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La Shoah Una Guida Agli Studi e Alle Int
La Shoah Una Guida Agli Studi e Alle Int
studi storici
a Francesco, Maddalena e Maria Teresa
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Salvatore Loddo
La Shoah
Guida agli studi e alle interpretazioni
C
Carocci editore
1a edizione, dicembre 2014
© copyright 2014 by Carocci editore S.p.A., Roma
isbn 978-88-430-7623-9
Introduzione 00
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la shoah
8. Conclusioni 00
Bibliografia 00
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Introduzione
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introduzione
dall’altra parte per non vedere o prendeva il coraggio a due mani per
offrire loro cura e sollievo.
Giungiamo alla fine di questo saggio provando a guardare il pre-
sente e il futuro della Shoah alla luce dell’interdipendenza fra le atti-
vità del ricordare, del rappresentare e dell’educare. Per andare avanti
e avere uno scopo l’una ha bisogno dell’altra. Si ricorda la Shoah e si
educa a partire da essa servendosi dei contenuti e delle forme della sua
rappresentazione (film, memorie, diari, fotografie). Ogni anno si com-
memora lo sterminio degli ebrei per educare la cittadinanza ai valori
del rispetto, della cura reciproca e della tolleranza. Ci si riappropria
di quel difficile passato assegnandogli un significato nuovo e diverso,
una differente contestualizzazione per trasmetterlo alle generazioni a
venire e fare tesoro dell’esperienza e del sapere in esso racchiusi.
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1
Storia della “soluzione finale”
e della questione ebraica:
1933-45
La strada per Auschwitz fu costruita dall’odio, ma la-
stricata dall’indifferenza.
Ian Kershaw
1.1
Legislazione antisemita
e programmi di emigrazione forzata
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1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”
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1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”
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1.2
Il sistema concentrazionario nazista
I primi campi di concentramento che nascono sotto il segno dell’im-
provvisazione e della concorrenza tra le diverse gerarchie amministrati-
ve sono un temporaneo strumento di repressione per il consolidamen-
to del nuovo regime e l’instaurazione della “rivoluzione nazionale”.
Con la riorganizzazione e l’ampliamento del sistema concentrazio-
nario ad opera del comandante di Dachau Theodor Eicke (in seguito
capo dell’istanza centrale di controllo e gestione del sistema concen-
trazionario), i Lager diventano un’istituzione permanente destinata
all’internamento preventivo di intere categorie di cittadini, avversari
non integrabili nella “comunità nazionale”. Dachau fu il primo Lager a
essere aperto il 22 marzo 1933 e a essere posto sotto l’esclusiva vigilanza
delle “teste di morto” ss. Esso fu il modello di riferimento per l’intera
costellazione concentrazionaria. Eicke impose le linee guida di Dachau
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1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”
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1.3
Dall’“operazione T4” all’“azione Reinhardt”
L’inizio della guerra fornì il contesto adatto per avviare il programma
di eutanasia per i malati incurabili in Germania. Un’autorizzazione
scritta redatta dalla Cancelleria del Führer, firmata nell’ottobre 1939
da Hitler e retrodatata al 1° settembre 1939 – data d’inizio della Secon-
da guerra mondiale – costituì la base legale del programma omicida.
«Al capo del Reich Bouhler e al Dr. med. Brandt viene conferita la
responsabilità di estendere la competenza di taluni medici designati
per nome, cosicché ai pazienti che, sulla base del giudizio umano, sono
considerati incurabili possa essere concessa una morte pietosa dopo
una diagnosi approfondita» recitava l’autorizzazione (Friedlander,
1997, p. 94). Non essendo mai stato promulgato o pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale, questo documento non ebbe forza di legge, tutta-
via assegnò alla Cancelleria del Reich, nella persona del dott. Viktor
Brack, il compito di organizzare e attuare il programma di eutanasia.
L’“operazione eutanasia” coinvolse in prima istanza bambini e
neonati affetti da difetti fisici o mentali. In concomitanza con il pro-
1. Complessivamente sul suolo del Reich e dei territori occupati vi erano 22 campi
principali, ordinati gerarchicamente a seconda del livello di violenza a cui erano desti-
nati, e 1.202 comandi esterni.
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1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”
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1. storia della “soluzione finale della questione ebraica”
1.4
Auschwitz: compimento della soluzione finale
Anche se probabilmente servì solo a conferire alla prassi delle uccisioni
l’avallo burocratico e a coordinare gli interessi degli uffici coinvolti nel
processo di distruzione, la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942
prova che a quel punto esisteva un programma nazista di sterminio si-
stematico degli ebrei. In quell’occasione Heydrich parlò di “soluzione
finale della questione ebraica”, di “evacuazione degli ebrei verso est” di
circa 11 milioni di persone. Il comandante di Auschwitz Rudolf Höss
raccontò che durante l’estate del 1941 venne convocato da Himmler il
quale gli riferì che il Führer aveva ordinato la «soluzione finale della
questione ebraica» (Höss, 1997, p. 127).
Auschwitz era il luogo prescelto per via del suo isolamento e perché
vi si poteva agevolmente giungere con i treni. Tra la fine di agosto e gli
inizi di settembre del 1941 comparve in via sperimentale un terzo me-
todo di uccisione, alternativo all’uso del monossido di carbonio ado-
perato nei camion mobili e nelle camere fisse. Si trattava dello Zyklon
B, l’acido prussico già adoperato dall’estate del 1941 ad Auschwitz per
disinfettare ambienti e indumenti. Il 5 settembre del 1941, nelle celle
sotterranee del blocco di punizione 11 vennero uccisi 900 prigionieri
di guerra sovietici, insieme ad altri detenuti malati, con lo Zyklon B.
Alla fine di settembre Himmler diede ordine di costruire a due chilo-
metri dal campo base, presso il villaggio di Brzezinka (Birkenau), un
Lager di enormi proporzioni dove internare i prigionieri di guerra fino
a 50.000 persone. Intanto Höss procedeva con la costruzione delle in-
stallazioni di sterminio. Il crematorio i del campo principale fu trasfor-
mato in camera a gas e utilizzato come luogo di sterminio dall’inizio
alla fine del 1942 e per incenerire i cadaveri fino al luglio del 1943. Nel
marzo del 1942 due camere a gas in grado di contenere fino a 800 per-
sone furono costruite nella “casa rossa”, in una piccola cascina agricola
al limitare del campo di Birkenau, rinominata “Bunker i” e impiegata
per tutto il 1942. Nella “casa bianca”, un’altra casa colonica, potevano
essere rinchiuse per essere sterminate circa 1.200 persone alla volta.
Dal 4 luglio del 1942 i deportati ebrei furono selezionati regolar-
mente al loro arrivo: il 20% degli abili al lavoro sopravviveva, tutti
gli altri andavano direttamente al gas. Coloro che erano destinati al
lavoro erano sottoposti a condizioni di vita durissime che portavano
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Dopo Auschwitz:
crisi della coscienza europea
Erano state uccise vittime in numero inaudito, fin là
dove la luce della storia può illuminare il passato, e
comunque la perennità del progresso umano non era
che un’ingenuità nata nel xix secolo.
