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Essere Nel Mondo Ma Non Del Mondo
Essere Nel Mondo Ma Non Del Mondo
Andrew Cohen: Cosa volete dire esattamente con : “il significato del mondo è
nella sua trascendenza”?
E, in fin dei conti, a forza di non trovare, si genera una sofferenza. Questo è
l’inizio di un risveglio, quando c’è una presa di coscienza che “forse questa
non è la via, non arriverò forse dove mi sforzo di andare, forse questo non è
affatto nel tempo”. Dopo essere stato perso in questo mondo,
improvvisamente, attraverso la sofferenza, si prende coscienza che le
risposte non possono essere trovate fuori, in una realizzazione materiale, né
nel tempo. E’ un traguardo importante da raggiungere per molte persone.
Questo provoca un senso di crisi profonda: quando il mondo come lo conosco
e il senso di sé che ho conosciuto, identificato nel mondo, non hanno più
senso.
Degli anni più tardi, ho chiamato questo stato di calma “pura coscienza” e
tutto il resto “coscienza condizionata”; anche gli oggetti lo sono. La coscienza
condizionata è nata in quanto forma ed è da allora diventata il mondo. Così
l’essere perso nel condizionato sembra necessario all’essere umano. Sembra
che essere perso nel mondo, assorbito dalla mente che è la coscienza
condizionata, faccia parte del suo cammino. E, grazie alla sofferenza patita
quando siamo perduti, si scopre che l’incondizionato è noi stessi.
Ecco perché abbiamo bisogno del mondo per trascendere il mondo. Sono
infinitamente riconoscente d’essere stato perduto. Il significato del mondo è
per voi, alla fine dei conti, di perdervici. Il significato è per voi di soffrire,
creare la sofferenza sembra necessario perché nasca il risveglio. E una volta
che sorge il risveglio, viene con lui la presa di coscienza che la sofferenza non
è più necessaria. Arrivate alla fine della sofferenza perché avete trasceso il
mondo.
E.T.: Si. E’ dunque bene che la gente sia persa nel mondo. Mi piace andare a
New York o a Los Angeles dove la gente sembra totalmente assorbita.
Guardavo da una finestra a New York. Eravamo in un gruppo vicino allo
Empire State Building. Nella strada la gente si agitava in tutta le direzioni,
quasi correndo. Ognuna sembrava in uno stato di tensione nervosa, di ansia.
Questa è sofferenza, reale, ma non è riconosciuta tale. Mi sono domandato,
ma dove corrono così? E, in effetti, correvamo tutti verso il futuro. Hanno
bisogno, di andare verso un posto, che non è qui. E’ una corsa nel tempo:
non ora, più tardi. Corrono verso un “più tardi”. Soprattutto, ma non lo sanno
nemmeno. Ma a me, anche solo guardare questo spettacolo, procura gioia.
Non mi dicevo: “bisogna che lo sappiano”. Loro seguono il loro cammino
spirituale. Per adesso questo è il loro cammino spirituale, e va
meravigliosamente bene.
E.T.: Tutto ciò che è reale è lo stesso essere. La coscienza è tutto ciò che è,
la pura coscienza.
A.C.: Volete dire che la definizione del “reale” è ciò che è libero dalla nascita
e dalla morte?
E.T.: Giusto.
A.C.: Allora chi non è mai nato e non può morire è reale. E, siccome il mondo
manifesto non è, in definitiva, separato dal non separato, secondo voi, si
dovrebbe dire che è reale.
E.T.: Si, e anche in ogni forma soggetta alla nascita e alla morte, si trova
l’immortale. L’essenza di ogni forma è l’immortalità. Anche l’essenza di un filo
d’erba è l’immortalità. Per questo il mondo della forma è sacro... Il campo del
sacro non è esclusivamente l’Essere o il non-manifesto. Considero il mondo
della forma come sacro.
E.T.: Per il non-risvegliato il mondo è tutto ciò che esiste. Non c’è nient’altro.
Questo modo di coscienza limitato nel tempo si attacca al passato per la sua
identità e ha disperatamente bisogno del mondo per la sua felicità e la sua
realizzazione. Pertanto, il mondo porta un’ immensa promessa, ma fa pesare,
al tempo steso una grossa minaccia. E’ il dilemma della coscienza non-
illuminata: è divisa tra cercare la realizzazione nel e attraverso il mondo e
essere continuamente sotto la sua minaccia.
Una persona spera che si ritroverà nel mondo, ma al tempo stesso teme che
il mondo lo uccida, secondo la sua volontà. E’ lo stato di continuo conflitto al
quale è condannata la coscienza non-risvegliata, essere continuamente tra il
desiderio e la paura. E’ terribile. La coscienza risvegliata è radicata nel non-
manifesto ed è Uno con questo. Sa di essere questo. Si potrebbe quasi dire
che è lo sguardo del non-manifesto.
