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Indice

Introduzione p. 3

1 Charles Dickens: la vita p. 5

2 Charles Dickens e i suoi Tempi Difficili p. 15

2.1 La trama in breve p. 19

2.2 Coketown: la città-fabbrica p. 21

2.3 La fabbrica e la società industriale p. 29


2.3.1. «The Hands»: “le Braccia” p. 29
2.3.2. La miseria della classe lavoratrice p. 33

2.4 Il rapporto tra la classe padronale e gli operai p. 38

2.4.1. Dickens e il sindacalismo p. 48

2.5 La critica al sistema educativo e la metafora del circo p. 52

3 Our Mutual Friend: il mondo disgregato p. 60

3.1 Dickens e il dark novel p. 60

3.2 La trama del romanzo p. 72

3.3 La Londra di Dickens p. 76


3.3.1. Prima di Our Mutual Friends. La Londra
p. 83
di Bleak House

2
3.3.2. Londra in Our Mutual Friend p. 92

3.4 Un affresco della Società Vittoriana p. 102


3.4.1. Dickens e la New Poor Law p. 102

3.4.2. «La Voce della Buona Società» p. 109

4 Il messaggio del romanziere: Gissing e Orwell e l’in-


terpretazione di Dickens p. 113

5 Conclusioni: Dickens oggi p. 119

6 Bibliografia p. 122

3
Introduzione

La letteratura dickensiana è caratterizzata da una grande quantità e varietà di


opere e si distingue per la qualità stilistica dell’autore, celebre per le descrizioni
del contesto urbano e della società inglese del XIX secolo, oltre che per
l’impegno sociale legato alla denuncia delle condizioni di miseria e
sfruttamento in cui vivevano le fasce più deboli della popolazione. Una
qualsiasi delle sue opere potrebbe dare, anche da sola, una fotografia della
realtà dell’epoca, mentre uno sguardo più ampio sulla sua produzione letteraria
permette di ricostruire le trasformazioni storiche susseguitesi durante l’arco
della sua vita.
L’ampia attività di Dickens, che varia dalla composizione di articoli di giornale
e racconti brevi fino ai romanzi diventati ormai capisaldi della narrativa
mondiale (come per esempio Oliver Twist, David Copperfield o A Christmas
Carol), passa anche attraverso racconti che, se pur meno noti, riescono
comunque nel loro intento critico di denuncia delle contraddizioni
contemporanee.
Tra questi ultimi, sono stati qui presi in esame più nello specifico due romanzi:
il primo è Hard Times, l’unico esempio dickensiano di romanzo industriale, in
cui lo scrittore trattò direttamente le conseguenze sociali
dell’industrializzazione e l’ambiente della città-fabbrica; il secondo, Our
Mutual Friends, ha permesso invece di individuare l’evoluzione della Londra
vittoriana e di ricomporre, attraverso uno sguardo retrospettivo che parte
appunto dall’ultimo romanzo portato a termine dall’autore, l’evoluzione dello
stesso pensiero di Dickens rispetto ai cambiamenti della società dell’epoca.
Con l’analisi di questi romanzi si intrecciano due articoli pubblicati dal

4
romanziere sul giornale Household Word. On strike (febbraio 1854) offre la
testimonianza diretta dell’autore dello sciopero di Preston, su cui si basava
anche la stessa stesura di Hard Times; il secondo, Great Invasion, del 10 aprile
1852, racconta le impressioni di Dickens rispetto alla forte urbanizzazione che
caratterizzò la City della metà del secolo XIX, la quale, oltre alle conseguenze
ambientali dell’espansione delle periferie, trasformò la città stessa, mutando
non solo i luoghi ma anche le persone che la abitavano.
All’Interno di quest’analisi sono stati messi a confronto alcune opere, tra cui
Oliver Twist, Dombey and Son e, più nello specifico, Bleak House, che hanno
permesso di costruire un’ampia panoramica della vita londinese dell’epoca.
Inoltre, proprio da Bleak House a Our Mutual Friends è possibile individuare
l’ulteriore maturazione del pensiero dickensiano: una maturazione che prende
forma nel crescente pessimismo dello scrittore, portandolo a sviluppare una
nuova consapevolezza. La testimonianza storica contenuta all’interno delle
vicende, dei personaggi e dei luoghi tratteggiati da Dickens disvela le
trasformazioni e le contraddizioni di un’epoca che ha lasciato una traccia
profonda nella storia dell’essere umano fino alla società in cui viviamo noi
oggigiorno.

5
1 Charles Dickens: la vita dell’autore

Charles John Huffam Dickens nacque il 7 febbraio 1812 a Portsmouth, secondo


di otto figli, da John Dickens, impiegato all'Ufficio Stipendi della Marina
Inglese, e da Elizabeth Barrow. Charles visse la prima infanzia tra Portsmouth,
Londra e Chatam, nel Kent, in anni profondamente segnati dalle condizioni di
costante precarietà economica della famiglia e dalle sofferenze e umiliazioni
che ne derivarono. Nel 1823, la famiglia Dickens, molto impoverita, fu
costretta nuovamente a trasferirsi a Londra, a Camden Town, all’epoca uno dei
quartieri più poveri della City.
A dodici anni, Charles fu mandato a lavorare in un magazzino di lucido di
scarpe, dove cominciò a guadagnarsi da vivere e ad aiutare la famiglia. Questo
periodo lasciò una traccia indelebile nella sua memoria, da un lato
pregiudicando il rapporto con la madre (come affermò l’autore in età adulta:
«non dimenticherò mai che mia madre fece di tutto perché fossi rimandato a
lavorare»1), ma, dall’altro lato, permettendogli di sviluppare una sensibilità
particolare rispetto alle condizioni delle persone più deboli e, in particolare,
dei bambini. Tutte le esperienze della gioventù, così profondamente
traumatiche, sarebbero poi riemerse più volte nei suoi romanzi in forma più o
meno dissimulata: è, per esempio, il caso della dolorosa iniziazione alla vita
del bambino protagonista in Oliver Twist2, dove il senso di ingiustizia subita fu
trasposto dal piano personale a quello sociale. La miseria vissuta e il lavoro in
fabbrica portarono il futuro romanziere ad avere una particolare attenzione per

1
J. Forster, La vita di Charles Dickens, REA, L’Aquila, 2007, p.35.
2
C. Dickens, Le Avventure di Oliver Twist, Mondadori, Milano, 2004.

6
la condizione della classe operaia che, nel tempo, divenne uno dei temi
principali delle sue opere3. Si può affermare che i motivi umani e quotidiani
delle fasce più basse della società, protagonisti dell’opera dickensiana,
risalgono in gran parte a impressioni e ricordi dell’infanzia e della prima
adolescenza4.
Nel febbraio del 1824, John Dickens, dichiarato debitore insolvente, venne
imprigionato nel carcere della Marshalsea, a Londra, dove fu seguito dalla
moglie e dai quattro figli più piccoli, con l'eccezione di Charles che, nel
frattempo, continuò a lavorare in fabbrica, nella Warren's Blacking
Warehouse5. Si trattò per il ragazzo di una nuova, dolorosa e indelebile
esperienza, con cui lo scrittore, negli anni della maturità, sarebbe tornato a
confrontarsi, facendo della prigione il centro simbolico di Litttle Dorrit (La
Piccola Dorrit) e dell’imprigionamento la metafora di una difficile ricerca
d’identità nel mondo borghese6. Dopo pochi mesi di carcerazione, John
Dickens uscì da Marshalsea, grazie a una provvidenziale e inattesa eredità
ricevuta da sua madre dopo la morte, che gli consentì così di pagare i debiti e
ridare una casa alla sua famiglia.
All'età di quindici anni Charles, al termine degli studi inevitabilmente molto
irregolari, trovò lavoro come impiegato presso uffici legali, prima al Lincoln’s
Inn e poi al Gray’s Inn. Nel 1829, insoddisfatto di una professione legata al
mondo dei codici e degli avvocati, iniziò a collaborare con l'agenzia The
Mirror of Parliament (Lo Specchio del Parlamento), fondata da suo zio e, nello
stesso periodo, iniziò a studiare stenografia e divenne cronista parlamentare

3
C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, Neri pozzi Editore, Venezia, 1954, p. 11-12.
4
Ivi, p.49.
5
C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico,
ET Classici, Torino, 2014, p. XXV.
6
C. Dickens, La Piccola Dorrit, ET Classici, Torino, 2007.

7
del quotidiano The True Sun7. Nelle pieghe dell’alta società londinese, tra
impiegati e giornalisti, fra avvocati, uomini d’affari e politici, Dickens maturò
le prime esperienze sociali e riuscì, come scrittore, a rappresentare con
inimitabile arte pregi e difetti, vizi e privilegi, autoesaltazioni e servilismi della
nascente classe della società industriale: il ceto medio-borghese.
Charles nella sua vita riuscì, sfruttando le opportunità che il mondo moderno
offriva a un piccolo borghese, ad attraversare le varie classi sociali intermedie,
raggiungendo, nel corso di pochi anni, lo status di ricco gentleman e stimato
intellettuale. Questo passaggio avvenne senza che il romanziere mutasse nella
sostanza il proprio punto di osservazione della realtà: ciò che altrimenti
avrebbe potuto minare la sua peculiare capacità di dare risalto alla miriade di
universi umani che costellavano la società vittoriana. Di qui la possibilità di
rintracciare proprio nella singolarità dell’esperienza di vita del romanziere
l’origine della sua caratteristica angolazione di prospettiva, a con esso un
approccio più ampio alla complessità e alle contraddizioni della società
vittoriana.
Infatti, anche se ormai diventato ricco famoso e socialmente più vicino alla
classe dominante che a quella d’origine, riuscì a mantenere vivo in sé il ricordo
della povertà subita in infanzia, facendo traboccare dalle pagine dei suoi
romanzi le sofferenze e le esperienze umane vissute8. È come se Dickens
narrasse i fatti quotidiani della realtà mettendoli in continuo collegamento con
la memoria delle sue drammatiche vicende: la casa nello slum e
l’incarcerazione del padre, lo sfruttamento e la fame subiti nel periodo del
lavoro in fabbrica, furono tutti ricordi che permisero allo scrittore di conservare

7
C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico,
ET Classici, Torino, 2014, p. XXVI.
8
C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, cit., p. 21.

8
un forte livello di empatia con le classi più misere della società inglese9.
Il 1º dicembre 1833 pubblicò anonimamente il suo primo bozzetto sul Monthly
Magazine. Nell'agosto del 1834 fu assunto come cronista dal Morning
Chronicle, dove iniziò la sua carriera letteraria. Invitato dal direttore di questo
giornale scrisse, sotto lo pseudonimo Boz, alcuni saggi umoristici che pubblicò
nel 1835 in un volume dal titolo Sketches by Boz (I Bozzetti di Boz). Si tratta
di una raccolta di articoli, pezzi di costume, inchieste, racconti che il giovane
e prolifico giornalista aveva messo insieme fino ad allora10.
Nel 1837 fu pubblicato il primo numero di Bentley’s Miscellany, di cui Dickens
fu redattore per due anni, in cui venne pubblicata la prima puntata di Oliver
Twist (1837-39). A questo romanzo fece seguito la richiesta di preparare una
serie di episodi da pubblicare in venti puntate mensili, come commento ad
altrettante illustrazioni. In questo frangente, Dickens rivendicò la sua
autonomia artistica, pretendendo che fossero le illustrazioni a seguire il testo e
non viceversa. Gli episodi, così raccolti, divennero il celebre e popolare
Pickwick Papers (Il Circolo Pickwick). Nel 1839 terminò la pubblicazione di
un altro romanzo, Nicholas Nickleby (1838-1839). Nel 1840 lanciò la
pubblicazione di Master Humphrey’s Clock, un settimanale da lui stesso ideato
ma destinato a breve durata e scarso successo, nonostante fosse servito da
trampolino di lancio per la diffusione di The Old Curiosity Shop. Nel 1841
terminò il romanzo storico Barnaby Rudge (1841), incentrato sulle
manifestazioni violente avvenute a Londra oltre mezzo secolo prima, passate
alla Storia come i “Gordon Riots”. Infatti, nel giugno del 1780 la popolazione
londinese, dopo aver inizialmente protestato contro alcune leggi emanate in

9
V. De Simone, Introduzione, in C. Dickens, Le Due Città, Newton Compton, Roma, 2016,
p. 2.
10
R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura
dickensiana; in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro. Dickens e l'immaginario
vittoriano, Bulzoni Editore, Roma, 1988, p. 41.

9
favore della minoranza cattolica (il Catholic Relief Act del 1778), insorse in
una rivolta generale contro lo stato di miseria e oppressione cui era costretta.
Dal 2 al 10 giugno l’intera città fu messa a ferro e fuoco: furono saccheggiate
le case dei ricchi, furono attaccate caserme della cavalleria e stazioni della
polizia furono date alle fiamme; alcune prigioni e case di correzione furono
distrutte, con la liberazione dei detenuti, mentre furono tentati ripetuti assalti
alla Banca d’Inghilterra. La rivolta fu repressa nel sangue: la polizia e l’esercito
provocarono 285 morti e 170 feriti gravi tra i manifestanti; furono arrestate 450
persone e ne furono processate 160, di cui 62 condannate a morte (per 32 di
queste, la pena fu commutata con la detenzione nelle colonie penali)11.
Nelle considerazioni su a questo episodio storico Dickens palesò la sua
vicinanza alle posizioni politiche più moderate: nonostante avesse simpatia per
i ceti inferiori e un sincero desiderio di migliorare le loro condizioni di vita,
nei fatti era schierato dalla parte della classe più forte. Rifacendosi a una
concezione tipica della borghesia, temeva fortemente ogni protesta violenta da
parte della massa degli sfruttati; la quale, se avesse rivendicato con forza il
proprio diritto di esistere dignitosamente, avrebbe rischiato di abbattere
l’ordine costituito e la posizione di potere della stessa classe borghese12.
L’anno successivo partì per gli Stati Uniti con la moglie Catherine (con cui si
era sposato nel 1836). Dickens era un giovane radicale, pieno di speranze:
dall’America tornò un uomo disilluso e politicamente scettico rispetto
all'individualismo e al mercantilismo statunitense, avendo visto con i propri
occhi l’odiosa condizione di schiavitù in cui, soprattutto in Virginia, viveva la
popolazione afroamericana. Al ritorno pubblicò i saggi American Notes
(Taccuini Americani), aspramente critici nei confronti delle forme di civiltà del

11
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale e classe operaia in Inghilterra, Vol. 1, Il
Saggiatore, Milano, 1968, p. 57.
12
M. R. Cifarelli, Introduzione, in C. Dickens, Tempi Difficili. Per questi tempi, Einaudi,
Torino, 2014, p. XXI.

10
nuovo mondo, e il romanzo Martin Chuzzlewwit (1843), in cui, con accenti
ancora più grotteschi e violenti, diede voce alla sua delusione verso la società
statunitense, in quanto profondamente legata all’ideologia capitalista e
utilitarista.13 Il 19 dicembre uscì A Christmas Carol (Canto di Natale), il primo
dei popolarissimi racconti pubblicati in occasione di Natale. Entro il 24
dicembre furono vendute oltre 6.000 copie.
In preda ad una momentanea crisi creativa, partì per un periodo di riposo in
Italia, soggiornando a Genova tra il 1844 e il 1845, e visitando diverse città
della penisola, tra cui La Spezia, Carrara, Pisa, Firenze, Venezia, Milano,
Mantova, Roma e Napoli. Il resoconto di questi viaggi costituì il materiale per
il suo libro Pictures from Italy. Fu nella lunga tappa genovese, nell'estate del
1844, che scrisse The Chimes (Le campane).
Nel corso di un altro viaggio in Francia e Svizzera, cominciò a scrivere
Dombey and Son (Dombey e figlio), pubblicato tra il 1847 e il ‘48. Incentrato
sul tema dell’avidità e del potere del denaro nella società contemporanea, fu
questo il primo grande romanzo della maturità, in cui era presente una visione
più ampia e complessa di un mondo ormai organizzato sui precetti del
commercio, da indagare alla luce dei nuovi interessi di potere all’origine dei
profondi cambiamenti sociali. Apparso pochi anni prima della Grande
Esposizione del 1851, simbolo dell’autoesaltazione del progresso tecnico e
industriale, il romanzo cercò di rappresentare l’adattamento della metropoli
londinese alle necessità dettate dalla modernità, che comportava
l’annullamento dell’essere umano nell’idolo delle merci e della macchina14.
L’idea di scrivere una biografia si risolse in un nuovo romanzo, David
Copperfieeld, dove confluì molto dell’originale materiale riguardante la

13
C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, cit., p. 18-19.
14
R. Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Editori Laterza,
Bari, 1968, p. 79.

11
propria vita. Nell'opera autobiografica si possono riconoscere personaggi e
situazioni che lo stesso Dickens aveva conosciuto e vissuto in prima persona.
In questi anni, tra il 1848 e il 1849, s’intensificarono le sue iniziative pubbliche
sia in ambito teatrale (organizzò, infatti, numerosi spettacoli insieme all’amico
romanziere Edward Bulwer-Lytton) che giornalistico. Nel marzo del 1848,
nonostante gravi problemi familiari e difficili questioni da risolvere nella sua
cerchia di amici, Dickens riuscì comunque a portare avanti il progetto di un
giornale periodico battezzato Household Words, con l'intento di mescolare la
narrativa e la polemica contro le ingiustizie dell’età vittoriana15. Nel 1850 uscì
il primo numero del periodico, destinato a sopravvivere per dieci anni, fino a
che il dissenso con gli editori provocò la chiusura e la continuazione con il
nuovo titolo All the Year Round.
Dickens, nel 1852, cominciò la pubblicazione in fascicoli di Bleack House
(Casa Desolata), un romanzo incentrato sul potere disumanizzante della
burocrazia e dell'amministrazione giudiziaria, nella Londra sommersa dai
liquami e nel pieno di una crisi igenico-sanitaria. È da questo romanzo in poi
che si può notare un cambiamento nell’autore, che sembrava aver sviluppato
uno sguardo sempre più disilluso e negativo nei confronti della realtà
circostante.
Nel 1854 scrisse Hard Times (Tempi Difficili), poche settimane dopo che ebbe
assistito a uno sciopero a Preston. La dedica iniziale a Carlyle segnalava al
lettore la tradizione culturale entro la quale il testo ambiva a situarsi:
quell'umanesimo antirazionalista di ascendenza romantica di cui proprio
Carlyle, insieme ad Edmund Burke, S. T. Coleridge e John Ruskin, era a quei
tempi il portavoce più rappresentativo16.

15
C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico,
cit., p. XXVI.
16
M. R. Cifarelli, op. cit., pp. V-VI.

12
La dichiarazione di guerra dell'Inghilterra e della Francia alla Russia e la
successiva Guerra di Crimea, aggravarono il suo pessimismo sociale, espresso
nelle pagine di Household Words in reiterate denunce del malgoverno e della
corruzione politica.
Nel 1855 si recò a Parigi con l'intento di studiare i meccanismi della
speculazione finanziaria nel mercato dei titoli azionari. Al suo ritorno cominciò
a lavorare a Little Dorrit (La piccola Dorrit), romanzo incentrato sulla
simbologia sociale della città-labirinto e della prigione. Il racconto, infatti, è
ambientato nello stesso carcere londinese dove era stato imprigionato il padre.
Nell'ultima parte del 1856 si dedicò alla messinscena del dramma di Wilkie
Collins The Frozen Deep, sulla sfortunata spedizione polare di Sir John
Franklin. L'anno successivo recitò l'opera di fronte alla regina Vittoria, la
quale, in seguito, si congratulò tramite una lettera con lo scrittore. Durante
l'estate il dramma teatrale fu rappresentato a Manchester in altri tre eventi17.
Nel 1857 andò nuovamente a Parigi, dove visse un'intensa esperienza dell’alta
società, venendo a contatto con i maggiori scrittori dell'epoca, tra cui Georje
Sand e Alexandre Dumas. Durante il 1858 si separò definitivamente dalla
moglie e, spinto da esibizionismo e avidità di denaro, iniziò un viaggio di
conferenze e letture pubbliche dei suoi romanzi, sia in Inghilterra che in
Irlanda. Nel 1859, influenzato dalla lettura di The French Revolution di
Carlyle, scrisse A tale of two Cities (Le due città), romanzo storico ambientato
a Parigi e Londra, sullo sfondo della Rivoluzione Francese del 1789.18
Lasciò Londra nel 1860 per andare a vivere nei pressi di Chatam, nel Kent,
dove aveva passato gli anni più belli della sua giovinezza e i cui ricordi gli
avevano fatto sviluppare peculiari capacità d’immaginazione e
rappresentazione simbolica. Qui iniziò a scrivere Great Expeectations (Grandi

17
Ivi, p. XXIX.
18
N. Hornby, La mia biografia preferita, in “Internazionale”, dicembre 2011, n° 927.

13
Speranze), uno dei suoi romanzi di maggiore complessità sociale in cui analisi
critica e percorso di maturazione individuale si fondevano perfettamente in
un'equilibrata architettura narrativa19.
Tra il 1863 e il 1864 scrisse Our Mutual Friends (Il nostro comune amico),
opera nella quale il tono introspettivo che aveva caratterizzato il precedente
romanzo si aprì a una nuova ampiezza di stili e linee narrative espressive di più
voci e punti di vista, riutilizzando molte tecniche narrative usate in precedenza
ma in una nuova forma.
Il 9 giugno 1865 restò coinvolto nell'incidente ferroviario di Staplehurst, nel
corso del quale sei carrozze del treno sul quale Dickens viaggiava caddero da
un ponte in riparazione; l'unica carrozza di prima classe che rimase sul ponte
fu proprio quella in cui si trovava lo scrittore, che comunque ricevette un
trauma nervoso dal quale non si riprenderà mai del tutto20. Sebbene fosse
afflitto da gravi disturbi cardiaci, il romanziere iniziò, nell'aprile del 1866, una
nuova tournée di letture pubbliche a pagamento, e il successo fu stupefacente.
Mugby Junction, la sua storia di Natale, non a caso incentrata attorno ad un
incidente ferroviario, riuscì a vendere entro Natale quasi trecentomila copie.
Nel 1867 si recò nuovamente negli Stati Uniti, per una serie di letture delle sue
opere, durante le quali incontrò E. A. Poe; al suo ritorno iniziò un giro di
conferenze in Gran Bretagna che prevedeva più di cento incontri con il
pubblico. Dopo oltre settanta apparizioni in diverse città fu colto da un malore
a Liverpool e rientrò così a Londra.
Nel marzo del 1870 pubblicò la prima puntata di The Mistery of Edwin Drood
(Il mistero di Edwwin Drood), un romanzo dallo stile poliziesco. Lo stato di
salute dello scrittore peggiorò giorno dopo giorno e, alla fine, gli fu

19
J. H. Miller, Charles Dickens: the world of his novels, Harvard university Press,
Cambridge Mass., 1958, p. 254.
20
C. Dickens, In luogo della prefazione, 2 settembre 1865, in C. Dickens, Il Nostro Amico
Comune, cit., p. 1037.

14
diagnosticato un attacco di paralisi. Durante l'anno i mali fisici aumentarono
fino all'emorragia celebrale che lo colse l'8 giugno del 1870. Il giorno seguente
morì. Venne sepolto il 14 giugno nell’Abbazia di Westminster, trasportato da
un treno speciale, nell'angolo dei poeti (Poets' Corner). In settembre uscì il
sesto e ultimo fascicolo di Edwin Drood, senza che il mistero di cui si parla nel
titolo (l’assassinio del protagonista), fosse stato risolto.
Nel 1871 fu pubblicata la raccolta Christmas Stories (Racconti di Natale),
apparsi nel corso degli anni in Household Words e All the Year Round21.

21
C. Pagetti, Cronologia della vita e delle opere, in C. Dickens, Il Nostro Comune Amico,
cit., p. XXXI.

15
2 Charles Dickens e i suoi Tempi Difficili

«Indi i figli di Urizen lasciarono l’erpice e l’aratro, il telaio,


e il martello e il cesello e il regolo e i compassi…
E tutte le arti di vita essi mutarono in arti di morte.
La clessidra, spregiata perché il modo semplice del suo operare
era il modo di operare dell’aratore; e la ruota
che solleva l’acqua nelle cisterne, spezzata e data alle fiamme,
perché il modo del suo operare era simile al modo di operare dei pastori,
e inventate in loro vece ruote intricate, ruote senza ruote,
per confondere con la loro eccellenza i giovani, e legare a fatiche
di giorno e di notte le miriadi di Eternità, che potessero limare
e pulire l’ottone e il ferro ora per ora, in laboriosa opera,
tenute all’oscuro dell’uso affinché potessero spendere i giorni della saggezza
in miseranda fatica, al fine di ottenere un gramo tozzo di pane,
e ignare, vedere una piccola parte e crederla il Tutto,
e chiamarla una dimostrazione, cieche ad ogni semplice norma di vita.»22

Il romanzo «Tempi Difficili. Per questi tempi» fu pubblicato da Charles


Dickens, a puntate sulla rivista dello stesso autore «Household Words», tra
l'aprile e l'agosto del 1854, scritto sotto la pressione di un’imprecisata idea che
lo aveva «afferrato con violenza alla gola»23.
Il titolo Tempi Difficili e il suo sottotitolo Per questi tempi, inserirono con forza

22
Poesia di William Blake, I Figli di Urizen.
23
R. Bonadei, Paesaggio con figure. Intorno all'Inghilterra con C. Dickens, Jaka Book,
Milano, 1996, p. 119.

16
la pubblicazione nell'acceso dibattito ideologico e politico dell'età vittoriana
riguardante le condizioni sociali, materiali e spirituali dell'Inghilterra, nel
periodo che vedeva prendere forma le prime sostanziali conseguenze della
rivoluzione industriale. Il romanzo industriale assumeva, in un momento
storico segnato da grandi trasformazioni economiche e conflittualità sociali
irrisolte, un valore di denuncia che tendeva a mostrare le pesanti incongruenze
sociali e i livelli di emarginazione e miseria prodotti dall'espansione
industriale. Tempi Difficili diventò una sorta di “romanzo industriale per
eccellenza”24, in quanto rappresentava «un esame completo e creativo della
filosofia dominante dell'industrialismo […] un'analisi più che
un'esperienza»25. Com’è stato osservato da Raymond Williams, Hard Times
può essere a buon diritto considerato il primo romanzo che in Inghilterra
interrogava con sistematica lucidità i «tempi difficili» di una società cresciuta
e trasformata in tempi brevissimi, se misurati rispetto alla relativa fissità che
aveva caratterizzato la storia delle società pre-industriali26. Inutile cercare, in
questo romanzo, un'accurata fedeltà documentaria, un realismo che sia
qualcosa di più di un “effetto di realtà”. Pur restando ancorato a una visione
sociale definita dal suo tempo, l'autore analizzò alcuni problemi di estrema
concretezza ad un livello simbolico e in una sorta di astrazione che, tramite
scenari surreali e figure “fantastiche” spesso commentate con violenta ironia,
trasmettevano il suo smarrimento percettivo e la sua profonda indignazione27.
In effetti, il romanzo, nei vari passaggi che compie e nelle tematiche che va a
toccare, riflette le motivazioni dell'autore a sviluppare un'aspra critica dei
problemi dell’epoca, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni di un

24
M. R. Cifarelli, op. cit., p. IX.
25
R. Williams, Cultura e Rivoluzione Industriale, Inghilterra 1780-1950, Einaudi, Torino,
1968, p. 126.
26
Ivi, p. 125.
27
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., pp. 120.121.