Jean Amery
2.1
Impunibilità della colpa,
questione della corresponsabilità tedesca e zona grigia
Il 21 novembre 1945 si aprono a Norimberga i lavori del tribunale
militare internazionale. Sulla base di quanto stabilito dal art. 6 del-
lo statuto del tribunale militare internazionale, adottato a Londra l’8
agosto del 1945, 24 nazisti (tra cui Göring, Speer, Frank) e 6 “organiz-
zazioni” (tra cui ss, sd, sa, Gestapo) sono rinviati a giudizio secondo
quattro capi d’accusa: cospirazione, crimini contro la pace, crimini
di guerra, crimini contro l’umanità. L’ultima delle imputazioni co-
stituiva la maggiore innovazione del processo di Norimberga. La te-
stimonianza su Auschwitz rilasciata alla Corte il 15 aprile del 1946 dal
comandante Rudolf Höss e la proiezione di un documento video sui
campi di concentramento liberati dagli alleati spalancarono la voragi-
ne dell’orrore nazista. Hans Fritzsche, uno degli imputati, propagan-
dista e collaboratore del ministro della Propaganda nazista Goebbels
affermò «Nessun potere in cielo o in terra cancellerà, nelle prossime
generazioni, né nei secoli, questa vergogna dal mio paese» (Mettraux,
2008, p. 667). Dei 24 imputati, 3 furono assolti, a 2 furono comminati
20 anni di carcere, ad altri 2 rispettivamente 15 e 10 anni, a 3 l’erga-
stolo, 12 vennero condannati alla pena di morte mediante impicca-
gione. Dando esecuzione alle condanne il 16 ottobre 1946 viene fatta
giustizia. Nondimeno continuano a risuonare queste parole scritte da
Hannah Arendt nel 1950: «Se il nostro senso comune vacilla quando
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2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea
Non ci può essere alcun dubbio che tutti noi tedeschi siamo colpevoli, e che
ogni tedesco in un modo o nell’altro ha la sua colpa: 1) ogni tedesco, senza
alcuna eccezione, ha la sua parte di responsabilità politica. Esso non può sot-
trarsi alle riparazioni che nelle forme del diritto, deve necessariamente soffrire
insieme con gli altri per le conseguenze di quello che decidono e fanno i vin-
citori [...]. 2) Non ogni tedesco, ma solamente una piccola minoranza deve
essere punita per i delitti commessi. Un’altra piccola minoranza deve espiare
per attività naziste. [...] 3) è fuori dubbio che in tutto questo ciascun tedesco,
sebbene in condizioni differenti, trova l’occasione per fare l’esame della pro-
pria coscienza dal punto di vista morale. Qui non c’è bisogno di riconoscere
alcuna autorità costituita al di fuori della propria coscienza 4) è certo che ogni
tedesco che comprende nelle esperienze metafisiche tali sciagure trasforma la
propria coscienza dell’essere e di sé stesso. Come ciò accada è cosa che nessuno
può prescrivere o fissare in anticipo. È cosa che riguarda ciascun individuo nel-
la sua solitudine. Quel che ne può emergere può costituire la base essenziale di
quello che dovrà essere nell’avvenire l’anima tedesca ( Jaspers, 1996, pp. 75-6).
Essere tedesco, subito dopo la fine del Terzo Reich, per Jaspers significa
sentirsi colpevole per ciò che i nazisti hanno fatto. Nondimeno questo
sentimento di colpa collettiva urge di tradursi nel rinnovamento dell’e-
sistenza umana dalle sue radici.
Quando si parla di collaborazione nel crimine non si può non
considerare la riflessione sulla “zona grigia” proposta da Primo Levi
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2.2
Auschwitz e lo scandalo della modernità
Auschwitz è una presenza ingombrante nella memoria collettiva occi-
dentale perché rappresenta un evento storico centrale del xx secolo,
un momento di svolta per la nostra autocoscienza come esseri apparte-
nenti al genere umano capaci di sdegno e compassione e come cittadini
dell’Europa post-nazista. Auschwitz è un «buco nero» (Levi, 2009),
una voragine per il pensiero, una ferita aperta, una «frattura di civil-
tà» (Traverso, 2005, pp. 16-46) difficilmente sanabile, con cui non si
riesce mai completamente a venire a patti. Una delle ragioni per cui nel
genocidio ebraico permane qualcosa di irriducibile rispetto alla nostra
capacità di comprenderlo consiste nel fatto che ad Auschwitz civiltà
moderna e barbarie si incontrarono, le acquisizioni tecnico-scientifi-
che figlie della modernità furono poste al servizio dello sterminio di-
struggendo quell’ideale di progresso da cui scaturirono. Nel tentativo
di capire «la più radicale ricaduta nella barbarie nell’Europa del xx
secolo», il sociologo Norbert Elias si chiedeva: «Come era stato pos-
sibile che in modo razionale e perfino scientifico nel xx secolo degli
uomini avessero potuto progettare ed attuare un’impresa che sembra
una ricaduta nella brutalità e barbarie dei tempi lontani – che, trascu-
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2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea
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2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea
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2.3
Genocidio e singolarità della violenza nazista
L’irruzione della violenza nazista nell’Europa asservita al dominio te-
desco pose i suoi contemporanei di fronte a un «crimine senza nome»,
come ebbe modo di affermare Winston Churchill quando apprese dei
sistematici massacri di massa delle comunità ebraiche dell’Unione So-
vietica. L’originalità della violenza nazista non sfuggì a Raphael Lemkin,
giurista polacco a cui va attribuita la paternità del termine genocidio, il
quale andava a colmare proprio quella lacuna rilevata da Churchill. Ge-
nocidio deriva dal greco γένος (razza, stirpe, etnia) e dal latino caedo (uc-
cidere). Nel novembre del 1944 esce negli Stati Uniti il libro Axis Rule
in Occupied Europe in cui viene precisato il significato del neologismo:
Ponendo l’accento sul gruppo-vittima più che sul singolo, Lemkin co-
glieva il tratto specifico delle violenze di massa del xx secolo nel fatto
che le vittime sono state assassinate sulla base di un’identità collettiva.
Lemkin con questo concetto non guardava esclusivamente allo stermi-
nio degli ebrei, ma alle modalità dell’occupazione nazista in Europa.
