conquista nel canto imitativo la capacità di
riprodurre prima il profilo melodico e poi con sempre maggiore precisione gli intervalli e le
altezze. Secondo Moog all’età di tre anni la maggior parte dei bambini può essere in grado
di cantare correttamente per imitazione.
Tuttavia sappiamo per esperienza che una percentuale piuttosto consistente di bambini
della scuola sia materna sia elementare risulta problematica rispetto all’intonazione. Le
tipologie dei cosiddetti “stonati” vanno dai bambini incapaci di modulare la voce al di fuori
della ristrettissima fascia del parlato (“monotonali”) a quelli che riproducono solo il profilo
melodico del canto oppure trasportano la melodia nel registro grave mantenendone
grossomodo le caratteristiche, ma spesso deformandola. Per quanto riguarda le cause di
natura percettivo-uditiva relative a questi problemi, parlando delle teorie di Tomatis e
dell’ascolto (cfr. capp. 1.2 e 2.4), abbiamo individuato alcuni dei possibili fattori alla base
delle difficoltà d’intonazione e le relative attività di intervento. Tuttavia nella maggior parte
dei casi i problemi non sono di natura uditiva bensì tattile-cinestetica, e cioè non esiste uno
schema corporeo-vocale sufficientemente chiaro affinché la voce sia in grado di riprodurre
quello che l’orecchio sente (cfr. cap. 2.3.3). Nel caso sia dei bambini “monotonali” sia di
quelli che trasportano la melodia nel grave spesso si tratta della stessa difficoltà:
distinguere tra la modalità del parlato e quella del cantato, cosa che il bambino può fare
solo se ha una coscienza corporea di quella parte della voce che non appare nel parlato. A
proposito del rapporto tra voce di testa e controllo dell’intonazione dice Laurence:
Io non penso che i bambini debbano sempre cantare in voce di testa (e neanche che questo sia
necessariamente il suono “ideale” per i bambini), direi piuttosto che nel registro di testa i bambini
possono sentire meglio il suono che stanno emettendo e così, in generale, hanno un’ottima possibilità
di produrre quello che loro stessi considerano un bel suono. […] Quando i bambini cantano una nota in
voce di testa senza né “spingere” né “urlare”, ma in modo naturale e non forzato, sembra che
sperimentino un contatto diretto con il loro “orecchio interno”; essi possono sentire il suono che
emettono molto chiaramente, così la loro percezione dell’altezza diventa estremamente focalizzata.
(Laurence 2000, pp. 222-3)
È evidente che i problemi vocali nel periodo della muta diventano ancora più sensibili se il
ragazzo non ha avuto un’educazione vocale nel periodo infantile e ha il suo esordio canoro
proprio durante la pubertà, fatto piuttosto frequente nella nostra scuola media, dove i
preadolescenti giungono alle classi di educazione musicale provenendo da minime, se non
addirittura inesistenti, esperienze di canto. A parte l’esecuzione in gruppo delle canzoni
d’autore, è spesso molto difficile, come ben sanno gli insegnanti, coinvolgere i ragazzi nelle
attività vocali, al punto da dover optare spesso per modalità esecutive diverse dal cantato
(cori parlati, ostinati ritmici ecc.).
Del resto per un ragazzo che non ha familiarità con la propria voce, il disagio
nell’ascoltarsi e farsi ascoltare in un momento di instabilità e variabilità sonora è ben
comprensibile, e va assolutamente rispettato. La difficoltà di accettare la propria voce, così
come il proprio aspetto fisico, fa parte, come noto, del complesso quadro psicologico che
caratterizza l’adolescente alle prese con il processo di ricostruzione identitaria (cfr. cap.
1.4). Le ripercussioni psichiche dei cambiamenti fisici e vocali dipendono naturalmente
anche dai significati che ad essi attribuisce la comunità di appartenenza del ragazzo, e cioè
la famiglia, il gruppo dei coetanei e la comunità scolastica. La caratterizzazione sessuale
della voce fa scattare ansie e forme di pregiudizio («Se la voce non è virile, cioè grossa,
meglio non farla sentire», «Il canto corale è roba da femmine» ecc.). Proprio per questo
l’educazione vocale, intesa in senso lato, e non solo come canto corale, ha una sua funzione
ben precisa in questa fase formativa scolastica e sta all’insegnante individuare le forme più
idonee per far sì che ogni ragazzo abbia modo di specchiarsi in una molteplicità di voci e di
identità vocali/culturali (cap. 3.1.1).
Le competenze dell’insegnante in campo vocale sono preziose anche per prevenire e
identificare le disfunzioni della voce adolescenziale, da segnalare tempestivamente alle
famiglie (presenza di aria nella voce, raucedine cronica ecc.), e per supportare l’azione
riabilitativa qualora si verifichino disturbi specifici della muta di carattere psichico,
consistenti nel permanere (non più fisiologico) di un’emissione vocale acuta o di testa
(“muta incompleta” e “muta con falsetto”), sintomo del rifiuto da parte del ragazzo della
vocalità adulta (Asprella-Mininni 2000).
Fin dalle sue origini più remote la poesia aspira, come a un termine ideale, a liberarsi dai
vincoli semantici, a uscire dal linguaggio, a andare incontro a una totalità in cui sia abolito
tutto ciò che non è semplice presenza.
Una delle conquiste ed eredità più importanti dell’esperienza artistica del secolo appena
passato è la valorizzazione dell’aspetto materico del linguaggio verbale, del suono della
parola, sia nell’espressione poetica sia in quella musicale. In entrambi i settori i processi di
destrutturazione e “desemantizzazione” della parola hanno fatto sì che nel contesto
compositivo potessero emergere e venissero esaltate le qualità sonore del materiale
fonetico-linguistico, attribuendo così ad esso un autonomo valore espressivo. L’educazione
della voce cantata non può ormai più prescindere da queste esperienze.
Dal punto di vista acustico il materiale fonetico rappresenta uno degli elementi che
contribuiscono a determinare il profilo timbrico del suono vocale. Non a caso ogni lingua ha
un suo caratteristico colore dato proprio dalla selezione fonematica che l’orecchio etnico
compie di generazione in generazione, privilegiando alcune fasce frequenziali a discapito di
altre39. Questo spiega perché un canto, se tradotto dalla lingua originale in un’altra lingua,
al di là dei problemi metrico-accentuativi correlati, risulta molto diverso sul fronte timbrico,
al punto che oggi anche in ambito corale si privilegia in assoluto l’esecuzione in lingua
originale. Esiste cioè un suono della lingua che è parte integrante del pensiero musicale del
compositore e che non può essere scisso dagli altri aspetti musicali. Discorso analogo si può
fare per quanto riguarda gli elementi ritmico-prosodici del linguaggio parlato che
improntano le scelte ritmiche, metriche e fraseologiche del musicista.
Dal punto di vista dell’educazione vocale e quindi dell’educazione al canto l’elemento
fonetico-sonoro ci interessa dunque sotto molteplici aspetti. Da una parte esso ha bisogno di
essere conosciuto e lavorato come materia timbrica, dall’altro va inquadrato all’interno dei
processi articolatori, grazie ai quali l’emissione può essere ritmicamente scandita, per
usarlo infine consapevolmente come veicolo di espressione semantica nel contesto della
parola cantata.
In realtà il bambino, nel suo percorso di crescita e di conquista del linguaggio verbale ha
già esplorato questa materia: a partire dalle lallazioni, fonti di piacere senso-motorio, e
attraverso le prime forme di imitazione verbale, dominate ancora dagli elementi timbrico-
ritmici della parola, egli ha selezionato gradualmente, attraverso l’ascolto delle voci dei
familiari, i suoni idonei alla comunicazione, fino a far diventare la parola veicolo del suo
pensiero. L’educazione vocale offre quindi allo studente l’opportunità di ricontattare più
consapevolmente questo bagaglio acquisito, utilizzandolo su una voluta più alta della spirale
espressiva.
Nel canto lo strumento vocale plasma dunque una materia potenzialmente duttile proprio
perché familiare, da sempre sentita, “toccata”. Da questo dato discende il luogo comune,
parzialmente vero, che cantare è facile, poiché non si tratta in fondo che di rivestire di
suono la parola. In realtà quando la materia vocale esce dal contesto delle abitudini
fonatorie e articolatorie della comunicazione verbale ed entra in contatto con il linguaggio
musicale, ha bisogno di essere guardata, sentita, ascoltata in modo un po’ diverso.
È possibile sottrarre la lingua alla sua tomba di lettere? Liberare le parole dalla mortale
rigidità della dimensione tipografica? Rompere l’incantesimo che le ha trasformate in carta, e
scacciare gli spiriti malefici?
La vocale è il suono cantato per eccellenza, poiché la sua produzione implica una
vibrazione costante e regolare delle corde vocali, ovvero una condizione di stabilità nella
quale i cambiamenti di frequenza che danno luogo alla linea melodica possono avvenire con
facilità. Da qui la vocalizzazione come base del training dei coristi e dei cantanti. Con la
vocale la voce può davvero volare, può glissare nello spazio frequenziale, può giocare con le
sfumature dinamiche. In ogni epoca, cultura e genere musicale, compreso quello sacro,
l’esuberanza dello spirito ha trovato libero sfogo nella vocale (es. 14).
Es. 14. Gloria, canto tradizionale (frammento)
La differenziazione dei diversi colori vocalici, che vengono percepiti e quindi identificati
come fonemi linguistici, è opera del tratto vocale che, come abbiamo visto a proposito della
risonanza (cap. 3.1.2), svolge un ruolo di filtraggio nei confronti del suono primario,
rinforzando selettivamente alcune specifiche bande di frequenza collocate all’incirca tra i
250 e i 2700 Hz. Le vocali sono dunque un fenomeno di carattere timbrico e per questo
vengono percepite e classificate anche in base alla loro maggiore o minore chiarezza.
Sebbene per ogni vocale si abbiano almeno 5 formanti, situate in zone frequenziali precise (relative
al tipo di filtraggio/atteggiamento attuato), la maggior parte dei tratti distintivi sui quali si opera
l’identificazione vocalica sono veicolati dai valori della 1a e 2a formante, a loro volta strettamente
correlate essenzialmente all’atteggiamento funzionale della rima labiale e del corpo linguale. Studi
sperimentali infatti hanno dimostrato la primaria importanza di labbra e lingua nell’articolazione
fonetica, come già era evidente all’osservazione, rilevando una proporzionalità diretta tra grado di
apertura della bocca e frequenza della 1a formante e variazioni frequenziali della 2a relative a
cambiamenti di atteggiamento del corpo linguale. (Fussi-Magnani 1994, p. 38)
Fig. 9. Schema delle formanti vocaliche [da JUVARRA Antonio, 1987, Il canto e le sue tecniche, Milano, Ricordi.
