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LIBRI Nuova Umanità

XXX (2008/2)176, pp. 271-279

LA FERITA DELL’ALTRO DI LUIGINO BRUNI

I libri di economia dovrebbero recensirli non-economisti, vedi


ad esempio le pagine di A. Manzoni su J. Bentham, come i libri di
poesia dovrebbero valutarli non-poeti (salvo eccezioni: penso alle
pagine-capolavoro della Cvetaeva su Pasternak); soprattutto quan-
do un vero economista ha l’aria di non esserlo e perciò può infilare
allo spiedo, soavemente, i suoi avventurati recensori.
Luigino Bruni oltre che amico è una persona tra le più intelli-
genti che io conosca, e infatti ha il coraggio, la vera intelligenza es-
sendo sempre coraggiosa e anzi spregiudicata, di intitolare un libro
di economia La ferita dell’altro (editore Il Margine), mostrando con
questo salutarmente biblico pugno nello stomaco (vedi la lotta di
Giacobbe con l’angelo-Dio e relativo trauma), che per parlare vera-
mente di economia si deve parlare d’altro – apparentemente –, co-
me per far parlare la poesia non bisogna parlare di poesia e tanto-
meno parlare “poeticamente”. Lo shakespeariano mercante ebreo
di Venezia Shylock vorrebbe mantenersi rigorosamente nei limiti e
negli ambiti dell’economia (una libbra di carne strappata per con-
tratto dal corpo del suo debitore razzista e insolvente). Ma deve
convenire suo malgrado che l’economia dell’economia, soltanto,
non funziona; e che se volesse fare economia con la sola economia
rischierebbe la propria testa (non potendo pesare la estraenda lib-
bra esatta su un corpo vivo), ben più dell’economia stessa; perché
quella vera, testa ed economia, passa non solo attraverso le tabelli-
ne e le bilance e le leggi, ma molto prima attraverso i rapporti uma-
ni, e ne è o purificata e purificatrice, o travolgente e travolta.
Bruni, dunque, per parlare di economia dei rapporti umani –
ognuno sciolga il nesso “dei” nella quasi infinita gamma di sfuma-
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ture che va dal money e dal business alla cultura e allo spirito; e lo
faccia, perché tanto non c’è modo di uscirne altrimenti, solo sem-
plificando al 2 + 2 = 4 –, va dritto al rapporto con l’altro/Altro co-
me ferita, come necessario trauma direi salvifico. Infatti una vita di
conti esatti, senza traumi, è esattamente (il conto torna) una vita
senza l’altro/Altro cioè un girare senza senso intorno all’inesistente
o nullificante se stessi. Per questo la boccacciana monna Giovanna
sposa Federigo degli Alberighi, povero, accettandone la “ferita”
economica, che i fratelli di lei non vorrebbero accettare, col dire
che preferisce uomo che abbia bisogno di ricchezza a ricchezza che
abbia bisogno di uomo (sarà anche per questo che oggi i maschi so-
no molti ma gli uomini pochi?).
Senza ferite non si vive, ecco il vitale paradosso; nell’egoisti-
co benessere – che necessariamente deve essere piccolo e misero,
anche se miliardario, per sussistere – si fa solo una parodia della
vita, si atteggia la propria morte vivente, perché manca l’altro/Al-
tro, o, se si è non credenti, semplicemente l’altro (che però resta
inseparabile, se è veramente altro e non una provincia di se stessi,
dal mistero, che è sempre, anche se non creduto Dio, Altro).
Ma tutto ciò, che è la novità e l’ardimento originale di Bruni,
come sta strictly in economia? Gli economisti assetati di realismo
pragmatico non vedono ferite, vedono «the profit and the loss»
come non lo vede più il cadavere eliotiano di Phlebas il Fenicio,
che per morire in pace facendosi cullare dai sussurri del mare è
costretto a dimenticarli, profitti e perdite, nella Waste Land del
morire-rigenerarsi. Ma questi pragmatici senza ali si riducono in-
fine, lo confessino o no, a sperare che il cadavere di Phlebas non
sia il loro, restando l’economia, secondo loro, perennemente im-
mutabile in vita e in morte (altrui).
Non è così: «Prima o poi ogni persona fa una esperienza che
segna l’inizio della sua piena maturità: capisce nella propria carne
e intelligenza che, se vuole sperimentare la benedizione legata al
rapporto con l’altro/a, deve accettarne la ferita. Comprende, cioè,
che non c’è vita buona senza passare attraverso il territorio buio e
pericoloso dell’altro, e che qualunque via di fuga da questo “com-
battimento” e da questa agonia conduce inevitabilmente verso
una condizione umana senza gioia. In un certo senso è tutta qui
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l’idea che ha originato il percorso di questo libro (...). All’interno


