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Possiamo notare
come Ade rapisce
Proserpina e si
può notare come
siano anche
piuttosto fusi.
Prosfc18 Pausania, Descrizione della Grecia, I, 38 (5); II, 35 (7); VI, 21 (1-2); IX, 31 (5)
Prosfr01 *Angelo Poliziano, Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del
magnifico Giuliano di Pietro de Medici, I, 113 / Fabula di Orfeo, IV, 259-261
Prosfr02
Prosfr04 Niccolò degli Agostini, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in
verso vulgar con le sue allegorie in prosa et istoratio, V
Prosfr05 Gregorio Giraldi, De Deis gentium varia et Multiplex Historia, Libris Syntagmatibus
Prosfr06 Natale Conti, Mythologiae, sive explicationis fabularum, Libri decem, II, 9; III, 16
*Angelo Poliziano nella sua opera “le stanze” nel periodo di Firenze Medicea chiaramente
riprende e ricostruisce il mito di Ade e Persefone.
http://www.iconos.it/le-metamorfosi-di-ovidio/libro-v/ratto-di-proserpina/immagini/12-ratto-di-
proserpina/
Titolo dell'opera: Ratto di Proserpina
Autore: //
Datazione: II-III sec. d.C.
Collocazione: Londra, British
Museum, proveniente da Roma,
Tomba dei Nasoni, parete destra,
terzo pannello .
Committenza: //
Tipologia: pittura parietale
Tecnica: affresco staccato (71 x 98 cm)
Soggetto principale: Plutone rapisce Proserpina sul suo carro
Soggetto secondario: //
Personaggi: Plutone, Proserpina
Attributi: carro, cavalli (Plutone)
Annotazioni redazionali: La Tomba dei Nasonii è un monumento sepolcrale della via
Flaminia, celebre per i suoi affreschi con temi mitologici, ma tuttavia manomesso e
dimenticato per secoli. La sua riscoperta nel 1675, anno del Giubileo, suscita un grande
entusiasmo, soprattutto grazie alla prima identificazione – erronea – col sepolcro del poeta
Ovidio (Messineo, 2000). Poco dopo la scoperta, su incarico del Cardinale Camillo Massimo,
Pietro Santi Bartoli esegue dei disegni della decorazione dipinta. Antonio Nibby, visitando il
sepolcro nel maggio del 1825, riconosce sulle pareti alcuni dei quadri riprodotti nelle
incisioni del Bartoli, tra cui questo ratto di Proserpina, sul terzo pannello del fregio sulla
parete destra, che, insieme a cinque frammenti staccati dal soffitto, va a finire sul mercato
antiquario. Nel 1883, gli affreschi vengono staccati e acquistati dal British Museum, e
parzialmente restaurati. In questo affresco staccato, lo schema raffigurativo appare piuttosto
tradizionale: Plutone è su una quadriga, e porta via con sé l’infelice (?) Proserpina. I cavalli
sono marroni, i primi due più chiari; il carro è verde con ruote verde-marroni. Il corpo di
Plutone è anch’esso marrone e indossa un mantello viola, ombreggiato di verde. Proserpina
è più chiara e indossa un drappo giallo. Il terreno su cui corre il cocchio presenta varie
sfumature, che vanno dal grigio-verde fino al marrone. Dietro, lo sfondo è bianco. Se si
confronta il corrispettivo disegno ad opera di Pietro Santi Bartoli, però, si vede come sia
presente anche la figura di Mercurio a guidare la quadriga, con caduceo stretto in mano ed
elmo alato sul suo capo. Questo potrebbe far pensare che, originariamente, fosse presente
Mercurio anche nell’affresco; ma non si può esserne sicuri, poiché spesso le copie erano
solite aggiungere dettagli in più rispetto all’opera originaria. D’altra parte, infatti, il pittore
seicentesco ha anche aggiunto un paesaggio di invenzione, alle spalle di Plutone e Proserpina,
mentre nell’affresco vi è semplicemente uno sfondo bianco. (Cohen, 2010) [Roberta Diglio]
Titolo dell'opera: //
Autore: Maître François
Datazione: 1475-1480 ca. (pieno anticlassic)
Collocazione: L'Aia, manoscritto de La
Cité de Dieu di sant'Agostino, MMW, 10 A
11, f. 335r
Committenza: //
Tipologia: illustrazione
Tecnica: miniatura (120 x 80 mm)
Soggetto principale: Plutone rapisce
Proserpina.
