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Rick Riordan

La casa di Ade
1

HAZEL

Nel corso del terzo attacco, per poco Hazel non mangiò un masso.
Stava scrutando tra la nebbia, domandandosi come potesse essere
così difficile volare sopra una stupida catena montuosa, quando le
campane di allarme della nave suonarono. “Tutta a sinistra!” gridò
Nico dall’albero di trinchetto della nave volante.

Alla postazione del timone, Leo tirò con violenza la ruota. L’Argo II
virò a sinistra, con i suoi remi aerei che tagliavano le nuvole come
una fila di coltelli. Hazel fece l’errore di guardare oltre la ringhiera.
Una scura sagoma sferica si schiantò contro di lei. Pensò: Perché la
Luna sta venendo verso di noi? Poi gridò e si gettò a terra. L’enorme
masso le passò così vicino sopra la testa, che le fece volare i capelli
all’indietro. CRACK! L’albero di trinchetto crollò, vele, aste e Nico,
andarono tutti a schiantarsi sul ponte. Il masso, che raggiungeva
senza problemi le dimensioni di un pick-up, rotolò tra la nebbia come
se avesse faccende più importanti da svolgere altrove. “Nico!” Hazel
accorse verso di lui mentre Leo raddrizzava la nave. “Sto bene,”
mormorò Nico, scalciando via pezzi di tela dalle gambe. Lo aiutò ad
alzarsi e si diressero incerti verso prua.

Hazel scrutò con più attenzione questa volta. Le nuvole si aprirono


quel che bastava per rivelare la cima della montagna sotto di loro:
una roccia nera terminante con una punta che sporgeva da pendii
ricoperti d’erba. Sulla cima si trovava un dio della montagna, uno dei
numina montanum, gli aveva chiamati Jason. Oppure ourae, in
greco. Comunque si chiamassero, erano orribili. Come gli altri che
avevano affrontato, questo indossava una semplice tunica bianca
sopra una pelle grezza come il basalto. Era altro all’incirca sei metri
ed era estremamente muscoloso, con una fluente barba bianca,
capelli disordinati, e uno sguardo selvaggio negli occhi, come un
eremita folle. Ruggì qualcosa che Hazel non comprese ma,
chiaramente, non si trattava di un benvenuto. Con le mani nude,
sollevò un altro pezzo di roccia dalla sua montagna e cominciò a
imprimergli la forma di una palla. La scena scomparve nella nebbia,
ma quando il dio della montagna ruggì nuovamente, altri numina
risposero in lontananza, le loro voci che riecheggiavano attraverso le
valli. “Stupide divinità dei sassi!” urlò Leo dal timone. “Questa è la
terza volta che devo sostituire quell’asta! Credete che crescano sugli
alberi?” Nico si accigliò. “Le aste delle navi sono fatte di alberi.” “Non
è quello che voglio dire!” Leo spinse un altro dei suoi controlli, un
telecomando fatto in casa della Nintendo Wii, e lo roteò. A qualche
metro di distanza, una botola si aprì sul ponte. Ne venne fuori un
cannone di bronzo Celeste. Hazel ebbe appena il tempo di coprirsi le
orecchie prima che sparasse verso il cielo, spruzzando una dozzina
di sfere di metallo che rilasciavano una scia di fuoco verde. A
mezz’aria, dalle sfere spuntarono delle punte, come le eliche di un
elicottero, e volarono via nella nebbia. Un secondo più tardi, una
serie di esplosioni crepitò attraverso i monti, seguita dai ruggiti
oltraggiati delle divinità della montagna. “Ha!” gridò Leo.
Sfortunatamente, pensò Hazel, a giudicare dei loro due ultimi
incontri, la nuovissima arma di Leo non aveva fatto altro che irritare i
numina. Un altro masso volò fischiando oltre tribordo. Nico gridò,
“Portaci via da qui!” Leo borbottò qualche commento poco
lusinghiero sui numina, ma girò il timone. I motori ronzarono. Dei
cordami magici si legarono autonomamente, e la nave si inclinò a
babordo. L’Argo II prese velocità, ritirandosi verso nordovest, come
avevano fatto negli ultimi due giorni. Hazel non si rilassò finché non
furono fuori dalle montagne. La nebbia si schiarì. Sotto di loro, la
luce del mattino illuminava la campagna italiana, morbide colline
verdi e campi dorati non troppo diversi da quelli della California
settentrionale. Hazel poteva quasi immaginarsi che stessero
navigando per tornare a casa, al Campo Giove. Il ricordo le pesò sul
petto. Il Campo Giove era stato la sua casa solo per nove mesi, da
quando Nico l’aveva riportata dall’Oltretomba. Ma le mancava più
della sua casa natale a New Orleans, e senza dubbio più
dell’Alaska, dove era morta nel 1942. Le mancava il suo letto nelle
baracche della Quinta Coorte. Le mancavano le cene nel padiglione
della mensa, con gli spiriti del vento che facevano volare i piatti
attraverso l’aria e i legionari che scherzavano sui giochi di guerra.
Voleva passeggiare per le strade di Nuova Roma, mano nella mano
con Frank Zhang. Voleva provare cosa volesse dire essere una
ragazza normale, solo per una volta, con un vero, dolce e premuroso
ragazzo. Più di tutto, voleva sentirsi al sicuro. Era stanca di essere
costantemente spaventata e preoccupata. Si trovava sul ponte
rialzato mentre Nico si toglieva le schegge dell’albero dalle braccia e
Leo premeva dei bottoni sulla console della nave. “Bè, quello è stato
schifosissimo,” disse Leo. “Sveglio gli altri?” Hazel era tentata di dire
di sì, ma gli altri membri della nave avevano fatto il turno di notte e si
erano guadagnati il loro riposo. Erano esausti per aver difeso la
nave. Ogni qualche ora, sembrava, qualche mostro romano
decideva che L’Argo II aveva l’aspetto di un gustoso spuntino.
Qualche settimana prima, Hazel non avrebbe mai creduto che
qualcuno potesse dormire durante un attacco di numina, ma ora
immaginava che i suoi amici stessero ancora russando sottoponte.
Ogni volta che lei aveva la possibilità di crollare, dormiva come se
fosse in coma. “Hanno bisogno di riposo,” disse. “Dovremmo trovare
un’altra strada da soli.” “Huh.” Leo si accigliò in direzione del suo
monitor. Con la sua maglietta da lavoro a brandelli e i jeans sporchi
di grasso, sembrava che avesse appena perso un incontro di lotta
con una locomotiva. Fin da quando i loro amici Percy e Annabeth
erano caduti nel Tartaro, Leo aveva lavorato quasi senza sosta. Si
era comportato in maniera più arrabbiata e persino più ossessionata
di prima. Hazel era preoccupata per lui. Ma parte di lei era sollevata
dal cambiamento. Ogni volta che Leo sorrideva e scherzava,
assomigliava troppo a Sammy, il suo bisnonno…. il primo fidanzato
di Hazel nel 1942. Ugh, perché la sua vita doveva essere così
complicata? “Un’altra strada,” borbottò Leo. “Ne vedi una?” Sul
monitor brillava una mappa dell’Italia. Gli Appennini correvano lungo
il centro dello stato a forma di stivale. Un puntino verde
simboleggiante L’Argo II lampeggiava sul lato occidentale della
catena montuosa, a qualche centinaia di chilometri a nord di Roma.
Il loro percorso sarebbe dovuto essere semplice. Dovevano
raggiungere un luogo chiamato Epiro in Grecia e trovare un antico
tempio chiamato Casa di Ade (o Plutone, come lo chiamavano i
romani; oppure come piaceva chiamarlo a Hazel: il Padre Assente
Peggiore del Mondo). Per raggiungere Epiro, tutto quello che
dovevano fare era procedere dritti verso est, sopra gli Appennini e
attraverso il Mar Adriatico. Ma non aveva funzionato in quel modo.
Ogni volta che cercavano di attraversare il limite dell’Italia, le divinità
delle montagne attaccavano. Negli ultimi due giorni avevano
costeggiato in direzione nord, nella speranza di trovare un passaggio
sicuro, senza fortuna. I numina montanum erano figli di Gea, la dea
meno preferita di Hazel. Ciò li rendeva dei nemici molto determinati.
L’Argo II non poteva volare abbastanza in alto da evitare i loro
attacchi; e persino con tutte le sue difese, la nave non era in grado di
attraversare la catena senza essere fatta a pezzi. “E’ colpa nostra,”
disse Hazel. “Mia e di Nico. I numina possono avvertire la nostra
presenza.” Lanciò un’occhiata al suo fratellastro. Da quando
l’avevano salvato dai giganti, aveva cominciato a riacquistare la sua
forza, ma era ancora estremamente magro. La maglietta e i
pantaloni neri gli cadevano sulla figura scheletrica. Lunghi capelli
scuri gli incorniciavano gli occhi infossati. La sua carnagione
olivastra si era fatta di un malsano colore bianco verdastro, come
quello della resina degli alberi. In anni umani, aveva a malapena
quattordici anni, solo un anno più grande di Hazel; ma ciò non era
tutto. Come Hazel, Nico di Angelo era un semidio proveniente da un
altro secolo. Irradiava un tipo di energia antica, una malinconia
proveniente dalla consapevolezza di non appartenere al mondo
moderno. Hazel non lo conosceva da molto, ma capiva, condivideva
persino la sua tristezza. I figli di Ade (Plutone, quello che era)
raramente avevano delle vite felici. E a giudicare da quello che Nico
le aveva detto la sera prima, la loro sfida più grande doveva ancora
arrivare, quando avrebbero raggiunto la Casa di Ade, una sfida che
lui le aveva implorato di non rivelare agli altri. Nico strinse l’elsa della
sua spada di ferro di Stige. “Agli spiriti della terra non piacciono i figli
dell’Oltretomba. Questo è vero. Gli diamo sui nervi. Ma credo che i
numina potrebbero avvertire la nave in ogni caso. Stiamo
trasportando l’Atena Partenos. Quella cosa è come una pizza
magica.” Hazel rabbrividì, pesando all’enorme statua che occupava
la maggior parte della stiva. Avevano sacrificato così tanto
salvandola dalla caverna sotto Roma; ma non avevano idea di cosa
farci. Fino a quel momento l’unica cosa alla quale sembrava servire
era allertare altri mostri della loro presenza. Leo fece scorrere il dito
lungo la mappa dell’Italia. “Quindi, attraversare le montagne è fuori
questione. Il fatto è che, proseguono per molta strada in entrambe le
direzioni.” “Potremmo andare via mare,” suggerì Hazel. “Navigare
intorno alla punta meridionale dell’Italia.” “E’ una strada lunga,” disse
Nico. “Inoltre, non abbiamo…” La sua voce si spezzò. “Sapete… il
nostro esperto di mare, Percy.” Il nome rimase sospeso in aria come
una tempesta incombente. Percy Jackson, figlio di Poseidone…
probabilmente il semidio che Hazel ammirava di più al mondo. Le
aveva salvato la vita così tante volte durante la loro impresa in
Alaska; ma quando lui aveva avuto bisogno dell’aiuto di Hazel a
Roma, lei l’aveva deluso. Aveva guardato, impotente, mentre lui e
Annabeth si erano tuffati in quell’abisso… Hazel fece un respiro
profondo. Percy e Annabeth erano ancora vivi. Lo sapeva nel suo
cuore. Poteva ancora aiutarli se fosse riuscita a raggiungere la Casa
di Ade, se fosse riuscita a sopravvivere alla sfida della quale Nico
l’aveva messa in guardia… “Se continuiamo ad andare verso nord?”
chiese lei. “Ci deve essere un’interruzione nella catena montuosa, o
qualcosa del genere.” Leo giocherellava con la sfera di bronzo di
Archimede che aveva istallato nella console, il suo giocattolo più
nuovo e più pericoloso. Ogni volta che Hazel guardava quella cosa,
le si seccava la bocca. Temeva che Leo potesse digitare la
combinazione sbagliata sulla sfera e farli volare tutti erroneamente
via dal ponte, o far esplodere la nave, o trasformare L’Argo II in un
tostapane gigante. Grazie al cielo, furono fortunati. Dalla sfera si
sviluppò un obiettivo fotografico che proiettò un’immagine 3D degli
Appennini sopra la console. “Non lo so.” Leo esaminò l’ologramma.
“Non vedo nessun passaggio adatto, a nord. Ma preferisco questo
all’idea di tornare indietro verso sud. Ne ho abbastanza di Roma.”
Nessuno ribatté a quell’affermazione. Roma non era stata una bella
esperienza. “Qualsiasi cosa facciamo,” disse Nico, “dobbiamo
sbrigarci. Ogni giorno che Annabeth e Percy trascorrono nel
Tartaro…” Non aveva bisogno di finire la frase. Dovevano sperare
che Percy e Annabeth potessero sopravvivere abbastanza da
trovare la parte del Tartaro delle Porte della Morte. Poi, ammesso
che L’Argo II raggiungesse la Casa di Ade, era possibile che
riuscissero ad aprire le porte dalla parte mortale, salvare i loro amici,
e sigillare l’entrata, impendendo alle forze di Gea di reincarnarsi nel
mondo mortale, ancora e ancora. Sì… nulla poteva andare storto
con quel piano. Nico guardò corrucciato verso la campagna italiana
sotto di loro. “Forse dovremmo svegliare gli altri. Questa decisione
riguarda tutti.” “No,” disse Hazel. “Possiamo trovare una soluzione.”
Non era certa del perché si sentisse così sicura di quello, ma da
quando avevano lasciato Roma, il gruppo aveva iniziato a perdere la
loro coesione. Avevano iniziato a lavorare come una squadre. E poi
bam…i loro due membri più importanti erano caduti nel Tartaro.
Percy era stato la loro spina dorsale. Aveva dato a tutti sicurezza,
mentre navigavano attraverso l’Atlantico e nel Mediterraneo. Per
quanto riguardava Annabeth, lei era il capo de facto dell’impresa.
Aveva recuperato l’Atena Partenos da sola. Era la più brillante dei
sette, quella con le risposte. Se Hazel svegliava il resto del gruppo
ogni volta che avevano un problema, avrebbero semplicemente
ricominciato a litigare, sentendosi sempre più senza speranza.
Doveva rendere Percy e Annabeth orgogliosi di lei. Doveva prendere
l’iniziativa. Non poteva credere che il suo unico ruolo in quell’impresa
fosse quello da cui l’aveva messa in guardia Nico, rimuovere
l’ostacolo che li stava aspettando nella Casa di Ade. Mise il pensiero
da parte. “Abbiamo bisogno di essere creativi,” disse. “Un’altra
strada per attraversare quelle montagne, o un modo per nasconderci
dai numina.” Nico sospirò. “Se fossi stato da solo, avrei potuto usare
il viaggio ombra. Ma non funzionerebbe con una nave intera. E
onestamente, non sono certo di avere più la forza per trasportare
anche solo me stesso.” “Forse potrei allestire qualche tipo di
camuffamento,” disse Leo, “come uno schermo di fumo per
nasconderci tra le nuvole.” Non sembrava molto entusiasta. Hazel
fissò le fattorie che scorrevano sotto di loro, pensando a cosa
giaceva sotto di esse, il regno di suo padre, signore dell’Oltretomba.
Aveva incontrato Plutone solo una volta, e non aveva nemmeno
capito chi fosse. Sicuramente non si era mai aspettata dell’aiuto da
parte sua, non quando era stata viva la prima volta, non durante il
suo periodo come spirito nell’Oltretomba, non da quando Nico
l’aveva portata indietro nel mondo dei vivi. L’aiutante di suo padre,
Tanato, dio della morte, aveva suggerito che forse Plutone le stava
facendo un favore ignorandola. Non sarebbe dovuta essere in vita,
dopotutto. Se Plutone la notava, avrebbe dovuto riportarla nella terra
dei morti. Il che voleva dire che invocare Plutone sarebbe stata
un’idea molto brutta. Tuttavia… Ti prego, papà, si ritrovò a pregare.
Devo trovare un modo per raggiungere il tuo tempio in Grecia, la
Casa di Ade. Se sei laggiù, mostrami cosa fare. All’orizzonte, un
movimento improvviso catturò la sua attenzione, qualcosa di piccolo
e beige che correva attraverso i campi a un’incredibile velocità,
lasciando una scia di vapore come quella di un aereo. Hazel non
poteva crederci. Non osava sperare, ma doveva essere… “Arion.”
“Cosa?” chiese Nico. Leo si lasciò sfuggire un grido allegro mentre la
nuvola di polvere si avvicinava. “E’ il suo cavallo, amico! Ti sei perso
tutta quella storia. Non lo vedevamo dal Kansas!” Hazel rise, la
prima volta che lo faceva da giorni. Era così bello rivedere il suo
vecchio amico. A circa due chilometri a nord, il piccolo puntino beige
fece il giro di una collina e si fermò sulla sua cima. Era difficile da
distinguere, ma quando il cavallo si impennò sulle zampe posteriori e
nitrì, il suono venne trasportato fino all‘Argo II. Hazel non aveva
dubbi, era Arion. “Dobbiamo andare da lui,” disse. “E’ qui per
aiutare.” “Sì, va bene.” Leo si grattò la testa. “Ma, uh, avevamo
parlato di non far più scendere la nave a terra, ricordi? Sai, con Gea
che vuole distruggerci e tutto il resto.” “Fammi solo avvicinare, e
userò la scala di corda.” Il cuore di Hazel stava martellando. “Credo
che Arion voglia dirmi qualcosa.”
2

HAZEL

Hazel non era mai stata così felice. Bè, ad eccezione forse per la
sera del banchetto della vittoria al Campo Giove, quando aveva
baciato Frank per la prima volta… ma questo momento gli si
avvicinava parecchio. Non appena raggiunse il terreno, corse verso
Arion e gli avvolse le braccia intorno al collo. “Mi sei mancato!”
Premette il volto nel mantello caldo del cavallo, che odorava di
acqua salata e mele. “Dove sei stato?” Arion nitrì. Hazel desiderò
saper parlare con i cavalli come Percy, ma afferrò il concetto
generale. Arion sembrava impaziente, come se stesse dicendo, Non
abbiamo tempo per i sentimentalismi, ragazza! Andiamo! “Vuoi che
venga con te?” indovinò lei. Arion abbassò la testa, trottando sul
posto. I suoi occhi castano scuro brillavano di urgenza. Hazel non
riusciva ancora credere che fosse davvero lì. Era in grado di
galoppare su qualsiasi superficie, persino sul mare, ma lei aveva
pensato che non li avrebbe seguiti nelle terre antiche. Il
Mediterraneo era troppo pericoloso per i semidei e i loro alleati. Non
sarebbe venuto fin laggiù a meno che Hazel non ne avesse avuto un
bisogno assoluto. E sembrava essere così agitato… Qualsiasi cosa
che era in grado di rendere nervoso un cavallo senza paura avrebbe
dovuto terrorizzare Hazel. Al contrario, si sentiva euforica. Era così
stanca di soffrire di mal di mare e mal d’aria. A bordo dell’ Argo II, si
sentiva utile più o meno come poteva esserlo una zavorra. Era felice
di essere tornata sulla terra solida, anche se quello era il territorio di
Gaia. Era pronta per cavalcare. “Hazel!” Nico la chiamò dalla nave.
“Che succede?” “Va tutto bene!” Lei si inginocchiò a terra e fece
apparire una pepita d’oro dal terreno. Stava migliorando nel
controllare il suo potere. Ormai le pietre preziose apparivano
raramente intorno a lei per sbaglio, e far spuntare l’oro dalla terra era
facile. Diede ad Arion la pepita… il suo spuntino preferito. Poi sorrise
rivolta verso Leo e Nico, che la stavano guardando dalla cima della
scaletta a circa trenta metri d’altezza. “Arion vuole portarmi da
qualche parte.” I due ragazzi si scambiarono delle occhiate nervose.
“Uh…” Leo indicò verso nord. “Ti prego, dimmi che non ti sta
portando verso quello.” Hazel era stata così concentrata su Arion
che non aveva notato la perturbazione. A un paio di chilometri di
distanza, sulla cresta della collina successiva, si era riunita una
tempesta, proprio sopra delle antiche rovine di pietra, forse i resti di
un tempio romano o di una fortezza. Un ciclone serpeggiava dall’alto
verso la collina come un dito nero inchiostro. Hazel avvertì il sapore
del sangue in bocca. Guardò Arion. “Vuoi andare là?” Arion nitrì,
come a dire, Bè, certo! Bè… era stata Hazel a chiedere aiuto. Quella
era forse la risposta di suo padre? Sperava di sì, ma avvertiva
qualcos’altro oltre a Plutone che agiva in quella tempesta…
qualcosa di oscuro, potente e non necessariamente amichevole.
Tuttavia, quella era la sua possibilità di aiutare i suoi amici, la sua
occasione di guidare invece che seguire. Strinse le cinghie della sua
spada da cavalleria d’oro Imperiale e montò in sella ad Arion. “Andrà
tutto bene!” esclamò rivolta verso Nico e Leo. “Rimanete pronti e
aspettatemi.” “Aspettare quanto?” chiese Nico. “E se non torni?”
“Non preoccuparti, tornerò,” promise, sperando che fosse vero.
Spronò Arion, e insieme scattarono lungo la campagna, diretti dritti
verso il tornado che montava.
3

HAZEL

La tempesta aveva inghiottito la collina in un turbinante cono di


vapore nero. Arion galoppò dritto verso di esso. Hazel si ritrovò sulla
cima, ma sembrava essere una dimensione diversa. Il mondo perse i
suoi colori. Le pareti della tempesta avvolsero la collina in un vortice
scuro. Il cielo si agitava con nuvole grigie. I resti in rovina erano
sbiancati così tanto che sembrava quasi che stessero brillando.
Persino Arion era passato dal marrone caramello a una scura
tonalità color cenere. Nell’occhio della tempesta, l’aria era immobile.
La pelle di Hazel formicolò dal freddo, come se le avessero passato
sopra uno straccio imbevuto di alcool. Davanti a lei, nelle mura
ricoperte di muschio, si apriva un’apertura sormontata da un arco
che portava in una sorta di recinzione. Hazel non riusciva a vedere
molto attraverso il buio, ma avvertiva una presenza all’interno, come
se lei fosse stata un pezzo di ferro vicino a un grosso magnete. La
sua attrazione era irresistibile e la stava trascinando in avanti.
Tuttavia esitò. Fermò Arion, e lui pestò gli zoccoli a terra impaziente,
con il terreno che scricchiolava sotto di lui. Dovunque camminasse,
l’erba, la terra e le pietre diventavano bianche come il ghiaccio.
Hazel si ricordò del ghiacciaio Hubbard in Alaska, di come la sua
superficie si incrinava sotto i piedi. Si ricordò del pavimento di
quell’orribile caverna a Roma che si riduceva in polvere, gettando
Percy e Annabeth nel Tartaro. Sperava che quella collina bianca e
nera non si dissolvesse sotto di lei, ma decise che era meglio
continuare a muoversi. “Andiamo avanti, bello.” La sua voce
suonava attutita, come se stesse parlando attraverso un cuscino.
Arion trottò attraverso l’arco di pietra. Delle pareti in rovina
circondavano un cortile quadrato grande circa come un campo da
tennis. Altri tre passaggi, uno al centro di ogni parete, portavano
verso nord, est e ovest. Al centro del cortile, due sentieri di sassi si
incrociavano, formando una croce. La foschia era sospesa nell’aria,
incerti sbuffi di bianco che serpeggiavano e si avvolgevano come
fossero vivi. Non foschia, si rese conto Hazel. La Foschia. Per tutta
la sua vita, aveva sentito parlare della Foschia, il velo magico che
oscurava il mondo dei miti alla vista dei mortali. Poteva ingannare i
mortali, persino i semidei, facendo apparire i mostri come animali
innocui, o gli dei come persone normali. Hazel non l’aveva mai
immaginata come vero fumo, ma mentre la guardava avvolgersi
intorno alle gambe di Arion, fluttuare attraverso gli antichi archi di
quel cortile in rovine, le si rizzarono i peli delle braccia. In qualche
modo lo sapeva: quella roba bianca era magia pura. In lontananza,
un cane ululò. Solitamente nulla spaventava Arion, ma il cavallo si
alzò sulle zampe posteriori, sbuffando nervosamente. “Va tutto
bene.” Hazel lo accarezzò sul collo. “Rimaniamo uniti. Ora scendo,
okay?” Smontò dalla schiena di Arion. Istantaneamente lui si voltò e
corse via. “Arion, aspetta…! Ma era già scomparso nella direzione
dalla quale erano arrivati. Tanto perché dovevano rimanere uniti. Un
altro ululato squarciò l’aria, questa volta più vicino. Hazel si diresse
verso il centro del cortile. La Foschia si raccolse intorno a lei come
ghiaccio secco. “C’è qualcuno?” esclamò. “Salve,” rispose una voce.
La figura pallida di una donna apparve vicino all’arco settentrionale.
No, aspettate… si trovava presso l’entrata orientale. No, vicino a
quella occidentale. Tre immagini fumose della stessa donna si
mossero contemporaneamente verso il centro delle rovine. La sua
sagoma era confusa, fatta di Foschia, ed era seguita da due
nuvolette di fumo più piccole, che balzavano accanto ai suoi piedi
come animali. Qualche tipo di animaletto domestico? Raggiunse il
centro del cortile e le sue tre figure si fusero in un’unica. Si solidificò
fino a diventare una giovane donna con una scura toga senza
maniche. Aveva i capelli dorati legati in una coda alta, nello stile
dell’Antica Grecia. Il suo vestito era così setoso che sembrava
ondeggiare, come se il tessuto fosse inchiostro che le stava
scorrendo dalle spalle. Non sembrava avere più di vent’anni ma
Hazel sapeva che ciò non voleva dire nulla. “Hazel Levesque,” disse
la donna. Era bella, ma mortalmente pallida. Una volta, quando si
trovava ancora a New Orleans, Hazel era stata costretta a
partecipare alla veglia funebre di una sua compagna di classe morta.
Si ricordava il corpo senza vita della giovane ragazza nella bara
aperta. Il suo volto era stato acconciato in maniera elegante, come
se stesse riposando, cosa che ad Hazel era sembrata terrificante.
Quella donna ricordava a Hazel la bambina, solo che gli occhi della
donna erano aperti ed erano completamente neri. Quando inclinò la
testa, sembrò dividersi nuovamente in tre persone diverse… sagome
fumose che si mischiavano insieme, come la fotografia di una
persona che si era mossa troppo velocemente per catturarla a fuoco.
“Chi sei tu?” Le dita di Hazel si contrassero sull’elsa della sua spada.
“Voglio dire… quale dea?” Hazel era abbastanza sicura di quello.
Quella donna irradiava potere. Tutto quello che c’era intorno a loro,
la Foschia vorticante, la tempesta monocromatica, l’inquietante brillio
delle rovine era lì a causa della sua presenza. “Ah.” La donna annuì.
“Lascia che ti illumini un po’.” Alzò le mani. Improvvisamente stava
reggendo due torce di canna vecchio stile, animate dal fuoco. La
Foschia indietreggiò fino ai margini del cortile. Ai piedi della donna,
che indossava dei sandali, i due animali fumosi assunsero una forma
solida. Uno era un Labrador Retriver nero. L’altro era un peloso
roditore grigio e lungo con una maschera bianca intorno al muso.
Una donnola, forse? La donna sorrise serenamente. “Io sono Ecate,”
disse. “Dea della magia. Abbiamo molto da discutere se vuoi
superare la notte viva.”
4

HAZEL

Hazel voleva scappare, ma i suoi piedi sembravano essere incollati


alla terra bianca. Dal terreno ai due lati dell’incrocio eruttarono due
bracieri di metallo scuro, come i gambi di una pianta. Ecate vi posò
dentro le sue torce, poi camminò in un lento cerchio intorno a Hazel,
guardandola come se loro due fossero partner di qualche misteriosa
danza. Il cane nero e la donnola la seguivano. “Sei come tua
madre,” decise Ecate. Hazel sentì stringersi la gola. “La conoscevi?”
“Certamente. Marie era una veggente. Trattava incantesimi,
maledizioni e voodoo. Io sono la dea della magia.” Quegli occhi
completamente neri sembravano attrarre Hazel, come se stessero
cercando di estrarle l’anima. Durante la sua prima vita a New
Orleans, Hazel era stata tormentata dai bambini della Scuola St.
Agnes a causa di sua madre. Chiamavano Marie Levesque strega.
Le suore mormoravano che la madre di Hazel faceva affari con il
Diavolo. Se le suore avevano paura di mia madre, si chiese Hazel,
cosa avrebbero fatto davanti a quella dea? “Molti mi temono,” disse
Ecate, come se le stesse eleggendo i pensieri. “Ma la magia non è
buona né cattiva. E’ uno strumento, come un coltello. Un coltello è
forse malvagio? Solo se chi lo brandisce è malvagio.” “Mia… mia
madre…” Hazel balbettò. “Lei non credeva nella magia. Non
veramente. Faceva solo finta, per i soldi.” La donnola sbatté i denti e
gli scoprì. Poi produsse un suono acuto con la sua estremità
posteriore. In circostanze diverse, una donnola che rilasciava gas
sarebbe potuta essere divertente, ma Hazel non rise. I rossi occhi
del roditore la stavano fissando in modo funesto, come minuscoli
tizzoni ardenti. “Pace, Gale,” disse Ecate. Scrollò le spalle rivolta
verso Hazel per scusarsi. “A Gale non piace sentir parlare di
miscredenti e truffatori. Lei stessa un tempo era una strega, capisci.”
“La tua donnola era una strega?” “In realtà è una moffetta,” disse
Ecate. “Ma, sì, Gale un tempo era una scontrosa strega umana.
Aveva una terribile igiene personale, oltre a estremi… ah, problemi
digestivi.” Ecate agitò la mano davanti al suo naso. “Portò ai miei
altri seguaci una cattiva reputazione.” “Okay.” Hazel cercò di non
guardare la donnola. Non desiderava davvero conoscere i problemi
intestinali di quel roditore. “Ad ogni modo,” disse Ecate, “la
trasformai in una moffetta. E’ molto meglio come moffetta.” Hazel
deglutì. Guardò verso il cane nero, che stava dando dei colpetti
affettuosi alla mano della dea con il muso. “E il tuo Labrador…?”
“Oh, lei è Ecuba, l’antica regina di Troia,” disse Ecate, come se la
cosa dovesse essere ovvia. Il cane fece un verso roco con la gola.
“Hai ragione, Ecuba,” disse la dea. “Non abbiamo tempo per
presentazioni lunghe. Il punto è che, Hazel Levesque, tua madre
poteva aver sostenuto di non credere, ma aveva della magia vera.
Alla fine, se ne rese conto. Quando cercò un incantesimo per
evocare il dio Plutone, io la aiutai a trovarlo.” “Tu…?” “Sì.” Ecate
continuava a camminare intorno ad Hazel. “Vidi del potenziale in tua
madre. Vedo persino più potenziale in te.” La testa di Hazel stava
girando. Ricordò la confessione di sua madre appena prima che
morisse: come aveva invocato Plutone, come il dio si era innamorato
di lei e come, a causa del suo avido desiderio, sua figlia Hazel era
nata con una maledizione. Hazel era in grado di controllare le
ricchezze della terra, ma tutti coloro che le usavano avrebbero
sofferto e sarebbero morti. Ora quella dea stava dicendo che era
stata lei a rendere possibile tutto quello. “Mia madre ha sofferto a
causa di quella magia. Tutta la mia vita…“ “La tua vita non ci
sarebbe stata senza di me,” disse Ecate con tono piatto. “Non ho
tempo per la tua rabbia. E non ne hai nemmeno tu. Senza il mio
aiuto, morirai.” Il cane nero ringhiò. La moffetta fece scattare i denti e
rilasciò altra aria. Hazel aveva la sensazione che i suoi polmoni le si
stessero riempiendo di sabbia bollente. “Che genere di aiuto?”
chiese. Ecate sollevò le braccia pallide. I tre passaggi dai quali era
venuta, nord, est e ovest, iniziarono a vorticare di Foschia. Un
turbinio di immagini in bianco e nero brillò e tremolò, come i vecchi
film muti che davano ancora nei cinema quando Hazel era piccola.
Nel passaggio occidentale, semidei greci e romani in armatura
stavano combattendo uno contro l’altro su una collina sotto un
grande pino. L’erba era disseminata dai feriti e i morenti. Hazel vide
se stessa a cavallo di Arion, in corsa attraverso la mischia e intenta
a gridare, cercando di fermare quella violenza. Nel passaggio a est,
Hazel vide L’Argo II che precipitava attraverso il cielo sopra gli
Appennini. Le vele e i cordami erano in fiamme. Un masso si andò a
schiantare sul ponte rialzato. Un altro attraversò lo scafo. La nave
scoppiò come una zucca marcia, e il motore esplose. Le immagini
nell’arco settentrionale erano persino peggiori. Hazel vide Leo, privo
di sensi, o forse morto, che precipitava tra le nuvole. Vide Frank
avanzare da solo e incerto lungo un corridoio buio, tenendosi il
braccio stretto al petto, con la maglietta zuppa di sangue. E Hazel
vide se stessa in un’ampia caverna piena di raggi di luce come una
ragnatela luminosa. Stava lottando per districarsi da quella rete
mentre, in lontananza, Percy e Annabeth giacevano abbandonati a
terra e immobili alla base di due porte di metallo nere e argento.
“Scelte,” disse Ecate. “Ti trovi a un incrocio, Hazel Levesque. E io
sono la dea degli incroci.” La terra rombò ai piedi di Hazel. Lei
abbassò lo sguardo e vide il luccichio di monete d’argento… migliaia
di antichi denari romani che eruttarono in superficie tutto intorno a
lei, come se l’intera collina stesse arrivando al punto di ebollizione.
Si era agitata così tanto a causa delle visioni dei passaggi che
doveva aver invocato ogni pezzo d’argento che si trovava nella
campagna circostante. “Il passato è vicino alla superficie in questo
luogo,” disse Ecate. “Nei tempi antichi, due importanti strade romane
si incontravano qui. Venivano scambiate le notizie. Aveva luogo il
mercato. Gli amici si incontravano, e i nemici combattevano. Interi
eserciti dovevano scegliere una direzione. Gli incroci sono sempre
luoghi di decisioni.” “Come… come Giano.” Hazel si ricordò del
tempio di Giano sulla Colina dei Templi al Campo Giove. I semidei
andavano là per prendere delle decisioni. Facevano volare una
moneta, testa o croce, e speravano che il dio dalle due facce li
guidasse nella direzione giusta. Hazel aveva sempre odiato quel
posto. Non aveva mai capito perché i suoi amici erano così propensi
a lasciare che un dio portasse via la loro responsabilità di scegliere.
Dopo tutto quello che Hazel aveva passato, si fidava della saggezza
degli dei più o meno quanto si fidava di una slot machine di New
Orleans. La dea della magia fece un sibilo di disgusto. “Giano e le
sue porte. Lui ti farebbe credere che tutte le scelte sono bianco o
nero, sì o no, dentro o fuori. In realtà, non è così semplice. Ogni
volta che raggiungi l’incrocio, ci sono sempre come minimo tre vie da
prendere… quattro, se conti il tornare indietro. Tu ora ti trovi a un
incrocio del genere, Hazel.” Hazel guardò nuovamente ogni
passaggio vorticante: una guerra di semidei, la distruzione dell’ Argo
II, la disfatta per se stessa e i suoi amici. “Sono tutte scelte
negative.” “Sono tutte scelte che presentano dei rischi,” corresse la
dea. “Ma qual è il tuo obiettivo?” “Il mio obiettivo?” Hazel agitò la
mano impotente verso le porte. “Nessuno di questi” Il cane Ecuba
ringhiò. La moffetta Gale zampettò intorno ai piedi della dea,
rilasciando aria e digrignando i denti. “Potresti tornare indietro,”
suggerì Ecate, “ripercorrere i tuoi passi verso Roma… ma le forze di
Gaia se lo aspettano. Nessuno di voi sopravvivrebbe.” “Allora… cosa
suggerisci?” Ecate camminò verso la torcia più vicina. Raccolse con
le mani una manciata di fiamme e le modellò finché non si ritrovò in
mano un mappa tridimensionale dell’Italia. “Potresti andare verso
ovest.” Ecate allontanò il dito dalla sua mappa ardente. “Tornare in
America con il vostro premio, l’Atena Partenos. I vostri compagni, i
greci e i romani, sono sull’orlo di una guerra. Partite ora, e potreste
salvare numerose vite.” “Potremmo,” ripeté Hazel. “Ma Gaia si
sveglierà in Grecia. E’ lì che si stanno riunendo i giganti.” “Vero. Gaia
ha programmato la data del primo Agosto, la Festa di Spes, dea
della speranza, per la sua ascesa al potere. Risvegliandosi nel
Giorno della Speranza, vuole distruggere tutte le speranze per
sempre. Anche se riusciste a raggiungere la Grecia in tempo,
sareste in grado di fermarla? Non lo so.” Ecate fece correre il dito
lungo la cima dei suoi Appennini in fiamme. “Potreste andare verso
est, oltre le montagne, ma Gaia farà qualsiasi cosa per impedirvi di
attraversare l’Italia. Vi ha messo contro le sue divinità delle
montagne.” “L’abbiamo notato,” disse Hazel. “Qualsiasi tentativo di
attraversare gli Appennini porterebbe alla distruzione della vostra
nave. Ironicamente, questa potrebbe essere l’opzione più sicura per
il tuo gruppo. Prevedo che sopravvivreste tutti all’esplosione. E’
possibile, anche se improbabile, che fareste comunque in tempo a
raggiungere Epiro e chiudere le Porte della Morte. Potreste trovare
Gaia e impedirle di risorgere. Ma per allora tutti e due i campi di
semidei sarebbero distrutti. Non avreste più una casa alla quale fare
ritorno.” Ecate sorrise. “Molto più probabilmente, la distruzione della
vostra nave vi bloccherebbe tra le montagne. Sarebbe la fina della
vostra impresa, ma risparmierebbe a te e ai tuoi amici molto dolore e
sofferenze che avreste nei giorni futuri. La guerra con i giganti
dovrebbe essere vinta o persa senza di voi.” Vinta o persa senza di
noi. Una piccola parte colpevole di Hazel trovò l’idea invitante. Aveva
desiderato la possibilità di essere una ragazza normale. Non voleva
altro dolore e sofferenze né per sé né per i suoi amici. Ne avevano
già passate troppe. Guardò oltre Ecate, verso il passaggio centrale.
Vide Percy e Annabeth stesi a terra, indifesi davanti a quelle porte
nere e argentate. Un’enorme sagoma scura, vagamente umanoide,
ora incombeva su di loro, con il piede sollevato come se fosse in
procinto di schiacciare Percy. “Che ne sarebbe di loro?” chiese
Hazel con voce roca. “Percy e Annabeth?” Ecate fece spallucce.
“Ovest, est o sud… in qualsiasi caso, loro muoiono.” “Non è
un’opzione,” disse Hazel. “Allora hai una sola strada, sebbene sia la
più pericolosa.” Le dita di Ecate attraversarono la sua miniatura degli
Appennini, lasciando una linea bianca brillante tra le fiamme rosse.
“C’è un passaggio segreto qua a nord, un luogo dove ho il dominio,
che un tempo Annibale attraversò quando marciò contro Roma.” La
dea fece un’ampia curva… verso la cima dell’Italia, poi a est verso il
mare, poi in giù lungo la costa occidentale della Grecia. “Una volta
attraversato il passaggio dovrete viaggiare a nord verso Bologna e
poi a Venezia. Da qui, salperete l’Adriatico verso la vostra meta:
Epiro, in Grecia.” Hazel non sapeva molto di geografia. Non aveva
idea di come fosse fatto il Mare Adriatico. Non aveva mai sentito
parlare di Bologna, e tutto quello che sapeva riguardo a Venezia
erano vaghe storie di canali e gondole. Ma una cosa era ovvia. “E’
un percorso estremamente fuori strada.” “Il che è il motivo per il
quale Gaia non si aspetterà che voi prendiate questa rotta,” disse
Ecate. “Posso oscurare il vostro cammino, per un po’, ma il
successo del vostro viaggio dipenderà da te, Hazel Levesque. Devi
imparare a utilizzare la Foschia.” “Io?” Hazel avvertì il cuore che le
sprofondava nello stomaco. “Usare la Foschia, come?” Ecate estinse
la sua mappa dell’Italia. Fece uno scatto con la mano verso il suo
cane nero, Ecuba. La Foschia si raccolse intorno al Labrador finché
questo non fu completamente nascosto da un bozzolo bianco. La
nebbia si schiarì con un sonoro poof! Dove fino a un attimo prima si
trovava il cane, c’era ora un gattino nero dall’aria seccata con occhi
dorati. “Miao,” si lamentò l’animale. “Io sono la dea della Foschia,”
spiegò Ecate. “Io sono responsabile di mantenere il velo che separa
il mondo degli dei dal mondo dei mortali. I miei figli imparano a usare
la Foschia a loro vantaggio, per creare illusioni o per influenzare la
mente dei mortali. Possono farlo anche altri semidei. E così devi fare
tu, Hazel, se vuoi aiutare i tuoi amici.” “Ma…” Hazel guardò il gatto.
Sapeva che in realtà era Ecuba, il Labrador nero, ma non riusciva a
convincersene. Il gatto sembrava così reale. “Non sono capace.”
“Tua madre aveva il talento,” disse Ecate. “Tu ne hai persino di più.
Come figlia di Plutone che ha fatto ritorno dai morti, tu capisci il velo
che divide due mondi meglio di molti altri. Tu puoi controllare la
Foschia. Se non lo fai… bè, tuo fratello Nico ti ha già messa in
guardia. Gli spiriti gli hanno sussurrato delle cose, gli hanno parlato
del tuo futuro. Quando raggiungerete la Casa di Ade, incontrerete un
nemico formidabile. Lei non può essere sconfitta dalla forza o dalle
armi. Solo tu puoi sconfiggerla, e avrai bisogno della magia.” Le
gambe di Hazel si erano fatte malferme. Ricordò l’espressione seria
di Nico, le sue dita che le premevano nel braccio. Non puoi dirlo agli
altri. Non ancora. Il loro coraggio è già stato portato al massimo.
“Chi?” chiese Hazel con voce roca. “Chi è questo nemico?” “Non
pronuncerò il suo nome,” disse Ecate. “Ciò l’avvertirebbe della tua
presenza prima che tu sia pronta ad affrontarla. Vai a nord, Hazel.
Durante il viaggio allenati a invocare la Foschia. Quando arriverete a
Bologna, cercate i due nani. Loro vi guideranno a un tesoro che
potrebbe aiutarvi a sopravvivere nella Casa di Ade.” “Non capisco.”
“Miao,” si lamentò il gatto. “Sì, sì, Ecuba.” La dea fece scattare la
mano di nuovo, e il gatto scomparve. Il Labrador nero riapparve al
suo posto. “Capirai, Hazel,” le promise la dea. “Di tanto in tanto,
manderò Gale a controllare i tuoi progressi.” La moffetta soffiò, con i
tondi occhi rossi che brillavano di cattiveria. “Meraviglioso,” borbottò
Hazel. “Prima che raggiungiate Epiro, devi essere pronta,” disse
Ecate. “Se avrai successo, allora forse ci incontreremo di nuovo…
per la battaglia finale.” Una battaglia finale, pensò Hazel. Oh, che
gioia. Hazel si chiese se potesse impedire le visioni che aveva visto
nella Foschia, Leo che precipitava dal cielo; Frank che incespicava
nel buio, solo e gravemente ferito; Percy e Annabeth in balia di un
gigante oscuro. Detestava gli indovinelli degli dei e i loro criptici
consigli. Stava cominciando a disprezzare gli incroci. “Perché mi stai
aiutando?” chiese Hazel. “Al Campo Giove, dicevano che hai
sostenuto i Titani durante l’ultima guerra.” Gli occhi scuri di Ecate
brillarono. “Questo perché io sono un Titano, figlia di Perse e Asteria.
Molto prima che gli dei dell’Olimpo prendessero il potere, io
controllavo la Foschia. Malgrado questo, durante la Prima Guerra
dei Titani, avvenuta millenni fa, mi schierai dalla parte di Zeus,
contro Crono. Non ero ignara della crudeltà di Crono. Speravo che
Zeus si sarebbe dimostrato un re migliore.” Fece una piccola risata
amara. “Quando Demetra perse sua figlia Persefone, rapita da tuo
padre, io guidai Demetra attraverso la notte più scura con le mie
torce, aiutandola nella sua ricerca. E quando i giganti sorsero per la
prima volta mi schierai nuovamente con gli dei. Combattei contro il
mio nemico promesso Clitio, creato da Gaia per assorbire e
sconfiggere tutta la mia magia.” “Clitio.” Hazel non aveva mai sentito
quel nome ma pronunciarlo le fece appesantire le membra. Guardò
verso le immagini nella porta settentrionale, l’enorme sagoma scura
che incombeva su Percy e Annabeth. “E’ lui la minaccia nella Casa
di Ade?” “Oh, lui vi aspetta là,” disse Ecate. “Ma prima dovrai
sconfiggere la strega. A meno che tu non riuscirai a farlo…”
Schioccò le dita, e tutti i varchi si fecero scuri. La Foschia si dissolse,
le immagini sparirono. “Tutti affrontiamo delle scelte,” disse la dea.
“Quando Crono sorse la seconda volta, io commisi un errore. Lo
sostenni. Mi ero stancata di essere ignorata dalle cosiddette divinità
maggiori. Nonostante i numerosi anni di fedele servizio, loro hanno
diffidato di me, mi hanno rifiutato un trono nella loro sala…” Gale la
moffetta fece scattare i denti, arrabbiata. “Ora non ha più
importanza.” La dea sospirò. “Ho fatto nuovamente pace con
l’Olimpo. Persino adesso che sono incapacitati, con le loro
personalità greche e romane che si combattono a vicenda, io li
aiuterò. Greca o romana, io sono sempre stata solo Ecate. Ti aiuterò
contro i giganti, se tu ti dimostrerai degna. Adesso quindi si tratta
della tua scelta, Hazel Levesque. Ti fiderai di me… oppure mi
rifiuterai, come gli dei dell’Olimpo hanno fatto troppo spesso?” Il
sangue ribolliva nelle orecchie di Hazel. Poteva davvero fidarsi di
quella dea oscura, che aveva dato a sua madre la magia che le
aveva rovinato la vita? Scusa ma, no. Non le piaceva molto il cane di
Ecate né la sua moffetta piena d’aria. Ma sapeva anche che non
poteva permettere che Percy e Annabeth morissero. “Andrò a nord,”
disse. “Prenderemo il tuo passaggio segreto attraverso le
montagne.” Ecate annuì, con una minuscola traccia di soddisfazione
sul volto. “Hai fatto la scelta giusta, anche se il cammino non sarà
facile. Numerosi mostri vi aspetteranno. Persino alcuni dei miei
stessi servi si sono schierati con Gaia, sperando di distruggere il
vostro mondo mortale.” La dea prese le sue due torce dai bracieri.
“Preparati, figlia di Plutone. Se avrai successo contro la strega, ci
incontreremo di nuovo.” “Avrò successo,” promise Hazel. “E, Ecate?
Non sto scegliendo una delle tue strade. Sto creando la mia.” La dea
inarcò le sopracciglia. La sua moffetta si agitò, e il cane ringhiò.
“Troveremo un modo per fermare Gaia,” disse Hazel. “Salveremo i
nostri amici dal Tartaro. Manterremo unito il gruppo e la nave e
impediremo la guerra tra il Campo Giove e il Campo Mezzosangue.
Faremo tutto.” La tempesta ululò, le pareti scure del ciclone
vorticarono più velocemente. “Interessante,” disse Ecate, come se
Hazel fosse il risultato inaspettato di un esperimento scientifico.
“Quella sarebbe una magia degna di essere vista.” Un’ondata di
oscurità ricoprì il mondo. Quando Hazel riacquistò la vista, la
tempesta, la dea e i suoi servi se n’erano andati. Hazel si trovava
sulla collina avvolta dal sole della mattina, da sola tra le rovine fatta
eccezione per Arion, che camminava impaziente accanto a lei,
nitrendo. “Sono d’accordo,” disse Hazel al cavallo. “Andiamo via da
qui.” “Cosa è successo?” chiese Leo mentre Hazel montava a bordo
dell’ Argo II. Le mani di Hazel stavano ancora tremando dalla sua
chiacchierata con la dea. Guardò oltre la ringhiera e vide la polvere
della scia di Arion che si allungava lungo le colline dell’Italia. Aveva
sperato che il suo amico rimanesse, ma non poteva biasimarlo per
volersi allontanare da quel posto il più velocemente possibile. La
campagna brillava con il sole dell’estate che si rifletteva nella
rugiada del mattino. Sulla collina, le antiche rovine erano bianche e
silenziose, nessun segno di antiche strade, o di divinità, o di donnole
con aria nella pancia. “Hazel?” chiese Nico. Le sue ginocchia
tremarono. Nico e Leo l’afferrarono dalle braccia e l’aiutarono ad
andare verso le scale del ponte rialzato. Era imbarazzata, a crollare
come la donzella di qualche fiaba, ma la sua energia era andata. Il
ricordo di quelle scene luminose presso l’incrocio la riempivano di
terrore. “Ho incontrato Ecate,” riuscì a dire. Non li raccontò tutto. Si
ricordava di quello che Nico le aveva detto: Il loro coraggio è già
stato portato al massimo. Ma raccontò loro del passaggio segreto
settentrionale che attraversava le montagne, e della deviazione
descritta da Ecate che poteva portali a Epiro. Quando ebbe finito
Nico le prese la mano. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione.
“Hazel, hai incontrato Ecate presso un incrocio. Questa è… questa è
una cosa alla quale molti semidei non sopravvivono. E quelli che lo
fanno non sono mai più gli stessi. Sei sicura di stare…“ “Sto bene,”
insistette lei. Ma sapeva che non era così. Si ricordava di quanto si
era sentita audace e arrabbiata, quando aveva detto alla dea che
avrebbe trovato la sua strada e sarebbe riuscita a fare tutto. Ora il
suo vanto le sembrava ridicolo. Il coraggio l’aveva abbandonata. “Se
Ecate ci stesse imbrogliando?” chiese Leo. “Questo percorso
potrebbe essere una trappola.” Hazel scosse la testa. “Se fosse
stata una trappola, credo che Ecate avrebbe fatto apparire il
percorso settentrionale allettante. Credimi, non l’ha fatto.” Leo tirò
fuori una calcolatrice dalla sua cintura degli attrezzi e digitò alcuni
numeri. “Questa… è una cosa come cinquecento chilometri fuori
strada per raggiungere Venezia. Poi dovremmo tornare indietro
lungo l’Adriatico. E hai detto qualcosa riguardo a nani e cicogne?”
“Nani a Bologna,” disse Hazel. “Immagino che Bologna sia una città.
Ma perché dobbiamo cercare dei nani là… non ne ho idea. Ha a che
fare con qualche tipo di tesoro per aiutarci con l’impresa.” “Huh,”
disse Leo. “Cioè, vado matto per i tesori, ma…“ “E’ la nostra migliore
possibilità.” Nico aiutò Hazel ad alzarsi. “Dobbiamo recuperare il
tempo perso, viaggiare più veloci che possiamo. Le vite di Percy e
Annabeth potrebbero dipendere da questo.” “Veloce?” Leo fece un
grosso sorriso. “So andare veloce.” Si gettò verso la console e iniziò
ad armeggiare con gli interruttori. Nico prese Hazel per il braccio e la
guidò fuori portata d’orecchie. “Cos’altro ha detto Ecate? Niente
riguardo…“ “Non posso.” Hazel lo interruppe di colpo. Le immagini
che aveva visto l’avevano quasi sopraffatta: Percy e Annabeth
indifesi alla base di quelle porte di metallo nero, il gigante oscuro che
incombeva su di loro, Hazel stessa intrappolata in un brillante
labirinto di luce, incapace di aiutare. Devi sconfiggere la strega,
aveva detto Ecate. Solo tu puoi farlo. A meno che non ci riuscirai…
La fine, pensò Hazel. Tutte le porte chiuse. Tutta la speranza estinta.
Nico l’aveva avvertita. Aveva avuto contatti con i morti, li aveva
sentiti sussurrare indizi sul loro futuro. Due figli dell’Oltretomba
sarebbero entrati nella Casa di Ade. Avrebbero affrontato un nemico
impossibile. Solo uno di loro avrebbe raggiunto le Porte della Morte.
Hazel non riusciva a incontrare gli occhi di suo fratello. “Te lo
racconto più tardi,” promise, cercando di impedire alla sua voce di
tremare. “Al momento, dovremmo riposarci finché possiamo.
Stanotte attraverseremo gli Appennini.”
5

ANNABETH

Nove giorni. Mentre precipitavano, Annabeth pensò ad Esiodo,


l’antico poeta greco che aveva sostenuto che ci sarebbero voluti
nove giorni per cadere dalla terra fino al Tartaro. Sperava che Esiodo
si sbagliasse. Aveva perso il conto di quanto fosse passato da
quando lei e Percy erano precipitati, ore? Un giorno? Sembrava
un’eternità. Si erano tenuti per mano fin da quando erano caduti
nell’abisso. Adesso Percy la tirò vicino a lui, abbracciandola stretta
mentre cadevano a picco attraverso l’oscurità assoluta. Il vento
fischiava nelle orecchie di Annabeth. L’aria si faceva più calda e
umida, come se stessero precipitando nella gola di un drago
enorme. La sua caviglia recentemente rotta pulsava, ma non riusciva
a capire se fosse ancora avvolta dalle ragnatele. Quel dannato
mostro di Aracne. Nonostante fosse stata intrappolata nella sua
stessa tela, schiacciata da una macchina e tirata nel Tartaro, la
donna ragno aveva avuto la sua vendetta. In qualche modo la sua
seta si era intrecciata intorno alla gamba di Annabeth e l’aveva
trascinata oltre il bordo della voragine, con Percy al seguito.
Annabeth non riusciva a credere che Aracne fosse ancora viva, da
qualche parte sotto di loro, nel buio. Non voleva incontrare di nuovo
quel mostro una volta raggiunto il fondo. Guardando il lato positivo,
presumendo che esistesse un fondo, Annabeth e Percy si sarebbero
probabilmente spiaccicati all’impatto, quindi i ragni giganti erano
l’ultimo dei suoi problemi. Avvolse le braccia intorno a Percy e cercò
di non piangere. Non si era mai aspettata che la sua vita sarebbe
stata semplice. La maggior parte dei semidei moriva da giovane per
mano di mostri terribili. Era stato così fin dai tempi antichi. I greci
avevano inventato la tragedia. Sapevano che i più grandi eroi non
avevano un lieto fine. Tuttavia, non era giusto. Ne aveva passate
così tante per recuperare quella statua di Atena. Proprio quando ce
l’aveva fatta, quando le cose avevano cominciato a migliorare e lei si
era riunita a Percy, erano precipitati dritti verso la loro morte. Persino
gli dei non potevano escogitare un destino così crudele. Ma Gaia
non era come gli altri dei. Madre Terra era più antica, più malvagia,
più assetata di sangue. Annabeth poteva immaginarla intenta a
ridere mentre loro precipitavano nell’abisso. Annabeth premette le
labbra contro l’orecchio di Percy. “Ti amo.” Non era certa che lui
potesse sentirla, ma se stavano per morire voleva che quelle fossero
le sue ultime parole. Aveva cercato disperatamente di pensare a un
piano per salvarli. Era una figlia di Atena. Aveva dato prova di sé nei
sotterranei di Roma, aveva superato una serie di sfide usando solo
la sua mente. Ma non riusciva a pensare a nessun modo per
invertire o anche solo rallentare la loro caduta. Nessuno dei due
aveva il potere di volare, non come Jason, che poteva controllare i
venti, o come Frank, che poteva trasformarsi in un animale alato. Se
raggiungevano il fondo alla loro velocità di caduta terminale… bè,
capiva abbastanza di scienza da sapere che sarebbe stato
terminale. Stava seriamente pensando alla possibilità di arrangiare
un paracadute con le loro magliette, era disperata fino a quel punto,
quando qualcosa nell’ambiente mutò. L’oscurità assunse una tinta
grigio-rossastra. Si rese conto che era in grado di vedere i capelli di
Percy mentre lo abbracciava. Il fischio nelle sue orecchie si
trasformò in qualcosa di più simile a un ruggito. L’aria si fece
insopportabilmente calda, permeata da un odore di uova marce.
Improvvisamene, il tunnel attraverso il quale stavano precipitando si
aprì in un’ampia caverna. A circa un chilometro sotto di loro,
Annabeth poté vedere il fondo. Per un attimo fu troppo sconvolta per
pensare lucidamente. All’interno di quella caverna ci sarebbe potuta
entrare tutta l’isola di Manhattan e non poteva nemmeno vederla
interamente. Nuvole rosse erano sospese in aria come sangue
vaporizzato. Il paesaggio, almeno quello che riusciva a vedere, era
formato da rocciose pianure nere, punteggiate da montagne
frastagliate e abissi in fiamme. Alla sinistra di Annabeth, il terreno
precipitava verso il basso con una serie di dirupi, come scalini
colossali che portavano ancora più in profondità. Il puzzo di zolfo
rendeva difficile concentrarsi, ma lei si focalizzò sul terreno sotto di
loro e vide una striscia di luccicante liquido nero, un fiume. “Percy!”
le gridò lei nell’orecchio. “Acqua!” Indicò agitata con le braccia. Il
volto di Percy era difficile da leggere nella fioca luce rossa.
Sembrava stordito e terrorizzato, ma annuì come se avesse capito.
Percy era in grado di controllare l’acqua, presumendo che quella
sotto di loro fosse acqua. Avrebbe potuto attutire in qualche modo la
loro caduta. Ovviamente Annabeth aveva sentito storie orribili
riguardo ai fiumi dell’Oltretomba. Potevano portarti via i ricordi, o
ridurre il tuo corpo e la tua anima in cenere. Ma decise di non
pensarci. Quella era la loro unica possibilità. Il fiume sfrecciava
verso di loro. All’ultimo secondo, Percy emise un urlo di sfida.
L’acqua eruttò in un geyser gigante e li inghiottì interamente.
6

ANNABETH

L’impatto non la uccise, ma per poco non lo fece il freddo. Acqua


ghiacciata le tolse il fiato dai polmoni. I suoi arti si fecero rigidi, e lei
perse la presa su Percy. Cominciò ad affondare. Strani lamenti le
riempirono le orecchie, milioni di voce dai cuori spezzati, come se il
fiume fosse fatto da tristezza distillata. Le voci erano peggio del
freddo. Le pesavano addosso e la rendevano insensibile. Perché
lottare? le dicevano. Sei comunque morta. Non lascerai mai questo
posto. Poteva affondare e lasciarsi annegare, lasciare che il fiume
trasportasse via il suo corpo. Sarebbe stata la cosa più facile.
Poteva semplicemente chiudere gli occhi… Percy afferrò la sua
mano e la riportò improvvisamente alla realtà. Non riusciva a vederlo
nell’acqua sporca, ma improvvisamente non voleva più morire.
Insieme sbatterono le gambe verso l’alto e irruppero in superficie.
Annabeth boccheggiò, grata dell’aria, non importava quanto fosse
sulfurea. L’acqua vorticava intorno a loro, e lei si rese conto che
Percy stava creando un mulinello per tenerli a galla. Anche se non
riusciva a distinguere l’ambiente che li circondava, sapeva che si
trovavano in un fiume. E i fiumi avevano le rive. “Terra,” disse con
voce gracchiante. “Muoviamoci di lato.” Percy sembrava quasi morto
dalla stanchezza. Solitamente l’acqua lo rinvigoriva, ma non
quell’acqua. Controllarla doveva aver richiesto fino all’ultima goccia
della sua forza. Il mulinello iniziò a dissolversi. Annabeth ancorò un
braccio intorno alla vita di Percy e lottò contro la corrente. Il fiume le
si opponeva: migliaia di voci piangenti che le sussurravano nelle
orecchie, entrandole nella mente. La vita è disperazione, dicevano.
E’ tutto inutile, e alla fine si muore. “Inutile,” mormorò Percy. I suoi
denti stavano sbattendo dal freddo. Smise di nuotare e iniziò ad
affondare. “Percy!” gridò lei. “Il fiume sta giocando con la tua mente.
E’ il Cocito, il Fiume del Pianto. E’ fatto di pura sofferenza!”
“Sofferenza,” concordò lui. “Combattila!” Lei scalciò e lottò, cercando
di mantenere entrambi a galla. Un altro scherzo cosmico per il
divertimento di Gaia: Annabeth muore cercando di impedire al suo
ragazzo, il figlio di Poseidone, di annegare. Non succederà, vecchia
strega, pensò Annabeth. Abbracciò Percy più stretto e lo baciò.
“Raccontami di Nuova Roma,” chiese. “Che piani avevi per noi?”
“Nuova Roma… Per noi…” “Sì, Testa d’Alghe. Hai detto che
potremmo avere un futuro là! Parlamene!” Annabeth non aveva mai
voluto lasciare il Campo Mezzosangue. Era l’unica vera casa che
avesse mai avuto. Ma giorni prima, a bordo dell’Argo II, Percy le
aveva detto che immaginava un futuro per loro due tra i semidei
romani. Nella loro città di Nuova Roma, i veterani della legione
potevano sistemarsi al sicuro, andare al college, sposarsi, persino
avere dei bambini. “Architettura,” mormorò Percy. La nebbia che
aveva negli occhi cominciò a schiarirsi. “Ho pensato che ti sarebbero
piaciute le case, i parchi. C’è una strada con un sacco di fontane
bellissime.” Annabeth cominciò a fare progressi contro la corrente.
Le sembrava che le sue braccia fossero diventate sacche piene di
sabbia bagnata, ma adesso Percy la stava aiutando. Riusciva a
vedere la linea scura della riva a un tiro di sasso di distanza.
“College,” disse lei senza fiato. “Potremmo andarci insieme?” “S…
sì,” annuì lui, con un po’ più di sicurezza. “Cosa studieresti, Percy?”
“Non lo so,” ammise lui. “Scienze marine,” suggerì lei.
“Oceanografia?” “Surf?” chiese lui. Lei rise, e quel suono inviò
un’ondata improvvisa attraverso l’acqua. I lamenti si ridussero a
rumori di sottofondo. Annabeth si chiese se qualcuno prima d’ora
avesse mai riso nel Tartaro, solo una pura e semplice risata di
piacere. Ne dubitava. Usò ciò che le rimaneva della sua forza per
raggiungere la sponda del fiume. I suoi piedi sprofondarono nel
fondo sabbioso. Lei e Percy si issarono a riva, tremanti e senza fiato,
e crollarono sulla sabbia scura. Annabeth voleva raggomitolarsi
accanto a Percy e dormire. Voleva chiudere gli occhi, sperare che
tutto quello fosse solo un brutto sogno e svegliarsi per ritrovarsi
sull’Argo II, al sicuro con i suoi amici (o almeno tanto al sicuro
quanto può esserlo un semidio). Ma, no. Si trovavano davvero nel
Tartaro. Ai loro piedi, il Fiume Cocito scorreva ruggendo, un torrente
d’infelicità liquida. L’aria sulfurea bruciava nei polmoni di Annabeth e
le pungeva la pelle. Quando si guardò le braccia, vide che erano già
ricoperte da un eritema. Cercò di mettersi a sedere e boccheggiò dal
dolore. La spiaggia non era fatta di sabbia. Erano seduti su una
distesa di frammenti di vetro nero, alcuni dei quali erano adesso
conficcati nei palmi di Annabeth. Quindi, l’aria era acida. L’acqua
fatta di miseria. Il terreno era vetro infranto. Tutto in quel luogo era
pensato per ferire e uccidere. Annabeth fece un respiro incerto e si
chiese se le voci del Cocito non avessero ragione. Forse combattere
per sopravvivere era inutile. Sarebbero morti nel giro di un’ora.
Vicino a lei, Percy tossì. “Questo posto odora come il mio vecchio
patrigno.” Annabeth abbozzò un sorriso debole. Non aveva mai
incontrato Gabe il Puzzone, ma aveva sentito abbastanza storie.
Amava Percy per il fatto che cercasse di sollevarle il morale. Se
fosse caduta nel Tartaro da sola, pensò Annabeth, sarebbe stata
spacciata. Dopo tutto quello che aveva affrontato nel sottosuolo di
Roma, per trovare l’Atena Partenos, quello era semplicemente
troppo. Si sarebbe rannicchiata a piangere finché non fosse
diventata un altro fantasma, fondendosi nel Cocito. Ma non era da
sola. Aveva Percy. E ciò voleva dire che non poteva arrendersi. Si
obbligò a fare il punto della situazione. Il suo piede era ancora
avvolto nella sua stecca improvvisata fatta di assi di legno e carta da
imballaggio, sempre avvolto dalle ragnatele. Ma quando lo mosse,
non provò dolore. L’ambrosia che aveva preso nei tunnel sotto Roma
doveva aver finalmente guarito le sue ossa. Il suo zaino era andato
perso durante la caduta, o forse spazzato via dal fiume, Odiava
l’idea di aver perso il computer di Dedalo, con tutti i suoi fantastici
programmi e file, ma aveva dei problemi più grandi. Il suo pugnale di
bronzo Celeste non c’era più, l’arma che aveva avuto con sé da
quando aveva sette anni. Quella consapevolezza per poco non la
travolse, ma non poteva permettersi di rimanere a rimuginarci sopra.
Lo avrebbe rimpianto più tardi. Cos’altro avevano? Niente cibo,
niente acqua… praticamente nessun tipo di scorta. Già. Inizio
promettente. Annabeth lanciò un’occhiata a Percy. Aveva un aspetto
piuttosto brutto. I suoi capelli scuri erano appiattiti contro la fronte, la
maglietta era ridotta a brandelli. Le dita erano sbucciate da quando
si era retto a quella sporgenza prima che cadessero. Cosa più
preoccupante di tutte, stava tremando e aveva le labbra blu.
“Dovremmo continuare a muoverci o rischieremo l’ipotermia,” disse
Annabeth. “Puoi alzarti in piedi?” Lui annuì. Si alzarono entrambi con
fatica. Annabeth gli avvolse il braccio intorno alla vita, sebbene non
sapesse chi stava sostenendo chi. Ispezionò l’ambiente circostante.
Sopra di loro, non vide nessun segno del tunnel dal quale erano
caduti. Non riusciva nemmeno a vedere il tetto della caverna, solo
nuvole color rosso sangue che fluttuavano nella nebbiosa aria grigia.
Era come guardare attraverso un sottile strato di zuppa al pomodoro
e cemento mischiati insieme. La spiaggia di vetro nero si allungava
verso l’entroterra per circa cinquanta metri, poi si gettava oltre il
bordo di un dirupo. Da dove si trovava, Annabeth non poteva vedere
cosa ci fosse al di sotto, ma il bordo tremolava di luci rosse come se
fosse illuminato da falò enormi. Un lontano ricordo cominciò a
tormentarla, qualcosa che riguardava il Tartaro e il fuoco. Prima che
potesse pensarci troppo, Percy fece un respiro secco e trattenne il
fiato. “Guarda.” Indicò verso il fiume, nella direzione della corrente. A
trenta metri di distanza, una macchina celeste italiana dall’aspetto
familiare si era schiantata di muso nella sabbia. Sembrava essere
identica alla Fiat che era crollata su Aracne e che l’aveva spedita
nell’abisso. Annabeth sperava che si stesse sbagliando, ma quante
macchina sportive italiane potevano esserci nel Tartaro? Parte di lei
non voleva avvicinarsi affatto, ma doveva scoprirlo. Afferrò la mano
di Percy, e insieme arrancarono verso il rottame. Una delle gomme
della macchina si era staccata e stava galleggiando in un mulinello
creato dall’acqua del Cocito. I finestrini della Fiat erano andati in
frantumi, e avevano sparso del vetro più chiaro sulla spiaggia scura,
rendendolo simile a glassa. Sotto il cofano schiacciato giacevano i
resti a brandelli e luccicanti di un bozzolo di seta gigante, la trappola
che Annabeth aveva fatto tessere ad Aracne con l’inganno. Era
indubbiamente vuota. Segni di squarci nella sabbia creavano una
scia nella direzione della corrente… come se qualcosa di pesante,
con numerose gambe, fosse corsa nell’oscurità. “E’ viva.” Annabeth
era così inorridita, così oltraggiata dall’ingiustizia di tutto quello, che
dovette soffocare lo stimolo di rigettare. “E’ il Tartaro,” disse Percy.
“La casa dei mostri. Forse qui sotto non possono essere uccisi.”
Guardò Annabeth con uno sguardo imbarazzato, come se si stesse
rendendo conto che non stava aiutando il morale della coppia. “O
magari è gravemente ferita, e si è trascinata via per morire.”
“Facciamo che è così,” concordò Annabeth. Percy stava ancora
tremando. Nemmeno Annabeth si sentiva molto riscaldata,
nonostante la calda aria appiccicosa. I tagli del vetro che aveva sulle
mani stavano ancora sanguinando, cosa che era insolita per lei.
Normalmente, guariva in fretta. Il suo respiro si fece sempre più
affaticato. “Questo posto ci sta uccidendo,” disse. “Voglio dire, ci
ucciderà letteralmente, a meno che…” Tartaro. Fuoco. Quel ricordo
lontano divenne chiaro. Guardò verso il dirupo illuminato dalle
fiamme sottostanti. Era un’idea totalmente folle. Ma poteva essere la
loro unica possibilità. “A meno che cosa?” la incitò Percy. “Hai un
piano brillante, non è così?” “E’ un piano,” mormorò Annabeth. “Non
so se sia brillante. Dobbiamo trovare il Fiume del Fuoco.”
7

ANNABETH

Quando raggiunsero il bordo, Annabeth fu certa che aveva appena


segnato le loro morti. Il dirupo cadeva per più di venti metri. Sul
fondo si allungava una versione da incubo del Gran Canyon: un
fiume di fuoco che si apriva un percorso attraverso un crepaccio
fatto di ossidiana frastagliata, con la corrente rosso brillante che
gettava ombre orribili sulle pareti del precipizio. Persino dalla cima
del canyon, il calore era intenso. Il gelo del Fiume Cocito non aveva
ancora lasciato le ossa di Annabeth, ma adesso il suo volto
sembrava escoriato e bruciato dal sole. Ogni respiro richiedeva uno
sforzo sempre più grande, come se il suo petto fosse stato riempito
di polistirolo. Invece di rallentare, i tagli che aveva sulle mani
sanguinarono più velocemente. La caviglia di Annabeth, che era
quasi guarita, adesso sembrava essere nuovamente rotta. Si era
tolta la stecca improvvisata, ma ora se ne pentiva. Ogni passo la
faceva sussultare. Dando per scontato che sarebbero riusciti a
raggiungere il fiume ardente, cosa della quale dubitava, il suo piano
sembrava completamente folle. “Uh…” Percy esaminò il precipizio.
Indicò una minuscola fessura che correva diagonalmente dal bordo
fino al fondo. “Possiamo provare con quella sporgenza. Potremmo
riuscire a scendere.” Non disse che sarebbero stati dei folli a
provarci. Riuscì a sembrare positivo. Annabeth ne era grata, ma
temeva anche che lo stesse guidando verso la sua condanna.
Ovviamente se fossero rimasti là, sarebbero morti in ogni caso. Sulle
loro braccia erano cominciate a spuntare delle vesciche a causa
dell’esposizione all’aria del Tartaro. Tutto l’ambiente era sano più o
meno come un’area colpita da un’esplosione nucleare. Percy andò
per primo. Il bordo era a stento largo abbastanza per essere usato
come appoggio. Le loro mani si aggrappavano a qualsiasi crepa
nella roccia vetrosa. Ogni volta che Annabeth poggiava del peso sul
suo piede ferito, voleva urlare. Si era strappata le maniche della
maglietta e aveva usato il tessuto per bendarsi le mani sanguinanti,
ma le sue dita erano ancora scivolose e deboli. Qualche passo sotto
di lei, Percy grugnì mentre si allungava per raggiungere un’altra
sporgenza. “Allora… com’è chiamato questo fiume di fuoco?” “Il
Flegetonte,” disse lei. “Dovresti concentrarti nella discesa.” “Il
Flegetonte?” Si mosse lungo il bordo. Avevano percorso all’incirca
un terzo della strada verso il fondo, erano ancora abbastanza in alto
da morire in caso di caduta. “Suona come il nome di una gara di
cerbottane.” “Ti prego, non farmi ridere,” disse lei. “Cerco solo di
alleggerire il morale.” “Grazie,” disse lei con voce roca, mancando
per poco una sporgenza con il piede ferito. “Avrò un sorriso
stampato in faccia mentre precipito verso la mia morte.”
Continuarono a scendere, un passo alla volta. Gli occhi di Annabeth
pizzicavano a causa del sudore. Le braccia le tremavano. Ma, con
suo stesso stupore, raggiunsero finalmente il fondo del dirupo.
Quando lei raggiunse il terreno, inciampò. Percy l’afferrò al volo. Fu
spaventata nel sentire quanto fosse febbricitante la sua pelle. Gli
erano comparse delle bolle rosse sul volto, quindi aveva l’aspetto di
una vittima di vaiolo. La sua stessa vista era sfocata. La sua gola era
irritata, e il suo stomaco si era contratto più stretto di un pugno.
Dobbiamo sbrigarci, pensò. “Dobbiamo solo raggiungere il fiume,”
disse a Percy, cercando di impedire il panico che avvertiva nella
voce. “Possiamo farcela.” Avanzarono incerti sopra scivolose
sporgenze vetrose, intorno a enormi massi, evitando le stalagmiti
che li avrebbero impalati con il più piccolo passo falso. I loro vestiti
ridotti a brandelli fumavano a causa del calore del fiume, ma
continuarono ad avanzare finché non caddero sulle ginocchia sulle
rive del Flegetonte. “Dobbiamo bere,” disse Annabeth. Percy oscillò
con il corpo, i suoi occhi quasi completamene chiusi. Gli ci vollero tre
secondi per rispondere. “Uh… bere fuoco?” “Il Flegetonte scorre dal
regno di Ade fino al Tartaro.” Annabeth riusciva a malapena a
parlare. La sua gola si stava chiudendo a causa del calore e dell’aria
acida. “Il fiume viene usato per punire i dannati. Ma oltre a questo…
alcune leggende lo chiamano il Fiume della Guarigione.” “Alcune
leggende?” Annabeth deglutì, cercando di rimanere cosciente. “Il
Flegetonte mantiene interi i dannati così che possano sopportare i
tormenti dei Campi della Punizione. Credo… credo che possa
essere l’equivalente dell’Oltretomba di ambrosia e nettare.” Percy
sussultò mentre dei tizzoni provenienti dal fiume gli schizzavano sul
volto. “Ma è fuoco. Come possiamo…?” “Così.” Annabeth tuffò le
mani nel fiume. Stupido? Sì, ma era convinta che non avessero altra
scelta. Se avessero aspettato ancora, sarebbero svenuti e morti.
Meglio provare qualcosa di stupido e sperare che funzionasse. Al
primo contatto, il fuoco non fu doloroso. Sembrava freddo, il che
voleva probabilmente dire che era così caldo che stava
sovraccaricando i nervi di Annabeth. Prima che potesse cambiare
idea, raccolse del liquido ardente tra le mani e lo portò alla bocca. Si
aspettava che avesse il sapore della benzina. Fu molto peggio. Una
volta in un ristorante a San Francisco, aveva commesso l’errore di
assaggiare un peperoncino messicano che era arrivato con un piatto
di cibo indiano. Dopo averlo a malapena mordicchiato, aveva
pensato che il suo sistema respiratorio stesse per implodere. Bere
dal Flegetonte era come inghiottire un frullato di quel peperoncino.
Le vie respiratorie le si riempirono di fiamme liquide. Sembrava che
le stessero friggendo la bocca. Dagli occhi le scesero lacrime
bollenti, e ogni poro che aveva sul viso esplose. Crollò,
boccheggiando e lottando per respirare, con tutto il corpo scosso da
violente convulsioni. “Annabeth!” Percy la afferrò dalle braccia e
riuscì a malapena a fermarla prima che lei rotolasse nel fiume. Le
convulsioni passarono. Fece un respiro incerto e riuscì a sedersi. Si
sentiva orribilmente debole e nauseata, ma il respiro successivo
arrivò più facilmente. Le vesciche che aveva sulle braccia stavano
iniziando a svanire. “Ha funzionato,” disse con voce rotta. “Percy,
devi bere.” “Io…” Gli occhi gli si rigirarono nella testa, e si
abbandonò contro di lei. Disperatamente, prese altro fuoco con le
mani. Ignorando il dolore, versò il liquido nella bocca di Percy. Lui
non reagì. Tentò di nuovo, versandogli un’intera manciata di fuoco
nella gola. Questa volta lui sputò e tossì. Annabeth lo tenne stretto
mentre lui tremava, con il fuoco magico che scorreva attraverso il
suo sistema. La sua febbre scomparve. Le vesciche svanirono.
Riuscì a mettersi seduto e fece schioccare le labbra. “Ugh,” disse.
“Piccante, ma disgustoso.” Annabeth rise debolmente. Era così
sollevata che si sentiva la testa leggera. “Già. Hai riassunto bene la
sensazione.” “Ci hai salvati.” “Per adesso,” disse. “Il problema è che
siamo ancora nel Tartaro.” Percy sbatté le palpebre. Si guardò
intorno come se stesse appena realizzando dove si trovavano.
“Santa Era. Non avevo mai pensato… bè, non sono certo di cosa
pensassi. Forse che il Tartaro fosse un luogo vuoto, un abisso senza
fondo. Ma questo è un luogo reale.” Annabeth richiamò alla mente il
paesaggio che aveva visto mentre stavano precipitando, una serie di
altopiani che portavano ancora più in profondità nel buio. “Non
abbiamo visto tutto,” avvertì lei. “Questa potrebbe essere solo la
prima minuscola parte dell’abisso, come i gradini del portico.” “Il
tappetino d’ingresso,” borbottò Percy. Guardarono entrambi in alto
verso le nuvole rosso sangue che vorticavano nella nebbia grigia. In
nessun modo avrebbero avuto la forza di arrampicarsi nuovamente
su quel dirupo, anche se avessero voluto. Ora c’erano solo due
scelte: andare nella direzione uguale o opposta rispetto allo scorrere
del fiume, costeggiando le rive del Flegetonte. “Troveremo un modo
per uscire,” disse Percy. “Le Porte della Morte.” Annabeth rabbrividì.
Si ricordava quello che Percy aveva detto appena prima che
cadessero nel Tartaro. Aveva fatto promettere a Nico di Angelo di
guidare l’Argo II a Epiro, alla parte mortale delle Porte della Morte. Ci
incontreremo là, aveva detto Percy. Quell’idea sembrava persino più
folle del bere fuoco. Come avrebbero fatto loro due a vagare
attraverso il Tartaro e a trovare le Porte della Morte? Erano a
malapena riusciti a fare pochi metri in quel luogo avvelenato senza
morire. “Dobbiamo farlo,” disse Percy. “Non solo per noi. Per tutti
quelli che amiamo. Le Porte devono essere chiuse da entrambe le
parti, altrimenti i mostri continueranno a usarle per tornare. Le forze
di Gea invaderanno il mondo.” Annabeth sapeva che aveva ragione.
Tuttavia… quando cercava di immaginare un piano che poteva
funzionare, la logistica prendeva il sopravvento. Non avevano
nessun modo per localizzare le Porte. Non sapevano quanto tempo
ci sarebbe voluto, o neanche se il tempo scorreva alla stessa
velocità nel Tartaro. Come era possibile che riuscissero a
sincronizzare un incontro con i loro amici? E Nico aveva parlato di
una legione formata dai mostri più forti di Gaia a guardia delle Porte
dalla parte del Tartaro. Annabeth e Percy non potevano esattamente
lanciarsi in un attacco frontale. Decise di non parlare di nulla di tutto
quello. Sapevano entrambi che le probabilità erano pessime. Inoltre,
dopo aver nuotato nel Fiume Cocito, Annabeth aveva sentito
abbastanza pianti e lamenti da esserle sufficienti per una vita intera.
Si ripromise di non lamentarsi mai più. “Bene.” Fece un respiro
profondo, grata del fatto che almeno i suoi polmoni non le facessero
male. “Se rimaniamo vicini al fiume, avremo un modo per guarirci.
Se seguiamo la corrente…“ Accadde così velocemente che
Annabeth sarebbe morta se fosse stata da sola. Gli occhi di Percy si
spostarono su qualcosa alle sue spalle. Annabeth si girò di scatto
mentre un’enorme sagoma scura si gettava contro di lei, una
ringhiante e mostruosa macchia nera con affusolate zampe uncinate
e occhi luccicanti. Ebbe il tempo di pensare: Aracne. Ma era
congelata dal terrore, con i sensi soffocati dal nauseante odore
dolciastro. Poi udì il familiare SHINK della penna a sfera di Percy
che si trasformava in una spada. La lama volò sopra la sua testa
disegnando un brillante arco di bronzo. Un’orribile lamento
riecheggiò attraverso il canyon. Annabeth rimase ferma là,
sconvolta, mentre della polvere gialla, i resti di Aracne, le pioveva
intorno come polline. “Stai bene?” Percy scrutò i massi e le rocce, in
guardia per altri mostri, ma non apparve nient’altro. La polvere
dorata del ragno si posò sulle rocce di ossidiana. Annabeth fissò il
suo ragazzo stupita. La lama di bronzo Celeste di Vortice brillava
persino più forte nell’oscurità del Tartaro. Mentre attraversava la
densa aria calda, la spada produsse un sibilo provocatorio, come un
serpente infastidito. “Mi… mi avrebbe ucciso,” disse Annabeth
balbettando. Percy scalciò la polvere sulle rocce, con un’espressione
tetra e insoddisfatta. “E’ morta troppo facilmente, considerando
quanti tormenti ti ha fatto subire. Si meritava di peggio.” Annabeth
non aveva nulla da ridire su quello, ma il tono duro nella voce di
Percy la rese inquieta. Non aveva mai visto qualcuno essere così
arrabbiato o vendicativo per conto di lei. La rese quasi felice del fatto
che Aracne fosse morta subito. “Come hai fatto a muoverti così
velocemente?” Percy scrollò le spalle. “Dobbiamo guardarci le spalle
a vicenda, giusto? Ora, cosa stavi dicendo… seguire la corrente?”
Annabeth annuì, ancora stordita. La polvere gialla si dissipò sulla
sponda rocciosa, trasformandosi in vapore. Almeno adesso
sapevano che i mostri potevano essere uccisi nel Tartaro… anche se
non aveva idea di quanto tempo Aracne sarebbe rimasta morta.
Annabeth non aveva intenzione di rimanere abbastanza a lungo da
scoprirlo. “Sì, seguire la corrente,” riuscì a dire. “Se il fiume viene dai
livelli più alti dell’Oltretomba, dovrebbe scorrere verso le profondità
del Tartaro…“ “Quindi porta in territori più pericolosi,” finì Percy. “Che
probabilmente è dove si trovano le Porte. Evviva.”
8

