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The Reef & The Craft


Ero una piccola creatura nel cuore
Prima di incontrarti,
Niente entrava e usciva facilmente da me;
Eppure quando hai pronunciato il mio nome
Sono stata liberata, come il mondo.
Non ho mai provato una così grande paura, perché ero senza limiti.
Quando avevo conosciuto solo mura e sussurri.
Stupidamente sono scappata da te;
Ho cercato in ogni angolo un riparo.
Mi sono nascosta in un bocciolo, ed è fiorito.
Mi sono nascosta in una nuvola, e ha piovuto.
Mi sono nascosta in un uomo, ed è morto.
Restituendomi
Al tuo abbraccio.

Mary-Elizabeth Bowen
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Demetra La Madre

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Demetra la Madre

Quando parliamo del concetto di Madre in quanto tale, nel culto greco non c'è divinità
che possa incarnare meglio questo ruolo che Demetra. In questo aspetto, la divinità
non rispecchia solo il ruolo fisico di genitrice dei figli, ma anche il comportamento
volto a tutelare la loro vita con amore e a difendere la loro innocenza al punto di
arrivare anche ad impedir loro di crescere. La Madre in questo contesto detiene la
conoscenza del generare, pertanto è patrona del mistero del ciclo della vita che
nell'essere umano è scandito dal mestruo: lo ha esplorato perché ne ha realizzato
una o più volte lo scopo stesso rimanendo gravida e portando alla luce una vita
completa.
Il mistero stesso della vita è quello che incarna pienamente questo aspetto. In un
tempo antico, precedente al patriarcato, non si era ancora giunti all'associazione
dell'atto sessuale con la gravidanza. Le donne semplicemente, secondo un mistero
divino, rimanevano gravide e mettevano al mondo un bambino. Il ruolo dell'uomo non
era messo in correlazione con questo evento e di conseguenza la donna per diritto
deteneva il potere dal momento che era "Colei che Dà la Vita". Il ciclo di nascita e
crescita si verifica da milioni di anni nello stesso modo per ogni mammifero che vive
e respira su questa terra, di conseguenza anche per gli esseri umani. Oltre a mettere
al mondo i figli, la Madre li nutre con il suo stesso corpo mediante il latte, producendo
autonomamente tutto il loro sostentamento per un lungo periodo. Pertanto incarna
l'aspetto di Creatrice e di Nutrice. Ed è qualcosa che nessun uomo può capire, tranne
forse l'indovino Tiresia, che si trovò ad essere trasformato in una donna per sette
anni dopo aver ucciso un serpente femmina mentre copulava durante una
passeggiata sul monte Climene.

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Demetra nel culto greco era la secondogenita figlia di Crono e Rea, e come le sorelle
e i fratelli venne ingoiata ancora piccola dal padre e in seguito liberata da Zeus grazie
all'emetico donatogli da Meti, versato di nascosto nella sua bevanda mentre si
spacciava come coppiere divino. Nonostante questo mito, possiamo trovare in questa
dea un'origine decisamente molto più antica, a partire dal nome stesso. L'etimologia
infatti deriva da Da e Meter, ossia Madre Terra, che deriva ancora dall'indoeuropeo
dheghom mather, ossia Madre Dispensatrice. Ma secondo alcuni glottologi la stessa
sillaba "Da", porterebbe ad una radice di offerta e distribuzione in cui troviamo il ruolo
della dea e che porta anche, infine, al verbo latino "dare", che è ancora in uso
comune nell'italiano moderno.
Come molte altre divinità, anche Demetra fu una delle spose di Zeus, da cui ebbe
un'unica figlia: Kore, il cui nome significa letteralmente "fanciulla"; ma in rilievi più
antichi in scrittura Lineare B di epoca Micenea trovate a Pilo la si vede come moglie
di Poseidone. Queste iscrizioni si riferiscono ad una richiesta divina e si vedono i
nomi di queste due divinità messe in parallelo. Le due scritte recitano PO-SE-DA-
WO-NE e DA-MA-TE, e sarebbero un riferimento a queste due divinità dove, come
abbiamo visto, "Da" è una particella legata al dono, quindi il nome di Poseidone, in
radice potei-da, significherebbe letteralmente: "Marito di Da", o "Consorte di Colei
che Elargisce". Da notare c'è infatti che Poseidone era un dio legato ai cavalli e ai
terremoti e la stessa Demetra, in Arcadia, era venerata in forma zoomorfa con la
testa equina. Secondo quando ci dice Karol Kerenyi nel suo Gli Dei della Grecia: "Da
era un nome antichissimo per Ga, Gea, De-meter o Da-mater portava quel nome
probabilmente nella sua qualità di madre-terra, e in questa stessa qualità aveva
come sposo Poseidone. Le due divinità erano particolarmente legate ad una forma di
vita greca e ai suoi prodotti, esse erano legate anche alle cose che formavano tale
genere di vita e che in parte esse avevano prodotto: la dea al frumento, il dio al
cavallo, da quando esso era stato allevato in Grecia. Nella sua unione nuziale con
Zeus, Demetra era piuttosto un alter ego della Grande Madre Rea che col proprio
figlio aveva generato Persefone nella quale era rinata lei stessa - mistero di cui
apertamente si raccontava poco - mentre nell'unione con Poseidone essa era la
terra, madre delle piante e di animali, che perciò poteva assumere anche l'aspetto di
una spiga o di una giumenta.
Si raccontava che Demetra fosse già alla ricerca della figlia rapita Persefone, quando
Poseidone incominciò a perseguitarla con la sua brama amorosa. La dea si trasformò
in una giumenta e si mischiò ai cavalli pascolanti del re Onkios. Poseidone però si

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accorse dell'inganno e si congiunse a lei sotto forma di uno stallone. La dea adirata
diventò una Erinys, dea dell'ira, e si chiamò Demeter Erinys fino a quando non si
purificò della sua ira nel fiume Ladone, assumendo dopo quel bagno l'appellativo di
Lusia. A Poseidone essa partorì una figlia che non si doveva nominare nei misteri e
partorì contemporaneamente anche il celebre cavallo Arione o Erion, dalla criniera
nera, criniera che aveva ereditato da Poseidone - così si comcepiva già nell'antichità
questa storia. (...) Demetra si perpetuò in una figlia di cui non si doveva fare il nome -
e in ciò si riconosce anche qui il racconto misterico -, Poseidone invece in un
cavallo."
Demetra era la dea della terra, la signora delle messi, e aveva fatto dono all'umanità
dell'aratro e delle arti agricole, dalla semina alla mietitura e alla produzione stessa del
pane. Ma nell'Inno Omerico a lei dedicato, lunghissimo e complesso, la si associa
anche al culto della morte e del matrimonio, come del resto ad altre dee madri.
Il grosso del mito di Demetra è incentrato sul rapimento della figlia Kore per la
congiura che ha visto interessato Zeus e il fratello Ade, con la complicità involontaria
di Atena, Artemide ed Afrodite. Il mito è tra i più noti ed è narrato da moltissimi autori,
tra cui Ovidio, gli Inni Omerici, Claudiano, Apollodoro, Clemente Alessandrino, e si
differenziano per alcuni particolari di media e piccola importanza. Il mito, a grandi
linee, si svolge narrando di come Ade, al contrario di tutti gli altri dei, non ha alcuna
moglie legittima e un giorno, stufo del senso di inferiorità che prova, si rivolge al
fratello Zeus, chiedendo di poter avere realizzato il suo diritto paritario di avere una
consorte. Comprendendo il dilemma il Padre degli dei cerca di risolvere il problema
esaminando quali dee possano essere disponibili a divenire moglie di Ade, e dal
momento che tra quelle non sposate contava Atena, Artemide ed Estia, che avevano
deciso di rimanere vergini, la sua scelta ricadde sulla figlia Kore. Sapendo però che
Demetra non avrebbe acconsentito a queste nozze e che non avrebbe mai perdonato
questo affronto, risponde che non avrebbe potuto né avvallare né negare la sua
richiesta, e pertanto organizza uno stratagemma.
Demetra era una madre amorevole e attenta, ma per non ben specificati motivi si
recò in viaggio in Frigia, raccomandando la figlia di non uscire di casa. Approfittando
della sua assenza, Zeus incaricò Afrodite, che mise a parte dei suoi piani, Atena e
Artemide di portarla a raccogliere fiori sul monte Enna assieme ad alcune ninfe
oceanine. Kore, che incarna l’archetipo di fanciulla innocente e ingenua, seguì le tre
dee per andare a cogliere fiori. A giudicare dal comportamento non doveva essere
più di una bambina quando, soffermandosi a raccogliere un narciso che aveva