Per gentile concessione di Universal Musica MGB Publications]
Dallo schema si evidenzia come, procedendo dalle frequenze più gravi alle più acute,
rispetto alla prima formante si va dalle vocali più chiuse, come la “i” e la “u” (circa 250 Hz)
verso le più aperte, come la “a” (750 Hz), e rispetto alla seconda formante si va dalle vocali
posteriori dove la lingua è più arretrata e bassa nella cavità orofaringea, e quindi più scure,
come la “u” e la “o” (circa 700-800 Hz) a quelle anteriori, più chiare, dove la lingua è più
alta e più avanzata, come la “i” (circa 2700 Hz). Lo schema qui riportato si riferisce
essenzialmente alla lingua italiana (differenziando anche nel caso della “o” e della “e” le
modalità aperta e chiusa) e si accenna ad alcune vocali intermedie usate in altre lingue,
come la “oe” e la “y”40, ma è facile comprendere e sperimentare direttamente, attraverso
una sorta di glissando timbrico, come passando da una vocale all’altra sia possibile
esplorare le varie sfumature di colore che danno luogo a tutti i possibili fonemi vocalici di
ogni lingua, esistente o inventata che sia.
Il fascino timbrico delle vocali ha ispirato molta musica vocale del Novecento, sia solistica
sia corale. All’interno dei repertori didattici, uno degli studi per coro di Edlund, ad esempio,
è dedicato alle loro trasformazioni intermedie (indicate con i simboli dell’alfabeto fonetico;
es. 15).
Es. 15. Lars Edlund, Meditation, batt. 1-5 (da Körstudier) [Stockholm, W. Hansen 1982]
Tra le composizioni per voci infantili il brano CH (yit) di V. Flusser, tutto incentrato sul
valore espressivo dei fonemi, dà ampio spazio al gioco di trasformazione timbrica delle
vocali (es. 16).
Es. 16. Victor Flusser, CH (yit), pour choeur d’enfants (frammento) [Courlay, Fuzeau 1992]
In effetti, soprattutto nelle voci femminili, più si sale in estensione più l’articolazione
vocalica diventa difficile; il cantore è pertanto costretto a modificare leggermente il timbro
della vocale, che dovrebbe comunque rimanere sempre riconoscibile grazie al contesto della
parola in cui è inserita. Per questo i cantanti di musica pop o country, generi in cui la
comprensibilità del testo è un valore prioritario, stabilizzano il proprio ambito di
espressione melodico-vocale prevalentemente nella regione frequenziale del parlato.
La consapevolezza della natura timbrica delle vocali è fondamentale nella pratica del
canto, poiché se si vuole garantire alla frase melodica un colore omogeneo (esigenza
particolarmente sentita nell’estetica del belcanto) diventa indispensabile da parte del
cantore controllare l’articolazione vocalica e, pur salvaguardando la correttezza della
dizione, provvedere dove necessario ad aggiustamenti minimi, schiarendo o scurendo la
vocale, aprendola o chiudendola. Questo tipo di sensibilità acustica e di flessibilità vocalica
diventa ancora più importante nella dimensione corale, sia per il raggiungimento
dell’omogeneità timbrica del gruppo sia per la messa a punto dell’intonazione. Infatti le
difficoltà nella tenuta della giusta altezza tonale (il “calare” o “crescere” della nota), comuni
a tutte le realtà corali, possono dipendere anche da un insufficiente controllo uditivo degli
armonici (più che della fondamentale); in tal caso è possibile correggere l’intonazione
proprio modificando il colore vocalico41. In concreto ciò significa utilizzare l’apertura della
bocca o il posizionamento della lingua in modo tale da spostare il fuoco del suono più verso
il chiaro o lo scuro. Ma è bene tener presente che, trattandosi di differenze davvero
infinitesimali, in queste situazioni è più che mai importante ricorrere alla funzione di guida
dell’orecchio. La capacità di “pensare” più chiaro o più scuro, e di percepire quindi in
maniera fine il diverso equilibrio degli armonici è l’unica reale garanzia di un risultato
adeguato. Una manipolazione esteriore di tipo muscolare rischia quasi sempre di
stravolgere la parola o di irretire il tratto vocale in atteggiamenti rigidi e quindi
controproducenti; bisogna invece mettere il tratto vocale a disposizione dell’orecchio,
rendendolo duttile e recettivo. Si tratta in fondo di recuperare l’abilità che abbiamo
esercitato da bambini quando, guidati dall’orecchio, senza alcuna “volontà” muscolare,
abbiamo imparato ad articolare i suoni della lingua materna.
• Ogni componente del gruppo prende una pagina di giornale e sceglie un articolo intero
o una porzione di testo che leggerà ripetutamente applicando modalità diverse di lettura
in base alle consegne dell’insegnante. Una prima proposta è quella di leggere tutti
insieme, ma ognuno il proprio testo, allungando tutti i suoni “espandibili”, sia le vocali
sia le consonanti (come “s”, “n”, “r”), oppure ripetendo con ritmi liberi dei suoni brevi,
soprattutto consonantici (come “b”, “d”, “t”), e variando liberamente sia le dinamiche sia
le velocità, come nell’esempio estratto dal testo di Paynter:
Es. 17. John Paynter [da Suono e struttura, Torino, EDT 1996]
• Altra consegna è che ognuno sottolinei sul proprio testo scritto tutte le consonanti dure
e occlusive (come “b”, “p”, “k”, “g” ecc.) e che poi tutti leggano mentalmente l’intero
testo a velocità normale, pronunciando ad alta voce solo le lettere sottolineate. L’effetto
sarà una trama di suoni puntiformi casuali, che può essere variata dinamicamente. La
trama cambierà colore e carattere se invece delle occlusive verranno selezionate e poi
lette solo le consonanti sibilanti (“s”, “z”, “sc”) oppure solo le liquide e le nasali (“m”,
“n”, “r”, “l”). Tutte queste possibili “letture” potranno essere combinate e giustapposte,
così da valorizzarne le caratteristiche sonore, in un’improvvisazione guidata da un
direttore, dividendo i partecipanti in sottogruppi, ai quali sono affidate selezioni
consonantiche diverse.
In molte partiture contemporanee per cori sia adulti sia infantili il rumore consonantico
viene enfatizzato, come già dicevamo, e diventa l’elemento timbrico caratterizzante. Talvolta
la materia consonantica è scelta astrattamente in base a criteri acustico-formali e usata
puntillisticamente, come nel brano di Rands, altre volte è invece estrapolata da un testo
verbale o deriva dalla destrutturazione temporale della parola, come in alcuni dei già citati
Haiku di Flusser (cap. 2.2.3). Nel brano riportato a p. 87 si può vedere ad esempio come
venga richiesto, attraverso una lettura non simultanea e a voce bassa, di far emergere il
contrasto tra consonanti sorde e sonore (“p”, “r”, “s”, “t”).
Una scelta derivante invece dall’uso del simbolismo acustico è quella che fa il compositore
Mellnäs nel brano corale Der Nordwind (es. 19). Qui la legenda richiede che le consonanti,
usate chiaramente per imitare i suoni del vento, vengano modulate timbricamente
modificando la cavità boccale in direzione delle vocali scure (“o”, “u”) per andare nel grave,
o di quelle chiare (“e”, “i”) per andare verso l’acuto.
Es. 19. Arne Mellnäs, Der Nordwind, batt. 1-6 [Stockholm, Reimers 1989]
È noto che la valorizzazione della materialità fonica del linguaggio verbale ha avuto un
impulso decisivo con le esperienze poetiche del primo Novecento, dalle “parole in libertà”
del futurismo alle provocazioni dadaiste, al fonetismo, alla poesia sonora46. Alcune poesie
sonore possono essere considerate come vere e proprie partiture musicali, e si prestano
quindi a una elaborazione in forma corale, anche a più voci, che tanto più risulterà
interessante quanto più saranno valorizzati gli aspetti timbrico-dinamici del materiale
verbale utilizzato (es. 20).
Es. 20. Carlo Carrà, Divagazione medianica n. 1
Il primo approccio del bambino alla lingua materna, come noto, avviene attraverso delle
forme di gioco vocale articolatorio che gli permettono di esplorare sensorialmente la
materia linguistica prima ancora di comprenderne il valore semantico; inoltre i primi
dialoghi vocali con i familiari si basano proprio sulla ripetizione e variazione di moduli
sillabici (Imberty 2000). Questo gioco conoscitivo di natura senso-motoria si sviluppa, per
diventare poi anche gioco di regole, grazie alla pratica di tutte quelle forme poetico-verbali
che accompagnano la prima infanzia e l’inizio della vita scolastica – filastrocche, nonsense,
scioglilingua, indovinelli, conte – utilizzate anche per supportare lo studio della lingua. In
queste composizioni verbali, talvolta rivestite di semplici melodie, la struttura ritmico-
metrica-accentuativa organizza il materiale fonetico facendo emergere rime, assonanze,
allitterazioni, attraverso procedimenti sui quali il bambino stesso è invitato talvolta
dall’educatore a intervenire creativamente (Zamponi-Piumini 1988).
Per la loro vivacità ritmica e verbale, tutti questi materiali parlati (in particolare le
filastrocche) provenienti sia dalla tradizione popolare sia dalla penna di poeti, hanno
sempre rappresentato una risorsa per i compositori di musica corale, soprattutto infantile,
offrendo ai cantori la materia per un gioco vocale timbricamente ricco. È comprensibile che
le filastrocche di Rodari, vera miniera di fantasia poetica e verbale, siano state negli anni
letteralmente saccheggiate per usi musicali47. I repertori corali infantili abbondano quindi
di testi giocosi, che ben si prestano a sviluppare nei bambini la sensibilità nei confronti dei
suoni della lingua. L’esempio riportato è un frammento tratto da Pero, però, filastrocca per
coro di voci bianche e quattro strumenti di Valentino Bucchi su testo di Franco Fortini (es.
21).