17
modello di sviluppo economico che aveva prodotto una società degradata e
degradante, sia per gli esseri umani che per l'ambiente28.
Ciò che Dickens denunciava era una società costruita in base alle necessità
produttive del sistema industriale, che fagocitava con le sue macchine ogni
spazio naturale, schiacciando l’ambiente con la forza artificiale. Non solo, ma
egli metteva in discussione le città, ormai sviluppate in base alle esigenze delle
fabbriche, e la società depravata che esse producevano; mostrava quanto la
classe operaia fosse stremata e alienata dallo sfruttamento che quotidianamente
la attanagliava, mentre la classe imprenditoriale e politica viveva
nell'opulenza; condannava una visione del mondo che filtrava attraverso le
lenti della statistica e concepiva ogni cosa solo analizzandone e calcolandone
i costi, con l’unico obiettivo di ottenere i maggiori profitti29.
Insomma, Dickens criticava un modello di sviluppo che plasmava e snaturava
ogni aspetto della realtà. Così sono vari gli aspetti negativi della società
vittoriana che Dickens cercò di esplorare: il sistema educativo, che creava dei
bambini-automi, dei “futuri individui” ridotti al ruolo di perfetto ingranaggio
della società industriale; l'ideologia capitalista che altro non vedeva se non il
guadagno ad ogni costo, e valutava qualsiasi circostanza o persona
esclusivamente in base all'utilità che ne poteva ricavare; l'inquinamento e gli
effetti disastrosi dell'industrializzazione sulla natura; le condizioni di miseria e
di totale assoggettamento in cui gli abitanti della città vivevano e lavoravano;
la perdita di ogni rapporto sociale estraneo alle leggi di mercato; gli esiti sociali
di tensioni e alleanze all'interno della borghesia e la stretta sinergia tra il potere
politico e quello economico; la funzione della legge, che legittimava i privilegi

28
M. T. Chialant-C. Pagetti Dickens e la critica, in M. T. Chialant - C. Pagetti, La città e il
teatro, cit., p. 17.
29
C. Izzo, Autobiografismo di Charles Dickens, cit., p. 125.

18
dei pochi sulla povertà dei molti30. A dare unità di rappresentazione a questa
critica era la denuncia del pericolo di trasposizione in campo sociale dei
principi dell'economia politica e dell'utilitarismo, di quelli che Dickens
chiamava «Fatti», i quali erano soprattutto «fatti» economici31.

30
M. T. Chialant, "The Romantic Side of Familiar Things" La tensione fra il reale e
l’immaginario in due romanzi di C. Dickens, Ist. Univ. Orientale, Napoli, 1980, pp. 21-
22.
31
M. R. Cifarelli, op. cit., p. XI

19
2.1 La trama in breve

Tempi difficili è un romanzo strutturato in tre parti. Il primo libro, La Semina,


introduce i principali protagonisti del romanzo, Thomas Gridgring e Sissy
Jupe, la figlia di un acrobata del Circo equestre Sleary, che egli prende in
affidamento dopo che è stata abbandonata dal padre; il signor Bounderby, il
padrone della fabbrica e il banchiere città; i figli del signor Gridgring, Tom e
Louisa, due bambini ormai già completamente addomesticati alle regole
dell’utilitarismo del padre e insoddisfatti di una vita del tutto vuota. In
particolare, il decimo capitolo tratta degli operai di Coketown, soprattutto di
Stephen Blackpool, che vive una situazione matrimoniale infelice e tuttavia
impossibilitato a divorziare dalla moglie a causa del suo misero stato sociale.
Lo sviluppo dell’intreccio porta al matrimonio tra Louisa e Bounderby, voluto
dal padre della fanciulla, indifferente rispetto alla malinconica apatia con cui
la figlia accetta. Il secondo libro, La Mietitura, si svolge due anni dopo il
matrimonio. Fa la sua comparsa nel romanzo il signor James Harthouse, un
borghese elegante e dal bell'aspetto, funzionario del parlamento, che si
innamora della giovane Louisa. Il capitolo quattro, intitolato
emblematicamente Uomini e Fratelli, ha poi al centro un’assemblea sindacale
nella quale Blackpool si chiama definitivamente fuori dai progetti di lotta dei
suoi colleghi associati, accettando come conseguenza di essere isolato dagli
altri lavoratori. Ma inutilmente il signor Bounderby cerca di sfruttare la
situazione, proponendo a uno Stephen ormai emarginato il ruolo di spia. Al
rifiuto dell’operaio, persona dai saldi principi, Bounderby reagisce
licenziandolo con l’accusa di essere un agitatore.
La notte stessa Louisa e Tom si recano di nascosto a casa dell’operaio per
aiutarlo, offrendogli del denaro, che lui accetta solo in parte e con l’impegno

20
comunque di restituirlo. Nell’occasione però Tom inganna Stephen, attirandolo
nei pressi della Banca che aveva svaligiato per far cadere su di lui la
colpevolezza del furto. Nel frattempo, Louisa e Harthouse continuano a
frequentarsi in un rapporto che si fa sempre più stretto e che sfocia con la
dichiarazione d’amore del gentleman. L'animo triste e fragile di Louisa non
riesce però a reggere l’emozione e, sotto shock, scappa rifugiandosi dal padre
su cui, per la prima volta libera di esprimere i suoi sentimenti, scarica le
sofferenze che per anni ha represso dentro di sé.
Nella terza parte, Il Raccolto, l’autore porta a compimento le varie vicende. Il
signor Bounderby scopre la relazione tra Louisa e Harthouse e, sentendosi
umiliato, lascia la moglie per riprendere, come se nulla fosse la sua vita da
borghese, industriale e banchiere. Senonché alla più totale umiliazione non può
sottrarsi quando sono messe in luce le sue vere origini: fino quel momento il
signor Bounderby si era spacciato per autentico self-made-man, orgoglioso
delle proprie origini misere, abbandonato e cresciuto in mezzo alle fogne,
mentre in realtà era stato sostenuto da una madre amorevole e premurosa.
Intanto Stephen Blackpool, nel tentativo di tornare a Coketown per chiarire la
sua innocenza, cade in un pozzo di carbone, dove è ritrovato in fin di vita da
Sissy e Rachael. Da questa tragedia Louisa esce con la consapevolezza che era
stato il fratello a rubare nella Banca e con la sua testimonianza salva così
l’onore dell’operaio defunto. Da parte sua Tom si sottrae alla condanna,
emigrando negli Stati Uniti, dove muore di malattia poco dopo. La conclusione
del romanzo non prefigura soluzioni diverse e non arriva a nessun lieto fine.
Le storie di ogni singolo personaggio restano sospese, come appese alle verità
che ognuno, nella propria esperienza, ha maturato: chi migliorando, come
Louisa, che riesce a comprendere se stessa e le proprie emozioni, e chi, come
il signor Bounderby, incancrenendosi ancora di più nella propria vita gelida e
meschina.

21
2.2 Coketown: la città-fabbrica

«In tante regioni, un tempo come questa


dominio sicuro di calma e semplicità
e di pace pensosa, una luce innaturale
destinata per occhi che lavorano
brilla da un'enorme fabbrica piena di finestre»32

Coketown: la «città del carbone». Le vicende del romanzo si svolgono nella


città-modello immaginata da Dickens, probabilmente situata nei distretti tessili
del Nord dell'Inghilterra. «La città restava dov'era, immersa nella sua caligine
e seguitava a crescere e a moltiplicarsi»33, una città forse “distopica”, ma
comunque troppo vera nella mente dell'autore per essere solo un'idea o
un'ipotesi futura rispetto alla realtà che già viveva. La città immaginaria
diventava così emblema della rappresentazione del mondo reale.
Coketown da lontano si profilava come una «macchia» che non voleva
prendere forma. La visione sembrava disturbata e confusa, come disturbata e
confusa poteva essere la percezione dei cambiamenti profondi di chi viveva in
quegli anni. I processi percettivi e quelli narrativi in questo modo si
intrecciavano di fronte alla crisi dello sguardo, alla difficoltà di comprendere
l'improvviso passaggio causato dal processo di industrializzazione, che si era
introdotto nella vita quotidiana come un fatto compiuto, imponendo le sue
profonde trasformazioni su tutto il contesto sociale34.

32
W. Wordsworth, The Excursion (1800), Book VIII, pp. 164-169, in Selected Poems,
Londra, Penguin UK, 2004. Il riferimento era alle tessiture del Coumberland, in cui il
poeta vedeva la causa della cancellazione dell'economia pastorale originaria.
33
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 136.
34
R. Bonadei, Paesaggio con figure, op. cit., p. 119.

22
«Vista da lontano con questo tempo, Coketown appariva avvolta da una sua
caratteristica caligine che sembrava impenetrabile ai raggi del sole. Si capiva
che là dentro c'era la città solo perché senza una città non avrebbe potuto
esserci nel panorama una macchia così cupa. Una bruma di fumo e di fuliggine
che tendeva confusamente ora in una direzione, ora nell'altra […]; un grumo
denso e informe solcato da fasci di luce che altro non mostravano se non una
massa di tenebre. Sebbene non si scorgesse neanche un mattone, Coketown si
annunciava già in lontananza per quella che era»35.
Con queste tonalità e questo impatto appariva al romanziere inglese la città
costruita sulla base delle esigenze del progresso industriale, un luogo per il
quale non sembrava ancora esistere un adeguato modello interpretativo: la
modernità, con l’impeto dei cambiamenti che aveva prodotto, creò una rottura
netta con il passato, stravolgendo i consueti modi di vivere, l’ambiente
circostante e le condizioni stesse di esistenza. Dickens dovette così sopperire
a tale mancanza utilizzando, per cercare di rendere comprensibile la disumanità
di Coketown, un parallelo immaginario e dicotomico tra “il naturale” e
“l'artificiale”, poiché il mondo della natura, nelle sue lente e continue
mutazioni, rimaneva ancora un punto di riferimento comprensibile con cui
interpretare la realtà. L'ordine artificiale della città appariva così in totale
violazione dell'ambiente naturale: «Il ritmico movimento delle loro ombre [dei
macchinari] sulle pareti era tutto quanto Coketown offriva al posto della
frusciante penombra dei boschi; per tutto l'anno, dall'alba del lunedì alla sera
del sabato, al ronzio estivo degli insetti sostituiva il cigolio di ingranaggi e
pistoni»36.
Il problema di Coketown sembrava essere che la città non cercasse di
addomesticare la natura, ma di sterminarla sostituendosi a essa. Nella città-

35
C. Dickens Tempi Difficili, cit., p. 135.
36
Ivi, p. 137

23
fabbrica, tutti gli elementi che contribuiscono alla vita e alla crescita (sole, aria,
acqua e terra) si trasformavano, in agenti di morte, snaturati dall'impietosa
«foresta di telai e macchine»37. La fortissima industrializzazione che aveva
accompagnato la crescita della produzione aveva letteralmente attaccato la
natura, predandone le risorse e cercando di assoggettarla alle proprie necessità
di sviluppo economico. L’artificiale, con le sue città, le sue macchine e le sue
scorie, contaminava ogni ecosistema con cui entrava in contatto. Dickens
esprimeva questa sua sofferenza per la distruzione e l’inquinamento di ogni
ecosistema, mostrando come a Coketown tutto fosse nocivo, tutto
rappresentasse la morte della vita38.
Il sole diventava più impietoso del gelo, mentre l’aria, resa irrespirabile dalle
esalazioni velenose delle ciminiere, era calda come il vento del Sahara. In
questa città, perennemente avvolta dalla nube cupa di caligine, il «sole
[sembrava] in fase di eterna eclissi»39; la terra era un deserto reso sterile dalle
industrie, mentre l’acqua del fiume che attraversava la città era «nera e densa
per le tinture» ed emanava «un odore nauseabondo»40.
Quando pioveva, la pioggia si abbatteva su un paesaggio desolato e squallido,
rappresentato dall’autore come un terreno tempestato di detriti, rottami e
carbone: a Coketown la pioggia non poteva bagnare la vita, perché le
condizioni naturali in cui questa poteva svilupparsi erano state cancellate
dall’artificialità della città41.
Fuori dalla cittadina la natura resisteva in qualche forma, creando stupore
nell’operaio Blackpool, ormai abituato al grigiore, mentre abbandonava la
città: «che strano allontanarsi dalle ciminiere e udire gli uccelli cantare! Che

37
Ivi, p. 85.
38
R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura
dickensiana, op. cit., p. 63.
39
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 197.
40
Ivi, p. 137.
41
Ivi, pp. 86.

24
strano avere sui piedi la polvere della strada invece che granelli di carbone!»42.
Il distacco dell'essere umano dalla natura era talmente profondo che l'ambiente
artificiale della cittadina sembrava ormai l'unica dimensione possibile per chi
vi abitava.
Ma anche il paesaggio che circondava Coketown si mostrava comunque
contaminato dalla presenza della città. Gli alberi che sopravvivevano attorno
all’agglomerato di case, catapecchie e fabbriche, erano «ormai affumicati e
cosparsi di polvere fuligginosa, parevano sudici fumatori di tabacco». L’intero
territorio, per chilometri e chilometri, era «ricoperto di scorie di carbone […]
e brutture di ogni genere»43. Una ferrovia squarciava in due la visione di una
terra ormai resa inospitale, rasa al suolo, dove solo pochi alberi, arroccati,
tentavano di resistere all’inesorabile progresso dell’uomo civilizzato.
È questo ciò che resta dello spazio naturale sfruttato dall'industrializzazione.
Ogni luogo sembrava istituito sulla “mortificazione” di tutto quanto non fosse
“funzionale”. Non era da meno il ventre di Coketown, tipica città industriale
ottocentesca, che al suo interno si mostrava come all'esterno: un'entità terribile,
il ripudio della vita sia nella sua struttura, monotona e ordinata, sia nelle
persone che la abitavano, anonime e svuotate. Una «cupa cittadella dove mura
di mattoni sbarravano il passo alla natura con la stessa prepotenza con cui
custodivano gas ed esalazioni»44. Coketown si mostrava, nella descrizione del
romanziere inglese, come se avesse dei colori artificiosi che rappresentavano
la sua profonda differenza con ogni ambiente naturale. Non era rossa come i
mattoni d’argilla con cui era stata costruita, ma nera, affumicata e ricoperta
dall’inquinamento che essa stessa produceva45.
Era «una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza

42
Ivi, p. 197.
43
Ivi, p. 197.
44
Ivi, p. 78.
45
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., p. 120.

25
tregua interminabili serpenti di fumo, che si snodavano nell'aria senza mai
sciogliere le loro spire. C'era un canale di acque nere e un fiume reso violaceo
da tinture maleodoranti e vasti agglomerati di edifici pieni di finestre scossi per
tutto i giorno da un frastuono e un tremito incessanti, dove gli stantuffi delle
macchine a vapore si alzavano e si abbassavano monotoni come teste di
elefanti in preda ad una malinconica follia»46.
La stessa struttura urbana si basava sulla monotonia e sulla ripetitività del
lavoro che vi si svolgeva, mutando profondamente l'animo di chi era costretto
a trovarsi in stretta simbiosi con il ritmo della fabbrica e i movimenti della
macchina. «C'erano parecchie grandi strade, tutte uguali, e un gran numero di
viuzze ancora più uguali, abitate da persone anch'esse uguali, che entravano e
uscivano alla stessa ora, con il medesimo scalpiccio sul medesimo selciato, per
recarsi a svolgere il medesimo lavoro e per le quali oggi era identico a ieri e a
domani e ogni anno la replica di quello passato e di quello a venire»47.
La fabbrica rappresentava l'unico elemento che permeava ogni aspetto della
realtà cittadina, ogni elemento si omologava a essa ed era votato alla sua
esistenza. La mancanza di bellezza in questo luogo era disarmante, l'uniformità
e l'impersonalità architettonica sembravano l'emblema stesso del tipo di vita
che conducevano i suoi abitanti. Ogni edificio assomigliava e si confondeva
con gli altri, non aveva nessuna differenza caratteristica che lo distinguesse:
«la prigione avrebbe potuto essere l'ospedale, l'ospedale la prigione, il
municipio l'uno o l'altra indifferentemente, oppure tutti e due insieme, o
qualsiasi altra cosa, visto che nessun particolare architettonico ne indicava il
contrario»48.
Così, la descrizione rendeva la città-fabbrica il simbolo stesso della civiltà

46
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.31
47
Ivi, p. 31.
48
Ivi, p 32.

26
industriale e del sistema capitalistico che qui si realizzavano nelle loro strutture
«materiali» e «immateriali», ben esprimendo la totalità dell'esperienza
contemporanea e la stretta interdipendenza che vi era tra la base economico-
sociale e l'ideologia imperante49. «Fatti, fatti, nient'altro che fatti: ovunque
fatti, nell'aspetto materiale della città come in quello immateriale. Era un fatto
la scuola […] come lo erano i rapporti tra padrone e operaio; solo fatti c'erano
fra l'ospedale in cui si nasceva e il cimitero […]»50.
L'accusa che lo scrittore muoveva alla sua epoca era di aver perso i contatti
con la “realtà”, contrapponendo appunto a essa il culto dei «fatti». Il denaro e
il prestigio sociale, la dottrina utilitarista e la fede scientifica erano diventate i
valori imperanti. La razionalizzazione di questi principi distruttivi soffocava
quelle facoltà creative che Dickens riteneva necessarie affinché l'individuo
potesse fare “un’esperienza” propria della vita, tramite i suoi affetti, sentimenti
ed emozioni. Ma, nella città del carbone, «l'intero sistema sociale si fondava
sull'interesse personale»51. L'unico valore predominante era la logica
mercantile e la ricerca del profitto. Tutto ciò che non si poteva valutare in cifre
e non si poteva acquistare per ricavarne un guadagno, non aveva nessuna
importanza poiché non aveva un valore commerciale e, dunque, non esisteva52.
Questo modello di valori determinava l'inaridimento delle relazioni umane, che
diventavano perciò funzionali alla riproduzione di una struttura socio-
economica necessaria per la produzione industriale.
Il principio basilare della filosofia utilitarista era, infatti, che tutto avesse un
costo di acquisto e un prezzo di vendita, e ciò che ne scaturiva, il profitto,
diventava l’unico elemento importante poiché l’unico che avesse un’utilità.
Così, la tavola dei valori che aveva caratterizzato le comunità agricole inglesi

49
M. T. Chialant, Il paradosso dickensiano: fact vs fancy, cit.,p. 106.
50
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 32.
51
Ivi, p. 344.
52
Ivi, p. 32.

27
di mezzo secolo prima era stata completamente ribaltata. Quelle comunità,
infatti, non si basavano allora sul bieco egoismo e sull’individualismo di
stampo capitalista, fondandosi piuttosto su rapporti solidali e di generosità
interna. Invece, a Coketown, ogni rapporto all’interno della rete industriale era
come una compravendita: «ogni frammento dell'esistenza umana, dalla nascita
alla morte, era da considerarsi alla stregua di un contratto che andava stipulato
da due parti contrapposte»53.
Qualunque tipo di rapporto sociale veniva così distrutto, ogni tratto umano era
destinato a essere estirpato dall'insaziabile fame di profitto, pronta a
mercificare tutto e a schiavizzare tutti. In breve tempo le piccole comunità e i
villaggi scomparvero, perché diventati enormi centri industriali o perché legati
a un modo di vivere destinato a estinguersi. Con loro svanirono i rapporti che
differenziavano quel tipo di società, basati sul senso di appartenenza alla
comunità e sulla sussidiarietà reciproca tra i suoi membri54. Come diceva
Dickens: «vi sono determinate fasi della manipolazione del tessuto umano in
cui l'azione del tempo è rapidissima»55.
Le comunità umane vennero così plasmate dal progresso tecnico-scientifico e
da quella razionalità fondata sul culto dei «fatti», dei dati e delle cifre, che
pretendeva di avere una conoscenza oggettiva del mondo e della società,
affermando un modello che arbitrariamente decideva di ordinare il mondo
secondo le leggi dell'economia politica e del mercato56.

53
Ivi, p. 345.
54
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 421.
55
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 112.
56
C. de Stasio, «A View in Indian Ink»: lo scenario di desolazione in Black House, in M. T.
Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro, cit., pp. 123-124.

28
2.3 La fabbrica e la società industriale

«Il sistema di fabbrica è il grande dispensatore di civiltà al globo terracqueo,


la linfa vitale della scienza e della religione fra le miriadi che giacciono
ancora nella regione e nell’ombra della morte»57

2.3.1. «The Hands»: “le Braccia”

«Non si deve consentire che coloro che lavorano giorno dopo giorno in mezzo
alle macchine siano lasciati degenerare fino a ridursi essi stessi a macchine»58

Non c’era angolo a Coketown che non ricordasse il dominio della macchina e
del ritmo industriale, in un ordine artificiale piatto che annullava ogni
differenza. La macchina rappresentava l'apoteosi dei «fatti», perfettamente
calcolabile e precisamente controllabile: uno strumento che, con la sua
potenza, modellava il mondo e le persone che lo vivevano59. «Sappiamo cosa
sa fare la macchina, fin nella sua più minima componente, ma neppure tutti i
contabili della tesoreria nazionale, messi insieme, riusciranno mai a calcolare
quale sia l'attitudine a compiere il bene o il male, ad amare oppure a odiare, a

57
A. Ure, Philosophy of manufacturer, C. Wright, Londra, 1835, pp. 18-19.
58
C. Dickens, On The Strike, in HouseHold Words, Vol. VIII, febbraio 1854, pp. 553-559.
59
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., p.98.

29
servire la patria oppure a sobillare, la capacità di corrompere la virtù in vizio,
o viceversa, che si annida nell'animo di ciascuno di questi mansueti servitori
dai volti composti e dai gesti regolari»60.
Dickens cercò di dipingere una città i cui attributi erano considerati inseparabili
dall'industria che le dava da vivere, dove la macchina a vapore tendeva a
riprodursi in ogni aspetto dell’esistenza e della struttura cittadina. L'artificiale
dominava ogni cosa e modellava la realtà, espellendo così da quella cittadina
la natura e tutto ciò che di vivo poteva esserci. Gli stessi esseri umani erano
una parte estranea alla fabbrica e sembravano, all’autore, in pieno contrasto
con l’ambiente degli edifici industriali, grigi e nauseanti, e con i tempi e la
fatica che essa imponeva61. Coketown è il regno dell'industria, della fabbrica
come modello di vita e della macchina come struttura sociale: ogni individuo
ha un ruolo ben preciso, come l'ingranaggio di un meccanismo, e ha un tempo
definito, dettato ogni giorno dai ritmi e dagli orari del lavoro, dalla nascita alla
morte62. «A Coketown il tempo si comportava come uno dei macchinari: tanto
materiale lavorato, tanto combustibile utilizzato, tanta energia consumata,
tanto denaro guadagnato. Meno inesorabile del ferro, dell'acciaio e dell'ottone,
esso tuttavia imponeva le sue mutevoli stagioni persino in quel deserto di fumo
e di mattoni, e rappresentava il solo ostacolo mai opposto alla spaventosa
uniformità del luogo […]. Il tempo, con la potenza dei suoi innumerevoli
cavalli vapore, proseguiva imperturbabile la sua opera»63.
L'intera giornata era scandita dai tempi dei macchinari e si svolgeva rinchiusa
in giganteschi stabilimenti dove gli operai lavoravano «per ore e ore, in mezzo
al turbinio dei fusi, al frastuono dei telai e al ronzio degli ingranaggi» 64.

60
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p..85.
61
Ivi, p. 85.
62
R. Bonadei «Mubgby Junction»: sui treni vittoriani incontro al moderno, in M. T.
Chialant - C. Pagetti, La città e il teatro, cit., p. 277.
63
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 111.
64
Ivi, p. 295.

30
Dickens riuscì a dare una surreale quanto veritiera descrizione di un tempo
piatto scolpito dai rintocchi sanciti delle sirene e dai motori che si accendevano
o si spegnevano. A ciò corrispondeva, ciclicamente, la giornata della massa
operaia che si svolgeva dall'alba alla sera sotto l'infaticabile ritmo dei cavalli a
vapore65.
Solo la notte dava un attimo di tregua al flusso di persone che andava e veniva
ogni giorno da quel luogo infernale, da dove le macchine, pur se a riposo,
riuscivano comunque ad assoggettare la realtà, essendo il silenzio ormai
inconsueto66. «Le macchine rallentarono la loro corsa, ebbero qualche sussulto,
come un polso che stia per spegnersi, poi si fermarono del tutto. Di nuovo la
sirena; le luci abbaglianti si spensero, il calore si disperse e le fabbriche
tornarono a stagliarsi imponenti nella notte scura di pioggia – le alte ciminiere
dirette verso il cielo come torri di Babele in perenne tenzone»67.
Un ambiente così “mostruosamente artificiale” e un modo di vita talmente
routinario da essere alienante non potevano che conformare anche la mente e i
pensieri dei lavoratori alla macchina. Questo provava l'operaio Blackpool alla
fine della giornata lavorativa: «la vecchia sensazione che l'arresto delle
macchine provocava in lui: la sensazione che quell'enorme congegno avesse
sferragliato e si fosse arrestato nella sua testa»68.
Andrew Ure, considerato uno degli intellettuali che per primo tracciò il
percorso della meccanizzazione come ideologia, riteneva che: «in realtà è
scopo e tendenza costante di ogni perfezionamento nel macchinario di
soppiantare interamente il lavoro umano, o di ridurne il costo, sostituendo il
lavoro degli uomini con quello delle donne e dei fanciulli, o il lavoro degli

65
Ivi, pp. 85-86.
66
R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura
dickensiana, op. cit., p. 49.
67
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 98.
68
Ivi, p. 79.

31
operai qualificati con quello dei manovali comuni»69. L’apologeta
dell'automazione esponeva e propagandava le “virtù” della macchina,
infaticabile, controllabile e indipendente da qualsiasi condizionamento
esterno. Era questo il sistema di fabbrica, una «grande automazione, composta
da vari organi meccanici ed intellettuali, che agiscono in continuo accordo per
un oggetto comune, tutti subordinati ad una forza motoria autoregolante»70.
La parola chiave di questa logica è «subordinare»: il proprietario della fabbrica
doveva assicurarsi che gli operai fossero tutt’uno con gli ingranaggi e le fasi
produttive, doveva «addestrare gli esseri umani alla rinuncia delle proprie
abitudini di lavoro, prive di metodo, per identificarsi con la regolarità
invariabile della complessa automazione»71. Perciò, secondo l’idea del
pensatore inglese, la stessa natura umana doveva essere trasformata in virtù
delle esigenze del sistema di fabbrica e, così, sistematicamente adattata alla
disciplina della macchina72.
La fabbrica, la macchina e, dunque, l’automazione, non rappresentavano
semplicemente un metodo produttivo, ma diventavano, per una loro peculiarità
specifica, esse stesse modello organizzativo che doveva ordinare e regolare una
parte sempre maggiore delle attività umane, affinché esse fossero sempre più
funzionali alla produzione e al consumo. La catena produttiva necessitava
dell'addomesticamento totale dei lavoratori, di individui resi intercambiabili e
isolati, come ogni altra parte del processo meccanizzato. Il sistema di fabbrica
comportava senza dubbio un’erosione sempre più profonda dei rapporti umani,
dell'aspetto sociale, delle scelte indipendenti e dell'abilità personale, perché
nessuno di questi fattori era funzionale all’Economia; anzi erano proprio
l’autonomia individuale e le differenze caratteriali che potevano rendere un

69
A. Ure, The Philosophy of Manufactures, cit., p. 23.
70
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 32.
71
Ivi, p. 32.
72
Ivi, p. 18.

32
lavoratore poco efficiente e discontinuo nella produzione, se non addirittura in
opposizione agli ordini del padrone. Difatti, «non c'era nulla a Coketown che
non ricordasse la severa disciplina del lavoro»73.
In quell'epoca, secondo un esperto contemporaneo, un solo uomo poteva
svolgere il lavoro che due o trecento operai facevano all'inizio della
Rivoluzione Industriale. Questo era l'esempio più esplicito del dominio
ottenuto dalla scienza umana sul potere della natura, di cui i positivisti e gli
utilitaristi dell’epoca andavano tanto fieri74. La macchina, strumento di
progresso e oppressione, snaturava l'essere umano, degradandolo all’unica
capacità funzionale di avere «the Hands». «Centinaia e centinaia di “braccia”
al lavoro in questa fabbrica; centinaia e centinaia di cavalli-vapore»75. Infatti,
«la moltitudine di Coketown, era genericamente denominata “le Braccia”,
razza che tra certa gente avrebbe goduto di maggior considerazione se la
Provvidenza avesse ritenuto opportuno fornirla di sole braccia, […] o
unicamente di braccia e stomaco»76. Gli abitanti della Città-fabbrica,
metaforicamente “decapitati”, erano privati di ogni personalità, relegati a
essere anonimi ingranaggi.
Il progresso tecnologico assumeva così le terribili sembianze del progresso
dello sfruttamento, in quanto veniva quasi a realizzarsi un rapporto di
proporzionalità tra lo sviluppo tecnico e l’aumento inaudito dello sfruttamento,
sia quantitativamente (per quanto riguarda il numero di persone che colpiva),
sia qualitativamente (per l’intensità e le condizioni di lavoro in cui si
realizzava). Lo sviluppo tecnico rese i lavoratori sostituibili con assoluta
facilità, all’interno di un processo produttivo che prevedeva la continua
esecuzione di poche e semplicissime operazioni. Gli industriali, i positivisti e

73
Ivi, p. 32.
74
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., pp. 273-274.
75
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 78.
76
Ivi, p. 78.