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particolarmente attirato la sua attenzione, tirandolo per estrarlo dalla terra assistette
al suo aprirsi e all'emergere del carro di Ade, il dio degli inferi, trainato dai suoi cavalli
neri infuocati ed immortali. Il dio, con la sola presenza, incusse un terrore cieco nelle
ninfe, che immediatamente si diedero alla fuga, e prese con la forza Kore
trascinandola via con sé. Ovidio ci narra di come Kore si addolorasse per i fiori che
dalla sua veste caddero a terra, ignara del fato che l'attendeva, e Claudiano invece ci
racconta di come Atena ed Artemide si intromisero nel ratto: "Appena, domata da
quel braccio, la Sicilia ruppe il potente vincolo e fu separata dall’immensa voragine,
un improvviso spavento apparve in cielo: gli astri mutarono le leggi del cammino,
l’Orsa si bagnò nell’Oceano a lei vietato, la paura incalzò il tardo Boote, Orìone
rabbrividì, Atlante si fece pallido udendo il nitrito. L’oscuro fiato occulta lo splendore
del cielo; ma il mondo atterrì i cavalli nati a pascersi in eterna caligine: mordendo il
freno s’arrestano attoniti in quel mondo più bello e girando l’asse tentano di tornare al
tremendo Caos. Poi, quando ai fianchi avvertirono la frusta e appresero a tollerare
Sole, piombano più veementi di un fiume dopo la bufera, più rapidi del giavellotto:
quanto non vola neppure la saetta del Parto, il furore dell’Austro, il lieve pensiero
della mente agitata. Di sangue è caldo il morso, il pestifero alito guasta l’aria, corrotto
dalla bava si infetta il suolo. Fuggono le Ninfe. Sul cocchio è rapita Proserpina e
chiede aiuto alle Dee. Già Pallade scopre il volto della Gorgone, la Delia rapida dirige
la freccia, e allo zio si oppongono: le spinge alle armi la comune verginità e le
esaspera l’offesa spietata del rapimento. Egli è come un leone che afferra una
giovenca, vanto della stalla e della mandria, e ne trae con gli artigli le viscere e sulle
spalle, sui fianchi sfoga la ferocia; si erge bruttato di denso sangue, scuote i ricci
della criniera e sprezza la vile ira dei pastori. «Tiranno di una torpida gente, pessimo
tra i fratelli - esclama Pallade - quali Eumenidi con aculei e empie fiaccole t’hanno
aizzato? Perché abbandoni il tuo regno e osi violare il cielo con l’infera quadriga? Hai
le deformi Dire, hai le altre divinità del Lete, e le lugubri Furie, degne delle tue nozze!
Vattene dalla casa del fratello, lascia l’altrui retaggio, parti contento del tuo buio!
Perché confondi la vita con i sepolcri? Perché straniero calpesti il nostro mondo?»
Così gridando, percuote col truce brocchiere i cavalli frementi di slancio, li trattiene
con il rotondo ostacolo da cui, fischiano le gorgonie idre, e con le protese creste li
incalza. Al colpo si libra la lancia e fronteggiandolo illumina l’oscuro cocchio; e
l’avrebbe percosso, se Giove dall’alto etere non avesse vibrato il pacifico volo di una
rossa saetta, riconoscendosi suocero. Tra nubi squarciate echeggia l’inno imeneo e
le fiamme attestano il connubio. Deluse si ritraggono le Dee."

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Le dee, costrette al silenzio, dovettero sottostare al volere di Zeus, e Demetra, anche


se lontana, sentì l'urlo disperato di Kore e si accorse che qualcosa era capitato alla
figlia, tanto che si precipitò verso casa come un uccello e si gettò alla sua ricerca.
Nessuno degli Olimpi che assistette poté però avvisare la madre e Demetra per nove
giorni errò per la terra senza toccare ambrosia e nettare e senza lavarsi, con le
fiaccole tra le mani, chiamando il nome della figlia, finché non incontrò Ecate, che
come lei aveva udito il grido di Kore e le diede la triste notizia del rapimento, senza
però saperle dire chi potesse aver commesso il crimine.
Le suggerì però di chiedere a Elio, il Sole, che dal cielo di sicuro aveva visto cosa era
accaduto. Il figlio di Iperione rispose: "Ho venerazione per te e compassione del tuo
dolore per la perdita della fanciulla dalle belle caviglie. Nessun altro degli immortali
ne è colpevole, se non Zeus, che la diede in sposa a suo fratello Ade. Questi la
trasse con violenza sul suo carro e la portò nel regno dell'oscurità, senza
minimamente curarsi del suo disperato pianto. Ma tu, dea, cessa di lamentarti. è
inutile nutrire un'ira così inestinguibile. In tuo fratello Ade tu non hai acquistato un
genero indegno tra gli dei. Egli è onorato in un terzo dell'universo, da quando questo
è stato diviso, e, dove dimora, egli è re!"
Il decimo giorno Demetra ebbe l'incontro con Poseidone, ad Onco, durante il quale il
dio del mare la prese con la forza sottoforma di stallone. Come abbiamo visto fu un
incontro poco piacevole e la dea, senza darsi pace, si recò da Zeus, chiedendogli di
liberare la figlia. Ma questi rispose pressoché come Elio, dicendo che era solo per
sorte che lui si trovava sul trono dell'Olimpo e che non aveva alcuna vergogna
nell'avere un genero come suo fratello Ade. A quel punto il dolore della dea fu all'orlo.
Abbandonò l'Olimpo e, camuffata da anziana donna in modo che nessun uomo
potesse riconoscerla, si recò errando per le terre e le città degli uomini, trovandosi
presso la città di Eleusi, governata all'epoca dal re Celeo, che la onorava. Si sedette
presso la fonte dove le vergini andavano ad attingere l'acqua e sotto l'ombra di un
ulivo rimase immobile e disperata finché non giunsero le quattro figlie del re: Callitoa,
Demo, Callidice e Clisidica. La prima si rivolse a lei e gentilmente le offrì di entrare a
palazzo chiedendole da dove venisse. La dea accettò e senza rivelare la sua identità
inventò una scusa per giustificare la sua presenza in quel luogo, spacciandosi come
una sopravvissuta ad un rapimento e chiedendo se potesse rendersi utile a palazzo
come nutrice, e prendendo nome "Dono", a richiamare il concetto di "Da"
nell'indoeuropeo del "Dare", come leggiamo nell'Inno a Demetra:
"Fermandosi davanti a lei, le rivolsero parole alate:

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"O vecchia, da dove vieni, e chi sei fra i mortali carichi d'anni?
Perché ti sei diretta fuori dalla città, e non ti avvicini alle case?
Là, nelle sale piene d'ombra, vi sono donne
la cui età è proprio uguale alla tua, e altre più giovani,
che ti accoglierebbero con atti e parole cordiali".
Così dissero; e la veneranda fra le dee rispose con queste parole:
"Care figlie, chiunque voi siate tra le donne,
io vi saluto, e a voi risponderò; certo, è giusto
che alle vostre domande io risponda la verità.
Dono è il mio nome: così infatti mi chiamò la madre veneranda;
e ora da Creta, sull'ampia superficie del mare,
sono venuta senza volerlo: con la violenza e la costrizione, contro il mio desiderio,
i pirati mi portarono via.
Essi poi con la nave veloce approdarono a Torico,
dove le donne scesero a terra tutte insieme,
ed essi preparavano il pasto presso gli ormeggi della nave.
Ma il mio cuore non desiderava il cibo dolce come il miele:
e nascostamente avviandomi attraverso il cupo entroterra
fuggivo i miei tracotanti padroni, perché essi
non traessero guadagno da me, vendendomi senza avermi comprata.
In tal modo, vagando, sono giunta fin qui, e non so affatto
quale paese sia questo, e chi vi abiti.
Suvvia, tutti gli dei che abitano le dimore dell'Olimpo
vi concedano legittimi sposi, e di generare figli
come gli sperano i genitori, così voi abbiate pietà di me, fanciulle,
e siate mie amiche. Care figlie, in quale casa potrei andare,
di quale uomo o quale donna sì che io compia per loro,
volenterosa, i lavori che si addicono ad una donna attempata?
Tenendo fra le braccia un bambino appena nato
io potrei allevarlo premurosamente, e avrei cura della casa,
e preparerei, nell'intimo delle camere ben costruite,
il letto dei signori, e addestrerei al lavoro le donne".
Demetra venne così accolta alla corte di Celeo dalla moglie Metanira per occuparsi
del nuovo nato. Appena dentro la dea rimase in un angolo con il volto coperto da un
velo e la veste scura rifiutando l'invito di Metanira a sedersi finché la serva Iambe non