ANNABETH

Avevano percorso solo poche centinaia di metri quando Annabeth


udì delle voci. Avanzò arrancando, in parte stupita, mentre cercava
di formulare un piano. Dal momento che lei era una figlia di Atena, i
piani sarebbero dovuti essere la sua specialità; ma era difficile
pensare a delle strategie con lo stomaco che brontolava e la gola
secca. L’acqua di fuoco del Flegetonte poteva averla guarita e averle
ridato la forza, ma non aveva fatto nulla per la fame o sete. Il fiume
non aveva lo scopo di farti sentire bene, indovinò Annabeth. Si
limitava a permetterti di andare avanti così da poter provare altri
tormenti. La sua testa iniziò a inclinarsi dalla stanchezza. Poi le udì,
voci femminili che stavano avendo qualche tipo di discussione, e fu
immediatamente allerta. Sussurrò. “Percy, giù!” Lo tirò dietro il
masso più vicino, accucciandosi così vicino alla sponda che le sue
scarpe sfioravano il fuoco del fiume. Dall’altra parte, nello stretto
sentiero tra il fiume e le scogliere, c’erano delle voci ringhianti, che si
facevano sempre più forti mentre si avvicinavano seguendo la
corrente. Annabeth cercò di regolare il respiro. Le voci suonavano
vagamente umane, ma quello non voleva dire nulla. Dava per
scontato che qualsiasi cosa nel Tartaro fosse loro nemico. Non
sapeva come fosse possibile che i mostri non li avessero ancora
individuati. Inoltre, i mostri potevano sentire l’odore dei semidei,
soprattutto di quelli potenti come Percy, figlio di Poseidone.
Annabeth dubitava che nascondersi dietro a un masso sarebbe
servito a molto quando i mostri avessero catturato la loro scia.
Nonostante ciò, mentre i mostri si avvicinavano, le loro voci non
cambiarono tono. I loro passi irregolari, scrap, clump, scrap, clump,
non aumentarono di velocità. “Tra poco?” chiese una di loro con una
voce aspra, come se avesse fatto i gargarismi nel Flegetonte. “Oh
mie dei!” disse un’altra voce. Questa suonava più giovane e molto
più umana, come una adolescente mortale che si esasperava con gli
amici al centro commerciale. Per qualche ragione, ad Annabeth
suonava familiare. “Siete assolutamente irritanti! Ve l’ho detto, si
trova tipo tre giorni da qui.” Percy afferrò il polso di Annabeth. La
guardò allarmato, come se anche lui avesse riconosciuto la voce
della ragazza del centro commerciale. Ci fu un coro di ringhi e
brontolii. Le creature, forse una mezza dozzina, indovinò Annabeth,
si erano fermate proprio dall’altra parte del masso, ma continuavano
a non dare segno di aver avvertito l’odore dei semidei. Annabeth si
chiese se i semidei avessero un odore diverso nel Tartaro, o se gli
altri odori fossero così forti da mascherare l’aura dei semidei. “Mi
chiedo,” disse una terza voce, stridula e antica come la prima, “se
magari è che non conosci la strada, giovane.” “Oh, chiudi la tua
bocca zannuta, Serefone,” disse la ragazza del centro commerciale.
“Quando è stata l’ultima volta nella quale tu sei fuggita nel mondo
mortale? Io ci sono stata un paio di anni fa. Conosco la strada!
Inoltre, io so a cosa andiamo incontro lassù. Voi non ne avete la
minima idea!” “Madre Terra non ti ha nominata capo!” strillò una
quarta voce. Ci furono altri sibili, rumori di azzuffamenti e lamenti da
animali, come giganteschi gatti di vicolo che lottavano. Alla fine
quella chiamata Serefone urlò, “Basta così!” I rumori degli
azzuffamenti morirono. “Per ora ti seguiremo,” disse Serefone. “Ma
se non ci guiderai bene, se scopriamo che hai mentito sulla
chiamata di Gea…“ “Io non mento!” scattò la ragazza del centro.
“Credimi, ho dei buoni motivi per partecipare a questa battaglia. Ho
dei nemici da divorare, e voi banchetterete con il sangue degli eroi.
Per me dovrete solo lasciare uno speciale boccone, quello chiamato
Percy Jackson.” Annabeth trattenne a stento un ringhio tutto suo. Si
dimenticò della sua paura. Voleva saltare oltre il masso e affettare i
mostri fino a ridurli in polvere con il suo pugnale… se non fosse per il
fatto che non ce l’aveva più il pugnale. “Credetemi,” disse la ragazza
da centro commerciale. “Gea ci ha chiamate, e ci divertiremo così
tanto. Prima che questa guerra sia conclusa, i mortali e i semidei
tremeranno al suono del mio nome, Kelly!” Per poco Annabeth non
gemette ad alta voce. Lanciò un’occhiata a Percy. Persino nella luce
rossa del Flegetonte, il suo volto sembrava di cera. Empousai, mimò
con le labbra. Vampiri. Percy annuì tetro. Si ricordava di Kelly. Due
anni prima, durante l’orientamento del liceo di Percy, lui e la loro
amica Rachel Dare erano stati attaccati da due Empousai travestite
da cheerleader. Una di loro era Kelly. In seguito, la stessa empousa
li aveva attaccati nel laboratorio di Dedalo. Annabeth l’aveva
pugnalata alla schiena e l’aveva mandata… lì. Nel Tartaro. Le
creature ripresero a camminare, con le voci che si facevano più
deboli. Annabeth si avvicinò al bordo del masso e si arrischiò a
guardare. Come aveva pensato, cinque donne stavano camminando
barcollando su gambe spaiate, di bronzo e meccanica la sinistra,
pelosa e dotata di zoccolo la destra. I loro capelli erano fatti di fuoco,
la loro pelle era bianca come ossa. La maggior parte indossava
vestiti dell’Antica Grecia a brandelli, fatta eccezione per quella alla
guida, Kelly, che indossava una camicetta bruciata e strappata con
una corta gonna pieghettata… la sua divisa da cheerleader.
Annabeth strinse i denti. Aveva affrontato un sacco di brutti mostri
nel corso degli anni, ma odiava le Empousai più della maggior parte.
Oltre ai loro orribili artigli e zanne, avevano la potente capacità di
controllare la Foschia. Potevano cambiare forma e usare la lingua
ammaliatrice, ingannando i mortali ad abbassare la guardia. Gli
uomini erano particolarmente impressionabili. La tattica preferita
dell’empousa era di far innamorare un ragazzo di se stessa, per poi
bere il suo sangue e divorarne la carne. Non proprio un primo
appuntamento fantastico. Kelly aveva quasi ucciso Percy. Aveva
manipolato il più vecchio amico di Annabeth, Luke, incitandolo a fare
imprese sempre più malvagie nel nome di Crono. Annabeth
desiderava davvero di avere ancora con sé il suo pugnale. Percy si
alzò in piedi. “Sono dirette alle Porte della Morte,” mormorò. “Sai che
significa?” Annabeth non voleva pensarci, ma purtroppo, quella
squadra di donne mangiatrici di carne da film horror sarebbe potuta
essere la cosa più vicina alla fortuna che avrebbero trovato nel
Tartaro. “Sì,” disse lei. “Dobbiamo seguirle.”
9

LEO

Leo aveva passato la notte lottando con un’Atena di dodici metri. Fin
da quando avevano portato la statua a bordo, era stato ossessionato
dal cercare di capire come funzionava. Era certo che avesse poteri
straordinari. Ci doveva essere un interruttore segreto, un disco a
pressione o qualcosa nascosto da qualche parte. Avrebbe dovuto
dormire, ma semplicemente non poteva. Passava ore accucciato
accanto alla statua, che occupava la maggior parte del ponte
inferiore. I piedi di Atena sporgevano nell’infermeria, quindi dovevi
aggirare i suoi alluci di avorio se volevi qualcosa contro il mal di
testa. Il suo corpo era lungo come il corridoio di babordo, le sue
mani aperte sporgevano nella sala motori, nell’atto di offrire la figura
a grandezza naturale di Nike che aveva sul palmo, come a dire,
Ecco qui, prendete un po’ di Vittoria! Il volto calmo di Atena
occupava la maggior parte delle stalle dei pegasi a poppa, che
fortunatamente erano vuote. Se Leo fosse stato un cavallo magico,
non avrebbe voluto vivere in una stalla con una dea della saggezza
extralarge a fissarlo. La statua era incastrata nel corridoio, dove
entrava a malapena, così Leo dovette arrampicarsi sopra di lei e
contorcersi sotto i suoi arti, in cerca di leve e bottoni. Come al solito,
non trovò nulla. Aveva fatto qualche ricerca sulla statua. Sapeva che
era fatta da uno scheletro cavo di legno ricoperto di avorio e oro, il
che spiegava perché fosse così leggera. Era in condizioni piuttosto
buone, considerando che aveva più di duemila anni, era stata
saccheggiata da Atene, trasportata a Roma, e conservata
segretamente nella caverna di un ragno per la maggior parte degli
ultimi due millenni. Doveva essere stata la magia ad averla
mantenuta intatta, immaginava Leo, combinata con un lavoro
d’artigianato davvero eccellente. Annabeth aveva detto… bè, cercò
di non pensare ad Annabeth. Si sentiva ancora in colpa per il fatto
che lei e Percy fossero caduti nel Tartaro. Leo sapeva che era colpa
sua. Avrebbe dovuto far salire tutti al sicuro a bordo dell’Argo II
prima di iniziare a legare la statua. Avrebbe dovuto rendersi conto
che il pavimento della caverna era instabile. Tuttavia, rimuginarci
sopra non avrebbe riportato indietro Percy e Annabeth. Doveva
concentrasti sul risolvere i problemi che poteva aggiustare. Ad ogni
modo, Annabeth aveva detto che la statua era la chiave per
sconfiggere Gea. Poteva guarire la spaccatura tra i semidei greci e
romani. Leo immaginava che ci fosse qualcosa di più in lei che
semplice simbolismo. Magari gli occhi di Atena erano pistole laser, o
il serpente dietro il suo scudo poteva sputare veleno. O forse la
statua più piccola di Nike prendeva vita e cominciava ad attaccare
con mosse da ninja. Leo poteva pensare a tutta una serie di cose
divertenti che la statua avrebbe potuto fare se fosse stato lui a
progettarla, ma più la esaminava più diventava frustato. L’Atena
Partenos irradiava magia. Persino lui poteva avvertirlo. Ma non
sembrava fare nulla eccetto apparire maestosa. La nave sbandò di
lato, facendo manovre evasive. Leo resistette all’impulso di correre
al timone. In quel momento Jason, Piper e Frank erano di guardia
con Hazel. Potevano affrontare qualsiasi cosa stesse succedendo.
Inoltre, Hazel aveva insistito nel voler prendere il timone per guidarli
attraverso il passaggio segreto di cui le aveva parlato la dea della
magia. Leo sperava che Hazel avesse ragione sulla lunga
deviazione a nord. Non si fidava di questa signora Ecate. Non capiva
perché una dea così inquietante avesse improvvisamente deciso di
aiutarli. Ovviamente, lui non si fidava della magia in generale. Era
per quello che stava avendo così tanti problemi con l’Atena
Partenos. Non aveva parti moventi. Qualsiasi cosa facesse,
apparentemente operava con stregoneria pura… e Leo non
apprezzava la cosa. Voleva che avesse senso, come una macchina.
Alla fine fu troppo esausto per riuscire a pensare coerentemente. Si
avvolse in una coperta nella sala motori e si mise ad ascoltare il
ronzio calmante dei generatori. Buford, il tavolo meccanico, si
trovava in un angolo in modalità addormentato, e produceva piccoli
sbuffi di vapore: Shh, pfft, shh, pfft. A Leo piaceva la sua postazione
di comando ma si sentiva più al sicuro lì, nel cuore della nave, in una
stanza piena di macchinari che sapeva come controllare. Inoltre,
forse se passava più tempo a stretto contatto con l’Atena Partenos,
alla fine avrebbe assorbito i suoi segreti. “Io o te, Signora Gigante,”
mormorò mentre si tirava la coperta fino al mento. “Alla fine
collaborerai.” Chiuse gli occhi e si addormentò. Sfortunatamente, ciò
voleva dire sognare. Stava correndo per salvarsi la vita attraverso la
vecchia officina di sua madre, dove era morta in un incendio quando
Leo aveva otto anni. Non era certo di che cosa lo stesse
inseguendo, ma avvertiva che si stava avvicinando in fretta qualcosa
di grosso, buio e carico di odio. Si scontrò con i tavoli da lavoro,
sbatté contro le cassette per gli attrezzi, e inciampò sui fili elettrici.
Intravide l’uscita e scattò verso di essa, ma una figura incombeva
davanti a lui, una donna con vestiti fatti di terra vorticante, il volto
coperto da un velo di polvere. Dove stai andando, piccolo eroe?
chiese Gea. Rimani, e incontra il mio figlio prediletto. Leo scattò sulla
sinistra, ma la risata della Dea della Terra lo seguì. La notte in cui
tua madre è morta, io ti avvertii. Ti dissi che le Parche non mi
avrebbero permesso di ucciderti allora. Ma adesso hai scelto il tuo
cammino. La tua morte è vicina, Leo Valdez. Lui corse, scontrandosi
con un tavolo inclinabile, la vecchia postazione di lavoro di sua
madre. La parete dietro di essa era decorata con i disegni a pastello
di Leo. Singhiozzò disperato e si voltò, ma la cosa che lo stava
inseguendo adesso si trovava sul suo cammino, un essere colossale
avvolto dalle ombre, con una forma vagamente umanoide, la testa
toccava quasi il soffitto sei metri più in alto. Le mani di Leo presero
fuoco. Lanciò una palla di fiamme contro il gigante, ma l’oscurità la
consumò. Leo cercò di prendere la sua cintura degli attrezzi. Le sue
tasche erano state cucite. Cercò di parlare, di dire qualsiasi cosa che
avrebbe potuto salvargli la vita, ma non riuscì a produrre nessun
suono, come se gli avessero rubato l’aria dai polmoni. Mio figlio non
permetterà nessun incendio questa notte, disse Gea dalle profondità
del magazzino. Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il freddo
che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le parole.
Leo voleva urlare: E io sono il ragazzo che se ne sta andando da
qui! La sua voce non funzionava, così usò i suoi piedi. Si lanciò sulla
destra, abbassandosi per evitare le ombrose mani del gigante, e si
gettò verso la porta più vicina. Improvvisamente, si ritrovò al Campo
Mezzosangue, solo che il campo era ridotto in macerie. Le cabine
erano ammassi bruciati. I campi in fiamme fumavano alla luce della
luna. Il padiglione della cena era crollato diventando una pila di
macerie bianche, e la Casa Grande stava andando a fuoco, con le
sue finestre che brillavano come occhi di demoni. Leo continuò a
correre, certo che il gigante d’ombra fosse ancora dietro di lui.
Zigzagò intorno ai corpi dei semidei greci e romani. Voleva
controllare se erano vivi. Voleva aiutarli. Ma in qualche modo sapeva
che era a corto di tempo. Corse verso le uniche persone vive che
vedeva, un gruppo di romani che si trovavano presso il campo da
pallavolo. Due centurioni erano appoggiati con aria indifferente ai
loro giavellotti, intenti a chiacchierare con un alto ragazzo biondo e
magrissimo che indossava una toga viola. Leo inciampò. Era il tipo
strano chiamato Ottaviano, l’augure del Campo Giove, che era
sempre in cerca di guerra. Ottaviano si voltò verso di lui, ma
sembrava essere in trance. I tratti del suo volto erano inerti, i suoi
occhi chiusi. Quando parlò, lo fece con la voce di Gea: Questo non
può essere impedito. I romani si spostano verso est da New York. Si
avvicinano al vostro campo, e nulla può rallentarli. Leo era tentato di
dare un pugno in faccia ad Ottaviano. Invece continuò a correre. Salì
sulla Collina Mezzosangue. Sulla cima, dei lampi avevano distrutto il
pino gigante. Si fermò all’improvviso. Tutto quello che c’era oltre la
collina era stato spazzato via. Al di là di essa, tutto il mondo era
svanito. Leo non vide nulla eccetto nuvole librate più in basso, un
ondulato tappeto d’argento sotto il cielo scuro. Una voce acuta disse,
“Ebbene?” Leo indietreggiò. Accanto al pino in pezzi, una donna era
inginocchiata presso l’entrata di una caverna che si era aperta tra le
radici dell’albero. La donna non era Gea. Sembrava più come
un’Atena Partenos vivente, con gli stessi vestiti dorati e le nude
braccia d’avorio. Quando si alzò, per poco Leo non precipitò oltre il
bordo del mondo. Il suo volto era regalmente bello, con zigomi alti,
grandi occhi scuri, e capelli color liquirizia legati con un’elegante
acconciatura dell’Antica Grecia, decorati con una spirale di smeraldi
e diamanti, così da ricordare a Leo un albero di Natale. La sua
espressione irradiava odio puro. Le sue labbra si incurvarono. Il suo
naso si arricciò. “Il figlio del dio meccanico,” disse con sarcasmo.
“Non sei una minaccia, ma suppongo che la mia vendetta debba
iniziare da qualche parte. Fai la tua scelta.” Leo cercò di parlare, ma
stava per schizzare fuori dalla pelle per il panico. Tra questa regina
dell’odio e il gigante che lo inseguiva, non aveva idea di cosa fare.
“Sarà presto qui,” avvertì la donna. “Il mio oscuro amico non ti darà il
lusso di una scelta. Il precipizio o la grotta, ragazzo!”
Improvvisamente Leo capì quello che voleva dire. Era stato messo
all’angolo. Avrebbe potuto saltare dal precipizio, ma quello era un
suicidio. Anche se ci fosse stata la terra sotto quelle nuvole, sarebbe
morto durante la caduta, o forse avrebbe semplicemente continuato
a cadere in eterno. Ma la grotta… fissò l’apertura buia tra le radici
dell’albero. Aveva un odore di morte e putrefazione. Sentiva dei
corpi che si agitavano dall’interno, voci che sussurravano tra le
ombre. La grotta era la casa dei morti. Se scendeva là sotto, non
sarebbe mai tornato. “Sì,” disse la donna. Intorno al suo collo era
appeso uno strano pendente di bronzo e smeraldi, come un labirinto
circolare. I suoi occhi erano così arrabbiati, che Leo capì finalmente
perché si diceva impazzire dalla rabbia. Quella donna era stata
portata alla follia dall’odio. “La Casa di Ade attende. Tu sarai il primo
piccolo roditore a morire nel mio labirinto. Hai solo un’opportunità per
fuggire, Leo Valdez. Coglila.” Fece un gesto verso il precipizio. “Lei è
matta,” riuscì a dire. Era la cosa sbagliata da dire. Lei gli afferrò il
polso. “Forse dovrei ucciderti adesso, prima che arrivi il mio amico
oscuro?” Dei passi fecero tremare il fianco della collina. Il gigante
stava arrivando, avvolto dalle ombre, enorme, pesante e incline
all’omicidio. “Hai mai sentito della morte in un sogno, ragazzo?”
chiese la donna. “E’ possibile, per mano di una maga!” Il braccio di
Leo iniziò a fumare. Il tocco della donna era acido. Cercò di liberarsi,
ma la sua presa era come acciaio. Aprì la bocca per urlare.
L’enorme sagoma del gigante incombeva sopra di lui, oscurata da
strati di fumo nero. Il gigante sollevò il pugno, e una voce arrivò
attraverso il sogno. “Leo!” Jason gli stava scuotendo la spalla. “Hey,
amico, perché stai abbracciando Nike?” Gli occhi di Leo si aprirono
di scatto. Le sue braccia erano avvolte intorno alla statua a
grandezza umana sulla mano di Atena. Doveva essersi agitato nel
sonno. Era aggrappato alla dea della vittoria come era solito
aggrapparsi al suo cuscino da bambino quando aveva degli incubi.
(Cavoli, era stata una cosa così imbarazzante nelle case adottive.)
Si sciolse dalla statua e si mise a sedere, strofinandosi la faccia.
“Nulla,” borbottò. “Ci stavamo solo facendo le coccole. Uhm, che
succede?” Jason non lo punzecchiò. Quella era una cosa del suo
amico che Leo apprezzava. Gli occhi blu ghiaccio di Jason erano
calmi e seri. La piccola cicatrice sulla sua bocca si contrasse come
faceva sempre quando doveva dare brutte notizie. “Abbiamo
attraversato le montagne,” disse. “Siamo quasi arrivati a Bologna.
Dovresti raggiungerci nella sala mensa. Nico ha delle novità.”
10

LEO

Leo aveva progettato le pareti della sala mensa in modo tale che
mostrassero immagini in tempo reale dal Campo Mezzosangue.
All’inizio aveva pensato che fosse un’idea piuttosto fantastica.
Adesso non ne era più così certo. Le scene di casa, i canti di gruppo
intorno al falò, le cene al padiglione, le partite di volleyball fuori dalla
Casa Grande, sembravano solo rendere tristi i suoi amici. Più si
allontanavano da Long Island, più la cosa peggiorava. Il fuso orario
continuava a cambiare, facendo sentire a Leo la distanza ogni volta
che guardava le pareti. Lì in Italia il sole era appena spuntato. Al
Campo Mezzosangue erano nel bel mezzo della notte. Le torce
erano accese alle porte delle cabine. La luce della luna luccicava
sulle onde di Long Island Sound. La spiaggia era ricoperta di
impronte, come se ci fosse appena passata una grande folla. Con
stupore, Leo si rese conto che il giorno prima, la scorsa notte, quello
che era, era stato il Quattro Luglio. Si erano persi la festa annuale
del Campo Mezzosangue sulla spiaggia con grandiosi fuochi
d’artificio preparati dai fratelli di Leo della Cabina Nove. Decise di
non dirlo al gruppo, ma sperava che i loro amici a casa si fossero
divertiti. Anche loro avevano bisogno di qualcosa che tenesse alto il
loro morale. Si ricordò delle immagini che aveva visto nel suo sogno,
il campo in rovina, cosparso di corpi; Ottaviano che si trovava al
campo da pallavolo, che parlava incurante nella voce di Gea. Fissò
le sue uova con bacon. Desiderò poter disattivare i video a parete.
“Allora,” disse Jason, “adesso che siamo qui…” Si mise seduto a
capotavola, in maniera quasi automatica. Da quando avevano perso
Annabeth, Jason aveva fatto del suo meglio per comportarsi come il
leader del gruppo. Essendo stato pretore del Campo Giove, era
probabilmente abituato; ma Leo poteva capire che il suo amico era
stressato. I suoi occhi erano persino più infossati del solito. I suoi
capelli biondi erano stranamente in disordine, come se si fosse
dimenticato di pettinarli. Leo guardò gli altri ragazzi intorno al tavolo.
Anche Hazel aveva gli occhi annebbiati, ma lei ovviamente era stata
in piedi tutta la notte per pilotare la nave attraverso le montagne. I
suoi ricci capelli color cannella erano legati all’indietro con una
bandana, cosa che le dava un aspetto da capitano che Leo trovava
quasi attraente, e poi si sentì immediatamente in colpa per quello.
Accanto a lei era seduto il suo ragazzo, Frank Zhang, vestito con
pantaloni da ginnastica neri e una maglietta da turista di Roma con
la scritta CIAO! (era davvero una parola?). La vecchia spilla da
centurione di Frank era appuntata alla sua maglietta, nonostante il
fatto che adesso i semidei dell’Argo II erano i Nemici Pubblici
Numero dall’1 al 7 del Campo Giove. La sua espressione seria non
faceva altro che rinforzare la sua triste somiglianza a un lottatore di
sumo. Poi c’era il fratellastro di Hazel, Nico di Angelo. Accidenti, quel
ragazzo dava a Leo i brividi. Era seduto con il suo giacchetto di pelle
da aviatore, la sua maglietta nera e i jeans, quell’anello a forma di
teschio d’argento dall’aspetto cattivo al dito, e la spada di ferro di
Stige al fianco. I suoi ciuffi di capelli neri sporgevano in ricci simili a
piccole ali di pipistrello. I suoi occhi erano tristi e in un cero senso
vuoti, come se avessero visto attraverso le profondità del Tartaro,
cosa che avevano fatto. L’unico semidio assente era Piper, che
stava facendo il suo turno al timone con il Coach Hedge, il loro satiro
accompagnatore. Leo desiderava che Piper fosse lì. Aveva la
capacità di calmare la situazione con quel suo incantesimo da figlia
di Afrodite. Dopo il sogno della notte scorsa, a Leo avrebbe fatto
comodo un po’ di calma. D’altra parte, era probabilmente una buona
cosa che lei si trovasse sopra coperta ad accompagnare il loro
accompagnatore. Ora che si trovavano nelle Terre Antiche,
dovevano stare costantemente in guardia. Leo era nervoso all’idea
di lasciare il Coach Hedge a dirigere la nave da solo. Il satiro aveva
un tantino il grilletto facile, e il timone aveva un sacco di luminosi
bottoni pericolosi che potevano far esplodere i pittoreschi paesini
italiani sotto di loro. Leo si era estraniato così tanto che non si era
reso conto che Jason stava ancora parlando. “…la Casa di Ade,”
stava dicendo. “Nico?” Nico si sporse in avanti. “Ho parlato con i
morti ieri notte.” Buttò la notizia con disinvoltura, come se avesse
detto di aver ricevuto un messaggio da un amico. “Sono stato in
grado di sapere di più su quello che affronteremo,” continuò Nico.
“Nei tempi antichi, la Casa di Ade era un posto di grande importanza
per i pellegrini greci. Ci si recavano per parlare con i morti e onorare
i loro antenati.” Leo si accigliò. “Sembra come il Dià de los Muertos.
Mia Zia Rosa prendeva quelle cose seriamente.” Si ricordava di
quando veniva trascinato da lei al cimitero locale di Houston, dove
pulivano le tombe dei loro parenti e lasciavano offerte di limonata,
biscotti e calendule fresche. Zia Rosa costringeva Leo a rimanere
per fare un picnic, come se trascorrere la giornata con persone
morte fosse stata una cosa positiva per il suo appetito. Frank emise
un brontolio. “Anche i Cinesi lo fanno, il culto degli antenati,
spazzare le tombe in primavera.” Guardò Leo. “Tua Zia Rosa
sarebbe andata d’accordo con mia nonna.” Leo ebbe una visione
terrificante di sua Zia Rosa e di qualche anziana donna cinese
vestita da lottatrice, che si attaccavano a vicenda con mazze
chiodate. “Sì,” disse Leo. “Sono certo che sarebbero state migliori
amiche.” Nico si schiarì la voce. “Numerose culture hanno tradizioni
stagionali per onorare i morti, ma la Casa di Ade era aperta tutto
l’anno. I pellegrini potevano realmente parlare con i fantasmi. In
greco, il luogo era chiamato Necromanteion, l’Oracolo della Morte.
Dovevi farti strada attraverso diversi livelli di tunnel, lasciando offerte
e bevendo pozioni speciali…“ “Pozioni speciali,” borbottò Leo.
“Yum.” Jason gli lanciò un’occhiata che sembrava dire, Amico, basta
così. “Nico, vai avanti.” “I pellegrini credevano che ogni livello del
tempio ti portasse più vicino all’Oltretomba, fino a che i morti non ti
apparivano. Se erano soddisfatti delle tue offerte, rispondevano alle
tue domande, magari ti dicevano persino il futuro.” Frank picchiettò
sulla sua tazza di cioccolata calda. “E se gli spiriti non erano
soddisfatti?” “Alcuni pellegrini non trovavano nulla,” disse Nico.
“Alcuni impazzivano, oppure morivano dopo aver lasciato il tempio.
Altri si perdevano nei tunnel e non venivano più rivisti.” “Il punto è
che,” disse Jason velocemente, “Nico ha scoperto delle informazioni
che potrebbero aiutarci.” “Sì.” Nico non sembrava molto entusiasta.
“Il fantasma con il quale ho parlato la scorsa notte… era un
sacerdote di Ecate. Ha confermato quello che la dea ha detto ieri ad
Hazel presso l’incrocio. Durante la prima guerra con i giganti, Ecate
combatté con gli dei. Uccise uno dei giganti, uno che era stato
pensato come l’anti-Ecate. Un tipo di nome Clitio.” “Tipo oscuro,”
indovinò Leo. “Avvolto dalle ombre.” Hazel si voltò verso di lui,
stringendo i suoi occhi dorati. “Leo, come facevi a saperlo?”
“Diciamo che ho fatto un sogno.” Nessun sembrò sorpreso. La
maggior parte dei semidei faceva degli incubi vividi su quello che
accadeva nel mondo. I suoi amici prestarono grande attenzione
mentre Leo spiegava. Cercò di non guardare le immagini a parete
del Campo Mezzosangue mentre descriveva il luogo in rovina.
Raccontò loro del gigante scuro, e della strana donna sulla Collina
Mezzosangue, che gli offriva una morte a scelta multipla. Jason
allontanò il suo piatto di pancake. “Allora il gigante è Clitio. Immagino
che ci starà aspettando, sorvegliando le Porte della Morte.” Frank
arrotolò uno dei suoi pancake e iniziò a masticare rumorosamente,
non un tipo che permetteva a una morte imminente di impedire una
colazione salutare. “E la donna del sogno di Leo?” “Lei è un
problema mio.” Hazel si rigirò un diamante tra le dita con un rapido
movimento di mano. “Ecate ha parlato di una nemica formidabile
nella Casa di Ade, una strega che non può essere sconfitta se non
da me, usando la magia.” “Conosci la magia?” chiese Leo. “Non
ancora.” “Ah.” Cercò di pensare a qualcosa di positivo da dire, ma gli
tornarono alla mente gli occhi arrabbiati della donna, il modo in cui la
sua presa d’acciaio gli aveva fatto fumare la pelle. “Nessuna idea su
chi possa essere?” Hazel scosse la testa. “Solo che…” Lanciò
un’occhiata a Nico, e tra loro due passò qualche tipo di discussione
silenziosa. Leo ebbe la sensazione che i due avessero avuto una
conversazione privata sulla Casa di Ade, e che non stessero
condividendo tutti i dettagli. “Solo che non sarà facile da
sconfiggere.” “Ma c’è qualche buona novità,” disse Nico. “Il fantasma
con il quale ho parlato ha spiegato come Ecate sconfisse Clitio
durante la prima guerra. Usò le sue torce per mandargli a fuoco i
capelli. Lui bruciò fino a morire. In altre parole, il fuoco è la sua
debolezza.” Si girarono tutti a guardare Leo. “Oh,” disse. “Okay.”
Jason annuì incoraggiante, come se fossero delle grandi notizie,
come se si aspettasse che Leo andasse diretto verso una massa
incombente di oscurità, lanciasse qualche palla di fuoco e risolvesse
tutti i loro problemi. Leo non voleva abbatterlo, ma riusciva ancora a
sentire la voce di Gea: Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il
freddo che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le
parole. Leo era piuttosto sicuro che ci sarebbe voluto più di qualche
fiammifero per far prendere fuoco al gigante. “E’ un buon inizio,”
insistette Jason “Almeno sappiamo come uccidere il gigante. E
questa maga… bè, se Ecate crede che Hazel può batterla, allora lo
credo anche io.” Hazel abbassò lo sguardo. “Ora dobbiamo solo
raggiungere la Casa di Ade, farci strada attraverso le forze di Gea…“
“E attraverso un sacco di fantasmi,” aggiunse Nico serio. “Gli spiriti
in quel tempio potrebbero non essere amichevoli.” “… e trovare le
Porte della Morte,” continuò Hazel. “Assumendo che riusciremo in
qualche modo ad arrivare nello stesso momento di Percy e
Annabeth e salvarli.” Frank mandò giù un morso di pancake.
“Possiamo farcela. Dobbiamo farcela.” Leo ammirava l’ottimismo del
ragazzone. Desiderò averlo anche lui. “Allora, per quanto riguarda
questa deviazione,” disse Leo, “ho calcolato che ci vorranno quattro
o cinque giorni per arrivare ad Epiro, presumendo che non ci
saranno ritardi causati da, sapete, attacchi di mostri e cose così.”
Jason fece un sorriso asciutto. “Già. Quelli non accadono mai.” Leo
guardò Hazel. “Ecate ti ha detto che Gea stava pianificando la sua
grande festa di risveglio per il primo Agosto, giusto? La Festa di
Qualche Cosa?” “Spes,” disse Hazel. “La dea della speranza.” Jason
giocherellò con la sua forchetta. “Teoricamente, questo ci lascia
abbastanza tempo. Siamo solo al cinque di Luglio. Dovremmo
essere in grado di chiudere le Porte della Morte, poi trovare il
quartier generale dei giganti e impedire loro di svegliare Gea prima
del primo Agosto.” “Teoricamente,” concordò Hazel. “Ma mi
piacerebbe comunque sapere come riusciremo ad attraversare la
Casa di Ade senza impazzire o morire.” Nessuno propose qualche
idea. Frank mise giù il suo involtino di pancake come se
improvvisamente non avesse più un sapore così buono. “E’ il cinque
Luglio. Oh, cavoli, non ci avevo nemmeno pensato….” “Ehi, amico,
va tutto bene,” disse Leo. “Sei Canadese, giusto? Non mi aspettavo
che mi facessi un regalo per la Festa d’Indipendenza o niente del
genere… a meno che non volevi farlo.” “Non è quello. Mia nonna…
mi diceva sempre che il sette era un numero sfortunato. Era un
numero fantasma. Non le piacque l’idea quando le dissi che ci
sarebbero stati sette semidei nella nostra impresa. E Luglio è il
settimo mese dell’anno.” “Sì, ma…” Leo picchiettò le dita sul tavolo
con fare nervoso. Si rese conto che stava usando il codice Morse
per dire ti voglio bene, come era solito fare con sua madre, cosa che
sarebbe stata piuttosto imbarazzante se i suoi amici avessero
saputo il codice Morse. “Ma è solo una coincidenza, giusto?”
L’espressione di Frank non lo rassicurò. “In Cina,” disse Frank, “ai
tempi antichi, le persone chiamavano il settimo mese il mese
fantasma. Era quando il mondo degli spiriti e il mondo umano erano
più vicini. I vivi e i morti potevano andare avanti e indietro. Dimmi
che è una coincidenza il fatto che stiamo cercando le Porte della
Morte durante il mese fantasma.” Nessun disse nulla. Leo voleva
credere che le vecchie credenze cinesi non potessero avere nulla a
che fare con i greci e i romani. Erano cose totalmente diverse,
giusto? Ma l’esistenza di Frank era la prova che le culture erano
legate insieme. La famiglia Zhang risaliva all’Antica Grecia. Avevano
attraversato Roma e la Cina e alla fine erano arrivati in Canada.
Inoltre, Leo continuava a pensare al suo incontro con la dea della
vendetta, Nemesi, al Grande Lago Salato. Nemesi lo aveva definito
la settima ruota, la riserva dell’impresa. Non intendeva settimo per
dire fantasma, no? Jason premette le mani contro i braccioli della
sedia. “Concentriamoci sulle cose che possiamo risolvere. Ci stiamo
avvicinando a Bologna. Forse avremo più risposte una volta trovati
questi nani che Ecate…“ La nave sbandò come se avesse colpito un
iceberg. Il piatto della colazione di Leo scivolò lungo il tavolo. Nico
cadde all’indietro e sbatté la testa contro la credenza. Crollò sul
pavimento, con una dozzina di calici e piatti magici che gli
precipitarono addosso. “Nico!” Hazel corse ad aiutarlo. “Cosa…?”
Frank cercò di mettersi in piedi, ma la nave sterzò nella direzione
opposta. Si scontrò contro il tavolo e cadde di faccia nel piatto di
uova strapazzate di Leo. “Guardate!” Jason indicò le pareti. Le
immagini del Campo Mezzosangue stavano vibrando e mutando.
“Impossibile,” mormorò Leo. Non c’era modo nel quale quegli
incantesimi potessero mostrare qualcosa di diverso dalle scene del
campo, ma improvvisamente un enorme faccia distorta riempì
l’intera parete di babordo: gialli denti storti, una rossa barba incolta,
un naso bitorzoluto, e due occhi spaiati, uno molto più grande e in
alto rispetto all’altro. La faccia sembrava cercare di farsi strada nella
stanza a morsi. Le altre pareti vibrarono, mostrando scene dal ponte.
Piper si trovava al timone, ma c’era qualcosa che non andava. Dalle
spalle in giù era avvolta dal nastro adesivo, con la bocca
imbavagliata e le gambe legate alla console di controllo. All’albero
maestro, il Coach Hedge era anche lui legato e imbavagliato, mentre
una creatura dall’aspetto strano, una sorta di mix tra uno gnomo e
uno scimpanzé con scarso senso dello stile, gli danzava intorno,
acconciando i capelli del coach in minuscole treccine con elastici
rosa. Sulla parete di babordo, l’enorme volto indietreggiò così da
permettere a Leo di vedere l’intera creatura, un altro scimpanzé
gnomo, con vestiti ancora più folli. Questo qui iniziò a saltellare per il
ponte, infilando varie cose in una sacca di tela, il pugnale di Piper, il
controllore Wii di Leo. Poi andò a curiosare verso la sfera di
Archimede, tirandola fuori dalla console di comando. “No!” urlò Leo.
“Huh,” gemette Nico dal pavimento. “Piper!” urlò Jason. “Scimmie!”
gridò Frank. “Non sono scimmie,” borbottò Hazel. “Credo che quelli
siano nani.” “Che stanno rubando le mie cose!” gridò Leo, e corse
verso le scale.
11

LEO

Leo era vagamente consapevole di Hazel che gridava, “Andate! Io


mi occupo di Nico!” Come se Leo avesse intenzione di tornare
indietro. Certo, sperava che di Angelo stesse bene, ma lui aveva i
suoi mal di testa personali. Leo si gettò verso le scale, con Jason e
Frank al seguito. La situazione sul ponte era persino peggiore di
quanto avesse temuto. Il Coach Hedge e Piper stavano lottando per
liberarsi dallo scotch mentre uno dei nani scimmia indemoniati
ballava sul ponte, raccogliendo qualsiasi cosa non fosse fissata a
terra e ficcandola nella sua sacca. Era alto circa un metro e venti,
persino più basso del Coach Hedge, con gambe inarcate e piedi da
scimpanzé, con dei vestiti così appariscenti che fecero venire le
vertigini a Leo. I suoi pantaloni di lana verdi erano risvoltati sull’orlo,
ed erano tenuti su da bretelle rosso acceso sopra una camicetta da
donna a strisce rosa e nere. Indossava una mezza dozzina di orologi
d’oro su ciascun braccio, e un cappello zebrato da cowboy con un
cartellino del prezzo che dondolava dalla tesa. La sua pelle era
ricoperta da macchie di incolta pelliccia rossa, sebbene il novanta
per cento dei suoi peli sembrava essere concentrato sulle sue
maestose sopracciglia. Leo aveva appena formato il pensiero Dov’è
l’altro nano? quando udì un click dietro di lui e si rese conto di aver
guidato i suoi amici in una trappola. “Giù!” Si gettò a terra mentre
l’esplosione gli faceva scoppiare i timpani. Nota a se stesso, pensò
Leo barcollando. Non lasciare scatole di granate magiche dove i
nani possono raggiungerle. Almeno era vivo. Ultimamente Leo
aveva sperimentato con ogni tipo di arma basandosi sulla sfera di
Archimede che aveva scoperto a Roma. Aveva costruito granate che
potevano spruzzare acido, fuoco, pallottole esplosive, o popcorn
appena imburrati. (Ehi, non si può mai sapere quando ti verrà fame
in battaglia.) A giudicare dal fischio nelle orecchie di Leo, i nani
avevano fatto esplodere la granata stordente, che Leo aveva
riempito con una rara fiala della musica di Apollo, puro estratto
liquido. Non uccideva, ma gli lasciò la sensazione di essersi appena
buttato di pancia in piscina. Cercò di alzarsi. I suoi arti erano
inutilizzabili. Qualcuno lo stava trascinando dalla vita, forse un amico
che stava cercando di aiutarlo ad alzarsi? No. I suoi amici non
odoravano di gabbie per scimmie inzuppate di profumo. Riuscì a
voltarsi. La sua vista era sfocata e sfumava sul rosa, come se il
mondo fosse stato immerso in una gelatina alle fragole. Un grottesco
volto sorridente incombeva sopra di lui. Il nano dalla pelliccia
marrone era vestito in maniera persino peggiore del suo amico, con
una bombetta verde simile a quella di un lepricano, orecchini a
pendente di diamanti, e una maglietta bianca e nera da arbitro. Mise
in mostra il premio che aveva appena rubato la cintura degli attrezzi
di Leo e poi andò via danzando. Leo cercò di afferrarlo, ma le sue
dita erano intorpidite. Il nano saltellò verso la balista più vicina, che il
suo amico dalla pelliccia rossa stava caricando per sparare. Il nano
con il pelo marrone saltò sul missile come fosse uno skateboard, e il
suo amico lo lanciò nel cielo. Pelliccia Rossa fece delle capriole
verso il Coach Hedge. Diede al satiro un grosso schiaffo sulla
guancia, poi saltellò fino alla balaustra. Si inchinò verso Leo,
levandosi il suo capello da cowboy zebrato, e fece una capriola
all’indietro oltre il bordo. Leo riuscì ad alzarsi. Jason era già in piedi,
barcollava e inciampava sulle cose. Frank si era trasformato in un
gorilla (perché, Leo non era certo; forse per comunione con i nani
scimmia?) ma la granata stordente lo aveva colpito duramente. Era
abbandonato sul ponte con la lingua di fuori e i suoi occhi da gorilla
rigirati nella testa. “Piper!” Jason avanzò insicuro fino al timone e le
levò con attenzione il bavaglio dalla bocca. “Non sprecare il tempo
con me!” disse lei. “Inseguite loro!” Presso l’albero, il Coach Hedge
borbottò, “HHHmmmmm-hmmm!” Leo immaginò che volesse dire:
“UCCIDETELI!” Traduzione facile, dal momento che la maggior parte
delle frasi del coach includevano la parola uccidere. Leo guardò
verso la console di controllo. La sua sfera di Archimede era andata.
Si mise la mano alla vita, dove ci sarebbe dovuta essere la sua
cintura per gli attrezzi. La sua testa iniziò a schiarirsi, e il suo senso
di oltraggio cominciò a ribollire. Quei nani avevano attaccato la sua
nave. Avevano rubato i suoi averi più preziosi. Sotto di lui si
estendeva la città di Bologna, un fitto puzzle di edifici dai tetti rossi in
una vallata bordata da colline verdi. A meno che Leo non fosse
riuscito a trovare i nani da qualche parte in quel labirinto di strade…
No. Il fallimento non era un’opzione. Né lo era aspettare che i suoi
amici si riprendessero. Si voltò verso Jason. “Ti senti abbastanza in
forma per controllare i venti? Mi servirebbe un passaggio.” Jason
aggrottò le sopracciglia. “Certo, ma…“ “Bene,” disse Leo. “Abbiamo
delle scimmie da catturare.” Jason e Leo atterrarono in una grande
piazza costeggiata da bianchi edifici pubblici di marmo e bar
all’aperto. Biciclette e Vespe intasavano le strade circostanti, ma la
piazza stessa era vuota fatta eccezione per i piccioni e qualche
uomo anziano intento a bere caffè. Nessuno dei locali sembrava
notare l’enorme nave da guerra greca librata sopra la piazza, o il
fatto che Jason e Leo fossero appena atterrati dal cielo, Jason
brandendo una spada dorata, e Leo… bè, Leo praticamente a mani
vuote. “Dove si va?” chiese Jason. Leo lo fissò. “Bè, non lo so.
Fammi tirare fuori il mio localizzatore di nani GPS dalla mia
cintura…. Oh, aspetta! Non ho un localizzatore di nani GPS, e
nemmeno la mia cintura!” “Bene,” brontolò Jason. Guardò verso la
nave come per orientarsi, poi indicò dall’altra parte della piazza. “La
balista ha sparato il primo nano in quella direzione, credo. Andiamo.”
Si fecero strada attraverso un lago di piccioni, poi girarono lungo una
stradina laterale di negozi di vestiti e gelaterie. I marciapiedi erano
fiancheggiati da colonne bianche ricoperte di graffiti. Qualche
elemosinatore chiese loro degli spicci (Leo non conosceva l’italiano,
ma afferrò il messaggio forte e chiaro). Continuava a tastarsi la vita,
sperando che la sua cintura per gli attrezzi riapparisse magicamente.
Non lo fece. Cercò di non andare nel panico, ma era arrivato a
dipendere da quella cintura per quasi qualsiasi cosa. Si sentiva
come se qualcuno gli avesse rubato una mano. “La troveremo,”
promise Jason. Solitamente, Leo si sarebbe sentito rassicurato.
Jason aveva un talento per rimanere calmo e razionale durante una
crisi, e aveva tirato Leo fuori da un sacco di brutti guai. Quel giorno,
tuttavia, tutto quello a cui Leo riusciva a pensare era lo stupido
biscotto della fortuna che aveva aperto a Roma. La dea Nemesi gli
aveva promesso dell’aiuto, e lui l’aveva avuto: il codice per attivare
la sfera di Archimede. Allora, Leo non aveva avuto altra scelta se
non quella di usarlo se voleva salvare i suoi amici, ma Nemesi aveva
avvertito che il suo aiuto aveva un prezzo. Leo si chiese se quel
prezzo sarebbe mai stato ripagato. Percy e Annabeth non c’erano
più. La nave era a centinaia di metri fuori rotta, diretta verso una
sfida impossibile. Gli amici di Leo contavano su di lui per sconfiggere
un gigante terrificante. E adesso non aveva nemmeno la sua cintura
degli attrezzi o la sua sfera di Archimede. Era così preso dal
piangersi addosso che non si accorse dove si trovavano fino a che
Jason non gli afferrò il braccio. “Dai un’occhiata.” Leo alzò lo
sguardo. Erano arrivati in una piazza più piccola. Sopra di loro si
profilava un’enorme statua di bronzo raffigurante un Nettuno nudo.
“Ah, cavoli.” Leo distolse lo sguardo. Non aveva davvero bisogno di
vedere dei genitali divini di mattina presto. Il dio del mare si trovava
su una grossa colonna di marmo in mezzo a una fontana non in
funzione (cosa che sembrava un po’ ironica). Su entrambi i lati di
Nettuno, piccoli Cupidi alati stavano seduti, come se stessero
chiacchierando tranquilli, del tipo, Che mi racconti? Nettuno in
persona (evitando le parti intime) aveva il fianco inclinato da una
parte in un atteggiamento alla Elvis Presley. Aveva il tridente tenuto
senza forze nella mano destra e la mano sinistra tesa verso l’esterno
come se stesse dando la sua benedizione a Leo, o forse come
stesse cercando di farlo levitare. “E’ una specie di indizio?” chiese
Leo. Jason si accigliò. “Forse, forse no. Ci sono statue delle divinità
ovunque in Italia. Mi sarei sentito meglio se avessimo incontrato
Giove. O Minerva. Davvero, chiunque tranne Nettuno.” Leo entrò
nella fontana secca. Mise la mano sul piedistallo della statua, e una
sensazione improvvisa gli salì attraverso la punta delle dita. Avvertì
ingranaggi di bronzo Celeste, leve magiche, molle e pistoni. “E’
meccanico,” disse. “Fosse una porta per il covo segreto dei nani?”
“Hooooo!” gridò una voce vicina. “Covo segreto?” “Io voglio un covo
segreto!” urlò un’altra voce dall’alto. Jason indietreggiò, la spada
pronta. Leo rischiò quasi un colpo di frusta nel tentativo di guardare
in due direzioni contemporaneamente. Il nano dalla pelliccia rossa
con il capello da cowboy era seduto a circa nove metri di distanza, al
più vicino tavolo da bar, intento a sorseggiare un espresso con i suoi
piedi da scimmia. Il nano con la pelliccia marrone e la bombetta
verde era appollaiato sul piedistallo di marmo ai piedi di Nettuno,
appena sopra la testa di Leo. “Se avessimo un covo segreto,” disse
Pelliccia Rossa, “vorrei un palo dei pompieri.” “E uno scivolo ad
acqua!” disse Pelliccia Marrone, che stava tirando fuori dalla cintura
di Leo attrezzi a caso, gettando da parte chiavi, martelli e spara
chiodi. “Smettila!” Leo cercò di afferrare i piedi del nano, ma non
riusciva a raggiungere la cima del piedistallo. “Troppo basso?” disse
Pelliccia Marrone con simpatia. “Stai dicendo a me che sono
basso?” Leo si guardò intorno in cerca di qualcosa da lanciare, ma
non c’era nulla eccetto piccioni, e dubitava di essere in grado di
acchiapparne uno. “Ridammi la mia cintura, stupido…“ “Calma,
calma!” disse Pelliccia Marrone. “Non ci siamo nemmeno presentati.
Io sono Acmone. E mio fratello laggiù…“ “… è quello bello!” Il nano
rosso sollevò il suo espresso. A giudicare dai suoi occhi dilatati e il
sorriso da maniaco, non aveva bisogno di altra caffeina. “Passalo!
Cantante di canzoni! Bevitore di caffè! Ladro di cose luccicanti!” “Per
favore!” urlò suo fratello, Acmone. “Io rubo molto meglio di te.”
Passalo fece un verso di scherno. “Rubi pisolini, magari!” Tirò fuori
un pugnale, il pugnale di Piper, e iniziò a usarlo come stuzzicadenti.
“Ehi!” gridò Jason. “Quello è il coltello della mia ragazza!” Si lanciò
verso Passalo, ma il nano rosso era troppo veloce. Saltò dalla sua
sedia, rimbalzò sulla testa di Jason, fece una capriola, e atterrò
accanto a Leo, con le sue braccia pelose attorno alla sua vita. “Mi
salvi?” implorò il nano. “Staccati!” Leo cercò di cacciarlo via, ma
Passalo fece un salto mortale all’indietro e atterrò fuori dalla sua
portata. I pantaloni di Leo caddero prontamente fino alle ginocchia.
Fissò Passalo, che adesso stava sogghignando e teneva in mano
una piccola serpeggiante striscia di metallo. In qualche modo, il nano
aveva rubato la zip dai pantaloni di Leo. “Dammi la stupida… zip!”
Leo balbettò, cercando di agitare il pugno e di tenersi su i pantaloni
allo stesso tempo. “Eh, non è abbastanza luccicante.” Passalo la
gettò via. Jason si lanciò con la spada sguainata. Passalo saltò
verso l’alto e fu improvvisamente seduto sul piedistallo della statua
accanto a suo fratello. “Dimmi che non ho stile,” si vantò Passalo.
“Okay,” disse Acmone. “Non hai stile.” “Bah!” disse Passalo. “Dammi
la cintura degli attrezzi. Voglio vedere.” “No!” Acmone gli diede una
gomitata per allontanarlo. “Tu hai il pugnale e la palla brillante.” “Sì,
la palla brillante è carina.” Passalo si tolse il cappello da cowboy.
Come un mago che faceva apparire un coniglio, tirò fuori la sfera di
Archimede e iniziò a giocherellare con gli antichi quadranti di bronzo.
“Smettila!” urlò Leo. “Quella è una macchina delicata.” Jason arrivò
al suo fianco e fissò furioso i nani. “Chi siete voi due?” “I Cercopi!”
Acmone strinse gli occhi verso Jason. “Scommetto che tu sei un
figlio di Giove, eh? Lo capisco sempre.” “Proprio come Didietro
Scuro,” concordò Passalo. “Didietro Scuro?” Leo resistette
all’impulso di saltare di nuovo verso i piedi dei nani. Era certo che
Passalo avrebbe danneggiato la sfera di Archimede in qualsiasi
momento. “Sì, sai.” Acmone sogghignò. “Ercole. Lo chiamavamo
Didietro Scuro perché era solito andare in giro senza vestiti. Si era
abbronzato così tanto sulla parte posteriore, che…“ “Almeno lui
aveva senso dell’umorismo!” disse Passalo. “Stava per ucciderci
quando lo derubammo, ma ci lasciò andare perché gli piacevano i
nostri scherzi. Non come voi due. Musoni, musoni!” “Ehi, io ho senso
dell’umorismo,” ringhiò Leo. “Ridatemi le nostre cose, e vi farò una
bella battuta.” “Bella prova!” Acmone tirò fuori una chiave inglese
dalla cintura degli attrezzi e la fece ruotare come fosse una
trombetta. “Oh, he carina! La terrò senza dubbio! Grazie, Didietro
Blu!” Didietro blu? Leo abbassò lo sguardo. I pantaloni gli erano
caduti nuovamente alle caviglie, rivelando i suoi boxer blu. “Basta
così!” urlò. “Le mie cose. Ora. Oppure vi mostrerò quanto può
essere divertente un nano in fiamme.” Le sue mani presero fuoco.
“Ora sì che si ragiona.” Jason alzò la sua spada verso il cielo.
Nuvole scure iniziarono a raggrupparsi sopra la piazza. I tuoni
risuonarono. “Oh, spaventoso!” gridò Acmone. “Sì,” concordò
Passalo. “Se solo avessimo un covo segreto dove nasconderci.”
“Purtroppo, questa statua non è l’entrata per un covo segreto,” disse
Acmone. “Ha una funzione diversa.” Lo stomaco di Leo si strinse. Le
fiamme sulle sue mani morirono, e si rese conto che qualcosa stava
andando davvero storto. Urlò, “Trappola!” e si allontanò velocemente
dalla fontana. Sfortunatamente, Jason era troppo occupato a
evocare la sua tempesta. Leo rotolò sulla schiena mentre cinque
corde dorate venivano sparate dalle dita della statua di Nettuno. Una
mancò a malapena il piede di Leo. Le altre puntarono dritte su
Jason, avvolgendolo come un vitello da rodeo e sollevandolo a testa
in giù. Un lampo di saette colpì le punte del tridente di Nettuno,
mandando archi di elettricità lungo tutta la statua, ma i Cercopi erano
già scomparsi. “Grande!” Acmone stava applaudendo da un vicino
tavolo da bar. “Sei una pinnata meravigliosa, figlio di Giove!” “Sì!”
concordò Passalo. “Ercole appese noi a testa in giù una volta, sai.
Oh, la vendetta è dolce!” Leo invocò una palla di fuoco. La lanciò
verso Passalo, che stava cercando di fare il giocoliere con due
piccioni e la sfera di Archimede. “Week!” Il nano saltò via
dall’esplosione, facendo cadere la sfera e lasciando volare via i
piccioni. “E’ il momento di andare via!” decise Acmone. Si picchiettò
sulla bombetta e schizzò via, saltando di tavolo in tavolo. Passalo
guardò verso la sfera di Archimede, che era rotolata tra i piedi di
Leo. Leo evocò un’altra palla di fuoco. “Mettimi alla prova,” ringhiò.
“Ciao!” Passalo fece una capriola all’indietro e corse dietro a suo
fratello. Leo raccolse da terra la sfera di Archimede e corse da
Jason, che era ancora appeso a testa in giù, completamente legato
fatta eccezione del braccio che reggeva la spada. Stava cercando di
tagliare le corde con la sua lama dorata ma senza successo.
“Aspetta,” disse Leo. “Se riesco a trovare la leva di rilascio…“ “Vai!”
ringhiò Jason. “Io ti seguo quando mi libero da qui.” “Ma…“ “Non
perderli!” L’ultima cosa che Leo desiderava era passare del tempo
da solo con i nani scimmia, ma i Cercopi stavano già scomparendo
dietro l’angolo opposto della piazza. Leo lasciò Jason appeso alla
statua e corse per inseguirli.
12

LEO

I nani non si impegnarono troppo nel cercare di seminarlo, cosa che


rese Leo sospettoso. Rimasero appena in vista, sgambettando sui
tetti rossi, buttando giù i vasi dai davanzali, gridando e urlando e
lasciando una scia di viti e chiodi presi dalla cintura degli attrezzi di
Leo, quasi come se volessero che Leo li seguisse. Lui corse dietro di
loro, imprecando ogni volta che i suoi pantaloni cadevano giù. Girò
un angolo e vide due antiche torri di pietra che saettavano verso il
cielo, una affianco all’altra, molto più alte di qualsiasi altra cosa nel
vicinato, forse torri di controllo medievali? Avevano inclinazioni
diverse, come le leve del cambio di una macchina da corsa. I
Cercopi scalarono la torre sulla destra. Quando raggiunsero la cima,
si arrampicarono sulla parte posteriore e scomparvero. Erano entrati
all’interno? Leo poteva vedere delle minuscole finestre sulla cima,
bloccate da delle grate di metallo; ma dubitava che ciò avrebbe
fermato i nani. Rimase a guardare per un minuto, ma i Cercopi non
ricomparvero. Il che voleva dire che Leo doveva salire lassù e
andare a cercarli. “Fantastico,” borbottò. Nessun amico volante che
lo potesse trasportare. La nave era troppo lontana per chiedere
aiuto. Avrebbe potuto improvvisare qualche tipo di strumento di volo
con la sfera di Archimede, forse, ma solo se avesse avuto la sua
cintura degli attrezzi, cosa che non aveva. Studiò il vicinato,
cercando di pensare. A mezzo isolato di distanza, si aprirono due
porte di vetro, dalle quali uscì zoppicando una vecchia signora che
trasportava delle buste della spesa. Un supermercato? Umm… Leo
si toccò le tasche. Con stupore, aveva ancora qualche banconota in
euro di quando era stato a Roma. Quegli stupidi nani si erano presi
tutto tranne i suoi soldi. Corse verso il negozio tanto veloce quanto
gli permettevano i pantaloni senza zip. Leo perlustrò le corsie, in
cerca di cose che poteva usare. Non sapeva come dire in italiano
Salve, dove tenete i prodotti chimici pericolosi, per favore? Ma
probabilmente era una buona cosa. Non voleva ritrovarsi in una
prigione italiana. Fortunatamente, non ebbe bisogno di leggere le
etichette. Era in grado di capire solo prendendo in mano un tubetto
di dentifricio se questo conteneva o meno il nitrato di potassio. Trovò
il carbone. Trovò lo zucchero e il bicarbonato. Il negozio vendeva i
fiammiferi, il repellente per gli insetti, e la carta argentata.
Praticamente tutto quello di cui aveva bisogno, più una corda per il
bucato che poteva usare come cintura. Aggiunse un po’ di cibo
spazzatura italiano al carello, solo per cercare di mascherare gli altri
acquisti più sospetti, poi scaricò le sue cose alla cassa. Una ragazza
dagli occhi spalancati che stava al banco gli fece qualche domanda
che lui non capì, ma riuscì a pagare, prendere una busta e a correre
via. Si mise al riparo sotto l’arco più vicino, da dove poteva tenere
d’occhio le torri. Si mise al lavoro, evocando il fuoco per far
asciugare il materiale e per cuocere un po’ di cose che altrimenti
avrebbero richiesto giorni per essere completate. Di tanto in tanto
lanciava uno sguardo alla torre, ma non c’era traccia dei nani. Leo
poteva solo sperare che fossero ancora lassù. Fare l’arsenale
richiese solo qualche minuto, era davvero bravo, ma sembrarono
ore. Jason non comparve. Forse era ancora intrecciato alla statua di
Nettuno, o stava perlustrando le strade alla ricerca di Leo. Dalla
nave non arrivò nessuno per aiutare. Probabilmente levare tutti
quegli elastici rosa dai capelli del Coach Hedge stava richiedendo
parecchio tempo. Ciò voleva dire che Leo aveva solo se stesso, il
suo sacchetto di cibo spazzatura, e alcune armi altamente
improvvisate fatte di zucchero e dentifricio. Oh, e la sfera di
Archimede. Quella era abbastanza importante. Sperava di non
averla rovinata riempiendola di polveri chimiche. Corse verso la torre
e trovò l’entrata. Iniziò a salire le scale a chiocciola all’interno, solo
per essere fermato a uno sportello per i biglietti da un guardiano che
gli urlò contro in italiano. “Seriamente?” chiese Leo. “Ascolta, amico,
avete dei nani sul campanile. Io sono il disinfestatore.” Sollevò il suo
spray repellente per insetti. “Vedi? Disinfestatore molto buono.
Spruzzo, spruzzo. Ahhh!” Imitò un nano che si scioglieva
terrorizzato, cosa che per qualche ragione l’italiano sembrò non
capire. L’uomo si limitò a tendere la mano in avanti, in attesa dei
soldi. “Cavoli, amico,” brontolò Leo, “ho appena speso tutto per degli
esplosivi fatti in casa e cose simili.” Rovistò nella sua busta della
spesa. “Non credo che accetterai…uh… qualsiasi cosa sia questa?”
Leo tirò fuori un sacchetto giallo e rosso chiamato Fonzies. Pensò
che si trattasse di qualche tipo di patatine. Con sua sorpresa, il
guardiano scrollò le spalle e prese il sacchetto. “Avanti!” Leo
continuò a salire, ma prese la nota mentale di fare provviste di
Fonzies. A quanto sembrava erano meglio dei soldi in Italia. Le scale
proseguivano, e proseguivano e proseguivano. L’intera torre
sembrava non essere altro che una scusa per costruire scale. Si
fermò su un pianerottolo e crollò contro una stretta finestra sbarrata,
cercando di riprendere fiato. Stava sudando da pazzi, e il suo cuore
martellava contro le costole. Stupidi Cercopi. Leo immaginava che
non appena avesse raggiunto la cima questi sarebbero saltati via
prima che lui potesse usare le sue armi; ma doveva provare. Riprese
a salire. Finalmente, con le gambe molli come spaghetti, raggiunse
la cima. La stanza era grande circa come uno sgabuzzino per le
scope, con finestre sbarrate su tutte e quattro le pareti. Ammassati
agli angoli c’erano sacchi di tesori, oggetti scintillanti versati per tutto
il pavimento. Leo individuò il pugnale di Piper, un antico libro rilegato
in pelle, qualche strumento meccanico dall’aspetto interessante, e
abbastanza oro da far venire il mal di pancia al cavallo di Hazel.
All’inizio, pensò che i nani se ne fossero andati. Poi alzò lo sguardo.
Acmone e Passalo erano appesi con i loro piedi da scimmia alle
travi, a testa in giù, intenti a giocare a poker contro la gravità.
Quando videro Leo, lanciarono le loro carte come coriandoli e si
misero ad applaudire. “Te l’avevo detto che l’avrebbe fatto!” gridò
Acmone deliziato. Passalo scrollò le spalle e si tolse uno dei suoi
orologi d’oro per passarlo a suo fratello. “Hai vinto. Non credevo che
fosse così stupido.” Si lanciarono tutti e due sul pavimento. Acmone
stava indossando la cintura degli attrezzi di Leo, così vicina, che Leo
dovette resistere all’impulso di lanciarsi per prenderla. Passalo si
raddrizzò il suo capello da cowboy e aprì con un calcio la sbarra
della finestra più vicina. “Cosa dovremmo fargli scalare dopo,
fratello? La cupola di San Luca?” Leo voleva strangolare i nani, ma
forzò un sorriso. “Oh, sembra divertente! Ma prima che ve ne
andiate, vi state dimenticando una cosa luccicante.” “Impossibile!”
disse Acmone con sguardo corrucciato. “Siamo stati molto accurati.”
“Sei sicuro?” Leo sollevò il suo sacchetto della spesa. I nani si
avvicinarono. Come Leo aveva sperato, la loro curiosità era così
forte che non potevano resistere. “Guardate.” Leo tirò fuori la sua
prima arma, una palla di polveri chimiche avvolta con carta
argentata, e le diede fuoco con le mani. Lui sapeva di doversi voltare
quando fosse esplosa, ma i nani la stavano fissando attentamente.
Dentifricio, zucchero e repellente per insetti non erano buoni come la
musica di Apollo, ma erano adatti per creare un’esplosione piuttosto
decente. I Cercopi gemettero, coprendosi gli occhi. Si diressero
verso la finestra, ma Leo accese i suoi fuochi d’artificio fatti in casa,
facendoli scattare intorno ai piedi nudi dei nani per farli perdere
l’equilibrio. Poi, tanto per essere sicuri, Leo ruotò i quadranti sulla
sua sfera di Archimede, che rilasciò uno sbuffo di puzzolente nebbia
bianca che riempì la stanza. A Leo il fumo non dava fastidio.
Essendo immune al fuoco, si era ritrovato in mezzo a falò fumanti,
aveva sopportato l’alito di drago, e aveva ripulito le fucine in fiamme
un sacco di volte. Mentre i nani si agitavano e ansimavano, lui
afferrò la sua cintura da Acmone, evocò senza fretta delle corde e
legò i nani. “I miei occhi!” tossì Acmone. “La mia cintura!” “I miei
piedi vanno a fuoco!” gemette Passalo. “Non è luccicante! Non è
affatto luccicante!” Dopo essersi assicurato che fossero strettamente
legati, Leo trascinò i Cercopi in un angolo e iniziò a frugare tra i loro
tesori. Recuperò il pugnale di Piper, alcune dei suoi prototipi di
granata, e un’altra dozzina di oggetti che i nani avevano preso
dall’Argo II. “Ti prego!” gemette Acmone. “Non prendere i nostri
luccicanti!” “Faremo un patto con te!” suggerì Passalo. “Ti daremo il
dieci per cento se ci lasci andare!” “Temo di no,” borbottò Leo. “E’
tutto mio adesso.” “Il venti percento!” Proprio in quel momento, dei
tuoni riecheggiarono dall’alto. Ci furono dei lampi, e le sbarre della
finestra più vicina esplosero in sfrigolanti mozziconi di ferro fuso.
Jason entrò volando come Peter Pan, con l’elettricità che scintillava
intorno a lui e la sua spada dorata che fumava. Leo fece un fischio di
apprezzamento. “Amico, hai appena sprecato un’entrata fantastica.”
Jason aggrottò le sopracciglia. Notò i Cercopi legati. “Cosa…“ “Tutto
da solo,” disse Leo. “Sono davvero speciale. Come mi hai trovato?”
“Uh, il fumo,” riuscì a dire Jason. “E ho sentito rumori di esplosioni.
Vi stavate sparando qui dentro?” “Qualcosa del genere.” Leo gli
lanciò il pugnale di Piper, poi riprese a frugare tra le borse dei nani.
Ricordava quello che Hazel aveva detto sul trovare un tesoro che li
avrebbe aiutati con l’impresa, ma non sapeva cosa stava cercando.
C’erano monete, pepite d’oro, gioielli, graffette, carte di alluminio,
gemelli. Continuava a ritornare su un paio di cose che non
sembravano appartenere al gruppo. Uno era un antico strumento di
navigazione di bronzo, come l’astrolabio di una nave. Era
gravemente danneggiato e sembrava che li mancasse qualche
parte, ma Leo lo trovava comunque interessante. “Prendilo!” offrì
Passalo. “Lo fece Odisseo, sai! Prendilo e lasciaci andare.”
“Odisseo?” chiese Jason. “Nel senso di quell’Odisseo?” “Sì!” squittì
Passalo. “Lo fece quando era ormai anziano ad Itaca. Una delle sue
ultime invenzioni, e noi la rubammo!” “Come funziona?” chiese Leo.
“Oh, non funziona,” disse Acmone. “Credo che li serva qualche
cristallo mancante?” Guardò suo fratello in cerca di aiuto. “ ‘Il mio più
grande ‘se’,” disse Passalo. “ ‘Avrei dovuto portare un cristallo.’ E’
questo quello che continuava a borbottare nel sonno, la notte in cui
lo rubammo.” Passalo scrollò le spalle. “Non ho idea di quello che
voleva dire. Ma quel luccicante è vostro! Adesso possiamo andare?”
Leo non sapeva perché volesse l’astrolabio. Era ovviamente rotto, e
non aveva la sensazione che quello fosse ciò che Ecate voleva che
trovassero. Tuttavia, lo fece scivolare in una delle tasche magiche
della sua cintura. Spostò la sua attenzione verso l’altro strano pezzo
di bottino, il libro rilegato in pelle. Il suo titolo era scritto in foglie
d’oro, in una lingua che Leo non riusciva a capire, ma nient’altro del
libro sembrava essere luccicante. Non credeva che i Cercopi fossero
grandi lettori. “Questo cos’è?” Lo agitò verso i nani, che avevano
ancora gli occhi lucidi a causa del fumo. “Niente!” disse Acmone.
“Solo un libro. Aveva una bella copertina dorata, quindi gliel’abbiamo
rubato.” “A chi?” chiese Leo. Acmone e Passalo si scambiarono
delle occhiate nervose. “Dio minore,” disse Passalo. “A Venezia.
Davvero, non è nulla.” “Venezia.” Jason guardò Leo con aria
interrogativa. “Non è dove dovremmo andare dopo Bologna?” “Sì.”
Leo esaminò il libro. Non riusciva a leggere il testo, ma aveva un
sacco di illustrazioni: falci, varie piante, un disegno del sole, un
gruppo di buoi che trainavano un carro. Non capiva come tutto
quello potesse essere importante, ma se il libro era stato rubato da
un dio minore a Venezia, il luogo che Ecate aveva detto loro di
andare a visitare, allora quello doveva essere ciò che stavano
cercando. “Dove possiamo trovare esattamente questo dio minore?”
chiese Leo. “No!” strillò Acmone. “Non potete riportarglielo! Se
scopre che l’abbiamo rubato…“ “Vi distruggerà,” indovinò Jason.
“Che è quello che faremo noi se non ce lo dite, e noi siamo molto più
vicini.” Premette la punta della sua spada contro la gola pelosa di
Acmone. “Okay, okay!” strillò il nano. “La Casa Nera! Calle
Frezzeria!” “E’ un indirizzo?” chiese Leo. Entrambi i nani annuirono
con vigore. “Vi prego non ditegli che l’abbiamo rubato noi,” implorò
Passalo. “Non è affatto gentile!” “Chi è?” chiese Jason. “Quale dio?”
“Non… non posso dirlo,” balbettò Passalo. “Farai meglio a farlo,”
avvertì Leo. “No,” disse Passalo con aria miserabile. “Voglio dire,
davvero non posso dirlo. Non riesco a pronunciarlo! Tr… tri… è
troppo difficile!” “Tru,” disse Acmone. “Tru…to, Troppe sillabe!”
Scoppiarono entrambi a piangere. Leo non sapeva se i Cercopi li
stessero dicendo la verità, ma era difficile rimanere arrabbiati con dei
nani in lacrime, non importava quanto fossero irritanti e mal vestiti.
Jason abbassò la spada. “Cosa vuoi farci con loro, Leo? Mandarli
nel Tartaro?” “Vi prego, no!” gemette Acmone. “Ci potremmo mettere
settimane per tornare.” “Assumendo che Gea ce lo permetta!”
Passalo tirò su con il naso. “Ora lei controlla le Porte della Morte.
Sarà molto arrabbiata con noi.” Leo guardò i nani. Aveva combattuto
un sacco di mostri in passato e non si era mai sentito dispiaciuto
quando li uccideva, ma quello era diverso. Doveva ammettere che in
un certo senso ammirava quei piccoletti. Facevano scherzi notevoli e
gli piacevano le cose che luccicavano. Leo li capiva. Inoltre, Percy e
Annabeth si trovavano nel Tartaro in quel momento, si sperava
ancora vivi, a lottare per raggiungere le Porte della Morte. L’idea di
mandare quelle scimmie gemelle laggiù ad affrontare gli stessi
problemi da incubo… bè, non sembrava giusto. Immaginò Gea che
rideva delle sue debolezze, un semidio dal cuore troppo tenero per
uccidere dei mostri. Si ricordò del suo sogno sul Campo
Mezzosangue in rovine, i corpi di greci e romani cosparsi sui campi.
Ricordò Ottaviano che parlava con la voce della Dea della Terra: I
romani si spostano verso est da New York. Si avvicinano al vostro
campo, e nulla può rallentarli. “Nulla può rallentarli,” rifletté Leo. “Mi
chiedo…” “Cosa?” chiese Jason. Leo guardò i nani. “Vi offrirò un
accordo.” Gli occhi di Acmone si accesero. “Il trenta per cento?” “Vi
lasceremo tutto il vostro tesoro,” disse Leo, “ad eccezione delle cose
che ci appartengono, dell’astrolabio e di questo libro, che
riporteremo al tipo a Venezia.” “Ma ci distruggerà!” gemette Passalo.
“Non diremo dove l’abbiamo preso,” promise Leo. “E non vi
uccideremo. Vi lasceremo andare.” “Uh, Leo…?” chiese Jason
nervoso. Acmone squittì di gioia. “Sapevo che eri intelligente come
Ercole! Ti chiamerò Didietro Scuro, il Sequel!” “Sì, no grazie,” disse
Leo. “Ma in cambio del fatto che noi risparmieremo le vostre vite, voi
dovete fare qualcosa per noi. Vi manderò in un posto dove dovrete
rubare ad alcune persone, tormentatele, rendete loro la vita difficile
in qualsiasi modo potete. Dovete seguire esattamente le mie
istruzioni. Dovete giurare sul Fiume Stige.” “Giuriamo!” disse
Passalo. “Rubare alle persone è la nostra specialità!” “Adoro
tormentare!” concordò Acmone. “Dove andiamo?” Leo fece un
grosso sorriso. “Mai sentito parlare di New York?”
13

