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studi storici
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Salvatore Loddo

La Shoah
Guida agli studi e alle interpretazioni

C
Carocci editore
1a edizione, dicembre 2014
© copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Progedit Srl, Bari

Finito di stampare nel dicembre 2014


da ???

isbn 978-88-430-7623-9

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice

Introduzione 00

1. Storia della “soluzione finale” e della questione ebrai-


ca: 1933-45 00
1.1. Legislazione antisemita e programmi di emigrazione
forzata 00
1.2. Il sistema concentrazionario nazista 00
1.3. Dall’“operazione T4” all’“azione Reinhardt” 00
1.4. Auschwitz: compimento della soluzione finale 00

2. Dopo Auschwitz: crisi della coscienza europea 00


2.1. Impunibilità della colpa, questione della corresponsa-
bilità tedesca e zona grigia 00
2.2. Auschwitz e lo scandalo della modernità 00
2.3. Genocidio e singolarità della violenza nazista 00

3. Narrazioni storiche della Shoah 00


3.1. Intenzionalismo vs funzionalismo 00
3.2. Modernità, modernizzazione, modernismo: Zygmunt
Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf 00
3.3. Antisemitismo eliminazionista tedesco: Daniele J.
Goldhagen 00
3.4. Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spet-
tatori: Raul Hilberg 00
3.5. Storia memoriale e integrata: Saul Friedländer 00

7
la shoah

4. Vittime: testimonianza, memoria e storia 00

4.1. Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager, mu-


sulmani, sopravvissuti 00
4.2. Universalità della testimonianza: Primo Levi, Eli Wie-
sel, Jean Améry 00
4.3. Dovere della memoria, crisi della testimonianza e “te-
stimoni integrali” 00

5. Carnefici: uomini ordinari, male straordinario 00

5.1. Propedeutica allo studio dei carnefici 00


5.2. Uomini comuni: modelli esplicativi 00
5.3. Einsatzgruppen e intellettuali ss 00
5.4. Medici 00
5.5. Diventare génocidaire: Adolf Eichmann, Rudolf Höss,
Franz Stangl 00

6. Spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso 00

6.1. Una realtà di sfondo decisiva e dinamica 00


6.2. Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccor-
ritori 00
6.3. Ritratti di nazioni, comunità e individui 00

7. Presente e futuro della Shoah: ricordare, rappresenta-


re, educare 00

7.1. Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare 00


7.2. Forme e limiti della rappresentazione 00
7.3. Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere 00

8. Conclusioni 00

Bibliografia 00

8
Introduzione

Durante la Seconda guerra mondiale l’Europa è stata il teatro dello


sterminio di milioni di ebrei da parte del Terzo Reich nazista. Qua-
si settant’anni sono passati dal più grande disastro di cui la comunità
ebraica continentale ha memoria. Da allora il tempo trascorso ha spen-
to le vite e i ricordi di quasi tutti coloro che presero parte, volenti o no-
lenti, a questo tragico momento storico. Eppure oggi questa storia non
cessa di essere presente nei nostri pensieri e nei nostri cuori. Ciò che
è stato chiamato Shoah (dall’ebraico HaShoah “catastrofe”), Olocau-
sto (dal greco antico ὁλόκαυστος “bruciato interamente”, composto di
ὅλος “tutto, intero” e καίω “bruciare”), Churban Europa (dall’yiddish
khurbn “distruzione” eyrope “Europa”), soluzione finale della questione
ebraica (dal tedesco Endlösung “soluzione” der Judenfrage “questione
ebraica”) è qualcosa di più di un capitolo della storia del xx secolo.
Questa vicenda storica è stata irrimediabile perdita per chi ne è stato
vittima, impresa epocale, una «pagina di gloria»1 per chi l’ha ideata,
organizzata e realizzata, esperienza di indifferenza e coraggio colletti-
vo per chi non è stato coinvolto direttamente ma vi ha assistito. Non
solo. Questa vicenda storica è stata ed è ancora materia su cui riflettere,
da cui trarre una conoscenza profonda sull’umanità in tempo di crisi.
Oggetto di un ricordo sentito e ritualizzato, è fonte di un continuo
dibattere fra quanti ne hanno fatto un argomento di ricerca, ma è an-
che fonte di polemica fra i politici e di contesa tra chi ne difende o
strumentalizza o oltraggia la memoria. Questa storia, che preferiamo

1. Tale è per Heinrich Himmler, comandante delle ss, “squadre di protezione”


del Führer Adolf Hitler, della polizia e delle forze di sicurezza del Terzo Reich nel
discorso tenuto a Poznań, in Polonia, il 4 ottobre 1943 davanti a centinaia di ufficiali
delle ss.

9
la shoah

chiamare Shoah, è sottoposta a una continua narrazione, a un racconto


dai significati, toni e contorni diversi. La dimensione storica in cui è
narrata cambia, così come i soggetti, il modo e le poste in gioco. Cio-
nonostante essa continua a essere al centro dell’interesse collettivo, a
volte in modo solo accennato, altre direttamente.
In questo saggio la Shoah è affrontata come oggetto di interesse,
narrazione e attribuzioni di significato individuale e collettivo.
Nel cap. 1 proponiamo una storia della persecuzione nazista degli
ebrei lungo il Terzo Reich evidenziando il sovrapporsi di alcuni ele-
menti che l’hanno resa possibile come la legislazione antiebraica, il si-
stema concentrazionario e l’evoluzione dell’esperienza e dei metodi di
sterminio. Dopo aver attraversato rapidamente i dodici anni della di-
struzione, ci troviamo nel cap. 2 nel dopo Auschwitz. In questa nuova
era per l’Europa post-nazista inizia una profonda crisi di coscienza,
ancora oggi aperta. Il presentarsi di Auschwitz nella storia del Vecchio
continente ha interrotto la corsa moderna dell’Occidente verso il pro-
gresso e ha infranto l’immagine positiva della civilizzazione europea,
fatta di acquisizioni scientifiche, tecnologiche e di diritti. Si capisce
che quelli nazisti sono crimini talmente inauditi che non v’è giustizia
che possa perseguirli efficacemente. Talmente originale è la violenza
nazista da essere definita attraverso un termine di nuovo conio: geno-
cidio. La sua specificità storica è oggetto di dibattito, talvolta aspro,
condotto attraverso un’analisi interdisciplinare e comparata. Come
per qualsiasi altro avvenimento storico, anche della Shoah vi sono più
interpretazioni. L’opposizione fra intenzionalismo e funzionalismo e
i tentativi di sintesi, le interpretazioni “moderniste” di Zygmunt Bau-
man, Götz Aly e Jeffrey Herf, quella canonica di Raul Hilberg, quella
provocatoria di Daniel J. Goldhagen e il progetto di storia integrata di
Saul Friedländer sono gli esempi paradigmatici di narrazioni storiche
della Shoah delineati nel cap. 3. Nei capp. 4-6 ci soffermiamo sugli
attori del genocidio, sull’esperienza e i comportamenti delle vittime,
dei carnefici e degli spettatori. Trattarli come facciamo, come soggetti
separati incapsulati in dimensioni distinte, è un artificio metodolo-
gico che risponde all’esigenza di studiarli efficacemente. Nondimeno
bisogna tenere sempre a mente che la realtà dello sterminio, quando
accadde, era un tutto unitario, dove gli odori e gli occhi di chi era
deportato e ucciso incontravano quelli dei loro persecutori e di chi,
vicino di casa, collega di lavoro, collaborava coi carnefici, si voltava

10
introduzione

dall’altra parte per non vedere o prendeva il coraggio a due mani per
offrire loro cura e sollievo.
Giungiamo alla fine di questo saggio provando a guardare il pre-
sente e il futuro della Shoah alla luce dell’interdipendenza fra le atti-
vità del ricordare, del rappresentare e dell’educare. Per andare avanti
e avere uno scopo l’una ha bisogno dell’altra. Si ricorda la Shoah e si
educa a partire da essa servendosi dei contenuti e delle forme della sua
rappresentazione (film, memorie, diari, fotografie). Ogni anno si com-
memora lo sterminio degli ebrei per educare la cittadinanza ai valori
del rispetto, della cura reciproca e della tolleranza. Ci si riappropria
di quel difficile passato assegnandogli un significato nuovo e diverso,
una differente contestualizzazione per trasmetterlo alle generazioni a
venire e fare tesoro dell’esperienza e del sapere in esso racchiusi.

11
1
Storia della “soluzione finale”
e della questione ebraica:
1933-45
La strada per Auschwitz fu costruita dall’odio, ma la-
stricata dall’indifferenza.
Ian Kershaw

1.1
Legislazione antisemita
e programmi di emigrazione forzata

Come si è giunti allo sterminio degli ebrei d’Europa? Il genocidio degli


ebrei nell’Europa asservita al dominio nazista è stato il compimento di
un progetto di segregazione e di pulizia razziale messo in atto a partire
dalla presa del potere di Hitler avvenuta nel gennaio del 1933. Svilup-
pandosi in due fasi – la prima che va dalla presa del potere nazista nel
1933 al 1939 e la seconda che inizia dallo scoppio della Seconda guerra
mondiale e arriva alla tarda primavera del 1945 –, la politica antiebraica
nazista si trasformò da discriminatoria e segregazionista in sterminatri-
ce. Lo sterminio sistematico non è stato l’esito ineluttabile, né lo scon-
tato risultato di un progetto perfettamente congegnato sin dalla presa
del potere nazista. Allo strenuo sforzo di un’élite ideologicamente vo-
tata a compiere lo sterminio e al coinvolgimento diretto o indiretto
dell’intera società tedesca si opposero le resistenze psicologiche degli
esecutori, le carenze logistiche dettate dalle necessità belliche oltre
agli intoppi burocratici. La “soluzione finale della questione ebraica”
– eufemismo con il quale i nazisti definirono lo sterminio degli ebrei
d’Europa – si realizzò grazie all’incontro della legislazione antisemita
di Stato e del sistema concentrazionario che trovò ad Auschwitz il suo
compimento. Nei dodici anni del Terzo Reich la politica antiebraica
interessò vari campi di intervento del governo nazista, dall’economia
alla cultura, dalla sanità all’istruzione.

12
1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”

L’emarginazione, la spoliazione e la definitiva esclusione degli ebrei


dalla società tedesca avvennero attraverso la legge. Lo strumento legi-
slativo risultò determinante per dare concretezza politica all’odio vi-
scerale che i nazisti nutrivano per gli ebrei. Nei primi anni del regime
la politica antiebraica perseguì l’allontanamento degli ebrei dalla vita
pubblica. Le prime decisioni antiebraiche prese sei settimane dopo la
nomina di Hitler a cancelliere (5 marzo 1933) incanalarono le ondate
di violenza antisemita scatenate dagli attivisti del partito in diverse re-
gioni del Reich.
Il 1° aprile venne proclamato il boicottaggio ufficiale dei negozi
ebraici. La Legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche
pubbliche del 7 aprile 1933, al paragrafo 3, recitava: «gli impiegati
pubblici di origine non ariana devono andare in pensione». Il primo
decreto applicativo della legge, promulgato l’11 aprile, precisava che
«non ariano» era «chiunque discendesse da genitori o nonni non
ariani ed ebrei in particolare» (Friedländer, 2004, p. 36). Con la Legge
contro il sovraffollamento delle scuole e università tedesche del 25 aprile si
limitava nelle scuole l’immatricolazione di nuovi studenti ebrei. Il 10
maggio dello stesso anno le città universitarie furono teatro dei triste-
mente noti “roghi dei libri”. L’esclusione degli ebrei dalla vita culturale
e professionale fu ispirata da un antisemitismo conservatore che repu-
tava eccessiva la presenza ebraica in certi settori chiave della vita sociale
e professionale e vedeva gli ebrei come un elemento non assimilabile ed
estraneo alla società tedesca (Hilberg, 1999, p. 85).
A Norimberga il 14 settembre 1935, al congresso annuale del partito
nazista, venne varata la Legge per la protezione del sangue e dell’onore
tedeschi che vietava matrimoni e relazioni sessuali tra ebrei e cittadini
di sangue “tedesco o apparentati”, l’assunzione da parte delle famiglie
ebraiche di cittadini di “sangue tedesco o apparentati” con meno di
quarantacinque anni e proibiva agli ebrei di avvicinarsi alla bandiera
del Reich. Il 15 settembre venne annunciata la Legge sulla cittadinan-
za del Reich la quale stabilì che solo le persone di “sangue tedesco o
apparentate” sono cittadine del Reich. Il principio di eguaglianza dei
cittadini ebrei in vigore in tutta la Germania dal 1871 venne soppresso
e gli ebrei furono segregati biologicamente dal resto della popolazione.
Dopo la definizione legale dell’appartenenza ebraica, dall’estate
del 1936 ebbe inizio un processo di espropriazione economica degli
ebrei realizzato per gradi per mezzo di licenziamenti, arianizzazioni

13
la shoah

(cessione volontaria o forzata dell’impresa ebraica a un tedesco privo


di ascendenza ebraica), imposte sul patrimonio (“tassa di espatrio dal
Reich” e “pagamento espiatorio”), blocco dei conti correnti, lavoro ob-
bligatorio, regolamentazione dei salari, imposizione di tasse sulle en-
trate e un regime di fame organizzata.
L’applicazione delle leggi sulla cittadinanza in Austria e nel Protet-
torato di Boemia e Moravia annessi al Reich, rese centinaia di migliaia
di ebrei apolidi, profughi di cui nessuno in Europa voleva farsi carico.
Il pogrom della Notte dei cristalli tra il 9 e 10 novembre 1938 segnò il
«passaggio del Rubicone» per il destino degli ebrei (Mommsen, 2003,
p. 91). Ormai proscritti, la loro presenza si trasformò in un problema
sanitario che il Servizio di Sicurezza (sd) e la polizia segreta (Gestapo)
proposero di affrontare ricorrendo all’emigrazione forzata dal Reich.
I provvedimenti legislativi emanati prima del 1939 mirarono alla sepa-
razione della minoranza ebraica dal resto della popolazione. In Ger-
mania, per esempio, dei 520.000 ebrei residenti nel 1933 ne restavano
350.000 nel 1938.
Nel settembre del 1939 con l’occupazione tedesca della Polonia si
apre la seconda fase della politica antiebraica nazista, apertamente di-
struttiva. La conseguente spartizione della Polonia, dove risiedevano
3.300.000 ebrei, tra nazisti e sovietici pose sotto il controllo tedesco
due milioni dei 3.300.000 ebrei residenti, di cui 600.000 stavano nei
territori annessi al Reich (Danzica-Prussia occidentale, Wartheland,
Prussia orientale, Alta Slesia) e 1.400.000 nel Governatorato generale.
Fino all’estate del 1941 la Polonia fu il principale spazio d’applicazione
dei programmi di “soluzione territoriale della questione ebraica” rea-
lizzati dall’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (rsha) guidato
da Reinhard Heydrich, sottoposto di Heinrich Himmler, capo delle
“squadre di protezione” (ss) e della polizia tedesca. La delega di ogni
competenza in materia di politica migratoria a Heydrich venne sancita
dal decreto del 24 gennaio 1939 che istituì il Centro per l’emigrazione
ebraica a cui spettava di «favorire l’emigrazione con tutti i mezzi effet-
tivamente possibili».
Un’ordinanza del 21 settembre 1939 emanata da Heydrich, desti-
nata ai capi del rsha e ai comandanti delle unità della polizia di si-
curezza, ingiungeva l’espulsione degli ebrei dai territori incorporati e
il concentramento nelle principali città del Governatorato generale.
Con il Decreto per il rafforzamento della nazione tedesca del 7 ottobre

14
1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”

1939 Hitler assegnò a Himmler, nuovo commissario del Reich per il


consolidamento della germanicità, il compito di riportare nel Reich i
“tedeschi etnici” residenti all’estero ritenuti idonei per un ritorno per-
manente, di eliminare l’influenza degli «elementi della popolazione
etnicamente alieni che rappresentavano un pericolo per il Reich e per
la comunità tedesca», e di formare nuove aree di insediamento tede-
sco mediante trasferimenti di popolazione.
Nel biennio 1939-41 la politica antiebraica in Polonia mirò al rias-
setto delle popolazioni dell’Europa orientale sulla base dei principi
razziali nazionalsocialisti attraverso la loro ghettizzazione. I princi-
pali ghetti si trovavano a Łódź, dove vivevano 144.000 persone, e a
Varsavia, dove ne risiedevano 445.000. Fra il 1939 e il 1941 il conso-
lidamento dello “spazio vitale” nei territori incorporati e la soluzio-
ne finale della questione ebraica si scontrarono tanto che il primo dei
due progetti, fino a tutto il 1940, cedette il passo al secondo. Dopo il
fallimento del cosiddetto “piano Nisko” (un programma di deporta-
zione che prevedeva il trasferimento forzato degli ebrei dell’Austria
e del Protettorato in un campo di transito, a Nisko, nella regione di
Lublino, prima della loro espulsione verso est), nell’ottobre 1939 fu la
volta del “primo piano a breve termine” (che comportò la deportazio-
ne il 17 dicembre, con 80 carichi ferroviari, di 87.000 persone, ebrei e
polacchi, dal Warthegau, al fine di liberare spazio per l’insediamento
dei “tedeschi etnici” del Baltico).
Per dare esecuzione all’ordine di Himmler di deportare tutti gli
ebrei dai territori incorporati, tra il gennaio e il maggio del 1940, si
pensò alla creazione di una “riserva ebraica” nella regione di Lublino. A
causa del contrasto fra gerarchi nazisti, Himmler da una parte e Göring
e Frank dall’altra, i grandiosi progetti di Himmler di deportare un mi-
lione di persone dai territori incorporati nel Governatorato generale
entro il febbraio 1940 e di trasferire 7.500.000 polacchi nel Governa-
torato generale subirono una netta battuta d’arresto. La prospettiva di
dare vita a una riserva ebraica a Lublino tramontò a favore del “piano
Madagascar” (un’ipotesi predisposta dall’esperto del ministero degli
Esteri per gli affari ebraici, Rademacher, che prevedeva di confinare gli
ebrei nell’isola africana e che fallì perché la Gran Bretagna controllava
ancora le rotte marittime) con cui per la prima volta comparve la for-
mula soluzione finale nell’ambito di una soluzione finale territoriale e
una chiara motivazione omicida. Questo progetto non fu il prodotto

15
la shoah

di una strategia diversiva, ma «un importante passo psicologico verso


la soluzione finale» (Browning, 1998, p. 29).
Quanto più cresceva l’insoddisfazione dei nazisti per i piani abortiti
tanto più prossima era la soglia oltre la quale non restava che l’omicidio
di massa. Il 15 marzo del 1941 venne interrotto il “terzo piano a breve
termine” (che prevedeva la deportazione di circa 830.000 persone nel
Governatorato generale per fare spazio ai tedeschi etnici di Bessarabia,
Bukovina, Dobrudia e Lituania) perché ostacolava i preparativi dell’O-
perazione Barbarossa. A questo punto inizia a tirare un’aria diversa,
Hitler pensa di risolvere molte cose in modo diverso. Con l’invasione
dell’Unione Sovietica si profilava una ridefinizione del significato di
“spazio vitale”, da dottrina di graduale consolidamento razziale in prati-
ca dell’espansione illimitata e di soluzione finale. In un telegramma del
31 luglio 1941 Göring ordinava a Heydrich di «compiere tutti i prepa-
rativi richiesti, di carattere organizzativo e materiale, per una soluzione
globale della questione ebraica nel territorio europeo che si trova sot-
to l’influenza tedesca» (Mommsen, 2003, p. 161). La radicalizzazione
della concezione nazista di una soluzione finale della questione ebraica
dipese dal modo in cui l’invasione dell’Unione Sovietica era stata con-
cepita, come una guerra di sterminio contro il giudeo-bolscevismo.

1.2
Il sistema concentrazionario nazista
I primi campi di concentramento che nascono sotto il segno dell’im-
provvisazione e della concorrenza tra le diverse gerarchie amministrati-
ve sono un temporaneo strumento di repressione per il consolidamen-
to del nuovo regime e l’instaurazione della “rivoluzione nazionale”.
Con la riorganizzazione e l’ampliamento del sistema concentrazio-
nario ad opera del comandante di Dachau Theodor Eicke (in seguito
capo dell’istanza centrale di controllo e gestione del sistema concen-
trazionario), i Lager diventano un’istituzione permanente destinata
all’internamento preventivo di intere categorie di cittadini, avversari
non integrabili nella “comunità nazionale”. Dachau fu il primo Lager a
essere aperto il 22 marzo 1933 e a essere posto sotto l’esclusiva vigilanza
delle “teste di morto” ss. Esso fu il modello di riferimento per l’intera
costellazione concentrazionaria. Eicke impose le linee guida di Dachau

16
1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”

negli altri Lager, consolidò il sistema concentrazionario riunendo tutti


i detenuti sotto il comando unico dei quadri ss, codificando il campo
come un sistema sociale dove un catalogo di norme standardizzate le-
gittimarono una prassi di terrore quotidiano (Mantelli, 2010).
Da strumento di persecuzione esclusivamente politica i Lager di-
ventarono progressivamente luoghi di detenzione per persone arresta-
te per motivi di igiene sociale e razziale, per criminali, “asociali”, ebrei
ecc. Nel giugno del 1938 una delle prime “azioni contro gli asociali”
causò l’arresto e la deportazione nel Lager di Buchenwald di tutti gli
ebrei già gravati da carichi penali. Il pogrom della Notte dei cristalli
diede luogo alla «prima operazione di annientamento intrapresa nel
quadro del sistema concentrazionario» (Sofsky, 2004, p. 38) apren-
do le porte dei Lager per 26.000 ebrei; non più dunque solo isolati
avversari del regime ma tutti coloro che fossero estranei alla razza. Le
violenze del 9 novembre e l’internamento nei Lager non miravano
primariamente all’annientamento fisico quanto a fungere da arma di
ricatto. Chi fra gli ebrei si impegnava a emigrare e firmava un contratto
che ne autorizzava l’arianizzazione dei beni veniva liberato dopo qual-
che settimana. Per la prima volta antisemitismo di Stato e sistema dei
Lager si incontrarono.
Tra il 1936 e il 1939 si passò da una concezione dell’internamento
strettamente punitiva degli avversari politici a una concezione razzista
e di “igiene sociale” consentendo di includere nelle categorie su cui im-
porre la “custodia cautelare” tutti coloro sospettati di deviare dall’ordi-
ne e dalla normalità dell’ideologia nazionalsocialista. In accordo con
un criterio geografico-territoriale sorgono nuovi Lager: nel 1936 nella
Germania settentrionale, non lontano da Berlino, a Sachsenhausen;
nel 1937 nella Germania centrale, vicino Weimar, a Buchenwald, e nel
1939 un Lager femminile a Ravensbrück; nel 1938, nella Germania me-
ridionale, a metà strada tra Norimberga e Praga, a Flossenbürg e, dopo
l’unificazione austriaca, a Mauthausen, vicino Linz. In questi campi
le baracche avevano una capacità di accoglienza ampliabile a seconda
delle esigenze di impiego, nelle fabbriche gestite dalle ss, della mano-
dopera internata.
In seguito alle deportazioni di massa di prigionieri di guerra dai
vari paesi occupati dopo l’emanazione del decreto Notte e nebbia del 7
dicembre 1941 e all’avanzata in Unione Sovietica, la popolazione con-
centrazionaria si internazionalizza, delineandosi la trasformazione dei

17
la shoah

Lager in luoghi di sfruttamento del lavoro forzato e di morte di massa.


Nascono altri sei grandi Lager: a Neuengamme, presso Amburgo; ad
Auschwitz, in Alta Slesia nell’ottobre del 1940; a Groß Rosen, in Bas-
sa Slesia; a Natzweiler, in Alsazia e, più tardi, nell’ottobre del 1941, a
Lublino e a Stutthof, presso Danzica, nella Prussia orientale. Con l’in-
quadramento (decreto del 3 marzo 1942) dell’Ispettorato dei campi di
concentramento nell’Ufficio centrale economico-amministrativo del-
le ss s’impose il predominio del fattore economico nella gestione dei
Lager. A riprova di ciò vi è il moltiplicarsi dei “sotto-campi” o “campi
esterni” intorno ai “campi principali” vicino a impianti industriali1, tra
i quali anche i sotto-campi di Auschwitz-Birkenau (Auschwitz ii), in
seguito divenuto campo di sterminio, e i Lager satelliti minori di Buna-
Monowitz (Auschwitz iii), nei pressi del colosso industriale produtto-
re di gomma sintetica ig Farben.

1.3
Dall’“operazione T4” all’“azione Reinhardt”
L’inizio della guerra fornì il contesto adatto per avviare il programma
di eutanasia per i malati incurabili in Germania. Un’autorizzazione
scritta redatta dalla Cancelleria del Führer, firmata nell’ottobre 1939
da Hitler e retrodatata al 1° settembre 1939 – data d’inizio della Secon-
da guerra mondiale – costituì la base legale del programma omicida.
«Al capo del Reich Bouhler e al Dr. med. Brandt viene conferita la
responsabilità di estendere la competenza di taluni medici designati
per nome, cosicché ai pazienti che, sulla base del giudizio umano, sono
considerati incurabili possa essere concessa una morte pietosa dopo
una diagnosi approfondita» recitava l’autorizzazione (Friedlander,
1997, p. 94). Non essendo mai stato promulgato o pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale, questo documento non ebbe forza di legge, tutta-
via assegnò alla Cancelleria del Reich, nella persona del dott. Viktor
Brack, il compito di organizzare e attuare il programma di eutanasia.
L’“operazione eutanasia” coinvolse in prima istanza bambini e
neonati affetti da difetti fisici o mentali. In concomitanza con il pro-

1. Complessivamente sul suolo del Reich e dei territori occupati vi erano 22 campi
principali, ordinati gerarchicamente a seconda del livello di violenza a cui erano desti-
nati, e 1.202 comandi esterni.

18
1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”

gramma di eutanasia infantile, venne avviato nel 1940 un programma


di soppressione degli adulti disabili. A causa della risonanza pubblica
del programma e dell’inquietudine popolare generata, nell’agosto del
1941 Hitler ordinò l’interruzione dell’eutanasia degli adulti. In realtà
fu solo una ritirata strategica. Non si pose infatti termine all’euta-
nasia degli adulti né dei bambini, continuata con grande intensità e
meno visibilità. Dal settembre del 1941 fino alla fine della guerra ven-
ne praticata la cosiddetta “eutanasia selvaggia” in numerose case di
cura. Medici e infermieri eliminarono migliaia di pazienti incapaci di
lavorare e dispendiosi per le casse dello Stato. Complessivamente cir-
ca 70.000 persone vennero “disinfettate” di cui 5.000 bambini (ivi,
p. 85). Nota come “azione T4”, poiché l’ufficio centrale si trovava in
una villa confiscata a una famiglia ebrea al numero 4 di Tiergarten
Strasse a Berlino, l’eutanasia degli adulti, per l’alta cifra di persone
da “trattare”, richiese la creazione di centri di uccisione a Grafeneck,
Brandenburgen an der Havel, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg (Sa-
ale) e Hadamar e l’impiego del monossido di carbonio per asfissiare i
pazienti. Per questo l’operazione T4 rappresentò la «prefigurazione
concettuale e nello stesso tempo tecnica e amministrativa della “solu-
zione finale” che sarebbe stata attuata nei campi di sterminio» (Hil-
berg, 1999, pp. 950-1).
Dall’aprile del 1941 entrò in funzione in dieci Lager un program-
ma segreto denominato “14f13” di “trattamento speciale” dei detenuti
troppo deboli per lavorare o troppo onerosi economicamente (Caplan,
Wachsmann, 2010, p. 28). Questa estensione dell’operazione T4 trac-
ciò uno spartiacque nella storia dei Lager. Da quel momento essi ser-
virono come centri di sterminio. La decisione presa nella primavera
del 1940 di uccidere i pazienti ebrei disabili in quanto gruppo razzia-
le collegò l’operazione eutanasia alla soluzione finale della questione
ebraica, presagì la misura estrema. L’operazione T4 fu un modello
pratico per la soluzione finale della questione ebraica per via dell’im-
piego di metodi provati e sperimentati nel programma di eutanasia e
del personale in esso occupato nell’“azione Reinhard”, nome in codice
(Reinhard per onorare la memoria di Reinhard Heyedrich, ucciso in
un attentato partigiano a Praga nel 1942) del programma segreto di
sterminio degli ebrei polacchi, realizzato sotto la responsabilità del co-
mandante delle SS e della Polizia del distretto di Lublino Globocnik,
incaricato verbalmente direttamente da Himmler.