Soggetto secondario: le compagne di Proserpina
raccolgono fiori; Cerere piange.
Personaggi: Plutone, Proserpina, compagne, Cerere.
Attributi: cestini di fiori (compagne)
Contesto: scena all'aperto (topos del locus amoenus)
Annotazioni redazionali: Questa miniatura è inserita all'interno delle illustrazioni di un
manoscritto del De Civitate Dei e risale agli anni tra il 1475 e il 1480 circa. L'ambientazione
e i personaggi sono ancora raffigurati in maniera assolutamente non classica, ma anzi con
abiti e pettinature cortesi, come perfetti contemporanei. Il miniaturista decide di raffigurare
in primo piano le compagne di Proserpina che raccolgono fiori nei loro cestini: tre di loro
alzano la testa e guardano in su, dove in alto nel cielo, ma in terzo piano, si libra Plutone che
porta via Proserpina tra le sue braccia. Non c'è nessun accenno all'atto violento, più che altro
sembrano volare a passo di danza. A destra, in secondo piano, è raffigurato il dolore di Cerere
dopo esser venuta a conoscenza del rapimento della figlia: inginocchiate davanti a lei, come
se fosse una regina, due compagne venute probabilmente ad annunciarle la scomparsa di
Proserpina. [Roberta Diglio]
Titolo dell’opera: Ratto di Proserpina
Autore: Bernardino di Betto, detto il
Pinturicchio (1452 ca.-1513)
Datazione: 1502-1508
Collocazione: Siena, Duomo, Libreria
Piccolomini, volta
Committenza: Cardinale Francesco Nanni
Todeschini Piccolomini, detto Papa Pio III (1439-
1503)
Tipologia: pittura parietale
Tecnica: affresco
Soggetto principale: Plutone rapisce Proserpina; un giovane insegue Plutone
Soggetto secondario: //
Personaggi: Plutone, Proserpina, figura maschile
Attributi: carro (Plutone)
Contesto: scena all'aperto
Precedenti: //
Derivazioni: Ratto di Proserpina, sarcofago, II sec. d.C., Palazzo Rospigliosi
Annotazioni redazionali: Già nel 1492 Francesco Todeschini Piccolomini (il futuro papa
Pio III) decide di trasformare la vecchia sacrestia del duomo di Siena in una biblioteca che
conservi la preziosa collezione di manoscritti greci e latini iniziata da suo zio Enea Silvio
Piccolomini, diplomatico, oratore, umanista, vescovo, cardinale e infine pontefice col nome
di Pio II. Accantonato il progetto di una prima decorazione piuttosto modesta, nel 1502 il
Piccolomini stipula con Pinturicchio un contratto per una seconda decorazione più
complessa: dieci storie, sulle pareti, che illustrino la vita di Pio II. La volta, articolata in una
struttura a compartimenti ripresa dalla Volta Dorata della Domus Aurea, presenta, al centro,
lo stemma Piccolomini in marmo ad altorilievo. Intorno, mostri marini, nereidi e fauni
circondano i due riquadri centrali, collocati sullo stesso asse dello stemma e raffiguranti gli
episodi mitologici di Diana ed Endimione e del ratto di Proserpina. Quest'ultimo viene
trattato con la vivacità di una scena di genere, con colori squillanti che si staccano su un
fondo oro a finto mosaico, risultato della spiccata vena decorativa dell'artista e del suo
desiderio di compiacere il committente, amante delle trovate archeologiche (Toracca, 1998).
Lo schema iconografico deriva, a detta di Nicole Dacos (1994), da un sarcofago romano della
metà del II secolo, già conosciuto all'inizio del Cinquecento (Bober-Rubinstein, 1986) e oggi
conservato nel casino di Palazzo Rospigliosi, a Roma. Nel ratto di Proserpina della Libreria
Piccolomini, Plutone fugge sul suo carro, ornato da un motivo all'antica e incredibilmente
trainato da due serpenti, invece che dai cavalli, come vorrebbero le fonti: un carro trainato
da due serpenti è, piuttosto, quello di Cerere (Claudiano, De raptu Proserpinae). Proserpina
si dibatte fra le braccia del dio, mentre un giovane al seguito della dea minaccia il rapitore
con un bastone (quest'ultimo personaggio non è presente in altre iconografie da noi
conosciute). Daniela Toracca, però, non condivide del tutto questa ipotesi di derivazione:
sembra apprezzare, semmai, solo una similitudine con l'attitudine del dio barbuto, rivolto
all'indietro, con il capo coperto da una sorta di velificatio. Per il resto, afferma che i serpenti
richiamano, semmai, quelli che trainano il carro di Demetra, nella porzione sinistra del
rilievo; che la Proserpina del rilievo è sicuramente più composta della dea raffigurata nella
Libreria Piccolomini; che la figura del giovane è assente nel presunto modello romano, anche
se il suo gesto – ammette la studiosa – ricorda vagamente quello della Minerva del sarcofago.