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le portò uno sgabello rivestito di pelle di pecora e cominciò ad intrattenerla


mostrandole come faceva apparire il figlio Iacco da sotto la veste, facendo ridere la
dea e riportandole un po' di serenità. Questa figura merita però un piccolo
approfondimento. Secondo alcune versioni si trattava di Baubo, una dea che apparve
a Demetra in quell'occasione e che rispecchia una versione antichissima delle proto-
madri preistoriche, prive di volto ed in possesso di enormi genitali. Baubo le avrebbe
mostrato i genitali o l'avrebbe intrattenuta con barzellette oscene. Ma la cosa
interessante è notare che Iacco è una figura associata ai Misteri Eleusini, legati
completamente proprio al mito di Demetra e Kore e che, secondo molti autori, come
Sofocle o Nonno, era uno degli epiteti di Dioniso e rappresentava il fanciullo divino
nato negli inferi che annunciava il suo stesso ritorno.
Ma torniamo ora al mito: a Demetra venne offerto del vino, bevanda che lei rifiutò
chiedendo che le venisse data una bevanda composta da orzo mescolato nell'acqua
e aromatizzata con della menta. Anche qui troviamo un collegamento con Dioniso,
che secondo molti autori è identificabile con lo stesso Ade. La dea rifiuta la bevanda
ottenuta con la fermentazione del frutto della vite, sacra a Dioniso, per chiedere una
bevanda ottenuta con l'orzo, sacra a lei stessa.
Metanira le affidò quindi il piccolo Demofoonte, e Demetra promise che l'avrebbe
trattato con tutti i riguardi, conoscendo un modo per renderlo immune dai malanni.
Dopodiché lo mise al seno. Demetra si occupò del piccolo per un tempo indefinito,
ungendolo con ambrosia e avvolgendolo nel suo alito, con l'intenzione di renderlo
divino. A tal proposito ogni notte lo sottoponeva al fuoco per bruciare la sua forma
mortale e donargli l'immortalità. Metanira però, notando come il piccolo crescesse in
modo quasi miracoloso, una notte si alzò per spiare la nutrice e verificare che cosa
facesse e, vedendo il bambino nel fuoco, si mise ad urlare disperata, convinta che
Demetra lo stesse uccidendo. A quel punto la dea rivelò se stessa e infuriata si
rivolse a Metanira, come ci narra l'Inno a lei dedicato:
"Adirata contro di lei, Demetra dalla bella corona,
il figlio che Metanira, oltre ogni speranza, nella sua casa aveva generato,
con le mani immortali trasse via dal fuoco, e lontano da sé
lo depose a terra, piena di furore terribile nell'animo;
e intanto diceva a Metanira dalla bella cintura:
O stolti esseri umani,
incapaci di prevedere
il destino della gioia o del dolore che incombe!

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In verità, per la tua incoscienza anche tu hai gravemente errato.


Infatti - e mi sia testimone l'inesorabile acqua dello Stige, su cui giurano gli dei -
immortale, certo, e immune da vecchiezza per sempre
io avrei reso tuo figlio, e gli avrei concesso un privilegio imperituro:
ma ora non potrà più sfuggire al destino di morte.
Egli avrà tuttavia un privilegio imperituro, per sempre, poiché è salito
sulle mie ginocchia, e ha dormito fra le mie braccia:
in suo onore, ogni volta che l'anno avrà compiuto il suo ciclo attraverso le stagioni,
i figli degli Eleusinii per sempre eseguiranno
un combattimento fra loro, una mischia violenta.
Io sono l'augusta Demetra, colei che più di ogni altro
agli immortali e ai mortali offre gioia e conforto.
Orbene: per me un grande tempio, e in esso un'ara,
tutto il popolo innalzi ai piedi della rocca e del suo muro sublime,
più in alto di Callicoro, sopra un contrafforte del colle;
io stessa vi insegnerò il rito,
affinché in futuro
celebrandolo secondo l'ordine divino possiate placare il mio animo"
A quel punto Celeo ordinò la costruzione di un fastoso tempio dedicato alla dea, la
quale, quando fu terminato, si sedette al suo interno rimanendo cupa e triste e
pensando solo al destino della figlia rapita e maledicendo la terra, che non diede
alcun frutto. Come ci narra Ovidio: "E lì con mano spietata spezzò gli aratri che
rivoltano le zolle, furibonda condannò a morte uomini e buoi insieme, e impose ai
seminati di tradire le speranze in essi riposte avvelenando le sementi. La fertilità di
quella regione, decantata in tutto il mondo, è smentita e distrutta: le messi muoiono
già in germoglio, guastandosi per troppo sole o troppa pioggia; stelle e venti le
rovinano, con avidità gli uccelli ne beccano nei solchi i semi; loglio, rovi e inestirpabile
gramigna soffocano il suo frumento". Per quanto quindi le persone cercassero di
seminare, la terra non dava alcun frutto, pertanto smisero di fare olocausti agli dei.
Zeus, preoccupato per la situazione, mandò alcuni messaggeri divini a cercare di far
ragionare Demetra offrendole doni, a cominciare da Iris, la messaggera dalle ali
d'oro, ma a nulla valsero i tentativi. Demetra non avrebbe più fatto crescere nulla
sulla terra finché non le fosse stata restituita la figlia, a costo di lasciare che l'umanità
intera morisse di fame.
Messo alle strette di fronte ad una carestia di quelle proporzioni, Zeus si vide

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costretto a tornare sulla propria decisione. Incaricò Ermes di recarsi negli inferi a
recuperare Kore, che nel frattempo era divenuta Persefone, e di riportarla dalla
madre: con lei sarebbe potuta rimanere se non avesse mangiato nulla della mensa
infera. Il dio dei viaggi obbedì e si presentò innanzi ad Ade, comunicando ciò per cui
era disceso e qui le versioni hanno le differenze più sostanziali, che cambiano anche
il senso reale di questo mito. Secondo alcuni Ade, "per il viaggio", le diede da
mangiare dei semi di melograno, secondo altri fu lei a mangiarli mentre si trovava
laggiù inconsapevolmente, aggirandosi nel giardino di melograni curato da Ascalafo,
mentre altri sostengono che li avesse mangiati sapendo a cosa andava incontro
perché non c'era alcuna dea che avrebbe mai scelto di condividere gli inferi, che però
avevano bisogno di un ruolo femminile. In ogni caso Persefone tornò dalla madre
sulla stessa quadriga con cui fu rapita, guidata questa volta da Ermes, e riabbracciò
Demetra che immediatamente le chiese se avesse mangiato nulla mentre si trovava
negli inferi. Anche qui la storia devia perché secondo alcuni Persefone mentì alla
madre incolpando Ade di averle dato dei semi a tradimento quando li aveva mangiati
di sua spontanea volontà, oppure rivelò ingenuamente di aver mangiato mentre si
trovava là. Secondo altri lei, comprendendo cosa implicasse ciò che aveva fatto,
cercò di mentire, dicendo di non aver mangiato nulla, se non che Ascalafo, avendola
vista nutrirsi nel giardino di cui si occupava, spifferò la verità a Zeus. In qualsiasi
modo, Persefone comparve innanzi al padre e questi, visti i fatti, decretò che,
essendosi nutrita di alcuni semi di melograno, dovesse rimanere legata al regno
infero per un terzo dell'anno mentre per i restanti due terzi potesse stare con la
madre.
Una volta che la situazione ritornò alla normalità, Demetra si prese il tempo di
vendicarsi del torto subito. Per primo punì Ascalafo, come ci narra Ovidio nelle
Metamorfosi. Egli era infatti il giardiniere infero, figlio di Acheronte e di Orfne, e
Demetra lo trasformò in un rapace notturno. Dopodiché andò a colpire le ninfe che
erano fuggite, tramutandole in creature per metà donne e per metà uccelli: divennero
così le sirene. Secondo altri miti però le ninfe, pentite dal loro stesso fuggire, si erano
date alla ricerca dell'amica per mare e cielo, tramutandosi loro stesse in creature
alate.
A quel punto Demetra fece istituire i Misteri a lei dedicati nella città di Eleusi.
Secondo l'Inno a Demetra, vediamo come:
"Così parlava, e obbedì Demetra dalla bella corona,
e subito fece sorgere le messi dai campi ricchi di zolle.