Es. 21. Valentino Bucchi, Pero, però, batt. 58-60 [Roma, Associazione Bucchi 1985]
Non è tuttavia esente dalla tentazione di giocare con la lingua neppure il mondo corale
adulto, come dimostra il Walzer di Ernst Toch, per coro parlato di voci miste e percussioni
su testo di F. Schall, ironicamente costruito su variazioni sillabiche e nonsense (es. 22).
Es. 22. Ernst Toch, Walzer, batt. 16-23 [New York, Mills Music 1962]
Del resto anche la più famosa Fuga geografica dello stesso autore, costruita su nomi di
località riuniti in gruppi ritmici e sovrapposti polifonicamente, costituisce, data la velocità
esecutiva, una sorta di lungo scioglilingua (es. 23).
Es. 23. E. Toch, Geographical Fugue, batt. 8-9 [New York, Mills Music 1957]
Nel percorso di educazione della voce il gusto per il gioco fonetico-sonoro può essere
incentivato anche proponendo esperienze di invenzione ritmica48. È evidente che, essendo
nostro specifico interesse affinare la sensibilità articolatoria degli allievi, sarà bene che
l’insegnante abbia cura non solo della precisione nell’esecuzione ritmica, ma anche e
soprattutto dell’effettiva differenziazione sonora dei fonemi utilizzati.
Si potrà decidere di combinare le frasi ritmiche inventate dai gruppi in una poliritmia
improvvisata o fissata in partitura49. Sebastian Korn, ad esempio, utilizza degli ostinati
ritmici costruiti su coppie di gruppi consonantici, come base per un coro parlato sulla
poesia L’onda di D’Annunzio (es. 25).
Es. 25. Sebastian Korn, ostinati ritmici
Alcuni semplici canoni sono da considerarsi veri e propri esercizi di articolazione, come ad
esempio Ding dong di C. Orff (es. 27) e Tiche tache (es. 28) di S. Korn, il quale raccomanda,
per rendere l’esercizio più efficace e divertente, di provare a cantarlo con un tappo tra i
denti!
Es. 27. Carl Orff, Ding dong [da UBALDI G., 1987, Cantintondo, Bergamo, Carrara]
Es. 28. Sebastian Korn, Tiche tache [da KORN S., 1988-89, L’uso della voce e l’educazione dell’orecchio musicale,
Mozzecane (VR), Ed. Amadeus]
Il gioco ritmico-sillabico è una pratica riscontrabile in tutte le culture vocali sia di oggi sia
del passato. Buona parte del repertorio polifonico profano del XVI secolo è ricco di
espressioni nonsense di origine popolaresca, che vengono inserite nel testo cantato (a volte
con funzione di ritornello) su vivaci ritmi di danza. Una delle più usate, soprattutto nei
madrigali inglesi e nelle villotte e canzonette italiane è il falala, termine che ha finito per
identificare un vero e proprio genere di composizione polifonica. È evidente che la selezione
sillabica, sia nel falala come nei vari tantararì taritundèra, ferelerelàn o dindirindindon,
privilegia quelle combinazioni consonantiche che da una parte risultano particolarmente
piacevoli per il cantore (è quasi sempre un gioco tra lingua e palato), dall’altra permettono
di scandire con efficacia i ritmi di danza, evocando spesso suoni strumentali (es. 29).
Es. 29. Filippo Azzaiolo, Ben staga tutta questa bella brigada, batt. 20-7
Anche nei canti e nei giochi infantili di tradizione popolare abbondano espressioni
nonsense (tanfilulìlalléra, marcondirondirondello, tollerino tollerò, miraladindondéra ecc.)
che caratterizzano le strofe del canto e accompagnano le azioni coreografiche là dove
previste. Le elaborazioni polifoniche moderne di canti popolari (es. 30) ovviamente
valorizzano attraverso procedimenti imitativi il gioco timbrico-consonantico, richiedendo ai
cantori accuratezza di articolazione.
Es. 30. Eccoti bella (tradizionale), elaborazione di Paolo Fragapane (frammento)
Già in alcuni esempi del paragrafo precedente è emersa all’interno delle espressioni
ritmiche verbali, soprattutto dei nonsense, l’imitazione onomatopeica degli strumenti
musicali, una delle forme più comuni di fonosimbolismo acustico (o ecoico)52. La pratica di
cantare un ritmo simulando con la voce il suono di uno o più strumenti è presente in molte
tradizioni folkloriche, anche extraeuropee (Freschi 2006)53 e – come già abbiamo visto
parlando di timbro – gruppi vocali di varia estrazione (colta, pop, folk) giocano con
l’imitazione strumentale e l’onomatopea, raggiungendo in alcuni casi risultati di estrema
raffinatezza. Nelle formule sillabiche imitative di questi gruppi, così come in quelle della
musica popolare e antica, sono riscontrabili delle costanti, che dipendono dalla valenza
simbolica convenzionalmente attribuita ai fonemi utilizzati in virtù delle loro componenti
acustico-articolatorie. Ad esempio, le sillabe che descrivono strumenti a percussione (pam,
bom, toc ecc.) iniziano solitamente con consonanti esplosive dentali e labiali (“t”, “d”, “p”,
“b”) perché brevi e dure nell’attacco; le nasali (“m”, “n”) indicano strumenti risonanti
(percussioni, metalli o corde pizzicate) per analogia con le sensazioni fonatorie della voce
cantante; la sillaba ciaf o tsch è riservata al piatto per la sua brillantezza metallica, mentre
le sillabe che contengono consonanti liquide (“l”, “r”) simulano suoni lunghi e vibranti o le
corde strappate (blen, tran ecc.). Per quanto riguarda invece le vocali, quelle più chiuse e
scure (“o”, “u”) sono associate a strumenti con tessitura grave (ad esempio dum è il
pizzicato del contrabbasso), mentre quelle più chiare e aperte a strumenti acuti (il flauto e il
violino sono quasi sempre zinzin, firiri o piriri). Gli esempi musicali relativi all’uso di questo
genere di onomatopea sono ovviamente numerosissimi e vanno dai canti infantili (“Alla fiera
di Mastrandré”, “O compare so suonare” ecc.) alla polifonia rinascimentale. Banchieri ne Il
Metamorfosi Musicale (1601) dedica un intero “trattenimento” all’imitazione vocale del
liuto, distinguendo addirittura le corde gravi (tronc) da quelle medie (tren) e acute (tiritin).
Agli esecutori è richiesta l’abilità di ricostruire con le tre voci il suono dello strumento,
soprattutto enfatizzando la risonanza nasale.
Es. 32. Adriano Banchieri, Il Metamorfosi Musicale, Primo trattenimento, batt. 1-21
Un buon esercizio di imitazione onomatopeica può essere quello di prendere come base
una partitura ritmica scritta per percussioni didattiche (tratta ad esempio dall’Orff-
Schulwerk54) e di eseguirla prima con gli strumenti reali, per ascoltarli bene e cercare le
sillabe e le sonorità vocali più adatte a descriverli, elaborando poi una performance in cui le
voci imitanti, ben curate timbricamente, si alternano agli strumenti veri. In uno dei suoi
progetti didattici sul canto Spaccazocchi (2005, pp. 25-8) propone di organizzare una
batteria ritmica fatta di suoni vocali onomatopeici per accompagnare brani musicali
riprodotti da un impianto audio, come nell’esempio seguente creato su “Take Five” di
Desmond e Brubeck (in 5/4):
Es. 33. Spaccazocchi, La batteria (frammento)
L’onomatopea vocale non si limita ovviamente all’imitazione degli strumenti ma spazia ai
suoni e rumori provocati da oggetti e animali. Tornando alla musica antica, che molto si è
sbizzarrita a far “suonare” la voce, La Guerre di Clement Jannequin, ad esempio, è un
campionario di onomatopee (pati pata pan, zin zin, chipe chape, trique trac, fari fariran,
vom vom ecc.) che, grazie anche alla trama polifonica, riescono davvero a creare l’affresco
“acustico” di una grande battaglia, quasi una possibile “colonna sonora” degli affreschi
pittorici di Paolo Uccello (CD14 e CD15). Questo brano rinascimentale, cosi come altre
composizioni polifoniche dello stesso periodo, può essere eseguito, anche parzialmente, da
un coro scolastico, adattandolo in rapporto al livello di competenze vocali e musicali del
gruppo, e cioè estrapolando una o due linee vocali e lasciando le altre parti al parlato,
poiché l’onomatopea, anche solo parlata, può dare risultati interessanti in un contesto
poliritmico vivace, soprattutto se ben timbrata e giocata su registri vocali diversi55.
Dal punto di vista dell’ascolto, la composizione che rimane capolavoro assoluto e modello
ineguagliato di onomatopea vocale è Stripsody di Cathy Berberian, nella esecuzione
dell’autrice stessa (CD1). Ciò che colpisce e che fa scuola nell’esecuzione del brano, ispirato
al mondo del fumetto, è l’incredibile fantasia timbrica e duttilità vocale della Berberian, la
cui voce spazia in tutti i registri e ai limiti estremi dell’estensione, riuscendo attraverso
un’enunciazione sillabica chiarissima e una differenziazione timbrica molto raffinata a
rendere effettivamente vivo il frammento di vita sonora che la striscia fumettistica
dipinge56. Il brano, scritto in partitura analogica, con l’uso della grafia tipica dei fumetti
(es. 34), può essere eseguito da un gruppo vocale, magari distribuendo tra più sottogruppi
le diverse strisce o le varie onomatopee così da ridurne la difficoltà esecutiva; altrimenti la
composizione può essere vista come punto di partenza per nuove invenzioni dello stesso
genere.
Es. 34. Cathy Berberian, Stripsody (frammento) [New York, Peters 1966]
L’onomatopea è sicuramente uno degli ambiti che meglio si prestano nella scuola a una
progettazione interdisciplinare. Ersilia Zamponi nel suo testo sui giochi linguistici (1986)
propone agli studenti di inventare e descrivere in forma grafica dei brevi quadri sonori (fig.
10). Analogamente si può giocare con i ragazzi a inventare dei piccoli sketch da sonorizzare
con sillabe onomatopeiche e da eseguire esclusivamente con la voce, chiedendo poi ai
compagni di riconoscere la situazione rappresentata.