Diversamente da quanto generalmente si pensi il fenomeno genocida-
rio è multidimensionale, investe diversi piani (politico, sociale, culturale,
economico, biologico, fisico, religioso e morale). In quanto genocidio,
la Shoah ha comportato la distruzione fisica delle persone, della cultu-
ra, della società, dell’economia ebraica europea. A Norimberga nessuno
dei nazisti portati alla sbarra fu giudicato colpevole di genocidio pur es-
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2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea
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2. dopo auschwitz: crisi della coscienza europea
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3
Narrazioni storiche della Shoah
3.1
Intenzionalismo vs funzionalismo
Quale ruolo va attribuito a Hitler nel processo decisionale sfociato nel
sistematico sterminio degli ebrei d’Europa? Gli storici della Shoah si
sono schierati secondo due orientamenti principali: intenzionalista e
strutturalista-funzionalista. Mentre l’intenzionalismo storiografico ha
posto l’accento sull’intenzione omicida e sulla preminenza dell’ideo-
logia antisemita come fattore determinante gli esiti estremi della vio-
lenza nazista, sul ruolo preponderante avuto da Adolf Hitler, assertore
di un antisemitismo radicale e primo motore dello sterminio sistema-
tico, il funzionalismo si è concentrato sulla complessa struttura del po-
tere nazista tutt’altro che ordinato sotto il controllo di un uomo solo
al comando, frammentato e conteso tra le diverse istituzioni implicate
nell’implementazione del processo di distruzione. Secondo la tesi in-
tenzionalista la soluzione finale è stato il prevedibile risvolto di un’idea
– quella di sterminare gli ebrei – espressa da Hitler già nel 1925 nella
sua opera Mein Kampf (La mia battaglia) e riaffermata in un momento
cruciale come nel discorso del 30 gennaio 1939 tenuto al Reichstag in
cui prospettò l’eventualità dello sterminio degli ebrei. Per il funzio-
nalismo la via che condusse ad Auschwitz fu “tortuosa” (Schleunes,
1990), l’esito di una “radicalizzazione cumulativa” (Mommsen, 2003)
della soluzione della questione ebraica posta al centro della contesa e
degli interessi di diversi centri di potere (sa vs ss, Himmler vs Göring/
Frank). Secondo Klaus Hildebrand, preminente esponente della scuo-
la intenzionalista, «per il genocidio nazista, il dogma razziale di Hitler
fu fondamentale [...] le idee programmatiche di Hitler sull’eliminazio-
ne degli ebrei e sulla supremazia razziale vanno ritenute causa primaria,
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3. narrazioni storiche della shoah
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3.2
Modernità, modernizzazione, modernismo:
Zygmunt Bauman, Götz Aly, Jeffrey Herf
Il sociologo Zygmunt Bauman e gli storici Götz Aly e Jeffrey Herf si
sono serviti rispettivamente delle categorie di “modernità”, “moder-
nizzazione” e “modernismo” per far luce sul nazismo e sullo sterminio
degli ebrei.
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3. narrazioni storiche della shoah
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3. narrazioni storiche della shoah
3.3
Antisemitismo eliminazionista tedesco:
Daniele J. Goldhagen
Non c’è stato libro tanto controverso e discusso nella storia della sto-
riografia sulla Shoah quanto I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi
comuni e l’Olocausto, pubblicato dal politologo statunitense Daniele J.
Goldhagen nel marzo del 1996. Con l’uscita della versione tedesca in
Germania divenne un bestseller, facendo infuocare sui quotidiani te-
deschi un’appassionata discussione tra storici e non. L’enorme ricezio-
ne di pubblico e di critica è dovuta alla sua tesi centrale: lo sterminio
degli ebrei d’Europa è stato un progetto nazionale accolto e sostenuto
dall’intera società tedesca dove un «antisemitismo eliminazionista»
era il «senso comune» dell’epoca (Goldhagen, 1998). Goldhagen
spiega perché lo sterminio avvenne rivolgendo l’attenzione non tan-
to al gruppo dirigente nazista né al processo decisionale quanto alle
azioni dei «realizzatori» (ss, poliziotti, guardie dei campi) esempio di
«tedeschi comuni». A Goldhagen gli agenti materiali dello sterminio
appaiono «volonterosi carnefici» che parteciparono in piena coscien-
za, perfettamente in grado di intendere, giudicare e comprendere quel
che stavano facendo, tutt’altro che neutrali e passivi, sulla base di un
modello cognitivo-culturale secondo cui l’ebreo era diverso dal tede-
sco, l’opposto binario del tedesco, non un diverso innocuo, bensì mali-
gno e pernicioso, pervasivo nella società tedesca sin dal xix secolo. La
volontarietà – espressa nel libro per mezzo della forma grammaticale
attiva – lo zelo e il sadismo con cui questi uomini agirono escludono il
ricorso a interpretazioni “convenzionali”, come dire essi non uccisero
perché costretti a farlo o per acritica obbedienza agli ordini, tantome-
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la shoah
3.4
Processo di distruzione e triade vittime-carnefici-spettatori:
Raul Hilberg
Il 1961 è un anno significativo per la ricerca sulla Shoah. Mentre a
Gerusalemme si tiene il processo Eichmann, a New York è data alle
stampe la prima edizione di La distruzione degli ebrei d’Europa, opera
canonica sul genocidio degli ebrei. Il suo autore Raul Hilberg, vienne-
se d’origine e statunitense d’adozione, considera la distruzione degli
ebrei d’Europa come un avvenimento senza precedenti nella storia per
dimensioni e tipo di organizzazione, il punto di arrivo dell’evoluzione
ciclica di secolari politiche antiebraiche e l’esito dell’applicazione di
una serie progressiva di misure amministrative (Hilberg, 1999, p. 6).
La distruzione degli ebrei d’Europa richiese l’impegno diretto e
congiunto di quattro gerarchie distinte (burocrazia ministeriale, forze
armate, apparato economico-finanziario, partito nazionalsocialista e
ss, suo braccio armato) facenti capo al Führer. Hilberg ritiene che le
migliaia di funzionari coinvolti non avrebbero potuto prevedere sin
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3. narrazioni storiche della shoah
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la shoah
3.5
Storia memoriale e integrata: Saul Friedländer
Altra imprescindibile fonte di studio e riflessione sulla Shoah è l’opera
pluridecennale di Saul Friedländer, praghese d’origine, cittadino israe-
liano e statunitense, di particolare interesse perché profondamente ispi-
rata dalla sua storia personale di ebreo cosmopolita e sradicato, scampa-
to alla persecuzione nazista da bambino (Friedländer, 1990). Punto di
arrivo della sua ricerca sono i due volumi della Germania nazista e gli
ebrei. Con il primo, Gli anni della persecuzione 1933-39 (1997), si soffer-
ma sulla politica antiebraica nazista prima del conflitto mondiale, con il
secondo, Gli anni dello sterminio 1939-45 (2007), si concentra sull’elimi-
nazione degli ebrei. Con questo progetto, che lo ha impegnato dal 1990
al 2006, Friedländer propone una storia integrata, inglobante, totale,
pluridimensionale e polifonica, integrando due contrastanti paradigmi
storiografici: quello tedesco e anglosassone, centrato sui carnefici e sul
processo politico-decisionale nazista, e quello ebraico-israeliano al cui
centro stanno le vittime viste in chiave eroico-apologetica (Goldberg,
2009, pp. 220-37). Totalità di avvenimenti definita dalla convergenza
di elementi distinti – politiche, provvedimenti e decisioni tedesche, re-
azioni del mondo circostante, opposizione delle vittime –, la Shoah è
narrata alla luce della sua pluridimensionalità.
