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Vivere l'Etnografia (Versione Completa)

Antropologia sociale (Sapienza - Università di Roma)

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VIVERE L’ETNOGRAFIA a cura di Francesca Cappelletto

1) ARGONAUTI DEL PACIFICO OCCIDENTALE. RITI MAGICI E VITA QUOTIDIANA


NELLA SOCIETA’ PRIMITIVA.
OGGETTO, METODO E FINE DELLA RICERCA (Branislaw Malinowski)
1) Le popolazioni costiere dei mari del sud sono abili nella navigazione e nel
commercio. Costruiscono eccellenti tipi di canoe d’alto mare utilizzate per
lontane spedizioni commerciali o scorrerie di guerra. I Papua-malesiani (che
abitano costa e isole periferiche della Nuova Guinea) non fanno eccezione alla
regola.
Precise forme di scambio lungo precise strade sono state stabilite dalle diverse
tribù. Interessanti: tra i Motu di Port Moresby e le tribù del golfo dei Papua, i
Motu navigano per centinaia di miglia su canoe chiamate “lakotoi” (vela a
forma di chela di granchio), portavano ceramiche, conchiglie e lame di pietra e
ricevevano sago e piroghe per costruire i lakotoi.
Indigeni delle isole sparsi attorno al capo orientale sono in costante scambio gli
uni con gli altri. Esiste un altro sistema commerciale esteso e complesso che
abbraccia le isole vicine al capo orientale, le Louisiades, l’isola di Woodlark, le
Trobiand e le Entrecasteaux e si spinge all’interno della Nuova Guinea
esercitando pressione sulle regioni periferiche. Questo sistema commerciale è
detto “Kula”, fenomeno economico di notevole importanza teorica. Occupa un
posto importante nella vita tribale di quegli indigeni. La sua importanza è
realizzata dagli individui, idee, ambizioni, desideri sono legati intimamente al
Kula.

2) Metodi usati per raccogliere il materiale etnografico.


Sono valore scientifico solo quelle fonti etnografiche in cui è possibile tracciare
una linea fra i risultati dell’osservazione diretta e le affermazioni e
interpretazioni degli indigeni, da una parte, e le deduzioni dell’autore basate
sul buon senso e intuito psicologico. Nessuno storico potrebbe essere preso sul
serio se facesse mistero delle sue fonti. In etnografia l’autore è cronista e
storico allo steso tempo, le sue fonti sono di facile accesso ma ambigue e
complesse, non sono fissate in immutabili documenti ma incarnate nel
comportamento e nella memoria degli uomini. La distanza tra il materiale
grezzo e la presentazione dei risultati è enorme.

3) Pidgin (idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti,


venute a contatto in seguito a migrazioni, colonizzazioni, ecc).
Descrizione dei bianchi degli indigeni: persone non istruite, non abituate a
formulare i loro pensieri con un certo grado di coerenza e precisione.
Successo ottenuto solo mediante l’applicazione paziente e sistematica di un
certo numero di regole di buon senso e di principi scientifici. Principi
metodologici, tre principali categorie: - lo studioso deve possedere reali
obiettivi scientifici e conoscere i valori e criteri della moderna etnografia; -
mettersi in condizioni buone per lavorare; - applicare un certo numero di
metodi particolari per raccogliere applicare, elaborare e definire le proprie
testimonianze.

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4) Condizioni appropriate per il lavoro etnografico. Tagliarsi fuori dalla


compagnia di altri uomini bianchi e restare in contatto il più stretto possibile
con gli indigeni, stabilirsi nei villaggi.
Stabilito ad Omarakana (isole Trobiand), cominciai a prendere parte alla vita di
villaggio. Interesse personale ai pettegolezzi, sviluppi degli avvenimenti. Gli
indigeni a forza di vedermi smisero di essere interessati, allarmati, imbarazzati,
smisi di essere elemento di disturbo.
Ogni volta che si verifica qualcosa di drammatico e importante è essenziale
indagarvi nello stesso momento in cui accade, perché gli indigeni non possono
farne a meno di parlarne, troppo eccitati per essere reticenti e troppo
interessati per essere pigri a fornire dettagli.

5) L’etnografo non deve solo tendere le trappole, deve anche essere


cacciatore. Avere buona conoscenza teorica non vuol dire essere carichi di idee
preconcette.
Le idee preconcette sono dannose in qualsiasi lavoro scientifico, l’intuizione dei
problemi è la dote principale per uno studioso.
Chi lavora su terreno fa esclusivo assegnamento sulla guida della teoria. Egli
può essere pensatore teorico e lavoratore sul terreno ma le sue due funzioni
sono separate e nella ricerca effettiva, devono essere separate come momenti
e come situazioni di lavoro.
L’etnologia ha trasformato per noi il mondo dei selvaggi in un numero di
comunità ben ordinate, governate da leggi e che si comportano e pensano
secondo principi coerenti. La parola “selvaggio” implica l’idea di libertà senza
confini, sregolatezza, qualcosa di estremamente bizzarro. Queste società sono
sotto il controllo di complessi legami di parentela e di appartenenza tra clan.
Il primo e fondamentale lavoro etnografico è dare un profilo chiaro e solido
della costituzione sociale e di districare leggi e regolarità di tutti i fenomeni
culturali da ciò che non è legato ad essi da una relazione necessaria. Prima
cosa: mettere a nudo lo scheletro della vita tribale. Analizzare l’intero campo
della cultura tribale in tutti i suoi aspetti. Un etnografo che si concentra solo su
un campo (es: religione, organizzazione sociale, ecc) incontra seri problemi.

6) Registrare regole e regolarità della vita tribale, tutto ciò che è permanente e
fisso, delineare l’anatomia della cultura, descrivere la costituzione della loro
società. Queste cose, cristallizzate e fisse non sono mai formulate. Non vi è
codice di leggi scritte o espresse esplicitamente, l’intera tradizione tribale,
l’intera struttura della loro società è incorporata nell’essere umano. Nemmeno
qui le idee sono formulate in modo preciso. Obbediscono agli imperativi, alle
forze del codice tribale ma non lo comprendono, allo stesso modo in cui
obbediscono ai loro impulsi. Le regolarità nelle situazioni indigene sono il
risultato automatico dell’interazione fra le forze mentali della tradizione e le
condizioni materiali dell’ambiente. Ne è parte, vi si trova dentro, ma non ha
immagine dell’azione totale che ne risulta e non è in grado di formulare un
resoconto sulla sua organizzazione. Nella nostra società ogni organizzazione ha
i suoi membri intelligenti, negli indigeni nulla di tutto questo. Superare questa
difficoltà: raccogliere dati concreti offerti dall’esperienza e ricavare da solo le
conclusioni generali.
Non possiamo porgli domande astratte e generali, ma porgli come viene
trattato un determinato caso. “Come trattate o come punite un criminale?” Un
caso reale spingerà gli indigeni in un discussione impetuosa, espressioni di

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indignazione, li mostrerà mentre prendono partito. Tutto quello che diranno


rivelerà il meccanismo sociale messo in moto dal reato commesso. Il
trattamento scientifico differisce da quello del buon senso comune per il fatto
che uno studioso spingerà la completezza e la minuziosità dell’indagine molto
più lontano e in modo sistematico e metodico fino alla pedanteria, in secondo
luogo una mente scientificamente allenata condurrà la ricerca lungo linee
rilevanti e verso obiettivi che possiedono rilevanza reale. Lo scopo della
preparazione scientifica è di provvedere il ricercatore empirico di una carta
mentale.
La discussione di un numero di casi precisi rivelerà all’etnografo il meccanismo
sociale della punizione, parte fondamentale dell’autorità tribale. Per mezzo di
un simile metodo di induzione da dati ben precisi egli arriva alla comprensione
del comando di guerra.
Non si possono ottenere affermazioni di esattezza assoluta su un argomento di
tale complessità senza costante azione reciproca fra gli sforzi deduttivi e la
verifica empirica.
La raccolta di dati completi che coprono una vasta gamma di fatti è uno dei
punti metodologici principali del lavoro sul terreno.
Tutte le volte che il materiale della ricerca lo consente la carta mentale
dovrebbe diventare reale, materializzarsi in un diagramma, in un schema, in un
esauriente tavola sinottica dei casi.
Il metodo di ridurre le informazioni, in carte sinottiche dovrebbe estendersi allo
studio di tutti gli aspetti della vita degli indigeni. Tutti i casi di transizione
economica possono essere studiati osservando dei casi reali connessi
collocandoli in una carta sinottica. Tracciare un tavola di tutti i doni e i regali
abituali in una data società che includa una definizione sociologica, cerimoniale
ed economica di ciascun oggetto. Anche classificare tutti i sistemi di magia e le
relative cerimonie. Il censimento genealogico di ogni comunità, mappe
estensive, schemi e diagrammi.
Una genealogia è una carta sinottica di un certo numero di relazioni di
parentela collegate. Il suo valore come strumento di ricerca consente nel fatto
che permette al ricercatore di porre domande che egli formula per sé in
abstracto ma che può porre concretamente all’informatore indigeno. Fornisce
un certo numero di fatti autentici, presentati nel loro raggrupparsi naturale.
Una carta sinottica della magia svolge la stessa funzione. Con una carta è facile
esaminare gli argomenti, registrare le pratiche e le credenze. La risposta al
problema astratto poteva essere risolta traendo conclusioni generali da tuti i
casi.
Onestà metodologica (par. 2). Un etnografo deve presentare in modo chiaro e
conciso, le proprie osservazioni dirette e le informazioni indirette che formano
la base del resoconto.
Riassumere la questione di metodo. Ciascun fenomeno deve essere studiato
attraverso la serie più vasta possibile delle sue manifestazioni. I risultati
devono essere esposti in una carta sinottica. Con l’aiuto di tali documenti e di
tale studio sui fatti reali si può presentare un valido profilo della cultura
indigena. Metodo della documentazione statistica mediante la prova concreta.

7) Certi risultati del lavoro scientifico, specialmente di quello che è stato


chiamato “lavoro di prima ricognizione” ci hanno dato un eccellente scheletro
della costituzione tribale. Nell’elaborare regole e regolarità del costume
indigeno, ci accorgiamo che l’esattezza è estranea alla vita reale, che non si

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conforma rigidamente ad alcuna regola, deve essere integrata


nell’osservazione di un dato costume, del comportamento dell’indigeno
nell’obbedire alla regola.
Se tutte le informazioni si basano su osservatori o sono dati da comportamenti
oggettivi, è impossibile integrarle con comportamenti reali. E’ questa la
motivazione per cui lavori di dilettanti residenti per lunghi periodi, superano in
plasticità e vivacità la maggior parte dei resoconti puramente scientifici. Ma se
uno studioso può adottare le condizioni di vita suddette, si trova in una
posizione migliore per entrare in rapporto con gli indigeni.
Se vive in un villaggio con l’unico scopo di seguire il comportamento indigeno,
ha esempi di come le loro credenze sono effettivamente vissute. E’ questa la
ragione per cui l’etnografo è in grado di aggiungere qualcosa di essenziale allo
scarno schema della costituzione tribale e di integrarlo con tutti i dettagli del
comportamento, dell’ambiente e dei piccoli avvenimenti.
C’è una serie di fenomeni di grande importanza che non può essere registrata
consultando documenti ma deve essere osservata (gli imponderabili della vita
reale): la routine. Tutti questi fatti possono e devono essere registrati
sforzandosi di penetrare l’atteggiamento mentale che vi si esprime.
Nessuno dei due aspetti, né quello privato, né quello legale deve essere
considerato superiore.
Studiando gli avvenimenti della vita tribale si devono annotare anche i
comportamenti.
Raccogliere e fissare le impressioni, è importante che cominci all’inizio della
spedizione, certi piccoli particolari fanno impressione finché costituiscono una
novità, non si notano più quando diventano familiari. Potrà sistemare l’azione al
suo giusto posto nella vita tribale, indicare se un’azione è eccezionale o banale.
Mettere da parte la macchina fotografica e unirsi a ciò che accade, con tutto
ciò il loro comportamento diventa molto più comprensibile di prima.

8) Terzo ed ultimo obiettivo del lavoro sul terreno. Scheletro: schema della
costituzione tribale ed elementi culturali cristallizzati, carne e sangue: dati di
vita quotidiana e comportamento usuale, vi è ancora da registrare lo spirito.
Giudizi, opinioni, espressioni. Azione di vita familiare. Routine prescritta dalla
tradizione, modo in cui viene compiuta ed infine i commenti nella mente
indigena. Sentimenti, impulsi sono modellati e condizionati dalla cultura in cui
si trovano.
L’ambiente sociale e la cultura in cui si muovono li costringe a pensare in una
determinata maniera.
Terzo comandamento del lavoro sul terreno: scopri i modi tipici di pensare e di
sentire corrispondenti alle istituzioni e alla cultura di una data comunità e
formulare i risultati nella maniera più convincente. Citare testualmente le
affermazioni di importanza decisiva. Un passo importante può essere compiuto
dall’etnografo che acquisti la conoscenza del linguaggio. La traduzione privava
il testo delle sue caratteristiche significative: corpus inscriptionum.

9) All’obiettivo del lavoro etnografico ci si deve arrivare da tre strade:


1- L’organizzazione della tribù e l’anatomia della sua cultura devono
essere registrate in uno schema solido e chiaro. Il metodo della
documentazione statistica concreta è il mezzo con cui deve essere elaborato
tale schema.

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2- All’interno di questa struttura vanno inseriti gli imponderabile della


vita reale e il tipo di comportamento. Questi dati devono essere raccolti
attraverso osservazioni minuziose e dettagliate in forma di una qualche sorta di
diario etnografico, reso possibile da uno stretto contatto con la vita degli
indigeni.
3- La raccolta di informazioni etnografiche, narrazioni caratteristiche,
espressioni tipiche, elementi di folklore e formule magiche deve essere fornita
come un corpus inscriptionum, come documenti della mentalità indigena.
Queste tre linee di analisi conducono all’obiettivo finale, quello di afferrare il
punto di vista indigeno, la sua visione del mondo. In ogni cultura i valori sono
diversi, la gente persegue fini diversi, diversi impulsi, desidera una diversa
forma di felicità.

Prima spedizione: agosto ’14-marzo ’15; seconda spedizione: maggio ’15-


maggio ’16; terza spedizione: ottobre ’17-ottobre ’18.

2) LA POLITICA DEL CAMPO. SULLA PRODUZIONE DI DATI IN ANTROPOLOGIA


(Jean-Pierre Olivier de Sardan)
Sociologia, antropologia e storia condividono una sola ed uguale epistemologia
(branca della filosofia che si occupa delle condizioni sotto le quali si può avere
conoscenza scientifica dei metodi per il raggiungimento di tale conoscenza).
Non producono dati allo stesso modo, si distinguono per le forme di indagine
empirica privilegiate. Storico (archivi), sociologo (inchiesta), antropologo
(campo).
Spesso si va ad attingere anche dal vicino.
Si riconosce all’antropologia la sua empatia e all’antropologo il suo vissuto, si
contesta il peccato di impressionismo e soggettivismo. La ricerca sul campo è
soltanto uno dei tanti modi di produrre dati nelle scienze sociali, ha i suoi
vantaggi e svantaggi. L’indeterminatezza del campo deve essere il più possibile
diradata.
Contrasto tra ricerca sul campo e questionari. L’inchiesta preleva informazioni
circoscritte e codificabili sulla base di campioni ragionati e dotati di criteri di
rappresentatività statistica, in una situazione artificiale di interrogazione, le
risposte sono fornite tramite l’intermediazione di intervistatori retribuiti. La
ricerca sul campo vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei
soggetti, in una situazione di interazione prolungata tra il ricercatore e le
popolazioni. Ricerca statistica (ordine estensivo), ricerca sul campo (ordine
intensivo).
Ciascuna ha le sue forme di rigore. Ma il rigore dell’inchiesta sul campo non è
misurabile, a differenza di quella con i questionari. Pratica antropologica, saper
fare, la formazione avviene nell’apprendistato, non si può imparare in un
manuale. Non ci sono misure che si dovrebbero rispettare come ne esistono
nell’inchiesta quantitativa. E’ questione di abilità, si procede a colpi, intuizioni,
bricolage.
Gli interlocutori sono inibiti da un quadro troppo stretto o unidirezionale.
Bisogna confrontarsi con numerosi malintesi tra chi fa l’indagine e chi ne è
soggetto per individuare i controsensi delle conversazioni. Padroneggiare i
codici locali per sentirsi a proprio agio nelle chiacchere.

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Si basa sulla combinazione di quattro grandi forme di produzione di dati:


l’osservazione partecipante (inserimento prolungato del ricercatore
nell’ambiente di vita delle persone oggetto della ricerca), il colloquio (le
interazioni discorsive deliberatamente suscitate dal ricercatore), le procedure
di censimento (il ricorso a dei dispositivi costruiti per l’indagine sistematica), e
la raccolta di fonti scritte.

L’osservazione partecipante
Si scontra con la realtà che intende studiare. Si può scomporre questa
situazione di base in due distinte: quelle che rientrano nel campo
dell’osservazione (il ricercatore è testimone), e quelle del campo
dell’interazione (il ricercatore è coattore).
Se le informazioni e le osservazioni sono registrate si trasformano in dati e
corpus. Se restano informali e latenti rientrano nell’ordine dell’impregnazione.