PERCY

Percy aveva portato la sua ragazza a fare delle passeggiate


romantiche prima d’ora. Quella non ne era un esempio. Seguirono il
Fiume Flegetonte, inciampando sul liscio terreno nero, saltando
sopra le crepe, e nascondendosi dietro alle rocce ogni volta che le
ragazze vampiro davanti a loro rallentavano. Era difficile rimanere
abbastanza lontani da evitare di essere visti ma anche abbastanza
vicini per poter continuare a vedere Kelly e le sue compagne
attraverso la scura aria nebbiosa. Il calore del fiume stava cuocendo
la pelle di Percy. Ogni respiro era come inalare fibra di vetro al
sapore di zolfo. Quando avevano bisogno di bere, il meglio che
potevano fare era sorseggiare un po’ di rinfrescante fuoco liquido.
Già. Percy sapeva senza dubbio come far passare una bella
giornata a una ragazza. Almeno la caviglia di Annabeth sembrava
essere guarita. Ormai zoppicava a malapena. I suoi vari tagli e graffi
erano svaniti. Si era tirata indietro i capelli biondi usando una striscia
di tessuto strappato dai suoi pantaloni, e nell’ardente luce del fiume,
i suoi occhi grigi brillavano. Nonostante fosse malconcia, ricoperta di
terra, e vestita come fosse una senzatetto, per Percy aveva un
aspetto fantastico. Che importava che si trovavano nel Tartaro? Che
importava se avevano una minuscola possibilità di sopravvivere?
Era così contento che si trovassero insieme che ebbe la ridicola
voglia di sorridere. Fisicamente, anche Percy si sentiva meglio,
anche se dai suoi vestiti sembrava che fosse stato colpito da una
tromba d’aria fatta di pezzi di vetro. Era assetato, affamato, e
terrorizzato (anche se quello non l’avrebbe detto ad Annabeth), ma
si era scosso via il freddo senza speranza del fiume Cocito. E per
quanto orribile fosse l’acqua di fuoco, sembrava permettergli di
andare avanti. Era impossibile calcolare il tempo. Avanzavano a
fatica, seguendo il fiume che tagliava il paesaggio aspro.
Fortunatamente le Empousai non erano esattamente delle
camminatrici veloci. Si spostavano sulle loro gambe spaiate, di
metallo e da asino, sibilando e litigando l’una contro l’altra,
apparentemente senza nessuna fretta di raggiungere le Porte della
Morte. Una volta, i demoni avevano accelerato ed erano corse in
avanti eccitate, gettandosi su quello che assomigliava a una
carcassa spiaggiata sulla sponda del fiume. Percy non riuscì a dire
di cosa si trattasse, un mostro caduto? Qualche tipo di animale? Le
Empousai lo avevano attaccato con gusto. Quando i demoni
avevano ripreso a camminare, Percy e Annabeth avevano raggiunto
il punto dell’attacco e non avevano trovato nessun resto, se non
qualche pezzo d’osso e chiazze luccicanti che si stavano
asciugando con il calore del fiume. Percy non aveva nessun dubbio
sul fatto che le Empousai avrebbero divorato i semidei con lo steso
gusto. “Andiamo.” Aveva gentilmente allontanato Annabeth dalla
scena. “Non possiamo perderle.” Mentre camminavano, Percy
ripensò alla prima volta che aveva combattuto contro l’empousa
Kelly alla Goode High School, durante la giornata di orientamento
delle matricole, quando lui e Rachel Elizabeth Dare erano rimasti
intrappolati nell’aula di musica. A quel tempo, era sembrata una
situazione senza speranza. Adesso, avrebbe dato qualsiasi cosa per
avere a che fare con un problema così semplice. Almeno allora si
era trovato nel mondo mortale. Lì, non c’era nessun posto dove
scappare. Wow. Quando iniziava a ripensare alla guerra contro
Crono come tempi facili, era triste. Continuava a sperare che le cose
sarebbero migliorate per lui e Annabeth, ma le loro vite non
facevano altro che diventare sempre più pericolose, come se le Tre
Parche stessero tessendo i loro futuri con filo spinato al posto della
lana solo per vedere quanto potessero sopportare due semidei.
Dopo qualche altro chilometro, le Empousai scomparvero oltre una
cresta. Quando Percy e Annabeth le raggiunsero, si ritrovarono sul
bordo di un altro enorme precipizio. Il fiume Flegetonte si gettava
oltre il bordo dividendosi in frastagliati getti di cascata di fuoco. Le
demoni si stavano facendo strada lungo lo strapiombo, saltando da
sporgenza a sporgenza come capre di montagna. Il cuore di Percy
gli strisciò in gola. Anche se lui e Annabeth avessero raggiunto il
fondo del precipizio vivi, non li aspettava granché davanti. Il
paesaggio sotto di loro era desolato, una pianura grigio cenere
dentellata da alberi neri, come zampe d’insetto. Il terreno era
punteggiato da vesciche. Di tanto in tanto, una delle bolle si gonfiava
e scoppiava, vomitando un mostro come fosse una larva che usciva
da un uovo. Improvvisamente Percy non aveva più fame. Tutti i
nuovi mostri appena nati stavano strisciando e zoppicando nella
stessa direzione, verso un banco di nebbia nera che inghiottiva
l’orizzonte come un fronte tempestoso. Il Flegetonte scorreva nella
stessa direzione raggiungendo circa la metà della pianura, dove
incontrava un altro fiume di acqua nera, forse il Cocito? I due fiumi
scorrevano mischiati in un unico flusso fumante e ribollente verso la
nebbia nera. Più Percy guardava quella tempesta di oscurità, meno
aveva il desiderio di raggiungerla. Poteva celare qualsiasi cosa, un
oceano, un abisso senza fondo, un esercito di mostri. Ma se le Porte
della Morte si trovavano in quella direzione, era la loro unica
possibilità di tornare a casa. Si sporse oltre il bordo del precipizio.
“Vorrei che sapessimo volare,” borbottò. Annabeth si strofinò le
braccia. “Ti ricordi le scarpe alate di Luke? Mi chiedo se sono ancora
qui sotto da qualche parte.” Percy se le ricordava. Quelle scarpe
erano state maledette per trascinare chi le indossava nel Tartaro.
Avevano quasi preso il suo migliore amico Grover. “Mi andrebbe
bene un deltaplano.” “Forse non sarebbe una buona idea.” Annabeth
indicò qualcosa. Sopra di loro, delle scure sagome alate volavano a
spirale entrando e uscendo dal banco di nuvole rosso sangue.
“Furie?” chiese Percy. “Oppure qualche altro tipo di demone,” disse
Annabeth. “Nel Tartaro ce ne sono a migliaia.” “Incluso il tipo che
mangia i deltaplani,” indovinò Percy. “Okay, allora scaliamo.” Non
riusciva più a vedere le Empousai sotto di loro. Erano scomparse
dietro una delle sporgenze, ma non importava. Era chiaro dove lui e
Annabeth dovevano andare. Come tutti i mostri larva che
strisciavano sulle pianure del Tartaro, loro dovevano dirigersi verso
l’orizzonte scuro. Percy era semplicemente colmo d’entusiasmo a
quell’idea.
14

PERCY

Mentre cominciavano a scendere lungo il dirupo, Percy si concentrò


sulle sfide immediate: mantenere l’appoggio, evitare di far cadere le
rocce, cosa che avrebbe allertato le Empousai della loro presenza, e
ovviamente assicurarsi che lui e Annabeth non precipitassero verso
le loro morti. A circa metà strada lungo il precipizio, Annabeth disse,
“Fermiamoci, va bene? Solo una pausa veloce.” Le sue gambe
stavano tremando così tanto, che Percy si maledisse per non aver
proposto una pausa prima. Si misero a sedere insieme su una
sporgenza vicina a una ruggente cascata di fuoco. Percy mise il
braccio intorno ad Annabeth, e lei si appoggiò contro di lui, tremante
dalla stanchezza. Lui stesso non si sentiva molto meglio. Il suo
stomaco sembrava essersi ridotto ad una caramella. Se si fossero
imbattuti in qualche altra carcassa di mostro, temeva che avrebbe
potuto trasformarsi in un’empousa e cercare di mangiarla. Almeno
aveva Annabeth. Avrebbero trovato un modo per uscire dal Tartaro.
Dovevano farlo. Non aveva molta fiducia nel fato e nelle profezie, ma
credeva in una cosa: lui e Annabeth erano destinati a stare insieme.
Non erano sopravvissuti a così tante sfide solo per essere uccisi
proprio adesso. “Le cose potevano andare peggio,” tentò Annabeth.
“Sì?” Percy non vedeva come, ma cercò di sembrare ottimista. Lei si
rannicchiò accanto a lui. I suoi capelli odoravano di fumo, e se lui
chiudeva gli occhi, poteva quasi immaginare ti trovarsi al falò del
Campo Mezzosangue. “Saremmo potuti cadere nel fiume Lete,”
disse lei. “Perdendo tutti i nostri ricordi.” La pelle di Percy si
accapponò al solo pensiero. Aveva già avuto abbastanza problemi
con l’amnesia da bastargli per una vita intera. Solo il mese scorso,
Era gli aveva cancellato la memoria per metterlo fra i semidei
romani. Percy era capitato al Campo Giove senza avere nessuna
idea di chi fosse o da dove venisse. E qualche anno prima di quello,
aveva combattuto contro un Titano sulle rive del Lete, vicino al
palazzo di Ade. Aveva colpito il Titano con l’acqua del fiume e gli
aveva ripulito completamente la memoria. “Sì, il Lete,” borbottò.
“Non è il mio fiume preferito.” “Qual era il nome del Titano?” chiese
Annabeth. “Uh… Giapeto. Disse che voleva dire il Perforatore o
qualcosa del genere.” “No, il nome che tu gli hai dato dopo aver
perso la memoria. Steve?” “Bob,” disse Percy. Annabeth accennò
una risata debole. “Il Titano Bob.” Le labbra di Percy erano così
secche, che sorridere faceva male. Si chiese cosa potesse essere
capitato a Giapeto dopo che l’avevano lasciato al palazzo di Ade…
se fosse ancora contento di essere Bob, amichevole, felice e ignaro.
Percy sperava di sì, ma l’Oltretomba sembrava tirare fuori il peggio
di chiunque, mostri, eroi e dei. Vagò con lo sguardo lungo le pianure
di cenere. Gli altri Titani avrebbero dovuto trovarsi lì nel Tartaro,
magari in catene, o intenti a vagare senza meta, o nascosti in
qualcuna di quelle scure fessure. Percy e i suoi alleati avevano
distrutto il titano peggiore, Crono, ma persino i suoi resti potevano
trovarsi là sotto da qualche parte, un miliardo di arrabbiate particelle
di Titano che fluttuavano attraverso le nuvole rosso sangue o che
aleggiavano in quella nebbia scura. Percy decise di non pensarci.
Baciò la fronte di Annabeth. “Dovremmo continuare a muoverci. Vuoi
un altro po’ di fuoco da bere?” “Ugh. Passo.” Si rimisero in piedi a
fatica. Il resto del dirupo sembrava impossibile da scalare, nulla se
non un sentiero puntinato da minuscole sporgenze, ma ripresero a
scendere. Il corpo di Percy entrò in pilota automatico. Le sue dita
avevano i crampi. Sentiva le vesciche che gli scoppiavano sulle
caviglie. Cominciò a tremare per la fame. Si chiese se sarebbero
morti di stenti, o se l’acqua- fuoco avrebbe permesso loro di andare
avanti. Si ricordò della punizione di Tantalo, che era stato bloccato
per sempre in una piscina d’acqua sotto un albero di frutti ma non
poteva raggiungere né cibo né acqua. Cavoli, erano anni che Percy
non ripensava a Tantalo. Quello stupido era stato rilasciato
brevemente per fare il direttore del Campo Mezzosangue.
Probabilmente si trovava nuovamente nei Campi della Punizione.
Percy non si era mai sentito dispiaciuto per quell’idiota prima d’ora,
ma adesso stava cominciando a capirlo. Poteva immaginarsi come
doveva essere, avere sempre e sempre più fame per l’eternità ma
non essere mai in grado di mangiare. Continua a scalare, si disse.
Cheeseburger, gli rispose il suo stomaco. Stai zitto, pensò. Con
patatine, si lamentò lo stomaco. Un miliardo di anni più tardi, con
una nuova dozzina di vesciche sui piedi, Percy raggiunse il fondo.
Aiutò Annabeth a scendere, e insieme crollarono a terra. Davanti a
loro si estendevano chilometri e chilometri di terra desolata,
puntellati da bolle esplosive di mostri-larva e grossi alberi a forma di
zampe di insetto. Alla loro destra, il Flegetonte si divideva in vari
rami che incidevano la pianura, allargandosi in un delta di fumo e
fuoco. A nord, lungo il corso principale del fiume, il terreno era
crivellato da entrate di grotte. Qua e là, punte di roccia sporgevano
dal terreno come punti esclamativi. Sotto le mani di Percy, il terreno
era paurosamente caldo e liscio. Cercò di prendere una manciata di
terra, poi si rese conto che sotto un sottile strato di terra e detriti, il
terreno era costituito da un’unica vasta membra… simile a pelle. Per
poco non vomitò, ma si obbligò a non farlo. Non c’era nulla nel suo
stomaco a parte il fuoco. Non ne parlò ad Annabeth, ma cominciò ad
avere la sensazione che qualcosa li stesse osservando qualcosa di
vasto e malvagio. Non riusciva a metterlo a fuoco, perché la
presenza si trovava tutta intorno a loro. Osservare, inoltre, era la
parola sbagliata. Ciò implicava degli occhi, e quella cosa era
semplicemente consapevole della loro presenza. Adesso le creste
sopra di loro assomigliavano meno a delle scale e più a delle file di
denti enormi. Le torri di roccia assomigliavano a costole rotte. E se il
terreno era pelle… Percy scacciò quei pensieri. Quel luogo lo stava
solo facendo impazzire. Nient’altro. Annabeth si alzò, pulendosi la
polvere dal viso. Guardò verso l’oscurità all’orizzonte. “Saremo
completamente esposti, attraversando questa pianura.” A circa cento
metri davanti a loro, una bolla esplose sul terreno. Un mostro strisciò
fuori… un luccicante telchino con una lucida pelliccia, un corpo da
foca, e minuscoli arti da umano. Riuscì a strisciare per qualche
metro prima che qualcosa spuntasse improvvisamente dalla grotta
più vicina, così veloce che Percy poté solo registrare una testa verde
scuro da rettile. Il mostro afferrò il telchino strillante con le sue
mandibole e lo trascinò nell’oscurità. Rinato nel Tartaro per due
secondi, solo per essere mangiato. Percy si chiese se quel telchino
sarebbe rispuntato in qualche altro posto nel Tartaro, e quanto gli ci
sarebbe voluto per riformarsi. Deglutì l’aspro sapore dell’acqua-
fuoco. “Oh, già. Sarà divertente.” Annabeth lo aiutò ad alzarsi. Lui
diede un’ultima occhiata alle rupi, ma non si poteva tornare indietro.
Avrebbe dato mille dracme dorate per avere Frank Zhang lì con loro
in quel momento, il buon vecchio Frank, che sembrava sempre
spuntare quando c’era bisogno di lui e che poteva trasformarsi in
un’aquila o in un dragone per farli volare attraverso quella stupida
valle deserta. Iniziarono a camminare, cercando di evitare le entrate
delle grotte, rimanendo vicini alle sponde del fiume. Stavano appena
costeggiando una delle torri di roccia quando un barlume di
movimento catturò lo sguardo di Percy, qualcosa che balzava tra le
rocce alla loro destra. Un mostro che li stava seguendo? O magari si
trattava solo di qualche creatura di passaggio, diretta verso le Porte
della Morte. Improvvisamente si ricordò del motivo per il quale
avevano iniziato a seguire quella strada, e si bloccò. “Le Empousai.”
Afferrò il braccio di Annabeth. “Dove sono?” Annabeth scrutò il
paesaggio a trecentosessanta gradi, gli occhi grigi che brillavano di
allarme. Forse i demoni erano stati catturati da quel rettile nella
cava. Se le Empousai si trovavano ancora davanti a loro, avrebbero
dovuto essere visibili da qualche parte nella pianura. A meno che
non si stessero nascondendo… Troppo tardi, Percy sguainò la sua
spada. Le Empousai emersero dalle rocce intorno a loro cinque di
loro che formarono un cerchio. Una trappola perfetta. Kelly zoppicò
in avanti sulle sue gambe spaiate. I suoi capelli di fuoco le ardevano
sulle spalle come una cascata del Flegetonte in miniatura. La sua
divisa da cheerleader a brandelli era spruzzata di macchie marrone
ruggine, e Percy era piuttosto sicuro che non fosse ketchup. Lei fissò
il suo sguardo su di lui con i suoi brillanti occhi rossi e scoprì le
zanne. “Percy Jackson,” tubò. “Che cosa fantastica! Non devo
nemmeno tornare nel mondo mortale per distruggerti!”
15

PERCY

Percy ricordava quanto era stata pericolosa Kelly l’ultima volta che
avevano combattuto nel Labirinto. Nonostante quelle gambe diverse,
sapeva muoversi velocemente quando voleva. Aveva schivato i suoi
affondi e gli avrebbe mangiato la faccia se Annabeth non l’avesse
pugnalata alle spalle. Adesso aveva quattro amiche con lei. “E la tua
amica Annabeth è con te!” sibilò Kelly ridendo. “Oh, sì, mi ricordo
perfettamente di lei.” Kelly si toccò lo sterno, dove era uscita la punta
del pugnale quando Annabeth l’aveva colpita alla schiena. “Qual è il
problema, figlia di Atena? Non hai la tua arma? Che peccato. L’avrei
usata per ucciderti.” Percy cercò di pensare. Lui e Annabeth si
trovavano spalla contro spalla come avevano già fatto molte volte,
pronti per combattere. Ma nessuno di loro era in forma per una
battaglia. Annabeth era a mani vuote. Erano in netta minoranza. Non
c’era nessun posto dove scappare. Non sarebbe arrivato nessun
aiuto. Percy prese brevemente in considerazione l’idea di chiamare
Miss O’Leary, la sua amica segugio infernale che poteva fare i viaggi
ombra. Anche se l’avesse sentito, poteva raggiungere il Tartaro?
Quello era il posto dove andavano i mostri quando morivano.
Chiamarla là avrebbe potuto ucciderla, o farla tornare al suo stato
naturale di mostro feroce. No… non poteva fare questo al suo cane.
Quindi, nessun aiuto. Combattere era una scommessa persa. Quello
lasciava spazio solo alle tattiche preferite di Annabeth: astuzia,
parlare, ritardare. “Allora…” iniziò, “immagino ti stia chiedendo che
cosa ci facciamo nel Tartaro.” Kelly ridacchiò. “No di certo. Voglio
solo uccidervi.” Se fosse stato per Percy, sarebbe finita lì, ma
Annabeth riprese. “Peccato,” disse. “Perché non avete idea di cosa
sta succedendo nel mondo mortale.” Le altre Empousai strinsero il
cerchio, guardando Kelly in attesa di un cenno per attaccare; l’ex
cheerleader si limitò a ringhiare, allontanandosi dal raggio della
spada di Percy. “Sappiamo abbastanza,” disse Kelly. “Gea ha
parlato.” “Siete dirette verso una colossale sconfitta.” Annabeth
suonava così sicura, che persino Percy ne fu impressionato. Lei
guardò le altre Empousai, una alla volta, poi indicò Kelly in maniera
accusatoria. “Lei sostiene di guidarvi verso la vittoria. Sta mentendo.
L’ultima volta che è stata nel mondo mortale, Kelly aveva il compito
di mantenere il mio amico Luke Castellan fedele a Crono. Alla fine,
Luke lo rifiutò. Diede la sua vita per cacciare Crono. I Titani persero
perché Kelly fallì. Adesso Kelly vuole guidarvi verso un altro
disastro.” Le altre Empousai borbottarono e si mossero a disagio.
“Basta così!” Le unghie di Kelly si estesero fino a diventare lunghi
artigli neri. Fissò Annabeth come se la stesse immaginando ridotta in
numerosi piccoli pezzi. Percy era abbastanza sicuro che Kelly
avesse avuto una cotta per Luke Castellan. Luke aveva quell’effetto
sulle ragazze, persino sui vampiri con le gambe da asino, e Percy
non era convinto che nominarlo fosse un’idea molto buona. “La
ragazza mente,” disse Kelly. “I Titani persero. Bene! Quello era parte
del piano per svegliare Gea! Ora Madre Terra e i suoi giganti
distruggeranno il mondo mortale, e noi banchetteremo sui semidei!”
Gli altri vampiri digrignarono i denti con smania. Percy era stato nel
bel mezzo di un banco di squali quando l’acqua era carica di
sangue. Quello non era neanche lontanamente spaventoso come le
Empousai pronte per nutrirsi. Si preparò ad attaccare, ma quante
poteva ucciderne prima che lo schiacciassero? Non sarebbero state
abbastanza. “I semidei si sono uniti!” urlò Annabeth. “Fareste meglio
a pensarci due volte prima di attaccarci. Greci e Romani vi
combatteranno insieme. Non avete nessuna possibilità!” Le
Empousai indietreggiarono nervosamente, sibilando, “Romani.”
Percy indovinò che dovevano aver fatto esperienza con la
Dodicesima Legione in passato, e che la cosa non fosse finita bene
per loro. “Sì, ci potete scommettere, Romani.” Percy si scoprì
l’avambraccio e mostrò loro il simbolo che aveva avuto al Campo
Giove, la scritta SPQR, con il tridente di Nettuno. “Mischiate greco e
romano, e sapete cosa ottenete? Ottenete un BAM!” Sbatté il piede
a terra, e le Empousai indietreggiarono frettolosamente. Una cadde
dal masso sul quale si era arrampicata. Ciò fece sentire Percy bene,
ma loro si ripresero velocemente e li accerchiarono di nuovo.
“Discorso coraggioso,” disse Kelly, “per due semidei persi nel
Tartaro. Abbassa la tua spada, Percy Jackson, e ti ucciderò
velocemente. Credimi, ci sono modi peggiori di morire qua sotto.”
“Aspetta!” tentò Annabeth nuovamente. “Le Empousai non sono le
servitrici di Ecate?” Kelly arricciò le labbra. “Allora?” “Allora Ecate è
dalla nostra parte adesso,” disse Annabeth. “Ha una cabina al
Campo Mezzosangue. Alcuni dei suoi figli semidei sono miei amici.
Se ci combattete, lei sarà arrabbiata.” Percy voleva abbracciare
Annabeth, era così brillante. Una delle altre Empousai ringhiò. “E’
vero, Kelly? La nostra padrona ha fatto pace con l’Olimpo?” “Stai
zitta, Serefone!” strillò Kelly. “Dei, quanto sei irritante!” “Non mi
metterò contro la Signora Oscura.” Annabeth ne approfittò. “Fareste
tutte meglio a seguire Serefone. Lei è più anziana e più saggia.” “Sì!”
strillò Serefone. “Seguitemi!” Kelly colpì così velocemente, che Percy
non ebbe la possibilità di sollevare la sua spada. Fortunatamente,
non attaccò lui. Kelly si lanciò contro Serefone. Per mezzo secondo,
i due demoni furono una macchia indistinta di artigli e zanne. Poi finì
tutto. Kelly si trovava trionfante sopra una pila di polvere. Dai suoi
artigli pendevano i resti a brandelli del vestito di Serefone. “Qualche
altro problema?” scattò Kelly verso le sue sorelle. “Ecate è la dea
della Foschia! Le sue strade sono misteriose. Chi sa da quale parte
sta davvero? E’ anche la dea degli incroci, e lei si aspetta che noi
facciamo le nostre scelte. Io scelgo la strada che ci porterà la
maggior quantità di sangue di semidio! Io scelgo Gea!” Le sue
amiche sibilarono con approvazione. Annabeth guardò Percy, e lui
vide che era a corto d’idee. Aveva fatto tutto quello che poteva.
Aveva fatto sì che Kelly eliminasse una delle sue. Ora non era
rimasto nient’altro che combattere. “Per due anni mi sono agitata
nell’abisso,” disse Kelly. “Sai quanto sia assolutamente irritante
essere vaporizzati, Annabeth Chase? Riformarsi lentamente,
completante coscienti, affetti da un dolore bruciante per mesi e anni
mentre il tuo corpo ricresce, poi riuscire finalmente a rompere la
crosta di questo luogo infernale e farsi strada di nuovo alla luce del
giorno? Tutto questo perché qualche ragazzina ti ha pugnalato alla
schiena?” Il suo sguardo maligno sosteneva quello di Annabeth. “Mi
chiedo cosa succede se un semidio viene ucciso nel Tartaro. Dubito
che sia mai accaduto prima. Perché non lo scopriamo?” Percy
attaccò, brandendo Vortice con un ampio arco. Tagliò uno dei
demoni a metà, ma Kelly lo schivò e si lanciò verso Annabeth. Le
altre due Empousai si lanciarono verso Percy. Una gli afferrò il
braccio che teneva la spada. La sua amica gli saltò sulla schiena.
Percy cercò di ignorarle e si mosse instabile verso Annabeth,
determinato a cadere nel tentativo di difenderla se doveva; ma
Annabeth se la stava cavando piuttosto bene. Saltò da un lato,
evitando gli artigli di Kelly, e si rialzò con una roccia in mano, che
lanciò contro il naso del mostro. Kelly gemette. Annabeth raccolse
della sabbia e la lanciò negli occhi dell’empousa. Nel frattempo
Percy si dibatteva da un lato all’altro, cercando di scrollarsi di dosso
l’empousa, ma i suoi artigli affondarono più in profondità nelle sue
spalle. La seconda empousa gli teneva il braccio, impedendogli di
usare Vortice. Con la coda dell’occhio, vide Kelly attaccare,
affondando le sue zanne nel braccio di Annabeth. Annabeth urlò e
cadde. Percy cercò di muoversi nella sua direzione. Il vampiro sulla
sua schiena penetrò i denti nel suo collo. Del dolore bruciante gli
attraversò il corpo. Le sue ginocchia tremarono. Rimani in piedi, si
disse. Devi sconfiggerle. Poi l’altro vampiro gli morse il braccio, e
Vortice cadde tintinnando a terra. Era finita. La sua fortuna alla fine
si era esaurita. Kelly incombeva su Annabeth, gustandosi il suo
trionfo. Le altre due Empousai accerchiarono Percy, con le bocche
bavose, pronte per un altro assaggio. Poi un’ombra passò su Percy.
Un profondo grido di battaglia ruggì da qualche punto più in alto,
riecheggiando lungo le pianure del Tartaro, e un Titano entrò sul
campo di battaglia.
16

PERCY

Percy pensò di avere le allucinazioni. Semplicemente, non era


possibile che una gigantesca figura argentata potesse precipitare dal
cielo e spiaccicare Kelly, riducendola in un mucchietto di polvere di
mostro. Ma era esattamente quello che era appena successo. Il
Titano era alto tre metri, con selvaggi capelli argentati alla Einstein,
occhi completamente d’argento, e delle braccia muscolose che gli
spuntavano da una rovinata uniforme blu da bidello. Nelle mani
aveva un’enorme scopa. Sulla sua targhetta del nome,
incredibilmente, c’era critto BOB. Annabeth gridò e cercò di strisciare
via, ma il bidello gigante non era interessato a lei. Si voltò verso le
due Empousai rimaste, che si trovavano su Percy. Una di loro fu così
stupida da attaccare. Si lanciò con la velocità di una tigre, ma non
ebbe nemmeno una possibilità. Dall’estremità della scopa di Bob
spuntò una punta di lancia. Con un unico colpo mortale, la ridusse in
polvere. L’ultimo vampiro cercò di scappare. Bob lanciò la sua scopa
come fosse un boomerang extralarge (esistevano cose come una
scopa-boomerang?). Attraversò il vampiro e tornò nelle mani di Bob.
“VITTORIA!” Il Titano sogghigno di gioia e fece un balletto della
vittoria. “Vittoria, vittoria, vittoria!” Percy non riusciva a parlare. Non
poteva credere che fosse davvero accaduto qualcosa di buono.
Annabeth sembrava altrettanto scioccata. “C… come…?” balbettò
lei. “Mi ha chiamato Percy!” disse il bidello felice. “Sì, l’ha fatto.”
Annabeth strisciò un po’ più lontana. Il suo braccio stava
sanguinando copiosamente. “Chiamato? Lui… aspetta. Tu sei Bob?
Quel Bob?” Il bidello si accigliò quando si accorse delle ferite di
Annabeth. “Bua.” Annabeth indietreggiò quando lui si inginocchiò
accanto a lei. “Va tutto bene,” disse Percy, ancora confuso dal
dolore. “E’ amichevole.” Si ricordò di quando aveva incontrato Bob la
prima volta. Il Titano aveva guarito una brutta ferita sulla spalla di
Percy limitandosi a toccarla. E anche in quel caso, il bidello sfiorò
l’avambraccio di Annabeth e questo guarì istantaneamente. Bob
ridacchiò, soddisfatto di se stesso, poi saltellò da Percy e guarì il
collo e il braccio sanguinanti del ragazzo. Le mani del Titano erano
sorprendentemente calde e gentili. “Tutto meglio!” dichiarò Bob, con
i suoi strani occhi argentati che luccicavano di piacere. “Io sono Bob,
l’amico di Percy!” “Uh… sì,” riuscì a dire Percy. “Grazie per l’aiuto,
Bob. E’ davvero bello rivederti.” “Sì!” concordò il bidello. “Bob. Sono
io. Bob, Bob, Bob.” Saltellò intorno, chiaramente contento del suo
nome. “Sto aiutando. Ho sentito il mio nome. Al piano di sopra, nel
palazzo di Ade, nessuno chiama Bob a meno che non c’è un guaio.
Bob, spazza via queste ossa. Bob, asciuga queste anime torturate.
Bob, è esploso uno zombie in sala da pranzo.” Annabeth guardò
Percy con aria interrogativa, ma lui non aveva nessuna spiegazione.
“Poi ho sentito chiamare il mio amico!” Il Titano fece un sorriso
raggiante. “Percy ha detto, Bob!” Afferrò il braccio di Percy e lo
sollevò rimettendolo in piedi. “E’ fantastico,” disse Percy. “Davvero.
Ma come hai…“ “Oh, parliamo dopo.” L’espressione di Bob si fece
seria. “Dobbiamo andare, prima che vi trovino. Stanno arrivando. Sì,
è così.” “Stanno?” chiese Annabeth. Percy studiò l’orizzonte. Non
vide nessun mostro in avvicinamento, nulla a parte la grigia terra
desolata. “Sì,” annuì Bob. “Ma Bob conosce una strada. Andiamo,
amici! Ci divertiremo!”
17

FRANK

Frank si svegliò nel corpo di un pitone, cosa che lo disorientò. Non


era il fatto di trasformarsi in animale che lo confondeva. Quello lo
faceva spesso. Ma non si era mai trasformato da un animale a un
altro durante il sonno prima d’ora. Era abbastanza sicuro di non
essersi addormentato come un serpente. Solitamente, dormiva
come un cane. Aveva scoperto che affrontava la notte molto meglio
se si accucciava nel suo letto nei panni di un bulldog. Qualunque
fosse la ragione, in quel modo i suoi incubi non gli davano altrettanto
fastidio. Le urla costanti che aveva in testa sparivano quasi del tutto.
Non aveva idea del perché fosse diventato un pitone reticolato, ma
spiegava il suo sogno di inghiottire lentamente una mucca. La sua
gola faceva ancora male. Si preparò e tornò nella forma umana.
Immediatamente, il suo mal di testa lancinante fece ritorno, insieme
alle voci. Combattili! urlò Marte. Prendi questa nave! Difendi Roma!
La voce di Ares gli rispose urlando: Uccidi i romani! Sangue e morte!
Grosse pistole! Le personalità greca e romana di suo padre si
urlavano contro nella mente di Frank con la solita colonna sonora di
rumori di battaglia, esplosioni, mitragliatrici, ruggenti motori di jet, il
tutto pulsando come in un amplificatore dietro gli occhi di Frank. Si
mise a sedere nella sua cuccetta, stordito dal dolore. Come faceva
ogni mattina, fece un respiro profondo e fissò la lampada sulla sua
scrivania, una minuscola fiamma che bruciava giorno e notte,
alimentata da olio di oliva magico proveniente dalla dispensa.
Fuoco… la più grande paura di Frank. Tenere una fiamma accesa
nella sua stanza era una cosa che lo terrorizzava, ma lo aiutava
anche a concentrarsi. Il rumore nella sua testa si ridusse a un vocio
di sottofondo, permettendogli di pensare. Era migliorato nel farlo, ma
per giorni interi era stato quasi incapace di agire. Non appena era
scoppiata la battaglia al Campo Giove, le due voci del dio della
guerra avevano iniziato a urlare senza tregua. Fin da allora, Frank si
era ritrovato ad andare avanti come in trance, a malapena in grado
di funzionare normalmente. Si era comportato come uno stupido, ed
era certo che i suoi amici pensavano che avesse perso qualche
rotella. Non poteva dirgli cosa c’era che non andava. Non c’era nulla
che potessero fare, e ascoltandoli parlare, Frank era abbastanza
sicuro che loro non avessero lo stesso problema con i loro genitori
divini che li urlavano nelle orecchie. Era proprio la fortuna tipica di
Frank, ma doveva risolvere la cosa. I suoi amici avevano bisogno di
lui, soprattutto adesso che Annabeth non c’era più. Annabeth era
stata gentile con lui. Anche quando era stato così distratto da
comportarsi come un buffone, lei era stata paziente e d’aiuto. Mentre
Ares urlava che non ci si poteva fidare dei figli di Atena, e Marte gli
ruggiva di uccidere tutti i greci, Frank era arrivato a rispettare
Annabeth. Adesso che erano senza di lei, Frank era la cosa più
vicina a uno stratega militare di cui il gruppo disponesse. Avrebbero
avuto bisogno di lui per il viaggio che li aspettava. Si alzò e si vestì.
Fortunatamente era riuscito a comprare dei vestiti nuovi a Siena un
paio di giorni prima, sostituendo quelli che Leo aveva spedito via con
il tavolo Buford. (Lunga storia.) Si infilò un paio di Levi’s e una
maglietta verde militare, poi fece per prendere il suo maglione
preferito prima di ricordarsi che non gli serviva. Faceva troppo caldo.
Cosa più importante, non aveva più bisogno delle tasche per
proteggere il legnetto magico che controllava la sua vita. Hazel lo
stava tenendo al sicuro per lui. Forse la cosa avrebbe dovuto
renderlo nervoso. Se il legno bruciava, Frank moriva: fine della
storia. Ma si fidava di Hazel più di quanto si fidasse di se stesso.
Sapere che lei stava proteggendo la sua grande debolezza lo faceva
sentire meglio, come se avesse allacciato la sua cintura di scurezza
per una corsa ad alta velocità. Si mise arco e faretra in spalla. Si
trasformarono immediatamente in un normale zaino. Frank adorava
la cosa. Non avrebbe mai scoperto il potere di mimetizzazione della
faretra se Leo non se ne fosse accorto. Leo! ruggì Marte. Deve
morire! Strozzalo! gridò Ares. Strozza tutti! Di chi stavamo parlando?
I due ricominciarono a urlarsi contro, sopra al rumore di bombe che
esplodevano nel cranio di Frank. Si appoggiò al muro per non
perdere l’equilibrio. Per giorni, Frank aveva ascoltato quelle voci che
ordinavano la morte di Leo Valdez. Dopotutto, Leo aveva dato inizio
alla guerra con il Campo Giove attaccando il Foro con le baliste.
Certo, in quel momento era stato posseduto; ma Marte chiedeva
comunque vendetta. Leo rendeva le cose più difficili prendendosi
costantemente gioco di Frank, e Ares chiedeva che Frank reagisse
per ogni insulto. Frank teneva le voci a bada, ma non era facile.
Durante il loro viaggio attraverso l’Atlantico, Leo aveva detto
qualcosa che era ancora impressa nella mente di Frank. Quando
avevano scoperto che Gea, la malvagia dea della terra, aveva
messo una taglia sulle loro teste, Leo aveva voluto sapere quanto
fosse alta. Posso capire se non valgo come Jason o Percy, aveva
detto, ma valgo, quanto, due o tre Frank? Solo un altro degli stupidi
scherzi di Leo, ma la battuta aveva toccato un nervo scoperto.
Sull’Argo II, Frank si sentiva senza dubbio come il GMI, il Giocatore
Meno Importante. Va bene, lui poteva trasformarsi in animale. E
allora? Il più grande aiuto che aveva dato fino a quel momento era
stato trasformarsi in una donnola per fuggire da un laboratorio
sotterraneo, e persino quella era stata un’idea di Leo. Frank era
meglio conosciuto per il Fiasco da Pesce Rosso Gigante ad Atlanta,
e, giusto il giorno prima, per essersi trasformato in un gorilla di
duecento chili solo per essere messo al tappeto da una granata
stordente. Leo non aveva ancora fatto nessuna battuta sui gorilla.
Ma era solo questione di tempo. Uccidilo! Torturalo! Poi uccidilo! Le
due parti del dio della guerra sembravano prendersi a calci e pugni
dentro la testa di Frank, usando l’interno del suo cranio come ring.
Sangue! Pistole! Roma! Guerra! State zitti, ordinò Frank.
Sorprendentemente, le voci obbedirono. Va bene, pensò Frank.
Forse sarebbe finalmente riuscito a tenere sotto controllo quegli
irritanti dei in miniatura urlanti. Forse quel giorno sarebbe stato un
buon giorno. Quella speranza andò in frantumi non appena salì sul
ponte. “Cosa sono?” chiese Hazel. L’Argo II era ormeggiata presso
un molto affollato. Da una parte si allungava un canale di
navigazione largo circa mezzo chilometro. Dall’altra si allargava la
città di Venezia, tetti dalle tegole rosse, cupole di chiese di metallo,
torri gugliate, ed edifici sbiancati dal sole di tutti i colori dei cuori di
cioccolata di San Valentino, rosso, bianco, ocra, rosa e arancione.
Da ogni parte c’erano statue di leoni sui piedistalli, sopra gli archi,
sui portici degli edifici più grandi. Ce n’erano così tanti, che Frank
immaginò che il leone dovesse essere la mascotte della città. Dove
ci sarebbero dovute essere le strade, dei canali verdi si scavavano la
via attraverso i quartieri, tutti carichi di motoscafi. Lungo le banchine,
i marciapiedi erano affollati di turisti che facevano acquisti alle
bancarelle di magliette, che si riversavano fuori dai negozi, e che
oziavano su acri di tavolini dei bar all’aperto, come banchi di leoni
marini. Frank aveva pensato che Roma fosse piena di turisti. Quel
luogo era da matti. Tuttavia, Hazel e il resto dei suoi amici non
stavano prestando attenzione a niente di tutto quello. Si erano riuniti
alla ringhiera di tribordo per fissare una dozzina di strani mostri
pelosi che bighellonavano tra la folla. Ogni mostro era grande circa
come una mucca, con una schiena curva come un cavallo dalla sella
infossata, pelliccia grigia a chiazze, gambe sottili, e zoccoli neri. Le
teste delle creature sembravano essere troppo pesanti per i loro
colli. I lunghi musi da formichiere erano piegati verso il terreno. Le
loro criniere grigie troppo cresciute li coprivano completamente gli
occhi. Frank guardò mentre una delle creature si muoveva con
passo pesante verso il corso, odorando e leccando la
pavimentazione con la lingua lunga. I turisti si spostavano per farla
passare, noncuranti. Alcuni di loro le fecero persino qualche
carezza. Frank si chiese come facessero i mortali ad essere così
calmi. Poi l’aspetto del mostro vacillò. Per un attimo si trasformò in
un vecchio, grasso beagle. Jason grugnì. “I mortali pensano che
siano cani randagi.” “O animali di qualcuno che vagano per le
strade,” disse Piper. “Mio padre girò un film a Venezia una volta.
Ricordo che mi disse che c’erano cani ovunque. I veneziani amano i
cani.” Frank si accigliò. Continuava a dimenticarsi che il padre di
Piper era Tristan McLean, una star del cinema di prima classe. Lei
non ne parlava molto. Sembrava essere con i piedi molto per terra
per una ragazza cresciuta ad Hollywood. A Frank andava bene.
L’ultima cosa di cui avevano bisogno in quell’impresa erano dei
paparazzi che scattavano foto di tutti gli epici fallimenti di Frank. “Ma
cosa sono?” chiese ripetendo la domanda di Hazel. “Assomigliano
a… pelose mucche affamate con una pelliccia da cane pastore.”
Attese che qualcuno lo illuminasse. Nessuno offrì alcuna
informazione. “Magari sono innocue,” suggerì Leo. “Stanno
ignorando i mortali.” “Innocue!” rise Gleeson Hedge. Il satiro
indossava i suoi soliti pantaloncini da ginnastica, maglietta sportiva,
e il fischietto da allenatore. La sua espressione era brusca come
sempre, ma aveva ancora un elastico rosa incastrato tra i capelli,
reduce dei nani dispettosi di Bologna. Frank era un po’ spaventato di
farglielo notare. “Valdez, quanti mostri innocui abbiamo incontrato?
Dovremmo semplicemente puntare le baliste e vedere quello che
succede!” “Uh, no,” disse Leo. Per una volta, Frank era d’accordo
con lui. C’erano troppi mostri. Sarebbe stato impossibile colpirne uno
senza causare danni collaterali tra le folle di turisti. Inoltre, se quelle
creature fossero state prese dal panico e avessero iniziato a
scappare imbizzarrite… “Dovremo camminare tra di loro e sperare
che siano pacifiche,” disse Frank, già detestando quell’idea. “E’
l’unico modo nel quale possiamo localizzare il proprietario di quel
libro.” Leo tirò fuori il volume rilegato in pelle da sotto il suo braccio.
Aveva attaccato un foglietto adesivo sulla copertina con sopra
l’indirizzo che i nani di Bologna gli avevano dato. “La Casa Nera,”
lesse. “Calle Frezzeria.” “La Casa Nera,” ripeté Nico di Angelo.
“Calle Frezzeria è il nome della strada.” Frank cercò di non
indietreggiare quando si rese conto che Nico era accanto a lui. Il
ragazzo era così silenzioso e meditativo, che sembrava quasi
smaterializzarsi quando non parlava. Hazel poteva essere quella che
era tornata dai morti, ma Nico era molto più spettrale. “Parli
italiano?” chiese Frank. Nico gli lanciò un’occhiata di avvertimento,
come a dire: Attento alle domande che fai. Tuttavia, parlò con tono
calmo. “Frank ha ragione. Dobbiamo trovare quell’indirizzo. L’unico
modo per farlo è camminare per la città. Venezia è un labirinto.
Dovremo addentrarci tra le folle e quei… qualunque cosa siano.” Dei
tuoni riecheggiarono nel sereno cielo estivo. Avevano attraversato
delle tempeste la sera prima. Frank aveva pensato che fossero
passate, ma adesso non ne era così sicuro. L’aria era densa e calda
come il vapore di una sauna. Jason aggrottò le sopracciglia rivolto
verso l’orizzonte. “Forse dovrei rimanere a bordo. C’erano un sacco
di venti in quella tempesta la scorsa notte. Se decidono di attaccare
di nuovo la nave…” Non ebbe bisogno di finire. Avevano tutti avuto
le loro esperienze con gli infuriati spiriti del vento. Jason era l’unico
che aveva abbastanza fortuna nel combatterli. Coach Hedge grugnì.
“Bè, anche io sono fuori. Se voi pasticcini dal cuore tenero state
andando a fare una passeggiata per Venezia senza nemmeno
colpire quegli animali pelosi sulla testa, lasciate perdere. Non mi
piacciono le spedizioni noiose.” “Va bene, Coach.” Leo fece un
grosso sorriso. “Dobbiamo ancora riparare l’albero di trinchetto. Poi
mi serve il suo aiuto in sala motori. Ho un’idea per un nuovo
impianto.” A Frank non piacque il luccichio negli occhi di Leo. Da
quando aveva trovato quella sfera di Archimede, aveva sperimentato
un sacco di “nuovi impianti”. Solitamente, esplodevano o
rilasciavano del fumo che andava a finire nella cabina di Frank al
piano di sopra. “Bè…” Piper si mosse a disagio. “Chiunque vada
dovrebbe essere bravo con gli animali. Io, uh… ammetto che non
sono bravissima con le mucche.” Frank immaginò che ci dovesse
essere una storia dietro quell’affermazione, ma decise di non fare
domande. “Andrò io,” disse. Non era sicuro del perché si fosse
offerto, forse perché era ansioso di essere utile, tanto per cambiare.
O forse non voleva nessuno che lo battesse sul tempo. Animali?
Frank può trasformarsi in animale! Mandate lui! Leo gli diede delle
pacche sulla spalla e gli passò il libro di pelle. “Fantastico. Se passi
davanti a un ferramenta, potresti portarmi qualche pezzo di legno e
un gallone di catrame?” “Leo,” lo rimproverò Hazel, “non è una
missione per fare spese.” “Io andrò con Frank,” offrì Nico. L’occhio di
Frank iniziò a fremere. Le voci delle divinità della guerra salirono in
un crescendo nella sua testa: Uccidilo! Feccia di graecus! No! Io
adoro la feccia di graecus! “Uh… sei bravo con gli animali?” chiese.
Nico sorrise senza umorismo. “In realtà, la maggior parte degli
animali mi odia. Possono avvertire la morte. Ma c’è qualcosa
riguardo questa città…” La sua espressione si fece scura.
“Parecchia morte. Spiriti inquieti. Se vengo, potrei essere in grado di
tenerli a bada. Inoltre, come hai notato, parlo italiano.” Leo si grattò
la testa. “Parecchia morte, uh? Personalmente, sto cercando di
evitare tanta morte, ma voi ragazzi divertitevi!” Frank non era certo di
cosa lo spaventasse maggiormente: pelosi mostri-mucca, orde di
fantasmi inquieti, o andare da qualche parte da solo con Nico di
Angelo. “Vengo anche io.” Hazel fece scivolare il braccio in quello di
Frank. “Tre è il numero migliore per un’impresa di semidei, giusto?”
Frank cercò di non sembrare troppo sollevato. Non voleva offendere
Nico. Ma guardò Hazel e le disse con gli occhi: Grazie, grazie,
grazie. Nico fissò i canali, come chiedendosi quali nuovi e
interessanti tipi di spiriti malvagi potessero nascondersi lì. “Va bene,
allora. Andiamo a trovare il proprietario di quel libro.”
18

FRANK

A Frank sarebbe potuta piacere Venezia se non fosse stato il


periodo estivo e la stagione turistica, e se la città non fosse stata
infestata da grosse creature pelose. Tre le file di vecchie case e i
canali, i marciapiedi erano già troppo stretti per le folle che si
spintonavano a vicenda e che si fermavano per scattare fotografie. I
mostri rendevano le cose peggiori. Si muovevano con le teste
abbassate, andando a scontrarsi con i mortali e annusando il
terreno. Uno sembrò trovare qualcosa che gli piaceva sul bordo di
un canale. Mordicchiò e leccò tra una spaccatura che si era aperta
tra le pietre finché non riuscì a staccare un qualche tipo di radice
verdognola. Il mostro la mangiò felice e riprese la sua andatura
dinoccolata. “Bè, sono erbivori,” disse Frank. “E’ una buona notizia.”
Hazel fece scivolare la mano nella sua. “A meno che non completino
la loro dieta con semidei. Speriamo di no.” Frank era così contento di
essere mano nella mano con lei, che improvvisamente la folla, il
caldo e i mostri non sembravano più così male. Si sentiva voluto,
utile. Non che a Hazel servisse la sua protezione. Chiunque l’avesse
vista andare in battaglia in sella ad Arion, con la spada sguainata,
avrebbe capito che lei sapeva badare a se stessa. Tuttavia, a Frank
piaceva stare accanto a lei, immaginando che fosse il suo
bodyguard. Se qualcuno di quei mostri avesse cercato di farle del
male, Frank si sarebbe volentieri trasformato in un rinoceronte e li
avrebbe spinti nel canale. Poteva trasformarsi in un rinoceronte?
Frank non ci aveva mai provato. Nico si fermò. “Là.” Avevano
svoltato in una strada più piccola, lasciandosi il canale alle spalle.
Davanti a loro si trovava una piccola piazza fiancheggiata da edifici
di cinque piani. La zona era stranamente deserta, come se i mortali
potessero avvertire che non era sicura. Al centro del cortile fatto di
ciottoli, una dozzina di pelose creature-mucca stavano annusando la
base erbosa di un antico pozzo di pietra. “Un sacco di mucche in un
unico posto,” disse Frank. “Sì, ma guardate,” disse Nico. “Oltre
quell’arco.” La vista di Nico doveva essere migliore della sua. Frank
strizzò gli occhi. All’estremità opposta della piazza, un arco di pietra
con bassorilievi di leoni portava in una stretta strada. Appena oltre
l’arco, una delle case era dipinta di nero, l’unico edificio nero che
Frank avesse visto fino a quel momento a Venezia. “La Casa Nera,”
indovinò. La stretta di Hazel sulle sue dita si fece più forte. “Non mi
piace quella piazza. Sembra… fredda.” Frank non sapeva cosa
volesse dire. Lui stava ancora sudando come un matto. Ma Nico
annuì. Studiò le finestre della casa, la maggior parte delle quali
erano ricoperte da imposte di legno. “Hai ragione, Hazel. Questo
quartiere è pieno di lemuri.” “Lemuri?” chiese Frank nervoso.
“Immagino che non stai parlando delle piccole creaturine pelose di
Madagascar?” “Spiriti arrabbiati,” disse Nico. “I Lemuri risalgono ai
tempi romani. Si trovano in numerose città italiane, ma non ne ho
mai avvertiti così tanti in un unico posto. Mia madre mi disse…”
Esitò. “Era solita raccontarmi storie sui fantasmi di Venezia.”
Nuovamente, Frank fu incuriosito dal passato di Nico, ma aveva
paura di chiedere. Catturò lo sguardo di Hazel. Vai, sembrava che
stesse dicendo. Nico ha bisogno di fare pratica nel parlare con le
persone. Il suono di mitragliatrici e bombe atomiche nella testa di
Frank si fece più forte. Marte e Ares stavano cercando di sfidarsi
cantando “Dixie” e “L’Inno di Battaglia della Repubblica.” Frank fece
del suo meglio per metterli da parte. “Nico, tua madre era italiana?”
indovinò. “Di Venezia?” Nico annuì con riluttanza. “Incontrò Ade qui,
negli anni Trenta. Quando la Seconda Guerra Mondiale cominciò ad
avvicinarsi, fuggì negli Stati Uniti con me e mia sorella. Voglio dire…
Bianca, la mia altra sorella. Non ricordo molto dell’Italia, ma so
ancora parlare la lingua.” Frank cercò di pensare a una risposta da
dare. Oh, carino non sembrava appropriato. Stava andando in giro
non con uno, ma con due semidei che erano stati tirati fuori dal
tempo. Entrambi erano, tecnicamente, circa settant’anni più vecchi di
lui. “Deve essere stata dura per tua madre,” disse Frank. “Immagino
che si farebbe qualsiasi cosa per qualcuno che amiamo.” Hazel gli
strinse la mano riconoscente. Nico fissò i ciottoli. “Sì,” disse
amaramente. “Immagino di sì.” Frank non era certo di quello che
Nico stesse pensando. Trovava difficile immaginare Nico di Angelo
fare qualcosa per qualcuno in nome dell’amore, fatta eccezione
forse per Hazel. Ma Frank decise che si era spinto al massimo di
quanto volesse osare con le domande personali. “Allora, i lemuri…”
Deglutì. “Come li evitiamo?” “Ci sto già pensando,” disse Nico. “Sto
inviando il messaggio che dovrebbero stare alla larga e ignorarci.
Con un po’ di fortuna basterà. Altrimenti… le cose potrebbero farsi
complicate.” Hazel si morse le labbra. “Procediamo,” suggerì.
Quando si trovarono al centro della piazza, andò tutto storto; ma non
aveva niente a che fare con i fantasmi. Stavano girando intorno al
pozzo al centro della piazza, cercando di mantenere un po’ di
distanza dai mostri mucca, quando Hazel inciampò su un ciottolo
dissestato. Frank la prese al volo. Sei o sette delle grosse bestie
grigie si voltò per guardarli. Frank intravide un brillante occhio verde
sotto la criniera di uno di loro, e istantaneamente venne colpito da
un’ondata di nausea, proprio come si sentiva quando mangiava
troppo formaggio o gelato. Le creature produssero dei profondi suoni
vibranti con la gola, simili a campane per le navi molto arrabbiate.
“Belle mucche,” mormorò Frank. Si mise tra i suoi amici e i mostri.
“Ragazzi, credo che dovremmo andarcene lentamente da qui.”
“Sono una stupida,” sussurrò Hazel. “Mi dispiace.” “Non è colpa tua,”
disse Nico. “Guarda i tuoi piedi.” Frank abbassò lo sguardo e
trattenne il respiro. Sotto le loro scarpe, le pietre del terreno si
stavano muovendo, appuntiti viticci di piante si stavano facendo
strada sputando dalle crepe. Nico indietreggiò. Le radici si mossero
nella sua direzione, cercando di seguirlo. I viticci si fecero più spessi,
emettendo un umido vapore verde che odorava di cavolo cotto. “A
queste radici sembrano piacere i semidei,” notò Frank. La mano di
Hazel andò all’elsa della sua spada. “E alle creature mucca
piacciono le radici.” L’intero gregge stava ora guardando nella loro
direzione, producendo brontolii da nave e pestando gli zoccoli. Frank
capiva il comportamento degli animali abbastanza bene da ricevere
il messaggio: Vi trovate sul nostro cibo. Questo vi rende dei nemici.
Frank cercò di pensare. C’erano troppi mostri per combattere.
Qualcosa riguardo i loro occhi nascosti sotto le folte criniere… A
Frank era venuta la nausea solo intravedendoli. Aveva la brutta
sensazione che se quei mostri avessero fatto contatto diretto con gli
occhi, gli sarebbe venuto qualcosa di molto peggio di della nausea.
“Non incrociate i loro sguardi,” avvertì Frank. “Io li distrarrò. Voi due
indietreggiate lentamente verso quella casa nera.” Le creature si
fecero tese, pronte ad attaccare. “Non importa,” disse Frank.
“Correte!” Come si scoprì, Frank non poteva trasformarsi in un
rinoceronte, e perse del tempo prezioso provandoci. Nico e Hazel si
lanciarono verso la strada laterale. Frank si mise davanti ai mostri,
sperando di mantenere la loro attenzione su di lui. Urlò con tutto il
fiato che aveva in gola, immaginando se stesso come un temibile
rinoceronte, ma con Ares e Marte che gli urlavano nella testa, non
riuscì a concentrarsi. Rimase il vecchio Frank di sempre. Due dei
mostri mucca si staccarono dalla mandria per inseguire Nico e
Hazel. “No!” urlò Frank verso di loro. “Io! Io sono il rinoceronte!” Il
resto della mandria circondò Frank. Ringhiarono, mentre del gas
verde smeraldo gli usciva dalle narici. Frank indietreggiò per evitare
il vapore, ma il puzzo per poco non lo fece svenire. Okay, quindi
niente rinoceronte. Qualcos’altro. Frank sapeva che aveva solo
qualche secondo prima che i mostri lo calpestassero o lo
avvelenassero, ma non riusciva a pensare. Non riusciva a trattenere
l’immagine di nessun animale abbastanza a lungo per mutare forma.
Poi alzò lo sguardo verso uno dei terrazzi degli appartamenti e vide
un bassorilievo di pietra, il simbolo di Venezia. L’istante successivo,
Frank era un leone adulto. Ruggì in segno di sfida, poi balzò dal
centro della mandria di mostri e atterrò a otto metri di distanza, sulla
cima del vecchio pozzo di pietra. I mostri ruggirono in risposta. Tre di
loro attaccarono insieme, ma Frank era pronto. I suoi riflessi da
leone erano fatti per essere veloci in combattimento. Ridusse i primi
due mostri in polvere con i suoi artigli, poi affondò le zanne nella
gola del terzo e lo gettò di lato. Ne erano rimasti sette, più i due che
stavano inseguendo i suoi amici. Non era una situazione molto
positiva, ma Frank doveva tenere il grosso della mandria
concentrato su di lui. Ruggì verso i mostri, e questi indietreggiarono.
Lo superavano in numero, era vero. Ma Frank era un predatore di
prima classe. La mandria di mostri lo sapeva. Inoltre, aveva appena
visto Frank che spediva tre dei loro amici nel Tartaro. Sfruttò il suo
vantaggio e saltò giù dal pozzo, sempre con le zanne scoperte. La
mandria si fece indietro. Se solo avesse potuto aggirarli, poi girarsi e
correre dai suoi amici… Se la stava cavando bene, fino a che fece il
suo primo passo indietro verso l’arco. Una delle mucche, forse la più
coraggiosa oppure la più stupida, prese la cosa come segno di
debolezza. Lo attaccò e colpì Frank in faccia con del gas verde. Lui
colpì il mostro riducendolo in polvere, ma il danno era ormai fatto. Si
obbligò a non respirare. Nonostante quello, poteva avvertire la
pelliccia sul muso che bruciava. Gli occhi gli pungevano. Inciampò
all’indietro, mezzo cieco e stordito, vagamente consapevole di Nico
che urlava il suo nome. “Frank! Frank!” Cercò di concentrarsi. Era
tornato in forma umana, instabile e con la nausea. Sembrava che gli
si stesse staccando la faccia. Davanti a lui, la nuvola verde di gas
aleggiava tra lui e la mandria. I mostri mucca rimasti lo guardavano
accorti, probabilmente chiedendosi se Frank avesse qualche altro
trucco nella manica. Si guardò alle spalle. Sotto l’arco di pietra, Nico
di Angelo stava reggendo la sua spada nera di ferro di Stige,
facendo segno a Frank di sbrigarsi. Ai piedi di Nico, due
pozzanghere scure macchiavano il terreno… senza dubbio i resti dei
mostri mucca che li avevano inseguiti. E Hazel… era appoggiata
contro il muro dietro suo fratello. Non si muoveva. Frank corse verso
di loro, dimenticandosi della mandria di mostri. Superò Nico e afferrò
le spalle di Hazel. La testa della ragazza le ricadde sul petto. “E’
stata colpita dal gas verde dritta in faccia,” disse Nico
miserabilmente. “Non… non sono stato abbastanza veloce.” Frank
non riusciva a capire se stesse respirando. Rabbia e disperazione si
combattevano dentro di lui. Aveva sempre avuto paura di Nico.
Adesso voleva buttare il figlio di Ade nel canale più vicino. Forse non
era giusto, ma a Frank non importava. Né importava agli dei della
guerra che gli urlavano in testa. “Dobbiamo riportarla alla nave,”
disse Frank. La mandria di mostri mucca si aggirava con cautela
appena oltre l’arco. Ruggivano con i loro ringhi da campana di nave.
Dalle strade vicine, risposero altri mostri. I rinforzi avrebbero presto
circondato i semidei. “Non ce la faremo mai a piedi,” disse Nico.
“Frank, trasformati in un’aquila gigante. Non preoccuparti per me.
Riportala sull’Argo II!” Con il volto in fiamme e le voci che gli
urlavano in testa, Frank non era certo di poter cambiare forma; ma
stava per provare, quando una voce alle loro spalle disse, “I vostri
amici non possono aiutarvi. Non conoscono la cura.” Frank si voltò.
In piedi sulla soglia della Casa Nera c’era un giovane uomo in jeans
e maglietta. Aveva dei ricci capelli neri e un sorriso amichevole,
anche se Frank dubitava che lui fosse amichevole. Probabilmente
non era nemmeno umano. Al momento, a Frank non importava.
“Può curarla?” chiese. “Certo,” disse l’uomo. “Ma fareste meglio a
entrare di corsa. Credo che abbiate fatto infuriare tutti i catoblepa di
Venezia.”
19

FRANK

Riuscirono a malapena ad entrare in tempo. Non appena il loro


ospite fece scorrere i catenacci, i mostri mucca ruggirono e si
lanciarono contro la porta, facendo tremare i cardini. “Oh, non
possono entrare,” assicurò loro l’uomo con la maglietta di jeans.
“Siete al sicuro adesso!” “Al sicuro?” chiese Frank. “Hazel sta
morendo!” Il loro ospite aggrottò le sopracciglia come se non
apprezzasse che Frank rovinasse il suo buon umore. “Sì, sì.
Portatela da questa parte.” Frank trasportò Hazel mentre seguivano
l’uomo più in profondità nell’edificio. Nico si offrì di aiutarlo, ma Frank
non ne aveva bisogno. Hazel non pesava nulla, e il corpo di Frank
stava martellando di adrenalina. Poteva sentire Hazel che tremava,
quindi almeno sapeva che era viva; ma la sua pelle era fredda. Le
sue labbra avevano assunto una tonalità verdognola, o forse era
solo la vista confusa di Frank? I suoi occhi stavano ancora bruciando
a causa del fiato del mostro. Nei polmoni aveva la sensazione di
aver inalato un cavolo in fiamme. Non sapeva perché il gas l’aveva
affetto in modo meno grave di quanto aveva fatto con Hazel. Forse
lei ne aveva ispirato di più nei polmoni. Avrebbe dato qualsiasi cosa
per scambiare la situazione, se ciò voleva dire salvarla. Le voci di
Marte e Ares stavano urlando nella sua testa, spronandolo a
uccidere Nico e l’uomo con la giacca di jeans e chiunque altro
potesse trovare, ma Frank obbligò i rumori a scemare. La camera
principale della casa era una sorta di serra. I muri erano allineati da
tavoli con sopra vassoi di piante posizionate sotto luci fluorescenti.
Nell’aria c’era odore di fertilizzante. Forse i veneziani curavano i loro
giardini all’interno, visto che erano circondati dall’acqua al posto
della terra. Frank non lo sapeva, ma non si fermò troppo a lungo a
preoccuparsene. La stanza sul retro somigliava a un mix tra un
garage, il dormitorio di un collegio, e un laboratorio di computer.
Contro la parete di sinistra brillava una parete di server e computer,
con immagini di campi arati e trattori come screensaver. Contro il
muro di destra c’era un unico letto, una scrivania disordinata, e un
guardaroba aperto carico di altri vestiti di jeans e una fila di attrezzi
da fattoria, come forconi e rastrelli. La parete di fondo consisteva in
un’unica enorme porta da garage. Parcheggiato accanto c’era un
carro rosso e dorato con una seduta aperta e un unico asse per gli
animali, come i carri che Frank aveva guidato al Campo Giove. Dai
lati della cabina del guidatore si estendevano delle giganti ali
piumate. Avvolto attorno al cerchione della ruota di sinistra, c’era un
pitone maculato che russava rumorosamente. Frank non sapeva che
i pitoni potessero russare. Sperava che lui non l’avesse fatto la
scorsa notte quando si era trasformato in pitone. “Metti la tua amica
qui”, disse l’uomo in jeans. Frank mise gentilmente Hazel sul letto.
Le tolse la spada e cercò di metterla comoda, ma lei era inerte come
uno spaventapasseri. La sua carnagione aveva senza dubbio
assunto una tonalità verde. “Cosa erano quelle cose mucca?” chiese
Frank. “Cosa le hanno fatto?” “Catoblepe” disse il loro ospite. “Al
singolare: catoblepa. Nella nostra lingua, vuol dire coloro che
guardano in basso. Sono chiamati così perché…“ “Guardano
sempre in basso.” Nico si sbatté la mano in fronte. “Giusto. Ricordo
di aver letto di loro.” Frank lo fissò furioso. “Te lo ricordi adesso?”
Nico abbassò la testa quasi come fosse un catoblepa. “Io, uh…
giocavo a questo stupido gioco di carte quando ero più piccolo. Mito-
magia. I catoblepi erano una delle carte mostro.” Frank sbatté le
palpebre. “Io giocavo a Mito-magia. Non ho mai visto quella carta.”
“Era nel pacchetto espansione Extreme Africa.” “Oh.” Il loro ospite si
schiarì la voce. “Voi due avete finito di, ah, fare i nerd, come dicono
oggi?” “Giusto, scusi,” borbottò Nico. “Ad ogni modo, i catoblepa
hanno un alito e uno sguardo velenosi. Pesavo che vivessero solo in
Africa.” L’uomo con i jeans scrollò le spalle. “Quella è la loro terra
nativa. Furono importati accidentalmente a Venezia centinaia di anni
fa. Avete sentito parlare di San Marco?” Frank voleva urlare dalla
frustrazione. Non vedeva come niente di tutto quello potesse essere
rilevante, ma se il loro ospite era in grado di guarire Hazel, Frank
decise che forse poteva essere meglio non farlo arrabbiare. “Santi?
Non fanno parte della mitologia greca.” L’uomo vestito di jeans
ridacchiò. “No, ma San Marco è il santo patrono di questa città. Morì
in Egitto, oh, molto tempo fa. Quando i veneziani divennero potenti…
bè, le reliquie dei santi erano una grande attrazione turistica nei
Tempi Medievali. I Veneziani decisero di rubare le reliquie di San
Marco e di portarle nella loro grande chiesa dedicata al Santo.
Esportarono il suo corpo mettendolo in un barile di prodotti
sottaceto.” “Questo è… disgustoso,” disse Frank. “Sì,” concordò
l’uomo con un sorriso. “Il punto è che, non si può fare una cosa del
genere e non avere delle conseguenze. I veneziani esportarono
senza volerlo anche qualcos’altro dall’Egitto, i Catoblepe. Arrivarono
qui a bordo di quella nave e si sono riprodotti come topi fin da allora.
Adorano le magiche radici velenose che crescono qui, piante
paludose dall’odore orribile che si infiltrano dai canali. Rende il loro
alito persino più velenoso! Solitamente i mostri ignorano i mortali, ma
i semidei… soprattutto i semidei che si mettono sulla loro strada…“
“Afferrato,” scattò Frank. “Può curarla?” L’uomo scrollò le spalle.
“Forse.” “Forse?” Frank dovette fare uso di tutta la sua forza di
volontà per non strangolare quel ragazzo. Mise la sua mano sotto il
naso di Hazel. Non riusciva a sentire il suo respiro. “Nico, ti prego
dimmi che sta facendo quella trance di morte, come quella che hai
fatto tu nella giara di bronzo.” Nico fece una smorfia. “Non so se
Hazel può farla. Suo padre tecnicamente è Pluto, non Ade, quindi…“
“Ade!” gridò l’ospite. Indietreggiò, fissando Nico con disgusto. “Allora
è questo l’odore che sentivo. Figli dell’Oltretomba? Se l’avessi
saputo, non vi avrei mai fatti entrare!” Frank si scaldò. “Hazel è una
brava persona. Ha promesso che l’avrebbe aiutata.” “Non l’ho
promesso.” Nico sguainò la sua spada. “E’ mia sorella,” ringhiò. “Non
so chi sei, ma se puoi curarla, devi farlo, altrimenti giuro sul Fiume
Stige…“ “Oh, blah, blah, blah!” L’uomo agitò la mano.
Improvvisamente, dove un attimo prima si trovava Nico di Angelo,
apparve una pianta in vaso alta circa mezzo metro, con foglie verdi
che scendevano verso il basso, ciuffi di seta, e una mezza dozzina
di gialle pannocchie mature. “Ecco,” sbuffò l’uomo, agitando il dito
contro la pannocchia. “I Figli di Ade non possono darmi ordini!
Dovresti parlare di meno e ascoltare di più. Ora almeno non hai una
bocca.” Frank inciampò contro il letto. “Cosa ha, perché… ?” L’uomo
inarcò un sopracciglio. Frank fece un suono stridulo che non era
molto coraggioso. Era stato così concentrato su Hazel che si era
dimenticato quello che Leo aveva detto loro sull’uomo che stavano
cercando. “Tu sei un dio,” si ricordò. “Trittolemo.” L’uomo si inchinò.
“I miei amici mi chiamano Trit, quindi tu non farlo. E se sei un altro
figlio di Ade…“ “Marte!” disse Frank velocemente. “Figlio di Marte!”
Trittolemo sbuffò. “Bè… non molto meglio. Ma forse ti meriti di
essere qualcosa di meglio di una pianta di pannocchie. Saggina? La
saggina è molto bella.” “Aspetti!” implorò Frank. “Siamo qui per una
missione amichevole. Abbiamo portato un dono.” Molto lentamente,
prese il suo zaino e tirò fuori il libro rilegato in pelle. “Questo
appartiene a lei?” “Il mio almanacco!” Trittolemo fece un grosso
sorriso e afferrò il libro. Scorse le pagine e iniziò a saltellare sul
posto. “Oh, è fantastico! Dove l’hai trovato?” “Uhm, a Bologna.
C’erano questi…” Frank si ricordò che non doveva parlare dei nani,
“mostri terribili. Abbiamo rischiato le nostre vite, ma sapevamo che
era importante per lei. Quindi potrebbe, sa, far tornare Nico umano e
guarire Hazel?” “Hm?” Trit alzò lo sguardo dal libro. Stava
felicemente recitando una cantilena tra sé e sé, qualcosa che
riguardava il programma di semina delle rape. Frank desiderò che
Ella l’arpia fosse lì. Sarebbe andata d’accordo con quel tipo. “Oh,
guarirli?” Trittolemo ridacchiò con disapprovazione. “Sono
riconoscente per il libro, ovviamente. Posso senza dubbio lasciare
andare te, figlio di Marte. Ma ho un problema di lungo corso con
Ade. Dopotutto, devo i miei poteri divini a Demetra!” Frank cercò
nella sua mente, ma era difficile farlo con le voci che gli urlavano in
testa e il veleno del catoblepa che lo confondeva. “Uh, Demetra,”
disse, “la dea dell’agricoltura. A lei… a lei non piace Ade perché …”
Improvvisamente ricordò una vecchia storia che aveva sentito al
Campo Giove. “Sua figlia, Proserpina…“ “Persefone,” lo corresse
Trit. “Preferisco il greco, se non ti dispiace.” Uccidilo! gridò Marte.
Adoro questo ragazzo! urlò Ares di rimando. Uccidilo comunque!
Frank decise di non sentirsi offeso. Non voleva essere trasformato in
una pianta di saggina. “Okay. Ade rapì Persefone.” “Esattamente!”
disse Trit. “Quindi… Persefone era una sua amica?” Trit fece un
verso di scherno. “Ero solo un principe mortale allora. Persefone non
mi avrebbe notato. Ma quando sua madre, Demetra, andò in cerca
di lei, perlustrando tutta la terra, non c’erano molte persone disposte
ad aiutarla. Ecate le illuminò la strada di notte con le sue torce. E
io… bè, quando Demetra venne nella mia parte della Grecia, le offrii
un posto dove stare. La confortai, le diedi da mangiare, e le offrii la
mia assistenza. Non sapevo che fosse una dea a quel tempo, ma le
mie buone azioni mi ripagarono. Più tardi, Demetra mi ricompensò
nominandomi dio dell’agricoltura!” “Wow,” disse Frank. “Agricoltura.
Congratulazioni.” “lo so! Forte, vero? Comunque, Demetra non è mai
andata d’accordo con Ade. così naturalmente, sai, io devo
schierarmi con la mia dea protettrice. I figli di Ade, dimenticalo!
Infatti, uno di loro, questo re Sciziano chiamato Lynkos, sai? Quando
cercai di insegnare ai suoi cittadini l’agricoltura, lui uccise il mio
pitone di destra!” Il suo… pitone di destra?” Trit marciò fino al suo
carro alato e ci saltò dentro. Tirò una leva, e le ali iniziarono a
sbattere. Il pitone maculato sulla ruota sinistra aprì gli occhi. Iniziò a
contorcersi, avvolgendosi attorno all’asse da animali come una
molla. Il carro tremò entrando in azione, ma la ruota di destra rimase
al suo posto, così Trittolemo girò in cerchio, con il carro che sbatteva
le sue ali e balzava su e giù come una giostra difettosa. “Vedi?”
disse mentre girava. “Non è bello! Fin da quando ho perso il mio
pitone di destra, non sono stato in grado di diffondere la parola
sull’agricoltura, almeno non di persona. Adesso devo mi devo
arrangiare dando lezioni online.” “Cosa?” Non appena lo disse,
Frank si pentì di averlo chiesto. Trit saltò giù dal suo carro mentre
questo stava ancora girando. Il pitone rallentò fino a fermarsi e tornò
a russare. Trit corse verso la fila di computer. Picchiettò le tastiere e
gli schermi si accesero, mostrando un sito Web sui colori del
marrone dorato, con l’immagine di un contadino felice che indossava
una toga e un capellino della John Deere, in piedi con la sua falce di
bronzo in un campo di grano. “Università dell’Agricoltura di
Trittolemo!” annunciò con orgoglio. “In sole sei settimane, puoi
ottenere la tua laurea nell’emozionante e vibrante carriera del futuro,
l’agricoltura!” Frank avvertì un rivolo di sudore scendergli lungo la
guancia. Non gli importava di quel dio folle o del suo carro con i
serpenti o del suo programma di laurea online. Ma Hazel si stava
facendo sempre più verde. Nico era una pianta di pannocchie. E lui
era da solo. “Senta,” disse. “Le abbiamo portato l’almanacco. E i
miei amici sono davvero simpatici. Loro non sono come gli altri figli
di Ade che ha incontrato. Quindi se c’è un modo…“ “Oh!” Trit
schioccò le dita. “Capisco dove vuoi arrivare!” “Uh… davvero?”
“Assolutamente! Se curo la tua amica Hazel e trasformo l’altro,
Nicholas…“ “Nico.” “…se lo trasformo di nuovo in un umano…”
Frank esitò. “Sì?” “Allora in cambio, tu rimani con me e ti dedichi
all’agricoltura! Un figlio di Marte come mio apprendista? E’ perfetto!
Che portavoce saresti. Possiamo trasformare le spade in aratri e
divertirci così tanto!” “In realtà…” Frank cercò di formare
velocemente un piano. Ares e Marte gli urlavano in testa, Spade!
Pistole! Grosse Esplosioni! Se rifiutava l’offerta di Trit, Frank
immaginava che così avrebbe offeso il dio e sarebbe finito come una
pianta di saggina o di frumento o qualche altra pianta da coltura. Se
quello era l’unico modo per salvare Hazel, allora certo, poteva
accettare la richiesta di Trit e diventare un agricoltore. Ma non era
possibile che quello fosse l’unico modo. Frank si rifiutava di credere
che fosse stato scelto dalle Parche per partecipare a quell’impresa
solo perché potesse iscriversi a dei corsi online di coltivazione di
rape. Gli occhi di Frank andarono al carro rotto. “Ho un’offerta
migliore,” disse improvvisamente. “Posso ripararlo.” Il sorriso di Trit
si fuse. “Riparare… il mio carro?” Frank voleva prendersi a calci.
Cosa stava pensando? Non era Leo. Non riusciva nemmeno a
capire come funzionava uno stupido paio di manette cinesi. Era a
malapena in grado di cambiare le batterie al telecomando di un
televisore. Non poteva aggiustare un carro magico! Ma qualcosa gli
diceva che quella era la sua unica possibilità. Quel carro era la cosa
che Trittolemo voleva davvero. “Andrò a cercare un modo per
aggiustare il carro,” disse. “In cambio, lei aggiusta Nico e Hazel. Ci
lascia andare in pace. E… e ci da qualsiasi aiuto possa darci per
sconfiggere le forze di Gea.” Trittolemo rise. “Cosa ti fa credere che
posso aiutarti con quello?” “Ce lo ha detto Ecate,” disse Frank. “Lei
ci ha mandati qui. Lei… lei ha scelto Hazel come una delle sue
prescelte.” Il colore dalla faccia di Trittolemo svanì. “Ecate?” Frank
sperava di non aver esagerato. Non aveva bisogno che anche Ecate
si infuriasse con lui. Ma se Trittolemo ed Ecate erano entrambi amici
di Demetra, forse quello avrebbe convinto Trit ad aiutare. “La dea ci
ha guidati al suo almanacco a Bologna,” disse Frank. “Voleva che lo
riportassimo a lei, perché… bè, doveva sapere che lei ha qualche
conoscenza che ci potrebbe aiutare ad entrare nella Casa di Ade ad
Epiro.” Trit annuì lentamente. “Sì. Capisco. So perché Ecate vi ha
mandati da me. Molto bene, figlio di Marte. Trova un modo per
aggiustare il mio carro. Se avrai successo, farò tutto quello che
chiedi. In caso contrario…“ “Lo so,” borbottò Frank. “I miei amici
muoiono.” “Sì,” disse Trit allegramente. “E tu sarai una bella pianta di
saggina!”
20

