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Notula sulle carte aragonesi

Nel libro // mistero delle mappe aragonesi (Ogliastro Cilento, 2023)


Fernando La Greca indaga le remote origini delle carte corografiche apparse
improvvisamente a Parigi nel 1767 e fatte ricopiare dal loro scopritore, l'abate
Ferdinando Galiani (contestualmente gli originali delle mappe sono
scomparsi). Esse rappresentano il Regno di Napoli con un dettaglio e una
precisione sconosciute alla produzione cartografica coeva. Vengono datate
all'ultimo quarto del '400, durante la signoria aragonese su Napoli, con
integrazioni perlomeno fino alla seconda metà del '500, e da quando le copie
del Galiani sono state ritrovate a partire dal 1986 le domande e i dubbi sulla
loro autenticità non hanno smesso di riaffiorare. AI riguardo V. Valerio, che
molto si è speso nel loro studio, ha tacitato qualsivoglia perplessità:
"Laquestione dell’autenticità delle pergamene si è del resto posta anche
recentemente, soprattutto per la loro modernità di concezione e per
l'esattezza che le contraddistingue, inusuale in quegli anni. Ma è d'uopo
fugare ogni dubbio al riguardo: la carta in quattro fogli realizzata a Parigi dal
Galiani dimostra come quelle pergamene e il loro contenuto scientiico e
iconografico fossero assolutamente ignoti ai cartografi contemporanei del
Galiani stesso; i dati ch'esse registravano (e che le superstiti tuttora
registrano) non erano disponibili ad alcuno scienziato o astronomo della
seconda metà del Settecento.Ma se si può agevolmente costruire un falso
storico inserendovi dei dati non disponibili nell'Età in cui il falso medesimo
viene collocato, e se proprio perciò il riconoscimento della presenza di dati
antistorici è il primo e principalissimo passo da compiersi nella denuncia di
un falso, nessuno ha mai potuto e nessuno invero potrà mai, quasi
prefigurando il futuro, falsificare un documento inserendovi conoscenze o
dati non disponibili al momento della costruzione del falso e solo in séguito
acquisiti o rinvenuti. E al tempo del Galiani, poco dopo la metà del Settecento,
nessuno avrebbe potuto disegnare una mappa falsa avvicinandosi così
vertiginosamente al vero, inserendovi conoscenze topografiche,
toponomastiche e geodetiche sul Regno in quegli anni non disponibili. Quelle
carte potevano insomma risultare allora di estremo interesse, e possono
risultare oggi di un'estrema “modernità”, solo perché genuinamente antiche e
relativamente esattissime. E il Galiani può, con l’aiuto del Rizzi Zannoni,
redigere a tavolino la più esatta carta del Regno di Napoli mai in allora
realizzata, e superare nettamente ogni consimile lavoro coevo, per l'appunto
in quanto delle pergamene aragonesi si serve.Proprio perché collocato in una
sede impropria qual è l'archivio della Camera dei conti nell'Î/le de /a cité, quel
materiale cartografico è infatti rimasto sconosciuto agli stessi scienziati e
cartografi francesi: nessuno di loro ha potuto trar profitto dagli accurati suoi

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rilevamenti a scala topograica: se avessero conosciuto le pergamene


aragonesi, i Sanson, Duvalc, Jaillot, De Fer e Delisle non avrebbero certo più o
meno pedissequamente riproposto il contorno del Regno di Napoli stabilito
dal Magini nell'atlante /talia da lui pubblicato nel 1620. A consentire al Galiani
e al Rizzi Zannoni di disegnare l’inedita loro carta del Regno di Napoli, entro il
più esatto reticolo geograico mai realizzato per il Mezzogiorno d'Italia, furono
soltanto quelle antiche mappe" (La cartografia rinascimentale del regno di
Napoli: Dubbi e certezze sulle pergamene geografiche aragonesi, in
"Humanistica", vol. 10 (2015), pp. 212-213).
"The homogeneity of scales on the copies means that we can form a
reliable single picture by joining all the surviving sheets together, thus
revealing another surprising technical feature: the orientation of most of the
cartographic representations shows that a compass was used in the work of
topography or, at the very least, in deciding the general orientation of
individual maps. The compass is known to have been used in medieval
nautical cartography (where ignorance of the effects of magnetic declination
produced the well-known counterclockwise shift in the axis of the
Mediterranean), but here we see that this strictly nautical instrument was
being used extensively for another important task. Although Alberti had
applied it experimentally in his mapping of Rome around 1440 the
cartographers of Aragonese Naples used it to map an entire kingdom. The
almost unchanging angle of rotation in the sheets aligned along the central
meridian, which runs from Capitanata to Calabria, reveals a declination of 7°
west, which would be about right for the years in which the cartographers
carried out their surveys [According to the data given in L. Hongre, G. Hulot,
and A. Khokhlov, “An Analysis of the Geomagnetic Field over the Past 2000
Years," Physics of the Earth and Planetary Interiors 106 (1998): 311, magnetic
variation in Naples in the years 1450, 1475, and 1500 would have been 9.19,
8.6°, and 8.3° east, respectively. The value | have been able to deduce from an
inspection of the maps fits best with the period from 1475 to 1500]"
(Cartography in the Kingdom of Naples during the Early Modern Period, in
"The history of cartography", vol. Three, p. 1, Chicago 2007, p. 947).
Il Valerio è convinto assertore della realizzazione delle carte aragonesi tra
XV e XVI secolo. "Si può oggi asserire come un dato di fatto che tra l’ultimo
quarto del Quattrocento e i primi decennî del Cinquecento un imponente
lavoro di ricognizione topografica e di determinazioni astronomiche sia stato
portato avanti dalla corte aragonese di Napoli e continuato, o semplicemente
aggiornato, dal governo vicereale spagnolo [...] Non ritengo che durante il
regno di Alfonso si possano rinvenire le competenze e, soprattutto, la volontà
politica per la realizzazione di un progetto di cosi ampio respiro e tanto
costoso in termini non meno di tempo che di finanze; cosî come non penso
che le carte aragonesi si basino suo, addirittura, riproducano rilevamenti di

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Età romanao tardo-antica, come recentemente asserito (cfr. F. La Greca,


Antichità classiche e paesaggio medievale cit., pp. 61-67). L'idea di un
disegno a scala costante di ampi territorî è estranea alla cultura geografica e
politica del mondo antico ed è sprovvista d'ogni evidenza storica" (La
cartografia rinascimentale cit., p. 211e nota 124).
Di contrario avviso La Greca, che ipotizza una base cartografica di età
romana per quanto attiene agli elementi naturali del paesaggio e un innesto di
toponimi in epoca aragonese affiancati ad altri conservatisi dalla primitiva
stesura. "Senza nulla togliere all'abilità dei tecnici e dei cartografi aragonesi,
alla modernità di vedute dei governanti, e all'intervento del Pontano, del
Beneventano e di altri, forse è possibile dire di più. Un rilievo a questo
dettaglio di tutto il Regno di Napoli non poteva passare inosservato.
Occorrevano squadre di tecnici, strumenti, osservazioni ripetute, lavori di
coordinamento, per moltissimo tempo. Senza contare l'ostilità dei baroni
verso i sovrani, cosa che sicuramente avrebbe reso questo lavoro
estremamente difficile, e se non altro l'operazione sarebbe diventata di
pubblico dominio, nel senso che sarebbe stata notata dalla gente e segnalata
in qualche modo nei documenti dell'epoca. Tuttavia non abbiamo nessuna
precisa notizia sui lavori di realizzazione di tale carte. Perche non se ne è mai
parlato, nè allora, nè negli studi storici dedicati al periodo aragonese? Anche
se la documentazione aragonese negli archivi di Napoli è andata in massima
parte distrutta durante il secondo conflitto mondiale, agli studiosi che in
precedenza hanno consultato gli archivi una notizia del genere non sarebbe
sfuggita. E invece, nulla. Neanche uno straccio di cedola di tesoreria che
documenta il pagamento di servizi che in qualche modo possano ricondursi
ad un rilevamento topogratico. Per spiegare la genesi delle mappe aragonesi,
dunque, usando lo stesso ragionamento di Assunto Mori e di Roel Nicolai, è
teoricamente possibile che siano state ritrovate e ricopiate, riadattandole
opportunamente, antiche carte di derivazione romana. Ovvero, il lavoro
cartografico sarebbe stato fatto soprattutto sfruttando e aggiornando carte
già esistenti, carte piccole, regionali o comunque limitate a un'area che a
volte difficilmente poteva essere individuata da chi non conosceva i luoghi [...]
Secondo questa ipotesi, dunque, la Tabula Peutingeriana potrebbe non
essere l'unico fossile cartografico romano rimasto in giro: la corografia di
derivazione romana, molto dettagliata, potrebbe aver fomito la base fisica
delle nostre mappe. Da parte loro, umanisti, tecnici, architetti, amministratori
ed ufficiali della corte aragonese dovettero ricopiarle ed adattarle ai toponimi,
alle conoscenze del tempo, alle esigenze militari, alle relazioni del viaggiatori,
risparmiando su tutto il lavoro di rilevazione fisica, the sarà stato minimo o
comunque limitato. Tutto questa senza nulla togliere alle giuste osservazioni
di Vladimiro Valerio sul lavoro dei cartografi aragonesi, ma le cane
preesistenti dovettero facilitare la loro opera. Ciò spiegherebbe sia la