I dati e il corpus
Osservazione. Procedere a prendere appunti, organizza la conservazione di ciò
a cui ha assistito. Produrrà dei dati e costituirà dei corpus che saranno oggetto
di spoglio e trattati ulteriormente. Assumono la forma del taccuino, registra ciò
che sente e che vede. Solo quello che vi è scritto continuerà ad esistere sotto
forma di dato.
I dati non sono pezzi di realtà conservati tali quali (illusione positivista), non più
di quanto siano pure costruzioni del suo spirito e della sua responsabilità
(illusione soggettivista). I dati sono la trasformazione in tracce oggettivate di
pezzi di realtà come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore. Non si
deve sottovalutare l’intento empirico dell’antropologia. L’osservazione è la
prova del reale a cui è sottomessa una curiosità pre-programmata. La
competenza sta nel poter osservare ciò a cui non si è preparati e nell’essere in
grado di produrre i dati che l’obbligheranno a modificare le proprie ipotesi.
1. Una parte non trascurabile dei comportamenti, non è modificata dalla
presenza dell’antropologo, una delle dimensioni del saper fare è valutare qual
è. La presenza prolungata del ricercatore è il principale indice di riduzione dei
fattori di disturbo dovuti alla sua presenza;
2. Problema posto da quella parte di comportamenti dovuti alla presenza del
ricercatore, due soluzioni:
- Tentare di annullare questo cambiamento, eliminare ciò che l’osservatore
ha di esteriore. Da un lato si avrà l’endo-etnologia, o la formazione di
ricercatori indigeni, dall’altro la conversione;
- Trarne profitto. E’ il processo stesso di questa modificazione a diventare
oggetto di ricerca. Utilizzare la propria presenza in quanto ricercatore come
metodo d’indagine diventa una delle dimensioni del saper fare.
La posizione adatta di solito è a metà tra le due. Si pone all’interno del gruppo
in posizione di “straniero simpatizzante”. Integrazione relativa ma reale.
Ascoltare i dialoghi delle persone ha la stessa importanza dei dialoghi con
l’antropologo.
Costantemente immerso in relazioni verbali, non verbali, semplici, complesse.
Sposa le forme del dialogo ordinario.
Il taccuino non attiene né al diario personale, né al taccuino dell’esploratore,
ma alla strumentazione professionale di base. Sanjek “gli appunti sul campo
sono la fabbrica dell’antropologia”.

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L’impregnazione
Osserva e interagisce senza prestarvi troppa attenzione, senza avere
l’impressione di lavorare, senza prendere appunti, né durante né dopo.
Vivendo osserva, e tali osservazioni vengono registrate nel suo inconscio. Non
si trasformano in corpus, non si scrivono nel quaderno di campo. Ruolo
importante nella familiarizzazione con la cultura locale, nella capacità di
decodificare senza prestare attenzione ai gesti di altri. Tutto ciò che accade al
di fuori delle ore di lavoro, è così che si impara a padroneggiare i codici di
buona creanza. Considerare il cervello come una scatola nera, non curarsi del
suo funzionamento.

I colloqui
La produzione di dati sulla base di discorsi con gli autoctoni sollecitati,
elemento centrale di ogni ricerca sul campo. Primo: osservazione partecipante
non permette di accedere a numerose informazioni necessarie alla ricerca, si
deve ricorrere agli attori locali. Secondo: gli attori sociali sono un elemento
fondamentale in ogni comprensione del sociale. Rendere conto del punto di
vista dell’attore è la grande ambizione dell’antropologo. Appunti e trascrizioni
di colloqui corrispondono alla parte più consistente dei corpus di dati
dell’antropologo. Si parla di politica del colloquio, modi di saper fare.

Consulenza e racconto
1. Consulenza. Invitato a dire ciò che pensa o conosce rispetto a
quell’argomento, si presuppone che rifletta un sapere comune e condiviso dagli
altri attori locali. E’ la sua competenza sulla società locale ad essere sollecitata.
Non significa sia un esperto.
2. Racconto. Il soggetto può essere sollecitato riguardo alla sua esperienza
personale. Raccontare questo o quel frammento della sua vita, di rendere conto
degli avvenimenti di cui egli è stato attore. Racconto in prima persona.
Sequenze di vita, racconti di episodi biografici delimitati.

Il colloquio come interazione


Non deve essere inteso come miniera per l’estrazione di informazioni. Il
colloquio di ricerca è un interazione: il suo svolgimento dipende dalle strategie
dei due partner e dalle risorse cognitive.
L’interazione può essere analizzata da diversi punti di vista. Le caratteristiche
linguistiche e culturali del colloquio comportano numerosi fattori di disturbo
rispetto ai contenuti referenziali. Brigss: il colloquio è un incontro interculturale
più o meno imposto dal ricercatore, dove si confrontano norme
metacomunicative differenti e talvolta incomunicative.

Il colloquio come conversazione


Avvicinare il colloquio guidato ad una banale interazione di vita quotidiana, è
una strategia ricorrente del colloquio etnografico, mira a ridurre al minimo
l’artificialità della comunicazione.
Il dialogo è una costrizione metodologica, l’informatore non si deve sentire
interrogato. Avvicinarsi il più possibile ad un colloquio riconosciuto nella cultura
locale.

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La guida al colloquio rischia di mantenere l’antropologo in una struttura da


questionario, organizza in anticipo le domande. Il canovaccio di colloquio fa
capo ad un promemoria personale che permette rispettando la dinamica della
discussione di non dimenticare gli argomenti preposti.

La ricorsività del colloquio


Un colloquio deve permettere di formulare nuove domande. Quando
l’interlocutore è fuori tema, il ricercatore tenderà di più l’orecchio, perché può
aprire nuove piste. Basarsi su ciò che è stato detto per produrre nuove
domande. Tali domande indotte dalle risposte sono: sia quelle che uno si pone
(livello strategico dell’evoluzione della problematica) sia quelle che uno pone
(livello tattico dell’evoluzione del canovaccio del colloquio).
Capacità di decifrazione istantanea, è il cuore del saper fare.

Il colloquio come “negoziazione invisibile”


L’intervistato non ha gli stessi interessi del ricercatore. Ciascuno cercherà di
manipolare l’altro, non è una pedina mossa dal ricercatore. Non rinuncia a
strategie miranti a trarne profitto o a minimizzare i rischi della parola. Il
problema del ricercatore, dilemma che fa capo al double bind (doppio legame)
è che deve mantenere il controllo del colloquio e lasciare l’interlocutore
esprimersi a modo suo.

Il realismo simbolico nel colloquio


E’ professionalmente tenuto a dare credito ai discorsi del suo interlocutore. E’
la condizione d’accesso alla logica e all’universo di sensi di coloro che
l’antropologo studia, ed è prendendo questo sul serio che può combattere i
propri pregiudizi e pre-concetti. Bellah “realismo simbolico”, la realtà che si
deve accordare alle parole degli informatori è nel significato che loro ci
mettono, un’attenzione critica mette in guardia il ricercatore dal prendere per
oro colato tutto ciò che dicono.
Durante il colloquio si da credito alle affermazioni dell’interlocutore, poi la
decifrazione critica.

Il colloquio e la durata
Un colloquio, è l’inizio di una serie di colloqui e relazioni. Non è incartamento
chiuso, ma pratica esperta, che si può sempre arricchire. Diversi colloqui con lo
stesso interlocutore sono modi per avvicinarsi alla modalità di conversazione.

I procedimenti di censimento
Si tratta di produrre sistematicamente dei dati intensivi in numero finito
(conteggi, inventari, nomenclature, piani, liste, genealogie).
E’ impegnandosi nella ricerca di dati empirici aventi un grado ragionevole di
sistematicità e di organizzazione che il ricercatore assume il distacco
necessario rispetto ai discorsi (degli altri) e alle impressioni (le proprie). La
raccolta di dati emici (dati discorsivi che intendono dare accesso alle
rappresentazioni autoctone degli attori) si combina con quelli etici (dati
costruiti con dispositivi di osservazione e misura).
Forniscono cifre, non si tratta più di ricerca qualitativa, ma di un certo
quantitativo intensivo su piccoli insiemi.

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Sono dispositivi di misura e osservazione che l’antropologo si forma sula


campo. Calibrandoli in funzione della dinamica di ricerca del momento, delle
domande, e della conoscenza del campo.
Questi procedimenti possono intervenire in fasi molto differenti del processo di
ricerca e quindi interessare vari significati. All’inizio si deve costruire una sorta
di “fondi di carta” (collocare gli attori, spazi pertinenti, ritmi fondamentali, punti
di riferimento). I procedimenti di censimento sono meno polivalenti e più
mirati.

Le fonti scritte
Alcune sono raccolte prima della ricerca sul campo, in questo caso permettono
una familiarizzazione, l’elaborazione di ipotesi esplorative e di domande
particolari. Altre sono inscindibili dalla ricerca sul campo. Altre possono
costituire corpus autonomi, distinti e complementari a quelli della ricerca sul
campo.

La combinazione dei dati


Combinazione quasi continua di questi diversi tipi di dati. Questa combinazione
non può essere oggetto di ricerca.

L’eclettismo dei dati


La ricerca sul campo sfrutta qualsiasi mezzo. Il suo empirismo è ecclettico e si
fonda su tutti i modi possibili di raccolta di dati.
Consente di tener conto dei molteplici registri e della stratificazione della realtà
sociale studiata.

Lo studio di casi
Fa convergere i quattro tipi di dati distinti intorno ad un’unica sequenza sociale,
circoscritta nello spazio e nel tempo. Intorno ad una situazione sociale
particolare, l’antropologo farà un confronto incrociato tra le due fonti.
La scuola di Manchester è stata la prima a fare uno studio di questo metodo.
Gli impieghi interpretativi e teorici dello studio dei casi sono molteplici. Alcuni
illustrano, altri descrivono e analizzano.

La politica del campo


Accumula le diverse forme di produzione dei dati passati prima in rassegna, fa
capo ad una strategia scientifica del ricercatore, strategia che può essere
relativamente esplicita o restare implicita.

La triangolazione
E’ il principio di base di ogni inchiesta: le informazioni devono avere dei
riscontri, ogni informazione è da verificare.
Triangolazione semplice: si fa un confronto incrociato tra gli informatori, per
non essere prigioniero di un'unica fonte. Triangolazione complessa: si cerca di
analizzare la scelta di tali molteplici informatori, intende far variare gli
informatori in funzione del loro rapporto con il problema. Ricercare dei discorsi
in contrasto, rendere l’eterogeneità delle argomentazioni oggetto di studio,
strategia di studio sulla ricerca delle differenze significative.
Si giunge al concetto di “gruppo strategico” (aggregazione di individui che
hanno globalmente, di fronte ad uno stesso problema, uno stesso

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atteggiamento, determinato da un rapporto sociale simile rispetto a questo


problema).
I gruppi variano a seconda dei problemi considerati, è essenzialmente di ordine
empirico. In una data società non tutti fanno gli stessi interessi, a seconda degli
interessi si aggregano in maniera diversa.
Esistenza di gruppi “invisibili” o “esterni”. Il colloquio con individui marginali al
problema, è spesso uno dei modi migliori per variare i punti di vista.

L’iterazione
Procede per iterazione: per andate e ritorni. Iterazione concreta (l’inchiesta
procede in modo non lineare tra gli informatori e le informazioni) o di iterazione
astratta (la produzione di dati modifica la problematica che modifica la
produzione di dati che modifica la problematica).
I suoi interlocutori non sono scelti in anticipo con un metodo di selezione,
prendono posto secondo un continuo compromesso nei piani del ricercatore. Da
ogni colloquio nascono nuova piste, la dinamica dell’inchiesta crea il cammino.
La ricerca sul campo si adegua, non ha niente di lineare.
Iterazione astratta: va e vieni tra problematica e dati, interpretazioni e risultati.

L’esplicitazione interpretativa
Punto legato al precedente. Le interpretazioni e riformulazioni dell’oggetto di
ricerca si operano durante la produzione dei dati, sfocia spesso in una
contraddizione o paradosso. Presuppone una verbalizzazione continua,
un’autovalutazione continua.
Il diario del campo permette di ”fare il punto” e di ovviare alla mancanza di
dialogo scientifico nel corso di un’inchiesta che lo rende indispensabile. Può
essere un prodotto finito (tristi tropici) oppure un supporto dei processi
d’interpretazione legati alla produzione dei dati. Può essere assicurata dalla
redazione continua di schede interpretative, Strauss (memoring), accanto alla
produzione di dati (data collecting) e alla codificazione (coding).
La verbalizzazione può essere assicurata dal dialogo con un assistente di
ricerca, persona istruita proveniente dall’ambiente locale.
Lavoro di squadra: verbalizzazione e oggettivizzazione sono assicurate dalla
presenza di un dibattito nel cuore stesso del processo di ricerca empirica.

La costruzione di “descrittori”
Modo di praticare l’esplicitazione, attraverso la ricerca di dati ad hoc che
trasformano le interpretazioni rendendole osservabili. Si fissano dei mediatori
tra concetti interpretativi e corpus empirici. Costruire degli insiemi pertinenti di
dati qualitativi che consentano di confermare o smentire o di modificare le
proposizioni interpretative.

La saturazione
Ci si accorge presto quando su un problema decresce la produttività delle
osservazioni e dei colloqui. A ogni nuova sequenza si ottengono sempre meno
informazioni nuove.
La durata dipende dalle proprietà empiriche, cioè dalle caratteristiche del tema
di ricerca che il ricercatore si è dato in questa società locale.
Glasser e Strauss: ”quando non vengono trovati dati aggiuntivi con i quali il
sociologo possa sviluppare proprietà della categoria, vede e rivede casi simili, il
ricercatore acquisisce sicurezza che la ricerca sia satura”.

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Ritardando la fine: “ci diamo delle costrizioni che obbligano a differire


l’induzione” (Schwartz).
Il principio di saturazione mira a descrivere lo spazio delle possibilità in un dato
spazio-tempo su un determinato problema.

Il gruppo sociale testimone


Darsi un luogo intensivo di ricerca, poggiante su un insieme di conoscenza
reciproca che possa in seguito servire da base di riferimento per delle ricerche
più estensive. Varia ina base alla ricerca e può essere di diverse dimensioni, ma
sempre ridotte (famiglia, villaggio, ecc).
La trappola è quella di richiudersi in questi gruppo testimone e di produrre
monografie esaustive di microcomunità. Indispensabile è il passaggio ad una
ricerca più estensiva, nella quale i soggiorni in un sito si contino in giorni, non
in mesi. Il lavoro anteriore presso il gruppo testimone permette di rendere
redditizio un lavoro estensivo, fornendo un calibro di riferimento.

Gli informatori privilegiati


Può essere considerato come un caso estremo di gruppo sociale testimone
rispetto ad un solo individuo. Nasconde un punto di vista culturalista che fa di
un solo individuo (considerato esperto) il depositario di un’intera cultura. Si
combina con una strategia di ricerca pigra.
Non vi è ricercatore che non abbia i suoi informatori privilegiati, ma il suo
ricorso preferenziale deve combinarsi con il principio di triangolazione.
Generalisti (danno chiaramente e comodamente accesso alle rappresentazioni
usuali); tramiti (aprono la strada verso altri attori-chiave o verso scene culturali
di difficile accesso), esperti (ruolo di consulenza o narrazione).

La gestione dei “fattori di disturbo”


Non ci si può sfuggire, cercare di padroneggiarli, controllarli.

L’”incliccaggio”
L’inserimento del ricercatore nella società non si fa mai con la società nel suo
insieme, ma attraverso gruppi particolari. Il ricercatore spesso può essere
assimilato ad una “clique” (fazione locale), comporta due inconvenienti.
Diventare troppo la voce di un clique e di riprenderne i punti di vista, dall’altro
vedersi chiudere la porta in faccia dalle altre cliques. Il ricercatore dipende
dalle affinità e ostilità del suo interprete.

Il monopolio delle fonti


Monopolio che spesso un ricercatore esercita sui dati da lui prodotti. E’ un
problema metodologico tipico delle ricerche sul campo.
Due soluzioni. Primo: due antropologi lavorino successivamente o
parallelamente su campi vicini o identici, ma il confronto di studiosi sulla stesso
campo non sempre assume forme contrapposte.
Seconda: fornire un accesso almeno relativo alle proprie fonti, ai corpus
prodotti, al fine di autorizzare successive reinterpretazioni da parte di altri.
Dare la possibilità al lettore di capire in tutte le parti del racconto “chi parla”, al
fine di discolparsi dal sospetto di intuizionismo o dall’accusa di volersi imporre.
Malinowski: “hanno valore solo le informazioni in cui si può tracciare un
risultato tra l’osservazione e le affermazioni indigene, e le reinterpretazioni
dell’autore”.

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Rappresentazioni e rappresentatività
Linguaggio della rappresentatività, quando le testimonianze di alcune persone
sono presentate come se riflettessero una cultura. La ricerca sul campo parla di
rappresentazioni o di pratiche, non della rappresentatività delle
rappresentazioni o delle pratiche. Non si deve far dire all’inchiesta sul campo
più di quanto possa dire. Proporre una descrizione delle principali
rappresentazioni che i principali gruppi locali si fanno a proposito di un dato
problema. Permetterà di descrivere lo spazio delle diverse logiche d’azione o
delle diverse strategie messe in atto in un dato contesto.