19
la shoah

Il 22 giugno del 1941, data d’inizio dell’Operazione Barbarossa,


iniziò lo sterminio di massa delle comunità ebraiche dell’Europa
orientale ad opera della Wehrmacht e delle “unità operative” al se-
guito in ottemperanza a un ordine di Heydrich del 19 luglio indi-
rizzato ai comandanti delle “unità operative” e ai “commissari del
Reich” (Mommsen, 2003, p. 119). Da misure dirette ai singoli ebrei,
ad agosto le fucilazioni vennero estese a interi villaggi. Dall’estate del
1941 al novembre del 1942 le operazioni mobili di massacro copriro-
no zone vastissime dell’Europa orientale. Dei circa quattro milioni
di ebrei residenti nei territori sovietici prima del 22 giugno 1941, circa
un milione e mezzo riuscirono a fuggire prima dell’arrivo dei nazisti,
mentre circa 1.350.000 caddero vittima dei massacri o morirono di
privazioni nei ghetti o nei luoghi d’internamento. Dall’autunno del
1941 il distretto di Lublino divenne il cuore dell’azione Reinhard.
Dal marzo del 1942 al novembre del 1943 nei centri di sterminio di
Bełżec, Sobibór e Treblinka furono sterminati 1.750.000 ebrei de-
portati dai ghetti polacchi dei territori incorporati, Governatorato
generale, Germania, Austria, protettorato di Boemia e Moravia, Iu-
goslavia, Grecia e Olanda.
Collocati in luoghi isolati, nelle vicinanze degli scali ferroviari,
questi centri di sterminio si distinsero dai campi di concentramento
per una fondamentale ragione: esistevano solo per distruggere com-
pletamente in tempi rapidi quante più vite possibile. Le operazioni
di sterminio erano completate quando i corpi erano cenere e ossa e i
beni delle vittime (abiti, capelli, denaro, protesi odontoiatriche d’oro)
raccolti e inviati in Germania. Belzec costituì il prototipo di una strut-
tura completamente nuova nel suo genere composita di due elementi
preesistenti, fino allora sviluppati distintamente e per scopi diversi: il
campo di concentramento e le installazioni di sterminio. Col soffo-
camento dei deportati nelle camere saturate da gas di scarico, nei tre
campi dell’azione Reinhardt era messa a frutto l’esperienza maturata
negli istituti dell’operazione eutanasia dove il monossido di carbonio
riempiva le camere a gas fisse camuffate da docce, e quella acquisita nel
corso delle operazioni di sterminio nei territori orientali e nel Lager
di Chełmno dove nei camion a gas mobili veniva immesso il gas di
scarico. A Treblinka – il maggiore e più attrezzato dei centri dell’azio-
ne – il metodo dell’uccisione “a catena” ebbe massima efficacia con lo
sterminio di 763.000 ebrei.

20
1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”

1.4
Auschwitz: compimento della soluzione finale
Anche se probabilmente servì solo a conferire alla prassi delle uccisioni
l’avallo burocratico e a coordinare gli interessi degli uffici coinvolti nel
processo di distruzione, la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942
prova che a quel punto esisteva un programma nazista di sterminio si-
stematico degli ebrei. In quell’occasione Heydrich parlò di “soluzione
finale della questione ebraica”, di “evacuazione degli ebrei verso est” di
circa 11 milioni di persone. Il comandante di Auschwitz Rudolf Höss
raccontò che durante l’estate del 1941 venne convocato da Himmler il
quale gli riferì che il Führer aveva ordinato la «soluzione finale della
questione ebraica» (Höss, 1997, p. 127).
Auschwitz era il luogo prescelto per via del suo isolamento e perché
vi si poteva agevolmente giungere con i treni. Tra la fine di agosto e gli
inizi di settembre del 1941 comparve in via sperimentale un terzo me-
todo di uccisione, alternativo all’uso del monossido di carbonio ado-
perato nei camion mobili e nelle camere fisse. Si trattava dello Zyklon
B, l’acido prussico già adoperato dall’estate del 1941 ad Auschwitz per
disinfettare ambienti e indumenti. Il 5 settembre del 1941, nelle celle
sotterranee del blocco di punizione 11 vennero uccisi 900 prigionieri
di guerra sovietici, insieme ad altri detenuti malati, con lo Zyklon B.
Alla fine di settembre Himmler diede ordine di costruire a due chilo-
metri dal campo base, presso il villaggio di Brzezinka (Birkenau), un
Lager di enormi proporzioni dove internare i prigionieri di guerra fino
a 50.000 persone. Intanto Höss procedeva con la costruzione delle in-
stallazioni di sterminio. Il crematorio i del campo principale fu trasfor-
mato in camera a gas e utilizzato come luogo di sterminio dall’inizio
alla fine del 1942 e per incenerire i cadaveri fino al luglio del 1943. Nel
marzo del 1942 due camere a gas in grado di contenere fino a 800 per-
sone furono costruite nella “casa rossa”, in una piccola cascina agricola
al limitare del campo di Birkenau, rinominata “Bunker i” e impiegata
per tutto il 1942. Nella “casa bianca”, un’altra casa colonica, potevano
essere rinchiuse per essere sterminate circa 1.200 persone alla volta.
Dal 4 luglio del 1942 i deportati ebrei furono selezionati regolar-
mente al loro arrivo: il 20% degli abili al lavoro sopravviveva, tutti
gli altri andavano direttamente al gas. Coloro che erano destinati al
lavoro erano sottoposti a condizioni di vita durissime che portavano

21
la shoah

in poche settimane a un forte deperimento e alla facile esposizione


a malattie mortali. Rispetto al gas, l’impiego lavorativo conduceva a
una morte più lenta. Lo scopo del lavoro forzato non era la libertà,
come recitava la scritta “Il lavoro rende liberi” apposta nel cancello
d’ingresso del Lager principale, ma la morte al pari di quello perse-
guito con l’eliminazione fisica diretta con il gas. Ad Auschwitz econo-
mia e sterminio si incontravano nello «sterminio mediante il lavoro»
(Steinbacher, 2005).
Con la liquidazione dei centri dell’azione Reinhardt tra luglio e no-
vembre del 1943 e la cessazione delle deportazioni alla volta del Lager
di Majdanek-Lublino, il complesso di Auschwitz-Birkenau divenne il
principale centro della soluzione finale. I crematori ii, iii, iv e v edi-
ficati ad Auschwitz ii (Birkenau) tra marzo e giugno del 1943 avevano
una capacità di incenerimento giornaliero di 4.756 cadaveri. In questa
fabbrica di morte, divenuta simbolo dell’enormità dello sterminio, il
processo di uccisione “a catena” era incessante. Nell’estate del 1944,
quando tra il 15 maggio e il 9 luglio arrivarono ad Auschwitz-Birkenau
circa 438.000 ebrei dall’Ungheria, l’85 per cento dei deportati fu ucci-
so con il gas. In quei mesi in cui quotidianamente transitarono 10.000
ebrei sulla rampa di selezione «la capacità di distruzione si avvicinava
a un punto senza ritorno» (Hilberg, 1999, p. 1041).

22
2
Dopo Auschwitz:
crisi della coscienza europea
Erano state uccise vittime in numero inaudito, fin là
dove la luce della storia può illuminare il passato, e
comunque la perennità del progresso umano non era
che un’ingenuità nata nel xix secolo.
Jean Amery

2.1
Impunibilità della colpa,
questione della corresponsabilità tedesca e zona grigia
Il 21 novembre 1945 si aprono a Norimberga i lavori del tribunale
militare internazionale. Sulla base di quanto stabilito dal art. 6 del-
lo statuto del tribunale militare internazionale, adottato a Londra l’8
agosto del 1945, 24 nazisti (tra cui Göring, Speer, Frank) e 6 “organiz-
zazioni” (tra cui ss, sd, sa, Gestapo) sono rinviati a giudizio secondo
quattro capi d’accusa: cospirazione, crimini contro la pace, crimini
di guerra, crimini contro l’umanità. L’ultima delle imputazioni co-
stituiva la maggiore innovazione del processo di Norimberga. La te-
stimonianza su Auschwitz rilasciata alla Corte il 15 aprile del 1946 dal
comandante Rudolf Höss e la proiezione di un documento video sui
campi di concentramento liberati dagli alleati spalancarono la voragi-
ne dell’orrore nazista. Hans Fritzsche, uno degli imputati, propagan-
dista e collaboratore del ministro della Propaganda nazista Goebbels
affermò «Nessun potere in cielo o in terra cancellerà, nelle prossime
generazioni, né nei secoli, questa vergogna dal mio paese» (Mettraux,
2008, p. 667). Dei 24 imputati, 3 furono assolti, a 2 furono comminati
20 anni di carcere, ad altri 2 rispettivamente 15 e 10 anni, a 3 l’erga-
stolo, 12 vennero condannati alla pena di morte mediante impicca-
gione. Dando esecuzione alle condanne il 16 ottobre 1946 viene fatta
giustizia. Nondimeno continuano a risuonare queste parole scritte da
Hannah Arendt nel 1950: «Se il nostro senso comune vacilla quando

23
la shoah

viene posto di fronte ad azioni che non sono mosse né da passioni


né da motivi utilitaristici, la nostra etica è a sua volta incapace di far
fronte a crimini non previsti dai dieci comandamenti. Condannare
all’impiccagione un uomo che ha preso parte alla fabbricazione di ca-
daveri (anche se, ovviamente, non abbiamo molte altre alternative) è
assurdo. Questi sono crimini per cui nessuna punizione sembra ade-
guata; tutte le punizioni infatti hanno un limite invalicabile: la pena
di morte» (Arendt, 2006, p. 71).
Qui non è tanto dichiarata l’inadeguatezza allo scopo della Corte
giudicante, espressione di una giustizia dei vincitori, imputabili a loro
volta di crimini di guerra e contro l’umanità (bombardamento a tap-
peto di Dresda, bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki,
strage di Katyn compiuta dall’Armata Rossa) quanto l’inappropria-
tezza di una punizione tarata sui parametri della giustizia retributi-
va, dove al reato corrisponde la pena, per i responsabili di un regime
capace di elevare a ideale sociale il campo di concentramento, quella
«società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna
relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un prodotto
[...] un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza» (Arendt,
2004, p. 626).
Oltre all’impunibilità della colpa, i processi ai maggiori crimi-
nali, così come quelli secondari per crimini di guerra (ai dottori,
ai giudici, ai ministri) che ebbero luogo a Norimberga sollevarono
la questione morale della corresponsabilità, di come i confini che
separavano i criminali dalle persone normali nella Germania hitle-
riana (e nel resto dell’Europa) risultassero indistinguibili. Essi po-
sero il problema della porzione di colpa e responsabilità di quanti,
pur non rientrando fra i criminali, avevano ricoperto una funzione
nel regime, di quanti, pur essendo nella posizione per dare l’allar-
me, preferirono tollerare in silenzio. Si profilava il problema della
“responsabilità individuale limitata” o dell’“irresponsabilità orga-
nizzativa” in seno alla burocrazia e nella moderna società di massa
in genere. Rispetto al diffuso coinvolgimento nel crimine sotto il
Terzo Reich, Arendt notava nel 1945: «il bisogno di giustizia degli
uomini non può trovare alcuna risposta soddisfacente al fatto che
tutto il popolo si mobiliti a quel fine [lo sterminio amministrativo
di massa]. Quando tutti sono colpevoli, nessuno, in ultima analisi,
può essere giudicato. Infatti, quel tipo di colpa non è nemmeno ac-

24
2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea

compagnato dalla mera apparenza, dalla mera pretesa di responsabi-


lità» (Arendt, 2006, pp. 69-70)1.
A margine della sentenza della Corte militare internazionale, inve-
stendosi in prima persona a nome del popolo tedesco, il filosofo Karl
Jaspers pose la «questione della colpa tedesca» nel 1946 distinguendo
fra quattro concetti di colpa (politica, criminale, morale, metafisica):

Non ci può essere alcun dubbio che tutti noi tedeschi siamo colpevoli, e che
ogni tedesco in un modo o nell’altro ha la sua colpa: 1) ogni tedesco, senza
alcuna eccezione, ha la sua parte di responsabilità politica. Esso non può sot-
trarsi alle riparazioni che nelle forme del diritto, deve necessariamente soffrire
insieme con gli altri per le conseguenze di quello che decidono e fanno i vin-
citori [...]. 2) Non ogni tedesco, ma solamente una piccola minoranza deve
essere punita per i delitti commessi. Un’altra piccola minoranza deve espiare
per attività naziste. [...] 3) è fuori dubbio che in tutto questo ciascun tedesco,
sebbene in condizioni differenti, trova l’occasione per fare l’esame della pro-
pria coscienza dal punto di vista morale. Qui non c’è bisogno di riconoscere
alcuna autorità costituita al di fuori della propria coscienza 4) è certo che ogni
tedesco che comprende nelle esperienze metafisiche tali sciagure trasforma la
propria coscienza dell’essere e di sé stesso. Come ciò accada è cosa che nessuno
può prescrivere o fissare in anticipo. È cosa che riguarda ciascun individuo nel-
la sua solitudine. Quel che ne può emergere può costituire la base essenziale di
quello che dovrà essere nell’avvenire l’anima tedesca ( Jaspers, 1996, pp. 75-6).

Essere tedesco, subito dopo la fine del Terzo Reich, per Jaspers significa
sentirsi colpevole per ciò che i nazisti hanno fatto. Nondimeno questo
sentimento di colpa collettiva urge di tradursi nel rinnovamento dell’e-
sistenza umana dalle sue radici.
Quando si parla di collaborazione nel crimine non si può non
considerare la riflessione sulla “zona grigia” proposta da Primo Levi

1. Hannah Arendt evidenzia come il meccanismo dello scaricabarile delle respon-


sabilità all’opera nelle società moderne – dove ognuno si considera come un ingra-
naggio di una grande macchina – minasse alla base ogni tentativo dell’istituzione
giuridica di farvi fronte. Quest’ultima istituzione «si basa sull’idea di una responsa-
bilità e di una colpa personale, nonché sull’idea abbinata alla prima di una coscienza
che funziona a pieno regime» (Arendt, 2006, pp. 11-2). Mentre la prima di queste
idee vacillò a Norimberga ogni qualvolta i criminali giustificavano le loro condotte
con l’obbedienza a “ordini superiori”, fu a Gerusalemme durante il processo Eich-
mann che la seconda condizione – la lucida coscienza dell’imputato di commettere il
male – mancò, ai suoi occhi, clamorosamente.

25
la shoah

in Sommersi e salvati, meditazione matura sull’esperienza d’interna-


mento ad Auschwitz. Considerando il microcosmo del Lager come la
riproduzione del macrocosmo della società totalitaria, come il punto
d’osservazione privilegiato per indagare più a fondo la specie umana
e le dinamiche del potere che avvolgono la nostra società, Levi sen-
te l’esigenza di esplorare quello spazio, lasciato vuoto da una retorica
schematica che separa nettamente le vittime dai persecutori, quella
«zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiun-
ge i due campi dei padroni e dei servi», connotata da «una struttura
interna incredibilmente complicata [...] alberga in sé quanto basta per
confondere il nostro bisogno di giudicare» (Levi, 2009, p. 1022). In
questo spazio intermedio, tra privilegio e abiezione, dimorano figure
dell’ambiguità morale, come i prigionieri-funzionari delle baracche e
le “squadre speciali” dei crematori da non giudicare e biasimare alla
leggera. Questa categoria concettuale risulta molto utile per studiare
gli spettatori dello sterminio.

2.2
Auschwitz e lo scandalo della modernità
Auschwitz è una presenza ingombrante nella memoria collettiva occi-
dentale perché rappresenta un evento storico centrale del xx secolo,
un momento di svolta per la nostra autocoscienza come esseri apparte-
nenti al genere umano capaci di sdegno e compassione e come cittadini
dell’Europa post-nazista. Auschwitz è un «buco nero» (Levi, 2009),
una voragine per il pensiero, una ferita aperta, una «frattura di civil-
tà» (Traverso, 2005, pp. 16-46) difficilmente sanabile, con cui non si
riesce mai completamente a venire a patti. Una delle ragioni per cui nel
genocidio ebraico permane qualcosa di irriducibile rispetto alla nostra
capacità di comprenderlo consiste nel fatto che ad Auschwitz civiltà
moderna e barbarie si incontrarono, le acquisizioni tecnico-scientifi-
che figlie della modernità furono poste al servizio dello sterminio di-
struggendo quell’ideale di progresso da cui scaturirono. Nel tentativo
di capire «la più radicale ricaduta nella barbarie nell’Europa del xx
secolo», il sociologo Norbert Elias si chiedeva: «Come era stato pos-
sibile che in modo razionale e perfino scientifico nel xx secolo degli
uomini avessero potuto progettare ed attuare un’impresa che sembra
una ricaduta nella brutalità e barbarie dei tempi lontani – che, trascu-

26
2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea

rando le differenze di grandezza delle popolazioni, avrebbero potuto


aver luogo nell’antica Assiria o a Roma dato che in seguito si è ricono-
sciuto lo status di esseri umani agli schiavi? [...] Nel xx secolo non ci si
sarebbe aspettato nulla di simile» (Elias, 1991, p. 356).
Eccoci posti di fronte al dilemma dell’inattualità della violenza
nazista rispetto alla percezione collettiva del xx secolo, come di un’e-
ra civile in cui certe cose non sono più ammissibili (la violenza sulle
donne, lo sfruttamento minorile, la pena di morte ecc.). L’immagine
positiva della civile Europa, storicamente culla dei diritti e delle libertà
individuali e collettive è stata infranta dalla comparsa di Auschwitz
che ci ha mostrato come «progresso e rovina sono due facce della
stessa medaglia» (Arendt, 2004, p. lxxx). I critici della modernità
hanno sospettato che nel progetto illuminista di liberare l’uomo dalla
paura e dall’illusione per renderlo padrone della natura vi dimorasse
sin dal principio il «germe della regressione» (Horkheimer, Adorno,
1982) avanzando il sospetto che lo sterminio degli ebrei sia stato «più
di un’aberrazione, più di una deviazione da un sentiero di progresso
altrimenti diritto, più di un’escrescenza cancerosa sul corpo altrimen-
ti sano della società civilizzata [...] prodotto e fallimento della civiltà
moderna, un utile test delle possibilità occulte insite nella civiltà mo-
derna» (Bauman, 2010a, pp. 24-30). Auschwitz è un atto d’accusa per
la civiltà moderna occidentale.
Cosa si intende comunemente per civiltà? Leggiamo che «nell’uso
comune e più tradizionale, è spesso sinonimo di progresso, in opposizio-
ne a barbarie, per indicare da un lato l’insieme delle conquiste dell’uo-
mo sulla natura, dall’altro un certo grado di perfezione nell’ordina-
mento sociale, nelle istituzioni, in tutto ciò che, nella vita di un popolo
o di una società, è suscettibile di miglioramento» (Enciclopedia italia-
na Treccani). Per modernità s’intende «un gruppo di processi interre-
lati: economici (l’ascesa del capitalismo e dello scambio monetario),
politici (la comparsa dello Stato-nazione e delle forme secolari di go-
verno), sociali (il declino delle gerarchie e delle alleanze tradizionali e
l’emergere di distinzioni di genere, razza, classe), culturali (il privilegio
delle idee secolari basate sulla speranza illuminista del progresso, della
scienza e della ragione) [...] qualcosa di positivo, desiderabile e miglio-
rato» (Laban Hinton, 2007, p. 7). In quanto sinonimo di progresso, la
civiltà è stata acquisita progressivamente. Con il processo di civilizzazio-
ne si assiste a un cambiamento dell’habitus umano, alla modificazione

27
la shoah

della struttura dell’economia psichica e pulsionale del singolo indivi-


duo, all’accrescimento del senso di pudore e ripugnanza, allo sviluppo
del controllo su sé stesso nel rapportarsi agli altri, al monopolio statale
dell’uso della violenza, confinata nelle prigioni e nelle caserme (Elias,
1983). Lo Stato razional-burocratico moderno occidentale è definito in
relazione all’uso della forza, suo «mezzo specifico», «come unica fon-
te del “diritto” all’uso della forza» (Weber, 1968, p. 281). La concentra-
zione razionale e organizzata del potere, tipica dello Stato moderno, a
disposizione di un regime autoritario come quello nazista può invertire
l’uso legittimo della forza fisica in deliberato abuso.
L’immagine della società moderna occidentale come civilizzata,
mite e moderata è «un mito eziologico che, in una variante o nell’al-
tra, la civiltà occidentale ha utilizzato nel corso degli anni per legitti-
mare la propria egemonia spaziale spacciandola per superiorità stori-
ca» (Bauman, 2010a, p. 140). Questo dovrebbe mettere in guardia
dall’accogliere l’idea che la violenza disumana e degradante propria
delle civiltà precedenti sia stata eliminata. Piuttosto che un’elimina-
zione vi è stato un dislocamento della violenza, una redistribuzione
dell’accesso a essa, una sottrazione alla vista. Il processo di civilizza-
zione ha sottratto l’uso e lo spiegamento della violenza al giudizio
morale e svincolato i criteri di razionalità dall’interferenza delle nor-
me etiche e delle inibizioni morali (ivi, p. 50). Mancanza di riguardo
per la persona, prevedibilità delle regole e calcolabilità dell’effetto
sono tratti fondamentali della struttura tecnico-economica della ci-
viltà moderna. Negli affari d’ufficio la burocrazia generalmente agisce
spassionatamente sotto il principio della condotta sine ira ac studio
escludendo tutti gli elementi affettivi puramente personali in genere
irrazionali e non calcolabili (Weber, 1968, pp. 217-20). Caratteristi-
che basilari della condotta d’ufficio che possono essere colte alla base
dell’organizzazione della soluzione finale. La sezione iv B4 del rsha
guidata da Adolf Eichmann attua il trasferimento forzato di popola-
zioni e le deportazioni degli ebrei verso i centri di sterminio massi-
mizzando spazi e costi dell’operazione al prezzo di disumanizzare gli
“oggetti” dell’azione, gli ebrei, ridotti a dati quantitativi: “tonnellate
per chilometro”, “carico”, “capitolo di spesa”, “pezzi”. Il compimento
del genocidio ebraico è stato possibile perché «la civiltà si dimostrò
incapace di garantire un uso morale del terrificante potere da essa crea-
to» (Bauman, 2010a, p. 158).

28
2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea

Nel Terzo Reich le forme di articolazione sociali, come la classe


operaia, le organizzazioni autonome dei lavoratori, i partiti, furono
smantellate e poste sotto controllo di centri di potere statali come il
partito nazionalsocialista (nsdap), il Fronte del lavoro e la Gioventù
hitleriana. La scienza e la Chiesa, le istituzioni nobili di salvaguardia
del progresso e della tradizione, caddero sotto l’orbita nazista. Stimo-
lante per la riflessione sulla relazione fra modernità e violenza nazista
restano le riflessioni di Hannah Arendt sul totalitarismo la cui «ter-
ribile originalità» (in termini di definizione della natura del governo
rispetto alla tradizione del pensiero politico occidentale)2 ha provo-
cato una frantumazione delle «nostre categorie politiche e dei nostri
criteri di giudizio morale» (Arendt, 2008, p. 110) e una «bancarotta
del senso comune moderno» sostituito da una stringente logica totali-
taria. Le intuizioni di Arendt sulla filiazione del nazismo dal razzismo
e dall’imperialismo europeo del xix secolo hanno aperto la strada alla
contestualizzazione della Shoah nella storia dell’evoluzione “civile”
europea alternativamente alla “via speciale” seguita dalla Germania e
sfociata nel nazismo e nello sterminio. Secondo la tesi della “via spe-
ciale”, l’irresistibile ascesa del nazismo e l’eccezionalità del crimine na-
zista andrebbero ricondotti a un’intrinseca debolezza e illiberalità del
sistema di potere del Reich guglielmino e a specifici tratti culturali te-
deschi come il conservatorismo aristocratico e l’esacerbato militarismo
che posero la Germania prehitleriana fuori dal percorso democratico
seguito dai regimi liberali inglese e francese. La genealogia – disciplina
ausiliaria della storia che tratta le origini e la discendenza di famiglie e
di stirpi – della civilizzazione occidentale, tematizzando le forme della
violenza moderna, ha rivelato che Auschwitz, lungi dall’essere una ri-
caduta nella barbarie, in un’inciviltà senza tempo, è stato uno dei pro-
dotti possibili e uno dei figli legittimi dell’Occidente, in quanto sintesi
delle violenze moderne (Traverso, 2002, p. 180). Facendo riaffiorare
una corrente antilluminista e una passione europea per il genocidio, la
genealogia del disastro come storia del xx secolo ci insegna che «l’idea
dei continui progressi dell’umanità è solo pia illusione» (Bensoussan,
2009, p. 25).

2. Il governo totalitario è senza precedenti perché fa saltare l’alternativa tra go-


verno legale, costituzionale o repubblicano, da un lato, e governo illegale, arbitrario e
tirannico, dall’altro, su cui si basano le definizioni della natura del governo sin dagli
albori del pensiero politico occidentale sfidando ogni comparazione.

29
la shoah

2.3
Genocidio e singolarità della violenza nazista
L’irruzione della violenza nazista nell’Europa asservita al dominio te-
desco pose i suoi contemporanei di fronte a un «crimine senza nome»,
come ebbe modo di affermare Winston Churchill quando apprese dei
sistematici massacri di massa delle comunità ebraiche dell’Unione So-
vietica. L’originalità della violenza nazista non sfuggì a Raphael Lemkin,
giurista polacco a cui va attribuita la paternità del termine genocidio, il
quale andava a colmare proprio quella lacuna rilevata da Churchill. Ge-
nocidio deriva dal greco γένος (razza, stirpe, etnia) e dal latino caedo (uc-
cidere). Nel novembre del 1944 esce negli Stati Uniti il libro Axis Rule
in Occupied Europe in cui viene precisato il significato del neologismo:

Con genocidio intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico


[...]. In generale, il genocidio non comporta necessariamente l’immediata di-
struzione di una nazione, ad eccezione di quando è compiuta attraverso ucci-
sioni di massa di tutti i suoi membri. Significa piuttosto un piano coordinato di
differenti azioni miranti alla distruzione delle essenziali basi della vita dei grup-
pi nazionali, con lo scopo di annientare i gruppi stessi. L’obiettivo di tale piano
sarebbe la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del
linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e dell’esistenza economica
dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà,
della salute, della dignità e anche delle vite degli individui appartenenti a tali
gruppi. Il genocidio è rivolto contro il gruppo nazionale come entità, le azio-
ni implicate sono dirette contro gli individui, non rispetto alle loro capacità
individuali, ma come membri di un gruppo nazionale (Lemkin 2005, p. 79).

Ponendo l’accento sul gruppo-vittima più che sul singolo, Lemkin co-
glieva il tratto specifico delle violenze di massa del xx secolo nel fatto
che le vittime sono state assassinate sulla base di un’identità collettiva.
Lemkin con questo concetto non guardava esclusivamente allo stermi-
nio degli ebrei, ma alle modalità dell’occupazione nazista in Europa.
Diversamente da quanto generalmente si pensi il fenomeno genocida-
rio è multidimensionale, investe diversi piani (politico, sociale, culturale,
economico, biologico, fisico, religioso e morale). In quanto genocidio,
la Shoah ha comportato la distruzione fisica delle persone, della cultu-
ra, della società, dell’economia ebraica europea. A Norimberga nessuno
dei nazisti portati alla sbarra fu giudicato colpevole di genocidio pur es-

30
2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea

sendovi fra le imputazioni quella di «genocidio deliberato e sistemati-


co, sterminio di gruppi razziali e nazionali [...] in particolare di ebrei,
polacchi e zingari». Le pressioni esercitate da Lemkin per far avere un
adeguato riconoscimento al nuovo concetto sul piano giuridico interna-
zionale diede luogo alla approvazione da parte dell’Assemblea generale
dell’onu il 9 dicembre 1948 della Convenzione per la prevenzione e la re-
pressione del crimine di genocidio. Crimine di genocidio che è così definito
all’art. 2: «ognuno dei seguenti atti commessi con l’intento di distrug-
gere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razionale e
religioso: a) l’uccisione dei membri di un gruppo; b) lesioni gravi all’in-
tegrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre
deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua
distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite
all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo
ad un altro». Le critiche alla definizione di genocidio contenuta nell’art. 2
non sono mancate. Essa è stata giudicata troppo ristretta poiché omette
deliberatamente i gruppi politici e sociali, risultando pertanto inappli-
cabile in numerosi casi (Chalk, 1989; van Schaack, 1997). Inoltre non
si fa distinzione tra la violenza destinata ad annientare un gruppo – gli
atti espressi in (a) e (c) – e gli attacchi non letali sui membri del gruppo,
esemplificati ai punti (b) e (d) (Chalk, Jonassohn, 1990). Cosa significa
caso per caso “totale” o “in parte” è da stabilire. Così come da chiarire è
ogni volta la natura dell’intenzionalità di chi commette genocidio.
La mancata applicazione della definizione onu in molti casi è di-
pesa dalla natura stessa delle Nazioni Unite, un’organizzazione di Stati
sovrani che all’occasione hanno impedito che l’ordine legale interna-
zionale prevalesse sulle singole prerogative nazionali. Per esempio, la
scelta di non usare il termine da parte della diplomazia statunitense nel
1994 in Ruanda, dove tra il maggio e il luglio del 1994 furono massa-
crati a colpi di machete 800.000 Tutsi dalla maggioranza etnica Hutu,
è legata alla volontà politica statunitense di non intervenire. Dopo al-
cuni decenni di limitato interesse, a partire dagli anni Ottanta l’atten-
zione per il genocidio e in special modo per la Shoah si è rinnovata nei
paesi anglosassoni. Con la comparsa di alcune opere ormai classiche3

3. I. L. Horowitz, Genocide: State Power and Mass Murder, Transaction, New


Brunswick 1976; L. Kuper, Genocide. Its Political Use in 20th Century, Yale University
Press, New Haven 1981; Id., The Prevention of Genocide, Yale University Press, New
Haven 1985; S. Totten, W. S. Parsons, Century of Genocide, Routledge, New York 1995.