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presenza di molti centri antichi ora segnalati come diruti, sia gli errori di
posizionamento di molte località sulla carta, non verificate, sia la segretezza
dell'operazione: un lavoro di assemblaggio a tavolino, destinato alla
cancelleria reale, molto facile da nascondere rispetto ad un rilevamento
geometrico di tutto Regno, e richiede l'intervento di poche persone esperte.
Queste carte topografiche aggiornate dovevano avere la funzione di
mappatura di base del territorio, a grande scala, po' come le nostre tavolette
dell IGM. A partire da queste era possibile, quando necessario mettere
insieme diversi fogli topografici dettagliati sovrapponendoli ai margini per
ottenere grandi carte regionali (come probabilmente fu fatto per le carte
nautiche del Meditenaneo secondo Nicolai). Gli appunti astronomici, come la
distanza in gradi dal Tropico del Cancro di Capo Spartivento, leggermente
diversa in due "esemplari", servivano per posizionare correttamente i fogli, e
fanno capire che queste e forse molte altre misure erano presenti negli
originali. Le carte presentano una declinazione magnetica di circa 7°, comune
a diverse carte nautiche dell'epoca, e forse questo fatto potrebbe darci
qualche indizio sulla data dei rilevamenti" (// mistero delle mappe aragonesi
cit., pp. 140-143).
Il riferimento a Roel Nicolai è alla tesi di dottorato di questi, A critica/
review of the hypothesis of a medieval origin for portolan charts (Universiteit
Utrecht, 2014), che mediante l'impiego di metodi cartometrici ha cercato di
dimostrare l'impossibilità di una creazione ex novo delle carte portolaniche
nel Medioevo. Secondo Nicolai le carte nautiche, a partire dalla Pisana di fine
‘200, sono state elaborate utilizzando una proiezione geodetica cilindrica
conforme di Mercatore o cilindrica equidistante. "AIl four ‘pillars’ of the
medieval origin hypothesis have to be rejected: The medieval seaman is
unlikely to have navigated with mathematical precision; this concept runs
counter to the widespread lack of attention to accuracy in the Middle Ages.
The late introduction of the mariner's compass leaves only room for the
distances as input for mapmaking, requiring a highly dense network of
distances between points by trilateration. Medieval ships didn't criss-cross
the Mediterranean at will; they mainly followed traditional trade routes along
the northern coasts. The accuracy of distances between ports —- the same
holds for directions —- could not have been improved “by cumulative
experience” in any systematic manner, i.e. by calculating the average or
arithmetic mean of a large number of measurements; this technique was not
known and not practised in the European Middle Ages, nor in contemporary
Arabic-Islamic culture. Portolan charts were not drawn by plane charting of a
network of distances between ports and landmarks. The required density of
distances could not have been achieved, the accuracy would fall far short of
what is required and most importantly, plane charting of distances and
directions that would have been accurate enough would have led to a

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significantly different charted shape of the Mediterranean. Portolan charts


are based on a map projection that cannot have been created accidentally by
any simple charting technique. The geodetic basis of the charts, expressed in
their accuracy and their map projection, is far beyond the capabilities of the
European Middle Ages. Far from being primitive charts that are mildly
anomalous in the Middle Ages, the charts are sophisticated cartographic
products that can neither be explained in any way from medieval European,
nor from Arabic-Islamic available geodetic-cartographic capabilities. The key
conclusions from this study are therefore the following. Portolan charts are
sophisticated, accurate charts, intentionally constructed on the Mercator or
the Equidistant Cylindrical map projection. The geodetic and cartographic
origin of portolan charts does not lie in medieval Europe. An origin of the
charts in Arabic-Islamic culture is highly unlikely" (A critical review cit., pp.
409-410).
Non tutti gli esperti di cartometria sono però d'accordo con l'ipotesi di
Nicolai. Cfr. J. A. Gaspar, How old are portolan charts really2, in "Newsletter"
No 53, 2015, pp. 20-24: "According to Nicolai's article, the only way to explain
the accuracy of the extant charts is to consider that they result from joining
together several regional surveys, each of them represented in the Mercator
projection. Nicolai's approach to the problem is the following. First he shows
that there are spatial variations in the overall accuracy of the charts which
can be explained by the assembling of regional representations. After
identifying those regions he then proceeds by adjusting a Mercator projection
to each of them. As part of the adjustment, a previous correction is made to
the counterclockwise tilt of the pieces, and some control points, considered
as outliers, are eliminated. The claim about the extraordinary accuracy of the
charts is based on the comparison of these regional parts with the
corresponding Mercator representations, after having been corrected for tilt
and outliers. Incidentally no reference is made to the navigational accuracy of
the resulting composite chart. Neither is it explained how the joining of the
various pieces resulted in a representation whose counterclockwise tilt
matched the average value of the magnetic declination in the area: a happy
coincidence? Moreover nothing is said about the surveying methods
supposedly used to determine latitudes and longitudes in each of the regions,
so that a Mercator projection could be applied to their representations. In this
respect it should be stressed that only after the longitude problem was
solved, well into the eighteenth century, was it possible to construct accurate
Mercator charts. As explained in early modern textual sources, portolan
charts were constructed by transferring directly to the plane the directions
and distances measured on the curved surface of the Earth, as if it were
flat. The resulting geometric inconsistencies, which were relatively minor
when representing small regions like the Mediterranean, tended to be further

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minimized over time. Not by making arithmetic averages of distances and


courses, as suggested by Nicolai, but by a graphical optimization process in
which the relative positions of the places were gradually adjusted over time
using the superabundant information. That is probably what happened during
the earliest phases of the portolan chart development, of which no physical
evidence has survived to our days. Many researchers before Roel Nicolai have
tried to adjust various map projections to the old portolan charts, especially
the Mercator projection. And all have concluded that a very good match could
be achieved, after the average tilt of the charts was eliminated. What none of
those researchers has mentioned is that such result is to be expected. In a
previous work, | have shown how a set of rhumb-line courses defined on the
curved surface of the Earth and plotted on the plane as straight segments
produces an exact Mercator projection. If rhumb-line distances are also
included, a hybrid representation results whose geometry depends on the
relative weight given to courses and distances. According to my own
numerical simulations, which took into account the navigational methods
described in the textual sources and the influence of magnetic declination,
the best matches are obtained when a larger weight is given to directions.
This outcome is not surprising because pilots have always attributed, for
navigational reasons, more importance to measured directions than to
estimated distances. Indeed, my results have clearly shown that the main
geometric features of portolan charts, including the counterclockwise tilt and
the slight convergence of meridians, are well explained by the use of
uncorrected magnetic courses and distances in their construction. Nicolai
assigns great relevance to the errors made by the pilots in the determination
of distances and goes to the point of considering that it would have been
impossible to make estimates better than one third of the distance travelled.
From this assumption he further concludes that the only way to get close to
the accuracy of the actual portolan charts would be by averaging a large
number of measurements of the same courses and distances. However, he
notes, that would be impossible because ‘the calculation of the arithmetic
mean of a series of measurements of the same variable with the intention of
improving its accuracy was not known in the Middle Ages: it was not
introduced into scientific practice until the end of the seventeenth century".
This is an extraordinary claim considering, for example, the testimonies of
Portuguese pilots, from the beginning of the sixteenth century on, where
references to similar procedures in astronomical observations are made".
Vd. altresì Tony Campbell: "Any search for plausible antecedents of the
portolan chart needs to ask which of the cartographic models known to have
been extant [though not necessarily accessible] at the end of the 12th century
might have played a part. In what ways would different cartographic types,
exemplified for example by the mappae mundi the Peutinger Table, Matthew