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Tutta l'ampia terra di foglie e di fiori era onusta;


ella poi si mise in cammino, e insegnò ai re che rendono giustizia
- a Trittolemo, a Diocle agitatore di cavalli, al forte Eumolpo, a Celeo signore di
eserciti -
la norma del sacro rito; e rivelò i misteri solenni,
a Trittolemo, a Polisseno, e inoltre a Diocle,
venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare,
o palesare, perché la profonda reverenza per le dee frena la voce.
Felice tra gli uomini che vivono sulla terra colui ch'è stato ammesso al rito!
Ma chi non è iniziato ai misteri, chi ne è escluso, giammai avrà
simile destino, nemmeno dopo la morte, laggiù, nella squallida tenebra.
Essere iniziati a questi Mysteria garantiva la sopravvivenza dell'anima al di là della
vita e della morte, oltre i regni dell'Ade. Alcuni autori, come Aristotele, Platone,
Plutarco, Sofocle ed Euripide, nel corso dei secoli hanno descritto più o meno
dettagliatamente che cosa capitasse durante questi riti, e dalle esperienze narrate da
questi emerge il fatto che fossero quasi totalmente un'esperienza votiva e non un
culto vero e proprio. Proprio in concomitanza con i nove giorni in cui Demetra cercò
la figlia prima di giungere ad Eleusi, questi rituali misterici avevano una durata
paritaria e ripercorrevano il Ratto di Persefone.
Lasciando a parte ora lo svolgersi dei Misteri Eleusini, che non ci interessa nei
termini dell'articolo e che comunque ho avuto modo di trattare già in un'altra
occasione, ossia nell'articolo dedicato al sabba di Mabon, il ruolo di Demetra emerge
chiaro, al punto da delineare una divinità a tutto tondo, combattiva e rabbiosa quando
ferita, esattamente nel paragone che possiamo trovare con l'orsa che difende i suoi
cuccioli, ma nello stesso tempo completamente soggiogata ad un ruolo dipendente
dal maschile, in quanto sottomessa al volere del marito, così come Hera, e pertanto
costretta a trovare una vendetta o a dover ottenere il compiersi del suo volere solo
tramite artifici esterni. In questo si intende che Demetra non si è chiaramente opposta
al volere di Zeus andando a prendersi da sola la figlia, bensì ha sostanzialmente
messo il broncio e colpito di rimando chi l'ha ferita in modo indiretto. Non ha quindi
sfidato il regime precostituito, ma lo ha aggirato, ottenendo infine ciò che desiderava.
Nonostante ciò nell'opera, purtroppo incompiuta, di Claudiano, che tra tutte quelle
che narrano dell'errare di Demetra alla ricerca di Kore è quella più romanzata e
complessa, vediamo in ultima analisi la dea prendere un cipresso per mano per farne
delle torce ed affrontare l'inizio della discesa all'interno del vulcano dell'Etna.

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Un analogo ruolo lo troviamo nella Gigantomachia, quando Demetra, insieme ad


Estia, non scende in battaglia, in quanto si definisce pacifista, e rimane in attesa di
conoscere lo svolgersi del conflitto torcendosi le mani. Nonostante quindi abbia un
ruolo libero dal vincolo matrimoniale, Demetra partorisce Kore da Zeus e, secondo
Aristofane, ne Le Rane, anche lo stesso Iacco, il bambino che vediamo come figlio di
Baubo, la domestica di Metanira. Questo ruolo di madre libera la porta a congiungersi
anche con il gigante Giausio durante le nozze di Cadmo e Armonia stendendosi su
un campo tre volte arato, unione da cui partorì Fiuto, come ci narra Diodoro Siculo. In
questo contesto di madre è riconosciuta come un animo sempre gentile con gli esseri
umani. Si narra che solo in due occasioni si mostrò crudele o comunque vendicativa,
come ci racconta Robert Graves: Demetra ha un animo gentile ed Erisittone, figlio di
Tropia, fu uno dei pochi uomini che essa trattò con durezza. Alla testa di venti
compagni, Erisittone osò invadere il bosco Sacro che i Pelasgi avevano dedicato alla
dea a Dozio e cominciò ad abbattere alberi sacri per costruirsi una nuova sala per i
banchetti. Demetra assunse l'aspetto della ninfa Nicippa, sacerdotessa del bosco e
gentilmente ordinò a Erisittone di desistere. Ma quando costui la minacciò con la sua
ascia, Demetra gli si rivelò in tutto il suo splendore e lo condannò a soffrire la fame in
perpetuo, per quanto mangiasse. Erisittone ritornò a casa e si abboffò dalla mattina
alla sera a spese dei suoi genitori, ma più mangiava più diventava magro e roso dai
morsi della fame, finché non fu più possibile fornirgli altro cibo ed egli dovette
mendicare per le strade, mangiando rifiuti. A Pandareo di Creta, invece, che rubò il
cane d'oro di Zeus e la vendicò così per l'uccisione di Giasio, Demetra concesse di
non soffrire mai di dolori intestinali.
Nel mito che interessa il Ratto della figlia, troviamo qui come si delinei una triade di
divinità, dove Core è la giovane, Persefone la madre ed Ecate la saggia.
L'incarnazione delle tre è la stessa Demetra, che richiama l'epoca antica in cui i
misteri agresti erano esclusivo appannaggio femminile, e dove quindi si ripercorreva
il culto legato al ciclo del grano: ossia verde e giovane (Kore), maturo (Persefone) e
raccolto (Ecate). In questo si trova traccia quando si rapporta Persefone, come
regina infera, legata al grano, ed infatti diviene sposa di Ade, un dio agreste egli
stesso, portando con sé nelle rappresentazioni la spiga di grano. In molte
interpretazioni infatti si vede come Persefone fosse l'evoluzione della stessa
Demetra, in una visione in cui la figlia prende il posto della madre. Il mito, quindi,
ricrea una dimensione di metamorfosi da uno stato divino ad un altro, creando un
parallelismo misterico tra il ciclo agreste e l'evoluzione fisica della donna da giovane

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a madre solo in seguito, ossia quando, appunto, la teoria del legame tra attività
sessuale e concepimento venne affinata.
In questo contesto si inserisce ora anche Dioniso/Iacco, figlio di Demetra o di Baubo,
a seconda dell'antichità cui ci si riferisce. Iacco, come abbiamo visto, rappresenta il
bambino che rinasce riportando la luce, e non a caso è anche la versione orfica di
Dioniso, il dio nato due volte che dovrebbe prendere il posto di Zeus e che viene
smembrato dai titani aizzati da Hera sotto il nome di Zagreo. Secondo una parte del
mito, Demetra, durante il suo soggiorno alla corte di Metanira, offesa per una battuta
fattale da uno dei figli di Celeo, Abante, che le fece notare come bevesse avidamente
la bevanda offertale dalla regina in persona, lo trasformò in una lucertola. Non
essendo solita a comportamenti di tale natura, Demetra decise di prendersi cura del
piccolo Demofoonte, a cui decise di donare l'immortalità bruciandone le spoglie
mortali nel fuoco e ungendo il corpicino con ambrosia. Ma un altro dei figli di Celeo e
Metanira ottiene il favore della dea delle messi, e questo è Trittolemo. Nella versione
del mito in cui il piccolo destinato al rango divino muore tra le fiamme quando
Demetra è scoperta in procinto di gettargli l'incantesimo che l'avrebbe reso immune
alla morte, Celeo disperato viene consolato dalla dea rivelata con queste parole:
"Asciuga le tue lacrime. Disaule, ti rimangono tre figli, tra i quali Trittolemo, cui io farò
tali doni che scorderai la duplice perdita". Il termine a cui si riferisce la dea è un
epiteto con cui venne da quel momento conosciuto il re di Eleusi e che in alcune
versioni è il nome del fratello stesso del re, marito di Baubo e figlio di Iacco.
Ma torniamo a Trittolemo. In questa versione del mito egli, che si occupava del
bestiame, si ingraziò la dea delle messi in due modi: il primo fu affermare che non
desiderava occuparsi degli affari di palazzo ma divenire un sacerdote devoto appunto
a Demetra, che era molto venerata ad Eleusi, e in secondo luogo dandole notizie nei
riguardi del rapimento. Aveva infatti saputo che Euboleo, suo fratello porcaro, aveva
assistito all'aprirsi della terra, che aveva ingoiato interamente i suoi animali, e al
rapimento di una fanciulla. Dopo aver informato suo fratello Eumolpo raccontò
l'evento anche a lui. A quel punto Demetra ebbe la conferma di ciò che era avvenuto
e, insieme a Ecate, si recò da Elio per cercare spiegazioni, dato che aveva potuto
vedere ogni cosa. Recatasi così sul luogo dove avvenne il crimine (che cambia a
seconda di dove lo si racconta ma che si aggira sempre in zone dove Demetra era
molto venerata e dove comunque aveva girato nella sua ricerca: Enna in Sicilia,
Colono in Attica, Ermione, Creta, Pisa, Lerna, Feneo in Arcadia o Nisa in Beozia)
trovò ciò che rimaneva di Ciane, ossia la fonte in cui Ade l'aveva trasformata, e