31
la shoah

prendono corpo i Genocide Studies, un sapere interdisciplinare ancora


poco considerato in Italia. Proprio negli “studi sul genocidio”, alla luce
delle criticità della definizione onu si cerca di definire e di delimitare
concettualmente il termine genocidio, di formulare schemi comparativi
e strategie di prevenzione del genocidio. Sono state formulate defini-
zioni minimali «ogni atto che mette in pericolo la reale esistenza di un
gruppo» (Huttenbach, 1988), ampie «il genocidio comporta l’ucci-
sione di massa di un sostanziale numero di esseri umani, non nel corso
di un’azione militare contro le forze militari del supposto nemico, sot-
to condizioni di essenziale inermità» (Charny, cit. in Andreopoulos,
1994), inclusive, «i genocidi contro gruppi razziali, nazionali, etnici,
religiosi sono generalmente una conseguenza di un conflitto politico,
o ad esso intimamente legati» (Laban Hinton, 2007, p. 67), e «geno-
cidi e politicidi sono la promozione, l’esecuzione e/o comportano il
consenso di politiche sostenute dalle élite al governo o dai loro agenti
– sia in caso di guerra civile, sia di autorità contesa – che sono destinati
a distruggere, in parte o totalmente, un gruppo comunitario, politico
o etnico politicizzato» (Harff, Gurr, 1988).
Sin dagli anni Novanta si è discusso sull’unicità della Shoah e si è
giunti a un ampio accordo sul carattere senza precedenti e singolare
di Auschwitz. Questo dibattito ha messo in luce come l’applicazione
esclusiva del termine genocidio alla Shoah in ragione della sua unicità
storica e fenomenologica (Katz, 1994) o la distinzione fra Olocausto e
altri genocidi (Bauer, 2009) possa dar luogo a polemiche fortemente
politicizzate sul rischio di gerarchizzare le sofferenze delle vittime (Ro-
senbaum, 2009). L’insoddisfazione rispetto al riferimento prevalente
negli studi sul genocidio alla definizione onu ha generato formule al-
ternative come quella di «società estremamente violente» (Gerlach,
2010) e nuovi interessanti progetti di critica del canone degli studi sul
genocidio in cui la Shoah appare come prototipo (Moses, 2008; Laban
Hinton, 2012).
La singolarità della Shoah non la rende affatto incomparabile. Al
fine di riconoscere la singolarità storica di Auschwitz, di evitare di ren-
derla oggetto di una «focalizzazione esclusiva» (Flores, 1998, p. 318)
e di far emergere ciò che vi è di peculiare in ognuna delle violenze di
massa del xx secolo, è necessario comparare la Shoah con altri casi di
violenza, come il massacro degli armeni del 1915-16, l’autogenocidio
cambogiano del 1975-79 e lo sterminio dei tutsi del 1994. Utili stru-

32
2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea

menti per mettere in piedi un’adeguata struttura comparativa sono le


nozioni di massacro e paradigma di violenza (Semélin, 2007), i quattro
livelli comuni della definizione del gruppo vittima, del grado di inten-
zionalità, del profilo degli esecutori e delle forme di perpetrazione del
genocidio (Charny, 1999, pp. 12-5). Tenere conto del carattere proces-
suale e dinamico dell’evento genocidario ed evitare, da una parte, quel
modo di pensare agli eventi di violenza come se tendessero a eguagliar-
si, a ridursi, al di là delle loro differenze qualitative, gli uni agli altri
rispetto al computo delle vittime, dall’altra, quello di assegnare al feno-
meno di violenza una superiorità ontologica, un’aura sacrale. La Shoah
esprime esemplarmente il paradigma del potere di “distruggere per
sradicare”, mentre l’autogenocidio in Kampuchea democratica quello
del potere di “distruggere per sottomettere”, a cui corrispondono due
opposte dinamiche della violenza (Semélin, 2007, pp. 41-5). Il ruolo
paradigmatico della Shoah potrebbe consistere nella sua capacità di ri-
assumere, in qualche modo, tutte le violenze del xx secolo: «non sono
l’intensità, né le motivazioni, né le modalità, né il carattere premedita-
to e “finale” della distruzione messa in atto [...] è la loro compresenza.
È quella sorta di tragico compendio di tutti i tipi di violenza possibili
presenti nella Shoah che fa del genocidio degli ebrei un evento storico
di particolare e unico rilievo nel panorama della violenza novecente-
sca” (Flores, 2005, p. 27).

33
3
Narrazioni storiche della Shoah

3.1
Intenzionalismo vs funzionalismo
Quale ruolo va attribuito a Hitler nel processo decisionale sfociato nel
sistematico sterminio degli ebrei d’Europa? Gli storici della Shoah si
sono schierati secondo due orientamenti principali: intenzionalista e
strutturalista-funzionalista. Mentre l’intenzionalismo storiografico ha
posto l’accento sull’intenzione omicida e sulla preminenza dell’ideo-
logia antisemita come fattore determinante gli esiti estremi della vio-
lenza nazista, sul ruolo preponderante avuto da Adolf Hitler, assertore
di un antisemitismo radicale e primo motore dello sterminio sistema-
tico, il funzionalismo si è concentrato sulla complessa struttura del po-
tere nazista tutt’altro che ordinato sotto il controllo di un uomo solo
al comando, frammentato e conteso tra le diverse istituzioni implicate
nell’implementazione del processo di distruzione. Secondo la tesi in-
tenzionalista la soluzione finale è stato il prevedibile risvolto di un’idea
– quella di sterminare gli ebrei – espressa da Hitler già nel 1925 nella
sua opera Mein Kampf (La mia battaglia) e riaffermata in un momento
cruciale come nel discorso del 30 gennaio 1939 tenuto al Reichstag in
cui prospettò l’eventualità dello sterminio degli ebrei. Per il funzio-
nalismo la via che condusse ad Auschwitz fu “tortuosa” (Schleunes,
1990), l’esito di una “radicalizzazione cumulativa” (Mommsen, 2003)
della soluzione della questione ebraica posta al centro della contesa e
degli interessi di diversi centri di potere (sa vs ss, Himmler vs Göring/
Frank). Secondo Klaus Hildebrand, preminente esponente della scuo-
la intenzionalista, «per il genocidio nazista, il dogma razziale di Hitler
fu fondamentale [...] le idee programmatiche di Hitler sull’eliminazio-
ne degli ebrei e sulla supremazia razziale vanno ritenute causa primaria,

34
3. narrazioni storiche della shoah

motivo e fine, intenzione e punto di fuga della “politica ebraica” del


Terzo Reich» (Kershaw, 1995, p. 127).
Per il funzionalista Martin Broszat, in assenza di un ordine gene-
rale e globale impartito dal Führer, «il “programma” dello sterminio
degli ebrei conobbe uno sviluppo istituzionale graduale, e fu in pratica
il frutto di iniziative individuali, fino al principio del 1942, acquisendo
una fisionomia definita solo dopo la costruzione dei campi di stermi-
nio in Polonia (tra il dicembre 1941 e il luglio 1942)» (ivi, p. 128).
Tale controversia storiografica raggiunse il suo culmine in una serie
di conferenze internazionali tenute a Parigi nel 1982, a Gerusalemme nel
1983 e a Stoccarda nel 1984. L’incapacità di sopportare separatamente
il carico della successiva ricerca suscitata dall’apertura degli archivi so-
vietici dopo la fine della Guerra fredda ha richiesto l’integrazione dei
due orientamenti. Il maggiore dei pregi dell’approccio intenzionalista
è di avere stimolato la ricerca sul ruolo, anche indiretto, avuto da Hit-
ler e sulle peculiarità dell’antisemitismo nazista. Tuttavia far discen-
dere la soluzione finale direttamente dalle intenzioni programmatiche
di Hitler rivela un vizio teleologico, un’attitudine a sottovalutare le
contraddizioni e le difficoltà emerse nel corso dell’implementazione
del programma di sterminio, oltre a sovrastimare l’importanza delle
decisioni venute dalle alte sfere del potere e a sottostimare le inizia-
tive locali nei luoghi dello sterminio alla periferia del Reich. Merito
del funzionalismo è di aver dato il giusto rilievo alle spinte venute dal
basso dagli attivisti del partito e dalla periferia, dai capi dei distretti
dell’Europa orientale per l’implementazione del processo di distruzio-
ne e alla multidimensionale logica burocratica che ha strutturato a più
livelli l’ampio coinvolgimento delle società genocidarie.
Vedere Hitler come un dittatore debole, incapace nei momenti cru-
ciali di decidere non ha impedito di riconoscerne il ruolo centrale di
guida morale e di fonte ultima della legge nel Terzo Reich, il potere
carismatico-sanzionatorio di forte spinta nel processo di distruzione in
direzione dello sterminio sistematico (Mommsen, 2003). Nondimeno,
l’aver posto l’accento sul funzionamento complessivo della macchina
dello sterminio, sui processi strutturali e sul gioco delle funzioni con-
trastanti ha fatto perdere di vista il problema dell’intenzione e allenta-
to la stretta sulla responsabilità dei carnefici, talvolta visti più come in-
granaggi di un meccanismo distruttivo che come soggetti consapevoli
delle terribili implicazioni delle loro azioni.

35
la shoah

I sintetizzatori, che hanno cercato di fare sintesi delle due posizioni,


inclinano verso i funzionalisti nel dubitare che Hitler pianificò la so-
luzione prematuramente situando la decisione sullo sterminio intorno
all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, mentre inclinano verso gli in-
tenzionalisti nel valutare il ruolo avuto da Hitler nell’evoluzione delle
politiche antiebraiche prima del 1941, ritenendo probabile che Hitler
stesso ordinò o autorizzò l’inizio delle uccisioni in massa nel giugno del
1941. Tra i sintetizzatori vi è disaccordo sul grado di personale coinvol-
gimento del Führer nel formulare le politiche anti-ebraiche e sul tipo di
motivazione alla base della sua decisione nel momento di passaggio dal
trasferimento forzato allo sterminio. Tra questi Saul Friedländer in La
Germania nazista e gli ebrei (2004) ha arguito che Hitler ebbe sempre
un piano per gli ebrei, di emigrazione e nuovo insediamento prima del
1941, dopo di cui uno di sterminio, e che nel periodo 1933-41 mantenne
sempre il controllo sulle politiche antiebraiche indirizzandone l’evo-
luzione impartendo ordini verbali ai suoi luogotenenti. Richard Brei-
tman, in Himmler. Il burocrate dello sterminio (1995), ha sostenuto che
Hitler diede l’ordine di sterminio nel marzo del 1941 nel corso dei pre-
parativi per l’Operazione Barbarossa. Christopher Browning, in Verso
il genocidio (1999) e Le origini della soluzione finale (2008), ha sostenu-
to che il piano di sterminare gli ebrei d’Europa ebbe origine fra il luglio
e l’ottobre del 1941, nell’euforia della vittoria. Altri sintetizzatori invece
hanno affermato che Hitler fu motivato dalla rabbia per la sconfitta
imminente e hanno collocato la sua decisione più tardi, come Philippe
Burrin, in Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio (1994), alla fine di
ottobre del 1941 e Arno J. Mayer, in Soluzione finale. Lo sterminio degli
ebrei nella storia europea, alla fine di settembre del 1941 come effetto
collaterale della crociata anti-bolscevica, l’Operazione Barbarossa.

3.2
Modernità, modernizzazione, modernismo:
Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf
Il sociologo Zygmunt Bauman e gli storici Götz Aly e Jeffrey Herf si
sono serviti rispettivamente delle categorie di “modernità”, “moder-
nizzazione” e “modernismo” per far luce sul nazismo e sullo sterminio
degli ebrei.

36
3. narrazioni storiche della shoah

Bauman ha inteso la Shoah come un importante test sulle possibi-


lità occulte della modernità, esito tanto unico quanto normale della
tendenza patologica della cultura burocratica moderna a considerare
la società come un oggetto da amministrare secondo una logica stru-
mentale che riduce gli esseri umani a mezzi nell’ottica di un grande
progetto utopistico politico-ideologico. A suo avviso, la Shoah sarebbe
un genocidio tipicamente moderno poiché mira a uno scopo, quello di
edificare una società perfetta attraverso l’eliminazione di certi gruppi
umani, come se si trattasse di curare un giardino, privandolo delle er-
bacce infestanti (Bauman, 2010b, p. 101)1.
Dallo studio realizzato da Götz Aly a quattro mani con Susanne
Heim sui precursori dello sterminio è emersa una lettura “economica”
della soluzione finale basata sulle connessioni tra modernizzazione e
sterminio. Secondo questa prospettiva interpretativa, lo sterminio de-
gli ebrei rientrerebbe in una più ampia strategia di «politica negativa
della popolazione» adottata dai pianificatori nazisti in applicazione
di un modello concettuale di «economia demografica» in ragione del
quale ogni problema sociale ed economico va commisurato al raggiun-
gimento della «misura ottimale della popolazione» (Aly, Heim, 2002,
p. 60). Agli occhi di questi tecnocrati, per giungere all’integrazione
economica dei territori dell’Europa orientale nel grande Reich tede-
sco, è necessario razionalizzare i metodi di produzione, standardizzare
i prodotti, introdurre una divisione continentale del lavoro, moderniz-
zare e semplificare le strutture sociali riequilibrando il rapporto tra le
quote di popolazione produttiva e improduttiva, rafforzando la classe
media a garanzia di condizioni sociali stabili, facendo fiorire mercati
interni locali, monitorando il sovrappopolamento con programmi di
controllo e di promozione delle nascite, reinsediamento e sterminio.
Modernizzazione, riforma del sistema psichiatrico e sterminio sono in-
terconnessi nei programmi segreti centralizzati sotto il ministero degli
Interni avviati dopo la sospensione ufficiale dell’operazione T4.

1. La visione baumaniana della cultura burocratica moderna come condizione ne-


cessaria ma non sufficiente della Shoah ha prestato il fianco alle aspre critiche dello
storico Yehuda Bauer che giudica l’analisi di Bauman «insoddisfacente e contraddit-
toria» poiché manca di chiarezza nel definire il concetto di modernità e fa un uso im-
proprio della categoria di genocidio. La lettura baumaniana della Shoah ha il punto di
forza di mostrare come le conseguenze morali della razionalizzazione e della burocratiz-
zazione della società moderna facilitino l’azione del criminale nazista, mentre è debole
rispetto al fatto che la violenza calda delle Einsatzgruppen è solo in parte burocratizzata.

37
la shoah

Questa nuova fase di massacri istituzionali che coinvolse migliaia


di tedeschi “improduttivi” era basata su un’attenta sistematizzazio-
ne, pianificazione e riforma del sistema psichiatrico di lungo periodo
(Aly, Chroust, Pross, 1994). Dissentendo dalle posizioni ultra-fun-
zionaliste di Aly (secondo cui non vi fu alcun piano complessivo, né
alcuna decisione a livello centrale di uccidere gli ebrei, ma è stato il
fallimento dei piani demografici dei tecnocrati nazisti a determinare
la soluzione finale), lo storico statunitense Christopher Browning il
quale sostiene che, lungi dall’esservi ampio consenso tra gli esperti pia-
nificatori sull’omicidio di massa degli ebrei come soluzione estrema al
fallimento della politica demografica in Europa orientale, la via verso
il genocidio fu aperta dal frazionamento tra “produttivisti”, coloro che
volendo sfruttare la manodopera ebraica tentarono di tenerla in vita, e
“logoramentisti”, coloro per i quali l’impiego per l’economia di guer-
ra era secondario. Browning sostiene che non fu tanto il progetto di
un’integrazione economica dei territori orientali occupati nel Reich,
né il calcolo economico il primo motore per la soluzione finale quanto
l’illogicità economica, lo smantellamento dei ghetti polacchi, nono-
stante la crescente richiesta di lavoro ebraico e il rapido aumento del-
la produttività (Browning, 1998, pp. 63-78). Alla critica di Browning
va aggiunta quella di Bauer che reputa l’analisi di Aly carente perché
considera solo gli esecutori, non fa cenno alle potenze straniere, né
alle Chiese, non analizza il nazismo e tratta i polacchi, gli ebrei e i rom
come vittime passive, non convince sulla pressione decisiva esercitata
dai funzionari tedeschi di livello intermedio sui governanti di Berlino
(Bauer, 2009, pp. 118-25).
Allo storico americano Jeffrey Herf, che pone al centro della sua
ricerca le origini culturali del Terzo Reich, la soluzione finale appa-
re come il momento culminante del «modernismo reazionario», un
concetto che esprime il paradosso culturale della modernità tedesca:
l’accettazione da parte di alcuni pensatori tedeschi (Spengler, Jünger,
Sombart, Freyer, Schmitt, Heidegger) e del regime nazista della tecno-
logia moderna pur nel rifiuto della sua matrice, la ragione illuminista
(Herf, 1998, p. 318). Questo poté accadere grazie all’integrazione della
tecnologia nel simbolismo e nel “gergo dell’autenticità” della cultura
nazista dove sangue, razza, anima, volontà, comunità divennero ter-
mini assoluti oltre la giustificazione razionale e per mezzo dell’estra-
niamento dalla sfera della civilizzazione, sede per i nazisti di ragione,

38
3. narrazioni storiche della shoah

internazionalismo, materialismo, finanza ed ebraismo. Facendo pre-


valere nel processo decisionale l’ideologia antiutilitarista sulla razio-
nalità tecnica commisurante mezzi e fini, Hitler condusse il Terzo
Reich alla catastrofe bellica. Secondo Herf, diversamente da Bauman,
lo sterminio degli ebrei non ha rappresentato il destino del mondo
moderno, né, in disaccordo con Horkheimer e Adorno, l’involuzione
dialettica della ragione illuminista nel dominio; tutt’al più Auschwitz
rimane «un monumento all’insufficienza e non all’eccesso di ragione
nel Reich hitleriano» (ivi, p. 320).

3.3
Antisemitismo eliminazionista tedesco:
Daniele J. Goldhagen
Non c’è stato libro tanto controverso e discusso nella storia della sto-
riografia sulla Shoah quanto I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi
comuni e l’Olocausto, pubblicato dal politologo statunitense Daniele J.
Goldhagen nel marzo del 1996. Con l’uscita della versione tedesca in
Germania divenne un bestseller, facendo infuocare sui quotidiani te-
deschi un’appassionata discussione tra storici e non. L’enorme ricezio-
ne di pubblico e di critica è dovuta alla sua tesi centrale: lo sterminio
degli ebrei d’Europa è stato un progetto nazionale accolto e sostenuto
dall’intera società tedesca dove un «antisemitismo eliminazionista»
era il «senso comune» dell’epoca (Goldhagen, 1998). Goldhagen
spiega perché lo sterminio avvenne rivolgendo l’attenzione non tan-
to al gruppo dirigente nazista né al processo decisionale quanto alle
azioni dei «realizzatori» (ss, poliziotti, guardie dei campi) esempio di
«tedeschi comuni». A Goldhagen gli agenti materiali dello sterminio
appaiono «volonterosi carnefici» che parteciparono in piena coscien-
za, perfettamente in grado di intendere, giudicare e comprendere quel
che stavano facendo, tutt’altro che neutrali e passivi, sulla base di un
modello cognitivo-culturale secondo cui l’ebreo era diverso dal tede-
sco, l’opposto binario del tedesco, non un diverso innocuo, bensì mali-
gno e pernicioso, pervasivo nella società tedesca sin dal xix secolo. La
volontarietà – espressa nel libro per mezzo della forma grammaticale
attiva – lo zelo e il sadismo con cui questi uomini agirono escludono il
ricorso a interpretazioni “convenzionali”, come dire essi non uccisero
perché costretti a farlo o per acritica obbedienza agli ordini, tantome-

39
la shoah

no per le pressioni sociali subite, né per favorire la propria promozio-


ne personale o perché, essendo parte della macchina burocratica dello
sterminio, non erano nella posizione di cogliere nella globalità gli ef-
fetti delle singole azioni intraprese, ma esclusivamente perché erano
animati da un antisemitismo demonologico che relegava gli ebrei fuori
dalla famiglia umana. Pur avendo il merito di aver rimesso al centro
dell’attenzione l’antisemitismo e la questione dell’intenzionalità del
crimine sottovalutati dal funzionalismo, questa spiegazione monocau-
sale, che sfida la pluralità delle motivazioni usualmente riconosciuta
alla base delle azioni umane, appare circolare e deterministica sul piano
logico, razzista e demonizzante nei confronti dei «tedeschi» osser-
vati con l’occhio giudicante dell’antropologo che etnicizza l’adesione
della società tedesca a un certo ordine di valori rispetto al quale lo ster-
minio degli ebrei appare ai tedeschi giusto. L’eccezionalità attribuita
all’antisemitismo eliminazionista lo sottrae alla comparazione, mito-
logizzandolo. Il manicheismo moralista e la “via speciale” imboccata
dalla Germania verso lo sterminio si trasforma in un’apologia del civile
Occidente contrapposto ai cattivi “tedeschi” (Shandley, 1998; Bauer,
2009, pp. 126-48; Zamperini, 2001, pp. 6-7).

3.4
Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori:
Raul Hilberg
Il 1961 è un anno significativo per la ricerca sulla Shoah. Mentre a
Gerusalemme si tiene il processo Eichmann, a New York è data alle
stampe la prima edizione di La distruzione degli ebrei d’Europa, opera
canonica sul genocidio degli ebrei. Il suo autore Raul Hilberg, vienne-
se d’origine e statunitense d’adozione, considera la distruzione degli
ebrei d’Europa come un avvenimento senza precedenti nella storia per
dimensioni e tipo di organizzazione, il punto di arrivo dell’evoluzione
ciclica di secolari politiche antiebraiche e l’esito dell’applicazione di
una serie progressiva di misure amministrative (Hilberg, 1999, p. 6).
La distruzione degli ebrei d’Europa richiese l’impegno diretto e
congiunto di quattro gerarchie distinte (burocrazia ministeriale, forze
armate, apparato economico-finanziario, partito nazionalsocialista e
ss, suo braccio armato) facenti capo al Führer. Hilberg ritiene che le
migliaia di funzionari coinvolti non avrebbero potuto prevedere sin

40
3. narrazioni storiche della shoah

dall’inizio l’esito a cui si sarebbe giunti al termine del 1941. Questo


processo che non corrispose a un piano prestabilito si articolò in fasi
strettamente correlate e susseguenti: 1. definizione a mezzo decreto;
2. espropriazione e spoliazione economica; 3. trasferimento e concen-
trazione nelle grandi città, ghettizzazione e sfruttamento della forza
lavoro; 4. annientamento fisico con i reparti mobili di massacro nei
territori sovietici occupati, deportazione su scala continentale ed eli-
minazione sistematica nei centri di sterminio (ivi, p. 51).
Secondo Hilberg se si vuole «capire questa storia in tutta la sua am-
piezza» è necessario guardarla dalla prospettiva dei comuni funzionari
tedeschi (Hilberg, 1996, p. 61) chiamati a svolgere compiti straordinari
per realizzare un’enorme impresa di distruzione in esecuzione delle leg-
gi emanate e degli ordini impartiti dall’alto grazie a «una disposizione
dello spirito», a una «consonanza» e a un «sincronismo» d’intenti
(Hilberg, 1999, p. 53). I burocrati tedeschi esercitarono le loro competen-
ze specifiche in un contesto d’azione segnato dall’ipertrofia legislativa,
dalla moltiplicazione dei provvedimenti – le direttive scritte lasciarono
via via posto ai provvedimenti verbali – e da una progressiva evanescenza
della fonte ultima d’autorità del Führer. Questi uomini furono in grado
di fronteggiare gli ostacoli amministrativi, economici e psicologici che
ne gravarono l’azione perché percepirono questo sforzo come un even-
to esclusivo, un’esperienza vissuta provvedimento dopo provvedimen-
to (ivi, pp. 1121-2). Con Carnefici, vittime e spettatori Hilberg allarga la
prospettiva d’osservazione sulla Shoah. Dal piano politico-decisionale e
organizzativo-amministrativo si sposta ai gruppi e agli individui secondo
un diverso approccio metodologico. A prescindere dalla rilevanza politica
i singoli sono inclusi nella narrazione storica. Il carnefice non si trova più
al centro della scena, ora occupata dalla triade carnefici-vittime-spettatori
(Hilberg, 1996, pp. 190-1). Nella Distruzione degli ebrei d’Europa, ispi-
randosi all’architettura musicale di Beethoven, l’artista-storico – così lui
stesso si concepisce –, Hilberg ricostruisce il processo di distruzione na-
zista come una sinfonia i cui spartiti sono i documenti della burocrazia
nazista (Hilberg, 1999, pp. 81-9). In Carnefici, vittime e spettatori, con una
serie di brevi e incisivi ritratti, dà spazio alle testimonianze delle vittime
dopo averle tenute nell’ombra per decenni dalla sua narrazione storica:
solo fonti secondarie secondo un approccio radicalmente oggettivista
(Amodio, De Maio, Lissa, 1998, pp. 6-13; Hilberg, 2001; Finchelstein,
2005, pp. 3-48).

41
la shoah

3.5
Storia memoriale e integrata: Saul Friedländer
Altra imprescindibile fonte di studio e riflessione sulla Shoah è l’opera
pluridecennale di Saul Friedländer, praghese d’origine, cittadino israe-
liano e statunitense, di particolare interesse perché profondamente ispi-
rata dalla sua storia personale di ebreo cosmopolita e sradicato, scampa-
to alla persecuzione nazista da bambino (Friedländer, 1990). Punto di
arrivo della sua ricerca sono i due volumi della Germania nazista e gli
ebrei. Con il primo, Gli anni della persecuzione 1933-39 (1997), si soffer-
ma sulla politica antiebraica nazista prima del conflitto mondiale, con il
secondo, Gli anni dello sterminio 1939-45 (2007), si concentra sull’elimi-
nazione degli ebrei. Con questo progetto, che lo ha impegnato dal 1990
al 2006, Friedländer propone una storia integrata, inglobante, totale,
pluridimensionale e polifonica, integrando due contrastanti paradigmi
storiografici: quello tedesco e anglosassone, centrato sui carnefici e sul
processo politico-decisionale nazista, e quello ebraico-israeliano al cui
centro stanno le vittime viste in chiave eroico-apologetica (Goldberg,
2009, pp. 220-37). Totalità di avvenimenti definita dalla convergenza
di elementi distinti – politiche, provvedimenti e decisioni tedesche, re-
azioni del mondo circostante, opposizione delle vittime –, la Shoah è
narrata alla luce della sua pluridimensionalità.
Nell’Europa occupata l’applicazione delle decisioni naziste dipese
dalla disponibilità, dalla reticenza delle autorità e dei funzionari locali,
dalle azioni individuali o collettive delle vittime. Traccia delle interazio-
ni tra ebrei, nazisti e popolazioni non ebree dei paesi occupati è rimasta
nelle testimonianze, nelle memorie, nei diari, nelle lettere delle vittime.
Restituendo voce alle vittime Friedländer intende dare risalto all’espe-
rienza della persecuzione vissuta «in tempo reale» per mantenere viva
la memoria e comunicare al lettore quel misto di straniamento, incredu-
lità, eccesso e ordinarietà, quel «senso primario di smarrimento» che di
primo acchito la persecuzione suscitava nelle vittime (Friedländer, 1993,
pp. 102-16). Il senso di disorientamento, di disperazione, di impotenza e
catastrofe imminente sentito dalle vittime precede per Friedländer ogni
sforzo di comprensione e spiegazione storica: prima viene la memoria,
poi la storia. Le voci individuali delle vittime interrompono l’ossessi-
vo inveire del discorso dell’antisemitismo «redentivo» (Friedländer,
2004, pp. 81-120; 2009, pp. 21-40) amplificato e propagandato nell’o-
pinione pubblica europea per legittimare la soluzione finale.

42
3. narrazioni storiche della shoah

figura 3.1
Schema triangolare delle relazioni tra gli attori del genocidio
Partecipazione
diretta
Saccheggio sanzionato/ Aiuto indiretto
non sanzionato governo genocidio

cen e
c

ca
r

Co
to
za

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inv
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qu
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e
Ac

o
b

c'
Inibizione Leadership
politica governo c'' e assassini
Fuga/
nascondersi Elementi
Soccorso/ Lenta Elusione/ Veloce del genocidio
resistenza implementazione
genocidio
Acquietamento implementazione
genocidio
vittima
Fonte: tratto da Ehrenreich, Cole (2005).

Per Friedländer, Hitler e la propaganda di Stato sono stati i fattori


decisivi che alimentarono il fervore ideologico antiebraico basato sul
credito incondizionato dato a Hitler, padre provvidenziale del popolo,
garante della purezza razziale della comunità, annientatore del bolsce-
vismo e della plutocrazia ebraica. I tedeschi comuni parteciparono alla
persecuzione perché interiorizzarono l’antisemitismo redentivo hitle-
riano. Nel più ampio contesto europeo la generale mancanza di solida-
rietà verso gli ebrei fu il terreno fertile sul quale questo ardore ideologi-
co poté radicarsi, accomodando ostacoli e dinamiche strutturali della
società moderna con interessi di partito, di classe, dell’industria e delle
Chiese (Friedländer, 2004, pp. 16-8).