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Paris's itinerary maps, the Charta Rogeriana or regional maps and diagrams,
have helped provide any kind of realistic picture of the Mediterranean and
Black seas? Furthermore, who, in 1200, would have needed, or been able to
make use of, a realistic outline of the known world, with positional geometry
as its primary concern? Ptolemy's astronomically determined coordinate
geography might seem to be a suitable candidate (even assuming that it was
available in Western Europe at that time via Islamic intermediaries, which is
unlikely). The Geographia's coordinates set out what was known in Alexandria
in the second century CE and would not start to be updated until the
Renaissance. In the period when the portolan chart seems to have emerged,
cartographers had other priorities besides Euclidian accuracy. Indeed, despite
the example of the portolan charts, with a few exceptions a regional
cartography that used a measured scale and concentrated on the correct
relative positioning of places —- what might be termed ‘proto-scientific’ — is
not seen for several centuries. We should not have to rely on hypothetical
antecedent maps, which are not only physically lost but also absent from the
written record. If it is felt that such must have existed, how is it envisaged
they were created and who would have drawn or used them? Those who
support the claims of non-mariners as the charts’ progenitors need to identify
who else, realistically, could have been involved. It is much more likely that
the nascent portolan chart was ‘hidden in plain sight' in mariners' memories
than that an invaluable Roman device was lost for 1000 years. Even if Greek
mathematicians or Roman surveyors had turned their minds to the question
of a marine chart, where would they have obtained the necessary information?
Their periploi provide even less information than the medieval successors to
those, the portolani. Furthermore, the identical source question posed about
the medieval charts would have to be asked in the case of a hypothetical
Classical origin. The iterative argument, which assumes that portolan charts
must represent a continuation of one or more preceding cartographic genres,
is not only contradicted by the lack of any such models but, even more
compellingly, by the charts’ inclusion of a suite of unprecedented conventions,
probably, in both number and originality, without parallel in the history of
cartography. It cannot be said for certain that the portolan charts’ creator(s)
had never seen a map of any kind. However, we can be sure that whoever
drew the Carte Pisane was unaware of any map attempting to cover seriously
those sections of the North Atlantic coasts which he casually included:
whether Ptolemy, the descendants of a Roman model typified by the Anglo-
Saxon (or Cotton) map, or al-Idrîists Charta Rogeriana. The most logical
explanation for that new cartographic language lies in the portolan charts’
clear focus on navigation — to the extent that almost everything else is
omitted — confirming that they were created, de novo, for the use of
navigators" (Mediterranean portolan charts: their origin in the mental maps of

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medieval sailors, their function and their early development, part 1 Possible
cartographic antecedents of the portolan charts, © 2021-2024).
Le evidenze a supporto delle origini romane delle mappe aragonesi sono
piuttosto labili. Tutti i presunti indizi sulle vestigia classiche che il La Greca
scorge negli oggetti geografici delle carte sono sparuti e generici.
Tralasciando i mutamenti dell'assetto idrografico (dimensione e portata di
fiumi, torrenti e laghi) ormai controllabili a vista da qualsiasi persona e poco o
punto significativi per retrodatare le mappe (centinaia o migliaia di anni?),
addirittura inesistenti come il lago di Lagonegro o esagerati come il lago di
Lagopesole, è sull'attività antropica che si concentrano le eventuali
controdeduzioni. Tuttavia un solo esempio paesaggistico mi basta. "Ancora,
in questa stessa pergamena [del Gargano, ndr], sotto Beschice (Peschici), vi è
il disegno del Lago Battaglia, ora estinto, ma riportato nell'Atlante di Cartaro e
Stigliola come un piccolo laghetto, e parimenti nel Magini, con il toponimo "La
Battaglia". Sulla carta aragonese, il lago si presenta senza indicazione
toponomastica, ed è relativamente grande ed esteso in lunghezza, un po' a
forma di T, e con accanto un lago minore. Sorprendentemente, il suo profilo è
molto simile a quello ricostruito dai ricercatori odierni. Infatti, recenti studi
geologici hanno accertato che il Lago Battaglia ha avuto una lunga storia e da
Laguna costiera è diventato bacino lacustre verso il IX secolo.
assottigliandosi progressivamente e scomparendo del tutto nel XIX secolo" (//
mistero delle mappe aragonesi cit., p. 203). La Greca non deve aver visionato
la Parte Occidentale Regno Napoli, stampa di Vincenzo Pazzini Carli (1789)
dove il lago Battaglia è ancora più simile a quello ricostruito dai geologi (cfr. L.
Pennetta, Caratteri ed evoluzione dei litorali pugliesi in relazione al clima del
passato, in "Geologi e Territorio", n. 3-4, 2007, pp. 131-144). Quella
sottostante è l'illustrazione utilizzata da La Greca, ma il piccolo ritaglio in alto
a sinistra travisa l'immagine originale presentata dal Pennetta che evidenzia
l'evoluzione della linea di costa nel periodo compreso tra età romana ed oggi,
quindi un arco temporale di circa due millenni e non un istantanea storica
come lascerebbero intendere le parole di La Greca.
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Immagine a p. 137 del cit. articolo di L. Pennetta

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Particolare della Parte Occidentale Regno Napoli di V. Pazzini Carli (1789)

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Infatti: "The study site (41'54'19" N-16'08'03" E) is an ancient lake, now dry,
called Lago Battaglia. This basin is clearly represented on ancient maps that
show its position along the north-eastern coast of Gargano between the
towns of Peschici and Vieste. These documents show that this lake existed
around the mid 16th century (Cartaro and Stigliola 1590-1597). It is shown on
the map of Marzolla (1836), but it does not appear in the first IGMI (Istituto
Geografico Militare Italiano F. 157 "Vieste") map published in 1869. Given its
distinctive three tipped shape, Boenzi et al. (in press) were able to locate the
Lago Battaglia basin in the area of the Palude di Santa Maria and the Palude
di Molinella. The former had been totally reclaimed by the end of the 19th
century (Pareto 1865); the latter, a coastal marsh that remains today. is the
only proof of the former presence of a coastal water body. The final phase of
Lago Battaglia probably occurred during the mid to late 1800s. The lake could
have been infilled by sediments eroded after the clearance of areas of
northern Gargano in the 18th century (Manicone 1806-1807)" (I. Caroli-M.
Caldara, Vegetation history of Lago Battaglia (eastern Gargano coast, Apulia,
Italy) during the middle-late Holocene, in "Vegetation History and
Archaeobotany", vol. 16, No. 4, 2007, p. 317).
Vorrei soffermarmi un attimo sull'estinto lago Battaglia, perchè il La
Greca è incappato in un equivoco molto più grosso di quanto ho appena
mostrato, ritenendo egli, a torto, che la conformazione del bacino di Battaglia
visualizzata dal Pennetta si riferisca all'età romana sic et sempliciter. La
forma a T del lago non proviene dall'ispezione idrogeologica del terreno,
bensì dalla carta del Pazzini Carli del 1789. Questo si capisce già dalla
sequenza sedimentologica completa degli ultimi 7000 anni riportata dal
Pennetta

Figura 14 - L'antico Lago Battaglia, oggi estinto, presso Vieste. I puntini colorati indicano l'ubicazione dei sondaggi a caro.
taggio continuo che hanno consentito di effettuare le ricerche biostratigrafiche e palinologiche

Ma a fugare ogni dubbio in merito basta leggere la didascalia


dell'immagine che appare nell'articolo di M. Caldara, |. Caroli, A. Gravina e O.
Simone Ricostruzione dell'ambiente fisico nei pressi della Defensola (Vieste)
(in "Atti del 25 convegno nazionale sulla Preistoria - Protostoria - Storia della
Daunia, San Severo 3 - 4 - 5 dicembre 2004", San Severo 2005, pp. 57- 79), che

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faccio precedere da un brano del loro studio: "L'area di indagine è la zona


costiera compresa tra Vieste e Peschici dove era presente un bacino lacustre
denominato Lago Battaglia (fig. 1). L'esistenza di questo bacino è ben
testimoniata dalla cartografia storica almeno dal XVI secolo (BOENZI et alii,
c.d.s.). Esso è mostrato nella mappa compilata da CARTARO, STIGLIOLA tra il
1590 e il 1597. Il lago, ancora presente nella cartografia di MARZOLLA (1836),
non viene riportato sulla prima edizione del Foglio 157 IV “Vieste” dell'IGMI.
Nel già citato studio di BOENZI et alii, c.d.s. la scomparsa del Lago Battaglia,
avvenuta durante la fine del XVIII secolo, viene attribuita ad un incremento del
trasporto torbido dei corsi d'acqua a cui probabilmente non furono estranei i
disboscamenti avvenuti sul versante settentrionale del Gargano tra il XIX
(MANICONE, 1806-07) ed il XX secolo. L'ex Lago Battaglia è situato allo
sbocco di tre bacini idrografici allungati lungo la direzione N-S (Torrente
Macchia, Valle La Teglia e Canalone Macinino) che interessano un'ampia area
a partire dai piedi del Monte Jacotenente. Il fitto reticolo idrografico incide
prevalentemente le tenere rocce delle formazioni dei Calcari tipo Maiolica e
Calcari tipo Scaglia. Solo in prossimità della costa, nei pressi di Monte San
Paolo, il bacino è impostato nei calcari eocenici della Formazione di Peschici"
(art. cit, p. 58)
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Fig. 1 - Ubicazione dell'area studiata. Legenda: 1 = estensione del Lago Battaglia nel XVII
secolo; 2 = corsi d'acqua; 3 = principali strade; 4 = carotaggi.