Fig. 10. Quadri sonori [da Ersilia Zamponi, 1986, I draghi locopei, Torino, Einaudi]
Quanto all’imitazione dei versi degli animali, è nota la loro utilizzazione soprattutto con i
bambini più piccoli, e gli esempi in campo musicale sono praticamente infiniti. Se volessimo
divertirci a fare statistiche, sicuramente il verso del cucù risulterebbe il più inflazionato, ma
moltissimi chicchirichì, miao, bau, coccodè, tirlitirli rallegrano i testi di canzoncine infantili,
canti popolari, canoni e brani polifonici, che per le loro caratteristiche sonore e articolatorie
rivestono dal punto di vista vocale ed esecutivo lo stesso interesse dei brani contenenti altre
forme di onomatopea. Mi limito pertanto a due esempi molto differenti tra loro per quanto
riguarda la tipologia di lavoro didattico.
Il compositore Boris Porena nel testo Kinder-musik (1973), rivolto a “esecutori-autori dai 6
anni in su” propone un lavoro compositivo su materiali onomatopeici dal titolo 2’ al
padiglione ornitologico (per vocalisti in numero a piacere). Si tratta di una composizione
che il gruppo deve elaborare sulla base di una struttura data, suddivisa in blocchi di dieci
secondi (fino al raggiungimento dei due minuti), utilizzando versi di uccelli “semplici”, da
intonare esattamente su un’unica nota data (es. 35), o “composti”, da intonare
approssimativamente su intervalli melodici dati (es. 36). I suoni prescelti fanno parte della
scala pentatonica. Il campionario ornitologico che il compositore offre è articolato in versi
classificati sia in base alle vocali sia in base all’altezza. Ad esempio, tutti i versi “semplici”
contenenti la vocale “i” (come uit, kii) sono da intonare sulla nota do, quelli con la vocale
“a” (kraak, ecc.) sul sol e così via, mentre i versi “composti” (come ko-uak, tu-luit) si basano
su intervalli melodici di quarta, terza o sesta. Riportiamo lo schema dei primi 30 secondi
(es. 37), per comprendere grossomodo i criteri con cui le voci vengono organizzate e
immaginare quindi la trama timbrico-armonica che potrebbe nascere dalla struttura
compositiva proposta.
Es. 35. Boris Porena, 2’ al padiglione ornitologico (richiami semplici)
Es. 37. Boris Porena, 2’ al padiglione ornitologico (schema dei primi 30”)
Se lavorando con i bambini osserviamo le due strofe centrali del testo poetico di A.Vernata
su cui è costruito il brano di T.Visioli, noteremo che nella prima (es. 41, p. 227) la
prevalenza di vocali chiare e strette dal punto di vista articolatorio (“e”, “i”) evoca
sinestesicamente qualcosa di piccolo e delicato, implicito anche nell’aggettivo “sottile”,
mentre le consonanti esplosive sorde “t” e “p” imitano onomatopeicamente il lieve rumore
della pioggia primaverile. Tutto questo indirizza a un’interpretazione musicale in cui la
melodia, non legata, viene articolata appoggiando in leggerezza ogni nota e relativa sillaba,
grazie proprio all’incisività delle consonanti, con un volume sonoro molto contenuto.
Es. 41. Tullio Visioli, Sotto la luna, batt. 4-11
Nella strofa successiva (“Canto ed ascolto, sono incantato, un coro di bimbi, un cielo
stellato”) la prevalenza di vocali più aperte (“o”, “a”) e di consonanti nasali e liquide (“n”,
“m”, “l”) induce invece a un suono più intenso (ma non forte!), a un maggior legato nella
melodia e a un andamento più calmo, come a indugiare di fronte al meraviglioso spettacolo
della notte. Questa lettura simbolico-affettiva naturalmente ha senso se è frutto di un
percorso maturato insieme con i bambini, nel quale il lavoro sulla musica sia preceduto
dalla recitazione ad alta voce del testo, così che i cantori sentano fisicamente e
uditivamente il valore espressivo dei fonemi che caratterizzano ogni strofa, comprendano il
contenuto affettivo delle parole, vivano le emozioni trasmesse da ognuno di questi piccoli
quadri poetici, magari anche con l’aiuto del movimento (cfr. 2.2.3), per poi cercare insieme
all’insegnante le soluzioni vocali più adatte a descrivere le sensazioni trasmesse dal testo.
Tutto ciò può forse apparire eccessivo rispetto alla semplicità del brano, anche perché le
spiegazioni scritte sono molto più complicate della realtà operativa, ma chi ha pratica di
lavoro con i bambini sa che un approccio del genere trova in loro una risposta immediata. In
ogni caso penso che nell’educazione al canto non sia mai troppo presto cominciare a
lavorare sui significati espliciti ed impliciti del testo poetico, poiché la voce trova in questo
ambito un livello di crescita profondo, la possibilità cioè di utilizzare le immagini, le
sensazioni e le emozioni veicolate dal testo per arricchire il proprio bagaglio tecnico-
espressivo (cfr. cap. 2.2).
Un lavoro come quello appena descritto, fatto da un gruppo di bambini, non è nella
sostanza molto diverso, se non nei modi e tempi relativi all’età e alle competenze possedute,
da quello che può fare un coro di adulti o un gruppo di cantanti professionisti su un
materiale musicale e testuale più complesso (vedi l’esempio sullo Jonas di Carissimi).
Ovviamente la musica vocale non è sempre così densa di simbolismi fonetici ma, senza
scomodare il madrigale e i madrigalismi, è un dato di fatto che in ogni brano creato su un
testo poetico c’è una materia verbale che chiede di essere interpretata nel suo valore
semantico/sonoro e valorizzata in quanto tale.
È dunque importante che nel contesto dell’educazione vocale di base possa emergere
questo aspetto del lavoro sul materiale fonetico verbale, affinché lo studente sappia
guardare ad esso come a un veicolo di significati non solo concettuali, ma anche simbolico-
affettivi.
Sui rapporti tra parola e musica, tra linguaggio verbale e linguaggio musicale, molto è
stato detto e scritto in ambito musicologico/didattico, e la tematica è talmente vasta e
sfaccettata da imporci di rimandare il lettore alla bibliografia specifica58, limitandoci in
questa sede a mettere in evidenza solo gli aspetti più immediatamente correlati alle
problematiche dell’educazione vocale di base.
Già nel capitolo precedente è stato evidenziato quanto le esperienze musicali del secolo
scorso abbiano ampliato e modificato il rapporto preesistente tra linguaggio musicale e
testo verbale, da una parte valorizzando la materialità acustica della parola, dall’altro
liberando la parola stessa dai vincoli semantici attraverso processi di destrutturazione
linguistica. In un suo scritto Luciano Berio (1985) analizza l’evoluzione del rapporto
testo/musica all’interno della musica vocale, individuando alcune tendenze principali. Una
di queste, incarnata dalla grande polifonia vocale sacra, è quella in cui il compositore,
mettendo in musica testi noti, come ad esempio il Kyrie, viene svincolato dalla
preoccupazione di rendere percepibile la parola, e proprio grazie a questa libertà può
esplorare ambiti musicali di grande complessità, come è avvenuto nella polifonia fiamminga.
Un’altra tendenza, affermatasi nel Sette-Ottocento, della quale è emblematico il Lied
tedesco e che permane tutt’oggi, è caratterizzata da un ampio campo di coincidenze –
metriche, prosodiche, retoriche, formali, espressive – tra forma letteraria e forma musicale.
Un’ulteriore tendenza, nella quale Berio afferma di riconoscersi, è quella che vede nella
musica uno strumento di analisi e riscoperta del testo verbale, e che rivendica pertanto al
compositore il diritto di decidere quali parti del testo distruggere o occultare quali invece
illuminare attraverso la musica, e quale livello di percepibilità dare al testo.
La scrittura corale di Nono, a partire da Canto sospeso del 1956 (CD5), è sicuramente una
delle più emblematiche in questo senso: la parola viene frammentata in una polifonia
puntillista, e quindi scomposta e ricomposta nei suoi elementi costituenti (fonemi, sillabe) in
senso orizzontale e verticale, mentre il valore semantico, annullato a livello verbale, viene
recuperato a livello musicale attraverso l’impatto espressivo della trama timbrico-armonica
(nell’es. 42 un frammento tratto da “Ha venido”, Canciones para Silvia, per soprano solo e
coro di 6 soprani). Diverso nella struttura ma analogo rispetto alla percepibilità del testo
cantato
è l’altrettanto celebre brano di Ligeti Lux aeterna (1966) per coro a cappella, dove la
parola, pur declamata interamente in senso lineare da ognuna delle voci, diventa di fatto
pura materia timbrica all’interno della strettissima trama polifonica e del denso spessore
armonico (CD4).
Murray Schafer (1990) sostiene che quando il linguaggio si eleva a livello del canto perde
inevitabilmente il suo significato, ed è giusto e necessario che sia così. Nell’analizzare la
parola in rapporto al suo valore semantico e musicale Murray Schafer elabora il seguente
schema (fig. 11), affermando che solo nel canto medioevale (gregoriano e trobadorico) è
depositato il segreto del difficile equilibrio tra l’arte del cantare e quella del parlare, un
equilibrio cioè che renda giustizia a entrambe.
Es. 42. Luigi Nono, “Ha venido”, Canciones para Silvia, batt. 42-5 [Mainz, Ars Viva]
Fig. 11. Murray Schafer, schema musicalità/significati [da Quando le parole suonano. Viaggio intorno alla
vocalità, 1990, Milano, Suvini Zerboni]
Un’altra prospettiva d’indagine è quella che riguarda la definizione dei confini tra parlato
e cantato. L’enorme varietà di forme e modalità espressive utilizzate nella comunicazione sia
sociale sia musicale porta a ipotizzare (Giannattasio 2005) una sorta di continuum
espressivo tra parlato e cantato, all’interno del quale si situano i diversi livelli di
formalizzazione della parola; un continuum che risulta difficilmente segmentabile in
maniera netta secondo una progressione ordinata che va dalle forme più vicine al parlato
fino al canto.
Spostandosi su un ipotetico asse di trasformazione della parola dal parlato al cantato sono
infatti riscontrabili infinite modalità di espressione, che risultano difficili da classificare
perché legate anche a stili vocali soggettivi. Mi riferisco, per esempio, ai gridi degli
ambulanti, agli slogan televisivi, o alle forme dell’oratoria politica e religiosa59. In questi
contesti l’enfasi espressiva si accompagna ad alterazioni del timbro vocale, a cambiamenti
di registro e dinamica, che sottolineano gli stati emotivi o le caratteristiche psicologiche e
professionali dei soggetti parlanti60, così che la voce va ad arricchirsi di qualità sonore
simili a quelle che caratterizzano la voce cantata.