della vasta gamma della relazionalità umana (…) l’economia si è
concentrata essenzialmente su una sola forma, quella assimilabile
all’eros, trascurando la philía (amicizia) ed emarginando total-
mente l’agape, la relazionalità improntata a gratuità: e ciò per la
potenziale carica di sofferenza che l’agape ha in sé, dovuta all’im-
possibilità del pieno controllo su di essa».
Ciò significa che, come «summum jus summa iniuria», dice-
vano i latini (la perfetta giustizia può essere, anzi è, il massimo
dell’ingiustizia, perché esclude, chiamiamolo così avaramente, il
fattore umano), così la perfetta economia può rivelarsi il massimo
disastro economico, nel senso anche più popolare, se vogliamo,
che chi troppo pretende nulla stringe o stringe assai male e per
poco. Infatti gli esseri umani non sono strumenti economici che
per poco, poi l’economia stessa li perde in un modo o in un altro,
chiedetelo ai dittatori (lager, gulag, ecc.).
L’uomo è veramente economico nell’economia dei rapporti,
che non può essere quella della schiavitù o quella dello sfrutta-
mento più odioso (se l’economia lo diventa, poi la paga in molti
modi).
Dio è per i credenti il supremo economista. Infatti i Padri
della Chiesa chiamavano il suo rapporto creatore col mondo oiko-
nomia. In latino dispensatio, e c’è di che imparare dal solo uso
contestuale di queste parole.
Bruni lo impara e lo dice con il suo stile simpaticamente an-
glo-saxon in cui cova però un fuoco di human relations nativa-
mente latino e cristiano; impara e dice che l’«economia di comu-
nione» (altro e più che una semplice economia solidaristica) è di-
spensatio umana che proviene e si alimenta dalla fonte prima e
originante. E lo dice genialmente, proprio incominciando dalla
critica dell’umanesimo latino più in fuga dal mondo (dalla città
con le sue relazioni); dunque, nessuna partigianeria culturale, al
contrario, l’ammissione, con De Lubac, di un’«alba incompiuta»
del rinascimento da riportare a un sole «robustoso e forte» come
un fuoco (anche san Francesco era a suo modo un grande dell’oi-
konomia). Ma già Aristotele aveva esplorato nell’Etica Nicoma-
chea la vita felice dei rapporti umani e della reciprocità, minaccia-
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ta però sempre dalle ferite della communitas (omicidi nella fonda-