33
gli utilitaristi desideravano, e, quando potevano, esigevano, l’umile e
silenziosa collaborazione della popolazione.

2.3.2. La miseria della classe lavoratrice

«Lo schiavo nero delle Indie Occidentali, se sgobba sotto un sole che toglie la
pelle, almeno ogni tanto ha un soffio d’aria a sventagliarlo […]. Il filatore
inglese, schiavo anche lui, non gode l’aria aperta e le brezze del cielo.
Imprigionato in fabbriche alte otto piani, non ha pace prima che la macchina
ponderosa si arresti […]. Non è un ritratto caricato, questo; è letteralmente
vero»77

«Ho la vaga idea che il popolo inglese sia condannato a lavorare più duramente
di qualsiasi altro popolo su cui splenda il sole»78.
Così pensava Dickens sulla condizione della vita lavorativa in Inghilterra.
Orari lunghi, rigidi e massacranti, dietro porte chiuse, poiché la norma
giornaliera di lavoro, nei primi decenni del ’800, era di 12-14 ore, con punte
fino a 16 e 18, ma comunque mai meno di 10. Per chi non rispettava la rigida
disciplina di lavoro erano previste multe sugli stipendi, che già rasentavano la
soglia della sopravvivenza, oltre alla coercizione e alla violenza fisica,

77
Il brano è contenuto in «A Journeyman Cotton Spinner», in «Black Dwarf», settembre
1818 (in E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 200).
78
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 78.

34
rappresentata dalla frusta del caposquadra, che vigilava come un secondino sui
lavoratori chini sul telaio79.
Vittime dello sfruttamento erano soprattutto le donne e i bambini, che nel 1833
giunsero a formare circa i quattro quinti della manodopera dell'industria
tessile80. Infatti, era molto facile forzare ad obbedire un bambino o una
bambina di quattro o cinque anni, dandogli una misera paga, un terzo o anche
meno degli uomini; non solo, era anche pratica diffusa costringere gli orfani e
le bambine povere a lavorare nelle industrie contro la loro volontà. Come
accertò un'inchiesta parlamentare nel 1833, i bambini «in ritardo al lavoro» al
mattino presto o che cadevano addormentati al pomeriggio venivano picchiati,
«fustigandoli con molta crudeltà, […] alcuni erano battuti con tale violenza da
perdere, a causa di questo, la vita»81.
L’ambiente lavorativo rispecchiava l’essenza della fabbrica: un luogo
letteralmente infernale, dove «nulla poteva spezzare quella monotonia»
necessaria alla produzione82. Un tale sistema di lavoro non solo era brutale
perché sottometteva gli individui più poveri, e dunque la gran parte della
popolazione inglese, alla disciplina e all’oppressione quotidiana del lavoro, ma
era per di più agghiacciante per le condizioni malsane e crudeli che imponeva
loro83. In generale, le condizioni di lavoro nella fabbrica erano così terribili e
difficili che, come ha notato uno storico moderno, «tanti tessitori manuali e
magliai, tra il 1830 e il 1840, preferivano morire di fame piuttosto che accettare
la disciplina di fabbrica; molti di coloro che accettavano lo facevano perché

79
Ivi, p. 85.
80
Report of Factory Commission, 1834, in Hammond J. L. and Hammond B., The Town
Labourer 1760-1832, Longmans, Londra, 1978, pp. 19-20.
81
Parlamentary Paper, Manufacturing, Commerce, Shipping, (690) VI 1, 1833.
82
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 306.
83
Ivi, p. 136.

35
era la loro ultima risorsa»84.
Infatti, le condizioni di sfruttamento nell’industria tessile erano ben al di là dei
limiti di sopportazione possibili. Per gli operai, la fabbrica era un vero e proprio
castigo: si registravano temperature superiori agli 80° nei cotonifici; il rumore
dei telai era assordante; l'aria era così piena di polveri da provocare una tosse
particolare e permanente (soprattutto nei cotonifici per la grande presenza di
“lanugini”); gli incidenti erano all'ordine del giorno e spesso mortali, sia per il
sovraffollamento nei capannoni, sia per l'alta velocità dei macchinari e
l'assoluta mancanza dei presupposti per un minimo di sicurezza.
«Emergendo da bassi corridoi sotterranei, i fuochisti uscivano nei cortili delle
fabbriche, sedevano sui gradini, sulle assi e sulle staccionate e si tergevano i
volti scuri contemplando le montagne di carbone. Era come se la città stesse
friggendo nell'olio; c'era dappertutto un soffocante odore d'olio bollente. Le
macchine luccicavano d'olio, i vestiti degli operai ne erano pure intrisi, le
fabbriche stillavano e trasudavano olio dai loro numerosi piani»85.
Non era diversa la vita di altri lavoratori, come ad esempio i lavoratori a
domicilio o i minatori. Questi ultimi facevano parte di una delle categorie
operaie che vivevano le condizioni più dure, sia per la fatica fisica, sia per le
specifiche condizioni di lavoro, sottoterra, con grandissimi pericoli di crolli e
perdite di gas nocivi o addirittura infiammabili, che spesso erano la causa
d’immani tragedie86. «Il pozzo - di carbone-, come sanno i vecchi che vivono
ancora, è costato la vita a centinaia e centinaia di uomini e donne […]. Gli
uomini che lavorano nei pozzi supplicano e chiedono a chi fa le leggi che per
amor di Dio non lascino che il lavoro li ammazzi, e che siano risparmiati […].
Quando il pozzo funzionava, uccideva senza che ce n'era bisogno; adesso che

84
H. Perkin, The Origin of Modern English Society 1780-1880, London, Routledge and
Kegan Paul, 1969, p. 131.
85
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 136.
86
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 197.

36
non funziona più, uccide ancora senza che ce n'è bisogno»87.
La miseria nell'Inghilterra di metà '800 era dilagante: oltre un terzo della
popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà, resistendo ai limiti della
sopravvivenza sia per quanto riguardava l'alimentazione, ridotta e povera di
principi nutritivi, che per le condizioni malsane in cui lavorava. Fernand
Braudel ha scritto che, dopo il 1780, vi fu un «generale impoverimento, […]
un ribasso degli stipendi reali, i catastrofici effetti si videro nelle squallide
abitazioni, nel cibo malsano, contaminato e irrisorio. È così evidente che il
popolo inglese abbia pagato un prezzo molto alto per diventare la prima
nazione industriale, garantendo solo a una minoranza di possidenti le ricchezze
del progresso agricolo, […] le fortune dell’industria e della Banca
d'Inghilterra»88. Infatti, oltre ai milioni che ricevevano il sussidio della legge
dei poveri (8 milioni nel 1818), vi erano le 180mila famiglie considerate
itineranti, che quindi non ricevevano nemmeno il sussidio: i diseredati erano
oltre il 20% della popolazione nel 1810, ed era una cifra destinata a crescere
con il passare degli anni89. Anche chi, tra i lavoratori, percepiva uno stipendio,
soffriva ugualmente condizioni di vita miserrime. Il poco che riuscivano a
guadagnare era appena sufficiente per un pasto: pane, patate, rape e, solo
raramente, qualcosa di diverso90.
Le condizioni di vita erano ulteriormente aggravate dal forte inquinamento
presente nei ghetti operai delle periferie cittadine. Le abitazioni degradarono
di pari passo con il progredire dell'industria e l'ingrandirsi delle città,
caratterizzate da sovraffollamento, abitazioni sotterranee e sporcizia inaudita.91

87
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 365.
88
F. Braduel, The Wheels of Commerce. Vol. 2: Civilization and Capitalism 15th-18th
century, Harper & Row, New York, 1982, p. 183.
89
C. Cook e J. Stevenson, British Historical Facts, Londra, Palgrave Macmillan, 1980, p.
194
90
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 321.
91
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 326.

37
Dickens descrisse lo slum di Coketown come un labirinto soffocante di viuzze
e corti strette ammassate l’una contro l’altra, un quartiere in cui le case erano
state «costruite a pezzi e bocconi solo per rispondere con urgenza ai bisogni di
qualcuno, fino a formare un insieme disarmonico di edifici, che schiacciavano
e si appiccicavano tanto da esserne soffocati»92.
La salute della popolazione rispecchiava i luoghi malsani e le inesistenti misure
d’igiene che, unite allo stato di assoluta malnutrizione, non potevano che
comportare altissimi tassi di mortalità, soprattutto infantile. Un medico che
visitò i quartieri operai di Manchester definì quello che vide come «uno
spettacolo doloroso, una razza degenerata: esseri umani rachitici, debilitati e
degradati»93. Era impossibile, per chi apparteneva alla classe operaia, avere
una vita sana e longeva abitando in quartieri spesso costruiti ai piedi delle
fabbriche inquinanti in cui lavoravano: infatti, erano pochi i bambini che
superavano i primi mesi dalla nascita e pochissimi quelli che sopravvivevano
oltre i 5-6 anni94.
Nel 1843 un fisico dell'Ospedale Generale di Sheffield sintetizzò così le
condizioni nei distretti industriali dell'Inghilterra: «Non abbiamo esitazioni
nell'asserire che le sofferenze delle classi lavoratrici, e conseguentemente il
tasso di mortalità, sono maggiori oggi che nei tempi passati. In verità, è
spaventoso constatare il tasso di mortalità nella maggior parte dei quartieri
industriali»95.

92
Ivi, p. 78.
93
C. Turner ThacKrh, The effects of the principal arts, trades, and professions, and of civic
states and habits of living, on health and longevity, Longmans, Londra, 1831, p. 27.
94
C. Dickens, Tempi, Difficili, cit., p. 326.
95
Dr. G. C. Holland, in Chadwick, Report on Sanitary Condition, in H. Rule, The
Labouring Classes in Early Industrial England 1750 -1850, Longmans, Londra, 1986,
pp. 89-90.

38
2.4 Il rapporto tra la classe padronale e gli
operai

«Voi, economisti della scuola utilitarista, larve di insegnanti, commissari del


Fatto, distinti e logori miscredenti, ciarlatani di mille piccole teorie vecchie e
ammuffite, rammentate che la povera gente sarà sempre con voi. Coltivate in
loro, finché siete in tempo, le sublimi grazie dell'immaginazione e dell'amore,
e concedete alle loro esistenze il sollievo di cui hanno tanto bisogno! Perché
altrimenti, nel giorno del vostro trionfo, quando dai loro animi sarà stata
spazzata ogni illusione e non resterà loro che una vita squallida e vuota, la
Realtà prenderà le sembianze di un lupo feroce, e per voi sarà la fine»96.

Coketown era una città che doveva esprimere, nell’intento dell’autore, i valori
predominanti della sua epoca, quali la disciplina del lavoro e l’ordine sociale
capitalista, che così diventavano i fattori principali della vita di ogni individuo.
Tutto ciò era rappresentato dalla figura del signor Bounderby. Era proprio
quest’ultimo che controllava la banca, il mercato, la produzione manifatturiera,
che possedeva tutto ciò che poteva dare un valore alla città. Di fatto questa era
il suo regno, dove la cupezza e l'artificiosità rispecchiavano lo «sguardo fisso
e la risata di metallo»97, come anche la mancanza di qualsiasi sensibilità, del
cinico capitalista.
Bounderby, nel romanzo di Dickens, rappresentava la classe industriale
inglese, quella parte della società che, nella sua ascesa economica e sociale,
non si faceva scrupoli sulle conseguenze delle sue azioni sulle classi più

96
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 194.
97
Ivi, p. 22.

39
povere. «I patrizi di Coketown»98 conoscevano i lavoratori solo in base alla
loro funzione dentro le fabbriche: «sapevano della loro esistenza, ma in ragione
di centinaia e migliaia. Sapevano quanto lavoro poteva produrre un dato
numero di operai in una data unità di tempo. Li conoscevano in quanto folla,
folla che si spostava avanti e indietro dai propri nidi come formiche e
scarafaggi […]. Erano qualcosa che si doveva far produrre un tanto e pagare
un tanto: ecco tutto. Qualcosa che era infallibilmente regolato dalle leggi della
domanda e dell'offerta; qualcosa che in quelle leggi inciampava e si dibatteva
impigliandosi in ogni sorta di difficoltà, qualcosa che conosceva i morsi della
fame quando il grano era caro e s'ingozzava oltre misura quando il grano era a
buon mercato. Qualcosa che aveva una data percentuale di incremento, che
produceva una data percentuale di criminalità e un'altra percentuale ancora di
pauperismo»99. La stessa miseria veniva compresa e quindi giustificata tramite
le dottrine filosofiche, economiche e politiche del liberalismo e secondo il
principio del laissez faire. In base a questa teoria, considerato che i rapporti
sociali tra le varie classi erano fondati sullo scambio commerciale, l’unico
contesto relazionale possibile era il mercato, all’interno del quale ogni attore
doveva avere la piena libertà di perseguire il proprio interesse egoistico. La
neutralità del mercato e la stessa libertà individuale sarebbero state garantite
dalla concorrenza commerciale tra gli attori in veste di competitori economici:
giusta l’immagine smithiana della Mano Invisibile, capace di indirizzare
l’egoismo dei singoli verso un superiore bene collettivo100. Non è un caso che
Dickens faccia propria la lezione dei Principles of Political Economy (1849)
di J. S. Mill nella sua accusa generale contro le idee che fondavano Coketown
sull’Economia Politica, «la regina sopra ogni dio»101.

98
Ivi, cit., p. 96.
99
Ivi, pp. 189-190.
100
R. Williams, op. cit., pp. 87-88.
101
C. Dickens, On The Strike, op. cit., p. 553.

40
Per l’appunto, l’unica cosa importante nella “Città del carbone” era
«migliorare il tenore di vita»102, nient’altro era concepito e concepibile per la
borghesia industriale, giacché l’intera esistenza ruotava intorno all’accumulo
materiale e al progresso del proprio status sociale. Così, giacché ogni individuo
godeva della libertà d’iniziativa al fine di perseguire i propri piaceri e interessi,
sua e soltanto sua era la colpa di vivere una condizione di povertà e sofferenza,
sua la responsabilità di aver fallito per ozio e pigrizia o per mancanza di acume
e iniziativa imprenditoriale.
Nessuna statistica e nessuna comprensione scientifica della realtà poteva però
spiegare ciò che non si poteva contabilizzare, come la costrizione
dell'individuo al ruolo di schiavo, ridotto alla fame e ad una vita di miseria,
senza alcuna possibilità di scelta. Le classi più povere non avevano alternative.
La loro unica opportunità di “scalata sociale”, come la rappresentò Dickens in
una delle sue metafore, era verso l’oblio: la casa nello slum «si trovava in uno
dei tanti vicoli per i quali il più richiesto impresario di pompe funebri teneva
apposta una scala a pioli nera, cosicché quanti avevano cessato di trascinarsi
ogni giorno su e giù per quelle scale troppo strette potevano prendere congedo
da questo mondo operoso scivolando attraverso la finestra»103.
Il pregiudizio che avevano gli industriali rispetto alla classe operaia
rispecchiava l'incolmabile distanza delle rispettive condizioni di vita, non
potendo, chi viveva nell’agio materiale, nemmeno concepire il disagio
quotidiano in cui si trovavano i «ceti inferiori», relegati, quando non
lavoravano rinchiusi in fabbrica, nei bassifondi delle città. Davanti a «cotoletta
e sherry»104, nella sua casa grande e lussuosa, Bounderby puntava il dito contro
l'immoralità del popolino e la sua depravazione105. Non vi era nessuna

102
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.. 144.
103
Ivi, p. 82.
104
Ivi, p. 87.
105
Ivi, p. 93.

41
comprensione della situazione in cui vivevano i suoi lavoratori, solo la
denuncia della loro pigrizia, della mancanza di obbedienza, della pretesa di
vivere meglio “senza alcun merito”106.
Nel giudizio di Bounderby, l’unica cosa che essi sapevano fare era lamentarsi
della propria condizione e cercare il modo per vivere nel lusso, «farsi
scorrazzare su un tiro a sei, essere sfamati a brodo di tartaruga e cacciagione e
serviti con un cucchiaio d'oro»107. Gli imprenditori del tempo facevano carico
ai lavoratori dei peggiori difetti e vizi morali, e Dickens, nella sua analisi
sociale, cercava di ricondurre le cause del progressivo degrado umano non
tanto all’appartenenza a una classe particolare, ma alle scelte che una persona
attuava in determinate circostanze, a prescindere dal suo status sociale. Perciò,
a essere criticata non era la classe borghese in quanto tale, ma gli individui che
la componevano e che, nonostante avessero usufruito della «miglior
educazione possibile», vivevano nel vizio e, in quanto detentori del potere
economico e politico, tiranneggiavano chi era a loro subordinato108.
In realtà, la dottrina del libero scambio mascherava quello che era il reale
interesse degli industriali a conservare lo status quo, come condizione che
consentiva loro di sviluppare la produzione e di aumentare il profitto. Solo in
un contesto in cui i lavoratori erano spremuti fino al midollo, sotto il ricatto del
lavoro salariato, i costi di produzione potevano essere così bassi, come sempre
più basse erano, e dovevano continuare a essere, le retribuzioni. Tuttavia, se la
condizione di totale sfruttamento e la sottomissione della popolazione operaia
ai precetti della produzione non fossero state protette dalla complicità delle
istituzioni e dai meccanismi statali, la posizione della borghesia capitalista non
avrebbe avuto vita così facile.

106
R. Runicni, Dal Resoconto al racconto le origini giornalistiche della scrittura
dickensiana, op. cit., p. 54.
107
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 87.
108
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 554.

42
«Una cosa è certa: non ci fu porcellana più fragile di quella di cui erano fatti
gli imprenditori di Coketown. Non li si trattava mai con sufficiente delicatezza
ed essi andavano in frantumi con tanta facilità da far nascere il sospetto che
fossero già incrinati in partenza. Caddero in rovina quando fu loro imposto di
mandare a scuola i bambini che lavoravano nelle fabbriche, quando si
nominarono gli ispettori incaricati di controllare le condizioni di lavoro nelle
officine, quando i suddetti ispettori manifestarono qualche dubbio circa
l'eventualità che ci potessero essere ragionevoli giustificazioni al fatto che le
loro macchine facessero a pezzetti la gente; furono completamente distrutti
quando qualcuno insinuò che forse non era sempre necessario fare tutto quel
fumo»109.
Il ricatto del lavoro salariato, abilmente orchestrato dai padroni, era, dunque,
quel sistema di rapporti produttivi e di potere che aveva privato la «povera
gente»110 del controllo e della gestione dei mezzi di produzione, costringendo
gli operai a una condizione di totale ininfluenza sulla questione dei salari o
delle condizioni di lavoro in fabbrica. Lo sfruttamento perpetrato sui lavoratori
nei decenni precedenti aveva fatto si che gli industriali avessero accumulato
ancora maggiori capitali di prima, rendendo il loro potere sempre più ampio111.
Nella dinamica dell’incontro durante il quale l’operaio Blackpool fu licenziato
dal padrone Bounderby, Dickens esprime appunto con semplicità e chiarezza
la costrizione quotidiana cui la classe lavoratrice doveva sottostare, oppressa e
senza altra scelta che non fosse tra lo sfruttamento in fabbrica e la morte per
inedia. Così replicava il lavoratore all'industriale: «Signore, sapete bene che se
non posso lavorare da voi, non potrò farlo da nessun'altra parte».112
In concreto, come l’autore spiegò anche in «On Strike», gli industriali

109
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 135-136.
110
Ivi, p. 91.
111
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 555.
112
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 183.

43
licenziavano e segnalavano ai proprietari di altre industrie, allo scopo di
impedire la riassunzione, qualsiasi operaio che fosse di ostacolo alla
produzione o facesse opera di proselitismo tra i suoi colleghi. Doppio perciò il
vantaggio: non solo l’allontanamento del “sabotatore”, ma anche un esempio
da mantenere a memoria per chiunque altro avesse la tentazione di lottare per
migliorare la propria condizione di vita. I padroni avevano oltretutto la facoltà
di promuovere la serrata delle proprie fabbriche; ciò giovava ad accrescere i
loro profitti (grazie all’aumento dei prezzi dovuto all’arresto della produzione),
oltre che a minacciare la classe lavoratrice con quelle che sarebbero state le
conseguenze degli scioperi113.
A saldare definitivamente le sbarre della gabbia in cui era stata rinchiusa la
classe operaia, intervennero le istituzioni che, oltre a favorire gli interessi
economici e il profitto della «gente importante»114, avevano il compito, tramite
le leggi e la repressione, di eliminare qualsiasi attacco alla libertà di mercato e
al modello di produzione industriale. In questo modo Dickens esprimeva, per
bocca di Bounderby, quella che per gli industriali era l’unico modo per
risolvere “il problema degli operai” che si lamentavano e protestavano:
«Sapendo che costoro sono una banda di ribelli e farabutti deportarli sarebbe
persino troppo poco»115, «impiccarli tutti si dovrebbe»116.
Che fosse per necessità o per principio, ogni rivolta degli operai doveva essere
comunque limitata se non soffocata. Spesso, infatti, accadeva che anche una
singola protesta fosse soppressa con durezza e nel sangue, affinché fosse
d’esempio per chiunque volesse rompere, o almeno allentare, la rete dello
sfruttamento capitalista (l’esempio storico più emblematico fu il massacro di
Peterloo del 1819, a Manchester). Infatti, la classe dirigente e industriale

113
C. Dickens, On The Strike, cit., p.554.
114
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 91.
115
Ivi, p. 178.
116
Ivi, p. 177.

44
dell’età vittoriana temeva fortemente, e talvolta non del tutto a torto, che il
malessere della classe lavoratrice tornasse a manifestarsi, a loro danno, in
maniera dirompente e diffusa. E questo era proprio ciò che doveva essere
evitato, a garanzia non solo della sopravvivenza dello Stato inglese, ma anche
del progresso del sistema industriale stesso117.
Dickens naturalmente criticava la durezza degli industriali, espressa molto
crudamente da Bounderby: «Prenderemo una dozzina di Slackbridge,
processeremo quelle canaglie per alto tradimento e le spediremo ai lavori
forzati nelle colonie penali»118. Ma non era il pugno di ferro ad aggiustare una
realtà troppo iniqua, giacché i problemi sociali, così come tutti i problemi dei
«ceti inferiori», sarebbero continuati a persistere, se non addirittura a
peggiorare: «potete anche prendere cento Slackbridge, tutti quelli come lui, e
anche dieci volte tanti, e chiuderli ognuno dentro a un sacco e buttarli
nell’oceano profondo […] ma quest’imbroglio rimarrebbe tale e quale»119.
Ironicamente, nel romanzo, Dickens commenta in questo modo il connubio tra
potere economico e potere politico: «ogniqualvolta un notabile di Coketown si
sentiva maltrattato -vale a dire, ogni qual volta che non gli si permetteva di fare
il comodo suo e si avanzava l'ipotesi che potesse essere responsabile delle
conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe uscito
con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe “gettato i suoi beni
nell'Atlantico”; minaccia che in più occasioni, aveva procurato al Ministro
degli Interni uno spavento tale da far temere per la sua vita»120.
L'economista Ricardo spiegava questo rapporto tra politici e industriali con
motivazioni strettamente economiche, perché esso andava a toccare
direttamente quello che era il flusso di investimenti e dunque la stessa crescita

117
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 2, cit., p. 235.
118
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.181.
119
Ivi, p.181.
120
Ivi, p. 136.

45
economica del Paese. Lo Stato non avrebbe mai potuto scoraggiare lo sviluppo
industriale, poiché insieme all’impiego delle macchine avrebbe dovuto
rinunciare anche alle molte entrate che il loro uso permetteva di ottenere. E i
capitalisti avrebbero comunque indirizzato e realizzato i loro investimenti
all’estero121.
Se Dickens tanto insisteva sull’alleanza tra gli interessi economici e l’autorità
politica, è perché, appartenendo alla classe medio-borghese e frequentando gli
ambienti dell’alta società londinese, poteva osservare dall’interno i
meccanismi decisionali e le pressioni che provenivano dalla cerchia dei «veri
gentiluomini, i quali, avendo scoperto che al mondo non c'è nulla che abbia
valore, erano ormai disposti a tutto»122. Non è un caso che nel racconto di
Dickens, quando il signor James Harthouse, un funzionario del parlamento e
un vero «partigiano del Puro Fatto»123, incontrò l'industriale Bounderby,
entrambi si trovarono immediatamente d'accordo che tutto dovesse restare
grigio e pieno di fuliggine com’era. Invero, il colloquio tra i due gentleman, ha
il valore simbolico di un’assoluta intesa sulla necessità che le fabbriche
continuassero a inquinare, con evidenti sottovalutazioni sull’impatto
ambientale («guardate il nostro fumo. Per noi è pane e companatico. È la cosa
più salubre che ci sia al mondo, da tutti i punti di vista, soprattutto per i
polmoni») e che allo stesso modo continuasse lo sfruttamento della classe
lavoratrice, così mistificando le condizioni operaie: «è il lavoro più piacevole
che ci sia, il meno pesante e il meglio retribuito»124. Harthouse rappresentava
quella categoria di individui benestanti e facoltosi che, non avendo alcuna
opinione, poteva far propria qualsiasi idea che gli avrebbe dato il maggior

121
D. Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, Batoche Books,
Kitchener Ontario, 2001, p. 466.
122
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 151.
123
Ivi, p.152.
124
Ivi, pp. 153-154.

46
vantaggio possibile125.
Più in generale, Dickens non aveva una buona opinione della classe politica,
di quei «sani spiriti giunti a tali sublimi vette d’indifferenza»126. Il parlamento
era per lui solo «l'immondezzaio nazionale», «un meccanismo un po' rumoroso
e piuttosto sordido», mentre i parlamentari erano «i netturbini […] -che si
trastullavano- con un gran numero di scaramucce e rumorose polemiche»127.
In realtà, nel giudizio del romanziere inglese, era tutta la classe dirigente di
Westminister ad apparirgli corrotta e insensibile al richiamo dei valori morali,
oltre che al fine del miglioramento sociale. Di qui la polemica di Dickens nei
confronti della legislazione contemporanea, concepita esclusivamente come un
mezzo nelle mani dei ricchi per imporre il proprio potere sui poveri e sui
diseredati. Non a caso, quando essa poteva in astratto entrare in conflitto con
le élites della società, a costoro era comunque garantita l’impunità. Le
essenziali parole di Blackpool possono ben esprimere tale ingiustizia: «quando
ci sono dei problemi la gente privilegiata ha i soldi e gli ori […] Ma noi povera
gente no. Loro tornano liberi per dei reati meno gravi»128. Lo Stato, dunque,
era esclusivamente, come tuonava l'operaio, «un grande imbroglio; un
imbroglio bell'e buono»129.
Tuttavia, le «classi inferiori» non dovevano opporsi al destino che era tracciato
per loro e su di loro, come fece intendere il signor Bounderby, rispondendo al
suo operaio: «non chiamare imbroglio le istituzioni del tuo paese, altrimenti un
giorno o l'altro ti ci troverai in un serio imbroglio. Le istituzioni del paese non
sono affar tuo, e il tuo unico dovere è badare agli affari»130. La verità è che era

125
R. Williams, op. cit., p. 129.
126
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 151.
127
Ivi, p. 257.
128
Ivi, p. 91.
129
Ivi, p. 92.
130
Ivi, p. 92.

47
proprio «affare» degli operai la miseria che essi vivevano131.
Era dunque obbligo per Dickens denunciare lo stato d’ingiustizia che regnava
nel suo Paese, inconcepibile che la terra esistesse per immiserire le persone,
laddove in passato aveva fornito tutti i mezzi di sussistenza necessari,
arricchendo con i suoi frutti ogni essere vivente. L’autore sosteneva che fosse
contro natura il fatto che chi piantava e raccoglieva il grano non avesse niente
da mangiare e chi cuciva non avesse da vestirsi, mentre quelli che non avevano
mai cucito un solo centimetro di stoffa avevano a disposizione così tanti vestiti
che sarebbero bastati a decine di lavoratori con le loro famiglie132.
«È proprio un bell’imbroglio. Guardate la città, ricca com’è, e guardate quanta
gente è nata qui e passa la vita a tessere e cardare e guadagnarsi il pane. Sempre
le stesse cose, dalla culla alla tomba. Guardate come viviamo, dove abitiamo,
quanti siamo, le occasioni che abbiamo. Guardate com’è sempre uguale la
nostra vita, come le fabbriche vanno sempre avanti e non ci portano mai da
nessuna parte tranne che alla morte […]. Voi ci avete sempre ragione e noi
sempre torto e da quando siamo nati non ci abbiamo avuto ragione proprio mai.
E tutto questo cresce e aumenta ogni anno sempre di più. Chi è che può
guardare tutto questo senza dire onestamente che è un bell’imbroglio?»133.