La componente musicale presente nella lingua parlata, definita prosodia, si identifica con
alcuni precisi elementi che contraddistinguono l’espressione orale, chiamati tratti
sovrasegmentali o paralinguistici, che sono essenzialmente: le curve intonative,
l’accentuazione, l’intensità, il ritmo e la velocità dell’eloquio, le qualità timbriche e
articolatorie della voce. Nel passare gradualmente dal parlato al cantato si assiste a una
progressiva enfatizzazione di questi tratti prosodici e a una loro formalizzazione musicale.
Anche nel contesto della vocalità artistica esistono espressioni che si collocano a mezza
strada tra parlato e cantato, come lo “stile recitativo”, ampiamente presente in tutto il
melodramma, o lo Sprechgesang, termine con cui Schönberg definisce nel suo Pierrot
lunaire (CD7) una modalità vocale oscillante tra cantato e recitato. In entrambe queste
forme la vicinanza al cantato è determinata dall’uso, anche se parziale e ancora abbastanza
libero, di altezze prestabilite, e dall’organizzazione ritmica che, per quanto vicina all’eloquio
naturale, è comunque definita dal compositore sulla base di una metrica che accomuna la
voce agli strumenti previsti dalla partitura.
Es. 43. Arnold Schönberg, Pierrot lunaire, Colombine, batt. 1-6 [Wien, Universal]
Nel contesto didattico si possono proporre delle attività di sperimentazione sul passaggio
dal parlato al cantato, attraverso giochi imitativi e improvvisativi:
• Il gruppo declama liberamente un testo verbale. Ogni ragazzo sceglie un ritmo proprio,
senza preoccuparsi della sincronia con le altre voci recitanti, così da creare una trama
polifonica. Gradualmente ogni singola voce si sgancia dalla modalità declamatoria
iniziale e comincia a enfatizzare i profili melodici delle frasi verbali in base anche ai loro
significati, fino a trasformare il testo parlato in un vero e proprio canto. In base al livello
di competenza musicale del gruppo, il risultato sarà un insieme di linee melodiche
indipendenti che si intrecciano liberamente, oppure un prodotto sonoro coerente dal
punto di vista musicale, determinato dal progressivo modellarsi reciproco delle melodie
emergenti61.
• Giovanni Piazza (1983, p. 148) propone di creare un rondò vocale, in cui il refrain è
costituito da un canto popolare ispirato al mercato, mentre i couplets consistono in grida
e richiami di venditori ambulanti eseguite dai singoli cantori, che dovranno sbizzarirsi a
inventare e cantare tutti i possibili pregi delle loro merci. Le grida dei venditori possono
essere inventate ex novo o imitate a seguito di una visita ai mercati rionali, dov’è ancora
possibile ascoltare dei richiami “genuini”.
• Se in classe ci sono ragazzi provenienti da regioni diverse si può lavorare sull’ascolto dei
differenti dialetti, per vedere dove in ognuno di essi il parlato si avvicina maggiormente
al canto (modi di parlare cantilenanti o gridati, modi particolarmente enfatici di
interloquire ecc.). Si può in seguito provare a recitare una filastrocca o una conta con lo
stile prosodico tipico di una determinata lingua dialettale62.
Un fenomeno vocale molto vicino agli adolescenti, che riguarda l’uso musicale della voce
parlata, è il rap.
Benché oggi i rappers registrino in condizioni moderne normali, lo strumento e la tecnica
strumentale sembrano essere meno importanti della capacità del tchatcheur, di colui che parla. Le
parole hanno più importanza del suono, ipercodificato al fine di permettere un riconoscimento facile e
immediato del genere. La prosodia domina la creazione musicale, diventando essa stessa musicalità.
Questo ritmo, che si ritrova anche nella lingua parlata dei rappers, giova a sostenere il senso piuttosto
che annullarlo. (Souchard 2001, p. 733)
Il rap può quindi essere utilizzato anche per prendere coscienza della funzione della
prosodia nella comunicazione orale.
Nel brano Rap 7 up del compositore M. Longo per voce recitante, coro giovanile misto a 3
voci, tastiera, chitarra basso e batteria64, di cui riportiamo un frammento (es. 44), la
recitazione del solo sostenuta dalla chitarra basso si alterna a un ritornello cantato dal coro
in omoritmia sempre sul ritmo sincopato caratteristico dello stile rap.
Es. 44. Maurizio Longo, Rap 7 up, batt. 8-11
Dal punto di vista educativo il lavoro sulla prosodia si colloca in una dimensione
prettamente interdisciplinare, nella quale il linguaggio verbale e quello musicale si
confrontano e si arricchiscono vicendevolmente. Pertanto tutte le attività di lettura
espressiva di prosa o poesia e le attività teatrali sono da considerarsi importanti anche ai
fini dello sviluppo della voce cantata65. Tuttavia in questo contesto la nostra attenzione è
orientata soprattutto verso gli aspetti della didattica vocale che emergono dal contatto con i
repertori musicali/corali, e tra questi sono senz’altro da segnalare i cori parlati, materiali
che per le loro peculiarità vocali offrono interessanti spunti di lavoro.
Il coro parlato è una delle espressioni più caratteristiche della vocalità d’insieme
contemporanea e ha trovato nella letteratura musicale del Novecento forme diverse di
realizzazione: dalle rigorose declamazioni monocordi in lingua latina contenute nella Passio
secondum Lucam di Penderecki (CD6) ai giocosi intrecci verbali della Fuga geografica di
Ernst Toch (CD9) o della Living Room Music per quartetto vocale e percussioni di John Cage.
Il repertorio dei cori parlati in realtà non è molto praticato, a livello sia amatoriale sia
professionale, non solo perché poco conosciuto, ma anche perché la sua resa espressiva
richiede notevole fantasia interpretativa e un grosso impegno vocale. Non è facile infatti
dare varietà di colori e di espressione a un materiale per sua natura molto omogeneo come
quello parlato. Se nel coro misto la differenziazione timbrica implicita nella diversità dei
registri vocali contribuisce di per sé ad arricchire la trama polifonica, decisamente più
difficile diventa la resa musicale per un gruppo composto da voci simili, come può essere un
coro di ragazzi. In ogni caso i cori parlati richiedono un lavoro interpretativo che valorizzi
sia la materia fonetica sia la musicalità implicita nel linguaggio verbale, e proprio in questo
lavoro sta la loro valenza formativa66.
Le scelte interpretative investono diversi aspetti della prosodia, e in particolare le
inflessioni intonative, gli accenti enfatici, le varianti timbriche, mentre solitamente
l’organizzazione temporale metrico-ritmica è definita in partitura, come lo sono spesso
anche gli aspetti agogico-dinamici. Per quanto riguarda le curve intonative, cioè le eventuali
variazioni di altezza e di registro del parlato, talvolta la scelta viene indirizzata dal
compositore stesso attraverso la scrittura. Ad esempio il finlandese Rautavaara, autore di
una raccolta di quattro brani per coro parlato (Ludus verbalis op. 10), utilizza un sistema di
riferimento a tre righe per indicare agli esecutori le variazioni, relative, di altezza del
parlato:
Es. 45. Einojuhani Rautavaara, Quantitativa, batt. 12-4 (da Ludus Verbalis) [Wiesbaden, Breitkopf & Härtel]
Altre volte viene data un’unica linea di riferimento corrispondente al registro medio della
voce parlata, come nel frammento seguente, tratto da un brano di Stahmer, dove le voci si
imitano esaltando così anche le componenti fonetiche della frase verbale:
Es. 46. Klaus Stahmer, Süßer Tod (frammento) [Bremen, Eres]
Nella maggior parte dei casi tuttavia le frasi ritmiche parlate sono scritte su di un unico
rigo in orizzontale e sta quindi all’insegnante fare delle scelte, meglio se insieme agli allievi,
per evitare una lettura monocorde. Come esempio di lavoro, invece di attingere a un brano
corale già esistente, propongo delle ipotesi semplicissime di realizzazione in forma di coro
parlato di una breve conta friulana, poiché di fatto qualunque insegnante può elaborare un
materiale organizzato ritmicamente, come sono appunto le conte o le filastrocche,
trasformandolo in un coro parlato, sia pure elementare67. Prendiamo come punto di
partenza la frase ritmica corrispondente alla conta:
Es. 47. Filastrocca parlata
Quali criteri utilizzare innanzitutto per giungere a una lettura varia e musicalmente
espressiva di questa frase parlata? Una strada può essere quella di partire dalle diverse
“interpretazioni” del testo. Gli accenti enfatici e le relative curve intonative infatti cambiano
a seconda che si voglia sottolineare l’aspetto enumerativo, e cioè il fatto che si tratta di tre
diverse fanciulle (tre sorelle, una… una… l’altra…, es. 48) o invece l’azione, che è diversa
per ognuna di esse (es. 49).
Es. 48. Curve intonative 1
Come già sottolineato in apertura di capitolo, non sempre il canto riproduce e traduce
linearmente sul piano musicale il testo poetico. Talvolta lo frammenta, lo deforma (ad
esempio attraverso le vocalizzazioni), ma nella maggior parte dei casi, soprattutto nella
coralità praticata a livello di base, c’è un rapporto stretto tra parola parlata e parola
cantata.
Nel lavoro di studio e interpretazione di un brano cantato è importante la consapevolezza
da parte degli studenti delle eventuali corrispondenze tra testo verbale e testo musicale, e
più specificamente tra:
– metrica poetica / metrica musicale (accenti tonici delle parole / accenti metrici musicali);
– suddivisione strofica, punteggiatura / articolazione del fraseggio musicale, pause e respiri;
– significati poetici / andamento agogico-dinamico (lento, calmo, veloce, incalzante, intenso,
intimo ecc.);
– significati poetici / articolazione melodico-sillabica (legato, staccato, marcato ecc.);
– tratti prosodici del testo verbale (intonazioni sospensive, affermative, interrogative ecc.) /
andamento melodico-dinamico delle frasi musicali.