Nell’Europa occupata l’applicazione delle decisioni naziste dipese
dalla disponibilità, dalla reticenza delle autorità e dei funzionari locali,
dalle azioni individuali o collettive delle vittime. Traccia delle interazio-
ni tra ebrei, nazisti e popolazioni non ebree dei paesi occupati è rimasta
nelle testimonianze, nelle memorie, nei diari, nelle lettere delle vittime.
Restituendo voce alle vittime Friedländer intende dare risalto all’espe-
rienza della persecuzione vissuta «in tempo reale» per mantenere viva
la memoria e comunicare al lettore quel misto di straniamento, incredu-
lità, eccesso e ordinarietà, quel «senso primario di smarrimento» che di
primo acchito la persecuzione suscitava nelle vittime (Friedländer, 1993,
pp. 102-16). Il senso di disorientamento, di disperazione, di impotenza e
catastrofe imminente sentito dalle vittime precede per Friedländer ogni
sforzo di comprensione e spiegazione storica: prima viene la memoria,
poi la storia. Le voci individuali delle vittime interrompono l’ossessi-
vo inveire del discorso dell’antisemitismo «redentivo» (Friedländer,
2004, pp. 81-120; 2009, pp. 21-40) amplificato e propagandato nell’o-
pinione pubblica europea per legittimare la soluzione finale.
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3. narrazioni storiche della shoah
figura 3.1
Schema triangolare delle relazioni tra gli attori del genocidio
Partecipazione
diretta
Saccheggio sanzionato/ Aiuto indiretto
non sanzionato governo genocidio
cen e
c
ca
r
Co
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b
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Inibizione Leadership
politica governo c'' e assassini
Fuga/
nascondersi Elementi
Soccorso/ Lenta Elusione/ Veloce del genocidio
resistenza implementazione
genocidio
Acquietamento implementazione
genocidio
vittima
Fonte: tratto da Ehrenreich, Cole (2005).
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4
Vittime:
testimonianza, memoria e storia
Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte:
non solo in Lager.
Primo Levi
4.1
Ebraismo orientale, donne e bambini nel Lager,
musulmani, sopravvissuti
44
4. vittime: testimonianza, memoria e storia
tabella 4.1
Numero degli ebrei uccisi nei vari paesi interessati dalla Shoah
Totale delle vittime* Percentuale sul totale dei residenti ebrei per paese
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la shoah
Così ci hanno distrutto, dalla Grecia fino alla Norvegia, fino davanti Mosca,
fino a sette milioni, senza il conto dei bambini yiddish dentro i grembi [...].
Non esistono più. Non chiedete laggiù voi d’oltremare, non chiedete più no-
tizie di Kasrilevke, di Yehupetz, rinunciate. Non andate a cercare i Menahem
Mendel, i Tevye lattivendoli, gli Shloime il ricco, i Motke furfanti, non cercate
[...]. La voce della Torà non sarà più sentita uscire da una yeshivà, da una casa di
studio, e giovanetti pallidi nobili di studio, approfonditi nella Ghemarà, assor-
ti nei pensieri [...]. Estinti ormai, rabbini, capi di yeshivà, yidn studiosi, grandi
sapienti magri, asciutti e fragili, ripieni di Talmud, commentatori, piccoli yidn
con le grandi teste, elevate fronti, occhi limpidi, non esistono più né esisteran-
no. Nessuna madre cullerà un bambino, non morirà né nascerà nessuno tra gli
yidn, non ci saranno canti commoventi di poeti yiddish, di valenti scrittori, è
tutto già passato. Non ci saranno più teatri yiddish, non si riderà più in quei
posti né scivolerà lenta una lacrima, e musicisti yiddish e pittori, i Bartchinski,
non comporranno più tra il dolore e la gioia, cercando nuove strade [...]. Guai
a me, ora non c’è nessuno. C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. C’è
stato un popolo, c’è stato, e adesso niente (Katzenelson, 2009, pp. 106-10).
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4. vittime: testimonianza, memoria e storia
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la shoah
mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umi-
liante e terribile [...]. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo
armato sia sottoposta ad un oltraggio ancora maggiore [...] di colpo, nello
stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno
della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemme-
no collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgra-
ziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla,
lì intorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano
sghignazzando, oppure si mettono in un angolo nascosto a osservare la scena
di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo
fatto di essere lì, nude (Padoan, 2010).
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4. vittime: testimonianza, memoria e storia
1. Richiamiamo l’attenzione su alcune delle più importanti voci europee della te-
stimonianza sulla deportazione femminile. Tra le detenute ebree L. Millu, Il fumo di
Birkenau, Giuntina, Firenze 2008; E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano
1990. Tra le politiche M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler, il Mulino,
Bologna 1994; C. Delbo, Un treno senza ritorno, Piemme, Milano 2002.
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la shoah
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4. vittime: testimonianza, memoria e storia
4.2
Universalità della testimonianza:
Primo Levi, Eli Wiesel, Jean Améry
Oggi, nell’«era del testimone» (Wieviorka, 1999) il valore universale
della Shoah è legato alla narrazione del male estremo fatta dal sopravvis-
suto. Raccontando l’esperienza personale e più intima dell’offesa ricevu-
51
la shoah
ta, l’ex deportato riflette sul significato generale, universale di quanto gli
è accaduto. Con Se questo è un uomo Primo Levi vuole «fornire docu-
menti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» (Levi,
1979, p. 9), far luce sul grado di dignità umana dell’internato che ad
Auschwitz è arrivato a toccare il fondo. Come un antropologo che stu-
dia dal suo interno una realtà e una condizione umana oltre la comune
esperienza, Levi spinge chi legge a partecipare a una sorta di esperimento
mentale (Bucciantini, 2011), a compiere uno sforzo di immaginazione:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la
sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto
possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di
dignità e discernimento poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di per-
dere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita
o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato in
base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significa-
to del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo
esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi, 1979, p. 23).
Lungi dal condurre alla morte della sua fede in Dio, l’esperienza di Au-
schwitz non placa la lotta di Wiesel con un Dio amico, per il quale si
52
4. vittime: testimonianza, memoria e storia
nutre più pietà per la sua intangibile solitudine che rabbia per l’imper-
scrutabile scelta dell’inazione al momento del bisogno (Wiesel, 2009,
p. 197). A fronte delle conseguenze incalcolabili avute da Auschwitz
sull’umanità, sulla sua storia, sulla percezione dell’uomo, sul significa-
to di certe parole (per Wiesel notte è sinonimo di morte), sulla capacità
di riconoscere i limiti e l’assenza di limiti riguardo alle persone (nell’es-
sere buoni e cattivi) rispetto all’insanabilità della frattura fra creatura
annientata e creatore silente, Wiesel si chiede: «Ma allora, che cosa ci
resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione
forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda» (ivi, p. 19).