131
R. Williams, op. cit., pp. 128-129.
132
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 554.
133
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 180.

48
2.4.1. Dickens e il sindacalismo

La polemica di Dickens riguardava non soltanto la posizione privilegiata e


protetta degli industriali, ma era critica delle stesse organizzazioni di
lavoratori, i sindacati.
È un fatto che, immediatamente prima della stesura del romanzo, egli si recò a
Preston, una cittadina industriale nei pressi di Manchester, per osservare da
vicino lo svolgimento di uno sciopero destinato poi a diventare celebre per la
sua durata di otto lunghi mesi (1853-1854).134
La protesta ebbe inizio quando, alla richiesta dei tessitori di telai meccanici di
reintegrare nel loro salario il dieci per cento in meno imposto a forza nel 1847,
i proprietari risposero chiudendo le fabbriche, rifiutando ogni tipo di negoziato,
licenziando e dichiarando che non vi sarebbero state riassunzioni se gli operai
non avessero lasciato le Unions.135
Dickens, assistette a due incontri sindacali, a commento dei quali non solo
scrisse l’articolo «On Strike» pubblicato nel febbraio del 1854 sulla sua rivista
Household Words, ma ricavò l’ispirazione per trattare la tematica del
sindacalismo anche nel romanzo Hard Times.
Nell’articolo, dalla narrazione giornalistica dei fatti, emerge una posizione
generale di favore ma al contempo una critica delle politiche,
dell’organizzazione e del metodo di lotta dei sindacati.
Dickens non metteva in discussione e anzi difendeva il diritto dei lavoratori di
potersi organizzare e unire. Polemizzava invece con quelle che erano le
dinamiche interne a tali organizzazioni, dal leaderismo e dalla costituzione
dell’opinione in maggioranza, ai comportamenti della folla impersonale e

134
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 553.
135
M. R. Cifarelli, op. cit., p. VII.

49
manipolabile.
A Dickens non interessava schierarsi da una parte o dall’altra, farne una
questione di appartenenza di classe, oppure una contesa ideologica, o
filosofica, nel momento in cui l’oggetto del suo attacco era il rapporto di lavoro
esistente nella società contemporanea e le reali conseguenze che gli sfruttati
vivevano quotidianamente. Nel suo giudizio era come se sindacati e padroni
fossero soltanto due facce della stessa medaglia, come se in gioco nel loro
rapporto ci fosse solo una contrattazione delle condizioni di sfruttamento,
senza comprensione reale delle sue dinamiche, delle origini del degrado morale
e psico-fisico e della miseria degli operai.136 Non era perciò una soluzione di
compromesso, concepita su basi contrattuali, che avrebbe giovato alla loro
condizione.
«Non serve a niente mettersi d’accordo per fare in modo che una parte abbia
sempre e comunque ragione e l’altra sempre e comunque torto. Lasciate pure
migliaia e migliaia di perone a vivere la stessa vita, dentro ai guai fino al collo,
ed ecco che diventeranno come un sol uomo, e voi tutti vi metterete di fronte
come un altro uomo, e in mezzo ci sarà un abisso nero che non si potrà
attraversare, per il poco o tanto tempo che durerà questa miseria»137
In Tempi Difficili, Dickens disegnava il sindacalista Slackbridge come un
individuo che si distingueva e pretendeva di elevarsi al di sopra della massa,
non solo a livello culturale, ma anche sul piano simbolico
dell’abbigliamento.138
In discussione era la figura del leader, dell’arringatore di folle, del «delegato
che sa parlare per mestiere»139, che assumeva, nel difendere gli operai, il ruolo
di mentore investito del potere decisionale. Tutto ciò, in fin dei conti, serviva

136
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 554.
137
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 182.
138
Ivi, p.168.
139
Ivi, p. 169.

50
soltanto a ingrassare gli industriali e a dare un po’ di celebrità e di sterline in
più alle guide di professione, agli specialisti del dialogo e del compromesso.140
Ma Dickens non dispensa dalle critiche nemmeno i lavoratori quando essi
agivano da folla, da massa che seguiva le parole e le direttive di una qualsiasi
leadership, illudendosi di poter cambiare qualcosa in meglio, con un qualche
“sfogo”, momentaneo e di circostanza, di chi si sente all’improvviso padrone
del proprio destino, anche se poi non cambiavano le condizioni effettive in cui
si trovava. «È sempre un fatto curioso osservare come, in molte assemblee, gli
ascoltatori soccombano passivamente all’insipienza di qualche presuntuoso,
sia esso nobile o comune cittadino, di qualche uomo che essi – o almeno i tre
quarti di essi – non riuscirebbero in alcun modo a sollevare dall’abisso di
stupidità e a portare al loro livello intellettuale. Era ancora più curioso, e
persino patetico, vedere quella folla di facce oneste, della cui onestà, in
generale, nessun osservatore accorto e imparziale avrebbe potuto dubitare, così
eccitate alle parole di una simile guida».141 Non era appunto la possibilità di
associarsi dei lavoratori che Dickens voleva criticare, ma gli effetti e le derive
di queste associazioni, come un ulteriore meccanismo attraverso cui gli operai
venivano controllati e ancor più privati della possibilità di decidere della
propria vita. Il diritto di consociarsi dava loro una minima possibilità di potersi
difendere dai soprusi e dai diktat dei padroni.142
Dickens comprendeva bene lo spirito di umana fratellanza degli operai, vittime
di una comune oppressione e dunque uniti da comuni interessi143: «ciascuno di
quegli uomini considerava la propria condizione, in un modo o nell’altro,
peggiore di quanto avrebbe potuto essere; ciascuno di loro riteneva suo dovere
unirsi agli altri allo scopo di migliorare le cose; tutti sapevano di avere un’unica

140
R. Williams, op. cit., p. 129.
141
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.168.
142
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 553.
143
C. Dickens. Tempi Difficili, cit., p. 167-175.

51
speranza: allearsi ai compagni intorno a loro; nel condividere questa fiducia -
giusta o sbagliata che fosse- tutta quella gente era profondamente, seriamente,
lealmente convinta»144 Ma, al tempo stesso, riteneva la retorica sindacale
inconcludente, troppo aggressiva e comunque incapace di offrire una strategia
politica adeguata a una classe operaia che, pur dignitosa e coraggiosa, mancava
di preparazione politica. Secondo il romanziere inglese, era proprio per tale
impreparazione che i lavoratori tendevano a delegare le decisioni ai
sindacalisti, agli specialisti della politica industriale, incoscienti dunque di ciò
che questi ultimi decidevano per loro, se non delle conseguenze che pagavano.
In Hard Times, l’esempio più esplicito di questa critica alla delega
inconsapevole, sta nella descrizione delle dinamiche assembleari, in
particolare nell’episodio in cui Blackpool, pur criticando le politiche padronali,
abbandonò il sindacato: ciò provocò la reazione risentita del sindacalista
Slackbridge, deciso, nella sua arringa, a convincere l’intero pubblico che lo
ascoltava a bandire dalla comunità Blackpool. Con il risultato che quest’ultimo
fu completamente isolato dai lavoratori in ogni aspetto della vita, malgrado la
stima e il rispetto che aveva mantenuto sia come individuo che come
lavoratore.
Così secondo l’autore, sono proprio queste dinamiche, legate a distorsioni delle
relazioni e dei caratteri umani, che rendono i sindacati un ostacolo e non
un’opportunità per il riscatto della condizione operaia.145

144
Ivi, p.168.
145
C. Dickens, On The Strike, cit., p. 558.

52
2.5 La critica al sistema educativo e la metafora
del circo

«I miei pensieri sono così ribelli che vogliono inseguire l'immaginazione»146.

Ultima, ma non per importanza o per la rilevanza nel romanzo, è la tematica


dell’educazione impartita nelle scuole e, più in generale, la critica della
filosofia utilitaristica in quanto ideologia totalizzante della società industriale.
L’esame che Dickens fa del sistema scolastico della sua epoca e, dunque, anche
dello schema di valori a cui esso si ispirava, ruota intorno al confronto
dicotomico tra «Fact» e «Fancy», tra «Fatti» e «Immaginazione», come
contrapposizione di due modi di vedere la Realtà, di percepirla e di farne
un’esperienza: due modi che sembrano, alla lettura, del tutto inconciliabili.
Il romanzo, infatti, si apre emblematicamente su un’aula scolastica, che appare
come «un sinistro meccanismo pronto a sostituire le tenere fantasie infantili
che bisognava spazzare via»147, nel mezzo di un edificante confronto tra
l’ideologico culto dei fatti e l’inconsistente e futile esercizio della fantasia. E
sono in questo confronto numerose le immagini collegate a metafore
naturalistiche con cui Dickens denunciava la sterilità che la cieca applicazione
della filosofia utilitaristica comportava.
«Piantate fatti, sradicate tutto il resto»148, così esclamava Gridgring nel
discorso iniziale, incoraggiando i maestri a seguire esclusivamente un modello
di conoscenza astratto e disumano, ma funzionale alla riproduzione di una

146
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 67.
147
Ivi, p. 10.
148
Ivi, p. 14.

53
precisa struttura socioeconomica. Nella scuola di Gridgring, profeta
dell’Utilitarismo, si “iniziano” i giovani abitanti di Coketown alla nuova
dottrina. Qui i discepoli, «i piccoli recipienti schierati di fronte a lui per essere
riempiti di fatti»149, che si chiamano non per nome ma per numero, venivano
plasmati in base ad un sapere fatto di cose certe e ben definite, mentre ogni
relazione si sviluppava in base ai freddi dettami dell’Economia Politica.
Oggetto della critica di Dickens non è tanto il personaggio di Gridgring di per
sé, quanto il ruolo sociale e il codice di valori che egli esprimeva, come
rappresentante di tutti quei filosofi-scienziati che facevano dell’utilitarismo la
loro unica fede, sfruttando la posizione che ricoprivano per “tracciare a
tavolino” il funzionamento del mondo150. Del modo in cui la classe intellettuale
e politica analizzava con logica scientifica e razionale l’esigenza che la società
fosse conforme al modello dell'efficienza produttiva, Gradgring era invero un
campione: nella sua casa, «tra quelle magiche pareti, si valutavano,
quantificavano e infine regolavano le più complesse questioni sociali – se solo
i diretti interessati ne fossero stati a conoscenza! Come un astronomo che, in
un osservatorio privo di finestre, volesse organizzare l'universo stellato con il
solo ausilio di carta, penna e inchiostro, così il signor Gridgring nel suo privato
osservatorio (e come il suo ve ne sono parecchi) non aveva alcun bisogno di
gettare lo sguardo sugli esseri umani che gli brulicavano attorno, ma si
compiaceva di tracciare i loro destini su una semplice lavagna, cancellando via
le loro lacrime con un unico pezzetto di spugna sudicia»151.
Serve solo ciò che è funzionale, e i «Fatti» non prevedono, nella loro purezza
scientifica, alcuna emotività. Non è un caso la presenza di una pendola, nella
stessa stanza di Gridgring, per rappresentare un tempo scandito

149
Ivi, pp. 9-15
150
R. Williams, op. cit., pp. 126-127.
151
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 116.

54
implacabilmente dalle cifre e dai dati statistici, sotto i rintocchi netti e precisi
dell’orologio che oscillava battendo ogni volta un colpo secco che tuonava
come se martellasse una cassa da morto152. Se la scienza era l’unico modo
valido di conoscenza o, quantomeno, il metodo superiore a tutte le altre forme
di interpretazione del mondo, la metafora della pendola diventerebbe il
simbolo di quella frammentazione della vita conseguente alla violazione di
ogni temporalità153.
«Devono essere i fatti a guidarvi e governarvi, in tutto e per tutto. Speriamo
presto di avere un consiglio dei fatti, composto da funzionari di fatti che
costringono il popolo a essere un popolo di fatti e null’altro che fatti. La parola
Immaginazione deve essere bandita!»154. Difatti, il signor Gridgring,
concepiva la sua intera esistenza sulla base dei fatti, conosceva solo ciò che era
«suscettibile di prova e dimostrazione»155: anche la sua casa e i suoi figli erano
stati costruiti sulla base dei principi scientifici e dello schema di “valori”
dell’Utilitarismo. L’abitazione della famiglia Gridgring era una «casa
calcolata, computata, calibrata e collaudata», un «irriducibile fatto piazzato nel
bel mezzo del paesaggio»156. Tutto in essa è funzionale e funzionante, come
una macchina perfetta.
In particolare, la scuola doveva essere concepita come un modello educativo
che avrebbe fornito ai bambini le regole e i principi su cui formare il proprio
carattere e la propria vita, poiché proprio essa avrebbe forgiato i futuri cittadini
inglesi; insomma una «scuola modello», che doveva produrre «alunni
modello»157. «Ebbene, non dovete vedere in nessun luogo cose che non vedete
di fatto; in nessun luogo dovete avere cose che non avete di fatto. Quel che si

152
Ivi, p. 116.
153
M. R. Cifarelli, op. cit., p. XIII.
154
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 14.
155
Ivi, p. 14.
156
Ivi, p. 17.
157
Ivi, p.16.

55
chiama Giusto non è che un’altra parola per dire Fatto». L’immaginazione,
tratto dell’infanzia che Dickens riteneva caratteristica essenziale umana,
doveva essere, secondo la teoria utilitarista catturata e «trascinata per i capelli
nei cupi antri della statistica»158.
In realtà la dottrina dell’Utilitarismo, nella rappresentazione che ne aveva dato
Bentham, era essenzialmente una filosofia morale: la quale, grazie ad una
metodologia tipica delle scienze fisico-matematiche, intendeva individuare e
formalizzare le norme e regole che determinavano i comportamenti e le azioni
umane. Posto che l’individuo non è soggetto di libera volontà ma è per natura
dominato da «due supremi padroni, il dolore e il piacere»159, il principio guida
di questi comportamenti e di queste azioni non può che essere proprio l’utilità,
intesa come la proprietà di produrre vantaggi e benessere, piuttosto che
svantaggi e infelicità.
Siccome la società era vista come la somma delle singole persone che la
componevano e poiché ogni individuo aveva l’unico scopo di perseguire il
proprio interesse, il benessere della società era la somma degli interessi dei
suoi membri. In conformità a questo assunto, un’azione sarebbe stata conforme
al principio di utilità quando la sua tendenza ad aumentare la felicità
complessiva della società avesse superato la tendenza a diminuirla. Questo
postulato prendeva il nome di massimizzazione dell’utilità e permetteva, in
quanto unico criterio interpretativo, di decidere in merito alle questioni socio-
politiche dell’economia, della legislazione civile e penale160.
La critica che era mossa alla filosofia utilitaristica da molti pensatori dell’età
vittoriana si fondava sul fatto che, a causa del suo riduzionismo matematico,
concepiva la vita solo come un’equazione da risolvere, e l’azione umana come

158
Ivi, p.16.
159
J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1789), Utet,
Torino, 1998, p. 89
160
Ivi, cit., pp. 90-91.

56
una semplice mossa di calcolo egoistica.
Dickens, nella sua personale e originale analisi dell’utilitarismo, si legava alla
tradizione romantica dell’umanesimo antirazionalista tipico di quella critica.
La dedica iniziale di Hard Times a Carlyle, è al riguardo significativa, perché
Carlyle era stato uno dei critici più radicali dell’età vittoriana. Contrapponendo
a essa l’elogio di un passato mitizzato, intriso di valori morali e di rettitudine,
Carlyle rifiutava una società in cui il meccanicismo aveva ormai affondato le
radici nelle più intime caratteristiche umane, fino a contaminarne lo spirito.
Così, ad una società meccanica basata sul principio di Utilità, contrapponeva
una società organica, una società vista cioè come un organismo vivente, come
un tutto inscindibile, la cui complessità non poteva essere ridotta alla semplice
somma delle singole parti, né calcolata in termini scientifici.
Secondo Carlyle, nell’«Età meccanica»161, «gli uomini sono dominati dai
meccanismi, nella testa e nel cuore, come nelle mani»162; l’unico ambiente in
cui si realizzavano le relazioni umane era diventato il mercato, e il solo legame
tra le persone era, ormai, il pagamento in contanti, in altre parole quello che
egli chiamava “Cash nexus”: i rapporti sociali autentici erano stati degradati al
solo «nesso economico»163.
Se Coketown rappresentava l’inveramento estremo del meccanicismo
denunciato da Carlyle, al mondo dominato dai Fatti Dickens contrappose la
vita del Circo equestre, la cui immagine quasi disturbava ideologicamente il
mondo di Gridgring164. La città, infatti, era organizzata secondo principi
improntati su una rigida stratificazione sociale: al vertice Bounderby e
Gradgring, i detentori, rispettivamente, dei mezzi di produzione e degli

161
T. Carlyle, Signs of the time, 1849, p.1. È possibile reperire il testo alla pagina web:
https://pdcrodas.webs.ull.es/anglo/CarlyleSignsOfTheTimes.pdf
162
Ivi, p. 4.
163
T. Carlyle, Passato e Presente, Bocca Editori, Torino, 1905, p. 243
164
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.128.

57
strumenti ideologici che danno accesso al potere; alla base le Hands, i
lavoratori, relegati nei luridi ghetti della città.
Il Circo equestre era, invece, la negazione di ogni gerarchia: i suoi membri
vivevano insieme in una comunità di tipo “libertaria”. I loro rapporti non erano
regolati dal principio di autorità o da vincoli di parentela; essi erano in
relazione fra loro per legami di solidarietà e sulla base delle abilità e delle
competenze individuali nello svolgimento degli esercizi in cui si esibivano.
Non esistevano gradi tra di loro, erano trasandati nel vestire e piuttosto
ignoranti per quanto riguardava la morale dell’epoca, ma erano dotati di un
bene più prezioso: il piacere di vivere insieme nel rispetto reciproco e la
capacità di stimolare l’immaginazione, così nelle acrobazie che facevano come
all’interno dei rapporti sociali della loro comunità165.
«Tutti ostentavano scaltrezza nelle cose del mondo, non erano molto ordinati
nel vestiario, e le loro situazioni familiari erano tutt’altro che trasparenti.
Quanto all’istruzione, a malapena sarebbero stati capaci, unendo i loro sforzi,
di comporre una letterina stenta, quale che fosse l’argomento. Eppure erano
gente di straordinaria dolcezza e ingenuità, assolutamente incapaci di qualsiasi
cattiveria, dotati di un’inesauribile disponibilità ad aiutarsi e consolarsi a
vicenda»166.
Il Circo, in questo modo, rappresentava un mondo che sfuggiva alle leggi e ai
valori che regolavano il sistema capitalistico, configurava una comunità al di
fuori della struttura sociale e delle classi. Questa contrapposizione, nonostante
la rappresentazione delle vicende dei circensi non abbiano tanto spazio
all’interno del romanzo, pone il modello alternativo di società di Dickens in
una posizione centrale, proprio perché rappresentava il contrappeso della «nota

165
M. T. Chialant, Il paradosso dickensiano: fact vs fancy, cit., p.
166
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p. 46.

58
dominante» di tutte le vicende raccontate: ossia i fatti167.
Il circo esprimeva la costruzione fantastica, la realtà che diventava finzione e,
viceversa, la finzione che si faceva realtà. Esso si poneva al di fuori di ciò che
si poteva sperimentare e calcolare: la sua estraneità rispetto a Coketown – resa
simbolicamente anche dalla sua dislocazione geografica «nella terra di nessuno
alla periferia della città»168- rappresentava la separazione dell’immaginario dal
reale e rimandava alla funzione autonoma dell’arte e alle capacità costruttive
della fantasia. Comunque, per quanto riguarda l’impressione di questo scontro
tra Fact e Fancy, se pur il Circo rappresentasse una possibile alternativa, non
aveva comunque la forza di sostituirsi alla Città, ma ne riusciva solo a mitigare
gli effetti più negativi169.
Questo mondo itinerante, trasgressivo e sempre in festa, si manifestava durante
gli spettacoli spensierati, effimeri e piacevoli, creando così uno spazio del
“diverso”, “dell’altro” per eccellenza. Ciò che nei fatti contraddistingueva i
circensi era la loro capacità comunicativa, la loro suprema dote di dare forma
all’inespresso per mezzo del loro linguaggio immaginario, creativo ed estetico.
Così la dicotomia tra Fact e Fancy fa da sfondo a tutti gli intrecci delle vicende
che sono tessute da Dickens che, nel loro svolgimento, sembrano quasi cercare
un punto di sintesi tra le due “realtà” opposte.
Attraverso la caratterizzazione dei personaggi, sono messi sotto accusa non
soltanto il sistema industriale e la dottrina utilitaristica, ma anche alcune
modalità di comportamento e precisi modelli culturali. Ne sono un esempio la
mancanza di sentimento e la rapacità di Bounderby, che non sono solo i
requisiti stereotipati del capitalista-industriale della prima metà del ’800, ma
mostrano anche la componente psicologica di un uomo che quel sistema aveva

167
Ivi, pp. 107-108.
168
Ivi, p.18.
169
M. T. Chialant, "The Romantic Side of Familiar Things", cit., pp. 15-17.

59
reso inadatto ad amare: egli non è in grado di provare sentimenti, ha l’unica
capacità di valutare in cifre ciò che può essere “giusto” e ciò che può essere
“sbagliato”; oppure l’assoluta incapacità di immaginazione degli abitanti di
Coketown, presi nella loro massa come classe oppressa, ma alienati, secondo
l’autore, proprio perché era stata estirpata da loro ogni forma di sogno e di
spensieratezza, «costretti a lottare per sopravvivere»170.
La fine del romanzo non sembra offrire alcuna sintesi tra i due termini di
confronto, tra i Fatti e l’Immaginazione, così come non offre altre soluzioni
(non lo potevano certo essere né il Circo né, tanto meno, i sindacati operai) per
riformare una società ormai ricca sì, ma di sofferenze e ingiustizie. La
dicotomia tra Fact e Fancy era tanto innegabile quanto sembravano irrisolvibili
tutte quelle contraddizioni all’interno della società che viveva l’autore.
Così Tempi Difficili si chiude prefigurando un futuro dominato dal “culto dei
Fatti”, ma nel quale ogni singolo individuo dovrebbe riuscire a costruirsi una
propria capacità di immaginazione, come condizione non per realizzare un
mondo diverso ma almeno per offrire, a chi ne aveva lo spirito, la possibilità
di provare ancora qualche sentimento. Secondo l’autore era questa l’unica
strada per restituire all’uomo la coscienza della propria identità, evitando che
egli si riduca a essere semplicemente riflesso del dominio della macchina e
della realtà industriale che si stava allora imponendo sulla Storia.

170
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., p.34.

60
3 Our Mutual Friend: il mondo disgregato

3.1 Dickens e il dark novel

L’ultima fase della produzione narrativa di Dickens fu caratterizzata da una


maggior insofferenza rispetto alle ingiustizie prodotte dalla società moderna,
ovvero una maggior consapevolezza rispetto ai mali del mondo, producendo
un cambiamento che si muoveva di pari passo al mutare dell’intera realtà.
L’evoluzione della visione creativa, caratterizzata da una molteplicità di
prospettive, mostra la capacità dell’autore di impersonarsi nella condizione di
vita di diversi status sociali. In questo modo, la letteratura di Dickens appare
non solo come un sintomo della sua condizione psicologica, ma anche il mezzo
stesso con cui egli apprende, crea se stesso e, in qualche modo, modifica la sua
vita171.
Infatti, proprio nell’ultima parte della sua carriera sembra affiorare un senso di
rifiuto nei confronti di una società che sembrava ormai inesorabilmente in rotta
verso la totale distruzione di tutti i valori morali più genuini. In particolare, a
partire da Bleak House fino ad Our Mutual Friends, affiora dalle sue pagine
una sempre maggior sofferenza, una sorta di “nichilismo” che sembra aver
raggiunto una condizione di totale disfattismo rispetto a qualsiasi possibilità di
cambiamento di una società profondamente ingiusta172.
Prendendo in considerazione l’intera produzione narrativa di Dickens come

171
J. H. Miller, op. cit., p. IX.
172
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p.
VIII.

61
una sorta di testimonianza storica, culturale e sociale della metà del ‘800
inglese, proprio Hard Times e Our Mutual Friend assumono, per motivi
diversi, una particolare rilevanza. Il primo poiché offre a livello descrittivo una
profonda messa in discussione del sistema industriale e delle condizioni di vita
che produce; il secondo in quanto si pone come una più ampia fotografia della
società vittoriana nel suo complesso, mostrando anche la maggior maturità
dello scrittore nel direzionare la propria critica, qui incentrata sull’indifferenza
e sulla superficialità delle classi più ricche, direttamente responsabili dello
sfruttamento e delle sofferenze del resto della popolazione173.
Partendo da una visione retrospettiva, proprio Our Mutual Friend (pubblicato
tra il 1864 e il 1865), la sua ultima opera compiuta (The Mystery of Edwin
Drood restò infatti incompleto a causa della morte dello stesso autore),
permette di comprendere meglio l’evoluzione del romanziere, sempre più
caratterizzata da una visione oscura e amara dell’esistenza, tale da poter
inserire il romanzo nella categoria del dark novel174. La cupezza che traspare
dall’opera di Dickens è stata associata al più generale contesto pessimista che
caratterizzava la fase centrale della cultura vittoriana, ma, allo stesso tempo, è
stata considerata anche conseguenza dello sguardo più critico attraverso il
quale l’autore inquadrava la realtà, all’interno del suo sforzo verso un maggior
impegno sociale175.
«La tempesta passò, la luna lottò con le nubi veloci e il disordine sfrenato che
regnava lassù rendeva trascurabili i meschini tumulti nelle strade. Non che il
vento avesse spazzato tutti gli schiamazzatori in luoghi appartati, come aveva
fatto con la grandine che si ammucchiava ancora dovunque era riuscita a
rifugiarsi; ma era come se il cielo avesse assorbito la città e la notte fosse tutta

173
R. Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese, cit., p. 87.
174
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, in M. T. Chialant - C.
Pagetti, La città e il teatro, cit., p. 231.
175
C. de Stasio, op. cit., pp. 123-124.

62
sospesa nell’aria»176.
In particolare questo romanzo è stato collocato tra il novel realistico, caro alla
tradizione vittoriana, e il romance fantastico e avventuroso, con l’obiettivo di
mettere in risalto la capacità creativa dell’autore nel riprodurre e rigenerare gli
eventi della vita quotidiana, prendendo spunto dalle molteplici attività umane
che davano vita alla City177. L’intera opera è avvolta da un forte senso di
negatività: «appena si trovò sotto il cielo fosco, le parve che un’atmosfera di
tenebre e di delitto le piombasse addosso»178. L’autore, tramite il dark novel,
cerca di rappresentare una condizione di sospensione tra la vita e la morte, tra
la spontaneità naturale degli individui e l’artificialità dei meccanismi narrativi,
di cui appunto trasuda il complicato e sfilacciato intreccio narrativo di Our
Mutual Friend179. Un soliloquio di John Harmon racchiude l’intima
malinconia del protagonista e l’atmosfera tetra che traspare da alcune pagine
del romanzo: «È una sensazione che pochi mortali hanno provato: quella di
guardare dentro un cimitero, in una notte tempestosa e pensare di non occupare
più un posto tra i vivi, alla stessa stregua di quei morti […]. Uno spirito, che,
un tempo fu un uomo, se vagasse non riconosciuto fra i mortali, non potrebbe
sentirsi più solo e straniero di me»180.
Più in generale, un filone di critica dickensiana avvicina l’opera ad altri due
grandi romanzi che vanno a interessare gli ultimi dieci anni di produzione
letteraria dell’autore: Bleak House (1852-1853) e Little Dorrit (1855-1857). In
questa “trilogia” sono stati rintracciati dei tratti comuni, quali per esempio
l’utilizzo del mistero come punto chiave della trama e lo svolgersi di eventi

176
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 201.
177
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p.
XIII.
178
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 92.
179
Ivi, p. XVII.
180
Ivi, p. 462.