Tutti questi aspetti vanno naturalmente ricomposti all’interno di una visione generale che
colga relazioni di più ampio respiro tra la struttura complessiva del testo poetico e la
struttura melodico-armonica-contrappuntistica del testo musicale. Si potrà osservare ad
esempio che, come spesso avviene, all’acme della tensione espressiva poetica corrisponde il
punto di massima espansione della melodia o un evento armonico significativo
(modulazione, accordo molto denso ecc.), che a una parola o a un concetto chiave reiterati
all’interno del testo poetico corrisponde sempre la stessa figura ritmica o melodica, oppure
che la struttura contrappuntistica mette in evidenza aspetti fonetici particolarmente
significativi del testo. Il lavoro di interpretazione vocale sta nel compiere delle scelte che
sottolineino queste corrispondenze o le mantengano latenti, che mettano in luce le
convergenze di senso più evidenti tra testo poetico e musicale o facciano emergere quelle
più nascoste. In ogni caso nel momento in cui la parola viene cantata è importante la
consapevolezza del suo senso, reale o metaforico, e del modo in cui la musica lo arricchisce
e lo trasforma. L’insegnante deve quindi guidare gli studenti in un’attività di analisi del testo
sia verbale sia musicale, delle rispettive strutture linguistiche e formali e delle loro modalità
di interazione, affinché si sviluppi la coscienza della voce come punto d’incontro tra due
diversi linguaggi che con la loro dialettica creano di fatto una forma di espressione nuova, il
canto, dotata di senso proprio e assolutamente unica nel suo potenziale comunicativo.
Solitamente più fattori, tra questi e altri ancora, concorrono alla selezione del repertorio,
che deve essere calibrato sulle caratteristiche degli studenti in rapporto a:
Come ben sappiamo l’attività didattica nel settore dell’educazione musicale è spesso
fortemente condizionata, soprattutto nella scuola di base, da fattori extradisciplinari, come
le richieste di partecipazioni a feste e spettacoli che, per quanto legittime e anzi benvenute,
riflettono talvolta nella loro tipologia una visione esclusivamente ludico-ricreativa della
musica e una scarsa considerazione dei suoi aspetti formativi. L’insegnante si trova cioè
spesso costretto a operare difficili compromessi per conciliare le richieste di performance
con gli obiettivi di una programmazione educativa che guarda invece alla maturazione
vocale, musicale e culturale degli studenti. In questo delicato e faticoso lavoro di
equilibrismo didattico l’insegnante deve necessariamente darsi delle priorità e adottare
delle soluzioni che salvaguardino e rispettino le caratteristiche psicofisiche dei propri allievi
cantori.
L’attenzione va rivolta innanzitutto alle caratteristiche vocali dei brani perché, come già
detto altrove, i rischi nel forzare delle voci giovani o immature sono molto più alti di quanto
si pensi, e questo implica:
– scegliere dei materiali musicali che rispettino l’estensione e la tessitura media dei propri
studenti;
– adattare, se necessario, il canto prescelto modificando la melodia per ridurne l’estensione
sia nell’acuto sia nel grave oppure spostando tutto il brano verso l’alto o il basso per
centrare il più possibile la tessitura (da tenere presente che se il brano è appreso da un
disco o è cantato sulle basi questo adattamento non è possibile);
– scegliere dei materiali il cui andamento ritmico-melodico permetta di rispettare le
capacità di emissione e articolazione degli allievi.
Altro fattore prioritario è il livello di qualità musicale del repertorio, che non è legato né al
genere né al grado di complessità musicale del brano. Spesso si crede che la semplicità
della melodia sia garanzia di facilità esecutiva, ma non sempre è così. Ad esempio un testo
cantato su un unico suono è molto più difficile e faticoso di una melodia articolata su più
suoni. È infatti importante soprattutto la significatività del disegno melodico, che lo rende
chiaramente percepibile e memorizzabile, e permette alla voce di muoversi nello spazio
frequenziale esprimendo il proprio dinamismo intrinseco. In generale è comunque difficile
lavorare bene vocalmente (e quindi con soddisfazione) su brani di scarsa sostanza musicale.
Naturalmente è compito dell’insegnante guidare il gruppo alla scoperta degli aspetti più
interessanti della musica studiata e fare in modo che questi stimolino la ricerca vocale. Va
tenuto presente che anche i bambini sono in grado di apprezzare sia la musicalità di un
brano cantato sia la qualità del lavoro musicale che un insegnante riesce a fare su di esso.
Un elemento spesso problematico nella scelta dei canti è il testo poetico. La mancanza nel
nostro paese di una tradizione corale didattica fa sì che spesso a brani musicali vocalmente
accessibili corrispondano testi infantili o comunque lontani, per contenuto e tipo di
linguaggio poetico, dalla sensibilità dei ragazzi. Lo sforzo è pertanto quello di offrire loro
dei materiali che siano significativi anche a livello dei contenuti testuali, tenendo presente
che cantare per i ragazzi è anche un modo di raccontare, di descrivere immagini, emozioni,
sentimenti. Anche in questo caso si può quindi valutare l’opportunità di modificare un testo
per renderlo più congruo alle caratteristiche psicologiche degli allievi, o altrimenti si avrà
cura di lavorare su di esso affinché venga compreso nelle sue caratteristiche e non sia
quindi fonte di disagio per i cantori.
La necessità di conciliare tanti fattori diversi implica dunque da parte dell’insegnante,
oltre che un livello approfondito di conoscenza degli allievi, anche la capacità di scegliere
ed elaborare i materiali didattici valorizzando gli aspetti musicali più qualificanti e quelli
maggiormente idonei a stimolare la crescita vocale del gruppo.
– Deve svolgersi nel silenzio: il canto dell’insegnante prima, e quello dei ragazzi che imitano
poi, deve nascere e finire nel silenzio. L’ascoltare, più che il fare, è l’atteggiamento che
caratterizza questa fase.
– La comunicazione insegnante/allievi deve avvenire sul piano uditivo, visivo e gestuale, ed
essere interrotta il meno possibile da interventi verbali (ad esempio: «fate come me»,
«uno, due, via», «non è così ma così…» ecc.). Questi interventi, nel tentativo di spiegare,
descrivere, indicare, di fatto distolgono la concentrazione uditiva a scapito della qualità
del suono, dell’intonazione e dell’espressione. Nella fase di apprendimento la voce
dell’insegnante deve parlare ai sensi degli allievi più che alla loro mente razionale.
– L’insegnante, avendo preventivamente verificato che la melodia del brano è centrata sulla
tessitura media dei suoi studenti, dopo averla cantata almeno una volta per intero, inizierà
a proporla frase per frase. Nel lavoro per imitazione la melodia viene presentata insieme
al testo verbale. Soprattutto per i bambini più piccoli separare la melodia dal testo è non
solo inutile, ma addirittura controproducente, poiché il bambino ha del brano cantato una
percezione globale, nella quale gli elementi melodici non sono scissi da quelli fonetici.
– L’insegnante canta la prima frase accompagnandosi con un semplice gesto direttoriale che
indichi la pulsazione di base e la velocità del brano. Senza interrompere o cambiare la
pulsazione, gli allievi ripetono la frase, se necessario una prima volta insieme
all’insegnante e poi da soli, e così per tutte le frasi che compongono il brano. Man mano
che ogni frase viene appresa, l’insegnante la ricollega alle frasi precedenti fino a
completare il brano o la parte di esso che è oggetto di studio. Essenziali indicazioni
mimiche o gestuali renderanno chiaro agli allevi quando è il momento di cantare e quando
invece di ascoltare l’insegnante. Non è detto che il brano vada imparato sempre dalla
prima battuta all’ultima. Si può decidere anche di imparare il canto “a gambero”, per
scoprirlo un po’ alla volta in modo più divertente, oppure per affrontarne subito le parti
più difficili.
– Se la frase proposta risulta troppo complessa per le capacità percettive dei ragazzi, si può
frammentarla in unità melodiche più piccole. Se ci sono passaggi difficili l’insegnante può
isolarli e ripeterli più lentamente o sotto forme diverse (sostituendo il testo con delle
sillabe, vocalizzandolo, ecc.). È importante comunque non insistere, soprattutto all’inizio,
se qualche passaggio non è perfetto, mettendo in conto un tempo fisiologico di
familiarizzazione con il brano.
– L’insegnante non si stancherà di ripetere ogni volta la frase sempre nella sua completezza
musicale ed espressiva, anche se gli studenti la ripropongono più grezzamente o in modo
asettico.
– Il lavoro deve svolgersi in un tempo non troppo lungo, soprattutto se i bambini sono
piccoli, e lasciare la piacevole sensazione di aver conosciuto e percepito con sufficiente
chiarezza qualcosa di nuovo e di bello, intravedendo tuttavia quello che dev’essere ancora
migliorato: è come l’alzarsi da tavola con ancora un po’ d’appetito.
Per rendere più chiara la percezione dell’intero brano e dare dei rinforzi alla memoria,
l’insegnante può sottolineare la presenza al suo interno di ripetizioni, variazioni o altri tipi
di relazioni interne fino a focalizzare, magari con gli studenti più grandi, la struttura
formale del canto studiato (ad esempio A-A’-B-A’’). La chiarezza analitica è di aiuto nel
creare dei punti di riferimento per l’intonazione (note polari della melodia, funzioni di tonica
o dominante, cellule melodiche reiterate, ecc.) e in generale per la gestualità vocale, che
tanto più facilmente si organizza quanto più sicuro è l’orecchio e nitida l’immagine mentale
del brano.
L’insegnamento del canto per imitazione non esclude l’uso della partitura musicale,
soprattutto se tra gli obiettivi formativi, anche a lungo termine, è prevista l’alfabetizzazione
musicale. Per i bambini, ma anche per gli adulti, la partitura, se pur non completamente
decodificata, può avere comunque un senso al di là del testo verbale. Nella scrittura
musicale esiste infatti una dimensione analogica ricca di informazioni – relative alla
direzione della melodia, alla sua struttura, al fraseggio e altro – che possono essere recepite
anche intuitivamente dai bambini.
Nel caso di apprendimento per lettura, quando vengono cioè in prima istanza decodificate
le durate e le altezze, chiamandole con il nome delle note o con una sillaba neutra (la-la-la),
i vantaggi possono essere notevoli poiché la lettura sveltisce molto i tempi di
apprendimento del canto in rapporto soprattutto alla sua struttura ritmico-melodica.
Tuttavia bisogna fare attenzione, come già detto, a che l’approccio incentrato sul codice
linguistico sia integrato immediatamente da attività che focalizzino le qualità espressive
della linea melodica e il fraseggio musicale. In ogni caso è bene non lasciare mai troppo
“potere” alla partitura, nel senso di non permettere che si crei uno sbilanciamento
percettivo e che la concentrazione visiva prevalga su quella uditiva. È esperienza comune
che il canto a memoria risulti sempre più intonato di quello per lettura e che, implicando
una chiara rappresentazione mentale della struttura del brano, favorisca la tensione
espressiva musicale e l’efficacia comunicativa.