zione delle città, ecc.).
L’oikonomia diventa koinonia (comunione) solo sulla croce del
Cristo, sommamente positivo incontro dell’Assoluto-santo con il
relativo-peccaminoso, non più alla maniera greca (l’Assoluto media
tra gli uomini ma ne evita il contatto diretto), invece in quella cri-
stiana: l’Assoluto si incarna, i rapporti positivi sono davvero possi-
bili-reali. Ma questo cristianesimo è relativamente recente, prima a
dominare era ancora il rapporto insufficiente e incompiuto Assolu-
to-uomo, e la sua dissoluzione illumina positivamente persino il ni-
chilismo attuale: «Nel mondo dell’Uno – come era di fatto anche
quello medievale cristiano – non c’è posto per due Assoluti: nel
mondo pre-moderno l’uomo riconosceva l’Assoluto trascendente, e
si poneva su un piano di inferiorità e di sottomissione verso Lui e i
suoi mediatori. Nel mondo moderno l’Assoluto non c’è più, e l’uo-
mo si trova di fronte un altro come sé, ma diverso da sé, dove ogni
“io” rappresenta per l’altro “io” un “non”, un non-essere (se l’al-
tro-che-non-è-me è, come posso essere io?)».
Da qui il passo ad una “positivizzazione” dell’altro e del rap-
porto con lui non è breve, è immenso, ma familiare e non impos-
sibile (perché è garantito dalla lotta di Giacobbe ovvero dalla
Croce del Cristo). Mentre Hobbes e Smith cercano ancora l’Asso-
luto, in fuga dai minacciosi rapporti umani, nel Leviathan e nel
Mercato, è proprio alla “ferita” che occorre rivolgersi: «Giacob-
be, dopo quella ferita, cambia nome, diventa Israele. Quando la
relazione con l’altro incide la carne, allora l’incontro cambia, tra-
sforma (il nome, nel mondo semitico, ha a che fare con la natura
profonda della persona, dice l’identità); inoltre la ferita genera
nuova vita, è feconda: Giacobbe non è più semplicemente un uo-
mo, diventa l’immagine di un intero popolo (Israele), persona
collettiva».
Non si sfugge a questa necessità, vitale quanto è vitale il tu
per l’io; né la visione neocontrattualistica “spassionata” dei rap-
porti può costituirne un surrogato. La «scienza economica senza
gratuità» conduce dritto e sia pure per estremi all’infame risposta
di Talleyrand (pre-conversione) che, al mendicante che gli chiede-
va l’elemosina perché “doveva pur vivere” rispose che non ne ve-
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deva la necessità; non vedendone la necessità, i rapporti umani


diventano relazioni di morte, ovvero di insensatezza, che è ancor
peggio.
Infatti gli “interessi” e i “vantaggi” di Adam Smith, che eli-
minano la “benevolenza”, eliminano il motivo stesso per cui si sta
al mondo senza dover maledire la vita, anzi benedicendola; ma la
si può benedire solo essendo benedetti, cioè passando attraverso
il percorso di rigenerazione-affinamento che passa nel rapporto
con l’altro/Altro.
A questo punto diventa molto interessante il terzo capitolo,
sulla responsabilità sociale dell’impresa (Corporate Social Respon-
sibility) nel confronto tra immunitas e communitas, nel converge-
re cioè dell’impresa capitalistica verso interessi sociali mentre
questi reciprocamente tendono a diventare impresa: «Ciò che è
certo è che oggi la società civile più matura non chiede alle im-
prese solo di produrre ricchezza, fare prodotti di qualità a basso
costo, pagare le tasse e rispettare la legge; chiede loro anche di
farsi carico di compiti che fino a pochi anni fa erano considerati
di competenza dello Stato, delle Chiese, della società civile o della
famiglia; e, d’altro canto, chiede alla società civile di farsi carico
di aspetti di efficienza prima non considerati dall’opinione pub-
blica tra i suoi compiti. È come se a quei rapporti umani “celati
nel guscio di un rapporto tra cose” (Marx) fosse oggi chiesto di
venire alla luce, di disgelarsi».
A ciò fa eco la reciproca convergenza, sul piano del mercato,
tra la libertà degli individui e la loro uguaglianza. La società disu-
guale punta all’uguaglianza senza violare l’immunitas del rappor-
to impresa-mercato, ma orientandola alle forme più sociali e coo-
perative: commercio equo, banca etica, economia di comunione
sono le punte avanzate di un vero progresso economico. Dice
Bruni: «il mercato è fondato sulle virtù civili, come tutta la vita
della polis, e quindi aperto alla gratuità, all’agape e non solo al-
l’eros e alla philía (...). Al tempo stesso, la vita buona che la rela-
zionalità personalizzata promette va associata alla possibilità sem-
pre presente della sofferenza. Da questa prospettiva, l’economia
civile vede l’impresa come comunità, sebbene tendenzialmente
aperta e universale (quindi non comunitarista)».
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Nell’ottimo e centralissimo capitolo IV, Bruni tira, con un