43
4
Vittime:
testimonianza, memoria e storia
Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte:
non solo in Lager.
Primo Levi

4.1
Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager,
musulmani, sopravvissuti

La soluzione finale del problema ebraico ha causato quasi sei milioni di


vittime (Benz, 1998). Due terzi della comunità ebraica continentale è
scomparsa tra la fine del 1941 e la primavera del 1945. Questi dati nume-
rici danno un’idea chiara della dimensione quantitativa del genocidio.
Nei quattro angoli dell’Europa, famiglie e comunità intere furono spaz-
zate via dalla furia nazista. Il principale teatro del massacro fu l’Europa
orientale (Traverso, 2005, pp. 813-49). La Polonia, occupata e smem-
brata da russi e tedeschi, costituì il cuore dello sterminio sistematico:
2,7 milioni di ebrei polacchi vennero uccisi, i centri di sterminio di Au-
schwitz, Treblinka, Sobibór, Chełmno, Bełžec e Majdanek sorsero sul
suolo polacco. Il computo delle vittime, complessivo o relativo ai diversi
paesi coinvolti è indubbiamente necessario per cogliere la dimensione
della Shoah (tab. 4.1). Tuttavia le cifre assolute o relative danno solo
una comprensione parziale di quanto è accaduto. Dietro le grandi mas-
se di morti ci sono singole individualità, vittime di diverse età, genere,
nazionalità, istruzione, professione, pregresso politico e religioso, che
differentemente resistettero alla privazione della libertà, alla perdita dei
cari e dei compagni di prigionia – fucilati, gassati, affamati –, allo sfini-
mento fisico e psichico, alla minaccia diretta, continua e incombente
della morte. Fortuna e virtù, il caso insieme alla prontezza ad approfit-
tare di favorevoli quanto impreviste circostanze, permisero solo a una
ristretta minoranza di detenuti di uscire miracolosamente vivi dall’in-
ferno dei Lager, di evitare gli eccidi di massa o addirittura di riemergere

44
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

tabella 4.1
Numero degli ebrei uccisi nei vari paesi interessati dalla Shoah

Totale delle vittime* Percentuale sul totale dei residenti ebrei per paese

Austria 50.000 26%


Belgio 23.000 34%
Bielorussia 245.000 65%
Danimarca 120 1,6%
Francia 77.000 22%
Germania 170.000 30%
Grecia 60.000 83%
Italia 7.550 15%
Iugoslavia 68.500 83%
Lussemburgo 764 95%
Norvegia 745 43%
Olanda 102.000 63%
Paesi Baltici 225.000 95%
Polonia 2.700.000 77%
Slovacchia 263.000 73%
Ucraina 1.200.000 44%
Ungheria 606.000 70%
* Queste cifre tratte da diverse fonti sono approssimate in alcuni casi per eccesso, in altri per difetto.

dalle fosse comuni, miracolosamente incolumi dopo le esecuzioni. I più


dovettero arrendersi. Nella distinzione tra vita e morte, i “sommersi”,
coloro che non ce la fecero, e i “salvati”, i superstiti, condivisero un’e-
sperienza e una conoscenza del male e della violenza del tutto fuori dal
comune, al limite della narrazione. Chi ne ha avuto la forza l’ha raccon-
tata a voce o l’ha fissata sulla carta per sgravarsi da tanta sofferenza silen-
ziosamente patita, tenere viva la memoria col trascorrere del tempo, dar
voce a chi non ha potuto raccontare e mettere a tacere chi vigliaccamen-
te nega che la Shoah è accaduta. A settant’anni dai fatti pochi, sempre
di meno, sono i testimoni del disastro. Consultando i diari, le lettere,

45
la shoah

le memorie, i biglietti gettati dai treni in corsa verso i Lager, i foglietti


nascosti dove possibile e dissotterrati dopo tanto tempo, riacquistano
tono le voci, spessore i vissuti, fisionomie i volti e ossigeno il pensiero di
chi vuole comprendere il soverchiante orrore della distruzione.
La Shoah ha posto fine in Europa all’ebraismo orientale, ha sradi-
cato l’yiddishkeit, quello stile di vita proprio del giudaismo ortodosso
ashkenazita di cui erano parte la lingua yiddish e il dimorare in piccoli
villaggi – shtetl. Un’indelebile testimonianza della cancellazione del-
l’yiddishkeit hanno lasciato queste pagine del Canto del popolo yiddish
messo a morte scritte dall’ebreo bielorusso Itzhak Katzenelson:

Così ci hanno distrutto, dalla Grecia fino alla Norvegia, fino davanti Mosca,
fino a sette milioni, senza il conto dei bambini yiddish dentro i grembi [...].
Non esistono più. Non chiedete laggiù voi d’oltremare, non chiedete più no-
tizie di Kasrilevke, di Yehupetz, rinunciate. Non andate a cercare i Menahem
Mendel, i Tevye lattivendoli, gli Shloime il ricco, i Motke furfanti, non cercate
[...]. La voce della Torà non sarà più sentita uscire da una yeshivà, da una casa di
studio, e giovanetti pallidi nobili di studio, approfonditi nella Ghemarà, assor-
ti nei pensieri [...]. Estinti ormai, rabbini, capi di yeshivà, yidn studiosi, grandi
sapienti magri, asciutti e fragili, ripieni di Talmud, commentatori, piccoli yidn
con le grandi teste, elevate fronti, occhi limpidi, non esistono più né esisteran-
no. Nessuna madre cullerà un bambino, non morirà né nascerà nessuno tra gli
yidn, non ci saranno canti commoventi di poeti yiddish, di valenti scrittori, è
tutto già passato. Non ci saranno più teatri yiddish, non si riderà più in quei
posti né scivolerà lenta una lacrima, e musicisti yiddish e pittori, i Bartchinski,
non comporranno più tra il dolore e la gioia, cercando nuove strade [...]. Guai
a me, ora non c’è nessuno. C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. C’è
stato un popolo, c’è stato, e adesso niente (Katzenelson, 2009, pp. 106-10).

Un destino, quello della distruzione della cultura yiddish e dell’ebrai-


smo orientale, che trovava nella scrittura e nella parola gli strumenti
per resistere all’oblio completo a cui stava andando incontro. Sebbene
larga parte degli scritti andò perduta a seguito della liquidazione del
ghetto di Varsavia, non bisogna dimenticare quanto lo storico Ema-
nuel Ringelblum diceva degli abitanti del ghetto: «scrivevano tutti...
i giornalisti e gli scrittori, ma anche gli insegnanti, le persone in vista,
i giovani e persino i bambini. La maggioranza di costoro teneva diari
nei quali i tragici avvenimenti di ogni giorno si riflettevano attraver-
so il prisma dell’esperienza personale» (Wieviorka, 1999, p. 19). Fino
a pochi istanti prima della morte, molti, non solo a Varsavia, scrisse-

46
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

ro lettere di addio, indirizzate a parenti e amici. Da Williampola, nel


ghetto di Kaunas (Lituania), il 19 ottobre 1943, un uomo di nome El-
chanan scriveva ai figli: «Abbiamo scoperto che il nostro destino sarà
deciso nei prossimi giorni: il ghetto in cui ci troviamo sarà smantellato
e abbattuto. Solo Dio sa se ci uccideranno tutti o se qualcuno sopravvi-
vrà» (Bacharach, 2011, p. 67). Una donna, di nome Mushiya, provata
dalla sofferenza e terrorizzata dalla paura di morire scriveva da Terno-
pil (Ucraina) il 7 aprile 1943: «prima di andarmene da questo mondo
vorrei lasciarti alcune parole. Se mai riceverai questa lettera, io e tutti
noi qui non saremo più vivi. La nostra fine si avvicina. Lo sentiamo e lo
sappiamo. Siamo tutti destinati a morire, come tutti gli ebrei innocenti
che sono già stati liquidati [...]. È una cosa terribile ma è la pura veri-
tà» (ivi, p. 89). Dal ghetto di Šiauliai (Lituania), Shmuel Mintzberg
annotava con estrema e gelida concisione: «Noi confermiamo che il 7
luglio 1944 è stato emesso l’ordine di evacuare il ghetto di Shavli. Vo-
gliamo rendere noti i nostri nomi per le generazioni future [...]. Non
sappiamo dove ci stanno portando. Nel ghetto duemila ebrei aspetta-
no l’ordine di andare. Il destino è sconosciuto. Il clima è terrificante»
(ivi, p. 100). Un progetto di sterminio totale come quello nazista non
contemplava eccezioni: tutti andavano uccisi, dal lattante agli anziani,
ogni presenza ebraica cancellata.
La differenza di genere tra le vittime ebree – debitamente conside-
rata dagli studiosi solo a partire dagli anni Novanta – comportò una
diversa esperienza della persecuzione, una specificità della deportazione
femminile (Chiappano, 2009, p. 71). Complessivamente, tra le vittime,
più della metà furono donne. Fino a prima dell’inizio delle deporta-
zioni sistematiche verso i Lager, nei ghetti esse godettero di un certo
privilegio rispetto agli uomini, i quali furono decimati rapidamente a
causa di malattie, malnutrizione e sfruttamento del lavoro forzato. Con
l’inizio delle evacuazioni dei ghetti la situazione si capovolse: lo scarso
impiego delle donne al lavoro si tradusse nella deportazione immediata
verso i centri di sterminio o di concentramento dove la selezione andò
terribilmente a svantaggio di tutti coloro, donne comprese, che non
erano considerati in grado di svolgere un lavoro dentro il Lager. Se ad
Auschwitz solo un terzo dei sopravvissuti furono donne, nei campi di
sterminio di Chełmno, Bełžec, Sobibór e Treblinka, dove i sopravvis-
suti furono pochissimi, quasi nessuna donna rimase in vita (Hilberg,
1997, pp. 126-8). Il Lager femminile di Ravensbrück e il settore bi di

47
la shoah

Auschwitz-Birkenau furono i luoghi principali della deportazione fem-


minile. Una “ferita di genere” venne inflitta alle internate ebree (De
Angelis, 2007, pp. 105-14). Nei Lager il corpo della donna era violato
dalla completa rasatura iniziale, sottoposto a trattamenti sterilizzanti,
lasciato nudo sotto gli occhi di ss compiaciute. Liliana Segre, deportata
ad Auschwitz, della nudità vergognosamente patita racconta come

mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umi-
liante e terribile [...]. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo
armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore [...] di colpo, nello
stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno
della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemme-
no collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgra-
ziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla,
lì intorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano
sghignazzando, oppure si mettono in un angolo nascosto a osservare la scena
di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo
fatto di essere lì, nude (Padoan, 2010).

Con l’interruzione del ciclo mestruale e il deperimento delle forme pla-


stiche causate dalla malnutrizione, le internate perdono la più intima
femminilità legata alla capacità generativa. È stato più volte sottolineato
come, rispetto alla prevalente ostilità e indifferenza nei riguardi dell’al-
trui sofferenza o ai celati legami intessuti tra i compagni detenuti, le
donne, sfidando l’individualismo imperante dettato dal costante stato
di necessità, instaurarono rapporti di reciproco sostegno. Giuliana Te-
deschi, deportata ad Auschwitz con il marito e la suocera, ha raccontato:

Nelle ore di abbandono ritornavano i richiami del mondo lasciato e insieme


il bisogno di stringersi alle compagne, di piangere e di sperare con loro. Le
cuccette delle italiane del convoglio di aprile erano tutte vicine: ottanta gio-
vani donne erano entrate nel Lager [...]. Così sperimentai che cos’era la mano
di Zilly, una piccola mano calda, modesta e paziente, che la sera tratteneva la
mia, che mi aggiustava la coperta intorno alle spalle, mentre al mio orecchio
una voce tranquilla e materna sussurrava: «Buona notte, cara; mia figlia ha la
tua età!» [...]. Così trovai Olga un giorno e rimanemmo nascoste nell’angolo
di un blocco. Sentì d’improvviso che avrei potuto parlare e che lei avrebbe
potuto intendermi. Io parlai del senso dionisiaco della vita e lei parlò dello
spirito e del corpo. Le mie pupille si persero nel bianco dei suoi occhi, non
vedemmo più le baracche, dimenticammo i fili spinati, e la sconfinata libertà

48
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

dello spirito ci inebriò al di sopra di ogni limite imposto dall’umana bestiali-


tà. Ci scegliemmo compagne (Tedeschi, 2004)1.

E i bambini, soggetto a lungo marginalizzato nella storiografia sulla


Shoah, come vissero la persecuzione, quali furono le reazioni alla pro-
gressiva privazione materiale e affettiva? Dei bambini ebrei che viveva-
no nell’Europa dell’occupazione nazista il 90%, circa un milione e mez-
zo, perì (Dwork, 2005, p. 12; Di Palma, 2014, p. 17). Se in larga misura
dalla selezione per il lavoro all’ingresso ad Auschwitz essi risultavano
inabili perché ancora troppo piccoli, molti si mostrarono abili fingendo
di avere più anni di quanti in realtà ne avevano come fecero Elie Wiesel
(Wiesel, 2010, p. 37) e Imre Kertész (Kertész, 2002). Una volta nel La-
ger si faceva in fretta a diventare adulti, non c’era scelta, la concorrenza
per sopravvivere era spietata. Liliana Segre, che al momento della de-
portazione ad Auschwitz aveva 13 anni, ricorda: «imparai in fretta che
cosa voleva dire Lager. Voleva dire morte-fame-freddo-botte-punizio-
ni; voleva dire schiavitù, voleva dire umiliazioni-torture-esperimenti»
(aa.vv., 1996, p. 57). La dodicenne viennese Ruth Klüger dimostrò
un’immediata presa di coscienza della situazione in cui si trovava appe-
na scesa sulla banchina degli orrori di Auschwitz: «avrei dovuto pro-
vare sollievo, e per qualche istante lo provai, avevo finito di crepare di
caldo in quella scatola da sardine, respiravo aria fresca. Ma l’aria non era
fresca, aveva un odore che non esiste altrove su questa terra. E io seppi
d’istinto e subito che quello non era un luogo per piangere, per attirare
l’attenzione su di sé. Affaticata, stravolta, esausta, inghiottii l’orrore che
mi saliva in gola come vomito» (Klüger, 2005, p. 36).
Già molto prima della deportazione verso i Lager i bambini espe-
rirono netti cambiamenti in famiglia e a scuola. Per il piccolo Jona
Oberski, nato ad Amsterdam nel 1938, la memoria dell’offesa comincia
nella sua città, con un torto fattogli da un bambino più grande che
gli strappa il cappuccio dalla testa dicendogli «Ah! Ah! che sporca
mantellina ebrea» (Oberski, 2010, pp. 16-7). L’esclusione dalla scuola,
per via dell’emanazione nel 1938 delle leggi razziali fasciste, apparve
ingiusta, un’ipoteca negativa sul proprio futuro, a Pietro Terracina che

1. Richiamiamo l’attenzione su alcune delle più importanti voci europee della te-
stimonianza sulla deportazione femminile. Tra le detenute ebree L. Millu, Il fumo di
Birkenau, Giuntina, Firenze 2008; E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano
1990. Tra le politiche M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino,
Bologna 1994; C. Delbo, Un treno senza ritorno, Piemme, Milano 2002.

49
la shoah

allora aveva 8 anni: «mi stavano facendo un torto e io lo sentivo [...]


pensavo che non avrei più potuto frequentare la scuola, che mi stavano
togliendo la possibilità di riuscire nella vita» (Silvestri, 2007, p. 35),
un momento di drammatica cesura – la fine dell’infanzia – a Liliana
Segre: «quando mio papà mi spiegò che in quell’autunno non sarei
più potuta andare alla mia scuola (pubblica) perché ero una bambi-
na ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare
la mia vita di prima. Quel momento, eravamo a tavola, è il momento
che divide la mia infanzia tra il prima e il dopo» (aa.vv., 1996, p. 50).
Ancora prima delle deportazioni, tanti genitori, presentendo il peggio
per i propri piccoli, a rischio di non rivederli mai più, nascosero i figli
presso “famiglie adottive” di conoscenti o sconosciuti (Dwork, 2005,
pp. 91-138), o in istituti infantili per ebrei o di religiosi cristiani, dove i
bambini diventarono invisibili, tenuti sotto falso nome.
Tra le testimonianze coeve alla Shoah impressionano il diario scritto
dalla quindicenne Mary Berg dal 10 ottobre 1939 al 5 marzo 1944, per
la lucidità con cui fa la cronaca della distruzione del ghetto di Varsa-
via (Berg, 2009) e i settantanove disegni miniaturizzati, delle dimen-
sioni di una cartolina, eseguiti nel blocco 29 del Lager di Buchenwald
dall’allora sedicenne berlinese Thomas Geve che illustrano, con cura
e semplicità, i vari aspetti della detenzione nei campi di Auschwitz,
Gross-Rosen e Buchenwald (Geve, 2011). Questa penetrante capacità
espressiva è sideralmente distante, quanto la vita del campo dal mondo
fuori, dalla mancanza e dal bisogno della parola del «senza-nome», del
piccolo «figlio di Auschwitz», Hurbinek, nato ad Auschwitz, a cui mai
nessuno aveva insegnato a parlare, capace solo di articolare un’unica pa-
rola incomprensibile «mass-klo», «matisklo» (Levi, 1979, pp. 166-7).
Emblema della distruzione di ogni residuo di personalità nei de-
tenuti nel Lager è il musulmano. Ridotto allo stremo, il musulmano è
ultimo fra gli ultimi nel Lager, ormai incapace di lavorare, prigioniero
dell’abisso incolmabile del suo stomaco che lo isola dall’infernale di-
namica sociale del Lager, sbeffeggiato, picchiato e ignorato nella sua
sofferenza dagli altri. Egli è un «cadavere ambulante, un fascio di rea-
zioni, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia» (Améry, 2008,
p. 39). Non più padrone del suo corpo, né capace di difendere la sua
immediata prossimità fisica e di credere ancora nella sua salvazione,
il musulmano sta in «un terzo regno tra la vita e la morte» (Sofsky,
1995, p. 294), vegeta nell’anticamera della morte, in quel «punto in

50
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

cui, pur restando in apparenza uomo, l’uomo cessa di essere uomo»


(Agamben, 1998, p. 50). Quasi tutti i musulmani morirono nel campo,
alcuni scampando le selezioni che si facevano nelle baracche riusciro-
no a riacquistare il controllo delle loro vite e a sopravvivere. Feliksa
Piekarska ha testimoniato della condizione estrema che ha patito: «Io
sono personalmente stato per poco tempo un musulmano. Ricordo
che dopo il trasporto nella baracca crollai completamente dal punto
di vista psichico. Il crollo si manifestò in questo modo: fui sopraffatto
da una generale apatia, nulla mi interessava, non reagivo più né agli
stimoli esterni né a quelli interni, non mi lavavo più, e non solo per
mancanza di acqua, ma anche quando ne avevo l’occasione; non senti-
vo più nemmeno la fame...» (ivi, p. 155).
Dopo la fine del Terzo Reich vi erano, tra gli ebrei, più di un milione
di superstiti: coloro che non erano stati coinvolti nella fase finale del
processo di distruzione perché i governi li risparmiarono o perché risie-
devano in città ormai fuori dalla portata dei tedeschi, quei coraggiosi
che avevano evitato il peggio nascondendosi, resistendo o camuffandosi
in ogni modo e luogo utile, tutti quelli che erano rimasti prigionieri
fino alla liberazione dei territori controllati dai nazisti. Tra questi ulti-
mi, oltre agli ebrei dei campi di lavoro e dei ghetti non ancora comple-
tamente liquidati, vi erano i reduci dei Lager. Secondo Raul Hilberg
«esiste una gerarchia inequivocabile tra gli ebrei che sopravvissero alla
guerra nazista. In questa gerarchia i criteri decisivi sono l’esposizione
ai pericoli e l’immensità della sofferenza. I membri delle comunità che
non furono colpite o le persone che continuarono a vivere nella propria
casa non sono considerati affatto dei sopravvissuti. All’estremità della
scala, quelli che venivano dalle foreste o dai campi sono i sopravvissuti
per eccellenza» (Hilberg, 1997, p. 182). I superstiti dei Lager sono por-
tatori esclusivi di una conoscenza originale sulla riduzione dell’essere
umano a una straordinaria condizione di privazione.

4.2
Universalità della testimonianza:
Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry
Oggi, nell’«era del testimone» (Wieviorka, 1999) il valore universale
della Shoah è legato alla narrazione del male estremo fatta dal sopravvis-
suto. Raccontando l’esperienza personale e più intima dell’offesa ricevu-

51
la shoah

ta, l’ex deportato riflette sul significato generale, universale di quanto gli
è accaduto. Con Se questo è un uomo Primo Levi vuole «fornire docu-
menti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» (Levi,
1979, p. 9), far luce sul grado di dignità umana dell’internato che ad
Auschwitz è arrivato a toccare il fondo. Come un antropologo che stu-
dia dal suo interno una realtà e una condizione umana oltre la comune
esperienza, Levi spinge chi legge a partecipare a una sorta di esperimento
mentale (Bucciantini, 2011), a compiere uno sforzo di immaginazione:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la
sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto
possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di
dignità e discernimento poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di per-
dere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita
o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato in
base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significa-
to del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo
esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi, 1979, p. 23).

Attraverso e al di là di quella del detenuto 174517 – numero che Levi


portava tatuato al braccio – è la possibilità di essere ancora umani nel
progressivo trasmigrare nell’inumano a occupare lo spazio di una lucida
narrazione. Ne La notte Elie Wiesel testimonia l’incrinatura della sua
fede in Dio, l’aspro confronto nel suo animo con un Dio assente nei
giorni dell’orrore ad Auschwitz. Credente e studioso della Torah, il gio-
vane Elie, nel Lager, in occasione della preghiera per la celebrazione del
Rosh Hashanah, ultimo giorno dell’anno ebraico, si rivolta contro Dio:
Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella
tempesta. – Sia benedetto il Nome dell’Eterno! Ma perché, ma perché bene-
dirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bam-
bini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche
di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Au-
schwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche della morte? Come avrei potu-
to dirGli: «Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra
i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre
madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu
che ci hai scelto per essere sgozzati al Tuo altare? (Wiesel, 2010, p. 69).

Lungi dal condurre alla morte della sua fede in Dio, l’esperienza di Au-
schwitz non placa la lotta di Wiesel con un Dio amico, per il quale si

52
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

nutre più pietà per la sua intangibile solitudine che rabbia per l’imper-
scrutabile scelta dell’inazione al momento del bisogno (Wiesel, 2009,
p. 197). A fronte delle conseguenze incalcolabili avute da Auschwitz
sull’umanità, sulla sua storia, sulla percezione dell’uomo, sul significa-
to di certe parole (per Wiesel notte è sinonimo di morte), sulla capacità
di riconoscere i limiti e l’assenza di limiti riguardo alle persone (nell’es-
sere buoni e cattivi) rispetto all’insanabilità della frattura fra creatura
annientata e creatore silente, Wiesel si chiede: «Ma allora, che cosa ci
resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione
forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda» (ivi, p. 19).
Tra le fila dei “colti laici” al pari di Levi e diverso dai “colti creden-
ti” come Wiesel, è Jean Améry che testimonia nel suo Intellettuale ad
Auschwitz della sua esperienza nel Lager da intellettuale scettico-uma-
nista, agnostico, privo di credi, religiosi o politici, qual era. Raccon-
tando di sé Améry pone al centro della sua riflessione l’intellettuale
stretto nell’urto tra spirito e orrore, fra utilità e inopportunità della
vita dello spirito ad Auschwitz. Rammentando quanto gli è accadu-
to, Améry risponde a questo interrogativo: «la cultura e il sostrato
intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero
del campo? L’hanno aiutato a resistere?» (Améry, 2008, p. 34). La
sua risposta è negativa. Essere dotati di una ben sviluppata coscienza
estetica e di un’attitudine al pensiero astratto si è rivelato svantaggioso
perché i lavoratori dell’ingegno mancavano generalmente di agilità fi-
sica e di coraggio, della capacità di reagire prontamente o di prevenire
efficacemente i torti a cui erano regolarmente fatti beffe dai compagni
di prigionia. L’intellettuale avvezzo alla frequentazione del tedesco
letterario resta isolato poiché patisce l’incomunicabilità del Lager. Il
pensiero analitico-razionale nel campo «conduceva direttamente ver-
so una tragica dialettica di autodistruzione»: mettere in dubbio, come
era uso per l’intellettuale, la realtà di qualcosa, in questo caso quella
del Lager, risultava controproducente a fronte della ferrea illogicità
della logica del campo, dove rispettare le regole era materialmente im-
possibile. I meno avvezzi alla riflessione si trovavano senza saperlo in
vantaggio nella lotta per stare più a lungo possibile in vita, così come i
detenuti politici e religiosi rispetto all’intellettuale Améry, agnostico e
apolitico. Tuttavia quello spirito di cui ad Auschwitz ci si faceva poco,
inservibile ai fini della sopravvivenza materiale, talvolta, al pari della
fede per i credenti, aiutava l’intellettuale al superamento di sé.

53
la shoah

Un inatteso sollievo prova Levi, altro intellettuale ad Auschwitz, la


cui laicità esce rafforzata dall’orrore del Lager, quando avverte la «voce
di Dio» recitando al compagno di commando Pikolo alcuni versi dan-
teschi superando il qui e ora che l’opprimeva: «per un momento, ho
dimenticato chi sono e dove sono» (Levi, 1979, p. 102). Per Levi il Lager
equivalse all’università poiché ricorda, «ci ha insegnato a guardarci in-
torno e a misurare gli uomini» (Levi, 2009, p. 1102). Per Améry c’è stata
invece solo degradazione: «Ad Auschwitz non siamo diventati più saggi
[...]. Neanche nel campo siamo diventati più profondi [...] ad Auschwitz
non siamo nemmeno divenuti migliori, più umani, più benevoli nei con-
fronti dell’uomo e più maturi moralmente» (Améry, 2008, p. 52).

4.3
Dovere della memoria,
crisi della testimonianza e “testimoni integrali”
Primaria rilevanza, tra le altre fonti documentarie di cui si serve lo
storico della Shoah per ricostruire la verità su quanto è accaduto, va
attribuita alla memoria dei superstiti. In un’epoca come quella che vi-
viamo in cui, mentre Auschwitz sta al centro della memoria collettiva
occidentale, si avvicina l’ora dell’ultimo testimone (Bidussa, 2009),
per i sopravvissuti dei Lager raccontare l’esperienza della deportazione
è sempre più un dovere morale e civico in quanto far conoscere alle
nuove generazioni quel terribile passato può aiutare a evitare che qual-
cosa di simile possa ripetersi.
Una duplice impellenza continua a spingere l’ex deportato a testi-
moniare: immediatamente dopo la liberazione dal Lager, quel bisogno
violento ed elementare di “fare gli altri partecipi”: questo tormento
spinse Primo Levi a partorire, «a scopo di liberazione interiore»,
Se questo è un uomo (Levi, 1979, p. 9)2; oggi, l’impellenza della fine:
«semplicemente, con parole povere; ma bisogna parlare [...] perché
siamo alla fine» (Semprún, Wiesel, 1996, p. 45)3.

2. Ricordava Levi che durante la prigionia «la speranza di sopravvivere coincide


insomma con la speranza ossessiva di far sapere agli altri, di sedere accanto al fuoco,
attorno alla tavola, e raccontare» (Bravo, Jalla, 1986, p. 9).
3. Questa “impellenza della fine” è affermata anche da Primo Levi: «Noi super-
stiti siamo dei testimoni, ed ogni testimone è tenuto (anche per legge) a rispondere in

54
4. vittime: testimonianza, memoria e storia

Portare testimonianza di un’esperienza storica fondamentale del


xx secolo è occasione di promozione sociale per l’ex deportato il quale
ingaggia una lotta per la verità contro tutti gli “assassini della memoria”
(Vidal-Naquet, 2008) – i nazisti che cercarono a ogni costo di nascon-
dere e distruggere ogni traccia dello sterminio e i revisionisti che «de-
dicano pagine e pagine di acrobazie polemiche per dimostrare che noi
non abbiamo visto quello che abbiamo visto, non vissuto quello che
abbiamo vissuto» (Bravo, Jalla, 1986, p. 7).
Il testimone, mentre offre allo storico elementi qualitativi di co-
noscenza fattuale inaccessibili attraverso altre fonti, scompagina le
sue carte, lo costringe a rivedere il suo metodo di lavoro (Traverso,
2006, p. 14). Prima di accoglierla nel suo archivio lo storico si chie-
de: fino a che punto la testimonianza dell’ex deportato è affidabile?
L’accoglimento delle testimonianze orali e scritte nell’archivio (de-
posito che cataloga le tracce del passato per consegnarle alla memoria
futura) impone allo storico uno sforzo critico volto ad avvalorarne
l’attendibilità.
Quello testimoniale è un materiale tanto prezioso quanto delicato,
da accettare con riserva ed esaminare criticamente poiché proviene da
una fonte sospetta, la memoria del deportato. Si sa i ricordi con il tem-
po si deteriorano, si fanno più sfocati e stilizzati. Tanto più se riguarda-
no esperienze estreme, di violenze e offese subite. Esperire qualcosa nel
dolore può falsare la percezione di una scena vissuta, la sua registrazio-
ne mnemonica fino a intaccarne la restituzione nel racconto4. Il reso-
conto del superstite è “debole” perché manca di una visione d’insieme
del Lager – gli è stato infatti impossibile distanziarsi dagli avvenimenti
di cui è stato vittima – e perché grava sul suo cuore un senso di vergo-
gna per essere vivo al posto di un suo compagno. Lottando contro l’in-
credulità e la voglia di dimenticare, incapace di spogliarsi dell’inuma-
nità che ha vissuto sulla propria pelle, di liberarsi dell’estraneità che ha
generato l’orrore, il sopravvissuto incarna la «crisi della testimonianza
dopo Auschwitz» (Ricouer, 2003, p. 250).

modo completo e veridico: ma si tratta per noi anche di un dovere morale, perché le
nostre file, esigue da sempre, si stanno assottigliando» (Levi, 2009, p. 1352).
4. Quanto ai ricordi di esperienze estreme, Primo Levi nota come «il ricordo
di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o
almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il
dolore» (ivi, p. 1007).