La ripetizione del canto, necessaria al suo apprendimento, può ingenerare stanchezza,
calo della concentrazione e della tensione espressiva, sia nei bambini sia negli adulti. È
quindi buona norma vivacizzare la fase di apprendimento di un brano, variando le sue
modalità esecutive, ad esempio:
Queste “variazioni sul tema” sono funzionali non solo allo studio tecnico del brano
cantato, ma anche a una sua più approfondita conoscenza, dal momento che il brano viene
in questo modo visto e ascoltato sotto prospettive diverse e valutato nel suo potenziale
sonoro/espressivo, preparando così un’attività interpretativa più consapevole.
Nel caso di un brano polifonico, che comporta l’istruzione di più parti corali, è bene non
lasciare troppo a lungo inattive le sezioni non coinvolte nell’apprendimento della parte,
rendendole, se possibile, partecipi del lavoro attraverso l’assegnazione di compiti di
supporto quali:
– accompagnamento ritmico;
– direzione collettiva del brano;
– funzione di pedale o di ostinato ritmico-melodico;
– ascolto della sezione impegnata nel canto e valutazione del risultato esecutivo.
I problemi di intonazione
In più parti del testo si è fatto riferimento ai rapporti tra intonazione, percezione ed
emissione vocale, indicando strategie operative incentrate soprattutto sulla scoperta delle
risonanze corporee più alte (suono di testa), sulla ricerca di un suono ricco di componenti
armoniche e quindi sull’ascolto. Tutte queste strategie possono essere richiamate
costantemente durante lo studio di un brano cantato, applicandole in particolare ai passaggi
critici per l’intonazione.
Nella fase di apprendimento di un canto possono esserci dei fattori che rendono
difficoltosa la percezione o la riproduzione della giusta altezza del suono. Ad esempio:
– La nota di riferimento viene data non con la voce ma con uno strumento; in questo caso la
differenza timbrica rende difficile l’identificazione dell’altezza.
– La melodia viene proposta da una voce molto diversa da quella del cantore. Il caso più
frequente è quello della voce maschile che insegna per imitazione ai bambini cantando nel
proprio registro naturale e quindi un’ottava più in basso rispetto alla voce infantile;
talvolta si rende necessario da parte dell’insegnante uomo l’uso della voce di testa o del
falsetto per proporre ai bambini l’intonazione della melodia con i suoni reali. Anche se più
di rado si registrano difficoltà analoghe nei casi in cui un direttore donna istruisca le parti
maschili di un coro.
– La tonalità non è adeguata e quindi la melodia è troppo alta o troppo bassa rispetto alla
tessitura media dei cantori.
– La melodia sottintende un’armonia troppo complessa e la funzione tonale di alcuni suoni
non risulta immediatamente comprensibile. In questo caso può essere utile esplicitare
l’armonia al pianoforte accompagnando il canto finché la struttura melodica non sia
chiarita.
– I ragazzi cantano troppo forte, oppure il loro suono è coperto da strumenti musicali o basi
registrate, per cui non riescono ad ascoltarsi sufficientemente.
– Il tono neuromuscolare dei cantori è troppo basso in generale o si abbassa con il calare
della tensione musicale, come avviene spesso alla fine di una frase musicale, soprattutto
se la melodia è discendente. La gestualità corporea in questi casi può essere d’aiuto.
L’immagine derivante dalla scrittura musicale di un movimento discendente non è mai
favorevole per la tonicità vocale e sonora, e può essere quindi utile controbilanciarla
associando un gesto corporeo di direzione opposta, cioè ascendente, che aiuti a
contrastare il calo della tensione.
Ricordo l’importanza che ha l’abitudine di “pensare” il suono prima di cantarlo, in particolare quando si
tratta della nota d’inizio di una nuova frase. A tal fine lavorando su un brano si possono proporre delle
attività che movimentino la fase di studio, abituando nel contempo i cantori alla concentrazione e al
controllo del suono “interno”.
• Dividere il coro in gruppi e far cantare ogni frase del brano a un gruppo diverso; questa
strategia educa lo studente a seguire il canto interiormente e a prendere l’intonazione
dalla voce dei compagni; dove lo si ritiene opportuno si può fare la stessa cosa
individualmente, suddividendo cioè le frasi del brano tra i singoli cantori.
• Eseguire il brano tutti insieme, alternando una frase cantata a voce alta a una cantata
interiormente, e cioè solo pensata.
L’interpretazione
Il lavoro di preparazione che l’insegnante/direttore di coro fa sul brano corale prescelto è
ovviamente molto diverso a seconda del livello di complessità musicale del brano e di
esperienza vocale/musicale del gruppo. Ci sono tuttavia dei passaggi obbligati, che si
rendono cioè necessari in ogni caso, affinché l’insegnante possa iniziare l’attività con gli
studenti avendo chiare le caratteristiche del brano, le sue eventuali difficoltà di esecuzione,
e le ipotesi interpretative da sottoporre al gruppo.
Innanzitutto è importante che ci sia un’osservazione e valutazione preventiva del brano
cantato in rapporto a:
– struttura fraseologica e contrappuntistica (nel caso di polifonia);
– andamento melodico ed eventuali passaggi difficili per l’intonazione;
– relazioni armoniche tra le parti (se a più voci);
– caratteristiche temporali/metriche/ritmiche;
– collocazione dei respiri, che ovviamente va poi verificata nel gruppo;
– andamento agogico-dinamico;
– relazioni tra testo poetico e testo musicale;
– pronuncia del testo verbale, se in lingua straniera, e sue modalità di articolazione.
Si tratta ovviamente di aspetti strettamente connessi tra loro e il lavoro con gli studenti
implica di portare alla luce le relazioni più significative. Ad esempio la collocazione dei
respiri o delle cesure può essere legata non solo al fraseggio melodico, ma anche alla
volontà di sottolineare particolari significati del testo poetico, così come una difficoltà di
intonazione o emissione può dipendere da una sfavorevole combinazione fonetica. In fase
preparatoria è bene che l’insegnante, oltre a studiare la partitura, canti effettivamente la
melodia o, nel caso di un brano polifonico, tutte le parti vocali previste, per rendersi conto
dei possibili problemi di intonazione, respirazione, emissione, pronuncia, e ipotizzare così
delle soluzioni.
L’osservazione delle caratteristiche del brano è naturalmente funzionale anche alle scelte
interpretative. Quando si parla di interpretazione a proposito di brani musicalmente
elementari sembra di utilizzare un termine esagerato, spropositato. In realtà l’atto
interpretativo è semplicemente inevitabile, qualunque sia il livello di complessità della
musica. Come osserva Moschetti (1988), sottolineando l’originaria etimologia del termine
(inter-pretium = scambio), l’interprete è colui che presiede, cura lo scambio, il passaggio da
un piano di realtà all’altro, nel nostro caso dal segno musicale all’immagine sonora. Il
direttore del coro è quindi colui che guida il gruppo vocale in quell’opera di “ri-creazione”
musicale che avviene inevitabilmente ogniqualvolta si dà vita sonora a una traccia scritta,
offrendole un nuovo contesto e una nuova ottica di realizzazione (Tosto 2000).
Mantenendoci sul piano della concretezza operativa, mi sembra importante innanzitutto
ribadire che la lettura interpretativa del brano dev’essere proposta dall’insegnante al
gruppo fin dalle prime fasi di apprendimento, in particolare per quanto riguarda le scelte
relative al fraseggio. Bisogna infatti sempre tener presente che la voce calibra il proprio
agire, respiratorio e muscolare, sull’immagine della frase musicale che si accinge a cantare.
Abbiamo già detto che la melodia va vista come evoluzione nel tempo di un’unica durata
sonora, sia pure rivestita di sillabe diverse, e che la qualità dinamica della voce consiste
nella sua capacità di distribuire l’energia sonora in modo differenziato su quest’unica
durata. L’emissione vocale corrispondente alla frase musicale è un unico atto espiratorio nel
quale l’energia aerea e muscolare, trasformandosi in energia sonora, viene utilizzata lungo
l’arco della frase cantata sulla base della sua articolazione espressiva, tenendo cioè conto
del tipo di attacco (morbido o incisivo), degli stati affettivi poetico-musicali (tensione,
distensione, sospensione), delle cesure e dei silenzi, e dell’articolazione del testo verbale.
In sostanza, se il cantore ha molto chiare tutte le caratteristiche – dinamiche,
articolatorie, intonative – di ogni frase musicale che si accinge a cantare, il lavoro vocale si
svolgerà con maggiore economia di risorse. Questa esigenza fisiologica/musicale di
percepire ogni frase cantata come un’unica azione gestuale implica la scelta di una velocità
metronomica adeguata. Se il brano è troppo lento non solo la durata del fiato risulta
insufficiente, e quindi il sostegno del suono faticoso, ma la frase musicale stessa non prende
forma e si frammenta in unità melodiche prive di significato. Soprattutto con i bambini
piccoli è importante scegliere dei tempi esecutivi non troppo lenti, anche per brani con
andamento calmo, per educarli a non lasciare mai cadere la tensione della frase musicale in
tutta la sua durata.
Alla scelta del carattere espressivo di ogni frase è immediatamente correlata la cura della
qualità dell’inspiro e dell’attacco del suono. Salvo esigenze espressive particolari, l’inspiro
sarà sempre silenzioso, agile e veloce quando non deve interrompere il fluire della melodia
o in preparazione di suoni staccati o appoggiati, calmo se lo richiede il tempo del brano o
quando, in presenza di una frase legata molto lunga, si rende necessaria la respirazione “a
catena” (ogni cantore respira in un punto diverso della frase melodica). Il lavoro sul
fraseggio può svolgersi anche con l’ausilio del gesto corporeo. Il diverso movimento, di tutto
il corpo o solo di un braccio, che accompagna ogni frase cantata aiuta a evidenziarne e
chiarirne la funzione espressiva (sospensiva, conclusiva ecc.), l’articolazione interna (legato,
staccato, marcato) e lo sviluppo dinamico (crescendo, diminuendo, contrasti di intensità).