63
tragici e drammatici, ovvero alcune scelte tecnico-stilistiche181.
Dopo il clamoroso successo registrato con la pubblicazione di David
Copperfield nel 1850, Dickens riprese la sua attività di romanziere con Bleak
House nel 1852, arrivando a pubblicare fino al 1860 addirittura un romanzo
l’anno (senza considerare i Racconti di Natale e altri scritti minori confluiti in
The Uncommercial Traveller). Nel 1859, all’avvio del nuovo periodico «All
the Year Round» si aggiunse la redditizia ma estenuante serie di letture che,
unite ad alcuni gravi problemi familiari – oltre che sentimentali– influirono
sulla sua attività di romanziere. Infatti, Dickens ebbe qualche difficoltà a
portare a termine A Tale of Two City e solo con grande sforzo, spinto
dall’esigenza di sostenere le vendite del periodico, riuscì a completare la
pubblicazione di Great Expectations nel 1861, il quale, per il successo
ottenuto, assicurò la definitiva affermazione della sua rivista. A causa di quanto
detto, Dickens fu costretto a diradare i tempi di composizione dei suoi romanzi:
passarono tre anni prima che comparisse la prima puntata di Our Mutual
Friend e altri quattro dalla conclusione di quest’ultimo perché iniziasse la
stesura di The Mistery of Edwin Drood.
Difatti, negli anni si è sviluppata una tanto ampia quanto contrastante critica
dell’autore e della sua ultima fase narrativa. Our Mutual Friend è stato, fra tutti
i romanzi di Dickens, quello che ha portato alla luce le opinioni più discordanti.
La valutazione di questo romanzo da una parte è diventata una critica all’ultima
parte di carriera dell’autore, visto da alcuni studiosi come un romanziere le cui
capacità narrative erano allo stremo e che continuava nella sua opera
esclusivamente per mantenere prospere le vendite; dall’altra, ha comportato
una più generale rivalutazione non solo della singola opera, ma dell’intero
lavoro dell’autore.

181
F. M. Casotti, Il Ventaglio di Lady Tippins. Our Mutual Friends di C. Dickens, Il Segno
Edictrice, Verona, 1984, p. 11.

64
La verità è che vi è stata, dagli anni quaranta del ‘900, una svolta negli studi di
critica alla narrativa dickensiana, segnata da una pubblicazione di Edmund
Wilson intitolata Dickens: The two Scrooges. Il saggio intendeva prendere in
esame i giudizi negativi espressi nei decenni precedenti, per ridare al
romanziere inglese il giusto riconoscimento, esaltando le sue capacità
artistiche e di critico sociale. Secondo Wilson l’arte di Dickens stava proprio
nel riuscire a cogliere i nuovi aspetti di una realtà sociale sempre più complessa
e inquietante e, dunque, difficile da decifrare narrativamente182. Questo punto
di vista comportò, in particolare, anche una rivalutazione di Our Mutual
Friend, poiché cercava di reinserire l’autore all’interno delle sue vicende
umane e nel drammatico contesto dei cambiamenti socio-politici legati al
primo periodo dell’era industriale183.
In linea di massima, furono soprattutto i critici statunitensi di stampo marxista
a celebrare l’importanza letteraria di Our Mutual Friend, analizzando la
condanna severa e irriducibile di Dickens alla società vittoriana. Il critico
marxista T. A. Jackson, tracciando il cammino di Dickens, piccolo borghese,
verso la simpatia per le masse, individuò proprio nei romanzi della maturità e,
soprattutto, in Our Mutual Friend, il suo atto di accusa più diretto ed efficace
contro il capitalismo e il modo di vita della società borghese: «contrasti di
classe, antagonismi di classe, odio di classe, disprezzo di classe si intrecciano
nel tessuto più profondo di Our Mutual Friend»184.
In generale, porre Dickens all’interno della categoria dei romanzieri sociali

182
E.Wilson, Dickens: The two Scrooges, in The Wound and the Bow in Seven Studies in
Literature, Houghton Mifflin Company, Cambridge, 1941, p. 1.
183
Ivi, p.75.
184
T. A. Jackson, Charles Dickens: The Progress of a Radical, H. H. Publishers, New York,
1971, p. 204. Tuttavia, proprio la mancanza di un’approfondita conoscenza dell’epoca
vittoriana ha portato alcuni intellettuali a radicalizzare la figura di Dickens, cogliendo
esclusivamente la sua contrapposizione alle istituzioni e alla società del tempo; vedi, F.
M. Casotti, op. cit., p. 28.

65
comportò una visione del romanzo libera da pregiudizi. Ciò permise che il
giudizio positivo si spostasse dal piano dei contenuti al piano della struttura e
della composizione del testo, con riguardo alla complessità della trama e alla
costruzione psicologica dei personaggi, ritenute punti essenziali per
comprendere la visione dell’autore. Così, Our Mutual Friends diventava
sempre più l’affresco tangibile di una realtà sociale intrisa dei valori borghesi
incastonati tra immagini e simboli nel grande quadro della Londra vittoriana185.
Un contributo fondamentale in tal senso è stato lo studio J. H. Miller che,
tralasciando ogni parallelo con le opere precedenti, sottolineava la portata
innovativa che proprio l’ultimo romanzo aveva nella narrativa dickensiana: per
la prima volta Dickens aveva abbandonato la ricerca di unità strutturale e
tematica e, minando le basi della tradizione del romanzo realistico inglese,
aveva cercato di ritrarre le vicende umane nei meandri di un cupo e torbido
agglomerato urbano della Londra caput mundi186.
Our Mutual Friend, nella sua complicata e macchinosa struttura narrativa,
rimane un romanzo originale rispetto alle precedenti opere di Dickens, seppur
ne mantenga alcuni aspetti stilistici e ne evolva altri: per esempio il racconto
del mistero, già ampiamente utilizzato in precedenza (come in Oliver Twist o
in Little Dorrit), diventa in Our Mutual Friend la base su cui si intrecciano
tutte le vicende e l’atmosfera predominante di tutto il romanzo. Considerata
all’interno della narrativa dickensiana, si tratta di un testo sperimentale in cui
l’autore cercò di adattare un genere di narrativa popolare, come il racconto

185
Ivi, p. 25.
186
J. H. Miller, op. cit., p. 293. Per avere una visione più chiara possibile della raccolta
narrativa di Dickens, è necessario avere uno sguardo complessivo sul suo intero lavoro e
considerarlo a partire dal fatto che è rimasto incompiuto, come d'altronde è rimasta tale
la sua ultima opera. Studiosi come Casotti, pongono, dunque, l’accento sull’importanza
di saper collocare Our Mutual Friend non all’inizio o alla fine di un ciclo narrativo,
bensì nell’ambito di un elaborato e cosciente processo evolutivo del suo autore; vedi F.
M. Casotti, op. cit., p. 31.

66
detective, alle esigenze di una struttura molto complicata e ricca di simbolismi,
in una dimensione quasi terrificante e pervasa d’angoscia e incubi187.
Questa ricostruzione positiva dell’opera dickensiana era appunto in risposta
alle critiche che, nei decenni successivi alla pubblicazione di Our Mutual
Friends, avevano etichettato l’autore come un semplice intrattenitore popolare
il cui successo era legato soltanto al passato della sua fama. A tale stregua,
proprio l’ultimo romanzo sarebbe l’esempio più palese dell’affievolirsi
dell’impulso creativo: una storia complicata, ricca di avvenimenti misteriosi e
stupefacenti colpi di scena, ma trascinata con un inverosimile e
apparentemente sbrigativa conclusione delle vicende. Dickens, insomma, si
sarebbe proposto di scrivere un lavoro impegnativo e difficile che poi non
sarebbe stato in grado di portare a termine a causa della sua crisi come
romanziere, travisando così la trama e ricorrendo a facili effetti e colpi di scena
che hanno ridimensionato il disegno iniziale; tutto ciò a solo vantaggio della
popolarità del romanzo e dell’andamento delle vendite di «All the Year
Round»188.
Nel 1865, in una recensione su «The Nation», Henry James fu il primo a
scagliarsi contro Dickens, estendendo la sua critica negativa anche ad altri
lavori: «Our Mutual Friend è, per la nostra percezione, il più povero dei lavori
di Dickens. Ed è povero non con la scarsità derivante da un momentaneo
disagio, ma da una stanchezza permanente. Esso manca d’ispirazione. È
sembrato che Dickens, negli ultimi dieci anni, fosse stato inequivocabilmente
costretto a scrivere: Bleak House era forzato; Little Dorrit era affannoso; il
presente lavoro è scavato come con una vanga e un piccone»189. In definitiva,
James accusava Dickens di aver costruito un romanzo deprimente e

187
Ivi, pp. 30-31.
188
Ivi, p. 41.
189
H. James, Henry James's revew on Our Mutual Friends, in “The Nation”, dicembre
1865.

67
superficiale, in cui i personaggi erano delle semplici figure statiche e
passive190: «i personaggi menzionati non hanno nulla a che vedere con
l’umanità nel suo complesso. Che mondo sarebbe il nostro, se il mondo di Our
Mutual Friend ne fosse un riflesso onesto! Infatti una comunità di eccentrici è
impossibile»191.
E non diversamente Gissing riteneva l’intreccio troppo complicato, tale da
rendere al lettore difficile la comprensione degli sviluppi dei vari personaggi;
inoltre una conclusione risolta con sofisticati trucchi e coincidenze, secondo
l’intellettuale inglese, non dava seguito all’impressionante genialità dell’autore
dimostrata nei romanzi precedenti: «Nessuno dei suoi libri è così aperto a
essere accusato di noiosa superficialità come Our Mutual Friend [….]. Una
trama dipendente da ogni sorta di circostanze fantastiche, si svolge con triste
elaborazione e sicuramente non delizia nessuno»192.
Ancora, a inizio ‘900, Chesterton affermava che Dickens, con la sua ultima
opera, si era definitivamente affermato come scrittore popolare per
accontentare i gusti del suo pubblico, abbandonando così l’atteggiamento da
intellettuale impegnato che l’aveva contraddistinto in alcune opere precedenti,
in cui, oltre a specifiche scelte stilistiche, sembrava aver intrapreso una più
efficace critica sociale. Chesterton definì il titolo dell’ultima opera dickensiana
addirittura illetterato193. È un fatto che, in generale, i giudizi più negativi
sull’ultima opera dickensiana, si sono limitati a confrontare la trama e i
personaggi dell’ultimo romanzo con quelli precedenti194.
Alla luce di queste diverse considerazioni, sembra utile dare spazio a una

190
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p.
XII.
191
H. James, op. cit., p. 2.
192
G. Gissing, Charles Dickens: a critical study, Blackie & Son, Londra, 1898, p. 59.
193
G. K. Chesterton, Charles Dickens. A critical study, New York, Dodd Mead & Company,
1906, pp. 158-159.
194
F. M. Casotti, op. cit., p. 20.

68
valutazione specifica di Our Mutual Friend, cogliendo i vari aspetti che
all’autore premeva mettere in risalto, senza relegare la sua ultima opera alla
svogliata e frettolosa attività di pubblicazione e, allo stesso modo, senza
slegarla totalmente dai suoi lavori precedenti.
Al riguardo ci sono due punti che, nella critica a Our Mutual Friend e, più in
generale, all’ultimo periodo di Dickens, meritano di essere obiettati: la
mancanza di unità della trama e la conclusione a “lieto fine” (sbrigativa e
risolta come in una fiaba). Per quanto riguarda il primo punto, Our Mutual
Friend è realmente un intreccio frammentato, un racconto spezzettato di una
storia multipla che si svolge sullo scenario di una società sconnessa. La verità
è che la stessa struttura del testo sembra voler riflettere la visione della realtà
che aveva l’autore: un mondo in cui il senso di unità è ormai stato disgregato,
dissolto in mille particelle che si muovono impazzite, così come sono
frammentate le storie dei personaggi e i loro stessi stati d’animo195.
L’accostamento di brevi parti di storie diverse che poi vanno ad intrecciarsi, ad
interrompersi per poi nuovamente ricongiungersi, crea un’impressione di
disorientamento e disconnessione che neanche la progressiva ricomposizione
della trama riesce a dissipare totalmente. I personaggi stessi, in vario modo,
cercano una loro unità esistenziale, scissi nel proprio io, senza un controllo
sulla propria vita, inseriti in un turbinio di eventi il cui nesso più profondo è
incomprensibile, come fossero marionette in mani altrui196.
Lo studioso statunitense J. H. Miller commenta così questo aspetto: «Il
narratore rispetta la particolarità irriducibile di ogni personaggio o gruppo. La
tecnica strutturale di base del romanzo è la completa trasformazione di tono e
di scenario di capitolo in capitolo. Our Mutual Friend, ancor più di Bleak
House, potrebbe essere paragonato a un collage cubista. La sua struttura è

195
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, op. cit., p. 222.
196
Ivi, p. 235.

69
formata da un avvicinamento di frammenti incompatibili in uno schema di
disarmonia o di reciproca contraddizione»197.
Sul frammento insiste ogni livello del romanzo, dalla spezzettatura della
struttura alla variabilità stilistica e sintattica, come si può notare anche dalla
molteplicità dei punti di vista utilizzati: lo scrittore riesce a creare un continuo
passaggio da una prospettiva esteriore e globale, quella del narratore, a una
interiore, legata alle prospettive limitate e angosciose dei singoli198.
La negazione dell’unità è, quindi, un fenomeno talmente essenziale nella
struttura narrativa di Our Mutual Friend, che non può essere esclusivamente
considerato come un effetto collaterale della scrittura dickensiana,
riconducibile all’incapacità dell’autore di sviluppare la trama. La
frammentazione nel testo è una “nota dominante”, una scelta consapevole da
parte del romanziere, una strategia testuale in grado di esplicare la sua visione
del mondo e della letteratura. Per mettere a fuoco la funzione della
frammentazione è importante il ruolo di un personaggio presente nell’opera:
Mr Venus l’impagliatore.
Mr Venus raccoglie, nella propria lugubre bottega, brandelli differenti, ma
accuratamente ordinati e classificati, di vita umana e animale, per arrestarne
con alcool e formalina il naturale decadimento cui sono destinate tutte le cose
vive. Così si presentava la bottega del signor Venus, disseminata da una
miriade di parti anatomiche diverse: «ossa di tipi vari; crani di tipi vari. Un
neonato indù, conservato nell’alcool. Idem africano. Preparati in bottiglie di
vario genere. Tutto quello che è a portata di mano è in un buono stato di
conservazione. […] Pezzi vari di corpo umano. Gatti. Lo scheletro di un
neonato inglese. Cani, anatre, occhi di vetro di ogni colore. Un uccello

197
J. H. Miller, op. cit., p. 285.
198
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, cit., p. 223.

70
mummificato, epidermidi disseccate di specie diverse […]»199. La sua «arte
senza pari»200 è quella di preservare dall’oblio questi frammenti di vita, ridando
ordine ed unità a ciò che è sconnesso.
Il fatto che la presenza di questa figura non abbia nessuna rilevanza nello
svolgimento della trama, rende ancora più chiaro il suo ruolo e il problema
centrale di tutto il testo. La sua funzione è proprio quella di ricomporre, con la
sua arte di imbalsamatore, i vari pezzetti che ormai non hanno più, di per sé,
alcun senso. Allo stesso modo il narratore «rimette insieme sui fili l’intera
struttura della società»201, articolandoli secondo la propria logica e abilità, nel
tentativo di riprodurre la vita. Ma la pazienza e la minuziosità dell’artista non
potranno mai evadere dall’artificiosità della sua opera e, perciò, non potranno
che riprodurre soltanto una parvenza di vita.
La funzione ordinatrice e compositiva sia del narratore sia dell’impagliatore
Mr Venus (il cui nome, storpiato, ricorda quello di Venere, la dea della
bellezza)202 si può rintracciare anche in un’altra figura del romanzo, Jenny
Wren, la sartina delle bambole. Anche lei usa per materia prima «avanzi e
frammenti»203, materiali di scarto, secondo una propria logica compositiva, che
riprende dalla realtà le vicende umane, selezionando e piegando alla propria
arte ciò che osserva: «noi artisti, che viviamo del nostro gusto, delle nostre
trovate, dobbiamo tenere sempre gli occhi aperti»204.
«Io scivolo tra la folla e mi guardo attorno. Quando scorgo una gran dama
adatta al mio caso […] la osservo in tutti i particolari, poi corro a casa, taglio
e imbastisco. […] Quando (le signore) scendono dalle carrozze per entrare nel
salone e vedono spuntare la mia personcina, sotto la pioggia, dietro la

199
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 107.
200
Ivi, p. 109.
201
Ivi, p. 606.
202
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, cit., pp. 236.
203
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 357.
204
Ivi, p. 924.

71
mantellina di una guardia, forse credono che le stia ammirando meravigliata
[…], e non pensano affatto che invece stanno lavorando per le mie
bambole»205.
Entrambi questi personaggi non pretendono di ricostruire l’unicità perduta del
mondo, sono ben consapevoli che la loro opera non è altro che un artificio, una
rappresentazione estetica della realtà che crea soltanto un simulacro di unità.
In questo modo essi non esaltano i poteri della loro arte, bensì ne mostrano i
limiti intrinsechi: Mr Venus lavora sulla morte per cercare di riprodurre la vita,
ma in fin dei conti la sua formalina può solo rendere eterna la morte; mentre,
di riflesso, Jenny Wegg replica in miniatura «tutti gli avvenimenti lieti della
vita»206, ma non può rappresentare una sua parte fondamentale, la morte.
Entrambi si trovano, dunque, a ricomporre, con la loro opera, l’organicità
disgregata, così come il narratore si sforza di ridare unità alle vicende
raccontate, frammentate in una miriade di parti: il personale lavoro di
ricomposizione può solo essere un artificio, una consapevole manipolazione
degli eventi che rimane inevitabilmente parallela alla realtà e distante da essa.
Su questo nodo s’interseca il secondo punto d’analisi: il significato della fiaba
e la funzione del “lieto fine” da Mille e una Notte -fiaba più volte richiamata
nel romanzo- con cui si conclude Our Mutual Friend. Il narratore, per portare
a termine la storia deve mettere arbitrariamente mano ai suoi personaggi, deve
forzare l’intreccio perché “tutto torni”: deve creare, con l’artificio, l’unità che
nella realtà non esiste.
La violazione della logica interna alle varie storie e le coincidenze inverosimili
sono quei colpi di scena che portano allo scioglimento della trama in un clima
di totale ottimismo, in cui magicamente il narratore distribuisce premi e
punizioni, affermando i “veri valori” dell’amore, del disinteresse e dell’onestà.

205
Ivi, p. 553.
206
Ivi, p. 606.

72
Questo eccesso di positività appare, però, sin troppo stridente rispetto a tutto il
resto del romanzo, dove angoscia, morte e mistero dettano i tempi del racconto.
L’ottimismo imperante diventa così lo stratagemma del narratore che, per dare
un senso unitario alle vicende, deve usare un espediente, consapevole che
l’unità dissolta non si potrà mai ricomporre altrimenti, così nel romanzo come
nella realtà207.
Per concludere, la struttura del romanzo, la stessa funzione “artistica” del
narratore, sembra costruita per racchiudere dentro di sé la chiave strategica del
testo. I conflitti nel romanzo possono trovare una soluzione solo attraverso la
finzione pura, creando un mondo che può esistere solo nel desiderio e
nell’immaginazione208. Così, la messa a nudo esplicita del meccanismo della
fiaba utilizzato dall’autore diventa una critica panoramica dell’intera società.
In questo modo Dickens rivendica l’importanza della fantasia pura come
mezzo di liberazione degli individui dall’inaridimento spirituale. La
manipolazione artistica degli eventi della vita quotidiana rappresenta, in altri
termini, uno specchio dei tempi e assume la rilevanza di veicolo di protesta
contro i concreti mali della società209.

207
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p.
XXII.
208
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, cit., pp. 243-245.
209
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. V.

73
3.2 La trama del romanzo

Il romanzo si articola in quattro libri, suddivisi in diciassette capitoli, tranne il


secondo che ne conta sedici. La trama può essere semplificata in due plot
principali delle coppie John Harmon-Bella Wilfer e Eugene Wrayburn-Lizzie
Hexam, a cui si aggiunge il blocco dedicato alla «Voce della Società»210 e tutti
i fili secondari che si diramano e si intersecano alle storie principali211.
Il vecchio Harmon, che ha ammassato un enorme patrimonio raccogliendo
rifiuti, muore mentre il figlio John è all’estero. Nel testamento egli lascia una
piccola parte della sua fortuna ai fedeli servitori, Mr e Mrs Boffin, e tutto il
resto al figlio, a condizione che sposi la signorina Bella Wilfer. Quando John
Harmon giunge a Londra si imbatte in una banda di ladri; viene aggredito,
derubato e gettato nel Tamigi: non muore ma, approfittando
dell’identificazione errata di un cadavere, si nasconde dietro i falsi nomi prima
di Julius Handford e poi di John Rokesmith, per prendere tempo prima di
accettare la moglie predestinata dal padre. John, nei panni di Rokesmith, cerca
di avvicinarsi a Bella e riesce a ottenere il ruolo di segretario dai Boffin,
amministrando l’immenso patrimonio Harmon. Mr Boffin prende sotto la sua
protezione Silas Wegg, un ciarlatano che dovrebbe aprirgli le porte della
cultura e della letteratura, ma che in realtà lo sfrutta e, in seguito, cercherà di
ricattarlo.
Desiderosi di usare il denaro a scopi benefici i Boffin cercano di adottare un
orfano, ma il bambino muore prima ancora di essere adottato. Intanto, anche
Bella Wilfer è invitata a trasferirsi nella nuova lussuosa residenza dei Boffin.
Frequentandola, Rokesmith finisce con l’innamorarsene ma la capricciosa

210
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 1025.
211
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, cit., p. 217.

74
ragazza rifiuta la sua corte ritenendolo troppo povero perché pretenda la sua
mano. Solo con un astuto stratagemma, ideato dal giovane Harmon insieme a
Mr Boffin, che intanto l’aveva riconosciuto, Bella cambia idea: Boffin finge di
essere abbagliato dalla ricchezza e recita la commedia dell’avaro, maltrattando
e insultando il suo segretario, arrivando a licenziarlo. Bella, in questo modo,
ha davanti ai suoi occhi gli effetti disastrosi della ricchezza sull’animo umano
e decide così di andare via dalla lussuosa dimora per sposare John. La recita di
Mr Boffin serve anche a far fallire il diabolico piano di Silas Wegg, che
intendeva derubarlo di una parte dell’eredità. Una serie di incontri e di incidenti
permetteranno a Bella di scoprire che in realtà ha sposato John Harmon che,
così, può entrare in possesso dell’eredità paterna.
Parallelamente alle vicende di Bella Wilfer e John Harmon, si svolge un’altra
storia d’amore, anch’essa drammatica e complicata. Il cadavere del presunto
John Harmon era stato ritrovato dal barcaiolo Gaffer che aveva due figli,
Charley e Lizzie. Dopo la morte del padre, Charley, che aspira ad una migliore
posizione sociale, viene preso sotto l’ala protettrice di Bradley Headstone, un
maestro che educa e inserisce il giovane nell’ambiente scolastico. Lizzie
intanto conosce l’avvocato Eugene Wrayburn e, per sfuggire alle attenzioni di
quest’ultimo e alle richieste di matrimonio di Headstone, entrambi innamorati
di lei, si rifugia prima da Jenny Wren, la sarta delle bambole alle prese con la
miseria e con un padre alcolizzato, e poi fuori Londra, trovando lavoro in una
cartiera. Dopo un certo tempo Wrayburn riesce a trovare Lizzie ma viene
gravemente ferito da Headstone mentre si reca a trovarla. La giovane ragazza
trae in salvo l’avvocato e lo sposa in ospedale quando sembra in punto di morte
ma Wrayburn si salva e riesce a guarire.
A queste due storie d’amore, fa da sfondo una terza serie di episodi che si
riallaccia al mondo della buona società. Tra pranzi, ricevimenti e cerimonie, i
quali sono sempre celebrati da Lady Tippins, una pettegola altolocata, e Melvin

75
Twemlow, un nobile in miseria, matura l’impresa di Mr Veneering, che viene
eletto in Parlamento. Quest’esperienza finisce ingloriosamente a causa di
speculazioni sbagliate e disoneste mentre Mr Podsnap, un altro tipico
rappresentante del mondo degli affari, prospera e consolida la sua posizione. Il
romanzo si chiude con un ultimo pranzo in società, durante il quale vengono
commentate le vicende scaturite dalla misteriosa scomparsa e ricomparsa di
John Harmon.

76
3.3 La Londra di Dickens

«Vado per strade trafficate,


vicino dove il Tamigi scorre appaltato
e annoto in ogni volto incontrato
segni di debolezza, segni di dolore.
In ogni lacrima di ogni uomo
d’ogni bimbo nella paura, nel pianto
in ogni voce, in ogni maledizione
sento le manette che la mente ci inventa.
Il pianto dello spazzacamino atterrisce
ogni chiesa che diviene nera
e il sospiro del soldato sventurato
fluisce come sangue dalle mura del palazzo.
E nelle strade di mezzanotte sento
soprattutto la giovane prostituta che impreca
maledice la lacrima del bimbo appena nato
i letti degli sposi rende tormentosi, sterili»212

L’intera opera di Dickens ci offre uno sguardo sulla Londra di metà ‘800, una
città che, nel pieno dell’età vittoriana, si affermava definitivamente come il
centro del potere politico, finanziario e culturale dell’impero inglese. Da Oliver
Twist fino a Bleak House e Our Mutual Friend, Dickens disegna una “mappa”
della City, esplorata durante le sue lunghe passeggiate, in cui coglieva stimoli

212
Poesia di William Blake, Londra.

77
e prendeva ispirazione per costruire i luoghi e i personaggi dei suoi romanzi,
riuscendo a tradurre la caotica vita londinese all’interno del proprio spazio
narrativo. I disegni precisi e quasi meticolosi delle scene di quotidiana povertà
non sono stati un’invenzione dell’autore, bensì ritagli della realtà riprodotti dal
romanziere, che andavano così a costruire la stessa memoria “storica” della
Città213.
La Londra di Oliver Twist, per esempio, è una città infernale, imprigionata
nella nebbia e nel fango, un labirinto di strade e canali in cui tutte le brutture
umane vengono a galla. «In vita sua non aveva mai veduto un luogo più sudicio
e più miserabile. La viuzza era molto stretta e fangosa, e odori nauseabondi
impregnavano l’aria. Si vedevano numerose piccole botteghe, ma l’unica
merce in vendita sembrava consistere in un’infinità di bimbetti […]. Passaggi
a volta, che si diramavano qua e là dalla viuzza, e cortiletti rivelavano
catapecchie ove uomini e donne, tutti ubriachi, sguazzavano letteralmente nella
sporcizia; e da molte porte uscivano, guardinghi, individui dall’aspetto poco
raccomandabile che, stando a tutte le apparenze, si accingevano a imprese
disoneste»214.
Dickens è considerato il primo ad aver utilizzato una tecnica di scrittura che,
pur entrando nel particolare e mantenendo la frammentazione dei vari “pezzi”
urbani, gli ha permesso di costruire una visione complessiva e d'insieme della
City: West End e East End, la città dei ricchi e la città dei poveri, il centro
finanziario e lo slum. Le palesi disparità sociali non potevano essere ignorate
e nascoste da chi cercava di osservare con occhio critico la realtà215.
«A Londra era una giornata nebbiosa, di una nebbia scura e pesante. La parte
animata della città, con gli occhi arrossati e i polmoni irritati, sbatteva le

213
R. Runcini, Dal resoconto al racconto: le origini giornalistiche della scrittura
dickensiana, op. cit., p. 17. p. 46-47
214
C. Dickens Le avventure di Oliver Twist, cit. p. 71.
215
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., p. 146.

78
palpebre, ansimava, respirava a fatica […]. Anche nella campagna circostante
era una giornata nebbiosa; ma qui la nebbia era grigia; mentre a Londra era
d’un giallo intenso alla periferia, marrone un po’ più all’interno, poi sempre
più scura, finché nel cuore della City – che chiamiamo Saint Mary Axe- era di
un nero stinto. Da qualsiasi punto della cerchia di alture a nord, si sarebbe
potuto vedere che gli edifici più alti lottavano di tanto in tanto per far uscire il
capo da quel mare caliginoso; e specialmente la cupola di Saint Paul pareva
dura a morire. Ma tutto questo non era visibile dalle strade ai loro piedi, dove
la metropoli intera non era altro che una massa di vapori, piena del rumore
attutito delle ruote e di un gigantesco catarro»216.
La scelta di Dickens di prediligere l’ambiente cittadino come spazio narrativo
si fonda essenzialmente sul fatto che Londra era lo specchio delle
trasformazioni sociali ed economiche in atto, in quanto protagonista assoluta
del passaggio alla modernità. In questo modo, l’autore non solo è diventato
testimone di una parte di storia della Città, ma, più in generale, è riuscito a
rappresentare l’evolversi di un’intera epoca, osservandola dal cuore del
sistema217.
A partire dagli inizi del XIX secolo l’industrializzazione aveva ormai tracciato
i suoi primi passi e si apprestava a stabilirsi definitivamente come unico
modello produttivo: Londra rappresentava il fulcro finanziario e politico di
questo passaggio storico all’insegna del progresso e della macchina. Con lo
sviluppo economico si assistette al processo di disintegrazione e
ricomposizione dello spazio urbano in base ai bisogni produttivi, all’aumento
della popolazione e, di conseguenza, alle problematiche derivanti dalla
spropositata espansione edilizia (come il sovraffollamento, l’addensamento
urbano e le condizioni antigieniche). In pochissimi decenni, Londra era

216
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 533.
217
M. T. Chialant-C. Pagetti Dickens e la critica, op. cit., p. 17.