55
la shoah

Questa crisi si trasferisce nello spazio pubblico del confronto dove


variano le reazioni rispetto ai limiti delle testimonianze dei sopravvis-
suti. Il negazionista, insofferente all’imprecisione testimoniale dice:
«le camere a gas non sono mai esistite, non c’è mai stato lo sterminio»
e va alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori al fine di costrui-
re «un edificio fatto di frammenti di testi e di congetture che si spaccia-
no per verità assolute» (Pisanty, 1998, p. 170). Il filosofo postmoderno
dice: «qui vi è un dissidio, un’impossibilità nel linguaggio stesso di
articolare stabilmente qualcosa, come l’esistenza delle camere a gas,
che sta al di fuori dell’esperienza comune» (Lyotard, 1985) e avver-
te: «non potendo testimoniare integralmente in vece del sommerso,
il superstite sta testimoniando l’intestimoniabile» (Agamben, 1998).
Contro il sospetto programmatico del negazionista e lo scetticismo del
filosofo ricorda lo storico: «non scartare una testimonianza solo per-
ché è problematica [...] se lo storico dovesse attendere la prova perfetta,
probabilmente si scriverebbe molto poco di storia» (Browning, 2011c,
p. xx) mentre riaffiorano le voci dei “testimoni integrali”, alcuni mem-
bri del “commando speciale” di Auschwitz, i quali parlando dall’epi-
centro dell’orrore, la camera a gas in cui hanno lavorato, strappano il
velo gettato per coprire il più terribile dei segreti nazisti (Müller, 1999;
Venezia, 2007; Saletti, 1999).

56
5
Carnefici:
uomini ordinari, male straordinario
Il male avanza pensosamente e sconsideratamente;
pieno di significato e privo di senso; da solo e in com-
pagnia; di proposito e in modo fortuito; misurato ed
ebbro; con e senza compunzione. Incendia i confini
nazionali, ma non sarà confinato dai caratteri nazio-
nali. Si trova e viene insegnato. È monocausale e mul-
ticausale. Non sarà messo alle corde a lungo, in teo-
ria o in pratica. Non sarà esaurito da alcuna delle sue
espressioni. È di per sé la prova di quell’aspetto della
vita umana da cui si ha più da temere che è l’aspetto
dell’universalismo.
Leon Wieseltier

5.1
Propedeutica allo studio dei carnefici
Chi uccise gli ebrei? Perché lo fece? Perpetratore (dall’inglese perpe-
trator) è «chiunque ha partecipato a un attacco contro un civile con lo
scopo di ucciderlo o di infliggerli gravi lesioni» (Strauss, 2004, p. 87),
da solo o in forza a un gruppo.
Suddividiamo i carnefici in quattro categorie disomogenee: gli ideo-
logi, come gli intellettuali ss in forza al sd e al rsha; i professionisti
e gli esperti supposti apolitici che condivisero determinati obiettivi
con il regime nazista; gli “uomini comuni” capaci di uccidere “faccia a
faccia” civili inermi; i burocrati e i funzionari di basso e medio livello
tenuti a distanza dalle conseguenze fisiche e morali delle loro azioni
dalla divisione del lavoro (Browning, 2011b, pp. 1-3).
L’intrinseca complessità caratteriale, la varietà delle dinamiche col-
lettive e dei contesti d’azione rendono vano pensare che vi sia stato un
unico motivo, bensì diversi che si sovrapposero. Disposizione persona-
le o fattori situazionali, cosa contò di più? La sintesi “interazionista”
– terza via rispetto agli approcci situazionale e disposizionale (Blass,

57
la shoah

1993) – propone di integrare fattori endogeni ed esogeni, analisi dei


tratti biografici e dei contesti di socializzazione ed esposizione diretta
alla violenza estrema. Erano i carnefici “pazzi”, esecutori privi di co-
scienza di quanto facevano o estremamente lucidi e convinti di fare la
cosa giusta? La ricerca sui colpevoli che si sforza di spiegare i comporta-
menti dei carnefici dovrebbe rifuggire dalla trappola della demonizza-
zione dei perpetratori. Così come si dovrebbe evitare di normalizzare i
crimini e di esonerare i carnefici dalle loro responsabilità. Qualsivoglia
tentativo di comprendere gli attori diretti del genocidio riposa sulla
ricostruzione storica degli avvenimenti. Quanto più essa è minuziosa
tanto più attentamente si discende nell’abisso di violenza che avvilup-
pa il carnefice, nel «passaggio all’atto» (Sémelin, 2007).
La storia tuttavia non è sufficiente per comprendere. La psicologia
della personalità che aiuta a capire il singolo e la psicologia sociale che
studia i comportamenti delle persone nelle interazioni di gruppo, pre-
supponendo che il male non sia un fenomeno eccezionale e demoniaco
compiuto da persone per natura malvagie ma che trae origine da proces-
si psicologici ordinari (Ravenna, 2004, p. 264), sono risorse preziose.
Assassini difficilmente si nasce; con il tempo e una certa esperienza si
diventa génocidaires (termine francese utilizzato presso il Tribunale pe-
nale internazionale per il Ruanda per qualificare i carnefici Hutu). La
discesa nel crimine di massa non è qualcosa che avviene nottetempo, vi
si arriva per radicalizzazioni progressive (Mann, 2005, p. 192) nel conte-
sto in cui si agisce dove uccidere diventa la norma.

5.2
Uomini comuni: modelli esplicativi
La più cospicua quota di tedeschi ordinari (di ogni estrazione sociale,
tra i 16 e i 55 anni) implicati in crimini di guerra e di genocidio è rap-
presentata dai 20 milioni di soldati che prestarono servizio nella Wehr-
macht, dei quali 13 combatterono sul fronte orientale (Bartov, 2003,
pp. xx)1. Il personale ss che gestiva i centri dell’“operazione Reinhard”

1. L’interesse storiografico per gli “uomini comuni” è stato stimolato dalla pubbli-
cazione di Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia (1992) e per i
“tedeschi comuni” da quella di I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’O-
locausto (1996). Il dibattito fra i due autori sugli uomini del battaglione di polizia 101 è
culminato nel simposio dell’8 aprile 1996 tenuto all’us Holocaust Memorial Museum.

58
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

era composto di «persone assolutamente ordinarie» prive di qualità o


caratteristiche eccezionali (Arad, 1999, p. 198). Comune è un attributo
che non possiede un significato univoco per chi lo usa: per Christopher
Browning i riservisti del battaglione 101 sono «uomini comuni» alla
luce delle loro caratteristiche socio-politiche, per Daniel J. Goldhagen
gli esecutori sono «tedeschi comuni» perché rappresentano una vasta
maggioranza nazionale di «volonterosi esecutori di Hitler» (Goldha-
gen, 1996). All’apparenza la composizione degli “uomini comuni” del
battaglione di polizia d’ordine 101 di Amburgo non dava l’impressione
di uomini capaci di uccidere 38.000 ebrei e di caricarne sui treni per
Treblinka altri 45.000 come poi in effetti avvenne. Si trattava infatti di
poliziotti semplici che appartenevano alle classi inferiori, troppo vec-
chi per l’esercito, di formazione sociale avvenuta in epoca prenazista,
dei quali solo un quarto era iscritto al partito nazista. Come è stato
possibile per questi uomini trasformarsi in assassini professionisti?
Quattro modelli teorico-sperimentali spiegano i crimini degli “uomini
comuni”: obbligo di obbedire agli ordini superiori; personalità autori-
taria; abnormità culturale tedesca; approccio sociopsicologico.
La prima spiegazione, utilizzata dagli imputati ai processi di No-
rimberga, così riassunta «sono stato costretto a uccidere in ottempe-
ranza agli ordini dei miei superiori» è invalidata dalle testimonianze
dirette dei perpetratori che dimostrano come ci si poteva sottrarre agli
ordini senza essere puniti (Klee, Dressen, Riess, 1990).
Nel 1950 Adorno e colleghi proposero la personalità autoritaria, un
modello teorico-sperimentale di sindrome di personalità “dormiente”
che presentava i seguenti tratti: sottomissione all’autorità, rigidità di
pensiero, tendenza alla superstizione, intolleranza all’ambiguità, mo-
ralità convenzionale, rifiuto della debolezza e dell’anticonformismo,
ostilità verso l’estraneo e avversione all’introspezione; tratti che emer-
gevano a seguito della repressione di un risentimento nutrito verso ge-
nitori rigidi e punitivi e che si attivavano grazie a processi di selezione
e auto-selezione dei soggetti entro contesti in cui certe attitudini so-
ciopolitiche e credenze risultavano coerenti con i leader, le politiche e
i partiti anti-egualitari. Una scarsa considerazione dei fattori sovra-in-
dividuali ed extra-individuali (Levi Martin, 2001) ha viziato la costru-
zione del modello che sottovaluta il dato empirico che molti “uomini
comuni” furono scelti casualmente ed educati alla violenza nell’appar-
tenenza a un gruppo piuttosto che sulla base di caratteristiche persona-

59
la shoah

li (Browning, 2011b, p. 5). La conclusione di Bauman, «il nazismo fu


crudele perché furono crudeli i nazisti, i nazisti furono crudeli perché
le persone crudeli tendevano a diventare naziste» (Bauman, 2010a,
p. 213) riassumendo quanto scoperto da Adorno e colleghi evidenzia
come questo tipo di spiegazione abbia spiegato poco e confortato mol-
to chi ha preferito tenere una distanza di sicurezza dal comportamento
criminale dei nazisti senza considerare l’eventualità di comportamenti
autoritari fra individui privi di quella personalità.
Il paradigma dell’abnormità culturale tedesca è stato declinato
secondo la tesi della “via speciale” alla modernizzazione e alla demo-
cratizzazione seguita dalla Germania nel xix secolo e secondo quella
dell’antisemitismo sterminazionista proposta da Goldhagen. Queste
due prospettive esplicative hanno il difetto di fondarsi su un laten-
te pregiudizio culturale riferito a un canone democratico e morale
europeo-occidentale: la Germania e il nazismo sono corpi estranei,
deviazioni dal giusto corso democratico-liberale. I collaborazionisti
francesi, ucraini, lituani, ungheresi furono anch’essi guidati dall’i-
deale sterminazionista tedesco? La tesi di Goldhagen è «un ottimo
tranquillante per le scosse coscienze democratiche del Novecento»
(Zamperini, 2001, p. 7). L’approccio sociopsicologico, che enfatizza
i tratti universali del comportamento umano spostando l’attenzione
dall’aberrazione individuale e culturale ai fattori situazionali, organiz-
zativi, istituzionali operanti all’interno di una dinamica di gruppo, si è
sviluppato a partire dagli esperimenti sulla conformità di gruppo, l’ob-
bedienza all’autorità e l’adattamento al ruolo.
Lo psicologo Salomon Asch con l’esperimento sulla “conformità”
(Asch, 1956) studiò l’influenza che può esercitare un gruppo di “sog-
getti complici” che formulano un giudizio contrario rispetto a quan-
to è esperibile con la vista, sul singolo “soggetto critico” nel valutare a
quale di tre linee disegnate su un cartone corrisponde un’altra singo-
la disegnata su un supporto distinto. Questa influenza incise sul 33%
dei giudizi, in 25 dei 31 soggetti critici2. Tra le diverse motivazioni che
Browning adduce per spiegare il comportamento dei riservisti del bat-

2. Vanno considerate le variabili situazionali del grado di influenza esercitata e


di acquiescenza al gruppo come il rapporto numerico tra soggetto critico e complice
(con 1:1 non vi è conformità, con 1:3 si raggiunge il massimo) e l’ingresso di soggetti
dissenzienti, che esprimendo giudizi concordanti col soggetto critico, infrangevano
l’unanimità di giudizio fra i complici.

60
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

taglione 101 vi è la conformità verso il gruppo, nel suo gioco di recipro-


co rafforzamento con l’obbedienza all’autorità.
Stanley Milgram compie a Yale nel 1961 un esperimento sull’ob-
bedienza all’autorità che più di ogni altro influenzerà l’approccio psi-
cosociale alla Shoah (Milgram, 2003). Con questo esperimento, che
coinvolse americani comuni di New Haven, suddivisi in “insegnante”
(soggetto ignaro) e “allievo” (finta vittima), fatti accomodare in due
stanze contigue, Milgram mirava a studiare le reazioni dell’insegnante,
sotto la guida e il controllo dello “sperimentatore”, un uomo in camice
bianco da medico che impersonava l’autorità scientifica. L’insegnante
faceva le domande ed era incaricato di rilasciare a ogni errore una scos-
sa elettrica (in realtà finta) di potenza progressiva (da 50 a 450 volt)
sull’allievo a cui erano stati applicati degli elettrodi sul corpo. Nono-
stante le urla (fittizie, solo registrate) dell’allievo sofferente, due terzi
degli insegnanti continuarono a punire l’allievo fino al massimo di sca-
rica elettrica. Per Milgram, che attribuisce quest’abnegazione non a sa-
dismo o a perversione, ma all’incapacità dell’insegnante di uscire dallo
“stato eteronomico”, condizione di subalternità psicologica all’autorità
scientifica impersonata dallo sperimentatore3, questo è il principale in-
segnamento da trarre: «gente normale, che si occupa soltanto del suo
lavoro e che non è motivata da nessuna particolare aggressività può da
un momento all’altro rendersi complice di un processo di distruzio-
ne» (ivi, p. 7).
Per Browning «molte delle intuizioni di Milgram trovano confer-
ma nel comportamento e nella testimonianza degli uomini del batta-
glione di polizia 101» (Browning, 2004, p. 179). Milgram vedeva all’o-
pera un comune processo psicologico nel suo laboratorio e durante la
Shoah, la caduta nello stato eteronomico, il fatto che gente normale
smettesse di considerarsi un elemento responsabile nella catena degli
avvenimenti che determinano la sofferenza di un individuo, altresì
riconosceva anche le enormi differenze tra i due contesti (Milgram,
2003, p. 164): l’esperimento in laboratorio durava un’ora, i massacri
di ebrei si protrassero dal 1941 al 1945, differenza questa che implicava

3. Bisogna aggiungere che la capacità di disobbedire allo sperimentatore, che in-


coraggia l’insegnante ad andare avanti con l’esercizio nonostante il conflitto interio-
re, varia con il modificarsi della relazione spaziale tra sperimentatore, insegnante e
allievo: quanto più l’allievo è posto in prossimità dell’insegnante tanto più riesce a
controbilanciare il potere d’ordine dello sperimentatore.

61
la shoah

una più profonda interiorizzazione dell’autorità col passare del tem-


po. Diversamente dalla Shoah, l’esperimento in laboratorio fu privo di
conseguenze per le vittime. La percezione del male che si stava inflig-
gendo era diversa: chi è coinvolto nello sterminio sa di uccidere o di
dover uccidere ancora, all’insegnante viene garantito dallo sperimen-
tatore che non infliggerà danni fisici permanenti all’allievo. Chi assu-
me il ruolo di insegnante non ha bisogno di disumanizzare gli allievi
che non considera non degni di appartenere all’umanità in quanto ele-
menti nocivi da eliminare. Il travaglio interiore vissuto dai soggetti spe-
rimentali, esperito anche da molti carnefici nazisti sul fronte orientale,
contrasta fortemente con le ricorrenti esplosioni di sadismo durante la
Shoah (Waller, 2002, p. 107).
Vi è un irriducibile divario morale e psicologico fra i soggetti speri-
mentali di Milgram e coloro che presero parte alle uccisioni di massa di
ebrei. Questo tuttavia non impedisce di riconoscere che «Milgram ci
ha insegnato qualcosa di profondamente rivelatore sulla natura umana
– su noi stessi – che non sapevamo prima: quanto potente è la nostra
propensione ad obbedire ai comandi di un’autorità anche quando que-
sti comandi possono confliggere con i nostri principi morali» (New-
man, Erber, 2002, p. 104).
Nel 1971 Philip Zimbardo effettuò un esperimento sull’adattamen-
to al ruolo (Zimbardo, Haney, Banks, 1973) che coinvolse 24 studenti
dell’università di Stanford (maschi, di ceto medio, tra i più equilibrati,
maturi e meno attratti da comportamenti devianti) divisi tra detenuti
e guardie rinchiusi in una prigione. Per via degli evidenti sintomi di
disgregazione individuale e di gruppo tra i detenuti causati dal com-
portamento vessatorio delle guardie, questo esperimento fu interrotto
dopo una settimana a fronte delle due previste. Per Zimbardo, «il va-
lore dell’esperimento della prigione di Stanford risiede nel dimostrare
che il male che brave persone possono essere facilmente indotte a fare
ad altre brave persone in un contesto di ruoli, regole e norme social-
mente approvate con un’ideologia legittimante e un supporto istitu-
zionale trascende l’azione individuale» (Blass, 2000, p. 194).
Una sorprendente corrispondenza quantitativa e qualitativa è sta-
ta colta da Browning tra il comportamento delle guardie e quello dei
riservisti del battaglione 101, specificatamente tra i sempre più entu-
siasti assassini che si offrirono volontari nelle esecuzioni e nella caccia
all’ebreo e le guardie dure e crudeli che inventavano nuove molestie

62
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

godendosi il potere dell’arbitrio (circa 1/3), tra i poliziotti che parteci-


parono alle fucilazioni e alle evacuazioni dei ghetti, senza cercare altre
occasioni per uccidere, astenendosi talvolta dagli ordini di uccidere
e le guardie dure ma corrette che si attenevano al regolamento (circa
50%), tra i riservisti che si rifiutarono di uccidere nascondendosi e le
due guardie passive che raramente esercitarono un controllo coercitivo
sui detenuti (tra il 10% e il 20%) (Browning, 2004, p. 175).
Per Goldhagen i riservisti concordavano senza eccezioni sulla giu-
stezza dell’impresa omicida. Il loro contatto con gli ebrei era mediato
da una monumentale barriera cognitiva e psicologica che impediva
loro di riconoscere l’umanità delle loro vittime. Essi si distinsero in sa-
dici macellai, assassini zelanti ma indecisi, carnefici convinti ma poco
propensi all’autocelebrazione e omicidi consenzienti ma rosi dall’in-
certezza e dai conflitti interiori (Goldhagen, 1996). Per Goldhagen di-
ventare carnefici per questi uomini fu un fatto spontaneo, conseguente
all’odio viscerale provato per gli ebrei. Secondo Browning, ben consa-
pevole che ogni tentativo di spiegare un fenomeno così complesso può
indulgere a una certa arroganza, diventare assassini richiese di scaval-
care barriere morali a prima vista invalicabili, superare risentimento,
rabbia, demoralizzazione, senso di orrore e di vergogna abusando di
alcolici, maturando un senso di distacco derivato da certi accorgimenti
logistici conformandosi al gruppo in un diluvio di propaganda razzista
e antisemita.
I crimini dei milioni di “tedeschi comuni” della Wehrmacht vanno
considerati rispetto al contesto bellico del fronte orientale. Una “guer-
ra di sterminio” altamente ideologizzata tra due visioni del mondo
incompatibili, quella ariano-nazista e quella giudeo-bolscevica, com-
battuta all’ultimo sangue per l’estirpazione del giudeo-bolscevismo e
la conquista dello “spazio vitale” in spregio alle regole della legge mar-
ziale internazionale. Gli “ordini criminali” emanati dall’Alto coman-
do della Wehrmacht (okw) e dall’Alto comando dell’esercito tedesco
(okh) furono «la causa più diretta per le azioni criminali dell’esercito
tedesco ad Est» in un contesto di progressiva «barbarizzazione» del
conflitto (Bartov, 2003, p. 106). Gli “ordini criminali”, una martellan-
te propaganda che insisteva sull’equazione ebreo-partigiano (Heer,
1997) e una fede cieca nel Führer convertirono un consenso antisemita
già esistente tra i soldati regolari e una potenziale mentalità omicida in
azione (Heer, Manoschek, Pollak, Wodak, 2008).

63
la shoah

L’evoluzione della dinamica delle uccisioni di ebrei, dal supporto


passivo all’emanazione di ordini per prendere l’iniziativa, all’accetta-
zione degli eccessi dei pogrom scatenati dai gruppi antisemiti locali
fino alla routine quotidiana delle cacce all’ebreo-partigiano durante
l’occupazione militare, fu legata a fattori situazionali quali la necessità
di rispondere ai massacri perpetrati dai sovietici prima dell’occupazio-
ne tedesca, l’esigenza di vendicare le perdite subite sul campo di batta-
glia e di garantire la sicurezza dei luoghi in via di pacificazione soppri-
mendo ogni traccia di resistenza partigiana e le politiche di sistematico
affamamento delle popolazioni locali adottate dall’amministrazione
occupante.

5.3
Einsatzgruppen e intellettuali ss
Una significativa spinta in direzione della transizione al genocidio sul
fronte orientale venne data dalle quattro unità di intervento mobili di
massacro operanti in appoggio alla Wehrmacht agli ordini del rsha.
In Unione Sovietica l’impiego delle unità di intervento va collo-
cato nel quadro normativo stabilito degli ordini criminali, nella fat-
tispecie dall’ordine emanato il 2 luglio 1941 da Heydrich. Nelle unità
mobili le posizioni di comando erano occupate da un particolare tipo
di persona: «lo specialista, un uomo con una certa formazione teorica
(spesso una laurea in legge) e un’esperienza pratica all’interno dell’ap-
parato di polizia, dedito all’ideologia nazionalsocialista, un radicale
che agisce di convinzione» (Longerich, 2010, p. 186). Il personale di-
rigente delle “unità operative” era «rappresentativo di un gruppo di
giovani attivisti che dominano i quadri dirigenti del rsha» (Wildt,
2009, p. 273). Altamente istruiti, ferventi militanti di destra all’univer-
sità che aspirano a costruire un nuovo Reich, convinti della necessità
della preservazione razziale del popolo tedesco, questi “intellettuali
ss” che incarnavano una “generazione senza compromessi”, furono ar-
tefici di un discorso ideologico inflessibile le cui conseguenze ultime
sfociarono nell’“azione a est”.
I primi massacri di ebrei, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del
1941, paiono rispondere a una logica difensiva e preventiva, in risposta
a supposti attacchi civili alle unità tedesche in avanzamento e come

64
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

rappresaglia per gli attacchi delle truppe sovietiche in ritirata. La sco-


perta dei cadaveri dei nazionalisti ucraini uccisi dai commissari sovie-
tici scatena pogrom, tacitamente supportati dalle “unità operative” e
giustifica massicce operazioni di rappresaglia contro gli ebrei. L’ordine
di Heydrich diede carta bianca alle varie unità per assassinare gli ebrei
e un certo margine di manovra ai comandanti delle unità. Nelle prime
settimane tre furono le ragioni che motivarono le fucilazioni di mas-
sa: rappresaglia, sciacallaggio, sostegno ai partigiani (Longerich, 2010,
p. 204). Non tutti furono capaci di sparare, di sopportare il contatto
diretto con le vittime, la vista dei corpi e del sangue, c’era chi restava
fortemente scosso da ciò che faceva (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il pri-
mo confronto con la fucilazione generava una sofferenza psichica, un
effetto deprimente sui tiratori. Da qui il ricorso a espressioni eufemisti-
che quali “funzionari bolscevichi”, “simpatizzanti comunisti”, “agenti”.
A contenimento di questa sofferenza intervennero i quadri delle unità
mobili adottando strategie di spartizione delle fucilazioni.
A Norimberga Otto Ohlendorf, comandante del Einsatzgruppen
D, dichiara sotto giuramento: «Nel gruppo D non ho mai autorizzato
fucilazioni compiute da singole persone, anzi ho ordinato che a sparare
fossero parecchie persone insieme, onde evitare una personale, diretta
responsabilità. I capi delle unità o persone designate dovevano scaricare
l’ultima pallottola sulle vittime ancora vive» (cit. in Gigliotti, Lang,
2005, p. 182). Queste procedure erano finalizzate a distanziare la vitti-
ma dal carnefice, a collettivizzare il gesto di violenza e a deresponsabi-
lizzare quest’ultimo per ciò che faceva. Con il tempo certi eufemismi
lasceranno spazio a un più ampio ventaglio di motivi d’accusa per gli
ebrei: incendio doloso, disseminazione di propaganda antitedesca, raz-
zia, sabotaggio, rifiuto di lavorare, mercato nero, supporto ai partigiani,
minaccia di epidemia. Si radicalizzano le interpretazioni degli ordini
deliberatamente tenuti vaghi al momento della loro emanazione.
È l’inizio di un cambio di approccio delle unità operative: dal terro-
re antisemita volto a spegnere ogni tentativo di resistenza tra la popo-
lazione maschile ebrea si passa a una politica di distruzione etnica ge-
neralizzata. Il cambiamento della scala dei massacri modifica il modus
operandi dei commando. Vengono alterate le procedure di esecuzione:
dal modello da Corte marziale per schiere, mantenuto da Ohlendorf,
si passa a una razionale divisione dei compiti nelle uccisioni per impi-
lamento dei corpi nelle fosse comuni. I massacri sono estesi a intere co-

65
la shoah

munità, donne e bambini (Klee, Dressen, Riess, 1990). Il presupposto


di questa svolta paradigmatica sta in un cambio di percezione del pro-
blema ebraico legato a una modificazione delle condizioni sul campo:
le fughe in massa degli ebrei verso est, il declino dei pogrom, la necessi-
tà di sfruttare la forza-lavoro abile ebraica, la carenza di derrate alimen-
tari invalidano la politica securitaria (Longerich, 2010). Due ragioni
principali favorirono la transizione al genocidio: l’armoniosa coopera-
zione tra unità operative e Wehrmacht durante le prime cinque setti-
mane della campagna sovietica e la necessità di intensificare le misure
di terrore sulla popolazione civile, in special modo nei confronti degli
ebrei sovietici “pilastri del sistema giudeo-bolscevico” (Kay, 2013).
Il consenso al massacro degli uomini delle unità operative venne co-
struito sulla base dell’elaborazione, da parte dei quadri delle unità, di
un discorso di legittimazione della pratica genocidaria ottenuto dalla
fusione di una linea argomentativa di ordine utopistico, che presentava
il genocidio come la condizione sine qua non per la germanizzazione
dei territori occupati, e una linea paranoico-difensiva che, presentan-
do il genocidio come un’azione difensiva, mobilitava l’angoscia esca-
tologica che opprimeva gli uomini al fronte facendo appello alla figura
disumanizzata del nemico (Ingrao, 2012, p. 356). Questo consenso si
incrinò a causa dei traumi psichici ma non si infranse grazie all’atte-
nuazione dei gesti della violenza, alla routinizzazione e all’assuefazio-
ne al crimine, all’appoggio di unità ausiliarie autoctone e all’uso dei
camion a gas.
In questo generale consenso permasero forti differenze tra i capi
delle unità operative: tra Erwin Schulz, «incapace di fare il salto da
capo antibolscevico della Gestapo ad assassino razzista che uccide don-
ne e bambini», Martin Sandberger, «studente modello dell’Ufficio
centrale», Erich Ehrlinger, «perpetratore ideologico perduto nell’a-
bisso del proprio compito» (Wildt, 2009, pp. 305-6).