Anche con una cosa semplice come percepire visivamente una forma, come
un fiore o un albero, se la percepisce in uno stato di grande attenzione e di
calma interiore, libera dal passato e dal futuro, allora in quell’istante il non-
manifesto è già presene. In quell’istante non siete più una persona. Il non-
manifesto si percepisce da solo in una forma. E, in questa percezione, si
trova sempre un senso di bontà. Ogni azione che viene in seguito a questo
possiede una qualità completamente differente dall’azione che proviene dalla
coscienza non-risvegliata, che ha bisogno di qualcosa e cerca di proteggersi.
E’ realmente là dove si trovano queste qualità preziose e intangibili che
chiamiamo amore, gioia e pace. Sono Uno con il non-manifesto, emergono
da Quello. Un essere umano che è attaccato a questo e agisce e interagisce
di conseguenza, diventa una benedizione per il pianeta, mentre l’uomo non-
risvegliato è molto pesante per il pianeta. C’è una pesantezza associata al
non-risvegliato. Il pianeta soffre di milioni di uomini non-risvegliati. Il fardello
del pianeta è troppo pesante. A volte, posso sentirlo dire: “Oh, basta, per
favore”.
A.C.: Voi incoraggiate le persone a meditare fin che è possibile su, come lo
descrivete “riposare nella Presenza dell’Adesso”. Pensate che questa pratica
spirituale possa sempre essere veramente interiorizzata e avere il potere di
liberare se non si è già rinunciato al mondo e a ciò che rappresenta, almeno
a un certo livello?
E.T.: Non direi che la pratica ha da sola il potere di liberare. E’ solo quando
c’è un abbandono completo all’adesso, a ciò che è, che la liberazione è
possibile. Non penso che una pratica vi porterà a un abbandono completo.
Questa si attua abitualmente nel seno stesso della vita. Questa succede a voi
nella vostra vita. Può succedere un abbandono parziale, poi un’apertura, e
poi potete impegnarvi in una pratica spirituale. A meno che la pratica non sia
giunta ad un certo livello di profondità, non potrà generare questo
abbandono.
A.C.: Ho trovato nel mio insegnamento qualcosa che funziona: a meno che il
mondo non sia stato visto attraverso una certa angolazione, e a meno che
non ci sia una volontà basata sulla ricerca di lasciar-andar il mondo,
qualunque sia l’intensità di una esperienza spirituale, non porterà ad alcun
tipo di liberazione.
A.C.: Si, molte persone dicono che vogliono meditare o seguire una pratica
spirituale, ma le loro aspirazioni non si basano sulla volontà di lasciar andare
qualcosa di importante.
E.T.: No, infatti, sarebbe piuttosto il contrario: la pratica spirituale può essere
un pretesto per provare a trovare qualcosa di nuovo con cui identificarsi.
A.C.: Dunque quando dite “si” a ciò che è, volete dire di non evitare le cose,
ma di affrontarle?
A.C.: Per la maggior parte delle persone che partecipano alla ricerca
spirituale dell’Oriente all’incontro con l’Occidente, sempre più veloce in questi
ultimi tempi, Gautama il Buddha e Ramana Maharshi (uno dei vedantici più
rispettati oggi) spiccano tutti e due come esempi ineguagliati di risveglio,
splendido e in modo molto interessante, ma, riguardo al giusto rapporto con
il modo dell’aspirante spirituale, i loro insegnamenti divergono
considerevolmente.
In effetti, molti dei suoi adepti, in numero sempre crescente, dicono, oggi,
che il desiderio di rinuncia è un desiderio dell’ego, proprio la parte di cui
vogliamo liberarci. Certo, il Buddha insiste molto sulla necessità della
rinuncia, del distacco, della costanza e della costruzione come veri
fondamenti sui quali può basarsi la liberazione interiore.
Perché pensate che gli approcci di questi due illuminati siano così diversi?
Perché il Buddha incoraggia i suoi seguaci a lasciare il mondo, mentre
Ramana li incita a restare dove sono?
E.T.: Non c’è che una sola via efficace. Nelle diverse epoche, certi approcci,
hanno potuto funzionare bene per una certa epoca e non avere alcun effetto
in un’altra. Il mondo in cui viviamo oggi pesa molto di più, è molto più
invadente. E quando dico il mondo includo la mente dell’uomo. La mente
dell’uomo si è continuamente sviluppata dall’epoca di Buddha, 2500 anni fa.