FRANK

Frank si gettò fuori dalla Casa Nera. La porta si chiuse alle sue
spalle, e lui crollò contro il muro, sopraffatto dal senso di colpa.
Fortunatamente i catoblepi se ne erano andati, o sarebbe
semplicemente rimasto seduto là lasciandosi calpestare da loro. Non
si meritava nulla di meglio. Aveva lasciato Hazel là dentro, morente
e indifesa, alla mercé di un pazzo dio agricoltore. Uccidi gli
agricoltori! urlava Ares nella sua testa. Torna alla legione e combatti i
greci! diceva Marte. Che ci facciamo qui? Uccidiamo gli agricoltori!
gli urlò Ares di rimando. “State zitti!” gridò Frank ad alta voce. “Tutti e
due!” Un paio di signore anziane con delle buste della spesa gli
passarono accanto. Lanciarono a Frank delle strane occhiate,
borbottarono qualcosa in italiano, e continuarono a camminare.
Frank fissò miserabilmente la spada da cavalleria di Hazel, che
giaceva ai suoi piedi accanto allo zaino. Poteva correre all’Argo II e
prendere Leo. Forse Leo poteva aggiustare il carro. Ma in qualche
modo Frank sapeva che quello non era un problema per Leo. Era il
compito di Frank. Doveva dimostrare le sue capacità. Inoltre, il carro
non era esattamente guasto. Gli mancava un serpente. Frank poteva
trasformarsi in un serpente. Magari quando quella mattina si era
svegliato nei panni di un serpente gigante, era stato un segno dagli
dei. Non voleva passare il resto della sua vita a girare la ruota del
carro di un contadino, ma se questo voleva dire salvare Hazel… No.
Ci doveva essere un altro modo. Serpenti, pensò Frank. Marte. Suo
padre aveva qualche connessione con i serpenti? L’animale sacro di
Marte era il cinghiale selvaggio, non il serpente. Tuttavia, Frank era
certo di aver sentito qualcosa una volta…. Riusciva a pensare ad
una sola persona alla quale chiedere. Con riluttanza, aprì la sua
mente alle voci del dio della guerra. Ho bisogno di un serpente,
disse loro. Come faccio? Ha, ha! urlò Ares. Sì, il serpente! Come
quel vile di Cadmo, disse Marte. Lo punimmo per aver ucciso il
nostro drago! Iniziarono a urlare insieme, finché Frank non temette
che la sua mente si stesse per spaccare in due. “Okay! Smettetela!”
Le voci si zittirono. “Cadmo” borbottò Frank. “Cadmo…” La storia gli
tornò alla mente. Il semidio Cadmo aveva ucciso un drago che era
un figlio di Ares. Perché Ares avesse un drago come figlio, era una
cosa che Frank non voleva sapere; ma come punizione per la morte
del drago, Ares aveva trasformato Cadmo in un serpente. “Allora
potete trasformare i vostri nemici in serpenti,” disse Frank. “E’ di
questo che ho bisogno. Devo trovare un nemico. Poi ho bisogno che
voi lo trasformiate in un serpente.” Credi che lo farei per te? ruggì
Ares. Non hai dimostrato il tuo valore! Solo l’eroe più grande può
chiedere un dono del genere, disse Marte. Un eroe come Romolo!
Troppo Romano! gridò Ares. Diomede! Mai! urlò Marte di rimando.
Quel codardo cadde contro Eracle! Allora, Orazio, suggerì Marte.
Ares non rispose. Frank avvertì un accordo forzato. “Orazio,” disse
Frank. “Bene. Se è questo che serve, dimostrerò che sono capace
quanto Orazio. Uh… lui cosa ha fatto?” Delle immagini inondarono la
mente di Frank. Vide un guerriero solitario su un ponte di pietra,
rivolto verso un intero esercito raggruppato sulla riva più lontana del
Fiume Tevere. Frank si ricordava della leggenda. Orazio, il generale
romano, aveva trattenuto da solo un’orda di invasori, sacrificando se
stesso su quel fiume per impedire ai barbari di attraversare il Tevere.
Dando ai suoi compagni romani il tempo di completare le loro difese,
aveva salvato la Repubblica. Venezia è invasa, disse Marte, come
stava per esserlo Roma. Purificala! Distruggili tutti! disse Ares.
Uccidili! Frank chiuse le voci fuori dalla sua testa. Si guardò le mani
e fu stupito nel vedere che non stavano tremando. Per la prima volta
da giorni, i suoi pensieri erano chiari. Sapeva esattamente quello
che doveva fare. Non sapeva come avrebbe fatto. Le possibilità di
morire erano eccellenti, ma doveva provare. La vita di Hazel
dipendeva da lui. Si legò la spada di Hazel alla cintura, mutò il suo
zaino in arco e faretra, e corse verso la piazza dove si era scontrato
con i mostri mucca. Il piano era composto da tre fasi: pericoloso,
molto pericoloso, e pazzamente pericoloso. Frank si fermò presso
l’antico pozzo di pietra. Non c’era nessun catoblepa in vista. Sguainò
la spada di Hazel e la usò per rovistare tra i ciottoli, dissotterrando
un grosso groviglio di radici acuminate. I viticci si sciolsero,
diffondendo i loro puzzolenti vapori verdi mentre strisciavano verso i
piedi di Frank. In lontananza, il muggito da nave di un catoblepa
riempì l’aria. Altri si unirono al suono da tutte le direzioni. Frank non
sapeva come facessero i mostri a sapere che stava mietendo il loro
cibo preferito, forse avevano semplicemente un eccellente olfatto.
Adesso doveva muoversi velocemente. Tagliò un lungo mazzo di
viticci e li legò facendoli passare attraverso uno dei passanti della
sua cintura, cercando di ignorare il bruciore e il prurito che aveva alle
mani. In poco tempo aveva un brillante lasso puzzolente fatto di
alghe velenose. Urrà. I primi catoblepi entrarono con passo pensate
nella piazza, ruggendo di rabbia. Gli occhi verdi brillavano sotto le
loro criniere. I loro lunghi musi rilasciavano nuvole di gas, come
macchine a vapore pelose. Frank scoccò una freccia. Provò una
temporanea fitta di colpa. Quelli non erano i mostri peggiori che
avesse mai incontrato. In realtà erano solo animali brucanti che per
caso erano anche velenosi. Hazel sta morendo a causa loro, si
ricordò. Lasciò andare la freccia. Il catoblepa più vicino crollò,
riducendosi in cenere. Scoccò una seconda freccia, ma il resto della
mandria era quasi su di lui. Altri ne stavano arrivando dalla direzione
opposta. Frank si trasformò in un leone. Ruggì in segno di sfida e
balzò verso l’arco, dritto sopra le teste della seconda mandria. I due
gruppi di catoblepi si scontrarono tra loro, ma si ripresero
velocemente e corsero verso di lui. Frank non era stato sicuro che le
radici avrebbero continuato a puzzare quando lui avesse cambiato
forma. Solitamente i suoi vestiti e gli oggetti che aveva addosso si
limitavano a unirsi alla sua forma animale, ma apparentemente
continuava a odorare come una succulenta cena velenosa. Ogni
volta che correva accanto a un catoblepa, questo ruggiva oltraggiato
e si univa alla Parata dell’Uccidiamo Frank! Svoltò in una strada più
ampia e si fece largo tra la folla di turisti. Non aveva idea di quello
che vedevano i mortali, un gatto inseguito da un branco di cani? Le
persone imprecarono contro Frank in circa dodici lingue diverse.
Volavano coni gelato. Una donna fece cadere una pila di maschere
di carnevale. Un tizio cadde nel canale. Quando Frank si guardò
indietro, aveva almeno due dozzine di mostri al suo seguito, ma
aveva bisogno di altri. Aveva bisogno di tutti i mostri di Venezia, e
doveva far sì che quelli dietro di lui continuassero ad essere
arrabbiati. Trovò un passaggio libero tra la folla e si ritrasformò in
umano. Sguainò la spata di Hazel, non era mai stata la sua arma
preferita, ma era abbastanza grande e forte che la pesante spada
non lo infastidiva. Al contrario, era felice per la portata extra. Agitò la
lama dorata, distruggendo il primo catoblepa e lasciando che gli altri
si raggruppassero attorno a lui. Cercò di evitare i loro occhi, ma
poteva avvertire i loro sguardi fissi e brucianti su di lui. Immaginò che
se tutti quei mostri avessero soffiato contro di lui
contemporaneamente, le loro nuvole nocive combinate sarebbero
bastate per farlo sciogliere in una pozzanghera. I mostri si mossero
in avanti e cozzarono uno contro l’altro. Frank urlò, “Volete le mie
radici velenose? Venite a prendervele!” Si trasformò in un delfino e
saltò nel canale. Sperava che i catoblepa non sapessero nuotare.
Perlomeno, sembravano riluttanti nel seguirlo, e lui non poteva
biasimarli. Il canale era disgustoso, maleodorante e salato e caldo
come una zuppa, ma Frank avanzò rapidamente tra le sue acque,
schivando le gondole e i motoscafi, fermandosi di tanto in tanto per
rivolgere qualche insulto nei versi del delfino contro i mostri che lo
inseguivano dai marciapiedi. Quando raggiunse il molo più vicino,
Frank tornò in forma umana, pugnalò qualche altro catoblepa per
mantenerli arrabbiati, e riprese a correre. E così continuò. Dopo un
po’, Frank entrò in una sorta di trance. Attrasse altri mostri, fece
sparpagliare altre folle di turisti, e guidò il seguito ormai enorme di
catoblepa attraverso le strade serpeggianti dell’antica città. Ogni
volta che aveva bisogno di una rapida via di fuga, si gettava nel
canale in forma di delfino, o si trasformava in un’aquila e volava in
alto, ma non si allontanava mai troppo dai suoi inseguitori. Ogni volta
che pensava che i mostri stessero perdendo interesse nei suoi
confronti, si fermava sul tetto di una casa e prendeva il suo arco,
abbattendo qualcuno dei catoblepa al centro della mandria. Agitava
il suo lasso di viticci velenosi e insultava l’alito cattivo dei mostri,
aizzandoli contro di lui. Poi riprendeva a correre. Fece marcia
indietro. Si perse. Una volta svoltò un angolo e si ritrovò davanti la
coda della sua stessa folla inseguitrice. Avrebbe dovuto essere
esausto, tuttavia in qualche modo trovava la forza per continuare a
correre, il che era un bene. La parte più difficile doveva ancora
arrivare. Individuò un paio di ponti, ma non sembravano giusti. Uno
era elevato e completamente coperto; non sarebbe mai riuscito a
farci passare i mostri. Un altro era troppo affollato dai turisti. Anche
se i mostri ignoravano i mortali, quel gas nocivo di certo non era
buono per nessuno. Più grande si faceva la mandria di mostri, più
mortali venivano spinti di lato, buttati in acqua o calpestati. Alla fine
Frank vide qualcosa che avrebbe potuto funzionare. Proprio davanti
a lui, dopo una grande piazza, un ponte di legno attraversava uno
dei canali più ampi. Il ponte in sé era un arco di legno intrecciato,
come una montagna russa vecchio stile, lungo circa cinquanta metri.
Dall’alto, in forma di aquila, Frank non vide nessun mostro in
lontananza. Ogni catoblepa di Venezia sembrava essersi unito alla
mandria e si stava facendo avanti per le strade dietro di lui mentre i
turisti urlavano e si sparpagliavano, forse pensando di essersi
ritrovati nel mezzo di una fuga di cani randagi. Il ponte era privo di
pedoni. Era perfetto. Frank precipitò come una pietra e tornò umano.
Corse fino al centro del ponte, un punto di restringimento naturale, e
lanciò la sua esca di radici velenose sul pavimento alle sue spalle.
Mentre la parte anteriore della mandria di catoblepa raggiungeva
l’inizio del ponte, Frank sguainò la spata dorata di Hazel. “Andiamo!”
urlò. “Volete sapere quanto vale Frank Zhang? Fatevi avanti!” Si
rese conto che non stava solo urlando contro i mostri. Stava
sfogando settimane di paura, rabbia e risentimento. Le voci di Marte
e Ares urlavano insieme a lui. I mostri caricarono. La vista di Frank si
fece rossa. Più tardi, non riuscì a ricordarsi chiaramente tutti i
dettagli. Attaccò con la spada contro i mostri finché non si ritrovò
circondato da polvere gialla che gli arrivava alle caviglie. Ogni volta
che stava per essere sopraffatto e le nuvole di gas iniziavano a
soffocarlo, lui cambiava forma, diventando un elefante, un drago, un
leone, e ogni trasformazione sembrava purificare i suoi polmoni,
dandogli una nuova carica di energia. I suoi mutamenti di forma si
fecero così fluidi, che poteva iniziare un attacco in forma umana con
la sua spada e concluderlo in forma di leone, affondando i suoi artigli
sui musi dei catoblepi. I mostri attaccavano con i loro zoccoli.
Sputavano gas nocivo e fissavano Frank con i loro occhi velenosi.
Avrebbe dovuto morire. Sarebbe dovuto essere schiacciato. Ma in
qualche modo, rimase in piedi, illeso, e sguinzagliò un vortice di
violenza. Non provava nessun tipo di piacere nel farlo, ma non esitò
nemmeno. Pugnalava un mostro e ne affrontava un altro. Si
trasformò in un drago e afferrò un catoblepa affettandolo a metà, poi
mutò in un elefante e ne schiacciò tre contemporaneamente sotto le
sue zampe. La sua vista era ancora tinteggiata di rosso, e si accorse
che i suoi occhi non gli stavano giocando un brutto scherzo. Stava
davvero brillando, era circondato da un’aura rosata. Non capiva il
perché, ma continuò a lottare fino a che non fu rimasto un solo
mostro. Frank lo affrontò con la spada pronta. Era a corto di fiato,
sudato, e ricoperto da polvere di mostro, ma era illeso. Il catoblepa
ringhiò. Non doveva essere il mostro più sveglio di tutti. Malgrado il
fatto che diverse centinaia dei suoi fratelli erano appena morti, lui
non si ritirò. “Marte!” gridò Frank. “Ho dimostrato il mio valore. Ora
ho bisogno di un serpente!” Frank non credeva che qualcuno avesse
mai urlato quelle parole prima d’ora. Era una richiesta abbastanza
strana. Non ebbe nessuna risposta dai cieli. Per una volta, le voci
nella sua testa erano silenziose. Il catoblepa perse la pazienza. Si
lanciò contro Frank e non gli lasciò altra scelta. Affondò la spada.
Non appena la lama colpì il mostro, il catoblepa scomparve in un
lampo di luce rosso sangue. Quando la visione di Frank si schiarì, ai
suoi piedi era acciambellato un pitone del Burmese marrone e
chiazzato. “Ben fatto,” disse una voce familiare. A pochi metri da lui
si trovava suo padre, Marte, con addosso un berretto rosso e una
tuta mimetica color oliva con il distintivo delle Forze Speciali Italiane,
una mitragliatrice sulla schiena. Il suo volto era duro e spigoloso, gli
occhi erano coperti da occhiali da sole neri. “Padre,” balbettò Frank.
Non riusciva a credere a quello che aveva appena fatto. Il terrore
iniziò a sopraffarlo. Sentiva il bisogno di piangere, ma indovinò che
non sarebbe stata una buona idea davanti a Marte. “E’ normale
avere paura.” La voce del dio della guerra era sorprendentemente
calda, carica di orgoglio. “Tutti i grandi guerrieri hanno paura. Solo
quelli stupidi e indegni non la provano. Ma tu hai affrontato la tua
paura, figlio mio. Hai fatto quello che dovevi fare, come Orazio.
Questo era il tuo ponte, e tu l’hai difeso.” “Io…“ Frank non sapeva
cosa dire. “Io… mi serviva solo un serpente.” Un minuscolo sorriso
apparve all’angolo della bocca di Marte. “Sì. E adesso ne hai uno. Il
tuo coraggio ha unito le mie forme, greca e romana, anche solo per
un attimo. Vai. Salva i tuoi amici. Ma ascolta, Frank. Il tuo test più
grande deve ancora arrivare. Quando affronterai l’esercitò di Gea in
Epiro, la tua guida…“ Improvvisamente il dio si piegò su se stesso,
stringendosi la testa. La sua figura vacillò. I suoi vestiti si
trasformarono in una toga, poi nel giacchetto e i jeans di un
motociclista. La sua mitragliatrice divenne una spada e poi un
lanciarazzi. “Agonia!” ruggì Marte. “Vai! Sbrigati!” Frank non fece
domande. Nonostante fosse esausto, si trasformò in un’aquila
gigante, afferrò il pitone con i grossi artigli, e si lanciò in aria.
Quando guardò indietro, un’esplosione in miniatura eruttò dal centro
del ponte, con anelli di fuoco che si riversavano verso l’esterno, e
due voci, Marte e Ares, urlarono, “Noooo!” Frank non sapeva cosa
fosse accaduto, ma non aveva tempo per pensarci. Volò sopra la
città, ora completamente libera dai mostri, e si diresse verso la casa
di Trittolemo. “Ne hai trovato uno!” esclamò il dio dell’agricoltura.
Frank lo ignorò. Si gettò nella Casa Nera, trascinando il pitone dalla
coda come una sacca di Babbo Natale davvero strana, e lo scaricò
accanto al letto. Si inginocchiò al fianco di Hazel. Era ancora viva,
verde e tremante, che respirava a malapena, ma viva. Per quanto
riguardava Nico, lui era ancora una pianta di mais. “Guariscili,” disse
Frank. “Adesso.” Trittolemo incrociò le braccia. “Come faccio a
sapere che il serpente funzionerà?” Frank strinse i denti.
Dall’esplosione sul ponte, le voci del dio della guerra nella sua testa
si erano fatte silenziose, ma avvertiva ancora la loro rabbia
combinata che ribolliva dentro di lui. Si sentiva anche fisicamente
diverso. Era possibile che Trittolemo si fosse abbassato? “Il serpente
è un dono da Marte,” ringhiò Frank. “Funzionerà.” Come se avesse
ricevuto un segnale, il pitone Burmese strisciò fino al carro e si
arrotolò intorno alla ruota di destra. L’altro serpente si svegliò. I due
serpenti di studiarono a vicenda, si toccarono i nasi, poi girarono le
ruote all’unisono. Il carro si mosse in avanti, con le ali che
sbattevano. “Vedi?” disse Frank. “Adesso, cura i miei amici!”
Trittolemo si picchiettò il mento. “Bè, ti ringrazio per il serpente, ma
non sono certo che mi piaccia il tuo tono, semidio. Forse ti trasformo
in un…“ Frank fu più rapido. Si lanciò verso Trit e lo sbatté contro la
parete, con le dita chiuse attorno alla gola del dio. “Pensa alle tue
prossime parole,” avvertì Frank, con un tono mortalmente calmo. “O
invece di trasformare la mia spada in un aratro, te la sbatterò in
testa.” Trittolemo deglutì. “Sai… credo che curerò i tuoi amici.”
“Giuralo sul Fiume Stige.” “Lo giuro sul Fiume Stige.” Frank lo lasciò
andare. Trittolemo si toccò la gola, come per assicurarsi che fosse
ancora là. Fece un sorriso nervoso verso Frank, gli passò accanto, e
si affrettò verso la camera anteriore. “Prendo… prendo solo delle
erbe!” Frank guardò mentre il dio raccoglieva delle foglie e delle
radici e le frantumava in un mortaio. Fece una pallina grande quanto
una pillola fatta di sostanza verde e corse da Hazel. Mise la pallina
viscida sotto la lingua di Hazel. Istantaneamente, lei tremò e si mise
a sedere, tossendo. I suoi occhi si spalancarono. La tinta verdastra
sulla sua pelle scomparve. Si guardò intorno, disorientata, finché
non vide Frank. “Cosa…?” Frank la travolse con un abbraccio.
“Andrà tutto bene,” disse con forza. “Va tutto bene.” “Ma…” Hazel gli
mise la mano sulle spalle e lo fissò stupita. “Frank, cosa ti è
successo?” “A me?” Si alzò, improvvisamente imbarazzato. “Io
non…” Abbassò lo sguardo e capì quello che voleva dire. Trittolemo
non si era abbassato. Frank era più alto. La sua pancia si era ridotta.
Il suo petto sembrava più muscoloso. Frank aveva avuto degli
sviluppi rapidi prima d’ora. Una volta si era svegliato due centimetri
più alto di quando era andato a dormire. Ma quello era da pazzi. Era
come se un po’ del drago e del leone fossero rimasti con lui quando
era tornato umano. “Uh… io non… Forse posso aggiustarlo.” Hazel
rise divertita. “Perché? Sei fantastico!” “D… davvero?” “Voglio dire,
prima eri bellissimo! Ma adesso sembri più adulto e più alto, e così
distinto,“ Trittolemo fece un sospiro drammatico. “Sì, si tratta
ovviamente di qualche tipo di benedizione da Marte.
Congratulazioni, blah, blah, blah. Adesso, se abbiamo finito…?”
Frank lo fissò furioso. “Non abbiamo finito. Cura Nico.” Il dio
dell’agricoltura fece volare gli occhi al cielo. Indicò la pianta di mais,
e BAM! Nico di Angelo apparve con un’esplosione di foglie di
frumento. Nico si guardò intorno nel panico. “Ho… ho fatto l’incubo
più strano di sempre sui popcorn.” Guardò accigliato Frank. “Perché
sei più alto?” “Va tutto bene,” assicurò Frank. “Trittolemo stava per
dirci come sopravvivere alla Casa di Ade. “Non è così, Trit?” Il dio
dell’agricoltura alzò gli occhi al cielo, come a dire, Demetra, perché a
me? “Bene,” disse Trit. “Quando arriverete ad Epiro, vi sarà offerto
un calice dal quale bere.” “Offerto da chi?” chiese Nico. “Non
importa,” scattò Trit. “Sappiate soltanto che è pieno di veleno
mortale.” Hazel tremò. “Quindi stai dicendo che non dobbiamo
berlo.” “No!” disse Trit. “Dovete berlo, o non sarete mai in grado di
attraversare il tempio. Il veleno vi collega al mondo dei morti, vi
permette di passare nei livelli più bassi. Il segreto per sopravvivergli
è…” i suoi occhi luccicarono “…l’orzo.” Frank lo fissò. “L’orzo.” “Nella
stanza anteriore, prendete un po’ del mio orzo speciale. Fateci alcuni
pasticcini. Mangiateli prima di entrare nella Casa di Ade. L’orzo
assorbirà il peggio del veleno, così che vi farà effetto, ma non vi
ucciderà.” “Tutto qui?” chiese Nico. “Ecate ci ha fatto attraversare
mezza Italia così che tu potevi dirci di mangiare dell’orzo?” “Buona
fortuna!” Trittolemo attraversò la stanza di corsa e saltò nel suo
carro. “E, Frank Zhang, ti perdono! Hai fegato. Se mai decidessi
cambiare idea, la mia offerta è sempre valida. Mi piacerebbe
tantissimo vederti prendere una laurea in agricoltura!” “Sì,” borbottò
Frank. “Grazie.” Il dio tirò una leva del carro. Le ruote-serpenti
girarono. Le ali sbatterono. Sul retro della stanza, le porte del garage
si aprirono. “Oh, di nuovo in movimento!” urlò Trit. “Così tante terre
ignoranti che hanno bisogno della mia conoscenza. Insegnerò loro le
glorie della coltivazione, irrigazione, fertilizzazione!” Il carro si sollevò
da terra e scattò verso l’esterno, con Trittolemo che urlava verso il
cielo, “Via, miei serpenti! Via!” “Questo,” disse Hazel, “è stato molto
strano.” “Le glorie della fertilizzazione.” Nico si spazzò via qualche
foglia di frumento dalle spalle. “Possiamo uscire da qui adesso?”
Hazel mise la mano sulla spalla di Frank. “Stai bene, davvero? Hai
contrattato per le nostre vite. Cosa ti ha fatto fare Trittolemo?” Frank
cercò di mantenere il controllo. Si rimproverò del fatto che si sentiva
così debole. Poteva affrontare un esercito di mostri, ma non appena
Hazel gli mostrava la sua gentilezza, lui voleva strillare e piangere.
“Quei mostri mucca… i catoblepi che ti hanno avvelenata… ho
dovuto distruggerli.” “E’ stato coraggioso,” disse Nico. “Ce ne
dovevano essere, quanti, sei o sette rimasti in quella mandria.” “No.”
Frank si schiarì la gola. “Tutti. Ho ucciso tutti quelli della città.” Nico e
Hazel lo fissarono in un silenzio sconvolto. Frank temeva che
potessero dubitare di lui, o iniziare a ridere. Quanti mostri aveva
ucciso su quel ponte, duecento? Trecento? Ma vide nei loro occhi
che gli credevano. Erano figli dell’Oltretomba. Forse potevano
avvertire la morte e la carneficina che aveva affrontato. Hazel lo
baciò sulla guancia. Adesso doveva sollevarsi in punta di piedi per
farlo. I suoi occhi erano incredibilmente tristi, come se si fosse resa
conto che qualcosa in Frank era cambiato, qualcosa di molto più
importante della crescita fisica. Anche Frank lo sapeva. Non sarebbe
stato mai più lo stesso. Solo che non sapeva se fosse una buona
cosa. “Bè,” disse Nico, spezzando la tensione, “qualcuno di voi sa
che aspetto abbia l’orzo?”
21

ANNABETH

Annabeth aveva deciso che non sarebbero stati i mostri a ucciderla.


Né lo avrebbe fatto l’atmosfera velenosa, o il pericoloso paesaggio
con i suoi abissi, precipizi e rocce acuminate. No. Molto più
probabilmente sarebbe morta da un sovraccarico di stranezze che le
avrebbero fatto esplodere la testa. Prima, lei e Percy avevano
dovuto bere del fuoco per sopravvivere. Poi erano stati attaccati da
un gruppo di vampiri, guidate da una cheerleader che Annabeth
aveva ucciso due anni prima. Alla fine, erano stati salvati da un
Titano bidello di nome Bob che aveva dei capelli alla Einstein, occhi
argentati, e una scopa mortale. Certo. Perché no? Seguirono Bob
attraverso la terra desolata, procedendo lungo il percorso del
Flegetonte mentre si avvicinavano al banco di oscurità. Ogni tanto si
fermavano per bere l’acqua di fuoco, che li teneva in vita ma
Annabeth non ne era molto contenta. In gola aveva la sensazione di
fare continui gargarismi con l’acido di batteria. Il suo unico conforto
era Percy. Di tanto in tanto la guardava e sorrideva, o le stringeva la
mano. Doveva essere spaventato e abbattuto proprio come lo era
lei, e lei lo amava per il fatto che cercasse di farla sentire meglio.
“Bob sa quello che sta facendo,” assicurò Percy. “Hai degli amici
interessanti,” mormorò Annabeth. “Bob è interessante!” Il Titano si
voltò e fece un grosso sorriso. “Sì, grazie!” Il ragazzone aveva delle
buone orecchie. Annabeth doveva ricordarselo. “Allora, Bob…”
Cercò di suonare indifferente e amichevole, che non era cosa facile
con la gola irritata dall’acqua di fuoco. “Come sei arrivato nel
Tartaro?” “Sono saltato,” disse, come se fosse ovvio. “Sei saltato nel
Tartaro,” disse lei, “perché Percy ha detto il tuo nome?” “Aveva
bisogno di me.” Quegli occhi d’argento brillavano nell’oscurità. “Va
tutto bene. Ero stanco di pulire il palazzo. Venite! Siamo quasi
arrivati in un’area di sosta.” Area di sosta. Annabeth non riusciva a
immaginare cosa volessero dire quelle parole nel Tartaro. Ricordava
tutte le volte in cui lei, Luke e Talia si erano affidati alle aree di sosta
delle autostrade quando erano semidei senza casa, cercando di
sopravvivere. Ovunque li stesse portando Bob, sperava che ci
fossero bagni puliti e una macchinetta delle merendine. Soffocò una
risatina. Sì, stava senza dubbio perdendo la testa. Annabeth avanzò
zoppicando, cercando di ignorare il brontolio nella pancia. Fissò la
schiena di Bob mentre lui li guidava verso la parete di oscurità, che
adesso si trovava solo a poche centinaia di metri. La sua tuta blu da
bidello era strappata tra le scapole, come se qualcuno avesse
cercato di pugnalarlo. Stracci per pulire gli uscivano dalle tasche.
Una bottiglietta spray oscillava legata alla sua cintura, con il liquido
blu al suo interno che si agitava in maniera ipnotica. Annabeth
ricordò la storia di Percy su come aveva incontrato il Titano. Talia
Grace, Nico di Angelo e Percy avevano combattuto insieme per
sconfiggere Bob sulle rive del Lete. Dopo aver ripulito la sua
memoria, non avevano avuto il coraggio di ucciderlo. Era diventato
così gentile, dolce e collaborativo che lo avevano lasciato al palazzo
di Ade, dove Persefone aveva promesso loro che si sarebbero presi
cura di lui. Apparentemente, il re e la regina dell’Oltretomba
pensavano che “prendersi cura” di qualcuno volesse dire dargli una
scopa e fargli ripulire i loro pasticci. Annabeth si chiese come
persino Ade potesse essere così insensibile. Non si era mai sentita
dispiaciuta per un Titano prima d’ora, ma non sembrava giusto
prendere un immortale senza memoria e trasformarlo in un custode
non pagato. Non è tuo amico, ricordò a se stesa. Era terrorizzata
all’idea che Bob potesse improvvisamente ricordarsi di sé. Il Tartaro
era dove andavano i mostri per rigenerarsi. E se questo li guariva la
memoria? Se tornava ad essere Giapeto… bè aveva visto cosa
aveva fatto a quelle Empousai. Annabeth non aveva nessuna arma.
Lei e Percy non erano nelle condizioni di combattere un Titano.
Guardò nervosamente il manico della scopa di Bob, chiedendosi
quanto tempo ci sarebbe voluto prima che la sua punta di lancia
nascosta venisse puntata contro di lei. Seguire Bob attraverso il
Tartaro era un rischio assurdo. Sfortunatamente, non riusciva a
pensare a nessun piano migliore. Si fecero strada attraverso il
deserto di cenere mentre dei lampi rossi brillavano sopra di loro tra
le nuvole nocive. Solo un altro delizioso giorno nelle segrete della
creazione. Annabeth non riusciva a vedere molto in là nell’aria
nebbiosa, ma più camminavano, più era certa che l’intero paesaggio
fosse una curva che procedeva in discesa. Aveva sentito delle
descrizioni contrastanti sul Tartaro. Era un abisso senza fine. Era
una fortezza circondata da muri d’ottone. Non era nient’altro che un
nulla eterno. Una storia lo descriveva come l’inverso del cielo, un
enorme, vuota cupola capovolta fatta di roccia. Quella sembrava la
più accurata, sebbene, se il Tartaro era una cupola, Annabeth
pensava che fosse come il cielo, senza una vera fine ma fatto di
multipli livelli, ciascuno più scuro e meno ospitabile di quello
precedente. E persino quella non era la completa, orribile verità….
Passarono accanto a una bolla nel terreno, una traslucida vescica
che si agitava grande come un minivan. Avvolto all’interno c’era il
corpo per metà formato di un dragone. Bob impalò la bolla con la
sua lancia senza nemmeno pensarci. Questa scoppiò in un geyser di
fumante sostanza gialla, e il dragone si dissolse nel nulla. Bob
riprese a camminare. I mostri sono dei foruncoli sulla pelle del
Tartaro, pensò Annabeth. Tremò. Qualche volta desiderava non
avere un’immaginazione così buona, perché adesso era certa che
stavano camminando su una cosa viva. Tutto quel paesaggio
contorto, la cupola, l’abisso, o comunque lo si volesse chiamare, era
il corpo del dio Tartaro, la più antica incarnazione del male. Proprio
come Gea abitava la superficie della terra, Tataro abitava l’abisso.
Se quel dio li notava camminare sulla sua pelle, come mosche su un
cane… Basta così. Non doveva più pensare. “Qui,” disse Bob. Si
fermarono sulla sommità di una cresta. Sotto di loro, in una
depressione avvallata simile a un cratere lunare, c’era un anello di
colonne di marmo nero distrutte che circondavano uno scuro altare
di pietra. “Il tempio di Hermes,” spiegò Bob. Percy si accigliò. “Un
tempio di Hermes nel Tartaro?” Bob rise di gusto. “Sì. Cadde da
qualche parte molto tempo fa. Forse dal mondo mortale. Forse
dall’Olimpo. Ad ogni modo, i mostri ne stanno alla larga. Il più delle
volte.” “Come facevi a sapere che era qui?” chiese Annabeth. Il
sorriso di Bob svanì. Gli apparve uno sguardo vago negli occhi. “Non
riesco a ricordare.” “Non fa niente,” disse Percy velocemente.
Annabeth voleva prendersi a calci. Prima che Bob fosse Bob, era
stato Giapeto il Titano. Come tutti i suoi fratelli, era stato imprigionato
nel Tartaro per secoli. Era ovvio che conoscesse il posto. Se si
ricordava del tempio, avrebbe potuto iniziare a ricordare altri dettagli
della sua vecchia prigione e della sua vecchia vita. Quella non
sarebbe stata una buona cosa. Raggiunsero il cratere ed entrarono
nell’anello di colonne. Annabeth crollò su una lastra spezzata di
marmo, troppo esausta per fare un altro passo. Percy rimase in piedi
accanto a lei con fare protettivo, studiando il paesaggio circostante.
Il banco di tempesta color inchiostro adesso si trovava a meno di
trenta metri, oscurando tutto quello che avevano davanti. Il bordo del
cratere bloccava alla loro vista quello che avevano alle spalle.
Sarebbero stati ben nascosti là, ma se i mostri li avessero trovati,
loro non avrebbero potuto accorgersene in anticipo. “Hai detto che
qualcuno ci stava inseguendo,” disse Annabeth. “Chi?” Bob passò la
sua scopa intorno alla base dell’altare, chinandosi occasionalmente
per studiare il terreno come se stesse cercando qualcosa. “Ci stanno
seguendo, sì. Sanno che siete qui. Giganti e Titani. Quelli sconfitti.
Loro sanno.” Quelli sconfitti… Annabeth cercò di controllate la sua
paura. Quanti Titani e giganti avevano combattuto lei e Percy nel
corso degli anni? Ognuno era sembrato una sfida impossibile. Se
tutti loro si trovavano laggiù nel Tartaro, e se stavano attivamente
dando la caccia a Percy e Annabeth… “Perché ci fermiamo allora?”
disse lei. “Dovremmo continuare a camminare.” “Presto,” disse Bob.
“Ma i mortali hanno bisogno di riposo. Qui è un buon posto. Il miglio
posto per… oh, molta, molta strada. Farò io la guardia.” Annabeth
guardò Percy, mandandogli il muto messaggio: Uh, no. Era già
abbastanza brutto andare in giro con un Titano. Dormire mentre un
Titano faceva la guardia su di te… non aveva bisogno di essere una
figlia di Atena per sapere che era al cento per cento non saggio. “Tu
dormi,” le disse Percy. “Io farò il primo turno di guardia con Bob.”
Bob ruggì d’accordo. “Sì, bene. Quando ti sveglierai, il cibo dovrebbe
essere qui!” Lo stomaco di Annabeth fece una capriola sentendo
parlare di cibo. Non vedeva come Bob potesse evocare del cibo nel
bel mezzo del Tartaro. Forse oltre ad essere un custode era anche
un addetto al catering. Non voleva dormire, ma il suo corpo la tradì. I
suoi occhi si fecero di piombo. “Percy, svegliami per il secondo
turno. Non fare l’eroe.” Lui le rivolse quel sorriso furbo che lei era
arrivata ad amare. “Chi, io?” La baciò, con le labbra secche e
febbrilmente calde. “Dormi.” Annabeth si sentiva come se si trovasse
di nuovo nella cabina di Hypnos al Campo Mezzosangue, sopraffatta
dalla sonnolenza. Si rannicchiò sul terreno duro e chiuse gli occhi.
22

ANNABETH

In seguito, Annabeth prese una decisione: mai, MAI dormire nel


Tartaro. I sogni dei semidei erano sempre brutti. Anche al sicuro nel
suo letto del campo, aveva fatto degli incubi orribili. Nel Tartaro,
erano un migliaio di volte più vividi. All’inizio, era tornata ad essere
una bambina piccola che lottava per salire sulla Collina
Mezzosangue. Luke Castellan le teneva la mano, tirandola dietro di
lui. Il loro satiro guida, Grover Underwood, saltellava nervosamente
sulla cima urlando, “Sbrigatevi! Sbrigatevi!” Talia Grace si trovava
dietro di loro, intenta a trattenere un esercito di segugi infernali con il
suo scudo che emanava terrore, Aegis. Dalla cima della collina
Annabeth poteva vedere il campo nella valle sotto di loro, le calde
luci delle cabine, la possibilità di un luogo sicuro. Inciampò,
storcendosi la caviglia, e Luke la prese in braccio per trasportarla.
Quando si guardarono indietro, i mostri si trovavano a soli pochi
metri di distanza, e diverse dozzine di loro stavano circondando
Talia. “Andate!” gridò Talia. “Li tratterrò io.” Brandì la sua lancia, e
delle saette ramificate si diffusero attraverso i ranghi dei mostri; ma
mentre i segugi infernali cadevano, altri prendevano il loro posto.
“Dobbiamo correre!” gridò Grover. Fece loro strada verso il campo.
Luke lo seguì, con Annabeth che piangeva, battendogli sul petto, e
urlando che non potevano lasciare Talia da sola. Ma era troppo tardi.
La scena mutò. Annabeth era più grande, e stava salendo verso la
cima della Collina Mezzosangue. Nel punto in cui Talia era caduta,
adesso sorgeva un alto pino. Nel cielo stava rombando una
tempesta. I tuoni scuotevano la vallata. Un lampo spaccò l’albero
fino alle sue radici, aprendo una crepa fumante. Nell’oscurità in
basso si trovava Reyna, il pretore di Nuova Roma. Il suo mantello
era del colore del sangue fresco che scorre nelle vene. La sua
armatura dorata luccicava. Alzò lo sguardo, il volto regale e distante,
e parlò nella mente di Annabeth. Hai agito bene, disse Reyna, ma la
voce era quella di Atena. Il resto del mio viaggio deve avvenire sulle
ali di Roma. Gli scuri occhi del pretore divennero grigi come la
tempesta. Devo stare qui, le disse Reyna. Devono portarmi i romani.
La collina tremò. Il terreno si increspò mentre l’erba si trasformava
nelle pieghe di seta di un vestito, quello di una dea gigantesca. Gea
si alzò incombendo sul Campo Mezzosangue, il suo volto
addormentato era grande come una montagna. I segugi infernali si
riversarono dalla collina. Giganti, Figli della Terra dalle sei braccia, e
Ciclopi selvaggi attaccarono dalla spiaggia, abbattendo il padiglione
della cena, dando fuoco alle cabine e alla Casa Grande. Sbrigati,
disse la voce di Atena. Il messaggio deve essere inviato. Il terreno
sotto i piedi di Annabeth si spaccò, e lei cadde nell’oscurità. I suoi
occhi si aprirono di scattò. Urlò, afferrando le braccia di Percy. Si
trovava ancora nel Tartaro, al tempio di Hermes. “Va tutto bene,” la
rassicurò Percy. “Brutti sogni?” Il suo corpo tremò dal terrore. “E’… è
il mio turno di guardia?” “No, no. Non c’è bisogno. Ti ho lasciata
dormire.” “Percy!” “Ehi, va bene così. Inoltre, ero troppo emozionato
per dormire. Guarda.” Bob il Titano era seduto a gambe incrociate
accanto all’altare, intento a sgranocchiare felice un pezzo di pizza.
Annabeth si stropicciò gli occhi, chiedendosi se stesse ancora
sognando. “Quella è… pizza con il salame?” “Offerte del falò,” disse
Percy. “Sacrifici per Hermes dal mondo mortale, credo. Sono
apparse con una nuvola di fumo. Abbiamo metà hot dog, un po’ di
uva, un piatto di roastbeef, e un pacchetto di M&M’s.” “M&M’s per
Bob!” disse Bob contento. “Uh, va bene?” Annabeth non protestò.
Percy le portò il piatto di roastbeef, e lei lo divorò. Non aveva mai
mangiato nulla di così buono. La carne era ancora calda, con la
stessa identica salsa piccante del barbecue del Campo
Mezzosangue. “Lo so,” disse Percy, leggendo la sua espressione.
“Credo che venga dal Campo Mezzosangue.” L’idea diede ad
Annabeth le vertigini per la malinconia. Con ogni pasto, i
campeggiatori bruciavano una porzione del loro cibo per onorare i
loro genitori divini. Apparentemente il fumo era apprezzato dagli dei,
ma Annabeth non aveva mai pensato a dove andasse a finire il cibo
che veniva bruciato. Forse le offerte ricomparivano sugli altari degli
dei sull’Olimpo… o persino lì, nel bel mezzo del Tartaro. “M&M’s agli
arachidi,” disse Annabeth. “Connors Stoll ne brucia sempre un pacco
per suo padre a cena.” Pensò di essere seduta nel padiglione della
cena, guardando il tramonto sul Long Island Sound. Quello era stato
il primo posto dove lei e Percy si erano veramente baciati. Le
pungevano gli occhi Percy le mise la mano sulla spalla. “Hey, è una
cosa bella. Del vero cibo da casa, no?” Lei annuì. Finirono di
mangiare in silenzio. Bob masticò gli ultimi M&M’s. “Adesso
dovremmo andare. Saranno qui tra pochi minuti.” “Tra pochi minuti?”
Annabeth fece per prendere il suo pugnale, poi si ricordo che non
l’aveva più. “Sì… bè, credo che siano minuti…” Bob si grattò la testa
argentata. “Il tempo è difficile nel Tartaro. Non è lo stesso.” Percy si
avvicinò al bordo del cratere. Sbirciò nella direzione dalla quale
erano venuti. “Non vedo nulla, ma questo non significa molto. Bob, di
quali giganti stiamo parlando? Quali Titani?” Bob grugnì. “Non sono
certo dei nomi. Sei, forse sette. Riesco ad avvertirli.” “Sei o sette?”
Annabeth non era sicura che la carne sarebbe rimasta nel suo
stomaco. “E loro possono avvertire te?” “Non so.” Bob sorrise. “Bob
è diverso! Ma possono sentire l’odore dei semidei, sì. Voi due avete
un odore molto forte. Un buon forte. Come… hmm. Come pane
imburrato!” “Pane imburrato,” disse Annabeth. “Bè, è fantastico.”
Percy tornò all’altare. “E’ possibile uccidere un gigante nel Tartaro?
Voglio dire, dal momento che non abbiamo un dio che ci aiuta?”
Guardò Annabeth come se lei potesse avere la risposta. “Percy, non
lo so. Viaggiare nel Tartaro, combattere i mostri qui… non è mai
stato fatto prima. Forse Bob potrebbe aiutarci ad uccidere un
gigante? Forse un Titano potrebbe contare come dio? Non lo so
proprio.” “Già,” disse Percy. “Okay.” Poteva vedere la
preoccupazione nei suoi occhi. Per anni, lui era dipeso da lei per le
risposte. Adesso, quando aveva più bisogno di lei, non poteva
aiutarlo. Detestava essere così ignara, ma nulla di tutto quello che
aveva mai imparato al campo l’aveva preparata per il Tartaro. C’era
solo una cosa della quale era certa: dovevano continuare a
muoversi. Non potevano essere raggiunti da sei o sette immortali
malvagi. Si alzò, ancora disorientata a causa dei suoi incubi. Bob
iniziò a ripulire, raccogliendo la loro spazzatura in una piccola pila,
usando il suo spruzzino per lavare l’altare. “Adesso dove si va?”
chiese Annabeth. Percy indicò il tempestoso muro di oscurità. “Bob
dice da quella parte. A quanto pare le Porte della Morte…“ “Glielo
hai detto?” Annabeth non voleva suonare così dura, ma Percy
sussultò. “Mentre dormivi,” ammise. “Annabeth, Bob ci può aiutare.
Abbiamo bisogno di una guida.” “Bob aiuta!” concordò Bob. “Nelle
Terre Oscure. Le Porte della Morte… hm, andare dritti verso di loro
sarebbe una brutta cosa. Troppi mostri si sono riuniti là. Persino Bob
non potrebbe spazzarne via così tanti. Ucciderebbero Percy e
Annabeth in circa due secondi.” Il Titano si accigliò. “Credo che
siano secondi. Il tempo è difficile nel Tartaro.” “Va bene,” brontolò
Annabeth. “Allora c’è un’altra strada?” “Nascondendoci,” disse Bob.
“La Foschia di Morte potrebbe nascondervi.” “Oh…”
Improvvisamente Annabeth si sentì molto piccola nell’ombra del
Titano. “Uh, cos’è la Foschia di Morte?” “E’ pericoloso,” disse Bob,
“Ma se la signora vi darà la Foschia di Morte, questa potrebbe
nascondervi. Se riusciamo a evitare Notte. La signora è molto vicina
a Notte. E’ brutto.” “La signora,” ripeté Percy. “Sì.” Bob indicò il buio
inchiostro davanti a loro. “Dovremmo andare.” Percy guardò
Annabeth, ovviamente sperando in qualche consiglio, ma lei non ne
aveva nessuno. Stava pensando al suo incubo, il pino di Talia ridotto
in schegge dai lampi, Gea che sorgeva sulla collina e sguinzagliava i
suoi mostri sul Campo Mezzosangue. “Okay, allora,” disse Percy.
“Immagino che andremo a trovare una signora per un po’ di Foschia
di Morte.” “Aspetta,” disse Annabeth. La sua mente stava fremendo.
Pensò al sogno di Luke e Talia. Richiamò alla mente le storie che
Luke le aveva raccontato su suo padre, Hermes, dio dei viaggiatori,
guida agli spiriti dei morti, dio delle comunicazioni. Fissò l’altare
nero. “Annabeth?” Percy suonava preoccupato. Arrivò fino alla pila di
spazzatura e prese un tovagliolo di carta abbastanza pulito. Ricordò
della sua visione di Reyna, in piedi nell’apertura fumante sotto le
rovine dell’albero di Talia, che le parlava attraverso la voce di Atena:
Devo stare qui. Devono portarmi i romani. Sbrigati. Il messaggio
deve essere inviato. “Bob,” disse lei, “le offerte che vengono bruciate
nel mondo mortale compaiono su questo altare, giusto?” Bob si
accigliò a disagio, come se non fosse pronto per un quiz a sorpresa.
“Sì?” “Allora cosa succede se brucio qualcosa sull’altare qui?”
“Uh…” “Va tutto bene,” disse Annabeth. “Non lo sai. Nessuno lo sa,
perché non è mai stato fatto.” C’era una possibilità, pensò, solo la
più piccola delle possibilità che un’offerta bruciata su quell’altare
potesse comparire al Campo Mezzosangue. Non era certo, ma se
funzionava davvero… “Annabeth?” disse Percy di nuovo. “Stai
pianificando qualcosa. Hai quell’espressione da sto-pianificando-
qualcosa.” “Non ho un’espressione da sto-pianificando-qualcosa.”
“Sì, ce l’hai. Inarchi le sopracciglia e stringi le labbra e…“ “Hai una
penna?” gli chiese. “Stai scherzando, vero?” Tirò fuori Vortice. “Sì,
ma ci puoi davvero scrivere?” “Non… non lo so,” ammise lui. “Non ci
ho mai provato.” Tolse il tappo alla penna. Come sempre, questa si
espanse fino a diventare una spada. Annabeth lo aveva visto fare
centinaia di volte. Normalmente, quando combatteva, Percy si
limitava a gettare via il tappo. Più tardi gli ricompariva sempre in
tasca, quando ne aveva bisogno. Quando toccava la punta della
spada con il tappo, l’arma si ritrasformava in una penna. “Che
succede se metti il tappo sull’altra estremità della spada?” disse
Annabeth. “Mettendolo dove metteresti normalmente il tappo se
dovessi davvero scrivere con la penna.” “Uh…” Percy sembrava
dubbioso, ma toccò l’elsa della spada con il tappo. Vortice rimpicciolì
nuovamente tornando a essere una penna, ma adesso la punta per
scrivere era esposta. “Posso?” Annabeth la prese. Appiattì il
tovagliolo sull’altare e iniziò a scrivere. L’inchiostro di Vortice brillò
del colore del bronzo Celeste. “Cosa stai facendo?” chiese Percy.
“Invio un messaggio,” disse Annabeth. “Spero solo che Rachel lo
riceva.” “Rachel?” chiese Percy. “Intendi la nostra Rachel? Rachel
Oracolo di Delfi?” “Quella.” Annabeth soffocò un sorriso. Ogni volta
che nominava Rachel, Percy diventava nervoso. Un tempo, Rachel
aveva avuto un interesse per Percy. Quella era storia antica. Adesso
lei e Annabeth erano buone amiche. Ma ad Annabeth non
dispiaceva rendere Percy un po’ nervoso. Era giusto tenere un po’
sulle spine il proprio ragazzo. Annabeth finì di scrivere il suo
messaggio e ripiegò il tovagliolo. Sulla parte esterna, scrisse:
Connors, Dallo a Rachel. Non è uno scherzo. Non fare lo stupido.
Con affetto, Annabeth Fece un respiro profondo. Stava chiedendo a
Rachel Dare di fare qualcosa di ridicolamente pericoloso, ma era
l’unico modo al quale riusciva a pensare per poter comunicare con i
romani, l’unico modo che avrebbe potuto evitare un massacro.
“Adesso devo solo bruciarlo,” disse. “Qualcuno ha un fiammifero?”
La punta della lancia di Bob spuntò dal manico della sua scopa.
Produsse delle scintille contro l’altare ed eruttò con fiamme
argentee. “Uh, grazie.” Annabeth accese il tovagliolo e lo mise
sull’altare. Guardò mentre questo si riduceva in cenere e si chiese
se fosse pazza. Il fumo sarebbe davvero riuscito ad attraversare il
Tartaro? “Adesso dovremmo andare,” avvertì Bob. “Davvero,
davvero andare. Prima di essere uccisi.” Annabeth fissò la parete di
oscurità davanti a loro. Da qualche parte là dentro c’era una signora
che distribuiva una Foschia di Morte che avrebbe potuto celarli ai
mostri, un piano raccomandato da un Titano, uno dei loro nemici più
malvagi. Un’altra dose di stranezza per farle esplodere la testa. “Va
bene,” disse. “Sono pronta.”
23

ANNABETH

Annabeth andò letteralmente a sbattere contro il secondo Titano.


Dopo essere entrati nel banco di tempesta, arrancarono per quelle
che sembrarono ore, facendo affidamento sulla luce del bronzo
Celeste della spada di Percy, e su Bob, che brillava debolmente nel
buio come uno strano tipo di angelo custode. Annabeth riusciva a
vedere solo a un metro e mezzo davanti a lei. In uno strano modo, le
Terre Oscure le ricordavano di San Francisco, dove viveva suo
padre durante quei pomeriggi estivi quando i banchi di nebbia
avanzavano rotolando come fossero fatti di freddo e umido materiale
da imballaggio e inghiottivano il quartiere del Pacific Heights. Solo
che là nel Tartaro, la foschia era fatta di inchiostro. Le rocce
sbucavano dal nulla. Gli abissi comparivano ai loro piedi, e Annabeth
riusciva a malapena a non cadere. Ruggiti mostruosi riecheggiavano
nel buio, ma Annabeth non riusciva a dire da dove venissero. Tutto
quello di cui poteva essere certa era che il terreno andava ancora in
discesa. In discesa sembrava essere l’unica direzione permessa nel
Tartaro. Se Annabeth tornava indietro anche di un solo passo, si
sentiva stanca e pensate, come se la gravità aumentasse per
scoraggiarla. Assumendo che l’intero abisso fosse il corpo di Tartaro,
Annabeth aveva l’orribile sensazione che stessero marciando dritti
lungo la sua gola. Era così presa da quel pensiero, che non notò la
sporgenza finché non fu troppo tardi. Percy gridò, “Whoa!” Cercò di
afferrarle il braccio, ma lei stava già cadendo. Fortunatamente, si
trattava solo di una piccola depressione del terreno. La maggior
parte di essa era occupata da una bolla di mostro. Fece un
atterraggio morbido su una superficie calda sulla quale rimbalzò e si
sentì fortunata, finché non aprì gli occhi e si ritrovò a fissare,
attraverso una brillante membrana dorata, un volto molto più grande
del suo. Gridò e si dibatté, cadendo a un lato della bolla. Il suo cuore
fece un centinaio di salti. Percy l’aiuto ad alzarsi. “Stai bene?” Non si
fidava a rispondere. Se apriva la bocca, avrebbe potuto urlare di
nuovo, e la cosa non sarebbe stata dignitosa. Era una figlia di Atena,
non la ragazzina urlante di qualche film horror. Ma, dei dell’Olimpo…
avvolto nella bolla di membrana davanti a lei c’era un Titano
completamente formato con l’armatura dorata e la pelle del colore di
monetine lucidate. Aveva gli occhi chiusi, ma era così accigliato che
sembrava essere in procinto di lanciare un raccapricciante grido di
guerra. Persino attraverso la bolla, Annabeth poteva avvertire il
calore che si irradiava dal suo corpo. “Iperione,” disse Percy. “Lo
detesto.” Improvvisamente la spalla di Annabeth le cominciò a far
male in ricordo di una vecchia ferita. Durante la Battaglia di
Manhattan, Percy aveva combattuto alla Riserva contro questo
Titano, acqua contro fuoco. Era stata la prima volta nella quale
Percy aveva invocato un uragano, che era una cosa che Annabeth
non si sarebbe mai dimenticata. “Pensavo che Grover l’avesse
trasformato in un albero di acero.” “Sì,” annuì Percy. “Forse l’acero è
morto, e lui è riapparso qui?” Annabeth ricordò di come Iperione
aveva invocato potenti esplosioni, e quanti satiri e ninfe aveva
distrutto prima che Percy e Grover lo fermassero. Stava per
suggerire di far scoppiare la bolla di Iperione prima che si
svegliasse. Sembrava pronto a uscirne in qualsiasi momento e
iniziare ad arrostire qualsiasi cosa sul suo cammino. Poi guardò
verso Bob. Il Titano argentato stava studiando Iperione con le
sopracciglia corrucciate dalla concentrazione, forse per
riconoscimento. I loro volti si assomigliavano così tanto…. Annabeth
si rimangiò un’imprecazione. Certo che si assomigliavano. Iperione
era suo fratello. Iperione era il signore Titano dell’est. Giapeto, Bob,
era il signore dell’ovest. Togliendo la scopa di Bob e i suoi vestiti da
custode, mettendolo in un armatura e tagliandoli i capelli, cambiando
il tono della pelle da argento a oro, ecco che Giapeto sarebbe
diventato quasi indistinguibile da Iperione. “Bob,” disse lei,
“dovremmo andare.” “Oro, non argento,” mormorò Bob. “Ma mi
assomiglia.” “Bob,” disse Percy. “Ehi, amico, vieni qui.” Il Titano si
voltò con riluttanza. “Sono tuo amico?” chiese Percy. “Sì.” Bob
suonava pericolosamente incerto. “Noi siamo amici.” “Tu sai che ci
sono alcuni mostri che sono buoni,” disse Percy. “E altri che sono
cattivi.” “Umm,” disse Bob. “Come… le belle signore fantasma che
servono Persefone sono buone. Gli zombie che esplodono sono
cattivi.” “Esatto,” disse Percy. “E alcuni mortali sono buoni, e altri
cattivi. Bè, la stessa cosa vale per i Titani.” “Titani…” Bob incombeva
su di loro, brillando. Annabeth era piuttosto sicura che il suo ragazzo
avesse appena commesso un grosso errore. “E’ quello che sei,”
disse Percy con tono calmo. “Il Titano Bob. Tu sei buono. Infatti, sei
fantastico. Ma alcuni Titani non lo sono. Questo qui, Iperione, è
completamente cattivo. Ha cercato di uccidermi… ha cercato di
uccidere un sacco di persone.” Bob sbatté i suoi occhi argentati. “Ma
sembra… la sua faccia è così…“ “Assomiglia a te,” concordò Percy.
“Lui è un Titano, come te. Ma non è buono come lo sei tu.” “Bob è
buono.” Le sue dita si strinsero attorno al manico della sua scopa.
“Sì. Ce n’è sempre almeno uno buono, mostri, Titani, giganti.” “Uh…”
Percy storse la bocca. “Bè, non sono certo per quanto riguarda i
giganti.” “Oh, sì.” Bob annuì con vigore. Annabeth avvertiva che
erano già rimasti in quel posto troppo a lungo. I loro inseguitori si
sarebbero avvicinati. “Dovremmo andare,” li incitò. “Che facciamo
con…?” “Bob,” disse Percy, “la scelta è tua. Iperione fa parte della
tua razza. Potremmo lasciarlo stare, ma se si sveglia…“ La lancia-
scopa di Bob entrò in azione. Se avesse mirato ad Annabeth o
Percy, sarebbero stati affettai a metà. Invece, Bob affettò la bolla
mostruosa, che scoppiò in un geyser di calda fanghiglia dorata.
Annabeth si ripulì la sostanza di Titano dagli occhi. Al posto di
Iperione, non c’era nulla eccetto un cratere fumante. “Iperione è un
Titano cattivo,” annunciò Bob, con espressione seria. “Adesso non
potrà più far del male ai miei amici. Dovrà riformarsi da qualche altra
parte nel Tartaro. Speriamo che ci metterà parecchio tempo.” Gli
occhi del Titano apparivano più brillanti del solito, come se stesse
per piangere argento vivo. “Grazie, Bob,” disse Percy. Come riusciva
a rimanere così controllato? Il modo in cui parlava a Bob lasciava
Annabeth impressionata… e forse anche un po’ nervosa. Se Percy
era stato serio, quando aveva detto di lasciare la scelta a Bob, allora
non le piaceva tutta la fiducia che riponeva nel Titano. Se aveva
manipolato Bob per fargli prendere quella decisione… bè, allora
Annabeth era sconvolta dal fatto che Percy potesse essere così
calcolatore. Lui incrociò il suo sguardo, ma lei non riuscì a leggere la
sua espressione. Anche quello la fece innervosire. “Faremo meglio a
riprendere,” disse lui. Lei e Percy seguirono Bob, con le macchie di
fango dorato proveniente dall’esplosione della bolla di Iperione che
brillavano sulla sua divisa da custode.
24

ANNABETH

Dopo un po’, i piedi di Annabeth divennero simili al fango di Titano.


Continuò a camminare, seguendo Bob, ascoltando il monotono
sciabordio del liquido nella sua bottiglia spray. Rimani in guardia, si
disse, ma era difficile. I suoi pensieri erano intorpiditi come le sue
gambe. Di tanto in tanto, Percy le prendeva la mano o faceva un
commento incoraggiante; ma lei capiva che l’ambiente scuro stava
abbattendo anche lui. I suoi occhi avevano una debole lucentezza,
come se il suo spirito stesse venendo lentamente estinto. E’
precipitato nel Tartaro per stare con te, disse una voce nella sua
testa. Se lui muore, sarà colpa tua. “Basta,” disse ad alta voce.
Percy aggrottò le sopracciglia. “Cosa?” “No, non te.” Tentò con un
sorriso rassicurante, ma non riusciva a farne uno. “Parlavo da sola.
Questo posto…. sta giocando con la mia testa. Mi da dei brutti
pensieri.” Le rughe di preoccupazione intorno agli occhi verde-mare
di Percy si fecero più profonde. “Ehi, Bob, dove siamo diretti
esattamente?” “La signora,” disse Bob. “Foschia di Morte. Annabeth
soffocò la sua irritazione. “Ma che vuol dire? Chi è questa signora?”
“Nominarla?” Bob si guardò indietro. “Non è una buona idea.”
Annabeth sospirò. Il Titano aveva ragione. I nomi avevano potere, e
pronunciarli lì nel Tartaro era probabilmente davvero pericoloso.
“Puoi almeno dirci quanto manca?” chiese. “Non lo so,” ammise Bob.
“Posso solo avvertirlo. Aspettiamo finché il buio non si fa più buio.
Poi andiamo di lato.” “Di lato,” borbottò Annabeth. “Naturalmente.”
Era tentata di chiedere una pausa, ma non voleva fermarsi. Non là in
quel freddo luogo scuro. La foschia nera le penetrava nel corpo,
trasformandole le ossa in polistirolo bagnato. Si chiese se il suo
messaggio sarebbe arrivato a Rachel Dare. Se Rachel sarebbe in
qualche modo riuscita a consegnare la sua offerta a Reyna senza
essere uccisa nel tentativo… Una speranza ridicola, disse la voce
nella sua testa. Hai solo messo Rachel in pericolo. Anche se trova i
romani, perché Reyna dovrebbe fidarti di te dopo tutto quello che è
accaduto? Annabeth era tentata di urlare di rimando alla voce, ma
resistette. Anche se stava impazzendo, non voleva sembrare come
una che stava impazzendo. Aveva disperatamente bisogno di
qualcosa che le sollevasse il morale. Una sorsata di acqua vera. Un
attimo di luce. Un letto caldo. Una parola gentile da parte di sua
madre. Improvvisamente Bob si fermò. Alzò la mano: Aspettate.
“Cosa?” sussurrò Percy. “Shh,” avvertì Bob. “Davanti a noi. Si muove
qualcosa.” Annabeth forzò il suo udito. Da qualche parte nella
nebbia veniva un ronzio profondo, come il motore di una grossa
macchina da costruzione a riposo. Poteva avvertire le vibrazioni
attraverso le sue scarpe. “Lo circonderemo,” sussurrò Bob. “Tutti e
due, prendete un fianco.” Per la milionesima volta, Annabeth
desiderò avere con sé il suo pugnale. Sollevò un pezzo frastagliato
di ossidiana e scivolò sulla sinistra. Percy andò a destra, con la
spada pronta. Bob prese il centro, con la lancia che brillava nella
nebbia. Il ronzio si fece più forte, facendo tremare il terreno ai piedi
di Annabeth. Il rumore sembrava provenire dritto davanti a loro.
“Pronti?” mormorò Bob. Annabeth si chinò, preparandosi a saltare.
“Al tre?” “Uno,” sussurrò Percy. “Due…“ Una sagoma apparve dalla
nebbia. Bob sollevò la sua lancia. “Aspetta!” gridò Annabeth. Bob si
bloccò appena in tempo, con la punta della lancia librata a due
centimetri di distanza sopra la testa di un minuscolo gatto a macchie.
“Rrow?” disse il gattino, chiaramente non impressionato dal loro
piano d’attacco. Sbatté la testa contro il piede di Bob e fece le fusa
rumorosamente. Sembrava impossibile, ma il profondo ronzio che
avevano sentito veniva dal gatto. Mentre faceva le fusa, il terreno
tremò e i sassi saltellarono. Il gattino fissò i suoi occhi gialli, simili a
lampade, su una roccia in particolare, proprio tra i piedi di Annabeth
e saltò. Il gatto poteva essere un demone o un orribile mostro
dell’Oltretomba camuffato. Ma Annabeth non poté trattenersi. Lo
prese da terra e lo cullò tra le braccia. La piccola creatura era ossuta
sotto la pelliccia, ma a parte quello sembrava perfettamente
normale. “Come…?” Non riusciva nemmeno a formulare la
domanda. “Cosa ci fa un gatto…?” Il gattino si fece impaziente e si
divincolò dalle sue braccia. Atterrò con un tonfo attutito, si diresse
verso Bob, e ricominciò a fare le fusa mentre strofinava la testa
contro i suoi stivali. Percy rise. “Piaci a qualcuno, Bob.” “Deve
essere un mostro buono.” Bob alzò lo sguardo, nervoso. “Non è
così?” Annabeth avvertì un groppo in gola. Vedendo quel Titano
enorme e quel minuscolo gattino insieme, improvvisamente si sentì
insignificante paragonata alla vastezza del Tartaro. Quel luogo non
aveva rispetto per nulla, buona o cattiva, piccola o grande,
intelligente o sciocca. Il Tartaro inghiottiva Titani, semidei e gattini
indiscriminatamente. Bob si inginocchiò e prese il gatto in braccio.
Entrava perfettamente nel palmo della sua mano, ma decise di
esplorare. Si arrampicò sul braccio del Titano, si mise comodo sulla
sua spalla, e chiuse gli occhi, facendo le fusa come una escavatrice.
Improvvisamente la sua pelliccia brillò. Con un lampo, il gattino
divenne uno scheletro spettrale, come se fosse passato dietro a una
macchina a raggi X. Poi tornò ad essere un gattino normale.
Annabeth sbatté le palpebre. “L’hai visto?” “Sì.” Percy aggrottò le
sopracciglia. “Oh, cavoli… Io conosco questo gatto. E’ uno di quelli
dello Smithsonian.” Annabeth cercò di dare un senso alle sue parole.
Non era mai stata allo Smithsonian con Percy… poi si ricordò di
diversi anni prima, quando il Titano Atlante l’aveva catturata. Percy e
Talia avevano guidato un’impresa per salvarla. Lungo la strada,
avevano visto Atlante far risorgere dei guerrieri scheletro da dei denti
di drago nello Smithsonian Museum. Secondo quanto aveva
raccontato Percy, il primo tentativo del Titano non era andato a buon
fine. Aveva piantato dei denti di tigre dai denti a sciabola per sbaglio,
e aveva fatto sorgere un gruppo di gattini scheletro dal terreno.
“Questo è uno di loro?” chiese Annabeth. “Come ha fatto ad arrivare
qua?” Percy allargò le mani senza risposta. “Atlante aveva detto ai
suoi servi di portare via i gatti. Forse li avevano distrutti e loro sono
rinati nel Tartaro? Non lo so.” “E’ carino,” disse Bob, mentre il gattino
gli annusava l’orecchio. “Ma è sicuro?” chiese Annabeth. Il Titano
grattò il mento del gattino. Annabeth non sapeva se fosse una buona
idea, portare con loro un gatto che era nato da un dente preistorico;
ma ovviamente in quel momento non aveva importanza. Il Titano e il
gatto avevano fatto amicizia. “Lo chiamerò Piccolo Bob,” disse Bob.
“E’ un mostro buono.” Fine dell’argomento. Il Titano sollevò la sua
lancia e continuarono a marciare nell’oscurità. Annabeth camminò
come fosse in trance, cercando di non pensare alla pizza. Per
mantenersi distratta, guardò Piccolo Bob che saltellava sulle spalle
di Bob e faceva le fusa, trasformandosi occasionalmente in un
brillante gattino scheletro e poi tornando a essere una palla di pelo a
macchie. “Qui,” annunciò Bob. Si fermò così improvvisamente, che
Annabeth gli andò quasi a sbattere contro. Bob stava fissando verso
la loro sinistra, come se fosse perso nei pensieri. “E’ questo il
posto?” chiese Annabeth. “Dove dobbiamo andare di lato?” “Sì,”
annuì Bob. “Più buio, poi di lato.” Annabeth non riusciva a dire se
fosse davvero più buio, ma l’aria sembrava più fredda e densa,
come se fossero entrati in un diverso microclima. Nuovamente il
posto le ricordò San Francisco, dove si poteva andare da un
quartiere all’altro e la temperatura poteva precipitare di dieci gradi. Si
chiese se i Titani avessero costruito il loro palazzo sul Monte
Tamalpais perché la Bay Area ricordava loro del Tartaro. Che idea
deprimente. Solo i Titani avrebbero visto un luogo così bello come
un potenziale avamposto dell’abisso, una casa infernale lontano da
casa. Bob girò verso sinistra. Loro lo seguirono. L’aria si fece senza
dubbio più fredda. Annabeth si strinse contro Percy per avere calore.
Lui le avvolse un braccio intorno alle spalle. Era una bella
sensazione essere così vicina a lui, ma lei non riusciva rilassarsi.
Erano entrati in una sorta di foresta. Torreggianti alberi neri si
alzavano verso l’oscurità, perfettamente circolari e nudi da rami
come mostruosi follicoli di peli. Il terreno era liscio e pallido. Con la
nostra fortuna, pensò Annabeth, stiamo camminando dritti
sull’ascella di Tartaro. Improvvisamente i suoi sensi entrarono in
allerta, come se qualcuno l’avesse colpita con un elastico alla base
del collo. Posò la mano sul tronco dell’albero più vicino. “Cosa c’è?”
Percy sollevò la sua spada. Bob si voltò e guardò indietro, confuso.
“Ci fermiamo?” Annabeth alzò la mano per indicare di fare silenzio.
Non era certa di cosa l’avesse messa in guardia. Non c’era nulla che
sembrava diverso. Poi si rese conto che il tronco dell’albero stava
tremando. Si chiese per un attimo se si trattasse delle fusa del gatto;
ma Piccolo Bob si era addormentato sulla spalla di Grande Bob. A
qualche metro di distanza, un altro albero iniziò a tremare.
“Qualcosa si sta muovendo sopra di noi,” sussurrò Annabeth.
“Stiamo vicini.” Bob e Percy le si avvicinarono, schiena contro
schiena. Annabeth sforzò la vista, cercando di vedere sopra di loro
attraverso il buio, ma non si mosse nulla. Aveva quasi deciso che
stava solo facendo la paranoica quando il primo mostro precipitò a
terra a solo un metro e mezzo da loro. Il primo pensiero di Annabeth
fu: Furie. La creatura sembrava quasi esattamente una di loro: una
strega raggrinzita con ali da pipistrello, artigli di ottone, e brillanti
occhi rossi. Indossava un vestito a brandelli fatto di seta nera, e il
suo volto era contorto e feroce, come una nonna demonica
dell’umore giusto per uccidere. Bob grugnì mentre un’altra di quelle
creature atterrava davanti a lui, e poi un’altra davanti a Percy. In
poco tempo una mezza dozzina li stava circondando. Altre
sibilavano negli alberi sopra di loro. Non potevano essere Furie,
allora. Loro erano solo tre, e quelle streghe alate non avevano delle
fruste. Quello non rassicurò Annabeth. Gli artigli dei mostri
apparivano parecchio pericolosi. “Cosa siete?” chiese lei. Le arai,
sibilò una voce. Le maledizioni! Annabeth cercò di localizzare chi
aveva parlato, ma nessuno dei demoni aveva mosso la bocca. I loro
occhi apparivano morti; le loro espressioni erano congelate, come
quelle di una marionetta. La voce sembrava provenire dall’alto come
quella di un narratore esterno in un film, come se una sola mente
controllasse tutte le creature. “Cosa… cosa volete?” chiese
Annabeth, cercando di mantenere un tono sicuro. La voce ridacchiò
con malvagità. Maledirvi, ovviamente! Distruggervi un migliaio di
volte nel nome di Madre Notte! “Solo un migliaio di volte?” mormorò
Percy. “Oh, bene… Pensavo che fossimo nei guai.” Il cerchio di
donne demone si strinse attorno a loro.
25