5.4
Medici
Macchiandosi di orribili crimini, circa 350 medici tedeschi, sotto il
Terzo Reich, deliberatamente violarono il principio fondamenta-
le del codice deontologico, noto come giuramento di Ippocrate, che

66
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

comanda «per prima cosa, non nuocere» (primum non nocere). Gli
esperimenti medici e il programma di distruzione delle “vite indegne
di essere vissute”, assieme alla legge sulla sterilizzazione e alle leggi di
Norimberga, hanno fatto parte di un complessivo programma di puli-
zia razziale medicalizzata ispirato dall’adozione nazista delle misure di
medicina preventiva per la preservazione del “plasma germinale tede-
sco” proposte dalla scienza dell’“igiene razziale” ampiamente radicata
nella cultura scientifica tedesca prima del 1933 (Proctor, 1988).
Il ruolo attivo avuto dagli scienziati e dai medici nei vari program-
mi di pulizia razziale traeva fondamento dall’affinità ideologica tra
medicina e nazismo venuta a crearsi con l’importazione della retorica
eugenista della “degenerazione della razza” e della “selezione del più
adatto” nel nazionalsocialismo e con l’attrazione suscitata nei medici
dall’importanza attribuita alla razza nella visione del mondo nazista e
dallo sforzo di biologizzare e medicalizzare i problemi sociali (Annas,
Grondin, 1992, p. 27).
Nel corso dell’operazione T4 medici e psichiatri lavorarono in spe-
ciali reparti d’ospedale per bambini e adulti disabili, selezionarono le
vittime e le uccisero con overdose di medicinali comuni. Nei centri di
sterminio, dove invece le uccisioni dei disabili avvenivano mediante
camera a gas, i medici supervisionarono la registrazione delle vittime,
controllarono le cartelle mediche, somministrarono il gas, dichiararo-
no l’avvenuto decesso, parteciparono alla spoliazione dei corpi, fece-
ro autopsie tenendo lezioni a giovani studenti, estrassero organi che
inviarono a istituti di ricerca. In generale vennero impiegati medici
molto giovani che raramente si rifiutarono di fare questo lavoro. Tra
questi, una figura in continua ascesa fu quella dell’austriaco Irmfried
Eberl, medico capo nei centri di Brandeburgo e Benburg, poi primo
comandante del centro di Treblinka, la cui motivazione pare essere
stata prima di tutto «ideologica, sebbene fosse anche un’importante
opportunità di lavoro per il futuro» (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
Ad Auschwitz, dove l’ufficio dei medici ss era responsabile dell’as-
sistenza sanitaria del personale ss, della prevenzione delle epidemie e
del servizio medico per gli internati, i medici ss furono complici nel
crimine mantenendo condizioni igieniche al di sotto della norma,
scarse razioni di cibo e atroci condizioni di lavoro. Sebbene non tutti,
molti inflissero inumane punizioni corporali e praticarono iniezioni
mortali agli insubordinati e ai malati. Gli ufficiali medici – medici,

67
la shoah

dentisti, farmacisti – parteciparono alla selezione sulla rampa di Bir-


kenau all’arrivo dei convogli di ebrei. Auschwitz fu anche il princi-
pale laboratorio di sperimentazione umana. Due medici, il dott. Carl
Clauberg e il dott. Horst Schumann rivaleggiarono per sterilizzare
quante più donne ebree possibile, l’uno praticando iniezioni intraute-
rine, l’altro attraverso radiazione ed esportazione dei genitali, metodi
ugualmente mortali. Hermann Langbein, detenuto tedesco a Dachau
e ad Auschwitz, segretario per due anni del capo medico di presidio,
il maggiore ss Eduard Wirths, ha distinto tre tipi di medici ss: quelli
che con riluttanza parteciparono alla macchina della distruzione, quel-
li che eseguirono gli ordini imperturbabilmente, quelli che di propria
iniziativa andarono oltre gli ordini impartiti (Langbein, 1990, p. 334).
La più impressionante personificazione del primo tipo è il dott.
Friedrich Entress il quale introdusse nell’infermeria iniezioni letali
di fenolo, che portarono a un centinaio di morti al giorno, e iniettò
sangue infetto da tifo su pazienti sani per vederne le reazioni. L’altro
caso paradigmatico è quello del dott. Josef Mengele, scienziato dotato,
ossessionato dalle questioni della razza, stacanovista, arrogante e ambi-
zioso, che si distinse per la durezza con cui combatté il tifo, la fermezza
con cui condusse le selezioni sulla “rampa degli ebrei”, l’ardore con cui
andava in cerca di gemelli ai quali, nella convinzione di poter miglio-
rare la razza, cambiò la pigmentazione degli occhi iniettando colori
diversi. Mengele, che aderì all’ideologia razziale ed eugenica nazista
«combinò l’impegno ideologico all’avanzamento accademico» (Ni-
cosia, Huener, 2002, p. 73).
Al terzo tipo appartiene il dott. Wirths che, a differenza della mag-
gioranza dei medici ss, si lamentava spesso perché non riusciva a conci-
liare quanto richiesto negli ordini e la sua coscienza di medico. In con-
fidenza rivelò i suoi scrupoli rispetto all’intera operazione di sterminio
degli ebrei e talvolta si oppose alle selezioni di pazienti affermando che
non si trovava lì per fare selezioni ma per curare i malati. Influenzato
dal movimento di resistenza politica interna al campo, Wirths assegnò
a medici detenuti posizioni chiave. Il dott. Wirths incarna il conflitto
“guarigione-uccisione”, la dicotomia tra l’uomo onesto, corretto e l’or-
ganizzatore del sistema di morte (Lifton, 2003, pp. 384-408). Fu un
“killer situazionale” che trovandosi ad Auschwitz non rifiutò di fare il
suo lavoro, partecipò alle uccisioni più per spirito di lealtà alle ss che
per ragioni ideologiche (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).

68
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

È stato sostenuto che «la maggior parte di quelli che parteciparo-


no lo fecero perché credevano che fosse la cosa giusta da fare» (La-
fleur, Böhme, Shimazono, 2008, p. 65) e che «i medici agendo in
queste situazioni non erano privi di valori. I loro valori erano chiari
(supremazia nordica, misure estreme richieste dalla guerra totale, gli
ebrei come parassiti ecc.) e agirono conformemente ad essi» (Annas,
1992, p. 26).

5.5
Diventare génocidaire:
Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl
Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) Eichmann diven-
ta funzionario competente per la soluzione finale. Dal suo ufficio in
Kurfüstenstrasse 116 a Berlino, coadiuvato dagli uomini del suo staff,
egli fa tutto quanto è necessario per deportare gli ebrei dei vari paesi
d’Europa nei centri di sterminio della Polonia. Paradigmatica perso-
nificazione del killer da scrivania, del burocrate moderno sine ira ac
studio, Eichmann è per Hannah Arendt l’incarnazione perfetta della
«banalità del male», dell’incommensurabilità fra un crimine senza
precedenti e l’insignificanza di chi lo commise. Una persona normale
che con grande zelo e meticolosità spedì milioni di persone verso la
morte, del tutto privo di motivazioni eccetto quella di curarsi attenta-
mente della sua carriera, un incosciente che, privo di immaginazione,
mai comprese quel che stava facendo (Arendt, 2009). Secondo questa
formula banale non è il male – la deportazione e lo sterminio degli
ebrei –, che fu anzi radicale, ma l’uomo che lo commise: ordinario,
comune come le sue motivazioni. Con questa destabilizzante intui-
zione Arendt sottrae al male profondità demoniaca – non necessaria-
mente chi fa il male prova odio, invidia, forti passioni – e getta luce
su una strana interdipendenza espressa dall’individuo moderno, fra
incoscienza, «scissione consapevole di se stesso» (Donaggio, 2013) e
male. Arendt ci ricorda che «i perpetratori di genocidio e di omicidi
di massa non sono fondamentalmente diversi da me e da te» (Waller,
2002, p. 106).
Se nella sua capacità di universalizzare il contrasto fra ordinarie-
tà dei carnefici e straordinarietà del male il concetto di “banalità del

69
la shoah

male” appare difficilmente soppiantabile da un costrutto più pene-


trante, esso appare inappropriato rispetto alle nuove evidenze storiche
acquisite sulla figura di Eichmann. Ci fu poco di banale in Eichmann
e nei suoi ausiliari: «Eichmann e i suoi colleghi sapevano molto bene
cosa stavano facendo ed erano completamente consapevoli che le
loro attività sarebbero state considerate criminali dappertutto eccet-
to che nel proprio contesto politico. Le loro ragioni per partecipare
all’omicidio dovevano essere state varie, ma era molto evidente che
l’ideologia giocò un ruolo centrale. Desideravano creare un nuovo or-
dine mondiale dove non vi fossero ebrei» (Aschheim, 2001, p. 222).
In considerazione della sua biografia Eichmann «non era un folle, e
nemmeno un mero esecutore di ordini. Venne addestrato al genocidio
e decise di mettere in atto ciò che aveva imparato» (Cesarani, 2006,
p. 22). La chiave per comprendere Adolf Eichmann «non è nell’uo-
mo, ma nelle idee che lo possedevano, nella società in cui tali idee
circolavano liberamente, nel sistema politico che le diffondeva e nelle
circostanze che le resero possibili. Ciò che Eichmann fece fu reso pos-
sibile dalla disumanizzazione degli ebrei, dall’interiorizzazione del
popolo ebraico come astratta minaccia biologico-razziale e nemico
politico e dalla disattivazione di ogni inibizione nei confronti dell’o-
micidio. Chiunque fosse stato sottoposto a processi simili avrebbe
potuto comportarsi allo stesso modo, in uno Stato totalitario o in una
democrazia» (ivi, p. 250).
Nella sua autobiografia Rudolf Höss consegna ai posteri il suo ri-
tratto di comandante di Auschwitz (Höss, 1997). Höss era un uomo
mediamente capace che vestì per tre anni i panni dell’efficiente tec-
nocrate dello sterminio, facendo gassare più di un milione di ebrei ad
Auschwitz. Ecco un altro individuo ordinario capace di straordinari
crimini. Come fu possibile? Höss non arrivò a guidare Auschwitz per
caso, ma dopo un lungo apprendistato di violenza prima nella Grande
guerra dove sentì di essere diventato uomo (ivi, p. 18), poi nei “corpi
liberi” nel Baltico dove si trovò per la prima volta di fronte al racca-
pricciante spettacolo dei cadaveri carbonizzati o asfissiati di donne e
bambini (ivi, p. 20) e nel Lager di Dachau dove imparò che ogni trac-
cia di pietà verso i «nemici dello Stato», indegna di un ss che deve
obbedire ciecamente a ogni ordine, è un segno di debolezza (ivi, p. 48).
Le scelte che Höss fece lungo la sua carriera risultarono dall’intera-
zione tra un’etica del controllo di sé (Schroer, 2012) e della decenza

70
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario

(Welzer, 2004) e dall’adesione totale all’ideale nazionalsocialista e al


cieco rispetto del principio d’autorità. Rispetto alla soluzione finale,
l’atteggiamento di Höss rivela un profilo composito sul piano motiva-
zionale: convinto antisemita quando afferma che «questo sterminio
degli ebrei era veramente necessario affinché la Germania, affinché i
nostri discendenti, per il futuro fossero finalmente liberati dai loro ne-
mici più accaniti» (Höss, 1997, p. 135), banale e obbediente assassino
quando, ricordando di aver ricevuto l’ordine di Himmler nell’estate
del 1941 di allestire ad Auschwitz un campo di sterminio, scrive «non
fui in grado minimamente di immaginarne la portata e gli effetti [...].
A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio do-
vere eseguirlo» (ivi, p. 127). Cercando di incarnare al meglio l’etica ss,
sfoggiando un’ortodossia disarmante, Höss si rende prigioniero della
sua stessa radicalità e delle sue scelte.
Questa la carriera genocidaria di Franz Stangl: dal novembre 1940
al febbraio del 1942 è sovrintendente di polizia all’istituto di eutana-
sia del castello di Hartheim, dal marzo al settembre 1942 è coman-
dante di Sobibor, dal settembre 1942 all’agosto 1943 è comandante
di Treblinka. Stangl ammette quanto ha fatto, riconosce le sue colpe,
tuttavia non se ne sente responsabile, vittima di un destino cieco e
ineluttabile in cui è stato strumento dei suoi superiori. Nel secondo
giorno di intervista con la giornalista Gitta Sereny si sfoga, dicen-
do: «Li odio...Odio i tedeschi! [...] Sono loro che mi hanno spinto...
Avrei dovuto suicidarmi nel 1938 [...]. Fu allora che cominciò tutto,
per me. Devo riconoscere la mia colpa» (Sereny, 2005, p. 52). Nei
momenti cruciali – l’arrivo ad Hartheim, a Sobibor e a Treblinka
– si coglie in Stangl una sequenza di shock, riluttanza, adattamento
al male. Egli trova sempre nuove motivazioni, escogita stratagemmi
per vincere il rifiuto di coscienza e fare un salto a un livello superio-
re di radicalizzazione e di accettazione dei crimini. All’apice della
carriera, a Treblinka, Stangl compartimentalizza la sua coscienza tra
azioni di cui si sente responsabile, come l’amministrazione dei beni
confiscati agli ebrei, e azioni di cui non si sente responsabile perché
non ha avuto la possibilità di sceglierle liberamente, le operazioni di
sterminio, per esempio. Per estraniarsi da queste ultime disumanizza
le vittime che vede come bestiame, considera l’arrivo dei convogli e le
gasazioni come mera routine, sprofonda nel lavoro e nell’alcol tenen-
dosi alla larga da tutte quelle aree in cui poteva esserci un contatto

71
la shoah

con le vittime. Stangl si dissocia dall’ambiente circostante, cade in


una sorta di autismo per preservare la sua integrità morale (Welzer,
2004). Stangl diventa un génocidaire per via della fatale fusione del
suo carattere e delle circostanze, perché manca di coraggio e forza
morale per tirarsi fuori dal crimine e si identifica completamente con
il tratto più spiccato del suo carattere, l’ambizione, che fa da ponte
e spinta propulsiva verso il genocidio vincendo gli scrupoli morali
(Kekes, 2005, pp. 47-64).

72
6
Spettatori e soccorritori:
dall’indifferenza al soccorso
Abbiamo un’infinita capacità di far bene e un’infinita
capacità di far male. Siamo tutti schizofrenici.
Jan Karski

6.1
Una realtà di sfondo decisiva e dinamica
Le violenze sugli ebrei avvennero sotto gli occhi di 700 milioni di perso-
ne cadute sotto l’occupazione nazista che volenti o nolenti furono spet-
tatori (dall’inglese bystanders) della sistematica distruzione degli ebrei.
Sul piano individuale spettatori sono quelle «persone che assi-
stono alle azioni dei perpetratori non subendone le conseguenze»
(Staub, 1989, p. 86). Spettatori furono «coloro non “coinvolti” non
disposti a far male alle vittime, non desiderosi a essere danneggiati dai
perpetratori» (Hilberg, 1997, p. 5). Nello specifico «le agenzie e i go-
verni neutrali, gli ebrei che vivevano in condizioni di relativa sicurez-
za, i paesi occupati, i tedeschi ordinari, e soprattutto i governi alleati»
(Neufeld, Berenbaum, 2003). Sul piano etico lo spettatore è «un indi-
viduo che passivamente osserva una vittima in una situazione dispera-
ta senza intervenire anche se ha l’opportunità di andare in suo aiuto»
(Edgren, 2012, p. 68). Gli spettatori sono in grado di influenzare le
azioni dei perpetratori e degli altri spettatori durante l’evolversi delle
violenze attraverso azioni esplicite, petizioni o manifestazioni pubbli-
che, o nascoste, forme di aiuto e di resistenza non violenta o armata
(Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218). Gli spettatori stimolano la risposta
degli altri astanti verso l’empatia o l’indifferenza (Newman, Erber,
2002, p. 27) e rispondendo con oltraggio e condanna alle atrocità pos-
sono rafforzare le norme morali contro il comportamento criminale
(Staub, 1989, p. 87). Gli spettatori non si presentano come un’entità
a sé stante, isolata e statica ma interrelata con vittime e carnefici nel
quotidiano agire. Rispetto all’evolversi degli eventi essi reagiscono
in modo dinamico, con comportamenti che oscillano fra gli estremi

73
la shoah

della partecipazione diretta allo sterminio e del soccorso offerto alla


vittima (Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218).
I confini fra spettatori, carnefici e vittime si confondono quando il
soccorso e la complicità si distinguono a fatica dall’interesse privato e
i valori di cura sono applicati selettivamente come nel generale caso del
cittadino tedesco cattolico per cui il programma di eutanasia era im-
morale e la deportazione degli ebrei giusta. Durante la Shoah vi erano
zone grigie, territori di indeterminatezza (Bajohr, 2006, p. 184) rispetto
a cui la ricerca delle sfumature nello studio degli spettatori della Shoah è
preferibile alle distinzioni manicheistiche (Cesarani, Levine, 2002). Gli
spettatori si distinsero in interni ed esterni1 (Cohen, 2002, pp. 199-228),
tra soccorritori che aiutarono i loro vicini ebrei, profittatori che si at-
tivarono per trarre benefici materiali dalla loro spoliazione e spettatori
tout court che in numero incalcolabile restarono a guardare ciò che acca-
deva (Hilberg, 1997, p. 205). A supporto diretto o indiretto del crimine
nazista sono stati individuati dieci archetipi di spettatori della Shoah:
l’opportunista, lo spettatore della strada, quello orientato ideologica-
mente, il carrierista, quello raziocinante istituzionalizzato, il professioni-
sta, il professionista illuminato, lo spettatore distaccato, il disprezzatore
dell’“altro”, quello emotivamente coinvolto (Bar-On, 2001, pp. 139-43).
L’altra faccia della passività di chi sta a guardare convinto o meno
della giustezza del trattamento riservato agli ebrei è il soccorso (dall’in-
glese rescue) alle vittime. Perché certe persone misero a rischio la pro-
pria vita, esposero le loro famiglie al pericolo della punizione delle au-
torità per salvare la vita di gente braccata, talvolta persino sconosciuta?
I significati delle categorie di soccorso e soccorritore sono stati influen-
zati dal titolo onorifico di Giusto tra le nazioni conferito dal memoriale
ufficiale israeliano per le vittime ebree della Shoah Yad Vashem ai soc-
corritori non ebrei, a oggi 25.271 persone, in netta maggioranza polacchi
e olandesi, rispettivamente 6.454 e 5.351. La Legge per il ricordo degli eroi
e dei martiri (1953) che istituì il memoriale e la Commissione per la de-
signazione dei giusti fece menzione dei «magnanimi gentili che rischia-
rono le loro vite per salvare gli ebrei» ma non diede un’esatta definizio-
ne di chi è degno di ricevere il titolo. Procedendo con la valutazione dei

1. Spettatori interni erano i tedeschi comuni e tutti coloro che erano a conoscenza
di atrocità e sofferenze esperite nelle società in cui vivevano. Spettatori esterni erano
gli alleati, i media americani e britannici, il Vaticano, la Croce Rossa, le organizzazio-
ni ebraiche mondiali, la leadership sionista in Palestina che ne erano a conoscenza
seppure a distanza.

74
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

singoli casi la Commissione in seguito stabilì criteri di riferimento come


«estendere l’aiuto per salvare una vita, mettere in pericolo la propria
vita, assenza di ricompensa monetaria, considerazioni simili che elevi-
no le gesta del soccorritore al di sopra dell’aiuto ordinario» (Gutman,
Zuroff, 1977, p. 628). Questi criteri tengono fuori coloro che salvarono
gli ebrei per denaro (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 102) o chi
agì per interesse politico, economico o sessuale. Tutti i “giusti” sono stati
soccorritori, sebbene non tutti i soccorritori siano da considerare “giu-
sti”. Per soccorso si può intendere «una serie di atti, nascosti o meno, che
mirano a celare legalmente o fisicamente l’identità di una persona ricer-
cata e/o a organizzare la fuga verso un luogo sicuro» (ivi, p. 5).
Quattro sono state le forme principali di aiuto. Dare rifugio, dissi-
mulare (attribuire al fuggitivo un’identità fittizia attraverso un nuovo
nome, un’altra storia personale, un differente certificato di nascita, una
diversa residenza o un certificato di battesimo, oppure registrandolo
come lavoratore presso una fabbrica bellica o attribuendogli la cittadi-
nanza di un paese amico della Germania), facilitare lo spostamento e la
fuga da un luogo all’altro, soccorrere i bambini separandoli dai genitori
naturali (Paldiel, 2011, pp. 8-12). A queste se ne aggiungono altre minori
d’assistenza e di protezione passiva (Paulsson, 1998, p. 43). I soccorrito-
ri non ebrei, chiamati “persone di buona volontà” o “buoni samaritani”
erano dotati di una personalità altruistica (Oliner, Oliner, 1988), erano
autonomi dall’ambiente sociale di residenza, indipendenti nella scelta,
impegnati nella lotta per i bisognosi, avevano esperienza nel compiere
atti caritatevoli e una tendenza a percepire l’aiuto agli ebrei in termini
pratici, non si vedono come eroi né pensano di compiere atti straordi-
nari, erano impulsivi e concepivano gli ebrei in termini universalistici
(Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, p. 105). Oltre agli altruisti vi era-
no i soccorritori pagati, quelli antisemiti, cattolici devoti che aiutarono
gli ebrei perché si sentivano responsabili della loro persecuzione e gli
ebrei che salvarono altri correligionari in pericolo (ivi, pp. 106-12).

6.2
Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori
Ha contatto più la personalità o il contesto d’intervento nel compor-
tamento di spettatori e soccorritori? Nello studio sui soccorritori vi è
una biforcazione metodologica tra un orientamento prevalentemen-

75
la shoah

te psicologico2 e uno storico di taglio socio-politico attento all’esame


delle caratteristiche sociali e demografiche dei soccorritori, ai fattori
situazionali e alle costrizioni esterne al soccorso. I due approcci espli-
cativi sono attraversati da un taglio sociopsicologico che fa interagire
disposizioni personali e fattori situazionali.
Presupposto dell’approccio disposizionale e motivazionale è il sé,
una personalità stabile nel tempo che presenta una caratteristica distin-
tiva: l’altruismo. L’altruismo di cui dà prova chi soccorre gli ebrei è di
una forma del tutto particolare perché è «ad alto rischio per la vita di
chi soccorre, offre un aiuto duraturo nel tempo, esteso verso un gruppo
di pariah destinati alla morte in un contesto di disapprovazione o in un
clima sociale ambivalente» (Oliner, Oliner, 1988, p. 10). Lo spettatore
si trasforma in soccorritore attraverso un processo di consapevolezza.
A partire da un intimo nocciolo di valori e principi morali emerge un
sé del soccorritore che tiene sotto controllo paure, pressioni e respon-
sabilità e permette di fare tutto ciò che è necessario per salvare altre
vite (Fogelman, 1994). L’apatia dello spettatore passivo è invece lega-
ta ai fenomeni socio-psicologici della “diffusione di responsabilità” e
dell’“effetto spettatore” (la probabilità che una persona si prenda la
responsabilità di intervenire è minore quanto più alto è il numero di
spettatori presenti nella situazione d’emergenza) più che alle deficien-
ze empatiche della personalità (Darley, Latané, 1968). Lo spettatore
sensibile al bisogno d’aiuto si impegna nel soccorso solo quando gli si
prospetta un’opportunità, una richiesta diretta d’aiuto e disponibilità
di risorse (Fogelman, 1994; Oliner, Oliner, 1988). Inclusività e attac-
camento sono i valori chiave dell’altruismo (Oliner, Oliner, 1988). Il
soccorritore soffre di un’afasia argomentativa: alla domanda «perché
l’hai fatto?» tipicamente risponde «era la cosa giusta da fare», «non
avrei potuto vivere lasciando morire quelle persone» (de Benedittis,
2005). Vi sono stati soccorritori con motivi religiosi, umanitari, coin-
volti nella resistenza, leali o pagati (Grunwald-Spier, 2010) e categorie

2. A sua volta distinto in approccio psicoeducativo, basato su psicologia, socio-


logia e scienze dell’educazione, che si focalizza sulle strutture di personalità, sulle
influenze della prima infanzia e sulle motivazioni e studi sperimentali di tipo sociop-
sicologico volti a individuare variabili critiche facilitanti il comportamento d’aiuto
(Darley, Latané, 1968) dell’orientamento psicologico. Per quanto concerne il manca-
to intervento dello spettatore passivo alcune teorie sociopsicologiche aiutano a spie-
garne le ragioni della sua preminenza.

76
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

motivazionali quali moralità, giudeofilia, ideologia antinazista, profes-


sionalità che ci aiutano a capire l’elemento innescante l’iniziale sforzo
individuale d’aiuto (Fogelman, 1994).
L’approccio motivazionale tuttavia è debole perché non mette in
discussione il legame tra motivazione e azione, tautologico poiché pre-
suppone che «i soccorritori si comportarono altruisticamente perché
erano altruisti»; inoltre puntare tutto sulla ricerca della motivazione
porta a sottovalutare i dilemmi pratici come “chi dovrei aiutare?” e “a
chi dovrei chiedere aiuto?” ingenerati nel soccorritore e nella vittima
(Varese, Yaish, 2000).
L’approccio situazionale d’orientamento storico e socio-politico
indaga le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i
differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista (Marrus,
Paxton, 1982), i rapporti fra popolazione ebraica e non ebraica prima
della persecuzione, la relazione fra antisemitismo e atteggiamento della
popolazione locale verso gli ebrei durante l’occupazione nazista (Gut-
man, Zuroff, 1977, pp. 617-25), il grado di controllo diretto esercitato
a livello regionale, distrettuale e comunale dai tedeschi sugli apparati
esecutivi, quello di successo nel coordinare le varie strutture sociali nei
paesi occupati. Il soccorso è stato influenzato dalle culture locali, dalle
tradizioni di lunga durata d’aiuto a vicini e ai viaggiatori in difficoltà
e di resistenza all’autorità dello Stato (Sémelin, Andrieu, Gensburger,
2010, pp. 265-79). La richiesta diretta d’aiuto è decisiva per innescare
il comportamento altruistico così come il ruolo dei mediatori tra le
persone in stato di bisogno e i soccorritori (Varese, Yaish, 2000).
Nell’esperimento 13a dello studio di Milgram sull’obbedienza
all’autorità i soggetti sperimentali, spettatori dell’invio di scosse agli
“allievi”, si oppongono fisicamente o verbalmente al soggetto complice
che veste i panni del “collega” zelante (Milgram, 2003, p. 93). La coe-
sione tra gli astanti stimola l’aiuto e inverte il tipico effetto inibitorio
causato dall’ampia dimensione di gruppo quando è saliente una norma
di responsabilità sociale che prescrive l’assistenza in caso d’emergenza
(Rutkowski, Cruder, Romer, 1983).
Diversamente da quanto si è pensato per lungo tempo, l’“effetto
spettatore” non è rafforzato dall’allargamento del gruppo d’astanti
ma è prodotto dall’assenza di un rapporto psicologico fra gli astanti
mentre l’ampliamento del gruppo può inibire come incoraggiare l’in-
tervento a seconda del modo in cui i membri del gruppo sono catego-

77
la shoah

rizzati socialmente (Levine, Crowther, 2008). Il ruolo dello spettatore


passivo nel corso di atrocità di massa può essere inquadrato nella pro-
spettiva del “cambiamento della norma” (Welzer, 2004) nella società in
cui avvengono le violenze. Teorie sociopsicologiche sul “cambiamento
della norma” e sul “mutamento d’atteggiamento” mostrano strategie
di reazione psicologica alle atrocità da parte degli spettatori. Nel pro-
cesso dinamico che spinge una società verso il genocidio gli spettatori
sono persuasi a svalutare e a delegittimare le vittime sullo sfondo di
una situazione di vita quotidiana difficile in ragione dell’appartenenza
a un “mondo giusto” (Godfrey, Loewe, 1975). La “risocializzazione”
dello spettatore può lenire i sentimenti di colpa che prova per le vitti-
me generando conformità e inazione e incoraggiando i perpetratori a
commettere ulteriori atrocità (Staub, 1999).
La dissonanza vicaria – tendenza a esperire una dissonanza cognitiva,
vale a dire l’incoerenza tra una certa attitudine, valori e credenze tenuti
da individui o gruppi e un comportamento incompatibile con essi, dopo
aver assistito passivamente a un atto immorale commesso da membri del
proprio gruppo di appartenenza (compagno di scuola, parente, collega
di lavoro, connazionale) e la modificazione dell’attitudine al fine di ri-
durre il contrasto – descrive lo stato cognitivo dello spettatore inerte di
atrocità collettive (Norton, Monin, Cooper, Hogg, 2003).
La giustificazione morale, l’etichettamento eufemistico, la compa-
razione vantaggiosa e il trasferimento di responsabilità verso un’au-
torità legittimano chi ha ordinato la condotta dannosa generando
disimpegno morale (Bandura, 1999)3. Al fine di proteggere la propria
integrità personale in momenti in cui il controllo sociale è troppo seve-
ro si preferisce “farsi gli affari propri” (Bar-On, 2001, p. 127). La spirale
di silenzio, la tendenza a evitare di dire la propria opinione su qualcosa
quando ci si sente minoritari e minacciati di ritorsione o di isolamento
dalla maggioranza (Noelle-Neumann, 2002) e l’ignoranza pluralistica,
stato in cui il singolo privatamente pensa che gli atti criminali siano
illegali mentre erroneamente suppone che per le altre persone siano
accettabili, diffondendo la responsabilità e perpetuando una nuova
norma anti-sociale (Prentice, Miller, 1993) favoriscono l’inazione dello
spettatore. La relazione tra distanza sociale ed eterofobia, la sostituzio-

3. Quando sono compiute crudeltà certi meccanismi psicologici auto-sanziona-


tori che di solito governano la condotta morale, facendoci astenere da atti immorali
innescando preoccupazione anticipatoria e autocondanna, sono disattivati da tecni-
che che disimpegnano le persone dalle norme morali vigenti.

78
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

ne della responsabilità morale con l’avversione verso soggetti umani


una volta vicini, distanziati fisicamente e spiritualmente, trasformati in
“altri” hanno portato milioni di persone a osservare l’assassinio degli
ebrei senza protestare (Bauman, 2010a, p. 250).