Infine, il paesaggio della Libreria è d'invenzione e totalmente assente, invece, nel rilievo.
Negli anni, si sono tentate varie interpretazioni: quella di Donatella Toracca (1998)
attualmente appare la più accreditata. La studiosa accantona le interpretazioni in chiave
neoplatonica (che coglievano allusioni alla morte e rinascita nei miti di Proserpina e Diana
ed Endimione, e alla contrapposizione tra istinti bestiali e aspirazioni intellettuali nelle altre
scene) e quelle che istituivano un legame fra i temi mitologici, frequenti in età classica
nell'iconografia funeraria, e il carattere commemorativo della libreria, per sposare
un'interpretazione di carattere lunare. Innanzitutto, non è casuale il fatto che il formato del
grande stemma centrale corrisponda a quello dei riquadri con Diana ed Endimione e con il
ratto di Proserpina, e che tutti e tre siano collocati sullo stesso asse: la Luna (o Selene, per i
Greci, presente in icona nei crescenti dello stemma), Diana e Proserpina sono le dee che
compongono la triade lunare. Ne parla Boccaccio nella Genealogia; ma anche Prudenzio
citato da Cartari nelle Imagini dei Dei de gli antichi (IV, Diana).
Vi è un forte dinamismo tra le due figure e si nota il volto infelice di Proserpina che viene
presa con forza, l'atto violento di Ade. Non è facile raffigurare questo movimento che si nota
nelle ginocchia che si piegano e nella schiena che segue il movimento. Questa è la grande
forza scultorea di Bernini che riesce a dare movimento al marmo. Anche Michelangelo aveva
provato a fare ciò, ma il Barocco estremizza questa tendenza fino al punto tale da trovarsi in
queste sculture che poi prendono dei punti prospettici diversi a secondo di dove si guarda
creando il pluriprospettivismo in cui consiste spesso l'arte Barocca. Siamo anche qua in una
posizione anti-classica perché quella che è l'armonia e l'equilibrio classicistico viene spezzato
tutto a favore di un idea di dinamismo e dunque di trasformazione. Certamente c'è anche
chi, come gli storici sociali dell'arte, hanno visto nel barocco un attività anticlassica di ricerca
di innovazione ma anche rispetto a quello che sono certi ideali e rispetto a quello che era
anche lo status politico del tempo (società di ancien regim) dove gli intellettuali erano quasi
del tutto asserviti chi alla Chiesa, chi ai potenti del tempo come i Farnese, gli Spagnoli a
Napoli. E in tutto ciò all'artista rimaneva solo il sogno di una libertà che non aveva e che
probabilmente ha espresso in queste figure così espressionistiche e dinamiche. Ma questa è
un ipotesi di tipo sociologico che sicuramente può essere contestata. Sappiamo solo che
alcuni di questi autori seicenteschi hanno avuto una vita eroica (Giordano Bruno,
Campanella).
1
Musa della poesia Epica
2
Corona
3
Etna
percorreva la Sicilia per saggiarne le fondamenta.
Convinto ormai che nessun luogo vacillava, si tranquillizzò,
quando in questo suo vagare dal monte Èrice, dove viveva,
lo vide Venere che, stretto a sé il suo figliolo alato, disse:
"Armi e braccio mio, tu, figliolo, tu che incarni il mio potere,
prendi quell'arco con cui vinci tutti, mio Cupido,
e scaglia le tue frecce folgoranti in petto al dio,
che l'ultimo dei tre regni ha avuto in sorte.
Alla tua mercé tu sai ridurre i celesti, Giove stesso,
le divinità del mare e persino chi su loro regna:
perché l'Averno fa eccezione? Perché non estendi il tuo dominio
e quello di tua madre? In gioco è la terza parte del mondo.