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Ironia della sorte: il disegno di Pazzini Carli deriva dalla Carta geografica
della Sicilia Prima o sia Regno di Napoli. Disegnata da Gio. Ant. Rizzi Zannoni
Padovano Accademico di Gottinga e d'Altorf; e fatta incidere per ordine del Re
delle due Sicilie (1769). E la carta del Rizzi Zannoni è stata elaborata sulla
base delle mappe aragonesi. Come dire: la sagoma dell'ex lago Battaglia,
ritenuta dal La Greca una conferma delle origini romane delle carte aragonesi
in quanto suffragata dalla (fraintesa) datazione geologica, è stata ricavata dai
geologi indirettamente dalle stesse carte aragonesi (per il tramite di Pazzini
Carli). Un bell'esempio di petitio principi sfoggiato a sua insaputa da La
Greca!

Carta della Sicilia Prima di G. A. Rizzi Zannoni (1769). Particolare.

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A proposito di un trait d'union di sedi antropiche e fenomeni naturali nella


Piana del Sele il La Greca scrive: "La presenza, sulla carta, del centro di S.to
Vito è importante anche per un altro motivo: secondo le fonti il suo martirio, e
il santuario, sono posti in Lucania, quindi alla sinistra del fiume Sele. E sulla
carta la chiesetta è disegnata alla sinistra del Sele, non lontano dalla foce.
Oggi però la chiesetta si trova alla destra del Sele, in contrada S. Cecilia.
Secondo l"Antonini, al tempo del re Carlo Il d'Angiò (1285-1309) una grande
inondazione fece cambiare il corso del fiume, posizionandolo più a sud, e il
fenomeno spostò la chiesetta di San Vito dalla sinistra alla destra del Sele; il
re poi inviò suoi funzionari per dirimere le vertenze sorte sui terreni" (//
mistero delle mappe aragonesi cit., p. 28). Sentiamo cosa dice l'Antonini (La
Lucania, discorsi di Giuseppe Antonini barone di S. Biase, Napoli 1795, vol. 2,
pp. 189-190): "Qual fosse poi stata questa Villa Mariana, non mi è riuscito
affatto potere indagare ma voglio credere, che fosse verso dove oggi trovasi
la Chiesa al nostro Santo dedicata, sul destro lato ed in pochissima distanza
del Silaro; situazione che ha dato motivo a taluni di dire, che trovandosi la
Chiesa posta a destra del fiume, ed in conseguenza fuor della Lucania, poteva
il martirio essere seguito nelli Picentini: Ma chi ha voluto dir questo, non sa,
che a tempo di Carlo Il d'Angiò il Silaro mutò per una grandissima
inondazione il suo corso che prima era molto più ad Occidente, e prese quello
che oggi tiene, vedendoli anche di presente qualche vestigio del suo antico
alveo; talchè la Chiesa restava a sinistra del fiume. Devo questa notizia a
Monsignor Galisio, Vescovo di Lettere, già Abate Benedettino, il quale
mostrommi alcune commissioni (siccome allora chiamavansi) del Re Carlo,
conservate nell'Archivio della Trinità della Cava, dirette a Philippo Barcellono
Consiliario fideli diletctissimo, acciò andasse a decidere sulla faccia del luogo
le tante controversie ch'erano insorte per la mutazione, che il fiume Silaro
aveva fatto del suo antico corso". Quanta credibilità si può attribuire al testo
di Antonini? Direi nessuna, stante il rinvenimento nella zona adiacente
all'attuale chiesetta di un complesso databile al V-IV sec. a.C. Riporto la
notizia dal sito online Weboli: "L'area archeologica di San Vito al Sele, situata
a poca distanza dalla riva destra del fiume Sele, in località Santa Cecilia di
Eboli, rappresenta un sito di notevole interesse dal punto di vista storico-
archeologico, sul quale la presenza umana è documentata per un
lunghissimo arco temporale a partire dal V-IV sec.a.C. al XVI sec. d.C. Il
toponimo indica non solo la chiesa dedicata al Santo ma anche la zona ad
essa circostante; certamente un ruolo fondamentale riveste la sua posizione
strategica situata nei pressi del fiume menzionato. Lo scavo dell’area è stato
condotto negli anni 1987 e 1992 dall'Università degli Studi di Salerno, in
collaborazione con la Soprintendenza Archeologica e si concentra
essenzialmente nella zona antistante la chiesa e nei pressi dell'ingresso. Altre
indagini seguirono nel 2004, sempre per conto della Soprintendenza

Silvano Salvador
14

Archeologica, incentrandosi in prevalenza su due aree poco distanti


dall'attuale chiesa. Le campagne di scavo hanno riportato alla luce i resti di
un complesso, all'interno del quale si sono succedute diverse fasi di vita.
L'impianto iniziale risale con molta probabilità al IV-III sec. a.C. I livelli relativi
a questa fase, però, sono praticamente inesistenti, in seguito allo
sconvolgimento determinato dalla falda acquifera. Il vasto impianto rinvenuto
era articolato in più settori e la presenza di alcuni elementi, quali ad esempio,
una pavimentazione a mosaico policromo con decorazione a motivi
geometrici, ritenuto peculiare degli edifici religiosi, lascia intendere che siamo
in presenza di un insediamento sviluppatosi intorno ad un luogo di culto. Le
strutture venute alla luce risalgono, nella loro prima fase, ad un periodo
compreso fra la fine del V e gli inizi del VI sec. d.C. Le indagini eseguite nel
2004 hanno recuperato parte di una necropoli ascrivibile a questo arco
cronologico. Tra i rinvenimenti più significativi vanno segnalati i corredi di due
sepolture in particolare, nella prima sono state recuperate due collane, di una
si conserva parte della catenella in bronzo alla quale erano sospese due
monete dello stesso metallo di età romana imperiale. Alla seconda sepoltura,
vanno ricollegati una serie di vaghi di collana in pasta vitrea di varia forma e
dimensione. Sicuramente questo insediamento si inquadra all'interno di una
rete di piccoli villaggi che nel corso dell'Alto Medioevo occupavano la Piana
del Sele nei quali la presenza di piccole chiese, come appunto nel caso
specifico, rappresenta un importante elemento di aggregazione non solo
religiosa ma anche sociale. [...] L'identità del culto originario con la figura di
San Vito resta allo stato attuale una mera ipotesi, basata sulla forte tradizione
che lega indissolubilmente la figura del Santo al Sele e sulla testimonianza
dell’esistenza di una curtis S. Viti de Siler già nel 1067. Secondo la tradizione,
infatti, le spoglie del Santo (e quelle dei santi martiri Modesto e Crescenza)
vennero traslate "in loco qui dicitur Marianus": nel luogo della sepoltura sorse
la chiesa di San Vito al Sele".

Silvano Salvador
15

Altro brano del La Greca: "Straordinario è poi il porto di S.to Cata/do, sulla
costa di fronte a Lecce (T7). In realtà i porti qui sono due. Il primo, sul mare, e
un'insenatura con la scritta Porto, protetta ai lati da torri e fortificazioni.
Dovrebbe essere questo il porto romano costruito o restaurato
dall'imperatore Adriano, di cui restano a San Cataldo il molo e tracce
significative. II secondo porto è sul prolungamento dell'insenatura, e si
presenta come un canale rettilineo scavato nell'entroterra fino a raggiungere
una specie di Laguna interna perfettamente circolare che funge da porto. Un
porto interamente artificiale, dunque. Poco piu sopra c'e S.to Nicola dela
Padula. La scritta accanto al porto recita: "Antico porto di Lycco (Lecce) deto
La Rotunda nunc palus": si tratta quindi di un misterioso antico porto di Lecce,
chiamato La Rotonda, ma ora, al tempo del cartografo, diventato una palude.
Si sa da Pausania che il porto (ormos) di Lecce era artificiale (cheiropòdietos),
e fu fatto costruire dall'imperatore Adriano. Ma un porto doveva esistere
anche prima, visto the vi sbarcò nel 44 a.C. Ottaviano diretto a Lecce, come ci
dicono Nicola Damasceno e Appiano di Alessandria. Il porto di San Cataldo fu
poi restaurato da Maria D'Enghien contessa di Lecce dal 1420 al 1446 [...]
L'umanista Antonio De Ferrariis, detto il Galateo [...] aggiunge che presso
questa citta vi era una vasta zona paludosa, che in tempi remoti era provvista
di canali verso il mare; inoltre, al centro dell' antico nucleo urbano, l'umanista
vede un'ampia fossa (/ocus cavus) profonda dieci passi a diretto contatto con
il mare, si chè era possibile arrivarci con piccole barche. Sembrerebbe proprio
la descrizione dell'antico porto di Lecce disegnato sulla nostra carta, e non è
importante la diversità di posizione: si è visto che le localizzazioni sulle carte
aragonesi a volte sono approssimative [...] Continuando, il Galateo ci parla di
San Cataldo, anche questo fondazione di Gualtiero di Brienne, che ne fece
uno scab marittimo ancora piu vicino a Lecce. Successivamente Maria
d'Enghien "fece costruire un ampio molo realizzato con lunghe pietre e con
arte mirabile. Ora è ridotto poco meno che a un argine, composto da un
ammasso di pietre...". Ricapitolando, a San Cataldo c'era il porto di Adriano,
con gli interventi di Gualtiero di Brienne e Maria d'Enghien, i cui resti sono
ancora oggi visibili. Poco più a sud, un antico scalo marittimo ridotto a palude,
interno al territorio, con canali verso il mare. Era questa "La Rotonda"? Nel
giugno 2021 i giomali locali hanno dato la notizia della scoperta poco piu a
sud di San Cataldo, nell'oasi naturale "Le Cesine di Vernole", in località "Porto
San Giovanni", a seguito di indagini condotte per l'Università del Salento
dall'archeologa Rosa Auriemma, di un porto piu antico di quello
dell'Imperatore Adriano. Si tratterebbe di un imponente molo di età romana
fatto con grandi blocchi parallelepipedi di pietra locale, largo circa 8 metri,
che si estende in lunghezza per un centinaio di metri andando ad est verso il
mare; ad ovest invece sembra collegato ad una antica strada proveniente da
Lecce. L'area di questo complesso portuale, definito "gigantesco", oggi è