Altro aspetto che richiede attenzione, soprattutto per quanto riguarda i cantori più
maturi, è il colore del suono, legato anche al genere e allo stile del brano cantato. Quanto
peso dare alla caratterizzazione timbrica di un brano, in che misura adottare tecniche vocali
specifiche o modalità particolari di emissione, è una scelta di fondo che spetta ovviamente
al direttore, sulla base anche delle sue finalità formative. Il lavoro sulla qualità timbrica è
certamente complesso poiché richiede ai cantori sensibilità uditiva e duttilità vocale, ma
anche a livelli elementari è possibile operare già delle piccole differenziazioni. Non va
dimenticato inoltre che il fattore timbrico è connesso anche all’uso dei registri. In
particolare nella zona media dell’estensione, dove la voce può giocare più facilmente con gli
aggiustamenti laringei e quindi con i registri, il suono può assumere caratteristiche sonore
anche molto diverse. Nell’insegnare una melodia si può quindi già dare ai cantori,
soprattutto alle voci di donne o ragazzi che cantano in tessiture medio-basse (contralti o
seconde voci in genere), delle indicazioni in merito al registro e quindi al tipo di emissione
da privilegiare, se un suono leggero e raccolto (registro di testa o misto) o invece un suono
corposo e chiaro (registro di petto). Sempre di natura timbrica sono le scelte che possono
derivare dalla presenza di un accompagnamento strumentale. Il suono di uno strumento,
infatti, sia esso il pianoforte o una semplice percussione, stimola la voce e può arricchirla,
integrandosi con essa, se è oggetto di un ascolto consapevole.
In generale il lavoro interpretativo sul testo musicale deve coinvolgere il più possibile il
gruppo dei cantori. Ogni idea che l’insegnante/direttore si fa del brano attraverso lo studio
personale deve calarsi poi nella realtà didattica. Le reazioni fisiche, mentali ed emotive
degli studenti possono essere diverse da ciò che ci si aspetta. Ogni insegnante ha il proprio
percorso formativo, i propri gusti, la propria sensibilità e non può proiettarli tout court sugli
allievi. La musica, e quindi ogni brano cantato, è una sorta di “sistema vivente” (in quanto
dotato di una sua potenziale vitalità) che incontra un altro sistema vivente, il gruppo vocale,
costituito dai cantori e dal direttore; che cosa possa nascere da questo incontro è sempre
un’incognita che il direttore stesso può prevedere solo entro certi limiti. Perciò è
fondamentale che questi, pur proponendo la propria immagine del brano, la verifichi
insieme al gruppo, stimolando nei cantori un atteggiamento di ascolto critico e di ricerca
espressiva. Interpretare è un atto creativo di estrema importanza per la crescita musicale e
personale degli studenti, e il direttore/insegnante ha il compito non solo di coinvolgerli nella
realizzazione di una struttura musicale esteticamente apprezzabile, ma anche di guidarli
alla scoperta del senso che essa ha per ognuno di loro, condizione indispensabile ai fini
della comunicazione artistica.
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Collana Educazione Musicale
I • L’UOMO VOCALE
1 Con questo termine, d’ora in poi all’interno del testo, si indicherà genericamente l’individuo che canta, senza
alcun riferimento né alla coralità né ad altri contesti di espressione musicale. Abbiamo preferito evitare il termine
“cantante” per gli ovvi riferimenti alla specificità professionale.
2 Per un quadro complessivo su questo argomento si veda in particolare Fritjof Capra (1984).
3 Alfred Tomatis (1920-2001), otorinolaringoiatra francese, a seguito delle sue ricerche, per le quali
rimandiamo in parte alla bibliografia, ha elaborato il Metodo psicoaudiofonologico, applicato oggi in centri
specializzati sia per la rieducazione della funzionalità vocale, sia per la cura della dislessia e di alcuni disturbi
psichici soprattutto dell’infanzia. Per una sintesi sul Metodo Tomatis e le sue relazioni con la didattica musicale si
veda E. Maule (2004).
4 Nella rieducazione psicoaudiofonologica, l’ascolto viene modificato per mezzo dell’orecchio elettronico, un
congegno a circuito chiuso che restituisce al paziente la propria voce filtrata e arricchita delle frequenze
mancanti.
5 Secondo Tomatis una delle funzioni più importanti dell’orecchio è quella di ricarica energetica del sistema
nervoso. Esso, infatti, per espletare le proprie funzioni ha bisogno, oltre che del nutrimento chimico-biologico e
dell’ossigeno, di energia neuronale che viene fornita da stimoli sensoriali e motori. Tra gli stimoli di natura
sonora le frequenze acute sono identificate da Tomatis come elementi fondamentali per la dinamizzazione del
sistema nervoso. Le frequenze acute sono presenti in particolare nei suoni dell’ambiente naturale, e questo è uno
dei motivi per cui è vitale per l’uomo non perdere il contatto con esso.
6 Per la storia e le caratteristiche del “pensiero sistemico” si veda in particolare Fritjof Capra (1997).
7 Il termine “sinergetica”, che significa letteralmente “scienza degli effetti combinati”, fu coniato da Hermann
Haken per indicare un settore di studi indirizzato alla scoperta delle leggi che regolano la nascita di strutture
ordinate all’interno dei sistemi complessi. Egli stesso definì la sinergetica «scienza dei comportamenti ordinati,
auto-organizzati e collettivi, soggetti a leggi generali» (Haken 1983, p. 19). La sinergetica abbraccia varie
discipline come la fisica, la chimica, la biologia, la sociologia e l’economia.
8 L’Istituto di Lichtenberg, nato nel 1982 come distaccamento della Facoltà di Ergonomia dell’Università di
Darmstadt, svolge anche attività di formazione sul training funzionale della voce, rivolta a tutti coloro che
lavorano sulle problematiche della vocalità in ambito artistico, educativo e riabilitativo, ed è impegnato nella
diffusione di una pedagogia vocale derivante anch’essa dai principi della sinergetica.
9 Per auto-organizzazione s’intende la capacità di un sistema di sviluppare nuove strutture e nuove forme di
comportamento dall’interno, cioè senza che vengano imposte da fattori esterni.
10 La formazione reticolare è una struttura dell’encefalo preposta in particolare al controllo del livello globale
di attività cerebrale e quindi alla regolazione dello stato di veglia e del corrispondente stato di tonicità della
muscolatura corporea (Guyton 1996, p. 34).
11 Le catene muscolari sono circuiti anatomici, costituiti da sequenze di fasci muscolari e connettivi, attraverso
cui si organizzano e si propagano in tutto il corpo le forze gravitazionali e muscolari necessarie alla statica e al
movimento. All’interno di ogni catena muscolare si verifica un passaggio preferenziale di tono, per cui un
eccessivo aumento o perdita della tonicità di una delle catene genera squilibri posturali e limitazioni del
movimento anche in parti distanti del corpo (vedi T. Myers 2007).
12 La funzione sfinterica implica un’azione di controllo della pressione, attraverso cui il corpo svolge, tra l’altro,
alcune importanti attività di espulsione, come partorire, defecare, tossire, vomitare.
13 Nella deglutizione l’epiglottide si abbassa deviando il bolo alimentare verso l’esofago, mentre la glottide si
chiude per proteggere le vie aeree.
14 Rohmert riporta la Body-Cover Theory, formulata da Hirano, secondo la quale la vibrazione cordale ha inizio
nella mucosa che stimola poi a sua volta il corpo muscolare delle corde. Se questo è troppo rigido a causa di una
eccessiva compressione mediale o di una eccessiva pressione dell’aria, l’autonoma e libera vibrazione della
mucosa può essere compromessa (Rohmert 1995, p. 47).
15 Magnani paragona in maniera efficace le corde vocali ai due battenti della porta di un saloon, che si aprono
opponendo resistenza alla corrente aerea espiratoria e si richiudono per tensione elastica della muscolatura
interna (Magnani 2005, p. 174).
16 In realtà viene considerata cavità di risonanza del suono laringeo una parte più estesa rispetto al tratto
vocale, comprendente anche le cavità nasali e una piccola porzione di trachea al di sotto delle corde vocali.
Questa struttura più ampia è definita tubo vocale.
17 La postura eretta ha permesso alla laringe di abbassarsi a livello della sesta vertebra cervicale, rendendo
così possibile un’organizzazione muscolare laringea più complessa. L’uomo ha quindi conquistato
contemporaneamente sia l’uso della manualità sia l’uso del linguaggio. Grazie a questa evoluzione
contemporanea, l’attività laringea e quella degli arti superiori rimangono interconnesse da un punto di vista
funzionale.
18 Le funzioni primarie sono quelle connesse alla salvaguardia delle condizioni di sopravvivenza, e quindi
essenzialmente alla regolazione delle attività fisiologiche e alla protezione dai pericoli provenienti dall’esterno.
19 Sintetizzando il modello funzionale proposto dal ricercatore americano MacLean, la parte più interna e più
antica del cervello, detto anche cervello “rettiliano”, ha a che fare con i comportamenti istintivi, il cervello
“limbico” regola la vita emotiva e l’espressione, mentre la “neocorteccia”, più recente evolutivamente, coordina
le funzioni più astratte come il pensiero e il linguaggio.
20 Per quanto riguarda il rapporto tra stati emozionali e atteggiamenti corporei si veda Lowen (1978), e in
generale gli studi sulla terapia bioenergetica, e Bertherat (1990).
21 A proposito del rapporto tra i genitori e i bambini nella primissima infanzia si veda in particolare Tafuri
(2007) e Imberty (2000 e 2002).
22 Sull’argomento è possibile consultare Diane M. Connelly, 2000, Agopuntura tradizionale. La legge dei cinque
elementi, Milano, Il Castello.
23 «Una concezione processuale dell’identità si fonda sull’integrazione di tutte le esperienze della vita (e per
tutto l’arco della vita), e in questa concezione l’identità è anche equilibrio, ma necessariamente instabile e
provvisorio, mutevole e cangiante di fronte al confronto con l’altro e con il vissuto» (M. Disoteo, Io e noi,
temporalità e narrativa, in AA.VV. 1994, p. 52).
24 Per quanto riguarda i rapporti tra la pedagogia generale e le teorie della complessità si vedano, tra l’altro,
AA.VV. (1990), Fornaca-Di Pol (1993), Perticari-Sclavi (1994).
25 Si veda in particolare il volume di A.M. Freschi (2002) e il saggio di R. Neulichedl, Pedagogia della musica e
pensiero complesso. Un approccio teorico per una prospettiva “antropologica”, in M. Piatti (1994, pp. 157-82).