(E' in atto un discorso molto pratico di Venere cioè di prendere più potere)
E invece in cielo, ecco il frutto della mia pazienza,
sono derisa e a nulla col mio si riduce il potere di Amore.
Non vedi che Pallade e Diana cacciatrice
mi scansano? Anche la figlia di Cerere, se non si interviene,
rimarrà vergine: non è questa la sua aspirazione?
E tu in nome del nostro regno, se un poco ti sta a cuore,
fai che la dea si congiunga allo zio". Così Venere; e quello,
sciolta la faretra, per ubbidire alla madre, fra mille
scelse una freccia, che più acuminata, più stabile
e più sensibile all'arco nessun'altra avrebbe potuto essere.
Puntando un ginocchio, tese le braccia elastiche dell'arco
e con la punta dell'asta colpì Plutone dritto al cuore.
Non lontano dalle mura di Enna c'è un lago dalle acque profonde,
che ha nome Pergo: neppure il Caìstro nel fluire
della sua corrente sente cantare tanti cigni.
Un bosco fa corona alle sue acque, cingendole da ogni lato,
e con le fronde, come un velo, filtra le vampe del sole.
Frescura dona il fogliame, fiori accesi l'umidità del suolo:
una primavera eterna. In questo bosco Proserpina
si divertiva a cogliere viole o candidi gigli,
ne riempiva con fanciullesca cura dei cestelli e i lembi
della veste, gareggiando con le compagne a chi più ne coglieva,
quando in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì:
tanto precipitosa fu quella passione. Atterrita la dea
invocava con voce accorata la madre e le compagne,
ma più la madre; e poiché aveva strappato il lembo inferiore
della veste, questa s'allentò e i fiori raccolti caddero a terra:
tanto era il candore di quella giovane, che nel suo cuore
di vergine anche la perdita dei fiori le causò dolore.
Il rapitore lanciò il cocchio, incitando i cavalli,
chiamandoli per nome, agitando sul loro collo
e sulle criniere le briglie dal fosco colore della ruggine;
passò veloce sul lago profondo, sugli stagni dei Palìci
che esalano zolfo e ribollono dalle fessure del fondale,
e là, dove i Bacchìadi, originari di Corinto che si specchia
in due mari, eressero le loro mura tra due insenature.
--(Finita la parte del Mito e dopo inizia quello di Ciane. Possiamo notare che Ovidio non
insiste affatto sull'elemento tragico ma descrive l'episodio come frutto della freccia
incriminata di Cupido e di una passione violenta che induce il Re dell'Ade, che stava
visitando la Trinacria per vedere se la terra dove c'era appunto l'Etna era apposto, vede
Proserpina se ne innamora e la rapisce.)
Intanto Cerere, angosciata, in ogni terra,
in ogni mare cercava invano la figlia.4
Mai Aurora, affacciandosi coi suoi capelli roridi,
la vide in pace, mai Vespero. Accese due torce di pino
alle fiamme dell'Etna, vagò senza requie,
tenendone una in ogni mano, nel gelo della notte;
e ancora, quando la luce del sole rese pallide le stelle,
cercava la figlia da ponente a levante.
Sfinita dalla fatica, era tormentata dalla sete
(senza che nessuna fonte aveva bagnato le labbra), quando per caso
vide una capanna di paglia: bussò alla piccola porta. Ed ecco:
ne esce una vecchia, che vedendola implorare un sorso d'acqua,
le porse una bevanda dolce insaporita con orzo tostato.
Mentre beveva quel dono, un ragazzo sfacciato e insolente
le si fermò davanti, scoppiò a ridere e la chiamò ingorda.
Si offese la dea e, senza terminare di bere,
gli getta in faccia, mentre parla, il liquido con l'orzo.
Al ragazzo il volto si coprì di macchie, e se prima aveva braccia,
ora gli sono zampe, e alle membra mutate si aggiunge una coda;
perché poi non potesse più nuocere, il corpo si contrasse
sino a ridursi in misura più piccolo di una lucertola.
Di fronte alla vecchia che, inebetita dal prodigio, piange e cerca
di toccarlo, egli fuggì in cerca di un rifugio, e si ebbe un nome
appropriato all'aspetto del corpo, che era costellato di chiazze.
Troppo lungo sarebbe indicare tutte le terre e i mari
che alla ricerca percorse la dea: le venne meno il mondo.