Tra le fila dei “colti laici” al pari di Levi e diverso dai “colti creden-
ti” come Wiesel, è Jean Améry che testimonia nel suo Intellettuale ad
Auschwitz della sua esperienza nel Lager da intellettuale scettico-uma-
nista, agnostico, privo di credi, religiosi o politici, qual era. Raccon-
tando di sé Améry pone al centro della sua riflessione l’intellettuale
stretto nell’urto tra spirito e orrore, fra utilità e inopportunità della
vita dello spirito ad Auschwitz. Rammentando quanto gli è accadu-
to, Améry risponde a questo interrogativo: «la cultura e il sostrato
intellettuale nei momenti decisivi sono stati di ausilio al prigioniero
del campo? L’hanno aiutato a resistere?» (Améry, 2008, p. 34). La
sua risposta è negativa. Essere dotati di una ben sviluppata coscienza
estetica e di un’attitudine al pensiero astratto si è rivelato svantaggioso
perché i lavoratori dell’ingegno mancavano generalmente di agilità fi-
sica e di coraggio, della capacità di reagire prontamente o di prevenire
efficacemente i torti a cui erano regolarmente fatti beffe dai compagni
di prigionia. L’intellettuale avvezzo alla frequentazione del tedesco
letterario resta isolato poiché patisce l’incomunicabilità del Lager. Il
pensiero analitico-razionale nel campo «conduceva direttamente ver-
so una tragica dialettica di autodistruzione»: mettere in dubbio, come
era uso per l’intellettuale, la realtà di qualcosa, in questo caso quella
del Lager, risultava controproducente a fronte della ferrea illogicità
della logica del campo, dove rispettare le regole era materialmente im-
possibile. I meno avvezzi alla riflessione si trovavano senza saperlo in
vantaggio nella lotta per stare più a lungo possibile in vita, così come i
detenuti politici e religiosi rispetto all’intellettuale Améry, agnostico e
apolitico. Tuttavia quello spirito di cui ad Auschwitz ci si faceva poco,
inservibile ai fini della sopravvivenza materiale, talvolta, al pari della
fede per i credenti, aiutava l’intellettuale al superamento di sé.
53
la shoah
4.3
Dovere della memoria,
crisi della testimonianza e “testimoni integrali”
Primaria rilevanza, tra le altre fonti documentarie di cui si serve lo
storico della Shoah per ricostruire la verità su quanto è accaduto, va
attribuita alla memoria dei superstiti. In un’epoca come quella che vi-
viamo in cui, mentre Auschwitz sta al centro della memoria collettiva
occidentale, si avvicina l’ora dell’ultimo testimone (Bidussa, 2009),
per i sopravvissuti dei Lager raccontare l’esperienza della deportazione
è sempre più un dovere morale e civico in quanto far conoscere alle
nuove generazioni quel terribile passato può aiutare a evitare che qual-
cosa di simile possa ripetersi.
Una duplice impellenza continua a spingere l’ex deportato a testi-
moniare: immediatamente dopo la liberazione dal Lager, quel bisogno
violento ed elementare di “fare gli altri partecipi”: questo tormento
spinse Primo Levi a partorire, «a scopo di liberazione interiore»,
Se questo è un uomo (Levi, 1979, p. 9)2; oggi, l’impellenza della fine:
«semplicemente, con parole povere; ma bisogna parlare [...] perché
siamo alla fine» (Semprún, Wiesel, 1996, p. 45)3.
54
4. vittime: testimonianza, memoria e storia
modo completo e veridico: ma si tratta per noi anche di un dovere morale, perché le
nostre file, esigue da sempre, si stanno assottigliando» (Levi, 2009, p. 1352).
4. Quanto ai ricordi di esperienze estreme, Primo Levi nota come «il ricordo
di un trauma, patito o inflitto, è esso stesso traumatico, perché richiamarlo duole o
almeno disturba: chi è stato ferito tende a rimuovere il ricordo per non rinnovare il
dolore» (ivi, p. 1007).
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la shoah
56
5
Carnefici:
uomini ordinari, male straordinario
Il male avanza pensosamente e sconsideratamente;
pieno di significato e privo di senso; da solo e in com-
pagnia; di proposito e in modo fortuito; misurato ed
ebbro; con e senza compunzione. Incendia i confini
nazionali, ma non sarà confinato dai caratteri nazio-
nali. Si trova e viene insegnato. È monocausale e mul-
ticausale. Non sarà messo alle corde a lungo, in teo-
ria o in pratica. Non sarà esaurito da alcuna delle sue
espressioni. È di per sé la prova di quell’aspetto della
vita umana da cui si ha più da temere che è l’aspetto
dell’universalismo.
Leon Wieseltier
5.1
Propedeutica allo studio dei carnefici
Chi uccise gli ebrei? Perché lo fece? Perpetratore (dall’inglese perpe-
trator) è «chiunque ha partecipato a un attacco contro un civile con lo
scopo di ucciderlo o di infliggerli gravi lesioni» (Strauss, 2004, p. 87),
da solo o in forza a un gruppo.
Suddividiamo i carnefici in quattro categorie disomogenee: gli ideo-
logi, come gli intellettuali ss in forza al sd e al rsha; i professionisti
e gli esperti supposti apolitici che condivisero determinati obiettivi
con il regime nazista; gli “uomini comuni” capaci di uccidere “faccia a
faccia” civili inermi; i burocrati e i funzionari di basso e medio livello
tenuti a distanza dalle conseguenze fisiche e morali delle loro azioni
dalla divisione del lavoro (Browning, 2011b, pp. 1-3).
L’intrinseca complessità caratteriale, la varietà delle dinamiche col-
lettive e dei contesti d’azione rendono vano pensare che vi sia stato un
unico motivo, bensì diversi che si sovrapposero. Disposizione persona-
le o fattori situazionali, cosa contò di più? La sintesi “interazionista”
– terza via rispetto agli approcci situazionale e disposizionale (Blass,
57
la shoah
5.2
Uomini comuni: modelli esplicativi
La più cospicua quota di tedeschi ordinari (di ogni estrazione sociale,
tra i 16 e i 55 anni) implicati in crimini di guerra e di genocidio è rap-
presentata dai 20 milioni di soldati che prestarono servizio nella Wehr-
macht, dei quali 13 combatterono sul fronte orientale (Bartov, 2003,
pp. xx)1. Il personale ss che gestiva i centri dell’“operazione Reinhard”
1. L’interesse storiografico per gli “uomini comuni” è stato stimolato dalla pubbli-
cazione di Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia (1992) e per i
“tedeschi comuni” da quella di I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’O-
locausto (1996). Il dibattito fra i due autori sugli uomini del battaglione di polizia 101 è
culminato nel simposio dell’8 aprile 1996 tenuto all’us Holocaust Memorial Museum.