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questa, non potendo più comunicare con Demetra, fece apparire a galla la cintura
della figlia, confermando definitivamente il terribile destino che era toccato a Kore.
Secondo un frammento orfico, Trittolemo fu quindi incaricato da Demetra di
discendere negli inferi per riportarle la figlia. Una catabasi che però non portò a
termine, ma che anzi secondo alcuni autori fu compiuta da Dioniso stesso, che sposò
Persefone per nozze infere. Come però sappiamo Dioniso e Ade hanno una
fortissima assonanza reciproca e Demetra rifiutò il vino offertole da Metanira
chiedendo bevanda di orzo e menta. Questo ci riporta, come abbiamo visto, a
ipotizzare una conoscenza nascosta del rapitore della figlia che ella riconosce
nell'emanazione del vino a lui sacro, per l'appunto rifiutandolo. Supponendo quindi
che Demetra fosse silenziosa compartecipe di ciò che era avvenuto ci si
spiegherebbe anche il suo misterioso viaggio in Frigia coincidente con la richiesta di
Ade al fratello, che non poteva essere né negata né avvallata.
Ma c'è un altro piccolo dettaglio interessante: Demetra chiede acqua con orzo e
menta. Questa pianta fa parte ancora di questo mito in quanto era il nome che
portava una ninfa amante di Ade che la stessa Persefone si premurò di strangolare
non appena divenuta regina dei reami inferi e che Ade per compassione trasformò in
una pianta profumata. Ma la stessa madre Demetra, per vendetta, la maledisse a non
poter avere frutti.
In qualsiasi modo la vicenda si chiude con una madre che riabbraccia una figlia e
insieme tornano sull'Olimpo. Dopo essersi prese le vendette che doveva e aver così
pareggiato i conti, però Demetra elargì anche i doni che aveva promesso. Iniziò ai
misteri i figli di Celeo e il padre stesso e diede a Trittolemo dei semi di grano
insegnandogli come coltivarlo.
Tutto questo, oltre anche alla vastità di grandi e piccole differenze che rendono
questo mito un coacervo di simbolismi e richiami differenti stratificati su differenti
epoche, ci fa notare soprattutto quanto sia difficile nella sostanza tracciare una
singola verità. Quello che comunque emerge è un'incapacità della madre Demetra di
accettare quanto meno consciamente la crescita e la redenzione della figlia nelle sue
diverse evoluzioni. Stadi che a livello umano sono anche facilmente identificabili e
fisicamente inevitabili per qualsiasi ragazza in età di sviluppo.
Ed è anche in questo che si installa a pieno un culto misterico così importante e per
nulla originario ellenico, anche perché più antico, risalente anche al 1600 a.C., e
importato dalla Tracia. Come ci fa notare Stelio Calabresi nel suo articolo “I Misteri
Eleusini: Demetra, Persefone e Ade”: "Per comprendere cosa significasse la

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presenza della dea, bisogna considerare ciò che ci dice E. Schuré ne "I grandi
iniziati" a proposito dei misteri maggiori e minori celebrati in Eleusi, che i Greci
importarono, come ho detto, dalla Tracia, passando dall'Egitto.
Qui Demetra si era immedesimata in Iside e si era trasformata in divinità ad essenza
esoterica.
Probabilmente l'essenza di questa sua caratteristica - che tra l'altro ne spiega
l'aspetto misterico - sfugge alla nostra comprensione di uomini moderni abituati a
rifuggire dal "mistero" in nome di una razionalità che dovrebbe spiegare e
razionalizzare tutto. Ma gli antichi proprio questo aspetto apprezzavano sopra tutto: il
segreto esoterico ed il suo significato a noi sfugge né esiste un autore dell'antichità
che possa illuminarci.
Concettualmente, quindi, noi non sappiamo come si celebrasse un mistero e cosa
avvenisse nel corso della celebrazione. Il rito rimaneva avvolto da un segreto
inviolabile. Peraltro dalla partecipazione erano rigorosamente esclusi i non adepti. Il
tentativo di violare il segreto era punito anche con la morte. Solo una specie di pazzo,
come Alcibiade (che riuscì a farla franca), o come Arione (che fu sbranato dai cani di
Diana) poteva pensare di violare i misteri di Eleusi o di qualunque altra divinità. (...)
Un conto era partecipare, commentare; cosa diversa era comprenderne il significato
recondito: il concetto non era "dicibile" perché non vi erano parole atte a spiegarlo.
Era mistero: mistero in senso esoterico: chiunque lo avesse compreso non poteva far
altro che tenerlo per sé per il semplice motivo che non aveva modo di poterlo
comunicare ad altri.
In sostanza, se prendiamo nel loro insieme i fatti dell'antica mitologia - ma questo
vale anche per le moderne religioni - constavano di due aspetti. Il primo era costituito
dall'aspetto narrativo e favolistico (essoterico) che narrava le vicende umanizzate di
dèi, semidei ed eroi leggendari (noi lo ritroviamo nei poemi dell'antichità).
In tali vicende era celato il secondo aspetto (stavolta esoterico), nascosto, a molti
incomprensibile e in ogni caso indicibile. Era questo il regno del mistero esoterico.
Sappiamo che la più antica venerazione gli uomini la riservarono al mistero della
maternità che venne personificata nella "Grande Madre" alla quale gli esoteristi
dettero vari nomi. Gli anatolici la chiamarono Ku-Ba-La, i Greci la definirono Destra, i
Latini Cibele, gli Egizi Iside."
è proprio questo aspetto misterico della madre che riconduce, come ci ha fatto notare
Stelio Calabresi, ad Iside, la dea madre egizia, come parallelo ad un pantheon
differente da quello greco. Il problema dell'affrontare correttamente questa divinità è

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che possiamo azzardare di trovarci di fronte alla dea più complessa, stratificata e
antica che l'umanità possa ricordare, in quanto la sua stessa origine egizia non
sarebbe che un passaggio, dato che si tratta di una divinità considerabile come pre-
egizia, con tutta la difficoltà che si può riscontrare in un'affermazione come questa.
Iside è talmente antica da aver trovato, nelle sue diverse manifestazioni,
metamorfosi, evoluzioni e sincretismi con dee egizie più disparate, come Hathor e
Maat. Parlare quindi correttamente di Iside è un impegno che va oltre le capacità di
un articolo e forse di un sito intero, perché andrebbe valutata ogni sua diversa
sfaccettatura, cosa che per esigenza di spazio e capacità stessa di ricerca non è
possibile fare. Non per nulla Iside è nota come la Dea dai Mille Nomi e viene
nominata con epiteti contrapposti l'uno all'altro, come vediamo nell'inno a lei dedicato
risalente al III secolo d.C.: Perchè io sono la prima e l'ultima
Io sono la venerata e la disprezzata
Io sono la prostituta e la santa
Io sono la sposa e la vergine
Io sono la mamma e la figlia
Io sono le braccia di mia madre
Io sono la sterile, eppure sono numerosi i miei figli

Io sono la donna sposata e la nubile


Io sono colei che da' la luce e colei che non ha mai procreato
Io sono la consolazione dei dolori del parto

Io sono la sposa e lo sposo


E fu il mio uomo che mi creò.
Io sono la madre di mio padre
Io sono la sorella di mio marito
Ed egli e' il mio figliolo respinto

Rispettatemi sempre
Poiché io sono la scandalosa e la magnifica.

Questo inno ci riporta al concetto che se Kore, Persefone ed Ecate, dove Persefone
è Demetra, rappresentano una triade di dee: vergine, ninfa, vegliarda, Iside le incarna
tutte e tre insieme. Ed infatti è signora della regalità e dea celeste solilunare. è figlia

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di suo marito, madre sterile di numerosi figli.