La soggettività del ricercatore


La maggior parte dei dati è prodotta dalle sue interazioni, attraverso la
mobilitazione della sua soggettività, sotto la sua regia. Questi dati incorporano
un “fattore individuale”. Questo fattore di disturbo è inevitabile, non deve
essere né negato (atteggiamento positivista), né esaltato (atteggiamento
soggettivistico), può solo essere controllato, ridotto al minimo.
Un’altra funzione del diario sul campo è aiutare il ricercatore a gestire le sue
impressioni soggettive. Valutare le sue emozioni, testimonianza della modalità
del suo coinvolgimento. Collaborazione e complementarietà valgono come
controllo reciproco della soggettività.
Due problemi contigui.
Primo: incessante pressione di stereotipi e ideologie sullo sguardo
dell’antropologo.
Secondo: universo descritto dalla problematica anglosassone della gestione
della rappresentazione del sé (Goffman).

Conclusione: plausibilità e validità


Validità in etnografia. Tre criteri proposti da Sanjek: 1) In che misura le
teorizzazioni dell’antropologo si fondano sui dati di campo forniti come prove?;
2) Siamo informati sul percorso del campo, cioè su chi sono gli informatori e su
come sono state raccolte le loro informazioni? 3) Le decisioni interpretative
effettuate a mano sul campo sono esplicitate?
La preoccupazione per la validità dei dati deve essere al centro del lavoro sul
campo. La plausibilità è in buona parte affidata a quella che potrebbe essere
chiamata una presenza finale dei dati nel prodotto scritto del ricercatore.
Questi dati estratti dai corpus sono montati, le descrizioni sono riscritte. I
colloqui presentati tramite brevi citazioni, in generale la loro complessità viene
semplificata. Malgrado i limiti questi fattori ne garantiscono la validità e ne
consentono la critica. Questa validità rinvia ”patto etnografico” che attesta che
l’antropologo non si sia inventato i discorsi. Concetti vicini all’esperienza
(Geertz), concetti di sensibilizzazione (Glaser e Strauss).

3) L’ETNOGRAFIA COME ESPERIENZA (Leonardo Piasere)


“E’ impossibile distinguere tra la mia esperienza etnografica tra i rom e la mia
esperienza e basta. Credo che le mie esperienze etnografiche continuino ad
influenzare le mie esperienze e basta più di quanto queste non influenzino
quelle”.
Studia i xoraxané negli anni ’70. Primi ’80 ricerca tra gli slovénsko ròma
(sloveni). Poi fase di ricerca sui “gage” (non zingari), esistono solo per i rom.

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Tra il 1422-1812 è prevalsa l’idea dell’origine egiziana degli zingari e della loro
discendenza diretta da Cus, figlio di Cam, figlio maledetto di Noé. Homo
cingaricus, discendente dal seme maledetto di Noè, risultano fondamentali per
capire l’attuale posizione dei rom all’interno dei gage.
Chi vuole fare ricerca sul campo deve convincersi che è impossibile stabilire il
confine tra soggetto e oggetto, “in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa
natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua
osservazione” (Strauss). Etnografia xoraxané marcata da un approccio
oggettivista, quella dei rom approccio etno-scientifico.
Approccio oggettivista: antropologia accademica, la realtà è la fuori, sta a te
scoprirla e scoprire le leggi. La realtà è sempre quella e non varia al variare
dell’osservatore.
Vivendo tra i xoraxané ha scoperto che avevano un sistema di parentela e
terminologie di parentela che non erano segnalati nei libri.
L’etnoscienza si rifà allo strutturalismo.

L’etnoscienza (agli inizi era nota come “nuova etnografia” o “etnografia


semantica”, oggi si chiama “antropologia cognitiva”) nacque alla fine degli anni
’50, si sviluppo nei ’60 in alcune università americane, poi negli Usa dalla metà
degli ’80 in poi si sviluppa l’antropologia interpretativa (ermeneutica) e
l’antropologia critica (ermeneutico-dialogica o riflessiva), i sostenitori
dell’etnoscienza cercavano di studiare il modo di conoscere di una popolazione.
Il tentativo di vedere il mondo con gli occhi dell’indigeno.
Anne Salmond (antropologa neozelandese), propone l’osservazione dell’altro in
tre orientamenti teorici. Metafora del conoscere e vedere. Approccio
oggettivista (strutturalismo, si va alla ricerca delle leggi naturali dello spirito
umano, ma queste leggi vanno indagate perché la realtà esiste e la sua
conoscenza è indipendente dall’osservatore. L’importante è trovare la distanza
giusta per mettere a fuoco la realtà e poterla così adeguatamente analizzare).
Etnoscienza (strettamente imparentata con il strutturalismo, ma si distingue
perché opera una abbassamento dell’osservatore. Cerca di mettersi allo stesso
livello dell’osservato e cerca di vedere il mondo con gli stessi occhi
dell’osservato). Ermeneutico (oggi ha più vasta audience, nata in Usa, prende
in considerazione entrambi gli orizzonti, osservatore e osservato, gli orizzonti
dati dalle due culture di appartenenza. Mette in evidenza la fusione degli
orizzonti, attraverso l’analisi della parte condivisa cerca di instaurare il dialogo
interlocutore. Quella critica, o dialogica, o riflessiva pone il fatto che c’è sempre
un orizzonte che ha più potere dell’altro, per cui la fusione è sbilanciata in
favore del più potente). Questa figura mostra che i tre approcci non si
distinguono dal contenuto delle scienze indagate, quanto per la posizione
diversa che ognuno attribuisce all’osservatore in relazione all’osservato. Perché
è la relazione stessa che cambia, i risultati non possono cambiare. “Terreno di
indagine” non è una zona geologica o geografica, ma è un insieme di altri
uomini e donne con cui si interagisce. I risultati furono molto condizionati dal
terreno, cioè dalle famiglie rom e dalle loro diverse vite. Il rilevamento
etnografico (rilevamento diretto di dati, non ebbe un andamento lineare), nella
relazione etnografica tra me e i rom, erano i rom che comandavano che mi
costringevano a seguire certe metodiche.
Scrittura etnografica (come si scrivono i resoconti etnografici, da un pinto di
vista stilistico e letterario, è un’attenzione sviluppata all’interno
dell’antropologia interpretativa), una delle borie dell’occidente è vedere nello

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strumento comunicativo l’essenza del lavoro. L’etnografia è prima di tutto


esperienza, una pratica, il vivere-con, coinvolgimento percettivo, emotivo,
affettivo, cognitivo. Non c’è scrittura senza vivere-con.
La conoscenza incorporata nell’esperienza etnografica un etnografo se la porta
dietro, ma non riuscirà mai completamente ad inserirla nei libri.
Processo di incorporazione (antropologia psicologica Usa), “internalization” è il
processo per cui le rappresentazioni culturali diventano una parte
dell’individuo.
La conoscenza incorporata gioca un ruolo importante come complesso schema
cognitivo-emozionale di riferimento.
Xoraxané. I rom sud-jugoslavi presenti in Italia sono qualche decina di migliaia,
con un decina di gruppi di appartenenza. La migrazione cominciò nei ’60,
imperiosa con lo sgretolarsi della Jugoslavia e la guerra serbo-bosniaca.
Famiglie numerose, stato di bisogno giuridico, erano in Italia in modo illegale.
Grande bisogno di instaurare relazioni con gli italiani, vivevano di attività
illegali.
Informatori privilegiati prima i bambini poi gli adulti. Si instaurò un rapporto di
scambio. Utilizzavano verso di me l’idea del “ni ganòl” (non sapendo dovevo
essere sopportato).
Provenivano dalla regione albofona del Kosovo. “sabir”: romanes/italiano, è
difficile quindi pensare di indagare sistemi simbolici complessi.
Accampamento: tende e sconquassate roulotte, non avevano patente in pochi
guidavano la macchina.
Nonostante le difficoltà l’adattamento era veloce.
All’inizio era il loro maestro. Frequentavo le classi “locio drom” (unicamente per
zingari).
Accettazione al campo perché capirono che non era un poliziotto.
Ero utile per attenuare il conflitto con le forze dell’ordine.
In questa situazione il lavoro di etnografo era prima di tutto il vivere. Fra i rom
si viveva perché erano troppo impegnati a vivere. Mi dicevano che avrei
imparato la loro vita solo condividendola.
Studiato le reti di relazioni che la famiglia di Ragip aveva instaurato con gli altri
roma’ in Italia. L’approccio oggettivista mi portava a generalizzare quel gruppo
con tutti gli altri presenti in Italia. Prevedeva anche la scomparsa
dell’osservatore. Se la realtà è quella due osservatori la vedono allo stesso
modo, per cui non è importante. Posizioni variabili delle abitazioni, i “cortili”
(area psicologica invisibile che si protende al di fuori dell’abitazione).
Ròma sloveni. Situazione diversa dai xoraxané. Stato di assoluto non bisogno.
Gruppo chiuso verso i gage.
Da in-vadente sono diventato e-vadente, cercavo di tirarmi fuori dalla scena, di
tenere il profilo basso. Essi non avevano intenzione di insegnarmi niente. Le
cose importanti della vita non si insegnano, si imparano.
La mia integrazione non fu mai totale, non mi aggregai mia alla famiglia
dominante.
Presenti in Italia da molte generazioni, parlano bene l’italiano, diversa
competenza dei dialetti del nord-est (maggiore presenza), anziani sanno ancora
sloveno e croato. Parlano nel caratteristico romanes.
Attività di compravendita, commercianti di ferro vecchio.
Campo: roulotte molto grandi, belle, costose. Mai visti dormire in tenda. Si
spostavano con auto di grossa cilindrata (trainare roulotte), prediligono
Merceders.

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La loro presenza era legale. Diritto di voto (pochi lo fanno), adempire i doveri
come servizio militare (cercano l’evasione). Le attività di compravendita non
erano legalizzate perché i rom non avevano licenza (difficoltà burocratiche per
ottenerla e evasione di tasse).
Entrai nell’anello debole della comunità. Coppia madre-figlia. Poi accampato da
rom stranieri di passaggio al campo.
Poi avvicinato a Pita (anziano rom, intelligentissimo, in contrasto con famiglia
dominante).
Impossibile ricerca del tipo “chiedi questo e quello”, difficile ottenere
informazioni a domande dirette. I rom partono da piste di discorsi remote,
avvicinandosi all’argomento con moto spirale. La condizione dei neri-
nordamericani e degli zingari non è tanto diversa, immersi fra una popolazione
maggioritaria che li discrimina ma che tenta contemporaneamente di sfruttare
la loro forza-lavoro. Hanno entrambi creato forme di resistenza contro
l’annullamento culturale basate spesso su comportamenti di contrapposizione.
Ogni comportamento dell’”esterno” considerato come coercitivo viene
scoraggiato. Se il rom sa che lo chiami per fargli domande non verrà mai. Per
un gagio l’intensità della vita rom può essere uno stress psicologico. Mai
scattato foto e adoperato il registratore, situazione di immersione completa
non sentivo il bisogno.
L’ausilio minimo di tecnologia era dettato dal mio atteggiamento e-vadente.
Desiderio di immersione accompagnato dall’impossibilità di essere invisibile.
Volevo far scomparire il ricercatore e lasciare posto all’informatore, cercavo la
descrizione della realtà percepita dai rom.
Imparando la lingua e conoscendo il loro mondo avevo iniziato a toccare
“l’incommensurabilità della culture”, non significa intraducibilità.
Immersione evadente. La partecipazione al fuoco in una accampamento rom
pubblicizzava le relazioni vigneti. Xoraxané (ogni famiglia si accendeva il suo),
fra i rom era previsto un solo fuoco, la presenza di più fuochi segnalava
antipatie. Molto smaliziati nel tentativo di volersi integrare spesso accoglievano
dei gage.
Per entrare nella loro testa bisogna ricategorizzare il loro mondo. Combattevo
per l’acquisizione di una conoscenza che scompigliava i modelli cognitivi già
interiorizzati.
Il dominio cognitivo rom non opera in un mondo parallelo, ma nel tuo. Il “là” è
un “qui”, la mia vita tra i rom mi insegnava che nel mio mondo, c’erano più
mondi. Per questo è impossibile descrivere una differenza tra la mia esperienza
etnografica e la mia esperienza e basta.
L’esperienza etnografica per immersione ti salva dagli eccessi delle ipotesi
deduttive per lasciare spazio di manovra all’empiria deduttiva del quotidiano.
Immersione: con essa si è completamente all’interno o irrimediabilmente al di
fuori. La situazione e la natura del gruppo implicavano al partecipazione con
metodo.

4) OLTRE LE PAROLE. IL POTERE DELLA RISONANZA (Unni Wikan)


Studio su Bali (isola indonesiana).
Credevano nella magia nera, che si potesse parlare con i morti.
Centro del mio interesse le occupazioni ordinarie, quotidiane, non rituali e
cerimonie.

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Traduzione
Furono i balinesi a venirmi incontro, a convincermi che ciò che avevo scritto era
gusto.
“Teoria della traduzione” (balinese) collegata con “teoria del linguaggio e della
comunicazione” (avanzata da Davidson, elaborata da Rorty).
Queste due teorie hanno in comune che raccomandano di andare oltre le
parole, guardare al di là delle apparenze e delle infiorettature esteriori per
arrivare a ciò che conta davvero, cioè a quanto vi è di comune nelle esperienze
umane.
Rorty: “progresso morale nella direzione di una maggiore solidarietà umana,
vista come l’abilità di considerare un numero sempre maggiore di tradizionali
differenze come non importanti rispetto alla similarità che riguardano
sofferenza e umiliazione, la capacità di pensare a persone estremamente
diverse da noi, comprendendole nella sfera del noi.”
Sacerdote-guaritore balinese, nella differenza tra religioni: “completamente
diverse, perfettamente uguali”.

La convergenza delle lingue


Andai con un’amica mussulmana da un balian (guaritore tradizionale indù). La
mia amica soffriva molto, una serie di disgrazie da tempo.
Quando il balian vide la mia amica il suo viso si illuminò, era felice che fosse
venuta, la stava aspettando. Sapeva tutto dei suoi problemi, tre cause: magia
nera, spiriti sovrannaturali, voto (giuramento) degli antenati agli dei non
mantenuto.
Sulla via del ritorno il volto della mia amica era contento, si sarebbe impegnata
a rimediare agli errori dei suoi avi. “Lui dice karma-pala, io dico taqdir, è la
stessa cosa”.
Karma-pala è la dottrina della reincarnazione secondo cui il fato di ciascuno di
noi in questa vita è determinato dalle azioni nelle vite precedenti (nostre o dei
nostri antenati). Per i mussulmani c’è solo una vita, quindi il taqdir (fato o
destino) si riferisce all’onnipotenza di Dio. Per i mussulmani il termine
giuramento non dovrebbe avere alcun significato, perché gli antenati non
hanno il potere di decidere la vita dei futuri.

Risonanza e comprensione
Lontar (associazione votata allo studio dell’antica saggezza delle sacre
scritture): la loro idea di come avrei dovuto scrivere se volevo trasmettere al
mondo la comprensione di cosa fossero i balinesi. Dovevo creare la risonanza
fra il lettore e il mio testo.
Dovevo prima creare la risonanza in me stessa, con la gente e i problemi che
cercavo di comprendere. Favorisce l’empatia e la compassione. Senza non può
esserci compassione e vera conoscenza. Usare sia il sentimento sia il pensiero,
il più essenziale è il sentimento, senza quello si rimane invischiati nelle illusioni.
I balinesi non fanno differenza tra il feeling, il sentimento e il pensiero, ma li
considerano parte di uno stesso processo (keneh) tradotto come feeling-
pensiero. E’ possibile pensare senza il cuore?
Hanno il sospetto che gli occidentali pensano di poter pensare con il pensiero e
perciò pervenire ad una comprensione profonda e autentica, ”arrivare al cielo
con una corda corta”, basando la nostra ricerca su fondamenta che si sciolgono

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al sole. Senza il sentimento è impossibile penetrare a fondo una situazione, un


problema.
Mi trovavo in una condizione di svantaggio perché rimanevo inchiodata alle
parole e alle loro precise implicazioni concettuali, e per questo spesso i
messaggi non generano alcuna risonanza.
Chiede per comunicare sforzo sia dall’autore sia dal lettore: uno sforzo di
feeling-pensiero, la volontà di impegnarsi con un altro mondo. Cercare di
trasmettere significati che non stanno nelle parole ma sono evocati
nell’incontro di un soggetto che fa esperienza con un altro o con un testo.

Il linguaggio come strumento per raggiungere scopi


Davidson: si confronta con la natura contingente del linguaggio, con il fatto che
le verità sono costruite più che scoperte. Rorty “gran parte della realtà è
indifferente alla descrizione che ne diamo”. Il linguaggio non può esprimere la
natura intrinseca di un organismo, perché non esiste. Rorty “il mondo non
parla. Siamo solo noi a farlo”.
Davidson: non considerare il linguaggio come un medium, ma come uno
strumento che può funzionare più o meno bene per il fine che viene perseguito.
Davidson: considerare le parole come un modo di produrre effetti più che come
entità che devono trasmettere significati intrinsechi, la pragmatica e il
significato non possono essere separati.
Se avessi dovuto basarmi su concetti di teatralità, di estetica e di impersonale
social personae, non sarei mai riuscita a incontrare i balinesi.
Una visione pragmatica del linguaggio entra bene in risonanza con le
percezioni balinesi del mondo e della conoscenza. Gli occidentali scambiano i
sentimenti per pensieri, e così fraintendono e creano confusione.
Se le parole sono strumenti per produrre effetti rischiamo di affidarci troppo al
significato. Per superare le parole è necessario che prestiamo attenzione alle
intenzioni del parlare come pure alla collocazione sociale nella quale troviamo
origine, per valutare correttamente ciò che esse fanno.