Silvano Salvador
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coperta di sabbia. Si nasconde qui l'antico Porto di Lecce? Il prosieguo delle


ricerche e degli scavi ci darà la risposta. Ma, ancora una volta. gli elementi
raffigurati sulle carte aragonesi trovano conferme sul territorio" (// mistero
delle mappe aragonesi cit., pp. 65-68).
Ma la struttura a forma di L indagata dalla dott.ssa Auriemma si
protende a sud sotto il mare per almeno 150 metri, mentre nella carta
aragonese la canalizzazione parte a nord nell'entroterra da un bacino ovale e
sbocca al Porto presso la Torre di San Cataldo raffigurata come una fortezza.
Mi sembra eccessivo parlare di conferma sul terreno di un disegno che
ricalca quanto affermato dal Galateo nel De situ Yapygiae (Basilea 1553, X, 12
-13): "Inde exeuntibus ad X milia passuum occurrit castellum quod a divo
Cataldo, antiquissimo Tarentinorum archiepiscopo, nomen accepit, eo quod
ille ex oriente proficiscens, haec primum loca attigit, ubi et pusillum templum
illi dicatum extat. Hoc quoque castellum Gualterius condidit pro emporio
Lupiensium urbi propinquiori, ubi Maria eiusdem haeres ingentem molem
longis iunctam lapidibus miro opere construxit. Nunc incuria principum et
Lupiensium rebus, post mortem loannis Antonii principis et ob continua bella,
defectis atque afflictis, pene exaggerata est". Vale a dire un condotto
artificiale costruito o restaurato nel '400 e poi lasciato all'incuria delle
generazioni umane.
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Silvano Salvador
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Ancora sulla pergamena di Acerra-Nola, custodita all'Archivio di Stato di


Napoli: "La carta [...] presenta il territorio tra Maddaloni e Nola. Anche qui
siamo di fronte con tutta probabilità ad una copia settecentesca. Un
elemento datante per la carta originale potrebbe essere qui l'anfiteatro di
Nola, raffigurato accanto alle mura della città, all'estemo della cinta moderna,
con due ordini di archi, e con la scritta antic() anphit. Ambrogio Leone, nella
sua opera De Nola del 1514, racconta di aver visto nella sua fanciullezza (era
nato nel 1459, dunque negli anni '60 del Quattrocento) l'anfiteatro laterizio di
Noia a due ordini di arcate, ma poi si era ridotto all'inizio del Cinquecento alla
prima arcata. Nella pergamena l'anfiteatro presenta due ordini di arcate, ed
appare ancora integro; diversamente, l'autore della carta avrebbe indicato lo
stato di "ruine', come in altri contesti. Non sembra possibile riconoscere
specifici elementi della pianta della citta confrontando il disegno aragonese
con quello nell'opera del Leone. Però è stato osservato che nella pianta su
pergamena manca l'avancorpo bastionato a semicerchio dell'arx presso
Porta Vicanzio ("la civita"), raffigurato invece nella pianta del Leone, per cui il
disegno della città su pergamena rispecchia un'epoca precedente" (// mistero
delle mappe aragonesi cit., pp. 188-189). Invero la cinta muraria più interna
con baluardo (arx) è presente anche nella carta aragonese. L'anfiteatro
nolano perfettamente integro ricorda quello a due ordini illustrato da
Ambrogio Leone a p. XIr del De Nola Opusculum. Comunque nelle mappe
aragonesi l'anfiteatro è un'icona stilizzata che viene riproposta con più
corrività (la figura a due ordini è solo abbozzata) nel disegno di Siponto; con il
Leone non ci sono punti di contatto bensì un asintoto grafico.

Silvano Salvador
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Sui rapporti tra il disegno dell'anfiteatro di Nola del Leone e quello delle
carte aragonesi, M. Cesarano scrive: "Il testo del Leone viene corredato di una
serie di carte disegnate dal Moceto, ma [...] molto probabilmente tratte da
rilievi tecnici eseguiti sul posto da esperti impiegati nell’ingegneria civile o in
quella militare [...] Uno dei disegni ricostruisce ipoteticamente la pianta della
città di età romana, con gli ediici dei quali all'epoca della stesura dell'opera si
conservano visibili gli avanzi. Gli scavi moderni rivelano che l’anfiteatro
s'addossava alle mura, mentre nel disegno del De Nola, all'interno di una cinta
muraria di pianta circolare, scandita da dodici porte, l’'ediicio appare
leggermente distante dalle difese urbiche, ma, pur sempre, nei pressi della
porta dalla quale si diparte la via per Napoli segnalata da Leone [...] Quello
che a noi in questa sede interessa è il frammento di pergamena noto come
Selva di Magdalone, dove è il disegno di Nola. La città è rappresentata cinta
da mura, con la Porta Vicanzio difesa dalla cittadella-fortezza con cinque torri,
priva però dell'avancorpo bastionato a semicerchio, che compare nella pianta
della città del Leone, pubblicata nel 1514. Sarebbe questa un'ulteriore prova
della seriorità di queste pergamene rispetto alla riorganizzazione delle
fortificazioni cittadine che dovette aversi agli inizi del ‘500. All'esterno della
cinta muraria, a oriente, è il disegno di un edificio distinto dalla didascalia
«antico anphit». Il disegno riproduce l’aniteatro come intatto, con due ordini
sovrapposti, così come lo si ritrova descritto e disegnato nel De Nola del
Leone, ricorrendo ad un'icona graica convenzionalmente usata per riprodurre
gli edifici anfiteatrali, al di là del loro reale stato di conservazione. Del resto è
ovvio che al tempo della realizzazione della «Selva di Magdalone» i resti
dell’ediicio dovevano conservarsi almeno come all’epoca in cui scrive il Leone,
se non meglio. A diferenza della pianta del De Nola, dove i monumenti sono
visti frontalmente e in tal guisa collocati all'interno della cinta muraria
circolare resa senza alcuna pretesa di profondità, la carta aragonese
presenta l'anfiteatro nolano e l’intera città alla sua destra in una veduta a volo
d'uccello. Le pergamene alle quali appartiene la «Selva di Magdalone»
sembrano attingere, per il tipo di approccio all'osservazione del territorio, a
carte nautiche, difuse dai mercanti-navigatori sulle coste del Tirreno: ne
sarebbero prova la dovizia di particolari con cui sono rese le coste, i porti e i
percorsi fluviali, senza alcun riferimento ai percorsi stradali terrestri, e la
deinizione dell’orientamento ottenuto con l'ausilio della bussola, uno
strumento nautico usato nelle carte navali medievali, introdotto già da Leon
Battista Alberti nel rilievo topografico di Roma. L'anonimo disegnatore delle
pergamene tradisce la sua formazione culturale schiettamente umanistica
«formata sui testi della tradizione geografica classica e della letteratura latina,
come dimostrano le dotte citazioni riportate nelle definizioni dei luoghi,
l'individuazione di edifici e siti di fondazione romana e l'adozione di toponimi
antichi, non più in uso nella produzione cartografica del Cinquecento» [...] la