HAZEL

Tutto aveva l’odore del veleno. Due giorni dopo aver lasciato
Venezia, Hazel non riusciva ancora a togliersi il profumo di eau di
mostri mucca dal naso. Il mal di mare non aiutava. L’Argo II navigava
attraverso l’Adriatico, una stupenda distesa scintillante di blu; ma
Hazel non riusciva ad apprezzarla grazie al costante dondolio della
nave. Sopra coperta, cercava di tenere gli occhi fissi sull’orizzonte,
sulle cime bianche che sembravano trovarsi sempre a soli due
chilometri verso est. Che paese era quello, la Croazia? Non lo
sapeva. Desiderava solo trovarsi di nuovo sulla terra ferma. La cosa
che le dava più la nausea era la donnola. La scorsa notte,
l’animaletto di Ecate, Gale, era apparso nella sua cabina. Hazel si
era svegliata da un incubo, pensando, Cos’è questo odore? Aveva
trovato un roditore peloso acciambellato sul suo petto, che la fissava
con i suoi lucidi occhietti neri. Non c’era nulla di paragonabile al
svegliarsi urlando, scalciandosi via le coperte e ballando per la
cabina mentre una donnola ti correva tra i piedi, stridendo e
rilasciando aria. I suoi amici si erano precipitati nella sua stanza per
vedere se stava bene. Era stato difficile spiegare la donnola. Hazel
poteva capire che Leo aveva cercato con tutte le sue forze di non
fare battute. La mattina dopo, una volta che l’emozione era scemata,
Hazel aveva deciso di fare visita al Coach Hedge, dal momento che
lui poteva parlare con gli animali. Aveva trovato la porta della sua
cabina socchiusa e aveva sentito il coach all’interno, intento a
parlare come se fosse al telefono con qualcuno, solo che non
c’erano telefoni a bordo. Forse stava inviando un messaggio-Iride?
Hazel aveva sentito dire che i greci li usavano spesso. “Certo,
tesoro,” stava dicendo Hedge. “Sì, lo so, piccola. No, è una notizia
fantastica, ma…“ La sua voce si spezzò dall’emozione. Hazel si
sentì immediatamente una persona orribile per il fatto che stesse
origliando. Sarebbe tornata indietro, ma Gale squittì ai suoi piedi.
Hazel bussò alla porta del coach. Hedge tirò fuori la testa,
imbronciato come al solito, ma aveva gli occhi rossi. “Cosa?” ringhiò.
“Um… mi dispiace,” disse Hazel. “Si sente bene?” Il coach fece uno
sbuffo e aprì completamente la porta. “Che razza di domanda è
questa?” Non c’era nessun altro nella stanza. “Io…“ Hazel cercò di
ricordare la ragione per qui era lì. “Mi chiedevo se potesse parlare
con la mia donnola.” Gli occhi del coach si strinsero. Abbassò la
voce. “Stiamo parlando in codice? C’è un intruso a bordo?” “Bè, in
un certo senso.” Gale spuntò da dietro i piedi di Hazel e iniziò a
squittire. Il coach sembrava offeso. Squittì di rimando alla donnola.
Si calarono in quella che sembrava una discussione molto animata.
“Cosa ha detto?” chiese Hazel. “Un sacco di cose maleducate,”
brontolò il satiro. “Il succo del discorso: è qui per vedere come va.”
“Come va cosa?” Coach Hedge sbatté lo zoccolo a terra. “Come
faccio a saperlo? E’ una moffetta! Loro non danno mai delle risposte
chiare. Adesso, se vuoi scusarmi, ho delle, uh, cose da…” Le chiuse
la porta in faccia. Dopo colazione, Hazel andò alla ringhiera di
babordo, cercando di calmare il suo stomaco. Accanto a lei, Gale
correva su e giù lungo la balaustra, lasciando aria; ma il forte vento
dell’Adriatico aiutava a spazzarla via. Hazel si domandò cosa ci
fosse che non andava con il Coach Hedge. Doveva aver usato il
messaggio-Iride per parlare con qualcuno, ma se aveva ricevuto
delle notizie fantastiche, perché era apparso così devastato? Non
l’aveva mai visto così scosso. Sfortunatamente, dubitava che il
coach avrebbe chiesto aiuto se ne avesse avuto bisogno. Non era
esattamente il tipo che si apriva facilmente. Fissò le cime bianche in
lontananza e pensò al motivo per cui Ecate aveva mandato la
moffetta Gale. E’ qui per vedere come va. Stava per accadere
qualcosa. Hazel sarebbe stata messa alla prova. Non sapeva come
avrebbe dovuto imparare la magia senza addestramento. Ecate si
aspettava che sconfiggesse qualche maga potentissima, la signora
con il vestito dorato, quella che Leo aveva descritto dal suo sogno.
Ma come? Hazel aveva trascorso tutto il suo tempo libero cercando
di capirlo. Aveva fissato la sua spatha, cercando di farla apparire
come un bastone da passeggio. Aveva cercato di evocare una
nuvola per nascondere la luna piena. Si era concentrata fino a che
non le si era incrociata la vista e non le si erano tappate le orecchie,
ma non era accaduto nulla. Non era in grado di manipolare la
Foschia. Nelle ultime notti, i suoi sogni erano peggiorati. Si era
ritrovata di nuovo nei Campo dell’Asfodelio, vagando senza meta tra
i fantasmi. Poi si era trovata nella grotta di Gea in Alaska, dove
Hazel e sua madre erano morte mentre il soffitto crollava e la voce
della Dea della Terra urlava di rabbia. Si ritrovò sulle scale
dell’appartamento di sua madre a New Orleans, faccia a faccia con
suo padre, Plutone. Le sue dita fredde le afferravano il braccio. Il
tessuto del suo completo di lana nera si contorceva con le anime
imprigionate al suo interno. Lui la bloccava con i suoi scuri occhi
arrabbiati e diceva: I morti vedono quello che credono vedranno.
Così fanno i vivi. E’ questo il segreto. Non le aveva mai detto quella
cosa nella realtà. Non aveva idea di cosa volesse dire. L’incubo
peggiore assomigliava a un assaggio di futuro. Hazel stava
arrancando attraverso uno scuro tunnel mentre la risata di una
donna riecheggiava attorno a lei. Controlla questo se ci riesci, figlia
di Plutone, la derideva la donna. E come sempre, Hazel sognava le
immagini che aveva visto all’incrocio di Ecate: Leo che precipitava
dal cielo; Percy e Annabeth a terra privi di sensi, forse morti, davanti
a delle scure porte di metallo; e una figura avvolta che incombeva
sopra di loro, il gigante Clitio avvolto dalle tenebre. Accanto a lei
sulla balaustra, la donnola Gale squittì impaziente. Hazel era tentata
di spingere quello stupido roditore in mare. Non riesco nemmeno a
controllare i miei stessi sogni, voleva urlare. Come faccio a
controllare la Foschia? Era così affranta, che non notò Frank finché
non le apparve affianco. “Ti senti meglio?” chiese. Le prese la mano,
le sue dita coprivano completamente quelle di lei. Non riusciva a
credere a quanto si fosse alzato. Si era trasformato in così tanti
animali, che non era certa che un’altra trasformazione l’avrebbe
stupita, ma improvvisamente lui era cresciuto adattandosi al suo
corpo. Nessuno poteva più chiamarlo grassottello o tenero. Aveva
l’aspetto di un giocatore di football, solido e forte, con un nuovo
centro di gravità. Le sue spalle si erano allargate. Camminava con
più sicurezza. Quello che Frank aveva fatto su quel ponte a
Venezia… Hazel era ancora scioccata. Nessuno di loro aveva
davvero visto la battaglia, ma nessuno ne dubitava. L’intera postura
di Frank era cambiata. Persino Leo aveva smesso di fare battute a
suo conto. “Sto… sto bene,” riuscì a dire Hazel. “Tu?” Lui sorrise,
con delle rughette che gli apparvero agli angoli degli occhi. “Sono,
uh, più alto. A parte quello, sì. Sto bene. Non sono davvero, sai,
cambiato dentro…” La sua voce aveva ancora un po’ dei vecchi
dubbi e imbarazzi, la voce del suo Frank, che era sempre
preoccupato di essere un inadatto e di combinare qualche guaio.
Hazel si sentiva sollevata. Le piaceva quella parte di lui. All’inizio, il
suo nuovo aspetto l’aveva scioccata. Era stata preoccupata che
fosse cambiata anche la sua personalità. Adesso stava iniziando a
rilassarsi. Malgrado tutta la sua forza, Frank era rimasto lo stesso
ragazzo dolce di sempre. Era ancora vulnerabile. Si fidava ancora di
lei con la sua più grande debolezza, il legnetto magico che lei aveva
nella tasca del suo giacchetto, accanto al suo cuore. “Lo so, e ne
sono felice.” Gli strinse la mano. “Non… non è di te che sono
preoccupata.” Frank grugnì. “Come sta Nico?” Lei stava pensando a
se stessa, non a Nico, ma seguì lo sguardo di Frank verso la cima
dell’albero di trinchetto, dove Nico era appollaiato sulla varea. Nico
sosteneva che gli piaceva fare la guardia perché aveva una buona
vista. Hazel sapeva che non era quella la ragione. La cima
dell’albero era uno dei pochi posti a bordo della nave dove Nico
poteva stare da solo. Gli altri gli avevano proposto di usare la cabina
di Percy, visto che Percy era… bè, assente. Nico aveva rifiutato
duramente. Passava la maggior parte del suo tempo in alto tra le
vele e gli alberi, dove non era costretto a parlare con il resto della
ciurma. Da quando era stato trasformato in una pianta di mais a
Venezia, si era fatto solo più chiuso e scontroso. “Non lo so,”
ammise Hazel. “Ne ha passate parecchie. Essere catturato nel
Tartaro, essere tenuto prigioniero in quella giara di bronzo, vedere
Percy e Annabeth cadere…” “E promettere di guidarci ad Epiro.”
Frank annuì. “Ho la sensazione che Nico non si trovi molto a suo
agio con gli altri.” Frank si raddrizzò. Indossava una maglietta
marrone chiaro con l’immagine di un cavallo e la scritta PALIO DI
SIENA. L’aveva comprata solo un paio di giorni prima, ma adesso
era troppo piccola. Quando si allungava con le braccia, aveva
l’addome esposto. Hazel si rese conto che lo stava fissando.
Distolse velocemente lo sguardo, con il volto in fiamme. “Nico è il
mio unico parente,” disse. “Non è facile farselo piacere, ma… grazie
per essere gentile con lui.” Frank sorrise. “Ehi, hai sopportato mia
nonna a Vancouver. Tanto per parlare di persone non facili da farsi
piacere.” “Adoro tua nonna!” La moffetta Gale corse verso di loro,
lasciò del gas, e corse via. “Ugh.” Frank agitò la mano per mandare
via l’odore. “Perché quella cosa è qui?” Hazel era quasi grata del
fatto che non si trovasse sulla terra ferma. Per come era agitata,
probabilmente avrebbe fatto spuntare oro e gemme tutto intorno a
lei. “Ecate ha mandato Gale per osservare,” disse. “Osservare
cosa?” Hazel cercò di trovare conforto nella presenza di Frank, nella
sua nuova aura di sicurezza e forza. “Non lo so,” disse alla fine.
“Qualche tipo di test.” Improvvisamente la barca fu lanciata in avanti.
26

HAZEL

Hazel e Frank si scontrarono. Hazel si praticò per errore la manovra


di Heimlich sbattendosi l’elsa della spada sulla pancia, e si accasciò
sul ponte, gemendo e tossendo con il sapore del veleno di catoblepa
in bocca. Attraverso una nebbia di dolore, udì la polena della nave,
Festus, il drago di bronzo, che strideva in allarme e sputava fuoco.
Confusa, Hazel si chiese se avessero colpito un iceberg, ma
nell’Adriatico, in piena estate? La nave dondolò verso babordo con
un enorme trambusto, come dei pali del telefono che venivano
spezzati a metà. “Gahh!” gridò Leo da qualche parte alle sue spalle.
“Sta mangiando i remi!” Cosa? si chiese Hazel. Cercò di alzarsi, ma
qualcosa di grande e pensate le stava bloccando le gambe. Si rese
conto che si trattava di Frank, che borbottava mentre cercava di
districarsi da una pila di cordame. Tutti gli altri stavano correndo per
la nave. Jason saltò sopra di loro, con la spada sguainata, e corse
verso poppa. Piper si trovava già sul ponte rialzato, sparando cibo
dalla sua cornucopia e urlando, “Hey! HEY! Mangia questo, stupida
tartaruga!” Tartaruga? Frank aiutò Hazel ad alzarsi. “Stai bene?” “Sì,”
mentì Hazel, tenendosi lo stomaco. “Vai!” Frank corse verso le scale,
facendosi scivolare lo zaino dalle spalle, che immediatamente
divenne un arco con la faretra. Quando raggiunse il timone, aveva
già scoccato una freccia e stava preparando la seconda. Leo stava
lavorando selvaggiamente ai controlli della nave. “I remi non si
ritirano. Mandatela via! Mandatela via!” In alto tra le vele, il volto di
Nico era inerte dallo shock. “Per lo Stige, è gigantesca!” gridò.
“Babordo! Gira a babordo!” Il Coach Hedge fu l’ultimo a salire sul
ponte. Compensò quel ritardo con il suo entusiasmo. Saltò sulle
scale, agitando la sua mazza da baseball, e senza esitare corse con
passo da capra verso poppa e balzò oltre la ringhiera con un gioioso
“Ha-HA!” Hazel si diresse incerta verso il ponte rialzato per unirsi ai
suoi amici. La barca tremò. Si spezzarono altri remi, e Leo gridò.
“No, no, no! Maledetto, viscido figlio di…!” Hazel raggiunse la poppa
e non riuscì a credere a quello che vide. Quando aveva sentito la
parola tartaruga, aveva pensato a una tenera piccola creatura
grande come un portagioie, arrampicata su una roccia al centro di un
laghetto. Quando aveva sentito gigantesca, la sua mente aveva
cercato di adattarsi, okay, forse era come le tartarughe delle
Galapagos che aveva visto una volta allo zoo, con un guscio
abbastanza grande da poter essere cavalcato. Non si era
immaginata una creatura grande come un’isola. Quando vide
l’enorme cupola scavata da quadrati neri e marroni, la parola
tartaruga semplicemente non le diceva nulla. Il suo guscio era più
simile a una terra in mezzo al mare, colline di ossa, vallate di perle
brillanti, foreste di alghe e muschio marino, fiumi d’acqua salata che
gocciolavano tra gli incavi del suo carapace. Sul lato di tribordo della
nave, un’altra parte del mostro sorse dall’acqua come un
sottomarino. Lari Romani…. quella era la sua testa? I suoi occhi
dorati erano grandi come piscine di plastica da giardino, con scure
fenditure nere laterali come pupille. La sua pelle luccicava come
materiale mimetico bagnato, marrone chiazzato di verde e giallo. La
sua bocca rossa priva di denti avrebbe potuto inghiottire l’Atena
Partenos in un solo boccone. Hazel guardò mentre questa spezzava
una mezza dozzina di remi. “Smettila!” gemette Leo. Coach Hedge si
stava arrampicando sul guscio della tartaruga, colpendolo
inutilmente con la sua mazza da baseball e urlando, “Prendi questo!
E questo!” Jason saltò dalla punta di poppa e atterrò sulla testa della
creatura. Piantò la sua spada dorata proprio in mezzo agli occhi
della tartaruga, ma la lama scivolò di lato, come se la pelle del
mostro fosse fatta di acciaio ricoperto di grasso. Frank sparava
frecce contro gli occhi del mostro senza successo. Le velate
palpebre interne della tartaruga si abbassavano con una precisione
sorprendente, deviando tutti i colpi. Piper sparò dei meloni in acqua,
urlando, “Prendi, stupida tartaruga!” Ma la tartaruga sembrava
essere concentrata sul divorare l’Argo II, “Come ha fatto ad
avvicinarsi così tanto?” chiese Hazel. Leo lanciò le mani in cielo
esasperato. “Deve essere stato quel guscio. Credo che sia invisibile
ai sonar. E’ una dannata tartaruga invisibile!” “Possiamo far volare la
nave?” chiese Piper. “Con la metà dei nostri remi spezzati?” Leo
pigiò alcuni bottini e fece girare la sua sfera di Archimede. “Dovrò
provare con qualcos’altro.” “Là!” gridò Nico dall’alto. “Puoi portarci in
quel canale?” Hazel guardò nel punto che stava indicando. A circa
un chilometro di distanza verso est, una lunga striscia di terra
correva parallela alle colline del litorale. Era difficile esserne sicuri da
quella distanza, ma la distesa di acqua tra le due sembrava essere
larga solo venti o trenta metri, forse abbastanza grande per farci
passare l’Argo II, ma senza dubbio non abbastanza larga per il
guscio della tartaruga gigante. “Sì. Sì.” Apparentemente Leo aveva
capito. Ruotò la sfera di Archimede. “Jason, allontanati dalla testa di
quella cosa! Ho un’idea!” Jason stava ancora attaccando il muso
della tartaruga, ma quando udì Leo dire Ho un’idea, fece l’unica
scelta saggia. Se ne allontanò il più velocemente possibile. “Coach,
andiamo!” disse Jason. “No, l’ho presa!” disse Hedge, ma Jason lo
afferrò dalla vita e decollò. Sfortunatamente, il coach si dibatteva
così tanto che la spada di Jason gli scivolò dalla mano e precipitò in
mare. “Coach!” si lamentò Jason. “Cosa?” disse Hedge. “La stavo
indebolendo!” La tartaruga sbatté la testa contro lo scafo, facendo
quasi cadere l’intero gruppo verso babordo. Hazel sentì un rumore
scricchiolante, come se la chiglia si fosse frantumata. “Solo un altro
minuto,” disse Leo, con le mani che volavano sulla console.
“Potremmo non essere qui tra un altro minuto!” Frank scoccò la sua
ultima freccia. Piper gridò alla tartaruga, “Va via!” Per un attimo,
funzionò davvero. La tartaruga si allontanò dalla nave e immerse la
testa sott’acqua. Ma poi risalì in superficie e ricominciò a colpirli con
forza persino maggiore. Jason e il Coach Hedge atterrarono sul
ponte. “Stai bene?” chiese Piper. “Sto bene,” borbottò Jason. “Senza
un’arma, ma bene.” “Via alle bombe!” gridò Leo, agitando il suo
controllore della Wii. Hazel pensò che la poppa fosse esplosa. Getti
di fuoco esplosero dietro di loro, inondando la testa della tartaruga.
La nave si lanciò in avanti e gettò nuovamente Hazel a terra. Lei si
alzò e vide che la nave stava schizzando sulle onde a una velocità
incredibile, lasciando una scia di fuoco come fosse un razzo. La
tartaruga era già a cento metri di distanza, con la testa bruciacchiata
e fumante. Il mostro ruggì dalla frustrazione e iniziò a seguirli, con le
sue zampe da nuotatore che agitavano l’acqua con tale forza che
iniziò a recuperarli. L’entrata del canale era ancora a mezzo
chilometro di distanza. “Una distrazione,” borbottò Leo. “Non ce la
faremo mai a meno che non creiamo una distrazione.” “Una
distrazione,” ripeté Hazel. Si concentrò e pensò: Arion! Non aveva
idea se la cosa avrebbe funzionato. Ma istantaneamente, Hazel
individuò qualcosa all’orizzonte, un lampo di luce e vapore. Volò
sulla superficie dell’Adriatico. In un attimo, Arion si trovava sul ponte
rialzato. Dei dell’Olimpo, pensò Hazel. Amo questo cavallo. Arion
sbuffò come a dire, Certo che mi ami. Non sei stupida. Hazel gli
montò in sella. “Piper, mi farebbe comodo la tua lingua
ammaliatrice.” “Un tempo le tartarughe mi piacevano,” borbottò
Piper, accettando la mano di Hazel per montare in sella. “Adesso
non più!” Hazel spronò Arion. Lui balzò oltre il bordo della barca,
colpendo l’acqua quando era già in pieno galoppo. La tartaruga era
una nuotatrice veloce, ma non poteva competere con la velocità di
Arion. Hazel e Piper corsero intorno alla testa del mostro, Hazel
colpendo con la sua spada, Piper urlando comandi a caso come,
“Immergiti! Girati a sinistra! Guarda dietro di te!” La spada non
infliggeva nessun danno. Ogni comando funzionava solo per un
attimo, ma stavano facendo irritare parecchio la tartaruga. Arion nitrì
in modo derisorio mentre la tartaruga cercava di morderlo, ottenendo
solo una boccata di vapore di cavallo. Presto, il mostro si dimenticò
completamente dell’Argo II. Hazel continuava a pugnalarlo alla testa.
Piper continuava a dare comandi e a usare la sua cornucopia per
lanciare noci di cocco e polli arrosto contro gli occhi della tartaruga.
Non appena l’Argo II ebbe attraverso il canale, Arion interruppe le
molestie. Scattarono dietro la nave, e un attimo dopo si trovavano di
nuovo a bordo. Il fuoco da razzo si era estinto, anche se dalla poppa
spuntavano ancora dei tubi di scappamento di bronzo. L’Argo II
arrancò in avanti sotto la forza del vento, ma il loro piano aveva
funzionato. Si trovavano ormeggiati al sicuro in uno stretto corso
d’acqua, con lunghe isole rocciose sulla destra e le lisce scogliere
bianche della terraferma sulla sinistra. La tartaruga si fermò
all’entrata del canale e li fissò sguardo funesto, ma non fece nessun
tentativo di seguirli. Il suo guscio era ovviamente troppo ampio.
Hazel smontò da Arion e ricevette un grande abbraccio da Frank.
“Bel lavoro là fuori!” disse. Il suo volto avvampò. “Grazie.” Piper
scivolò sul ponte accanto a lei. “Leo, da quando in qua abbiamo dei
propulsori jet?” “Aw, sai…” Leo cercò di sembrare modesto e fallì.
“Solo una cosetta che ho messo insieme nel tempo libero. Vorrei
poter creare più di qualche secondo di spinta, ma almeno ci ha tirati
fuori di lì.” “Ed ha arrostito la testa della tartaruga,” disse Jason con
apprezzamento. “Allora adesso che si fa?” “Uccidiamolo!” disse il
Coach. “C’è da chiedere? Abbiamo abbastanza distanza. Abbiamo
le baliste. Tutti alle armi, semidei!” Jason si accigliò. “Coach, prima di
tutto, mi ha fatto perdere la spada.” “Hey! Non ho chiesto di essere
evacuato!” “Secondo, non credo che le baliste funzionerebbero. Quel
guscio è come la pelle del Leone di Nemea. E la sua testa non è da
meno.” “Allora ne spariamo uno dritto nella sua gola,” disse il Coach,
“come avete fatto con quel mostro gamberetto nell’Atlantico.
Accendetelo dall’interno.” Frank si grattò la testa. “Potrebbe
funzionare. Ma poi avremmo una carcassa di tartaruga da cinque
milioni di chili che blocca l’entrata del canale. Se non possiamo
volare con i remi rotti, come tiriamo fuori la nave?” “Aspettate e
aggiustate i remi!” disse il Coach. “Oppure salpiamo nella direzione
opposta, zoticone.” Frank sembrava confuso. “Zoticone?” “Ragazzi!”
Nico li chiamò all’albero. “Parlavate di salpare nella direzione
opposta? Non credo che funzionerà.” Indicò oltre la prua. A mezzo
chilometro di distanza da loro, la lunga striscia di isola rocciosa
curvava verso l’interno e incontrava le scogliere. Il canale finiva in
una stretta V. “Non siamo in un canale,” disse Jason. “Siamo in un
vicolo cieco.” Hazel avvertì una sensazione fredda alle dita delle
mani e dei piedi. Sulla balaustra di babordo, la donnola Gale era
seduta sulle zampe posteriori, intenta a fissarla con aspettativa. “E’
una trappola,” disse Hazel. Gli altri la guardarono. “Nah, va tutto
bene,” disse Leo. “La cosa peggiore che succede, è che dobbiamo
fare delle riparazioni. Potrebbe volerci tutta la notte, ma posso far
tornare la nave a volare.” Alla bocca del canale, la tartaruga ruggì.
Non sembrava interessata ad andare via. “Bè…” Piper scrollò le
spalle. “Almeno la tartaruga non po’ raggiungerci. Qui siamo al
sicuro.” Quella era una cosa che nessun semidio dovrebbe mai dire.
Le parole avevano appena lasciato la bocca di Piper quando una
freccia affondò nell’albero maestro, a dieci centimetri dalla sua
faccia. Il gruppo si sparpagliò per trovare riparo, ad eccezione di
Piper, che rimase pietrificata al suo posto, fissando stordita la freccia
che le aveva quasi trapassato il naso. “Piper, giù!” sussurrò Jason
con voce dura. Ma non arrivò nessun altro missile. Frank studiò
l’angolo della freccia nell’albero e indicò verso la cima delle
scogliere. “Lassù.” disse. “Tiratore singolo. Lo vedete?” Hazel aveva
il sole negli occhi, ma intravide una figura minuscola in piedi sulla
cima di una sporgenza. La sua armatura di bronzo brillava al sole.
“Chi diamine è?” chiese Leo. “Perché ci spara addosso?” “Ragazzi,”
La voce di Piper era piccola e debole. “C’è un biglietto.” Hazel non
l’aveva visto prima, ma un rotolo di pergamena era legato all’asta
della freccia. Non sapeva il perché, ma la cosa la fece arrabbiare. Si
precipitò verso l’albero e slegò il rotolo. “Uh, Hazel?” disse Leo. “Sei
certa che è sicuro?” Lesse il biglietto ad alta voce. “Prima riga: In
piedi e consegnate.” “Che vuol dire?” si lamentò il Coach Hedge.
“Stiamo già in piedi. Bè, acquattati. Se quel tipo si aspetta una pizza
come consegna, se lo può scordare!” “C’è dell’altro,” disse Hazel.
“Questa è una rapina. Mandate due del vostro gruppo sulla cima
della scogliera con tutti i vostri averi. Non più di due. Lasciate sulla
nave il cavallo magico. Non volate. Niente trucchi. Scalate e basta.”
“Scalare cosa?” chiese Piper. Nico puntò il dito. “Là.” Una stretta fila
di scalini era stata scavata nella scogliera, e portava fino alla cima.
La tartaruga, il canale senza uscita, la scogliera… Hazel aveva la
sensazione che quella non era la prima volta che l’autore della
lettera aveva fatto un’imboscata alle navi in quel posto. Si schiarì la
gola e continuò a leggere: “Intendo proprio tutti i vostri averi.
Altrimenti io e la mia tartaruga vi distruggeremo. Avete cinque
minuti.” “Usiamo le catapulte!” gridò il coach. “P.S” lesse Hazel. “Non
pensate nemmeno di usare le vostre catapulte.” “Maledetto!” disse il
coach. “Il tipo è in gamba.” “Il biglietto è firmato?” chiese Nico. Hazel
scosse la testa. Aveva sentito una storia al Campo Giove, qualcosa
che riguarda un ladro che lavorava con una tartaruga gigante; ma
come al solito, non appena aveva bisogno dell’informazione, questa
rimaneva in maniera irritante in fondo alla sua mente, appena fuori
portata. La donnola Gale la guardava, in attesa di vedere cosa
avrebbe fatto. La prova non c’era ancora stata, pensò Hazel.
Distrarre la tartaruga non era stato abbastanza. Hazel non aveva
dimostrato nulla su come fosse in grado di manipolate la foschia…
soprattutto perché lei non sapeva manipolare la Foschia. Leo studiò
la cima della scogliera e borbottò tra se e se. “Non è una buona
traiettoria. Anche se riuscissi a caricare le catapulte prima che il tipo
ci trafigga con le sue frecce, non credo che sarei in grado di fare il
lancio. Sono centinaia di metri, quasi in linea dritta verso l’alto.” “Sì,”
borbottò Frank. “Anche il mio arco è inutile. Ha un vantaggio
enorme, stando così in alto rispetto a noi. Non potrei raggiungerlo.”
“E, um…” Piper indicò la freccia che era incastrata nell’albero. “Ho la
sensazione che sia un buon tiratore. Non credo che volesse colpirmi.
Ma se l’avesse voluto…” Non aveva bisogno di finire la frase.
Chiunque fosse quel ladro, era capace di colpire un obiettivo da
centinaia di metri di distanza. Poteva sparare contro tutti prima che
potessero reagire. “Andrò io,” disse Hazel. Detestava l’idea, ma era
certa che Ecate avesse organizzato la cosa come qualche tipo di
sfida contorta. Quello era il test di Hazel, il suo turno di salvare la
nave. Come se avesse avuto bisogno di conferme, Gale corse lungo
la ringhiera e le saltò sulla spalla, pronto per un passaggio. Gli altri la
fissarono. Frank strinse il suo arco. “Hazel…“ “No, ascolta,” disse,
“questo ladro vuole delle cose preziose. Io posso salire lassù,
evocare oro, gioielli, tutto quello vuole.” Leo inarcò un sopracciglio.
“Se lo paghiamo, credi che ci lascerà davvero andare?” “Non
abbiamo molta scelta,” disse Nico. “Tra quel tipo e la tartaruga…”
Jason alzò la mano. Gli altri fecero silenzio. “Andrò anche io,” disse.
“La lettera dice due persone. Io porterò Hazel lassù e le coprirò le
spalle. Inoltre, non mi piace l’aspetto di quelle scale. Se Hazel
cadesse… bè, posso usare i venti per impedire a tutti e due di
scendere per la via più dura.” Arion nitrì in protesta, come a dire, Vai
senza di me? Stai scherzando, vero? “Devo, Arion,” disse Hazel.
“Jason… sì. Credo che tu abbia ragione. E’ il piano migliore.” “Vorrei
solo avere la mia spada.” Jason fissò il coach. “Si trova sul fondo del
mare, e non abbiamo Percy per recuperarla.” Il nome Percy passò
sopra tutti loro come una nuvola. L’umore sul ponte si fece ancora
più cupo. Hazel tese il braccio. Non pensò a quello che stava
facendo. Si limitò a concentrarsi sull’acqua ed evocò l’oro Imperiale.
Un’idea stupida. La spada era troppo lontana, probabilmente a
centinaia di metri di profondità. Ma avvertì una veloce spinta alle
dita, come ci fosse legata una lenza da pesca con qualcosa che
tirava all’altra estremità, e l’arma di Jason volò fuori dall’acqua e
nella sua mano. “Ecco,” disse, porgendola. Gli occhi di Jason si
allargarono. “Come… Era lontana mezzo chilometro!” “Ho fatto
pratica,” disse, anche se non era vero. Sperava di non aver
accidentalmente maledetto la spada di Jason evocandola in quel
modo, così come malediceva i gioielli e i metalli preziosi. In qualche
modo però le armi erano diverse, pensò. Dopotutto, aveva estratto
un mucchio di attrezzatura d’oro Imperiale dalla Glacier Bay e
l’aveva distribuita alla Quinta Coorte. Quello aveva funzionato senza
problemi Decise di non preoccuparsi. Si sentiva così arrabbiata con
Ecate e così stanca di essere manipolata dagli dei che non avrebbe
permesso a nessun problema futile di ostacolarla. “Adesso, se non ci
sono altre obbiezioni, abbiamo un ladro da incontrare.”
27

HAZEL Ad Hazel piaceva stare all’aria aperta, ma arrampicarsi


lungo una scogliera di sessanta metri su una scala senza ringhiera,
con una donnola irritata sulla spalla? Quello non così tanto.
Soprattutto quando avrebbe potuto cavalcare Arion fino alla cima in
pochi secondi. Jason camminava dietro di lei così da poterla
afferrare se fosse caduta. Hazel apprezzava la cosa, ma non
rendeva il precipizio a picco affatto meno spaventoso. Si guardò
sulla destra, il che fu un errore. Il suo piede mancò quasi lo scalino,
mandando una pioggia di terriccio oltre il bordo. Gale squittì in
allarme. “Stai bene?” chiese Jason. “Sì.” Il cuore di Hazel le batteva
come un martello pneumatico contro le costole. “Bene.” Non aveva
spazio per voltarsi a guardarlo. Doveva solo fidarsi del fatto che non
l’avrebbe fatta precipitare verso la sua morte. Visto che lui poteva
volare, era l’unica scelta logica come compagno. Tuttavia, desiderò
che ci fosse stato Frank alle sue spalle, o Nico, o Piper, o Leo. O
persino… bè, okay, forse il Coach Hedge no. Ma comunque, Hazel
non riusciva a decifrare Jason Grace. Da quando era arrivata al
Campo Giove, aveva sentito storie su di lui. I campeggiatori
parlavano con riverenza del figlio di Giove che era salito dal rango
inferiore della Quinta Coorte per poi diventare pretore, li aveva
guidati alla vittoria nella Battaglia del Monte Tam, e poi era
scomparso. Persino adesso, dopo tutti gli eventi delle ultime due
settimane, Jason sembrava più una leggenda che una persona.
Aveva difficoltà a trovarsi a suo agio con lui, con quei suoi occhi blu
ghiaccio e quell’attenta riservatezza, come se stesse calcolando
ogni parola prima di pronunciarla. Inoltre, non riusciva a dimenticare
di come era stato pronto ad abbandonare suo fratello, Nico, quando
avevano scoperto che era tenuto prigioniero a Roma. Jason aveva
pensato che Nico fosse l’esca per una trappola. Aveva avuto
ragione. E forse, adesso che Nico era salvo, Hazel poteva capire
perché la cautela di Jason era stata una buona idea. Nonostante
questo, non sapeva esattamente cosa pensare del ragazzo. Se si
fossero trovati nei guai sulla cima della scogliera, e Jason avesse
deciso che salvare Hazel non era nell’interesse migliore per
l’impresa? Alzò lo sguardo. Non riusciva a vedere il ladro da quella
distanza, ma avvertiva che lui era in attesa. Hazel era sicura che
poteva far apparire abbastanza gemme e oro per impressionare
anche il ladro più avido. Si chiese se i tesori che evocava avrebbero
continuato a portare sfortuna. Non aveva mai saputo con certezza
se quella maledizione fosse stata spezzata quando era morta la
prima volta. Questa sembrava una buona occasione per scoprirlo.
Chiunque derubasse dei semidei innocenti con una tartaruga gigante
si meritava qualche brutta maledizione. La donnola Gale saltò giù
dalla sua spalla e corse in avanti. Si guardò indietro e abbaiò
impaziente. “Sto andando più veloce che posso,” borbottò Hazel.
Non riusciva a scrollarsi la sensazione che la donnola fosse ansiosa
di vederla fallire. “Questo, uh, controllare la Foschia,” disse Jason.
“Hai avuto qualche fortuna?” “No,” ammise Hazel. Non le piaceva
pensare ai suoi fallimenti, il gabbiano che non era riuscita a
trasformare in un drago, la mazza da baseball del Coach Hedge che
si era testardamente rifiutata di diventare un hot dog.
Semplicemente, non riusciva a convincersi che nulla di tutto quello
fosse possibile. “Ce la farai,” disse Jason. Il suo tono la sorprese.
Non ti trattava di un commento di circostanza fatto solo per essere
gentili. Suonava sinceramene convinto. Continuò a salire, ma si
immaginò il ragazzo che la guardava con quei penetranti occhi blu,
con la mascella stretta in un atteggiamento di sicurezza. “Come fai
ad esserne sicuro?” chiese. “Lo sono e basta. Ho un buon istinto su
quello che le persone possono fare, o comunque, per i semidei.
Ecate non ti avrebbe scelta se non avesse creduto che hai i poteri.”
Forse quello avrebbe dovuto far sentire Hazel meglio. Non lo fece.
Anche lei aveva un buon insito per le persone. Capiva quello che
motivava la maggior parte dei suoi amici, persino suo fratello, Nico,
che non era facile da interpretare. Ma con Jason? Non ne aveva la
più pallida idea. Tutti dicevano che era un leader naturale. Lei ci
cedeva. Eccolo là, che la faceva sentire come un membro prezioso
della squadra, dicendole che era in grado di fare qualsiasi cosa. Ma
cosa era in grado di fare Jason? Non poteva parlare a nessuno dei
suoi dubbi. Frank era innamorato del ragazzo. Piper, ovviamente,
aveva perso la testa per lui. Leo era il suo migliore amico. Persino
Nico sembrava seguire la sua guida senza fare domande. Ma Hazel
non poteva dimenticarsi che Jason era stato la prima mossa di Era
nella guerra contro i giganti. La Regina dell’Olimpo aveva portato
Jason al Campo Mezzosangue, cosa che aveva dato inizio a tutta
quell’intera catena di eventi per fermare Gea. Perché Jason per
primo? Qualcosa diceva ad Hazel che lui era il fulcro. Jason sarebbe
stato anche l’ultimo giocatore. Fuoco o tempesta il mondo cader
faranno. Era quello che diceva la profezia. Per quanto Hazel
temesse il fuoco, temeva maggiormente le tempeste. Jason Grace
poteva causare delle tempeste abbastanza grandi. Alzò lo sguardo e
vide che il bordo della scogliera era pochi metri di distanza.
Raggiunse la cima, senza fiato e sudata. Una lunga vallata in
pendenza si allungava verso l’entroterra, punteggiata da incolti alberi
di olivo e massi di pietra calcarea. Non c’era nessun segno di
civilizzazione. Le gambe di Hazel tremavano a causa della salita.
Gale sembrava ansiosa di esplorare. La donnola abbaiò e rilasciò
del gas e cominciò a correre tra i cespugli più vicini. Molto più in
basso, l’Argo II assomigliava a una barca giocattolo nel canale.
Hazel non riusciva a capire come chiunque potesse essere in grado
di sparare accuratamente una freccia da quell’altezza, calcolando
anche il vento e il riflesso del sole sull’acqua. Alla bocca del canale,
l’enorme sagoma del guscio della tartaruga brillava come una
moneta lucidata. Jason la raggiunse sulla cima, senza apparire
provato dall’arrampicata. Iniziò a dire, “Dove…“ “Qui!” disse una
voce. Hazel indietreggiò. A soli tre metri di distanza, apparve un
uomo, con arco e faretra sulla spalla e due pistole da duello
all’antica nelle mani. Indossava degli alti stivali di pelle, calzoni di
pelle, e una maglietta stile pirata. I ricci capelli neri assomigliavano a
quelli di un bambino e i suoi brillanti occhi verdi erano abbastanza
amichevoli, ma una bandana rossa gli copriva la metà inferiore del
volto. “Benvenuti!” gridò il bandito, puntando le pistole contro di loro.
“I soldi o la vita!” Hazel era certa che non si era trovato là un
secondo prima. Si era semplicemente materializzato, come se fosse
sbucato da dietro una tenda invisibile. “Chi sei?” chiese Hazel. Il
bandito rise. “Scirone, ovviamente!” “Chirone?” chiese Jason. “Come
il centauro?” Il bandito alzò gli occhi al cielo. “Sci…rone, amico mio.
Figlio di Poseidone! Eccellente ladro! Fantastico sotto tutti i punti di
vista! Ma non è importante. Non vedo nessun oggetto prezioso!”
gridò, come se fossero delle notizie fantastiche. “Immagino che
questo voglia dire che volete morire?” “Aspetta,” disse Hazel.
“Abbiamo cose preziose. Ma se le cediamo, come facciamo ad
essere sicuri che ci lascerai andare?” “Oh, lo chiedono sempre,”
disse Scirone. “Vi giuro, sul Fiume Stige, che non appena cederete
ciò che voglio, io non vi sparerò. Vi manderò dritti giù dalla
scogliera.” Hazel lanciò a Jason un’occhiata cauta. Fiume Stige o
meno, il modo nel quale Scirone aveva formulato la sua promessa
non la rassicurava. “Se ti sfidassimo?” chiese Jason. “Non puoi
attaccare noi e tenere sotto tiro la nave nello stesso…“ BANG!
BANG! Accadde così velocemente, che la mente di Hazel ci mise
qualche secondo per elaborare. Del fumo si alzava dal lato della
testa di Jason. Proprio sopra il suo orecchio sinistro, una striscia
rasata correva tra i suoi capelli. Una delle pistole di Scirone era
ancora puntata contro la sua faccia. L’altra era puntava verso il
basso, oltre il bordo della scogliera, come se il secondo colpo di
Scirone fosse stato sparato contro l’Argo II. Hazel si strozzò per la
sorpresa arrivata in ritardo. “Cosa hai fatto?” “Oh, non preoccuparti!”
rise Scirone. “Se potessi vedere da così lontano, cosa che non puoi
fare, vedresti un foro nel ponte tra le scarpe del ragazzo grosso,
quello con l’arco.” “Frank!” Scirone scrollò le spalle. “Se lo dici tu.
Quella era solo una dimostrazione. Temo che avrebbe potuto essere
molto più grave.” Fece girare le pistole. Le canne scattarono, e
Hazel ebbe la sensazione che le pistole fossero appena state
magicamente ricaricate. Scirone sollevò le sopracciglia rivolto verso
Jason. “Quindi! Per rispondere alla tua domanda, sì, posso attaccare
voi e tenere la nave sotto tiro allo stesso tempo. Proiettili di bronzo
Celeste. Abbastanza mortali per i semidei. Voi due morireste per
primi bang, bang. Poi mi potrei prendere il mio tempo per far fuori i
vostri amici su quella nave. Allenarsi sulla mira è molto più divertente
con dei bersagli viventi che corrono e urlano!” Jason si toccò il nuovo
solco che il proiettile gli aveva rasato sui capelli. Per una volta, non
appariva così sicuro. Le caviglie di Hazel tremavano. Frank era il
miglior tiratore con l’arco che conosceva, ma quel bandito Scirone
era inumanamente bravo. “Sei un figlio di Poseidone?” tentò. “Avrei
detto Apollo, visto come tiri.” Le rughe di sorriso intorno ai suoi occhi
si fecero più profonde. “Bè, grazie! Ma si tratta solo di pratica. La
tartaruga gigante, quella dipende dalla mia discendenza. Non puoi
andare in giro ad addestrare tartarughe giganti senza essere un
figlio di Poseidone! Potrei sommergere la vostra nave con un’onda
anomala, ovviamente, ma è una cosa terribilmente difficile. Neanche
lontanamente divertente come fare imboscate e sparare alle
persone.” Hazel cercò di mettere ordine nella mente, di guadagnare
tempo, ma era difficile mentre si avevano davanti agli occhi le canni
fumanti di quelle pistole. “Uh… a cosa serve la bandana?” “Così
nessuno mi riconosce!” disse Scirone. “Ma ti sei presentato,” disse
Jason. “Sei Scirone.” Gli occhi del bandito si spalancarono. “Come
hai… Oh. Sì, credo di averlo fatto.” Abbassò una pistola e si grattò la
testa con l’altra. “Tremendamente stupido da parte mia. Scusate.
Temo di essere un po’ arrugginito. Dopo essere tornato dai morti, e
tutto il resto. Fatemi provare di nuovo.” Alzò le pistole. “Mani in alto!
Sono un bandito anonimo, e voi non avete bisogno di conoscere il
mio nome!” Un bandito anonimo. Qualcosa scattò nella mente di
Hazel. “Teseo. Ti uccise una volta.” Le spalle di Scirone crollarono.
“Ora, perché hai dovuto nominarlo? Stavamo andando così
d’accordo!” Jason aggrottò le sopracciglia. “Hazel, conosci la sua
storia?” Lei annuì, anche se i dettagli erano confusi. “Teseo lo
incontrò sulla strada per Atene. Scirone era solito uccidere le sue
vittime con, un…” Qualcosa che ha che fare con tartaruga. Hazel
non riusciva a ricordarsi. “Teseo era un tale imbroglione!” gemette
Scirone. “Non voglio parlare di lui. Adesso sono tornato dai morti.
Gea mi ha promesso che posso rimanere sulla costa e derubare tutti
i semidei che voglio, ed è quello che farò! Ora…dov’eravamo?”
“Stavi per lasciarci andare,” azzardò Hazel. “Umm…” disse Scirone.
“No, sono piuttosto sicuro che non era quello. Ah, giusto! I soldi o la
vita. Dove sono i vostri averi? Niente averi? Allora dovrò…“
“Aspetta,” disse Hazel. “Ho io i nostri averi preziosi. O comunque,
posso procurarmeli.” Scirone puntò una pistola alla testa di Jason.
“Bè, allora, mia cara, datti da fare, o il mio prossimo tiro taglierà più
dei capelli del tuo amico!” Hazel dovette a stento concentrarsi. Era
così in ansia, che la terra rombò sotto i suoi piedi e gettò
immediatamente fuori un’abbondante mucchio di oggetti, metalli
preziosi che spuntavano dalla superficie come se la terra fosse
ansiosa di espellerli. Si ritrovò circondata da una montagna di tesori
che le arriva alle ginocchia, denari romani, dracme d’argento, antichi
gioielli d’oro, diamanti brillanti, topazi e rubini, abbastanza da poter
riempire diversi sacchi. Scirone rise estasiato. “Come diavolo hai
fatto?” Hazel non rispose. Pensò a tutte le monete che erano
apparse all’incrocio con Ecate. Lì ce n’erano persino di più,
ricchezze nascoste risalenti a secoli prima appartenute a ogni
impero che avesse mai governato su quella terra, Greci, Romani,
Bizantini, e così tanti altri. Quegli imperi non c’erano più, avevano
lasciato solo una terra sterile per il bandito Scirone. Quel pensiero la
fece sentire piccola e debole. “Prendi il tesoro,” disse lei. “Lasciaci
andare.” Scirone ridacchiò. “Oh, ma io ho detto tutte le vostre
ricchezze. So che avete qualcosa di davvero speciale su quella
nave… una certa statua d’oro e d’avorio alta, diciamo, dodici metri?”
Il sudore iniziò ad asciugarsi sul collo di Hazel, causandole brividi
sulla schiena. Jason si fece avanti. Nonostante la pistola puntata alla
faccia, i suoi occhi erano duri come zaffiri. “La statua non è
negoziabile.” “Hai ragione, non lo è” concordò Scirone. “Devo averla
io!” “Te l’ha detto Gea,” indovinò Hazel. “Ti ha ordinato di prenderla.”
Scirone scrollò le spalle. “Forse. Ma mi ha detto che avrei potuto
tenerla per me. Difficile rifiutare un’offerta del genere! Non ho
intenzione di morire di nuovo, amici miei. Intendo vivere una lunga
vita come uomo ricco!” “La statua non ti servirà a nulla,” disse Hazel.
“Non se Gea distrugge il mondo.” Le bocche delle pistole di Scirone
vacillarono. “Pardon?” “Gea ti sta usando,” disse Hazel. “Se prendi
quella statua, noi non saremo in grado di sconfiggerla. Sta
progettando di spazzare via tutti i mortali e i semidei dalla faccia
della terra, permettendo ai suoi giganti e ai mostri di prendere il
controllo. Allora dove spenderai il tuo oro, Scirone? Presumendo che
Gea ti lasci vivere.” Hazel gli lasciò qualche secondo per elaborare
le sue parole. Immaginava che Scirone non avrebbe avuto problemi
a credere ai doppi giochi, essendo un bandito e tutto il resto. Rimase
in silenzio per dieci secondi. Alla fine il suo sorriso tornò. “Va bene!”
disse. “Non sono irragionevole. Tenetevi la statua.” Jason sbatté le
palpebre. “Possiamo andare?” “Solo un’altra cosa,” disse Scirone.
“Chiedo sempre una dimostrazione di rispetto. Prima di lasciare
andare le mie vittime, insisto perché mi lavino i piedi.” Hazel non era
certa di aver sentito bene. Poi Scirone si tolse i suoi stivali di pelle,
uno dopo l’altro. I suoi piedi nudi erano la cosa più disgustosa che
Hazel avesse mai visto… e ne aveva viste di cose disgustose. Erano
gonfi, rugosi, e bianchi come la farina, come se fossero stati immersi
nella formaldeide per qualche secolo. Ciuffi di peli marroni
spuntavano da ogni dito malformato. Le sue unghie frastagliate
erano verdi e gialle, come il guscio di una tartaruga. Poi l’odore la
colpì. Hazel non sapeva se il palazzo nell’Oltretomba di suo padre
fosse dotato di un bar per zombie, ma se ce lo aveva, quel bar
avrebbe avuto l’odore dei piedi di Scirone. “Allora!” Scirone agitò i
suoi disgustosi pollici. “Chi vuole il sinistro, e chi il destro?” Il volto di
Jason si fece bianco quasi quanto quei piedi. “Tu… tu stai
scherzando.” “Affatto!” disse Scirone. “Lavatemi i piedi, e abbiamo
fatto. Vi rimanderò giù dalla scogliera. Lo giuro sul Fiume Stige.”
Fece quella promessa con tale leggerezza, che dei campanelli
d’allarme iniziarono a suonare nella testa di Hazel. Piedi.
Rimandarmi giù dalla scogliera. Guscio di tartaruga La storia le tornò
alla mente, con tutti i pezzi mancanti che andavano al loro posto. Si
ricordò di come Scirone uccideva le sue vittime. “Può darci un
minuto?” chiese Hazel al bandito. Gli occhi di Scirone si strinsero.
“Per fare cosa?” “Bè, è una grossa decisione,” disse lei. “Piede
sinistro, piede destro. Dobbiamo discuterne.” Capiva che il bandito
stava sorridendo sotto la sua bandana. “Certo,” disse. “Sono così
generoso, che potete avere due minuti.” Hazel uscì dalla sua pila di
tesori. Guidò Jason il più lontano possibile di quanto osasse andare,
scendendo di circa quindici metri lungo la scogliera, che sperava
fosse fuori portata d’orecchie. “Scirone spinge le sue vittime giù dalla
scogliera con un calcio,” sussurrò. Jason si accigliò. “Cosa?”
“Quando ti inginocchi per lavargli i piedi,” disse Hazel. “E’ così che ti
uccide. Quando sei sbilanciato, stordito dall’odore dei suoi piedi, lui ti
dà un calcio e ti manda giù dalla scogliera. Precipiti dritto nella bocca
della sua tartaruga gigante.” Jason si prese un attimo per digerire
quell’informazione, per così dire. Guardò oltre la scogliera, dove il
guscio gigante della tartaruga luccicava appena sotto la superficie
dell’acqua. “Allora dobbiamo combattere,” disse Jason. “Scirone è
troppo veloce,” disse Hazel. “Ci ucciderà entrambi.” “Allora sarò
pronto per volare. Quando mi darà il calcio, mi fermerò a mezz’aria.
Poi quando spingerà te, ti prenderò.” Hazel scosse la testa. “Se ti da
un calcio abbastanza forte e veloce, sarai troppo stordito per volare.
E anche se potessi, Scirone ha gli occhi di un tiratore. Ti guarderà
cadere. Se ti fai librare, lui si limiterà a spararti.” “Allora…” Jason
strinse l’elsa della sua spada. “Spero che hai un’altra idea?” A
qualche metro di distanza, la donnola Gale apparve dai cespugli.
Digrignò i denti e scrutò Hazel come a dire, Ebbene? Ce l’hai? Hazel
si calmò i nervi, cercando di evitare di far spuntare altro oro dal
terreno. Si ricordò del sogno della voce di Plutone che aveva fatto: I
morti vedono quello che credono vedranno. Così fanno i vivi. E’
questo il segreto. Capì quello che doveva fare. Detestava l’idea più
di quanto detestasse le donnole con l’aria nella pancia, più di quanto
detestasse i piedi di Scirone. “Sfortunatamente, sì,” disse Hazel.
“Dobbiamo permettere a Scirone di vincere.” “Cosa?” chiese Jason.
Hazel gli spiegò il piano.
28

HAZEL

“Finalmente!” gridò Scirone. “Quelli erano molto più di due minuti!”


“Ci dispiace,” disse Jason. “Si trattava di una grossa decisione…
quale piede.” Hazel cercò di schiarirsi la mente e immaginare la
scena attraverso gli occhi di Scirone, quello che desiderava, quello
che si aspettava. Quella era la chiave per usare la Foschia. Non
poteva obbligare qualcuno a vedere il mondo a modo suo. Non
poteva far apparire la realtà di Scirone meno credibile. Ma se lei gli
mostrava quello che lui voleva vedere… bè, era una figlia di Plutone.
Aveva trascorso decenni con i morti, ad ascoltarli rimpiangere le loro
vite passate che si ricordavano a stento, i loro ricordi distorti della
nostalgia. I morti vedendo quello che credevano avrebbero visto.
Così facevano i vivi. Plutone era il dio dell’Oltretomba, il dio delle
ricchezze. Forse quelle due sfere di influenza erano più connesse di
quando Hazel si fosse resa conto. Non c’era molta differenza tra
desiderio e brama. Se era in grado di far apparire oro e diamanti,
perché non far apparire un altro tipo di tesoro, una visione del
mondo che le persone volevano vedere? Ovviamente poteva
sbagliarsi, e in quel caso lei e Jason stavano per diventare cibo per
tartarughe. Mise la mano sulla tasca del suo giacchetto, dove il
legnetto magico di Frank sembrava essere più pesante del solito. In
quel momento non stava solo trasportando la sua linea vitale. Stava
trasportando le vite tutto il gruppo. Jason si fece avanti, con le mani
aperte in segno di resa. “Andrò prima io, Scirone. Ti laverò il piede
sinistro.” “Scelta eccellente!” Scirone agitò le sue pelose dita dei
piedi simili a quelle di un cadavere. “Potrei aver calpestato qualcosa
con quel piede. Lo sentivo un po’ scivoloso dentro lo stivale. Ma
sono certo che lo laverai come si deve.” Le orecchie di Jason
avvamparono. Dalla tensione che aveva nel collo, Hazel capiva che
era tentato di abbandonare la farsa e di attaccare, un veloce affondo
con la sua spada d’oro Imperiale. Ma Hazel sapeva che se avesse
provato, avrebbe fallito. “Scirone,” si intromise, “hai dell’acqua?
Sapone? Come facciamo a…“ “Così!” Scirone fece roteare la pistola
di sinistra. Improvvisamente si trasformò in una bottiglietta spray con
straccio. Li lanciò a Jason. Jason lesse l’etichetta. “Vuoi che ti lavi i
piedi con detergente per vetri?” “Certo che no!” Scirone aggrottò le
sopracciglia. “Dice pulitore multi superficie. I miei piedi si qualificano
senza dubbio come multi superfici. Inoltre, è antibatterico. Ne ho
bisogno. Credimi, l’acqua non funzionerebbe con questi piccolini.”
Scirone agitò i piedi, e altro odore da bar di zombie si diffuse per la
scogliera. Jason emise un verso strozzato. “Oh, dei, no…” Scirone
scrollò le spalle. “Puoi sempre scegliere quello che ho nell’altra
mano.” Sollevò la pistola di destra. “Lo farà,” disse Hazel. Jason la
fissò con sguardo torvo, ma Hazel vinse la sfida di sguardi. “Bene,”
borbottò. “Eccellente! Adesso…” Scirone saltellò verso il masso più
vicino, che era della grandezza giusta da servire come sgabello. Si
girò verso l’acqua e poggiò sopra il piede, così che appariva come
qualche esploratore che aveva appena rivendicato un nuovo paese.
“Guarderò l’orizzonte mentre tu mi strofini i calli. Sarà molto più
piacevole.” “Sì,” disse Jason. “Ci scommetto.” Jason si inginocchiò
davanti al bandito, al bordo della scogliera dove era un bersaglio
semplice. Un calcio, e sarebbe precipitato. Hazel si concentrò.
Immaginò si essere Scirone, il signore dei banditi. Stava guardando
dall’alto in basso un patetico ragazzino biondo che non era affatto
una minaccia, solo un altro semidio sconfitto che stava per diventare
la sua vittima. Nella sua mente, vide quello che sarebbe accaduto.
Chiamò la Foschia, invocandola dalle profondità della terra come
faceva con l’oro, l’argento e i rubini. Jason schizzò il liquido
detergente. I suoi occhi si fecero lucidi. Strofinò l’alluce di Scirone
con lo straccio e si voltò di lato per tossire. Hazel riusciva a
malapena guardare. Quando ci fu il calcio, per poco non lo mancò.
Scirone sbatté il piede contro il petto di Jason. Jason inciampò
all’indietro oltre il bordo, con le braccia che si agitavano in aria,
urlando mentre cadeva. Quando stava per colpire l’acqua, la
tartaruga emerse e lo inghiottì in un unico boccone, poi affondò di
nuovo sotto la superficie. Le campane di allarme dell’Argo II si
attivarono. Gli amici di Hazel corsero per il ponte, preparando le
catapulte. Hazel poteva udire il pianto di Piper fin da lassù. Era così
sofferto, che Hazel rischiò di perdere la concentrazione. Obbligò la
sua mente a dividersi in due parti, una intensamente concentrata sul
suo compito, una intenta a interpretare il ruolo che Scirone doveva
vedere. Urlò oltraggiata. “Cosa hai fatto?” “Oh, cara…” Scirone
sembrava triste, ma Hazel aveva l’impressione che stesse
nascondendo un sorriso sotto la sua bandana. “E’ stato un incidente,
te lo garantisco.” “Adesso i miei amici ti uccideranno!” “Possono
provare,” disse Scirone. “Ma nel frattempo, credo che tu abbia il
tempo di lavare l’altro piede! Credimi, mia cara. Adesso la mia
tartaruga è piena. Non vuole anche te. Sarai totalmente al sicuro, a
meno che tu non ti rifiuti.” Puntò la pistola contro la sua testa. Lei
esitò, facendogli vedere la sua paura. Non poteva accettare troppo
facilmente, o lui non avrebbe creduto che era stata sconfitta. “Non
colpirmi,” disse sull’orlo delle lacrime. Gli occhi di Scirone
luccicarono. Quello era esattamente ciò che si era aspettato. Hazel
era distrutta e impotente. Scirone, il figlio di Poseidone, aveva vinto
di nuovo. Hazel non riusciva a credere che quel tipo avesse lo
stesso padre di Percy Jackson. Poi si ricordò che Poseidone aveva
una personalità mutevole, come il mare. Forse i suoi figli riflettevano
quell’aspetto. Percy era il figlio della natura migliore di Poseidone,
potente, ma gentile e generosa, il tipo di mare che accompagnava le
navi senza pericoli fino alle terre lontane. Scirone era il figlio
dell’altro aspetto di Poseidone, il tipo di mare che si gettava senza
tregua contro la costa finché non la sbriciolava, o che allontanava gli
innocenti dalla riva e li faceva annegare, o che affondava le navi e
uccideva ciurme intere senza pietà. Prese da terra lo spruzzino che
Jason aveva fatto cadere. “Scirone,” ringhiò, “i tuoi piedi sono la
cosa meno disgustosa di te.” I suoi occhi verdi si indurirono. “Lava e
basta.” Si inginocchiò, cercando di ignorare l’odore. Si spostò da un
lato, obbligando Scirone ad adattarsi alla sua posizione, ma
immaginò che il mare fosse ancora alle sue spalle. Mantenne quella
visione nella sua mente mentre si muoveva ancora di lato. “Vuoi
iniziare!” disse Scirone. Hazel soffocò un sorriso. Era riuscita a far
voltare Scirone di cento ottanta gradi, ma lui continuava a vedere
l’acqua di fronte, con la terra ferma alle spalle. Iniziò a pulire. Hazel
aveva fatto parecchi lavori sporchi in passato. Aveva pulito le stalle
degli unicorni al Campo Giove. Aveva riempito e svuotato le latrine
per le legioni. Questo non è nulla, si disse. Ma era così difficile non
farsi assalire dai conati di vomito quando guardava i piedi di Scirone.
Quando arrivò il calcio, lei volò all’indietro, ma non andò lontano.
Atterrò sull’erba a pochi metri di distanza. Scirone la fissò. “Ma…”
Improvvisamente il mondo mutò. L’illusione crollò, lasciando Scirone
completamente confuso. Il mare si trovava dietro di lui. Era riuscito
solo a fare allontanare Hazel dal bordo. Abbassò la sua pistola.
“Come…“ “Mani in alto,” gli disse Hazel. Jason volò giù dal cielo,
esattamente sopra la sua testa, e buttò il bandito oltre la scogliera
con il peso del suo corpo. Scirone gridò mentre cadeva, sparando
selvaggiamente con la sua pistola, ma per una volta non colpì nulla.
Hazel si rimise in piedi. Raggiunse il bordo della scogliera in tempo
per vedere la tartaruga balzare e afferrare Scirone al volo. Jason
fece un grosso sorriso. “Hazel, è stato stupefacente. Davvero…
Hazel? Ehi, Hazel?” Hazel crollò sulle ginocchia, sentendosi
improvvisamente stordita. In lontananza, poteva sentirei suoi amici
che acclamavano dalla nave in basso. Jason era accanto a lei, ma si
stava muovendo a rallentatore, i bordi della sua sagoma sfocati, con
la voce muta. Del ghiaccio si diffuse sulle rocce e sull’erba attorno a
lei. La montagna di ricchezze che aveva fatto comparire affondò di
nuovo nella terra. La Foschia vorticò. Che cosa ho fatto? pensò nel
panico. Qualcosa è andato storto. “No, Hazel,” disse una voce
profonda alle sue spalle. “Sei stata brava.” Osava a malapena
respirare. Aveva sentito quella voce solo un’altra volta, ma l’aveva
riascoltata nella sua mente migliaia di volte. Si voltò e si trovò di
fronte a suo padre. Era vestito secondo lo stile romano, i capelli scuri
tagliati cortissimi, il volto pallido e spigoloso privo di barba. La sua
tunica e la toga erano di lana nera, ricamante con fili d’oro. I volti
delle anime tormentate si muovevano all’interno del tessuto. Il bordo
dalla sua toga era foderato con il rosso cremisi di un senatore o di
un pretore, ma le strisce ondulavano come fossero un fiume di
sangue. Sull’anulare di Plutone c’era un enorme opale, come fosse
un pezzo lucido e congelato di Foschia. Il suo anello di matrimonio,
pensò Hazel. Ma Plutone non aveva mai spostato la madre di Hazel.
Gli dei non sposavano i mortali. Quell’anello doveva rappresentare il
suo matrimonio con Persefone. Il pensiero la fece arrabbiare così
tanto, che scosse via il suo stordimento e si alzò in piedi. “Che cosa
vuoi?” chiese. Sperava che il suo tono lo ferisse, che lo pugnalasse
per tutto il dolore che le aveva causato. Ma sulla sua bocca apparve
un debole sorriso. “Figlia mia,” disse. “Sono colpito. Sei diventata
forte.” Non grazie a te, voleva dire. Non voleva provare nessun
piacere nel suo complimento, ma malgrado ciò i suoi occhi
cominciarono a pizzicare. “Pensavo che voi divinità maggiori foste
fuori uso,” riuscì a dire. “Con le vostre personalità greche e romane
l’una contro l’altra.” “Lo siamo,” concordò Plutone. “Ma tu mi hai
invocato con così tanta forza che mi hai permesso di comparire…
anche se solo per un momento.” “Non ti ho invocato.” Ma persino
mentre lo diceva, sapeva che non era vero. Per la rima volta,
spontaneamente, aveva abbracciato la sua discendenza come figlia
di Plutone. Aveva cercato di capire i poteri di suo padre e li aveva
usati alla loro massima possibilità. “Quando arriverete alla mia casa
in Epiro,” disse Plutone, “devi essere preparata. I morti non vi
accoglieranno. E la maga Pasifae…“ “Pace fai?” chiese Hazel. Poi
capì che doveva trattarsi del nome della donna. “Lei non sarà
ingannata tanto facilmente quanto Scirone.” Gli occhi di Plutone
brillarono come pietra vulcanica. “Hai superato il tuo primo test, ma
Pasifae ha intenzione di ricostruire il suo regno, cosa che metterà in
pericolo tutti i semidei. A meno che tu non la fermi alla Casa di
Ade…” La sua figura vacillò. Per un attimo gli apparve la barba, con
vestiti greci e una corona d’alloro nei capelli. Intorno ai suoi piedi,
delle mani di scheletro apparvero dalla terra. Il dio strinse i denti e
aggrottò le sopracciglia. La sua forma romana si stabilizzò. Le mani
scheletro si dissolsero nuovamente nella terra. “Non abbiamo molto
tempo.” Appariva come un uomo che aveva da poco superato una
brutta malattia. “Sappi che le Porte della Morte si trovano nel livello
più basso del Necromanteion. Devi far vedere a Pasifae quello che
lei vuole vedere. Hai ragione. E’ questo il segreto di tutta la magia.
Ma non sarà facile quando ti troverai nel suo labirinto.” “Cosa vuoi
dire? Quale labirinto?” “Capirai,” promise lui. “E, Hazel Levesque…
non mi crederai, ma sono fiero della tua forza. A volte… a volte
l’unico modo nel quale posso prendermi cura dei miei figli è
mantenere le distanze.” Hazel si rimangiò un insulto. Plutone era
soltanto un altro di quei pessimi padri divini che inventano deboli
scuse. Ma il suo cuore martellò mentre ripeteva nella sua mente le
sue parole: Sono fiero della tua forza. “Vai dai tuoi amici,” disse
Plutone. “Saranno preoccupati. Il viaggio verso Epiro nasconde
ancora molti pericoli.” “Aspetta,” disse Hazel. Plutone inarcò le
sopracciglia. “Quando ho incontrato Tanato,” disse, “sai… Morte…
mi ha detto che non ero sulla tua lista degli spiriti scappati da
catturare. Ha detto che forse è per questo che stavi mantenendo le
distanze. Se riconoscevi la mia presenza, avresti dovuto riportarmi
nell’Oltretomba.” Plutone aspettò. “Qual è la tua domanda?” “Sei qui.
Perché non mi porti nell’Oltretomba? Perché non mi restituisci ai
morti?” La figura di Plutone iniziò a svanire. Sorrise, ma Hazel non
riuscì a capire se fosse triste o compiaciuto. “Forse quello non è ciò
che io voglio vedere, Hazel. Forse non sono mai stato qui.”
29

PERCY

Percy si sentì sollevato quando le nonne demoni cominciarono ad


avvicinarsi per attaccare. Certo, era terrorizzato. Non gli piacevano
le possibilità che avevano loro tre contro diverse dozzine di mostri.
Ma almeno sapeva cosa voleva dire combattere. Vagare
nell’oscurità, in attesa di essere attaccato, la cosa lo stava facendo
diventare pazzo. Inoltre, lui e Annabeth avevano combattuto insieme
molto volte. E adesso avevano un Titano dalla loro parte. “Indietro.”
Percy pugnalò la strega raggrinzita più vicina con Vortice, ma lei si
limitò a ringhiare. Siamo arai, disse quella strana voce esterna,
come se tutta la foresta stesse parlando. Non puoi distruggerci.
Annabeth si strinse contro la sua spalla. “Non toccarle,” avvertì.
“Sono gli spiriti delle maledizioni.” “A Bob non piacciono le
maledizioni,” decise Bob. Il gattino scheletro, Piccolo Bob,
scomparve dentro la sua tuta. Gatto intelligente. Il Titano brandì la
sua scopa disegnando un ampio arco, obbligando gli spiriti a
indietreggiare, ma loro si riavvicinarono come un’onda. Noi serviamo
gli accaniti e gli sconfitti, disse l’arai. Noi serviamo gli uccisi che
hanno pregato per la vendetta con il loro ultimo respiro. Abbiamo
molte maledizioni da condividere con voi. L’acqua di fuoco nella
pancia di Percy cominciò a farsi strada lungo la sua gola. Desiderò
che il Tartaro offrisse delle bibite migliori, o magari un albero che
dispensasse frutta antiacido. “Apprezzo l’offerta,” disse. “Ma mia
madre mi ha detto di non accettare maledizioni dagli sconosciuti.” Il
demone più vicino si gettò contro di lui. I suoi artigli si estero come
ossuti coltelli a serramanico. Percy la tagliò a metà, ma non appena
il mostro si vaporizzò, il fianco del suo petto esplose di dolore.
Inciampò all’indietro, stringendosi le mani contro la cassa toracica.
Le dita si tinsero di rosso. “Percy, stai sanguinando!” gridò Annabeth,
cosa che a quel punto gli era abbastanza chiara. “Oh, dei, da tutte e
due le parti.” Era vero. L’orlo destro e sinistro della sua maglietta a
brandelli erano impregnati di sangue, come se un giavellotto
l’avesse attraversato da parte a parte. Oppure una freccia…
Un’ondata di nausea lo fece quasi cadere. Vendetta. Una
maledizione dagli uccisi. Ritornò con la mente a un incontro in Texas
due anni prima, un combattimento con un rancher mostruoso che
poteva essere ucciso solo se tutti e tre i suoi corpi venivano colpiti
contemporaneamente “Gerione,” disse Percy. “E’ così che l’ho
ucciso….” Gli spiriti scoprirono le loro zanne. Altre arai balzarono giù
dagli alberi neri, sbattendo le ali di pelle. Sì, concordarono. Prova il
dolore che hai inflitto a Gerione. Così tante maledizioni sono state
alzate contro di te, Percy Jackson. Per mano di quale morirai?
Scegli, o ti faremo a pezzi! In qualche modo rimase in piedi. Il
sangue smise di uscire, ma si sentiva ancora come se avesse
un’asta di metallo incandescente infilzata tra le costole. Il braccio
che reggeva la spada era pesante e debole. “Non capisco,”
mormorò. La voce di Bob sembrava riecheggiare dalla fine di un
lungo tunnel: “Se ne uccidi una, questa ti da una maledizione.” “Ma
se non le uccidiamo…” disse Annabeth. “Loro ci uccideranno lo
stesso,” indovinò Percy. Scegli! gridò l’arai. Sarai maledetto come
Kampe? Oppure disintegrato come i giovani telchini che hai ucciso
sotto il Monte Sant’Elena? Hai diffuso così tante morti e sofferenze,
Percy Jackson. Lascia che ti ripaghiamo! Le streghe alate si fecero
più vicine, con i fiati acidi, gli occhi brucianti di odio. Avevano
l’aspetto delle Furie, ma Percy decise che quelle cose erano persino
peggiori. Almeno le tre Furie erano sotto il controllo di Ade. Questi
esseri erano selvaggi, e continuavano a moltiplicarsi. Se
personificavano veramente le maledizioni fatte in punto di morte di
ogni nemico che Percy avesse mai distrutto… allora Percy era in
guai seri. Aveva affrontato un sacco di nemici. Una delle demoni si
lanciò verso Annabeth. Istintivamente, lei la schivò. Abbassò la
roccia che aveva in mano sulla testa della vecchia demone e la
ridusse in polvere. Non è che Annabeth avesse avuto molta scelta.
Percy avrebbe fatto la stessa cosa. Ma istantaneamente Annabeth
lasciò cadere la roccia e gridò di paura. “Non riesco a vedere!” Si
toccò la faccia, guardandosi selvaggiamente intorno. I suoi occhi
erano completamente bianchi. Percy corse al suo fianco mentre le
arai ridacchiavano. Polifemo ti ha maledetta quando l’hai ingannato
con la tua invisibilità nel Mare dei Mostri. Ti sei fatta chiamare
Nessuno. Lui non poteva vederti. Adesso tu non potrai vedere chi
attacca te. “Ti proteggo io,” promise Percy. Le mise un braccio
intorno alla vita, ma mentre le arai avanzavano, lui non sapeva come
avrebbe fatto a proteggere entrambi. Una dozzina di demoni balzò
da ogni direzione, ma Bob gridò, “SWISH!” La sua scopa sibilò sopra
la testa di Percy. L’intera linea offensiva delle arai cadde all’indietro
come fossero birilli. Altre si lanciarono in avanti. Bob ne colpì una
sulla testa e ne impalò un’altra, riducendole in polvere. Le altre
indietreggiarono. Percy trattenne il fiato, aspettando che il loro amico
Titano venisse messo a terra da qualche terribile maledizione, ma
Bob sembrava stare bene, un’enorme bodyguard d’argento che
teneva la morte a bada con l’attrezzo da pulizia più terrificante del
mondo. “Bob, stai bene?” chiese Percy. “Nessuna maledizione?”
“Nessuna maledizione per Bob!” annuì Bob. Le arai ringhiarono e gli
girarono intorno, guardando furtive la scopa. Il Titano è già
maledetto. Perché dovremmo torturarlo più a lungo? Tu, Percy
Jackson, hai già distrutto la sua memoria. La lancia di Bob si
abbassò. “Bob, non ascoltarle,” disse Annabeth. “Sono malvagie!” Il
tempo rallentò. Percy si chiese se lo spirito di Crono fosse da
qualche parte là vicino, vorticante nel buio, godendosi così tanto
quel momento che voleva durasse per sempre. Percy si sentì
esattamente come si era sentito quando aveva avuto dodici anni, a
combattere contro Ares su quella spiaggia a Los Angeles, quando
l’ombra del signore dei Titani era passata sopra di lui per la prima
volta. Bob si voltò. I suoi selvaggi capelli bianchi assomigliavano a
un’aureola che era esplosa. “La mia memoria… se stato tu?”
Maledicilo, Titano! lo incitarono le arai, con gli occhi rossi che
brillavano. Aggiungilo alle nostre! Il cuore di Percy gli martellò contro
le costole. “Bob, è una storia lunga. Non volevo che tu fossi mio
nemico. Ho cercato di renderti un amico.” Rubandoti la tua vita,
dissero le arai. Lasciandoti nel palazzo di Ade a pulire i pavimenti!
Annabeth afferrò la mano di Percy. “Da che parte?” sussurrò. “Se
dobbiamo scappare?” Lui capì. Se Bob non li avesse voluti
proteggere, la loro unica possibilità era quella di scappare, ma non
era affatto una possibilità fattibile. “Bob, ascolta,” cercò di nuovo, “le
arai vogliono farti arrabbiare. Loro nascono dai pensieri cattivi. Non
dare loro ciò che vogliono. Noi siamo tuoi amici.” Persino mentre lo
diceva, Percy si sentì come un bugiardo. Aveva lasciato Bob
nell’Oltretomba e non ci aveva più pensato da allora. Cosa li rendeva
degli amici? Il fatto che adesso Percy avesse bisogno di lui? Percy
aveva sempre detestato quando gli dei lo usavano per i loro
interessi. Adesso lui stava trattando Bob nello stesso modo. Non
vedi la sua faccia? ringhiarono le arai. Il ragazzo non sa neanche
convincere se stesso. Ti è mai venuto a trovare, dopo averti rubato
la memoria? “No,” mormorò Bob. Il suo labbro inferiore tremava.
“L’ha fatto l’altro.” I pensieri di Percy si muovevano lentamente.
“L’altro?” “Nico.” Bob lo guardò accigliato, con gli occhi carichi di
dolore. “Nico mi è venuto a trovare. Mi raccontava di Percy. Diceva
che Percy era buono. Diceva che era un amico. E’ per questo che
Bob ha aiutato.” “Ma…” La voce di Percy si disintegrò come se
qualcuno l’avesse colpito con una lama di bronzo Celeste. Non si
era mai sentito così vile e disonorabile, così indegno di avere un
amico. Le arai attaccarono, e questa volta Bob non le fermò.
30

PERCY

“Sinistra!” Percy trascinò Annabeth, affondando Vortice contro le arai


per aprirsi una strada. Probabilmente attrasse su di sé una dozzina
di maledizioni, ma non le avvertì subito, quindi continuò a correre. Il
dolore al petto bruciava ad ogni passo. Corse tra gli alberi, guidando
Annabeth alla massima velocità nonostante la sua cecità. Percy si
rese conto di quanto lei si fidasse di lui, del fatto l’avrebbe portata via
da lì. Non poteva deluderla, ma come avrebbe fatto a salvarla? E se
fosse rimasta permanentemente cieca… No. Soffocò un’ondata di
panico. Avrebbe pensato dopo a come curarla. Prima dovevano
scappare. Ali da pipistrello mossero l’aria sopra di loro. Sibili
arrabbiati e il ticchettio di zampe artigliate gli dissero che i demoni
erano alle loro spalle. Mentre correvano accanto a uno degli alberi
neri, affondò Vortice nel suo tronco. Udì il rumore di qualcosa che
cadeva, seguito dal soddisfacente scricchiolio di diverse dozzine di
arai che venivano schiacciate a terra Se un albero cade nella foresta
e schiaccia un demone, l’albero viene maledetto? Percy affettò un
altro tronco, poi un altro. Li fece guadagnare qualche secondo, ma
non era abbastanza. Improvvisamente l’oscurità davanti a loro si
fece più densa. Percy si rese conto di quello che voleva dire appena
in tempo. Afferrò Annabeth appena prima che entrambi si gettassero
oltre il bordo del dirupo. “Cosa?” gridò lei. “Cosa c’è?” “Precipizio,”
disse lui senza fiato. “Grosso precipizio.” “Da che parte allora?”
Percy non riusciva a vedere quanto fosse profondo il dirupo.
Potevano essere tre metri, oppure un migliaio. Non poteva sapere
cosa ci fosse sul fondo. Potevano saltare e sperare nel meglio, ma
dubitava che “il meglio” fosse qualcosa che si verificasse nel Tartaro.
Quindi: due opzioni: destra o sinistra, seguendo il bordo. Stava per
scegliere a caso quando un demone alato discese davanti a lui,
librato sopra il vuoto mentre sbatteva le ali da pipistrello, appena
fuori dalla portata della spada. Avete fatto una bella passeggiata?
chiese la voce collettiva, riecheggiando tutto intorno. Percy si voltò.
Le arai si riversarono fuori dalla foresta, formando un semicerchio
intorno a loro. Una afferrò il braccio di Annabeth. Lei gemette di
rabbia, gettò il mostro a terra facendoselo volare sopra la spalla e
colpendolo sul collo, mettendo tutto il peso del suo corpo in un colpo
di gomito che avrebbe reso orgoglioso qualsiasi lottatore
professionista. Il demone si dissolse, ma quando Annabeth si rimise
in piedi, apparve sconvolta e spaventata, oltre che cieca. “Percy?”
chiamò con il panico che si faceva strada nella voce. “Sono qui.”
Cercò di metterle una mano sulla spalla, ma lei non era dove aveva
pensato. Provò di nuovo, solo per scoprire che si trovava diversi
metri più avanti. Era come cercare di afferrare qualcosa in una vasca
d’acqua, con la luce che spostava l’immagine in continuazione.
“Percy!” La voce di Annabeth era incrinata. “Perché mi hai
abbandonato?” “Non l’ho fatto!” Si voltò verso le arai, con le braccia
che tremavano dalla rabbia. “Cosa le avete fatto?” Noi non abbiamo
fatto nulla, dissero i demoni. La tua amata ha rilasciato una
maledizione speciale, un pensiero vendicativo da qualcuno che hai
abbandonato. Hai punito un’anima innocente lasciandola nella sua
solitudine. Adesso il suo desiderio più carico d’odio si è avverato:
Annabeth prova la sua disperazione. Anche lei morirà sola e
abbandonata. “Percy?” Annabeth tese le braccia, cercando di
trovarlo. Le arai indietreggiarono, lasciandola camminare cieca e
incerta tra i loro ranghi. “Chi ho abbandonato?” chiese Percy. “Non
ho mai…“ Improvvisamente si sentì come se il suo stomaco fosse
precipitato in quel dirupo. Le parole risuonarono nella sua testa:
Un’anima innocente. Sola e abbandonata. Si ricordò di un’isola, una
caverna illuminata da fiochi cristalli brillanti, un tavolo da pranzo sulla
spiaggia servito da spiriti dell’aria invisibili. “Non l’avrebbe fatto,”
mormorò. “Non mi maledirebbe mai.” Gli occhi dei demoni si fusero
insieme come le loro voci. I fianchi di Percy pulsavano. Il dolore nel
suo petto era peggiore, come se qualcuno lo avesse infilzato con un
pugnale, girandolo lentamente sempre più a fondo. Annabeth
vagava tra i demoni, chiamando disperata il suo nome. Percy voleva
correre da lei, ma sapeva che le arai non lo avrebbero permesso.
L’unica ragione per cui non l’avevano ancora uccisa era che si
stavano godendo la sua angoscia. Percy serrò la mascella. Non gli
importava quante maledizioni avrebbe preso. Doveva tenere quelle
vecchie streghe raggrinzite concentrate su di lui e proteggere
Annabeth il più a lungo possibile. Urlò furioso e le attaccò tutte.
31