Ritornò in Sicilia e, mentre camminando scrutava in ogni luogo,
arrivò nei pressi di Cìane, che tutto le avrebbe raccontato,
se non si fosse trasformata e che, per quanto volesse parlare,
non aveva bocca e lingua, né altro per potersi esprimere.
Ciò malgrado le fornì un indizio inequivocabile, mostrandole
4
Le donne alla ricerca sono un elemento topico che abbiamo ritrovato già nel Mito di Iside la quale
va errando per tutte le terre fin quando non giunge in Egitto. Anche nel cantico dei cantici la
sposa cerca lo sposo disperatamente ovunque. Dunque è un motivo letterario molto diffuso.
a pelo d'acqua una cintura a lei ben nota, che in quel punto
era per caso caduta a Proserpina tra i flutti sacri.
Non appena la riconobbe, come se solo allora intuisse
ch'era stata rapita, la dea si strappò i capelli scarmigliati
e ripetutamente si percosse il petto con le mani.
Ancora non sa dove sia, e maledice tutte le contrade
della terra, chiamandole ingrate e indegne del dono delle messi,
e più di tutte la Trinacria, dove aveva scoperto le tracce
della disgrazia. E lì con mano spietata spezzò gli aratri
che rivoltano le zolle, furibonda condannò a morte
uomini e buoi insieme, e impose ai seminati di tradire
le speranze in essi riposte avvelenando le sementi.
La fertilità di quella regione, decantata in tutto il mondo,
è smentita e distrutta: le messi muoiono già in germoglio,
guastandosi per troppo sole o troppa pioggia;
stelle e venti le rovinano, con avidità gli uccelli
ne beccano nei solchi i semi; loglio, rovi
e inestirpabile gramigna soffocano il suo frumento.
Dalle acque dell'Elide la ninfa amata da Alfeo sollevò allora
il capo e, scostatesi le chiome stillanti indietro dalla fronte,
disse: "O madre della vergine che hai cercato in tutto l'universo,
o madre delle messi, interrompi la tua fatica senza fine
e per la collera non adirarti con la terra a te fedele.
Non ha colpe la terra: suo malgrado si è dischiusa al rapitore.
Non ti supplico per la mia patria: qui sono un'ospite;
la mia patria è Pisa, dall'Elide io vengo.
Straniera sono in Sicilia; ma questa regione mi è cara
più d'ogni altra: ora col nome di Aretusa ho qui la mia dimora,
questa è la mia terra, e tu, che sai essere così mite, risparmiala!
Perché mi sia trasferita lungo la vastità del mare
per giungere in Ortigia, verrà il momento opportuno
di narrarlo quando avrai superato questa angoscia
e più sereno sarà il tuo volto. Per farmi passare, la terra
mi schiude un cammino ed io scorrendo nei suoi profondi abissi,
qui riemergo a rivedere le stelle quasi dimenticate.
E passando sottoterra tra i gorghi dello Stige,
ho visto laggiù con i miei occhi la tua Proserpina:
triste, sì, e con l'aria ancora un po' spaventata,
ma regina, suprema entità di quel mondo tenebroso,
consorte incontrastata del re dell'Averno(inferno)".
--(E qui vediamo come anche Ovidio non ritenga che l'infelicità di Persefone
duri molto perché dice “è già una regina del mondo Oscuro, già così potente per essere la
regina degli inferi”.)
A quella rivelazione la madre rimase di sasso
e a lungo come paralizzata, ma poi quando lo stordimento
fu sostituito da un dolore non meno profondo, col cocchio
si lanciò verso gli spazi del cielo. Lì, rannuvolata in volto,
piena d'odio, si parò coi capelli arruffati davanti a Giove
e: "Per il sangue mio e tuo" disse, "vengo, Giove,
a supplicarti. Se non v'è riguardo per la madre,
che il padre abbia almeno a cuore sua figlia; e spero che l'averla
partorita io non t'induca ad occupartene di meno.
Ecco che dopo tanto cercare l'ho alfine ritrovata,
se chiami ritrovare il perdere con più certezza o chiami
ritrovare il sapere dove sia finita. Rapita? pazienza,
purché lui me la renda: tua figlia non può avere un predone
per marito, anche se come mia figlia lo potesse!".