Risonanza, esperienza e somiglianza


Idea che l’esperienza non sia nulla in sé e per sé, ma sia costruita
culturalmente è una fondamentale acquisizione dell’antropologia.
Ciò che per i balinesi è importante nel concetto di risonanza è che comporti
l’uso del sentimento oltre che del pensiero. Solo questo rende possibile
l’apprezzamento.
La risonanza è un termine fuzzy, usato in modo diverso dalle diverse persone.
Non esiste una traduzione in tutte le lingue umane.

Oltre le parole
Quello che occorre è porre attenzione a quello che la gente ha da dire e cercare
di trasmettere, non brancolare alla ricerca di risposte più ampie nei particolari
delle parole che hanno pronunciato.
Andare oltre le parole, due motivi. Primo: oltre le espressioni manifeste.
Prendere alla lettera ciò che la gente dice per pervenire alle loro intenzioni.
Secondo: esortazione ad una più ampia applicazione del discorso, come
modello o come metafora, per rappresentare tutte le interazioni sociali.

Il fascino del contesto

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L’appellarsi al contesto può portare a un falso senso di sicurezza, quando


invece non spiega nulla.
“Il contesto è un comodo strumenti analitico, ma c’è il pericolo che lo si
consideri qualcosa di sostanziale” (Hobart). Tendiamo a invocare il contesto
nelle nostre analisi come se questo fosse dato anticipatamente rispetto
all’evento, mentre nella vita reale il contesto è in costante trasformazione, ogni
nuova enunciazione rende necessario un contesto diverso.
Per capire ciò a cui la gente mira dobbiamo affinare il nostro modo di occuparci
dei loro problemi, di quello che è veramente in gioco per loro. Una mussulmana
che arriva a considerare il karma pala come taqdir lo fa perché ha interessi
superiori.
Teoria della pertinenza (Spencer, Wilson): “prestare attenzione agli effetti che
le persone cercano di ottenere e alla pertinenza delle loro parole in rapporto al
posizionamento di ciascuno nello spazio sociale, e a quali sono gli obiettivi più
che al messaggio”.

Passing theories
Incontrare una persona che appartiene ad una culture differente, come
procedere?
Elaborare un vocabolario adatto allo scopo. Ricorrere ad una serie di congetture
su cosa l’altra persona potrà fare in quelle circostanza. Lo stesso farebbe l’altra
persona rispetto a noi. Davidson lo definisce “passing theories” (teoria
provvisoria, momentanea, che si rimodella continuamente) riguardo ai rumori e
alle indiscrezioni prodotte da un essere umano. La teoria deve essere
costantemente corretta.
La visione di Davidson della comunicazione linguistica prescinde dall’immagine
delle differenti lingue come barriere fra persone e culture. Due comunità hanno
difficoltà ad andare d’accordo perché le parole che usano sono troppo difficili
da tradurre nella lingua dell’altro, equivale a dire che il comportamento degli
abitanti di una comunità è difficile da capire per quelli dell’altra comunità.

Una garanzia di pertinenza


Donna indiana prima di andare dal balian, fa la stessa cosa di Davidson:
elabora una teoria provvisoria.
Una volta illuminata dal sorriso del guaritore, la sua determinazione
mussulmana e la sua teoria si sgretolarono. Pensare che il balian fosse davvero
per il suo bene. Anche se parlano lingue diverse riuscirono a comunicare.
Karma pala e taqdir sono la stessa cosa.
Gli occidentali non capiscono perché non usano i sentimenti e non entrano in
risonanza con le parole.

Al di qua delle parole e dei concetti


Egitto, Cairo. Mi colpisce quanto loro davano per scontato che io comprendessi
pur senza essere padrona della lingua.
Oman, parlare o non parlare non è d’aiuto, gli omaniti non sono dei gran
parlator, la gente apprezza il silenzio.
Mi arresi al silenzio e improvvisamente mi scoprii in sintonia con la
popolazione, ci riuscii grazie a quella specie di risonanza che giunsi a
sviluppare grazie alla sola forza delle circostanze.
Per la gente del Cairo le fonti di dolore erano la lotta perenne per il denaro,
l’incapacità di fare felici tutti i loro figli.

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Peso alle parole, viviamo in un’era in cui il significato focale e la costruzione


culturale è parte integrante del nostro gergo. Za’l (termine egiziano): tristezza,
rabbia, angoscia.

Imparare ad interessarsi
Costruire un’antropologia che sappia tenere conto delle sofferenze e delle gioie
della gente, così che nelle testimonianze non ci siano solo parole ma quello che
hanno veramente detto. Teoria che ci consenta di vedere la comunicazione
all’interno delle interrelazioni sociali e di mettere il non-detto e ciò che è ovvio
per il parlante al proprio posto, prima di focalizzarsi su concetti e su discorsi.
Falsa risonanza, ci si difende con il coscienzioso coinvolgimento giorno dopo
giorno. Condividere un mondo con gli altri significa occuparsene allo stesso
modo.
Dobbiamo immergerci in noi stessi per cercare un ponte fra noi e gli altri.
Perché operi la risonanza dobbiamo liberarci dai preconcetti: cioè pensare che
gli altri siano diversi da noi, che vadano conosciuti tramite la loro cultura e che
le loro parole rivelino mondi di vita diversi.

Cultura e nativi
Lasciare che si oda la loro voce. La ricerca del significato ci rende ciechi a ciò
che vivere significa realmente. Per tradurre da una cultura all’altra dobbiamo
essere pronti a rinunciare a un po’ di rigore logico sull’altare di una maggiore
solidarietà umana.
Secondo i balinesi il problema è che noi non abbiamo risonanza con loro, e non
perché non parliamo la loro lingua.
Risonanza e culture ci portano in direzioni differenti.

Verità versus feeling-pensiero


Se vogliamo capire quali sono le preoccupazioni da non ignorare, che hanno
peso e richiedono attenzione, è necessario scavare le soglie assieme alla
gente, e gettare ponti fra i diversi domini. Questa impostazione metodologica è
il miglior sforzo che abbia fatto per carpire i travagli dai quali la gente si sente
intrappolata.
Tre esempi per quello che rilevano il potere delle parole di illuminare e
fuorviare.
Comunicazione tacita: far entrare in gioco il cuore è al centro dell’esperienza
balinese, una formula per vivere, emotion work. Attenzione alle comunicazioni
silenziose.
Parole: i balinesi coerentemente interpretano le parole sapendo che sono
pronunciate per ottenere un effetto.
Metafore: quando il nostro parlare per metafore viene esaminato alla ricerca di
significati e non di effetti si può incorrere in difficoltà.
Interpretazione delle emotion words, delle parole che veicolano emozioni, le
glosse potrebbero essere proprio questo: modi per evocare un contesto. Ne
deriva che il punto di riferimento per tutte le interpretazioni dell’esperienza
devono essere gli usi pragmatici del linguaggio. Pragmatismo (verità o validità
di una teoria sono affidate alla sua verifica).

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Significato e potere
Migliorare la padronanza di una lingua non migliora per forza la nostra
comprensione.

Scrivere per l’effetto


Come trasmettere un’informazione? Dipende dal compito. ”Portare
testimonianza della varietà di modi di vita dell’essere umano, portare il fardello
delle proprie osservazioni”. Dipende da come pervade la consapevolezza della
gente come un potenziale sempre presente di imprevedibile cambiamento.
Usare le parole in vista di un effetto.

Cultura versus risonanza


Cultura: la nostra radicata propensione a rappresentare la differenza deve
essere unita a un non meno impellente bisogno di riconoscere i limiti
dell’alterità.
Risonanza e cultura sembrano indicare direzioni differenti: la prima evoca
somiglianza, la seconda l’esotico, l’alieno. Risonanza connota una capacità di
attivazione di feeling-pensiero. Cultura è un’astrazione, una glossa
sull’esperienza, un’implicazione analitica. Possono essere entrambi accostati ad
un approccio davidsoniano, entrambi appaino come parole che producono
effetti.
La risonanza evoca l’esperienza umana condivisa, qualcosa che le persone
possono avere in ogni spazio e tempo, non nega le differenze. Rende le
differenze non significative di fronte a ciò che è più rilevante per il
raggiungimento di certi scopi: il comune spazio umano.

Chiudere il cerchio
“Quello che non possiamo dire è che i fatti siano indipendenti da ogni scelta
concettuale”.
I balinesi hanno un modo diverso dal nostro di mettere le emozioni in un
contesto. Invece di vederle come una risposta privata, percepivano l’emozione
come incorporata nelle situazioni sociali, un’emozione che poteva essere
esplorata con la valutazione di più fatti.
Andare oltre le parole e le espressioni: non sapere leggere significati più
profondi del comportamento apparente, ma prestare attenzione alle
preoccupazioni e intenzioni delle persone. È il modo per raggiungere l’altra
faccia delle parole dei concetti per apprezzare la loro rilevanza pan-umana.

5) L’OSSERVAZIONE (Carla Bianco)


Cenni generali
l'osservazione consiste nelle tecniche, visive e non, che l'antropologo adotta
per ottenere i dati tramite l'osservazione diretta. Tutte le tecniche di
osservazione hanno lo scopo di inserire l'antropologo in un contesto il più
naturale possibile (che non abbia quindi le distorsioni tipiche del livello di
consapevolezza caratterizzante l'intervista).
È diffusa l’utilità di abbinare metodi di osservazione e di intervista, per cercare
di sfruttare i vantaggi offerti dai due approcci e compensarne gli inconvenienti.
L'antropologo sul campo si trova in una situazione curiosa: da una parte
conosce solo una piccolissima parte rispetto all'informazione che invece ne

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possiede un membro qualsiasi (il motivo di ciò è dovuto al presupposto


fondamentale della familiarità empirica delle cose: noi conosciamo la realtà
sociale perché ci viviamo), dall'altro è in grado di analizzare/spiegare aspetti
della stessa società di cui possiede scarse notizie (dovuto al fatto che
l'antropologo non ha nient'altro da fare che osservare cosa accade intorno a lui
e di cogliere delle relazioni che non sono così ovvie ad un altro osservatore →
questa capacità di capire velocemente alcuni aspetti della loro vita può
suscitare incredulità/scetticismo in molti individui del gruppo osservato).
Perché l’osservazione dei fenomeni possa trasferirsi in dati etnografici occorre
una costante selezione fra tutti gli elementi che presentano attività sensibile, in
questo modo la documentazione etnografica diventa un selettore di
informazioni,non un riproduttore di realtà.
E’ proprio sul modo di concepire la natura e la finalità della documentazione
che si delineano le differenze di approccio alla rilevazione dei dati. Molti, ad es,
sostengono il bisogno di evitare la selezione e di affidarsi ai metodi
documentari tendenti alla riproduzione integrale dei fenomeni.
Di rilevante importanza nella ricerca del metodo etnografico è il dibattito tra:
– approccio emico, derivante da “fonemico”,(sostiene che i concetti e le
categorie con i quali osservare la realtà devono essere quelli del gruppo
osservato),
dubbi rispetto all’impostazione emica: il ricercatore perde la prospettiva
critica e finisce con l’essere travolto da una specie di possibilismo totale
(relativismo estremo) e di trasferire tale visione al resto dell’agire umano.
– approccio etico, derivante da “fonetico” (sostiene che i concetti e le
categorie con i quali osservare la realtà devono essere quelli
dell’osservatore scientifico, e non è necessario che i risultati
corrispondano alle considerazione dei membri della civiltà sotto
osservazione).
La maggior parte degli antropologi sceglie una posizione di compromesso,
limitando l'approccio emico soltanto a determinate circostanze (ad es:
studiando il significato dei colori in una cerimonia oppure le classificazioni di
piante ed animali; questo approccio può risultare efficace in quanto il sistema
di percezione dei colori o il significato attribuito a piante/animali varia da
cultura a cultura).
Le tecniche emiche possono essere applicate anche senza farne un chiaro
riferimento: ad es nel fotografare un gruppo familiare abbiamo due possibilità:
– lasciare che ognuno si collochi dove/come preferisce (approccio emico in
quanto il gruppo è libero di esprimere le proprie concezioni estetiche e le
proprie relazioni di parentela, in poche parole il LORO punto di vista)
– organizzare noi stessi il il gruppo in base a quelli che sono i nostri criteri
estetici o di parentela (approccio etico in quanto rispecchia i criteri
dell'osservante)

Tra “indigeno” e “indagine”: l’osservazione partecipante


Livelli di partecipazione. Altre tecniche osservative
Malinowski viene considerato l'iniziatore dell’osservazione partecipante perché
i suoi metodi si basano su minuziosi criteri di osservazione diretta. Egli infatti
sosteneva che lo scopo dell'osservatore partecipante è quello di individuare il
punto di vista del nativo e rendersi conto della sua visione. Nonostante ciò,

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basta leggere il suo diario per convincersi del suo scarso entusiasmo per la
pratica della partecipazione.
Dalla metà del ‘900 in poi, l’osservazione partecipante diventa la base della
ricerca etnografica.
Il termine Osservazione Partecipante è una contraddizione letterale:
l'osservazione implica il guardare un qualcosa di esterno, la partecipazione,
invece, comporta un coinvolgimento all'interno della situazione e, quindi, la
perdita della posizione di osservatore.
Per osservazione partecipante si intende la situazione di ricerca in cui
l’osservatore fa ogni sforzo per diventare un membro del gruppo che deve
studiare allo scopo di riuscire a provare le stesse sensazioni (e di raggiungere
così una comprensione non mediata) e per cercare di provocare il minimo di
distorsione e di cambiamento degli eventi e dei comportamenti.
Per cancellare dalla mente degli individui la consapevolezza di essere osservati
da un estraneo
1) eliminare la presenza dell’osservatore;
2) trasformare l’osservatore in una spia consumata
3) Lasciare dietro di sé ogni idea preconcetta → (relativismo culturale)
Proprio per questi motivi è frequente al pratica di andarsi a stabilire presso il
gruppo umano studiato per un lungo periodo di tempo, condividendo con loro
ogni aspetto della vita quotidiana e, al tempo stesso, mantenendo la doppia
immagine di osservatore e ospite.
Il problema resterà quello di riuscire a definire quali siano i criteri precisi per
l’attuazione del metodo scientifico, inoltre ci si interroga anche se sia poi così
vero che per comprendere un fenomeno occorra viverlo (in questo caso com'è
possibile studiare fenomeni quali la prostituzione o i crimini, o ancora, come la
mettiamo con un ginecologo di sesso maschile?).
Un altro problema, individuato da Bruce Jackson, è la posizione eticamente
incerta in cui può venirsi a trovare l'antropologo (come bisogna comportarsi
quando, a causa della fiducia accordata, vi viene affidato un segreto che
potrebbe fare del male a qualcuno?).
Dal momento che non si può osservare tutto, quali criteri selettivi bisogna
interpellare? Di fronte a questo dubbio, alcuni si rifugiano in una sorta di
empirismo ossessivo che costringe a guardare/toccare/ascoltare tutto e tutti
perché potrebbe contenere un “pezzo di cultura” fondamentale.
Questo metodo da un lato ha pretese di autenticità, per questo suo rifiuto di
mediazione e il bisogno di acquisire tutto in via diretta, ma dall'altro
l'applicazione radicale di queste tecniche di partecipazione avvolge la ricerca
etnografica e la isola da qualsiasi forma di misurazione con altre ricerche.
Handicap tecnico vistoso dell’osservazione partecipante consiste
nell’impossibilità di effettuare una qualsiasi forma di registrazione dei fenomeni
osservati, all’infuori di quanto è possibile depositare in memoria. → es: se ci
troviamo a fare ricerca in un pellegrinaggio e dobbiamo far credere agli altri
compagni di essere coinvolti in quello che stiamo facendo, non sarà opportuno
farsi vedere occupati a scrivere, fotografare o registrare e bisognerà quindi
rinviare di qualche giorno le annotazioni e rinunciando così alle impressioni
immediate che probabilmente dimenticheremo.
In realtà è quasi impossibile diventare un tutt’uno con l’indigeno. Lo slogan
let's go Native non ha mai funzionato, ma è figlio del relativismo estremo.
Inoltre la considerazione di estraneo non-partecipante presenta molti vantaggi
ai fini delle rilevazione etnografica: spesso certi argomenti scottanti vengono

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affrontati più liberamente con un estraneo piuttosto che con un membro della
comunità.
Alcuni distinguono tra:
– forme di osservazione partecipante
– forme di osservazione passiva/non partecipante → a tal proposito
Morris Freilich ha proposto l'etichetta di Indigeno Marginale, partendo
dall’idea che una totale indigenizzazione non sia possibile, lo vede
oscillare tra un ruolo di indigeno e uno di indagine, caratteristica doppia
di appartenenza e estraneità.
Vantaggio →permette le forme di registrazione dei fenomeni dei singoli
casi, lo scopo evidente di osservare i fenomeni giustifica le sue
operazioni annotative/foto/filmati.
Alcuni casi, come feste e cerimonie, si prestano bene a questo metodo
osservativo in quanto la presenza di molte persone distoglie l'attenzione
dall'antropologo il quale non influenza così il comportamento delle
persone.
Al contrario, in una situazione intima e raccolta in cui l'azione è minima,
non riuscirà a non turbare la qualità dell'evento che sta osservando.
Per questo è meglio usare una via di mezzo, che preveda alcune forme di
colloquio, dove la presenza ineliminabile dell’estraneo osservatore si
trasforma almeno in interazione attiva ed esplicita.

