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GENIO RURALE V ANNO

AGRARIA AGROALIMENTARE E AGROINDUSTRIA

- La Cartografia

- Rilevamento Topografico

- Fotogrammetria

- I Materiali da Costruzione

- Le Fondazioni

- Fabbricato Rurale

- La Ruralità

- Agricoltura ed Energia

- Gli Impianti per il Risparmio Energetico


LA CARTOGRAFIA

INTRODUZIONE

La cartografia può essere definita come arte e scienza della rappresentazione del
territorio. Citiamo queste due significative definizioni:

"La cartografia è la più scientifica delle arti e la più artistica delle scienze" (Paul
Theroux).

"L'uomo ha sviluppato tre grandi forme di comunicazione: il linguaggio, la musica e


la cartografia. Quest'ultima è di gran lunga la forma di comunicazione più antica"
("The Times", 14 ottobre 1992).

CHE COS'È LA CARTOGRAFIA?

Con il termine cartografia si intende tutto ciò che riguarda la realizzazione e lo studio
delle carte geografiche. Per creare una carta sono necessari alcuni requisiti: la
capacità di trovare e selezionare le informazioni provenienti da varie fonti della
geografia per poi sintetizzarle in un corpo informativo organico e compatto; la
capacità di illustrare correttamente il messaggio della carta, che deve risultare chiaro
a una gamma di utenti che differiscono profondamente nelle loro capacità di leggere
la carta stessa; l'abilità grafica nel trasmettere le informazioni attraverso il ricorso a
simboli, a linee e a colori, rendendo semplici i messaggi più complessi e assicurando
la piena leggibilità della carta geografica.
Le carte geografiche non sono soltanto creazioni artistiche che esaltano le capacità
dei loro creatori, ma sono soprattutto documenti di carattere storico e sociologico.
Nei paesi più avanzati nell'amministrazione dello stato, come la Francia e la Gran
Bretagna, il servizio per il rilevamento topografico ha iniziato a produrre delle carte
fin dai primi anni del XIX secolo. Esse oggi permettono di seguire gli sviluppi del
territorio attraverso i secoli fino ai nostri giorni: ci raccontano di attività industriali
chiuse da tempo e di tracciati ferroviari abbandonati da decenni, di insediamenti noti
come borghi e divenuti in seguito città popolose ecc.
La cartografia è stata spesso impiegata per rappresentare la realtà territoriale in
funzione di certi obiettivi, falsandola per ragioni politiche o di propaganda: così fece
il regime nazista per dimostrare la "minaccia" rappresentata per il popolo tedesco
dalla Polonia e dagli altri paesi dell'Europa orientale. Così fece l'Unione Sovietica
falsando la cartografia ufficiale per meglio tener celati i suoi segreti militari. Altro
esempio di uso distorto della cartografia: in passato il ricorso alle carte con la
proiezione di Mercatore permise di far apparire esageratamente grandi i possedimenti
britannici in Canada rispetto alle colonie francesi che si trovavano in prossimità
dell'equatore. Proprio per questa capacità di riflettere intendimenti storici e sociali la
cartografia è diventata oggetto di studi approfonditi, in quanto offre una valida
documentazione sulla vita di una società o di uno stato.
La realizzazione di una carta geografica non segue una formula rigida, assoluta. Essa
dipende dagli strumenti di cui si dispone, dagli scopi della carta e dalle conoscenze
generali del realizzatore. Esistono comunque alcune regole generali che possono
guidare chi si avvicina a questa professione.

I DIVERSI TIPI DI CARTE

La suddivisione più comune è quella tra carte topografiche e carte tematiche. Le


prime mostrano parti di superficie terrestre in cui sono inserite anche le opere
dell'uomo: generalmente sono indicate le principali vie di trasporto (strade, linee
ferroviarie, canali navigabili, sentieri, aeroporti), gli insediamenti umani (villaggi,
paesi e città) sullo sfondo dello spazio naturale, rappresentato con i fiumi, le coste, i
rilievi. Le carte tematiche sviluppano invece temi specifici come, ad esempio, la
geologia di una determinata area.
Una ulteriore distinzione viene fatta tra le carte a grande o a piccola scala. Le carte a
grande scala dell'Europa e di alcune altre parti del mondo arrivano a mostrare le
singole costruzioni sul terreno. Di solito le carte più dettagliate sono quelle delle
proprietà agrarie: in Svezia vengono aggiornate dall'inizio del XVIII secolo e
normalmente hanno una scala compresa tra 1:500 e 1:5000.
Le carte geografiche a piccola scala, come le carte murali che si usano nelle scuole,
ammettono delle generalizzazioni.
Strade e linee ferroviarie, ad esempio, possono essere deviate rispetto al loro percorso
reale per ridurre la confusione, a patto che tutti gli elementi rappresentati vengano
indicati nella loro corretta interrelazione. Nei casi estremi (carte di scala 1:1.000.000
o anche più piccole), il risultato è quello di un'illustrazione che offre un buon colpo
d'occhio d'insieme ma ben poche informazioni affidabili (ad esempio la distanza tra
due punti). Il tipo di proiezione scelta per produrre la carta può incidere in maniera
determinante sul risultato.
La maggior parte di ciò che è stato prodotto dalla cartografia tradizionale è il risultato
di un lavoro compiuto per conto di organismi che fanno parte del servizio pubblico.
Praticamente ogni paese ha un proprio servizio cartografico che dipende dallo Stato,
il quale provvede alla realizzazione delle carte di base del territorio nazionale: ciò a
fini amministrativi, statistici, militari ecc. In Italia l'IGM (Istituto geografico militare)
sin dagli anni successivi all'unità ha realizzato il rilevamento del territorio,
traducendolo in una serie di tavole alla scala 1:25.0000 (e alla scala 1:200.000).
Da queste derivano generalmente tutte le carte che usualmente vengono pubblicate
per i più vari scopi. Raramente infatti gli editori privati possono permettersi di
produrre carte di interesse nazionale, preferendo concentrarsi su quei settori che per
ragioni diverse, di carattere o turistico o imprenditoriale, sono in grado di assicurare
una ricca clientela ai loro prodotti.
STORIA DELLA CARTOGRAFIA

Le più antiche carte geografiche di cui abbiamo notizia furono realizzate dai
babilonesi intorno al 2300 a.C. Disegnate su supporti di terracotta, consistevano
essenzialmente in rilevamenti delle proprietà agricole compiuti allo scopo di tassarle.
Carte regionali di maggiore dettaglio e completezza furono invece tracciate sulla seta
nella Cina del II secolo a.C. La capacità di realizzare carte geografiche si afferma
comunque in diverse parti del mondo antico; straordinaria la particolare mappa
realizzata fin dai tempi antichi dagli abitanti delle isole Marshall che, utilizzando una
corda di fibra vegetale opportunamente annodata, riuscivano a rappresentare la
posizione delle isole nell'oceano. L'arte della cartografia era conosciuta e praticata dai
maya e dagli inca, che realizzarono carte dei luoghi conquistati fin dal XII secolo
d.C.

Il primo tentativo di rappresentare il mondo conosciuto risale al VI a.C. ed è


attribuito al filosofo greco Anassimandro. La carta che egli disegnò aveva forma
circolare e rappresentava le terre allora conosciute che si estendevano intorno al mare
Egeo, a loro volta circondate dai misteriosi oceani. Tra le carte più note della
classicità vi è quella attribuita a Eratostene (200 ca. a.C.) che rappresenta il mondo
conosciuto, i cui margini erano le Isole britanniche a nord-ovest, il fiume Gange (in
India) a est, la Libia a sud. Questa fu la prima carta a essere dotata di linee parallele
che indicavano la latitudine, oltre ad alcuni meridiani di longitudine che erano però
riportati a distanze irregolari.
Intorno al 150 d.C. lo studioso egiziano Tolomeo produsse il suo trattato di geografia,
che conteneva alcune carte del mondo. In esse veniva utilizzata per la prima volta una
forma di proiezione conica basata sui precetti della matematica, facendo uso di un
rudimentale reticolo di meridiani e paralleli; gli errori nella descrizione delle
dimensioni dell'Asia sono comunque molti.
Con la caduta dell'impero romano (la cui produzione di carte culmina nella cosiddetta
Tabula Peutingeriana) l'attività cartografica in Europa subì un quasi totale arresto;
rimasero le carte prodotte dai monaci, che avevano come unico scopo quello di
mostrare la centralità di Gerusalemme nel mondo e che per questo erano disposti a
tradire i principi affermati della geografia scientifica.

Ai secoli bui dell'Europa si contrappose la vivace produzione cartografica dei


naviganti e dei geografi arabi: nel 1154 il geografo Al-Idrisi produsse una particolare
carta del mondo. A partire dal XIII secolo i navigatori cominciarono a realizzare
accurate carte marittime, note come portolani, che solitamente non avevano meridiani
e paralleli ma che usavano come sistema di riferimento un insieme di linee
tratteggiate che indicavano le rotte per raggiungere i principali porti.
Nel XV secolo furono nuovamente pubblicate le carte tolemaiche, che per molti
secoli successivi avrebbero influenzato in maniera determinante i cartografi europei.
Nel 1507 la carta di Martin Waldseemüller fu la prima a riportare con il nome di
America (in onore di Amerigo Vespucci) la "nuova" terra scoperta in quegli anni a
occidente dell'oceano Atlantico. L'opera del cartografo tedesco, realizzata su dodici
fogli separati, fu inoltre la prima a distinguere con chiarezza i continenti americano e
asiatico.
Nel 1570 il fiammingo Abramo Ortelio pubblicò il primo atlante moderno, dal titolo
Orbis Terrarum, che conteneva 70 carte, dando vita a una scuola fiamminga di
cartografia che realizzerà in seguito carte e atlanti (come quello di Blaeu) apprezzati
ancora oggi come capolavori dell'arte cartografica. A questa diedero fondamentali
contributi anche diversi cartografi italiani.
I grandi sviluppi della cartografia si ebbero nel corso del XVI secolo, quando molti
cartografi raccolsero nei loro lavori la grande messe di informazioni che navigatori ed
esploratori riportavano dai loro viaggi. Fu comunque Gerardo Mercatore che si elevò
al di sopra di tutti i suoi contemporanei, mettendo a punto un tipo di proiezione
cartografica che si dimostrò di valore inestimabile per tutti i navigatori del suo secolo
e di quelli successivi.

Con il passare dei secoli le carte del mondo diventavano via via più precise grazie
alla determinazione della latitudine e della longitudine e alle maggiori informazioni
sulle dimensioni e sulla forma della terra. Le prime carte a mostrare le variazioni dei
campi magnetici suscettibili di interessare la bussola apparvero nella prima metà del
XVII secolo, mentre nel 1665 fu prodotta la prima carta geografica che forniva
indicazioni sulle correnti oceaniche. Con l'inizio del XVIII secolo tutti i principi
scientifici che stanno alla base della cartografia moderna erano stati fissati: gli errori
nella rappresentazione cartografica riguardavano ormai solamente le zone inesplorate
del mondo e in particolare certe zone interne dei continenti.
Nella seconda metà del XVIII secolo alcuni paesi europei iniziarono il rilevamento
sistematico del proprio territorio. Nel 1793 fu ultimata la prima carta completa della
Francia: misurava circa 11 m di lato ed era di forma quadrata. Gran Bretagna,
Spagna, Austria, Svizzera e altri paesi fecero lo stesso negli anni immediatamente
successivi. Negli Stati Uniti il primo rilevamento geologico del territorio fu avviato
nel 1879 e due anni più tardi il Congresso geografico internazionale propose la
realizzazione della carta del mondo in scala 1:1.000.000, un progetto che deve ancora
essere completato.

Nel XX secolo la tecnica cartografica si è arricchita della fotografia aerea, che fu


sviluppata nel corso della prima guerra mondiale e fu utilizzata in maniera
sistematica in quella successiva. Nel 1966, il lancio del satellite Pageos e, negli anni
Settanta, dei tre satelliti Landsat, rappresentarono una svolta ulteriore per la ricerca
cartografica, assicurando carte di altissima precisione di molte zone poco conosciute
del mondo. Nonostante tutto restano comunque ancora prive di carte dettagliate
importanti porzioni della superficie terrestre.

LA NASCITA DELLA NUOVA CARTOGRAFIA

La cartografia classica si sviluppò dopo l'invenzione della stampa. Da allora i


cartografi lavorarono sulla carta.
Anteriormente erano stati utilizzati i supporti più diversi, quali le pietre e la ceramica.
Nel corso degli ultimi trent'anni, e in particolar modo dal 1990, la situazione della
cartografia è cambiata radicalmente.
Questo è stato possibile grazie all'introduzione del computer che ha modificato il
lavoro di creazione delle carte geografiche. I primi tentativi in questa direzione
furono fatti dai meteorologi in Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma il grande balzo
nella nuova tecnologia fu compiuto tra il 1968 e il 1973 dall'Unità sperimentale di
cartografia, in Gran Bretagna, e dai cartografi dell'Università di Harvard.
Da allora l'arte e la tecnica di realizzazione delle carte geografiche e topografiche ha
subito alcuni cambiamenti irreversibili.
Innanzitutto le carte vengono ora realizzate sulla base delle informazioni contenute in
un database. Esse sono dei sottoprodotti del database. Il computer non viene più
utilizzato solamente per automatizzare le tecniche descrittive dei cartografi ma è
diventato lo strumento di valutazione della qualità dei dati, l'elemento che fonde i dati
tra loro e ne valuta la compatibilità; viene utilizzato sia dal ricercatore che cerca fonti
e materiali interessanti ai fini del lavoro, sia dal cartografo e dal grafico, che
riproducono i dati raccolti.

Il Servizio di rilevamento, come quello in funzione in Gran Bretagna e altri paesi,


consente, attraverso lo schermo di un computer, di crearsi la propria carta geografica
selezionando l'area di interesse. Essa viene poi stampata su carta; il tipo e la quantità
di informazioni che saranno contenute in questa carta "fai da te" dipenderanno
dall'utente, che ne potrà scegliere anche la scala in un ambito compreso tra 1:100 e
1:5000.
Le informazioni e i programmi per realizzare delle carte geografiche sono sempre più
accessibili e, grazie a questo, non vi sono mai state tante carte geografiche in
circolazione come in questi anni.
Grazie alle nuove tecnologie informatiche oggi la distorsione geometrica delle
fotografie aeree e satellitari, che sono di particolare utilità in zone di difficile accesso
come estuari e paludi, può essere rimossa ricorrendo al computer.

I SISTEMI INFORMATIVI GEOGRAFICI (GIS)

Fino al 1985 la divisione dei ruoli e delle professionalità nel settore della mappatura
topografica erano chiari e inequivocabili. I geodeti si occupavano delle prove
strumentali e analizzavano i risultati che permettevano di definire con sempre
maggior esattezza la forma dell'area studiata. Da queste prime informazioni i
topografi, operando sul terreno, iniziavano a colmare gli spazi bianchi con i dettagli,
lavoro che in alternativa poteva essere compiuto dai fotogrammetristi anche
ricorrendo alla fotografia aerea.
Nel corso degli ultimi dieci anni la situazione è però radicalmente cambiata. Gran
parte delle professionalità legate alla cartografia è stata eliminata dall'introduzione
dei sistemi satellitari del tipo Global Positioning System. I ricercatori hanno la
possibilità di utilizzare programmi informatici che permettono loro di produrre carte
che, per eleganza e leggibilità, competono con quelle realizzate con sistemi
tradizionali.
D'altra parte è sbagliato pensare di trovarsi di fonte a un settore in declino. La
diffusione dell'uso dei computer ha portato allo sviluppo di una nuova serie di
strumenti di studio che collettivamente vengono chiamati Sistemi informativi
geografici, noti con l'acronimo inglese GIS (Geographic Information System). Il
primo di questi sistemi fu costruito in Canada nel 1965 per realizzare l'inventario
della fauna e della flora del paese. Oggi ve ne sono decine di migliaia in tutto il
mondo.

I GIS assicurano poi un altro grande vantaggio: sono infatti gli unici strumenti capaci
di intrecciare le informazioni raccolte da diverse organizzazioni di ricerca. Queste
possono ad esempio compiere valutazioni sulla produttività agricola di una
determinata regione e accantonare i dati raccolti: grazie al GIS milioni di dati
possono essere comparati automaticamente con quelli raccolti da un'altra società, per
ragioni completamente diverse, sulla medesima area di interesse.
In che modo queste nuove tecnologie possono incidere sulla scienza della
cartografia? L’ipotesi, prospettata da alcuni, che le nuove tecnologie per la
trasmissione delle informazioni geografiche possano cancellare il ricorso alle carte
non ha fondamento. Sono infatti due strumenti che convivono e si alimentano
reciprocamente perché, se è vero che il supporto cartaceo non è in grado di contenere
la complessità delle informazioni di un sistema GIS, d'altra parte questo non è in
grado di rappresentare con la chiarezza e l'immediatezza di una carta topografica le
variazioni qualitative e quantitative che si verificano sul territorio. Lo sviluppo
combinato del GIS e della più recente tecnica cartografica basata sui computer sta
provocando una rapida espansione dell'uso delle carte che, come si capisce, non
hanno più molto a che spartire con le carte geografiche tradizionali.

LE CARTE GEOGRAFICHE

INTRODUZIONE

Carta geografica Rappresentazione grafica di una sezione della superficie terrestre,


ottenuta riproducendo in due dimensioni gli elementi caratterizzanti la superficie
stessa. Tali elementi possono essere naturali (fiumi, laghi, montagne, coste ecc.) o
artificiali (case, campi, strade, città ecc.), e vengono rappresentati mediante simboli
grafici (linee, colori ecc.). Caratteristica fondamentale di ogni rappresentazione
cartografica è la scala, cioè la riduzione che la superficie rappresentata subisce nel
passaggio dalla realtà alla carta. La riduzione definisce il tipo di carta: a seconda
della scala è infatti possibile rappresentare una superficie molto vasta, come un
continente, o una molto piccola, come un campo coltivabile. Si hanno così carte di
vario tipo: le carte geografiche, regionali e corografiche (che riproducono ampi tratti
della superficie terrestre), le carte topografiche (che rappresentano piccole superfici
in scala relativamente grande) e infine i planisferi, che rappresentano l'intera
superficie terrestre.

Le carte si caratterizzano anche a seconda degli oggetti cui si vuole dare particolare
risalto nella rappresentazione: possono privilegiare, ad esempio, la rete dei fiumi o
altri elementi fisici, oppure coltivazioni, insediamenti e strade.
Le carte generali forniscono le informazioni fondamentali, dal punto di vista naturale
o antropico, per conoscere un paese o un territorio; le carte il cui scopo è quello di
rappresentare graficamente determinati fenomeni sono dette carte tematiche.

LA REALIZZAZIONE DELLE CARTE

La costruzione di una carta comporta una serie complessa di operazioni.


Fondamentale è il rilevamento della superficie considerata e la sua rappresentazione
fedele, ovvero il rispetto delle distanze tra punti di riferimento; altrettanto importante
è il rilevamento dei singoli elementi che la caratterizzano, la loro classificazione in
categorie e la loro collocazione gerarchica.

I sistemi di rilevamento, molto rudimentali prima che si imponesse la cartografia


moderna, si sono affinati a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, con il
perfezionamento della fotogrammetria e, successivamente, con l'avvento della
aerofotogrammetria, basata sul rilevamento da aerei. Oggi un notevole contributo è
dato dalle immagini dei satelliti (telerilevamento), che forniscono dati di precisione
estrema.

TIPI DI CARTE

Carte topografiche

Vengono utilizzate per rappresentare parti delimitate di territorio. Rappresentano gli


elementi naturali e quelli introdotti dall’uomo. Data la varietà e la complessità delle
informazioni in esse contenute, le carte topografiche fungono da riferimento per le
attività più varie e sono utilizzate da costruttori, pianificatori, amministratori
pubblici, militari, geologi, escursionisti ecc.
Carta topografica
Oltre alle principali località e ai confini politici, le carte topografiche riportano le
caratteristiche fisiche e geologiche di un territorio.
Sono corredate di una legenda che indica la scala di riduzione e spiega i simboli
utilizzati, ad esempio, per strade, ponti o ferrovie. I colori vengono usati per indicare
l'altitudine sul livello del mare: al bianco corrisponde una depressione, mentre le
tonalità dal verde al marrone indicano un'altitudine crescente; i toni dall'azzurro al
blu sono usati invece per la profondità delle acque.

Carte tematiche

Sono destinate a impieghi particolari, nella ricerca scientifica, nella pianificazione


territoriale, nell'amministrazione ecc.
Esistono diverse categorie di carte tematiche. Particolarmente importanti sono le
carte nautiche e quelle aeronautiche.
Le prime indicano le rotte delle navi e coprono la superficie degli oceani e degli
specchi d'acqua navigabili; indicano inoltre le profondità e le escursioni di marea, le
correnti dominanti, le secche, i canali e altri elementi necessari alla sicurezza della
navigazione, quali la natura del fondale e l'esatta posizione dei fari e degli scogli
affioranti. Le carte aeronautiche rappresentano le aerovie e indicano la posizione dei
radiofari.
Carte tematiche sono inoltre quelle politiche (che indicano i confini di stato, di
regione e di altre circoscrizioni minori),
quelle geologiche, quelle agrarie e molte altre carte di carattere scientifico. Tra le
carte tematiche rientrano anche quelle che rappresentano fenomeni privi di un
impatto diretto sul territorio, come ad esempio la percentuale di lavoratori addetti
all'industria o dei malati di AIDS di un paese o di una regione.
GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DI UNA CARTA

Perché una carta possa contenere un gran numero di informazioni è necessario


ricorrere a un sistema di simboli. Quelli utilizzati con maggior frequenza sono stati
accettati da tutti i cartografi e si ritrovano sulle carte di tutto il mondo. Il cartografo
dispone comunque di una grande varietà di simboli per soddisfare le diverse
esigenze: un punto può ad esempio indicare la presenza di 10.000 capi di bestiame
mentre una coppia di martelli incrociati può indicare una miniera. I simboli utilizzati
vengono solitamente resi espliciti in un’apposita legenda.