79
raddoppiata per estensione e numero di abitanti, come del resto tutto il Paese,
dove nella prima metà del ‘800 l’aumento della popolazione fu spropositato: il
numero di abitanti passò dai circa 10,5 milioni nel 1801 ai 18,1 milioni del
1841, mentre si moltiplicava sia il numero che la grandezza delle città218.
L’urbanizzazione fu un fenomeno che caratterizzò tutta l’Inghilterra: nuove
città nascevano dove la morfologia e il reperimento delle risorse erano
economicamente più vantaggiosi, mentre intorno ai vecchi villaggi
proliferavano opifici e quartieri periferici. Per esempio, tra il 1781 e il 1831
Manchester passò da 50mila abitanti a 228mila e Bolton da 10mila a 42mila,
mentre Leeds da 15mila (dati del 1801) a 123mila219.
Le cause dell’aumento demografico, in generale, sono state connesse
all’impoverimento del lavoro tradizionale nelle campagne, oramai privatizzate
con le enclosures, che avevano innescato poderosi flussi migratori verso le
città. Con la distruzione del sistema dell’apprendistato artigianale e della
cultura tradizionale, i giovani tendevano ad andare via precocemente dalle
proprie terre d’origine in cerca di occupazione; ma, a causa degli stipendi
miseri delle fabbriche (in continua ricerca di manodopera), dovevano essere
proliferi per sopravvivere, alzando sempre di più i livelli di natalità, oltre che
a ingrandire il fenomeno dell’impiego minorile220.
La capitale dell’Impero non poteva che registrare dei tassi d’aumento
demografico impressionanti: da poco meno di un milione di abitanti nel
censimento del 1801, raggiunse gli oltre due milioni di persone censite nel
1851221. «Londra non è cresciuta secondo una via naturale, razionale e

218
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 196-197.
219
D. S. Landes, Prometeo Liberato. La rivoluzione industriale dal 1750 ai giorni nostri,
Einaudi, Torino, 2000, p. 68.
220
Ivi, p. 58-60.
221
G. Luciani, La Grande Babilonia. Londra nella letteratura inglese, Nuova Cultura,
Roma, 2016, p. XVI-XVII.

80
comprensibile»222: così Dickens, in un suo articolo su Household Word
intitolato «Great Invasion», definiva l’urbanizzazione spropositata, che
letteralmente aveva «invaso»223 ogni spazio con impalcature, carriole e paioli.
Con nostalgia l’autore affermava: «ricordo quando Londra finiva a Padlock
House, e quando Kensington era praticamente in campagna», sottolineando
come in pochissimi anni il cemento avesse ricoperto ogni spazio circostante224.
La City era, dunque, un luogo in continua metamorfosi, sottoposta a molteplici
tensioni politiche, economiche e sociali: le esigenze produttive, di controllo e
di ordine dettarono i tempi e le caratteristiche della crescita urbana.
La trasformazione della città fu caratterizzata da varie fasi discontinue e non
sempre legate programmaticamente l’una all’altra. Uno stravolgimento
radicale vi fu, per esempio, quando la stessa struttura urbana fu rivoluzionata
per essere fusa con la rete ferroviaria: le stazioni divennero le moderne
cattedrali, si moltiplicarono e diedero luogo a una nuova pianta cittadina, in
cui la vita della popolazione dovette adeguarsi ai ritmi moderni dettati dalla
velocità della macchina a vapore.
In Inghilterra la comparsa del treno fu un tutt’uno con l’avvento della civiltà
industriale, diventando perno e agente propulsivo che muoveva merci e
capitali, creava servizi e posti di lavoro. Alcuni dati riguardanti la densità della
rete ferroviaria inglese, possono dare l’idea di quanto la ferrovia avesse sin da
subito assunto la funzione di sistema-nervoso dell’economia: nel 1840 in
Inghilterra erano in funzione circa 7.000 chilometri di ferrovia, mentre nel
1880 la rete era di oltre 700.000225. La struttura stessa delle città fu
assoggettata alle priorità connesse allo sviluppo della rete ferroviaria e questo
fenomeno non poteva che interessare direttamente la Capitale: in pochi mesi

222
C. Dickens, Great Invasion, in HouseHold Words, Vol. V, aprile 1852, p. 70.
223
Ivi, p. 69.
224
Ivi, p. 71.
225
D. S. Landes, op. cit., pp. 6-7.

81
Londra fu distrutta e ricostruita in nome della modernità226.
Nel romanzo Dobmey and Sons, pubblicato tra il 1847 e il 1848, Dickens colse
la trasformazione dello spazio urbano in un gigantesco cantiere, percepito
come un vero e proprio terremoto che scosse la città dalle sue viscere. «Il primo
shock di un grande terremoto aveva, proprio in quei giorni, attirato tutto il
vicinato. Tracce del suo passaggio erano ovunque. Vi erano case abbattute;
strade sventrate e interrotte; pozzi profondi e trincee scavate nel terreno;
enormi montagne di terra e argilla; edifici minati alla base e in bilico, puntellati
con fascine di legna […]. Ovunque vi erano ponti sospesi nel vuoto… e
babeliche torri di comignoli… carcasse di abitazioni in brandelli, e frammenti
di muri e volte non finiti… In breve, la rete ferroviaria incompiuta e non ancora
in funzione avanzava; e lentamente si trascinava via il cuore di questo caos
tremendo, incominciando il suo potente viaggio di civilizzazione e
progresso»227.
Il romanziere inglese immortalò il cambiamento storico di una città che
rivendicava il suo ruolo di banca del mondo e di emporio universale, che
voleva confermarsi come punto nevralgico del nuovo sistema di mercato e che,
quindi, aveva bisogno di un riassetto conforme agli sviluppi tecnologici
dell’epoca228.
Ma i profondi mutamenti del processo di urbanizzazione assunsero le forme
più terrificanti nei quartieri popolari, dove le infime condizioni di esistenza
impedivano di arginare in qualche modo l’influsso umanamente degradante
della miseria, della sporcizia e dell’ambiente malsano e stretto.
«A Londra […] St. Giles giace nel quartiere più popoloso della città […]; è una
massa disordinata di alte case, di tre o quattro piani, con strade strette contorte

226
R. Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese, cit., pp. 77-78.
227
C. Dickens, Dombey e figlio, Einaudi, Torino, 2004, p. 120.
228
J. H. Miller, op. cit., p. 311.

82
e sporche […]. Le case sono abitate dalle cantine fin sotto i tetti, sporche di
dentro e di fuori, ed hanno un aspetto tale che nessuno vorrebbe abitarci […].
Qui abitano i più poveri tra i poveri, gli operai peggio pagati, insieme con ladri,
furfanti e vittime della prostituzione»229. Gli slums erano la conseguenza
dell’incontrollata esplosione urbana, costruiti con l’unico obiettivo di
risparmiare il più possibile nella loro edificazione e di guadagnare il massimo
dalla loro vendita o affitto, giustificando tali speculazioni come unica
soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento230. Così Dickens
descriveva in Our Mutual Friend una zona della periferia londinese: «un
quartiere che pareva una costruzione fatta per gioco con pezzi che un bambino
incoerente avesse tolto dalla scatola e piazzato a casaccio: qui il lato di una
strada nuova, lì una grande osteria solitaria di fronte al nulla, là una chiesa; poi
un’altra strada non finita e già in rovina […]; e disordine, sporcizia e fumo.
Come se alla fine il bambino avesse preso tutto a calci e poi se ne fosse
andato»231.
Sembra utile riportare un’altra testimonianza di Engels rispetto agli slums
inglesi: «Ogni grande città ha uno o più “quartieri brutti”, nei quali si ammassa
la classe operaia. È vero che spesso la miseria abita in vicoletti nascosti dietro
i palazzi dei ricchi; ma in generale le si è assegnata una zona a parte, […]
bandita dalla vista delle classi più fortunate […]. Questi “quartieri brutti” in
Inghilterra sono fatti più o meno alla stessa maniera in tutte le città: le case
peggiori nella zona peggiore della città; per lo più lunghe file di costruzioni in
mattoni a uno o due piani, con cantine abitate e quasi sempre disposte
irregolarmente […]. Quanto alle strade, di solito non sono lastricate, ma piene
di buche, sporche, cosparse di rifiuti vegetali e animali, senza canali di scarico

229
F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra. In base a osservazioni
dirette e fonti autentiche, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 67.
230
Ivi, p. 101.
231
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 282-283.

83
o fogne, ma provviste di fetide pozzanghere stagnanti. Oltre a ciò la
ventilazione è resa più difficile dalla struttura pessima e irregolare di tutto il
quartiere […]»232.
Nascosto nei bassifondi della città si celava dunque il vero risultato dello
sviluppo industriale: il dilagare della miseria e di livelli di vita infimi. Le grandi
città rappresentavano le sedi tipiche del capitalismo, dove lo sfruttamento e la
concorrenza sfrenata apparivano nella loro forma più nuda. In questi luoghi, la
società raggiungeva livelli così bassi di degrado materiale che necessariamente
ciò andava a infettare, anche sul piano umano, i suoi abitanti demoralizzati e
abbruttiti.

3.3.1. Prima di Our Mutual Friends. La Londra di


Bleak House

Romanzo dopo romanzo, Dickens raccontò l’evoluzione violenta di una città


che, proprio a metà del ‘800, subiva la fase di trasformazione più profonda.
Infatti, proprio da questo periodo, le opere dell’autore cercarono di mettere a
fuoco un ambiente cittadino sempre più cupo e ostile: la capitale non appariva
più come la città viva e pulsante dei primi romanzi, nei quali sembrava invece
esserci ancora la possibilità per una sua rinascita233.
La diversa percezione dello spazio urbano si sovrapponeva alle conseguenze

232
F. Engels, op. cit., p. 66.
233
C. de Stasio, op. cit., p. 127.

84
problematiche e contraddittorie del progresso. Da Coketown, alla Londra di
Bleak House fino a quella di Our Mutual Friends, lo spazio urbano è stato
progressivamente rappresentato tramite tutta una serie di metafore (la città
come prigione-labirinto, come putrida fogna o come immenso immondezzaio),
attraverso le quali l’autore cercava di mettere in risalto la sua opposizione alla
civiltà moderna. Infatti, fu proprio negli ultimi romanzi londinesi che
l’impegno sociale di Dickens prese ancora più vigore, in particolar modo a
partire da Bleak House. In quest’opera, l’autore univa alla denuncia delle
ingiustizie sociali una forte accusa contro chi ne era responsabile, il tutto
inserito in un contesto paesaggistico desolato e totalmente contrastante con
l’immagine dell’Inghilterra in piena “età dell’oro”234.
Bleak House, pubblicato a puntate tra il 1853 e il 1854, già al suo esordio si
poneva in contrasto con il mito dell’Inghilterra come potenza mondiale: solo
due anni prima, nel 1851, la Great Exhibition, nel Crystal Palace, celebrava il
progresso tecnologico e il dominio globale dell’impero. Alla stupefacente
esibizione della potenza coloniale britannica e della sua capitale, centro della
civiltà mondiale, Dickens contrappose l’immagine di una metropoli deformata
e lugubre. Bleak House rappresentava il disastro di Londra degradata a fogna
e sull’orlo di un collasso igenico-sanitario che minacciava la popolazione e
l’intera nazione235.
L’incipit del romanzo richiama uno scenario quasi apocalittico, un luogo che
sembra riemerso da qualche terribile cataclisma: «Londra, sessione autunnale
da poco conclusa […]. L’implacabile clima di novembre. Tanto fango nelle vie
che pare che le acque si siano da poco ritirate dalla superficie della terra»236.
Così, sin dalle prime pagine del romanzo, Dickens immerge il lettore in

234
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., pp. 60-61.
235
Yvonne Bezrucka Oggetti e collezioni nella letteratura inglese dell’Ottocento,
Arespublisher, Trento, 2004, p. 106-107.
236
C. Dickens, Casa Desolata, Einaudi, Torino, 2006, p. 7.

85
un’atmosfera tenebrosa, attraverso gli occhi di un narratore che si pone come
testimone passivo di un mondo che appare atomizzato. «In un certo senso tutto
il romanzo è presente nel momento iniziale e si esplica solo con il succedersi
degli eventi»237: la condizione umana dei personaggi di Bleak House è gettata
in un mondo che è già andato a male.
Dall’ambientazione del romanzo emerge l’angoscia di Dickens rispetto ai suoi
tempi, una malinconia che si rispecchia nel fango che sommergeva la città e
nella nebbia che la soffocava, per cui anche i passanti sembravano perdere la
loro identità, quasi inghiottita dall’aria caliginosa238. «Pedoni, quasi tutti affetti
da irascibilità, che si urtano a vicenda con gli ombrelli e perdono l’equilibrio
agli angoli delle strade, dove fin dall’alba (ammesso che ci sia stata un’alba
oggi) sono scivolati migliaia di altri pedoni»239; e ancora «passanti occasionali
che sui ponti guardano dal parapetto un infimo cielo di nebbia, avvolti essi
stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa tra nuvole oscure»240.
Londra, ormai metropoli, divenne il contesto in cui prendeva forma la prima
società di massa della storia, dove gli individui, ormai parte della più ampia
“folla anonima”, venivano travolti dall’apatia e dall’alienazione. Lo scrittore
non poteva tralasciare questo nuovo soggetto-oggetto all’interno dei suoi
romanzi, sia perché caratteristica peculiare dell’epoca, sia perché le sue
pubblicazioni cercavano di rivolgersi proprio a un pubblico di massa.
Un simile svuotamento dell’individuo, come conseguenza dello sviluppo della
società vittoriana, può essere rintracciato anche nella descrizione che Engles
fa, all’interno della sua analisi storica del sistema industriale inglese, delle
grandi città e, più in particolare, di Londra: «Le centinaia di migliaia di
individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano, si passano davanti in

237
J. H. Miller, op. cit., p. 168.
238
Ivi, p.165.
239
C. Dickens, Casa Desolata, cit., p. 7.
240
Ivi, p. 8.

86
fretta come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare l’uno con l’altro,
e tra loro vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno si tiene sulla parte del
marciapiede alla sua destra […]. La brutale indifferenza, l’indispensabile
isolamento di ciascuno nel suo interesse personale emerge in modo tanto più
ripugnante ed offensivo, quanto maggiore è il numero di questi singoli
individui che sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che
questo isolamento del singolo […] è il principio fondamentale della nostra
odierna società, in nessun luogo esso si rivela in modo così sfrenato e aperto,
così consapevole come qui, nella calca della grande città»241.
In sostanza, tornando alle parole di Dickens, la City, anche se composta da
migliaia di persone, «è un deserto per chi vi abita»242. Il fango e la nebbia,
dunque, segnano sin da subito il tono cupo del romanzo, assumendo la valenza
metaforica di rappresentare l’immobilismo e la stagnazione della società
vittoriana. Dickens descrive in questo modo il paesaggio attorno a Londra in
cui, a fare da protagonisti, sono proprio il vapore e la foschia: «Nebbia
ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce tra isolette e prati verdi; nebbia
giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che
giungono alla riva di una grande e sporca città. Nebbia sulle paludi dell’Essex,
nebbia sulle alture del Kent»243. Anche il panorama campestre, presente più
volte nel romanzo attraverso i continui e ripetuti spostamenti dei Dedlock dalla
città alla residenza di campagna (una casa «estremamente tetra»244), sembrava
contaminato dal decadimento della City: qui la nebbia lasciava il posto a una
pioggia buia e persistente che generava un paesaggio lugubre. Il luogo
descritto, ambientato nel Lincolnshire, sembrava, anche in questo caso, colpito

241
F. Engels, op, cit., p. 64.
242
C. Dickens, Casa Desolata, cit., p. 17.
243
Ivi, p. 7.
244
Ivi, p. 15.

87
da un cataclisma245: «piove a dirotto […]. Un arco del ponte nel parco è stato
scalzato e travolto. Per mezzo miglio il terreno adiacente è un fiume stagnante
con isole di alberi malinconici e una superficie tutta bucherellata, per l’intera
giornata, dalla pioggia incessante»; il panorama dalla finestra della casa di
Lady Dedlock «è altamente color piombo o inchiostro di china»246.
Il responsabile di questo cataclisma, in realtà, non era la “Natura”, bensì
l’essere umano: infatti, il fango e la nebbia, creati dalla natura, erano alterati
artificialmente. Il fango si mescolava ai liquami umani e animali formando una
strana melma, mentre la nebbia si mischiava al fumo creando uno strato di
smog che attanagliava la città: «fumo che scende dai comignoli come una
soffice pioggerellina nera con fiocchi di fuliggine grandi come fiocchi di neve
vestiti a lutto per la morte del sole»247.
Lo scenario dipinto da Dickens è il contesto tetro nel quale le varie storie dei
protagonisti entrano in connessione e sviluppano e scoprendo ciò che li
accomuna. Se in un primo momento i vari personaggi sembravano isolati,
Bleak House si rivela poi un mondo in cui tutto è intimamente collegato: così
anche le persone che sembravano non avere nulla in comune, in realtà, giocano
un ruolo decisivo l'una sulla vita dell'altra. Uno tra tutti si rivela, nello svolgersi
della narrazione, il «legame»248 inscindibile, perno delle vicende, che allaccia
persone e luoghi tra loro distanti, sia geograficamente sia socialmente,
svelando contatti nascosti o negati. Questo strano “fantasma” è il contagio,
l’infezione che dilaga in ogni angolo della città, attraverso le acque inquinate,
l’aria tossica e il sangue trasportato dai liquami che cospargevano ogni angolo
della città249.

245
V. Nabokov, Lezioni di letteratura: Casa Desolata, in C. Dickens, Casa Desolata, cit.,
p. X.
246
C. Dickens, Casa Desolata, cit., pp. 14 -15.
247
Ivi, p. 7.
248
Ivi, p. 211.
249
J. H. Miller, op. cit., p. 206.

88
Il romanzo rende ben visibile la Londra di metà secolo, giunta a un punto di
crisi. Malattie e infezioni dilagano nel romanzo, trasmesse e trasportate dalla
folla, da passanti ignari di far parte di un ciclo biologico mortifero che trovava
il suo veicolo proprio in ciò che è liquido: il liquame umano e animale e il
sangue. Il contagio, ignorando ogni divisione sociale e di classe, chiudeva tutti
gli abitanti e l’intera Città in un unico abbraccio funesto250.
Dickens, utilizzando la metafora della malattia infettiva sembra quasi riferirsi
all’episodio della vedova Irlandese scritto da Carlyle, nel quale una povera e
vecchia signora, rifiutata dalla società, muore di febbre tifoide andando a
contagiare proprio coloro che, per negligenza, l’avevano allontanata e isolata:
«la povera vedova Irlandese, abbandonata, si indirizza a creature umane, ai
suoi fratelli, per dire loro: “Vedete, io muoio, priva di ogni soccorso: bisogna
che voi mi aiutate! Io sono vostra sorella, un osso delle vostre ossa […]”. Ed
essi a risponderle: “No, è impossibile; tu non sei nostra sorella”. Ma essa ha
provato, e luminosamente, la sua fratellanza: la sua febbre tifoide li ha uccisi:
è allora che essi sono diventati suoi fratelli, benché l’avessero negato!»251
Invero, proprio a cavallo della metà del secolo la popolazione londinese fu
colpita dalle devastanti epidemie di colera e di febbre tifoide, specialmente nei
quartieri più poveri dell’East End. A entrare nella storia furono principalmente
le epidemie di colera del 1832, del 1848 e del 1854-55. Le cause che le
generarono furono ricondotte dal dottor J. Snow all’approvvigionamento
idrico di alcuni quartieri cittadini, riforniti da tre società private con acqua
prelevata direttamente dal fiume Tamigi, in una zona vicina al centro della
città. Il sistema fognario, nato essenzialmente per la gestione delle acque
piovane, collassò nell’estate particolarmente afosa del 1858, rimanendo nella
storia con il nome di Great stink, il “Grande tanfo”.

250
R. Bonadei, Paesaggio con figure, cit., p. 152.
251
T. Carlyle, Passato e Presente, cit., p. 228.

89
Solo dopo gli anni ‘60 del ‘800 i governanti cercarono di trovare una soluzione.
Ristrutturarono completamente la rete fognaria e, in parte, la estesero e la
potenziarono, senza comunque riuscire a costruire un sistema igenico-sanitario
proporzionato alla popolazione londinese. Difatti, all’epoca la City non
disponeva di adeguate strutture igienico-sanitarie, soprattutto nei quartieri più
poveri, sia per il grande aumento di popolazione sia per il mancato intervento
pubblico: era quasi del tutto priva di una rete fognaria, sì che le acque di
reflusso e i liquami venivano scaricati direttamente nel fiume, dal quale poi
veniva prelevata l’acqua potabile. Inoltre, le condizioni erano rese ancora più
disastrose dalla mancanza di qualsiasi servizio di nettezza urbana; e perciò i
rifiuti, tanto quelli costituiti da scarti di macellazione quanto quelli derivanti
dai mercati, ovvero dal letame degli animali, venivano ammassati nelle piazze
e nei cortili. Quando pioveva le fogne e i pozzi neri a cielo aperto tracimavano,
rovesciando il liquame nelle strade252.
Nel 1842, quando la commissione per la legge sui poveri fece il primo rapporto
completo sulle condizioni di vita urbane, città dopo città, il motivo di criticità
era sempre lo stesso: «sporca condizione della città»; «città ricoperte d’acqua
stagnante»; «atmosfera avvelenata»; «letamai di proporzioni immani»; e tanto
gravi erano gli effetti che «i decessi annuali per sporcizia e cattiva areazione
superano quelli causati dalla guerra, che ha recentemente coinvolto il
Paese»253.
L’autore registrò narrativamente questo punto di crisi, denunciando
l’inadeguatezza del legislatore.
Dickens collocava, in senso metaforico, le cause dell’infezione di Bleak House

252
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 324-328.
Le informazioni relative agli studi epidemiologici svolti dal dottor J. Snow sono state tratte
dai siti internet: http://www.quadernodiepidemiologia.it/epi/storia/colera.htm; e
http://it.wikipedia.org/wiki/Epidemia_di_colera_a_Broad_Street_del_1854.
253
Ivi, p. 606.

90
in due luoghi nevralgici di Londra, divisi dalla profonda diseguaglianza
sociale, ma collegati nella loro sostanza da un destino comune: lo slum di Tom-
all-Alone e la sede della Corte Suprema, in Lincoln’s Inn Hall; due luoghi che
svolgevano funzioni diverse ma che contribuivano entrambi a rendere l’intera
città infetta. Lo slum avvelenava la città che, a sua volta, lo rifiutava e lo
isolava: «Non c'è goccia del sangue corrotto di Tom-all-Alone's che non
propaghi un'infezione e un contagio. Tom macchierà questa notte l'eccellente
sangue di una famiglia normanna (in cui i chimici troverebbero, analizzandola,
la nobiltà autentica) e Sua Grazia non sarà in grado di dire di no a quell'unione
infame. Non c'è atomo della melma di Tom-all-Alone's, non un centimetro
cubo dei gas pestilenziali in cui vive, non una sua oscenità, una degradazione,
un'ignoranza, una malvagità, una brutalità da lui commessa che non verrà
castigata in ogni ordine della società fino al più alto e al più superbo»254.
Il quartiere è descritto da Dickens come uno dei tanti ghetti cittadini, un luogo
lugubre, dove tutto tace, formato da miseri vicoli e vicoletti che si diramano
dalle «rive dello stagnante canale di mota che è la strada principale»255, «una
via nera e decrepita, evitata da tutte le persone a modo, dove le case pericolanti,
quando erano in uno stato avanzato di deterioramento, vennero occupate da
alcuni vagabondi […]. Adesso di notte, quelle abitazioni cadenti contengono
solo miseria. Come sui più miseri individui appaiono dei tristi parassiti, così
quei ripari in rovina hanno allevato una folla di tristi esistenze che gironzolano,
dentro e fuori le aperture dei muri e delle tavole e si rannicchiano a dormire
come vermi dove gocciola la pioggia; e vanno e vengono, prendendo e
portando la febbre, e seminando in ogni orma che lasciano più male di quanto
siano in grado di sconfiggerne […] tutti i bravi gentiluomini al potere»256.

254
C. Dickens, Casa Desolata, cit., p. 590-591.
255
Ivi, p. 591.
256
Ivi, pp. 211-212.

91
La malattia, una febbre che sfigura, che rende ciechi e sordi, che uccide, è
l’inesorabile protagonista della vita dei personaggi di Bleak House, rendendo
l'aria malsana, un «malsano che arriva fino all'anima»257.
«Tra la sporcizia, i saccheggi e le rovine, Tom-all-Alone's compie la sua
vendetta»258 proprio nei confronti di chi era responsabile di tale degrado,
sancendo quel legame mortifero che cingeva «molte persone nelle storie
innumerevoli di questo mondo, che da opposti lati di grandi abissi, si sono
tuttavia incontrate»259.
Il regno della legge continuava a brancolare nel buio, non riuscendo a trovare
una soluzione260: «Presso Temple Bar, a Lincoln’s Inn Hall, nel cuore della
nebbia, tiene udienza il Lord Cancelliere. Mai la nebbia sarà tanto fitta, né il
fango e la melma così alti da poter eguagliare lo stato di brancolamento e di
confusione in cui si trova oggi al cospetto del cielo e della terra la Corte di
Giustizia del Lord Cancelliere, scelleratissima e decrepita peccatrice»261.
Dunque, l'autore presenta il corpo di una società morta, soffocata dalla nebbia
e immobilizzata dal fango, paralizzata nelle ingiustizie delle stratificazioni
sociali e aggrovigliata nell'inestricabile rete delle procedure legali. A partire da
questa paralisi generale, che emerge soprattutto nelle prime pagine dell'opera,
Dickens costruì la sua invettiva contro il sistema legislativo e giudiziario: la
Giustizia è presentata come causa diretta del decadimento sociale e morale,
corresponsabile del processo di degrado della società262.

257
Ivi, p. 421.
258
Ivi, p. 591.
259
Ivi, p. 211.
260
V. Nabokov, op. cit., p. XIII.
261
C. Dickens, Casa Desolata, cit., p. 8.
262
J. H. Miller, op. cit., p. 210.

92
3.3.2. Londra in Our Mutual Friend

L’ultima esperienza di Dickens nella «greater London» ci mostra una città che,
attraversate le varie fasi di trasformazione, si era ormai definitamente
affermata come Capitale dell’Impero. «La bufera si era scatenata come una
messaggera malevola prima dell’alba; seguì una frastagliata striscia luminosa
che lacerò i nuvoloni neri finché attraverso un grande foro apparve il giorno
grigio»263.
Nel decennio che va dal 1851 al 1860, l'Inghilterra raggiunse il suo apice di
sviluppo produttivo e commerciale: l’espansione economica correva di pari
passo con l’espansione coloniale. Il regno della Regina Vittoria si trovava nel
pieno del suo vigore e si affermava come potenza mondiale, tanto da lasciare
il segno su un’epoca che coinvolse quasi un intero secolo (il regno iniziò nel
1837 e finì con la sua morte nel 1901).
Da un punto di vista politico, fu un periodo storico caratterizzato da ripetuti
avvicendamenti di Governo. Ma, a prescindere da quale fosse l’orientamento
parlamentare del partito, i governanti erano accomunati dall’ideologia
imperialista e dalla fede in un rafforzamento dell’Impero Inglese, non solo per
quanto riguardava strettamente i suoi territori, ma rispetto al raggiungimento
di una forte influenza su tutti quei Paesi che potevano offrire strategicamente
o materialmente vantaggi e profitti. L’assoggettamento delle colonie non era
solo ed essenzialmente militare, ma andava a inserirsi direttamente nei modi di
vita e nei modelli di produzione tradizionali, estirpandoli, per innestare tali
comunità all’interno del più vasto modello di produzione capitalistico264.
Londra, “Banca e Borsa del Mondo”, nucleo finanziario di un’economia

263
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 220.
264
D. S. Landes, op. cit., pp. 58-60.