I contesti dell’osservazione. Contesti naturali e contesti ricostruiti


Contesti dell’osservazione: sia gli ambiti che le occasioni in cui si verifica
l’evento da studiare.
Qualsiasi fenomeno culturale può verificarsi in contesti informali ed inattesi
(l'incontro di un amico per strada), in contesti formali o ancora intermedi.
Non sempre è possibile osservare un fenomeno nel suo contesto naturale o
nell'occasione che solitamente lo produce. Può capitare ad es di documentare
un evento con scadenza calendariale (festa, attività stagionali quali semina,
vendemmia). In questi casi ciò che vogliamo documentare avrà luogo in
contesti spaziali/temporali ben definiti e avrà caratteristiche formali e
prestabilite dalla cultura e dalla storia del gruppo.
Oppure dovremo osservare l’insieme delle pratiche lavorative che
caratterizzano quotidianamente alcune fasce distinte della società (artigiani,
pescatori, mercanti) ed anche in questo caso avremmo a che fare con contesti
spazio temporali specifici (botteghe, mare, mercato).
Tuttavia non tutti i fenomeni si prestano a previsione ed è proprio in
considerazione di ciò che bisogna ricorrere a una combinazione di tecniche
diverse e cercare di assicurare all’indagine una certa quantità di organizzazione
e previsione logica. Bisogna distinguere tra i vari livelli di prevedibilità dei
contesti e delle occasioni e quindi valutare in quale misura questi contesti
sono in grado di fornirci una quantità sufficiente dei fenomeni che ci
interessano, o un numero accettabile di casi e varianti dell’unico fenomeno da
studiare.
I problemi possono presentarsi anche per i modi in cui è possibile effettuare
l’osservazione di alcuni fenomeni in contesti, anch’essi formalmente ben
definiti ma scarsamente prevedibili in senso temporale e spaziale, come ad es
la morte →saranno i contesti a non essere prevedibili.

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Le dimensioni del contesto e le relative occasioni variano, a seconda delle


prospettive che occorre scegliere per una data ricerca, e contesto, occasione,
evento altro non sono che categorie convenzionali per le quali bisognna fornire
la definizione precisa del senso dell’impiego. Sempre prendendo l'es del
contesto della morte, potrebbero verificarsi vari fenomeni (copertura degli
specchi, lamento) e le occasioni nelle quali è prevedibile che tali fenomeni si
verifichino sono veglia funebre, sepoltura, periodo del lutto ecc ecc.
a parte il problema di delimitare i contesti dell'osservazione, vi è quello più
urgente di valutare la possibilità di usare contesti non naturali, contesti che si
verificano in parte al di fuori delle usuali condizioni. Si è detto che il contesto
ideale per l'osservazione sarebbe quello non interferito dalla presenza
dell'osservatore e proprio per ottenere tali condizioni sono state sperimentate,
ad es, tecniche di documentazione cinematografica nelle quali viene lasciato
che i nativi realizzassero in proprio il documentario su determinati aspetti della
loro cultura (approccio emico).
Il vantaggio del contesto naturale è costituito dalla possibilità che esso offre di
cogliere le relazioni fra un fenomeno specifico e la situazione in cui esso si
verifica.
Se dobbiamo documentare un certo evento in un contesto scomparso o poco
osservabile, occorrerà trovare i mezzi più idonei per provocarne il verificarsi in
un'occasione ricostruita per noi. Per quanto questo possa risultare negativo,
gran parte della documentazione esistente è stata studiata mediante
l’osservazione di fenomeni artificialmente evocati per la ricerca.
È possibile anche provocare delle occasioni solo in parte artificiali, in quanto
attivate in contesti legati ad essi tradizionalmente (Diego Carpitella, durante le
ricerche sul tarantismo, ebbe occasione di filmare una “cura” nel corso di
un'occasione ricostruita eseguita per lui. → qui gli elementi artificiali sono
rappresentati dal contesto, luogo all'aperto anziché la casa della tarantata,
mentre tutto il resto apparteneva all'apparato esorcistico-coreutico-musicale
tipico dell'ideologia del tarantismo, infatti la “protagonista” era una vera
tarantata ed altrettanto veri erano i suonatori, l'epoca e l'ambiente).
Facendo una comparazione fra le due situazioni contestuali possiamo rilevare
alcune differenze:
– Può verificarsi che alcuni tratti presenti nel contesto naturale siano
assenti o attenuti nel contesto artificiale. Essendo ancora osservabili i
contesti naturali, la possibilità di un’analisi comparativa può risultare
vantaggiosa dal punto di vista scientifico
– Contesti naturali scomparsi nella vita di una società. Il confronto tra le
modalità ricostruite e quelle naturali potrà essere stabilito solo attraverso
le testimonianze che sarà possibile raccogliere circa i contesti usuali e del
passato, e da tale confronto, si potranno eventualmente cogliere
differenze di contenuto.
– Nel contesto ricostruito al contrario si può notare la presenza di elementi
mancanti nei contesti naturali. Questo fatto può essere dovuto dalla
volontà di compiacere quelle che si suppone siano le aspettative
dell'osservante e per questo motivo gli intervistati accentuano alcuni
aspetti e ne tralasciano altri. Ma anche questa selezione che
l'interlocutore fa è di interesse scientifico per cercare di capire il perché
dell'accentuazione di determinati fattori piuttosto che di altri.

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Ovviamente bisogna tenere a mente che solo alcune situazioni si


prestano a ricostruzioni e che per gli altri bisogna adottare metodi diversi
di osservazione tenendo conto delle esigenze della ricerca.

Che cosa osservare


Ricercatore sul campo, due sicuri vantaggi, rispetto a chi deve utilizzare i dati
d’archivio:
– non deve dipendere dalla documentazione altrui
– - il contatto diretto con la realtà da studiare gli evita distorsioni.

Tuttavia il problema che l'antropologo ha, e che invece manca a chi


studia i dati d'archivio, è quello di come restringere l’informazione a
qualcosa che possa essere considerato rilevante. Può capitare infatti che
nulla risulti interessante all'antropologo, oppure che, al contrario, tutto
ciò che ci circonda ci risulti di estrema importanza il che ci porterà a
cercare di registrare, scrivere o fotografare qualsiasi cosa abbiamo sotto
tiro.
Per questo motivo è importante riuscire a frazionare il sistema unitario
complessivo, costituito dalla realtà della cultura, in unità significative da
documentare (anche se è un operazione difficile e non sempre ha successo in
quanto tralasceremo sempre dei dettagli importanti e ne apporteremo altri non
rilevanti)). L’analisi del problema deve fornire criteri e idee concrete.
I dati raccolti senza un preciso motivo sono quasi sempre inutili, non essendo
stati definiti da riferimenti particolari.
Aspetti rilevanti da osservare, distinti per tipi di insegnamento e di
caratteristiche sociali e ambientali dei contesti in cui si situa l’osservazione dei
fenomeni.
1. Caratteristiche dei luoghi in cui si situa l’osservazione:
- esterni (tipo di località; nome ufficiale/ dialettale; condizioni climatico-
ambientali, breve descrizione del posto);
- interni (descrizione dell’ambiente, dell’arredo e dell'uso dei locali);
- altri luoghi (treno, nave ecc)

2. Caratteristiche dei partecipanti al fenomeno:


- numero di persone partecipanti, dati personali, di vicinato e parentela;
abbigliamento e tratti distintivi.

3. Fenomeno osservato:
- naturale o ricostruito;
- nome descrittivo del fenomeno (es festa primaverile ecc);
- elementi relativi al tempo (giorno, notte, pause);
- interazione fra i partecipanti (incoraggiamento, accoglienza,
disapprovazione, esclusione);
- struttura e sequenze interne (ordine delle azioni, divisioni dell'azione,
stile delle azioni → voce, postura, gesti, emotività)

4. Posizione e ruolo dell’osservatore:


- partecipante o passivo;
- luogo e punto di osservazione;
- durata della presenza;

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- eventuali collaboratori;
- tecniche documentarie (disegni, fotografie, appunti, registrazioni)
- eventuali situazioni di disagio (confusione, incomprensioni)

L'utilità dei seguenti suggerimenti è legata alle seguenti considerazioni:


– Le indicazioni riguardano solo l’osservazione dei fenomeni e devono
essere completate con notizie generali provenienti da fonti diverse
– Le indicazioni vanno messe a confronto con tutti gli altri punti di questo
lavoro in cui vengono affrontati i diversi aspetti della descrizione.

6) L’ETNOGRAFIA NEL/DEL SISTEMA-MONDO. L’AFFERMARSI DELL’ETNOGRAFIA


MULTI-SITUATA (George E. Marcus)
Introduzione
A Metà degli anni ’80, sono state individuate due modalità di inserimento della
ricerca etnografica nel sistema mondiale della politica economica capitalistica:
– Più comune: metodo che conservava la focalizzazione sul sito unico di
osservazione, e nel intanto sviluppava il contesto del sistema mondiale
servendosi di altri mezzi e metodi (es: ricerche d’archivio, adattamento
del lavoro di studiosi macroeconomici come modo di contestualizzare i
ritratti che descrivono situazione locali).
Questa modalità riguarda l’inclusione di popolazioni intere nella classe
proletaria e la riduzione delle culture locali mediante i macroprocessi
dell’economia politica capitalistica nelle sue varie forme. Questa modalità
ha prodotto elaborate analisi di resistenze e adattamenti. Quest’analisi
ha mostrato che il nucleo dell’analisi etnografica contemporanea non è il
recupero di un precedente stato culturale, ma è nelle nuove forme
culturali originate dalla trasformazione delle situazioni coloniali
subalterne.
– Metodo meno comune: la ricerca etnografica è incorporata in un sistema
mondiale che oggi si associa spesso con l’ondata di capitale intellettuale
etichettato come postmoderno. Abbandona la località unica (ricerca
etnografica tradizionale) per studiare la circolazione di significati
culturali, oggetti e identità in uno spazio-tempo più ampio.
L’oggetto di studio è etnograficamente impossibile da comprendere se si
limita l’investigazione ad un unico punto. Questo metodo considera i
concetti macroteorici e le narrative del sistema mondo. È un'etnografia
mobile che percorre traiettorie inaspettate per seguire il percorso di una
formazione culturale attraverso e all’interno di più siti di attività, ad es
mette in discussione la distinzione fra mondo vissuto e sistema,
considerata la base dell'etnografia. Per questo motivo si può dire che
questo sistema suggerisce collegamenti tra i diversi siti.
Ci si focalizza su quest’ultima modalità. La modalità di ricerca etnografica può
partire dal sistema mondiale, ma per come si sviluppa il suo oggetto di studio,
finisce con l’essere anche del sistema mondiale.

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Il capitale mondiale del postmodernismo ha fornito idee e concetti per


l’etnografia multi-situata la quale nasce come risposta a trasformazioni
empiriche del mondo, alle trasformazioni della produzione culturale.
La ricerca antropologica si è sviluppata all’interno di varie correnti
antropologiche (marxista, economica, politica e storia), oppure, dalla
partecipazione dell’antropologia con aree interdisciplinari sviluppatesi dagli
anni ’80 in poi (media studies, femministi, scienza e tecnologia, filoni degli
studi culturali e il gruppo teoria-cultura-società).
Per l’etnografia questo significa che il sistema mondiale oggi non è più la
cornice olistica, costruita teoricamente, ma diventa parte integrante e
incastrato nei discontinui e multisituati oggetti di studio. Le logiche culturali,
tanto care all'antropologia, sono sempre prodotte in forma multipla, e almeno
in parte si formano all’interno dei siti del sistema (cioè le istituzioni moderne
connesse con i media, i mercati, le università e quindi con il mondo delle élite).
Le strategie che consentono di seguire le connessioni e possibili relazioni sono
perciò fondamentali per ideare le ricerche etnografiche multi-situate.
Per gli etnografi interessati alle odierne trasformazioni locali nella cultura e
nella società, la ricerca mono-situata non riesce più a inquadrarsi
agilmente in una prospettiva di “sistema mondo”.
Le modalità per progettare la ricerca sul mondo contemporaneo, sono due:
– utilizzare vari successivi lavori accademici sui cambiamenti globali
nell’economia politica come cornice per studi mono-situati;
– seguire la via più aperta e speculativa di costruire i soggetti attraverso la
simultanea costruzione di contesti discontinui nei quali questi soggetti
agiscono e sono agiti.

Ansie metodologiche
Il passaggio all’etnografia multi-situata potrebbe dare origine a tre distinte
ansie metodologiche derivanti da
– Constatazione dei limiti dell'etnografia
– Ridimensionamento del potere sul campo
– Perdita del subalterno

Saggiare i limiti dell’etnografia


L'etnografia si basa sull'attenzione al quotidiano, all'intima conoscenza di
gruppi e comunità attraverso relazioni faccia a faccia.
L'etnografia Multi-situata è un esercizio di mappatura del terreno, ma il suo
obiettivo non è una rappresentazione olistica. Piuttosto Sostiene che ogni
etnografia di una formazione culturale nel sistema mondo è anche
un’etnografia del sistema stesso. Assume come oggetto di studio la formazione
culturale che si produce in varie località, e non le condizioni di un particolare
insieme di soggetti. Non esiste il globale nel contesto globale/locale. Il globale
è una dimensione emergente del dibattito sui collegamenti fra i vari siti di
un’etnografia multi-situata.

Ridimensionare il potere del lavoro sul campo


Nasce a questo punto un dubbio: è possibile un'etnografia multi-situata senza
indebolire le conoscenze/competenze che ci aspettiamo dal lavoro di campo?
Il lavoro sul campo multi-situato è fattibile?

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Una risposta è che il campo, nella forma in cui viene tradizionalmente percepito
e praticato (ovvero esperienza di ricerca sul terreno), è già multi-situato, il
campo copre siti di lavoro potenzialmente interconnessi (in quanto con
l'evolversi della progettazione della ricerca intervengono principi di selezione
che delimitano il campo effettivo dell'oggetto di studio).

Anche la Storia culturale standard è multi-situata, ma a differenza


dell'antropologia, questo aspetto della ricerca ha un problema legato alla
natura frammentaria e ricostruttiva del metodo storico, nel quale è di primaria
importanza l'esame delle interrelazioni fra materiali sparsi.
Gli antropologi, che invece conoscono le difficoltà della ricerca etnografica
intensiva e la soddisfazione derivante dal lavoro passato quando è fatto bene,
dovrebbero riflettere quando l'etnografo diventa mobile e continua ad
affermare di aver fatto lo stesso un buon lavoro.
Effettivamente nell'etnografia multi-situata si perde qualcosa della misticità e
della realtà del lavoro sul campo convenzionale. Le ricerche multi-situate
nascono da basi di intensità e qualità diverse, es: fare una ricerca su un tessuto
sociale che produce un particolare discorso politico richiede pratiche e
opportunità differenti da quelle del lavoro sul campo tra le comunità situate
che da quelle politiche sono convenzionate. Portare questi siti all’interno di
un’unica cornice di studio in base alle loro relazioni è il contributo importante di
questo tipo di etnografia.
Sono molti i fattori che condizionano la qualità del lavoro sul campo nella
ricerca multi-situata.
In tale ricerca la valorizzazione del lavoro sul campo rischia di essere attenuata
o mal riposta. Quello che rimane essenziale per questo tipo di ricerca è la
funzione di traduzione da un linguaggio o idioma culturale ad un altro (questa
funzione viene rafforzata perché non viene più praticata nella cornice primaria
dell'etnologia convenzionale, quella del noi/loro, ma richiede una capacità di
sfumare e selezionare superiore, dato che la traduzione mette in collegamento
i vari siti esplorati della ricerca lungo percorsi difficoltosi e a volte in contrasto
in alcuni spazi sociali).
La traduzione (grazie alla forte capacità di sfumare e selezionare),
l'apprendimento della lingua letterale, mantiene l'importanza primaria che
aveva nella preparazione della ricerca su campo tradizionale. → conoscere la
lingua assicura una serietà alla ricerca e offre al campo di ricerca la sua
coerenza culturale. La traduzione è assai importante anche nel lavoro multi-
situato, infatti se si vuole che questo tipo di etnologia si affermi anche nelle
aree di interesse emblematico per l'antropologia, occorre che diventi anche
multilingue, oltre che multi-situata.