6.3
Ritratti di nazioni, comunità, individui
Sotto il Terzo Reich l’opinione pubblica tedesca era divisa tra una
ristretta minoranza di paranoici che odiavano spasmodicamente gli
ebrei (“battaglioni d’assalto” – sa, attivisti di partito), un’ampia se-
zione della popolazione che approvava l’esclusione economica e l’o-
stracismo sociale degli ebrei, respingendo la disumanità di chi li odiava
visceralmente e una minoranza che provava un profondo senso umani-
tario che si opponeva all’odio razziale (Kershaw, 1981, p. 286).
Le leggi di Norimberga furono accettate pienamente dalla gran
parte della popolazione come possibile soluzione permanente alla se-
gregazione biologica, accolte con insoddisfazione dagli attivisti nazisti,
condannate dai religiosi, dalla sinistra marxista, dai liberali borghesi e
dagli intellettuali, accolte senza reazioni dai più che non presero po-
sizione conservando un’attitudine passiva ed equanime nei confronti
dell’ideologia e della politica del regime (Bankier, 2000, p. 273).
La reazione alla Notte dei cristalli fu largamente negativa. Silen-
zioso disgusto intervallato da invettive borbottate di condanna, ver-
gogna e orrore contro la barbarie furono le più tipiche reazioni. Rifiu-
to, assistenza e solidarietà vennero da cattolici e protestanti. L’ampia
risposta negativa al pogrom si tramutò in largo consenso per un “anti-
semitismo razionale”.
Il decreto che impose la stella gialla agli ebrei (settembre 1941) fu ac-
colto con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione (Dov
Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Isolati tributi di solidarietà vennero da bor-
ghesi e cattolici. La maggior parte della popolazione non si accorse, né
commentò l’imposizione di questa misura (Kershaw, 1981, p. 283).
Quanto alle deportazioni di ebrei tedeschi “verso est” (ottobre
1941), l’auspicio generale è che essi vengano allontanati dalla Germa-
nia (Dov Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Una minoranza calorosamente
approva le deportazioni, la maggioranza è decisamente più riservata,
mentre un’altra minoranza le contesta (Bajohr, 2006). Nonostante

79
la shoah

l’ampia diffusione di informazioni sulle fucilazioni di massa di ebrei “a


est” la maggior parte dei tedeschi non ci pensa: gli ebrei oramai «sono
lontano dagli occhi e dal cuore» (Kershaw, 1981, p. 284). Sulle gasa-
zioni “a est” si sa poco, lo sterminio è tenuto segreto dal regime: «l’o-
micidio di massa è un punto di frattura nel più vasto consenso della
comunità di popolo» (Bajohr, 2006, p. 197). Negli ultimi due anni di
guerra, mentre le bombe cadono sulle città tedesche, fra la gente si insi-
nua la convinzione che il modo in cui la questione ebraica è stata risolta
sia stato totalmente sbagliato. Il senso di colpa per molti si tramuta in
disponibilità al soccorso dei 15.000 ebrei che nascosti nel 1944 ancora
vivono in Germania.
Il fatto che poco meno di 3 milioni di ebrei polacchi siano stati ucci-
si, che solo il 3% sia scampato alla morte e la maggior parte dei Giusti tra
le nazioni siano polacchi ha reso impellente la questione delle relazioni
ebraico-polacche. L’antisemitismo, norma culturale in Polonia (condi-
visa persino dagli ebrei assimilati) spinse una minoranza di polacchi a
intraprendere la strada della violenza e dell’omicidio, creò un’atmosfera
di terrore che inibì i tentativi di fuga degli ebrei dai ghetti (Paulsson,
1998, p. 36). Il fatto che l’aiuto agli ebrei era punito con l’impiccagione
o la fucilazione sul posto e che tra i paesi occupati la Polonia fu l’unico a
formare un’organizzazione clandestina d’assistenza agli ebrei, chiamata
Zegota, resero peculiare il contesto polacco (Lukas, 1986). Tra l’essere
accolto, l’essere consegnato ai nazisti e l’essere mandato via, la seconda
reazione è stata quella meno probabile quando un ebreo bussava alla
porta del gentile in cerca d’aiuto (Paulsson, 1998, p. 40).
L’attiva partecipazione alla persecuzione della popolazione lituana
spiega perché il 95% degli ebrei lituani perirono (Nikžentaitis, Schrei-
ner, Staliūnas, 2004, p. 108). Coloro che collaborarono con i tedeschi
erano tuttavia una minoranza, la gran parte della popolazione rimase
a guardare. Sin dal primo giorno dell’occupazione tedesca i locali non-
ebrei scatenarono pogrom nelle città e nelle campagne. Battaglioni di
volontari civili furono formati e inviati nelle stazioni cittadine per arre-
stare gli ebrei. Mentre ampie sezioni della popolazione, vedendo i tede-
schi come liberatori, salutarono con approvazione le operazione di puli-
zia etnica, tanti lituani condannarono le violenze e distolsero lo sguardo
dagli omicidi schierandosi a difesa degli ebrei, come nel caso di molti
cattolici o del comitato per il soccorso degli ebrei fondato dalla bibliote-
caria dell’università di Vilnius, Ona Shimaite (Levin, 1990, p. 58).

80
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

La Bulgaria fu l’unico paese satellite della Germania dove alla


fine della guerra c’erano più ebrei del periodo prebellico. Poco più di
50.000 ebrei bulgari scamparono la deportazione grazie all’opposizio-
ne dell’opinione pubblica culminata nella dimostrazione congiunta di
ebrei e non-ebrei del 24 maggio 1943 davanti al palazzo reale a Sofia
(Hálfdanarson, 2003). Queste le peculiarità della situazione bulgara:
assenza di una tradizione antisemita, antisemitismo opportunistico
della classe politica, mancata disumanizzazione degli ebrei, prevalenza
di sentimenti di pietà (Nissim, 2002). Il salvataggio degli ebrei bulgari
è stato un «fenomeno di mobilitazione collettiva più che un atto indi-
viduale di soccorso» (Reicher et al., 2006, p. 68) in cui re, uomini di
coscienza, popolo, leader politici e religiosi costruirono un rapporto di
interdipendenza e di sostegno reciproco (Todorov, 2001, p. 40).
Il salvataggio di 72.00 ebrei danesi grazie al rapido trasferimento
via mare in Svezia il 1° ottobre 1943 fu reso possibile da un’operazione
collettiva d’aiuto intrapresa dalla popolazione non ebrea. Nell’Euro-
pa nazista la Danimarca è stata un’eccezione senza eguali: un protet-
torato modello che poté conservare le istituzioni democratiche. L’im-
posizione della legge marziale (29 agosto 1943) aprì una fase di crisi in
cui avanza l’ipotesi della deportazione tempestivamente contrastata
dal soccorso di polizia e guardiacoste, giudici e autorità penitenziarie,
medici, pescatori, studenti e giornalisti. Il fattore decisivo del salvatag-
gio è stato «il carattere speciale e la statura morale dei danesi e il loro
amore per la democrazia e la libertà» (Yahil, 1969, p. xviii). Il ridot-
to numero di ebrei, la vicinanza del rifugio svedese, la disponibilità
degli svedesi ad accogliere tutti gli ebrei e il fatto che il trasferimento
avvenne in un momento di crescente opposizione al nazismo resero
possibile l’operazione di soccorso (Marrus, Paxton, 1982, p. 710). L’e-
pisodio dell’operazione di soccorso in Danimarca resta un importante
evento negli annali della Shoah (Gutman, Zuroff, 1977), un «simbolo
di speranza e di luce nell’oscurità dell’Olocausto» (Kirchhoff, 1995,
p. 477).
Tra i paesi neutrali, la Svezia ha mostrato una «neutralità compli-
cata» (Friedman, 2011) in quanto è stata paradossalmente il principa-
le soccorritore di ebrei in Europa e il maggiore fornitore di materiale
bellico del regime nazista. La Svizzera si è trovata nella scomoda po-
sizione di favoreggiatore della persecuzione ebraica per via del soste-
gno economico-finanziario dato al nazismo e di una restrittiva politica

81
la shoah

d’asilo che ha impedito a migliaia di profughi ebrei di rifugiarvisi. Le


banche svizzere incassarono oro e beni sottratti agli ebrei sterminati,
garantirono ai nazisti valuta contante, le imprese svedesi fornirono ai
nazisti ferro e cuscinetti a sfera prolungando lo sterminio. Dal 1942
i due paesi disposero di informazioni dettagliate sullo sterminio ma
reagirono alla catastrofe ebraica in modo diametralmente opposto: la
Svezia passa dall’“indifferenza all’attivismo”, in Svizzera il rifiuto di ac-
cogliere gli ebrei si fece sempre più ostinato. L’incrementarsi del flusso
di informazioni attendibili giunte in Svezia dall’estate del 1942 e dalla
“prerogativa nordica” favoriscono la svolta svedese (Friedman, 2011, p.
310; Edgren, 2012, p. 61). La politica svizzera fu ispirata da una neu-
tralità integrale, dall’adattamento alle prevalenti circostanze politiche,
da una chiara avversione a ogni ideologia e da un’ostilità nei confron-
ti dello straniero, specie se ebreo. La sua politica d’asilo, il cui tratto
di tolleranza passiva permise tuttavia di mettere in salvo circa 27.000
ebrei (Hilberg, 1997, p. 249), fu il prodotto di un’assenza di riferimen-
to alla giustizia che impedì di riconoscere come tali i crimini nazisti,
una mancanza di chiari standard umanitari e una paura irrazionale
dell’immigrazione (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 231-44).
Il silenzio di Pio xii riassume la risposta alla Shoah del Vaticano. Il
Papa non denunciò pubblicamente la Shoah né condannò il nazismo
per i suoi crimini (Zuccotti, 2001, p. 1). Diversamente dal suo prede-
cessore Pio xi che si schierò contro leggi razziali e antisemitismo, Pio
xii privilegiò la diplomazia e il rispetto della legge canonica (Coppa,
2008, p. 556) mantenendo una posizione neutrale a difesa dell’indi-
pendenza del Vaticano e della possibilità della mediazione per la pace
fra contendenti. Nessuna protesta ebbe luogo il 16 ottobre 1943 in
occasione del rastrellamento di 1.259 ebrei romani. I suoi detrattori
spiegano questo silenzio con l’indifferenza alle sofferenze degli ebrei
(Cornwell, 2000), l’antisemitismo (Goldhagen, 2003), l’avversione al
bolscevismo e la stima di tutto ciò che era tedesco (Friedländer, 1965).
I suoi difensori sottolineano il rifugio dato ad alcune centinaia di ebrei
romani (Lapide, 1967), il sostegno economico offerto alla comunità
ebraica romana, le istruzioni date nel 1944 al nunzio apostolico in
Ungheria Angelo Rotta che protestò contro il governo ungherese, e
spiegano il silenzio con la volontà di salvaguardare e facilitare il lavoro
dietro le quinte della diplomazia vaticana a favore del salvataggio di
migliaia di ebrei (Rhodes, 1973). La prudenza politica di Pio xii è ispi-

82
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

rata dal calcolo, dalla volontà di non esporre al pericolo di rappresaglia


40 milioni di cattolici tedeschi, gli abitanti di Roma e del Vaticano e di
rendere fatali gli sforzi degli alleati. Rispetto al tipo di male incarnato
dalla Shoah, la politica papale del male minore e del soccorso per via
diplomatica appaiono inappropriate e moralmente discutibili.
La risposta degli alleati (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bre-
tagna) allo sterminio degli ebrei fu insufficiente perché la questione
ebraica non rappresentò mai una priorità (Hilberg, 1997, p. 240). Per
via della loro inerzia in Mentre sei milioni morivano Stati Uniti e Gran
Bretagna sono stati definiti «spettatori» (Morse, 1968). L’incapacità
alleata di portare in salvo gli ebrei è sfociata nell’autoaccusa: «i nazisti
erano assassini, noi eravamo tutti complici passivi» (Wyman, 1984).
C’è chi pensa che «nessuno degli ebrei morti durante l’Olocausto
avrebbe potuto essere salvato da qualsiasi azione che gli alleati avrebbe-
ro potuto intraprendere tenuto conto di ciò che si sapeva al riguardo,
di ciò che venne effettivamente proposto e che era realisticamente pos-
sibile» (Rubinstein, 1997, p. x). La frase sbrigativa «il mondo non fece
niente» è una «mezza verità poiché ignora che gli alleati fecero crolla-
re il Terzo Reich» (Marrus, 2007, p. 2), ma va riconosciuto che «quel
poco che si sarebbe potuto fare non è stato fatto» (Bauer, 2013, p. 133).
Gli alleati sono stati accusati di non aver bombardato Auschwitz e le
linee ferroviarie, di non aver negoziato coi nazisti il rilascio di ebrei, di
non aver pubblicizzato efficacemente le informazioni sullo sterminio
e di aver ritardato a creare il War Refugee Board (Commissione inter-
dipartimentale fondata da Roosevelt nel gennaio 1944 che salvò circa
200.000 ebrei) (Niewyk, Nicosia, 2000, p. 121).
A volte gli spettatori si trasformarono in carnefici come a Jedwab-
ne, nella Polonia nord-orientale dove il 10 luglio 1941 i “vicini” non
ebrei massacrarono la quasi totalità degli ebrei (tra i 400 e i 1.600).
I tedeschi stettero a guardare, fecero fotografie, mentre i locali non
ebrei, istigati dai nazisti, brutalizzati dalla guerra e dalla repressione
sovietica, motivati dal desiderio e dall’opportunità inaspettata di deru-
bare gli ebrei una volta per tutte, li raccolsero nella piazza del mercato,
li umiliarono ordinandoli in una parata diretta al cimitero, li spinsero
dentro un grosso fienile dove li bruciarono vivi. La maggioranza della
popolazione restò passiva davanti al crimine; furono uccise circa 90
persone, solo la famiglia Wyrzykowski nascose i soli sette ebrei soprav-
vissuti (Gross, 2003).

83
la shoah

Altre volte intere comunità si trasformarono in terre di soccorso


come a Le Chambon-sur-Lignon e Nieuwlande4. Esempi di riusci-
ta azione politica morale (Gross, 1997), di «ordinarietà del bene»
(Modigliani, Rochat, 1995) e di collettiva resistenza civile non vio-
lenta all’occupazione nazista, le operazioni di soccorso furono possi-
bili grazie all’ampia componente protestante (ugonotta a Le Cham-
bon, calvinista a Nieuwlande), alla presenza di leader carismatici (il
pastore André Trocmé e la moglie Magda a Le Chambon, l’attivista
resistente Arnold Douwes a Nieuwlande) e al sostegno delle reti or-
ganizzate di soccorso radicate localmente. Il soccorso agli ebrei e la
resistenza all’autorità a Le Chambon venne sollecitata dal sermone
del pastore Trocmé il 23 giugno 1940, a Nieuwlande dalla predica del
pastore Slomp nell’estate del 1942. Gli abitanti di Le Chambon, ugo-
notti d’origine, condivisero con gli ebrei una secolare tradizione di
persecuzione in Francia, erano ispirati dalla parabola evangelica del
buon samaritano e da una forte opposizione antigovernativa. Quelli
di Nieuwlande identificarono gli ebrei con Israele, popolo eletto nel
Vecchio Testamento dimostrando un forte senso di dovere morale.
L’arresto dei leader, la minaccia delle perquisizioni e i conseguenti ar-
resti indurirono la resistenza che divenne parte della quotidianità a
Le Chambon (ibid.), la professionalizzazione della rete di resistenza
civile con l’attribuzione alle donne e agli ebrei soccorsi di un ruolo de-
cisivo e di una certa responsabilità e l’assistenza finanziaria del fondo
nazionale garantirono a Nieuwlande il successo dell’impresa (Séme-
lin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).
Il singolo soccorritore è ben identificabile, ne conosciamo il nome,
il volto, i dettagli della sua impresa. L’identità dello spettatore passivo
scompare dietro uno pseudonimo o resta senza nome, si dilunga poco
nel racconto di sé e della sua esperienza durante la guerra soffermando-
si su quanto dura fosse allora la vita (Oliner, Oliner, 1988). Czesław Bo-
rowi, un contadino polacco che lavorava le sue terre intorno al Lager

4. A Le Chambon, comune di poco meno di 3.000 abitanti situato sull’altopiano


Vivarais-Lignon, in alta Loira tra il 1940 e il 1944 vengono salvate 5.000 persone di
cui 3.500 ebrei dalla persecuzione nazista, principalmente bambini sottratti all’inter-
namento nei campi di Gurs e Rivesaltes. A Nieuwlande, villaggio di 800 abitanti col-
locato a sud di Drenthe nel nord dell’Olanda, 250 ebrei, intere famiglie strappate ai
treni ad Amsterdam diretti ad Auschwitz e portate in salvo in bicicletta sono nascoste
da quasi tutte le famiglie del paese (Sémelin, Andrieu, Gensburger, 2010, pp. 447-64).

84
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso

di Treblinka disse «se io mi taglio un dito lui [un’altra persona] non


sente male» (Lanzmann, 2007, p. 24). Beatrix (pseudonimo attribui-
to a una spettatrice olandese) ricordava: «Non si poteva fare niente.
Avremmo potuto nasconderli, ma c’era un aiutante in casa e troppa
gente intorno perché avevamo uno studio medico...» (Renwick Mon-
roe, 2008, p. 718). Una spettatrice del ghetto di Varsavia ammetteva:
«La mia colpa, che confina con la crudeltà, fu la mia indifferenza per il
destino ebraico. Ero completamente indifferente agli esseri umani che
stavano morendo nel ghetto. Loro erano “loro” e non “noi”» (Barnett,
1999, p. 112).
Oskar Schindler è un imprenditore tedesco che riesce nell’impre-
sa di mettere in salvo 1.100 ebrei con il pretesto di impiegarli in una
fabbrica di oggetti smaltati a Cracovia. Interrogato sul perché lo fece
rispose bizzarramente: «Se attraversando la strada vi fosse un cane
in pericolo di essere investito da un’auto, non si dovrebbe provare ad
aiutarlo?» (Wundheiler, 1986, p. 340). A Budapest il diplomatico
svedese Raoul Wallenberg fra il luglio del 1944 e il gennaio del 1945
salvò fino a 100.000 ebrei rilasciando passaporti svedesi protettivi
(Bierman, 1981). Sempre a Budapest Giorgio Perlasca, commercian-
te di carni, si finse reggente della legazione spagnola fra il dicembre
del 1944 e il gennaio del 1945 salvando più di 5.000 ebrei. Alla do-
manda “perché lo fece?” Perlasca rispose: «Perché non potevo sop-
portare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non
potevo sopportare di veder uccidere dei bambini» (Deaglio, 2003).
Jan Karski e Kurt Gerstein sono stati «messaggeri» che portarono al
«mondo esterno» l’orribile notizia dello sterminio (Hilberg, 1997).
Queste parole pronunciate nel 1989 rivelavano con amarezza l’esito
dell’encomiabile sforzo di Karski: «tutte quelle grandi personali-
tà, presidenti, ambasciatori, cardinali che dissero di essere sconvolti,
mentivano. Sapevano o non volevano sapere. Questo mi scioccò. Non
volevo più avervi a che fare. Dissi a me stesso: “Karski sei impotente.
Chiudi con questa faccenda”» (Paldiel, 2011). Gerstein fu un attivista
protestante della Chiesa confessionale che nel marzo del 1941 entrò
nelle Waffen ss per conoscere dall’interno i crimini nazisti. Nell’ago-
sto del 1942 denunciò l’uccisione di più di 5.000 ebrei a Bełżec a cui
assistette personalmente il segretario della legazione svedese a Berlino
Göran Fredrik von Otter. Scrisse dozzine di lettere di denuncia a col-
leghi protestanti, amici e familiari mentre continuò a rifornire di Zyk-

85
la shoah

lon B i Lager di Auschwitz e Oranienburg. Esempio dell’«ambiguità


del bene» (Friedländer, 2006), Gerstein tenta di bilanciare i doveri di
ss con la personale resistenza al crimine di cui è suo malgrado artefice
(Hebért, 2006). Queste sono solo una goccia nel mare delle migliaia
di storie di soccorso la cui conoscenza dovrebbe spingerci a chiederci:
«Avrei potuto agire così in queste circostanze, avrei potuto tentare,
avrei voluto fare così?» (Gilbert, 2007, p. 427).

86
7
Presente e futuro della Shoah:
ricordare, rappresentare, educare
Lungi dal restare prigionieri del passato, dobbiamo
metterlo al servizio del presente, così come la memo-
ria – e l’oblio – dovrebbe essere utilizzato al servizio
della giustizia.
Tzvetan Todorov

Ad essere onesti l’Olocausto ci ha colti impreparati.


Inaudito, inatteso esso necessita di parole o materia-
li che mai sono stati concepiti per rappresentare ciò
che è accaduto qui. Questo è un problema che riguar-
da tutti, compreso coloro che ne hanno fatto diretta
esperienza.
Raul Hilberg

L’educazione sull’Olocausto ha a che fare con la ne-


gazione del diritto umano fondamentale, il diritto alla
vita, di un gruppo minacciato di annientamento.
Yehuda Bauer

7.1
Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare
Nella cultura e nello spazio pubblico contemporanei la memoria della
Shoah è centrale. Auschwitz è la «base della memoria collettiva del
mondo occidentale» (Traverso, 2006, p. 13). Il suo ricordo, istituzio-
nalizzato con la designazione della Giornata internazionale per la me-
moria delle vittime dell’Olocausto1 il 27 gennaio, ha dato luogo a una

1. La risoluzione 60/7 adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite af-


ferma che «l’Olocausto, che ha provocato l’uccisione di un terzo del popolo ebraico,
insieme a innumerevoli membri di altre minoranze, sarà per sempre un monito per
tutte le persone sui pericoli dell’odio, del fanatismo, del razzismo e dei pregiudizi»,

87
la shoah

religione civile, fatta di rituali di pubblica commemorazione e di spazi


di “culto”, memoriali e musei. La letteratura sulla memoria della Shoah
mette l’accento sulla sua natura traumatica, sul difficile riemergere
collettivamente, sull’antinomia fra storia, narrazione e scrittura del
passato secondo le modalità e le regole del mestiere e la memoria, ma-
trice della rappresentazione storica che, singolare e imperfetta, rifugge
comparazioni e generalizzazioni (Traverso, 2006, p. 18), sugli abusi e
l’ossessione commemorativa. Quando si sente parlare di memoria della
Shoah, del “dovere della memoria” non ci si riferisce primariamente ai
ricordi che i carnefici hanno della violenza inflitta, ma alla rievocazio-
ne dell’offesa subita dalle vittime.
Per i sopravvissuti la memoria dell’offesa è qualcosa di intollerabile
e doloroso. Si prova vergogna a ripensare al modo in cui si è stati umi-
liati e degradati, si fa fatica a riaccogliere nella famiglia umana i propri
aguzzini (Bensoussan, 2014, p. 3). Chi è stato carnefice e prova un sen-
so di colpa per ciò che ha fatto preferisce ricacciare nel profondo il ri-
cordo deformandolo e obliterandolo. Accomunati dal fatto che la me-
moria dell’esperienza estrema mal si accorda con il volto decente che
le società post-genocidarie impongono, vittime e carnefici si trovano
agli antipodi rispetto al dovere civico della trasmissione della memoria
dell’offesa che preme in molte vittime, mentre è assente nei carnefici
che temono il castigo della legge (Krondorfer, 2008, p. 250).
Sul piano collettivo la rammemorazione della Shoah si è dipanata
secondo due regimi: alla repressione del ricordo avvenuta nell’imme-
diato dopoguerra è seguita l’ossessione commemorativa (Moyn, 1998).
Seguendo questa traiettoria, dalla repressione all’ossessione, la memo-
ria collettiva della Shoah, declinandosi differentemente nei vari con-
testi nazionali sotto vari stimoli è venuta fuori lentamente. Nella metà
degli anni Quaranta ha prevalso una reazione di ripugnanza ai crimini
nazisti e una prima rielaborazione attraverso i processi di Norimberga
del 1945-46. Dai tardi anni Quaranta ai tardi anni Cinquanta si era in-
differenti ai crimini nazisti avvolti da un silenzio quasi totale eccezion
fatta per il diario di Anna Frank (1947), la cui trasposizione teatrale
(1955) e cinematografica (1959) fu accolta da un grande successo in-
ternazionale. Negli anni Sessanta si è assistito a un primo riemergere

gli Stati membri onu sono sollecitati a sviluppare programmi educativi, a rifiutare i
negazionismi, a preservare i luoghi della persecuzione, a condannare tutte le manife-
stazioni di molestia, incitamento e intolleranza religiosa.

88
7. presente e futuro della shoah

della Shoah come soggetto autonomo nel processo della memoria col-
lettiva e della comprensione della storia grazie al processo Eichmann
(1961), al cambio generazionale e alla guerra arabo-israeliana dei Sei
giorni (1967) che per la prima volta ha evidenziato la minaccia alla si-
curezza degli ebrei in Israele. Negli anni Settanta e Ottanta si è diffusa
su larga scala la consapevolezza che la Shoah sia un elemento noda-
le delle storie e delle memorie nazionali. Il preponderante mito della
resistenza all’occupazione nazista è infranto in Francia. Si riscopre il
diffuso fenomeno del collaborazionismo sotto il regime di Vichy con
l’uscita del film Le Chagrin et la pitié (1971). Nel 1984 gli esponenti
della comunità ebraica francese polemizzano l’apertura nei pressi di
Auschwitz di un convento di carmelitane, nel 1980 esce Le Journal
d’Anne Frank est-il authentique? (1980) del negazionista Faurisson e
nel 1985 il documentario Shoah, nel 1987 si tiene il processo al “boia di
Lione” Klaus Barbie (1987). Fra il 1978 e il 1979 si afferma negli Stati
Uniti e in Germania il termine Olocausto grazie alla trasmissione del
film Holocaust, in Germania tra il 1986 e il 1989 si consuma la “disputa
degli storici” (Historikerstreit) sul posto occupato da Auschwitz nella
memoria tedesca e sul problema della singolarità e comparabilità del-
la Shoah. Negli anni Novanta, a Guerra fredda conclusa, e nel primo
decennio del 2000, la consapevolezza di massa sulla tragedia ebraica
raggiunge il suo picco con la sua “americanizzazione” legata al successo
mondiale di Schindler’s List e all’apertura dell’Holocaust Memorial
Museum a Washington nel 1993 (Gordon, 2013, pp. 3-14).
Nell’era della “guerra al terrore” la Shoah resta un’ombra sull’Oc-
cidente ma è anche vista come l’elemento unificante per una comu-
ne memoria europea (Diner, 2003), la sua memorializzazione è posta
alla base del processo di integrazione europea (Karner, Mertens, 2013,
pp. 23-42). Quanto più lo sterminio degli ebrei d’Europa ripiega nel
passato, ritirandosi come esperienza vissuta, tanto più si afferma nel
presente come luogo della memoria (Nora, 1989). Per questioni ana-
grafiche oggi il ricordo di Auschwitz non è quello spontaneo di chi
ne è stato vittima, carnefice o spettatore, ma è costruito e mediato da
molteplici modalità rappresentative. Questa memoria non è più, o non
solo, è legata ai luoghi della persecuzione. Essa è cosmopolita, deterri-
torializzata e dislocata (negli Stati Uniti ci sono oltre 44 tra musei e
memoriali, a Montevideo si trova il Memoriale dell’Olocausto del po-
polo ebraico, a Cape Town, Durban e Johannesburg Centri di ricerca

89
la shoah

sull’Olocausto, a Ottawa un Monumento nazionale dell’Olocausto), è


matrice della sensibilità per il rispetto dei diritti umani e della politica
di intervento umanitario (Levy, Szainder, 2006). Nell’era della globa-
lizzazione delle conoscenze, dei conflitti e delle economie, la Shoah
è diventata «paradigma o modello col quale altri genocidi e traumi
storici sono spesso percepiti e presentati [...] ha fornito una lingua per
la loro articolazione» (Assmann, 2006, p. 14).
Perché ricordare ancora la Shoah a quasi settant’anni di distanza?
Questa domanda ne presuppone un’altra più ampia: perché ricordia-
mo il passato? Ogni esistenza individuale è collocata storicamente in
rapporto a un passato che la precede e a un futuro che scalpita per
emergere. Affinché questa esistenza possa strutturarsi ed elaborarsi
necessita stabilire da dove proviene e verso dove è diretta, facendo
tesoro degli esempi della memoria collettiva e della storia. Oggi si
sente il dovere di ricordare e di riflettere sulle lezioni della Shoah –
sull’estrema degradazione e umiliazione a cui può dar luogo l’esclu-
sione sociale e razziale legalizzata, sulla trasformazione di individui
ordinari in straordinari criminali, sull’indifferenza degli spettatori e
sul coraggio morale dei soccorritori – perché si è convinti che esse
possano evitarci di essere vittime, carnefici o spettatori a nostra volta.
Nondimeno gli appelli al “dovere di ricordare”, al “mai dimenticare”,
al “mai più” – imperativi su cui il ricordo della Shoah da sempre si
presenta come obbligo – suonano beffardi e retorici rispetto all’in-
cessante rincorrersi della violenza di massa sui civili. Questa retorica
dovrebbe farci aprire gli occhi sul fatto che la memoria è sempre del
presente, che l’appropriazione del passato avviene sempre in una di-
mensione socio-politica tutt’altro che neutra. Sia i contenuti sia le
forme della memorializzazione sono determinati dall’interazione
tra l’esperienza storica rappresentata, gli agenti che ne plasmano la
memoria – committenti, finanziatori, creatori o fruitori del veicolo
culturale adottato – e i paradigmi rappresentativi (Kansteiner, 2002).
Nella definizione del ricordo di un trauma collettivo si alternano
contesa e consenso come hanno mostrato i dibattiti sull’edificazione
del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa (Robin, 2005), del
centro di documentazione Topografia del terrore nel cuore di Berlino
(Hass, 2004) e del Museo canadese per i diritti umani (Laban Hinton,
La Pointe, Irvin-Erickson, 2014, pp. 21-51). La memoria della Shoah
non può essere uniforme perché l’esperienza del trauma e della sua

90
7. presente e futuro della shoah

rimozione è stata diversa fra vittime, carnefici e spettatori, fra paesi


dell’Europa occupata e neutrale, dell’est e dell’ovest, dove si è strati-
ficata localmente ed è riemersa a diverse velocità (Assmann, 2006). In
quanto matrice e posta in gioco delle identità familiari, comunitarie,
nazionali la memoria è costantemente esposta alla negazione, alla ba-
nalizzazione e alla sacralizzazione (Todorov, 1996; Pisanty, 2012). Un
dovere della memoria della Shoah a corto di connessioni con il presente
degenera in vuota ripetizione, il ricordo incessante dell’orrore privo di
analisi e di riflessione invece di essere scelta contro il male e la violenza
rafforza l’idea che il male sia ineluttabile (Bensoussan, 2014, pp. 18-27).
In Italia, dove a lungo la memoria delle vittime della Shoah è stata
relegata nell’ombra dalla rievocazione della resistenza al fascismo sta
montando una certa stanchezza contro un Giorno della memoria (isti-
tuito dalla legge n. 211 del 20 luglio 2000) sovrabbondante di “eventi”,
affannato da voci, parole e immagini, solo postumo omaggio e risarci-
mento alle vittime, raramente occasione per riflettere sul presente della
memoria, sugli italiani che sotto il fascismo hanno favorito la persecu-
zione ebraica e sulla reticenza a ricordare per decenni. Questo malu-
more finisce per invocare un unpolitically correct diritto di dimenticare
(Loewenthal, 2014) generalmente bandito da un dovere della memoria
che respinge ciò che dopotutto accade fisiologicamente per qualsiasi
ricordo del passato, la rielaborazione selettiva che escludendo di ne-
cessità manda qualcosa nel dimenticatoio. Non ci può essere memo-
ria completa né perfetta, soprattutto di traumi individuali e collettivi
come la Shoah.