PERCY

Per un eccitante minuto, Percy credette di vincere. Vortice affondava


nelle arai come se fossero fatte di zucchero a velo. Una si fece
prendere dal panico e andò a sbattere di faccia contro un albero.
Un’altra gridò e cercò di volare via, ma Percy le tagliò le ali e la fece
precipitare nell’abisso. Ogni volta che un demone si disintegrava,
Percy avvertiva un senso sempre più pesante di angoscia mentre gli
veniva inflitta un’altra maledizione. Alcune erano violente e dolorose:
una pugnalata nello stomaco, una sensazione di bruciore come se
fosse stato investito da una vampata di fuoco. Altre erano insidiose:
il sangue che gli si gelava, un incontrollabile tic all’occhio destro.
Seriamente, chi è che ti malediceva con il suo ultimo respiro e
diceva: Spero che avrai un tic all’occhio! Percy sapeva di aver ucciso
un sacco di mostri, ma non aveva mai pensato veramente alla cosa
dal punto di vista dei mostri. Adesso tutto il loro dolore, rabbia e
amarezza lo investivano, indebolendolo. Le arai non facevano altro
che continuare ad arrivare. Per ognuna che ne abbatteva, altre sei
sembravano comparire al posto suo. Il braccio che teneva Vortice si
faceva sempre più stanco. Il suo corpo era indolenzito, e la sua vista
era sfocata. Cercò di farsi strada verso Annabeth, ma era troppo
lontana, e continuava a chiamare il suo nome mentre vagava tra i
demoni. Mentre Percy avanzava lentamente verso di lei, un demone
attaccò e gli affondò i denti nella coscia. Percy ruggì. Affettò il
demone riducendolo in polvere, ma cadde immediatamente sulle
ginocchia. La sua bocca bruciava più di quando aveva bevuto
l’acqua infuocata del Flegetonte. Si ripiegò in due, tremando e
scosso da conati di vomito, mentre una dozzina di serpenti infuocati
sembravano farsi strada lungo il suo esofago. Hai scelto, disse la
voce delle arai, la maledizione di Fineo… una bellissima morte
dolorosa. Percy cercò di parlare. La sua lingua sembrava fosse stata
messa nel microonde. Si ricordò del vecchio re cieco che aveva
inseguito le arpie attraverso Portland con un tosaerba. Percy l’aveva
sfidato, e il perdente aveva bevuto una fiala mortale di sangue di
gorgoni. Percy non si ricordava di aver sentito l’anziano cieco
mormorare una maledizione finale, ma mentre Fineo si dissolveva e
tornava nell’Oltretomba, non credeva che gli avesse augurato una
vita lunga e felice. Dopo la vittoria di Percy di allora, Gea l’aveva
messo in guardia: Non forzare la tua fortuna. Quando arriverà la tua
morte, ti prometto che sarà molto più dolorosa del sangue di gorgoni.
Adesso si trovava nel Tartaro, morente a causa del sangue di
gorgoni con in più un’altra dozzina di maledizioni strazianti, mentre
guardava la sua ragazza vagare indifesa e cieca e convinta che lui
l’avesse abbandonata. Strinse la sua spada. Le sue nocche
iniziarono a fumare. Del fumo bianco si alzò dai suoi avambracci.
Non morirò così, pensò. Non solo perché era doloroso e
assolutamente penoso, ma perché Annabeth aveva bisogno di lui.
Quando fosse morto, i demoni avrebbero rivolto la loro attenzione su
di lei. Non poteva lasciarla da sola. Le arai si raggrupparono intorno
a lui, ridacchiando e sibilando. Esploderà per prima la sua testa,
ipotizzò la voce. No si rispose la voce da sola provenendo da
un’altra direzione. Prenderà fuoco tutto insieme. Stavano facendo
scommesse su come sarebbe morto… che tipo di segno di
bruciatura avrebbe lasciato sul terreno. “Bob,” gracchiò. “Ho bisogno
di te.” Un appello senza speranza. Riusciva a malapena a sentire la
propria voce. Perché Bob avrebbe dovuto rispondere alla sua
chiamata due volte? Adesso il Titano sapeva la verità, Percy non era
un amico. Alzò lo sguardo un’ultima volta. L’ambiente circostante
sembrò tremolare. Il cielo stava bollendo e la terra si coprì di
vesciche. Percy si rese conto che ciò che vedeva del Tartaro era
solo una versione diluita del suo vero orrore, solo ciò che la sua
mente da semidio poteva sopportare. La parte peggiore di esso era
nascosta, nello stesso modo nel quale la Foschia nascondeva i
mostri alla vista mortale. Adesso che Percy stava morendo, iniziava
a vedere la verità. L’aria era il respiro del Tartaro. Tutti quei mostri
non erano altro che cellule del sangue che scorrevano nel suo
corpo. Tutto ciò che Percy vedeva era un sogno nella mente
dell’oscuro dio dell’abisso. Quello doveva essere il modo nel quale
Nico aveva visto il Tartaro, e ciò aveva quasi distrutto la sua sanità.
Nico… una delle tante persone che Percy non aveva trattato
abbastanza bene. Lui e Annabeth erano riusciti ad arrivare fino lì nel
Tartaro solo perché Nico di Angelo si era comportato come un vero
amico con Bob. Vedi gli orrori dell’abisso? dissero le arai con voce
delicata. Arrenditi, Percy Jackson. Non è meglio la morte che
sopportare questo luogo? “Mi dispiace,” mormorò Percy. Si è
scusato! gridarono le arai contente. Rimpiange la sua vita fallita, i
suoi crimini contro i figli del Tartaro! “No,” disse Percy. “Mi dispiace,
Bob. Avrei dovuto essere onesto con te. Ti prego… perdonami.
Proteggi Annabeth.” Non si aspettava che Bob lo sentisse o che gli
importasse, ma sembrava giusto pulirsi la coscienza. Non poteva
dare la colpa a nessun altro per i suoi guai. Non agli dei. Non a Bob.
Non poteva neanche dare la colpa a Calypso, la ragazza che aveva
lasciato da sola su quell’isola. Forse era diventata vendicativa e
aveva maledetto la ragazza di Percy presa dalla disperazione.
Tuttavia… Percy avrebbe dovuto continuare a pensare a Calypso,
assicurarsi che gli dei la liberassero dal suo esilio su Ogigia come
avevano promesso. Non l’aveva trattata meglio di quanto avesse
trattato Bob. Non ci aveva nemmeno pensato molto, anche se la sua
pianta di trina di luna continuava a fiorire sul davanzale di sua
madre. Ci vollero tutte le forze che gli erano rimaste, ma si mise in
piedi. Il vapore si alzava da tutto il suo corpo. Le sue gambe
tremavano. L’interno del suo corpo bolliva come un vulcano. Almeno
Percy avrebbe potuto andarsene combattendo. Alzò Vortice. Ma
prima che potesse colpire, tutte le arai davanti a lui esplosero
riducendosi in polvere.
32

PERCY

Bob sapeva davvero come usare una scopa. La agitò avanti e


indietro, distruggendo i demoni uno dopo l’altro mentre il gattino
Piccolo Bob sedeva sulla sua spalla, inarcando la schiena e
soffiando. In pochi secondi, le arai sparirono. La maggior parte erano
state vaporizzate. Quelle furbe erano volate via nel buio, strillando
dal terrore. Percy voleva ringraziare il Titano, ma la sua voce non
funzionava. Le sue gambe tremarono. Le orecchie gli fischiavano.
Attraverso un brillio rosso di dolore, vide Annabeth a qualche metro
di distanza, che vagava cieca verso il bordo del dirupo. “Uh!” grugnì
Percy. Bob seguì il suo sguardo. Si lanciò verso Annabeth e la
sollevò. Lei urlò e si dimenò, colpendo la pancia di Bob, ma a Bob
non sembrava importare. La portò da Percy e la mise gentilmente a
terra. Il Titano le toccò la fronte. “Bua.” Annabeth smise di lottare. I
suoi occhi si schiarirono. “Dove… cosa…?” Vide Percy e una serie di
espressioni le attraversarono il volto, sollievo, gioia, shock, orrore.
“Cos’ha che non va?” urlò. “Cosa è successo?” Lo avvolse attorno
alle spalle e pianse con la testa contro la sua. Percy voleva dirle che
andava tutto bene, ma ovviamente non era così. Non riusciva
neanche a sentire più il suo corpo. La sua coscienza era come un
piccolo palloncino pieno di elio, legato poco stretto sulla cima della
sua testa. Non aveva peso, nessuna forza. Continuava solo ad
espandersi, facendosi sempre più leggero. Sapeva che presto
sarebbe semplicemente scoppiato o che il filo si sarebbe spezzato, e
la sua vita sarebbe volata via. Annabeth gli prese il volto nelle mani.
Lo baciò e cercò di levargli la polvere e il sudore dagli occhi. Bob
incombeva su di loro, con la scopa piantata a terra come una
bandiera. Il suo volto era illeggibile, luminosamente bianco
nell’oscurità. “Molte maledizioni,” disse Bob. “Percy ha fatto delle
cose brutte ai mostri.” “Puoi guarirlo?” implorò Annabeth. “Come hai
fatto con la mia cecità? Cura Percy!” Bob si accigliò. Si toccò con le
dita la targhetta del nome che aveva sulla sua uniforme come se
fosse una crosta. Annabeth tentò di nuovo. “Bob…“ “Giapeto,” disse
Bob, con la voce simile a un basso brontolio. “Prima di Bob. Ero
Giapeto.” L’aria si fece perfettamente immobile. Percy si sentì
impotente, a stento connesso con il mondo. “Bob mi piace di più.” La
voce di Annabeth era sorprendentemente calma. “A te quale piace?”
Il Titano la guardò con i suoi occhi d’argento puro. “Non lo so più.” Si
inginocchiò accanto a lei e studiò Percy. Il volto di Bob appariva
stanco e provato, come se improvvisamente sentisse il peso di tutti
quei secoli. “Ho promesso,” mormorò. “Nico mi ha chiesto di aiutare.
Non credo che a Giapeto o a Bob piaccia rompere le promesse.”
Toccò la fronte di Percy. “Bua,” mormorò il Titano. “Bua molto
grossa.” Percy tornò nel suo corpo. Il fischio nelle orecchie svanì. La
sua vista si fece chiara. Si sentiva ancora come se avesse ingoiato
una friggitrice. L’interno del suo corpo stava bollendo. Poteva
avvertire che il veleno era solo stato rallentato, non rimosso. Ma era
vivo. Cercò di incrociare gli occhi di Bob, di esprimere la sua
gratitudine. La sua testa gli ciondolò sul petto. “Bob non può curarlo,”
disse Bob. “Troppo veleno. Troppe maledizioni tutte insieme.”
Annabeth strinse le spalle di Percy. Lui voleva dire: Adesso riesco a
sentirlo. Ahia. Troppo stretto. “Cosa possiamo fare, Bob?” chiese
Annabeth. “C’è dell’acqua da qualche parte? L’acqua potrebbe
guarirlo.” “Niente acqua,” disse Bob. “Il Tartaro è cattivo.” L’ho
notato, voleva gridare Percy. Almeno il Titano si riferiva a se stesso
come Bob. Anche se dava la colpa a Percy per avergli rubato la
memoria, forse avrebbe aiutato Annabeth se Percy non ce l’avesse
fatta. “No,” insistette Annabeth. “No, ci deve essere un modo.
Qualcosa per guarirlo.” Bob mise la sua mano sul petto di Percy. Un
formicolio freddo simile a olio di eucalipto gli si diffuse sullo sterno,
ma non appena Bob sollevò la mano, il sollievo si fermò. I polmoni
sembravano nuovamente lava bollente. “Il Tartaro uccide i semidei,”
disse Bob. “Guarisce i mostri, ma voi non appartenete qui. Il Tartaro
non curerà Percy. L’abisso odia la vostra specie.” “Non m’importa,”
disse Annabeth. “Persino qui, ci deve essere un posto dove può
riposarsi, qualche tipo di cura che può prendere. Forse tornando
all’altare di Hermes, oppure…“ In lontananza, una voce profonda
ruggì, una voce che Percy, sfortunatamente, riconobbe. “SENTO IL
SUO ODORE!” ruggì il gigante. “PREPARATI, FIGLIO DI
POSEIDONE! STO ARRIVANDO!” “Polibote,” disse Bob. “Odia
Poseidone e i suoi figli. E’ molto vicino adesso.” Annabeth lottò per
far alzare Percy. Detestava costringerla a fare così tanti sforzi, ma si
sentiva come una sacca di palle da biliardo. Anche con Annabeth
che reggeva quasi tutto il suo peso, riusciva a stento a stare i piedi.
“Bob, io proseguirò, con o senza di te,” disse lei. “Ci aiuterai?”
Piccolo Bob miagolò e iniziò a fare le fusa, strusciandosi contro il
mento di Bob. Bob guardò Percy, e Percy desiderò poter leggere
l’espressione del Titano. Era arrabbiato, o solo pensieroso? Stava
pianificando una vendetta, o era solo ferito perché Percy aveva
mentito sul fatto che fosse suo amico? “C’è un posto,” disse Bob alla
fine. “C’è un gigante che potrebbe sapere cosa fare.” Annabeth
lasciò quasi cadere Percy. “Un gigante. Uh, Bob, i giganti sono
cattivi.” “Uno di loro è buono,” insistette Bob. “Fidati di me, e vi ci
porterò… a meno che Polibote e gli altri non ci catturino prima.”
33

JASON

Jason si addormentò sul lavoro. Il che fu un male, visto che si


trovava a trecento metri di altezza in aria. Avrebbe dovuto stare più
attento. Era la mattina dopo il loro incontro con il bandito Scirone, e
Jason aveva il turno di guardia, intento a combattere alcuni venti
selvaggi che stavano minacciando la nave. Quando pugnalò l’ultimo,
si dimenticò di trattenere il fiato. Uno sbaglio stupido. Quando uno
spirito del vento si disintegra, questo crea un risucchio. A meno che
non si trattiene il fiato, ti viene risucchiata l’aria nei polmoni. La
pressione interna delle orecchie si abbassa così velocemente, che
svieni. Questo fu quello che accadde a Jason. Cosa persino
peggiore, si ritrovò istantaneamente immerso in un sogno. Con una
piccola parte della sua mente, pensò: Sul serio? Adesso? Doveva
svegliarsi, o sarebbe morto; ma non fu in grado di seguire quel
pensiero. Nel sogno, si ritrovò sul tetto di un alto edificio, con il
profilo notturno di Manhattan che si estendeva sotto di lui. Un vento
freddo gli frustava i vestiti. A qualche isolato di distanza, delle nuvole
si erano raggruppate sulla cima dell’Empire State Building, l’entrata
del Monte Olimpo. Saettarono dei lampi. L’aria era metallica e
trasportava l’odore della pioggia in arrivo. La cima del grattacielo era
illuminata come al solito, ma le luci sembravano essere difettose.
Tremolavano passando dal viola all’arancione come se i colori
stessero combattendo per il dominio. Sul tetto dell’edificio di Jason si
trovavano i suoi vecchi compagni del Campo Giove: una schiera di
semidei in armatura da combattimento, con le loro armi e scudi d’oro
Imperiale che brillavano nel buio. Vide Dakota e Nathan, Leila e
Marcus. Ottaviano si trovava da una parte, magro e pallido, con gli
occhi cerchiati di rosso dalla mancanza di sonno o forse dalla rabbia,
con una fila di peluche di animali sacrificali legati intorno alla vita. Le
sue vesti bianche da augure erano drappeggiate sopra la maglietta
viola e dei pantaloni mimetici. Al centro della schiera si trovava
Reyna, con i suoi cani di metallo, Aurum e Argentum al fianco.
Vedendola, Jason avvertì un’incredibile fitta di colpevolezza. Le
aveva lasciato credere che avessero un futuro insieme. Non era mai
stato innamorato di lei e non l’aveva esattamente incoraggiata… ma
non l’aveva neanche respinta. Era scomparso, lasciandola a
governare il campo da sola. (Okay, quella non era stata esattamente
un’idea di Jason, ma comunque…) Poi era tornato al Campo Giove
con la sua nuova ragazza Piper e un intero gruppo di amici Greci
dentro una nave da guerra. Avevano attaccato il Foro ed erano
fuggiti, lasciando Reyna con una guerra per le mani. Nel suo sogno
lei appariva stanca. Altri avrebbero potuto non notarlo, ma lui aveva
lavorato con lei abbastanza a lungo da riconoscere la stanchezza
nei suoi occhi, la tensione che aveva nelle spalle sotto le cinghie
della sua armatura. I suoi capelli neri erano bagnati, come se si
fosse fatta una doccia veloce. I romani stavano fissando la porta di
accesso al tetto come se fossero in attesa di qualcuno. Quando la
porta si aprì, ne uscirono fuori due persone. Una era un fauno, no,
pensò Jason, un satiro. Aveva imparato la differenza al Campo
Mezzosangue, e il Coach Hedge lo correggeva sempre se
commetteva quell’errore. I fauni romani tendevano a vagabondare,
chiedendo elemosina e mangiando. I satiri erano più attivi, più
impegnati negli affari dei semidei. Jason non credeva di aver visto
quel satiro in particolare prima d’ora, ma era certo che il ragazzo
appartenesse alla parte greca. Nessun fauno sarebbe apparso così
deciso andando davanti a un gruppo di romani armati nel bel mezzo
della notte. Indossava una maglietta verde di qualche riserva
naturale con immagini di animali a rischio di estinzione come tigri e
balene. Nulla gli copriva le gambe pelose e gli zoccoli. Aveva un
pizzetto irsuto, dei ricci capelli castani infilati dentro un cappello stile
rasta, e un flauto di canne intorno al collo. Le sue mani
giocherellavano con l’orlo della maglietta, ma considerato il modo nel
quale studiava i romani, facendo attenzione alle loro posizione e alle
loro armi, Jason immaginò che quel satiro fosse già stato in
battaglia. Al suo fianco c’era una ragazza dai capelli rossi che Jason
riconosceva dal Campo Mezzosangue, il loro oracolo, Rachel
Elizabeth Dare. Aveva dei lunghi capelli ricci, una camicetta bianca,
e dei jeans ricoperti di disegni fatti con i pennarelli. Aveva una
spazzola di plastica blu che picchiettava nervosamente contro la sua
coscia come fosse un portafortuna. Jason la ricordava al falò,
quando aveva recitato i versi di una profezia che aveva mandato lui,
Piper e Leo nella loro prima impresa insieme. Era una normale
adolescente mortale, non un semidio, ma per delle ragioni che Jason
non aveva mai capito, lo spirito di Delfi l’aveva scelta come corpo
ospitante. La vera domanda era: Cosa ci stava facendo con i
romani? Si fece avanti, con gli occhi fissi su Reyna. “Hai ricevuto il
mio messaggio.” Ottaviano sbuffò. “E’ l’unica ragione per la quale sei
arrivata fino a questo punto viva, Graecus. Spero che siate venuti
per discutere i termini della vostra resa.” “Ottaviano…” lo avvertì
Reyna. “Almeno perquisiscili!” protestò Ottaviano. “Non ce n’è
bisogno,” disse Reyna, studiando Rachel Dare. “Avete delle armi?”
Rachel scrollò le spalle. “Ho colpito Crono nell’occhio con questa
spazzola una volta. A parte questo, no.” I romani sembravano non
sapere come reagire a quello. Non sembrava che la mortale stesse
scherzando. “E il tuo amico?” Reyna fece un cenno della testa verso
il satiro. “Pensavo che saresti venuta da sola.” “Lui è Grover
Underwood,” disse Rachel. “E’ un capo del Concilio.” “Quale
concilio?” chiese Ottaviano. “Dei Satiri Anziani, amico.” La voce di
Grover era sottile e acuta, come se fosse terrorizzato, ma Jason
sospettava che il satiro avesse più forza di quanta ne lasciasse
vedere. “Davvero, voi romani non avete natura, alberi e cose così?
Ho delle notizie che dovete sentire. Inoltre, sono un protettore
certificato. Sono qui per, sapete, proteggere Rachel.” Sembrava che
Reyna stesse cercando di non sorridere. “Ma niente armi?” “Solo il
flauto.” L’espressione di Grover si fece pensierosa. “Percy ha
sempre detto che la mia versione di “Born to be Wild” dovrebbe
essere considerata un’arma pericolosa, ma non credo che sia così
male.” Ottaviano fece un verso di scherno. “Un altro amico di Percy
Jackson. E’ tutto quello che mi basta.” Reyna alzò la mano per
chiedere silenzio. I suoi cani d’oro e d’argento annusarono l’aria, ma
rimasero calmi e in guardia al suo fianco. “Finora, i nostri ospiti
hanno detto la verità,” disse Reyna. “Siate avvertiti, Rachel e Grover,
se comincerete a mentire, questa conversazione non andrà bene per
voi. Dite quello per cui siete venuti.” Dalla tasca dei suoi jeans,
Rachel tirò fuori un pezzo di carta simile a un tovagliolo. “Un
messaggio. Da Annabeth.” Jason non era certo di aver sentito bene.
Annabeth si trovava nel Tartaro. Non poteva mandare nessun
biglietto scritto su un tovagliolo. Forse ho colpito l’acqua e sono
morto, disse il suo subconscio. Questa non è una visione reale. E’
un qualche tipo di allucinazione post-mortem. Ma il sogno sembrava
molto reale. Poteva sentire il vento che soffiava in cima al tetto.
Poteva avvertire l’odore della tempesta. I lampi brillavano sull’Empire
State Building, facendo accendere le armature dei romani. Reyna
prese il biglietto. Mentre lo leggeva, le sue sopracciglia si inarcarono
sempre di più. La sua bocca si aprì dallo stupore. Alla fine, alzò lo
sguardo verso Rachel. “E’ uno scherzo?” “Lo vorrei,” disse Rachel.
“Sono davvero nel Tartaro.” “Ma come…“ “Non lo so,” disse Rachel.
“Il biglietto è apparso nel braciere sacrificale nel nostro padiglione
della cena. Quella è la scrittura di Annabeth. Ha chiesto di te per
nome.” Ottaviano si agitò. “Tartaro? Cosa vuoi dire?” Reyna gli
passò la lettera. Ottaviano borbottava mentre leggeva: “Roma,
Aracne, Atena, Atena Partenos?” Si guardò intorno oltraggiato, come
in attesa di qualcuno che lo contraddicesse su quello che aveva
letto. “Un trucco greco! I greci sono infami per i loro trucchi!” Reyna
riprese il biglietto. “Perché chiedere di me?” Rachel sorrise. “Perché
Annabeth è intelligente. Crede che tu possa farlo, Reyna Ávila
Ramirez-Arellano.” Jason ebbe la sensazione che qualcuno l’avesse
schiaffeggiato. Nessun usava mai il nome completo di Reyna. Lei
odiava dirlo a chiunque. L’unica volta nella quale Jason l’aveva
pronunciato ad alta voce, solo nel tentativo di pronunciarlo nel modo
giusto, lei gli aveva lanciato un’occhiata assassina. Quello era il
nome di una bambina a San Juan, gli aveva detto. L’ho lasciato
indietro quando ho lasciato Puerto Rico. Reyna si accigliò. “Come fai
a…“ “Uh,” interruppe Grover Underwood. “Vuoi dire che le tue iniziali
sono RA-RA?” La mano di Reyna si spostò verso il suo pugnale. “Ma
non ha importanza!” disse velocemente il satiro. “Ascolta, non
avrebbe rischiato di venire qui se non ci fidassimo dell’istinto di
Annabeth. Un leader romano che riporta la statua greca più
importante in assoluto al Campo Mezzosangue, lei sa che ciò
potrebbe impedire una guerra.” “Questo non è un trucco,” aggiunse
Rachel. “Non stiamo mentendo. Chiedi ai tuoi cani.” I levrieri di
metallo non reagirono. Reyna accarezzò la testa di Aurum
pensierosa. “L’Atena Partenos… quindi la leggenda è vera.”
“Reyna!” gridò Ottaviano. “Non puoi seriamente considerare la cosa!
Anche se la statua esiste ancora, puoi vedere quello che stanno
facendo. Siamo in procinto di attaccarli, di distruggere gli stupidi
greci una volta per tutte, e loro ordiscono questo stupido piano per
distogliere la tua attenzione. Vogliono spedirti verso la tua morte!” Gli
altri romani mormorarono, fissando con astio i loro visitatori. Jason si
ricordava quanto potesse essere persuasivo Ottaviano, e stava
portando gli ufficiali dalla sua parte. Rachel Dare si voltò verso
l’augure. “Ottaviano, figlio di Apollo, dovresti prendere la cosa più
seriamente. Persino i romani rispettano l’Oracolo di Delfi di tuo
padre.” “Ha!” disse Ottaviano. “Tu sei l’Oracolo di Delfi? Giusto. E io
sono l’Imperatore Nerone!” “Almeno Nerone sapeva suonare,”
mormorò Grover. Ottaviano strinse i pugni. Improvvisamente il vento
cambiò. Vorticò attorno ai romani con un sibilo, come un nido di
serpenti. Rachel Dare brillò con un’aura verde, come se fosse
illuminata da un riflettore di un delicato verde smeraldo. Poi il vento
diminuì e l’aura scomparve. Il ghigno sul volto di Ottaviano si fuse. I
romani si mossero agitati. “E’ la tua decisione,” disse Rachel, come
se non fosse successo nulla. “Non ho nessuna profezia precisa da
darti, ma posso vedere accenni di futuro. Vedo l’Atena Partenos
sulla Collina Mezzosangue. Vedo lei che la porta lì.” Indicò Reyna.
“Inoltre, ultimamente Ella ha pronunciato dei versi dai Libri Sibillini…“
“Cosa?” la interruppe Reyna. “I Libri Sibillini furono distrutti secoli fa.”
“Lo sapevo!” Ottaviano si batté il pugno nel palmo della mano.
“Quell’arpia che hanno riportato dalla loro impresa, Ella. Sapevo che
stava recitando delle profezie! Adesso capisco. Ha… ha
memorizzato in qualche modo una copia dei Libri Sibillini.” Reyna
scosse la testa incredula. “Com’è possibile?” “Non lo sappiamo,”
ammise Rachel. “Ma, sì, sembra che sia così. Ella ha una memoria
perfetta. Ama i libri. Da qualche parte, in qualche modo, ha letto il
vostro libro romano di profezie. Adesso è l’unica fonte.” “I vostri
amici hanno mentito,” disse Ottaviano. “Hanno detto che l’arpia
stava borbottando cose senza senso. L’hanno rubata!” Grover soffiò
indignato. “Ella non è vostra proprietà! ’ una creatura libera. Inoltre,
vuole stare al Campo Mezzosangue. Sta uscendo con un mio amico,
Tyson.” “Il Ciclope,” ricordò Reyna. “Un’arpia che esce con un
Ciclope…” “Non ha importanza!” disse Ottaviano. “L’arpia ha delle
preziose profezie romane. Se i greci non la restituiranno, noi
dovremmo prendere il loro Oracolo come ostaggio! Guardie!” Due
centurioni si fecero avanti, con le pila alzate. Grover si portò il flauto
alla bocca, suonò una veloce melodia, e le loro lance si
trasformarono in alberi di Natale. Le guardie li fecero cadere
sorpresi. “Basta così!” gridò Reyna. Non alzava spesso la voce.
Quando lo faceva, ascoltavano tutti. “Ci siamo allontanati dal punto,”
disse. “Rachel Dare, mi stai dicendo che Annabeth si trova nel
Tartaro, tuttavia ha trovato un modo per mandare questo messaggio.
Vuole che io porti questa statua dalle Terre Antiche al vostro campo.”
Rachel annuì. “Solo un romano può restituirla e riportare la pace.” “E
perché i romani dovrebbero volere la pace,” chiese Reyna, “dopo
che la vostra nave ha attaccato la nostra città?” “Lo sai perché,”
disse Rachel. “Per evitare questa guerra. Per riconciliare le
personalità greche e romane degli dei. Dobbiamo lavorare insieme
per sconfiggere Gea.” Ottaviano si fece avanti per parlare, ma
Reyna li lanciò un’occhiata fulminante. “Secondo Percy Jackson,”
disse Reyna, “la battaglia con Gea sarà combattuta nelle Terre
Antiche. In Grecia.” “E’ dove si trovano i giganti,” concordò Rachel.
“Qualsiasi magia, qualsiasi rituale stiano pianificando i giganti per
svegliare Madre Terra, sento che accadrà in Grecia. Ma… bè, i nostri
problemi non sono limitati alle Terre Antiche. E’ per questo che ho
portato Grover per parlare con te.” Il satiro giocherellò con il suo
pizzetto. “Sì… vedi, negli ultimi mesi, ho parlato con i satiri e gli
spiriti della natura dello stato. Dicono tutti le stesse cose. Gea si sta
svegliando, voglio dire, è proprio sull’orlo di svegliarsi. Sta
sussurrando nelle menti delle naiadi, cercando di trasformarle. Sta
causando terremoti, sradicando gli alberi delle driadi. Solo la scorsa
settimana, è apparsa in forma umana in una dozzina di posti diversi,
spaventando a morte alcuni miei amici. In Colorado un pugno
gigante fatto di pietra è spuntato da una montagna e ha schiacciato
alcuni Party Pony come zanzare.” Reyna aggrottò le sopracciglia.
“Party Pony?” “Lunga storia,” disse Rachel. “Il punto è che: Gea si
sveglierà ovunque. Si sta già agitando. Nessun luogo sarà al sicuro
dalla battaglia. E sappiamo che i suoi primi obiettivi saranno i campi
dei semidei. Vuole distruggerci.” “Speculazioni,” disse Ottaviano.
“Una distrazione. I greci temono il nostro attacco. Stanno cercando
di confonderci. E’ la storia del Cavallo di Troia che si ripete!” Reyna
si rigirò l’anello d’argento che indossava sempre, con la spada e la
torcia, simboli di sua madre Bellona. “Marcus,” disse, “vai a prendere
Scipio alle stalle.” “Reyna, no!” protestò Ottaviano. Lei guardò i greci.
“Lo farò per Annabeth, per la speranza di pace tra i nostri campi, ma
non crediate che abbia dimenticato gli insulti al Campo Giove. La
vostra nave ha sparato sulla nostra città. Voi avete dichiarato guerra,
non noi. Adesso, andate.” Grover pestò lo zoccolo a terra. “Percy
non farebbe mai…“ “Grover,” disse Rachel, “dovremmo andare.” Il
suo tono diceva: Prima che sia troppo tardi. Dopo essere spariti
lungo le scale, Ottaviano si scagliò contro Reyna. “Sei pazza?”
“Sono il pretore della legione,” disse Reyna, “Reputo che ciò sia nei
migliori interessi di Roma.” “Di farti uccidere? Di infrangere le nostre
leggi più antiche e viaggiare nelle Terre Antiche? Come farai a
trovare la loro nave, presumendo che sopravvivrai al viaggio?” “Li
troverò,” disse Reyna. “Se sono diretti verso la Grecia, conosco un
luogo nel quale Jason si fermerà. Per affrontare i fantasmi nella
Casa di Ade, avrà bisogno di un esercito. C’è solo un posto dove
può trovare quel tipo di aiuto.” Nel sogno di Jason, l’edificio sembrò
inclinarsi sotto i suoi piedi. Si ricordò di una conversazione avuta con
Reyna anni prima, una promessa che si erano fatti a vicenda.
Sapeva quello di cui stava parlando. “Questa è una follia,” borbottò
Ottaviano. “Siamo già sotto attacco. Dobbiamo prendere l’offensiva!
Quei nani pelosi ci hanno rubato le provviste, hanno sabotato le
nostre squadre di ricognizione, tu sai che sono stati i greci a
mandarli.” “Forse,” disse Reyna. “Ma non lancerai un attacco senza i
miei ordini. Continuate a perlustrare il campo del nemico. Fissate le
vostre posizioni. Radunate tutti gli alleati che potete, e se catturate
quei nani, avete la mia benedizione di rimandarli al Tartaro. Ma non
attaccate il Campo Mezzosangue fino a che non torno.” Ottaviano
strinse gli occhi. “Mentre sarai via, l’augure è l’ufficiale anziano. Sarò
io in carica.” “Lo so.” Reyna non ne sembrava entusiasta. “Ma hai i
miei ordini. Li avete sentiti tutti.” Studiò i volti dei centurioni,
sfidandoli a opporsi. Si allontanò velocemente, con il mantello viola
che le si gonfiava alle spalle e i cani al seguito. Quando se ne fu
andata. Ottaviano si voltò verso i centurioni. “Radunate tutti gli
ufficiali anziani. Voglio una riunione non appena Reyna è partita per
la sua stupida impresa. Ci sarà qualche cambiamento nei piani della
legione.” Uno dei centurioni aprì la bocca per rispondere, ma per
qualche ragione parlò con la voce di Piper: “SVEGLIATI!” Gli occhi di
Jason si spalancarono, e vide la superficie dell’oceano dirigersi
velocemente verso di lui.
34

JASON

Jason riuscì a sopravvivere a malapena. In seguito, i suoi amici gli


spiegarono che non lo avevano visto cadere dal cielo fino all’ultimo
istante. Non c’era stato tempo per Frank di trasformarsi in un’aquila
e prenderlo al volo; niente tempo per formulare un piano di
salvataggio. Solo i riflessi rapidi di Piper e la sua lingua ammaliatrice
gli avevano salvato la vita. Aveva urlato SVEGLIATI! con tale forza
che Jason si sentiva come se fosse stato colpito da un defibrillatore.
Con un millisecondo di tempo, aveva invocato i venti ed evitato di
diventare una galleggiante chiazza di semidio spiaccicato sulla
superficie dell’Adriatico. Di nuovo a bordo, aveva preso Leo da parte
e gli aveva suggerito un cambiamento di rotta. Fortunatamente, Leo
si fidava abbastanza di lui da non fare domande. “Strano luogo di
vacanza.” Leo fece un grosso sorriso. “Ma, ehi, sei tu il capo!”
Adesso, seduto con i suoi amici nella sala da pranzo, Jason si
sentiva così sveglio, che dubitava avrebbe dormito per una
settimana. Le sue mani erano frenetiche. Non riusciva a smettere di
picchiettare i piedi sul pavimento. Immaginò che quello doveva
essere come si sentiva Leo tutto il tempo, con l’eccezione che Leo
aveva anche senso dell’umorismo. Dopo quello che Jason aveva
visto nel suo sogno, non si sentiva molto in vena di scherzi. Mentre
pranzavano, Jason raccontò la sua visione a mezz’aria. I suoi amici
rimasero in silenzio abbastanza a lungo perché il Coach Hedge
finisse un panino al burro di arachidi e banana, insieme a tutto il
piatto di ceramica. La nave scricchiolava mentre viaggiava
attraverso l’Adriatico, con i remi rimasti ancora fuori allineamento a
causa dell’attacco della tartaruga gigante. Di tanto in tanto Festus
ronzava e cigolava attraverso gli interfoni, facendo rapporti sullo
stato dell’autopilota attraverso quella strana lingua da macchina che
solo Leo era in grado di capire. “Un messaggio da Annabeth.” Piper
scosse la testa stupefatta. “Non vedo come possa essere possibile,
ma se lo è…“ “E’ viva,” disse Leo. “Grazie agli dei e passa la salsa
piccante.” Frank si accigliò. “Che vuol dire?” Leo si pulì le briciole di
patatine dalla faccia. “Vuol dire passa la salsa piccante, Zhang. Ho
ancora fame.” Frank fece scivolare il barattolo di salsa attraverso il
tavolo. “Non riesco a credere che Reyna cercherà di trovarci. E’ un
tabù, venire nelle Terre Antiche. Sarà rimossa dalla sua carica di
pretore.” “Se sopravvivrà,” disse Hazel. “E’ stato abbastanza difficile
per noi arrivare fin qui con sette semidei e una nave da guerra.” “E
me.” Coach Hedge fece un rutto. “Non dimenticatevi, pasticcini, voi
avete il vantaggio del satiro.” Jason fu costretto a sorridere. Il Coach
Hedge poteva esser abbastanza ridicolo, ma Jason era contento che
fosse venuto con loro. Pensò al satiro che aveva visto nel suo
sogno, Grover Underwood. Non riusciva a immaginare un satiro più
diverso dal Coach Hedge, ma entrambi sembravano essere
coraggiosi a modo loro. Ciò fece riflettere Jason sui fauni al Campo
Giove, se anche loro potessero essere così se i semidei romani si
fossero aspettati di più da loro. Un’altra cosa da aggiungere alla sua
lista…. La sua lista. Non si era accorto di averne una fino a quel
momento, ma fin da quando aveva lasciato il Campo Mezzosangue,
aveva pensato a modi nel rendere il Campo Giove più…Greco. Era
cresciuto al Campo Giove. Aveva agito bene là. Ma era sempre stato
un po’ anticonformista. Si era ritrovato oppresso dalle regole. Si era
unito alla Quinta Coorte perché tutti gli avevano detto di non farlo. Lo
avevano avvertito che era il gruppo peggiore. Così lui aveva
pensato, Bene, io la renderò la migliore. Quando era diventato
pretore, aveva sostenuto una campagna per rinominare la legione
come Prima Legione invece della Dodicesima Legione, per
simboleggiare un nuovo inizio per Roma. L’idea aveva quasi causato
un ammutinamento. Nuova Roma era tutta basata sulle tradizioni e
sulle eredità; le regole non cambiavano così facilmente. Jason aveva
imparato a convivere con ciò ed era persino riuscito a salire in cima.
Ma adesso che aveva visto tutti e due i campi, non poteva scrollarsi
di dosso la sensazione che il Campo Mezzosangue potesse avergli
insegnato qualcosa di più su se stesso. Se fosse sopravvissuto a
quella guerra con Gea e fosse ritornato al Campo Giove come
pretore, avrebbe potuto cambiare le cose in meglio? Quello era il
suo dovere. Allora perché l’idea lo riempiva di paura? Si sentiva in
colpa ad aver lasciato Reyna a governare senza di lui, tuttavia…
parte di lui voleva tornare al Campo Mezzosangue con Piper e Leo.
Immaginava che ciò facesse di lui un leader piuttosto terribile.
“Jason?” chiese Leo. “L’Argo II chiama Jason. Andiamo.” Si rese
conto che i suoi amici lo stavano aspettando con sguardi speranzosi.
Avevano bisogno di essere rassicurati. Che fosse tornato o meno a
Nuova Roma dopo la guerra, Jason doveva farsi avanti adesso e
comportarsi da pretore. “Sì, scusate.” Toccò la riga rasata che il
bandito Scirone gli aveva tagliato nei capelli. “Attraversare l’Atlantico
è un viaggio difficile, senza dubbio. Ma non scommetterei mai contro
Reyna. Se c’è qualcuno che può farcela, quella è lei.” Piper fece
giare il suo cucchiaio nella zuppa. Jason era ancora un po’ nervoso
all’idea che lei si ingelosisse di Reyna, ma quando lei alzò lo
sguardo, gli rivolse un sorriso asciutto che sembrava più
provocatorio che insicuro. “Bè, mi piacerebbe tantissimo vedere di
nuovo Reyna,” disse lei. “Ma come farà a trovarci?” Frank alzò la
mano. “Non puoi semplicemente mandarle un messaggio-Iride?”
“Non funzionano bene,” esclamò Coach Hedge. “Segnale terribile.
Ogni notte, lo giuro, prenderei quella dea degli arcobaleni a calci…”
Esitò. La sua faccia si fece rosso acceso. “Coach?” sogghignò Leo.
“Chi chiama tutte le notti, vecchia capra?” “Nessuno!” scattò Hedge.
“Nulla. Volevo solo dire…“ “Vuol dire che abbiamo già provato,”
intervenne Hazel, e il coach le rivolse un’occhiata riconoscente.
“Qualche magia sta interferendo… forse Gea. Contattare i romani è
persino più difficile. Credo che si stiano proteggendo.” Jason guardò
da Hazel al coach, chiedendosi cosa stesse succedendo con il
satiro, e come facesse Hazel a saperlo. Adesso che Jason ci
pensava, il coach non parlava della sua ragazza Mellie, ninfa delle
nuvole, da molto tempo… Frank picchettò le dita sul tavolo.
“Suppongo che Reyna non abbia un cellulare…? Nah. Non importa.
Probabilmente avrebbe un brutto segnale su un pegaso che vola
sopra l’Atlantico.” Jason pensò al viaggio dell’Argo II sull’oceano, alle
dozzine di incontri che li avevano quasi uccisi. Pensare a Reyna che
affrontava quel viaggio da sola, non riusciva a decidere se fosse una
cosa terrificante o che induceva rispetto. “Ci troverà,” disse. “Ha
parlato di una cosa nel sogno, si aspetta che vada in un certo luogo
mentre siamo diretti verso la Casa di Ade. Mi… me ne ero
dimenticato, in realtà, ma ha ragione. E’ un luogo che dobbiamo
visitare.” Piper si sporse verso di lui, la treccia color caramello
poggiata su una spalla. I suoi occhi multicolore gli rendevano difficile
pensare lucidamente. “E dove si trova questo posto?” chiese. “A…
uh, una città chiamata Spalato.” “Spalato.” Aveva un odore davvero
buono, come caprifoglio in fiore. “Um, sì.” Jason si chiese se Piper
stese usando qualche magia da Afrodite su di lui, come per
esempio, ogni volta che diceva il nome di Reyna, lei lo stordiva così
tanto che lui non poteva pensare a nulla eccetto Piper. Pensava che
non fosse la vendetta peggiore di tutte. “Infatti, dovremmo essere
vicini. Leo?” Leo spinse il bottone dell’interfono. “Come va lassù,
amico?” La polena Festus ronzò e fischiò vapore. “Dice che
mancano circa dieci minuti al porto,” tradusse Leo. “Anche se
continuo a non capire perché tu voglia andare in Croazia, soprattutto
in una città chiamata Spalato. Cioè, se chiami la tua città Spalato, è
un po’ come se chiamassi la tua città Andate via!” “Aspetta,” disse
Hazel. “Perché stiamo andando in Croazia?” Jason notò che gli altri
erano riluttanti a incrociare il suo sguardo. Dal suo trucco con la
Foschia contro Scirone, persino Jason si sentiva un po’ nervoso
accanto a lei. Sapeva non era giusto nei confronti di Hazel. Era già
abbastanza difficile essere una figlia di Plutone, ma lei aveva tirato
fuori della magia seria su quella scogliera. E dopo, secondo Hazel,
Plutone in persona le era apparso. Quella era una cosa che i romani
chiamavano tipicamente brutto presagio. Leo spinse da parte le sue
patatine con salsa piccante. “Bè, tecnicamente ci troviamo in
territorio croato da un giorno o giù di lì. Tutta la costa che abbiamo
affiancato finora è la Croazia, ma credo che ai tempi romani era
chiamata… cosa avevi detto, Jason? Topazia?” “Dalmazia,” disse
Nico, facendo trasalire Jason. Santo Romolo… Jason desiderava
poter mettere una campanella intorno al collo di Nico di Angelo per
ricordarsi che il ragazzo si trovava lì. Nico aveva quell’inquietante
abitudine di rimanere silenzioso nell’angolo, fondendosi con le
ombre. Si fece avanti, con gli occhi scuri fissi su Jason. Sa quando
l’avevano salvato dalla giara di bronzo a Roma, Nico aveva dormito
molto poco e mangiato persino meno, come se si stesse ancora
sostenendo con quei semi di melograno d’emergenza
dell’Oltretomba. A Jason ricordava un po’ troppo quel fantasma
carnivoro che aveva combattuto una volta a San Bernardino. “La
Croazia in passato era la Dalmazia,” disse Nico. “Un’importante
provincia romana. Vuoi visitare il palazzo di Diocleziano, non è
così?” Coach Hedge fece un altro eroico rutto. “Il palazzo di chi? E la
Dalmazia è da dove vengono quei cani dalmata? Quel cartone della
Carica dei 101, ho ancora gli incubi.” Frank si grattò la testa. “Perché
dovrebbe avere degli incubi su quello?” Coach Hedge aveva
l’aspetto di uno che stava per lanciarsi in un’importante discorso
sulle malvagità dei Dalmata disegnati, ma Jason decise che non
voleva sapere. “Nico ha ragione,” disse. “Devo di andare al Palazzo
di Diocleziano. E’ il primo posto in cui andrà Reyna, perché lei sai
che io ci andrò.” Piper inarcò le sopracciglia. “E perché Reyna lo
dovrebbe pensare? Perché hai sempre avuto un folle fascino per la
cultura croata?” Jason fissò il suo panino intatto. Era difficile parlare
della sua vita prima che Giunone gli cancellasse la memoria. I suoi
anni al Campo Giove sembravano una finzione, come un film nel
quale aveva recitato anni prima. “Io e Reyna eravamo soliti parlare di
Diocleziano,” disse. “Entrambi idolatravano il tipo come leader.
Parlavamo di come ci sarebbe piaciuto andare a vedere il Palazzo di
Diocleziano. Ovviamente sapevamo che era impossibile. Nessuno
poteva andare nelle Terre Antiche. Tuttavia, facemmo questo patto
che se ci fossimo mai andati, ci saremmo diretti là.” “Diocleziano…”
Leo pensò al nome, poi scosse la testa. “Non mi viene in mente
nulla. Perché era così importante?” Frank sembrava offeso. “Fu
l’ultimo grande imperatore pagano!” Leo mandò gli occhi al cielo.
“Perché non sono sorpreso dal fatto che tu lo sappia, Zhang?”
“Perché non dovrei? Fu l’ultimo a venerare gli dei dell’Olimpo, prima
che arrivasse Costantino e adottasse il Cristianesimo.” Hazel annuì.
“Mi ricordo qualcosa. Le suore alla St. Agnes ci insegnarono che
Diocleziano era un grande cattivo, insieme a Nerone e Caligola.”
Guardò sospettosa Jason. “Perché lo idolatrati?” “Non era un totale
cattivo,” disse Jason. “Sì, perseguitò i Cristiani, ma altrimenti era un
buon governatore. Si fece strada partendo dal basso, unendosi alla
legione. I suoi genitori erano degli ex schiavi… o almeno lo era sua
madre. I semidei sanno che era un figlio di Giove, l’ultimo semidio a
governare Roma. Fu anche il primo imperatore ad essersi mai
congedato, del tipo, pacificamente, e ad aver rinunciato al suo
potere. Veniva dalla Dalmazia, così tornò là e costruì un palazzo di
ritiro. La città di Spalato gli crebbe intorno…” Esitò quando guardò
Leo, che stava facendo finta di prendere appunti con una penna
immaginaria. “Vai avanti, Professor Grace!” disse, con gli occhi
spalancati. “Voglio prendere una A al compito.” “Stai zitto, Leo.”
Piper prese un’altra cucchiaiata di zuppa. “Quindi, perché il Palazzo
di Diocleziano è così speciale?” Nico si sporse in avanti e prese un
acino d’uva. Quella probabilmente era l’intera dieta del ragazzo per
tutto il giorno. “Si dice che sia infestato dal fantasma di Diocleziano.”
“Che era un figlio di Giove, come me,” disse Jason. “La sua tomba fu
distrutta secoli fa, ma io e Reyna ci chiedevamo sempre se
avremmo potuto trovare il fantasma di Diocleziano e chiederli dove
fosse stato seppellito… bè, secondo la leggenda, il suo scettro fu
sepolto con lui.” Nico gli rivolse un sottile sorriso inquietante. “Ah…
quella leggenda.” “Quale leggenda?” chiese Hazel. Nico si voltò
verso sua sorella. “Apparentemente lo scettro di Diocleziano era in
grado di invocare i fantasmi delle legioni romane, chiunque di loro
venerasse le antiche divinità.” Leo fischiò. “Okay, adesso sono
interessato. Sarebbe carino avere un esercito di zombie pagani che
picchia duro dalla nostra parte quando entreremo nella Casa di
Ade.” “Non sono certo che la metterei in quel modo,” mormorò
Jason, “ma sì.” “Non abbiamo molto tempo,” avvertì Frank. “E’ già il
nove luglio. Dobbiamo raggiungere Epiro, chiudere le Porte della
Morte…“ “Che sono sorvegliate,” mormorò Hazel, “da un gigante di
fumo e una strega che vuole…” Esitò. “Bè, non ne sono certa. Ma
secondo Plutone, sta pianificando di ‘ricostruire il suo dominio’.
Qualunque cosa voglia dire, è abbastanza brutta che mio padre ha
sentito il bisogno di mettermi in guardia di persona.” Frank grugnì. “E
se sopravviviamo a tutto quello, ci rimane ancora da scoprire il luogo
in cui i giganti pianificano di svegliare Gea e arrivare là entro il primo
Agosto. Inoltre, più tempo Percy e Annabeth passano nel Tartaro…“
“Lo so,” disse Jason. “Non staremo a lungo a Spalato. Ma vale la
pena tentare di trovare lo scettro. Mentre siamo al palazzo, posso
lasciare un messaggio per Reyna, farle sapere la strada che stiamo
prendendo per Epiro.” Nico annuì. “Lo scettro di Diocleziano
potrebbe fare un’enorme differenza. Ti servirà il mio aiuto.” Jason
cercò di non mostrare il suo disagio, ma la sua pelle pizzicò al
pensiero di andare da qualche parte con Nico di Angelo. Percy
aveva raccontato delle storie preoccupanti su Nico. La sua lealtà non
era sempre chiara. Passava più tempo con i morti che con i vivi. Una
volta, aveva adescato Percy in una trappola nel palazzo di Ade.
Forse Nico aveva pareggiato la cosa aiutando i greci contro i Titani,
tuttavia… Piper gli strinse la mano. “Ehi, sembra divertente. Verrò
anche io.” Jason voleva urlare: Grazie agli dei! Ma Nico scosse la
testa. “Non puoi, Piper. Dobbiamo essere solo io e Jason. Il
fantasma di Diocleziano potrebbe apparire per un figlio di Giove, ma
qualsiasi altro semidio lo farebbe molto probabilmente… ah,
spaventare. E io sono l’unico che può parlare con il suo spirito.
Persino Hazel non sarebbe in grado di farlo.” Gli occhi di Nico
avevano un luccichio di sfida. Sembrava curioso di vedere se Jason
avrebbe protestato o meno. La campana della nave suonò. Festus
cigolò e ronzò dall’interfono. “Siamo arrivati,” annunciò Leo. “Tempo
di Spalato.” Frank gemette. “Possiamo lasciare Valdez in Croazia?”
Jason si alzò. “Frank, tu hai l’incarico di difendere la nave. Leo, tu
hai delle riparazioni da fare. Voi altri, aiutate ovunque possiate. Io e
Nico…” Si voltò verso il figlio di Ade. “Noi abbiamo un fantasma da
trovare.”
35

JASON

Jason vide l’angelo per la prima volta accanto al camioncino del


gelato. L’Argo II si era ancorata nella baia insieme a sei o sette navi
da crociera. Come al solito, i mortali non prestarono alcuna
attenzione al trireme; ma tanto per essere sicuri, Jason e Nico
saltarono su una barca di una della navi turistiche così che
sembrasse che facessero parte della folla una volta arrivati a riva. Al
primo sguardo, Spalato sembrava un bel posto. Intorno al porto si
sviluppava una lunga passeggiata affiancata da palme. I bar
all’aperto erano affollati dagli adolescenti europei, che
chiacchieravano in una dozzina di lingue diverse e si godevano il
pomeriggio soleggiato. L’aria odorava di carne alla brace e fiori
appena raccolti. Oltre il viale principale, la città era un guazzabuglio
di torri medievali, muri romani, edifici di pietra bianca con tetti dalle
tegole rosse, e uffici moderni tutti stipati insieme. In lontananza, delle
colline grigio-verdi marciavano verso un’altura, il che rese Jason un
po’ nervoso. Continuava a guardare la scarpata rocciosa,
aspettandosi di vedere il volto di Gea apparire tra le ombre. Lui e
Nico stavano camminando lungo la passeggiata quando Jason
individuò il ragazzo con ali che comprava un gelato da un
camioncino ambulante. La donna dietro al bancone appariva
annoiata mentre contava il resto del ragazzo. I turisti navigavano
intorno alle enormi ali dell’angelo senza dargli una seconda occhiata.
Jason diede una piccola spinta a Nico. “Vedi quello che vedo io?”
“Sì,” annuì Nico. “Forse dovremmo comprare del gelato.” Mentre si
facevano strada verso il camioncino ambulante, Jason temette che
quel tipo alato potesse essere un figlio di Borea, il Vento del Nord. Al
fianco, l’angelo aveva lo stesso tipo di spada di bronzo seghettata
che avevano i Boreadi, e l’ultimo incontro di Jason con loro non era
andato molto bene. Ma quel tipo sembrava più distaccato che
freddo. Indossava una canottiera rossa, dei pantaloncini bermuda, e
dei sandali di pelle. Le sue ali erano una combinazione di colori
rossastri, simili a quelli di un gallo o di un tramonto pigro. Aveva una
profonda abbronzatura e dei capelli neri ricci quasi come quelli di
Leo. “Non è uno spirito risorto,” mormorò Nico. “O una creatura
dell’Oltretomba.” “No,” concordò Jason. “Dubito che quelle
mangerebbero gelato al cioccolato.” “Allora cos’è?” chiese Nico.
Arrivarono a nove metri da lui, e il tipo alato li guardò direttamente.
Sorrise, indicò un punto oltre la sua spalla con il suo gelato, e si
dissolse nell’aria. Jason non riusciva esattamente a vederlo, ma
aveva fatto abbastanza esperienza nel controllare il vento che era in
grado di seguire il percorso dell’angelo, una piccola calda folata di
vento rossa e oro che zigzagava per le strade, scendendo dai
marciapiedi con delle giravolte, e facendo volare le cartoline dagli
espositori davanti ai negozi turistici. Il vento si diresse verso la fine
del viale principale, dove incombeva una grossa struttura simile a
una fortezza. “Scommetto che quello è il palazzo,” disse Jason.
“Andiamo.” Anche dopo due millenni, il Palazzo di Diocleziano era
ancora impressionante. I muri esterni erano ormai solo un guscio di
granito rosa, con colonne cadenti e delle finestre arcate aperte al
cielo, ma per la maggior parte era intatto, lungo mezzo chilometro e
alto venti o venticinque metri, andando a rimpicciolire i negozi
moderni e le case che erano affollate sotto di lui. Jason immaginò
come doveva apparire il palazzo quando era stato appena costruito,
con le guardie imperiali che camminavano sui bastioni di difesa e le
aquile dorate di Roma che brillavano sui parapetti. L’angelo del
vento, o qualunque cosa fosse, saettò fuori e dentro le finestre di
granito rosa, poi scomparve dall’altra parte. Jason studiò la facciata
del palazzo in cerca di un’apertura. L’unica che vide era a diversi
isolati di distanza, con dei turisti in fila per comprare i biglietti. Non
c’era tempo per quello. “Dobbiamo raggiungerlo,” disse Jason.
“Reggiti.” “Ma…“ Jason afferrò Nico e fece sollevare entrambi in aria.
Nico produsse uno strozzato suono di protesta mentre si libravano
sopra i muri ed entravano nel cortile, dove altri turisti stavano
passeggiando e scattando fotografie. Un bambino apparve sorpreso
quando atterrarono. Poi il suo sguardo si spostò e lui scosse la testa,
come se avesse deciso che si era trattato solo di un’allucinazione
indotta dal succo di frutta. Sulla parte sinistra del cortile c’era una fila
di colonne che sostenevano degli archi grigi consumati dal tempo.
Sul lato destro si trovava un edificio di marmo bianco con file di alte
finestre. “Il peristilio,” disse Nico. “Questa era l’entrata della
residenza privata di Diocleziano.” Guardò corrucciato verso Jason.
“E per favore, non mi piace essere toccato. Non afferrarmi mai più.”
Le spalle di Jason si fecero tese. Pensò di avvertire un accenno di
minaccia, del tipo: a meno che non voglia ritrovarti una spada di
ferro di Stige nel naso. “Uh, okay. Scusa. Come fai a sapere il nome
di questo posto?” Nico studiò l’atrio. Si concentrò su alcuni scalini
nell’angolo più lontano, che portavano verso il basso. “Sono già stato
qui.” I suoi occhi erano scuri come la sua spada. “Con mia madre e
Bianca. Un viaggio di un fine settimana lontani da Venezia. Avevo,
forse… sei anni?” “Questo è stato, quando… negli anni Trenta?”
“Trentotto o giù di lì,” disse Nico assente. “Perché t’importa? Vedi
quel tipo alato da qualche parte?” “No…” Jason stava ancora
cercando di abituarsi all’idea del passato di Nico. Lui aveva sempre
cercato di costruire un buon rapporto con le persone della sua
squadra. Aveva imparato con una dura lezione che se qualcuno ti
doveva guardare le spalle in un combattimento, era meglio se trovavi
un terreno in comune e se ci si fidava l’uno dell’altro. Ma Nico non
era facile da capire. “Solo…non riesco a immaginare quando debba
essere strano, venire da un altro periodo storico.” “No, non puoi.”
Nico fissò il pavimento di pietra. Fece un respiro profondo. “Senti…
non mi piace parlarne. Onestamente, credo che ad Hazel sia andata
peggio. Lei si ricorda di più di quando era piccola. E’ dovuta tornare
dal mondo dei morti e adattarsi al mondo moderno. Io… io e Bianca,
noi eravamo bloccati al Lotus Hotel. Il tempo è passato così
velocemente. Stranamente, quello ha reso il passaggio più facile.”
“Percy mi ha raccontato di quel posto,” disse Jason. “Settant’anni,
ma è sembrato solo un mese?” Nico strinse i pugni fino a che le sue
dita non divennero bianche. “Sì. Sono certo che Percy ti abbia
raccontato tutto di me.” La sua voce era carica di amarezza, più di
quella che Jason riusciva a capire. Sapeva che Nico aveva dato la
colpa a Percy per aver fatto uccidere sua sorella Bianca, ma
sembrava che avevano superato la cosa, almeno secondo Percy.
Piper aveva anche parlato di una voce secondo cui Nico aveva una
cotta per Annabeth. Forse quello era parte del motivo. Tuttavia…
Jason non capiva perché Nico allontanasse le persone, perché non
aveva mai trascorso molto tempo in nessun dei due campi, perché
preferiva i morti ai vivi. Davvero non capiva perché Nico aveva
promesso di condurre l’Argo II a Epiro se odiava così tanto Percy
Jackson. Gli occhi di Nico studiarono le finestre sopra di loro. “I morti
romani sono ovunque qui… Lari. Lemuri. Stanno guardando. Sono
arrabbiati.” “Con noi?” La mano di Jason andò alla sua spada. “Con
tutto.” Nico indicò un piccolo edificio di pietra sull’estremità ovest del
cortile. “Quello un tempo era un tempio a Giove. I Cristiani lo hanno
mutato in un battistero. Ai fantasmi romani non piace.” Jason fissò
l’entrata scura. Non aveva mai incontrato Giove, ma pensava a suo
padre come a una persona vivente, l’uomo che si era innamorato di
sua madre. Ovviamente sapeva che suo padre era immortale, ma in
qualche modo il vero significato di ciò non l’aveva mai colpito fino a
quel momento, mentre fissava una porta attraverso la quale erano
passati dei romani, migliaia di anni prima, per venerare suo padre.
L’idea fece venire a Jason un lancinante mal di testa. “E laggiù…”
Nico indicò a est verso un edificio esagonale circondato da colonne
libere. “Quello era il mausoleo dell’imperatore.” “Ma la sua tomba
non è più là,” indovinò Jason. “Non lo è da secoli,” disse Nico.
“Quando l’impero crollò, l’edificio venne trasformato in una cattedrale
cristiana.” Jason deglutì. “Quindi se il fantasma di Diocleziano è
ancora da queste parti…“ “Probabilmente non sarà felice.” Il vento
soffiò, facendo volare foglie e incarti di merendine attraverso il
peristilio. Con la coda dell’occhio, Jason catturò il guizzo di un
movimento, una macchia sfocata di rosso e oro. Quando si voltò,
un’unica piuma color ruggine si stava posando sugli scalini della
rampa che portava in basso. “Quella parte.” Jason indicò. “Il tizio
alato. Dove credi che portino quelle scale?” Nico sguainò la sua
spada. Il suo sorriso era persino più inquietante di quando era
imbronciato. “Sottoterra,” disse. “Il mio posto preferito.” Sottoterra
non era il posto preferito di Jason. Fin dal suo ultimo viaggio nei
sotterranei di Roma con Piper e Percy, a combattere quei giganti
gemelli nell’ipogeo sotto il Colosseo, la maggior parte dei suoi incubi
aveva riguardato cantine, botole, e grosse ruote da criceto. Avere
Nico con lui non era una cosa rassicurante. La sua spada di ferro di
Stige sembrava rendere le ombre persino più tenebrose, come se il
metallo infernale stesse assorbendo la luce e il calore nell’aria.
Strisciarono attraverso un’ampia cantina con spesse colonne di
supporto che reggevano un soffitto a volta. I blocchi di pietra
calcarea erano così antichi che si erano fusi insieme dopo secoli di
umidità, facendo quasi assomigliare il posto a una caverna naturale.
Nessuno dei turisti si era avventurato là sotto. Ovviamente, loro
erano più svegli dei semidei. Jason sguainò il suo gladio.
Procedettero passando sotto le basse arcate, con i loro passi che
riecheggiavano sul pavimento di pietra. Delle finestre sbarrate erano
allineate sulla parte superiore di una delle pareti, affacciandosi sul
livello della strada, ma ciò non faceva altro che rendere la stanza più
claustrofobica. I raggi di sole assomigliavano a delle contorte sbarre
di prigione, che vorticavano di polvere antica. Jason superò una
trave di supporto, guardò alla sua sinistra, e per poco non ebbe un
attacco di cuore. A fissarlo dritto negli occhi c‘era un busto di marmo
di Diocleziano, con il volto di pietra chiara che brillava di
disapprovazione. Jason cercò di controllare il suo respiro. Quello
sembrava un buon posto dove lasciare il biglietto che aveva scritto
per Reyna, dicendole della loro rotta verso Epiro. Era lontano dalle
folle, ma si fidava del fatto che Reyna l’avrebbe trovato. Aveva gli
istinti di una cacciatrice. Fece scivolare la nota tra il busto e il suo
piedistallo, e fece qualche passo indietro. Gli occhi di marmo di
Diocleziano lo rendevano nervoso. Jason non riusciva a fare a meno
di pensare a Termine, la statua del dio parlante che si trovava in
Nuova Roma. Sperava che Diocleziano non gli urlasse contro o che
cominciasse improvvisamente a cantare. “Salve!” Prima che Jason
potesse registrare il fatto che la voce proveniva da qualche altra
parte, tagliò di netto la testa dell’imperatore. Il busto cadde e si
frantumò sul pavimento. “Non è stato molto carino,” disse la voce
alle sue spalle. Jason si voltò. L’uomo alato del camioncino dei gelati
era appoggiato contro una colonna vicina, intento a giocherellare
con aria indifferente con un piccolo cerchio di bronzo che continuava
a lanciare in aria. Ai suoi piedi c’era un cestino da picnic di vimini
pieno di frutta. “Voglio dire,” disse l’uomo, “cosa ti avrà mai fatto
Diocleziano?” L’aria vorticò intorno ai piedi di Jason. I frammenti di
marmo si riunirono formando un piccolo tornado, volarono a spirale
tornando sul piedistallo, e si riassemblarono formando un busto
completo, con il biglietto ancora infilato sotto. “Uh…“ Jason abbassò
la spada. “E’ stato un incidente. Mi hai spaventato.” Il tipo alato
ridacchiò. “Jason Grace, il Vento dell’Ovest è stato chiamato in molti
modi… caldo, gentile, donatore di vita, e maledettamente attraente.
Ma non sono mai stato considerato spaventoso. Lascio quel
comportamento volgare ai miei burrascosi fratelli del nord.” Nico
indietreggiò. “Il Vento dell’Ovest? Vuoi dire che tu sei…“ “Favonio,”
capì Jason. “Dio del Vento dell’Ovest.” Favonio sorrise e si inchinò,
chiaramente felice di essere stato riconosciuto. “Sicuramente potete
chiamarmi con il mio nome romano, oppure Zefiro, se siete greci.
Non sono pignolo al riguardo.” Nico appariva essere piuttosto
puntiglioso al riguardo. “Perché la tua personalità greca e romana
non sono in conflitto, come per gli altri dei?” “Oh, ho i mal di testa
occasionali.” Favonio scrollò le spalle. “Alcune mattine mi sveglio
vestito con un chitone greco quando sono certo di essere andato a
dormire nel mio pigiama SPQR. Ma per la maggior parte la guerra
non mi da fastidio. Io sono un dio minore, sapete, non sono mai
stato davvero nelle luci della ribalta. Le continue battaglie tra voi
semidei non mi influenzano così tanto.” “Quindi…” Jason non era
completamente sicuro di dover rinfoderare la sua spada. “Cosa ci fai
qui?” “Molte cose!” disse Favonio. “Me ne vado in giro con il mio
cestino di frutta. Porto sempre un cestino di frutta con me. Ti
andrebbe una pera?” “Sto bene così. Grazie.” “Vediamo… prima
stavo mangiando un gelato. In questo momento sto lanciando in aria
questo anello di bronzo.” Favonio girò il cerchio di metallo con il dito
medio. Jason non aveva idea di cosa fosse quell’anello, ma cercò di
rimanere concentrato. “Voglio dire, perché ci sei apparso? Perché ci
hai portato qua sotto?” “Oh!” Favonio annuì. “Il sarcofago di
Diocleziano. Sì. Questa fu la sua tomba. I Cristiani la spostarono
fuori dal mausoleo. Poi alcuni barbari distrussero la bara. Volevo
solo mostrarvi”, allargò tristemente le braccia, “che ciò che state
cercando non è qui. L’ha preso il mio padrone.” “Il tuo padrone?”
Jason ebbe un flashback del palazzo galleggiante sopra il Pike’s
Peak in Colorado, dove aveva fatto visita (ed era a stento
sopravvissuto) agli studi televisivi di un folle annunciatore
meteorologico che sosteneva di essere il dio di tutti i venti. “Ti prego
dimmi che il tuo padrone non è Eolo.” “Quella testa vuota?” Favonio
fece un verso di scherno. “No, certo che no.” “Intende Eros.” La voce
di Nico si fece tagliente. “Cupido, in Latino.” Favonio sorrise. “Molto
bene, Nico di Angelo. Sono lieto di vederti di nuovo, comunque. E’
passato tanto tempo.” Nico aggrottò le sopracciglia. “Non ti ho mai
incontrato.” “Non mi hai mai visto,” lo corresse il dio. “Ma ti ho tenuto
d’occhio. Quando venisti qui da bambino, e le molte altre volte dopo
quella. Sapevo che alla fine saresti tornato per guardare in faccia il
volto del mio padrone.” Nico si fece persino più pallido del solito. I
suoi occhi saettarono per la stanza sotterranea come se stesse
iniziando a sentirsi in trappola. “Nico?” disse Jason. “Di che cosa sta
parlando?” “Non lo so. Niente.” “Niente?” gridò Favonio. “La persona
a cui tieni di più… gettata nel Tartaro, e tuttavia continui a non
accettare la verità?” Improvvisamente Jason si sentì come se stesse
origliando una conversazione privata. La persona a cui tieni di più. Si
ricordò quello che gli aveva detto Piper sulla presunta cotta di Nico
per Annabeth. Apparentemente i sentimenti di Nico erano molto più
profondi di una semplice cotta. “Siamo venuti solo per lo scettro di
Diocleziano,” disse Nico, chiaramente ansioso di cambiare
argomento. “Dove si trova?” “Ah…” Favonio annuì tristemente.
“Pensavi che sarebbe stato semplice come affrontare il fantasma di
Diocleziano? Temo di no, Nico. La tua prova sarà molto più difficile.
Sai, molto prima che questo diventasse il Palazzo di Diocleziano, era
il passaggio per la corte del mio padrone. Ho vissuto qui per secoli,
portando coloro che cercavano l’amore alla presenza di Cupido.” A
Jason non piaceva sentir parlare di prove difficili. Non si fidava di
quello strano dio con il cerchio e le ali e il cestino di frutta. Ma
un’antica storia affiorò nella sua mente, qualcosa che aveva sentito
al Campo Giove. “Come Psiche, la moglie di Cupido. La portasti in
questo palazzo.” Gli occhi di Favonio luccicarono. “Molto bene,
Jason Grace. Da questo punto esatto, ho trasportato Psiche con i
venti e l’ho portata alle camere del mio padrone. Infatti, è per questo
che Diocleziano costruì il suo palazzo qui. Questo luogo è sempre
stato onorato dal gentile Vento dell’Ovest.” Allargò le braccia. “E’ un
punto di tranquillità e amore in un mondo turbolento. Quando il
Palazzo di Diocleziano venne saccheggiato…“ “Tu prendesti lo
scettro,” indovinò Jason. “Per tenerlo al sicuro,” annuì Favonio. “E’
uno dei molti tesori di Cupido, un ricordo di tempi migliori. Se lo
volete…” Favonio si voltò verso Nico. “Tu dovrai affrontare il dio
dell’amore.” Nico fissò la luce del sole che entrava dalle finestre,
come desiderando di poter fuggire attraverso quelle strette aperture.
Jason non era certo di quello che volesse Favonio, ma se affrontare
il dio dell’amore significava obbligare Nico a fare qualche tipo di
confessione su quale ragazza gli piacesse, non sembrava così male.
“Nico, puoi farlo,” disse Jason. “Potrà essere imbarazzante, ma è per
lo scettro.” Nico non sembrava convinto. Infatti, sembrava che
stesse per vomitare. Ma raddrizzò le spalle e annuì. “Hai ragione.
Non… non ho paura di un dio dell’amore.” Favonio fece un sorriso
raggiante. “Eccellente! Vi andrebbe uno snack prima di andare?”
Pescò una mela verde dal suo cestino e la guardò accigliato. “Oh,
cavoli. Continuo a dimenticarmi che il mio simbolo è un cesto di
frutta acerba. Perché il vento della primavera non riceve più crediti?
L’estate si prende tutto il divertimento.” “Non fa niente,” disse Nico
velocemente. “Portaci solo da Cupido.” Favonio fece roteare l’anello
che aveva al dito, e il corpo di Jason si dissolse nell’aria.
36