E’ più inquieta e invadente e gli ego sono più forti. Si è verificato un
accrescimento dell’ego nelle migliaia di anni; è cresciuto fino alla follia e la
follia è arrivata al suo apogeo nel XX secolo. Basta leggere la storia del XX
secolo per vedere il parossismo della follia umana, se la si misura in termini
di violenza inflitta a degli uomini da altri uomini. Oggi non possiamo più
sfuggire al mondo; non possiamo scappare dalla mente. Abbiamo bisogno
d’entrare nell’abbandono mentre siamo nel mondo. Questo sembra essere il
cammino più efficace per il mondo in cui viviamo. Forse all’epoca di Buddha
era molto più facile ritirarsi che non oggi. La mente dell’uomo non era così
dominante.
E.T.: Bene, diede le sue ragioni, ma alla fine non sappiamo perché il Buddha
insiste sul fatto di ritirarsi dal mondo piuttosto che, come dice Ramana
Maharshi “agire nel mondo”. Ma mi sembra, dopo che ho osservato, che la
via più efficace per le persone di oggi è l’abbandono nel mondo piuttosto che
provare a ritirarsi dal mondo e creare una struttura che renda più facile
l’abbandono. C’è già una contraddizione quando create una struttura per
rendere più facile l’abbandono. Perché non abbandonare fin da ora? Non
avete bisogno di fare nulla per rendere più facile l’abbandono perché allora
non è più vero abbandono. Sono stato nei monasteri buddisti e ho potuto
vedere a che punto si può fare facilmente (hanno lasciato il loro nome per
adottarne un altro, si sono rasati la testa, portano i loro abiti).
E.T.: E’ vero. Per questo motivo fatelo dove siete, qui e ora. Non è necessario
cercare un altro posto, un’altra condizione o un’altra situazione, ma fatelo
qui. Fatelo qui e ora. Là dove siete è il luogo ideale per abbandonare.
Qualunque sia la situazione in cui vi trovate, potete dire “si” a ciò che è, ed è
il punto di partenza di ogni azione ulteriore.
A.C.: E che dire dell’appello spontaneo del cuore ad abbandonare tutto ciò
che è falso e illusorio, tutto ciò che è basato sulla relazione materialista
dell’ego alla vita? Per esempio, quando il Buddha decide: “devo lasciare la
mia casa dietro di me”, è difficile dire che si tratta di un desiderio egoista, la
ricerca di un risultato. E Gesù diceva: “venite e seguitemi, lasciate che i morti
seppelliscano i loro morti”
E.T.: Si. Non si può prevedere quale sarà il risultato di questo riconoscimento
interiore. E’ accaduto al Buddha perché era già un adulto quando realizzò che
gli uomini morivano, si ammalavano e invecchiavano. Questa scoperta fu così
forte che guardò in sé e si disse che niente aveva senso se era tutto ciò che
esisteva.
E.T.: Ma a quell’epoca non sapeva ancora che tutto ciò che era necessario è
l’abbandono.
E.T.: Per certe persone è in parte vero. Possono lasciare il loro ambiente o le
loro attività abituali, ma la vera domanda è sapere se hanno già visto il falso
in loro. Se non l’hanno mai visto, il lasciar andare esteriore è solo una forma
mascherata di stare meglio.
A.C.: Come ultima domanda, vorrei interrogarvi sulla relazione tra la vostra
comprensione del risveglio o l’esperienza della coscienza non-duale, e gli
obblighi mondani. Nel giudaismo impegnarsi a pieno nel mondo com’è è
considerata la realizzazione della chiamata religiosa. Infatti dicono che non è
vivendo con tutto il cuore i comandamenti che il potenziale spirituale della
razza umana si può manifestare sulla terra. L’erudito ebreo David Ariel, ha
scritto: “Noi terminiamo il lavoro di Dio… Dio ha bisogno di noi perché siamo
i soli che possono migliorare il mondo”.
E.T.: No, perché un’azione giusta non può uscire che da questo stato di
trascendenza dal mondo. Ogni altra attività è motivata dall’ego e, anche fare
del bene, se è motivato dall’ego, avrà conseguenze karmiche.
E.T.: Si, ma rimettiamo in ordine le cose. In primo luogo ciò che viene è la
realizzazione e la liberazione, per lasciare che l’azione ne esca, e sarà pura,
non macchiata, e non ci sarà più karma associato. Se no, poco importa la
altezza dei nostri ideali, noi rinforziamo ancora l’ego attraverso le nostre
buone azioni. Sfortunatamente, non potete seguire i comandamenti, a meno
di essere senza ego (e c’é poca gente che lo è); è quello che tutte le persone
che hanno provato ad applicare gli insegnamenti del Cristo hanno scoperto.
“Amate il vostro prossimo come voi stessi” è uno dei principali insegnamenti
del Cristo e non potete seguire questo comandamento, malgrado tutti i vostri
sforzi, se non sapete chi siete al livello più profondo.
“Amate il vostro prossimo come voi stessi” significa che il vostro prossimo è
voi stessi, e questo riconoscere l’Unità è Amore.