coraggio da premiare, non conclusioni ma prospettive di arricchi-
mento infinito cioè senza limiti, non solo economico: «la vita in
comune sarebbe impensabile senza comportamenti ispirati a gra-
tuità (...), non c’è economia civile senza gratuità (...). Neanche
l’agape, è solo gratuità, ma non c’è comportamento a essa ispirato
senza gratuità. (...) Opporre eros a philía o ad agape significhereb-
be indirizzare l’esistenza umana verso un sentiero senza felicità».
Questa citazione composita coglie, credo precisamente, la
mind, lo aim e il goal per dirla all’anglosassone, del libro; perché
il quadro tracciato non è affatto utopistico, restando vero che «il
contratto o lo scambio di mercato, come l’eros, è forza fondamen-
tale ed essenziale per la vita individuale e sociale», e che lo scam-
bio di mercato può «essere rappresentato come azione sociale,
come un’azione congiunta di un “noi” (non solo, cioè, come mu-
tuo vantaggio e indifferenza reciproca di due “io”, ma, in linea
con la visione del mercato di Antonio Genovesi, come “mutua as-
sistenza”, come una forma di philía)». Ma è chiaro che «solo
quando l’imprenditore diventa costruttore di philía nella sua
azienda, ed è aperto anche alla gratuità, la sua impresa cresce e
matura nel tempo in modo armonico e pienamente umano». E la
stessa agape non è un mito o una bacchetta magica: «Non identi-
fico» dice Bruni «l’agape con la pura incondizionalità, perché in
taluni contesti sociali un contratto (puramente condizionale) può
essere uno strumento più agapico di un dono incondizionale co-
me accade in molte esperienze di microcredito, per esempio».
Si tratta di realizzare il «bene comune» della tradizione clas-
sica e cristiana non scivolando egoisticamente (e anche antiecono-
micamente) in una restrizione mentale dei concetti di «bene pub-
blico» o di «common» (bene collettivo), perché si realizzi anche
non-intenzionalmente l’effetto economico di quella «suprema
mano» (F. Galiani) o «mano invisibile» (A. Smith), che è poi
l’“astuzia della ragione” economica, la quale conduce a fini posi-
tivamente e beneficamente economici anche i più austeri e serrati
ingranaggi di mercato, è necessaria un’agape non qualsiasi ma in-
telligente: «Sono convinto» dice condivisibilmente l’autore «che
una sfida di civiltà sia, oggi, quella di riportare la forma dell’agape
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al centro della vita della polis, anziché lasciarla confinata nella so-
la sfera privata, dove può svolgere un ruolo residuale e sussidia-
rio. Del resto una società postmoderna che perdesse il contatto
con l’agape nella sfera pubblica lo perderebbe presto anche nella
sfera privata, poiché nelle società globalizzate si sta squarciando il
velo separatore che delimitava il confine tra pubblico e privato.
(...) Si tratta quindi di dare dignità teorica all’agape in economia,
mostrando che c’è una razionalità diversa ma altrettanto “ragio-
nevole” di quella del contratto e della philía nell’impostare la vita
civile ed economica sull’agape».
«Una prima via è mostrare, con esperienze concrete credibili
e significative, che è esistita ed esiste un’economia agapica che è
civilmente rilevante almeno quanto l’economia del contratto e
dell’amicizia. (…) In secondo luogo, è sempre più urgente denun-
ciare i due “monofisismi” che oggi si stanno delineando con sem-
pre maggior forza e chiarezza nella cultura contemporanea. Da
una parte, avere il coraggio di denunciare il monofisismo del con-
tratto, mostrando, con i fatti e con le idee, le deviazioni umane ed
economiche cui conducono una vita civile declinata sul solo prin-
cipio del contratto. (...) Una terza sfida importante chiama in cau-
sa direttamente la necessità di un approfondimento e di una nuo-
va declinazione del “principio di sussidiarietà”. (...) Credo sia ne-
cessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale
della vita civile, che potrebbe essere così formulata: non faccia il
contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò
che può fare l’agape». E reciprocamente: «Ben vengano contratti
e philía, ma se aiutano a far crescere la fraternità universale! [...]
L’agape non è un bene economico che si deteriora usandolo, è una
virtù che aumenta il proprio valore con l’uso. Se è così, allora oc-
corre riconoscere che tutte le volte che ricorriamo a un contratto
quando è disponibile l’amicizia e all’amicizia quando c’è l’agape,
“impoveriamo” il valore delle persone, delle relazioni e della so-
cietà, svendiamo il valore della vita in comune in una sorta di
dumping relazionale».
E vale a questo punto una citazione lunga e virtualmente
conclusiva: «L’agape, la virtù per eccellenza, non si incentiva, ma
la si può (e deve) premiare. Il contratto e la philía sono alla base
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dei patti e dei contratti sociali, e quindi possono essere incorag-