7.2
Forme e limiti della rappresentazione
Non si può ricordare senza avere un’immagine del passato, senza rap-
presentarselo. La rappresentazione come condizione della rammemo-
razione è ri-presentazione (dal latino representare, composto di re- e
presentare “presentare”), contestualizzazione, selezione di contenuto,
attribuzione di senso, forma e significato. È rappresentabile la distru-
zione di milioni di ebrei? Che la Shoah sia rappresentabile lo prova
il fatto che sia stata e continui a essere rappresentata. Fino a oggi più
di un milione di fotografie principalmente scattate dai carnefici sono
state archiviate. Dal 1944 si contano almeno 100.000 resoconti di

91
la shoah

sopravvissuti. Le opere di Primo Levi, Elie Wiesel, Charlotte Delbo,


Ruth Klüger, Jean Améry compongono il “canone accademico” delle
circa 6.000-10.000 memorie. Tra i diari scritti dalle vittime meritano
una menzione speciale quelli di Anna Frank, di Viktor Klemperer e
di Janusz Korczak. Tra i film la miniserie Holocaust (1978) di Mar-
vin J. Chomsky, il documentario Shoah (1985) di Claude Lanzmann,
Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, la Vita è bella (1997) di Ro-
berto Benigni hanno lasciato un profondo segno nella consapevolez-
za collettiva e suscitato aspre reazioni. Significative sono poi la poesia
Fuga di morte (1952) di Paul Celan, il fumetto Maus di Art Spiegelman
(1989-92), tra i racconti storici di finzione Le benevole (2007) di Jona-
than Littell. Fra gli artisti grande attenzione meritano l’opera di An-
selm Kiefer, Christian Boltanski, le mostre Burnt Whole: Contempora-
ry Artists Reflect on the Holocaust (1994), Vernichtungskrieg. Verbrechen
der Wehrmacht 1941-1944 (1995-1999), Mirroring Evil: Nazi Imagery/
Recent Art (2002). Fra i brani musicali ne ricordiamo uno, Il Carmelo
di Echt (2008) di Franco Battiato (2008). Tra le centinaia di memoriali
e musei i più visitati sono il Museo nazionale di Auschwitz-Birkenau,
Yad Vashem a Gerusalemme, Holocaust Memorial Museum a Wa-
shington, il Museo della storia degli ebrei polacchi a Varsavia, il Museo
ebraico e il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa a Berlino, il
Centro di documentazione ebraica e il Memoriale della Shoah (bina-
rio 21) a Milano.
L’incessante rimodellamento estetico e semantico dello sterminio
degli ebrei ha sollevato questioni sui limiti epistemologici ed etici
della rappresentazione. Può l’esperienza della distruzione essere ade-
guatamente rappresentata, senza edulcorarne il carattere estremo? Si
rischia di rappresentarla in modo inappropriato, irrispettosamente
della sofferenza di vittime e parenti o inaccuratamente sul piano del-
la ricostruzione storica? Le varie posizioni espresse rispetto a questi
interrogativi possono essere contestualizzate nella distinzione all’in-
terno degli Holocaust Studies (“studi sull’Olocausto”) tra un approc-
cio realista e uno antirealista al genocidio (Rothberg, 2000)2. Sul pia-

2. Nell’antirealismo convergono la critica strutturalista al realismo letterario del


semiologo francese Roland Barthes (Barthes, 1988), la critica modernista al realismo
storico di Hayden White (White, 1999; 2006) e quella postmoderna alla struttu-
re narrative del sapere occidentale di Jean-Francois Lyotard (Lyotard, 1981) e quella
all’oggettività storica di Peter Novick (Novick, 1988).

92
7. presente e futuro della shoah

no epistemologico – dei fondamenti, della validità e dei limiti della


conoscenza scientifica – per il realismo la Shoah è conoscibile, per
l’antirealismo non lo è o al limite può essere conosciuta servendosi
di regimi di conoscenza nuovi rispetto agli schemi rappresentativi tra-
dizionali. L’approccio realista insiste per analizzare la Shoah secondo
procedure “scientifiche” condivise e inscrivere gli eventi all’interno
di schemi narrativi temporalmente lineari. Queste due prospettive
si differenziano sostanzialmente rispetto al modo di intendere nella
Shoah la relazione tra ordinario e straordinario, due tratti onnipre-
senti e compenetranti nell’esperienza e nella narrazione della Shoah.
Quando rappresentano la Shoah i realisti si servono di termini come
banalità, ordinario, comune, modernità (come sappiamo Arendt parla
di banalità del male, Browning di uomini ordinari, Goldhagen di te-
deschi comuni, Bauman di modernità) e tendono a situarli in un conti-
nuum di ordinario e straordinario, facendoli collassare l’uno sull’altro.
Gli antirealisti adottano vocaboli come barbarie, oscenità, blasfemia,
tremendum, dissenso3 e mantengono una cesura insanabile tra ordina-
rietà e straordinarietà: la Shoah è un evento inaccessibile, al di là del
discorso e della conoscenza. Appartiene la Shoah a una classe speciale
di eventi che ne limita la rappresentazione? La soluzione finale è un
«evento ai limiti» che mette alla prova le categorie rappresentative
e concettuali tradizionali, «la più radicale forma di genocidio della
storia» rispetto a cui vi sono «limiti di rappresentazione che non do-
vrebbero essere ma sono facilmente trasgrediti» (Friedländer, 1996,
p. 3). Il genocidio degli ebrei è un evento modernista paradigmatico
della storia europea occidentale, che resiste alle convenzioni e alle
categorie ereditate di assegnazione del significato agli eventi poiché
intacca «lo status dei fatti in relazione agli eventi e quello dell’evento
in generale» (White, 1999, p. 70). Un’insufficienza linguistica impe-

3. Theodor W. Adorno: «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di bar-


barie» (Adorno, 2001). Così Claude Lanzmann: «perché gli ebrei sono stati uccisi?
Questa domanda rivela subito la sua oscenità. C’è un’assoluta oscenità in ogni proget-
to di comprensione» (cit. in Caruth, 1995, p. 204). Per Elie Wiesel «un romanzo su
Treblinka non è un romanzo né riguarda Treblinka» (Lefkovitz, 1977, p. 7). Arthur
Cohen parla di «tremendum che rende incommensurabile la riflessione sui campi di
sterminio» (Cohen, 1981, p. 1). Jean-François Lyotard definisce il «dissidio» rispetto
ad Auschwitz come «lo stato instabile, l’istante del linguaggio in cui qualcosa che
deve poter essere messo in frasi non può ancora esserlo» (Lyotard, 1985, p. 19).

93
la shoah

disce di significare l’esperienza concentrazionaria con efficacia. Primo


Levi scriveva: «come questa nostra fame non è la sensazione di chi
ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un
nome particolare. Noi diciamo “fame”, diciamo “stanchezza”, “paura” e
“dolore”, diciamo “inverno”, e sono altre cose. Sono parole libere usate
da uomini liberi che vivevano godendo e soffrendo, nelle loro case»
(Levi, 1979, p. 110). Wiesel, per suo conto, ha scritto: «Che tipo di
parole? [...] Il linguaggio è stato corrotto sino al punto che deve essere
inventato da zero e purificato. Stavolta scriviamo non con le parole
ma contro le parole. Spesso diciamo meno così da rendere la verità
più credibile» (Wiesel, 1977, p. 8). La natura “ai limiti” dell’evento
impedisce di trivializzarlo, ovvero di renderlo banale. Sempre Wiesel
nota: «l’Olocausto non è un soggetto come tutti gli altri. Esso impo-
ne certi limiti. Ci sono tecniche che non si possono utilizzare, anche
se sono commercialmente efficaci. Per non tradire i morti e umiliare i
vivi questo particolare argomento richiede una sensibilità speciale, un
approccio diverso è il rigore rafforzato dal rispetto e dalla riverenza, e
soprattutto dalla fedeltà alla memoria» (Wiesel, 1989).
La Shoah impedisce di trasgredire i limiti che essa stessa istitui-
sce. Secondo Lanzmann «l’Olocausto è unico in quanto si costruisce
intorno ad esso un cerchio di fuoco, un limite non oltrepassabile per
via di un certo orrore assoluto intrasmissibile: pretendere di farlo è
rendersi colpevoli della più grave trasgressione» (Lanzmann, 1994).
Nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory comparso sul
“New York Times” l’11 luglio 1989 Wiesel reputa volgari e Kitsch alcu-
ni film come Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Pasqualino
Settebellezze (1976) di Lina Wertmuller, la miniserie Olocausto (1978)
di Marvin J. Chomsky, La scelta di Sophie (1982) di Alan J. Pakula, la
miniserie Ricordi di guerra (1988-89) di Dan Curtis, Gli assassini sono
tra noi (1946) e lo spettacolo teatrale Ghetto (1984) di Joshua Sobol. In
un articolo di Wolfgang Staudte dal titolo Une représentation impossi-
ble? uscito il 3 marzo 1994 su “Le Monde” Claude Lanzmann critica
aspramente Schindler’s List (1994) di Steven Spielberg.
Rispetto all’enormità morale della Shoah può essere mantenuta
una fondamentale differenza tra rappresentazione e oggetto prima
di essere ri-presentato, tra livello rappresentativo, figurativo e lette-
rale, fattuale, non figurativo (Lang, 2000) oppure fondere queste di-
mensioni, renderle indistinguibili (Friedländer, 1996; Kellner, 1994).

94
7. presente e futuro della shoah

Bisognerebbe poi riconoscere nel silenzio lasciato dalla distruzione


il limite costitutivo rispetto al quale ogni rappresentazione si misura
(Lang, 2000) e nel minimalismo – «arte dell’usare un minimo di pa-
role per dire il massimo» – vedere una regola per la rappresentazione
letteraria d’immaginazione (Lang, 1988), nel negazionismo storio-
grafico una forma di rappresentazione inappropriata, inaccurata sto-
ricamente e moralmente oltraggiosa, nella feticizzazione dei simboli
della superiorità razziale nazista e nell’erotizzazione della relazione
carnefice-vittima di alcuni film rappresentazioni discutibili e banaliz-
zanti, forme del Kitsch (Pisanty, 2012, pp. 53-7), nel curiosare voyeuri-
stico dallo spioncino della camera a gas una feticizzazione dell’orrore
e un’incapacità a tenersi a una «giusta distanza» (Donaggio, Guzzi,
2010). Nel sostenere un privilegio nel diritto di produrre conoscenza4
da parte dei sopravvissuti è riconoscibile un’appropriazione esclusiva
della Shoah (Kertész, 2001) d’ostacolo al pluralismo interpretativo
(Feinstein, 2005, p. 30) e un’insufficiente storicizzazione di quell’e-
tica della rappresentazione del dopo Auschwitz il cui proibizionismo
rispetto alla possibilità di trarre piacere estetico dalla rappresenta-
zione della Shoah (Hayes, Roth, 2010) non regge più nell’era della
postmemoria (Hirsch, 2001).

7.3
Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere
Il presente e il futuro della Shoah dipendono dall’educazione sullo
sterminio degli ebrei che può essere rivolta primariamente agli stu-
denti e potenzialmente a tutti quanti, come hanno per esempio dimo-
strato i programmi organizzati dall’Holocaust Memorial Museum per
giudici, avvocati, poliziotti e militari (Fracapane, Hass, 2014, p. 169).
L’International Holocaust Remembrance Alliance – un corpo inter-
governativo fondato nel 1998 con lo scopo di supportare leader politici
e sociali rispetto alla necessità dell’educazione, del ricordo e della ricer-
ca sulla Shoah a cui a oggi aderiscono 31 Stati membri (fra cui l’Italia),

4. Sempre nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory, Wiesel scri-
ve: «Solo coloro che lo [Auschwitz] hanno vissuto nella loro carne e nelle loro menti
possono possibilmente trasformare la loro esperienza in conoscenza. Gli altri, nono-
stante le buone intenzioni, non potranno mai farlo».

95
la shoah

diverse organizzazioni internazionali (onu, unesco, osce/odihr,


Consiglio d’Europa) e quasi 876 organizzazioni da 44 paesi impegna-
te nell’educazione, nella memoria e nella ricerca5 – che promuove l’e-
ducazione, il ricordo e la ricerca sulla Shoah ha predisposto linee guida
per un corretto approccio didattico in forma di risposte al perché, al
cosa e al come insegnare la Shoah (Task Force, 2005).
Gli approcci didattici possono essere molteplici, definiti dal tipo di
informazioni che si vuole trasmettere e dal loro inserimento entro una
cornice interpretativa, dagli strumenti e dai materiali utilizzati, dagli
scopi educativi perseguiti – tutti elementi modellati rispetto all’oggetto
di studio e alle caratteristiche degli allievi e degli educatori coinvolti
nel processo educativo. È meglio dare rilevanza alle specificità che ne
definiscono la singolarità storica della Shoah come la dimensione nu-
merica, l’estensione geografica, l’ideologia soggiacente secondo un ap-
proccio particolarista o sottolineare l’universalità di argomenti quali la
distruzione della persona, la desacralizzazione della morte, la negazione
dei diritti fondamentali e dei valori democratici secondo un approccio
universalista? Chi insegna può adottare un modello di apprendimen-
to mimetico volto alla trasmissione strumentale o riflessiva del sapere
oppure uno esperienziale e trasformativo mirante a promuovere lo svi-
luppo caratteriale e morale degli allievi attraverso simulazioni e giochi
di ruolo e viaggi nei luoghi della memoria. Possiamo pensare che l’e-
ducatore si interroghi se rispetto al tema della zona grigia sia meglio
far leggere Sommersi e salvati di Primo Levi o far vedere La zona grigia
di Tim Blake Nelson, se per trattare il tema dell’infanzia nel Lager sia
più opportuna la lettura di Qui non ci sono bambini di Thomas Geve o
la visione de Il Bambino col pigiama a righe di Mark Herman e quello
dell’ordinarietà del male sia meglio proporre Adolf Eichmann. Anato-
mia di un criminale di David Cesarani o Uno specialista. Ritratto di un
criminale moderno di Eyal Sivan. Si dovrebbe poi scegliere se contestua-
lizzare lo studio della Shoah nell’ambito della storia dell’antisemitismo
europeo, della Seconda guerra mondiale, della comparazione con le al-

5. A oggi sono 10 le organizzazioni italiane affiliate, tra cui aned (Roma), As-
sociazione Olokaustos (Venezia), Figli della Shoah (Venezia), Fondazione cdec
(Milano), Fondazione Museo della Shoah (Roma), Museo Monumento al deportato
politico e razziale (Carpi), Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della
Guerra, dei Diritti e della Libertà (Torino). Invitiamo a visitare questo indirizzo web:
https://www.holocaustremembrance.com.

96
7. presente e futuro della shoah

tre violenze del xx secolo, della tradizione dei diritti umani e chiarirsi
le idee sullo scopo educativo perseguito: stimolare la riflessione sugli
abusi del potere, sulle responsabilità degli individui, far comprendere
le ramificazioni del pregiudizio, del razzismo e dell’antisemitismo nelle
società in cui viviamo, sottolineare i pericoli del silenzio e dell’indiffe-
renza di fronte all’oppressione degli altri, educare alla tolleranza, alla
solidarietà e alla giustizia.
La Shoah come oggetto di studio è particolarmente ostico per via di
una certa problematicità legata a un’intrinseca difficoltà di dicibilità e
di trasmissibilità della memoria tragica delle vittime, per la sua funzio-
ne simbolica nella nostra coscienza collettiva in quanto radicale rottu-
ra di civiltà nella storia della società occidentale e perché ha infranto le
barriere fra le discipline costringendole all’interdisciplinarietà (Traver-
so, 1995, pp. 99, 33). La Shoah è argomento talmente complesso a causa
della densità del dodicennio hitleriano, dell’ampiezza geografia della
persecuzione, della molteplicità degli attori coinvolti che può risultare
scoraggiante trattarlo per chi insegna (Totten, Feinberg, 2001). Con-
siste inoltre di una certa diversità data dal fatto di essere «più di un ti-
pico evento storico che può essere studiato in termini di tempo, luogo,
attività e risultato», perciò non esauribile in breve tempo, e in quanto
«veicolo attraverso cui può essere esaminata l’essenza della condizione
umana» racchiude un sapere storico ed etico poiché offre l’opportu-
nità di esaminare ogni possibile comportamento umano, da un massi-
mo di male a un massimo di bene (Lindquist, 2011b). Il soggiacere alla
“soluzione finale” di una complessità causale – razionalità strumentale
moderna, antisemitismo redentivo, ossessione giudeo-bolscevica – è
d’ostacolo al capire, capacità che appare limitata rispetto allo spiegare
(Traverso, 1995, p. 15): «più conosco meno so e meno capisco» una
volta ha detto Elie Wiesel (cit. in Lindquist, 2006). L’insegnamen-
to della Shoah può avere un’enorme potenza trasformativa come nel
caso di una ragazza diciassettenne statunitense che dopo una lezione
sulla Shoah di Facing History and Ourselves ha affermato «pensiamo
alla storia che impariamo. È importante imparare le parti scomode. È
lì che possiamo trovare i conflitti che ci aiutano a capire noi stessi»
(Fracapane, Hass, 2014, p. 159). Può altresì esporre al rischio di una
“sovraidentificazione” con le vittime come è accaduto a uno studen-
te di una scuola media statunitense che, dopo una simulazione sulla
Shoah chiamata Morire di fame. Una lezione sulla durezza del campo

97
la shoah

di concentramento (che prevedeva due settimane di “dieta Auschwitz”


e la lettura di La notte di Wiesel), afferma: «l’unica cosa che ho sco-
perto oggi è che io non voglio essere ebreo» (Lindquist, 2011a, p. 125).
Può anche dar luogo a un’imbarazzante difficoltà a comprendere la
dinamica di totale squilibrio di forze tra internati e guardie vigente nel
Lager, come nel caso del ragazzo che Alberto Cavaglion chiama l’“ul-
timo ascoltatore” di Levi, il quale dopo aver ascoltato il racconto del
ex deportato interviene dicendo: «Tutto vero, tutto terribile quello
che ci ha riferito; ma signor Levi, la prossima volta che Lei si trove-
rà in questa situazione si ricordi quello che Le dico, dia retta a me, si
faccia dare la pistola al raggio verde, spezzi il reticolato ed esca fuori,
dove un’astronave la raccoglierà e in pochi secondi La restituirà ai suoi
Cari» (Traverso, 1995, p. 114). L’educatore dovrebbe essere in grado
di far comprendere l’enormità morale di questa storia, non dovreb-
be sovraesporre con immagini macabre e racconti dell’orrore la realtà
dello sterminio né sottoesporla minimizzandola, dovrebbe cercare di
equilibrare conoscenza ed emozione, offrire una puntuale esposizione
delle tappe principali della persecuzione antiebraica, evidenziarne pro-
cessualità, sistematicità e simultaneità e personalizzare la storia propo-
nendo diari, memorie, testimonianze dal vivo e registrate, comparare
la Shoah senza equiparare né gerarchizzare le sofferenze delle diverse
violenze. Il presente dell’educazione sulla deportazione e lo sterminio
è indissolubilmente legato alle problematiche nazionali della memoria
(Santerini, 2003) e alle traiettorie della commemorazione (Davis, Ru-
beinstein-Avila, 2013), come si può vedere nel caso del progetto Il ’900.
I giovani e la memoria lanciato dal miur nel 1998 per commemorare
il sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali e
quello del concorso I giovani ricordano la Shoah istituito nel 2005 per
il sessantesimo anno dalla liberazione di Auschwitz. Per rendere giu-
stizia alla problematicità e alla complessità dell’esperienza dello ster-
minio, tenerne viva la memoria ed evitare di suscitare insofferenza e
disinteresse facendo coincidere lo sforzo educativo con l’approssimarsi
della celebrazione del Giorno della memoria, sarebbe necessario dilui-
re negli anni l’apprendimento e attualizzare l’argomento per esempio
in relazione al destino tragico delle decine di migliaia di migranti che
muoiono in mare e di cui nessuno in Europa vuole farsi carico.

98
8
Conclusioni

Completiamo questo saggio riepilogando alcune delle principali cono-


scenze che abbiamo acquisito nel corso del testo. L’esposizione di una
breve storia della “soluzione finale” ci ha permesso di mettere in luce il
carattere processuale, non scontato e non ineluttabile della Shoah, pri-
ma politica antiebraica di esclusione e segregazione biologica e socia-
le, poi fallito progetto di “soluzione territoriale del problema ebraico”
mediante emigrazione forzata e trasferimento di altre popolazioni e
solo dalla metà del 1941 sterminio di massa organizzato. La Shoah è un
fenomeno storico la cui complessità, dovuta alla multidimensionalità
temporale e geografica della persecuzione, all’ampio spettro degli atto-
ri coinvolti e alla varietà dei loro comportamenti, può essere governata
se viene scomposta in parti, rispetto agli attori, fra vittime, carnefici e
spettatori. Nel capitolo sulle vittime abbiamo evidenziato la dimensio-
ne principalmente orientale dello sterminio, non solo per la concentra-
zione nell’Europa centro-orientale dei luoghi dello sterminio e perché
fra Polonia, Ucraina, Bielorussia e Paesi Baltici le vittime sono state
più di 4 milioni ma anche per via del fatto che una cultura, un mondo,
quello yiddish, è stato irrimediabilmente spazzato via. Abbiamo dato
rilevanza alla specificità dell’esperienza femminile e infantile della per-
secuzione per lungo tempo tenuta ai margini della storiografia, ricono-
sciuto nella testimonianza di Primo Levi, Elie Wiesel e Jean Améry un
significato e un valore universali, evidenziato le difficoltà dell’accogli-
mento della testimonianza del sopravvissuto tra le fonti nell’archivio
dello storico e l’importanza del racconto dal cuore dello sterminio dei
membri del Sonderkommando, “testimoni integrali” che con la loro
esperienza diretta delle camere della morte ridimensionano un mo-
tivato scetticismo sulla capacità del superstite di testimoniare fino in
fondo l’abisso di morte a cui è scampato e levano il terreno da sotto i

99
la shoah

piedi a chi nega l’esistenza delle camere a gas. Considerando carnefici


e spettatori abbiamo alternato un regime espositivo e descrittivo a uno
teorico ed esplicativo. Dall’analisi dei carnefici abbiamo appreso che
l’ordinarietà delle persone convive con la straordinarietà dei crimini
commessi e che non si nasce carnefici ma lo si diventa attraverso un’e-
ducazione alla violenza (come nel caso del comandante di Auschwitz
Höss) e una carriera genocidaria (come nel caso del comandante di So-
bibor e Treblinka Stangl). Questi due dati di base, che possono trova-
re facilmente conferma se si osserva quanto successo in Indonesia nel
1965, in Cambogia nel 1975-79 e in Ruanda nel 1994 dove altrettanti
cittadini comuni si trasformarono in assassini, mandano un chiaro se-
gnale d’allarme: lungi dal vedere nei carnefici delle figure patologiche
lontane anni luce dalla nostra cara e comoda normalità, dobbiamo es-
sere consapevoli che ognuno di noi trovandosi in un contesto di vio-
lenza diffusa, organizzata e impunita può trasformarsi in un assassino.
La dimensione degli spettatori è più composita ed è stata più impor-
tante di quanto si creda. Lungi dall’essere soggetti passivi, gli spettatori
influenzano nel bene e nel male il processo di distruzione. La denun-
cia pubblica del programma di eutanasia in Germania ne ha sortito
l’interruzione (solo ufficialmente purtroppo), così come la protesta di
una larga parte dell’opinione pubblica in Bulgaria ha mandato all’aria
la deportazione degli ebrei. Durante la guerra la generale indifferenza
della popolazione tedesca rispetto alla questione ebraica ha favorito
la deportazione e lo sterminio degli ebrei tedeschi. Tra gli spettatori
vi furono individui, comunità, nazioni e organizzazioni e comporta-
menti che oscillarono tra l’appoggio diretto ai carnefici, la resistenza
ai nazisti e il soccorso alle vittime. Così come per i carnefici, anche tra
gli spettatori ci si domanda se i loro comportamenti siano dipesi più
dalla personalità o dal contesto in cui agirono. Vi è una biforcazione
metodologica fra le teorie della personalità e le teorie psicosociali e so-
ciopolitiche. Da una parte, si dà rilevanza ai tratti autoritari (perlopiù
tralasciando il contesto d’azione) e a quelli altruistici (tenendo conto
anche delle dinamiche contestuali) della personalità. Dall’altra, si ve-
rificano sperimentalmente fenomeni sociopsicologici normali quali la
conformità al gruppo, l’obbedienza all’autorità, l’adattamento al ruo-
lo, la diffusione di responsabilità, la dissonanza cognitiva e il disimpe-
gno morale o si vagliano fattori socio-politici come le probabilità di ri-
schio insite nel soccorso, l’importanza della richiesta d’aiuto, le forme

100
8. conclusioni

d’aiuto, le forme di governo presenti nei paesi dell’Europa nazista e i


differenti gradi di indipendenza interna dal dominio nazista, i rapporti
fra popolazione ebraica e non ebraica prima della persecuzione ecc. Il
quadro motivazionale di carnefici e spettatori è complesso e talvolta
imperscrutabile, specie tra questi ultimi. A differenza dei capitoli 1, 4,
5, 6, i capitoli 2, 3 e 7 non toccano direttamente la realtà dello sterminio
se non rispettivamente come tema per una riflessione sulle forme della
crisi della coscienza europea, come soggetto della narrazione storica e
oggetto di ricordo, rappresentazione ed educazione. In primo luogo, la
crisi della coscienza nasce dalla cognizione del fatto che non vi è giusti-
zia e condanna che possa punire un crimine così insensato e inaudito e
una colpa così diffusa. In secondo luogo, questa crisi è provocata dalla
percezione di una scandalosa inattualità del crimine nazista rispetto a
un’immagine positiva e progressiva, libera dalla barbarie, della civiliz-
zazione occidentale nel xx secolo. Civiltà e barbarie convivono nelle
nostre società, la violenza tenuta sotto il controllo monopolistico dello
Stato moderno riesplode laddove lo Stato ne abusa per fini politici. In
terzo luogo, la crisi è data dalla mancanza di un vocabolo che adeguata-
mente possa esprimere quello che è percepito come un “crimine senza
nome”. Il riempimento di questo vuoto dà vita, sebbene non subito, a
un campo di studi interdisciplinare, “gli studi sul genocidio” in cui la
Shoah assume un ruolo paradigmatico nell’analisi comparativa dei ge-
nocidi, nuovo male politico del xxi secolo. L’idea portante di questo
saggio, che la Shoah è soggetta a una narrazione continua, a un’inces-
sante assegnazione di nuovi significati (da qui i veti a certe forme della
rappresentazione e le contese sulla singolarità della Shoah e sulla speci-
ficità ebraica tra i crimini nazisti) e a un’iscrizione entro nuove cornici
di senso, trova posto sia nell’esposizione di alcuni paradigmi storiogra-
fici nel cap. 3, sia nel cap. 7 in considerazione della dimensione della
rappresentazione come condizione preliminare e interdipendente del
ricordo e dell’educazione della Shoah. Il prossimo futuro della Shoah è
certo e incerto a un tempo. Certo perché il suo significato verrà sempre
rinnovato come è accaduto sinora e sempre più deterritorializzato e
globalizzato, incerto perché la scomparsa degli ultimi superstiti segne-
rà la fine di un presidio sicuro sul buon uso della memoria della Shoah,
a quel punto potenzialmente esposta alle narrazioni più impensabili.

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