Rispose Giove: "Da comune affetto e obblighi siamo legati
entrambi a questa figlia; ma se vuoi dare alle cose
il giusto nome, non è un affronto ciò che è accaduto,
è frutto dell'amore; ed io non mi vergognerò di un tale genero,
se anche tu, dea, lo vuoi. Pur se il resto gli mancasse, che titolo
essere fratello di Giove! Ma il resto poi non gli manca,
e inferiore mi è solo per sorte. Però se desideri tanto
che si separino, Proserpina rivedrà il cielo,
ma a una condizione precisa: che lei non abbia laggiù toccato
cibo alcuno con la sua bocca: questo hanno decretato le Parche".
--(Quindi Zeus in effetti sta cercando di rianimare la madre proprio perché la figlia non ha
fatto proprio una brutta fine ma comunque se ella la rivuole la regola stabilisce che
Proserpina non tocchi cibo nell'Ade.)
Così disse; ma se Cerere era certa di riottenere la figlia,
non lo permetteva il destino, perché la vergine aveva rotto
il digiuno: mentre innocentemente si aggirava in un giardino,
da un ramo spiovente aveva colto una melagrana
e staccati sette granelli dal pallido involucro, li aveva succhiati con le labbra.
--(Nella versione di Ovidio è la donna che coglie questo frutto mentre in altre, ad esempio
di Omero è Ade che dà da mangiare 7 chicchi di melograno a Persefone per tenerla con sé
almeno un terzo dell'anno. Variazione signficativa.)
L'unico a vederla fu Ascàlafo,
che, a quanto si dice, Orfne, non certo la più sconosciuta
tra le ninfe dell'Averno, aveva dal suo amato Acheronte
partorito nel folto di una selva oscura.
La vide e con la sua spietata delazione ne impedì il ritorno.
Mandò un gemito la regina dell'Èrebo e mutò il testimone
in uccello di sventura: irrorato dall'acqua del Flegetonte,
il capo assunse becco, piume ed occhi enormi.
Sottratto a sé stesso, s'ammantò d'ali fulve,
gli crebbe il capo e le unghie allungandosi s'incurvarono in artigli:
a stento agitava le penne spuntategli sulle braccia inerti.
Diventò un uccello sinistro, messaggero di lutti imminenti,
un gufo indolente, presagio di calamità per i mortali.
--(c'è un nuovo racconto nel racconto, si vede che c'è una sorta di attività affabulatoria da
parte di Ovidio, così intensa che riesce a incastrare un racconto dopo l'altro e questa
struttura si chiama aschiglionata)
Costui però s'era meritato, a quanto pare, la pena
parlando troppo e facendo la spia: ma perché voi, Sirene,
avete penne e zampe d'uccello, con volto di fanciulla?
Forse perché, quando Proserpina coglieva fiori in primavera,
voi, sapienti figlie di Achelòo, foste fra le sue compagne?
Quanto a Giove, arbitro tra il fratello e la sorella in lacrime,
divise il corso dell'anno in due parti uguali:
ora la dea, divinità comune ai regni di cielo ed Averno,
vive sei mesi (Anche di questo c'è un altra versione del mito negli Ignomeci infatti si dice 2/3 – 1/3)
con la madre e sei con il marito.
E subito lei cambia d'umore e d'aspetto:
se sino allora poteva apparire cupa persino a Plutone,
ora ha la fronte lieta, come il sole che, prima coperto
da nubi di pioggia, fra squarci di nubi s'affaccia.
L'alma Cerere, rasserenata per aver riavuto la figlia,
ti chiede, Aretusa, perché fuggisti e consacrata sei sorgente.
(Da qui comincia con l'altro racconto. Si nota che Proserpina è felice e anche
la madre di questa soluzione sì pure dimezzata nel tempo).