Il reticolo geografico

Per la costruzione di una carta è fondamentale avere un sistema di riferimento a cui


riportare gli elementi da rappresentare. Tale sistema, utilizzato per la prima volta da
Tolomeo, è quello del reticolo di meridiani e paralleli: linee immaginarie che
circondano il globo terrestre in senso tra loro perpendicolare. I meridiani si ricavano
immaginando di sezionare il globo verticalmente, da un polo all'altro; i paralleli si
ricavano invece immaginando di sezionare la Terra orizzontalmente, ossia
trasversalmente ai meridiani. Ai paralleli corrisponde la latitudine, a meridiani la
longitudine.
Convenzionalmente la longitudine si calcola in 180° est e 180° ovest a partire dal
meridiano di Greenwich, in Inghilterra.
La latitudine è indicata in 90° nord e 90° sud a partire dall'equatore. Qualsiasi punto
della carta può essere definito con precisione esprimendo le coordinate in gradi,
minuti e secondi di latitudine e longitudine. Le carte sono generalmente orientate con
il nord nella parte superiore.

La scala

La scala della carta geografica offre la chiave per tradurre la distanza di due punti
sulla carta nella distanza reale che sulla superficie terrestre separa tali punti. La scala
è solitamente rappresentata da una frazione. Ad esempio, scala 1:100.000 significa
che l’unità di misura della carta (per esempio 1 cm) rappresenta 100.000 unità di
misura nella realtà (100.000 cm, cioè 1 km). Solitamente la scala è riportata al
margine della carta accanto a un segmento di riferimento che corrisponde a una
distanza indicata (1, 5, 10 o 100 km).

Il rilievo

Uno dei maggiori problemi che sin dalle origini si sono imposti ai cartografi è stato la
rappresentazione del rilievo, cioè di colline e montagne, valli e gole. Nelle prime
carte geografiche i rilievi erano riportati in maniera generica, senza la minima pretesa
di precisione. La rappresentazione è divenuta realistica solo con l'introduzione delle
cosiddette curve di livello, o isoipse. Le curve di livello sono linee che raccordano
sulla carta tutti i punti situati a una stessa quota altimetrica: l'intervallo tra una quota
e l’altra, o equidistanza, viene scelto in base all’opportunità. Nel caso di un intervallo
fissato in 50 m le curve di livello indicheranno tutti i livelli multipli della misura di
riferimento (50, 100, 150 m ecc.).

Altri metodi per indicare i rilievi del terreno prevedono il ricorso a colori (tinte
altimetriche) e ombre, al rilievo a sfumo e al rilievo a tratteggio. Quando vengono
utilizzati i colori si ricorre a una scala di intensità decrescente collegata in ciascuna
tonalità a un'altezza media; ad esempio, tutto il terreno compreso tra 0 e 100 m viene
colorato in verde chiaro, quello tra 100 e 200 m in verde di intensità media e così via.

LA PROIEZIONE CARTOGRAFICA

Per rappresentare l'intera superficie della Terra senza alcun tipo di distorsione una
carta geografica dovrebbe avere una superficie sferica; una carta di questo tipo è il
mappamondo o globo, che però è ingombrante, poco pratico, e non riporta molti
dettagli. Per questo si preferisce ricorrere a rappresentazioni bidimensionali, le quali
però non possono rappresentare in maniera accurata la superficie della Terra se non
in sezioni di dimensioni ridotte, in cui l'effetto della curvatura terrestre risulta
trascurabile.
Per descrivere una porzione importante della superficie terrestre in maniera accurata
la carta deve essere disegnata in modo da ottenere un compromesso tra distorsione
delle superfici, distanze e angoli. Spesso la precisione di uno di questi parametri va a
scapito di quella degli altri. I vari metodi utilizzati per riprodurre la superficie
terrestre su una superficie piana sono detti proiezioni; esse vengono classificate come
geometriche o analitiche. Le proiezioni geometriche vengono classificate in relazione
al tipo di superficie che devono rappresentare e indicate come proiezioni di sviluppo
cilindriche, coniche o piane. Le proiezioni piane sono note anche come proiezioni
azimutali o zenitali. Le proiezioni analitiche sono sviluppate sulla base di calcoli
matematici.

Proiezioni cilindriche

Nel realizzare una proiezione cilindrica il cartografo immagina la carta come un


cilindro tangente la Terra in corrispondenza dell'equatore. I paralleli sono la
proiezione sullo stesso cilindro dei piani paralleli che tagliano il globo.
A causa della curvatura della Terra, procedendo verso poli i paralleli vanno
avvicinandosi progressivamente tra loro, mentre i meridiani vengono rappresentati
come linee parallele perpendicolari all'equatore.
Completata la proiezione, immaginiamo che il cilindro venga “tagliato verticalmente”
e srotolato sul piano. Il risultato è quello di una carta che rappresenta la superficie
terrestre come un rettangolo con le linee di longitudine parallele ed equidistanti e
quelle di latitudine anch'esse parallele ma non equidistanti: per quanto le forme delle
superfici siano distorte in maniera crescente via via che ci si avvicina ai poli, le
superfici relative tra le diverse aree sono equivalenti a quelle calcolate sul
mappamondo.

La proiezione di Mercatore, sviluppata dal cartografo fiammingo Gerardo Mercatore


è affine, pur con qualche adattamento, alla proiezione cilindrica. Una carta di questo
tipo è accurata nelle regioni equatoriali ma notevolmente distorta alle alte latitudini.
Gli angoli sono comunque rappresentati fedelmente e per questo le carte costruite
mediante proiezioni cilindriche sono utilizzate dai naviganti per la determinazione
delle rotte. Ciascuna linea che taglia due o più meridiani con lo stesso angolo è
rappresentata nelle carte di Mercatore come una linea retta. Questa linea viene detta
lossodromica e rappresenta la rotta ideale di una nave o di un aereo che seguono
senza deviazioni una direzione indicata dalla bussola.

Proiezione azimutale

La proiezione azimutale corrisponde a una proiezione del globo su una superficie


piana che può entrare in contatto con il globo in un punto qualsiasi. Le proiezioni
azimutali raggruppano le proiezioni piane di tipo gnomonico, ortografico e
stereografico. Altre due proiezioni piane sono note come azimutali equivalenti
(conservano le proporzioni delle superfici) e azimutali equidistanti (conservano la
proporzione delle distanze): non possono essere proiettate ma si sviluppano in una
tangente piana. La proiezione gnomonica, o centrografica, è prodotta da una sorgente
luminosa immaginaria posta al centro della Terra, mentre in quella ortografica la
fonte di proiezione è posta all'infinito. La posizione della fonte luminosa nella
proiezione stereografica è quella del punto agli antipodi di quello di tangenza della
sfera con il foglio.

Esempio di proiezione azimutale


Se si immagina di appoggiare un foglio di carta in un punto specifico di un globo
luminoso, la proiezione che ne deriva viene definita azimutale. Questo tipo di
proiezione viene utilizzato per rappresentare soprattutto le regioni polari che, situate
attorno al Polo Nord, appaiono riprodotte senza marcate distorsioni.

Notevolmente più precisa ma assai più complessa da realizzare è la proiezione


policonica, in cui si immagina una serie di coni, ciascuno dei quali è tangente alla
Terra a una diversa latitudine. La carta che ne deriva sarà composta dalla somma dei
singoli rilevamenti.

Proiezioni matematiche

Per realizzare carte di piccola scala di grandi aree della superficie terrestre sono state
elaborate proiezioni dette “a sviluppo matematico”. Queste carte, fondate su calcoli
matematici, rappresentano l'intera superficie della Terra in forma di cerchi, ovali o
altre forme. Chiamate anche carte a proiezione interrotta, includono la proiezione di
Goode e la proiezione equivalente di Eckert.

I METODI PER REALIZZARE UNA CARTA GEOGRAFICA

La cartografia ha avuto enormi sviluppi a partire dalla seconda guerra mondiale. Le


nuove tecnologie utilizzate per la raccolta delle informazioni, la fotografia aerea e
satellitare, le triangolazioni satellitari rese disponibili dal sistema GPS (Global
Positioning System) hanno sensibilmente ridotto i margini di errore nel rilevamento
dei punti sulla superficie della Terra. Tra le grandi innovazioni di questi anni non va
dimenticato il ricorso al computer per il disegno di precisione delle carte.

L'osservazione

La moderna cartografia si avvale della precisione del rilevamento aereo, che integra
le informazioni ottenute dal rilevamento topografico tradizionale. Le fotografie
satellitari, oltre a indicare con precisione la posizione relativa degli elementi che
costituiscono la superficie terrestre, possono fornire indicazioni accurate sulla
posizione dei giacimenti minerali, sullo sviluppo dei centri urbani, sulla distribuzione
della vegetazione e anche sulla qualità dei suoli.

Compilazione e riproduzione

Una volta raccolte le informazioni, è necessario compiere un'attenta pianificazione


per assicurarsi che tutte le indicazioni rilevanti siano esposte con chiarezza e
precisione. I dati raccolti vengono inseriti in forma di punti in una griglia realizzata
sulla base della proiezione piana o di sviluppo che si è adottata. I rilievi sono indicati,
quando richiesto, facendo ricorso alle curve di livello che vengono tracciate
utilizzando coppie di fotografie stereoscopiche. Nello stesso modo si tracciano le
strade, i fiumi e via via tutti gli altri elementi di riferimento.

Sempre più diffusa è inoltre la carta ortofotografica, composta da un mosaico di


porzioni di fotografie aeree (aerofotogrammetria). Le immagini di queste carte
vengono registrate con uno strumento speciale noto come ortofotoscopio, che
permette di eliminare le distorsioni di scala e di angolo di ripresa. L'uso massiccio
delle banche dati informatiche ha inoltre permesso la realizzazione di carte-video che
mostrano sullo schermo del computer i cambiamenti verificatisi in una determinata
zona in un certo intervallo di tempo.

LA SCALA

In cartografia, la scala, indica il rapporto tra la distanza di due punti su una carta
geografica e la distanza reale dei due punti considerati sulla superficie terrestre. Sulle
carte geografiche la scala viene rappresentata in tre modi: come rapporto o frazione,
1:50.000 o 1/50.000, che significa che una unità di misura sulla carta corrisponde a
50.000 unità della stessa misura sulla superficie terrestre; con una scala grafica,
normalmente una linea retta (generalmente calcolata in chilometri o miglia); con una
frase come "1 cm rappresenta 100 km" (che significa 1 cm sulla carta geografica
corrisponde a 100 km sulla superficie della Terra). Tanto maggiore è la scala della
carta, tanto migliore e più dettagliata è la rappresentazione della superficie terrestre.
La scala di una carta geografica permette di definire la relazione esistente tra le
distanze sulla carta e le distanze corrispondenti sulla Terra. In questa illustrazione
sono messe a confronto tre carte geografiche con scala diversa. La prima è di 1 a
100.000.000: nella carta, quindi, la distanza di 1 cm corrisponde a 1000 km. La
seconda è più dettagliata, perché a ogni centimetro sulla carta corrispondono 100
km. Infine, nella terza carta la precisione è altissima perché a ogni centimetro
corrispondono solo 10 km.
RILEVAMENTO TOPOGRAFICO

Il rilevamento topografico ha lo scopo di determinare le misure di aree di vaste


proporzioni con elevatissima accuratezza, o di misurare le posizioni relative di
determinati punti (rilievo preliminare), o di fornire i dati necessari per costruire
secondo i piani dei progettisti (picchettatura o palinatura).

Il rilievo preliminare è necessario per ottenere informazioni per qualunque


rappresentazione cartografica; la picchettatura è necessaria per determinare
l'ubicazione esatta anche della più piccola o meno importante futura costruzione.

Gli Egizi usavano metodi di rilevamento topografico già nel 1400 a.C. per
rintracciare i termini di confine dopo le inondazioni del Nilo. La precisione con cui
sono costruite le piramidi indica che già nel 2900 a.C. erano in uso metodi di
rilevamento topografico, impiegati per la loro costruzione.

I Babilonesi, nel 3500 a.C. circa, disegnavano mappe in scala abbastanza precise, il
che indica che le informazioni sul terreno erano ottenute applicando i rudimenti dei
principi del rilevamento topografico.

La topografia è basata, da un punto di vista teorico, su principi geometrici e


trigonometrici, e i metodi pratici di rilevamento sfruttano principi della fisica. Certi
dati devono essere registrati sul campo e occorre contrassegnare sul terreno
determinati punti di riferimento; dati o contrassegni non necessari, tuttavia, si
traducono in costi eccessivi. Dati e punti devono risultare utilizzabili da parte di
persone che possono anche non avere familiarità con le procedure topografiche. Il
rilievo si compie sia verticalmente, su una linea a piombo diretta verso il centro della
Terra, che orizzontalmente, cioè lungo una direzione ortogonale alla linea a piombo.

Tutti gli oggetti sono in relazione tra loro in virtù delle loro posizioni reciproche, che
possono essere espresse come direzione di una retta orizzontale, distanza sulla stessa
linea e differenza di quota; il rilevamento topografico è una tecnica di misura e di
rappresentazione di queste tre grandezze. Le tre coordinate che determinano le
posizioni relative tra gli oggetti solo raramente possono essere misurate direttamente.
Normalmente si procede fissando una rete di punti dei quali si determinano con
precisione le posizioni mutue, e cioè la loro distanza orizzontale e la direzione
(rilievo planimetrico), oppure solo la quota (rilievo altimetrico), o tutte e tre queste
grandezze. Tale rete costituisce un riferimento. Una volta misurata la posizione degli
oggetti relativa al riferimento, si possono determinare con metodi matematici o
grafici le posizioni relative tra gli oggetti.
Metodi

Una poligonale, il riferimento orizzontale più usato, consiste in una serie di punti,
detti stazioni, ognuno dei quali è riferito alle stazioni adiacenti da una coordinata
angolare e dalla distanza. Ogni stazione viene scelta in base a criteri di convenienza e
contrassegnata sul terreno da un chiodo su un picchetto. La poligonale si richiude
sulla stazione di partenza.

Poiché le misure fatte sul terreno sono affette da errori, gli angoli e le distanze tra le
stazioni devono essere corretti per renderli matematicamente consistenti. L'errore
totale (errore di chiusura) si trova calcolando la posizione di ogni stazione rispetto
alla precedente lungo la poligonale partendo dalla stazione iniziale e procedendo fino
a ritornarvi: la differenza tra la posizione iniziale e quella finale trovata
matematicamente costituisce l'errore di chiusura. La posizione delle stazioni, gli
angoli e le distanze vengono corretti distribuendo in modo opportuno e logico l'errore
di chiusura tra loro.

La triangolazione è usata per ottenere il più accurato riferimento orizzontale su grandi


distanze, ma può anche essere usata come riferimento ogni volta che sia più
conveniente di una poligonale. Un sistema di triangolazioni consiste in una serie di
triangoli adiacenti con i lati in comune; i vertici dei triangoli sono le stazioni. E'
sufficiente misurare un lato di un solo triangolo detto base, e i tre angoli di ogni
triangolo per ricavare mediante la trigonometria tutte le distanze tra le stazioni. Di
quando in quando si misurano anche altri lati di triangoli, anch'essi detti basi, a scopo
di controllo delle distanze calcolate. Gli angoli misurati vengono corretti in modo che
la somma degli angoli interni di ogni triangolo abbia il valore corretto di 180°; anche
le distanze vengono corrette matematicamente.

Anche nella trilaterazione, un'altra tecnica di rilevamento topografico, si usa un


sistema di triangoli con i lati in comune due a due, ma in questa tecnica si misurano
le lunghezze dei lati dei triangoli, anziché gli angoli. La posizione verticale viene
stabilita facendo riferimento a un percorso chiuso di livellazione che inizia e termina
in un punto a quota nota, detto caposaldo, con altri capisaldi posti lungo il percorso
chiuso. La differenza tra la quota nota del punto di partenza e la quota calcolata al
termine del percorso chiuso costituisce l'errore di chiusura. La quota dei nuovi
capisaldi misurata sul campo viene corretta con procedimenti matematici sulla base
dell'errore di chiusura e della loro posizione lungo il percorso chiuso.

Picchettatura

Per la picchettatura vengono individuati sul terreno determinati punti mediante


misure di angoli, distanza e livello relativamente a una rete di riferimento. Le misure
vengono registrate su appositi moduli per il rilevamento in campo e affidate a un
apposito ufficio per i calcoli e la rappresentazione grafica. Il rilevatore pianta dei
picchetti di legno in determinati punti per segnare i confini, o, nel caso di rilevamenti
a scopo edilizio, per indicare con esattezza al costruttore dove edificare secondo gli
intenti dei progettisti. L'interpretazione dei piani dei progettisti e il calcolo degli
angoli e delle distanze richiesti per la posa dei picchetti è compito del rilevatore; i
dati necessari a questo fine vengono segnati sul taccuino di campo e portati sul posto
come guida per la picchettatura per costruzioni. La maggior parte dei rilevamenti si
basa su metodi di rilevamento su un piano, ignorando la curvatura terrestre. Le linee a
piombo sono considerate parallele tra loro, sebbene, in realtà, ognuna di esse abbia
direzione pressappoco radiale verso il centro della Terra e non ne esistano due
parallele tra loro. Una linea retta di mira è considerata una linea di livello, mentre in
realtà le linee di livello seguono la superficie media della Terra. Queste
approssimazioni non sono fonte di errori apprezzabili nei rilevamenti su medie
distanze. Nei rilevamenti effettuati su grandi distanze, invece, occorre tenere conto
della curvatura terrestre, ed è richiesta l'applicazione di un metodo speciale, detto
rilevamento geodetico. Si tiene conto, in questo caso, di latitudine e longitudine, e il
metodo di misura più usato ricorre alla triangolazione.

Strumentazione

Gli angoli su un piano orizzontale sono misurati con il teodolite o il tacheometro,


strumenti forniti di cannocchiale, livelle a bolla e viti di livellamento. Per lavori
ordinari le distanze sono misurate mediante rotelle a nastro di stoffa (per misure
grossolane) o di acciaio (per misure di precisione). Apparecchi elettronici per la
misura delle distanze che trasmettono impulsi di energia elettromagnetica da un
punto a un altro, da dove sono riflessi al punto di partenza, permettono di ottenere
elevata precisione sia a breve che a grande distanza. Lo strumento elabora dati di
tempo di volo e velocità traducendoli in distanze tra punti. Per la misura delle
distanze si ricorre anche al principio del triangolo ottico: le misure con la stadia si
effettuano leggendo la lunghezza del tratto di un'asta verticale graduata (stadia)
compreso nell'angolo tra due linee di mira. Le linee di mira sono determinate da due
fili tesi all'interno del cannocchiale del teodolite in modo che la lunghezza del tratto
di stadia visto tra i due fili sia sempre un centesimo della distanza tra il centro dello
strumento e la stadia stessa. In questo modo, con un solo puntamento, si rilevano
angoli e distanze, ma queste ultime non con grande precisione. Per misurare distanze
si usa anche un'asta di lunghezza fissa disposta orizzontalmente, detta barra sottesa.
L'asta viene disposta perpendicolarmente alla linea di mira del tacheometro o del
teodolite. L'angolo orizzontale sotteso dalla barra, insieme alla lunghezza della barra,
fornisce la distanza tra il centro dello strumento e la barra stessa. Sono necessarie tre
letture angolari per determinare direzione e distanza: una al centro della barra per la
direzione e due ai due estremi di essa per la distanza. Questo metodo è molto preciso,
ma lungo nell'esecuzione. Tutti questi metodi servono unicamente per misurare
distanze lungo una linea orizzontale o lungo una linea inclinata rispetto al piano
orizzontale. Una distanza misurata lungo una linea che segua il pendio di una collina,
a esempio, è poi trasformata con procedimenti matematici in una distanza su una
linea orizzontale e in una distanza su una linea verticale. La distanza verticale di due
punti si determina misurando le quote dei due punti e sottraendo la quota minore da
quella maggiore; per questo si usa la livella a cannocchiale, uno strumento che può
essere esattamente livellato e ruotato in ogni direzione: comunque si ruoti lo
strumento la linea di mira attraverso il cannocchiale rimane orizzontale. Si usa anche
un'asta graduata in centimetri dal basso verso l'alto, con la quale si determina la quota
della linea di mira effettuando la lettura sull'asta quando questa è posata su un
caposaldo. La quota della linea di mira supera quella del caposaldo della quantità
letta sull'asta graduata. Si ricava la quota di altri punti posandovi sopra l'asta ed
effettuando la lettura con la stessa linea di mira: la quota di questi punti differisce da
quella della linea di mira della quantità letta sull'asta.