Silvano Salvador
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«Selva di Magdalone » sottrae al De Nola del Leone il primato conservato ino


ad oggi nell'aver fornito una rappresentazione dell’aniteatro di Nola, con la
speranza che il suo stesso primato sia di breve durata. È molto probabile che
il Leone abbia attinto alle carte aragonesi, così come è plausibilmente
pensabile che le carte aragonesi siano state realizzate grazie alla conoscenza
di un’eredità cartografica di età romana, della quale la Tabula Peutingeriana
non doveva essere l'unico superstite nel xv secolo" (// disegno dell'aniteatro di
Nola in alcune pergamene aragonesi di Napoli, in "Symbolae Antiqvariae", 4,
201, pp. 54-77). A prescindere dal grossolano errore lessicale del Cesarano
che usa il vocabolo "seriore" nel significato di ‘anteriore’, non trovo sostanziali
diversità nell'immagine di Nola tra il Leone e le carte aragonesi nelle quali
pure le mura cittadine piegano a semicerchio. Sull'anfiteatro del Moceto
copiato dalle carte aragonesi mi permetto di dissentire dallo studioso. Basta
leggere qualche frase del Leone per capire che egli verificò attentamente sul
posto le probabili fattezze originali dell'anfiteatro a due ordini e sembra
proprio farina del suo sacco il discorso che ruota intorno alla presenza non di
un unico anfiteatro, addirittura di due (il laterizio e il marmoreo, quest'ultimo
ormai acclarato trattarsi invece di un teatro). Due sono gli anfiteatri che in
collaborazione con il Moceto ritrae lungo il diametro che attraversa la città
idealmente ricostruita. (dove entrambi commettono lo sbaglio di inserire gli
anfiteatri all'interno delle mura urbiche, alle quali il vero anfiteatro doveva
essere molto vicino, rimanendo tuttavia all'esterno come da prassi costruttiva
antica): "[...] duo memorata aphitheatra iter se distare circiter trecétis
sexagita passibus.passum eé:audiedu e:spaciu.viii. pedu.Quinet singulo
aphitheatro diametru passuu ee qnqgenu.pterq ea spectare licet:extra utraue;
aphitheatra p eade redtitudinea q illa sita distat:alia uestigia ac fundameta
magnoru aedificioru.ut extra latericiù uersus occasum aestiuù circiter centù
passus: extra uero marmorei uersus ortù hybernù tantude.
amphitheatra.n.extra urbe: aut intra sed iuxta muris: auc muris uicina no
poterat erigi.tpe.n.belli plurimu potuissent officere: ac ipedimeto ee. [...] Certa
& clara melius sunt amphitheatra tumuli.amphitheatrorù igit duo:q dicta sunt
laguidanù adhuc seruat ambitumi atque pariete exteriore et supra fornices &
arcus infimos:superiora uero corruerut.uidet qye habuisse duos ordines
fornicu.Namque paries exterior non usque adeo solidus ualidusque &:ut et
teaveu supreiuque ordine testudinù sustinere ualuisset. Quare latericiù
amphitheatrum; et si cum marmoreo area pari & aequo ambitu cosentiat:eo
tae minus:& humilius fuit uno ordine, marmoreum uero;quod nobis pueris
magis corruptum atque dirutum erat q latericium [...] (De Nola Opusculum,
Vene zia 1514, pp. XIvw-12,).
È pensabile che le carte aragonesi siano prodotti dell'eredità romana, ma
questa asserzione è anche dimostrabile? Nessuno mette in dubbio l'abilità
agrimensoria degli antichi romani, però fare il passo ulteriore per renderli

Silvano Salvador
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artefici scaltriti e superlativi della cartografia a scala regionale non lo ritengo


affatto proponibile . Almeno sulla scorta dei testi e delle evidenze figurative
che ci sono pervenute.
"Torniamo all'anfiteatro di Siponto. Di esso si persero completamente le
tracce; le prime descrizioni risalgono al 1783, ma fu riscoperto e
documentato solo nel 1937, e finora non si è mai avuto uno scavo
sistematico. L'anfiteatro, probabilmente di età augustea, oggi è in condizioni
miserevoli, in gran parte ancora sottoterra, e con le parti visibili del perimetro
esterno, in opera reticolata, inglobate in una masseria modema. Gli
archeologi ritengono che fosse posto lungo il cardo maximus, a poca
distanza dalla cinta muraria, di cui restano tracce, presso una delle porte della
città. Ed effettivamente sulla nostra carta l'anfiteatro è disegnato accanto alla
città di Siponto, e lungo la strada per il mare e per Manfredonia. Dunque, è un
elemento molto significativo, in quanto non se ne era a conoscenza. Nessun
"impostore" francese, per dirla con il Galiani, poteva conoscere questi dettagli,
e il disegno originale poteva essere realizzato solo da qualcuno che aveva
visto i luoghi (ma sicuramente in un'epoca molto antica)" (// mistero delle
mappe aragonesi cit., p. 211). Le parole di La Greca sono troppo categoriche
e non lasciano trapelare dubbi che potrebbero scalfire la sua granitica
certezza che solamente in un remoto passato un cartografo poteva disegnare
un anfiteatro scomparso da secoli. Ma sono gli stessi archeologi che hanno
partecipato alla seconda fase di scavi a dichiarare che l'anfiteatro era noto da
tempo. Nel Settecento erano ancora visibili portici e pilastri. La Masseria
Garzia fu edificata usando proprio le pietre e seguendo la curvatura originaria
del manufatto.
Facciamo una specie di Gedankenexperiment. Secondo La Greca il
disegno di Siponto rispecchia uno statu quo anteriore forse di secoli al
momento della sua redazione. Romano? Tolto l'anfiteatro, mancano gli
edifici riconducibili alla classicità. Altomedievale? | sondaggi archeologici
effettuati hanno stabilito che sull'area dell'anfiteatro e intorno ad esso dopo il
VI secolo sorsero piccole abitazioni, magazzini, fosse granarie, una cappella
ed un cimitero; ma nel disegno le casette sono disposte ordinatamente oltre
la strada di Manfredonia che le separa dall'anfiteatro. Medievale, ante XV
secolo? Sempre gli archeologi hanno individuato una grande domus di
probabile epoca federiciana con numerosi ambienti e pozzi; anche di questa
non c'è traccia. Nella carta aragonese anche il campanile di Siponto è in tutto
e per tutto uguale a quello di Manfredonia. Lo stesso anfiteatro è isolato,
come dovevano apparire i suoi ruderi nel basso medioevo. È presumibile che
il compilatore della carta (o chi ne diresse l'esecuzione) imbevuto di cultura
accademica e umanistica, al corrente delle arene romane sopravvissute,
abbia 'ripristinato' l'aspetto originale dell'anfiteatro in modo per l'appunto
tipico e autonomo, senza necessariamente aver avuto davanti a sé la

Silvano Salvador
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struttura originale nel suo splendore e maestosità.

La masseria Garzia è stata fabbricata con i materiali e sul perimetro murario


dell'anfiteatro romano

Silvano Salvador
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Silvano Salvador
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Silvano Salvador
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23

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Non soltanto sulla derivazione delle carte aragonesi da originali di età


romana, pure per gli spunti e la "scopiazzatura" sic et sempliciter delle
medesime carte o dei loro precursori si possono sollevare legittime
perplessità in alcuni casi. Come per la cartografia di Leonardo da Vinci. "Vale
la pena notare che le nostre carte aragonesi hanno un singolare parallelo con
le carte geografiche di Leonardo conservate nella Windsor Royal Library, e
realizzate nei primi anni del Cinquecento (1502-1506), con raffigurazioni della
Toscana e del Lazio (Terracina) [...] Ma se fossero invece tratte da originali
piu antichi, come ab-biamo ipotizzato per le mappe aragonesi? L'ingegnere
Flavio Russo ritiene che gran parte dei disegni di Leonardo non siano farina
del suo sacco, ma siano tratti da testi vetusti forse di secoli, sopravvissuti al
medioevo, testi illustrati greci e latini, residuo della grande civilta classica,
testi che non solo Leonardo, ma tutti gli umanisti del tempo cercavano come
pane, per impadronirsi dei segreti e delle conoscenze letterarie e scientifiche
degli antichi. Appare possibile allora che anche i disegni delle carte
geografiche di Leonardo siano in realtà disegni molto più antichi, di un'altra
epoca e di un'altra civilta, forse anch'essi copie di copie, che lui ritrova e
ridisegna riproducendoli così come sono, facendo le variazioni che gli
interessano, aggiungendo dei toponimi, ma sempre "a tavolino", senza
controllare effettivamente e punto per punto la corrispondenza con il
territorio, e intervenendo solo dove necessario per lo scopo che si prefigge
secondo gli incarichi ricevuti" (// mistero delle mappe aragonesi cit., pp. 147-
150). A smentire l'acrobatica illazione del La Greca c'è il disegno leonardesco
(RLW 12277) preparatorio della carta generale della Toscana (RLW 12278),
nonché gli abbozzi della carta della Valdichiana e della Val di Chio.
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Silvano Salvador
Silvano Salvador
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25
26