Nel mito egizio è sorella e sposa di Osiride, con cui faceva parte della Grande
Enneade insieme a Seth, Nefti, Tefnut, Shu, oltre che ai genitori Geb e Nut: terra e
cielo. Iside era patrona della magia, della maternità e fu associata anche alla Luna e
al Sole. Il suo potere e il suo culto erano immensi.
In uno dei miti più famosi che la vede interessata, narrato nel famosissimo Iside e
Osiride di Plutarco, Iside è sorella e compagna di Osiride. Geb, che regnava sul
mondo, lo designò come successore e assieme alla consorte portò un'era di
grandissima elevazione culturale e sociale. Il fratello Seth, il dio del caos, era però
geloso del regno perfetto del fratello ed escogitò pertanto una tremenda
macchinazione per assassinarlo. Con l'aiuto dei suoi settantadue congiurati e
ottenendo la collaborazione della regina che governava in quel tempo l'Etiopia, di
nome Aso, fece costruire un sarcofago ornato d'oro delle esatte dimensioni di
Osiride, dopodiché organizzò un grande banchetto in onore del suo insediamento
come sovrano, promettendo il sarcofago in dono a chiunque si adattasse
perfettamente al suo interno. Ad uno ad uno gli invitati provarono a sdraiarsi
all'interno del cofano ma, chi più e chi meno, a nessuno sembrava essere adeguato,
finché non venne il turno di Osiride, il quale non sapeva che i discepoli di Seth
avevano lavorato su quel sarcofago dorato costruendolo esattamente sulle sue
misure, affinché fosse perfetto per lui. Ignaro vi si adagiò all'interno e lo trovò perfetto
per il suo corpo, ma non fece tempo ad uscire perché i seguaci del dio del caos si
avventarono sul coperchio, chiudendolo e inchiodandolo immediatamente e
bloccandolo così all'interno. Fatto questo Seth lo fece portare sulle rive del Nilo e lo
gettò tra le acque del sacro fiume, esattamente alla Bocca Tanitica del Nilo, una delle
sette bocche del delta, dove andò alla deriva per lungo tempo finché si fermò in un
canneto nei pressi della città fenicia di Byblos, dove un albero di tamarindo
magicamente crescendo lo inglobò nel suo stesso tronco.
Iside percepì immediatamente che era capitato qualcosa ad Osiride e si mise senza
indugi alla ricerca del marito per tutto l'Alto e il Basso Egitto. Nel frattempo nella città
di Byblos il re aveva preso il tronco del tamarindo in cui era stato inglobato
magicamente il cofano contenente Osiride per farne una colonna del suo palazzo.
Plutarco ci narra in questo modo l'evento: "Iside, raccontano, fu informata di ciò per
ispirazione demonica della Fama: allora si recò a Byblos, si sedette presso una
fontana, e stava lì a piangere sulle sue miserie, senza mai parlare a nessuno. Solo
con le ancelle della regina si intratteneva volentieri, e intrecciava loro i capelli, e dal

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suo corpo spirava un meraviglioso profumo. Quando la regina vide le sue ancelle, fu
presa dal desiderio della straniera, della sua arte di fare le trecce e dell'ambrosia che
spirava dal suo corpo. Così Iside fu mandata a chiamare, e divenuta intima della
regina fu scelta come nutrice del principino. Il nome del re dicono che fosse
Malcandro, quello della regina invece secondo alcuni Astarte, per altri Saosis,
secondo altri ancora Nemanus, nome che per i Greci corrisponde a Athenais.
Iside allevava il bambino dandogli da succhiare la punta del dito al posto del seno; e
una notte bruciò la parte mortale del suo corpo. Poi, trasformatasi in rondine, prese a
volare intorno alla colonna, gemendo, fino a che la regina, che aveva osservato la
scena, quando vide il bambino in preda alle fiamme, si mise a gridare, privandolo
così dell'immortalità. La dea allora si rese visibile, e chiese la colonna del tetto: la
tolse con facilità, sfrondò i rami di erica che la avvolgevano, e poi la avvolse in una
pezza di lino, cospargendola di unguento odoroso." La dea si fece quindi dare in
dono il sarcofago e si recò nelle paludi di Chemnis, dove cercò, con la sua magia, di
soffiare di nuovo la vita nel corpo del marito morto. Durante questo delicato
incantesimo rimase gravida di Horus.
Nel frattempo Seth, venuto a conoscenza di ciò che era accaduto e approfittando
della lontananza di Iside, aprì il cofano e smembrò Osiride in quattordici pezzi,
spargendoli lungo l'Alto e Basso Egitto. Dopo questa ulteriore sciagura ancora una
volta Iside si mise alla ricerca del marito. In ogni punto in cui trovava un pezzo faceva
costruire un santuario in suo onore. L'unica parte che non si riuscì mai a recuperare
fu il fallo, che si dice fu ingoiato dall'ossorinico, un pesce del Nilo che è anche
l'animale che rappresenta lo stesso Seth. Qui le versioni si dividono in due diverse
soluzioni: la prima è che Osiride rimanse morto e divenne così il giudice dei defunti,
mentre l'altra è che, con l'aiuto di Anubis, venne ricomposto e mummificato, con un
fallo in legno in sostituzione a quello perduto, e ottenne così l'immortalità. Iside
partorì quindi Horus nel deserto, crescendo il figlio con l'intento della vendetta nei
confronti del fratello che aveva commesso questi atti terribili. Da adulto Horus
combatté contro Seth e lo vinse.
Ma c'è un altro mito che parla di Iside che è molto noto e che è narrato nei Testi delle
Piramidi e che è contenuto nel Papiro 1993 di Torino (XIX Dinastia), conservato
nell'omonimo Museo. In questo mito Iside ci appare lungi dall'essere una divinità
buona e caritatevole. In quanto signora della magia, deteneva un grandissimo potere,
secondo solo a quello di Ra. Il dio supremo era ormai vecchio e nel suo viaggio da
est a ovest sul suo carro solare ciondolava ormai la testa e perdeva saliva dalla

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bocca. Iside, gelosa del suo potere, modellò il primo cobra con saliva e sabbia e lo
mise sulla strada che il potente creatore percorreva ogni giorno sulla sua barca
"andando da Oriente verso Occidente attraverso le Due Terre, in accordo con il
desiderio del suo cuore". Non aveva necessità di usare la magia per fare ciò che fece
poiché l'essenza di Ra contenuta nella saliva diede vita all'animale.
Il serpente morsicò Ra al tallone; il dio cadde ammalato e tremante di veleno e
chiamò a sé tutti gli dei, compresa Iside, la quale, falsamente, si prodigò alle cure di
Ra, promettendo che avrebbe sconfitto il veleno con la sua magia se solo avesse
potuto conoscere il nome segreto del Dio, quello che nessuno conosceva. Ra,
delirante, pronunciò tutti i molteplici nomi con i quali era noto, ma si rifiutò di
pronunciare quello segreto, che solo lui conosceva. Questo nome, il "Vero Nome",
avrebbe dato un potere immenso se Iside l'avesse conosciuto; un potere che lei
desiderava ardentemente. La dea riprovò a convincere Ra, dicendogli che sarebbe
sopravvissuto solo il dio che avesse pronunciato il vero nome, e a quel punto il
creatore cedette e invitò la dea della magia ad avvicinarsi affinché le potesse passare
il vero nome direttamente dal cuore, e che lo passasse poi ad Horus, suo figlio:
"Avvicinati Iside, guarda qui e lascia che il mio nome, passi dal mio corpo al tuo. Io, il
più divino tra gli dei, l'ho tenuto nascosto, affinché il mio trono nella Barca Divina, da
milioni di anni, potesse essere esteso. Quando uscirà dal mio cuore, dillo a tuo figlio
Horus, dopo che egli abbia giurato per la vita del dio, ed abbia messo il dio nei suoi
occhi."
A quel punto Iside, ottenuto ciò che desiderava, scacciò il veleno dal corpo di Ra:
"Esci fuori, veleno! Esci da Ra! Oh Occhio di Horus, esci dal dio che ha dato origine
alla vita per mezzo delle sue parole! Io sono colei che realizza questo incantesimo, io
sono colei che manda fuori il potente veleno, affinché cada sulla terra. Il grande dio
mi ha consegnato il suo nome. Ra vivrà ed il veleno morrà! Il veleno muore e Ra
vivrà!"
Come vediamo Iside era una dea potente ed era rappresentata in molti modi a
seconda delle epoche e i luoghi. Il suo nome in principio era Au Set, che significa
"Trono" e "Regina", e sul capo recava appunto l'immagine di un trono. In seguito ai
vari sincretismi con altre divinità la si può trovare nella manifestazione associata ad
Hathor, con le corna bovine sulla testa, tra cui spicca il simbolo del disco solare, o
con quella associata a Maat con la piuma di struzzo. Spesso la si vede con in capo
un cobra, tra le mani un loto, simbolo di fertilità, o con le ali da falco a simboleggiare il
suo dominio celeste e il suo ruolo di conduttrice dei defunti. Tra le mani tiene il tiet, il