Tipi di rilevamento

Accanto al rilevamento topografico ne esistono altri tipi, che utilizzano gli stessi
metodi e sono classificati con nomi diversi a seconda dello scopo. Il rilevamento
topografico si occupa specificamente della forma della superficie del terreno, ma con
questa denominazione si intende in genere il rilevamento destinato a fornire
informazioni per la rappresentazione cartografica. Il materiale per la rappresentazione
cartografica di zone della dimensione di diversi ettari si ottiene mediante il
rilevamento piano o geodetico, mentre il materiale per superfici più vaste si ottiene
mediante fotografia aerea: di alcuni oggetti piccoli, ma importanti, visibili nelle
fotografie aeree, si determina con esattezza la posizione e questi fanno parte di un
riferimento per il rilevamento, rispetto al quale si determina la posizione di tutti gli
altri oggetti sulla mappa. Il rilevamento destinato all'individuazione sulla mappa del
fondo di bacini idrici è detto rilevamento idrografico. Il rilevamento viario si effettua
per la preparazione di mappe destinate ai progettisti di strade, autostrade, acquedotti,
gasdotti, oleodotti ecc. Il rilevamento catastale consiste nella individuazione e
segnalazione sul terreno dei confini delle proprietà fondiarie e nella determinazione
delle superfici delle proprietà. Questo richiede la conoscenza sia dei metodi di
rilevamento che dei fondamenti del diritto. Metodi di rilevamento sono impiegati
anche per la costruzione di edifici, ponti, strade, condotte, nonché nella
determinazione precisa della direzione in cui si debbono propagare le onde
elettromagnetiche o nella quale debbono avvenire lanci di veicoli spaziali. Rilievi
tecnici occorrono, inoltre, per il controllo della escavazione di gallerie sotterranee e
di miniere, per il controllo del drenaggio di acque sotterranee e per il posizionamento
di dispositivi di ausilio alla navigazione.

Tendenze

Nelle tecniche di rilevamento stanno avvenendo dei cambiamenti, soprattutto grazie


agli sviluppi dell'elettronica. Tradizionalmente, il rilevatore si serviva di annotazioni
prese a mano sia al momento dell'ispezione preliminare che quando poneva i
picchetti. Adesso i rilevatori possono giungere sul campo con dati stampati da un
calcolatore elettronico che forniscono ogni informazione relativa, a esempio, alla
picchettatura di un edificio in progetto, e potrebbero anche essere in grado di
riportare dal campo per l'elaborazione in ufficio i dati stampati da un calcolatore,
contenenti la registrazione completa del lavoro svolto sul campo. Fino a oggi i
rilevatori potevano misurare angoli con il tacheometro o il teodolite con una
precisione maggiore di quella conseguita nella misura di distanze con rotelle metriche
di acciaio. Attualmente gli strumenti elettronici per la misura delle distanze sono in
grado di fornire misure di distanza con una precisione molto maggiore di quella con
cui si possono leggere gli angoli.
FOTOGRAMMETRIA

La fotogrammetria è una tecnica di rilievo che permette di acquisire dei dati metrici
di un oggetto (forma e posizione) tramite l'acquisizione e l'analisi di una coppia di
fotogrammi stereometrici.

Questa tecnica viene utilizzata in cartografia, topografia e in architettura. La branca


della fotogrammetria che riguarda il rilievo dell'architettura prende il nome di
fotogrammetria architettonica

Generalità

La fotogrammetria, dunque, permette di identificare la posizione spaziale di tutti i


punti d'interesse dell'oggetto considerato. Questa tecnica, per quanto originariamente
nata per essere utilizzata nel rilievo architettonico, è attualmente utilizzata in
massima parte per il rilevamento topografico del territorio, sviluppandosi
principalmente nella forma della fotogrammetria aerea.

Uno dei maggiori ostacoli che fino a poco tempo fa non ne hanno permesso il pieno
utilizzo è stato sicuramente l'elevato costo delle attrezzature necessarie alla
fotogrammetria. In seguito lo sviluppo di calcolatori in grado di gestire una grande
quantità di dati e della grafica computerizzata ne hanno permesso un utilizzo più
semplice e rapido e con costi minori. L'avvento di queste tecnologie, infatti, ha reso
obsolete le vecchie apparecchiature ottiche. In seguito a questi cambiamenti, la
fotogrammetria è ora utilizzata anche in ambiti dove raramente era utilizzata in
passato.

Attualmente la fotogrammetria rappresenta una delle tecniche di acquisizione dei dati


del territorio tra le più affidabili, economiche e precise. Essa è molto utile nell'analisi
dei cambiamenti del territorio. La tecnica della fotogrammetria è stata utilizzata in
vari ambiti: in passato, soprattutto alle origini, era utilizzata principalmente in ambito
bellico e nella cartografia, ma i settori in cui è ora utilizzata sono molteplici:
dall'architettura all'ingegneria, dalla geologia all'archeologia, dall'utilizzo per
operazioni di polizia alla cinematografia (esempio di questo utilizzo può essere Fight
Club) e anche per individuare petrolio nel sottosuolo.

Cenni storici

La storia della fotogrammetria è molto legata alla storia della geometria descrittiva,
che ne ha determinato i principi teorici, e naturalmente all'ottica e alla fotografia.
L'immagine fotografica, infatti, è assimilabile al concetto di prospettiva centrale. La
tecnica della fotogrammetria, quindi, ha sfruttato le conoscenze di queste due
discipline sintetizzandole in una tecnica che ci permette l'analisi del territorio con
buona approssimazione.

Le basi per la nascita della futura fotogrammetria, dunque, furono gettate con la
scoperta della prospettiva e delle sue leggi per legare la posizione spaziale di un
punto alla sua posizione in un'immagine: nel 1759 Johann Heinrich Lambert, nella
sua opera Perspectiva liber, definì le leggi matematiche su cui si basa la
fotogrammetria, ma bisogna aspettare il 1883 per avere il primo studio sulle relazioni
tra geometria proiettiva e fotogrammetria.

Nel 1837 si ebbero i primi sviluppi nel campo della fotografia: Louis Daguerre
realizzò la prima immagine fotografica con quello che può essere considerato il
progenitore della fotografia: il dagherrotipo.

Nel 1849 si ha il primo esempio di fotogrammetria, cioè di analisi di immagini


fotografiche per la realizzazione di mappe topografiche. Aimé Laussedat, che usò un
processo definito "iconometria", viene considerato il fondatore della fotogrammetria.
Nove anni dopo, nel 1858, sperimentò perfino la fotogrammetria aerea, tecnica che
consiste nel fotografare l'area interessata dall'alto. La sua tecnica venne ufficialmente
accettata dalla Reale Accademia delle Scienze esatte, fisiche e naturali di Madrid nel
1862, primo riconoscimento di una tecnica fondamentale ai giorni nostri. In Italia il
primo a studiarla fu Porro nel 1855; più tardi l'ing. Paganini dell'I.G.M. usò un
sistema di fotografia presa da terra per il Monte Rosa e le Alpi Apuane.

In seguito si perfezionò la tecnica della fotogrammetria aerea, realizzata soprattutto


dall'alto di mongolfiere, molto utile per scopi militari. Un esempio di questo utilizzo
può essere la Battaglia di Solferino, in cui Napoleone III ordinò che fosse compiuta
una ricognizione con questa tecnica. Ma il termine "fotogrammetria" è stato utilizzato
per la prima volta nel 1893 da Albrecht Meydenbauer, fondatore e direttore fino al
1909 dell'Istituto Reale Prussiano di Fotogrammetria.

Nel 1924 Otto von Gruber perfezionò le leggi matematiche applicate alla
fotogrammetria dando origine alla fotogrammetria analitica, cioè quel tipo di
fotogrammetria che utilizza principalmente un metodo analitico, e rendendo più
veloce il processo.

In seguito la fotogrammetria ebbe numerosi passi avanti: si tennero addirittura dei


congressi in proposito a Zurigo nel 1930, Parigi nel 1934, Roma nel 1938 e vennero
inventati gli apparecchi Nistri per la fotocartografia, ma questa tecnica rimaneva
molto costosa a causa della complessità delle apparecchiature utilizzate. Il progresso
tecnologico permise l'utilizzo di macchinari digitali, che abbassarono notevolmente i
tempi necessari alle operazioni e i costi.
La fotogrammetria aerea fu utilizzata anche nel Programma Apollo per mappare la
superficie lunare. Questa tecnica viene utilizzata anche per la mappatura dei pianeti
da parte delle sonde spaziali.

Tipi di fotogrammetria

È possibile differenziare i diversi tipi di fotogrammetria secondo due criteri


fondamentali.
Differenziazione in base alla distanza della ripresa

A seconda degli strumenti (fotocamere classiche o digitali "a pixel", normali,


metriche singole, metriche accoppiate) utilizzati nella fotogrammetria, le immagini
fotografiche possono essere ottenute da distanze differenti. In base a questo criterio la
fotogrammetria si divide in:

1 - Microfotogrammetria. Trova applicazione in laboratorio, mediante utilizzo di


stereoimmagini (foto classiche o digitali) ricavate con stereomicroscopi di base 6 cm.
Campi d'impiego: medicina, chirurgia, scienze naturali (es. paleontologia), scienze
fisiche (es. provini di fonderia spezzati), ecc.

2 - Fotogrammetria "degli Oggetti vicini" (In inglese, Close Range Photogrammetry).


Molto utilizzata per il rilevamento su distanze da 1m a 30m, con basi stereometriche
da 0,30m, 1,20m ed oltre. Campi d'impiego: studi per lo sviluppo urbanistico di aree
dismesse o da riqualificare, indagini strutturali e creazione di modelli 3D di edifici ed
infrastrutture, studi antropologici e zootecnici, indagini giudiziarie, restauro artistico
di sculture e monumenti, rilievo di incidenti stradali, misurazioni d'alta precisione in
officina, ecc.

3 - Fotogrammetria Architettonica.

4 - Fotogrammetria Terrestre. La Fgm Terrestre vera e propria è stata all'origine dei


rilevamenti topografici accurati, a differenza dei precedenti, classici della
celerimensura, che erano ottenuti con interpolazione fra punti del terreno, più o meno
equamente distribuiti per rappresentare la morfologia del territorio.

Il primo esperimento di questa procedura in Italia avvenne sulle Alpi Apuane poco
dopo il 1880, a cura del Capitano Ing. Paganini, dell'I.G.M. di Firenze. Dopo un
periodo di grande utilizzo per la cartografia di terreni molto accidentati, a partire dal
1950 circa, la fotogrammetria terrestre è stata in gran parte soppiantata dalla
fotogrammetria aerea. Tuttavia la fotogrammetria terrestre rimane metodo
insostituibile, per accuratezza di dettaglio e precisione conseguibile, quando si
debbano rilevare pareti rocciose a picco od a strapiombo magari entro forre, là dove
nessun aeroplano potrebbe operare. Le basi stereometriche in tal caso variano dai 5 m
ai 100 m ed oltre; le distanze fra le camere ed il terreno sono comprese fra 50 m ed
un kilometro ed oltre; gli strumenti sono fototeodoliti o camere metriche montate su
treppiedi; la lunghezza delle basi deve essere conosciuta al millimetro. Gli assi ottici
delle camere di ripresa possono essere paralleli o convergenti; inclinati di pari entità
verso il basso di 5, 10, 15 o 20 gradi oppure di 7, 14, 21, 28 gradi; obliqui verso
destra o verso sinistra, tutto ciò per riuscire a fotografare il terreno in modo completo.

Campi d'impiego: rilievi geo-stratigrafici strutturali di pareti a picco; mappature di


alta precisione per lo studio dell'imposta delle dighe, degli sbarramenti, dei ponti, ma
anche il controllo della variazione della freccia d'incurvamento dei grandi ponti
sospesi, nonché la posizione delle funi in occasione dei collaudi, nelle successive
posizioni del treno di veicoli sovraccaricati.

Altro impiego, più recente e sofisticato, che si avvicina alla fotogrammetria


industriale (vedere testo apposito), è quello dei controlli dimensionali di tipo
ingegneristico strutturale su grandi fabbricati (prima, durante e dopo il
raddrizzamento di antiche torri o chiese lesionati a seguito di cedimenti differenziali,
ovvero accertamento della vera forma e dimensioni di monumenti problematici in
assetto inconsueto). Nel primo caso, Cattedrale di York (Newton, anni '60); nel
secondo, Torre Pendente di Pisa (Baj & Bozzolato, 1984, 1991).

• Fotogrammetria architettonica, caratterizzata da una distanza tra il sensore e


l'oggetto da osservare al massimo di qualche decina di metri. Questa tecnica
viene utilizzata principalmente per il rilievo architettonico (rilievo che,
comunque, è possibile integrare anche con il Laser Scanner) e per la taratura e
la calibrazione degli strumenti per le riprese da aereo o da satellite, soprattutto
per correggere l'effetto di distorsione dell'atmosfera.
• Fotogrammetria aerea, che viene realizzata montando delle apparecchiature
fotografiche su aerei che volano al di sopra del territorio da osservare. A
seconda dell'estensione dell'area da rilevare e della scala di rappresentazione
richiesta si passa da altezze di 300 metri ad un massimo di 20.000 metri.
• Fotogrammetria satellitare, realizzata da Space Shuttle, satelliti meteorologici
o per lo studio delle risorse terrestri. Questa tecnica è utilizzata principalmente
per aree estese da rilevare.
• Fotogrammetria da UAV (anche detto Aeromobile a pilotaggio remoto o
UAV), che viene realizzata montando differenti sensori (camere ottiche,
termocamere, sensore multi spettrale, ...) di dimensioni ridotte sui sistemi
utilizzati. Per garantire un buon livello qualitativo del prodotto finale, sarà
necessario seguire una procedura di calibrazione del sensore per tenere in
conto, durante l'elaborazione dei dati, di eventuali correzioni geometriche.
Questa tecnica è utilizzata principalmente per aree non particolarmente estese e
può affiancare la fotogrammetria architettonica per il rilievo di edifici ed
infrastrutture. Inoltre gli Aeromobili a pilotaggio remoto (APR) permettono di
acquisire dati in scenari applicativi quali l'agricoltura, il monitoraggio di
impianti industriali, il telerilevamento e altri ancora.

Differenziazione in base al tipo di dato in output

In funzione delle attrezzature utilizzate è possibile anche differenziare i diversi tipi di


fotogrammetria in base ai dati in uscita, i dati che il processo ci fornisce in output.
Sulla base di questo criterio la fotogrammetria si divide in:

• Fotogrammetria tradizionale, tecnica che fornisce in output un dato


disponibile su un supporto fotografico tradizionale.
• Fotogrammetria digitale, tecnica il cui dato in uscita è digitalizzato. In questo
tipo di fotogrammetria le immagini sono gestibili attraverso il calcolatore.
I MATERIALI DA COSTRUZIONE

I materiali da costruzione sono tutti i materiali, naturali e artificiali, normalmente


impiegati per realizzare costruzioni edilizie e opere d'ingegneria civile (strade, ponti,
canali, dighe, gallerie).

Esistono vari tipi di materiali da costruzione, sia naturali sia artificiali, a cui nel
tempo se ne sono aggiunti sempre di nuovi. Il numero di questi materiali, in passato
relativamente limitato, va continuamente aumentando col progredire della tecnica,
mentre allo stesso tempo si è avuta una differenziazione dei sistemi impiegati per la
loro produzione. L'elevato numero di materiali da costruzione dipende dal fatto che
ognuno di essi presenta delle particolari proprietà, che lo fanno preferire agli altri a
seconda degli scopi per i quali deve essere utilizzato.

Cenni storici

Storicamente, i primi materiali utilizzati per la costruzione sono stati pelli animali
(nella costruzione di tende), fango, argilla grezza, paglia (nella costruzione di
capanne), e rocce di varia natura. Molti di questi materiali vengono ancora oggi
utilizzati in alcune parti del mondo da popolazioni nomadi o aborigene, mentre sono
stati quasi completamente rimpiazzati dagli altri materiali nel contesto tecnologico
dei paesi industrializzati.

Il muro a secco è una delle più antiche tecniche di costruzione: esso è realizzato da
blocchi di pietra opportunamente disposti in modo da autosostenersi, senza rendere
necessario l'uso di leganti. Esempi di antiche costruzioni realizzate in pietra sono i
nuraghe della Sardegna (risalenti al II millennio a.C.), le piramidi a gradini
dell'America Latina, e le costruzioni degli antichi greci e romani.

Il granito era già utilizzato nel 2600 a.C. dagli antichi egizi, che se ne servirono per
costruire il rivestimento superficiale della piramide rossa, mentre la piramide di
Micerino è costruita con blocchi di granito e calcare.

Presso i nativi americani delle Grandi Pianure era comune l'utilizzo di pelli o
corteccia di betulla per la fabbricazione dei "tipi" (in inglese teepee), tende di forma
conica che avevano il vantaggio di potere essere trasportate.

In Mongolia una parte della popolazione vive ancora nelle iurte, abitazioni costituite
da una struttura portante in legno e una copertura fatta di tappeti di feltro (una stoffa
in pelo animale). Questo tipo di abitazioni è richiamato nelle tensostrutture, applicate
su vasta scala nella seconda metà del Novecento. Per la costruzione delle
tensostrutture vengono in genere impiegate travature costituite da fibra di vetro
rivestita in politetrafluoroetilene e tele in poliestere e polivinilcloruro.

In ambito edilizio è stato ed ha trovato utilizzo come materiale da costruzione anche


l'amianto (nella forma commerciale dell'Eternit), usato per la coibentazione di edifici
e mezzi di trasporto, fino a quando, negli anni ottanta, ne è stata accertata la
cancerogenicità.

Struttura e proprietà dei materiali

A ciascun materiale è richiesto di possedere determinate proprietà e di conservarle


nel tempo. Le proprietà meccaniche riflettono il comportamento del materiale
sollecitato all'applicazione di un sistema di forze; quelle fisiche misurano il
comportamento sotto l'azione della temperatura, dei campi elettrici o magnetici, della
luce, del fuoco; le proprietà chimiche caratterizzano la capacità di conservare le
proprie caratteristiche nell'ambiente in cui il materiale opera.

Struttura dei materiali

Un qualsiasi aggregato di atomi costituisce la materia, che può presentarsi in diversi


stati. Le due situazioni estreme sono rappresentate dai fluidi (gas e liquidi) e dai
solidi. Parlando di materiali da costruzione, si fa sempre riferimento a materiali
solidi. I solidi possono essere di tipo cristallino, cioè caratterizzati da una struttura
ordinata a livello atomico e molecolare (come nel caso dei metalli o di molti materiali
ceramici), amorfo, nel caso in cui assumano una struttura disordinata simile a quella
dei liquidi (come nei vetri, dove un raffreddamento "congela" la struttura amorfa del
liquido) o semicristallino (come molti materiali polimerici).
La scelta del materiale

La costruzione di un oggetto, di un utensile e di addirittura un edificio, quindi la sua


forma, le sue proprietà meccaniche e strutturali, il suo peso e le sue proprietà
termiche, sono condizionati dai materiali con i quali questi vengono realizzati. La
scelta di un materiale rispetto ad un altro non è mai casuale, poiché i materiali (anche
all'interno della stessa famiglia), presentano proprietà molto diverse fra loro, che
condizionano sensibilmente la produzione di un manufatto, o di un'infrastruttura.

In passato la maggior parte dei materiali usati per l'edilizia era presente in natura
(legno, argilla o sabbia) e veniva utilizzata senza particolari lavorazioni aggiuntive.
Con il passare del tempo, a questi materiali se ne sono aggiunti altri, artificiali (come
il calcestruzzo, vetro, materie plastiche, e i metalli), che vengono realizzati a partire
da materie prime presenti in natura, che per l'utilizzo industriale vengono sottoposte a
diversi processi di lavorazione e trattamento delle superfici. Anche i materiali
naturali, che una volta venivano impiegati allo stato grezzo, ora vengono sottoposti a
diversi processi di lavorazione; ad esempio il legno subisce diversi trattamenti di
superficie (come la sabbiatura), mentre l'argilla viene cotta al forno (diventando
terracotta).

Oggi, la scelta del materiale da adottare per una particolare applicazione dipende
dalle sue caratteristiche (tra cui: proprietà meccaniche, proprietà fisiche, proprietà
chimiche, proprietà ottiche e traspirabilità) ma anche dalla sua disponibilità nel luogo
di utilizzo, dall'impatto ambientale del materiale stesso, dal suo effetto estetico e,
soprattutto, dal suo prezzo. Tra i vari fattori di risparmio che possono influenzare la
scelta dei materiali alcuni sono direttamente legati al materiale stesso, come il costo
di produzione unitario o la reperibilità in loco, ma altri dipendono dalle tecnologie
utilizzate in cantiere e/o al ciclo di vita previsto per l'edificio (es. modularità dei
componenti nel caso di prefabbricazione, facilità di utilizzo da parte di manodopera
non specializzata nel caso dell'autocostruzione, possibilità di un riutilizzo dopo la
demolizione dell'edificio....).

Legno

Il legno è il materiale organico più diffuso e il suo utilizzo risale all'antichità (basti
pensare alle capanne del Paleolitico o alle palafitte del Neolitico). Esistono diversi
tipi di legni, che si differenziano, oltre che per la specie arboricola da cui sono
prodotti, dal tipo di crescita che ha avuto l'albero.

Il legno strutturale è un materiale da costruzione piuttosto versatile e facilmente


lavorabile, che viene impiegato in ambito edilizio per la costruzione di diverse
strutture; in particolare può essere utilizzato sia per la realizzazione di telai portanti
sia come rivestimento.
A partire dal fusto possono essere ricavati elementi a sezione rettangolare con diversi
rapporti di larghezza/altezza. Il collegamento dei vari elementi avviene a mezzo di
colle, con viti o con collegamenti realizzati in acciaio da carpenteria. Il vantaggio
delle strutture in legno lo si riscontra particolarmente nelle strutture lamellari,
costituite cioè da una serie di assi di legno sottili saldamente collegate tra loro. Una
struttura in legno lamellare presenta notevoli valori di resistenza agli sforzi e può
benissimo essere utilizzata per la realizzazione di opere come travi portanti per solai
o travature di tetti in legno. Il principale svantaggio del legno è la sua facilità ad
incendiarsi. Oggi comunque esistono numerosi trattamenti che possono rendere
abbastanza ignifugo un elemento in legno in modo da permettere una maggiore
resistenza al fuoco.

Leganti
 
I leganti sono materiali costituiti da polveri finissimi che, se impastati con acqua,
dànno origine a una massa plastica che, una volta indurita, raggiunge una elevata
resistenza meccanica. I leganti, quando impastati con acqua, diventano malte e
calcestruzzi.

