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ture che va dal money e dal business alla cultura e allo spirito; e lo
faccia, perché tanto non c’è modo di uscirne altrimenti, solo sem-
plificando al 2 + 2 = 4 –, va dritto al rapporto con l’altro/Altro co-
me ferita, come necessario trauma direi salvifico. Infatti una vita di
conti esatti, senza traumi, è esattamente (il conto torna) una vita
senza l’altro/Altro cioè un girare senza senso intorno all’inesistente
o nullificante se stessi. Per questo la boccacciana monna Giovanna
sposa Federigo degli Alberighi, povero, accettandone la “ferita”
economica, che i fratelli di lei non vorrebbero accettare, col dire
che preferisce uomo che abbia bisogno di ricchezza a ricchezza che
abbia bisogno di uomo (sarà anche per questo che oggi i maschi so-
no molti ma gli uomini pochi?).
Senza ferite non si vive, ecco il vitale paradosso; nell’egoisti-
co benessere – che necessariamente deve essere piccolo e misero,
anche se miliardario, per sussistere – si fa solo una parodia della
vita, si atteggia la propria morte vivente, perché manca l’altro/Al-
tro, o, se si è non credenti, semplicemente l’altro (che però resta
inseparabile, se è veramente altro e non una provincia di se stessi,
dal mistero, che è sempre, anche se non creduto Dio, Altro).
Ma tutto ciò, che è la novità e l’ardimento originale di Bruni,
come sta strictly in economia? Gli economisti assetati di realismo
pragmatico non vedono ferite, vedono «the profit and the loss»
come non lo vede più il cadavere eliotiano di Phlebas il Fenicio,
che per morire in pace facendosi cullare dai sussurri del mare è
costretto a dimenticarli, profitti e perdite, nella Waste Land del
morire-rigenerarsi. Ma questi pragmatici senza ali si riducono in-
fine, lo confessino o no, a sperare che il cadavere di Phlebas non
sia il loro, restando l’economia, secondo loro, perennemente im-
mutabile in vita e in morte (altrui).
Non è così: «Prima o poi ogni persona fa una esperienza che
segna l’inizio della sua piena maturità: capisce nella propria carne
e intelligenza che, se vuole sperimentare la benedizione legata al
rapporto con l’altro/a, deve accettarne la ferita. Comprende, cioè,
che non c’è vita buona senza passare attraverso il territorio buio e
pericoloso dell’altro, e che qualunque via di fuga da questo “com-
battimento” e da questa agonia conduce inevitabilmente verso
una condizione umana senza gioia. In un certo senso è tutta qui
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al centro della vita della polis, anziché lasciarla confinata nella so-
la sfera privata, dove può svolgere un ruolo residuale e sussidia-
rio. Del resto una società postmoderna che perdesse il contatto
con l’agape nella sfera pubblica lo perderebbe presto anche nella
sfera privata, poiché nelle società globalizzate si sta squarciando il
velo separatore che delimitava il confine tra pubblico e privato.
(...) Si tratta quindi di dare dignità teorica all’agape in economia,
mostrando che c’è una razionalità diversa ma altrettanto “ragio-
nevole” di quella del contratto e della philía nell’impostare la vita
civile ed economica sull’agape».
«Una prima via è mostrare, con esperienze concrete credibili
e significative, che è esistita ed esiste un’economia agapica che è
civilmente rilevante almeno quanto l’economia del contratto e
dell’amicizia. (…) In secondo luogo, è sempre più urgente denun-
ciare i due “monofisismi” che oggi si stanno delineando con sem-
pre maggior forza e chiarezza nella cultura contemporanea. Da
una parte, avere il coraggio di denunciare il monofisismo del con-
tratto, mostrando, con i fatti e con le idee, le deviazioni umane ed
economiche cui conducono una vita civile declinata sul solo prin-
cipio del contratto. (...) Una terza sfida importante chiama in cau-
sa direttamente la necessità di un approfondimento e di una nuo-
va declinazione del “principio di sussidiarietà”. (...) Credo sia ne-
cessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale
della vita civile, che potrebbe essere così formulata: non faccia il
contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò
che può fare l’agape». E reciprocamente: «Ben vengano contratti
e philía, ma se aiutano a far crescere la fraternità universale! [...]
L’agape non è un bene economico che si deteriora usandolo, è una
virtù che aumenta il proprio valore con l’uso. Se è così, allora oc-
corre riconoscere che tutte le volte che ricorriamo a un contratto
quando è disponibile l’amicizia e all’amicizia quando c’è l’agape,
“impoveriamo” il valore delle persone, delle relazioni e della so-
cietà, svendiamo il valore della vita in comune in una sorta di
dumping relazionale».
E vale a questo punto una citazione lunga e virtualmente
conclusiva: «L’agape, la virtù per eccellenza, non si incentiva, ma
la si può (e deve) premiare. Il contratto e la philía sono alla base
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GIOVANNI CASOLI
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