La perdita del subalterno


l'etnografia interessata al sistema mondiale restringe l’indagine a soggetti
subalterni, la cui posizione è determinata dalla dominazione di un sistema
(politiche economiche capitalistiche/coloniali). Benché la multi-situata non
debba per forza rinunciare alle prospettive del subalterno, deve però
focalizzare l’attenzione su altre sfere di produzione culturale, sfidare il
posizionamento della prospettiva etnografica.
Abbandonando la focalizzazione sul subalterno, si decentra anche la cornice di
resistenze e di adattamenti, che ha organizzato un importante corpus di valide

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ricerche per andare alla ricerca di uno spazio riconfigurato fatto di siti multipli
di produzione culturale.
È quindi errato pensare che l'etnografia multi-situata si limiti ad aggiungere
una prospettiva periferica alla tradizionale prospettiva del subalterno.
Piuttosto questa prospettiva disegna un oggetto di studio nuovo, nella quale le
narrative situanti (resistenza e adattamento) si qualificano per l’ampliamento
del quadro etnografico di ricerca.
L'etnografia multi-situata non è neanche un diverso tipo di comparazione
controllata (metodo della pratica antropologica). In questa disciplina la
comparazione controllata convenzionale è multi-situata, ma opera su un piano
spaziale lineare.
Nelle discipline etnografiche multi-situate,la prospettiva comparativa si
sviluppa de facto come funzione della discontinuità e delle fratture dei piani di
movimento e di scoperta fra siti, quando si mappa l’oggetto di studio e si
devono porre le logiche di interrelazione, traduzione e associazione fra i diversi
siti. Nell’etnografia multi-situata la comparazione nasce quando si interroga
l’oggetto di studio che emerge. L’oggetto di studi è mobile e multi-situato. La
comparazione entra in gioco nell’atto della specificazione dell’etnografia.
Arene interdisciplinari e nuovi oggetti di studio
L’importante capitale teorico associato al postmodernismo è ricco di stimoli per
l’etnografia multi-situata. Questo capitale teorico non è la fonte immediata dei
termini in cui la ricerca etnografica multi-situata viene pensata e concepita. Dal
punto di vista intellettuale, è costituita nei termini di specifiche costruzioni e
discorsi che appaino all’interno di varie arene interdisciplinari che sono
altamente consapevoli di sé e si avvalgono dell’importante capitale teorico che
ispira il postmodernismo con l’obiettivo di riconfigurare le condizioni per lo
studio delle culture e delle società contemporanee.
Purtroppo esistono più concetti/visioni dell'etnografia multi-situata di quante
siano state le esperienze realizzate. Ad ogni modo, non c'è dubbio che
all'interno delle varie aree interdisciplinari le aree per la riconfigurazione degli
oggetti di studio futuri non vengono da eserrcizi teorici distaccati, ma da
ricerche in corso per le quali non si è ancora stabilito che forma dare alla
scrittura/pubblicazione dei risultati.
Un’area importante di studi è la ricerca sui media nella quale sono nati molti
generi di ricerca: su produzione (settore della tv, cinema) e ricezione, queste
due funzioni sono state messe in relazione nell’ambito di progetti di ricerca
individuale, rendendo in questo modo ancora più difficoltosa la traiettoria dei
modi della ricerca etnografica.
In antropologia c'è stato uno spostamento dal vecchio interesse per i film
etnografici verso il campo dello studio dei media indigeni. Questo spostamento
è stato favorito dagli studi etnografici e dalla partecipazione ai movimenti
indigenisti contemporanei interni agli stati nazione.
Il controllo dei mezzi di comunicazione di massa e il ruolo da attivisti indigeni
intesi come produttori di questi movimenti, hanno riorganizzato lo stazio nel
quale le etnografie di molti soggetti antropologici tradizionali possono
realizzarsi concretamente.
Lo Studio sociale e culturale della scienza e della tecnologia rappresenta
un'altra attenzione etnografica.
Invece nel lavoro antropologico svolto nell'ambito degli studi culturali prevale la
tendenza verso la ricerca multi-situata nelle seguenti aree:

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– Problemi riguardanti la riproduzione e le tecnologie riproduttive (hanno


origine da ricerche femministe in antropologia medica)
– Studi epidemiologici in antropologia medica
– Studi di nuovi sistemi di comunicazione elettronica (es Internet)
– Studi sull'ambientalismo e disastri tossici
– Studio dell'affermarsi delle biotecnologie/studi sui genomi umani.
Il ripensamento dei concetti di spazio e tempo in etnografia ha spinto molti
generi di ricerca antropologica già affermati ad aprirsi alle costruzioni multi-
situate nei progetti di ricerca etnografica. (es: studi migratori, parte di un più
ricco corpus di studi sulle popolazioni mobili e momentaneamente stanziali che
attraversano i confini in esilio, o come protagonisti di una diaspora). Questo
tipo di lavoro incentrato sulla costruzione di identità in chiave globale/locale si
fonde con i metodi tipici degli studi sui media.
Nel medesimo modo sono stati ripensati gli studi sullo sviluppo. Ridisegnare i
confini degli argomenti di studio porta alla sovrapposizione con gli spazi di
indagine di altre aree interdisciplinari (come studi sui media, sulla scienza e
tecnologia).
Le manifestazioni più specifiche di queste configurazioni di prospettiva in aree
interdisciplinari vanno ricercate nei modi di costruire spazi multi-situati
all’interno di progetti di ricerca individuali.

Modalità di costruzione
Le forti visioni concettuali di spazi di ricerca multi-situati che sono state
influenti in antropologia non fungono anche da guida per disegnare una ricerca
che possa illustrare e rendere concrete queste visoni ed è per questo motivo
che c'è bisogno di una discussione delle questioni metodologiche.
La ricerca multi-situata è disegnata attorno a catene, filoni di luoghi particolari
nei quali si stabilisce una forma di presenza letterale con un’esplicita e
dichiarata logica di associazione o collegamento fra i siti che definiscono
l’oggetto della ricerca.
L'etnografia multi-situata definisce il proprio oggetti di studio servendosi di
varie modalità tecniche che si possono considerare pratiche di costruzione
dell’oggetto di studio per mezzo di movimenti con l’obiettivo di seguire un
fenomeno culturale complesso partendo da un’identità concettuale di base che,
mentre si lavora, si rivela contingente e flessibile.

Seguire la gente
Questa tecnica è il sistema più ovvio e convenzionale per realizzare ricerche
multi-situate e Argonauti del Pacifico di Malinowski ne è l'esempio più
rappresentativo.
Il procedimento si basa sul seguire i movimenti di un gruppo. L'esempio più
chiaro di questa modalità di ricerca sono gli studi sulla migrazione.

Seguire la cosa
Questo modo di costruzione di spazi di ricerca consiste nel tracciare la
circolazione attraverso diversi contesti di un oggetto di studio palesemente

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materiale (denaro, doni, opere d’arte, ecc). Questo è l’approccio più comune
allo studio dei processi del sistema capitalistico mondiale.
Anche se non esiste alcuna etnografia associata agli studi sull'economia
politica capitalistica che abbia un approccio orientato alla cosa,è nata
comunque una quantità impressionante di ricerche incentrate su consumi e
merci. Sono ricerche pur non essendo multi-situate al livello del disegno della
ricerca, traggono ispirazione da uno spirito aperto, orientato agli oggetti
attraverso vari contesti.
La ricerca che fa più uso di questa tecnica sembra essere quella incentrata
sugli studi dei mondi contemporanei dell’arte e dell’estetica.
Il metodo del “seguire la cosa” per la costruzione degli spazi di investigazione
risulta preminente nei più influenti lavori consapevolmente multi-situati
nell’arena degli studi scientifici e tecnologici.

Seguire la metafora
Quando l’oggetto della traccia si situa nell’ambito del discorso e delle forme di
pensiero, allora il progetto è legato dalla circolazione di segni, simboli e
metafore. Questo metodo prevede il tentativo di tracciare il radicamento a
livello sociale di associazioni che sono essenziali nell’uso parlato/scritto del
linguaggio e nei media a carattere visuale.
Questa modalità di elaborazione delle ricerche è efficace per unire fra loro
ambienti di produzione culturale in apparenza scollegati e per dare vita a
nuove visioni empiricamente argomentate di paesaggi sociali.

Seguire la trama, la storia o l’allegoria


Ci sono Storie o racconti nella cornice di un campo di indagine mono-situata
che possono servire da elemento euristico al ricercatore sul campo che vuole
costruire una ricerca etnografica multi-situata. Studiare una trama e
confrontarla poi alla realtà dell’analisi etnografica che costruisce i suoi siti
secondo un racconto convincente è un sistema per costruire una multi-situata.
Processi di ricordo o dimenticanza, producono tipi di narrative e trame che
rischiano di configurare in termini sconvolgenti le versioni utili allo stato e
all’ordine costituito.
Per questo motivo narrative e trame sono una ricca forma di collegamenti e
relazioni per dare forma a oggetti multi-situati di ricerca.

Seguire la vita, o la biografia


La “storia di vita” è una variazione sul tema del “seguire la trama”.
Si è riflettuto molto sul modo in cui produrre/sviluppare storie di vita come
metodo etnografico, ma di rado si è ricorso ai racconti biografici per costruire
ricerche multi-situate.
Sviluppare analisi più sistematiche e generalizzazioni a partire dalla storia di
vita di un particolare individuo.
Le storie di vita (attraverso un susseguirsi di racconti sulle esperienze
personali) rivelano accostamenti di contesti sociali. Le storie di vita sono una
guida alla delineazione di spazi etnografici all’interno di sistemi modellati da
distinzioni categoriche che tendono a rendere invisibili questi spazi, non si
tratta di spazi subalterni, ma di spazi che vengono modellati da nuove
associazioni.

Seguire il conflitto

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Seguire le parti di un conflitto rappresenta un altro modo per produrre un


terreno multi-situato nella ricerca etnografica.
Sulla ricerca su piccola scala, in antropologia giuridica è nata la tecnica del
“extended case method”. Ma è nella sfera pubblica della società
contemporanea che questo metodo è un principio organizzatore essenziale per
l'etnografia multi-situata.
A parte l'antropologia giuridica, altre materie di conflitto importanti nella
società contemporanea riguardano le istituzioni legali, le sfere della vita
quotidiana e gli strumenti di comunicazione di massa. → per lo studio
etnografico di questi temi, il metodo multi-situato è evidente.

L’etnografia (mono-situata) situata strategicamente


Una ricerca può essere incorporata in un contesto multi-situato senza
spostamenti in senso spaziale.
L’idea di un contesto che va al dì la dello specifico sito rimane contingente e
non assunta. Ciò che accade in un luogo particolare viene calibrato con ciò che
accade in un altro spazio locale calibrato col primo, anche se questi possono
non situarsi entro la cornice del progetto di ricerca o dell’etnografia che ne
risulta.
Quest’etnografia multi-situata può considerarsi un progetto multi-situato
scorciato e va tenuta distinta dall’etnografia mono-situata, che studia le
articolazioni dei soggetti locali in quanto subalterni ad una cultura dominante.
Cerca di comprendere in termini etnografici qualcosa in generale sul sistema,
tanto quanto cerca di capire i soggetti locali: è locale in modo solo
circostanziale, quindi si colloca in un contesto in modo diverso da quello delle
altre letture mono-situate.
Nell’identificare in modo iconico un fenomeno culturale che è riprodotto anche
altrove, un certo numero di discussioni concettuali servono da guida a come
vedere o esplorare etnograficamente una sensibilità per il sistema nei soggetti
situati.
La più importante forma di conoscenza locale per l'etnografo multi-situato è la
mappatura.
Selezionare le relazioni del globale con il locale è una forma fondamentale di
conoscenza locale che è ancora da riconoscere e scoprire negli idiomi
incorporati e nei discorsi di ogni sito contemporaneo che possa essere definito
con la sua relazione con il sistema mondo.
In questa identificazione intellettuale tra investigatore e soggetti del campo, la
riflessività è intesa come metodo che serve a superare/ricostruire la
discussione metodologica letterale.
L'analisi del posizionamento di Haraway è l'esempio che meglio rappresenta il
significato della ricerca multi-situata ed il contesto riflessivo: Nei progetti di
ricerca multi-situata, pubblici e privati, ufficiali e subalterni, l’etnografo è
destinato a imbattersi in discorsi che si sovrappongono; oggi in ogni campo di
ricerca c'è sempre qualcuno che sa/vuole sapere quello che sa l'etnografo,
anche se da un punto di vista (soggettivo) diverso. Queste identificazioni
pongono l'etnografo dentro lo spazio che sta mappando e cambia ogni
discussione metodologica che presume di avere una prospettiva “dall'alto”.
Quindi, il lavoro sul campo viene condotto con la consapevolezza di essere
all’interno di un paesaggio, e con il modificarsi del paesaggio, deve modificarsi
l’identità stessa dell’etnografo. Soltanto nella forma scritta l'antropologo si
riappropria della sua autorità.

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Il pregio dell’analisi del posizionamento di Haraway è quello di essere una


persuasiva argomentazione a favore dell’oggettività che nasce dalla meticolosa
pratica metodologica della riflessività.
Ridimensionare/annullare l’auto-identificazione di etnografo, a favore di una
pratica di posizionamento mobile variata a seconda delle variabili affinità verso
i soggetti con cui l’etnografo interagisce è un modo del “fare ricerca” diverso.

L’etnografo come attivista circostanziale


Nel condurre una ricerca multi-situata ci si trova di fronte ad ogni genere di
trasversalità e responsabilità personali fra loro in conflitto. A questi conflitti
l’etnografo trova soluzione, non rifugiandosi in un ruolo di distaccato studioso,
ma nel diventare una sorta di etnografo attivista, che rinegozia la sua attività
nei diversi siti mano a mano che conosce qualcosa di più del sistema mondiale.
L’identità o persona che conferisce una certa unità al suo spostarsi fra questi
spazi scollegati fra loro è l’attivismo circostanziale che comporta il lavorare in
siti così diversi, dove politica ed etica del lavoro di uno qualsiasi di essi si
riflette sul lavoro negli altri.
In certi siti l’etnografo sembra accompagnare, in altri resistere al cambiamento
di gruppi variabili di soggetti. Questa condizione nella posizione personale
genera il senso ineludibile che si sta facendo qualcosa in più della sola
etnografia, essere attivisti pro o contro il posizionamento.
L’impegno circostanziale che deriva dalla mobilità della ricerca multi-situata
fornisce una sorta di sostituto psicologico al rassicurante senso dell’esserci.
L'emergente e presente senso di attivismo che si sviluppa tra gli etnografi
multi-situati e la sua affiliazione con i produttori culturali tutelano nell'etnografo
impegnato nelle ricerche multi-situate un fondamentale legame con la
tradizionale pratica di osservazione partecipante.

7) “VOI CE L’AVETE, LA VOSTRA STORIA. GIÙ LE MANI DALLA NOSTRA!”


DELL’ESSERE RESPINTI SUL CAMPO (Katharina Schramm)
Dagli anni '90 in poi, il Ghana sembra essere una meta appropriata per i viaggi
di coloro che desiderano riallacciare un legame con il proprio passato. Gli
afroamericani sono il principale target di questa nuova frontiera turistica,
frontiera che chiama i visitatori “famiglia”, “pellegrini” e che rappresenta il
Ghana come un paradiso psicologico che incarna la figura della casa.
Lo scopo principale di questa ricerca era ricostruire le dinamiche del ritorno a
casa ed individuare nel Ghana il ritorno alle radici, tema fondamentale dal
punto si vista emozionale e politico.
Esperienze come la visita alle prigioni sotterranee degli schiavi, ha per i
visitatori della diaspora africana un significato molto diverso da quello che ha
per un antropologo, bianco, occidentale.
Sebbene anche quest'ultimo consideri le prigioni come testimonianza delle
barbarie passate, gli manca tuttavia il fattore personale ed emotivo che quel
pellegrinaggio comportava alle persone i cui antenati avevano provato tale
barbarie.
In questa particolare circostanza è impossibile continuare ad aggrapparsi al
repertorio metodologico classico, in particolare l’osservazione partecipante.
Bisogna servirsi, piuttosto, di materiali come film, foto, narrative, ecc, sia
attraverso un’ampia gamma di comunicazioni personali.

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La necessità di un punto di osservazione:


Il fenomeno del ritorno alle radici riguarda attori mobili, e quindi l'assenza di
una comunità stabile con la quale condurre il lavoro. Accadeva spesso che i
visitatori che si fermavano per breve tempo manifestassero in maniera radicale
la loro idea del ritorno alle origini e che veniva messa in discussione il diritto
che l'antropologo aveva di stare li ed osservare in quanto schiavitù e rimpatrio
erano considerati affari di famiglia da condividere solo tra loro, ed essendo
l'antropologo un uomo bianco, era automaticamente escluso da
quest'eguaglianza basata su una categorizzazione razziale.
A causa di questa situazione era necessario un ripensamento dell'idea di
alterità. In queste circostanze difficilmente si può ricorrere sulla pratica del
“coltivare il sentimento di essere straniero” secondo la quale il ruolo dello
straniero è un vantaggio (in quanto l'etnografo ignorante deve essere iniziato
dai membri di una data società). Al contrario, in questo caso l'etichettà di
straniero assume connotati negativi:estraneo, intruso, nemico. (L'antropologo
non viene considerato tabula rasa, la gente sa già cos’è e per questo viene
respinto).
Nasce a questo punto nell'antropologo la necessità di posizionarsi nel quadro di
homework (osservatore partecipante, assumendo un ruolo passivo nel
modellare la sua stessa casa, decolonizzazione dell’antropologia) essendo
importante tanto quanto il fieldwork (ricerca sul campo).
Le questioni dibattute in Ghana riguardavano anche l’occidente, la schiavitù
non è un problema interno solo di neri, ma riguarda anche i bianchi.
Inoltre, il concetto di Homework rafforza l'idea che in un mondo interconnesso
non siamo mai davvero fuori dal campo, dato che quando fa ricerca
l'antropologo porta sempre con se la propria casa (nell'educazione, posizione
sociale...).
Quindi sia i ricercatori che i ricercati incarnano il nesso che schiavitù,
colonialismo e i recenti flussi migratori hanno generato.
È più facile riflettere su razzismo, gerarchie ecc, e formulare giudizi su quelle
questioni in teoria, che non diventare parte di quelle questioni in un ambiente
in cui si poneva il confronto.
Tre punti fondamentali per questa ricerca:
– Denuncia di una certa miopia nella metodologia e nella teoria
antropologica sul problema della razza come certificatore di identità;
– Analizzare la divisione che può crearsi fra i presupposti metodologici e i
comportamenti concreti del ricercatore sul campo;
– Rimettere in discussione l’assunto della superiorità della conoscenza
antropologica in contrapposizione a quella locale. Quello che chiamiamo
fuori è una posizione all’interno di un più ampio complesso storico
politico.
Ci sono alcune esperienze sociali che non possono essere condivise
dall'etnografo. Al contrario invece, sia l'antropologo che la gente condividono
un mondo globalizzato, seppur con posizioni opposte.
L'antropologo riflessivo non ha più il privilegio di riconoscere o ignorare le
difficoltà di rappresentazione etnografica, ma può trovarsi di fronte ad una
situazione in cui la sua posizione è messa in questione dagli altri.
Il termine Stendpoint, punto di osservazione, ha due significati:
– prospettiva che nasce da un coinvolgimento ricevuto, il quale è percepito
attraverso la visione del mondo attraverso la visione dominante;

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– prospettiva del sé e della società che si origina nella critica del sé di un


raggruppamento di classe o di genere.