Gesso

Il gesso utilizzato in edilizia è un legante aereo costituito da solfato di calcio


semidrato (CaSO4·½H2O), da anidrite (CaSO4) o da una miscela dei due composti. È
un materiale leggero e resistente al fuoco, isolante termico e acustico. Viene prodotto
a partire dalla pietra di gesso, un materiale molto tenero che contiene (per un valore
solitamente inferiore al 10%) impurezze di silicati, alluminati, quarzo e ossido di
ferro). Il gesso non può operare all'aperto o a contatto con ambienti umidi (in quanto
non sufficientemente insolubile). Inoltre, il gesso umido è aggressivo nei confronti
dei materiali metallici che non resistono in condizioni di umidità. Infine, il gesso non
può essere utilizzato a contatto con atmosfere contenenti ammoniaca.

Calce aerea

Con il termine calce si intendono sia l'ossido di calcio (CaO) ottenuto per cottura ad
alta temperatura di rocce calcaree (calce viva) oche il suo idrato (Ca(OH)2, detto
anche calce spenta). La calce è utilizzata impastata con sabbia e acqua, diventando
così malta, per il collegamento di pietre e mattoni o per la realizzazione di intonaci.

Calce idraulica

La calce idraulica è stata largamente usata in passato, ma oggi viene prodotta in


quantità modeste e solo in alcuni paesi. Questo legante viene spesso considerato
come il precursore del moderno cemento Portland. A differenza della calce aerea,
quella idraulica può far presa e resistere anche in acqua e in ambienti umidi. Si
possono distinguere tre tipi di calce idraulica:

• calci idrauliche vere e proprie, ottenute per cottura di calcari argillosi o di


miscele di calcari e argille;
• calci idrauliche attualmente in commercio che sono costituite da cemento
Portland opportunamente diluito;
• calci idrauliche ottenute per aggiunta alla calce aerea di materiali pozzolanici.

Cementi

La norma europea EN 197 definisce cemento: "un materiale inorganico finemente


macinato che, mescolato con acqua, forma una pasta che rapprende e indurisce a
seguito di reazioni e processi di idratazione e che una volta indurita mantiene la sua
resistenza e stabilità anche sott'acqua".

Tra i cementi, il cemento Portland è il più importante e diffuso. Si ottiene attraverso


la macinazione del prodotto di cottura di una miscela di argilla, calcare e sabbia
(clinker) con piccole aggiunte di gesso ed, eventualmente, di altri materiali quali
pozzolane, fumo di silice, ceneri volanti, loppa di altoforno, eccetera. Esistono però
anche cementi speciali per usi particolari: cementi alluminosi, cementi soprasolfatati,
cementi ferrici, cementi espansivi, cementi bianchi o colorati. Il principale impiego
del cemento è connesso con la costruzione di opere in calcestruzzo, in particolar
modo armato e precompresso, ma può anche essere usato per la giunzione di altri
materiali da costruzione, come pietre e mattoni, per la realizzazione di murature.

Malte e calcestruzzi

Malte e calcestruzzi sono ottenuti miscelando, secondo opportuni rapporti, cemento,


acqua e aggregati. Possono anche contenere additivi e aggiunte specifiche per
modificarne alcune proprietà.

La malta è un conglomerato costituito da una miscela di legante (ad esempio cemento


e/o calce), acqua e inerte fine (sabbia).

Viene utilizzata in edilizia per realizzare intonaci o per collegare e tenere uniti altri
materiali da costruzione, cui la malta fluida si adatta aderendovi tenacemente fino a
dare una struttura monolitica ad indurimento avvenuto (malta di allettamento), o
almeno ciò è quanto potrebbe avvenire con una malta cementizia nella costruzione di
murature nuove. Nelle murature antiche e in generale quelle con malte a base di
calce, la funzione della malta è principalmente quella di compensare le asperità dei
blocchi (pietre o laterizi) e quindi quella di distribuire il carico su l'intera superficie
d'appoggio reciproco. La malta non ha quindi la funzione preminente di "incollare" i
blocchi, come si potrebbe pensare, soprattutto quella tradizionale.
Il largo impiego del calcestruzzo è dovuto a diversi fattori:

• ha buone caratteristiche di resistenza a compressione, all'acqua e agli agenti


atmosferici, e per questo è perfetto per la realizzazione di dighe, canali e
strutture a stretto contatto con il terreno o esposte all'atmosfera;
• è compatibile con le armature in acciaio che consentono di porre rimedio alla
sua bassa resistenza a trazione e flessione;
• può essere prodotto facilmente e messo in opera nelle più svariate forme;
• è economico e prodotto con materiali facilmente reperibili.

Le diverse caratteristiche del calcestruzzo, sia fresco che indurito, dipendono dalla
presenza o mancanza di aggregati (naturali o artificiali) e dalle caratteristiche
dell'acqua e degli additivi (come per esempio quelli fluidificanti e superfluidificanti,
che sono i più utilizzati e servono a rendere più lavorabile il calcestruzzo o a ridurre
la quantità di acqua necessaria nell'impasto).

Materiali lapidei

I materiali lapidei sono essenzialmente le rocce. Esse si suddividono in tre categorie:


rocce vulcaniche, rocce sedimentarie e rocce metamorfiche, ognuna con diverse
caratteristiche meccaniche, fisiche e chimiche.

Granito

Il granito ha una struttura cristallina, spesso con cristalli di grosse dimensioni, in


quanto si tratta di una roccia intrusiva formatasi a grandi profondità dalla crosta
terrestre. Esso presenta un'ottima resistenza agli acidi. Viene utilizzato soprattutto
nelle pavimentazioni, nei rivestimenti esterni (soprattutto in passato per il bugnato) e
nei ripiani delle cucine.

Tufo

Il tufo è una roccia vulcanica di tipo piroclastica. Esso può essere impiegato in
edilizia in blocchetti per la costruzione delle pareti portanti in sostituzione di altri
materiali quali blocchetti di cemento, pietra da taglio eccetera.

Marmo

Il marmo è una roccia metamorfica creatasi in seguito alla trasformazione di rocce


sedimentarie mediante ricristallizzazione del carbonato di calcio di cui sono in
prevalenza composte. Come tutte le rocce metamorfiche, anche il marmo può essere
suddiviso in lamine secondo specifiche direzioni (scistosità). Viene spesso usato nella
scultura, ma anche per rivestimenti esterni degli edifici, per le pavimentazioni e per i
ripiani pregiati dei mobili da bagno.
Il Taj Mahal, un'imponente costruzione architettonica in marmo.

Porfido

Il porfido è una roccia vulcanica effusiva (formatasi quindi in prossimità della crosta
terrestre) con una struttura cristallina a grana fine. È molto resistente agli sbalzi di
temperatura, ed è per questo che viene spesso utilizzato per pavimentazioni esterne
(dai bolognini ai sampietrini fino a lastre di dimensioni maggiori), ma anche per
rivestimenti e pareti ventilate.

Ardesia

L'ardesia è una roccia metamorfica da cui si possono ottenere facilmente lastre sottili,
piane, leggere, impermeabili e resistenti agli agenti atmosferici. Viene principalmente
impiegata per la costruzione delle coperture, ma anche nelle pavimentazioni e per la
costruzione di gradoni di scale.

Altre rocce utilizzate in edilizia

Esistono molti altri materiali lapidei utilizzati in edilizia. Tra questi, ci sono delle
rocce vulcaniche (come sienite, diorite, gabbro e basalto), rocce sedimentarie (come
dolomite, calcare e arenaria) e rocce metamorfiche (come, per esempio, gli gneiss).

Materiali ceramici

I materiali ceramici sono materiali ottenuti da materie prime inorganiche mediante


formatura e successiva cottura. La struttura dei materiali ceramici è caratterizzata
dalla presenza di elementi metallici e non metallici legati da legami forti. Hanno
buone caratteristiche di resistenza al calore e all'attacco degli agenti chimici, nonché
un buon isolamento elettrico. Il comportamento meccanico è caratterizzato da
fragilità, elevata durezza, rigidità e buona resistenza a compressione. I materiali
ceramici sono utilizzati in ambito edilizio per realizzare coperture, pareti (laterizi),
piastrelle (per rivestire le pareti e per pavimentare i locali) e nella creazione di
sanitari (ad esempio WC, bidet, lavabi e piatti doccia).

Laterizi

I laterizi sono materiali da costruzione di vasto uso caratterizzati da una forma


regolare e da dimensioni e peso tali da consentirne una agevole posa manuale.
Vengono impiegati per la realizzazione di murature, solai, coperture e rivestimenti.
Sono costituiti da argilla (solitamente argille impure, contenenti ossido di ferro,
responsabile della colorazione rossastra). Tra i laterizi, vi sono mattoni pieni, mattoni
semipieni, tavelline, tavelle e tavelloni, pianelle e tegole di vario tipo (embrice,
coppo, marsigliese, portoghese, olandese).

Ceramici a pasta compatta

I materiali ceramici a pasta compatta sono caratterizzati da una struttura vetrosa.


Rientrano in questa categoria i grès e le più pregiate porcellane.

I grès sono prodotti ceramici realizzati con argille che durante la cottura danno luogo
alla graduale formazione di una fase liquida, per cui si ottiene un prodotto
impermeabile con elevata resistenza meccanica. Questo fenomeno è detto
greificazione. I grès sono utilizzati per realizzare condutture per soluzioni acide o
acque di scarico e piastrelle.

Le porcellane sono prodotti ceramici a pasta bianca, compatta e vetrificata, ottenuti


da miscele di caolino (argilla pura), quarzo macinato finemente e feldspati. Le
porcellane, a seconda della temperatura di cottura, vengono divise in porcellane
tenere (che hanno traslucidità accentuata) e dure (con prevalenza della fase
cristallina). Queste ultime porcellane, hanno elevata resistenza chimica, resistenza
meccanica (che è maggiore all'aumentare della quantità di quarzo presente
nell'impasto) e refrattarietà. Solitamente, le porcellane dure vengono utilizzate (per la
loro resistenza chimica) per la produzione di crogioli per laboratori chimici e per la
realizzazione di isolanti elettrici. Le porcellane tenere, invece, vengono utilizzate per
ceramiche ornamentali.

Piastrelle ceramiche

Le piastrelle ceramiche vengono prodotte mediante pressatura o estrusione. Vengono


successivamente cotte con il processo della monocottura (oggi sempre più diffuso)
con cui si ottengono materiali ceramici a pasta greificata con elevata
compenetrazione tra smalto e supporto. Le piastrelle devono soddisfare requisiti di
impermeabilità all'acqua, resistenza all'abrasione, agli urti, agli attacchi chimici, alle
macchie e al gelo. Le piastrelle ceramiche, esistenti sul mercato in varie forme, colori
e dimensioni, vengono utilizzate per rivestimenti di pavimenti o di pareti di stanze da
bagno e cucine. L'Italia è il primo produttore mondiale di piastrelle ceramiche, la
maggior parte delle quali viene esportata).
Materiali metallici

Acciai e ghise

Le leghe di ferro si dividono in acciai e ghise in base al tenore di carbonio (maggiore


o minore del 2,06%). In realtà, negli acciai e nelle ghise sono sempre presenti altri
elementi di lega.

Acciai

Esistono diversi modi per classificare i vari tipi di acciai. In base ai requisiti
qualitativi, per esempio, si suddividono in acciai di base (per i quali vengono
garantite solo certe caratteristiche resistenziali), acciai di qualità (per i quali, oltre a
quelle di resistenza meccanica, è possibile garantire altre determinate proprietà) e
acciai speciali (destinati ad applicazioni o trattamenti particolari). In base alla
composizione chimica, invece, si possono suddividere in acciai al carbonio, acciai
basso legati e acciai legati. Infine, sulla base delle applicazione, gli acciai si possono
raggruppare in: acciai da costruzione di uso generale, acciai speciali da costruzione,
acciai inossidabili, acciai da utensili e acciai per usi particolari.

La produzione dell'acciaio può avvenire in due modi: siderurgia primaria e siderurgia


secondaria. Nella siderurgia primaria, si parte da minerale di ferro, carbone (che
viene trasformato in coke) e calcare. Queste materie prime vengono inserite in un
altoforno da cui escono ghisa e scorie. La ghisa viene quindi introdotta in un
convertitore a ossigeno insieme a rottami di ferro e calce viva, dove viene convertita
in acciaio mediante aggiunta di ossigeno. L'acciaio viene dunque inviato all'impianto
di colata. Nella siderurgia secondaria, invece, si usano forni elettrici ad arco
alimentati con rottame, che viene fuso. Al rottame fuso vengono poi aggiunti additivi
e ferroleghe per raggiungere le qualità richieste. Poi passa all'impianto di colata.
L'acciaio presenta una elevata resistenza meccanica ed elevata flessibilità. La
longevità dell'acciaio può essere compromessa da fenomeni di corrosione; oggi
tuttavia l'acciaio utilizzato per elementi strutturali subisce una serie di lavorazioni che
lo proteggono dall'eventuale corrosione.

I tipi di acciaio maggiormente utilizzati in edilizia sono: acciai da costruzione, acciai


patinabili e acciai inossidabili. Trova impiego nella produzione delle armature del
calcestruzzo armato e nella realizzazione di telai, ma anche per cancellate, balaustre,
cavi per tensostrutture, eccetera.
Ghise

Le ghise hanno un tenore di carbonio compreso tra il 2,5 e il 4% e contengono anche


silicio. Le ghise sono facilmente colabili, fondono con maggiore facilità rispetto agli
acciai e possono essere colate anche in forme complesse. Hanno però una modesta
resistenza meccanica e sono fragili: è per questo che non sono lavorate per
deformazione plastica.

Materiali metallici non ferrosi

Tra i materiali metallici non ferrosi, i più utilizzati in edilizia sono il rame e
l'alluminio (e le loro rispettive leghe) e il titanio.

Rame e leghe di rame

Il rivestimento della cupola del Tempio Maggiore Israelitico di Firenze è in rame. La tipica
colorazione verde, è dovuta alla naturale ossidazione del materiale.

Il rame è un materiale che presenta elevata conducibilità elettrica e termica, è


facilmente deformabile plasticamente, forma facilmente leghe con altri metalli, ha
una buona resistenza alla corrosione atmosferica e ha discrete caratteristiche
meccaniche. Il rame, e in generale le sue leghe, ovvero bronzi (rame-stagno) e ottoni
(rame-zinco), trova ampio utilizzo nell'impiantistica (cavi elettrici, tubazioni per
l'acqua, gas metano, combustibili liquidi, eccetera), nella produzione di maniglie e
pomelli, ma anche per le coperture (soprattutto per i rivestimenti delle cupole) o per
parti di esse (pluviali, grondaie, doccioni, grembiuli e converse). Esistono poi i
cuproallumini, che sono leghe rame-alluminio (con tenore di alluminio fino al 13%)
che hanno elevata resistenza alla corrosione in acqua di mare.
Alluminio e leghe di alluminio

L'alluminio e le sue leghe sono caratterizzati da una bassa densità (più o meno un
terzo di quella degli acciai. Inoltre, l'alluminio è un materiale estremamente leggero e
resistente alla corrosione in ambienti neutri (in assenza di cloruri). Ha elevata
conducibilità elettrica (di poco inferiore a quella del rame) e una buona duttilità. Per
migliorare le proprietà meccaniche, le leghe di alluminio possono essere sottoposte a
trattamenti termici specifici oppure a incrudimento.

Nell'edilizia si sfrutta la combinazione di buona resistenza alla corrosione, bassa


densità e facilità di lavorazione: le applicazioni principali delle leghe di alluminio
riguardano la realizzazione di serramenti e facciate continue.

Titanio

Il titanio non è un elemento raro (è più diffuso, per esempio, del rame e dello zinco);
tuttavia è un materiale molto costoso. Ha un elevato punto di fusione (1660 °C), un
basso coefficiente di dilatazione termica, non è magnetico, non infragilisce a basse
temperature, è ipoallergenico, leggero e inossidabile. Si può produrre in getti, è
forgiabile, lo si può saldare e lavorare con macchine utensili. Per applicazioni
architettoniche, solitamente si ricorre al titanio nella sua colorazione naturale, simile,
a prima vista, a quella dell'acciaio inossidabile. In questo caso, la superficie del
metallo dà riflessi colorati con tonalità che cambiano al variare dell'angolo di
osservazione e del tipo di illuminazione. Un tipico esempio di utilizzo di questo
materiale è il Guggenheim Museum di Bilbao, opera di Frank O. Gehry
completamente rivestita in titanio.

Il Guggenheim Museum di Bilbao, rivestito interamente in titanio.


Piombo

Il piombo viene usato nell'edilizia, nella produzione di batterie per autotrazione e di


proiettili per armi da fuoco e, allo stato liquido, come refrigerante nei reattori
nucleari, a volte in lega eutettica con il bismuto. Il piombo è un componente del
peltro e di leghe metalliche usate per la saldatura.

Oro

Esistono rari casi, in edilizia, di utilizzo dell'oro. Un esempio dell'utilizzo di questo


metallo in architettura è la Cupola della Roccia che sovrasta la città di Gerusalemme.
Essa è esternamente rivestita di lamine d'oro, materiale molto duttile, riflettente e
ottimo conduttore elettrico e termico.

La Cupola della Roccia a Gerusalemme: è completamente rivestita d'oro.

Vetri

Il vetro è un materiale fragile, che trova impiego sotto forma di lastre nella
realizzazione degli infissi (finestre) o di facciate continue. Il vetro permette alla luce
di entrare negli ambienti interni, e al tempo stesso isola l'edificio dagli agenti
atmosferici (vento, neve, e pioggia). Può essere utilizzato anche a scopo decorativo,
realizzando ad esempio delle vetrate a mosaico (questa tecnica è stata spesso
utilizzata nelle chiese).

Le lastre di vetro possono essere assemblate in strati tra cui viene lasciata
un'intercapedine; si parla in questo caso di vetrocamera. L'utilizzo di vetrocamera
permette un buon isolamento termico e acustico. Esiste anche la possibilità di creare
dei "mattoni" in vetro. Si parla in questo caso di vetrocemento. È possibile realizzare
pareti divisorie in vetrocemento, che permettono il passaggio della luce mantenendo
allo stesso tempo una certa privacy.

Per porre rimedio alla fragilità del vetro, è possibile utilizzare alcuni accorgimenti. Si
possono così ottenere tre tipi di sicurezza:
• vetri armati (o retinati): sono quei vetri che vengono prodotti inserendo, in fase
di laminazione, quando il vetro è ancora fluido, una rete metallica che ha la
funzione di trattenere i frammenti in caso di urto;
• vetri temprati: sono quelli soggetti a trattamenti termici atti ad aumentarne la
resistenza all'urto. Quando si rompono, questi particolari vetri si frantumano in
piccoli frammenti con spigoli arrotondati;
• vetri stratificati: si ottengono interponendo tra due lastre di vetro, solitamente
temprate, un foglio di materiale plastico. Questi vetri sono usati soprattutto per
i parabrezza delle automobili (in molti paesi, tra cui l'Italia, sono obbligatori).

Il vetro può essere anche utilizzato come materiale per strutture portanti, in questo
caso si parla di vetro strutturale.

Materiali polimerici

I materiali polimerici (o "materie plastiche") sono materiali molto leggeri composti


da macromolecole. La maggior parte dei materiali polimerici oggi in commercio,
viene prodotta per via sintetica a partire da piccole molecole derivate dal petrolio
(polimeri sintetici). Solo una minima parte dei polimeri è derivata, invece, da
sostanze naturali attraverso trasformazioni chimiche (polimeri semisintetici). In
questa categoria di materiali rientrano:

• termoplastici (flessibili e resistenti a temperatura ambiente, ma rammolliscono


ad alte temperature);
• termoindurenti (più rigidi e resistenti ai termoplastici);
• gomme (possono subire grandi allungamenti per poi riprendere la forma
originale).

I materiali polimerici sono impiegati per realizzare tubazioni idrauliche, vasche e


tapparelle.

Polistirene

Il polistirene (o polistirolo) viene impiegato, in edilizia, principalmente nella


realizzazione dei cappotti. Esso è un buon isolante termico e allo stesso tempo è
economico e leggero.
Materiali compositi

I cosiddetti materiali compositi sono quei materiali costituiti da una miscela, naturale
o artificiale, di materiali diversi. Fanno parte di questa categoria anche il legno (che è
costituito infatti da cellulosa inserita in una matrice di lignina)[11] e alcuni materiali di
uso tradizionale (come i conglomerati cementizi), ma solitamente il termine di
"compositi" viene utilizzato in senso più stretto, per indicare una categoria di
materiali non naturali, che rispondono a tre requisiti:
• consistono di due o più materiali fisicamente distinti;
• questi materiali sono dispersi l'uno nell'altro in modo controllato;
• il materiale risultante presenta una combinazione di proprietà che non si può
ottenere nei singoli materiali componenti.