JASON

Jason aveva cavalcato i venti molte volte. Essere vento non era la
stessa cosa. Si sentiva fuori controllo, con i pensieri sparsi, senza
confini tra il suo corpo e il resto del mondo. Si chiese se fosse così
che si sentivano i mostri quando venivano sconfitti, esplosi in
polvere, indifesi e privi di forma. Jason poteva avvertire la presenza
di Nico vicina. Il Vento dell’Ovest li trasportò nel cielo sopra Spalato.
Insieme corsero sopra le colline, oltre gli acquedotti romani, le
autostrade, e le vigne. Mentre si avvicinavano alle montagne, Jason
vide le rovine di una città romana sparse nella valle sotto di loro,
muri cadenti, fondamenta quadrate, e strade crepate, il tutto coperto
da erba incolta, così che sembrava un gigante ed erboso tavolo da
gioco. Favonio li fece scendere al centro delle rovine, accanto a una
colonna distrutta grande come una sequoia. Il corpo di Jason si
riformò. Per un attimo si sentì persino peggio di quando era vento,
come fosse stato improvvisamente avvolto con un cappotto di
piombo. “Sì, i corpi dei mortali sono terribilmente ingombranti,” disse
Favonio, come se gli stesse leggendo i pensieri. Il dio del vento si
sistemò su un muro vicino insieme al suo cesto di frutta e allargò le
ali color ruggine al sole. “Onestamente, non so come possiate
sopportarlo, tutti i giorni sempre così.” Jason studiò il paesaggio
circostante. La città doveva essere stata enorme un tempo. Poteva
riconoscere le strutture dei templi e delle terme, un anfiteatro mezzo
sepolto, e dei piedistalli vuoti che una volta dovevano aver ospitato
delle statue. File di colonne spuntavano da tutte le parti. Le antiche
mura della città serpeggiavano dentro e fuori il fianco della collina
come un filo di pietra in un tessuto verde. Alcune aree sembravano
essere state scavate, ma la maggior parte della città sembrava
semplicemente abbandonata, come se fosse stata lasciata in balia
degli elementi per gli ultimi duemila anni. “Benvenuto a Salona,”
disse Favonio. “La Capitale della Dalmazia! Il luogo di nascita di
Diocleziano! Ma prima di quello, molto prima, era la casa di Cupido.”
Il nome riecheggiò, come se delle voci stessero sussurrando
attraverso le rovine. Qualcosa riguardo quel posto sembrava persino
più inquietante della stanza sotterranea nel palazzo di Spalato.
Jason non aveva mai pensato molto a Cupido. Sicuramente non ci
aveva mai pensato come a un essere spaventoso. Persino per i
semidei romani, il nome portava alla mente l’immagine di un buffo
bimbetto alato con arco e frecce giocattolo, che volava in giro vestito
con un pannolino durante il giorno di San Valentino. “Oh, non è
così,” disse Favonio. Jason sussultò. “Sai leggere il pensiero?” “Non
ne ho bisogno.” Favonio lanciò il suo cerchio di bronzo in aria. “Tutti
hanno l’idea sbagliata su Cupido… finché non lo incontrano.” Nico si
appoggiò contro una colonna, con le gambe che gli tremavano
visibilmente. “ehi, amico…” Jason fece un passo verso di lui, ma
Nico lo allontanò con un gesto della mano. Ai piedi di Nico, l’erba si
fece marrone e appassita. La macchia di erba morta si allargò, come
se del veleno stesse filtrando dalle suole delle sue scarpe. “Ah…”
Favonio annuì con compassione. “Non ti biasimo per essere
nervoso, Nico di Angelo. Tu sai come io sono finito a servire
Cupido?” “Io non servo nessuno,” borbottò Nico. “Soprattutto non
Cupido.” Favonio proseguì come se non avesse sentito. “Mi sono
innamorato di un mortale chiamato Giacinto. Era assolutamente
straordinario.” “Un mortale…?” La mente di Jason era ancora
confusa a causa del suo viaggio nel vento, quindi gli ci volle qualche
secondo per metabolizzare la cosa. “Oh…” “Sì, Jason Grace.”
Favonio inarcò un sopracciglio. “Mi sono innamorato di un ragazzo.
La cosa ti sconvolge?” Onestamente, Jason non lo sapeva. Cercava
di non pensare ai dettagli delle vite romantiche degli dei, non
importava di chi si innamorassero. Dopotutto, suo padre, Giove, non
era esattamente un modello di comportamento. Paragonato ad
alcuni degli scandali amorosi dell’Olimpo che aveva sentito, il Vento
dell’Ovest che si innamorava di un ragazzo mortale non sembrava
così sconvolgente. “Immagino di no. Quindi… Cupido ti ha colpito
con la sua freccia, e tu ti sei innamorato.” Favonio fece un verso di
scherno. “Lo fai sembrare così semplice. Purtroppo, l’amore non è
mai semplice. Vedi, anche al dio Apollo piaceva Giacinto. Lui
sosteneva che erano solo amici. Non lo so. Ma un giorno li ho
incontrati mentre stavano insieme, intenti a giocare al gioco dei
cerchi…“ Ecco che si parlava di nuovo di cerchi. “Quale gioco?” “Un
gioco che si fa con quegli anelli,” spiegò Nico, anche se la sua voce
era instabile. “Come ferri di cavallo.” “Più o meno,” disse Favonio.
“Ad ogni modo, divenni geloso. Invece di affrontarli e scoprire la
verità, feci cambiare il vento e mandai un pesante anello di metallo
dritto contro la testa di Giacinto e… bè.” Il dio del vento inspirò.
“Mentre Giacinto moriva, Apollo lo trasformò in un fiore, il giacinto.
Sono certo che Apollo si sarebbe vendicato in maniera terribile su di
me, ma Cupido mi offrì la sua protezione. Avevo fatto una cosa
terribile, ma ero impazzito a causa dell’amore, così mi risparmiò, con
la condizione che lavorassi per sempre per lui.” CUPIDO. Quel nome
riecheggiò nuovamente tra le rovine. “Quello sarebbe il mio
segnale.” Favonio si alzò in piedi. “Pensa a lungo e duramente a
come procederai, Nico di Angelo. Non puoi mentire a Cupido. Se
lasci che la tua rabbia ti guidi… bè, il tuo destino sarà persino più
triste del mio.” Jason ebbe la sensazione che la sua mente si stesse
trasformando nuovamente in vento. Non capiva quello di cui stava
parlando Favonio, o perché Nico sembrasse così scosso, ma non
aveva tempo di pensarci. Il dio del vento scomparve in un vortice
rosso e oro. L’aria estiva si fece improvvisamente opprimente. Il
terreno tremò, e Jason e Nico sguainarono le loro spade. *** Allora.
La voce attraversò le orecchie di Jason come un proiettile. Quando
si voltò, dietro di lui non c’era nessuno. Siete venuti per prendere lo
scettro. Nico si trovava dietro di lui, e per una volta Jason era grato
di avere la compagnia del ragazzo. “Cupido,” esclamò Jason, “dove
sei?” La voce rise. Senza dubbio non suonava come la voce di un
tenero angioletto. Appariva profonda e ricca, ma anche minacciosa,
come un tremore che precede un grosso terremoto. Dove meno vi
aspettate, rispose Cupido. Dove si trova sempre l’Amore. Qualcosa
si scagliò contro Jason e lo trasportò lungo la strada. Cadde lungo
una serie di scale e si ritrovò sdraiato sul pavimento di una cantina
romana aperta. Credevo che fossi più saggio, Jason Grace. La voce
di Cupido vorticava intorno a lui. Dopotutto, tu hai trovato il vero
amore. O dubiti ancora di te? Nico corse lungo le scale. “Stai bene?”
Jason accettò la sua mano e si rimise in piedi. “Sì. Solo una botta
nello stomaco.” Oh, pensavi che avrei giocato seguendo le regole?
rise Cupido . Io sono il dio dell’amore. Non sono mai giusto. Questa
volta, i sensi di Jason erano in allerta. Avvertì l’aria muoversi proprio
quando si materializzò una freccia, che correva rapida verso il petto
di Nico. Jason la intercettò con la spada e la fece deviare. La freccia
esplose contro la parete più vicina, cospargendoli di frammenti di
pietra. Corsero lungo le scale. Jason tirò Nico da una parte mentre
un’altra raffica di vento faceva cadere una colonna che stava per
schiacciarlo. “Questo tipo è l’Amore o la Morte?” ringhiò Jason.
Chiedi ai tuoi amici, disse Cupido. Frank, Hazel, e Percy hanno
incontrato la mia controparte, Tanato. Non siamo così diversi. Con
l’eccezione che ogni tanto Morte è più gentile. “Vogliamo solo lo
scettro!” urlò Nico. “Stiamo cercando di fermare Gea. Sei dalla parte
degli dei o no?” Una seconda freccia colpì il terreno tra i piedi di Nico
e brillò di un intenso bianco. Nico indietreggiò velocemente mentre la
freccia esplodeva in un geyser di fuoco. L’Amore è da tutte le parti ,
disse Cupido. E da quella di nessuno. Non chiedere quello che
l’Amore può fare per te. “Fantastico,” disse Jason. “Adesso lancia
frasi da cartolina.” Un movimento alle sue spalle: Jason si voltò,
abbassando la sua spada nell’aria. La sua lama colpì qualcosa di
solido. Udì un grugnito e attaccò di nuovo, ma il dio invisibile non
c’era più. Sul pavimento di pietra, luccicava una traccia di icore
dorato… il sangue degli dei. Molto bene, Jason, disse Cupido.
Almeno sei in grado avvertire la mia presenza. Persino un casuale
colpo al vero amore è più di quello che riescono a fare la maggior
parte degli eroi. “Quindi adesso posso avere lo scettro?” chiese
Jason. Cupido rise. Sfortunatamente, tu non puoi brandirlo. Solo un
figlio dell’Oltretomba può invocare una legione di morti. E solo un
ufficiale di Roma può guidarli. “Ma…” Jason esitò. Lui era un
ufficiale. Era un pretore. Poi si ricordò di tutti i suoi dubbi su dove
appartenesse. A Nuova Roma, aveva offerto di rinunciare alla sua
posizione in favore di Percy Jackson. Quello lo aveva reso indegno
di guidare una legione di fantasmi romani? Decise di affrontare il
problema quando si fosse presentato. “Lasciacela e basta,” disse.
“Nico può invocare…“ La terza freccia sfrecciò accanto alla spalla di
Jason. Non poté fermarla in tempo. Nico boccheggiò mentre questa
affondava nel suo braccio. “Nico!” Il figlio di Ade barcollò. La freccia
si dissolse, senza lasciare sangue e nessuna ferita visibile, ma il
volto di Nico era contratto dalla rabbia e dal dolore. “Basta con i
giochi!” gridò Nico. “Fatti vedere!” E’ una cosa costosa, disse
Cupido, guardare il vero volto dell’Amore. Un’altra colonna crollò.
Jason si spostò velocemente. Mia moglie Psiche imparò quella
lezione, disse Cupido. Fu portata qui secoli fa, quando questo era il
luogo del mio palazzo. Ci incontravamo solo al buio. Era stata
avvertita di non guardarmi mai, e tuttavia non riusciva a sopportare il
mistero. Temeva che fossi un mostro. Una notte, accese una
candela, e vide il mio volto mentre dormivo. “Eri così brutto?” Jason
credeva di aver individuato la voce di Cupido, al bordo dell’anfiteatro,
a circa venti metri di distanza, ma voleva esserne certo. Il dio rise.
Temo che fossi troppo bello. Un mortale non può guardare il vero
aspetto di un dio senza soffrirne le conseguenze. Mia madre,
Afrodite, maledisse Psiche per la sua sfiducia. La mia povera
amante fu tormentata, obbligata all’esilio, le vennero affidate delle
prove orribili per dimostrare il suo valore. Fu persino mandata
nell’Oltretomba in un’impresa per provare la sua dedizione. Si
guadagnò la strada per tornare al mio fianco, ma soffrì
enormemente. Adesso ti ho preso, pensò Jason. Alzò la spada verso
il cielo e dei tuoni scossero la valle. Dei lampi fecero esplodere un
cratere nel punto da cui proveniva la voce. Silenzio. Jason aveva
appena iniziato a pensare, accidenti, ha davvero funzionato, quando
una forza invisibile lo gettò a terra. La sua spada scivolò lungo la
strada. Una bella prova, disse Cupido, con la voce già distante. Ma
l’Amore non può essere individuato così facilmente. Accanto a lui,
crollò una parte. Jason riuscì a stento a rotolare via. “Smettila!” urlò
Nico. “E’ me che vuoi. Lascialo da solo!” Le orecchie di Jason
fischiavano. Era confuso a causa delle cadute. In bocca aveva il
sapore della roccia calcarea. Non capiva perché Nico pensava di
essere l’obiettivo principale, ma Cupido sembrava essere d’accordo.
Povero Nico di Angelo. Nella voce del dio c’era una traccia di
disappunto. Sai quello che tu vuoi, molto meno di quello che voglio
io? La mia amata Psiche ha rischiato tutto nel nome dell’Amore. Era
l’unico modo per scontare la sua mancanza di fiducia. E tu, cosa hai
rischiato nel mio nome? “Sono stato nel Tartaro e sono tornato,”
ringhiò Nico. “Non mi fai paura.” Ti faccio molta, molta paura.
Affrontami. Sii onesto. Jason si alzò in piedi. Tutto intorno a Nico, il
terreno tremò. L’erba appassì, e tutte le rocce si spaccarono come
se qualcosa si stesse muovendo sottoterra, cercando di emergere.
“Dacci lo scettro di Diocleziano,” disse Nico. “Non abbiamo tempo
per i giochi.” Giochi? Cupido attaccò, mandando Nico a sbattere
contro un piedistallo di granito. L’Amore non è un gioco! Non è una
cosa dolce e delicata! E’ duro lavoro, un’impresa che non ha mai
fine. Richiede tutto da una persona, soprattutto la verità. Solo allora
concederà la ricompensa. Jason recuperò la sua spada. Se quel
tizio invisibile era Amore, Jason stava cominciando a pensare che
l’Amore fosse sopravvalutato. Gli piaceva di più la versione di Piper,
premuroso, gentile e bello. Poteva capire Afrodite. Cupido sembrava
più un criminale, un vigilante delle regole. “Nico,” esclamò, “che cosa
vuole da te?” Diglielo, Nico di Angelo, disse Cupido. Digli che sei un
codardo, spaventato da te stesso e dai tuoi sentimenti. Digli la vera
ragione per la quale sei scappato dal Campo Mezzosangue, e
perché sei sempre da solo. Nico lasciò andare un urlo gutturale. Il
terreno ai suoi piedi si spaccò lasciando uscire fuori degli scheletri,
romani morti con mani mancanti e teschi deformati, costole rotte, e
mascelle staccate. Alcuni erano vestiti con i resti delle toghe. Altri
avevano dei luccicanti pezzi di armatura appesi al petto. Ti
nasconderai tra i morti, come fai sempre? lo provocò Cupido.
Ondate di oscurità si riversarono dal figlio di Ade. Quando colpirono
Jason, il ragazzo perse quasi i sensi, sopraffatto dall’odio, dalla
paura e dalla vergogna… Nella sua mente apparvero delle immagini.
Vide Nico e sua sorella su una rupe nevosa nel Maine, con Percy
Jackson che li stava proteggendo dall’attacco di una manticora. La
spada di Percy brillava nel buio. Era stato il primo semidio che Nico
avesse mai visto in azione. Più tardi, al Campo Mezzosangue, Percy
prese Nico per il braccio, promettendogli di tenere al sicuro sua
sorella Bianca. Nico gli credette. Aveva guardato nei suoi occhi
verde mare e pensato, Come potrebbe mai fallire? Questo è un vero
eroe. Era come il gioco preferito di Nico, la Mitomagia, nella vita
reale. Jason vide quando Percy era tornato e gli aveva detto che
Bianca era morta. Nico aveva urlato e lo aveva chiamato bugiardo.
Si era sentito tradito, ma… quando i guerrieri scheletro avevano
attaccato, non aveva potuto permetterli di fare del male a Percy.
Nico aveva invocato la terra perché li ingoiasse, e poi era scappato,
terrorizzato dai suoi stessi poteri, e dalle sue emozioni. Jason vide
un’altra dozzina di scene del genere dal punto di vista di Nico… E
queste lo lasciarono sconvolto, incapace di muoversi o di parlare.
Nel frattempo, gli scheletri romani di Nico si lanciarono in avanti e
afferrarono qualcosa di invisibile. Il dio lottò gettando i morti di lato,
rompendo costole e teschi, ma gli scheletri continuavano ad arrivare,
afferrando le braccia del dio. Interessante, disse Cupido. Hai la
forza, dopotutto? “Ho lasciato il Campo Mezzosangue per amore,”
disse Nico. “Annabeth… lei…“ Continui a nasconderti, disse Cupido,
riducendo un altro scheletro in pezzi. Non ne hai la forza. “Nico,”
riuscì a dire Jason, “va tutto bene. Ho capito.” Nico guardò verso di
lui, il volto carico di dolore e tristezza. “No, non capisci.” disse. “Non
c’è modo nel quale tu possa capire.” E così scappi di nuovo, lo
rimproverò Cupido. Dai tuoi amici, da te stesso. “Io non ho amici!”
urlò Nico. “Ho lasciato il Campo Mezzosangue perché non
appartengo là! Non ne farò mai parte!” Gli scheletri avevano bloccato
Cupido, ma il dio invisibile rise così crudelmente che Jason ebbe
l’impulso di invocare un altro lampo. Sfortunatamente, non credeva
di averne la forza. “Lascialo stare, Cupido,” disse Jason con voce
strozzata. “Non sono…” La voce lo abbandonò. Aveva voluto dire
che non erano affari di Cupido, ma si rese conto che quelli erano
esattamente affari di Cupido. Qualcosa che Favonio aveva detto
continuava a risuonargli nelle orecchie: La cosa ti sconvolge?
Finalmente la storia di Psiche divenne chiara, perché una ragazza
mortale avrebbe dovuto essere così spaventata. Perché avrebbe
dovuto rischiare di infrangere le regole per guardare il dio dell’amore
in faccia, temendo che potesse essere un mostro. Psiche aveva
avuto ragione. Cupido era un mostro. L’Amore era il mostro più
selvaggio di tutti. La voce di Nico sembrava vetro infranto. “Non…
non ero innamorato di Annabeth.” “Eri geloso di lei,” disse Jason. “E’
per questo che non volevi starle accanto. Soprattutto perché non
volevi stare accanto a… lui. Ha perfettamente senso.” Tutta la lotta e
le negazioni sembrarono abbandonare Nico all’improvviso. L’oscurità
cessò. I morti romani crollarono in una pila di ossa e si ridussero in
polvere. “Ho odiato me stesso,” disse Nico. “Ho odiato Percy
Jackson.” Cupido divenne visibile, un giovane uomo alto, slanciato e
muscoloso con bianche ali immacolate, lisci capelli neri, un semplice
completo bianco. L’arco e la freccia che aveva sulla schiena non
erano giocattoli, erano armi da guerra. I suoi occhi erano rossi come
il sangue, come se tutti i cuori di San Valentino del mondo fossero
stati spremuti, distillati in un’unica miscela velenosa. Il suo volto era
bello, ma anche duro, difficile da guardare direttamente, come un
riflettore. Guardò Nico soddisfatto, come se avesse identificato il
prossimo punto dove puntare la sua freccia per un’uccisione rapida.
“Avevo una cotta per Percy,” sputò fuori Nico. “Questa è la verità.
Questo è il grande segreto.” Fissò Cupido con rabbia. “Contento
adesso?” Per la prima volta, lo sguardo di Cupido sembrava
addolcito. “Oh, non direi che l’Amore renda sempre felici.” La sua
voce suonava più piccola, molto più umana. “A volte rende
incredibilmente tristi. Ma almeno adesso l’hai affrontato. Questo è
l’unico modo per conquistarmi.” Cupido si dissolse nel vento. Sul
terreno al suo posto giaceva un bastone d’avorio di un metro, con
all’estremità uno scuro globo di marmo lucido grande come una palla
da baseball, annidato sulle schiene di tre aquile romane dorate. Lo
scettro di Diocleziano. Nico si inginocchiò e lo raccolse. Guardò
Jason, come in attesa di un attacco. “Se gli altri lo scoprono…“ “Se
gli altri lo scoprono,” disse Jason, “avresti tutte quelle persone in più
pronte a spalleggiarti, e a sguinzagliare la furia degli dei su chiunque
ti crei problemi.” Nico si accigliò. Jason avvertiva ancora il
risentimento e la rabbia che si riversavano dal ragazzo. “Ma è una
tua scelta,” aggiunse Jason. “Tu devi decidere se dirlo o meno. Io
posso solo dirti…“ “Non lo sono più,” borbottò Nico. “Voglio dire… ho
rinunciato a Percy. Ero piccolo e facilmente impressionabile, e io…
io non…” La sua voce tremò, e Jason poteva capire che al ragazzo
stavano per salire le lacrime agli occhi. Che Nico avesse davvero
rinunciato a Percy o meno, Jason non riusciva a immaginare come
doveva essere stato per Nico tutti quegli anni, mantenendo un
segreto che sarebbe stato impensabile da condividere negli anni
quaranta, negando chi era, sentendosi completamente solo, persino
più isolato degli altri semidei. “Nico,” disse gentilmente, “ho visto un
sacco di cose coraggiose. Ma quello che hai appena fatto? Quella è
stata forse la più coraggiosa di tutte.” Nico alzò lo sguardo incerto.
“Dovremmo tornare alla nave.” “Sì. Possiamo volare…“ “No,”
annunciò Nico. “Questa volta useremo il viaggio-ombra. Per adesso
ne ho avuto abbastanza dei venti.”
37

ANNABETH

Perdere la vista era già stato abbastanza brutto. Essere isolata da


Percy era stato orribile. Ma adesso che poteva vedere di nuovo,
vederlo morire lentamente a causa del veleno nel sangue delle
gorgoni ed essere incapace di fare qualsiasi cosa, quella era la
maledizione peggiore di tutte. Bob si issò Percy sulla spalla come
fosse una sacca della palestra mentre il gatto scheletro, Piccolo Bob,
si raggomitolava sulla schiena di Percy facendo le fusa. Bob
cominciò ad avanzare con passo pesante e veloce, persino per un
Titano, il che rese quasi impossibile per Annabeth riuscire a stargli
dietro. Le bruciavano i polmoni. La sua pelle aveva ricominciato a
riempirsi di bolle. Probabilmente aveva bisogno di un altro sorso di
acqua infuocata, ma si erano lasciati il Fiume Flegetonte alle spalle.
Il suo corpo era così malconcio e dolorante che si era dimenticata
come ci si sentiva a non provare dolore. “Quanto manca ancora?”
ansimò. “Quasi troppo,” rispose Bob. “Ma forse no.” Molto d’aiuto,
pensò Annabeth, ma era troppo esausta per dirlo ad alta voce. Il
paesaggio cambiò di nuovo. Stavano ancora procedendo in discesa,
cosa che avrebbe dovuto rendere il loro viaggio più facile; ma il
terreno era inclinato con la pendenza sbagliata, troppo ripido per
correre, troppo insidioso da permetterle di abbassare la guardia
anche solo per un momento. La superficie era a volte ricoperta da
sabbia, a volte da macchie di melma. Annabeth passava intorno a
delle punte di pietra che sporgevano dal terreno, abbastanza affilate
da poterle impalare il piede, e mucchi di… bè, non erano
esattamente rocce. Erano più simili a delle verruche grosse come
angurie. Se Annabeth doveva indovinare (cosa che non voleva fare)
pensò che Bob la stesse guidando lungo il grande intestino di
Tartaro. L’aria si fece più densa e odorava di fogna. Forse il buio non
era altrettanto intenso, ma riusciva a vedere Bob solo grazie al
luccichio dei suoi capelli bianchi e della punta della sua lancia. Notò
che non aveva ritratto l’arma della sua scopa dalla loro battaglia con
le arai. La cosa non la rassicurò. Percy sobbalzò, costringendo a far
spostare il gattino che si risistemò nella parte inferiore della schiena
di Percy. Di tanto in tanto Percy emetteva dei versi di dolore, e
Annabeth si sentiva come se un pugno le stesse stritolando il cuore.
Ritornò con la mente al tè che aveva avuto con Piper, Hazel e
Afrodite a Charleston. Dei, sembrava essere passato così tanto
tempo. Afrodite aveva sospirato e si era fatta nostalgica ripensando
ai bei vecchi tempi della Guerra Civile, a come l’amore e la guerra
andavano sempre tenendosi per mano. Afrodite aveva indicato con
orgoglio Annabeth, usandola come esempio per le altre ragazze:
Una volta ho promesso di rendere la sua vita amorosa interessante.
E non l’ho fatto? Annabeth aveva voluto strozzare la dea dell’amore.
Aveva ricevuto molto di più della sua parte di cose interessanti.
Adesso Annabeth stava resistendo in attesa di un lieto fine. Di certo
era possibile, non importava quello che dicevano le leggende sugli
eroi tragici. Ci dovevano essere delle eccezioni, giusto? Se soffrire
portava alla ricompensa, allora lei e Percy si meritavano il premio più
grande. Pensò all’idea di Percy di andare a vivere a Nuova Roma,
loro due che si sistemavano là, andavano insieme al college.
All’inizio, l’idea di vivere tra i romani l’aveva inorridita. Provava
risentimento nei loro confronti per averle portato via Percy. Adesso
avrebbe accettato l’offerta con piacere. Se solo fossero sopravvissuti
a quello. Se solo Reyna avesse ricevuto il suo messaggio. Se solo
un altro milione di eventi azzardati si fosse risolto nel modo giusto.
Smettila, si rimproverò. Doveva concentrarsi sul presente, mettere
un piede davanti all’altro, affrontare quella scalata in discesa
intestinale una vescica gigante per volta. Le sue ginocchia erano
calde e instabili, come una stampella di metallo piegata quasi fino al
punto di rottura. Percy gemette e borbottò qualcosa che non riuscì a
capire. Bob si fermò improvvisamente. “Guarda.” Davanti a loro nel
buio, il terreno tornava in piano con una palude nera. Della foschia
giallo-zolfo era sospesa nell’aria. Persino senza la luce del sole,
c’erano delle vere piante, gruppi di canne, scheletrici alberi senza
foglie, persino alcuni fiori dall’aspetto malato che sbucavano dalla
melma. Dei muschiosi sentieri tagliavano attraverso delle ribollenti
fosse di catrame. Direttamente davanti ad Annabeth, affondato nel
pantano, c’erano delle impronte grandi come i coperchi dei
cassonetti dell’immondizia, con lunghe dita appuntite. Purtroppo,
Annabeth era piuttosto sicura di sapere cosa le avesse provocate.
“Dragoni?” “Sì.” Bob le rivolse un grosso sorriso. “E’ una bella cosa!”
“Uh… perché?” “Perché siamo vicini.” Bob marciò nella palude.
Annabeth voleva urlare. Detestava dover dipendere da un Titano,
soprattutto da uno che stava lentamente riacquistando la sua
memoria e che li stava portando a trovare un gigante ‘buono’.
Detestava farsi strada attraverso una palude che era ovviamente il
territorio di un dragone. Ma Bob aveva Percy. Se esitava, li avrebbe
persi nel buio. Corse dietro di lui, saltellando da una chiazza di
muschio all’altra e pregando Atena di non farla cadere in una fossa.
Almeno il terreno obbligò Bob ad andare più lento. Quando
Annabeth lo recuperò, fu in grado di camminare dietro di lui e tenere
d’occhio Percy, che stava borbottando delirante, con la fronte
pericolosamente calda. Diverse volte borbottò Annabeth, e lei
dovette trattenere i singhiozzi. Il gatto si limitò a fare le fusa più forte
e si raggomitolò. Alla fine la foschia gialla si diradò, rivelando una
radura infangata come un’isola nella palude. Il terreno era
punteggiato da alberi scheletrici e cumuli di vesciche. Al centro
incombeva una grossa capanna ricoperta da una cupola fatta di
ossa e pelle verdastra. Del fumo usciva da un buco sul tetto.
L’entrata era ricoperta da tende fatte di squamosa pelle di rettile, e
affiancate all’entrata, due torce fatte di enormi ossa di femore
bruciavano di un giallo acceso. Quello che davvero catturò
l’attenzione di Annabeth fu il teschio di dragone. A cinquanta metri
nella radura, a circa metà strada verso la capanna, un gigantesco
albero di quercia spuntava dal terreno, piegato a quarantacinque
gradi rispetto alla terra. Le mascelle del teschio di dragone
circondavano il tronco dell’albero, come se la quercia fosse la lingua
del mostro morto. “Sì,” mormorò Bob. “Va molto bene.” Niente di
quel posto sembrava andare bene ad Annabeth. Prima che potesse
protestare, Piccolo Bob inarcò la schiena e soffiò. Dietro di loro, un
potente ruggito riecheggiò attraverso la palude, un suono che
Annabeth aveva sentito l’ultima volta durante la Battaglia di
Manhattan. Si voltò e vide il dragone caricare verso di loro.
38

ANNABETH

L’insulto più grande? Il dragone era senza problemi la cosa più bella
che Annabeth avesse visto da quando era precipitata nel Tartaro. La
sua pelle era chiazzata di verde e giallo, come luce del sole che
filtrava tra le chiome degli alberi di una foresta. I suoi occhi da rettile
erano della sfumatura di verde preferita di Annabeth (proprio come
quelli di Percy). Quando il collare che aveva intorno al collo gli si aprì
intorno alla testa, Annabeth non poté fare a meno di pensare a come
fosse regale e stupendo il mostro che stava per ucciderla. Era lungo
come il treno di una metropolitana. I suoi enormi artigli scavavano
nel fango mentre li usava per tirarsi in avanti, con la coda che
frustava da una parte all’altra. Il dragone sibilò, sputando getti di
acido verde che fumavano sul terreno muschioso e che davano
fuoco alle fosse di catrame, riempiendo l’aria con il profumo di pino
fresco e zenzero. Il mostro aveva persino un odore buono. Come la
maggior parte dei dragoni, era privo di ali, più lungo e più serpentino
di un drago, e sembrava affamato. “Bob,” disse Annabeth, “cosa
stiamo affrontando qui?” “Dragone Meoniano,” disse Bob. “Dalla
Meonia.” Altre informazioni utili. Annabeth avrebbe colpito Bob sulla
testa con la sua stessa scopa se fosse riuscita a sollevarla. “C’è
qualche modo nel quale possiamo ucciderlo?” “Noi?” disse Bob.
“No.” Il dragone ruggì come per sottolineare il concetto, riempiendo
l’aria con altro veleno al pino-zenzero, che sarebbe stato
un’eccellente profumo per macchine. “Porta Percy al sicuro,” disse
Annabeth. “Io lo distrarrò.” Non aveva idea di come l’avrebbe fatto,
ma era la sua unica scelta. Non poteva permettere che Percy
morisse, non se lei aveva ancora la forza di stare in piedi. “Non devi
farlo,” disse Bob. “In qualsiasi momento…“ “ROOOOOAAAR!”
Annabeth si voltò mentre il gigante emergeva dalla sua capanna.
Era alto circa sei metri, tipica altezza da gigante, con la parte
superiore del corpo umanoide, e delle squamate gambe da rettile,
come un dinosauro bipede. Non aveva nessuna arma. Al posto
dell’armatura, indossava solo una maglietta formata da un mantello
di pecora e della pelle chiazzata di verde cucite insieme. La sua
pelle era rosso ciliegia; la sua barba e i suoi capelli avevano il colore
del ferro arrugginito, intrecciato con ciuffi di erba, foglie e fiori di
palude. Gridò in segno di sfida, ma fortunatamente non stava
guardando Annabeth. Bob la tirò via dalla strada mentre il gigante
scattava verso il dragone. Si scontrarono come uno strano tipo di
combattimento natalizio, rosso contro verde. Il dragone sputò
veleno. Il gigante balzò da una parte. Afferrò la quercia e la tirò fuori
dal terreno, radici e tutto il resto. Il vecchio teschio si ridusse in
polvere mentre il gigante sollevava l’albero come una mazza da
baseball. La coda del dragone si avvolse attorno alla vita del
gigante, trascinandolo più vicino ai suoi denti digrignati. Ma non
appena il gigante si fu avvicinato abbastanza, ficcò l’albero dritto
dentro la gola del mostro. Annabeth sperò di non dover assistere
mai più ad una scena così raccapricciante. L’albero trafisse la gola
del dragone e lo impalò al terreno. Le radici iniziarono a muoversi,
scavando sempre più in profondità non appena toccavano terra,
ancorando la quercia finché non sembrò che si trovasse in quel
punto da secoli. Il dragone tremò e si agitò, ma era bloccato
strettamente. Il gigante abbassò il suo pugno sul collo del dragone.
CRACK. Il mostro divenne inerte. Iniziò a dissolversi, lasciando solo
avanzi di ossa, carne, pelle e un nuovo teschio di dragone le cui
mascelle circondavano la quercia. Bob borbottò. “Bella mossa.” Il
gattino fece le fusa in assenso e iniziò a leccarsi le zampe. Il gigante
diede dei calci ai resti del dragone, esaminandoli con aria critica.
“Nessun osso buono,” si lamentò. “Volevo un nuovo bastone da
passeggio. Hmpf. Però c’era un po’ di pelle buona per il bagno.”
Strappò un po’ di pelle morbida dal collare del dragone e se la infilò
nella cintura. “Uh…” Annabeth voleva chiedere se il gigante usasse
davvero la pelle di dragone come carta igienica, ma decise che era
meglio non farlo. “Bob, vuoi presentarci?” “Annabeth…” Bob diede
delle pacche sulle gambe di Percy. “Questo è Percy.” Annabeth
sperava che il Titano la stesse solo prendendo in giro, anche se il
volto di Bob non rivelava nulla. Strinse i denti. “Intendevo il gigante.
Hai promesso che poteva aiutare.” “Promesso?” Il gigante distolse lo
sguardo dal suo lavoro. I suoi occhi si strinsero sotto le cespugliose
sopracciglia rosse. “Una cosa grossa, una promessa. Perché Bob
dovrebbe promettere il mio aiuto?” Bob spostò il peso del suo copro
da un piede all’altro. I Titani facevano paura, ma Annabeth non ne
aveva mai visto uno accanto a un gigante prima. Paragonato
all’uccisore di dragoni, Bob appariva come un perfetto nanerottolo.
“Damasene è un gigante buono,” disse Bob. “Lui è pacifico. Lui può
curare i veleni.” Annabeth guardò il gigante Damasene, che adesso
stava strappando pezzi di carne sanguinante dalla carcassa del
dragone a mani nude. “Pacifico,” disse. “Sì, lo vedo.” “Carne buona
per la cena.” Damasene si raddrizzò e studiò Annabeth, come se
fosse un’altra potenziale fonte di proteine. “Venite dentro.
Mangeremo stufato. Poi penseremo a questa promessa.”
39

ANNABETH

Accogliente. Annabeth non avrebbe mai pensato di usare


quell’aggettivo per qualcosa nel Tartaro, ma nonostante il fatto che la
capanna del gigante fosse grande come un planetario e costruita di
ossa, fango e pelle di dragone, era senza dubbio accogliente. Al
centro brillava un falò fatto con ossa e catrame; tuttavia il fumo era
bianco e privo di odore, e usciva dal foro al centro del soffitto. Il
pavimento era ricoperto di erba di palude secca e tappeti grigi di
pelliccia. Ad un’estremità si trovava un’enorme letto fatto di pelliccia
di pecora e pelle di dragone. All’altra estremità, appesi a degli
stendini da terra c’erano piante essiccate, pelle trattata, e quelle che
sembravano strisce di carne di dragone essiccata. L’intero posto
odorava di stufato, fumo, basilico e timo. L’unica cosa che
preoccupava Annabeth era il gregge di pecore stipate in un recinto
sul retro della capanna. Annabeth si ricordava della caverna del
Ciclope Polifemo, che mangiava i semidei e le pecore
indiscriminatamente. Si chiese se il gigante avesse dei gusti simili.
Parte di lei era tentata di scappare, ma Bob aveva già steso Percy
sul letto del gigante, dove fu quasi completamente sommerso tra la
lana e la pelle. Piccolo Bob saltò giù dalla schiena di Percy e grattò
le coperte preparandosi la cuccia, facendo le fusa in maniera così
rumorosa che il letto tremò come una poltrona massaggiatrice.
Damasene arrancò fino al falò. Lanciò la sua carne di dragone in
una pentola appesa che sembrava essere stata ricavata da un
vecchio teschio di mostro, poi prese un mestolo e iniziò a girare.
Annabeth non voleva essere il prossimo ingrediente nel suo stufato,
ma era andata là per una ragione. Fece un respiro profondo e si
avvicinò a Damasene. “Il mio amico sta morendo. Puoi curarlo
oppure no?” La sua voce vacillò alla parola amico. Percy era molto
di più. Persino ragazzo non sarebbe stato adatto. Ne avevano
passate talmente tante insieme, che ormai Percy era parte di lei,
certo, qualche volta una parte irritante, ma senza dubbio una parte
senza la quale non poteva vivere. Damasene abbassò lo sguardo su
di lei, con gli occhi che luccicavano sotto le sue folte sopracciglia.
Annabeth aveva incontrato dei grossi umanoidi spaventosi in
passato, ma Damasene la innervosiva in modo diverso. Non
sembrava ostile. Irradiava dolore e amarezza, come se fosse così
avvolto dalla sua stessa tristezza che era arrabbiato con Annabeth
per aver cercato di farlo concentrare su qualcosa di diverso. “Non
sento parole del genere nel Tartaro,” ruggì il gigante. “Amico.
Promessa.” Annabeth incrociò le braccia. “E invece che mi dici della
parola sangue di gorgoni? Puoi curarlo, oppure Bob ha esagerato
sui tuoi talenti?” Far irritare un uccisore di dragoni di sei metri non
era probabilmente una strategia saggia, ma Percy stava morendo.
Non aveva tempo per la diplomazia. Damasene la guardò accigliato.
“Metti in dubbio le mie capacità? Una mortale mezza morta che vaga
per la mia palude e mette in dubbio le mie capacità?” “Sì,” disse lei.
“Hmpf.” Damasene passò il mestolo a Bob. “Gira.” Mentre Bob si
occupava dello stufato, Damasene esaminò i suoi appendiabiti,
cogliendo diverse foglie e radici. Si buttò un pugno di piante varie in
bocca, lo masticò, poi lo sputò in una palla di lana. “Una tazza di
brodo,” ordinò Damasene. Bob versò un po’ del brodo dello stufato
in una zucca vuota. La passò a Damasene, che inzuppò la palla
masticata di sostanza viscida e la rigirò nella zucca con le dita.
“Sangue di gorgoni,” borbottò. “Non è neanche una sfida per le mie
abilità.” Camminò con passo pesante fino al letto e mise Percy in
posizione seduta con una mano. Piccolo Bob annusò il brodo e
sibilò. Scavò nelle coperte con le zampe come se volesse
seppellirlo. “Li darai da mangiare quella cosa?” chiese Annabeth. Il
gigante la fissò. “Chi è il guaritore qui? Tu?” Annabeth chiuse la
bocca. Guardò mentre il gigante faceva sorseggiare il brodo a Percy.
Damasene lo trattò con sorprendente gentilezza, mormorando
parole di incoraggiamento che lei non riusciva a capire. Con ogni
sorsata, il colore di Percy migliorava. Prosciugò la tazza, e i suoi
occhi si spalancarono. Si guardò intorno con un’espressione
confusa, vide Annabeth, e le rivolse un sorriso da ubriaco. “Mi sento
benissimo.” Gli occhi gli si rigirarono nella testa. Ricadde nel letto e
iniziò a russare. “Qualche ora di sonno,” annunciò Damasene. “Sarà
come nuovo.” Annabeth singhiozzò dal sollievo. “Grazie,” disse.
Damasene la guardò con aria triste. “Oh, non ringraziarmi. Siete
sempre condannati. E richiedo un pagamento per i miei servizi.” La
bocca di Annabeth si seccò. “Uh… che tipo di pagamento?” “Una
storia.” Gli occhi del gigante luccicarono. “Ci si annoia nel Tartaro.
Puoi raccontarmi la tua storia mentre mangiamo, eh?” Annabeth era
nervosa nel raccontare al gigante dei loro piani. Tuttavia, Damasene
era un buon ospite. Aveva salvato Percy. Il suo stufato di carne di
dragone era eccellente (soprattutto se paragonato all’acqua di
fuoco). La sua capanna era calda e comoda, e per la prima volta da
quando era caduta nel Tartaro, Annabeth si sentiva in grado di
rilassarsi. Il che era ironico, visto che stava cenando con un Titano e
un gigante. Raccontò a Damasene della sua vita e delle sue
avventure con Percy. Spiegò come Percy aveva incontrato Bob, gli
aveva cancellato la memoria nel Fiume Lete, e lo aveva lasciato alle
cure di Ade. “Percy stava cercando di fare qualcosa di buono,”
assicurò rivolta verso Bob. “Non sapeva che Ade sarebbe stato un
tale verme.” Persino alle sue orecchie, non suonò convincente. Ade
era sempre un verme. Pensò a quello che avevano detto le arai,
come Nico di Angelo fosse stata l’unica persona a fare visita a Bob
nel palazzo dell’Oltretomba. Nico era uno dei semidei meno
estroversi, meno amichevoli che Annabeth conoscesse. E tuttavia
era stato gentile con Bob. Convincendo Bob che Percy era un
amico, Nico aveva inavvertitamente salvato le loro vite. Annabeth si
chiese se sarebbe mai riuscita a capire quel ragazzo. Bob pulì la sua
ciotola con lo spruzzino e lo straccio. Damasene agitò il suo
cucchiaio in aria. “Continua la tua storia, Annabeth Chase.” Spiegò
della loro impresa con l’Argo II. Quando arrivò alla parte che
riguardava l’impedire a Gea si svegliarsi, esitò. “Lei è, um… lei è tua
madre, giusto?” Damasene ripulì la sua ciotola. La sua faccia era
ricoperta da vecchie bruciature di veleno, graffi e cicatrici, quindi
assomigliava alla superficie di un asteroide. “Sì,” disse. “E Tartaro è
mio padre.” Fece un gesto indicando la sua capanna. “Come puoi
vedere, sono stato una delusione per i miei genitori. Si
aspettavano… di più da me.” Annabeth non riusciva ancora a
metabolizzare il fatto che stesse mangiando una zuppa con un uomo
di sei metri dalle zampe di lucertola i cui genitori erano la Terra e
l’Abisso di Oscurità. Gli dei dell’Olimpo erano già abbastanza difficili
da vedere come genitori, ma almeno loro erano simili agli mani. Le
antiche divinità primordiali come Gea e Tartaro… Come si poteva
lasciare casa ed essere indipendenti dai propri genitori, quando loro
circondavano letteralmente tutto il mondo? “Quindi…” disse. “Non ti
dispiace che noi combattiamo contro tua madre?” Damasene sbuffò
come un toro. “Buona fortuna. Al momento, è di mio padre che vi
dovreste preoccupare. Con lui contro, non avete nessuna possibilità
di sopravvivere.” Improvvisamente Annabeth non si sentì più così
affamata. Posò la sua ciotola sul pavimento. Piccolo Bob si avvicinò
e l’annusò. “Contro di noi in che modo?” chiese. “Tutto questo.”
Damasene spezzò un osso di dragone e ne usò una scheggia come
stuzzicadenti. “Tutto quello che vedi è il corpo di Tartaro, o
comunque una sua manifestazione. Lui sa che voi siete qui. Cerca di
contrastare i vostri progressi ad ogni passo. I miei fratelli vi danno la
caccia. È notevole il fatto che siate sopravvissuti così a lungo,
persino con l’aiuto di Giapeto.” Bob si imbronciò quando sentì il suo
nome. “Quelli sconfitti ci danno la caccia, sì. Adesso saranno vicini.”
Damasene sputò il suo stuzzicadenti. “Posso oscurare il vostro
cammino per un po’, abbastanza per permettervi di riposarvi. Ho dei
poteri su questa palude. Ma alla fine, vi prenderanno.” “I miei amici
devono raggiungere le Porte della Morte,” disse Bob. “Quella è la via
d’uscita.” “Impossibile,” mormorò Damasene. “Le Porte sono
sorvegliate troppo bene.” Annabeth si sporse in avanti. “Ma tu sai
dove si trovano?” “Certo. Tutto il Tartaro scorre verso un unico posto:
il suo cuore. Le Porte della Morte si trovano lì. Ma non potete
raggiungerle vivi solo con l’aiuto di Giapeto.” “Allora vieni con noi,”
disse Annabeth. “Aiutaci.” “HA!” Annabeth sobbalzò. Nel letto, Percy
borbottò delirando nel sonno, “Ha, ha, ha.” “Figlia di Atena,” disse il
gigante, “io non sono vostro amico. Aiutavo i mortali una volta, e
puoi vedere dove mi ha portato la cosa.” “Hai aiutato i mortali?”
Annabeth conosceva molto di leggende greche, ma aveva un vuoto
totale intorno al nome di Damasene. “Non… non capisco.” “Brutta
storia,” spiegò Bob. “I giganti buoni hanno delle brutte storie.
Damasene fu creato per opporsi ad Ares.” “Sì,” annuì il gigante.
“Come tutti i miei fratelli, io nacqui per rispondere a un dio in
particolare. Il mio nemico era Ares. Ma Ares era il dio della guerra. E
così, quando sono nato…“ “Tu eri il suo opposto,” indovinò
Annabeth. “Eri pacifico.” “Pacifico per un gigante, almeno.”
Damasene sospirò. “Ho vagato per i campi della Meonia, nella terra
che oggi chiamate Turchia. Mi prendevo cura delle mie pecore e
raccoglievo erbe. Era una bella vita. Ma non combattevo gli dei. Mia
madre e mio padre mi maledirono per questo. L’insulto finale: un
giorno il dragone Meoniano uccise un pastore umano, un mio amico,
così io diedi la caccia alla creatura e la uccisi, infilandole un albero
nella bocca. Usai i poteri della terra per far ricrescere le radici
dell’albero, piantando il dragone al terreno. Mi assicurai che non
avrebbe mai più terrorizzato i mortali. Quella fu un’azione che Gea
non poté perdonare.” “Perché aiutasti qualcuno?” “Sì.” Damasene
appariva imbarazzato. “Gea aprì la terra, ed io fui consumato,
esiliato qui nella pancia di mio padre Tartaro, dove si raccolgono tutti
i relitti inutili, tutte le parti della creazione delle quali non gli importa.”
Il gigante prese un fiore dai suoi capelli e lo guardò con aria assente.
“Mi hanno lasciato vivere, a prendermi cura delle mie pecore, a
raccogliere le mie erbe, così che avrei riconosciuto l’inutilità della vita
che ho scelto. Ogni giorno, o quello che sembra un giorno in questo
posto senza luce, il dragone Meoniano si riforma e mi attacca.
Ucciderlo è il mio compito senza fine.” Annabeth guardò la capanna,
cercando di immaginare per quanti secoli Damasene fosse stato
esiliato là, uccidendo il dragone, raccogliendo le sue ossa, la sua
pelle e la sua carne, sapendo che avrebbe attaccato di nuovo il
giorno seguente. Lei poteva a malapena pensare di sopravvivere
una settimana nel Tartaro. Esiliare il proprio figlio lì, per secoli, quello
andava oltre la crudeltà. “Spezza la maledizione,” disse lei
d’impulso. “Vieni con noi.” Damasene ridacchiò amaramente. “Così
semplice. Non credi che abbia provato a lasciare questo posto? E’
impossibile. Non importa verso quale direzione vado, mi ritrovo di
nuovo qui. La palude è l’unica cosa che conosco, l’unica
destinazione che riesco a immaginare. No, piccolo semidio. La mia
maledizione mi ha sopraffatto. Non ho più nessuna speranza.”
“Nessuna speranza,” fece eco Bob. “Ci deve essere un modo.”
Annabeth non riusciva a sopportare l’espressione sul volto del
gigante. Le ricordava suo padre, quelle poche volte nelle quali le
aveva confessato che amava ancora Atena. Era apparso così triste
e sconfitto, desideroso di qualcosa che sapeva essere impossibile.
“Bob ha un piano per raggiungere le Porte della Morte,” insistette.
“Ha detto che avremmo potuto nasconderci in una specie di Foschia
di Morte.” “Foschia di Morte?” Damasene guardò Bob accigliato. “Li
vuoi portare da Achlys?” “E’ l’unico modo,” disse Bob. “Morirete,”
disse Damasene. “Dolorosamente. Nel buio. Achlys non si fida di
nessuno e non aiuta nessuno.” Bob sembrava sul punto di
controbattere, ma strinse le labbra e rimase in silenzio. “C’è un altro
modo?” chiese Annabeth. “No,” disse Damasene. “La Foschia di
Morte… quello è il piano migliore. Sfortunatamente, è un piano
terribile.” Annabeth aveva la sensazione di essere di nuovo sull’orlo
del precipizio, incapace di tirarsi in salvo, incapace di mantenere la
presa, senza nessuna buona alternativa. “Ma non vale la pena
provare?” chiese. “Potresti tornare nel mondo mortale. Potresti
vedere di nuovo il sole.” Gli occhi di Damasene erano come le orbite
del teschio di dragone, scuri e profondi, privi di speranza. Lanciò un
osso rotto nel falò e si alzò in piedi, un’enorme guerriero rosso
vestito di pelle di pecora e dragone, con fiori ed erba secchi tra i
capelli. Annabeth riusciva a capire in che modo fosse l’anti-Ares.
Ares era il dio peggiore, minaccioso e violento. Damasene era il
gigante migliore, gentile e pronto ad aiutare…e per quello, era stato
maledetto a un tormento eterno. “Dormi un po’,” disse il gigante.
“Preparerò delle scorte per il vostro viaggio. Mi dispiace, ma non
posso fare di più.” Annabeth voleva discutere, ma non appena lui
disse la parola dormire, il suo corpo la tradì, nonostante la sua
risoluzione nel non voler dormire mai più nel Tartaro. La sua pancia
era piena. Il fuoco produceva un piacevole rumore scoppiettante. Le
erbe nell’aria le ricordavano delle colline intorno al Campo
Mezzosangue durante l’estate, quando i satiri e le naiadi
raccoglievano le erbe selvatiche nei pomeriggi di ozio. “Forse
dormirò un po’,” accettò. Bob la sollevò come fosse una bambola di
pezza. Lei non protestò. La mise accanto a Percy sul letto del
gigante, e lei chiuse gli occhi.
40

ANNABETH

Annabeth si svegliò fissando le ombre che danzavano sul soffitto


della capanna. Non aveva fatto un singolo sogno. Era una cosa così
insolita, che non era certa di essersi davvero svegliata. Mentre era
sdraiata là, con Percy che le russava accanto e Piccolo Bob che le
faceva le fusa sulla pancia, udì Bob e Damasene intenti ad avere
quella che sembrava un’intensa conversazione. “Non gliel’hai detto,”
disse Damasene. “No,” ammise Bob. “E’ già spaventata.” Il gigante
grugnì. “Dovrebbe esserlo. E se non riesci a guidarli oltre Notte?”
Damasene disse la parola Notte come se fosse un nome proprio, un
nome malvagio. “Devo farlo,” disse Bob. “Perché?” chiese
Damasene. “Cosa hanno fatto i semidei per te? Hanno cancellato la
tua vecchia memoria, tutto quello che eri prima. Titani e giganti… noi
dovremmo essere nemici degli dei e dei loro figli. Non lo siamo?”
“Allora perché tu hai curato il ragazzo?” Damasene sospirò. “Me lo
sono chiesto anche io. Forse perché la ragazza mi ha sfidato, o
forse… trovo questi due semidei intriganti. Sono resistenti per
essere arrivati fin qui. E’ ammirevole. Tuttavia, come possiamo
aiutarli ancora? Non è il nostro destino.” “Forse,” disse Bob, a
disagio. “Ma…ti piace il nostro destino?” “Che domanda. C’è
qualcuno a cui piace il suo destino?” “Mi piaceva essere Bob,”
mormorò Bob. “Prima che cominciassi a ricordare…” “Huh.” Ci fu un
fruscio, come se Damasene stesse riempiendo una borsa di pelle.
“Damasene,” chiese il Titano, “ti ricordi il sole?” Il fruscio si fermò.
Annabeth udì il gigante esalare attraverso le narici. “Sì. Era giallo.
Quando toccava l’orizzonte, colorava il cielo di colori bellissimi.” “Mi
manca il sole,” disse Bob. “Anche le stelle. Mi piacerebbe poter
salutare di nuovo le stelle.” “Stelle…” Damasene disse la parola
come se si fosse scordato del suo significato. “Sì. Creavano dei
disegni argentati nel cielo notturno.” Lanciò qualcosa che atterrò con
un tonfo sul pavimento. “Bah. Queste sono chiacchiere inutili. Non
possiamo…“ In lontananza, il dragone Meoniano ruggì. Percy si
mise a sedere di scatto. “Cosa? Cosa…dove…cosa?” “Va tutto
bene.” Annabeth gli prese il braccio. Quando lui registrò che si
trovavano insieme nel letto di un gigante con un gatto scheletro,
apparve più confuso che mai. “Quel rumore… dove siamo?” “Cosa ti
ricordi?” chiese lei. Percy aggrottò le sopracciglia. I suoi occhi
sembravano attenti. Tutte le sue ferite erano sparite. Fatta eccezione
per i suoi vestiti a brandelli e qualche strato di polvere e sporcizia,
sembrava che non fosse mai precipitato nel Tartaro. “Io… le nonne
demoni… e poi… non molto.” Damasene apparve accanto al letto.
“Non c’è tempo, piccoli mortali. Il dragone sta tornando. Temo che il
suo ruggito attirerà gli altri, i miei fratelli, che vi danno la caccia.
Saranno qua nel giro di pochi minuti.” Il battito di Annabeth accelerò.
“Cosa gli dirai quando arriveranno qui?” La bocca di Damasene si
contrasse. “Cosa c’è da dire? Nulla di rilevante, se ve ne sarete
andati.” Lanciò loro due borse di pelle di drago. “Vestiti, cibo,
bevande.” Bob aveva una borsa simile ma più grande. Era
appoggiato sulla sua scopa, guardando Annabeth pensieroso come
se stesse ancora pensando alle parole di Damasene: Cosa hanno
fatto i semidei per te? Noi dovremmo essere nemici degli dei e dei
loro figli. Improvvisamente Annabeth venne colpita da un pensiero
così affilato e chiaro, che era come una lama mandata da Atena in
persona. “La Profezia dei Sette,” disse. Percy era già sceso dal letto
e si stava mettendo lo zaino in spalla. La guardò confuso. “Cosa
c’entra?” Annabeth afferrò la mano di Damasene, sorprendendo il
gigante. Lui aggrottò la fronte. La sua pelle era ruvida come pietra
arenaria. “Devi venire con noi,” implorò lei. “La profezia dice alle
Porte della Morte i nemici armati si dovranno temere. Pensavo che
significasse greci e romani, ma non è così. I versi indicano noi
semidei, un Titano, un gigante. Abbiamo bisogno di te per chiudere
le Porte!” Il dragone ruggì all’esterno, questa volta più vicino.
Damasene le spinse gentilmente via la mano. “No, bambina,”
mormorò. “La mia maledizione è qui. Non posso sfuggirle.” “Sì,
puoi,” disse Annabeth. “Non combattere il dragone. Trova un modo
per spezzare il cerchio! Trova un altro destino.” Damasene scosse la
testa. “Anche se potessi, non posso lasciare questa palude. E’
l’unica destinazione che riesco a immaginarmi.” La mentre di
Annabeth stava correndo. “C’è un’altra destinazione. Guarda me!
Ricorda la mia faccia. Quando sei pronto, vieni a cercarmi. Ti
porteremo nel mondo mortale con noi, potrai vedere la luce del sole
e le stelle.” Il terreno tremò. Il dragone era vicino adesso, avanzava
attraverso la palude, facendo esplodere erba e alberi con il suo getto
acido. Più lontano di lui, Annabeth udì la voce del gigante Polibote,
che spronava i suoi fratelli a seguirlo. “IL FIGLIO DEL DIO DEL
MARE! E’ VICINO!” “Annabeth,” disse Percy con urgenza, “è il
nostro segnale per andare via.” Damasene prese qualcosa dalla sua
cintura. Nelle sue mani enormi, il frammento bianco assomigliava a
un altro stuzzicadenti; ma quando lo offrì ad Annabeth, lei si rese
conto che si trattava di una spada, una lama fatta di osso di drago,
affilata per creare un’arma mortale, con una semplice impugnatura di
pelle. “Un ultimo regalo per la figlia di Atena,” rombò il gigante. “Non
posso farti affrontare la tua morte disarmata. Adesso, vai! Prima che
sia troppo tardi.” Annabeth voleva piangere. Prese la spada, ma non
riuscì neanche a dire grazie. Sapeva che il gigante era destinato a
combattere al loro fianco. Quella era la risposta, ma Damasene si
voltò dall’altra parte. “Dobbiamo andare,” incitò Bob mentre il suo
gatto si arrampicava sulla sua spalla. “Ha ragione, Annabeth,” disse
Percy. Corsero verso la porta. Annabeth non si guardò indietro
mentre seguiva Percy e Bob nella palude, ma udì Damasene alle
loro spalle, che urlava il suo grido di battaglia contro il dragone che
avanzava, con la voce rotta dalla disperazione mentre affrontava il
suo vecchio nemico ancora una volta.
41

PIPER

Piper non sapeva molto del Mediterraneo, ma era abbastanza sicura


che non si sarebbe dovuto congelare a Luglio. Dopo essersi lasciati
Spalato alle spalle due giorni prima, delle nuvole grigie avevano
inghiottito il cielo. Le onde avevano cominciato ad agitarsi. Una
fredda pioggerella bagnava il ponte, formando del ghiaccio sulle
balaustre e sulle corde. “E’ lo scettro,” mormorò Nico, soppesando
l’antico bastone. “Deve esserlo.” Piper non ne era certa. Da quando
Jason e Nico erano tornati dal Palazzo di Diocleziano, erano stati
nervosi e circospetti. Qualcosa di grosso era accaduto là, qualcosa
che Jason non voleva dirle. Aveva senso pensare che lo scettro
potesse aver causato quel cambiamento climatico. La sfera nera
sulla cima sembrava prosciugare il colore dall’aria. L’aquila dorata
alla sua base brillava di luce fredda. Lo scettro doveva controllare i
morti, e senza dubbio irradiava delle onde negative. Il Coach Hedge
aveva lanciato un’occhiata alla cosa, si era fatto pallido, e aveva
annunciato che sarebbe andato nella sua stanza per confortarsi con
i video di Chuck Norris. (Anche se Piper sospettava che in realtà si
stesse scambiando dei messaggi-Iride con la sua ragazza rimasta a
casa, Mellie; il coach era sembrato molto agitato sull’argomento
ultimamente, tuttavia non voleva dire a Piper cosa stava
succedendo.) Quindi, sì… forse lo scettro avrebbe potuto causare
una strana tempesta di ghiaccio. Ma Piper non credeva che si
trattasse di quello. Temeva che stesse accadendo qualcos’altro,
qualcosa di persino peggiore. “Non possiamo parlare quassù,”
decise Jason. “Rimandiamo la riunione.” Si erano riuniti tutti sul
ponte rialzato per discutere delle strategie mentre si avvicinavano
sempre di più ad Epiro. Adesso, quello non era chiaramente un
luogo adatto per chiacchierare. Il vento soffiava sul ponte. Il mare si
agitava sotto di loro. A Piper le onde non davano molto fastidio. Il
dondolio e le oscillazioni le ricordavano di quando andava a surfare
con suo padre lungo la costa della California. Ma riusciva a capire
che Hazel non se la stava passando bene. La povera ragazza
soffriva di mal di mare persino con il mare calmo. Aveva l’aspetto di
una che stava cercando di ingoiare una palla da biliardo. “Devo…“
Hazel fece un verso soffocato e indicò verso il basso. “Sì, vai.” Nico
le diede un bacio sulla guancia, cosa che Piper trovò sorprendente.
Il ragazzo faceva a malapena gesti di affetto, persino verso sua
sorella. Sembrava odiare il contatto fisico. Baciare Hazel…era quasi
come se le stesse dicendo addio. “Ti accompagno di sotto.” Frank
mise il braccio intorno alla vita di Hazel e la aiutò a raggiungere le
scale. Piper sperò che Hazel si sarebbe ripresa. Nelle ultime notti,
dallo scontro con Scirone, avevano fatto delle belle chiacchierate
insieme. Essere le uniche due ragazze a bordo era piuttosto difficile.
Si erano raccontare delle storie, lamentate delle abitudini disgustose
dei ragazzi, e versato qualche lacrima insieme pensando ad
Annabeth. Hazel le aveva raccontato cosa si provava a controllare la
Foschia, e Piper era stata sorpresa nel sentire quanto suonasse
simile alla sua lingua ammaliatrice. Piper le aveva offerto di aiutarla
se poteva. In cambio, Hazel le aveva promesso di allenarla nel
combattimento con la spada, un’abilità alla quale Piper face a
epicamente schifo. Piper si era sentita come se avesse trovato una
nuova amica, il che era grandioso… assumendo che sarebbero
vissuti abbastanza a lungo per godersi la loro amicizia. Nico si
spazzolò via del ghiaccio dai capelli. Si accigliò guardando lo scettro
di Diocleziano. “Dovrei mettere via questa cosa. Se sta davvero
causando questo tempo, forse portarlo sottocoperta aiuterà…”
“Certo,” disse Jason. Nico lanciò uno sguardo a Piper e Leo, come
se fosse preoccupato di quello che avrebbero potuto dire una volta
andato via. Piper avvertì le sue difese che salivano, come se si
stesse raggomitolando in una palla psicologica, come quando era
entrato nella trance di morte quando si era trovato all’interno della
giara di bronzo. Quando se ne fu andato, Piper studiò il volto di
Jason. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione. Cosa era
successo in Croazia? Leo tirò fuori un cacciavite dalla cintura. “Tanto
perché dovevamo fare la grande riunione di gruppo. Sembra che
siamo di nuovo solo noi tre.” Di nuovo solo noi tre. Piper si ricordò di
un giorno invernale dello scorso Dicembre, a Chicago, quando loro
tre erano atterrati nel Millennium Park durante la loro prima impresa.
Leo non era cambiato molto da allora, a parte il fatto che sembrava
essere più a suo agio nel suo ruolo di figlio di Efesto. Aveva sempre
avuto troppa energia nervosa. Adesso sapeva come usarla. Le sue
mani erano costantemente in movimento, tiravano fuori attrezzi dalla
cintura, lavoravano ai controlli, giocherellavano con la sua amata
sfera di Archimede. Quel giorno l’aveva rimossa dal pannello di
controllo e aveva disattivato Festus per manutenzione, qualcosa
riguardo un nuovo cablaggio al suo processore per un
potenziamento del controllo motore con la sfera, qualsiasi cosa
volesse dire tutto quello. Per quanto riguardava Jason, appariva più
magro, più alto e più stanco. I suoi capelli erano passati dal taglio
militare stile romano ad essere più lunghi e disordinati. Anche la riga
rasata che gli aveva fatto Scirone con la pistola sulla parte sinistra
della testa era interessante, quasi come una striscia della ribellione.
Gli occhi blu ghiaccio apparivano in qualche modo più vecchi, carichi
di preoccupazioni e responsabilità. Piper sapeva quello che
mormoravano i suoi amici su Jason, era troppo perfetto, troppo
rigido. Se la cosa era mai stata davvero così, adesso non lo era più.
Era provato da quel viaggio, e non solo fisicamente. Le sue fatiche
non l’avevano indebolito, ma l’avevano consumato e ammorbidito
come con il cuoio, come se stese diventando una versione più
comoda di se stesso. E Piper? Poteva solo immaginare quello che
Leo e Jason pensavano quando la guardavano. Lei senza dubbio
non si sentiva la stessa persona che era lo scorso inverno. Quella
prima impresa per salvare Era sembrava risalire a secoli fa. Così
tanto era cambiato in sette mesi…si chiese come facessero gli dei a
sopportare di essere vivi per migliaia di anni. Quanti cambiamenti
avevano visto loro? Forse non doveva sorprendere che gli dei
dell’Olimpo sembrassero un po’ folli. Se Piper avesse vissuto tre
millenni, sarebbe impazzita. Vagò con lo sguardo nella pioggia
fredda. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere di nuovo al Campo
Mezzosangue, dove il tempo era controllato persino d’inverno. Le
immagini che aveva visto nel suo pugnale ultimamente… bè, non le
davano molto da sperare. Jason le strinse la spalla. “Ehi, andrà tutto
bene. Adesso siamo vicini ad Epiro. Un altro giorno, se le indicazioni
di Nico sono corrette.” “Già.” Leo giocherellò con la sfera,
picchiettando e spingendo uno dei gioielli sulla sua superficie. “Entro
domani mattina, raggiungeremo la costa occidentale della Grecia.
Poi un’altra ora nell’entroterra, e bang, la Casa di Ade! Mi comprerò
la maglietta!” “Già,” mormorò Piper. Non era ansiosa di immergersi
nuovamente nel buio. Aveva ancora gli incubi sul ninfeo e l’ipogeo
sotto Roma. Nella lama di Katoptris, aveva visto delle immagini simili
a quelle che Leo e Hazel avevano descritto dai loro sogni, una
strega pallida con un vestito dorato, le mani che tessevano della luce
dorata nell’aria come se fosse seta in un telaio; un gigante avvolto
dalle ombre, che avanza per un lungo corridoio affiancato da torce.
Ogni volta che passava accanto ad una delle torce, le fiamme
morivano. Vedeva un’enorme caverna piena di mostri, Ciclopi, Figli
della Terra, e cose ancora più strane, circondavano lei e i suoi amici,
superandoli di numero, lasciandoli senza speranza. Ogni volta che
vedeva quelle immagini, una voce nella sua testa continuava a
ripetere un verso senza sosta. “Ragazzi,” disse, “ho pensato alla
Profezia dei Sette.” Ci voleva un sacco per far spostare l’attenzione
di Leo dal suo lavoro, ma quello funzionò. “Cioè?” chiese. “Tipo…
cose belle, spero?” Lei si aggiustò la cinghia della cornucopia che
aveva legata in spalla. Ogni tanto il corno dell’abbondanza sembrava
così leggero che si dimenticava di averlo. Altre volte sembrava
un’incudine, come se il dio del fiume Acheloo stesse inviando dei
cattivi pensieri, cercando di punirla per avergli preso il suo corno.
“Su Katoptris,” iniziò, “continuo a vedere quel gigante Clitio, il tipo
che è avvolto dalle ombre. So che la sua debolezza è il fuoco, ma
nelle mie visioni, lui spegne le fiamme ovunque vada. Qualsiasi tipo
di luce viene semplicemente risucchiata nella sua nuvola di
oscurità.” “Sembra Nico,” disse Leo. “Credi che siano imparentati?”
Jason si imbronciò. “ehi, amico, dai a Nico un po’ di tregua. Quindi,
Piper, che stavi dicendo di questo gigante? Cosa pensi?” Lei e Leo
si scambiarono un’occhiata interrogativa, come a dire: Da quando in
qua Jason difende Nico di Angelo? Decise di non commentare.
“Continuo a pensare al fuoco,” disse Piper. “A come ci aspettiamo
tutti che Leo sconfigga questo gigante perché lui è…” “Focoso?”
suggerì Leo con un sogghigno. “Um, diciamo infiammabile.
Comunque, quel verso della profezia mi inquieta: Fuoco o tempesta,
il mondo cader faranno.” “Sì, lo sappiamo già,” le assicurò Leo. “Stai
per dire che io sono il fuoco. E Jason qui è la tempesta.” Piper annuì
con riluttanza. Sapeva che a nessuno di loro piaceva parlarne, ma
tutti dovevano aver avvertito che quella era la verità. La nave si
inclinò a tribordo. Jason si aggrappò alla ringhiera ghiacciata.
“Quindi sei preoccupata che uno di noi possa compromettere
l’impresa, magari distruggendo accidentalmente il mondo?” “No,”
disse Piper. “Credo che abbiamo interpretato quel verso nel modo
sbagliato. Il mondo… la Terra. In greco, la parola per dire terra
sarebbe…” Esitò, non volendo dire il nome ad alta voce, persino in
mezzo al mare. “Gea.” Gli occhi di Jason brillavano con
dell’interesse improvviso. “Vuoi dire, fuoco o tempesta, Gea cader
faranno?” “Oh…” Il sogghigno di Leo si fece persino più ampio. “Sai,
la tua versione mi piace molto di più. Perché se io, Signor Fuoco,
farò cadere Gea, la cosa è assolutamente accettabile.” “Oppure io…
tempesta.” Jason la baciò. “Piper, è geniale! Se hai ragione, è una
splendida notizia. Dobbiamo solo capire chi di noi due distruggerà
Gea.” “Forse.” Si sentiva ansiosa a sollevare in quel modo le loro
speranze. “Ma, vedete, dice fuoco o tempesta…” Sguainò Katoptris
e lo posò sulla console. Immediatamente, la lama si illuminò
mostrando la sagoma scura del gigante Clitio che si muoveva lungo
un corridoio, spegnendo le torce. “Sono preoccupata per Leo e
questa lotta con Clitio,” disse. “Quel verso della profezia lo fa
suonare come se solo uno di voi può avere successo. E se la parte
che riguarda il fuoco o tempesta è connessa al terzo verso, con
l’ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere…” Non concluse la
frase, ma dalle espressioni di Jason e Leo, vide che avevano capito.
Se stava leggendo la profezia nel modo giusto, solo Leo o Jason
avrebbe sconfitto Gea. L’altro sarebbe morto.
42

PIPER

Leo fissò il pugnale. “Okay… allora la tua idea non mi piace così
tanto come pensavo. Credi che uno di noi sconfiggerà Gea e l’altro
morirà? O forse uno di noi morirà mentre sta lottando contro Gea?
Oppure…“ “Ragazzi,” disse Jason, “diventeremo pazzi
ossessionandoci con questo verso. Sapete come sono le profezie.
Gli eroi finiscono sempre nei guai quando cercano di prevenirle.”
“Già,” borbottò Leo. “Sarebbe bruttissimo finire nei guai. Siamo
andati così bene finora.” “Sai cosa voglio dire,” disse Jason. “L’ultimo
fiato potrebbe non essere connesso alla parte del fuoco e della
tempesta. Per quanto ne sappiamo, magari noi due non siamo
nemmeno il fuoco e la tempesta. Percy può creare degli uragani.”
“Ed io potrei sempre dare fuoco a Coach Hedge,” offrì Leo. “Allora lui
può essere il fuoco.” Il pensiero di un satiro in fiamme che urlava, “A
morte, feccia!” mentre attaccava Gea era quasi abbastanza da far
ridere Piper, quasi. “Spero di stare sbagliando,” disse con cautela.
“Ma tutta l’impresa è iniziata con noi alla ricerca di Era e il risveglio di
quel re dei giganti, Porfirione. Ho la sensazione che anche la
conclusione della guerra sarà con noi tre. Comunque finirà.” “ehi,”
disse Jason, “personalmente, mi piace il noi.” “Sono d’accordo,”
disse Leo. “Noi sono le mie persone preferite.” Piper abbozzò un
sorriso. Adorava davvero quei ragazzi. Desiderò poter usare la sua
lingua ammaliatrice sulle Parche, descrivere loro un lieto fine, e
obbligarle a farlo avverare. Sfortunatamente, era difficile immaginare
un lieto fine con tutti i pensieri oscuri che aveva nella testa. Era
preoccupata che il gigante Clitio fosse stato messo sul loro cammino
per eliminare la minaccia di Leo. Se era così, ciò voleva dire che
Gea avrebbe anche cercato di eliminare Jason. Senza fuoco e
tempesta, la loro impresa sarebbe fallita. E anche quel tempo
invernale la innervosiva… Era sicura che fosse causato da qualcosa
di più dello scettro di Diocleziano. Il vento freddo, la pioggia e il
ghiaccio sembravano essere coscientemente ostili, e in qualche
modo familiari. Quell’odore nell’aria, il denso profumo di… Piper
avrebbe dovuto capire prima quello che stava accadendo, ma aveva
trascorso la maggior parte della sua vita nella California Meridionale
dove non c’erano grossi cambiamenti stagionali. Non era cresciuta
con quell’odore… l’odore della neve in arrivo. Ogni muscolo del suo
corpo si fece teso. “Leo, suona l’allarme.” Piper non si era resa conto
di stare usando la lingua ammaliatrice, ma Leo lasciò
immediatamente cadere il suo cacciavite e spinse il bottone di
allarme. Poi si accigliò quando non accadde nulla. “Uh, è
disconnesso,” ricordò. “Festus è scollegato. Dammi un minuto per
riallacciare il sistema.” “Non abbiamo un minuto! Fuoco, abbiamo
bisogno di fiale di fuoco Greco. Jason, chiama i venti. Calore, venti
meridionali.” “Aspetta, che?” Jason la fissò confuso. “Piper, cosa c’è
che non va?” “E’ lei!” Piper afferrò il suo pugnale. “E’ tornata!
Dobbiamo…“ Prima che potesse finire, la barca si inclinò verso
babordo. La temperatura precipitò così velocemente, che le vele
scricchiolarono ricoprendosi di ghiaccio. Gli scudi di bronzo lungo le
balaustre scoppiarono come lattine di coca cola sottoposte a troppa
pressione. Jason sguainò la sua spada, ma era troppo tardi.
Un’ondata di particelle di ghiaccio lo inondarono, ricoprendolo come
una ciambella glassata e congelandolo sul posto. Sotto uno strato di
ghiaccio, i suoi occhi erano spalancati dalla sorpresa. “Leo! Fiamme!
Adesso!” gridò Piper. La mano destra di Leo si accese, ma il vento
vorticò intorno a lui e soffocò le fiamme. Leo afferrò la sua sfera di
Archimede mentre una tromba d’aria di nevischio lo sollevava da
terra. “Ehi!” gridò. “Ehi! Lasciami andare!” Piper corse verso di lui,
ma una voce nella tempesta disse, “Oh, sì, Leo Valdez. Ti lascerò
andare permanentemente.” Leo venne sparato verso il cielo, come
se fosse stato lanciato con una catapulta. Scomparve tra le nuvole.
“No!” Piper sollevò il suo pugnale, ma non c’era nulla da attaccare.
Guardò disperatamente verso le scale, sperando di vedere i suoi
amici arrivare in suo soccorso, ma un blocco di ghiaccio aveva
sigillato il boccaporto. L’intero ponte inferiore poteva essere
completamente congelato. Aveva bisogno di un’arma migliore con la
quale combattere, qualcosa di più della sua voce, uno stupido
pugnale che prevedeva il futuro, e una cornucopia che sparava
prosciutto e frutta fresca. Si chiese se avesse potuto raggiungere le
baliste. Poi i suoi nemici apparvero, e si rese conto che nessuna
arma sarebbe stata sufficiente. Al centro della nave c’era una
ragazza con un vestito fluente di seta bianca, la sua chioma di
capelli neri tirata indietro da un cerchietto di diamanti. I suoi occhi
erano color caffè, ma senza il suo calore. Dietro di lei c’erano i suoi
fratelli, due giovani uomini con ali viola, disordinati capelli bianchi, e
spade seghettate di bronzo Celeste. “E’ così’ bello vederti di nuovo,
ma chère,” disse Chione, la dea della neve. “E’ tempo di fare una
riunione molto fredda.”
43

PIPER

Piper non aveva pianificato di sparare muffin ai mirtilli. La cornucopia


doveva aver avvertito la sua paura e pensato che a lei e ai suoi
visitatori avrebbe fatto piacere qualche pasta calda. Una mezza
dozzina di muffin fumanti volò fuori dal corno dell’abbondanza come
pallottole. Non fu uno degli attacchi d’apertura più efficaci. Chione si
limitò a inclinarsi di lato, la maggior parte dei muffin volò oltre la
balaustra. I suoi fratelli, i Boreadi, ne presero entrambi uno al volo e
iniziarono a mangiare. “Muffin,” disse quello più grosso. Cal, ricordò
Piper: l’abbreviazione di Calais. Era vestito esattamente come lo era
stato nel Québec, scarpette chiodate, tuta, e un giacchetto rosso da
hockey, e aveva due occhi neri e diversi denti rotti. “I muffin sono
buoni.” “Ah, merci,” disse il fratello magro, Zete, ricordò, che si
trovava sulla piattaforma della catapulta, con le ali viola allargate. I
capelli bianchi erano ancora conciati con quell’orribile pettinatura da
discoteca. Il colletto della sua camicia di seta spuntava dalla
corazza. I suoi pantaloni verde chiaro di poliestere erano
grottescamente stretti, e la sua acne era solo peggiorata. Malgrado
ciò, inarcò le sopracciglia e sorrise come se fosse il semidio della
seduzione. “Sapevo che sarei mancato alla ragazza carina.” Parlò
nel francese del Québec, che Piper tradusse senza fatica. Grazie a
sua madre, Afrodite, la lingua dell’amore era configurata dentro di
lei, anche se lei non voleva parlarla con Zete. “Cosa state facendo?”
chiese Piper. Poi, usando la lingua ammaliatrice: “Lasciate andare i
miei amici.” Zete sbatté le palpebre. “Dovremmo lasciare andare i
tuoi amici.” “Sì,” concordò Cal. “No, idioti!” scattò Chione. “Sta
usando la lingua ammaliatrice. Usate il cervello.” “Cervello…” Cal
aggrottò le sopracciglia come se non fosse certo di cosa fosse un
cervello. “I muffin sono meglio.” Si ficcò tutto il dolce in bocca e iniziò
a masticare. Zete prese un mirtillo dal suo muffin e iniziò a
mordicchiarlo delicatamente. “Ah, mia bellissima Piper… ho
aspettato così tanto per vederti di nuovo. Purtroppo, mia sorella ha
ragione. Non posiamo lasciare andare i tuoi amici. Infatti dobbiamo
portarli nel Québec, dove saranno derisi per l’eternità. Mi dispiace
così tanto, ma questi sono i nostri ordini.” “Ordini…?” Fin dallo
scorso inverno, Piper si era spettata che prima o poi Chione
mostrasse di nuovo la sua faccia ghiacciata. Quando l’avevano
sconfitta alla Casa del Lupo a Sonoma, la dea della neve aveva
giurato vendetta. Ma perché Zete e Cal erano là? Nel Québec, i
Boreadi erano sembrati quasi amichevoli, almeno paragonati alla
loro sorella sotto-zero. “Ragazzi, ascoltate,” disse Piper. “Vostra
sorella ha disobbedito a Borea. Sta lavorando con i giganti, cercando
di far sorgere Gea. Sta pianificando di impossessarsi del trono di
vostro padre.” Chione rise, una risata morbida e fredda. “Cara Piper
McLean. Manipoleresti i miei fratelli dalla volontà debole con i tuoi
incantesimi, come una vera figlia della dea dell’amore farebbe. Una
bugiarda così abile.” “Bugiarda?” gridò Piper. “Hai cercato di
ucciderci! Zete, sta lavorando per Gea!” Zete trasalì. “Purtroppo è
così, bella ragazza. Stiamo tutti lavorando per Gea adesso. Temo
che questi ordini vengano da nostro padre, Borea in persona.”
“Cosa?” Piper non voleva crederci, ma il sorriso compiaciuto di
Chione le disse che era la verità. “Alla fine mio padre ha visto la
saggezza nei miei consigli,” disse Chione con voce dolce, “o almeno
lo ha fatto prima che la sua parte romana iniziasse a lottare con
quella greca. Temo che al momento sia fuori uso, ma ha lasciato me
al comando. Ha ordinato che le forze del Vento del Nord vengano
usate al servizio del Re Porfirione, e ovviamente… di Madre Terra.”
Piper deglutì. “Come fate ad essere qui?” Fece un gesto verso il
ghiaccio che ricopriva la nave. “E’ estate!” Chione scrollò le spalle. “I
nostri poteri crescono. Le regole della natura sono state capovolte.
Quando Madre Terra si sveglierà, ricreeremo il mondo come
vogliamo noi!” “Con l’hockey,” disse Cal con la bocca ancora piena.
“E la pizza. E i muffin.” “Sì, sì,” ghignò Chione. “Ho dovuto
promettere qualche cosa al grande sempliciotto. E a Zete…“ “Oh, i
miei bisogni sono semplici.” Zete si tirò indietro i capelli e strizzò
l’occhio verso Piper. “Avrei dovuto tenerti al nostro palazzo la prima
volta che ci siamo incontrati, mia cara Piper. Ma presto torneremo lì,
insieme, e avremo una storia incredibilmente romantica.” “Grazie,
ma no grazie,” disse Piper. “Adesso, lascia andare Jason.” Mise tutto
il suo potere nelle sue parole, e Zete obbedì. Schioccò le dita. Jason
si scongelò istantaneamente. Cadde a terra, boccheggiante e
fumante; ma almeno era vivo. “Imbecille!” Chione tese la mano
davanti a lei, e Jason si ricongelò, adesso sdraiato sul pavimento
come un tappeto di pelle di orso. Si girò verso Zete. “Se vuoi la
ragazza come premio, devi dimostrare di saperla controllare. Non
deve essere il contrario!” “Sì, certo.” Zete sembrava umiliato. “Per
quanto riguarda Jason Grace…” Gli occhi castani di Chione
brillarono. “Lui e il resto dei tuoi amici si unirà alla nostra corte di
statue di ghiaccio nel Québec. Jason renderà grazia alla mia sala del
trono.” “Sveglia,” borbottò Piper. “Ti ci è voluto tutto il giorno per
pensare a quella battuta?” Almeno adesso sapeva che Jason era
ancora vivo, il che fece sentire Piper un po’ meno nel panico. Il
congelamento totale poteva essere annullato. Ciò voleva dire che i
suoi amici erano probabilmente ancora vivi sotto coperta. Aveva
soltanto bisogno di un piano per liberarli. Sfortunatamente, lei non
era Annabeth. Non era così brava nell’escogitare piani sul momento.
Aveva bisogno di tempo per pensare. “Che ne è stato di Leo?” disse
improvvisamente. “Dove lo hai spedito?” La dea della neve camminò
con passo leggero intorno a Jason, esaminandolo come fosse arte
da marciapiede. “Leo Valdez si merita una punizione speciale,”
disse. “L’ho mandato in un posto dal quale non potrà mai più
tornare.” Piper non riusciva a respirare. Povero Leo. L’idea di non
vederlo mai più per poco non la distrusse. Chione doveva averlo
visto nel suo volto. “Mi dispiace, mia cara Piper!” Sorrise trionfante.
“Ma è la cosa migliore. Leo non poteva essere tollerato, persino
come statua di ghiaccio… non dopo avermi insultata. Lo sciocco si è
rifiutato di governare al mio fianco! E il suo potere sul fuoco…”
Scosse la testa. “Non potevamo permettergli di raggiungere la Casa
di Ade. Temo che a Lord Clitio piaccia il fuoco persino meno di
quanto piaccia a me.” Piper strinse il suo pugnale. Fuoco, pensò.
Grazie per avermelo fatto ricordare, strega. Studiò il ponte. Come
poteva creare un fuoco? Una cassa di fiale di fuoco Greco era
fissata accanto alle baliste di prua, ma era troppo lontana. Anche se
l’avesse raggiunta senza essere congelata, il fuoco Greco avrebbe
bruciato tutto, inclusa la nave e tutti i suoi amici. Ci doveva essere
un altro modo. I suoi occhi si spostarono sulla prua. Oh. La polena
Festus era in grado di sputare delle belle fiamme. Sfortunatamente,
Leo l’aveva scollegato. Piper non aveva idea di come fare per
riattivarlo. Non avrebbe mai avuto il tempo necessario per capire
quali erano i controlli giusti sulla console della nave. Aveva dei vaghi
ricordi di Leo che sfaccendava all’interno della testa di bronzo del
drago, borbottando qualcosa riguardo ai dischi di controllo; ma
anche se Piper fosse riuscita a raggiungere la prua, non avrebbe
avuto la minima idea di cosa stava facendo. Tuttavia, qualche istinto
le diceva che Festus era la sua migliore possibilità, se solo fosse
riuscita a capire come fare a convincere i suoi invasori a lasciarla
avvicinare abbastanza… “Bene!” Chione interruppe i suoi pensieri.
“Temo che il nostro tempo insieme stia per scadere. Zete, se vuoi…“
“Aspetta!” disse Piper. Un comando semplice, e funzionò. I Boreadi e
Chione si accigliarono, aspettando. Piper era abbastanza sicura di
poter controllare i fratelli con la lingua ammaliatrice, ma Chione era
un problema. L’incanto funzionava a stento se la persona non era
attratta da te. Funzionava a stento su un essere potente come un
dio. E funzionava a stento quando la tua vittima sapeva della lingua
ammaliatrice e stava attivamente in guardia per combatterla. Tutte
quelle caratteristiche si applicavano a Chione. Cosa farebbe
Annabeth? Ritarda, pensò Piper. Quando sei in dubbio, parla un po’
di più. “Avete paura dei miei amici,” disse. “Quindi perché non li
uccidete e basta?” Chione rise. “Non sei una dea, o capiresti. La
morte è così breve, così… insoddisfacente. Le vostre piccole anime
mortali volano nell’Oltretomba, e cosa succede poi? Il meglio che
posso sperare è che andiate nei Campi della Punizione o in quelli
dell’Asfodelo, ma voi semidei siete insopportabilmente nobili. Molto
più probabilmente finireste nell’Elisio o tornereste in una nuova vita.
Perché dovrei voler premiare i tuoi amici in quel modo? Perché…
quando posso punirli per l’eternità?” “Ed io?” Piper detestava
chiedere. “Perché io sono ancora viva e scongelata?” Chione lanciò
un’occhiata irritata ai suoi fratelli. “Zete ti ha chiesta, tanto per
cominciare.” “Bacio in maniera magnifica,” assicurò Zete. “Vedrai,
bellissima.” L’idea fece rivoltare lo stomaco di Piper. “Ma non è
l’unica ragione,” disse Chione. “E’ perché ti odio, Piper.
Sinceramente e profondamente. Senza di te, Jason sarebbe rimasto
con me nel Québec.” “Ti illudi molto?” Gli occhi di Chione si fecero
duri come i diamanti che aveva nel cerchietto. “Sei una ficcanaso, la
figlia di una dea inutile. Cosa puoi fare da sola? Nulla. Di tutti i sette
semidei, tu non hai nessuno scopo, nessun potere. Voglio che tu
rimanga su questa nave, alla deriva e senza aiuto, mentre Gea si
sveglia e il mono finisce. E tanto per essere sicura che tu rimanga
fuori dai piedi…” Fece un gesto verso Zete, che raccolse qualcosa
dall’aria, una sfera ghiacciata grande come una pallina da tennis,
ricoperta da punte di ghiaccio. “Una bomba,” spiegò Zete, “fatta
specialmente per te, mio tesoro.” “Bombe!” rise Cal. “Un bel giorno!
Bombe e muffin!” “Uh…” Piper abbassò il suo pugnale, che
sembrava persino più inutile del solito. “Dei fiori sarebbero andati
bene.” “Oh, non ucciderà la ragazza carina.” Zete si accigliò. “Bè…
ne sono abbastanza sicuro. Ma quando il fragile contenitore si
romperà, nel giro di… ah, circa non molto tempo… rilascerà la piena
forza dei venti settentrionali. Questa nave verrà spinta molto fuori
rotta. Molto, molto lontano.” “E’ così.” La voce di Chione aveva una
punta di falsa compassione. “Prenderemo i tuoi amici per la nostra
collezione di statue, poi rilasceremo i venti e ti saluteremo! Potrai
guardare la fine del mondo da…. Bè, dalla fine del mondo! Magari
potrai incantare i pesci, e nutrirti con la tua sciocca cornucopia.
Potrai fare su e giù sul ponte di questa nave vuota e assistere alla
nostra vittoria guardando la lama del tuo pugnale. Quando Gea sarà
risorta e il mondo che conosci sarà morto, allora Zete potrà tornare a
recuperarti per fari sua sposa. Cosa farai per fermarci, Piper? Un
eroe? Ha! Tu sei uno scherzo.” Le sue parole pungevano come
pioggia fitta, soprattutto perché Piper aveva pensato lei stessa quelle
cose. Cosa poteva fare lei? Come poteva salvare i suoi amici con
quello che aveva? Arrivò vicina al punto di rottura, era sull’orlo di
lanciarsi contro i suoi nemici presa dalla rabbia e farsi uccidere.
Guardò l’espressione compiaciuta di Chione e si rese conto che la
dea stava sperando che lo facesse. Voleva che Piper si spezzasse.
Voleva divertirsi. La schiena di Piper diventò di acciaio. Si ricordò
delle ragazze che erano solite prendersi gioco di lei alla Scuola della
Natura. Si ricordò di Drew, la crudele consigliera anziana che lei
aveva sostituito nella cabina di Afrodite; e Medea, che aveva
incantato Jason e Leo a Chicago; e Jessica, la vecchia assistente di
suo padre, che l’aveva sempre trattata come fosse un’inutile
mocciosa. Per tutta la sua vita, le persone avevano guardato Piper
dall’alto in basso, dicendole che era inutile. Non è mai stato vero,
sussurrò un’altra voce, una voce che somigliava a quella di sua
madre. Ognuno di loro ti maltrattava perché ti temevano e ti
invidiavano. Così vale per Chione. Sfrutta la cosa! Piper non si
sentiva in vena di farlo, ma cercò di ridere. Provò un’altra volta, e la
risata arrivò più facilmente. In poco tempo si ritrovò piegata in due,
sghignazzante e scossa dalle risate. Calais si unì a lei, fino a che
Zete non gli diede una gomitata. Il sorriso di Chione vacillò. “Cosa?
Cosa c’è di così divertente? Ti ho condannata!” “Condannata!” Piper
rise di nuovo. “Oh, dei… scusa.” Fece un respiro tremante e cercò di
smettere di ridacchiare. “Oh, accidenti… okay. Credi davvero che sia
priva di poteri? Credi davvero che io sia inutile? Dei dell’Olimpo, il
tuo cervello deve essersi congelato. Non conosci il mio segreto, non
è così?” Gli occhi di Chione si strinsero. “Non hai nessun segreto,”
disse. “Stai mentendo.” “Okay, come ti pare,” disse Piper. “Sì, fai
pure e prendi i miei amici. Lasciami qui…inutile.” Fece una risata di
scherno. “Già. Gea sarà davvero contenta con te.” Della neve vorticò
intorno alla dea. Zete e Calais si scambiarono delle occhiate
nervose. “Sorella,” disse Zete, “se ha davvero qualche segreto…“
“Pizza?” meditò Cal. “Hockey?” “…allora dobbiamo sapere,”
continuò Zete. Chione non ne era ovviamente convinta. Piper cercò
di mantenere un’espressione neutra, ma fece sì che i suoi occhi
danzassero con malizia e ironia. Vai avanti, la sfidò. Chiedimi una
dimostrazione. “Quale segreto?” chiese Chione. “Rivelacelo!” Piper
scrollò le spalle. “Accomodatevi.” Indicò con fare indifferente verso la
prua. “Seguitemi, persone di ghiaccio.”
44