Dal sito web Stilearte: "Il particolare riferimento è alle Carte RLW 12277
(Toscana) e RLW 12278 della Raccolta Reale di Windsor, disegnate da
Leonardo, fra il 1502 e il 1503, con l'intento di dimostrare la minuziosa
conoscenza del territorio che Leonardo cartografa e la densità informativa
che dai suoi disegni deriva. In particolare l’attenzione viene rivolta al territorio
altotiberino, consapevoli del fatto che Leonardo redige delle carte funzionali
allo studio della regimazione idraulica del Valdarno e alla bonifica della
grande palude che al tempo ricopriva la Val di Chiana, per cui la valle del
Tevere costituisce solo la cornice di questo ampio contesto.
Tuttavia va considerato che nell'estate del 1502 Leonardo si trattenne per
oltre un mese ad Arezzo e in Valdarno assieme a Vitellozzo Vitelli,
condottiero e figura di spicco della nobile famiglia tifernate, nonché
luogotenente del Valentino, che nel giugno del 1502 si era acquartierato con i
suoi 3.500 fanti nella città sottratta ai Fiorentini. Particolare sintonia ed una
forte empatia ci deve essere stata tra Leonardo ed il generale del Valentino.
Da Vitellozzo Leonardo ebbe pertanto modo di raccogliere molte informazioni
sull'assetto idrografico dell'Altotevere che, sebbene posto in secondo piano e
in posizione marginale nell’inquadratura d'insieme, viene rappresentato in
modo proporzionato e con notevole dovizia di dettagli. Il disegno è frutto di
un'indagine sistematica, condotta con la consueta meticolosità che
contraddistingue l'opera del grande artista rinascimentale. Nelle due
cartografie in cui Leonardo rappresenta la Toscana e la Val di Chiana, redatte
a scale diverse, si rileva una cura dei particolari superiore a quella che si
riesce ad apprezzare attraverso una sommaria lettura dei documenti.
Un'attenzione che emerge anche dalla precisa indicazione dei toponimi, dai
quali si possono trarre utili e interessanti indicazioni. E' evidente che la
curiosità e il metodo scientifico seguito dall'artista in tutte le sue attività lo
hanno spinto ad approfondire la conoscenza e ad analizzare con cura tutto
ciò che poi riusciva a rappresentare con una straordinaria maestria. Leonardo,
inoltre, riguardo a problemi di ordine cartografico trovò negli scritti di Leon
Battista Alberti un valido ausilio che gli suggerì un corretto approccio
metodologico di cui fece sicuramente tesoro. Carlo Starnazzi (Leonardo
Cartografo, 2003) ci ricorda che Alberti, nel De Re Aedificatoria, ben
conosciuto da Leonardo, assegnava una priorità assoluta allo studio della
configurazione geomorfologica del territorio, raccomandando sopralluoghi da
effettuare in loco. Suggeriva, inoltre, di visitare scrupolosamente il sito prima
di procedere alla sua raffigurazione in pittura o in cartografia (Rilievo,
Altitudine, Componimento, Sito). Molti elementi del resto sottolineano il
valore scientifico dei due documenti e non ultima la buona rappresentazione
del sistema idrografico Altotiberino che testimonia una conoscenza puntuale
del territorio. L'analisi della viabilità storica non può prescindere dallo studio
delle caratteristiche ambientali e morfologiche del territorio e va condotta con

Silvano Salvador
27

un approccio metodologico supportato da cartografie antiche e moderne per


la ricerca di utili elementi di confronto. Sotto questo aspetto le carte di
Leonardo, in particolare quelle richiamate in premessa, forniscono spunti
interessanti a sostegno dello studio condotto, per cui, già alcuni anni fa si è
avuto modo di cogliere una traccia interessante nella mappa della Val di
Chiana, relativa alla direttrice di attraversamento dell’ Altotevere. Un'analisi
più attenta fa emergere una chiara corrispondenza con la depressione
naturale che definisce la direttrice della Valnestore, oggi non più leggibile a
seguito dell'avvenuta bonifica della Val di Chiana, ma che era ancora evidente
in cartografie del XVI sec.l...] Per un'analisi più approfondita
dell'impostazione prospettica del documento cartografico ci sono utili i
richiami all'assetto viario dell’Alta Valle del Tevere In particolare nella carta di
Leonardo si riconoscono due direttrici di attraversamento [...] Assi paralleli
che secondo le regole della prospettiva applicate con rigore da Leonardo,
vanno a convergere in uno stesso punto di fuga; fuoco e punto ideale
dell'orizzonte, percepito dall'occhio dall’osservatore come cardine della figura,
anche se collocato fuori inquadratura. Rispetto alle piatte cartografie in uso al
tempo, Leonardo adotta una rappresentazione dinamica, che trascina l'occhio
dell'osservatore dal soggetto principale verso i bordi dell'immagine e lo
proietta oltre, dando un senso di continuità con il fuori campo non
rappresentato. Alle due direttrici parallele individuate dal prolungamento della
strada di collegamento Anghiari-Sansepolcro (l'unica evidenziata nel tratto
altotiberino) e dalla direttrice della Valnestore, orientata secondo il ramo
trasversale della palude della Chiana, se ne aggiunge una terza che da
Passignano sul Trasimeno punta sulla Fratta (Umbertide) per convergere
sullo stesso fuoco, punto cardine della figura che si va a collocare idealmente
sul Monte Nerone. Anche l'orientamento delle dorsali che sottolinea l'assetto
orografico della Valtiberina occidentale, coincide sostanzialmente con la
reale conformazione del territorio in esame, per cui la rappresentazione fa
emergere le qualità dell'artista, capace di distinguersi pure come cartografo e
geografo, in grado di cogliere da terra elementi che in realtà si possono
apprezzare solo attraverso una visione aerea o satellitare del tipo che oggi ci
sono comuni. La mappa della Val di Chiana è particolarmente ricca di
toponimi; caratteristica che si conferma anche nella parte superiore riservata
alla Valtiberina, dove oltre ai centri principali si riconoscono molti borghi
minori. | toponimi e il sistema idrografico guidano la lettura della mappa e
permettono di riconoscere alcuni siti anche laddove non sono chiaramente
esplicitati. Fra questi appare anomala l'assenza di Città di Castello fra i
toponimi segnalati, comunque messo in evidenza e perfettamente
riconoscibile in relazione alla posizione e al confronto con le altre località.
Non sappiamo se questo sia frutto di una distrazione o di una scelta
consapevole, magari dovuta al fatto di aver già evidenziato il capoluogo alto

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tiberino nella precedente carta generale della Toscana. Di notevole rilievo è la


ricostruzione dell'assetto idrografico dell'Alto Tevere con il fiume e i suoi
affluenti principali; ma ad attirare l’attenzione sono alcuni dettagli, come il
Canale dei Mulini che scorre fra Tevere, Sovara e Cerfone e che già a quel
tempo doveva assumere una certa importanza. Inoltre è già stato fatto notare
l'accenno alla strada che collega Anghiari a Sansepolcro conosciuta come “Il
drittone di Anghiari”, con i due ponti che superano l'ostacolo costituito dal
canale dei mulini e dal Tevere stesso. Si tratta di un ramo della Strada di
Pietramala, la cui costruzione è attribuita a Guido Tarlati, in realtà
sovrapposta al tracciato di un'antica via di transumanza che da Arezzo,
Pietramala ed Anghiari, attraverso l'Altotevere e il Passo delle Vacche, si apre
nella Valle del Metauro verso l'Adriatico. Il dato non è di poco conto,
considerato che i rapidi, ma decisi tratti di penna, riescono ad offrire una
precisa immagine della realtà e sottintendono una presa visione dei luoghi.
Immagini registrate nella mente di Leonardo che gli torneranno utili di lì a
breve, quando nel 1503 verrà chiamato a decorare le pareti del Salone dei
Cinquecento in Palazzo Vecchio, con la rappresentazione della famosa
Battaglia, svoltasi il 29 giugno 1440, per celebrare la vittoria dell'esercito
Fiorentino sui Milanesi". Altro che lavoro cartografico realizzato a tavolino,
buttando giù alla bell'e meglio una lista di toponimi su mappe di epoca
romana precaricate!
Mi soffermo un attimo sulle considerazioni del La Greca in merito ad un
dettaglio della carta aragonese di Cassino. "Un elemento importante della
carta, qui perfettamente leggibile, è il sito di Caste/ Novo, oggi Castelnuovo
Parano, con il disegno del castello e la scritta "Caste/ Novo della Abatia diruto
dal Terremoto". Il centro costituiva un avamposto confinario delle terre di
Montecassino, con un castello, fondato dall'abate Desiderio, di cui oggi
restano i ruderi. Una scritta del genere potrebbe significare che il terremoto
era un fatto recente, di fresco ricordo, tanto da essere annotato sulla carta
(per Siponto, distrutta dal terremoto del 1223, non si annota nulla), e potrebbe
fornire un elemento per la datazione degli originali o delle copie. Il 9 sett.
1349 un forte terremoto colpi l'Appennino centrale; furono distrutte in gran
parte Sulmona, L'Aquila, San Germano; gravi danni si ebbero a Sora e ad
Isernia: a Montecassino fu distrutta anche la basilica di Desiderio, crollata
dalle fondamenta. Ma, se il terremoto a cui si riferisce la carta fosse quello
del 1349, avremmo anche indicazioni simili per altri luoghi, mentre ciò non
risulta dalla carta, che illustra pure la basilica di Montecassino come integra.
Castelnuovo in questo terremoto fu sicuramente molto danneggiato, ma
sopravvisse. Dobbiamo forse pensare ad un terremoto precedente, oppure al
successivo terremoto del 4-5 dicembre 1456, esteso a tutto l'Appennino
centrale, del IX grado della scala Mercalli, che causò 70.000 morti in 90 centri
colpiti. Terremoti ulteriori non ce ne furono fino al tardo Seicento. Nel Liber