I materiali compositi possono essere distinti in:

• particellari: sono ottenuti aggiungendo particelle a una matrice polimerica,


metallica o ceramica con lo scopo di migliorare le caratteristiche elettriche,
termiche, magnetiche, di resistenza all'abrasione, all'usura o all'urto;
• rinforzati con fibre: sono i materiali compositi più diffusi; consentono di
ottenere elevate resistenze e rigidità specifiche (ovvero riferite al peso)
inserendo fibre resistenti e rigide, ma fragili, in una matrice polimerica, più
duttile
• strutturati: a questa categoria appartengono i compositi laminati e a nido d'ape.
LE FONDAZIONI

Le fondazioni hanno il compito di distribuire il peso dell’edificio sul terreno in modo


da evitare assestamenti che possano causare lesioni alla struttura sovrastante.
Solitamente queste vengono realizzate in calcestruzzo o più raramente in pietrame. Il
tipo di fondazioni (continua o puntiforme) e le loro dimensioni dipendono dalla
struttura sovrastante e dalle caratteristiche del terreno, in ogni caso devono essere
costruite ad una profondità tale da non essere raggiungibili dal gelo.
Nella bioedilizia si consiglia solitamente di ridurre al minimo l'uso del calcestruzzo in
quanto mantiene a lungo l'umidità, ha scarsa traspirabilità, elevata conducibilità ed è
facilmente aggredibile dagli agenti atmosferici, richiede, pertanto, complesse opere di
isolamento termoacustico e l'utilizzo di additivi chimici specifici di forte impatto
ambientale. Tuttavia, il calcestruzzo armato, per motivi normativi e pratici, è la
soluzione più consigliata per realizzare fondazioni. Si consiglia quindi l'utilizzo di
cemento puro, assicurandosi l'assenza di radioattività e che non contenga additivi
provenienti da scarti di altre lavorazioni industriali o prodotti chimici di sintesi.
Questi requisiti si trovano più facilmente nel cemento bianco che è quindi preferibile.

L’acqua che si accumula nella terra smossa attorno alla casa esercita una pressione
contro i muri ed i pavimenti, tende a risalire per capillarità nei muri e può
compromettere la struttura e il benessere ambientale all’interno. Per evitare la risalita
capillare è necessario prevedere un sistema di drenaggio perimetrale in grado di
raccogliere ed espellere l’acqua accumulata. Si tratta di riempire con un materiale
poco capillare (per esempio pietrisco di calcare) lo spazio tra il muro perimetrale ed il
terreno all’interno del quale si posano tubi drenanti forati con una pendenza di circa
1,5%. L’acqua superficiale percola facilmente fino ai tubi per essere convogliata e
allontanata oppure accumulata in cisterne apposite e utilizzata per la coltivazione del
giardino o dell’orto. Normalmente, i tubi di drenaggio sono realizzati in PVC perchè
economici, per la produzione di questo materiale a base petrolchimica vengono
emesse in ambiente enormi quantitativi di CO2 ed è inoltre un materiale difficilmente
riciclabile. In alternativa si possono utilizzare tubi in polietilene, in laterizio o in
cemento. I tubi in laterizio o cemento disponibili in commercio sono corti e meno
maneggevoli. La loro posa in opera risulta più complessa e il sistema di drenaggio
deve essere progettato con maggiore attenzione.
È buona regola inserire nelle fondazioni perimetrali un nastro d’acciaio che funga da
dispersore al quale possono essere collegate tutte le strutture metalliche degli
impianti e la rete elettrica. In questo modo si riduce l’intensità dei campi elettrici che
si formano in prossimità della rete e si deviano le correnti vaganti.

Scavi e rinterri

Per realizzare le fondazioni si esegue uno scavo di profondità idonea per contenere le
fondazioni stesse e lo scantinato se previsto. Il primo strato asportato (10-40 cm)
contiene terra fertile che può essere utilizzata a fine lavori per la sistemazione del
verde intorno all’edificio.
Per poter riutilizzare il terreno fertile asportato è necessario accumularlo, dove possa
non ingombrare ed evitando di mischiarlo con terra sterile, in cumuli non più alti di
1-2 m in modo che la pressione e la scarsa ventilazione non la rendano sterile. Nel
caso di accatastamento per periodi lunghi (oltre 3 mesi) è preferibile coprire la terra
con zolle erbose.

Anche il terreno sterile asportato può essere riutilizzato per la modellazione del
terreno e per la creazione di terrapieni antirumore, terrazzamenti ecc. E’ buona norma
prevedere il riutilizzo del materiale di riporto fin dalle prime fasi della progettazione,
ciò consente di razionalizzare il trasporto alla discarica ed è preferibile dal punto di
vista ambientale.
Gli scantinati e le altre parti interrate dell’edificio sono a contatto con il terreno e
quindi maggiormente esposti ad infiltrazioni d’acqua e di gas radon.
Le stesse tecniche di isolamento con membrane per la protezione dalle infiltrazioni di
umidità sono adatte anche per bloccare le infiltrazioni di radon. Per la protezione dal
radon tuttavia è necessario rafforzare le misure normalmente sufficienti per una
buona protezione contro le infiltrazioni di umidità: sigillare con cura le cuciture,
incollare o saldare le membrane senza lasciare fessure, sigillare accuratamente tutti i
punti di perforazione (elementi della costruzione, condutture ecc.). Le membrane in
polietilene hanno una buona tenuta stagna e insieme ad una buona ventilazione del
vespaio garantiscono un’adeguate protezione contro il gas che penetra gli ambienti
per infiltrazione.

In località in cui è presente un’elevata concentrazione di radon, il quale può penetrare


negli ambienti anche per diffusione attraverso gli elementi costruttivi, è consigliabile
realizzare una piastra di fondazioni in calcestruzzo (che è parzialmente impermeabile
al radon) e provvedere all’impermeabilizzazione con una guaina posata sul ripiano
dello scavo di fondazione e una volta costruita la cantina va tirata su lungo le pareti.
Le placche ed i condotti di drenaggio dovranno essere posti all’esterno di tale
membrana.

Fondazioni in pietrame

Le fondazioni in pietrame sono il sistema più antico utilizzato per creare la base per
la struttura di un edificio indicato soprattutto in legno o in terra cruda.
Il pietrame distribuisce uniformemente i carichi della struttura costituendo una
barriera per la risalita capillare dell’umidità dal terreno.
È preferibile utilizzare pietra locale, ma alcuni tipi di pietrame possono emettere gas
radioattivi (tufo, pozzolana) o radon (granito) ed è consigliabile eseguire dei controlli
su un campione di materiale prima di utilizzarlo.
Informazioni tecnico-descrittive

Le fondazioni possono essere realizzate in due modalità:


1. con muratura di pietrame poggiate direttamente nello scavo
2. a sacco con scapoli di pietra mescolati con cemento

La grande quantità di scarto di lavorazione della pietra può essere in parte riutilizzata
per piastrelle e graniglia.

Informazioni sulle prestazioni


Il pietrame è il collegamento naturale tra l’edificio e il terreno. Distribuendo i carichi
sul terreno, evita le lesioni alle pareti perimetrali dovuti ad eventuali assestamenti;
contrasta in modo efficacie la risalita capillare e funge da plinto per i pilastri in legno.

Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione

La posa in opera consiste nell’eseguire lo scavo a partire dal piano di sbancamento


per accogliere la muratura in pietrame. Quest’ultima riempie lo scavo fino al piano
dello sbancamento ed i muri dell’edificio poggiano direttamente su di essa.

Solaio rialzato con cupole in plastica rigenerata

Per la creazione dell’intercapedine sotto il solaio possono essere impiegate cupole in


plastica riciclata disponibili in commercio in diverse dimensioni. Questi elementi
sono sagomati in modo da essere facilmente collegati tra loro per formare una
struttura autoportante puntiforme e ricevere il getto (in c.l.s. o altro) che costituisce la
soletta. Sotto le cupolette si crea un vano libero che consente la circolazione d’aria in
tutte le direzioni e il passaggio delle tubazioni degli impianti, le condotte e i cavi.

Gli elementi a cupola sono realizzati in plastica riciclata e riciclabile e costituiscono


un alternativo cassero a perdere in grado di contribuire al fonoisolamento e
all’impermeabilizzazione del solaio.

Informazioni tecnico-descrittive

Le cupole di plastica (normalmente di dimensioni 50X50 cm) sono disponibili in


diverse altezze (da 12 a 80 cm) da scegliere a seconda dell’entità del rialzo
desiderato. Le case produttrici offrono elementi predisposti per essere collegati
ermeticamente tra loro, modellati con nervature di irrigidimento diagonali e
scanalature incrociate per contenere i ferri dell’armatura. La superficie inferiore
diseguale e i pilastrini rastremati verso il basso spezzano le vibrazioni sonore per
evitare un’eventuale effetto di cassa di risonanza che si può creare all’interno
dell’intercapedine.

Informazioni sulle prestazioni

Le cupole in plastica riciclata costituiscono un prodotto a basso impatto ambientale


resistente e duraturo. Possono essere impiegate in ambienti con un alto tasso di
umidità specialmente se modellati con incastro ermetico. Rendono la realizzazione
del solaio estremamente semplice e veloce garantendo un’intercapedine aerata idonea
per il passaggio delle tubazioni.

Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione

Per la posa in opera:


1. creare un piano di base in magrone, cemento e ghiaia, livellandolo il più possibile.
2. posare tutte le eventuali tubature per gli impianti avendo cura che i fori di
aerazione restino liberi;
3. posizionare le cupole di plastica e verificare il loro corretto aggancio prima di
procedere con il getto;
4. effettuare il getto del solaio in calcestruzzo;
5. completare il solaio con il massetto e il pavimento.

Esempi di posa in opera

Murature perimetrali

I muri perimetrali assolvere funzione portante o solo di tamponamento., ma devono


comunque proteggere acusticamente e termicamente l’interno dell’edificio.
Le murature, così come tutte le grandi superfici, hanno una grossa responsabilità nel
determinare le condizioni climatiche interne e quindi il benessere abitativo.
Esse devono avere:
• capacita igrometriche: la capacità di assorbire, temporaneamente, l’umidità in
eccesso dell’aria e di restituirla all’aria quando questa lo necessiti. Questa capacità è
posseduta dai materiali porosi come il laterizio e il legno e l’intonaco realizzato con
calce.
• inerzia termica: la capacità di assumere calore e mantenerlo a lungo, regolando
quindi la temperatura interna sia d’estate che d’inverno.
• capacità termoisolante: solitamente i materiali per murature possiedono una
conduttività termica troppo elevata per poter conferire ala muro una buona capacità
isolante. Si utilizzano a questo scopo laterizi porizzati e strati di materiali con una
bassa conduttività termica.
• capacità fonoisolante: la massima capacità di abbattimento acustico è propria dei
muri pesanti. Perciò le murature leggere (in laterizio forato o in legno) devono essere
composte da diversi strati ognuno dei quali contribuisce all’abbattimento del suono.

Bisogna inoltre realizzare accuratamente tutti i punti di discontinuità della muratura


(porte e finestre, giunti, fessure) che sotto punti deboli sotto il profilo acustico.

Tipologie
I muri perimetrali possono essere omogenei o stratificati, portanti e solo di
tamponamento.

Muri in blocchi di laterizio

Muratura massiccia in laterizio porizzato

La muratura massiccia in laterizio porizzato è un sistema per la costruzione di


murature che risponde all'esigenza di migliorare il livello delle prestazioni termiche
senza ridurre quello della statica, acustica e resistenza al fuoco, attraverso
l’alleggerimento dell’impasto cotto dei blocchi mediante macropori sferici, da cui la
denominazione "porizzato". La muratura può assolvere ala funzione portante e/o di
tamponamento. Per assolvere alla funzione portante lo spessore deve essere almeno
di 25 cm. I blocchi costituenti la muratura sono in pasta a fori verticali posati su letti
di malta cementizia.
Le materie prime utilizzate nella realizzazione dei blocchi in laterizio alleggeriti in
pasta non presentano, al termine del ciclo produttivo e in condizioni di permanenza in
opera, particolari rischi per la salubrità degli ambienti interni. Come per i laterizi
tradizionali, il contenuto radioattivo, per quanto variabile, risulta essere
tendenzialmente contenuto, mentre altre impurità possono essere costituite da ossidi
di ferro, residui oleosi oppure essere associate alla qualità del combustibile utilizzato
nei processi di cottura.

Informazioni tecnico-descrittive

Rispetto alla produzione di laterizi di tipo tradizionale il processo produttivo dei


blocchi di laterizio porizzato (o alveolato) prevede l’aggiunta all’argilla cruda di una
determinata quantità di materiali combustibili di varia natura (quali perle di
polistirene espanso, segatura di legno, sansa di olive) che durante la cottura lasciano
cavità vuote (alveoli), tra loro non comunicanti, che alleggeriscono il manufatto e ne
migliorano le prestazioni termocoibenti. Le proprietà termocoibenti dipendono, oltre
che dal tipo di materiale anche dallo spessore della muratura.
Un contributo alla capacità di isolamento dei blocchi può essere dato anche dal
disegno della foratura, che, presentando un elevato numero di file di fori molto stretti
nella direzione perpendicolare alla direzione del flusso termico, impedisce moti
convettivi dell’aria all’interno del blocco o della muratura. Il potere fonoisolante
della muratura è alto per il maggior peso del blocco in laterizio termoisolante.
In alternativa vengono miscelate anche sostanze inorganiche quali la perlite espansa,
nel qual caso non si hanno più alveoli, ma inclusione di materiali leggeri
Le murature realizzate con blocchi in laterizio alveolato conservano le buone
caratteristiche di permeabilità al passaggio del vapore acqueo dei laterizi tradizionali,
nei confronti dei quali presentano inoltre un vantaggio dato dalla migliore resistenza
termica (con ricadute positive sul controllo dell’umidità di condensa e quindi della
proliferazione di inquinanti di natura biologica). In caso di incendio la natura del
materiale in sé non dà luogo a esalazioni potenzialmente pericolose.

Il laterizio oltre ad essere facilmente reperibile in natura, mantiene le sue


caratteristiche prestazionali sempre elevate nel tempo. E’ facilmente recuperabile o
riciclabile; una buona applicazione per intonaci e pavimenti è, ad esempio, il
cocciopesto realizzato con argilla cotta frantumata.
Muri in blocchi di laterizio

Pareti con isolamento termico esterno con


pannelli di fibre di legno mineralizzate

Il sistema di isolamento termico dall’esterno ad intonaco sottile, (detto anche sistema


a cappotto), consiste nell’applicazione, sull’intera superficie esterna verticale
dell’edificio, di pannelli isolanti che vengono poi coperti da uno spessore sottile,
protettivo, di finitura realizzato con particolari intonaci.
Si tratta di un sistema di isolamento che ha preso piede in Europa negli ultimi 30
anni.
La coibentazione dall'esterno non altera i volumi interni degli ambienti e diminuisce
l'effetto dei "ponti termici" (per esempio, causati da travi o pilastri su muri esposti a
nord) evitando così il formarsi di muffe da condensa del vapore.
E’ una soluzione particolarmente indicata nel caso di ripristino di superfici verticali,
il cui rivestimento sia in fase di avanzato degrado, ma anche per interventi exnovo.
Per ottenere un sistema a cappotto efficace, bisogna prestare la massima attenzione
alle caratteristiche dei singoli componenti, in particolare del materiale isolante. La
coibentazione risulta economicamente conveniente e rallenta il naturale processo di
degrado degli edifici.

Informazioni tecnico-descrittive

La coibentazione può essere realizzata incollando e/o fissando con tasselli lastre
d'isolante, senza rimuovere il vecchio intonaco, oppure aggiungendo uno strato (3 - 5
cm) d'intonaco isolante, operazione che riduce le oscillazioni di temperatura
accrescendo anche la capacità termica dell'edificio.
Molto adatti ad essere intonacati sono i pannelli in trucioli di legno mineralizzati,
ancorati a secco, in quanto costituiscono un eccellente supporto per l’intonaco.
L’ancoraggio a secco è preferibile per evitare che l’applicazione degli stessi con colle
sintetiche, successivamente coperti con intonaco aggrappato su rete di armatura, e
rivestito da uno strato di finitura, impedisca alla superficie muraria di traspirare.
Questa soluzione è possibile se si dispone di materiali isolanti aventi ottime
caratteristiche meccaniche e tecniche per resistere agli agenti atmosferici e per
consentire una posa adeguata.

Informazioni sulle prestazioni

I vantaggi principali dell’isolamento esterno sono:


- isolamento continuo e uniforme, che consente l’eliminazione totale dei “ponti
termici” ovvero quei punti che favoriscono la dispersione del calore. Si possono così
conseguire un maggiore risparmio energetico (legato anche alla maggiore capacità
dell’edificio di trattenere il calore), un maggiore comfort termico e l’eliminazione di
muffe sulle superfici interne delle abitazioni, originate dalla condensa in
corrispondenza dei ponti termici;
- protezione delle pareti esterne dagli agenti atmosferici;
- stabilità delle condizioni termo-igrometriche della struttura degli edifici;
- riduzione dello spessore delle pareti perimetrali con il conseguente aumento delle
aree abitative.

Nel caso di interventi di ripristino, il sistema comporta una serie di vantaggi non
indifferenti, dal lato organizzativo e del risparmio:

- non richiede l’allontanamento degli inquilini durante l’esecuzione dei lavori;


- rallenta il processo di degrado degli edifici offrendo una protezione totale;
- risolve il problema delle crepe e delle infiltrazioni di acqua meteorica;
- permette la realizzazione, in un’unica fase, dell’isolamento e della finitura con
evidenti
risparmi.

Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione

La superficie da coibentare deve essere esente da polvere e/o sporco. Eventuali tracce
di oli, grassi, cere, ecc. devono essere rimosse preventivamente.
Per quanto riguarda le operazioni di fissaggio possono essere utilizzati collanti di
diversa natura, sistemi a base di adesivi cementiti oppure elementi di fissaggio
meccanico. I sistemi di ancoraggio a secco risultano sempre preferibili dal momento
che non comportano alcun contributo in termini di potenziale emissione di inquinanti,
cosa che diviene invece possibile in funzione del tipo di adesivo utilizzato. I tasselli
di ancoraggio sono costituiti da un disco e da una gamba: il disco ha lo scopo di
pressare per punzonamento, l’isolante contro il supporto.
Ogni tassello viene inserito in vicinanza degli angoli dei singoli pannelli, quattro per
ogni pannello.

I pannelli in fibra di legno mineralizzata non richiedono, in normali condizioni


applicative, particolari interventi di manutenzione. I principali rischi possono essere
associati, durante le operazioni di rimozione, alla dispersione in ambiente di
particelle respirabili. Solitamente la posa del cappotto è effettuata a circa 2 m sopra il
piano di calpestio per evitare danni da urti.

Pareti in legno
Pareti in legno massiccio esterne

La costruzione di case con pareti in legno massiccio, come il “blockbau” o il


“fachwerk”, riprende una tradizione edilizia diffusa in Europa, soprattutto nelle
regioni alpine e nei paesi nordici.
Queste tipologie, sia per stretti motivi di manutenzione conservativa che per nuove
esigenze costruttive, hanno subito notevoli migliorie tecniche, soprattutto in rapporto
al problema del ritiro del legno in opera e le sue indesiderabili conseguenze (crepe
nell’intonaco, fenditure, ecc.).
Il sistema prevede essenzialmente l’impiego di tronchetti in legno massiccio o
lamellare di varie essenze e dimensioni, squadrati o stondati, con doppia o tripla
lavorazione a maschio e femmina, i quali vengono sovrapposti verticalmente tra loro
fino a formare la parete divisoria o portante.
Tali sistemi sono stati adottati dalla produzione industriale di case prefabbricate,
disponibili in varie dimensioni standardizzate. Il legno in quanto materiale naturale,
compatto ed omogeneo, riesce a fornire prestazioni elevate di isolamento termico ed
acustico, oltre a saper regolare l’umidità interna dei locali portando il comfort ad alti
livelli.

Il legno è un materiale ecologico non solo perchè è una materia prima rinnovabile,
ma anche perchè produce residui di lavorazioni degradabili o riutilizzabili, ma anche
e soprattutto perchè il suo utilizzo dalla foresta alla fabbrica al cantiere, richiede un
impiego di energia di gran lunga inferiore rispetto a tutti gli altri materiali impiegati
nelle costruzioni, da qui ne deriva un minor inquinamento.

Informazioni tecnico-descrittive

Le pareti di queste case sono composte da tronchi d’albero (normalmente abete


rosso), squadrati o lasciati leggermente tondi i quali,opportunamente ammorsati nelle
tre direzioni spaziali, rendono la struttura staticamente efficiente, specialmente nei
confronti delle azioni orizzontali come quelle esercitate dal vento e dal sisma.
Questi elementi, opportunamente scanalati, vengono montati l’uno sull’altro e, agli
angoli, uniti ad incastro. Lo spessore delle pareti varia da 6 a 20 cm. Quelle con
spessori inferiori a 14/16 cm sono troppo leggere per soddisfare i requisiti
termoacustici richiesti per una normale abitazione e richiedono un ulteriore
rivestimento.
Gli elementi strutturali in legno massello sono completamente riutilizzabli o
riciclabili in nuove strutture.

Pareti in legno massiccio esterne con isolamento interno

Il rivestimento di una parete in legno massiccio consiste normalmente in uno strato di


materiale termoisolante e un tavolato in legno. Inoltre conviene l’inserimento di una
barriera al vento(carta kraft). I materiali termoisolanti più adatti sono i pannelli teneri
in fibre di legno, i materassini in fibra di cocco e i pannelli in trucioli di legno
mineralizzati.
Il principale inconveniente di queste pareti, con o senza isolamento, consiste nel ritiro
del legno massiccio. Il ritiro in asse perpendicolare alle fibre è molto più elevato
rispetto a quello in asse del tronco, infatti, il ritiro di un elemento orizzontale
dell’altezza di 20cm è di 2-3 mm, il ritiro dei pilastri è invece molto inferiore, cioè 2-
3mm su una lunghezza di 3 m. Di questo ritiro si deve tenere conto nella costruzione
di porte, finestre, scale, canne fumarie ed installazioni. Sopra le finestre e le porte
deve rimanere un adeguato spazio, riempito con fibre di cocco o con un altro
materiale fibroso, per consentire l’assestamento, altrimenti le pareti non risultano più
a camera d’aria.

Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione

Rispetto alla posa in opera grande attenzione si dovrà prestare ai particolari


costruttivi dei bagni e degli altri locali umidi dove i blocchetti dovranno essere
opportunatamente isolati distaccati dal terreno tramite un massetto dimensionato.
È consigliabile evitare il montaggio con collanti e la sigillatura degli interstizi con
schiume, resine, mastici e siliconi. Nel caso di rivestimento delle pareti interne con
materiale isolante o di protezione nei confronti dell’umidità (barriera al vapore) si
dovrà prestare attenzione al possibile effetto di “incapsulamento” dell’ambiente
confinato. Tale effetto comporta che le sostanze inquinanti eventualmente presenti
nell’aria interna non possono traspirare verso l’esterno attraverso le pareti, mentre
l’effetto di assorbimento e depurazione dell’aria può essere svolto esclusivamente
dallo strato di finitura interna superficiale (perline, pannelli).

Per la protezione al fuoco il rivestimento interno con gesso offre garanzie molto
superiori ai trattamenti ignifuganti con prodotti chimici, anche se non permette di
mantenere il legno a vista. È bene limitare il più possibile la manutenzione con
vernici poliuretaniche o epossidiche in interni in quanto producono forti e prolungate
emissioni inquinanti.

Da evitare anche il trattamento periodico in ambienti confinati con conservanti e


coloranti a impregnazione: essi non formano un film protettivo superficiale e possono
rilasciare in modo continuato inquinanti nell’ambiente.
La tecnica di assemblaggio a secco permette di velocizzare i tempi di cantiere e
minimizza i rischi di impatto sulla qualità dell’aria interna.
Pareti in terra cruda

Muri in terra cruda leggera (pisè)

La terra cruda è il materiale da costruzione utilizzato in tutto il mondo sin


dall'antichità. Può essere impiegata per murature, tamponamenti, tetti, solai, intonaci.
Può essere formata in blocchi, eventualmente essiccati al sole, impastata e modellata
con le mani, tenuta in forma con l'ausilio di casseri, impastata insieme con qualsiasi
fibra naturale: paglia, legno, trucioli, sughero, fibre vegetali , ecc..

In tutta Europa si trovano edifici in terra, e, contrariamente a quanto si può pensare,


soprattutto in paesi del nord e del centro Europa. Quindi paesi molto piovosi e molto
freddi, contano tradizioni costruttive in terra piuttosto rilevanti, come anche in paesi
molto caldi e desertici. In Italia si è costruito in terra fino agli anni '60/'70; case in
terra sono sparse su tutto il territorio nazionale, a partire dai Casoni veneti, fino alle
case in pisè del Piemonte, attraverso la Toscana, le Marche, la Basilicata, la Calabria
e la Sardegna: ogni regione sviluppando un particolare caratteristica costruttiva.
Vi sono diverse tecniche costruttive che si possono utilizzare; in tutto il mondo ne
sono state classificate ben 18. Il Pisè è una tra le tecniche costruttive per la
lavorazione della terra, consente la edificazione di muri monolitici e consiste nel
costipare, con l'aiuto di un "piseur", della terra leggermente umida, all'interno di
casseformi; era una tecnica molto diffusa nell’architettura rurale dell’ottocento.

Tale tecnica non richiede energia né macchine per la lavorazione, riduce le spese di
trasporto e consumo di materie prime non rinnovabili, è adatta per l'auto-costruzione.

Informazioni tecnico-descrittive

Per la tecnica del Pisè, utilizzata per murature portanti e non, si usa una terra
piuttosto magra (sabbiosa) e poco umida. Alle terre troppo grasse viene aggiunta
sabbia per ottenere una granulometria più adatta e per evitarne la fessurazione
durante il processo di essiccazione. I lavori cominciano con l’estrazione della terra
argillosa, sempre reperibile direttamente sull’area di costruzione, e la sua stagionatura
durante la quale le zolle si sbriciolano. Il materiale accumulato deve conservare la sua
plasticità e quindi conviene coprirlo con teli bagnati per evitare l’essiccazione e per
proteggerlo contro le piogge. Per renderla meglio lavorabile, la terra viene impastata
ed è pronta all’uso quando tutti i suoi componenti sono ben amalgamati e l’impasto
diventa plasmabile. Il materiale viene inserito nelle casseforme in strati di 5-12 cm e
battuto (a mano o con l’ausilio di una macchina) fino ad arrivare a strati alti di circa
80 cm (si possono costruire tre strati al giorno). Agli angoli, gli strati vengono uniti
per dentatura; lo spessore minimo dei muri portanti è di 50 cm. Le aperture delle
finestre e delle porte si ottengono tramite apposite controintelaiature, le architravi
sono da rinforzare con listelli di legno. La tecnica consente la costruzione di edifici
alti fino a due o tre piani. E’ buona regola erigere i muri in terra cruda su uno zoccolo
di pietra e proteggerli contro l’umidità ascendente; i muri esterni devono essere
protetti da un intonaco contro la pioggia.

Le principali caratteristiche riconosciute alla terra cruda sono:

- la reperibilità del materiale;


- la lavorabilità;
- il livello di risparmio energetico nella sua elaborazione;
- l’alto livello di isolamento termico e acustico;
- la facilità di dismissione e di riciclo dei materiali alla fine della vita utile
dell’edificio;
- la capacità di regolare il livello di umidità all’interno degli ambienti;
- la facilità di apprendimento delle tecniche costruttive da parte di chiunque.

Le principali controindicazioni imputate sono legate, ad esempio, allo spessore dei


muri, che riduce sensibilmente la metratura utile degli edifici, aspetto non
trascurabile nelle aree urbane, oppure alla necessaria protezione dei muri dalla
pioggia e dall’umidità proveniente dal terreno.
Muri in pietrame

I muri in pietrame rappresentano la prima categoria di murature con elementi naturali


previste oggi dalle Norme D.M. 20/11/ 1987 che distinguono:

1) muratura di pietra non squadrata;


2) muratura di pietra listata;
3) muratura di pietra squadrata.

Il primo tipo di muratura (pietra non squadrata) è quella realizzata con materiale di
cava lavorato solo grossolanamente, posto in opera in strati sufficientemente regolari.
Agli incroci dei muri ed agli angoli vanno posti elementi lapidei più regolari e meglio
squadrati.
Lo spessore minimo delle murature in pietrame irregolare sono le più penalizzate
dalle norme dato che lo spessore minimo deve essere di 50 cm, spessore che
diminuisce a 40 cm per le murature in pietrame e listatura in conglomerato
cementizio semplice o armato e a 24 cm per le murature a conci lapidei squadrati.

Informazioni tecnico-descrittive

Le rocce possono essere raggruppate in tre categorie ben distinte a seconda della loro
genesi:
• rocce ignee o magmatiche quali graniti, porfidi, basalti, tufi vulcanici, ecc.

• rocce sedimentarie a loro volta classificate in:

rocce clastiche o detritiche: arenarie, argille, marne, ecc.

rocce organogene: come calcari e dolomie

rocce di origine chimica: come travertini, gessi, caolini

• rocce metamorfiche derivate dalla trasformazione di altre rocce (ignee o


sedimentarie) che originano marmi e gneiss.

I muri in pietrame vanno costruiti selezionando rocce con caratteristiche idonee, data
l’estrema variabilità delle rocce stesse.
Le pietre vive utilizzabili per questo tipo di muratura provengono dal gruppo delle
rocce sedimentarie e metamorfiche. Risultano infatti essere meno adatte le rocce
ignee perché dure fragili perché dure e fragili, ma soprattutto per la modesta capacità
di legarsi alle malte.

La struttura muraria in pietra viva, come qualsiasi altro tipo di muratura, va difesa
dall’umidità capillare ed esterna (per rendere più semplice la scelta del tipo di pietra
viva è bene determinare la sua resistenza agli agenti atmosferici e il mantenimento
del suo colore originario).

Gli elementi lapidei costituenti la muratura devono soddisfare i seguenti requisiti:

- provenire di norma da abbattimenti di rocce;


- essere resistenti al gelo;
- non contenere sostanze in soluzione o residui organici;
- non presentare parti alterate o facilmente rimovibili;
- avere sufficiente resistenza sia all’acqua che al secco;
- avere buona adesività alle malte.

Il riuso di elementi lapidei provenienti da vecchie murature è subordinato ai requisiti


sopra indicati ed alla pulitura e lavaggio delle superfici.

Osservazioni ambientali e precauzioni

Le condizioni di rischio per la salute dovute all’impiego di pietre naturali per la


realizzazione di murature sono sostanzialmente associate al potenziale contenuto
radioattivo d’ origine; è questo il caso, ad esempio, del tufo di origine vulcanica, il
cui uso è vietato per la possibile emissione di radon mentre il tufo marino e
sedimentario non mostra segni di radioattività.
Ulteriore elemento da valutare è dato dal potenziale di rilascio di polveri a seguito di
usura nel caso che la muratura sia lasciata a vista. In caso di incendio la natura del
materiale in sé non dà luogo a esalazioni potenzialmente pericolose.
L’utilizzo di pietre naturali per la realizzazione di murature portanti non comporta un
costo energetico elevato per le fasi di prima lavorazione del materiale. Da valutare
tuttavia, in relazione al luogo di provenienza del materiale, l’incidenza delle fasi di
trasporto e movimentazione. Il materiale al termine della vita utile si presta a essere
reimpiegato in modo diretto o frantumato.

Informazioni sulle prestazioni

I muri in pietra viva hanno una capacità isolante ridotta: i locali risultano o troppo
caldi d’estate o troppo freddi d’inverno. Anche laddove la pietra è resistente agli
agenti atmosferici (pregio non accomunabile a tutti i tipi di pietra), potrebbe assorbire
facilmente l’umidità e creare seri problemi legati alla possibile gelività del materiale.
Volendo comunque mantenere le peculiarità estetiche del muro in pietra, per ovviare
al rischio della presenza di umidità, un tempo si costruivano i muri con mattoni verso
l’interno, raddoppiandoli poi in pietra, nella parte esterna, assicurando così un
miglioramento prestazionale della struttura.

Coperture
Tetto ventilato in legno con tavolato e isolamento termico

Questo tipo di copertura, coibentato all’esterno, è detta “tetto caldo” in quanto la sua
struttura rimane in zona temperata in inverno.
La quantità di materiale isolante impiegato nella realizzazione di questi tetti è
relativamente elevata, ma la struttura portante risulta meno soggetta ai danni che
possono recarle le elevate escursioni termiche.
La ventilazione si ottiene normalmente tramite una doppia listellatura sulla quale si
posano le tegole, oppure tramite l’uso di pannelli termoisolanti preformati dotati di
distanziatori per la posa delle tegole.
Il movimento d’aria è direttamente proporzionale alla temperatura esterna, alla
pendenza della falda e allo spessore dell’intercapedine di ventilazione.

Informazioni tecnico-descrittive

Le travi e il tavolato di legno, inchiodato o avvitato su di esse, rimangono a vista e


sono piallati. L’isolamento termico viene steso direttamente sul tavolato di legno.
Sono diversi i materiali isolanti che possono essere utilizzati come pannelli in
sughero o pannelli di canna. Questi isolanti di origine vegetale sono buoni isolanti
termici e sono in grado di incrementare la capacità fonoisolante della copertura. Sono
resistenti all’acqua e traspiranti al vapore, leggeri e facili da maneggiare. Il sughero
ha anche la qualità di essere resistente al fuoco ed in caso di incendio si autoestingue,
non cola e non produce gas tossici.
Il telo di polietilene o polipropilene realizzato in filato di fibre sottilissime conferisce
allo strato isolante la protezione necessaria in sostituzione al PVC.
La rigidezza del tetto può essere aumentata con un doppio tavolato uno dei quali
messo in diagonale.

Informazioni sulle prestazioni

Questo tipo di costruzione garantisce buone prestazioni termiche che nascono dalla
combinazione di coibentazione e aerazione, ma allo stesso tempo risulta carente il
suo potere fonoisolante in quanto costituito da una struttura molto leggera.

Informazioni sulla posa in opera e sulla manutenzione

La realizzazione della copertura procede in questo ordine:

1. posa e fissaggio del tavolato in legno sulla struttura portante;


2. posa del materiale isolante, compreso di telo protettivo, sul tavolato di legno;
3. posa della prima listellatura ortogonalmente alla linea di gronda per la creazione
dell’intercapedine di ventilazione e adeguatamente fissata alla struttura sottostante
per il contenimento dello strato isolante;
4. posa della seconda listellatura parallelamente alla linea di gronda per accogliere gli
elementi del manto di copertura;
5. posa dell’elemento parapasseri sulla linea di gronda per evitare l’ingresso di insetti,
roditori o piccoli volatili;
6. realizzazione delle grondaie. Durante la posa della grondaia è necessario prestare
attenzione affinchè non ostruisca l’apertura dell’intercapedine di ventilazione
ostacolando cosi il deflusso dell’aria;
7. realizzazione del manto di copertura in coppi.

Tetto ventilato in legno con isolamento termico intermedio


In questa tipologia di tetto ventilato il materiale isolante è contenuto
nell’intercapedine, ottenuto tra il tavolato superiore in legno grezzo che sostiene la
listellatura per le tegole e un secondo tavolato piallato posato su listelli montati ai lati
delle travi.
Si creano così due zone di aerazione; la prima sottotegola, creata tramite la doppia
listellatura come nel caso precedente, ed una aggiuntiva tra il tavolato superiore e
l’isolante.

Informazioni tecnico-descrittive

Lo strato isolante può essere realizzato con uno strato di fiocchi di cellulosa oppure
tramite materassini in fibra di cocco o di cotone. Questi materiali sono buoni
termoisolanti e possono svolgere un ruolo importante nella regolazione dell’umidità
assorbendola e rilasciandola per equilibrare le condizioni igrometriche nell’ambiente.
Essi offrono buone capacità fonoisolanti (nella fattispecie il cocco) ma non sono
resistenti all’acqua e necessitano un telo impermeabilizzante protettivo. Per
incrementare la loro scarsa resistenza al fuoco (classe B1 per la cellulosa e B2 per il
cocco) questi isolanti devono essere trattati con sali borici.

Tra l’isolamento termico e il tavolato in legno viene posto uno strato di membrana
antipolvere traspirante (carta Kraft) che funge da barriera al vento e da freno al
vapore e impedisce la fuoriuscita di polvere e di fibra.
La membrana non risulta impermeabile all’acqua. È necessario pertanto posizionare
uno strato impermeabilizzante sotto il manto di copertura. Le superfici in legno che
rimangono a vista vengono piallate.

Informazioni sulle prestazioni

La ventilazione aggiuntiva tra il tavolato di chiusura e lo strato isolante, oltre a


collaborare con quella sottotegola, svolge un’azione particolare in rapporto alle
diverse condizioni climatiche.
In estate l’aria si riscalda per l’effetto dell’irraggiamento solare e crea una corrente
ascensionale che sfiata dalle aperture apposite sulla linea di colmo, richiamando aria
più fresca dalle aperture di gronda. In questo modo il soffitto mantiene una
temperatura uguale o di poco superiore a quella esterna. In inverno, la camera di
ventilazione costituisce un efficace intercapedine tra interno ed esterno mantenendo il
materiale isolante arieggiato e asciutto evitando cosi la formazione di condense,
gocciolamenti e muffe.
FABBRICATO RURALE

I fabbricati per essere considerati rurali devono soddisfare contemporaneamente le


seguenti condizioni:

• il fabbricato deve essere posseduto dal titolare del diritto di proprietà o di altro
diritto reale sul terreno, ovvero dall'affittuario, o dal soggetto che conduce il terreno
cui l'immobile è asservito o dai familiari conviventi a loro carico o da soggetti titolari
di trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura;

• l'immobile deve essere utilizzato quale abitazione dai soggetti di cui sopra sulla
base di un titolo idoneo ovvero da dipendenti esercitanti attività agricole nell'azienda

• il terreno cui il fabbricato si riferisce deve essere situato nello stesso Comune o in
Comuni confinanti e deve avere una superficie non inferiore a 10.000 mq. Se sul
terreno sono praticate colture intensive ovvero il terreno è ubicato in comune
considerato montano, la superficie del terreno deve essere almeno di 3.000 mq;

• il volume d'affari da attività agricole del soggetto deve essere superiore alla metà
del suo reddito complessivo, determinato senza far confluire i trattamenti
pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura.
Se il terreno è ubicato in comune considerato montano, tale volume di affari deve
risultare superiore ad 1/4 del reddito complessivo;

• il volume d'affari dei soggetti che non presentano la dichiarazione IVA si presume
pari al limite massimo previsto per l'esonero dall'obbligo di presentazione della
dichiarazione. Tale requisito è riferito al soggetto che conduce il fondo e che può
essere diverso da quello che utilizza l'immobile ad uso abitativo;

In caso di unità immobiliari utilizzate congiuntamente da più persone, i requisiti


devono essere posseduti da almeno una di esse. Se sul terreno esistono più unità
immobiliari ad uso abitativo i requisiti di ruralità devono essere soddisfatti
distintamente per ciascuna di esse.

Nel caso che più unità abitative siano utilizzate da più persone dello stesso nucleo
familiare, è necessario che sia rispettato anche il limite massimo di cinque vani
catastali o di 80 mq per un abitante e di un vano catastale o di 20 mq per ogni
abitante oltre il primo. Le costruzioni non utilizzate, che hanno i requisiti per essere
considerate rurali, non si considerano produttive di reddito di fabbricati.
LA RURALITA’

Fino al 1993, secondo la normativa fiscale italiana, i fabbricati rurali venivano


considerati pertinenze del fondo agricolo essendo strumentali allo svolgimento delle
attività di coltivazione e allevamento; non erano, quindi, in grado di generare reddito
proprio né potevano essere oggetto di tassazione.
Lo sviluppo economico accompagnato da un susseguirsi di novelle in ordine
all’accatastamento dei fabbricati rurali ha portato radicali cambiamenti. In
particolare, la situazione è variata nel momento in cui, “complice” l’ICI, i fabbricati
sono divenuti oggetto di imposizione fiscale autonoma. Nonostante quanto sopra,
oggi, pur essendo necessario assegnare una rendita ai fabbricati, la stessa è
fiscalmente rilevante solo quando vengano meno i requisiti della c.d. ruralità.
Il Catasto Terreni ed il Catasto dei Fabbricati costituiscono, oggi, un
“inventario” dei beni immobili siti sul territorio nazionale. Il loro scopo, che in
origine era principalmente di mero censimento, è attualmente mutuato. Il Catasto
Terreni e il Catasto fabbricati servono oggi a rilevare la base imponibile per la
tassazione del reddito derivante dai fabbricati rurali (ivi compresi quelli strumentali)
e dai fabbricati urbani.
Inizialmente, la denuncia di un fabbricato rurale, trattandosi di una mera
variazione nello stato dei terreni, rientrava tra le incombenze affidate al proprietario e
andava presentata in catasto a norma dell’art. 114 del Regolamento per la
conservazione del nuovo catasto utilizzando il mod. 26. A tali adempimenti poteva
provvedere direttamente la parte interessata senza ricorrere nell’ausilio di liberi
professionisti. Per contro, le costruzioni urbane dovevano essere denunciate a cura
dei cittadini sui cui incombeva anche l’obbligo di corredare la denuncia, sin
dall’origine, con elaborati grafici da redigersi esclusivamente da parte di liberi
professionisti. Le stesse costruzioni, al pari di quelle rurali, venivano inserite nelle
mappe catastali a cura dell’Amministrazione.
A seguito di numerosi interventi del legislatore, l’art. 9 della L. 133/94,
tornando sulla materia, ha disposto l’inserimento nel catasto edilizio urbano, insieme
con le abitazioni, anche delle costruzioni rurali (così art. 9 L. 133/94 “al fine di
realizzare un inventario completo ed uniforme del patrimonio edilizio il Ministero
delle Finanze provvede al censimento di tutti i fabbricati o porzioni di fabbricati
rurali ed alla loro iscrizione mantenendo tale qualificazione nel catasto Urbano, che
assumerà la denominazione di Catasto dei Fabbricati […]”).
In conseguenza di quanto sopra, il Catasto Edilizio Urbano ha assunto la nuova
denominazione di Catasto dei Fabbricati.

LA FORMAZIONE DEL CATASTO FABBRICATI

L’Amministrazione, nel sostituire il Nuovo Catasto Edilizio Urbano (in sigla


NCEU), ha assunto l’obbligo di formare il Catasto Fabbricati provvedendo, rectius,
dovendo provvedere all’aggiornamento delle mappe e all’identificazione dei
possessori dei fabbricati. In punto, il completamento della procedura di traslazione
dei dati dal Catasto Terreni al Catasto Fabbricati, ovverosia, per esempio, il deposito
degli atti documentali quali, le planimetrie, è stato posto in capo agli interessati che vi
dovranno provvedere per mezzo del DOCFA e dei relativi elaborati.
Per l’effetto, anche i fabbricati riconosciuti rurali ai fini fiscali, anche se
strumentali, devono obbligatoriamente essere iscritti, con attribuzione di rendita, al
Catasto Fabbricati, al pari di ogni altro fabbricato strumentale all’esercizio di una
qualsiasi attività, quale, per esempio, quella artigianale, industriale, ect.
Con il D.M. 28/98 sono stati individuati i soggetti coinvolti nell’attività di
formazione del catasto dei fabbricati ed i relativi ruoli.
Allo scopo di non aggravare di ulteriori oneri economici i proprietari di
fabbricati rurali (i quali, di norma, hanno già assolto tutti gli obblighi loro imposti
dalla previgente normativa catastale), il Regolamento dispone, in una prima fase,
l’iscrizione d’ufficio, nel Catasto Fabbricati, delle costruzioni attualmente iscritte o
denunciate al Catasto Terreni e, in una seconda fase, il completamento del
censimento attraverso la produzione, a cura questa volta dell’interessato, degli usuali
elaborati prodotti per il Catasto Edilizio Urbano.
Più precisamente, nella prima fase, l’Amministrazione provvederà con
procedure d’ufficio, all’integrazione nel nuovo Catasto Fabbricati con le informazioni
già conservate al Catasto Terreni. La seconda fase, riguardamene la perfezione
dell’accatastamento da parte dei proprietari delle costruzioni rurali, è rinviata nel
tempo al verificarsi del c.d. “caso d’uso” intendendosi con tale espressione il
trasferimento di diritti reali, la mutazione nello stato giuridico dei beni ovvero la
perdita dei requisiti di ruralità ai fini fiscali. Attualmente la P.A. non ha ancora dato
attuazione ai propri adempimenti traslando, di fatto, i suoi obblighi in capo al
possessore.
In altri termini, il proprietario che incorre nel c.d. “caso d’uso” è obbligato non
solo a completare l’accatastamento ma anche a provvedere all’esecuzione degli
obblighi che sono, in diritto, in capo alla P.A. Evidente, invece, che l’interessato che
non incorra nel c.d. “caso d’uso” continuerà a rinvenire il proprio fabbricato nel
Catasto Terreni almeno fino a quando la P.A. non deciderà di dare attuazione ai
propri obblighi.