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5.3
Einsatzgruppen e intellettuali ss
Una significativa spinta in direzione della transizione al genocidio sul
fronte orientale venne data dalle quattro unità di intervento mobili di
massacro operanti in appoggio alla Wehrmacht agli ordini del rsha.
In Unione Sovietica l’impiego delle unità di intervento va collo-
cato nel quadro normativo stabilito degli ordini criminali, nella fat-
tispecie dall’ordine emanato il 2 luglio 1941 da Heydrich. Nelle unità
mobili le posizioni di comando erano occupate da un particolare tipo
di persona: «lo specialista, un uomo con una certa formazione teorica
(spesso una laurea in legge) e un’esperienza pratica all’interno dell’ap-
parato di polizia, dedito all’ideologia nazionalsocialista, un radicale
che agisce di convinzione» (Longerich, 2010, p. 186). Il personale di-
rigente delle “unità operative” era «rappresentativo di un gruppo di
giovani attivisti che dominano i quadri dirigenti del rsha» (Wildt,
2009, p. 273). Altamente istruiti, ferventi militanti di destra all’univer-
sità che aspirano a costruire un nuovo Reich, convinti della necessità
della preservazione razziale del popolo tedesco, questi “intellettuali
ss” che incarnavano una “generazione senza compromessi”, furono ar-
tefici di un discorso ideologico inflessibile le cui conseguenze ultime
sfociarono nell’“azione a est”.
I primi massacri di ebrei, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del
1941, paiono rispondere a una logica difensiva e preventiva, in risposta
a supposti attacchi civili alle unità tedesche in avanzamento e come
64
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario
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la shoah
5.4
Medici
Macchiandosi di orribili crimini, circa 350 medici tedeschi, sotto il
Terzo Reich, deliberatamente violarono il principio fondamenta-
le del codice deontologico, noto come giuramento di Ippocrate, che
66
5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario
comanda «per prima cosa, non nuocere» (primum non nocere). Gli
esperimenti medici e il programma di distruzione delle “vite indegne
di essere vissute”, assieme alla legge sulla sterilizzazione e alle leggi di
Norimberga, hanno fatto parte di un complessivo programma di puli-
zia razziale medicalizzata ispirato dall’adozione nazista delle misure di
medicina preventiva per la preservazione del “plasma germinale tede-
sco” proposte dalla scienza dell’“igiene razziale” ampiamente radicata
nella cultura scientifica tedesca prima del 1933 (Proctor, 1988).
Il ruolo attivo avuto dagli scienziati e dai medici nei vari program-
mi di pulizia razziale traeva fondamento dall’affinità ideologica tra
medicina e nazismo venuta a crearsi con l’importazione della retorica
eugenista della “degenerazione della razza” e della “selezione del più
adatto” nel nazionalsocialismo e con l’attrazione suscitata nei medici
dall’importanza attribuita alla razza nella visione del mondo nazista e
dallo sforzo di biologizzare e medicalizzare i problemi sociali (Annas,
Grondin, 1992, p. 27).
Nel corso dell’operazione T4 medici e psichiatri lavorarono in spe-
ciali reparti d’ospedale per bambini e adulti disabili, selezionarono le
vittime e le uccisero con overdose di medicinali comuni. Nei centri di
sterminio, dove invece le uccisioni dei disabili avvenivano mediante
camera a gas, i medici supervisionarono la registrazione delle vittime,
controllarono le cartelle mediche, somministrarono il gas, dichiararo-
no l’avvenuto decesso, parteciparono alla spoliazione dei corpi, fece-
ro autopsie tenendo lezioni a giovani studenti, estrassero organi che
inviarono a istituti di ricerca. In generale vennero impiegati medici
molto giovani che raramente si rifiutarono di fare questo lavoro. Tra
questi, una figura in continua ascesa fu quella dell’austriaco Irmfried
Eberl, medico capo nei centri di Brandeburgo e Benburg, poi primo
comandante del centro di Treblinka, la cui motivazione pare essere
stata prima di tutto «ideologica, sebbene fosse anche un’importante
opportunità di lavoro per il futuro» (Nicosia, Huener, 2002, p. 72).
Ad Auschwitz, dove l’ufficio dei medici ss era responsabile dell’as-
sistenza sanitaria del personale ss, della prevenzione delle epidemie e
del servizio medico per gli internati, i medici ss furono complici nel
crimine mantenendo condizioni igieniche al di sotto della norma,
scarse razioni di cibo e atroci condizioni di lavoro. Sebbene non tutti,
molti inflissero inumane punizioni corporali e praticarono iniezioni
mortali agli insubordinati e ai malati. Gli ufficiali medici – medici,
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la shoah
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5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario
5.5
Diventare génocidaire:
Adolf Eichmann, Rudolf Höss, Franz Stangl
Dopo la conferenza di Wannsee (gennaio 1942) Eichmann diven-
ta funzionario competente per la soluzione finale. Dal suo ufficio in
Kurfüstenstrasse 116 a Berlino, coadiuvato dagli uomini del suo staff,
egli fa tutto quanto è necessario per deportare gli ebrei dei vari paesi
d’Europa nei centri di sterminio della Polonia. Paradigmatica perso-
nificazione del killer da scrivania, del burocrate moderno sine ira ac
studio, Eichmann è per Hannah Arendt l’incarnazione perfetta della
«banalità del male», dell’incommensurabilità fra un crimine senza
precedenti e l’insignificanza di chi lo commise. Una persona normale
che con grande zelo e meticolosità spedì milioni di persone verso la
morte, del tutto privo di motivazioni eccetto quella di curarsi attenta-
mente della sua carriera, un incosciente che, privo di immaginazione,
mai comprese quel che stava facendo (Arendt, 2009). Secondo questa
formula banale non è il male – la deportazione e lo sterminio degli
ebrei –, che fu anzi radicale, ma l’uomo che lo commise: ordinario,
comune come le sue motivazioni. Con questa destabilizzante intui-
zione Arendt sottrae al male profondità demoniaca – non necessaria-
mente chi fa il male prova odio, invidia, forti passioni – e getta luce
su una strana interdipendenza espressa dall’individuo moderno, fra
incoscienza, «scissione consapevole di se stesso» (Donaggio, 2013) e
male. Arendt ci ricorda che «i perpetratori di genocidio e di omicidi
di massa non sono fondamentalmente diversi da me e da te» (Waller,
2002, p. 106).
Se nella sua capacità di universalizzare il contrasto fra ordinarie-
tà dei carnefici e straordinarietà del male il concetto di “banalità del
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la shoah
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5. carnefici: uomini ordinari, male straordinario
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6
Spettatori e soccorritori:
dall’indifferenza al soccorso
Abbiamo un’infinita capacità di far bene e un’infinita
capacità di far male. Siamo tutti schizofrenici.
Jan Karski
6.1
Una realtà di sfondo decisiva e dinamica
Le violenze sugli ebrei avvennero sotto gli occhi di 700 milioni di perso-
ne cadute sotto l’occupazione nazista che volenti o nolenti furono spet-
tatori (dall’inglese bystanders) della sistematica distruzione degli ebrei.