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nodo isiaco, che assomiglia ad un ankh con le braccia della croce piegate verso il
basso. Anticamente veniva usato come fermaglio per le vesti egiziane, così come
l'ankh era la croce ansata usata per i calzari. Nel Libro dei Morti è citato con funzione
apotropaica legata a Iside stessa, rappresentando la magia e il sangue di cui era
patrona e per questo motivo era spesso intagliato nel diaspro quando non era in oro
puro.
Iside era una dea madre e come abbiamo visto nel mito narratoci da Plutarco le
similitudini con il mito di Demetra sono eclatanti nel suo ruolo di nutrice. Anche lei era
infatti la dea che insegnò, insieme al fratello, i benefici dell'agricoltura al popolo,
insegnando l'uso dell'aratro e della semina oltre che le arti domestiche come la
tessitura. Il suo culto era talmente benvoluto e diffuso che in epoca Tolemaica si
diffuse in tutto l'impero, ellenizzata in Iside anche grazie a Plutarco intorno al 500
a.C. A lei dedicato fu l'ultimo tempio pagano che venne smantellato nel sesto secolo
sull'isola di Philae di fronte alla diffusione del Cristianesimo. Ma anche nel culto
romano Iside ebbe dei problemi; era talmente onorata che i consoli la vedevano
come una possibile minaccia all'impero. Quando nel 64 a.C. venne ritenuto che il
culto sovvertisse il popolo, fu decretato l'abbattimento del suo tempio a Roma. Tra i
legionari però correva il terrore della vendetta di una dea così potente e nessuno osò
alzare un dito, tanto che fu il console stesso che, armato di ascia, cominciò a colpire
la porta per distruggerla ed entrare.
In seguito, nel 48 a.C avvenne uno scandalo che interessò alcuni sacerdoti di Iside.
Si tratta di un evento storico molto noto narrato da Giuseppe Flavio, che avvenne
quando sul trono sedeva Tiberio. Il cavaliere Decio Mundo era fortemente infatuato di
Paolina, una matrona sposata con Saturnino, e questa sua passione per lei era
talmente sfrenata che, dopo aver ricevuto numerosi dinieghi, era arrivato a proporle
duecentomila dracme in cambio di una notte d'amore. Paolina però rifiutò
nuovamente e, per indurla a cedere, il cavaliere, a suo tempo molto stimato, corruppe
i sacerdoti di Iside, dea a cui lei era molto legata, che le fecero giungere la notizia
che il dio Anubi in persona desiderava passare la notte con lei. Completamente
ignara Paolina si sentì assolutamente lusingata di aver attratto gli interessi di un dio
e, dopo aver confidato la cosa al marito e a delle confidenti, si recò all'appuntamento
al tempio di Iside stesso, dove Anubi le si presentò e passò come promesso la notte
con lei al suo interno. Purtroppo per Paolina, non era affatto con un dio che aveva
giaciuto, ma con Decio Mundo che, disfatosi al mattino del travestimento, le rivelò
come i sacerdoti avessero accettato di farsi corrompere per molto meno della cifra

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proposta a lei. Il marito, venuto a conoscenza dell'orrendo fatto, si rivolse


all'imperatore che punì i colpevoli con una pena esemplare: i sacerdoti vennero
crocifissi e il cavaliere esiliato, il tempio di Iside a Roma venne abbattuto e le sue
statue gettate nel Tevere.
Il culto di Iside si sparse ovunque trovando apprezzamento e legami con altri culti
non solo perché era una dea che incarnava molteplici aspetti, ma perché soprattutto
aveva un forte legame con il mondo infero. Fu anche per questo che vennero istituiti i
Misteri Isiaci, rituali esoterici legati al culto della vita dopo la morte. Per rappresentare
il concetto di mistero che circondava questa dea ci si riferiva infatti a lei come la Iside
Velata. Questo velo rappresenta il concetto misterioso e multiplo in cui la natura
spirituale si manifesta con la vita stessa: ossia il mistero della nascita vista come
frammento divino dell'anima che si instaura all'interno di un corpo di carne, ma anche
come disfacimento del corpo e ritorno di questa stessa scintilla di vita all'immutabilità
dell'eternità. Iside incarna quindi sia il micro che il macrocosmo, il visibile e l'invisibile,
il mutevole e l'immutabile, il manifesto e l'immanifesto. Come ci narra Plutarco: "Le
vesti di Iside sono di colore variegato: il suo ambito, infatti, è quello della materia, la
quale si evolve in tutte le forme e in tutte le forme si presta, luce e oscurità, giorno e
notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non è
né sfumata né screziata: il suo colore è uno solo, quello della luce. è sempre puro il
principio delle cose, non può essere mescolato l'elemento primo, ciò che è tutto
spirito. Per questo, una volta sola viene usata la veste di Osiride, e poi subito è
riposta e custodita come reliquia segreta e intoccabile. Le vesti di Iside invece
servono più volte: è nell'uso, infatti, che le cose sensibili e vicine a noi riflettono i loro
numerosi modi di atteggiarsi e di apparire a seconda delle diverse occasioni. La
comprensione dell'intelligibile, del puro, dell'incontaminato, invece, accende la nostra
anima come il passare di un baleno, e una volta sola ci è dato di toccarlo e di
contemplarlo. è per questo che Platone e Aristotele chiamano «epoptica» tale settore
della filosofia: alludendo cioè al fatto che quanti siano riusciti a superare con la
ragione il mondo dell'opinabile, del composto, del multiforme, si slanciano verso
quell'essere primo, semplice e immateriale; e se giungono a toccare in qualche modo
la verità pura riguardo all'essere, questa è per loro la rivelazione ultima e perfetta
della filosofia".
Al contrario quindi di altre divinità trascendenti, Iside non è al di sopra della natura,
ne è al contrario l'emanazione stessa, fatta di morte e vita, oscurità e luce, creazione
e distruzione. Il tutto attraverso il velo della metamorfosi. In questa concezione

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apartisan, dove il bene e il male sono solo punti di vista dovuti alla società, la moralità
e la cultura umana e quindi strettamente legati a concetti soggettivi, Iside è colei che
ferisce e guarisce. Non per nulla, come ci arriva nel mito in cui cerca e risorge
Osiride, prima cresce il figlio Horus come vendicatore, ma quando questi sconfigge lo
zio Seth, intercede per la sua vita impedendogli di finirlo, perché caos e ordine,
germinazione e decomposizione sono equilibrio della natura e non possono essere
alterati. è anche per questo che trova uno dei suoi sincretismi in Maat, la dea della
giustizia che contrapponeva il cuore del defunto con la sua piuma di struzzo durante
la confessione negativa descritta nel Libro dei Morti. Il suo ruolo non è quello di
cercare la perfezione, ma di insegnare e comprendere quanto l'assolutismo, in una
direzione o nell'altra è comunque segno di disarmonia. Come narra Plutarco nel suo
Iside e Osiride: "I sacerdoti hanno tanto disgusto per tutto ciò che è eccessivo di
natura, che rifiutano la maggior parte dei legumi e la carne di montone e di maiale,
perché questi alimenti producono un'eccessiva pienezza. Non solo: durante i periodi
di purificazione escludono dai loro cibi perfino il sale. Fra le molte ragioni di tale
precetto, vi è il motivo che il sale stimola il desiderio di mangiare e bere di più; che
poi il sale, come dice Aristagora, debba essere considerato un elemento impuro
perché molti animaletti, intrappolati dalla cristallizzazione, vi muoiono dentro, mi
sembra invece una vera sciocchezza.
Si racconta anche che i sacerdoti abbeverano Apis a un pozzo particolare, e che non
lo lasciano assolutamente avvicinare al Nilo: e questo non perché essi considerino
impura la sua acqua a causa del coccodrillo, come alcuni credono - ché anzi non vi è
nulla che gli Egiziani tengano tanto in onore quanto il Nilo -, ma per la ragione che
l'acqua del Nilo, sembra, fa ingrassare e produce un'eccessiva obesità. E i sacerdoti
non vogliono che Apis, e tanto meno loro stessi, si riducano in questo sta-to: anzi, il
corpo deve essere un involucro agile e leggero dell'anima, tanto da non gravare né
opprimere la parte divina con l'inibente pesantezza della parte mortale."
Spesso Iside viene rappresentata mentre tiene in braccio il piccolo Horus,
allattandolo. Questa immagine di madre è antichissima ed è talmente nota che ha
portato anche alla sua associazione con la Vergine Maria con in braccio il piccolo
Gesù. I tratti iconografici comuni inducono a pensare ragionevolmente che la
formazione del culto mariano paleocristiano abbia colto a piene mani in questa
raffigurazione isiaca. Non per nulla molti templi dedicati a questa dea in seguito
vennero adibiti al culto della Vergine. e in questo contesto si troverebbe anche una
spiegazione legata alle "madonne nere", singolari iconografie di vergini dalla pelle