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Focorum, il centro di Castrum Novum de Abbatia è tassato per 26 fuochi nella


numerazione aragonese, dell'epoca di re Alfonso, del 1447. Se la carta fu
realizzata dopo il 1456, la nota della distruzione potè essere immediata.
Castelnovo, anche se distrutto, dovette essere ricostruito, e lo ritroviamo
tassato per 126 fuochi nel 1601. In mancanza di altre indicazioni, potrernmo
datare la carta da cui fu copiata la nostra pergamena dell'ASN a una data
successiva, ma non di molto, al 1456" (// mistero delle mappe aragonesi cit.,
pp. 198-199). Proporrei una seconda data possibile per il terremoto che colpì
il borgo di Castelnuovo, più aderente alla cronologia di redazione delle mappe
aragonesi. Un'annotazione del notaio Angelo Tummolillo di Sant'Elia
Fiumerapido (1397-1480/85), nell'opera Notabilia temporum, è forse la chiave
per venire a capo della curiosa scritta segnalata da La Greca: "M.CCCC.LXXIII
[...] CCXXI. DE REMISSO TERREMOTU. Die mercurii .VII. dicti mensis [iulii] in
aurora diey fuit terremotus remissus per totam hanc patriam_luna_.xlx.°"
(Notabilia temporum di Angelo De Tummiulillis da Sant'Elia, a cura di C.
Corvisieri, Roma 1890, p. 205). Non si hanno ulteriori notizie su questo
terremoto del 7 luglio 1473, il cui epicentro potrebbe collocarsi a qualche
distanza da Sant'Elia, interessata dal sisma con intensità moderata
("remissus"). Non si può escludere che a Castelnuovo le conseguenze
fossero state molto più disastrose. Il silenzio delle fonti e l'assenza di scritte
consimili in altre parti delle carte aragonesi farebbe supporre che l'evento
fosse circoscritto ad un'area ristretta, a differenza di quello del 1456. In realtà
il notaio Tummolillo resoconta anche un forte terremoto accaduto nel 1466,
però è specificato che esso si limitò al paese di San Germano e non alle zone
circostanti (".XIII. die dicti mensis madiil[...] ipsa nocte fuit factus mangnus
terremotus in ipsa solum terra Sancti Germani et non in aliis locis circum'",
Notabilia temporum cit., p. 148).

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Un ultimo estratto dalle pagine di La Greca: "Negli stessi anni, anche


un'altra carta sembra ispirarsi alla tradizione aragonese: si tratta della carta di
Nola e dintorni che compare bel volume di Ambrogio Leone su Nola,
stampato a Venezia nel 1514. La carta rappresenta in prospettiva, con vista
dal mare, il territorio fra la Penisola Sorrentina e Napoli, mettendo insieme
nuovo ed antico, geografia ed erudizione. Infatti la carta sorprendentemente
riporta i toponimi di Ercolano, Stabia, Pompei, e poi ancora Campo Romano,
Palepoli, Suessula, e altri ancora. Di questa carta, che è la prima a stampa
della regione napoletana, attribuita allo stesso Leone, medico ed umanista,
con la collaborazione di Girolamo Moceto (o Mocetto), da Murano (maestro
nella tecnica della vetrata, ma anche pittore, incisore e cartografo), si è detto
che è primitiva, e fantasiosa, che i particolari sono tracciati con mano
infantile, che non ha basi scientifiche, che è stata realizzata a tavolino. Eppure,
essa ha interessato anche archeologi come Amedeo Maiuri, per la corretta
localizzazione, fra l'altro, delle antiche citta di Pompei ed Ercolano. Alla luce
del nostro studio, possiamo ipotizzare che gli autori della carta del territorio
di Nola non siano partiti dal nulla, ma si siano ispirati alla tradizione
cartografica aragonese, realizzando sia pure con imperizia (certamente a
tavolino!), una copia funzionale ai loro scopi illustrativi [...] Gli indizi di tale
lavoro di copia possono essere visti nell'orientamento (è lo stesso della
nostra carta aragonese con la Penisola Sorrentina), nell'attenzione erudita ai
toponimi risalenti all'antichità romana, nel disegno dei fiumi e delle montagne,
e specialmente del Vesuvio, che è simile a quello rappresentato nella "Carta
della Sicilia Prima", realizzata da Galiani e Rizzi Zannoni nel 1769 ricopiando
la base fisica delle carte aragonesi [...] Jean-Denis Barbie du Bocage (1760-
1825) [...] egli stesso geografo e cartografo, si specializzò nella cartografia
dell'antica Grecia e in genere del mondo classico. Ma fra i suoi lavori
geografici conservati nella BNF ci sono diversi appunti, schizzi e carte
manoscritte che ci fanno pensare a copie da lui realizzate a partire dalle carte
aragonesi o a partire dalla Sicilia Prima di Rizzi Zannoni. In particolare, la sua
carta manoscritta del Golfo di Napoli (1799) è molto interessante, e presenta
l'orientamento e le caratteristiche di quella di Ambrogio Leone per il territorio
di Nola, già vista più sopra. | centri sono raffigurati come gruppetti di case in
rosso; ai lati, la carta sembra riallacciarsi in sovrapposizione a sinistra alla
carta aragonese di Ischia (T14), che presenta anche alcuni elementi della
terraferma, e a destra alla carta della penisola Sorrentina (T1). Ci sono le
rovine di Cuma e il molo di Pozzuoli; la Solfatara è raffigurata come un
vulcano in eruzione; Napoli è raffigurata come era una volta, ai minimi termini
e racchiusa entro le mura: compare il toponimo Pompei. Tuttavia questa
carta appare semplificata rispetto alle aragonesi, e sicuramente l'intervento di
modernizzazione del cartografo è stato rilevante" (// mistero delle mappe
aragonesi cit., pp. 156-157 e 166).

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Meglio chiarire che l'angolo di ripresa di Leone e Mocetto è


rigorosamente frontale oltreché schiacciata sul piano bidimensionale, mentre
le aragonesi e la Sicilia Prima di Rizzi Zannoni adottano una visione laterale
del Golfo di Napoli con asse SO-NE in alzato. Neanche la presunta fedeltà al
vero di Ambrogio Leone è da prendere come oro colato, la sua dislocazione di
Stabia e Pompei è sbagliata, avendole scambiate di posto rispetto al corso
del fiume Sarno. Non meravigli più di tanto che ad inizio '500 si conoscesse
l'ubicazione di Pompei con maggior precisione rispetto al Leone.
Ufficialmente la 'scoperta' della città romana sepolta dalle ceneri vulcaniche
del Vesuvio avvenne nel 1748, ma già nel 1536 il topografo reale Pietro
Lettieri nei propri diari accennava alla città di Pompei, che era in quello alto
che stà in fronte la Torre della Nonciata, et in detto locho ne appareno multi
vestigj. Sul finire del '500 sarà l'architetto svizzero Domenico Fontana ad
imbattersi nelle rovine di Pompei durante gli scavi per la realizzazione del
Canal Sarno e immediatamente ordinò di ricoprire il sito destinato a
riaffiorare un secolo e mezzo più tardi. E a proposito di Vesuvio si stenta a
trovare somiglianze ed aria di famiglia tra il disegno del Leone e quello di
Rizzi Zannoni nella rappresentazione del vulcano, che nel Leone è suddiviso
nelle due cime (Somma e Vesuvio) mentre nella stampa della Sicilia Prima ha
la tipica conformazione conica con il cratere sommitale. Un aria di famiglia
che invece si nota facilmente, e qui ha ragione La Greca, tra la stampa di
Leone e l'acquerello di Jean-Denis Barbie du Bocage, compresa l'erronea
posizione di Pompei alla sinistra del Sarno.

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