La metamorfosi in questo mito avviene in Proserpina stessa e l'autore della
trasformazione è Amore perché senza la sua freccia tutto questo non sarebbe
avvenuto. Questo Mito, come tanti altri, riflette il potere di guarigione di
Amore perché infatti Ade da Dio infero riesce addirittura ad innamorarsi e
forse diventa meno oscuro vicino a Persefone e d'altra parte Persefone da
fanciulla inizia a prendere le distanze dalla madre Cerere diventando grande e
soprattutto una regina, seppure di un altro Re. Tutto deriva dalla freccia e
dunque dietro consiglio di un altra madre (Venere). Non bisogna dimenticare
che il mito della Grande Madre è il più importante che accomuna molte
culture, Occidentale e Orientale, ed è Venere che rappresenta la fertilità altre
che la bellezza. Il poeta si è sempre dedicato all'amore, si è innamorato di
molte donne tra cui una sbagliata ossia la figlia di Augusto per la quale fu
condannato all'esilio ma non fu l'unico perché anche la figlia stessa fu
condannata. Non bisogna dimenticare che egli ha scritto anche Ars Amandi
che è un manuale di come suscitare e difendersi dall'amore. Dunque il poeta
conosce bene il potere di Amore e lo mette quasi sempre nelle sue
metamorfosi specialmente in questi grossi mutamenti tra Dei (come in questo
caso), però abbiamo visto come si trova anche nelle vicende tra uomini o
ninfe. Il potere dell'amore è così difficile da riconoscere probabilmente perché
non vogliamo riconoscerlo e cerchiamo di diferderci da esso. Molte
donne/dee/ninfe si rifiutavano all'amore e qui però il poeta parla di una
punizione, ma sono chiaramente termini letterari che noi possiamo tradurre
in un linguaggio di tipo psicanalitico o antrpologico, ma comunque è quello il
motore delle trasformazioni. Le più grandi metamorfosi individuali
avvengono dunque attraverso l'amore, sia nel bene che nel male.
Proserpina
Avea l'eterno Giove
per bocca del'interprete volante
già le ragioni e le querele udite
del mesto Re del'ombre, (Ade)
ch'ardea di sdegno impaziente e d'ira,
non tanto perché privo
dela luce e del giorno il Ciel l'avesse
confinato sotterra
del cieco abisso ad abitar gli orrori,
quanto perch'egli solo
de' tre fratelli universali, a cui
distribuito è de' tre mondi il regno,
il ceruleo, l'ombroso e lo stellante,
fusse ancor destinato
in talamo gelato,
senza conoscer mai
di consorte o di padre il dolce nome,
sterili e sconsolati a passar gli anni.
--(Ade va da Giove per lamentarsi del fatto che è l'unico Dio che non ha una moglie
o dei figli e di conseguenza non ha amore)
Ond'armando di quante
chimere et altri mostri
l'orrido albergo accoglie
incontr'al Ciel le temerarie squadre,
e congiurando dele Furie insieme
la turba ribellante
a' danni del Tonante,
minacciava feroce
di scatenar dal carcere profondo
per fargli ingiuria e guerra
i figli dela Terra,
e giurava superbo
di voler con le tenebre tremende
dela notte infernale
smorzar il sole e subbissar le stelle.
Quando il Padre sovrano (Zeus)
ala madre d'Amor rivolto il ciglio,
sorridendo le disse:
– Figlia, sì come il centro
del cor più volte dal tuo dolce figlio
saettato t'apersi,
così gli arcani interni
de' più chiusi pensier convien ch'io t'apra,
con quanto di secreto
dentro l'archivio cupo
dele leggi immortali ha scritto il Fato.
L'adulta omai virginità matura
di Proserpina nostra, unica prole
dela Dea più feconda, unico sole
dele ninfe più belle,
ad Imeneo devuta,
al giogo marital già s'avicina.
Cerere combattuta
da preghiere importune
di Dei rivali e di celesti Proci,
che la chieggono aprova,
differisce le nozze.
Quinci Giunon, quindi Latona intanto
la vuol per nuora, et emuli e discordi
l'uno armato di spada, e l'altro d'arco,
ne contendon tra lor Marte et Apollo.
Questi Delo, et Amicla, e Cinto, e Claro,
quei le promette in dote
il Rodope e 'l Pangeo,
i Geloni, i Bistoni, i Traci, e i Geti.
--(Dice Zeus che ormai Proserpina è pronta ad essere moglie e madre però la madre
la vuole trattenere presso di sé e fa si che nessuno le si avvicini)
Ma la madre orgogliosa
l'un e l'altro rifiuta,
e, pur tra sé dubbiosa
di froda e di rapina,
tiene in Trinacria ascosa
quella beltà divina,
(Questo ci sfuggiva che addirittura Demetra tenesse nascosta la figlia, questa è un altra
visione del mito, e non è di poco conto per il significato perché ora da questa affermazione
possiamo capire che è la madre che impedisce alla figlia di crescere e diventare adulta.)
e confidata assai
ne la rigida asprezza
del'erta malagevole e scoscesa,
ha tra le balze d'Etna e di Peloro
serrato il suo tesoro.