La bianchezza resa visibile. Sentirsi fuori posto


Agosto ’99 → celebrazioni del “Second Emancipation Day”, nel corso del quale
erano stati
re-inumati in Ghana i resti di due antenati schiavi della diaspora.
Tale celebrazione era indirizzata ai figli dispersi dell'Africa e a tutti gli amici del
continente. Quindi questo invito indicava che il governo ghanese non limitava
ai soli neri la partecipazione, ma allo stesso tempo il linguaggio emozionale e
selettivo dell’identità razziale, lasciava intendere ai partecipanti della diaspora
che avrebbero trovato un accoglienza in famiglia, dove non ci sarebbe stato
posto per i non-neri. Per questo motivo gli antropologi partecipanti a tale
celebrazione, pur essendo accettati, venivano trattati con evidente diffidenza.
“Memorial Centre for Pan-African Culture” discussione su “Donne ed
emancipazione”. “Non ti vogliamo qui. Questa è la nostra storia! Voi avete la
vostra, e neppure quella è una bella storia”.
Le discussioni si riducevano ad un aggressivo rifiuto in un posto che non mi
apparteneva.
Impossibilità di impostare un dialogo che non fosse impostato su basi razziali
come categoria essenziale. Il colore andava al di là della capacità di definizione
(l'antropologa viene odiata solo per il colore della propria pelle → situazione
nuova per lei. Realizzazione del fatto che il colore della pelle non è una
caratteristica neutrale/irrilevante del proprio essere).
Tali atteggiamenti discriminatori nei confronti dei bianchi trovano spiegazione
nell'esperienza afro-americana e nella politica identitaria che ne deriva che
trova espressione nella pratica del ritorno alle origini.
Alcuni intendono l'immagine dell'antropologo come spia, basandosi sulla storia
del tradimento dei neri e degli amerindi da parte dei bianchi. Altri ancora si
focalizzano solo sugli aspetti razziali.
La varietà dei punti di vista ricevuti, rende evidente la necessità di riflettere
sui punti di vista degli interlocutori di volta in volta impegnati. Lo standpont da
un lato esclude l'antropologo a certi discorsi prevalenti sul campo, dall’altro ne
apriva altri.
Nel vis-à-vis, lo stato di outsiders dell'antropologo si dimostra un vantaggio,
rendendo più facile dar voce alle critiche e ai dubbi riguardo ad un omogenea
famiglia africana.

Ingenuità o dominanza? Dello stereotipizzarsi a vicenda


2° esempio → durante il Women’s forum l'antropologa viene messa al proprio
posto dai partecipanti. Durante queste celebrazioni è forte la contrapposizione
presentata fra la gloria africana (nera) e la barbarie europea (bianca) e le
posizioni tutt'altro che neutrali/obiettive.
Durante questa occasione l'antropologa era l'unica partecipante bianca, quindi
si identificò come bianca ed in quanto tale rifiutò le grossolane generalizzazioni
che vedevano i bianchi come autori dell'olocausto nero; l'antropologa si rifugia
in una posizione difensiva ed etichetta come intolleranti e dogmatiche le
persone partecipanti a questo forum.
Durante questo forum, l'antropologa venne etichettata come “padre coloniale”,
e lei etichetta loro come “afrocentrici radicali” (dato le idee estremamente

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radicali che volevano la distruzione fisica dell'uomo bianco ed il riscatto


dell'uomo nero)→ connotazione negativa da ambo due le parti.
Durante queste celebrazioni, la gente non vede il bianco come uno che
condivide il dolore, ma come un che discende di chi infliggeva dolore.
Gli Afro-americani e caraibici hanno in comune la stessa storia di schiavitù.
La gente reagisce in un certo modo non perché ha sperimentato la schiavitù,
ma perché è stata vittima di discriminazioni.
La realtà quotidiana che gli afro-americani devono affrontare negli Usa
(violenza razzista) fa capire da dove hanno origine queste emozioni e opinioni
d'odio nei confronti dei bianchi.
Questa unità razziale pretende di superare ogni distanza spaziale (Oceano
Atlantico) e
temporale (400 anni di schiavitù) ignorando che ogni caso è diverso.

Trascendere la razza?
Il problema dei rapporti di potere ha bisogno di essere analizzato con
attenzione, dato che inevitabilmente sorgono interrogativi che riguardano la
definizione delle relazioni di potere. L'aggressione diretta di cui è stata vittima
l'antropologa l'ha fatta sentire senza potere,sola e minacciata. Nonostante ciò il
suo status sociale di antropologa bianca trasmetteva potere (diritto ad
investigare, partecipare, conoscere ed interpretare). Ma nonostante le
intenzioni non fossero quelle di spiare, ma solo di osservare e comprendere,
quella non era la circostanza adatta per farlo. Il fatto che l'antropologa desse
per scontato che avrebbe potuto partecipare al forum in quanto simpatizzante
con l'idea dell'emancipazione, andava associato ad una supposta invisibilità
bianca.
L’ingenua indignazione dei bianchi quando si trovano di fronte alla percezione
dei neri della semplice presenza dei bianchi come terrorismo è anch’essa una
forma di razzismo: è una mancanza di comprensione che nega all’altro la
possibilità di un proprio punto di vista. Infatti non esiste un punto di vista
oggettivo, ma ognuno parte da un proprio punto di vista.
La ricerca svolta dall'antropologa è stata svolta in un scenario istituzionale che
favoriva lo spazio per molti discorsi conflittuali e proprio come la gente li
presente non costituiva un tutto omogeneo, allo stesso modo, in quel contesto,
non era omogenea neanche la percezione ed il ruolo dell'antropologa stessa.
La maggior parte delle persone soggiornavano pochi giorni ed era per questo
impossibile stabilire un rapporto di fiducia indispensabile per avviare quel “teso
e tormentato dialogo”, visto anche che lo scenario di quell'incontro era
politicamente caldo. → La pelle bianca risalta come marchio di appartenenza
politica ed oscurava ogni aspetto della personalità dell'antropologa.
Ma durante quel lavoro, ci furono anche alcune possibilità di attraversare i
confini razziali, e per aprire un varco alla comprensione occorreva lasciare
spazio alla propria soggettività, non limitarsi a stare seduti ed ascoltare, bensì
tirare fuori opinioni. Prendere sul serio i propri interlocutori significa criticarli, e
viceversa farsi criticare, per questo motivo durante i numerosi colloqui con i
sostenitori del pan-africanismo (alcuni dei quali sfociavano in vere e proprie
discussioni politiche), il ruolo dell'antropologa non fu mai soltanto quello di
colei che stava svolgendo un'indagine, ma lei stessa divenne soggetto di
ricerca. Ciò la rese di nuovo visibile, solo che dietro l’etichetta dell’antropologa
c’era la persona.

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La soluzione in questi casi non è solo l’iper-identificazione con gli altri, il “farsi
nativi”.
Riflettere sulla propria posizione e accettare la sua relatività non significa
perdere quella posizione. Dar voce a quella posizione è l’unico modo per
portare le persone con le quali si conversa a esprimere il proprio punto di vista.
Per raggiungere un radicale umanesimo non razziale è importante acquisire
consapevolezza delle diverse/contraddittorie posizioni.

8) VIVERE L’ETNOGRAFIA. OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE


(Francesca Cappelletto)
L'ultimo capitolo è frutto di un'etnografia autobiografica (dato che all'etnologa
venne diagnosticato un tumore), nel quale la Cappelletto intende trasmettere
una visione dall’interno della sofferenza che si produce nella relazione medico-
paziente.
Metafora della cittadinanza: tutti nasciamo con una doppia cittadinanza:nel
regno dello stare bene e dello stare male. Tutti preferiremmo stare solo nel
primo “stato”, ciò nonostante tutti, almeno una volta nella vita, siamo costretti
a far visita anche all'altro.
La Cappelletto intende descrivere la spersonalizzazione delle corsie d’ospedale
e come all'interno di questo mondo si sommano due tipi di sofferenza: una
originaria (che riguarda prettamente la malattia) e una sofferenza aggiunta
(prodotta dal rapporto distorto tra medico-paziente, una sofferenza sociale), le
due sono strettamente legate, seppur la seconda molto spesso viene occultata
o non riconosciuta.
L'etnologa descrive le situazioni in cui il medico (bio-medico) non comprende
come sia parte del suo mestiere dialogare con il malato e cercare di non
abbandonare l’esperienza vissuta di questo.
La sofferenza è prodotta socialmente, quindi deve assumere una forma
culturale, per questo c'è bisogno di metodi diversi (dato che ciò che è giusto
per un gruppo, può risultare non giusto per un altro).
Il tema centrale di questo lavoro della Cappelletto è il rapporto fra individuo e
istituzioni, ijntende fare una lettura del corpo come oggetto di pratiche sociali e
più in generale l’uso sociale della sofferenza. Cerca di trasmettere il senso dello
sforzo di opporsi alla distruzione del mondo della vita quotidiana con accanto
un medico che “si vive” come portatore di una chiusa cultura istituzionale.

I due mondi
Emigrare nel regno della malattia vuol dire costruirsi una cavità in un altro
mondo: muta la percezione della realtà, un senso di paura invade la coscienza,
nasce un senso di estraneità rispetto al mondo dei sani. Ci si sente diversi,
appartenenti ad un’altra dimensione, si è soli, non si condivide più con gli altri
la stessa percezione della realtà. Possono coesistere sensazioni che producono
sdoppiamento di natura traumatica fra il sé che ha tradito e quello che resiste.
Si parla del “sé malato” come il sé astratto di un altro, come se non ci
riguardasse.
La dimensione in cui si trova il malato e che lo accompagna per tutto il periodo
delle cure è una dimensione di liminalità (transizione, distacco da un mondo e
aggregazione ad un altro, crisi, in bilico tra un mondo perduto e uno da
guadagnare).

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Una caratteristica della sofferenza è quella di essere in bilico su una corda,


vulnerabili.
Questa configurazione di sentimenti influenza la comunicazione medico-
paziente: il rapporto tra i due è fortemente asimmetrico:
– malato → vive in un mondo in cui sono crollati dei significati; è insito in lui
il rischio della presenza in cui domina la precarietà dell'esistenza umana
– medico → vive in un mondo ancorato al reale. Appartiene al mondo della
comunità scientifica, ha sempre qualcuno alle spalle (al contrario del
malato che, a volte, può trovarsi ad affrontare la malattia totalmente
solo).
Il desiderio del malato è riappropriarsi del corpo e della mente al mondo
non anomalo del terapeuta ed il medico è il mediatore di questa realtà, la
vicinanza che il malato crea è dovuta al bisogno di contatto fisico ed
emozionale con una persona che fa parte di un mondo al quale vuole
appartenere.
Gli atteggiamenti del medico o degli assistenti sanitari sono fondamentali
nell'esperienza del paziente. Atteggiamenti di paternalismo e distacco
consapevole sono due modalità di egemonia psicologica che il medico propone
al paziente come forma della loro relazione.
– Paternalismo: attitudine caritatevole. Il minore non deve per forza
prendere parola.
Gli è chiesta un’attitudine docile perché altri pensano per lui. È un
rapporto asimmetrico perché basato sul sentimento di protezione, ma ha
il vantaggio di escludere il confronto.
– Distacco consapevole: asseconda e promuove la responsabilizzazione del
paziente (ovvero l'accettazione del ruolo di paziente). Il messaggio che
trasmette è che “non c’è nessuno che può mettersi dalla tua parte e
accompagnarti, è necessario che tu attivi le tue difese e diventi
protagonista”. In questo caso il silenzio non è d'obbligo, ma la non
comunicazione porta inevitabilmente alla solitudine (sentimento che più
di ogni altro dilata il senso del dolore e della morte).
Il medico asettico non prevede nessun grado di rapporto umano, viene abolito
il vissuto del paziente, ognuno rispetta il proprio ruolo (il medico fa il medico, il
paziente fa il paziente). La figura del medico asettico è intesa come detentore
di sapere inafferrabile (attitudine a non parlare, ironia sulla scrittura
indecifrabile eccecc). Questa attitudine al distacco viene giustificata in
riferimento alle qualità della scienza intesa come imparziale, oggettiva e
neutrale.
Questa distanza induce disagio psicologico nel malato e produce anche effetti
bio-medici, es: uso indiscriminato di farmaci.
All’assenza dell’ascolto umano corrisponde l’eclissarsi dell’auscultare
semiotico.
Al posto di un rapporto paternalistico, è più importante che si crei una
dimensione partecipativa, e magari di complicità tra medico e paziente, vedere
se stessi e l’altro cooperare per la guarigione in contesti quali il cancro,
permette di sentirsi meno esiliati e soli.
Questa dimensione della complicità è negata sia nel rapporto paternalistico
(dove vige la dinamica alto-basso) sia nel distacco consapevole (dove vige la
dinamica fuori-dentro).

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Anche il rapporto tra medico e paziente, come tutti i rapporti sociali, attraversa
diverse fasi.
Di solito il paternalismo si propone per primo ed il distacco può essere il
risultato della rottura del paternalismo al quale consegue poi una mancanza
della fiducia accordata dal medico al paziente. Quando sia paternalismo che
distacco falliscono (come metodi comunicativi), il rapporto medico-paziente si
inclina e nasce una situazione simile a quella del mobbing, e si addossa al
paziente il fallimento del rapporto.
Il Mobbing è socialmente definito come l'uso di una posizione di
sovraordinazione.
La Differenza tra mobbing-lavorativo e mobbing medico-paziente è la
dimensione temporale, infatti nel Mobbing-aziendale c'è una dimensione
quotidiana,mentre nel mobbing medico-paziente è assiste ad un'occasionalità
del rapporto. Questo tipo di mobbing sfugge all’osservazione, ed è incastonato
in una rete meno ampia di rapporti sociali, ciò è dovuto al fatto che nella nostra
società la consultazione e la cura avvengono in un contesto privatizzato e
individualistico ed il carattere sociale dell'incontro tra medico e paziente non è
subito palese, come accade invece con i riti pubblici di guarigione delle società
“primitive”.
La violenza si spiega nell'abolizione del vissuto del paziente, in contesti di
“somiglianza alla famiglia”, la punizione è il silenzio.
La differenza tra il mobbing tradizionale e quello degli ospedali sta nella qualità
del rapporto di potere: nel contesto aziendale si aliena la propria forza-lavoro,
in quello medico si aliena se stessi nella formula “mi metto nelle tue mani”.

Mettersi nelle mani


il Dolore è un'esperienza umana che toglie potere all’individuo, il sentimento
più provato dal paziente è quello di impotenza. Questa impotenza coincide con
un mondo in cui vige rigore e disciplina, in cui il soggetto non può nulla. Il
Dolore è strettamente associato all’obbedienza; “mettersi nelle mani di”
significa superare una perdita affidando quel potere ad un altro, al quale si
deve tutto.
La “mano” è in molte culture occidentali/orientali la mano miracolosa a cui ci si
affida per avere protezione ed immunità dalle malattie → la mano
rappresentata come salvifica.
“mettersi nelle mani”, duplice dimensione: individuale (funzione psicologica
positiva: allentare un senso di tormento, togliersi il peso del corpo malato,
scaricato su un altro), sociale (“cedere il corpo”, figura del medico semidio,
potere di essere presi e guariti).
L'atto di mettersi nelle mani da parte del paziente ha una doppia dimensione:
– Individuale: riveste una posizione psicologicamente positiva; allenta un
senso di tormento dato che toglie di dosso il peso del corpo malato e
tale peso viene caricato su un altro che può guarire. Questo atto di
fiducia fa parte della cura.
– Sociale: in questo ambito, assume il senso di “cedere il corpo”. La figura
del medico semidio trova la sua origine in questo potere (di essere presi
e guariti) che ha sul corpo.