GLI ADEMPIMENTI A CARICO DEI POSSESSORI DI FABBRICATI


RURALI

Sembra utile raggruppare l’insieme di tutti i possessori dei fabbricati rurali in


quattro grandi categorie:

a) i possessori dei fabbricati già regolarmente censiti o denunciati. Questi


sono già iscritti al Catasto Fabbricati e, quindi, hanno già avuto l’attribuzione
di rendita (necessariamente, anche se in un futuro prossimo, tutti i fabbricati
dovranno confluire in questa categoria; evidente che gli stessi saranno
assoggettati a tassazione se mancanti dei requisiti della ruralità).
b) i possessori dei fabbricati regolarmente censiti o denunciati al Catasto
Terreni i quali, se non incorrono nel c.d. “caso d’uso” o i cui requisiti della
ruralità in termini fiscali non sono venuti meno, non hanno nessun obbligo
immediato.
c) i possessori di nuovi fabbricati che non hanno provveduto a presentare la
denuncia della costruzione né al catasto terreni né a quello fabbricati:
costoro hanno l’obbligo immediato di iscriversi al Catasto dei Fabbricati (si
rendono applicabili sanzioni). Ove sussistano le caratteristiche di ruralità la
rendita verrà assorbita dai terreni.
d) i possessori di nuove costruzioni: costoro sono tenuti ad iscrivere le nuove
costruzioni al Catasto Fabbricati secondo le procedure stabilite.

Da rilevare che per i fabbricati ad uso abitativo che hanno perso i requisiti della
ruralità per l’effetto dell’introduzione del nuovo requisito introdotto dall’art. 1,
comma 339 L. 296/06 (iscrizione presso il Registro delle Imprese da parte del
soggetto conduttore del fondo cui l’immobile è asservito) e per gli immobili che non
risultano dichiarati, in tutto o in parte, al catasto, ovvero che pur essendo “censiti
catastalmente” hanno perso il requisito della ruralità per una motivazione diversa da
quella di cui sopra, è intervenuto un provvedimento del Direttore dell’Agenzia del
Territorio pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2007. Preso atto
che tutte le costruzioni rurali o sono già state iscritte al Catasto dei Fabbricati o lo
dovranno essere è importante soffermarsi brevemente sul trattamento che verrà
riservato alle costruzioni rurali o ex rurali.
Le considerazioni sin qui svolte sono valide per tutte le tipologie di fabbricati
(abitazioni, fabbricati rurali e fabbricati strumentali).
Le costruzioni concernenti il mondo agricolo saranno censite catastalmente se
già non lo sono come segue:
- unità a destinazione abitativa;
- unità destinate ad attività produttive agricole.

Le prime saranno inserite nella categoria ordinaria più rispondente tra quelle
presenti nei quadri di qualificazione vigenti (cat. A).
Le seconde, per contro, saranno censite nella categoria D/10 “fabbricati per
funzioni produttive connesse all’attività agricola” nel caso in cui le caratteristiche di
destinazione e tipologiche siano tali da non consentire, senza radicali trasformazioni,
una destinazione diversa da quella per la quale sono state originariamente costruite.
In caso contrario potranno essere censite nelle categorie ordinarie più consone (C/2,
C/3, C/6, ecc.). Con l’applicazione delle norme sopra richiamate si è venuta a
delineare in forma più esplicita l’autonomia tra i profili tecnico-catastali di
censimento delle costruzioni e quello fiscale di applicazione delle imposte
(l’iscrizione in catasto di una particella con la denominazione di fabbricato rurale non
comporta automaticamente l’esclusione per la stessa dal reddito di fabbricati, né
viceversa per l’unità immobiliare censita al Catasto Fabbricati con attribuzione di
rendita è necessariamente dovuto l’assoggettamento all’imposta sul reddito
medesimo).

Il primo profilo è di competenza degli Uffici dell’Agenzia del Territorio


(ex Catasto), il secondo è invece prerogativa degli uffici preposti
all’accertamento delle imposte (Agenzia delle Entrate).

In particolare a questi ultimi compete il riconoscimento delle agevolazioni


fiscali per le costruzioni che soddisfano i requisiti di ruralità. Gli Uffici fiscali
potranno, quindi, avvalersi della consulenza degli Uffici dell’Agenzia del Territorio
per l’individuazione dei caratteri oggettivi sia delle costruzioni rurali sia dei terreni
asserviti.
AGRICOLTURA ED ENERGIA

Con il protocollo di Kyoto e la necessità di ridurre le emissioni, l’agricoltura ha


acquisito un ruolo nel ramo energetico. Potrebbe essere la soluzione di molti
problemi del settore, a cominciare da quelli di bilancio. Ma è un processo che va
governato.
Cosa c’entra l’agricoltura con l’energia? Poco e niente, si sarebbe detto dieci anni fa.
Parecchio, viene naturale rispondere oggi. Dieci anni hanno cambiato un sacco di
cose, anche in un contesto tradizionalmente allergico ai cambiamenti repentini.
Ma che ha conosciuto anni di sconvolgimenti – emergenze prezzi, speculazioni sulle
materie prime, nuove regole comunitarie, contraccolpi del crack finanziario – che lo
hanno profondamente modificato. E che spiegano per che motivo l’agricoltura oggi è
legata a filo doppio con la questione energetica. Vediamo dunque alcuni di questi
motivi.
Per cominciare, la necessità di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e,
naturalmente, Kyoto. Per l’Italia, l’impegno imposto dal protocollo internazionale è
una riduzione del 6,5%. Di conseguenza, dobbiamo limitare l’uso di combustibili
fossili: da un lato risparmiando energia e dall’altro trovando fonti alternative. Le
cosiddette energie rinnovabili, ovvero quelle che provengono da combustibili che
possono essere ricreati.

Il ruolo dell’agricoltura

Il ruolo dell’agricoltura, a questo punto, diventa chiaro.


La definizione “energie rinnovabili” rimanda direttamente a qualcosa che può essere
ciclicamente riprodotto, oppure coltivato. Per esempio il legno. Inoltre, l’agricoltura
può produrre il bioetanolo e il biodiesel, due carburanti per i motori a scoppio. A
questo punto, dunque, la domanda non è “se” il settore può aiutare la lotta
all’inquinamento, ma fino a che punto può arrivare.
Domanda che, al momento, non ha risposta, perché il cammino dell’agricoltura in
questo nuovo ruolo è soltanto agli inizi. Ma procede a passi spediti, sostenuto dagli
incentivi messi in campo dai governi e spronato dalla difficile situazione delle
coltivazioni tradizionali.

Un processo da guidare

Quando la crescita è veloce rischia di essere caotica.


Nel caso specifico, per le ragioni appena citate c’è il pericolo che in molti si
convertano alle coltivazioni energetiche, riducendo le produzioni tradizionali. La
superficie coltivabile non è illimitata, soprattutto nel nostro paese, dove le pianure
sono poche, in rapporto all’intero territorio. Se i terreni migliori fossero usati per
produrre biomassa e biocarburanti non ci sarebbero abbastanza alimenti per gli
animali – né per l’uomo – e dovremmo importarli.
Insomma, una questione delicata, per questo occorre un attento lavoro di
pianificazione prima e di indirizzo poi delle tendenze di mercato. Un compito che
spetta al pubblico, inteso come governo pubblico.
Un ruolo importante, a dispetto della dimensione territoriale contenuta, può essere
svolto dalle regioni, attraverso l’autonomia legislativa in materia. agricola e, in
primis, i Programmi di sviluppo rurale.
Questo documento, fondamentale per la pianificazione agricola, è in molta parte
vincolato dalle norme europee e nazionali, ma lascia anche un certo margine di
discrezionalità alla Giunta regionale.
Sufficiente per dare un indirizzo di massima alla politica agricola del territorio.

Il protocollo di Kyoto

Firmato l’11 dicembre 1997, il protocollo di Kyoto è entrato in vigore nel febbraio
del 2005, con l’adesione della Russia. Condizione essenziale perché il trattato fosse
operativo, infatti, era la partecipazione di almeno 55 paesi che fossero produttori di
almeno il 55% dei gas-serra immessi annualmente nell’atmosfera (6.000
megatonnellate di CO2). Una situazione che si è ottenuta soltanto dopo la firma del
paese euro-asiatico. Ad oggi hanno aderito quasi 180 nazioni. Restano fuori da
Kyoto, come noto, gli Stati Uniti e la Cina, responsabili, da soli, di oltre il 40%
dell’inquinamento mondiale.
Fortunatamente, anche Usa e Cina stanno facendo qualche passo nella giusta
direzione. Lo si è visto alla conferenza di Copenhagen, che nelle premesse poteva
essere una nuova Kyoto e invece si è conclusa con un sostanziale insuccesso.
Tuttavia si è registrato il cambio di direzione degli Usa – grazie alla politica di
Obama – e la Cina si è impegnata a ridurre le emissioni di carbonio in rapporto al
proprio prodotto interno lordo. Timidi segnali di quella che potrebbe essere una
nuova linea politica dei due colossi mondiali.

Risparmio energetico: ricetta senza controindicazioni

L’agricoltura è un’attività produttiva al pari di molte altre. E, come esse, può


contribuire all’abbattimento dei gas serra razionalizzando i propri consumi energetici.
Per decenni l’obiettivo è stato quello di massimizzare la produzione, riducendo la
manodopera.
Obiettivo pienamente logico date le condizioni del tempo: risorse energetiche a buon
mercato e abbondanti, manodopera in forte riduzione causa l’inurbamento e molto
costosa. Oggi le cose sono cambiate. La manodopera continua a essere uno dei fattori
produttivi più cari, ma anche il costo energetico è aumentato in maniera esponenziale.
E, cosa ancor più importante, non è più possibile sprecare energia, per questioni
economiche ma soprattutto ambientali. Dunque, si deve arrivare a una nuova
organizzazione del lavoro agricolo e ridefinire l’equilibrio tra massimizzazione della
resa per ettaro e impiego di materie prime con cui ottenerla.
Secondo il nuovo modello, non è scontato che massimizzare la produzione sia sempre
e comunque auspicabile, anche dal punto di vista economico.

Potrebbe essere preferibile, per esempio, produrre un po’ meno se questo determina
un forte risparmio sui mezzi di produzione. Qualcosa del genere accade già. Il costo
dei prodotti di origine petrolifera – dal gasolio ai fertilizzanti – ha toccato picchi tali
da rendere la coltivazione dei cereali scarsamente remunerativa, nonostante il parziale
adeguamento del prezzo dei cereali a queste impennate.
Va da sé che se fosse possibile ridurre di molto la quantità di materie prime
impiegate, l’equilibrio sarebbe ristabilito. Quello di cui si parla è, chiaramente, un
nuovo modo di interpretare l’agricoltura e i suoi obiettivi. Ma del resto, in un mondo
in radicale trasformazione, nemmeno il settore primario può permettersi di restare
uguale a se stesso.

Non più scarti ma risorse

Paglia, stocchi di mais, potature degli alberi, gusci di nocciole: quel che l’agricoltura
non usa può diventare combustibile per produrre calore ed energia elettrica.

Quel che l’agricoltura non usa

Sottoprodotti e scarti sono una costante nella produzione agricola. Come, del resto, di
tutte le produzioni: si pensi per esempio a quella industriale. Ma mentre il settore
manifatturiero si è da tempo attrezzato per reimpiegare utilmente quel che avanza dal
processo principale, in agricoltura questo passaggio deve ancora compiersi appieno.
In realtà, il ciclo agricolo completo esiste da sempre e per secoli ha rappresentato un
perfetto esempio di ottimizzazione delle risorse, riciclo delle materie prime,
integrazione di filiera. Basta dare un’occhiata allo schema che pubblichiamo per
rendersi conto del livello di efficienza e complessità raggiunto. Ma questo modello
bilanciato ed eco-sostenibile è stato accantonato dall’agricoltura intensiva, quando la
priorità numero uno era massimizzare la produzione. Nel periodo del boom nessuno
aveva il tempo e la voglia di curarsi del reimpiego dei sottoprodotti, che divennero
così scarti di cui liberarsi. Spesso, bruciandoli a margine dei campi, oppure
interrandoli e trasformandoli in fertilizzante organico. Oggi è tempo di tornare al
passato, ovviamente rileggendo il vecchio modello contadino alla luce delle nuove
tecnologie.

Le colture annuali

Il grano e l’orzo lasciano la paglia, il riso anche la lolla, il mais gli stocchi e i tutoli.
In tutte le colture annuali, la parte utile della pianta è molto piccola, in proporzione
alla pianta stessa. Vale a dire che ne resta una grossa percentuale inutilizzata. Che
farne? Nel tempo gli impieghi sono stati disparati. Prendiamo la paglia: impastata con
la terra per farne mattoni, usata nella stalla come lettiera, mescolata ai foraggi,
bruciata o interrata nei campi. Oggi, si fa avanti una nuova prospettiva: usarla come
combustibile in centrali per la produzione di energia termica ed elettrica.

Nello scenario potenziale – ovvero quello con più probabilità di realizzarsi nei fatti –
si ipotizza di sfruttare in questo modo il 10% della paglia di riso e dei tutoli di mais e
l’80% della lolla.
Potrebbero essere riutilizzate 12mila tonnellate di tutoli e stocchi di mais, 29mila di
paglia e 95mila di lolla di riso, con un risparmio annuo di circa 50mila tonnellate di
petrolio. La scelta di bruciare i sottoprodotti della cerealicoltura ha però una
controindicazione: facendolo, si toglie sostanza organica al terreno. Inoltre è
necessario abbattere efficacemente l’emissione di particolati prodotti dalla
combustione.

Discorso del tutto analogo per le coltivazioni perenni, vite e frutteti in primo luogo. I
sottoprodotti di queste colture utilizzabili a fine energetico sono sia i sarmenti e le
potature sia gli scarti della lavorazione, come vinacce e graspi per la vite, gusci di
nocciolo e via dicendo.

Gli scarti dell’uva

La vite lascia i sarmenti di potatura, ma anche gli scarti della vinificazione. Raspi,
vinacce e vinaccioli sono un ottimo combustibile – una volta essiccati – e in più sono
facilissimi da raccogliere, dal momento che escono dalle pigiatrici e devono soltanto
essere ammucchiati e portati al luogo di utilizzo. Mediamente, dal 3 al 5% del peso di
un grappolo è costituito dal raspo; lo stesso vale per i vinaccioli, mentre la buccia può
arrivare al 10%. In totale, quindi, tra il 14 e il 17% dei circa 4 milioni e mezzo di
quintali di uve può trasformarsi in carburante per centrali a biomassa.
Vale a dire circa 70mila tonnellate di materiale, se si dovesse fare una raccolta
capillare.

Dai reflui al metano

Quasi un milione di tonnellate di deiezioni suine e oltre due milioni e mezzo di reflui
bovini. Tutte trasformabili in biogas con il quale alimentare centrali termoelettriche.
Le potenzialità sono enormi e potrebbero contribuire in misura significativa ai precari
bilanci degli allevatori.
GLI IMPIANTI PER IL RISPARMIO ENERGETICO

L’aumento del costo dell’energia di origine fossile e i black-out


nell’approvvigionamento di energia elettrica che si hanno sempre più spesso durante
le stagioni estive stanno riproponendo all’attenzione dei mass media le energie
alternative.
Per la verità si parla sempre in positivo dell’energia solare, soprattutto fotovoltaica e
della digestione anaerobica, mentre si formulano anche valutazioni negative per
l’inserimento delle torri eoliche sotto l’aspetto paesaggistico-ambientale.
La liberalizzazione della produzione di energia elettrica è, d’altra parte, un fatto
importante, perché consente al cittadino di auto approvvigionarsi energeticamente ed
anche di cedere in rete il surplus di produzione.
Per la verità la cessione in rete di energia elettrica è possibile solo con produzioni
continue minime dell’ordine di qualche decina di kWh, cosa possibile in ambito
rurale solo con i salti d’acqua e con la digestione anaerobica.
In questo capitolo forniremo un quadro delle tecnologie disponibili, non limitandoci
solo a quelle di immediata applicabilità nell’abitazione rurale.

L’energia solare

La disponibilità di radiazione solare sulla superficie terrestre

La quantità di energia solare che raggiunge gli strati bassi dell’atmosfera è valutata in
circa 4900 kJ/m2; di questa solo una parte raggiunge la superficie terrestre per i
fenomeni di riflessione che si hanno negli strati più alti dell’atmosfera e per i
fenomeni diffusivi dovuti ai gas e alle particelle solide e liquide sospese nell’aria.
Sulla superficie terrestre si rende disponibile una potenza di non più di 3600 kJ/m2
che si distribuisce in modo non uniforme dall’equatore ai poli a causa dell’obliquità
dell’asse terrestre rispetto al piano dell’eclittica e del suo orientamento che varia
secondo le stagioni.
Oltre alla variazione di intensità nei diversi mesi, anche l’angolo di incidenza della
radiazione ha una notevole importanza, dato che le condizioni di massima
concentrazione si hanno con un’incidenza ortogonale alla superficie captante. In
definitiva la radiazione incidente nelle 24 ore è pari a 19000-22000 kJ/m2 giorno.

Di questa energia solo una parte può essere captata per la produzione di energia
termica o elettrica dai sistemi solari, che sono:

– collettori solari piani;


– collettori a concentrazione;
– celle fotovoltaiche.
I collettori solari piani

I collettori solari piani sono realizzati nelle due tipologie ad acqua e ad aria, a
seconda del fluido termovettore usato; in entrambi i casi nella loro configurazione
normale sono costituiti da una copertura trasparente, da una piastra assorbente, da
tubazioni o canali (nel caso di collettori ad aria) di circolazione del fluido
termovettore e da una struttura di contenimento (Fig. 2 e 3).

La copertura trasparente ha la funzione di realizzare il migliore effetto serra


possibile: deve, cioè, essere trasparente alla radiazione solare e opaca alle radiazioni
infrarosse emesse dalla piastra captante, quale reazione al suo surriscaldamento ad
opera della radiazione incidente.
Il materiale normalmente utilizzato per i collettori solari ad acqua è il vetro
temperato per la sua resistenza meccanica alla grandine.
La piastra assorbente è costituita da una lamiera metallica in acciaio inox, alluminio
o rame sulla quale sono fissate, o comunque integrate, le tubazioni di circolazione
dell’acqua. Per ottenere il massimo assorbimento dell’energia incidente la
piastra captante è verniciata in nero con vernici speciali.
Nei collettori solari piani ad acqua la piastra captante può essere realizzata con
tubazioni applicate o ricavate nello stampaggio (sistema rollbond).
La prima tecnica costruttiva è tipica del collettore in rame, per il quale il ridotto
diametro delle tubazioni facilita il loro inserimento nella piastra, garantendo una
superficie di contatto piastra- tubazioni ottimale; la seconda è usata soprattutto con
l’alluminio.
Fig. 2 Sezione di un collettore solare piano ad acqua
del tipo “roll-bond” nel quale le tubazioni vengono
ricavate nello stampaggio della piastra assorbente.

Fig. 3 Spaccato di un collettore solare piano ad acqua


con tubazioni inserite nella piastra captante.
Il telaio del collettore non ha solo funzione meccanica, ma anche quella di isolamento
del sistema dall’ambiente circostante. Sul fondo del telaio è montato, allo scopo, un
pannello di materiale isolante, generalmente realizzato con lana di roccia, lana di
vetro, schiuma poliuretanica o sughero.
I materiali migliori per la realizzazione del telaio ai fini della loro resistenza alla
corrosione atmosferica sono l’acciaio inox, il rame e l’alluminio; meno adatte sono le
materie plastiche, per la loro deformabilità alle alte temperature raggiungibili.
I collettori solari piani ad aria (per la verità ormai di scarso interesse) sono
sostanzialmente simili a quelli ad acqua; differiscono essenzialmente per il sistema di
canalizzazione del fluido termovettore. Infatti, mentre nel collettore ad acqua il
materiale isolante viene sistemato subito sotto la piastra captante, nei collettori ad
aria sotto la piastra viene ricavato il canale attraverso il quale viene fatta circolare
l’aria da riscaldare.

Fig. 4 Batteria di collettori solari ad acqua installati in un’azienda zootecnica per la


produzione di acqua sanitaria
Fig. 5 Batterie di pannelli solari installati in una stalla in zona montana.

Fig. 6 Pannelli solari ad aria in un impianto di


essiccazione artificiale dei foraggi: ha costituito
un’applicazione tipica del solare ad aria degli anni ’80.

L’efficienza di un collettore solare

L’efficienza del collettore è strettamente dipendente da numerosi fattori intrinseci


(materiali usati, fattore di assorbimento della piastra, isolamento, ecc.) e dalle
condizioni di esercizio.