Sul piano individuale spettatori sono quelle «persone che assi-
stono alle azioni dei perpetratori non subendone le conseguenze»
(Staub, 1989, p. 86). Spettatori furono «coloro non “coinvolti” non
disposti a far male alle vittime, non desiderosi a essere danneggiati dai
perpetratori» (Hilberg, 1997, p. 5). Nello specifico «le agenzie e i go-
verni neutrali, gli ebrei che vivevano in condizioni di relativa sicurez-
za, i paesi occupati, i tedeschi ordinari, e soprattutto i governi alleati»
(Neufeld, Berenbaum, 2003). Sul piano etico lo spettatore è «un indi-
viduo che passivamente osserva una vittima in una situazione dispera-
ta senza intervenire anche se ha l’opportunità di andare in suo aiuto»
(Edgren, 2012, p. 68). Gli spettatori sono in grado di influenzare le
azioni dei perpetratori e degli altri spettatori durante l’evolversi delle
violenze attraverso azioni esplicite, petizioni o manifestazioni pubbli-
che, o nascoste, forme di aiuto e di resistenza non violenta o armata
(Ehrenreich, Cole, 2005, p. 218). Gli spettatori stimolano la risposta
degli altri astanti verso l’empatia o l’indifferenza (Newman, Erber,
2002, p. 27) e rispondendo con oltraggio e condanna alle atrocità pos-
sono rafforzare le norme morali contro il comportamento criminale
(Staub, 1989, p. 87). Gli spettatori non si presentano come un’entità
a sé stante, isolata e statica ma interrelata con vittime e carnefici nel
quotidiano agire. Rispetto all’evolversi degli eventi essi reagiscono
in modo dinamico, con comportamenti che oscillano fra gli estremi
73
la shoah
1. Spettatori interni erano i tedeschi comuni e tutti coloro che erano a conoscenza
di atrocità e sofferenze esperite nelle società in cui vivevano. Spettatori esterni erano
gli alleati, i media americani e britannici, il Vaticano, la Croce Rossa, le organizzazio-
ni ebraiche mondiali, la leadership sionista in Palestina che ne erano a conoscenza
seppure a distanza.
74
6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso
6.2
Spiegazioni del comportamento di spettatori e soccorritori
Ha contatto più la personalità o il contesto d’intervento nel compor-
tamento di spettatori e soccorritori? Nello studio sui soccorritori vi è
una biforcazione metodologica tra un orientamento prevalentemen-
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6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso
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6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso
6.3
Ritratti di nazioni, comunità, individui
Sotto il Terzo Reich l’opinione pubblica tedesca era divisa tra una
ristretta minoranza di paranoici che odiavano spasmodicamente gli
ebrei (“battaglioni d’assalto” – sa, attivisti di partito), un’ampia se-
zione della popolazione che approvava l’esclusione economica e l’o-
stracismo sociale degli ebrei, respingendo la disumanità di chi li odiava
visceralmente e una minoranza che provava un profondo senso umani-
tario che si opponeva all’odio razziale (Kershaw, 1981, p. 286).
Le leggi di Norimberga furono accettate pienamente dalla gran
parte della popolazione come possibile soluzione permanente alla se-
gregazione biologica, accolte con insoddisfazione dagli attivisti nazisti,
condannate dai religiosi, dalla sinistra marxista, dai liberali borghesi e
dagli intellettuali, accolte senza reazioni dai più che non presero po-
sizione conservando un’attitudine passiva ed equanime nei confronti
dell’ideologia e della politica del regime (Bankier, 2000, p. 273).
La reazione alla Notte dei cristalli fu largamente negativa. Silen-
zioso disgusto intervallato da invettive borbottate di condanna, ver-
gogna e orrore contro la barbarie furono le più tipiche reazioni. Rifiu-
to, assistenza e solidarietà vennero da cattolici e protestanti. L’ampia
risposta negativa al pogrom si tramutò in largo consenso per un “anti-
semitismo razionale”.
Il decreto che impose la stella gialla agli ebrei (settembre 1941) fu ac-
colto con favore dalla stragrande maggioranza della popolazione (Dov
Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Isolati tributi di solidarietà vennero da bor-
ghesi e cattolici. La maggior parte della popolazione non si accorse, né
commentò l’imposizione di questa misura (Kershaw, 1981, p. 283).
Quanto alle deportazioni di ebrei tedeschi “verso est” (ottobre
1941), l’auspicio generale è che essi vengano allontanati dalla Germa-
nia (Dov Kulka, Jäckel, 2010, p. lxi). Una minoranza calorosamente
approva le deportazioni, la maggioranza è decisamente più riservata,
mentre un’altra minoranza le contesta (Bajohr, 2006). Nonostante
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6. spettatori e soccorritori: dall’indifferenza al soccorso
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7
Presente e futuro della Shoah:
ricordare, rappresentare, educare
Lungi dal restare prigionieri del passato, dobbiamo
metterlo al servizio del presente, così come la memo-
ria – e l’oblio – dovrebbe essere utilizzato al servizio
della giustizia.
Tzvetan Todorov
7.1
Memoria, commemorazione e diritto di dimenticare
Nella cultura e nello spazio pubblico contemporanei la memoria della
Shoah è centrale. Auschwitz è la «base della memoria collettiva del
mondo occidentale» (Traverso, 2006, p. 13). Il suo ricordo, istituzio-
nalizzato con la designazione della Giornata internazionale per la me-
moria delle vittime dell’Olocausto1 il 27 gennaio, ha dato luogo a una
87
la shoah
gli Stati membri onu sono sollecitati a sviluppare programmi educativi, a rifiutare i
negazionismi, a preservare i luoghi della persecuzione, a condannare tutte le manife-
stazioni di molestia, incitamento e intolleranza religiosa.
88
7. presente e futuro della shoah
della Shoah come soggetto autonomo nel processo della memoria col-
lettiva e della comprensione della storia grazie al processo Eichmann
(1961), al cambio generazionale e alla guerra arabo-israeliana dei Sei
giorni (1967) che per la prima volta ha evidenziato la minaccia alla si-
curezza degli ebrei in Israele. Negli anni Settanta e Ottanta si è diffusa
su larga scala la consapevolezza che la Shoah sia un elemento noda-
le delle storie e delle memorie nazionali. Il preponderante mito della
resistenza all’occupazione nazista è infranto in Francia. Si riscopre il
diffuso fenomeno del collaborazionismo sotto il regime di Vichy con
l’uscita del film Le Chagrin et la pitié (1971). Nel 1984 gli esponenti
della comunità ebraica francese polemizzano l’apertura nei pressi di
Auschwitz di un convento di carmelitane, nel 1980 esce Le Journal
d’Anne Frank est-il authentique? (1980) del negazionista Faurisson e
nel 1985 il documentario Shoah, nel 1987 si tiene il processo al “boia di
Lione” Klaus Barbie (1987). Fra il 1978 e il 1979 si afferma negli Stati
Uniti e in Germania il termine Olocausto grazie alla trasmissione del
film Holocaust, in Germania tra il 1986 e il 1989 si consuma la “disputa
degli storici” (Historikerstreit) sul posto occupato da Auschwitz nella
memoria tedesca e sul problema della singolarità e comparabilità del-
la Shoah. Negli anni Novanta, a Guerra fredda conclusa, e nel primo
decennio del 2000, la consapevolezza di massa sulla tragedia ebraica
raggiunge il suo picco con la sua “americanizzazione” legata al successo
mondiale di Schindler’s List e all’apertura dell’Holocaust Memorial
Museum a Washington nel 1993 (Gordon, 2013, pp. 3-14).