93
sempre più in via di globalizzazione, diventava punto centrale di un modello
di sviluppo e di vita che contagiava tutto il mondo, esportato dagli agenti
commerciali e finanziari, protetti dai funzionari militari e amministrativi.
Il romanziere inglese criticava le interconnessioni umane che nascevano nella
Capitale, percepite come un groviglio di rapporti fedeli esclusivamente alla
logica del business oppure soffocati dalla più bieca miseria. Ma era ben chiaro
che tale contesto sociale era comunque figlio dell’evoluzione della stessa Città,
rappresentata così dall’autore, come in precedenza era stata Coketown, come
un luogo oscuro e maligno, capace di cancellare ogni linfa vitale dagli
individui265.
«Una serata grigia, secca e polverosa nella City di Londra […]. I negozi e gli
uffici chiusi sembrano morti, e il terrore nazionale per i colori dà un’aria di
lutto. Le torri e i campanili delle numerose chiese assediate dalle case, scuri e
affumicati come il cielo che pare scenda loro addosso, non diminuiscono la
generale desolazione […]. Malinconici relitti abbandonati di guardiani e
portieri ramazzano malinconici relitti abbandonati di carte e altre cose da nulla
nei rigagnoli dove altri malinconici relitti abbandonati vengono curvi a frugare,
cercare e rivoltare, sperando di scoprire qualcosa da vendere. La fiumana di
gente che esce dalla City è come una fila di prigionieri liberati dal carcere, e la
lugubre prigione di Newgate sembra una roccaforte adatta al potente sindaco
di Londra tanto quanto la sua residenza ufficiale»266.
Dickens, con il suo estro artistico, riuscì a immortalare in un’atmosfera di
cupezza la percezione negativa che aveva di una città che, anche se egli
conosceva bene, cambiava continuamente al ritmo del progresso industriale
verso una direzione da cui non sembrava possibile tornare indietro. Come

265
J. H. Miller, op. cit., 294.
266
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 496-497.

94
inesorabilmente «il fiume scorre verso l’oceano infinito»267, così la società
sembrava procedere verso il baratro, degenerando, senza alcuna possibilità di
controllo. «Le ruote giravano e giravano intorno al Monumento, presso la Torre
e lungo i Docks; oltre Ratcliffe e Rotherhithe, dove pareva che cumuli di feccia
umana fossero stati dilavati dai quartieri alti e, simili a fogne morali,
aspettassero di essere trascinati dal loro stesso peso fino alla riva per poi
sprofondare nel mare»268.
L’incipit del romanzo di Our Mutual Friend ci immerge in un’atmosfera di
mistero, ponendo già le basi dell’intricato quadro metaforico del romanzo e
della stessa trama. Londra sembra quasi fondersi con il Tamigi, che così
incorpora in sé tutta una serie di significati che andranno poi a comporre lo
sfondo su cui le vicende si svilupperanno269. Il grande fiume, un fiume scuro,
carico di detriti, fango e rifiuti di ogni genere, si pone sin dalle prime pagine
come il centro delle vicende e come fulcro delle simbologie di Our Mutual
Friend, protagonista e motore del mondo in cui la Città stessa si riconosce270.
«Ai giorni nostri, ma è inutile precisare l’anno, una sera d’autunno,
sull’imbrunire, una barca infangata e dall’aspetto equivoco, naviga sul Tamigi
fra il ponte di Southwark, che è in ferro, e quello di Londra, che è in pietra»271.
Da una descrizione panoramica dell’intera città, lo sguardo del narratore passa
a una scena particolare, in cui due individui su di una barca fangosa si trovano
indaffarati in un qualcosa che il lettore trova difficile scoprire, se non andando
per esclusione insieme al narratore, tanto la loro attività risulta singolare:

267
Ivi, p. 927.
268
Ivi, p. 31.
269
Secondo Miller, Dickens, in questo romanzo, fa un uso più frequente della cosiddetta
«metafora non-ontologica»: questo tipo di metafora parte da una manipolazione libera
della realtà per cercare di esprimere un messaggio psicologico, basandosi non tanto su un
analogia tra cose o persone nel romanzo, quanto su un salto dal livello della concretezza
a quello della pura fantasia; J. H. Miller, op. cit., p. 305.
270
Ivi, p.288.
271
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 5.

95
«l’uomo riportò il proprio busto entro la barca e si lavò fuori bordo le braccia
sporche e bagnate. Nella destra teneva qualcosa che lavò pure nel fiume. Era
denaro»272.
La consueta e meticolosa attività di “pesca” ha, come preda, i cadaveri
trasportati dall’acqua con il loro carico di bagagli, oggetti e, talvolta, gioielli e
denaro; cadaveri da analizzare e setacciare con cura per poi gettarli nel loro
letto di fango: già questa scena racchiude al suo interno il forte messaggio
critico dell’autore nei confronti dell’epoca273.
Secondo lo studioso F, S, Schwarzbach, il testo contiene l’intero nucleo
metaforico del romanzo nei dettagli della descrizione iniziale: «quello che
possiamo vedere è l’uomo magro nel fiume, ed emerge con le sue braccia
“bagnate e sporche” e con i soldi in mano. Da questo breve episodio affiorano
tre associazioni: il fiume e la morte, il fiume e la sporcizia, il fiume e il denaro».
Dunque, è presente qui il nesso morte-rifiuti-denaro all’origine del mondo di
Our Mutual Friends274.
Il fiume, ridotto a discarica a cielo aperto, diventava l’esempio più palese delle
conseguenze causate dallo sviluppo della civiltà industriale. Proprio la Città
sembrava essere genitrice del mondo cupo e maligno di Our Mutual Friend,
mentre al suo esterno il fiume scorreva limpido e l’intero paesaggio nei paesi
limitrofi appariva quasi come un affresco bucolico. «Dal ponte si può vedere
il fiume, ancora piccolo, increspato come le fossette sul volto di un bambino,
scorrere giocoso fra gli alberi, incontaminato dalle lordure che lo aspettano
lungo il suo corso, e sordo ancora al richiamo profondo del mare»275; «così,
nel roseo crepuscolo, si poteva ammirare la bellezza del paesaggio sempre più

272
Ivi, p. 7.
273
F. M. Casotti, op. cit., pp. 147-148.
274
F. S. Schwarzbach, Dickens and the City, Bloomsbury Aceedemic, London, 2014, p.
198.
275
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 639.

96
ampio […], dove il cielo sembrava incontrare la terra come se non vi fosse uno
spazio immenso tra l’umanità e il paradiso»276.
L’agire del fiume lento e millenario si contrapponeva con il lavoro e il business
del West End, frenetico e alienante: la trasformazione naturale generata dal
Tamigi agiva parallelamente all’azione umana, sovrapponendosi a essa, in uno
scontro inesorabile tra Natura e Società277. «Ogni chiatta, pesante e nera […]
con i suoi fianchi pieni di crepe e di bolle, pareva intenta ad aspirare il fiume
[…]. E infine tutto quanto -rame scolorito, legno marcio, pietre corrose, rifiuti
verdi e fradici- sembrava esaltare a tal segno la potenza distruttrice dell’acqua,
che le conseguenze dell’essere schiacciati, inghiottiti, annegati, apparivano
all’immaginazione non meno terrificanti del fatto in sé»278.
Il «Tamigi grande e nero con le sue rive cupe»279, anche se appare al lettore
come un torrente dantesco, mantiene la sua forza naturale rigenerativa,
trasformando la morte in vita. Anche per le pagine del romanzo il corso d'acqua
è linfa vitale, poiché le vicende nascono dal fiume, così come i personaggi
trovano in esso la morte e la rinascita. «Poco importa al Tempo se le acque vive
scorrono in alto oppure in basso, se riflettono la luce celeste oppure le tenebre,
se producono le loro piccole messi di erbe, di fiori; se girano di qua o di là, se
sono quiete o rumorose, perché il loro corso ha un’unica fine sicura, benché le
sorgenti e i disegni siano tanti […], lungo il fiume solenne, che scivolava via
nella notte, come scivolano via tutte le cose, di notte o di giorno, cedendo alla
forza di attrazione dell’Eternità»280.
Come i due pescatori, anche il racconto “pesca” dal fiume e, attraverso di esso,
le sue storie si alimentano: infatti, è il mistero nato intorno a un cadavere

276
Ivi, p. 868.
277
J. H. Miller, op. cit., p. 287.
278
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 220.
279
Ivi, p. 93.
280
Ivi, p. 946.

97
ritrovato nel fiume a reggere l’intera intelaiatura del romanzo. Dunque, il fiume
è sì latore di morte ma, allo stesso tempo, portatore di rinnovamento, di un
cambiamento che comunque genera nuova vita (come la rinascita dallo stesso
protagonista John Harmon, che nel fiume aveva perso la sua identità e che,
proprio grazie a questo, riuscì a ritrovarla). «In tal modo il Delitto Harmon,
come venne volgarmente chiamato, simile alla marea che lo aveva portato a
conoscenza degli uomini, salì, ridiscese, ebbe flussi e riflussi, ora in città, ora
in campagna, ora nei palazzi o nei tuguri, ora fra dame e gentiluomini, ora tra
contadini e operai e scaricatori di porto, finché, dopo un lungo periodo di
bonaccia, sfociò nel mare e andò alla deriva»281
La trasformazione come elemento-chiave del romanzo agisce su più livelli: la
stessa fortuna del vecchio Harmon aveva le sue origini nella trasformazione
dei rifiuti in denaro, e la ricchezza dei Boffin, non a caso chiamato anche lo
Spazzaturaio d’Oro, cresceva con la selezione, la trasformazione e la vendita
degli scarti prodotti dalla società industriale. Dickens, attribuendo un valore a
ciò che non ha valore, come i rifiuti, intendeva sottolineare quanto le immense
ricchezze prodotte dalla società industriale fossero in realtà possibili solo in un
mondo dedito al culto del denaro. «La maggior parte dei mulini per macinare
denaro stavano fermando le pale o avevano cessato il lavoro per la giornata; i
mugnai erano già andati via e gli operai si preparavano ad andare. Le vie e le
piazze del quartiere d’affari, e persino i selciati, avevano un aspetto affaticato,
intontiti per essere stati calpestati da milioni di piedi. Occorrevano le ore
notturne per placare l’agitazione quotidiana di un luogo così febbrile»282.
La gigantesca discarica di Mr Hammond, dove aveva fatto costruire la sua
stessa casa, chiamata sarcasticamente «il carcere di Armonia»283, bruciava

281
Ivi, p. 44.
282
Ivi, p. 761.
283
Ivi, p. 235.

98
giorno e notte immondizia nei suoi potenti forni, producendo quei «Dust-
mounds» emblema del decadimento universale e specchio di una società
ridotta alle proprie ceneri, le quali costituivano l’unica, falsa e ingannevole
ricchezza dell’epoca284. Il padre Harmon era «un vecchio farabutto che si era
arricchito con i Rifiuti […]. Egli si arricchì tenendo un’impresa di Rifiuti, e
visse in un buco, in un paese fatto di colline di rifiuti. Nella sua piccola
proprietà quel vecchio mascalzone riuscì a creare, come un antico vulcano, una
sua propria catena di montagne, la cui formazione geologica era costituita dai
rifiuti: carbone, verdura, ossa, detriti grezzi e vagliati; insomma, rifiuti di ogni
genere»285.
Anche la polvere degli scarti dell’attività umana poteva avere un valore nella
società capitalistica: le ceneri, se integrate nel processo produttivo,
selezionandole e smerciandole, potevano diventare fonte di ricchezza286. Il
denaro, nuovo soggetto economico per eccellenza, sembrava essere l’unico
veicolo relazionale tra gli abitanti della City a tal punto da diventare la vera
forza che spingeva ogni individuo ad agire, l’elemento che governava
l’esistenza della nuova civiltà: la spazzatura e i rifiuti, come anche i cadaveri,
acquisivano una nuova importanza solo in virtù del loro valore commerciale,
della loro convertibilità economica.
The Dust, la polvere biblica da cui tutto proviene e a cui tutto tornerà, permeava
l’intera città non solo ad un livello superficiale, avvolgendola con la fuliggine,
ma andando fin nella sua profondità; e allo stesso modo il denaro entrava nello
spirito umano degenerandolo e corrompendolo: «[…] la polvere della City
penetra tra i capelli, negli occhi, nella pelle, e […] le foglie cadute dai pochi,
disgraziati alberi cittadini vengono stritolate negli angoli dalle ruote del

284
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, op. cit., p. 222.
285
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 981.
286
J. H. Miller, op. cit., pp. 294-295.

99
vento»287.
Dunque, il potere rigeneratore del fiume, elemento naturale che riporta ogni
cosa dove ha origine, il mare, si inseriva in una più generale desolazione
cittadina, costruendo un paesaggio lugubre di relitti, rifiuti e rottami: «Il giorno
d’inverno svelava pigramente il volto bianco, avvolto in una nebbia gelida; gli
spettri delle navi sul fiume a poco a poco si mutavano in masse nere e il sole,
che sorgeva sanguigno dalle paludi a oriente, dietro gli alberi di navi e cantieri
scuri, pareva coperto dei resti di foreste a cui avesse appiccato un incendio»288.
La Capitale non appare più, come in Bleak House, sommersa dai liquami e dal
fango e annebbiata dalla foschia, ma è ormai prosciugata da un vento che
trasporta polveri e ceneri, quelle stesse ceneri che componevano i cumuli di
immondizia del vecchio Harmon, diffondendo così ricchezza e malattia289.
«Londres, Londra, London, è orribile. È nera e stridula con le caratteristiche di
una stanza piena di fumo e di una moglie bisbetica; una città aspra, una città
disperata, senza uno squarcio nella volta plumbea del cielo; una città assediata,
accerchiata dalle grandi paludi del Kent e dell’Essex»290.
Londra, un vero e proprio contenitore eterogeneo di immondizia, diventa in
Our Mutual Friends come «un deserto bianco e giallo»291, senza forme né
ombre, in cui oggetti e persone si confondono, spazzate via dal vento e svuotate
di ogni vitalità. Anche nelle descrizioni della città, il frammento e la mancanza
di unità dominano, dando così al lettore la percezione di un luogo letteralmente
“desolato”. Infatti, proprio come nel romanzo di T. Eliot, la metropoli moderna
veniva rappresentata come una Wasteland, tracciando i contorni di un luogo

287
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 496-497.
288
Ivi, pp. 96-97.
289
J. H. Miller, op. cit., p. 314.
290
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 186.
291
Ivi, p. 1008.

100
irreale e senza speranze292. «Fra Battle Bridge e la zona del quartiere di
Hlloway […]si estendeva una specie di Sahara di periferia, dove si facevano
cuocere tegole e mattoni, bollire ossa, dove si portavano a battere tappeti e si
scaricavano immondizie; dove i cani venivano addestrati al combattimento e
gli impresari ammucchiavano detriti e rifiuti»293.
Così l’atmosfera angosciosa permeava l’intera Città, spazzata dal vento e dai
mulinelli di segatura, in cui gli abitanti apparivano come spettri incastonati
nell’attività febbrile del Business: la vita sembrava esser fuggita via da un
luogo così opprimente, dove anche il sole non voleva più apparire.
«Cominciava la primavera; ma non la primavera dolce, eterea […], bensì
quella gelida […]. Il vento aspro più che soffiare segava e mentre segava, la
segatura turbinava in mulinelli. Ogni strada era una buca per la segatura; i
passanti erano accecati e soffocati. Qui misteriosi pezzi di carta, che circolano
per Londra quando soffia il vento, giravano dappertutto. Da dove vengono,
dove vanno? Ce ne sono sulle siepi, svolazzano fra gli alberi, vengono catturati
dai fili elettrici; si accumulano davanti alle porte; oppure si dissetano alle
fontane, stanno distesi sulle palizzate, tremano sulle zolle erbose o cercano
invano di riposare dietro mucchi di sbarre di ferro […]. Il vento segava e la
segatura turbinava. Gli arbusti si torcevano le numerose mani, rimpiangendo
che il sole li avesse persuasi loro malgrado a mettere fuori i germogli […]. E
il vento continuava a segare e la segatura a formare mulinelli»294.
La polvere andava ben oltre i cumuli di Armonia e, trasportata dal vento, si
sovrapponeva al mondo umano mettendolo finalmente in contatto con il reale,
una realtà che però negava ogni possibilità di vita autentica. Tutto il romanzo

292
D. Izzo, La poetica del disincanto: lettura di Our Mutual Friend, op. cit., pp. 220-221,
dove è presente un’ampia analisi riguardante le contaminazioni tra il romanzo di
Dickens e il poema di T. Eliot Terra Desolata, pp. 220-230.
293
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 47.
294
Ivi, pp. 185-186.

101
sembra perciò avvolto da un presagio di morte295: «Le stelle si vedevano
ancora, ma c’era un chiarore scialbo a oriente che non era il chiarore della
notte. La luna era tramontata e lungo le sponde del fiume serpeggiava una
nebbia, attraverso cui gli alberi parevano fantasmi di alberi e l’acqua fantasma
dell’acqua. La terra sembrava spettrale e così pure le pallide stelle; mentre il
freddo bagliore a oriente, privo di luce e di calore, con l’occhio del firmamento
spento, poteva somigliare allo sguardo del morto»296.

295
J. H. Miller, op. cit., p. 314.
296
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 885.

102
3.4 Un affresco della Società Vittoriana

3.4.1. Dickens e la New Poor Law

Una tematica trattata da Dickens nel romanzo Our Mutual Friends è quella
della Poor Law, l’istituzione pubblica di assistenza ai poveri.
L’accusa nei confronti di questo programma legislativo permea l’intero testo,
sia tramite alcuni interventi diretti del narratore sia, in particolare, con la
presenza di un personaggio, Betty Hidgen, che «in vita sua non ha mai chiesto
né ricevuto un centesimo dall’ospizio dei poveri»297. In questo modo Dickens
non intendeva attaccare la legge in sé, ma cercava di aprire una critica più
generale all’intera società, giostrata dall'élite politica e abbagliata dal culto del
denaro298: «Signori deputati e membri del Governo, quando voi, a furia di
spalare immondizia, di raccogliere cenere, siete riusciti a innalzare montagne
di pretenziosi fallimenti, se non volete che essa crolli fragorosamente e ci
seppellisca vivi, levatevi le onorevoli giacche e mettetevi a spianarla con
l’aiuto di tutti gli uomini e di tutti i cavalli della regina […]. Infatti, quando si
è giunti al punto che, pur disponendo di un tesoro immenso per venire in aiuto
ai poveri, i migliori fra di essi detestano la nostra carità, si nascondono ai nostri
occhi, ci coprono di vergogna morendo di fame in mezzo a noi, allora è un
punto in cui non è più possibile prosperare, né continuare»299.
Nel poscritto in Our Mutual Friends l’autore intese chiarire la propria

297
Ivi, pp. 255-256.
298
F. M. Casotti, op. cit., p. 88.
299
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 637.

103
posizione rispetto alla New Poor Law: «Io credo che dall’epoca degli Stuart in
poi, non vi è stata in Inghilterra una legge peggio amministrata, più spesso
apertamente violata, tanto male applicata. Nella maggior parte dei casi
vergognosi di malattie e di morti in stato di miseria, l’illecito è pari
all’inumano… e non vi sono altre parole nel linguaggio conosciuto per dire
altro della loro illegalità»300
La figura di Betty Hidgen rappresenta quella categoria di persone che, pur
vivendo nella totale miseria materiale, rimanevano ricche di umanità e
saldamente legate ai propri principi. Il romanziere la descrisse con un’integrità
morale talmente solida che avrebbe preferito «nascondersi a morire in un buco,
piuttosto che cadere nelle mani di quei manigoldi di cui si legge che ingannano,
comandano, tormentano, decidono e coprono di vergogna i poveri onesti»301.
Questa metafora prende piena forma proprio con la morte della vecchia Betty
che, fuggendo da chiunque cercava con un gesto di “carità” di portarla
all’ospizio dei poveri, trovò finalmente la pace sulle rive del fiume (che
rappresenta l’impersonalità della morte), là dove ancora il Tamigi scorreva
limpido, riuscendo almeno ad andarsene in libertà da un mondo tanto
opprimente302. Nelle parole della stessa signora Hidgen: «per tutta la vita ho
lottato contro la parrocchia; l’ho sfuggita per tutta la vita e ora vorrei morire
lontana». E questo appunto il commento del narratore: «Cucita nel corpino, la
somma destinata a pagare il funerale era ancora intatta. Se resisteva fino a
notte, allora si sarebbe distesa per morire protetta dall’oscurità, sarebbe morta
indipendente. Se, invece, la catturavano prima, le avrebbero strappato il
denaro, perché era una povera e non aveva il diritto di possederlo, poi
l’avrebbero portata a forza nel maledetto ospizio […]. Pensieri illogici,

300
C. Dickens, In luogo della prefazione, 2 settembre 1865, in C. Dickens, Il Nostro Amico
Comune, cit., p. 1037.
301
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 255-256.
302
J. H. Miller, op. cit., pp. 318-319.

104
incongruenti e sciocchi ma i viaggiatori nella valle dell’ombra della morte lo
sono spesso; e i vecchi di umile condizione, quando non ne possono più, usano
lo stratagemma di ragionare male, come vissero: certamente se godessero di
una rendita di diecimila sterline, apprezzerebbero con maggiore filosofia la
nostra legge sui poveri»303.
La storia di Betty, dunque, collocava la critica di Dickens all’interno della più
ampia dimensione del problema sociale delle workhouses. Nel 1834, il
Parlamento inglese modificò l’amministrazione dell’assistenza agli indigenti,
per porre rimedio al problema del pauperismo in ottica liberale e sulla base
delle esigenze dello sviluppo industriale. Ciò che spinse a una nuova
legislazione era l’idea che la vecchia organizzazione assistenziale non fosse
efficiente: incapace cioè non solo di ridurre il numero dei poveri, ma anche e
soprattutto di creare una popolazione ligia alla disciplina del lavoro, secondo
una strategia vera e propria di addomesticamento sociale304.
Il sistema Poor Law si basava sul codice sociale formulato dai Tudor alla fine
del 1300, secondo il quale un essere umano doveva lavorare per un “salario
giusto” ma, se non era in condizione di assolvere alla propria sussistenza,
doveva essere assistito dalla sua comunità, impersonata dall’istituzione
parrocchiale. Questo sistema, riformulato nel 1601 con l’Act for the Relief of
the Poor, si basava dunque su tre principi: l’obbligo di lavorare, una politica
di equilibrio tra guadagni e prezzi e un sistema di sicurezza sociale.
Il meccanismo prevedeva una tassa apposita che avrebbe finanziato il sussidio
statale, basato sul “sollievo esterno”: denaro e cibo. Tale sistema era però
destinato ad apparire antieconomico, poiché permetteva con troppa facilità alla
popolazione povera di sopravvivere grazie all’assistenza pubblica. Di qui, nel
XVIII secolo, una più rigida regolamentazione della legge: l’elargizione dei

303
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 645-646-647.
304
E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 265.

105
sussidi fu limitata ai soli residenti e domiciliati nella circoscrizione
ecclesiastica (così da limitare lo spostamento da parrocchia a parrocchia dei
mendicanti); e nel 1723, con il Workhouse Test Act, furono istituite le
workhouses, basate sul cosiddetto “sollievo interno”, ovvero l’ingresso in una
«casa di lavoro» di coloro che cercavano assistenza affinché essi si
guadagnassero vitto e alloggio con il lavoro305.
Dal 1795 l’assistenza pubblica dei poveri venne a costituirsi sulla base dei
principi espressi nella conferenza di Speenhamland, secondo i quali i “sussidi
esterni” sarebbero serviti a integrare i bassi salari quando questi fossero scesi
sotto il livello di sussistenza (calcolato in base ai prezzi correnti dei beni di
prima necessità e sul numero di figli), in una logica volta a riorganizzare il
sistema d’assistenza sulla base di una sua amministrazione più centralizzata.
Tramite il sussidio alle famiglie povere più numerose, il Governo intendeva
mantenere stabile il tessuto sociale, nonostante i cambiamenti, veri e propri
scossoni causati dal passaggio ad un economia capitalista con una produzione
industriale306.
In questa evoluzione, la legge dei poveri da quel mezzo “eccezionale” di
risposta a una particolare condizione di precarietà che era stata in passato,
diventava struttura portante della vita dei poveri, soprattutto nelle campagne,
permettendo a chi produceva una miglior gestione della forza lavoro. I padroni
avevano, infatti, la possibilità di mantenere in loco la manodopera di riserva
utile durante i lavori stagionali e, allo stesso tempo, potevano contenere il costo
del lavoro in salari abbastanza bassi. Il tradizionale sistema comunitario basato
sull’assistenza reciproca era stato ormai cancellato prima dalle enclosures e
poi dalle poor law, e le fasce più basse della popolazione, oltre che immiserite

305
Le informazioni storiche sull’evoluzione del sistema delle Old Poor Law sono state
tratte dal sito internet: www.workhouse.org.uk
306
E. J. Hobsbawm e G. Rudé, Capitan Swing: Rivoluzione Industriale e Rivolta nelle
Campagne, Editori Riuniti, 1992, Roma, pp. 47-48.

106
e immerse nell’ignoranza, si trovavano totalmente in balia degli obblighi
imposti loro dallo Stato307.
A cavallo tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 il sistema Poor Law fu messo
in discussione dai politici e dagli economisti in quanto ritenuto poco
produttivo: i lavoratori, a causa dei sussidi, non erano incentivati a lavorare.
Inoltre, con l’aumento della popolazione e della disoccupazione era aumentato
anche il numero dei poveri, per cui diventava sempre più necessario porre
rimedio a una situazione che rischiava di diventare ingestibile. Era necessaria
una nuova legislazione ispirata ad un approccio utilitarista-liberale che
rendesse più efficiente e più produttiva l’assistenza ai poveri.
Così nel 1832 il Governo whig istituì la Royal Commission into the Operation
of the Poor Law, incaricata di riformulare il sistema di assistenza ai poveri. La
relazione della Commissione speciale, che divenne la base del progetto
legislativo, stabilì una serie di raccomandazioni fondate sull’assunto che la
povertà non era causata da problemi economici, politici e sociali, ma
dall’inettitudine degli individui: era perciò necessaria una legge per
disincentivare la mancanza di disciplina lavorativa nella popolazione308.
Il rapporto della Commissione fu integrato nella Poor Law Amendment Act del
1834, la legge che istituì la New Poor Law, che riorganizzava il sistema di
assistenza, ponendo come fulcro il nuovo modello di workhouse, opifici-
dormitori in cui contenere e far lavorare i poveri, imponendo loro condizioni
di vita più disagevoli di quelle degli operai meno retribuiti. Le case del lavoro
erano degli edifici che dovevano simulare la detenzione carceraria (non a caso
alcuni di essi furono costruiti sulla base del carcere panottico disegnato da
Bentham, che permetteva di controllare i reclusi da un unico punto di

307
Ivi, cit., pp. 31-33.
308
An Act for the Amendmentand better Administration of the Laws relating to the Poor in
England and Wales (14 agosto 1834); testo reperibile alla pagina web
www.workhouses.org.uk/poorlaws/1834act.shtml

107
osservazione centrale309): erano circondati da mura, e i loro ospiti vestivano
una divisa, erano divisi per sesso e per età in sezioni completamente separate,
sottoposti ai lavori forzati e a una disciplina interna ferrea, accompagnata da
altrettante severe punizioni (che andavano dalla riduzione dei pasti, fino al
pestaggio e all’isolamento). Tutto all’interno di queste strutture, era pensato e
costruito per creare un vero e proprio clima di «terrore psicologico: lavoro,
disciplina e cinghia»310; dalla routine puntualmente scandita dalle sirene fino
all’obbligo di mantenere il totale silenzio e l’impossibilità di incontrare i propri
familiari, senza considerare l’assenza di prevenzione igenico-sanitaria e
l’assoluta inefficienza delle infermerie311.
Non senza ragione così ironizzava Dickens: «I vergognosi resoconti che
leggiamo ogni giorno dell’anno, o signori e membri del Governo, i rapporti
infami circa l’inumanità dei piccoli funzionari, non vengono intesi dal popolo
con il medesimo spirito con cui li intendiamo noi. Di qui hanno origine quei
pregiudizi, ciechi, irrazionali, ostinati, incomprensibili alla nostra munificenza,
un’origine priva di ragione – Dio salvi la Regina e al diavolo la loro politica!-
come il fumo che si alza dal fuoco»312
Il sistema di workhouse fu riorganizzato come un vero e proprio strumento
rieducativo delle masse e con una funzione di deterrente per chiunque rifiutasse
il lavoro in fabbrica, diventando così un luogo di disperazione temuto ancor
più delle prigioni.
È un fatto che il Dickens di Our Mutual Friends cercò di mantenere continuo

309
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2014, p. 213.
310
La citazione è tratta da Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 266.
311
Per rendere l’idea della mentalità con cui la New Poor Law fu attuata, sembra opportuno
citare le parole di alcuni commissari dell’epoca: «il nostro intento è di rendere le case di
lavoro simili il più possibile a prigioni»; e ancora: «il nostro obiettivo è di stabilirvi una
disciplina così dura e repulsiva, da farne uno spauracchio per il mendico e distoglierlo
dall’entrarvi» (in E. P. Thompson, Rivoluzione Industriale, Vol. 1, cit., p. 266).
312
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 413.