Il risultato è inversamente proporzionale alla temperatura di esercizio, per cui è


buona norma limitarsi ad operare con acqua a 60 °C, anche se si potrebbero
raggiungere gli 80 °C.
Le applicazioni dei pannelli solari piani ad acqua per l’abitazione e l’azienda agricola
sono riconducibili essenzialmente alla produzione di acqua calda sanitaria.
Nel primo schema di figura 8 l’acqua riscaldata dal collettore solare viene trasferita al
serbatoio di accumulo; quando l’energia solare non è più sufficiente per raggiungere
la temperatura prevista interviene una resistenza elettrica comandata da un
termostato.
Nel secondo schema di figura è indicata anche l’integrazione termica da parte di una
caldaia per il periodo invernale; nella stagione estiva, invece l’integrazione è solo
elettrica come nel primo caso.

Fig. 8 Schemi di impianti di produzione di acqua sanitaria con collettori solari: a


sinistra impianto autonomo con
integrazione elettrica; a destra impianto con integrazione elettrica e caldaia

I collettori solari a concentrazione

I collettori a concentrazione (o a focheggiamento) usano sistemi ottici per aumentare


l’intensità della radiazione incidente sulla superficie assorbente.
Un più elevato flusso di energia consente, infatti, di raggiungere temperature molto
più elevate di quelle ottenibili con i collettori solari piani.
Il rapporto di concentrazione, che costituisce l’elemento caratterizzante del collettore,
è estremamente variabile, potendo passare da minimi di qualche unità a valori di
qualche migliaia. Al crescere di questo parametro aumenta la temperatura di esercizio
al pari della complessità costruttiva dell’impianto, potendosi arrivare fino a
temperature di diverse centinaia di gradi centigradi.
Per il settore agricolo possono essere considerati solo gli impianti a bassa o media
concentrazione (a tipologia cilindrica), adatti alla produzione di acqua ad alta
temperatura o vapore a bassa pressione.
Per gli impianti funzionanti fino a 100 °C si utilizza come fluido termovettore
l’acqua; oltre tale temperatura si utilizzano oli minerali.
In questi impianti, soprattutto per quelli a maggior concentrazione, appare
indispensabile ricorrere ad un sistema di “inseguimento solare”, cioè di un sistema
meccanico a regolazione elettronica in grado di modificare l’orientamento del
collettore al variare delle ore del giorno e delle stagioni.

Le celle fotovoltaiche

Le celle fotovoltaiche assorbono l’energia elettromagnetica della luce convertendola


direttamente in energia elettrica; alla base del processo vi è la proprietà di alcuni
semiconduttori opportunamente trattati (“drogati”) di assorbire fotoni provocando
uno spostamento di cariche elettriche.
La corrente e la differenza di potenziale agli elettrodi che ne derivano si possono,
così, sfruttare per alimentare un circuito elettrico esterno.
Il materiale che si utilizza generalmente per le celle fotovoltaiche è il silicio; la
tecnica di fabbricazione più comune è quella della sovrapposizione ad una lamina di
silicio [–P] (addittivato con una piccola quantità di arsenico), tagliata dello spessore
di 200-600 micron, di una lamina di silicio [+N] (trattato con boro), dello spessore di
0,3-3 micron, che è quella rivolta verso la luce. Quando i fotoni incidenti (particelle
elementari di energia che compongono la luce) raggiungono la zona di contatto
Silicio [+N] – Silicio [–P], si creano coppie di elettrone-lacuna: gli elettroni tendono
a dirigersi verso la superficie del Silicio [+N], mentre le lacune si spostano verso la
superficie del silicio [–P]. Collegando queste due superfici con un circuito esterno si
genera una corrente elettrica (FIG. 11).

Nei pannelli le celle fotovoltaiche sono montate in serie ed in parallelo; questi sono
collegati ad un sistema di controllo (chopper) in grado di adattare la tensione-corrente
del sistema alle esigenze dell’utenza. Se l’utenza è a corrente continua e la tensione è
sufficiente si può avere l’alimentazione diretta; in alternativa il pannello alimenta una
batteria (è la soluzione più comune) che a sua volta alimenta l’utente se questo lavora
in corrente continua, altrimenti è necessario disporre di un invertitore di corrente.
La potenza elettrica “di picco” (prodotta con un irraggiamento di 1 kW/m2) di una
cella solare del diametro normale di 56 mm si aggira su 0,45 W.
Nel settore agricolo i pannelli fotovoltaici sono stati utilizzati soprattutto per le
recinzioni elettriche e per l’approvvigionamento energetico delle malghe,
limitatamente, però, alle utenze domestiche minimali.
Fig. 11 Schematizzazione di una cella fotovoltaica al silicio

L’energia da salti d’acqua

L’utilizzazione dell’acqua a fini energetici non è certo una novità del nostro secolo,
basti pensare alla produzione di energia meccanica le cui origini sono difficilmente
fissabili nel tempo. Più recente è, certo, lo sfruttamento dell’acqua per la
produzione di energia elettrica, processo di notevole interesse soprattutto nei bacini
montani, in cui ancora oggi alcune aziende non sono allacciate alla rete elettrica
nazionale.
Il sistema tradizionale di utilizzazione dell’energia di un corso d’acqua è quello delle
ruote idrauliche (FIG. 15) il cui funzionamento si basa sulla trasformazione
dell’energia potenziale in energia meccanica; la bassa velocità di rotazione che le
caratterizza (6-20 giri/min) rende indispensabile l’adozione di un sistema di
moltiplicazione dei giri per raggiungere la velocità minima di eccitazione di un
normale alternatore (1500 giri/min).
Le turbine, al contrario, sono caratterizzate da regimi di rotazione nettamente più
elevati (40-400 giri/min): ciò consente di adottare sistemi di moltiplicazione dei giri
più semplici e meno costosi. Per la “microidraulica” (così viene chiamata la classe di
impianti idroelettrici fino a 100 kW) si adotta generalmente la turbina Pelton, che
basa il suo funzionamento sull’impatto che uno o più getti d’acqua esercitano sulle
pale della girante.
Le altre tipologie di turbina sono meno adatte agli impieghi di microidraulica per
motivi legati all’elevato costo di acquisto e gestione, alla richiesta di tolleranze di
installazione molto più rigorose, al loro rendimento praticamente nullo con portate
fluttuanti o, comunque, al di sotto della portata di regime, come invece spesso accade
nelle realizzazioni di carattere aziendale.
I problemi che caratterizzano questa tecnologia, quale che sia il tipo di attrezzatura
impiegato, sono essenzialmente riconducibili alla necessità di disponibilità di acqua
nel corso di tutto l’anno. Il congelamento delle sorgenti durante il periodo invernale
ed i periodi di siccità estivi sono due fatti da valutare, quindi, con estrema attenzione,
dato che le opere di sbarramento per l’accumulo dell’acqua, se da un punto di vista
tecnico rappresentano la soluzione ideale, risultano molto spesso improponibili per
motivi legati all’elevato costo di realizzazione.

Fig. 15 Il principio di funzionamento delle ruote idrauliche si basa sul peso


dell’acqua che riempie le cassette della ruota facendola quindi ruotare; nella figura
è rappresentata una ruota colpita al vertice; tale macchina consente di operare con
cadute superiori ai 2-3 metri e può raggiungere rendimenti fino al 65%. Le ruote
idrauliche sono state recentemente rivalutate ricorrendo all’uso di materiali leggeri
(vetroresina) in modo da ovviare ad uno dei loro maggiori inconvenienti, l’elevato
peso.

La digestione anaerobica

La trasformazione per via anaerobica delle biomasse in biogas è un processo che


avviene anche in natura ed è conosciuto dall’uomo da secoli anche se il suo
sfruttamento per la produzione di gas combustibile per le utenze domestiche –
utilizzato ancora oggi in piccoli villaggi privi di energia – è piuttosto recente.

Il biogas è caratterizzato da un contenuto in metano variabile dal 50 al 75%, dal 25


40% di anidride carbonica e dallo 0,09-0,20% di idrogeno solforato, indesiderato
perché fonte di problemi di corrosione.
La quantità di biogas ottenibile può essere indicata mediamente pari a 0,35 m3/kg di
sostanza organica introdotta.
Un impianto di digestione anaerobica è essenzialmente costituito da:

– digestore;
– impianto di termostatazione;
– impianto di miscelazione;
– gasometro.

Il digestore

L’unità base del processo è il digestore, all’interno del quale avvengono i processi
fermentativi (ai quali si farà cenno anche nella gestione dei liquami zootecnici) e
dalla cui tipologia dipende lo schema funzionale dell’impianto.

La prima distinzione può essere fatta tra:

– impianti discontinui, nei quali al riempimento dell’impianto segue una fase di


digestione che può protrarsi fino a 3-4 mesi, dopo i quali avviene lo scarico. Questo
fatto si riflette sulla produzione di biogas che, insignificante nel periodo di
avviamento del processo, raggiunge i massimi livelli a 20-30 giorni dal carico per poi
iniziare progressivamente a decrescere. È evidente come, in tali condizioni, l’utilizzo
del biogas divenga possibile solo disponendo di più impianti a carico sfasato in modo
da ottenere una produzione pressoché costante nel tempo;

– impianti continui, sono gli impianti attuali, nei quali il carico e lo scarico sono
continui e la produzione di biogas è pressoché costante.

Una seconda distinzione va ricondotta alla temperatura di processo, con:

– impianti termofili, operanti a temperatura dell’ordine di 50-55 °C. Sono impianti


che consentono di ridurre i tempi di processo, ma non sono generalmente considerati
adatti al nostro clima per l’elevata differenza di temperatura interno/esterno;

– impianti mesofili, operanti a temperature dell’ordine di 35 °C: sono quelli oggi


normalmente utilizzati nel nostro Paese, perché consentono ad un tempo di produrre
energia (valenza energetica) e di stabilizzare i liquami (valenza ambientale);

– impianti psicrofili, operanti a temperatura ambiente: sono impianti più semplici, ma


la loro produzione è aleatoria, dipendendo dalla temperatura di processo.

Tra gli impianti continui il più comune è il digestore high rate monostadio
caratterizzato da una completa miscelazione e da processo condotto in mesofilia (35-
37 °C) con un tempo di ritenzione (tempo medio di permanenza dei liquami
nell’impianto) dell’ordine di 15-30 giorni, a seconda del tipo di substrato e del grado
di stabilizzazione richiesto.
Nei digestori high rate a due stadi (FIG. 20) al digestore propriamente detto segue un
secondo reattore, generalmente non termostatato e dimensionato per un tempo di
ritenzione di 10-20 giorni, avente funzione di stadio di sedimentazione e accumulo
del biogas.

Fig. 20 Digestore continuo a doppio stadio con stadio di sedimentazione-stoccaggio


del biogas. In evidenza anche il separatore liquido/solido per i liquami digeriti con
sottostante rimorchio per la raccolta dei solidi separati.

Negli impianti operanti con reflui molto diluiti (non certo per i liquami zootecnici) si
possono utilizzare i cosiddetti impianti a biomassa ritenuta caratterizzati dal
riempimento di parte del reattore con un supporto fisso ed inerte (elementi modulari a
forma definita, generalmente in plastica, sul quale le colonie batteriche si sviluppano
sotto forma di una pellicola adesa dello spessore di 1-4 mm): sono realizzati con
flusso ascendente dei liquami – upflow – o discendente – downflow (FIG. 21).
Fig. 21 Digestori a letto fisso del tipo a flusso ascendente (o upflow), (a sinistra) e a
flusso discendente (o downflow) (a destra). In evidenza: 1) liquami affluenti; 2)
scambiatore di calore per il riscaldamento dei liquami; 3) zona riempita con il
materiale di riempimento per l’adesione dei batteri; 4) biogas; 5) liquami effluenti.

I vantaggi che si accreditano alla tecnologia a biomassa ritenuta possono essere


ricondotti al maggiore sfruttamento della sostanza organica affluente, alla riduzione
del tempo di ritenzione, e, infine, alla possibilità di operare con reflui disponibili
per limitati periodi dell’anno, come accade per gran parte degli scarichi
agroindustriali.
La capacità di operare con reflui diluiti colloca tali impianti più nel settore della
depurazione che in quello del recupero energetico, anche se recenti esperienze hanno
dimostrato la possibilità di utilizzare alcuni degli schemi impiantistici sotto descritti
con liquami a concentrazione di solidi del 3-5%.

La termostatazione dell’impianto

Per il riscaldamento dei liquami le tecnologie adottabili sono quelle del:

– preriscaldamento esterno: si utilizza uno scambiatore di calore esterno (FIG. 22);


lo stesso scambiatore viene utilizzato per la termostatazione del digestore
richiamando i liquami quando la temperatura interna scende al di sotto di quella
prefissata;

– riscaldamento interno: è la soluzione oggi maggiormente adottata negli impianti


zootecnici ed è realizzata con tubazioni in acciaio inox fissate alla parete del
digestore in cui viene fatta circolare l’acqua calda prodotta dal gruppo caldaia o
cogeneratore.
– riscaldamento esterno a parete: prevede l’installazione esterna di tubazioni,
generalmente in materiale plastico (FIG. 22).

Questa soluzione appare interessante perché elimina i problemi di incrostazioni tipica


degli scambiatori interni, da cui deriva una riduzione di rendimento di scambio
termico, ma richiede un isolamento esterno molto accurato.

Fig. 22 Scambiatore di calore esterno utilizzato per il preriscaldamento dei liquami


prima di immetterli nel digestore (a sinistra) e scambiatore interno costituito da due
anelli di tubazione in acciaio inox a parete. In evidenza in figura anche il raschiatore
di fondo utile per materiali altamente sedimentabili.

La miscelazione dell’impianto

Per il comparto zootecnico la miscelazione risulta di grande importanza per i liquami


suinicoli essendo caratterizzati da facile sedimentabilità.
Oltre che al già ricordato sistema di ricircolo idraulico dei liquami, la miscelazione
della massa in digestione può essere attuata meccanicamente o insufflando il biogas
con un compressore.
La miscelazione meccanica costituisce oggi il sistema più usato perché
energeticamente meno impegnativo degli altri; può essere attuato con macchine
analoghe a quelle descritte nel capitolo del trattamento dei reflui zootecnici per la
loro miscelazione, cioè con miscelatori a motore sommerso (qualora sia possibile il
loro sollevamento dall’alto) o con miscelatori installati sulla parete con motore
esterno (FIG. 23).
Fig. 23 Riscaldamento esterno a parete: in evidenza in figura le tubazioni di
riscaldamento in PE coperte dal manto di isolamento in materassini di lana di vetro
e il rivestimento esterno in alluminio

In ogni caso nella scelta deve essere attentamente analizzato l’aspetto energetico,
trovandosi sul mercato tipologie di macchine con rendimenti molto diversi a parità di
prestazioni.

L’accumulo del biogas

Considerato l’elevato volume occupato dal biogas (2000 volte superiore a quello del
gasolio a parità di contenuto energetico) appare evidente l’importanza di limitare al
massimo i tempi di stoccaggio e di favorirne, invece, l’utilizzo all’atto della
produzione. È comunque necessario un accumulo parziale, attuabile con i tradizionali
gasometri a campana o con le calotte gasometriche in materiale plastomerico.

La cogenerazione

La combustione del gas prodotto in caldaia costituisce la soluzione meno


impegnativa in ordine agli investimenti, ma limita la possibilità di sfruttamento del
biogas, rendendo di fatto la cogenerazione, cioè la produzione congiunta di energia
elettrica (prodotto principale del processo) ed energia termica (sottoprodotto di
recupero) la soluzione da privilegiarsi.

Gli impianti di cogenerazione presenti sul mercato sono oggi di buona affidabilità,
ma la presenza di seppur limitate quantità di idrogeno solforato obbliga l’utente a
prevedere dei trattamenti di desolforazione. Se nei grandi impianti è possibile
adottare costose attrezzature specifiche, negli impianti aziendali oggi ci si limita
sostanzialmente a garantire una buona deumidificazione del gas, eventualmente
ricorrendo al suo raffreddamento con macchina frigorifera, dato che con tale
operazione una buona parte dell’idrogeno solforato viene eliminata. La
desolforazione può anche essere ottenuta introducendo con regolarità nel digestore
aria nella misura del 2-4% in volume: si ha la precipitazione dell’H2S come cristalli
di zolfo. A garanzia della durata dei motori, inoltre, occorre eliminarne ogni
componente in rame, materiale che viene aggredito dall’idrogeno solforato.

Un ulteriore problema è quello della scelta del gruppo di co-generazione più adatto
alla realtà aziendale: per i piccoli impianti, con potenze inferiori ai 50 kW, non sono
molti i cogeneratori disponibili sul mercato, mentre nelle taglie più grandi l’offerta è
maggiore ed anche gli investimenti richiesti per kW di potenza si riducono.
La scelta di macchine di potenza superiore a quella garantibile in continuo
dall’impianto può essere giustificabile, considerato che molto spesso le utenze
aziendali sono concentrate in un periodo massimo di dodici ore, ma ciò comporta un
dimensionamento consistente dello stoccaggio del biogas ed un funzionamento
discontinuo del gruppo di cogenerazione. Ogni disattivazione, però, comporta il
raffreddamento del motore e, conseguentemente, l’effetto negativo della
condensazione del vapore.

Per gli impianti di medio-grandi dimensioni può essere preferibile il ricorso a più
unità di cogenerazione: questa scelta è più impegnativa economicamente, ma offre
una maggiore affidabilità.

Gli impianti eolici

I generatori eolici, o aeromotori, sono macchine in grado di trasformare l’energia


cinetica del vento in energia meccanica che, a sua volta, può essere trasformata in
energia elettrica. Ciò è ottenuto rallentando la velocità dell’aria con la propria
meccanica.
La scelta dell’installazione di un aeromotore presuppone in primo luogo la
conoscenza dei dati relativi alla ventosità della zona e, in particolare, delle curve
“velocità-durata”, le quali esprimono il numero di ore/anno in cui viene raggiunta una
determinata velocità del vento.
L’impossibilità di reperire con facilità tali informazioni spesso limita i criteri di scelta
ad una valutazione empirica della velocità del vento, la quale non deve in ogni caso
risultare inferiore a 15-18 km/h.
Una volta accertata la presenza di una adeguata ventosità si deve procedere alla scelta
del luogo nel quale collocare l’aeromotore; essa deve rispondere a criteri legati ad un
razionale sfruttamento del vento (massima esposizione, assenza di ostacoli, ecc.) e
alla vicinanza delle utenze per le quali l’aeromotore è stato predisposto.

Le tipologie di generatori eolici sono essenzialmente riconducibili a:

– macchine ad asse verticale;


– macchine ad asse orizzontale.

Gli aeromotori ad asse di rotazione verticale o panemoni sono macchine la cui


rotazione, come lo stesso nome indica, è indipendente dalla direzione del vento. Pur
essendo semplici da realizzare, sono pesanti, di difficile protezione dai venti forti e
presentano, inoltre, rendimenti non elevati (< 30%).

Un tipico esempio di panemone è quello ideato dal finlandese Savonius, dal quale
prende il nome: esso è costituito da due superfici semicilindriche rotanti solidalmente
intorno ad un asse verticale (FIG. 27).

Fig. 27 L’aeromotore Savonius ad asse di rotazione verticale. Alla semplicità


costruttiva e alla possibilità di non richiedere alcun orientamento al vento si
contrappongono il peso elevato e l’impossibilità di raggiungere elevate velocità di
rotazione.
L’impossibilità di raggiungere elevate velocità di rotazione (il rotore presenta una
velocità di bordo di 0,8 volte quella del vento) e l’elevata coppia motrice rendono il
rotore Savonius idoneo ad essere collegato con pompe alternative; risulta, invece,
sconsigliato l’abbinamento con un generatore di corrente elettrica.

Altro esempio di aeromotore ad asse verticale è il rotore Darrieus che nella sua
forma classica è formato da 2-3 pale incurvate ad arco ed incernierate
all’asse di rotazione (FIG. 28): la velocità di rotazione è superiore di 5-8 volte a
quella del vento ed i rendimenti sono nettamente più elevati rispetto al Savonius. Ciò
permette a questa macchina di essere utilizzata anche per l’azionamento di generatori
di energia elettrica.

Fig. 28 Il rotore Darrieus nella sua conformazione più classica a pale incurvate e
incernierate all’asse di rotazione. L’impossibilità di avviamento autonomo, dovuta
alla simmetria delle pale, viene ovviata adottando pale a profilo asimmetrico oppure
montando un motore elettrico il cui avviamento è comandato da un anemometro.

Le macchine ad asse di rotazione orizzontale, cioè i generatori eolici ad elica, sono


senza alcun dubbio quelle più diffuse e più conosciute.
Un primo gruppo di macchine – caratterizzato da un elevato numero di pale, da basse
velocità di rotazione e da elevate coppie motrici – viene impiegato per l’azionamento
di pompe alternative.

Tipici esempi sono i mulini a vento e tutti gli aeromotori di vecchia concezione.
Ad essi si contrappone la nuova generazione di aeromotori che dispongono di un
numero limitato di pale (da 1 a 4) (FIG. 29) che, grazie al loro profilo aerodinamico e
all’impiego di materiali leggeri derivati dal settore aeronautico, consentono di
raggiungere velocità di rotazione tali da rendere possibile l’impiego di generatori
elettrici.
Con tali macchine diviene indispensabile l’adozione di limitatori di velocità del
rotore i quali, oltre che garantire l’integrità di quest’ultimo e della struttura di
sostegno, assicurano anche un corretto funzionamento del generatore di corrente.
Per quanto riguarda quest’ultimo la scelta tecnicamente ottimale prevede
l’abbinamento di un generatore di corrente continua con un sistema di accumulo e
con un dispositivo di conversione corrente continua/corrente alternata.

Fig. 29 Generatori eolici tripale ad asse orizzontale.

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