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completamente scura, dato che Iside incarnava sia l'aspetto lunare e luminoso che
quello oscuro. Plutarco infatti a riguardo ci dice: "Altrettanto recisamente sostengono
che Iside altro non è se non la luna: e perciò, fra i vari tipi di immagine della dea,
quelle con le corna rappresenterebbero la luna crescente, mentre quelle vestite di
nero alluderebbero ai periodi in cui essa resta nascosta e invisibile, quando cioè è
presa d'amore per il sole e lo insegue. è questa la ragione per cui invocano la luna
anche nelle faccende amorose: Eudosso, anzi, sostiene che è Iside la dea preposta
all'amore".
In questa analisi emerge il ruolo che la mater universalis riveste. Demetra e Iside
trovano il loro compimento e la loro ordalia nel concetto umido lunare, perché sono
sia la terra che il grano che vi cresce ed entrambe sono legate al lato infero: ossia il
seme che prima di germinare rimane sepolto sotto la terra, in attesa del tempo per
risorgere. Un seme che in questo caso può essere Persefone od Osiride: comunque
mariti/figlie che portati contro il loro volere nell'oscuro regno della morte vengono
riportati alla vita dal desiderio e l'amore materno, ma perché il ciclo vitale deve
conseguirsi e proseguire, senza mai interrompersi, senza spezzarsi e senza rimanere
inalterato e questo perché ne fa parte lei stessa.
Ad un’attenta analisi è quindi facile ricondurre Iside a Demetra e non il contrario; non
solo la dea egizia riveste un ruolo più completo, ma incarna tutti gli aspetti delle
madri, sia quelle protostoriche che quelle più moderne. Dopo la sua diffusione in
epoca romana assunse sempre nuovi epiteti e il suo culto venne ellenicizzato, come
anche il suo stesso nome, che è il modo in cui ancora adesso noi la chiamiamo. Nella
sua complessità lega il concetto selvatico che la rende una Potnia Theron egizia al
concetto lunare, strettamente legato al femminino sacro e al ciclo agreste. La sua
controparte maschile, Osiride, rende integra una divinità che in passato era forse già
completa di per sé. è forse da ricercare in questo i motivi per cui inglobò nel corso del
suo ciclo millenario un'infinità di dee minori e che nel culto greco e romano la portò
ad essere nota come la dea dai nomi innumerevoli e ad avere epiteti totalmente
opposti l'uno all'altro, come la prostituta e la santa, la dolente e la gioiosa. Al
contrario di quanto si potrebbe pensare questo concetto è il rivestire perfettamente il
molteplice ruolo del femminile che, non per nulla, viene rappresentato in un ciclo,
pertanto circolare; ben differente dal maschile che invece è rappresentabile come
lineare. Una donna in quanto tale se libera di essere se stessa è capace di essere
tutte queste cose e anche oltre. Una cantante di musica pop/rock americana,
Meredith Brooks, nella canzone controversa che l'ha resa famosa, riesce a

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sincretizzare perfettamente questo molteplice aspetto. Nel brano, che si intitola


semplicemente "Bitch", che è il termine dispregiativo per riferirsi ad una prostituta,
l'autrice paragona il suo essere donna riferendosi ad un ipotetico compagno,
riconoscendo la propria natura mutevole e comprendendo la sua difficoltà nel riuscire
a seguire il suo continuo cambiare e nel ritornello finale recita: "sono una puttana,
sono un’amante, sono una bambina, sono una madre, sono una peccatrice, sono una
santa. Non mi vergogno, sono il tuo inferno, sono il tuo sogno, non sono vie di
mezzo, sai che non puoi volermi in altro modo. Sono una puttana, sono un tormento,
sono una dea in ginocchio; quando sei ferito, quando soffri sono il tuo angelo segreto,
sono stata insensibile, sono rivissuta; non puoi dire che non sono viva. Lo sai non
posso volerlo in altro modo". Questa canzone richiama quindi tutti gli aspetti di una
dea che ha dentro di sé emanazione diverse, come le molteplici facce di un
diamante.
Iside ferita e dolente, indossava quindi un manto nero, così come Demetra rimaneva
chiusa nel suo tempio. Quando invece era gioiosa indossava la veste bianca e
l'armonia del mondo era eterna. In quanto madre, il legame infero di colei che dà la
vita e colei che accoglie nella morte è più forte in Iside che in Demetra, ma c'è
comunque se si frappone Persefone come una manifestazione di Demetra, o una sua
reincarnazione, così come Horus è la reincarnazione di Osiride. Se nel caso di
Demetra sentiamo la forte influenza del regime patriarcale ellenico nel fatto che la
Madre non può che sottostare al volere del Padre, anche se ottiene ciò che vuole, nel
caso di Iside lei stessa, in possesso del potere della vita e della morte, riporta in vita
suo marito per due volte. Fu proprio questo potere di donare la vita o il potere di
sopravvivere alla morte che porta all'istituire di Misteri dove, iniziandosi, si può
accedere alla conoscenza e alla consapevolezza del sopravvivere della coscienza
che si stende oltre i confini della dipartita fisica e all'introduzione del concetto di
reincarnazione, di trasmigrazione che è interpretabile, appunto, come un ritorno dai
morti.
Demetra e Iside quindi, come dee agresti, ci insegnano che il ruolo della madre è
quello di favorire l'equilibrio dell'armonia universale, riconoscendo il fondamento del
ciclo vita, morte e rinascita senza paura e senza rancore perché sono collegati nello
stesso modo indissolubile secondo cui noi siamo ciò che mangiamo e ciò che noi
siamo un giorno sarà nutrimento per altri. Ed inoltre ci insegna la capacità di
distinguere l'assunto spirituale da quello materiale ma di non scinderlo dal naturale,
perché in quanto emanazione dello spirito, la dea offre e accoglie nella continua

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metamorfosi di se stessa attraverso le due diverse manifestazioni. Si arriva così ad


un concetto più ampio del cartesiano cogito ergo sum, perché il pensiero non è fine
all'esistenza, ma è legato al riconoscimento di un'individualità sia spirituale che
filosofica che trova la sua epifania non solo nella logica e nella ragione che va oltre la
materia, ma nella coscienza del sé che riconosce la materia e la spiritualità come
emanazione della forza naturale estrinseca ed intrinseca, quindi manifesta e non
manifesta: manifesta nel piano fisico e non manifesta nel piano spirituale. Questo
riconoscimento diventa consapevolezza e possiamo farlo nostro nel momento in cui
siamo capaci di andare oltre ai sette veli di Iside; non per nulla Madame Blavatsky,
fondatrice della società teosofica, intitolò proprio Iside Svelata il suo più famoso
saggio in due volumi. Ma, come ben sapevano gli epoptai che avevano esperito i
Misteri Eleusini nel telestérion, ciò che avveniva al suo interno era strettamente
esoterico anche perché rivelarlo non era possibile, perché non si trattava di qualcosa
che si poteva capire o descrivere a parole, ma solo vivere. E il messaggio che ci
portano queste due divinità è quello dell'amore e della compassione. Sopra ogni altra
è l'energia che muove qualsiasi cosa. Ma per quanti poeti possano esprimere le loro
lodi al sommo sentimento, non c'è nulla che si possa mai fare per concettualizzarlo
perché è qualcosa che può solo essere vissuto e provato.

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