Nell’era della “guerra al terrore” la Shoah resta un’ombra sull’Oc-
cidente ma è anche vista come l’elemento unificante per una comu-
ne memoria europea (Diner, 2003), la sua memorializzazione è posta
alla base del processo di integrazione europea (Karner, Mertens, 2013,
pp. 23-42). Quanto più lo sterminio degli ebrei d’Europa ripiega nel
passato, ritirandosi come esperienza vissuta, tanto più si afferma nel
presente come luogo della memoria (Nora, 1989). Per questioni ana-
grafiche oggi il ricordo di Auschwitz non è quello spontaneo di chi
ne è stato vittima, carnefice o spettatore, ma è costruito e mediato da
molteplici modalità rappresentative. Questa memoria non è più, o non
solo, è legata ai luoghi della persecuzione. Essa è cosmopolita, deterri-
torializzata e dislocata (negli Stati Uniti ci sono oltre 44 tra musei e
memoriali, a Montevideo si trova il Memoriale dell’Olocausto del po-
polo ebraico, a Cape Town, Durban e Johannesburg Centri di ricerca
89
la shoah
90
7. presente e futuro della shoah
7.2
Forme e limiti della rappresentazione
Non si può ricordare senza avere un’immagine del passato, senza rap-
presentarselo. La rappresentazione come condizione della rammemo-
razione è ri-presentazione (dal latino representare, composto di re- e
presentare “presentare”), contestualizzazione, selezione di contenuto,
attribuzione di senso, forma e significato. È rappresentabile la distru-
zione di milioni di ebrei? Che la Shoah sia rappresentabile lo prova
il fatto che sia stata e continui a essere rappresentata. Fino a oggi più
di un milione di fotografie principalmente scattate dai carnefici sono
state archiviate. Dal 1944 si contano almeno 100.000 resoconti di
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7. presente e futuro della shoah
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la shoah
94
7. presente e futuro della shoah
7.3
Fatiche dell’insegnare e dell’apprendere
Il presente e il futuro della Shoah dipendono dall’educazione sullo
sterminio degli ebrei che può essere rivolta primariamente agli stu-
denti e potenzialmente a tutti quanti, come hanno per esempio dimo-
strato i programmi organizzati dall’Holocaust Memorial Museum per
giudici, avvocati, poliziotti e militari (Fracapane, Hass, 2014, p. 169).
L’International Holocaust Remembrance Alliance – un corpo inter-
governativo fondato nel 1998 con lo scopo di supportare leader politici
e sociali rispetto alla necessità dell’educazione, del ricordo e della ricer-
ca sulla Shoah a cui a oggi aderiscono 31 Stati membri (fra cui l’Italia),
4. Sempre nell’articolo Art and the Holocaust: Trivializing Memory, Wiesel scri-
ve: «Solo coloro che lo [Auschwitz] hanno vissuto nella loro carne e nelle loro menti
possono possibilmente trasformare la loro esperienza in conoscenza. Gli altri, nono-
stante le buone intenzioni, non potranno mai farlo».
95
la shoah
5. A oggi sono 10 le organizzazioni italiane affiliate, tra cui aned (Roma), As-
sociazione Olokaustos (Venezia), Figli della Shoah (Venezia), Fondazione cdec
(Milano), Fondazione Museo della Shoah (Roma), Museo Monumento al deportato
politico e razziale (Carpi), Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della
Guerra, dei Diritti e della Libertà (Torino). Invitiamo a visitare questo indirizzo web:
https://www.holocaustremembrance.com.
96
7. presente e futuro della shoah
tre violenze del xx secolo, della tradizione dei diritti umani e chiarirsi
le idee sullo scopo educativo perseguito: stimolare la riflessione sugli
abusi del potere, sulle responsabilità degli individui, far comprendere
le ramificazioni del pregiudizio, del razzismo e dell’antisemitismo nelle
società in cui viviamo, sottolineare i pericoli del silenzio e dell’indiffe-
renza di fronte all’oppressione degli altri, educare alla tolleranza, alla
solidarietà e alla giustizia.
La Shoah come oggetto di studio è particolarmente ostico per via di
una certa problematicità legata a un’intrinseca difficoltà di dicibilità e
di trasmissibilità della memoria tragica delle vittime, per la sua funzio-
ne simbolica nella nostra coscienza collettiva in quanto radicale rottu-
ra di civiltà nella storia della società occidentale e perché ha infranto le
barriere fra le discipline costringendole all’interdisciplinarietà (Traver-
so, 1995, pp. 99, 33). La Shoah è argomento talmente complesso a causa
della densità del dodicennio hitleriano, dell’ampiezza geografia della
persecuzione, della molteplicità degli attori coinvolti che può risultare
scoraggiante trattarlo per chi insegna (Totten, Feinberg, 2001). Con-
siste inoltre di una certa diversità data dal fatto di essere «più di un ti-
pico evento storico che può essere studiato in termini di tempo, luogo,
attività e risultato», perciò non esauribile in breve tempo, e in quanto
«veicolo attraverso cui può essere esaminata l’essenza della condizione
umana» racchiude un sapere storico ed etico poiché offre l’opportu-
nità di esaminare ogni possibile comportamento umano, da un massi-
mo di male a un massimo di bene (Lindquist, 2011b). Il soggiacere alla
“soluzione finale” di una complessità causale – razionalità strumentale
moderna, antisemitismo redentivo, ossessione giudeo-bolscevica – è
d’ostacolo al capire, capacità che appare limitata rispetto allo spiegare
(Traverso, 1995, p. 15): «più conosco meno so e meno capisco» una
volta ha detto Elie Wiesel (cit. in Lindquist, 2006). L’insegnamen-
to della Shoah può avere un’enorme potenza trasformativa come nel
caso di una ragazza diciassettenne statunitense che dopo una lezione
sulla Shoah di Facing History and Ourselves ha affermato «pensiamo
alla storia che impariamo. È importante imparare le parti scomode. È
lì che possiamo trovare i conflitti che ci aiutano a capire noi stessi»
(Fracapane, Hass, 2014, p. 159). Può altresì esporre al rischio di una
“sovraidentificazione” con le vittime come è accaduto a uno studen-
te di una scuola media statunitense che, dopo una simulazione sulla
Shoah chiamata Morire di fame. Una lezione sulla durezza del campo
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