Stabilito ha il destino
che malgrado di lei la vergin bella
sia sposa di Plutone;
et or che per ventura
lunge è da lei la sua custode accorta,
oportuno n'è il tempo.
Sovra l'adusta cima
dela rupe sicana
vattene, o figlia, e con que' dolci inganni,
onde me stesso ancora
(non che 'l vulgo mortal) vinci e conquisti,
la fanciulla celeste insidia, e prendi.
E perché que' profondi ultimi regni
senza sentire i tuoi giocondi affanni,
anco il Ciel vi soggiace,
staran liberi in pace?
Non vive petto a Venere inaccesso,
né region secura
dagli assalti d'Amore ha l'universo.
--(Notiamo come Marino batta molto sull'amore)
Spieghi pur dunque Amore
ne la reggia infelice
del'odio e del dolore
l'insegna vincitrice.
Mollisca a dolce colpo
di lasciva saetta
del Tiranno severo,
c'ha ne l'Erebo impero, il cor di ferro.
Provino omai l'Erinni
se di Cocito è più cocente e forte
l'ardor dea tua fiamma.
E dican laggiù poi
l'anime tormentate
se tormento han gli abissi,
che le pene amorose in parte agguagli.
Manca sol questa al'altre spoglie illustri
del tuo trionfo eterno:
il trionfar dell'espugnato Inferno –.
--( è tutto molto allegorico perché è come se Amore dovesse espugnare, come dopo
la battaglia, gli inferi e quindi vincere la morte)
Qui tace e Citerea, (Venere)
senz'altro indugio, ambiziosa e lieta,
ch'ancor questo trofeo
del'altre palme al cumulo s'aggiunga,
di rendere al suo scettro
tributario Acheronte,
del paterno precetto
accelera l'effetto.
Vassene là dov'Etna
tra scogli al ciel precipitosi e rotti
sporge l'arsiccio capo.
Etna perpetuo incarco
al corpo smisurato,
al busto fulminato
del'orgoglioso Encelado, che spira
con aneliti orrendi
zolfo rovente e dala gola erutta
sospir di fumo e vomiti di foco;
e qualor furioso
scote l'ampia cervice, o cangia fianco
sotto il gran peso stanco,
e dal destro si volge o dal sinistro,
l'isola infin dal fondo
tutta si svelle, e con terribil moto
nuotan le torri e le città tremanti.
Del'ispida pendice
la costa inaccessibile si pote
ben misurar con l'occhio,
non superar col piede.
Una parte si vede
frondeggiar, verdeggiar d'arbori eccelse,
un'altra arida, et arsa
mille torbidi globi
di fervidi vapori in alto essala,
peròche 'l cavo ventre
dela montagna alpestra,
d'incendio vivo inestinguibil fonte,
con sempiterno fomite nutrica
gorgo bollente di fiammelle oscure,
che con bombi tonanti
sfidan le stelle e vanno,
quasi fosche comete,
di nere macchie ad annebbiare il giorno.
--(qua c'è un descrittivismo molto intenso, al racconto si sommano altri dettagli
descrittivi e quindi non utili ai fini dell'intreccio ma sono solo espressione della sua
maestria formale)
Ma se ben dal'un lato
con sfavillanti ardori
la voragine cupa avampa e fuma,
dal'altro in larghe falde
di condensati algori
incanutisce la nevosa bruma;
–-(Sembra quasi che Marino abbia visto quest Etna perché ne fa un ritratto molto veritiero)
e le fiamme ale nevi
serbano fede in guisa,
che da tanto calor securo il ghiaccio
tra le faville indura,
e l'innocente arsura
sempre difesa da secreto gelo,
dele rupi vicine
lambisce le pruine.
Da qual fontana original derivi
scaturigin sì grande
di focosi torrenti,
qual forza arroti i sassi e le spelonche
con crollo formidabile tormenti,
e qual perpetua inconsumabil esca
ala fame vorace
di cotanta fornace
basti a somministrar cibo e pastura,
occulta è di Natura
meraviglia e possanza,
ch'apieno altrui di penetrar non lice.
--(Ecco che dopo tanti versi il poeta afferma che il mistero della Natura è nascosto e ad altri
non è lecito penetrare in questo mistero. Siamo in un epoca di grandi scoperte scientifiche
perché già nel 600 cominciano a farsi più importanti però il mistero della forza della natura
e della sua bellezza resta sconosciuto.)