108
lo scontro di immagini tra le scena della vita lussuosa dell’alta società e
l’inconcepibile miseria che regnava ai bordi dei marciapiedi di ogni strada e,
inserendo abilmente una digressione, riuscì a toccare la penosa questione del
mercato degli orfanelli, ironizzando con un parallelo tra la tratta dei bambini e
i mercati finanziari313.
«Appena si veniva a sapere che qualcuno desiderava un orfanello, spuntavano
immediatamente dei parenti affezionati che mettevano una taglia sulla testa del
bambino. Quindi l’improvviso rialzo sul mercato dei prezzi di un orfano non
era paragonabile alla più vertiginose ascese dei valori in Borsa […]. Il mercato
veniva attivato con mezzi artificiosi: si mettevano in circolazione valori
contraffatti; dei genitori fingevano audacemente di esser morti e portavano con
sé i loro stessi orfani; orfani autentici venivano sottratti con la frode al mercato
[…]. Ma il principio uniforme alla base di tutte queste varie operazioni era la
contrattazione e la vendita»314.
Forte della polemica di continuo ravvivata contro le condizioni di povertà della
gran parte della popolazione londinese, Dickens, tramite le scene in cui
agivano i suoi personaggi, costruì il contesto in cui scoccare le sue frecce
contro le istituzioni, responsabili della diffusione di tanta miseria e incapaci a
mettervi un freno. Nello slum «svolazzano sempre sciami di giovani selvaggi,
che trascinano pezzi di casse d’arancia e immondizia marcia -in quali buchi
portino tutto ciò, Iddio solo sa, dal momento che sono senza tetto! - I loro piedi
nudi battono con un suono sordo e cupo il marciapiede quando i poliziotti li
rincorrono; e forse perciò i Potenti della terra non li sentono, mentre se fossero
calzati di stivali farebbero un fracasso assordante»315.

313
F. M. Casotti, op. cit., p. 86-87.
314
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 250-251.
315
Ivi, cit., p.919.

109
3.4.2. «La Voce della Buona Società»

Per concludere, Our Mutual Friends offre un vero e proprio affresco della
società vittoriana di metà ‘800 come fondamento dell’atto di accusa nei
confronti dei ceti sociali più alti, responsabili della miseria dilagante, in quanto
soggiogati «all’influenza nefasta del denaro»316.
L’Inghilterra della Regina Vittoria, protesa verso il sogno dell’Impero e della
ricchezza, sommersa da meraviglie tecnologiche ed esaltata da nuovi obiettivi,
era ormai presa in ostaggio dall'ingordigia e dalla fame di profitti da soddisfare.
Il contrasto tra la rappresentazione dell’alta borghesia e l’ambientazione
lugubre della Città, dove i cadaveri galleggiavano nel fiume e la miseria sedeva
all’angolo di ogni strada, costituisce il nocciolo dell’accusa dell’autore contro
le istituzioni e contro la classe dirigente della nazione. Sin dal secondo
capitolo, il lettore è catapultato da una squallida periferia lungo il fiume alla
sala da pranzo della lussuosa residenza dei Veneering, nei quartieri eleganti
della città. In quella residenza, l’autore presenta l’ambiente della ricca società
londinese, mostrando i personaggi tramite il riflesso di uno specchio che,
ribaltando la realtà ingannevole, intende mostrare chi sono realmente costoro,
al di là delle apparenza pubbliche, degli status sociali e materiali che
nascondono, come una vera e propria maschera, la loro intimità317.
«Il grande specchio sopra la credenza riflette la tavola e i commensali […].
Riflette il signor Veneering, quarant’anni, bruno, capelli ondulati, tendenza alla
pinguedine, espressione furba, misteriosa, un po’ velata: una specie di profeta,
abbastanza di bell’aspetto, che tiene per sé le proprie profezie[…]. Riflette
Podsnap, mentre si nutre abbondantemente, testa calva ornata ai lati da due

316
Ivi, cit., p. 742.
317
J. H. Miller, op. cit., p. 296.

110
alette irte e scolorite, simili più a spazzole che a capelli, panorama di foruncoli
rossi sparsi sulla fronte, e dietro la nuca una grossa porzione di colletto di
camicia sgualcito […]. Riflette Twemlow, grigio, secco, beneducato, sensibile
alle correnti d’aria […], guance infossate, come se anni fa avesse fatto un
grande sforzo per ritirarsi in se stesso e si fosse fermato a quel punto e non
fosse mai più andato avanti»318
L’accusa costruita nel testo dickensiano, anche se parte dall’analisi di alcuni
singoli personaggi, si eleva a comprendere tutta la società: ognuno di essi,
infatti, rispecchia un ruolo sociale predeterminato, che si muove in un mondo
già costruito e il cui senso è già stato tracciato319. Due personaggi in particolare
vengono eretti a simulacri dell’alta società inglese e, più nello specifico, di
posizioni di particolare importanza nella Londra vittoriana: Veneering, con i
suoi intrighi per entrare in Parlamento, e Podsnap, rappresentante del mondo
della finanza.
Il signor Veneering è presentato come una vera e propria caricatura del
deputato parlamentare (seguendo in parte le stesse linee di invettiva che
avevano caratterizzato la figura di Gridgring in Hard Times), che è riuscito a
ottenere un importante ruolo sociale grazie alla sua ricchezza, passando le sue
giornate a girare in carrozza per la città e ad organizzare banchetti in cui
invitare tutti coloro che potevano favorire la sua ascesa politica.
«Un bel giorno Britannia320, mentre sedeva pensierosa (forse nella posa in cui
viene raffigurata sulle monete di rame) si accorge all’improvviso che le occorre
Veneering in Parlamento. Scopre che Veneering è un «uomo rappresentativo»
-cosa di cui ai giorni nostri è impossibile dubitare- e che senza di lui la leale
Camera dei Comuni di Sua Maestà sarebbe incompleta. Britannia dunque fa

318
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 17-18.
319
J. H. Miller, op. cit., p. 294.
320
Britannia è l'impersonificazione ironica della Nazione, come raffigurata sulle monete da
un penny.

111
sapere a un uomo di legge, suo amico, che se Veneering sborserà cinquemila
sterline, potrà aggiungere al suo nome due lettere iniziali, al modestissimo
prezzo di duemilacinquecento sterline l’una. Vi è un’intesa ben chiara tra
Britannia e l’uomo di legge che nessuno debba intascare le cinquemila sterline,
ma che, una volta sborsate, scompariranno per effetto di magie e
incantesimi»321.
Nel personaggio di Veneering si incentra la messa in discussione dell’autore
sulla scelta dei candidati nelle varie circoscrizioni in occasione delle Elezioni
Generali e, dunque, l’opposizione all’intero sistema elettorale e di
rappresentanza: tutta la nazione si era venduta per pochi spiccioli322.
La figura di Podsnap rappresentava poi quella categoria sociale che si era
arricchita con i titoli azionari e il commercio estero: la sua unica
preoccupazione era di accumulare sempre più denaro e non fallire in
quest’impresa. «Come tutti i saggi di quella generazione sanno bene, il mercato
azionario è l’unica cosa al mondo con cui vale la pena avere contatti. Non
importa se non avete antenati, un carattere forte, cultura, idee, educazione:
cercate di avere titoli azionari […]. Che gusti hai? I titoli. Quali principi? I
titoli. Che cosa l’ha fatto entrare a forza in Parlamento? I titoli. Forse da solo
non avrebbe mai ottenuto successi, non avrebbe mai creato, né prodotto nulla?
Basta una risposta sola a tutto: i titoli! Innalzare fino al cielo quelle immagini
squillanti, e indurre noi, misera feccia a gridare giorno e notte, quasi fossimo
sotto l’influenza dell’oppio o del giusquiamo: Liberateci del nostro denaro,
scialacquatelo, comperateci, vendeteci, rovinateci, ma collocatevi, per favore,
fra i potenti della terra e ingrassatevi a nostre spese!»323.
Il signor Podsnap viene “eletto rappresentante” della «Podsnapperia»324, un

321
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 981.
322
F. M. Casotti, op. cit., p. 158.
323
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., pp. 148-149.
324
Ivi, p. 165.

112
modo di vivere basato sulla totale indifferenza rispetto ai problemi della realtà,
grazie al quale «tutto quello che [egli] decideva di ignorare cessava ipso facto
di esistere. Questo modo di liberarsi delle cose sgradevoli portava a
conclusioni dignitose, oltre che assai comode, e aveva molto contribuito ad
innalzare il signor Podsnap fino a quella elevata considerazione del signor
Podsnap»325.
In un confronto tra quest’ultimo e uno straniero invitato nella sua dimora,
Dickens mette in ridicolo l’atteggiamento di chi, nell’alta società, sbandierava
la superiorità del proprio Paese. È in questo passaggio che si concentra uno
degli attacchi più decisi dell’autore alle istituzioni: l’esaltazione che Podsnap
fa del suo Popolo e della Costituzione è talmente pomposa e grottesca («La
Nostra Costituzione: noi Inglesi ne siamo fierissimi. Essa ci è stata elargita
dalla Provvidenza. Nessun altro paese è stato favorito quanto il nostro»326) da
rovesciare totalmente il significato delle sue affermazioni e da mettere il
lettore di fronte a una feroce parodia di tutto il sistema politico britannico327.
Our Mutual Friends appare come un testo che va ben oltre la semplice critica
anti-borghese dell’Inghilterra vittoriana, ma va a racchiudere al suo interno una
più ampia polemica contro la «natura umana»328, plasmabile e facilmente
corruttibile: «il potere (se non è quello della virtù o dell’intelletto) esercita una
grande attrazione sulle nature vili»329. L’intero romanzo rappresenta un quadro
completo dell’epoca vittoriana, dalle strade melmose ai palazzi sfarzosi,
cogliendo le sfumature di un mondo che, senza più alcun principio morale,
correva verso il suo inesorabile declino.

325
Ivi, pp. 165-166.
326
Ivi, pp. 169-172.
327
C. Pagetti, Vivere e morire a Londra, in C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p.
VIII.
328
C. Dickens, Il Nostro Amico Comune, cit., p. 746.
329
Ivi, p. 635.

113
4 Il messaggio del romanziere: Gissing e
Orwell e l’interpretazione di Dickens

L’analisi dell’opera dickensiana e della testimonianza storica in essa espressa,


non può non rinviare all’esigenza di decifrarne politicamente il messaggio e
comprenderne la sostanza. In fondo la scrittura, i giornali e le conferenze erano
gli strumenti tramite i quali il romanziere voleva far sentire la sua voce e
influenzare il mondo con il suo contenuto, che assumeva così una rilevanza
sociale e, dunque, politica. «Qualsiasi scrittore, e in primo luogo qualsiasi
romanziere, ha un suo «messaggio» che ne influenza l’intera opera fin nei
minimi particolari. Tutta l’arte è propaganda. Né lo stesso Dickens né buona
parte dei romanzieri vittoriani si sarebbero mai sognati di negarlo. D’altro
canto, non tutta la propaganda è arte. […] Dickens è uno di quegli autori di cui
vale la pena appropriarsi. Lo hanno fatto i marxisti, i cattolici e, soprattutto, i
conservatori. Ora viene da chiedersi: appropriarsi di cosa?»330.
In questo commento di George Orwell c’è una chiave di lettura tanto più
meritevole di considerazione in quanto si intreccia con l’interpretazione che un
altro grande scrittore inglese, George Gissing, ha dedicato all’opera
dickensiana
In una lunga monografia pubblicata nel 1898, Gissing offre un’immagine
completa della narrativa e della personalità dell’autore vittoriano, analizzando
vari aspetti della sua opera, da quelli strettamente estetici e letterari (stile,
personaggi, humor e pathos) a quelli legati agli eventi biografici e al periodo

330
G. Orwell, Charles Dickens, in C. Dickens, Tempi Difficili, cit., pp. 372-373.
Il saggio è stato pubblicato nel volume Inside the Whale, Secker & Warburg, Londra, 1940.

114
storico dell’autore. L’importanza di Gissing negli studi dickensiani sta nel fatto
che egli è stato uno dei primi a dare un’interpretazione sociologica del pensiero
di Dickens, offrendo una critica di tipo moderna che in parte anticipa la lettura
d’ispirazione marxista331. Il libro si articola in dodici capitoli ma uno in
particolare, il decimo intitolato The Radical, cerca di definire il pensiero
politico del romanziere inglese.
Da parte sua, Orwell, nel 1940 pubblicò all’interno del volume Inside the
Whale, un saggio su Dickens, in cui prendeva spunto proprio dal capitolo The
Radical per cercare di interpretare il messaggio politico del romanziere. Orwell
non si discosta molto dalla ricostruzione (sia letteraria che di più specifico
contenuto) di Gissing, chiamandolo direttamente in causa a sostegno del suo
discorso. Entrambi sono d’accordo nel considerare Dickens uno dei più
importanti romanzieri della storia e nell’elogiare le sue doti artistiche, ma
esprimono al contempo la necessità di fare chiarezza proprio sul tema della
politica. Contestano, infatti, che l’analisi di Dickens rimane sempre su un piano
generale di denuncia, giusto la tendenza ad osservare i problemi della realtà
piuttosto che rintracciarne le cause o proporre riforme applicabili332. In
particolare, entrambi accusano Dickens di costruire personaggi, che se pur con
dei tratti caratteriali forti e dettagliati, sono statici e isolati dall’ambiente
circostante, come se non fossero influenzati da specifiche condizioni sociali333.
Di qui la comune definizione di un Dickens moderato: nonostante criticasse la
società contemporanea, egli non voleva nessun sovvertimento delle gerarchie
tradizionali. «La verità è che in Dickens il giudizio sulla società è quasi
esclusivamente di tipo morale. Da qui l’assenza totale di proposte costruttive
in qualunque passo della sua opera. Dickens attacca la legge, il governo

331
M. T. Chialant, Dickens, Gissing e Orwell, Ist. Univ. Orientale, Napoli, 1969, pp. 6-7.
332
G. Gissing, op. cit., p. 65.
333
M. T. Chialant, Dickens, Gissing e Orwell, cit., p. 4.

115
parlamentare, l’istruzione e quant’altro, senza mai indicare esplicitamente
alternative […]. Non manifesta apertamente di voler sovvertire l’ordine
costituito né sembra convinto che in tal caso le cose sarebbero molto
diverse»334. Nonostante il romanziere accusasse direttamente molte istituzioni
(come il Parlamento, il mercato e il sistema finanziario, l’apparato giudiziario
etc..) e puntasse il dito contro la legislazione e l’amministrazione pubblica
dell’epoca (per esempio la New Poor Law e il sistema carcerario,
l’organizzazione dell’istruzione scolastica, il funzionamento degli orfanotrofi
e le condizioni di vita negli slum), ciò a cui egli aspirava era semplicemente un
ordine sociale senza soprusi.
Uno dei concetti che trapela con maggior forza dai suoi romanzi è «l'odio per
la tirannia»335, per il potere arbitrario e assoluto che persegue i suoi interessi
calpestando le vite delle persone più umili. Ma a ciò non si accompagna
un’analisi e uno studio puntuale delle dinamiche economiche, politiche e
sociali che caratterizzavano un periodo tanto turbolento come quello della
rivoluzione industriale. Gissing e Orwell addebitano questi limiti alla totale
ignoranza di Dickens in campo storico, che non gli permetteva di inquadrare
le dinamiche più generali del processo di cambiamento336; detto con le parole
di Orwell, Dickens «ha un’idea molto vaga di come va il mondo»337. La sua
capacità di trattare temi universali come i sentimenti e le passioni non era,
infatti, affiancata da un’eguale abilità nell’analizzare elementi reali come il
lavoro, come i rapporti produttivi ed economici determinati
dall’organizzazione sociale e di governo338.
Dickens mancava di consapevolezza politica e di coscienza di classe, non

334
G. Orwell, op. cit., p. 361.
335
Ivi, p. 364.
336
G. Gissing, op. cit., p. 64.
337
G. Orwell, op. cit., p. 365.
338
Ivi, p. 366.

116
conosceva veramente il mondo operaio e nulla o quasi sapeva dell’esistenza di
movimenti politici: per questo i suoi personaggi non erano animati da alcun
spirito di rivolta339. Di qui la conclusione comune ai due che Dickens è
incompetente rispetto alle reali condizioni del proletariato industriale e
profondamente disinteressato nei confronti della lotta di classe. Non è un caso
che solo in Hard Times egli abbia trattato il rapporto tra padroni e lavoratori, e
che anche in questo romanzo industriale Dickens condivida semmai una
tendenza filocapitalista, perché, come ha osservato Orwell, «l’assunto
definitivo del libro è che i capitalisti dovrebbero essere più umani, non che gli
operai dovrebbero ribellarsi. Bounderby è un prepotente e un pallone gonfiato
e Gradgrind per principio non vede al di là del proprio naso, ma se fossero
migliori il sistema funzionerebbe in maniera accettabile; questo, almeno, è
l’assunto di base. Ed è anche tutto quel che si riesce a cavare da Dickens in
fatto di critica sociale, a meno di non voler leggere per forza quello che non
c’è»340. E anche Gissing osserva come i personaggi più umili non sono affatto
animati da spirito di rivolta: «un'omissione più evidente dai suoi libri […] è
quello del lavoratore in guerra con il capitale. Questa grande lotta, in corso
davanti a lui per tutta la vita, non ha trovato posto nello schema della sua
narrativa»341. Nei suoi romanzi Dickens costruisce dei personaggi che soffrono
sotto la tirannia come vittime passive quasi ignare della loro condizione, mai
vengono rappresentati lavoratori in lotta per il pane, i diritti e la libertà.
L’esempio più palese in tal senso è la figura di Stephen Blackpool, un semplice
modello di mitezza operaia, colpito da disgrazie sempre più gravi e totalmente
indifferente rispetto al conflitto di classe esistente342.
La riluttanza di Dickens verso la politica in generale e la sua più specifica

339
G. Gissing, op. cit., p. 70.
340
G. Orwell, op. cit., p. 362.
341
G. Gissing, op. cit., p. 66.
342
Ivi, pp. 66-67.

117
ostilità sia per i partiti sia per il movimento sindacale si intrecciavano con la
mancanza di fiducia nelle masse e nel proletariato, «qualcosa che, di tanto in
tanto, si solleva come un mare, distrugge e faceva danni (soprattutto a se stessa)
e poi tornava a calmarsi»343. La paura per la furia del mob è messa in risalto
sia da Gissing che da Orwell, là dove essi sottolineano che, come qualsiasi
borghese, Dickens considerava la rivoluzione e le ribellioni spontanee come
uno dei mali peggiori. La mancanza di consapevolezza politica si riflette
dunque nel fatto che Dickens non desiderava il rovesciamento dell’ordine
sociale inglese, bensì auspicava un’organizzazione “più umana” ed egualitaria,
che permettesse ad ogni classe di svolgere il proprio ruolo all’interno di una
società organicamente strutturata. Secondo Dickens, chi deteneva il potere
avrebbe dovuto governare illuminato dalle virtù dell'integrità morale e del
senso di giustizia, ascoltando la voce del popolo e impegnandosi
paternalisticamente per alleviare le sofferenze delle classi povere344. Ne è
prova la presenza, in tantissimi romanzi, dell’uomo ricco e generoso che pone
rimedio alle mancanze della società: «il rimedio universale è la bontà del
singolo»345. L’atto caritatevole e generoso delle classi “superiori” diventa la
soluzione per eliminare le condizioni più degradanti della vita contemporanea.
Gissing e Orwell, che invece si sono sempre dichiarati contrari alla politica del
filantropismo (incapace di offrire un aiuto alle masse sfruttate, al più
nascondendo alcune conseguenze dello sfruttamento), affermano, invece, che
l’appello dickensiano a una presunta bontà della natura umana evidenzia il
senso di colpa dell’autore, responsabile giacché appartenente alle classi
privilegiate346.
Dickens, come afferma Orwell, è il contrario di uno scrittore proletario. Infatti,

343
C. Dickens, Tempi Difficili, cit., pp. 189-190.
344
G. Gissing, op. cit., p. 66.
345
G. Orwell, op. cit., p. 363.
346
M. T. Chialant, Dickens, Gissing e Orwell, cit., p. 9.

118
la classe che l’autore meglio descrive è quella a cui apparteneva, la piccola-
medio borghesia commerciale cittadina, e la morale che esprimeva si basava
sui valori che questa classe incarnava nella nuova età vittoriana347. Il giudizio
conclusivo è quindi che Dickens è un’artista, un riformatore non
rivoluzionario, integrato nella classe cui apparteneva sfruttando la posizione
sociale che era riuscito a raggiungere. Come dice Gissing: «Non era lui stesso
un brillante esempio di self-made man?»348.
«In ogni suo attacco contro la società, Dickens sembra voler auspicare un
mutamento della psiche piuttosto che della struttura. Non ha senso costringerlo
a sposare […] una dottrina politica»349. L’insofferenza del romanziere per ogni
forma di ingiustizia sociale e la sua distanza dalle ideologie politiche, unite alle
formidabili doti artistiche, gli permisero non solo di essere accessibile ad un
pubblico proletario, ma anche di avere una risonanza tale da pretendere di
influire sulle decisioni della classe governante. Dickens, dunque, rappresenta
la figura dell’intellettuale impegnato che agisce all’interno di un sistema di cui
soffre le contraddizioni: da scrittore borghese qual era, poteva conoscere
meglio e quindi portare più a fondo la sua critica personale alle istituzioni e ai
(dis)valori della società contemporanea350.

347
G. Orwell, op. cit., p. 365.
348
G. Gissing, op. cit., p. 66.
349
G. Orwell, op. cit., p. 364.
350
Ivi, pp. 368-369.

119
5 Dickens oggi

L’opera di Dickens affascina tutt'oggi, dopo quasi 150 anni dalla sua
scomparsa, lettori di tutto il mondo. I suoi romanzi meritano ancora attenzione
non solo per la loro importanza letteraria e le innovazioni apportate al genere
romanzesco, ma anche per la capacità dell’autore di riprodurre luoghi, soggetti
e modi di vita talmente dettagliati da rimanere nella mente come ritratti ben
distinti della sua epoca. Leggere Dickens è come fare un tuffo nel passato e
respirare l’atmosfera dell’epoca vittoriana. All’interno dell’opera del
romanziere è contenuto un intero universo di figure umane, di donne, uomini,
anziani e bambini che, nella loro varietà, racchiudono le esperienze e le vite
della moltitudine anonima di persone che subivano le contraddizioni sociali
dell’Inghilterra del ‘800. Non solo, ma i personaggi creati da Dickens
rappresentano l’individuo nelle sue passioni più intime, esprimendo i
sentimenti e le debolezze dell’animo umano. Difatti, l’aspetto storico
dell’avvento dell'industrializzazione e del sistema capitalistico non può essere
separato dal piano esistenziale: l’acuirsi delle contraddizioni sociali per
Dickens andava di pari passo con l’emergere di quei “disvalori” che
prendevano forma nell’individualismo di stampo liberale. L’avarizia e la
perfidia, come l’onestà e la generosità, sono i tratti estremizzati che
contraddistinguono i suoi personaggi: i caratteri stereotipati assumono una
valenza concreta nel momento in cui riflettono, più in generale, i reali aspetti
negativi e positivi dell’essere umano.
L’accusa di Dickens contro la società vittoriana partiva proprio dal punto che

120
il nuovo sistema industriale degradava gli individui, distruggeva in loro ogni
principio comunitario e ogni capacità creativa, a partire dall’immaginazione.
In questo senso, la critica dickensiana assume un valore maggiore nel momento
in cui riesce a mettere a nudo le durissime condizioni di vita in cui furono
costrette milioni di persone: coloro che subivano le conseguenze più strazianti
dello sviluppo di un sistema di potere che aveva designato come suoi princìpi
assoluti proprio il materialismo e l’egoismo estremo. La forte empatia verso
queste classi disagiate portò Dickens a mettersi in prima fila nella denuncia
delle ingiustizie nate in seno alla nuova società industriale.
Lo studio della letteratura dickensiana non a caso ha contribuito a individuare
nelle principali contraddizioni sociali causate dalla rivoluzione industriale e,
più in generale, nelle profonde trasformazioni del XIX secolo, il terreno su cui
maturò un’esperienza di vita slegata da un’ideologia politica specifica ma
contraddistinta da una singolare sensibilità.
La figura del romanziere vittoriano incarnava la condizione di chi, pur legato
a uno status privilegiato, mostrava perplessità rispetto all’evolversi delle
strutture sociali, produttive e politiche contemporanee. La critica di Dickens
tendeva a porre l’attenzione sulle profonde diseguaglianze economiche e sulle
ingiustizie sociali, sulla totale arbitrarietà delle istituzioni e sulle devastanti
conseguenze ambientali dell'industrializzazione.
Allo stesso tempo, l’ambiguità di Dickens rispetto ai processi storici di cui è
stato testimone mostra non solo l’incapacità di analizzarne l’origine, ma anche
la difficoltà, per chi viveva nel pieno della rivoluzione industriale, di
interpretarne il significato e comprenderne le conseguenze future. Ne è un
esempio il giudizio contraddittorio sul progresso tecnico e sulla diffusione
della macchina a vapore, considerati da un lato come strumento di oppressione
fisica e mentale, e dall’altro utili per un possibile futuro miglioramento delle
condizioni di esistenza.

121
In realtà, leggere Dickens oggi permette di mettere in luce le medesime
difficoltà di interpretazione dei cambiamenti storici. Nell’epoca
contemporanea, in cui il progresso tecnologico e scientifico modifica la realtà
a un ritmo sempre più serrato, generando conseguenze dalle proporzioni
imprevedibili, non è cambiata solo la struttura produttiva e politica, ma la
stessa vita delle persone: il modo di pensare e di agire, le forme e le relazioni
sociali sono state stravolte. L’alienazione e l’apatia, l’insicurezza e
l’omologazione dominano le società occidentali, dove ogni aspetto
dell’esistenza è stato mercificato e il consumismo dilagante imbriglia le
prospettive personali.
Le iniquità e le ingiustizie che caratterizzano la società odierna, figlia della
rivoluzione industriale inglese, rendono la denuncia di Dickens valida ancora
oggi, offrendo spunti critici per comprendere con maggior consapevolezza il
mondo che ci circonda. Le contraddizioni verso cui il celebre romanziere
puntava il dito, hanno sì cambiato forma, ma riproducono la medesima
sostanza. La distruzione degli ecosistemi, lo sfruttamento e l’impoverimento
delle popolazioni, l’impero dell’economia politica e della finanza sono alcuni
dei problemi che, nell’era della globalizzazione, hanno assunto ancora più
forza ed estensione.
Oggi che queste contraddizioni si palesano lontane dall’occidente, sarebbe
riuscito Dickens a comprendere le forme odierne dello sfruttamento industriale
e le iniquità sociali ormai globalizzate? Come avrebbe considerato la
digitalizzazione delle relazioni sociali e l’appiattimento di ogni personalità
davanti a schermi sempre più interattivi? E come avrebbe reagito
all’inquinamento dei mari e della terra, alla deforestazione e all’estinzione di
centinaia di specie animali e vegetali?

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6 Bibliografia

Opere di Dickens

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• Dickens C., Le Avventure di Oliver Twist, Mondadori, Milano, 2004.
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• Dickens C.,, Great Invasion, in “HouseHold Words”, Vol. V, aprile
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