giati con i tipici strumenti economici (sanzioni e incentivi). L’aga-
pe può invece essere scelta solo per motivazione intrinseca, per
vocazione interiore, come risposta d’amore, e non può essere in-
centivata con gli strumenti del mercato. La società, però, se vuol
essere davvero civile deve “premiare” (non “pagare”) l’agape, in-
nanzitutto con il riconoscimento: far sentire, chi agisce nella so-
cietà mosso da autentica gratuità, non un’eccezione o un elemen-
to residuale facilmente sostituibile dal mercato o dallo Stato, ma
come la pietra angolare della civitas (la battaglia di civiltà che oggi
si sta conducendo in Italia per riunificare il libro I e V del codice
civile, o per l’introduzione nell’ordinamento dell’impresa civile, e
non solo sociale, va in questa direzione). (…) Che triste sarebbe
la vita civile – e il mestiere dell’economista! – se dovessimo accet-
tare l’idea di un ambito (quello economico) irrimediabilmente de-
stinato a perdere contatto con l’agape, con la gratuità! (...) Chi
dunque per “vocazione” vuol dare vita a imprese civili nelle quali
sperimentare una relazionalità a 360 gradi deve allora mettere in
conto dolori relazionali più acuti: è il prezzo (ma anche il valore)
della gratuità».
Il meno che si possa dire continuando a leggere questo libro
accattivante, affabile e al contempo fermissimo nei principi, e che
infine sembra recensirsi da sé, è che in forma non apodittica ma
gradevolmente dimostrativa, e con sicura e creativa dottrina, Bru-
ni riesce a dare al lettore autentiche speranze economiche, ciò che
nel mondo attuale è richiesto da una precisa sete ma non è facil-
mente visibile al suo orizzonte. E che l’autore appare infine – letti
i complementari capitoli «Economia senza gioia», «Le relazioni
come beni» e «L’abbraccio dell’altro» – il reciproco di G. La Pi-
ra, il quale vedeva «i problemi economici sotto il profilo della ca-
rità»; Bruni vede la carità (agape) sotto il profilo dell’economia:
non è un’originalità da poco.

GIOVANNI CASOLI
La ferita dell’altro di Luigino Bruni 279

SUMMARY

Casoli focuses his analysis of the book La ferita dell’altro on


Bruni’s choice to speak about the economics of human relations – in
the light of the relationship with the other/Other – as a wound, a
redemptive trauma, which is therefore necessary. Bruni discusses
the different views economists have had of human relationships
over recent centuries. These were often ways of avoiding a true
encounter with the reality of otherness. In his reading, Bruni does
not sidestep the harsh reality of the other, and in the idea of wound,
sees the possibility of growth and “blessing”. With this as his
starting point, he develops an interpretation of contemporary
economics in which “eros”, “philia” and “agape” – representing the
main characteristics of relationships – can work together in an
economy that serves the common good.

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