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Il nodo fondamentale di questa analisi sociale:è la dinamica di potere in


relazione al corpo-mente. Il potere viene visto come prodotto dell’interazione
sociale e si costituisce attraverso il linguaggio e la pratica del quotidiano, è
obbligatorio.
Il malato è senza potere, ha un corpo reso docile, il dolore che si origina dalla
malattia viene inflitto dalle cure.
“dolore per la cura”: unico tipo di dolore che la coscienza moderna non giudichi
riprovevole moralmente condannabile.
Corpo malato è un oggetto di conoscenza, ruolo passivo. C'è uno “Scambio di
prestazioni” che ha come argomento le opportunità del conoscere. In cambio il
medico presta le sue cure, il regista dello scambio è il dottore.
L'elemento del “Prestare il corpo” è una caratteristica chiave della relazione
terapeutica. Il corpo assume una posizione di distaccato. Il processo di
reificazione del corpo è cruciale, può indurre sentimento di espropriazione.
Avviene quando il corpo diventa dominio della pratica medica, invece che fonte
di conoscenza.
Le dimensioni esistenziali della sofferenza umana vengono messe al centro
della descrizione antropologica che non può limitarsi alla malattia oggettiva e
mettere da parte l'esperienza soggettiva.
La medicina ed il sapere medico sono inseriti nella cultura.
Good intende la malattia come oggetto fisico localizzato nel corpo, ed il sapere
medico consiste in una rappresentazione oggettiva del corpo malato”. Tuttavia
le difficoltà della rappresentazione oggettiva emergono quando guardiamo da
vicino la malattia e la sua esperienza: per il malato (e anche per il medico) la
malattia è intesa come presente nel corpo, ma mentre per il medico il corpo è
visto come un oggetto fisico, per il malato assume tutt'altro significato:ovvero
una parte essenziale di sé, il corpo è soggetto non oggetto ed il malato non
vive la malattia come un fallimento locale, ma come crisi della sua persona.

La “bionnipotenza” del medico


Il fallimento del rapporto medico-paziente può essere indotto dal fallimento
delle cure.
La relazione implica una dipendenza reciproca di emozioni e pensieri, anche i
medici soffrono.
Es: nel caso di insuccesso della terapia, può farsi strada una pervasiva
angoscia del medico che non vede guarire il suo paziente e che interpreta
l'insuccesso terapeutico come un fallimento di sé. Dietro il fallimento del
medico asettico c’è forse l’immaturità a comunicare l’incertezza e il possibile
fallimento.
Il modellamento sociale di natura ideologica della malattia condiziona
fortemente il rapporto comunicativo tra medico e paziente.
Edward Shorter ha tracciato il percorso delle forze storiche che sono alla base
della crisi tra medici e pazienti la quale non ha niente a che fare con i vizi e le
virtù private. Egli individua nel periodo della rivoluzione farmacologica
penicillina (metà ‘40) la nascita della figura del medico post-moderno che bada
più alla malattia che al malato, e il declino della figura del “medico moderno”

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formatosi su basi scientifiche (metà ‘800) che usava come forza terapeutica la
compassione umana.
Shorter sostiene che Il medico moderno godeva di fiducia incondizionata, il suo
potere derivava dal “salto sociale”, il paziente era disposto a mettersi
completamente nelle sue mani.
Questo senso di bionnipotenza declina con il medico “post-moderno” che
acquista poteri nuovi e autentici. Il paziente perde la fiducia a causa del ricorso
intensivo alla farmacoterapia, il medico diventa bio-medico interessato a
scoprire i danni all'interno del malato più che a capire il malato e per questo il
rapporto si inclina.
La bio-onnipotenza priva il malato di alcune certezze, prima fra tutte
l'incertezza della terapia.
Nonostante ciò, esiste una forte variabilità biologica e l'angoscia del medico
che tocca con mano la sua non-onnipotenza, il non poter guarire è
un’esperienza psicologica che può essere all’origine di comportamenti
problematici nelle relazioni con il paziente. Si pensa che il medico tenti di
controllare queste angosce stabilendo dei rapporti di potere con il malato, ma
di fatto con la malattia vissuta come nemico.
Il paziente può addossare al medico la colpa, o viceversa, più o meno
inconsciamente.
L'accusa di responsabilità è collegata al tema della colpa.

Il senso di colpa del paziente


Come il senso di vulnerabilità, il senso di colpa è un feeling-pensiero che il
paziente porta con sé, “che cosa ho fatto per meritarmi la malattia?”, il senso
di colpa si manifesta in una revisione del sé, che si estende dalle condizioni
presenti a quelle passate, ricerca ossessiva della spiegazione della malattia.
Diffusa idea occidentale: mantenersi sani (ecco spiegato il motivo delle
palestre intese come luoghi di salute, oltre che di bellezza), non esiste il caso
come agente della malattia.
Esiste l'Idea di un corpo scorretto che si ammala (cattiva alimentazione, stress
di vario genere ecc).
Il senso di colpa congiunge la dimensione soggettiva con quella delle
rappresentazioni socialmente condivise → Il cancro è identificato e simbolizzato
con la morte (nonostante siano oggi disponibili cure).
Tanto più una malattia è multi-determinata e misteriosa, tanto più si presta ad
essere metaforizzata. Una vasta letteratura psicologica sostiene che le
emozioni negative sono le vere cause o i fattori predisponenti del cancro. (in
questo modo si finisce per dare tutte le responsabilità, sia nell'ammalarsi che
nel guarire, al paziente).
Dagli anni ’20 le fantasie sul cancro ereditano i problemi della Tbc, assolvono le
funzioni metaforiche basate sull’idea che la malattia sia “ogni situazione che si
disapprova”, una forma di deviazione sociale. Tbc ( viene intesa come un
processo di smaterializzazione e disgregazione del corpo), cancro (crescita,
gravidanza demoniaca). Descritto con immaginai che sembrano militari: difese,
avamposti, colonizzazioni, invasioni. Impensabile coccolare il malato visto che è
oggetto di una attacco, unica cura: contrattacco.
Al centro di questa mitologia sociale campeggia l’idea della colpa individuale, il
mito delle due malattie considera responsabile l’individuo: ci si ammala perché
lo si desidera, ci si riprende perché lo si desidera. Le teorie psicologiche della
malattia sono un mezzo efficace per gettare colpe sul malato.

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Attraverso il senso di colpa, il malato vive il processo terapeutico come


espiazione.
La dinamica tra Sofferenza, obbedienza-umiltà e potere forzato è una
sofferenza in più usata per creare obbedienza.

L’obbedienza e l’essere irreggimentati: l’uso del potere


Sala d’attesa → luogo che pullula di comunicazioni informali, si formano
networks, reticoli comunicativi i quali hanno un contenuto affettivo, più che
cognitivo. È un luogo in cui avvengono trasmissione di conoscenze scientifiche
apprese durante l’esperienza di malato e che appittisce la variabilità esistente
tra una malattia e l'altra e tra una persona ed un'altra. Spesso l'Esito è di
essere terrorizzati più che confortati. Ma dal punto di vista comunicativo sono
reticoli importanti che riempiono vuoti e creano una solidarietà basata sulla
condivisione della stessa situazione.
La sala d’attesa è una sfera di azione sociale e di intenso vissuto individuale.
Luogo in cui i malati sperano nell’esito della vita, e guardano gli altri che
soffrono. È un non luogo in quanto dominio impersonale (attributo vissuto dal
malato come negativo), l’entrata nello studio del medico segna il passaggio da
una socialità allargata a un luogo che si desidera come protettivo perché il
qualcuno si occupa di te.
Percezione del paziente: pochezza delle spiegazioni offerte.
Firma: richiesta nei momenti nevralgici, es: inizio di un trattamento o di un
intervento. Per il paziente sono momenti critici, è posto di fronte alla cosa. Si
sommano due gravità percepite: il rischio che la malattia porta con sé, il rischio
dello sfidare la malattia per sconfiggerla.
La mancanza di informazioni può essere critica in quanto porta il paziente a
vivere in un’atmosfera di estraneità, disorientamento di fronte all’ignoto, tutto
ciò che è sconosciuto viene percepito come pericolo.
L'assenso alla cura viene inteso come assoluto, incondizionato.
Essere all’interno di un progetto terapeutico può suscitare il sentimento
dell’essere inquadrati in uno schema rigido in cui domina la pratica
dell’obbedienza (l'ospedale è uno dei luoghi foucaultiani della nostra civiltà, un
luogo di reclusione).
In questo irreggimento è centrale il rispetto per il ruolo, dove il ruolo è la
persona. L’ospedale organizza le persone in ruoli e categorie.
Ospedale → mondo ad alto contenuto di normatività, i componenti si
costituiscono come gruppo a sé situandosi a diversi livelli di gerarchia. Più alto
è il ruolo del singolo medico, più alto è l’ipotesi che si senta un semidio e venga
a mancare il sentimento della comune umanità.
Medico asettico: forma di dominio sull’altro.
Esistono medici che costruiscono il proprio curriculum, la propria carriera sulla
sofferenza altrui.
C’è una determinazione sociale, non solo culturale e simbolica nel
modellamento del rapporto di cura: la figura sociale del medico onnipotente,
facente parte di un mondo a sé, si inserisce in una storia sociale ben precisa.
Basaglia negli anni '70 scrisse che Il rapporto medico paziente non era esente
dal rapporto di classe implicito in ogni relazione sociale. Il valore dell’uomo
sano o malato va oltre il valore della malattia, la malattia può essere usata
come strumento di appropriazione o alienazione di sé, quindi come strumento
di liberazione o dominio. Per Bastiglia doveva cambiare il rapporto fra cittadino
e società nel quale si inserisce il rapporto fra salute e malattia. Ciò significa

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capire che il valore dell'uomo sano o malato va oltre il valore della salute o
della malattia e che la malattia può essere usata come strumento di
appropriazione/alienazione di sé, quindi come strumento di
liberazione/dominio.
Sherper-Hughes coniuga il termine di continuum di violenza per indicare una
serie di violenze che vanno da quelle esplose sulla scena pubblica fino alle
microviolenze di massa, alle violenze quotidiane e nascoste, passando ancora
per i genocidi invisibili che avvengono nelle istituzioni (scuole, ospedali,
prigioni). Questo coonium fa riferimento alla capacità umana di ridurre gli altri
allo status di non persone, includendo le varie forme di esclusione sociale,
disumanizzazione, spersonalizzazione.

L’empatia
Ridurre il paziente alla sua malattia impedisce la soggettività del malato e la
sua capacità di narrare (che fa parte della cura, nonostante non venga
riconosciuto da molti medici).
Studiosi di antropologia medica, evidenziano che narrare (ovvero collegare
immaginativamente esperienze ed eventi in un racconto denso di significato)
sia uno dei processi fondamentali negli sforzi personali e sociali per opporsi a
tale dissoluzione e alla ricostruzione del mondo,
situando la sofferenza nella storia, nelle relazioni sociali, ricostituendo un
ordine temprale dotato di senso.
È stato riscontarto che per un individuo/gruppo esprimere il proprio dolore può
suscitare un senso di liberazione e protezione rispetto all’ansia e alla
disperazione che accompagnano il malato. Questo bisogno di parlare è
giustificato dalla natura traumatica della malattia: le persone traumatizzate
raccontano e riraccontano l'evento facendolo diventare oggetto di una
memonia narrativa.
Il trauma ha una componente di irrisolto da completare e dotare di senso con la
narrazione. Narrare la propria storia è un’operazione volta a ricatturare il
passato.
La novità dei recenti studi nell'ambito dell'antropologia del corpo considera che
la malattia stessa aderisce ad una logica culturale del significato, è una realtà
simbolica costruita sulle pratiche narrative condivise dai sofferenti, le loro
famiglie i terapeuti.
Comprendere l’intersoggettività di paziente e guaritore è fondamentale,
l’intersoggettività è la fonte di forza per la cura.
La comunicazione (incontro fra medico e paziente) fa parte della cura, dato che
lo stato della mente è importante, il medico può aiutare il malato a potenziare
la sua capacità personale di recupero e guarigione.
È questo fattore “umanità” (che riconosce l’altro come “persona”), che si
intende quando si parla di empatia.
Qui il tema chiave è l’empatia. → generalmente sono proprio gli infermieri a
intuire che l'empatia fa parte della terapia, e sono proprio loro i primi a
lamentarsi delle regole che impongono loro di avere un rapporto informale con
i pazienti.
Nel mondo medico l’empatia ha un'importanza secondaria e viene vista con
disprezzo, quasi fosse un mostro sacro da cui tenersi lontani per evitare di
affogare in una comunicazione difficoltosa (nonostante l'empatia intesa come
vicinanza con gli altri è stata giudicata “la capacità morale più significativa
dell’uomo”).

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Studi italiani dimostrano che tutte le relazioni sociali comportano anche


l'empatia in quanto far proprie le emozioni altrui è un atto in cui l'aspetto
cognitivo è inseparabile da quello affettivo.
Quindi L’empatia è un comportamento affettivo che ha come requisito la
capacità di riconoscere cognitivamente lo status emotivo di un'altra persona;
non è pura sensibilità, ma razionalità immaginativa.
Mettersi nei panni degli altri non significa perdere il proprio punto di vista, che
resta sempre attivo. → nella condivisione partecipatoria l'antropologo non si
perde nell'altro, ma mantiene una certa distanza pur avvicinandosi all'altro.
L’attesa occupa molto spazio del processo terapeutico, avvolge tutta la
sensibilità del malato, e costituisce una sua dimensione essenziale (attesa di
essere visitati, dell'esito di un esame ecc).
Per empatia si intendono anche i piccoli gesti → come non rifiutare il contatto
fisico con un paziente, come ad es non scansare la mano del paziente che
cerca quella dell'infermiere come conforto, una sorta di Condivisione
istantanea, in cui le persone si riconoscono, sanno cosa l’altro prova. Un gesto
dotato del significato di accoglienza.
Una caratteristica dell’empatia è la delicatezza.
La comunicazione attraverso il tatto è di importanza primaria in quanto il tatto
è il senso dominate nelle pratiche legate alla malattia.
Nelle pratiche terapeutiche dell'occidente esiste (seppur non a livello
universale) una separazione tra il toccare per diagnosi/cura ed il toccare per
aiuto/conforto (stringere la mano al paziente).
Secondo l'antropologia del corpo, gli aspetti individuali inseriti nel corpo dalla
società, vengono colti nel loro essere discorsi egemonici naturalizzati che
riguardano determinati aspetti sociali.
Esistono infine, anche pazienti che pur di essere “malati con “dignità”
stringono i denti, per accettare quella che è l'etichetta imposta al ruolo del
malato e la conseguente funzione sociale e che si scusano perchè, nonostante
le apparenze, nel profondo della loro anima sociale, sanno qual è il proprio
posto/quale sarebbe se non fossero malati.

Il mercato del lavoro


Il rapporto medico-paziente va osservato in un mercato capitalistico del lavoro,
che vede la Figura del medico-macchina, diviso fra competizione, desideri di
affermazione ed esigenze del sistema sanitario. In questo quadro è evidente
che il paziente rappresenta l'ostacolo nella carriera del medico, il che rende
l'esperienza del malato ancora più traumatica perchè si pone tra l'intimità del
suo dolore privato.
Il fattore centrale della crisi del rapporto fra medico e paziente è la mancanza
di tempo, in quanto i medici soffrono di mancanza di tempo sia per prendersi
cura dei pazienti, che per prendersi cura di sé stessi (ciò si verifica soprattutto
nelle strutture pubbliche, dove quasi sempre si ha anche fare con il medico-
fulmine → “il tempo stringe” quindi non c'è tempo per i convenevoli).
La mancanza di rispetto per il malato si può collegare a una minore precisione
ed affidabilità della diagnosi. Non ci si ricorda che dietro ad un organo c’è una
persona, che non è fonte di alcun reddito.
Una delle lamentele più frequenti dei pazienti è quella di essere identificati
come numeri, e quindi di essere trascurati, resi anonimi, non personalizzati.
A volte, l’istituzione provoca nel malato una concezione esagerata del sé come
numero, provocando una sorta di nuova non-identità. Questa mancanza di

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empatia trova la sua giustificazione nella mancanza di personale e nel


sovraccarico di lavoro, tipici dell'odierna politica sanitaria (per questo motivo è
importante guardare entrambe le facce della medaglia; sia quella del paziente
che quella del medico). Questo dato di fatto ben si collega con la mentalità
diffusa tra i medici secondo la quale si può dedicare poco tempo ai malati (Es:
se un medico ha in cura 400 pazienti, ciò giustifica la sua aggressività ed il
fatto che non può dedicare troppo tempo ad ognuno). Tempo vera cosa che i
pazienti chiedono ai medici, eppure è l’unica cosa che sembra sfuggire a
questi.

Esistono due tipi di pazienti: quelli che chiedono tempo e un rapporto meno
superficiale, e pazienti che provengono da fasce sociali più disagiate e a cui va
bene l'assistenza loro offerta.
Bisogna chiedersi, se in questo caso i primi pazienti, quelli che chiedono
tempo, comportandosi cosi non tolgono tempo ai secondi, a coloro che non
chiedono nulla. Ed è una domanda lecita considerando che le disuguaglianze
nella salute in Occidente oggi dipendano anche nella qualità della cura a cui
alcuni hanno accesso e altri no.
Oggi è fondamentale un ripensamento del sociale che aiuti a passare dallo
spazio della regolamentazione, della punizione e della colpa, a quello del
conforto e del accoglienza (adottare quindi un atteggiamento più empatico).

“Il tempo è la vera cosa che i pazienti chiedono ai medici:


tempo per essere ascoltati, tempo per farsi spiegare le cose,
tempo per essere presentati personalmente agli specialisti o
agli altri sanitari la cui stessa presenza sembra rispecchiare
qualcosa di nuovo e terribile.
Eppure è proprio il tempo l'unica cosa che sembra sfuggire
alla volontà e al controllo dei medici”
-Norman
Cousins-

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