PIPER

Passò tra i due Boreadi, che era come camminare in un freezer per
la carne. L’aria intorno a loro era così fredda, che le bruciava la
faccia. Si sentiva come se stesse respirando neve pura. Piper cercò
di non guardare il corpo congelato di Jason mentre gli passava
accanto. Cercò di non pensare ai suoi amici sotto ponte, o a Leo che
era stato sparato nel cielo verso un luogo senza ritorno. E più di tutti
cercò di non pensare ai Boreadi e alla dea della neve, che la
stavano seguendo. Fissò i suoi occhi sulla polena. La nave
dondolava sotto i suoi piedi. Un’unica folata d’aria estiva attraversò il
freddo, e Piper la respirò, prendendola come un buon auspicio. Era
ancora estate là fuori. Chione e i suoi fratelli non appartenevano a
quel posto. Piper sapeva che non poteva vincere una lotta diretta
contro Chione e due tipi alati con le spade. Non era intelligente come
Annabeth, o brava a risolvere i problemi come Leo. Ma aveva dei
poteri. E aveva intenzione di usarli. La scorsa notte, durante la sua
chiacchierata con Hazel, Piper si era accorta che il segreto della
lingua ammaliatrice era molto simile a usare la Foschia. In passato,
Piper aveva avuto un sacco di problemi nel far funzionare il suo
incanto, perché aveva sempre ordinato ai suoi nemici di fare quello
che lei voleva. Urlava Non ucciderci quando il desiderio più profondo
del mostro era proprio quello di ucciderli. Metteva tutto il suo potere
nella sua voce e sperava che fosse abbastanza per sopraffare la
volontà del suo nemico. A volte funzionava, ma era spossante e non
ci si poteva affidare in modo sicuro. Afrodite non usava lo scontro
frontale. Afrodite usava la sottigliezza, la scaltrezza e l’incanto. Piper
aveva deciso che non si sarebbe concentrata sul far fare alle
persone quello che lei voleva. Doveva spingerli a fare le cose che
loro volevano. Una teoria fantastica, se solo fosse riuscita a farla
funzionare… Si fermò all’albero di trinchetto e si girò verso Chione.
“Wow, mi sono appena resa conto del perché ci odi così tanto,”
disse, riempiendo la sua voce di pietà. “Ti abbiamo completamente
umiliata a Sonoma.” Gli occhi di Chione luccicarono come un caffè
espresso ghiacciato. Lanciò un’occhiata nervosa ai suoi fratelli. Piper
rise. “Oh, non gliel’hai raccontato!” indovinò. “Non ti biasimo. Avevi
un re dei giganti dalla tua parte, più un esercito di lupi e di Figli della
Terra, e non sei comunque riuscita a sconfiggerci.” “Silenzio!” sibilò
la dea. L’aria si fece nebbiosa. Piper sentì il ghiaccio che le si
solidificava sulle sopracciglia e che le congelava le orecchie, ma
finse un sorriso. “Come vuoi.” Fece l’occhiolino a Zete. “Ma è stato
piuttosto divertente.” “La bella ragazza sta mentendo,” disse Zete.
“Chione non è stata sconfitta alla Casa del Lupo. Ha detto che è
stato un… ah, qual era il termine? Una ritirata tattica.” “Parata?”
chiese Cal. “Le parate sono belle.” Piper diede una spinta giocosa al
petto del ragazzo grosso. “No, Cal. Intende dire che tua sorella è
scappata.” “Non sono scappata!” gridò Chione. “Come ti aveva
definita Era?” rifletté Piper. “Giusto, una dea di terza categoria!”
Scoppiò nuovamente a ridere, e il suo divertimento era così genuino,
che anche Zete e Cal iniziarono a ridere. “Questa è très bon!” disse
Zete. “Una dea di terza di categoria. Ha!” “Ha!” disse Cal. “Sorella
scappa! Ha!” Il vestito bianco di Chione iniziò a fumare. Del ghiaccio
si formò sulle bocche di Zete e Cal, imbavagliandoli. “Mostraci
questo tuo segreto, Piper McLean,” ringhiò Chione. “Poi prega che ti
lasci su questa nave tutta intera. Se ci stai prendendo in giro, ti
mostrerò gli orrori del congelamento da ghiaccio. Dubito che Zete ti
vorrà ancora se non hai più dita delle mani o dei piedi… magari
senza naso o orecchie.” Zete e Cal sputarono i loro tappi di ghiaccio.
“La ragazza carina sarebbe meno carina senza un naso,” ammise
Zete. Piper aveva visto delle immagini di persone vittime del
congelamento. La minaccia la terrorizzava, ma non lo lasciò vedere.
“Andiamo, allora.” Fece strada verso la prua, mormorando una delle
canzoni preferite di suo padre, “Summertime”. Quando raggiunse la
polena, mise la mano sul collo di Festus. Le sue scaglie di bronzo
erano fredde. Non c’era nessun ronzio di macchinari. Gli occhi di
rubino erano opachi e scuri. “Ti ricordi del nostro drago?” chiese
Piper. Chione fece un verso di scherno. “Questo non può essere il
tuo segreto. Il drago è rotto. Il suo fuoco è andato.” “Bè, sì…” Piper
accarezzò il muso del drago. Non aveva i poteri di Leo per far
ruotare gli ingranaggi o attivare i circuiti. Non riusciva ad avvertire
nulla sul funzionamento di una macchina. Tutto quello che poteva
fare era parlare con il cuore e dire al drago quello che lui voleva
sentire più di ogni altra cosa. “Ma Festus è più di una macchina. Lui
è una creatura vivente.” “Ridicolo,” sputò la dea. “Zete, Cal, riunite i
semidei ghiacciati sottocoperta. Poi romperemo la sfera dei venti.”
“Potreste farlo, ragazzi,” concordò Piper. “Ma poi non vedreste
Chione che viene umiliata. So che vi piacerebbe.” I Boreadi
esitarono. “Hockey?” chiese Cal. “Quasi altrettanto bello,” gli
assicurò Piper. “Avete combattuto al fianco di Jason e gli Argonauti,
giusto? Su una nave come questa, la prima Argo.” “Sì,” annuì Zete.
“L’Argo. Molto simile a questa, ma non avevamo un drago.” “Non
ascoltatela!” scattò Chione. Piper avvertì del ghiaccio che le si
formava sulle labbra. “Puoi zittirmi,” disse velocemente. “Ma vuoi
sapere il mio potere segreto, come distruggerò te, Gea, e i giganti.”
L’odio ribolliva negli occhi di Chione, ma bloccò il ghiaccio. “Tu…
non… hai… poteri,” insistette. “Parli come una dea di terza
categoria,” disse Piper. “Una che non viene mai presa seriamente,
che vuole sempre altro potere.” Si voltò verso Festus e fece scorrere
la mano dietro alle due orecchie di metallo. “Tu sei un buon amico
Festus. Nessuno può disattivarti completamente. Tu sei più di una
macchina. Chione non lo capisce.” Si voltò verso i Boreadi. “Non
stima neanche voi, sapete. Crede di potervi comandare perché voi
siete semidei, non divinità complete. Non capisce che voi siete una
squadra potente.” “Una squadra,” grugnì Cal. “Come i Ca-na-di-ens.”
Dovette lottare con la parola dal momento che aveva più di due
sillabe. Fece un grosso sorriso e apparve molto compiaciuto di se
stesso. “Esattamente,” disse Piper. “Proprio come una squadra di
hockey. L’intero è più forte delle parti.” “Come una pizza,” aggiunse
Cal. Piper rise. “Tu sei intelligente, Cal! Persino io ti ho
sottovalutato.” “Adesso, aspetta un attimo,” protestò Zete. “Anche io
sono intelligente. E anche bello.” “Molto intelligente,” annuì Piper,
ignorando la parte del bello. “Quindi posa la bomba dei venti, e
guarda Chione che viene umiliata.” Zete fece un grosso sorriso. Si
accucciò e fece rotolare la sfera di ghiaccio lungo il ponte. “Stupido!”
urlò Chione. Prima che la dea potesse inseguire la sfera, Piper gridò,
“La nostra arma segreta, Chione! Noi non siamo solo un mucchio di
semidei. Noi siamo una squadra. Proprio come Festus non è solo un
insieme di parti. Lui è vivo. E’ mio amico. E quando i suoi amici si
trovano nei guai, soprattutto Leo, può svegliarsi da solo.” Incanalò
tutta la sua sicurezza nella voce, tutto il suo amore per il drago di
metallo e tutto quello che aveva fatto per loro. La parte razionale di
lei sapeva che era una situazione senza speranza. Come si poteva
attivare una macchina con le emozioni? Ma Afrodite non era
razionale. Lei governava attraverso le emozioni. Lei era la più antica
e più primordiale degli dei dell’Olimpo, nata dal sangue di Urano
mescolato al mare. Il suo potere era più antico di quello di Efesto, o
di Atena, o persino di Zeus. Per un momento orribile, non accadde
nulla. Chione la fissò con rabbia. I Boreadi iniziarono a risvegliarsi
dalla loro confusione, con espressioni deluse. “Lasciate stare il
nostro piano,” ringhiò Chione. “Uccidetela!” Mentre i Boreadi
sollevavano le loro spade, la pelle di metallo del drago cominciò a
scaldarsi sotto la mano di Piper. Lei si spostò dalla traiettoria,
placcando la dea della neve, mentre Festus voltava la sua testa di
centottanta gradi e colpiva in pieno i Boreadi, vaporizzandoli al loro
posto. Per qualche ragione, la spada di Zete venne risparmiata.
Cadde sul ponte, ancora fumante. Piper si rimise velocemente in
piedi. Vide la sfera di vento alla base dell’albero di trinchetto. Corse
verso di essa, ma prima che potesse avvicinarsi, Chione si
materializzò davanti a lei in un turbinio di ghiaccio. La sua pelle
brillava abbastanza luminosa da accecarla. “Ragazzina miserabile,”
sibilò. “Credi di poter sconfiggere me, una dea?” Alle spalle di Piper,
Festus ruggiva e fumava, ma Piper sapeva che non poteva sputare
nuovamente il fuoco senza colpire anche lei. A circa sei metri alle
spalle della dea, la sfera di ghiaccio iniziò a creparsi e fischiare.
Piper era a corto di tempo per le sottigliezze. Gridò e sollevò il suo
pugnale, attaccando la dea. Chione le afferrò il polso. Il ghiaccio di
diffuse lungo il braccio di Piper. La lama di Katoptris divenne bianca.
Il volto della dea era a soli dieci centimetri di distanza dal suo.
Chione sorrise, sapendo di aver vinto. “Una figlia di Afrodite,” la
rimproverò. “Non sei nulla.” Festus cigolò di nuovo. Piper poteva
giurare che stava cercando di urlare degli incoraggiamenti.
Improvvisamente il suo petto si riscaldò, non con rabbia o paura, ma
con l’amore che provava per quel drago; e per Jason, che dipendeva
da lei; e per i suoi amici intrappolati di sotto; e per Leo, che era
perso e avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Forse l’amore non era
all’altezza del ghiaccio… ma Piper l’aveva usato per svegliare un
drago di metallo. I mortali compivano continuamente degli atti super
eroici in nome dell’amore. Le madri sollevavano le macchine per
salvare i loro figli. E Piper era più di una mortale. Lei era un semidio.
Un eroe. Il ghiaccio sulla sua lama si sciolse. Il suo braccio fumò
sotto la presa di Chione. “Continui a sottovalutarmi,” disse Piper alla
dea. “Devi davvero lavorare sulla cosa.” L’espressione compiaciuta
di Chione vacillò mentre Piper abbassava con sicurezza il pugnale.
La lama toccò il petto di Chione, e la dea esplose in una tormenta in
miniatura. Piper crollò, stordita dal freddo. Sentiva Festus che
cigolava e ronzava, le campane d’allarme, di nuovo in funzione, che
suonavano. La bomba. Piper lottò per alzarsi in piedi. La sfera era a
tre metri di distanza, stava ruotando su se stessa e rilasciando fumo
mentre i venti al suo interno iniziarono ad agitarsi. Piper si gettò
verso di essa. Le sue dita si chiusero intorno alla bomba proprio
mentre il ghiaccio si frantumava e i venti esplodevano.
45

PERCY

Percy sentiva la mancanza della palude. Non avrebbe mai pensato


che gli sarebbe mancato dormire nel letto di pelle di un gigante in
una capanna fatta di ossa di dragone in una fogna inquinata, ma in
quel momento sembrava l’Elisio. Lui, Annabeth e Bob avanzavano
incerti nel buio, l’aria densa e fredda, il terreno che si alternava tra
chiazze di rocce appuntite e piscine di sostanza viscida. Il terreno
sembrava essere stato progettato così che Percy non potesse mai
abbassare la guardia. Persino camminare per tre metri era
spossante. Percy era partito dalla capanna del gigante sentendosi di
nuovo in forze, la mente chiara, la pancia piena di spezzatino di
dragone grazie al loro zaino di provviste. Adesso aveva le gambe
indolenzite. Gli faceva male ogni muscolo del corpo. Si mise una
tunica improvvisata fatta di pelle di dragone sopra la maglietta a
brandelli, ma non servì a nulla contro i brividi. La sua concentrazione
si focalizzò sul terreno davanti a lui. Non esisteva nient’altro eccetto
quello e Annabeth al suo fianco. Ogni volta che sentiva che stava
per mollare, lasciarsi andare e morire (cosa che accadeva,
all’incirca, ogni dieci minuti), allungava il braccio e le prendeva la
mano, solo per ricordarsi che c’era ancora calore nel mondo. Dopo
la chiacchierata di Annabeth con Damasene, Percy era preoccupato
per lei. Annabeth non si lasciava andare alla disperazione
facilmente, ma mentre camminavano, si asciugava le lacrime dagli
occhi, cercando di non farsi vedere da Percy. Lui sapeva che lei
detestava quando i suoi piani non funzionavano come aveva
previsto. Era convita che avessero bisogno dell’aiuto di Damasene,
ma il gigante li aveva scaricati. Una parte di Percy era sollevata. Era
già abbastanza preoccupato che Bob rimanesse dalla loro parte
quando avessero raggiunto le Porte della Morte. Non era certo di
volere un gigante come spalla, anche se quel gigante era in grado di
cucinare un’eccellente spezzatino. Si chiese cosa fosse successo
dopo che avevano lasciato la capanna di Damasene. Non sentiva i
suoi inseguitori da ore, ma poteva avvertire il loro odio… soprattutto
quello di Polibote. Quel gigante si trovava dietro di loro da qualche
parte, intento a seguirli, spingendoli più in profondità nel Tartaro.
Percy cercò di pensare a delle cose belle per tenersi su di morale, il
lago al Campo Mezzosangue, la volta in cui aveva baciato Annabeth
sottacqua. Cercò di immaginare loro due insieme a Nuova Roma, a
passeggiare tra le colline tenendosi nella mano. Ma il Campo Giove
e il Campo Mezzosangue sembravano entrambi dei sogni. Si sentiva
come se esistesse solo il Tartaro. Quello era il mondo reale, morte,
oscurità, freddo, dolore. Si era immaginato tutto il resto. Tremò. No.
Quello era l’abisso che parlava a lui, indebolendo la sua sicurezza.
Si chiese come avesse fatto Nico a sopravvivere là sotto da solo
senza impazzire. Quel ragazzo aveva più forza di quella che Percy
pensava. Più andavano in profondità, più diventava difficile rimanere
concentrati. “Questo posto è peggio del Fiume Cocito,” borbottò.
“Sì,” esclamò Bob allegramente. “Molto peggio! Significa che siamo
vicini.” Vicini a cosa? Si chiese Percy. Ma non aveva la forza di
chiedere. Notò che Piccolo Bob si era nascosto nuovamente dentro
al colletto di Bob, cosa che rafforzò l’opinione di Percy sul fatto che il
gatto fosse il più intelligente del loro gruppo. Annabeth incrociò le
dita con quelle di lui. Nella luce della sua spada di bronzo, il suo
volto era bellissimo. “Siamo insieme,” gli ricordò. “Ce la faremo.” Era
stato così preoccupato all’idea di risollevarle il morale, ed eccola lì
che rassicurava lui. “Sì,” annuì. “Come bere un bicchiere d’acqua.”
“Ma la prossima volta,” disse, “voglio andare da qualche altra parte
come appuntamento.” “Parigi è stata carina,” ricordò lui. Lei abbozzò
un sorriso. Mesi fa, prima che Percy perdesse la memoria, avevano
cenato a Parigi una notte, un omaggio da Hermes. Sembrava
appartenere a un’altra vita. “Mi accontenterei di Nuova Roma,” offrì
lei. “Finché sarai lì con me.” Cavoli, Annabeth era fantastica. Per un
attimo, Percy ricordò davvero cosa voleva dire essere felici. Aveva
una ragazza eccezionale. Potevano avere un futuro insieme. Poi
l’oscurità si diffuse con un enorme sospiro, come l’ultimo fiato di un
dio morente. Davanti a loro si trovava una radura, un campo deserto
fatto di polvere e rocce. Al centro, a circa venti metri di distanza, era
inginocchiata la macabra sagoma di una donna, con i vestiti a
brandelli, gli arti emaciati, la pelle di un verde coriaceo. Aveva la
testa piegata mentre singhiozzava silenziosamente, e il suono
infranse tutte le speranze di Percy. Si rese conto che la sua vita era
inutile. Tutte le sue lotte non servivano a nulla. Quella donna
piangeva come se fosse in lutto per la morte di tutto il mondo.
“Siamo arrivati,” annunciò Bob. “Achlys può aiutarci.”
46

PERCY

Se il fantasma piangente consisteva nell’idea di aiuto di Bob, Percy


era abbastanza sicuro di non volerlo. Ciò nonostante, Bob arrancò in
avanti. Percy si sentì obbligato a seguirlo. Se non altro, quella zona
era meno scura, non esattamente illuminata, ma con una densa
foschia bianca. “Achlys!” chiamò Bob. La creatura sollevò la testa, e
lo stomaco di Percy gridò, Aiutami! Il suo corpo era già abbastanza
brutto. Assomigliava a una vittima della carestia, arti simili a
bastoncini, ginocchia gonfie e gomiti nodosi, stracci al posto degli
abiti, unghie delle mani e dei piedi rotte. La polvere le ricopriva la
pelle e le si era impilata sulle spalle come se si fosse fatta una
doccia sotto una clessidra. Il suo volto era una desolazione
completa. I suoi occhi erano incavati e catarrali, dai quali venivano
versate lacrime continue. Il suo naso gocciolava come una cascata. I
suoi grigi capelli fibrosi erano spiaccicati contro la testa in ciocche
unte, e le sue guance erano graffiate e sanguinanti come se si fosse
artigliata da sola. Percy non riusciva a sopportare il suo sguardo,
così abbassò gli occhi. Sulle sue ginocchia giaceva uno scudo
antico, un cerchio malconcio fatto di legno e bronzo, dipinto con le
fattezze di Achlys in persona che teneva uno scudo sulle ginocchia,
così l’immagine sembrava andare avanti all’infinito, sempre più
piccola. “Quello scudo,” mormorò Annabeth. “E’ il suo. Pensavo che
fosse solo una storia.” “Oh, no,” gemette la vecchia strega. “Lo
scudo di Ercole. Mi dipinse sulla sua superficie, così i suoi nemici
avrebbero visto me nei loro ultimi istanti di vita, la dea della miseria.”
Tossì così forte, che Percy provò una fitta di dolore al petto. “Come
se Ercole conoscesse la vera miseria. Non mi somiglia neanche!”
Percy deglutì. Quando lui e i suoi amici avevano incontrato Ercole
allo Stretto di Gibilterra, non era andata bene. L’incontro aveva
compreso un sacco di urla, minacce di morte, e degli ananas lanciati
ad alta velocità. “Cosa ci fa qui il suo scudo?” chiese Percy. La dea
lo fissò con i suoi umidi occhi lattiginosi. Dalle guance le gocciolava
del sangue, creando dei puntini rossi sul suo vestito a brandelli. “Non
gli serve più, no? Arrivò qui quando il suo corpo mortale venne
bruciato. Un ricordo, suppongo, del fatto che nessuno scudo è
sufficiente. Alla fine, la miseria raggiunge tutti. Persino Ercole.”
Percy si avvicinò di più ad Annabeth. Cercò di ricordarsi perché si
trovassero lì, ma il senso di disperazione rendeva difficile pensare.
Ascoltando Achlys che parlava, non trovava più strano che si fosse
graffiata le sue stesse guance. La dea irradiava sofferenza pura.
“Bob,” disse Percy, “non saremmo dovuti venire qui.” Da qualche
parte all’interno della divisa di Bob, il gatto scheletro miagolò
d’accordo. Il Titano si mosse a disagio e fece una smorfia, come se
Piccolo Bob gli stesse graffiando l’ascella. “Achlys controlla la
Foschia di Morte,” insistette. “Lei può nascondervi.” “Nasconderli?”
Achlys fece un verso gorgogliante. Forse stava ridendo, oppure si
stava strozzando. “Perché dovrei farlo?” “Devono raggiungere le
Porte della Morte,” disse Bob. “Per tornare nel mondo mortale.”
“Impossibile!” disse Achlys. “Gli eserciti del Tartaro vi troveranno. Vi
uccideranno.” Annabeth girò la lama della sua spada di osso di
drago, cosa che Percy dovette ammettere la faceva apparire
piuttosto intimidente e sexy in uno stile da “Principessa Barbara”.
“Allora immagino che la tua Foschia di Morte sia abbastanza inutile,”
disse lei. La dea scoprì i suoi gialli denti spezzati. “Inutile? Chi sei
tu?” “Una figlia di Atena.” La voce di Annabeth suonava coraggiosa,
anche se Percy non sapeva come facesse. “Non ho attraversato
metà Tartaro per sentirmi dire cosa è impossibile da qualche dea
minore.” La polvere tremò ai loro piedi. La nebbia vorticò intorno a
loro con un suono simile a dei lamenti agonizzanti. “Dea minore?” Le
unghie nodose di Achlys scavarono nello scudo di Ercole,
perforando il metallo. “Ero vecchia prima che nascessero i Titani,
ragazzina ignorante. Ero vecchia quando Gea si svegliò per la prima
volta. La miseria è eterna. L’esistenza è miseria. Sono nata dai più
antichi, dal Caos e dalla Notte. Io…“ “Sì, sì,” disse Annabeth.
“Tristezza e miseria, blah, blah, blah. Ma non hai comunque
abbastanza potere per nascondere due semidei con la tua Foschia
di Morte. Come ho detto: inutile.” Percy si schiarì la gola. “Uh,
Annabeth…“ Lei gli lanciò uno sguardo di avvertimento: Aiutami. Si
rese conto di quanto fosse terrorizzata, ma non aveva scelta. Quella
era la loro miglior possibilità per spingere la dea ad agire. “Voglio
dire… Annabeth ha ragione!” tentò Percy. “Bob ci ha portato fino qui
perché pensava che potessi aiutare. Ma immagino che tu sia troppo
occupata a fissare quello scudo e a piangere. Non posso biasimarti.
Ti somiglia proprio.” Achlys gemette e fissò il Titano. “Perché mi hai
inflitto questi mocciosi irritanti?” Bob emise un suono che era a metà
strada da un rombo e un gemito. “Pensavo… pensavo…“ “La
Foschia di Morte non è fatta per aiutare!” gridò Achlys. “Avvolge i
mortali nella sofferenza mentre le loro anime passano
nell’Oltretomba. E’ il respiro stesso di Tartaro, della morte, della
disperazione!” “Fantastico,” disse Percy. “Potremmo averne due?”
Achlys sibilò. “Chiedetemi un dono più sensato, sono anche la dea
dei veleni. Potrei darvi la morte, migliaia di modi per morire meno
dolorosi di quello che avete scelto recandovi nel cuore dell’abisso.”
Intorno alla dea, dei fiori sbocciarono tra la polvere, boccioli viola
scuro, arancione e rosso che avevano un dolce odore nauseante. La
testa di Percy girò. “Morella,” offrì Achlys. “Cicuta. Belladonna,
giusquiamo o stricnina. Posso dissolvervi le budella, bollire il vostro
sangue.” “E’ molto carino da parte tua,” disse Percy. “Ma ho già
avuto abbastanza veleni da bastarmi per un viaggio intero. Adesso,
puoi nasconderci nella tua Foschia di Morte, oppure no?” “Sì, sarà
divertente,” disse Annabeth. Gli occhi della dea si strinsero.
“Divertente?” “Certo,” assicurò Annabeth. “Se falliamo, pensa a
quanto sarà grandioso per te, gongolare sui nostri spiriti mentre noi
moriamo in agonia. Avrai la possibilità di dire ve l’avevo detto per
tutta l’eternità.” “Oppure, se avremo successo,” aggiunse Percy,
“pensa a tutta la sofferenza che porterai ai mostri là sotto. Abbiamo
intenzione di sigillare le Porte della Morte. Questo causerà un sacco
di gemiti e lamenti.” Achlys pensò alla cosa. “Mi piace la sofferenza.
Anche i lamenti sono belli.” “Allora è deciso,” disse Percy. “Rendici
invisibili.” Achlys si mise in piedi con fatica, lo scudo di Ercole rotolò
lontano e dondolò fino a fermarsi in una macchia di fiori velenosi.
“Non è così semplice,” disse la dea. “La Foschia di Morte arriva
nell’attimo in cui siete più vicini alla vostra fine. I vostri occhi saranno
annebbiati soltanto allora. Il mondo si dissolverà.” Percy si sentì la
bocca asciutta. “Okay. Ma… saremo coperti agli occhi dei mostri?”
“Oh, sì,” disse Achlys. “Se sopravvivrete al processo, sarete in grado
di passare inosservati tra gli eserciti di Tartaro. E’ senza speranza,
ovviamente, ma se siete determinati, allora venite. Vi mostrerò la
strada.” “La strada per dove, esattamente?” chiese Annabeth. La
dea si stava già trascinando verso il buio. Percy si voltò per guardare
Bob, ma il Titano non c’era più. Come faceva un essere d’argento di
tre metri con un gatto molto rumoroso a sparire? “Hey!” gridò Percy
verso Achlys. “Dov’è il nostro amico?” “Lui non può prendere questo
percorso,” ripose la dea. “Lui non è mortale. Venite, piccoli sciocchi.
Venite a provare la Foschia di Morte.” Annabeth fece un respiro
profondo e gli prese la mano. “Bè… quanto potrà essere brutto?” La
domanda era così ridicola che Percy rise, anche se gli facevano
male i polmoni. “Già. Al prossimo appuntamento però, cena a Nuova
Roma.” Seguirono le impronte polverose della dea attraverso i fiori
velenosi, avanzando sempre di più nella nebbia.
47

PERCY

A Percy mancava Bob. Si era abituato ad avere il Titano al suo


fianco, che illuminava loro la strada con i suoi capelli argentati e la
sua temibile scopa da guerra. Adesso la loro unica guida era
un’emaciata donna cadavere con seri problemi di fiducia in se
stessa. Mentre procedevano a fatica attraverso la radura polverosa,
la nebbia si fece così fitta che Percy dovette resistere all’impulso di
diradarla agitando le mani. L’unica ragione per la quale era in grado
di seguire il cammino di Achlys era perché ovunque camminasse,
crescevano delle piante velenose. Se si trovavano ancora sul corpo
di Tartaro, Percy immaginava che si dovessero trovare sulla parte
inferiore del suo piede, una ruvida distesa callosa dove crescevano
solo le piante più disgustose. Finalmente arrivarono alla fine
dell’alluce. Almeno era quello che sembrava a Percy. La nebbia si
diradò, e loro si ritrovarono su una penisola che sporgeva sopra un
abisso nero pece. “Ci siamo.” Achlys si voltò e li guardò con sguardo
malizioso. Dalle guance le uscì del sangue che le cadde sul vestito. I
suoi occhi pallidi apparivano umidi e gonfi ma in qualche modo
emozionati. La Miseria poteva apparire emozionata? “Uh…
fantastico,” disse Percy. “Qui dove?” “Sull’orlo della morte finale,”
disse Achlys. “Dove Notte incontra l’abisso al di sotto di Tartaro.”
Annabeth si fece avanti e guardò oltre il dirupo. “Credevo che non ci
fosse nulla al di sotto del Tartaro.” “Oh, c’è senza dubbio…” Achlys
tossì. “Persino il Tartaro deve sorgere da qualcosa. Questo è l’orlo
della prima oscurità, che fu mia madre. Sotto giace il regno di Caos,
mio padre. Qui, siete più vicini al nulla di quanto lo sia mai stato
qualsiasi mortale. Non riuscite ad avvertirlo?” Percy sapeva quello
che voleva dire. L’abisso sembrava attrarlo, dissolvendo il respiro dai
suoi polmoni e l’ossigeno dal suo sangue. Guardò Annabeth e vide
che aveva le labbra blu. “Non possiamo rimanere qui,” disse. “No,
infatti!” disse Achlys. “Non avvertire la Foschia di Morte? Persino
adesso, siete in mezzo. Guardate!” Del fumo bianco si unì intorno ai
piedi di Percy. Mentre si alzava avvolgendosi intorno alle sue
gambe, si rese conto che il fumo non lo stava circondando.
Proveniva da lui. Tutto il suo corpo si stava dissolvendo. Sollevò le
mani e vide che erano confuse e indistinte. Non riusciva nemmeno a
dire quante dita avesse. Sperava che fossero ancora dieci. Si voltò
verso Annabeth e soffocò un grido. “Sei… uh…“ Non riusciva a dirlo.
Sembrava morta. La sua pelle era terrea, gli occhi scuri e infossati. I
suoi bellissimi capelli si erano seccati diventando una matassa di
ragnatele. Sembrava che fosse stata bloccata in uno scuro e freddo
mausoleo per decenni, appassendo lentamente fino a diventare un
guscio vuoto essiccato. Quando lei si voltò per guardarlo, i suoi tratti
sfocarono momentaneamente diventando foschia. Il sangue di Percy
scorreva come sciroppo nelle sue vene. Per anni, si era preoccupato
che Annabeth morisse. Quando si è un semidio, è una cosa
normale. La maggior parte dei mezzosangue non vive a lungo.
Sapevi sempre che il prossimo mostro che avresti affrontato sarebbe
potuto essere l’ultimo. Ma vedere Annabeth in quel modo era troppo
doloroso. Avrebbe preferito essere immerso nel Fiume Flegetonte, o
essere attaccato dalle arai, o essere calpestato dai giganti. “Oh, dei,”
singhiozzò Annabeth. “Percy, il tuo aspetto…” Percy si studiò le
braccia. Tutto quello che vide erano macchie di foschia bianca, ma
immaginò che agli occhi di Annabeth apparisse come un cadavere.
Fece qualche passo, anche se era difficile. Il suo corpo sembrava
essere inconsistente, come se fosse fatto di elio e zucchero filato.
“Ho avuto un aspetto migliore,” decise. “Non riesco a muovermi
molto bene. Ma sto bene.” Achlys ridacchiò. “Oh, senza dubbio non
stai bene.” Percy aggrottò le sopracciglia. “Ma adesso saremo
invisibili? Possiamo raggiungere le Porte della Morte?” “Bè, forse
potreste,” disse la dea, “se vivreste così a lungo, cosa che non
farete.” Achlys allargò le sue dita nodose. Altre piante sbocciarono
lungo il bordo dell’abisso, cicuta, morella e oleandri si allargarono
verso i piedi di Percy come un tappeto mortale. “La Foschia di Morte
non è un semplice camuffamento, vedete. È uno stato. Non avrei
potuto portarvi questo dono a meno che la morte non vi avesse
seguiti, la morte vera.” “E’ una trappola,” disse Annabeth. La dea
ridacchiò. “Non vi aspettavate che vi avrei traditi?” “Sì,” dissero
Annabeth e Percy all’unisono. “Bè, in questo caso, non è stata una
vera trappola! Più come una cosa inevitabile. La Miseria è
inevitabile. Il Dolore è…“ “Sì, sì,” ringhiò Percy. “Passiamo alla parte
dove si combatte.” Sguainò Vortice, ma la lama era fatta di fumo.
Quando la abbassò contro Achlys, la spada si limitò a passarle
attraverso come una brezza gentile. La bocca rovinata della dea si
aprì in un sogghigno. “Non ve l’ho detto? Adesso siete solo foschia,
un’ombra prima della morte. Magari se aveste tempo, potreste
imparare a controllare la vostra nuova forma. Ma non avete tempo.
Dal momento che non potete toccarmi, temo che qualsiasi lotta
contro Miseria sarà praticamente una lotta con un solo attaccante.”
Le sue unghie si allungarono diventando degli artigli. La sua
mascella si staccò, e i suoi denti gialli si allungarono trasformandosi
in zanne.
48

PERCY

Achlys si lanciò verso Percy, e per una frazione di secondo lui


pensò: Bè, ehi, sono fatto solo di fumo. Non può toccarmi, giusto?
Immaginò le Parche su nell’Olimpo, che ridevano ai suoi pensieri
speranzosi: LOL, NO! Gli artigli della dea scavarono nel suo petto
provocando un bruciore simile ad acqua bollente. Percy inciampò
all’indietro, ma non era abituato all’essere fatto di fumo. Le sue
gambe si muovevano troppo lentamente. Le braccia sembravano
essere dei fazzolettini di carta. Preso dalla disperazione, le lanciò
contro lo zaino, pensando che magari sarebbe tornato solido una
volta lasciata la sua mano, ma non ebbe una tale fortuna. Cadde con
un tonfo attutito. Achlys ringhiò, acquattandosi pronta a saltare.
Avrebbe staccato via la faccia di Percy se Annabeth non l’avesse
attaccata urlando, “HEY!” dritta nelle orecchie della dea. Achlys
indietreggiò, voltandosi verso il rumore. Si lanciò contro Annabeth,
ma Annabeth era più brava di Percy nel muoversi. Forse lei non si
sentiva altrettanto fumosa, o magari aveva soltanto avuto più
addestramento. Era stata al Campo Mezzosangue da quando aveva
sette anni. Probabilmente aveva partecipato a delle lezioni che
Percy non aveva mai fatto, del tipo Come Combattere Mentre Si E’
Parzialmente Fatti di Fumo. Annabeth si tuffò dritta tra le gambe
della dea e fece una capriola per rimettersi in piedi. Achlys si girò e
attaccò, ma Annabeth la schivò nuovamente, come un matador.
Percy era così sconvolto, che perse alcuni secondi preziosi. Fissò
l’Annabeth cadavere, avvolta dalla foschia ma che si muoveva
veloce e sicura come sempre. Poi gli venne in mente il motivo per
cui lo stava facendo: per farli guadagnare del tempo. Il che voleva
dire che Percy doveva aiutarla. Pensò selvaggiamente, cercando di
trovare un modo per sconfiggere Miseria. Come poteva combattere
quando non era in grado di toccare nulla? Al terzo attacco di Achlys,
Annabeth non fu altrettanto fortunata. Cercò di schivare
lateralmente, ma la dea afferrò il polso di Annabeth e la tirò con
forza, gettandola a terra. Prima che la dea potesse piombarle
addosso, Percy avanzò, urlando e agitando la sua spada. Si sentiva
ancora solido come un Kleenex, ma la sua rabbia sembrava aiutarlo
a muoversi più velocemente. “Ehi, Allegra!” urlò. Achlys si voltò
velocemente, lasciando il braccio di Annabeth. “Allegra?” chiese.
“Già!” Lui si abbassò mentre lei attaccava verso la sua testa. “Sei
assolutamente gioiosa!” “Arggh!” Lei attaccò di nuovo, ma era fuori
equilibrio. Percy si mosse di lato e indietreggiò, guidando la dea più
lontano da Annabeth. “Piacevole!” esclamò. “Deliziosa!” La dea
ringhiò e fremette. Avanzò incerta verso Percy. Ogni complimento
sembrava colpirla come sabbia in faccia. “Ti ucciderò lentamente!”
ringhiò, con gli occhi e il naso gocciolanti, il sangue che le scendeva
dalle guance. “Ti farò a pezzi come sacrificio per Notte!” Annabeth
riuscì a rimettersi in piedi. Cominciò a frugare nella sua borsa, senza
dubbio in cerca di qualcosa che potesse aiutare. Percy voleva darle
più tempo. Lei era il cervello. Era meglio che lui venisse attaccato
mentre lei pensava a un piano brillante. “Tenera!” gridò Percy.
“Calda, affettuosa, fai venire voglia di abbracciarti!” Achlys emise un
suono ringhiante e strozzato, come un gatto con un attacco
epilettico. “Una morte lenta!” urlò lei. “Una morte con mille veleni!”
Tutto intorno a lei, crescevano ed esplodevano piante velenose,
come fossero palloncini troppo pieni. Della linfa verde e bianca
gocciolò fuori, raccogliendosi in pozzanghere, e iniziò a scorrere sul
terreno verso Percy. I vapori dall’odore dolciastro lo stordivano.
“Percy!” La voce di Annabeth suonava molto lontana. “Uh, ehi, Miss
Meraviglia! Allegra! Tutta sorrisi! Da questa parte!” Ma la dea della
miseria adesso era concentrata su Percy. Lui cercò di ritirarsi di
nuovo. Sfortunatamente adesso l’icore velenoso stava scorrendo
tutto intorno a lui, facendo fumare il terreno e bruciare l’aria. Percy si
ritrovò bloccato su un’isola di polvere non molto più grande di uno
scudo. A qualche metro di distanza, il suo zaino fumava e si
dissolveva in una pozza di sostanza viscida. Percy non poteva
scappare da nessuna parte. Cadde su un ginocchio. Voleva dire ad
Annabeth di scappare, ma non riusciva a parlare. La sua gola era
secca come foglie morte. Desiderò che ci fosse dell’acqua nel
Tartaro, qualche bella pozza nella quale potesse saltare per guarirsi,
o magari un fiume da controllare. Gli sarebbe andata bene una
bottiglietta d’acqua. “Nutrirai l’oscurità eterna,” disse Achlys. “Morirai
tra le braccia della Notte!” Era solo in parte consapevole di Annabeth
che stava urlando, lanciando parti a caso di carne di dragone contro
la dea. Il veleno bianco-verdastro continuava a raccogliersi nelle
pozze, piccoli rivoli gocciolavano dalle piante mentre il lago velenoso
attorno a lui si faceva sempre più largo. Lago, pensò. Rivoli. Acqua.
Probabilmente si trattava solo della sua mente che si stava
stancando a causa dei fumi velenosi, ma lasciò andare una risata
gracchiante. Il veleno era liquido. Se si muoveva come l’acqua,
doveva essere parzialmente fatto d’acqua. Ricordò alcune lezioni di
scienze in cui avevano detto che il corpo umano era composto per la
maggior parte da acqua. Ricordò di come aveva fatto uscire l’acqua
dai polmoni di Jason a Roma… Se era in grado di controllare quello,
allora perché non provare con altri liquidi? Era un’idea folle.
Poseidone era il dio del mare, non di qualsiasi liquido esistente.
Tuttavia, il Tartaro seguiva le sue regole personali. Il fuoco si poteva
bere. Il terreno era il corpo di un dio oscuro. L’aria era acida, e i
semidei potevano essere trasformati in cadaveri di fumo. Allora
perché non tentare? Non aveva niente da perdere. Fissò il torrente
di veleno che arrivava da ogni parte. Si concentrò così duramente
che qualcosa dentro di lui si spezzò, come se gli si fosse infranta
una palla di vetro nello stomaco. Il calore lo avvolse. L’ondata di
veleno si fermò. I fumi si allontanarono da lui, tornando verso la dea.
Il lago di veleno scivolò verso di lei con minuscole onde e rivoli.
Achlys gridò. “Cos’è questo?” “Veleno,” disse Percy. “E’ la tua
specialità, giusto?” Si alzò in piedi, con la rabbia che cresceva
sempre di più dentro di lui. Mentre il torrente di veleno scorreva
verso la dea, i fumi iniziarono a farla tossire. I suoi occhi iniziarono a
lacrimare persino più di prima. Oh, bene, pensò Percy. Altra acqua.
Percy si immaginò il naso e la gola della dea che si riempivano delle
sue stesse lacrime. Achlys fece un verso strozzato. “Io…“ L’ondata
di veleno le raggiunse i piedi, sfrigolando come gocce d’acqua sul
ferro bollente. Lei gemette e indietreggiò velocemente. “Percy!”
esclamò Annabeth. Si era ritirata fino al bordo del dirupo, anche se il
veleno non stava scorrendo verso di lei. Sembrava terrorizzata. A
Percy ci volle un momento per rendersi conto che era terrorizzata da
lui. “Basta…” implorò con la voce fioca. Lui non voleva fermarsi.
Voleva soffocare quella dea. Voleva guardarla annegare nel suo
stesso veleno. Voleva vedere quanta miseria potesse sopportare
Miseria. “Percy, ti prego…” Il volto di Annabeth era ancora pallido e
cadaverico, ma i suoi occhi erano quelli di sempre. La paura che
c’era in loro fece dissolvere la rabbia di Percy. Si voltò verso la dea.
Ordinò al veleno di ritirarsi, creando un piccolo sentiero di passaggio
lungo il bordo del dirupo. “Vattene!” ruggì. Per essere un fantasma
emaciato, Achlys era in grado di correre piuttosto velocemente
quando voleva. Si lanciò lungo il passaggio libero, cadde di faccia, e
si rialzò di nuovo, gemendo mentre scattava nell’oscurità. Non
appena se ne fu andata, le piscine di veleno evaporarono. Le piante
seccarono fino a diventare polvere e vennero spazzate via.
Annabeth avanzò incerta verso di lui. Sembrava un cadavere avvolto
dal fumo, ma la sentì completamente solida quando gli afferrò le
braccia. “Percy, ti prego non…” La sua voce si spezzò in un
singhiozzo. “Alcune cose non sono fatte per essere controllate. Ti
prego.” Il suo corpo formicolava di potere, ma la rabbia stava
diminuendo. Il vetro rotto dentro di lui stava cominciando a levigarsi
sui bordi. “Sì,” disse. “Sì, va bene.” “Dobbiamo andarcene da questo
dirupo,” disse Annabeth. “Se Achlys ci ha portati qui come qualche
tipo di sacrificio…” Percy cercò di pensare. Si stava abituando a
muoversi con la Foschia di Morte intorno a lui. Si sentiva più solido,
più come se stesso. Ma la sua mente sembrava ancora essere piena
di cotone. “Ha detto qualcosa riguardo al darci in pasto alla notte,”
ricordò. “Che voleva dire?” La temperatura precipitò. L’abisso
davanti a loro sembrò esalare un respiro. Percy afferrò Annabeth e
si allontanò dal bordo mentre una presenza emergeva dal vuoto, una
figura così vasta e ombrosa, che ebbe la sensazione di capire il
concetto di buio per la prima volta in vita sua. “Immagino,” disse
l’oscurità, con una voce femminile morbida come la seta
d’imbottitura di una bara, “che voleva dire Notte, con la N maiuscola.
Dopotutto, io sono l’unica.”
49

LEO

Per come la vedeva Leo, aveva passato più tempo a precipitare che
a volare sulla sua nave. Se ci fosse stata una carta premio per chi
precipitava molto spesso, lui avrebbe avuto, tipo, il doppio livello
platino. Riacquistò conoscenza mentre stava andando in caduta
libera tra le nuvole. Aveva un ricordo confuso di Chione che lo
derideva appena prima di essere lanciato nel cielo. Non l’aveva
davvero vista, ma non si sarebbe mai potuto dimenticare la voce di
quella strega della neve. Non aveva idea per quanto tempo avesse
acquistato altezza, ma ad un certo punto doveva essere svenuto a
causa del freddo e della mancanza di ossigeno. Adesso stava
scendendo, diretto verso il suo schianto più grande di sempre. Le
nuvole si aprivano intorno a lui. Vide il mare luccicante molto, molto
più in basso. Nessun segno dell’Argo II. Nessun segno di terra,
familiare e non, eccetto una minuscola isola all’orizzonte. Leo non
sapeva volare. Aveva al massimo un paio di minuti prima di colpire
l’acqua e spiaccicarsi. Decise che non gli piaceva quel finale per
l’Epica Ballata di Leo. Stava ancora stringendo in mano la sfera di
Archimede, cosa che non lo sorprese. Privo di sensi o meno, non
avrebbe mai lasciato andare l’oggetto più prezioso che aveva. Con
qualche piccola manovra, riuscì a tirare fuori dello scotch dalla sua
cintura degli attrezzi e a fissarsi la sfera sul petto. Quello lo fece
assomigliare a un Iron Man con una tuta economica, ma almeno
adesso aveva le mani libere. Si mise al lavoro, agendo furiosamente
con la sfera, tirando fuori dalla sua cintura magica qualsiasi cosa che
pensava avrebbe potuto essergli d’aiuto: una tenda, degli estensori
di metallo, qualche molla e piccoli occhielli di ferro. Lavorare mentre
si precipitava era quasi impossibile. Il vento gli ruggiva nelle
orecchie. Continuava a scalzargli attrezzi, viti, e tessuto dalle mani,
ma alla fine riuscì a costruire un’intelaiatura improvvisata. Aprì uno
sportelletto nella sfera, tirò fuori due cavi, e li collegò alla sua
struttura. Quanto gli restava prima di colpire l’acqua? Forse un
minuto? Girò i quadranti di controllo della sfera, e questa si azionò
ronzando. Altri cavi di bronzo uscirono dalla sfera, avvertendo
intuitivamente ciò di cui Leo aveva bisogno. Delle funi si avvolsero al
tessuto da tenda. La struttura iniziò a spandersi autonomamente.
Leo tirò fuori una lattina di cherosene e un tubo di gomma e li
collegò al nuovo assetato motore che la sfera lo stava aiutando ad
assemblare. Alla fine si costruì una briglia e la spostò così che la
struttura ad X fosse legata sulla sua schiena. Il mare si stava
avvicinando sempre di più, una distesa luccicante di morte. Emise
un grido di sfida e premette l’interruttore della sfera. Il motore entrò
incerto in azione. I rotori improvvisati ruotarono. Le lame della tela
iniziarono a girare, ma troppo lentamente. La testa di Leo era
indirizzata dritta verso il mare, a circa trenta secondi dall’impatto.
Almeno non c’era nessuno in giro, pensò amaramente, o sarei
diventato una barzelletta di semidei per l’eternità. Cosa è stata
l’ultima cosa che è passata per la testa di Leo? Il Mediterraneo.
Improvvisamente la sfera si fece più calda contro il suo petto. Le
lame iniziarono a girare più velocemente, il motore tossì, e Leo si
inclinò lateralmente, muovendosi contro l’aria. “SI’!” gridò. Aveva
appena creato con successo l’elicottero personale più pericoloso del
mondo. Si diresse sparato verso l’isola in lontananza, ma stava
ancora precipitando troppo velocemente. Le lame tremarono. La tela
gemette. La spiaggia si trovava a sole poche centinaia di metri di
distanza quando la sfera si fece bollente come lava e l’elicottero
esplose, sparando fiamme in tutte le direzioni. Se non fosse stato
immune al fuoco, Leo sarebbe diventato un tizzone ardente. Per
come si rivelò in seguito, l’esplosione a mezz’aria probabilmente gli
salvò la vita. Lo scoppio fece volare Leo di lato mentre la massa in
fiamme del suo congegno si schiantò sulla riva a velocità massima
con un enorme KA-BOOM! Leo aprì gli occhi, stupito di essere vivo.
Si trovava all’interno di un cratere grande come una vasca da bagno
scavato nella sabbia. A qualche metro di distanza, una colonna di
denso fumo nero si alzava nel cielo da un cratere molto più grande.
La spiaggia circostante era cosparsa da parti più piccole del relitto.
“La mia sfera.” Leo si toccò il petto. La sfera non si trovava là. Il
nastro adesivo e la briglia si erano disintegrati. Si alzò con fatica.
Non sembrava avere nessun osso rotto, il che era una buona cosa;
ma più che altro era preoccupato per la sua sfera di Archimede. Se
aveva distrutto il suo artefatto inestimabile per creare un elicottero in
fiamme che era durato trenta secondi, sarebbe andato a cercare
quella stupida dea della neve di Chione e l’avrebbe colpita in testa
con una chiave inglese. Avanzò incerto lungo la spiaggia,
chiedendosi perché non ci fossero turisti o hotel o barche in vista.
L’isola sembrava perfetta per un resort, con l’acqua azzurra e la
soffice sabbia bianca. Forse non si trovava sulle mappe. Esistevano
ancora delle isole non scoperte nel mondo? Forse Chione l’aveva
direttamente sparato fuori dal Mediterraneo. Per quanto ne sapeva,
poteva trovarsi a Bora Bora. Il cratere più grande era profondo circa
due metri e mezzo. Sul fondo, le lame dell’elicottero stavano ancora
girando. Il motore eruttava fumo. I rotori gracchiavano come rane ma
accidenti, era piuttosto notevole per essere un lavoro fatto di fretta.
L’elicottero si era apparentemente schiantato su qualcosa. Il cratere
era cosparso di mobili di legno rotti, piatti di porcellana frantumati,
qualche calice mezzo fuso, e dei tovagliolini di lino bruciati. Leo non
sapeva perché tutte quelle cose eleganti si trovassero su una
spiaggia, ma almeno ciò voleva dire che quel luogo era abitato,
dopotutto. Alla fine individuò la sfera di Archimede, al centro del
relitto, fumante e bruciacchiata ma ancora intatta, dalla quale
provenivano dei preoccupanti rumori scattanti. “Sfera!” gridò. “Vieni
da papà!” Scivolò sul fondo del cratere e raccolse la sfera. Crollò, si
mise seduto a gambe incrociate, e si cullò il meccanismo nelle mani.
La superficie di bronzo era bollente, ma a Leo non importava. Era
ancora intera, il che voleva dire che poteva ancora usarla. Adesso,
se solo fosse riuscito a capire dove si trovava, e come tornare dai
suoi amici… Stava facendo una lista mentale degli attrezzi che gli
sarebbero potuti servire quando la voce di una ragazza lo interruppe:
“Cosa stai facendo? Hai fatto esplodere il mio tavolo da pranzo!”
Immediatamente Leo pensò: Uh-oh. Aveva incontrato numerose
divinità, ma la ragazza che lo stava fissando furiosa dal bordo del
cratere aveva davvero l’aspetto di una divinità. Indossava un vestito
bianco in stile greco senza maniche, con una cintura intrecciata
d’oro. I suoi capelli erano lunghi, lisci, e di un castano dorato, quasi
lo stesso color cannella di Hazel, ma le somiglianze con Hazel
finivano lì. Il volto della ragazza era bianco latte, con scuri occhi a
mandorla e labbra corrucciate. Aveva l’aspetto di una quindicenne,
circa l’età di Leo, e, certo, era carina; ma con quell’espressione
arrabbiata sulla faccia ricordava a Leo tutte le ragazze popolari di
ogni scuola che aveva frequentato, quelle che si prendevano gioco
di lui, spettegolavano un sacco, credevano di essere così superiori,
e praticamente facevano tutto quello che potevano per rendere la
sua vita miserabile. Leo la trovò istantaneamente antipatica. “Oh, mi
dispiace!” disse. “Sono appena caduto dal cielo, ho costruito un
elicottero a mezz’aria, ho preso fuoco mentre precipitavo, mi sono
schiantato a terra, e sono a malapena sopravvissuto. Ma certo,
parliamo del tuo tavolo da pranzo!” Afferrò da terra un calice mezzo
fuso. “Chi mette un tavolo da pranzo sulla spiaggia dove dei semidei
innocenti possono schiantarsi? Chi lo fa?” La ragazza strinse i pugni.
Leo era abbastanza sicuro che sarebbe scesa nel cratere e lo
avrebbe colpito in faccia. Invece alzò gli occhi al cielo. “DAVVERO?”
urlò verso il blu vuoto. “Volete peggiorare ancora di più la mia
maledizione? Zeus! Efesto! Hermes! Non provate vergogna?” “Uh…”
Leo notò che aveva appena scelto tre divinità da incolpare e che una
di queste era suo padre. Pensò che non fosse un buon segno.
“Dubito che siano in ascolto. Sai, con tutta la faccenda delle
personalità spaccate…“ “Mostratevi!” urlò la ragazza contro il cielo,
ignorando completamente Leo. “Non è già brutto abbastanza che io
sia esiliata? Non è già brutto abbastanza che portate via i pochi eroi
buoni che ho il permesso di incontrare? Credete che sia divertente
mandarmi questo, questo omuncolo carbonizzato per rovinare la mia
tranquillità? Questo NON E’ DIVERTENTE! Riprendetelo!” “Ehi,
Raggio di Sole,” disse Leo. “Sono proprio qui, sai.” Lei ringhiò come
un animale mezzo all’angolo. “Non chiamarmi Raggio di Sole! Esci
da quel buco e vieni con me adesso così posso mandarti via dalla
mia isola!” “Bè, visto che l’hai chiesto così gentilmente…” Leo non
sapeva per cosa la ragazza folle fosse così infuriata, ma non gli
importava davvero. Se poteva aiutarlo a lasciare l’isola, la cosa gli
andava perfettamente bene. Strinse la sua sfera bruciata e uscì dal
cratere. Quando raggiunse la superficie, la ragazza stava già
marciando verso la costa. Lui corse per raggiungerla. Lei fece un
verso di disgusto verso il relitto fumante. “Questa era una spiaggia
incorrotta! Guardala adesso.” “Sì, colpa mia,” borbottò Leo. “Avrei
dovuto schiantarmi su una delle altre isole. Oh, aspetta, non ce ne
sono altre!” Lei ringhiò e continuò a camminare lungo il bordo
dell’acqua. Leo avvertì un odore di cannella, forse era il suo
profumo? Non che gli importasse. I suoi capelli le oscillavano sulla
schiena con un movimento che incantava, cosa della quale,
ovviamente, non gli importava allo stesso modo. Studiò il mare.
Proprio come aveva visto durante la sua caduta, non c’erano terre o
navi fino all’orizzonte. Guardando verso l’entroterra, vide delle colline
erbose punteggiate da alberi. Un sentiero tagliava attraverso un
boschetto di cedri. Leo si chiese dove portasse: probabilmente al
covo segreto della ragazza, dove arrostiva i suoi nemici così li
poteva mangiare sul suo tavolo da pranzo sulla spiaggia. Era così
preso da quell’idea che non si accorse quando la ragazza si fermò.
Le andò a sbattere contro. “Bah!” Lei si voltò e gli afferrò le braccia
per evitare di cadere sul bagnasciuga. Le sue mani erano forti, come
se fosse abituata a fare dei lavori manuali. Al campo, le ragazze
della cabina di Efesto avevano delle mani forti come quelle, ma lei
non aveva l’aspetto di una figlia di Efesto. Lo fissò furiosa, con gli
scuri occhi a mandorla a soli pochi centimetri di distanza dai suoi. Il
suo odore di cannella gli ricordava l’appartamento della sua abeula.
Cavoli, non aveva ripensato a quel posto da anni. La ragazza lo
spinse via. “D’accordo. Questo punto va bene. Adesso dimmi che
vuoi andartene.” “Cosa?” La mente di Leo era ancora confusa a
causa dello schianto. Non era certo di aver sentito bene. “Vuoi
andartene?” chiese lei. “Sicuramente avrai un posto dove andare!”
“Uh… sì. I miei amici sono nei guai. Devo tornare alla mia nave e…“
“Bene,” tagliò corto lei. “Devi solo dire, Voglio lasciare Ogigia.” “Uh,
okay.” Leo non sapeva il perché, ma il suo tono lo feriva… il che era
stupido, dal momento che non gli importava quello che pensava
quella ragazza. “Voglio lasciare, quello che hai detto tu.” “O-gì-già.”
La ragazza lo pronunciò lentamente, come se Leo avesse cinque
anni. “Voglio lasciare O-gì-già,” disse lui. Lei lasciò andare un
sospiro, chiaramente sollevata. “Bene. Tra un attimo, dovrebbe
apparire una zattera magica. Ti porterà ovunque tu voglia andare.”
“Chi sei tu?” Sembrava sul punto di rispondere ma si fermò. “Non
importa. Te ne andrai presto. Sei ovviamente uno sbaglio.” Questa
era cattiva, pensò Leo. Aveva passato abbastanza tempo a pensare
di essere un errore, come semidio, come parte di quell’impresa,
nella vita in generale. Non aveva bisogno di una folle dea incontrata
per caso che rinforzasse l’idea. Si ricordò di una leggenda greca che
riguardava una ragazza su un’isola… forse ne aveva parlato uno dei
suoi amici? Non importava. Bastava solo che lo lasciasse andare.
“Arriverà a momenti…” La ragazza fissò l’acqua. Non apparve
nessuna zattera magica. “Forse è bloccata nel traffico,” disse Leo.
“E’ sbagliato.” Lei fissò il cielo. “E’ completamente sbagliato!”
“Quindi… vai con il piano B?” chiese Leo. “Hai un cellulare,
oppure…“ “Argh!” La ragazza si voltò e si diresse verso l’entroterra.
Quando raggiunse il sentiero, si lanciò verso il boschetto di alberi e
scomparve. “Okay,” disse Leo. “Oppure puoi semplicemente
scappare via.” Dalla tasca della cintura degli attrezzi tirò fuori un po’
di corda e un moschettone, poi si legò la sfera di Archimede alla
cintura. Guardò verso il mare. Ancora nessuna zattera magica.
Sarebbe potuto rimanere lì e aspettare, ma aveva fame, sete ed era
stanco. Era abbastanza provato dalla sua caduta. Non voleva
seguire quella matta, non importava che buon odore avesse. D’altra
parte, non aveva nessun altro posto dove andare. La ragazza aveva
un tavolo da pranzo, quindi probabilmente aveva anche del cibo. E
sembrava trovare la presenza di Leo irritante. “Irritarla è un
vantaggio in più,” decise. La seguì tra le colline.
50

LEO

“Santo Efesto,” disse Leo. Il sentiero si apriva nel giardino più bello
che Leo avesse mai visto. Non che avesse passato un sacco di
tempo nei giardini, ma accidenti. Sulla sinistra c’erano un frutteto e
un vigneto, alberi di pesco con frutti rosso-dorati che avevano un
odore fantastico al sole caldo, vigne diligentemente potate straripanti
di grappoli di uva, pergolati fatti di gelsomini in fiore, e un sacco di
altre piante delle quali Leo non sapeva il nome. Sulla destra c’erano
delle ordinate file di verdure ed erbe, disposte come i raggi di una
ruota intorno a una grande fontana luccicante, dove dei satiri di
bronzo sputavano acqua in una bacinella centrale. All’estremità del
giardino, dove finiva il sentiero, una caverna si apriva nel fianco di
una collina erbosa. Paragonata al Bunker Nove del campo, l’entrata
era minuscola, ma era notevole a modo suo. Su entrambi i lati, delle
rocce cristalline erano state scavate nella forma di colonne greche.
Le estremità superiori ospitavano un’asse di bronzo che reggeva
delle tende bianche di seta. Il naso di Leo venne assalito da buoni
odori, cedro, ginepro, gelsomino, pesche ed erba fresca. L’aroma
che veniva dalla caverna catturò più di tutto la sua attenzione, come
spezzatino di manzo sul fuoco. Iniziò a dirigersi verso l’entrata.
Seriamente, come poteva non farlo? Si fermò quando notò la
ragazza. Era inginocchiata nel suo giardino di verdure, e dava la
schiena a Leo. Borbottava qualcosa tra se e se mentre scavava
furiosamente con una paletta. Leo le si avvicinò lateralmente così
che lei potesse vederlo. Non se la sentiva di prenderla di sorpresa
quando era armata con un affilato attrezzo da giardino. Lei
continuava a imprecare in greco antico e a pugnalare la terra. Aveva
macchie di terra sulle braccia, sulla faccia e sul vestito bianco, ma
non sembrava importarle. Leo apprezzava la cosa. Aveva un aspetto
migliore con un po’ di terra, assomigliava meno a una reginetta di
bellezza e più a una persona alla quale piaceva sporcarsi le mani.
“Credo che abbia punito quella terra abbastanza,” tentò lui. Lei lo
guardò imbronciata, con gli occhi rossi e lucidi. “Va via.” “Stai
piangendo,” disse lui, cosa che era stupidamente ovvia; ma vederla
in quel modo tolse il vento alle lame del suo elicottero, tanto per dire.
Era difficile rimanere arrabbiati con qualcuno che piangeva. “Non
sono affari tuoi,” borbottò lei. “E’ un’isola grande. Trova… trovati un
posto tuo. Lasciami da sola.” Agitò la mano senza interesse,
indicando verso sud. “Magari puoi andare da quella parte.” “Quindi,
nessuna zattera magica,” disse Leo. “Non c’è un altro modo per
andarsene?” “A quanto pare no!” “Cosa dovrei fare, allora? Sedermi
sulla sabbia finché non muoio?” “Quello andrebbe bene…” La
ragazza lanciò per terra la sua paletta e imprecò verso il cielo. “Solo
che immagino che lui non possa morire qui, non è così? Zeus! Non è
divertente!” Non può morire qui? “Frena.” La testa di Leo girava
come un’elica. Non riusciva a tradurre perfettamente quello che
stava dicendo quella ragazza, come quando ascoltava gli spagnoli o
i sudamericani parlare spagnolo. Sì, riusciva a capirli, più o meno;
ma suonava così diverso, che sembrava quasi un’altra lingua. “Mi
servirà qualche altra informazione,” disse. “Non vuoi avermi tra i
piedi, va bene. Nemmeno io voglio essere qui. Ma non andrò in un
angolo a morire. Devo andare via da quest’isola. Ci deve essere un
modo. Ogni problema può essere risolto.” Lei fece una risata amara.
“Non hai vissuto molto, se lo credi ancora.” Il tono con cui lo disse gli
mandò un brivido lungo la schiena. Sembrava avere la sua stessa
età, ma si chiese quanti anni avesse davvero. “Hai detto qualcosa
riguardo una maledizione,” la incitò. Lei flesse le dita, come se si
stesse allenando sulla sua tecnica di strangolamento. “Sì. Non
posso lasciare Ogigia. Mio padre, Atlante, combatté contro gli dei, ed
io lo sostenni.” “Atlante,” disse Leo. “Del tipo Atlante il Titano?” La
ragazza mandò gli occhi al cielo. “Sì, impossibile, piccolo…”
Qualsiasi cosa stesse per dire, se la rimangiò. “Fui imprigionata qui,
dove non potevo creare guai agli dei dell’Olimpo. Circa un anno fa,
dopo la Seconda Guerra dei Titani, gli dei giurarono di perdonare i
loro nemici e di offrire l’amnistia. Apparentemente Percy gli fece
promettere…“ “Percy,” disse Leo. “Percy Jackson?” Lei chiuse gli
occhi. Una lacrima le corse sulla guancia. Oh, pensò Leo. “Percy è
venuto qui,” disse. Lei scavò le dita nel terreno. “Pensavo… pensavo
che sarei stata liberata. Ho osato sperare… ma sono ancora qui.”
Adesso Leo si ricordava. La storia doveva essere un segreto, ma
ovviamente ciò voleva dire che si era diffusa come un incendio in un
campo. Percy l’aveva detto ad Annabeth. Mesi più tardi, quando
Percy era sparito, Annabeth l’aveva detto a Piper. Piper l’aveva detto
a Jason… Percy aveva parlato di essere stato su quell’isola. Aveva
incontrato una dea che si era presa un’enorme cotta per lui e voleva
che restasse, ma alla fine lo aveva lasciato andare. “Tu sei quella
ragazza,” disse Leo. “Quella con il nome da musica Caraibica.” I suoi
occhi luccicarono con sguardo assassino. “Musica Caraibica.” “Sì.
Reggae?” Leo scosse la testa. “Merengue? Aspetta, ci sono.”
Schioccò le dita. “Calypso! Ma Percy ha detto che eri fantastica. Ha
detto che eri tutta dolce e disponibile, non, um…” Lei si alzò di
scatto. “Sì?” “Uh, niente,” disse Leo. “Tu saresti dolce,” chiese, “se
gli dei si dimenticassero della loro promessa di lasciarti andare? Tu
saresti dolce se ti prendessero in giro mandandoti un altro eroe, ma
un eroe che è come… come te?” “E’ una domanda a trabocchetto?”
“Di Immortales!” Si voltò e marciò verso la sua grotta. “Ehi!” Leo le
corse dietro. Quando entrò, perse il filo dei pensieri. Le pareti erano
fatte di pezzi di cristallo multicolore. Delle tende bianche dividevano
la caverna in stanze diverse con comodi cuscini, tappeti intrecciati e
vassoi di frutta fresca. Intravide un’arpa in un angolo, un telaio in un
altro, e una grossa pentola dove stava bollendo lo spezzatino,
riempiendo la caverna con un profumo delizioso. La cosa più strana
di tutte? Le faccende si stavano facendo da sole. Degli asciugamani
volavano in aria, piegandosi e impilandosi in pile ordinate. Le posate
si lavavano da sole in un lavandino di rame. La scena ricordava a
Leo gli spiriti del vento invisibili che gli avevano servito il pranzo al
Campo Giove. Calypso si trovava accanto a un lavabo, intenta a
levarsi la terra dalle braccia. Guardò imbronciata verso Leo, ma non
gli urlò di andarsene. Sembrava che stesse perdendo l’energia per
rimanere arrabbiata. Leo si schiarì la gola. Se voleva avere qualche
tipo di aiuto da quella ragazza, doveva essere gentile. “Quindi…
capisco perché sei arrabbiata. Probabilmente non vorrai vedere mai
più un semidio. Immagino che non sia stato carino quando, uh,
Percy ti ha lasciata…“ “Lui è stato solo l’ultimo,” ringhiò. “Prima di lui,
ci fu quel pirata Drake. E prima di lui Odisseo. Erano tutti uguali! Gli
dei mi mandano gli eroi più grandi, coloro dei quali non posso fare a
meno di…” “Ti innamori di loro,” indovinò Leo. “E poi loro ti lasciano.”
Il suo mento tremò. “Questa è la mia maledizione. Avevo sperato
che ormai ne sarei stata liberata, ma eccomi qui, ancora bloccata su
Ogigia dopo tremila anni.” “Tremila.” La bocca di Leo stava
formicolando, come se avesse appena mangiato le caramelle
frizzanti. “Uh, hai un bell’aspetto per avere tremila anni.” “E
adesso… l’insulto peggiore di tutti. Gli dei si prendono gioco di me
mandandomi te.” La rabbia ribollì nella pancia di Leo. Sì, tipico. Se
Jason fosse stato lì, Calypso si sarebbe immediatamente
innamorata di lui. Lo avrebbe implorato di rimanere, ma lui avrebbe
fatto tutto il nobile sul dover tornare alle sue responsabilità, e
avrebbe lasciato Calypso con il cuore spezzato. Quella zattera
magica per lui sarebbe arrivata di sicuro. Ma Leo? Lui era l’ospite
irritante del quale non poteva sbarazzarsi. Non si sarebbe mai
innamorata di lui, perché lei era totalmente fuori dalla sua portata.
Non che la cosa gli importasse. Non era comunque il suo tipo. Era
fin troppo seccante, e bella, e, bè, non importava. “Bene,” disse. “Ti
lascerò da sola. Mi costruirò qualcosa per conto mio e me ne andrò
da questa stupida isola senza il tuo aiuto.” Lei scosse la testa
tristemente. “Non capisci, non è vero? Gli dei si stanno prendendo
gioco di tutti e due. Se la zattera non compare, ciò vuol dire che
hanno chiuso Ogigia. Sei bloccato qui proprio come me. Non potrai
mai andartene.”
51

LEO

I primi giorni furono i peggiori. Leo dormì all’aperto sotto le stelle, su


un letto fatto di vestiti usati. Durante la notte faceva freddo, persino
sulla spiaggia nel periodo estivo, così si accese un falò con i resti del
tavolo da pranzo di Calypso. La cosa lo rallegrò un po’. Durante il
giorno, camminava lungo il perimetro dell’isola e non trovò nulla di
interessante, a meno che non ti piacessero le spiagge e il mare che
si estendeva all’infinito in ogni direzione. Cercò di inviare un
messaggio Iride negli arcobaleni che si formavano negli spruzzi del
mare, ma senza nessun successo. Non aveva delle dracme per fare
l’offerta, e apparentemente la dea Iride non era interessata in
nocciole e viti. Non sognava nemmeno, cosa insolita per lui, o per
qualsiasi semidio, quindi non aveva idea di quello che stesse
succedendo nel mondo esterno. I suoi amici si erano sbarazzati di
Chione? Lo stavano cercando, o erano salpati verso Epiro per
completare l’impresa? Non era nemmeno certo per che cosa
dovesse sperare. Il sogno che aveva fatto sull’Argo II finalmente
aveva senso, quando la strega malvagia gli aveva detto di scegliere
se saltare dal dirupo, o discendere in un buio tunnel da dove
provenivano delle spettrali voci sussurranti. Quel tunnel doveva
simboleggiare la Casa di Ade, che adesso Leo non avrebbe mai
visto. Aveva preso la strada del dirupo al suo posto, cadendo dal
cielo per atterrare su quella stupida isola. Ma nel suo sogno, Leo
aveva avuto una scelta. Nella vita reale, non ne aveva avuta
nessuna. Chione l’aveva semplicemente sollevato dalla sua nave e
sparato in orbita. Completamente sleale. La parte peggiore
dell’essere bloccato lì? Stava perdendo il conto dei giorni. Una
mattina si era svegliato senza essere in grado di ricordarsi se si
trovava su Ogigia da tre o quattro notti. Calypso non era di grande
aiuto. Leo l’aveva affrontata nel giardino, ma lei si era limitata a
scuotere la testa. “Il tempo qui è difficile.” Fantastico. Per quanto ne
poteva sapere Leo, nel mondo reale era passato un secolo, e la
guerra con Gea si era conclusa, in qualsiasi modo fosse finita. O
magari si trovava su Ogigia solo da cinque minuti. Magari lì tutta la
sua vita sarebbe potuta trascorrere nel tempo che i suoi amici
sull’Argo II impiegavano a fare colazione. In ogni caso, doveva
andare via da quell’isola. Calypso si impietosì di lui, in un certo
senso. Mandò i suoi servi invisibili a lasciare delle ciotole di
spezzatino e calici di sidro di mela al confine del giardino. Gli fece
mandare persino qualche cambio di vestiti, semplici pantaloni e
magliette bianche di cotone che doveva aver fatto lei con il suo
telaio. Gli stavano così bene addosso, che Leo si chiese come
avesse fatto a indovinare le sue misure. Forse aveva semplicemente
usato le dimensioni standard per il MASCHIO PELLE E OSSA. Ad
ogni modo, era contento di avere dei nuovi capi, visto che quelli
vecchi erano abbastanza puzzolenti e ridotti in cenere. Solitamente
Leo riusciva a impedire ai suoi vestiti di bruciare quando prendeva
fuoco, ma ci voleva concentrazione. A volte, quando si trovava al
campo, se non ci stava pensando, mentre lavorava su qualche
progetto di metallo accanto alla fucina calda, abbassava lo sguardo
e si ritrovava con i vestiti completamente bruciati, fatta eccezione per
la sua cintura degli attrezzi magica e un fumante paio di mutande.
Piuttosto imbarazzante. Nonostante i suoi doni, Calypso non lo
voleva chiaramente vedere. Una volta aveva infilato la testa nella
grotta e lei aveva dato in escandescenza, urlandogli e lanciandogli
vasi contro la testa. Già, lei faceva senza dubbio parte del Team
Leo. Finì con l’allestire un campo più permanente accanto al
sentiero, dove la spiaggia incontrava le colline. In quel modo era
abbastanza vicino da prendere i suoi pasti, ma Calypso non era
costretta a vederlo ed entrare in modalità lancia-vasi. Si costruì da
solo una tettoria fatta di legnetti e tela. Scavò una fossa per il falò.
Riuscì persino a costruirsi una panchina e un tavolo da lavoro con
qualche pezzo di legno e dei rami di cedro morti. Passava ora dopo
ora ad aggiustare la sua sfera di Archimede, a pulirla e a riparare i
suoi circuiti. Si creò una bussola, ma l’ago ruotava come un pazzo,
non importava quello che provava lui. Leo indovinò che anche un
GPS sarebbe stato inutile. Quell’isola era stata progettata per
rimanere fuori dalle mappe, impossibile da lasciare. Si ricordò
dell’antico astrolabio di bronzo che aveva preso a Bologna, quello
che, gli avevano detto i nani, aveva creato Odisseo. Aveva uno
strisciante sospetto che Odisseo stesse pensando a quell’isola
quando l’aveva costruito, ma sfortunatamente Leo l’aveva lasciato
sulla nave con Buford il Tavolo delle Meraviglie. Inoltre, i nani gli
avevano detto che l’astrolabio non funzionava. C’era qualcosa
riguardante dei cristalli mancanti… Passeggiò sulla spiaggia,
chiedendosi perché Chione lo aveva spedito là, presumendo che il
suo atterraggio lì non fosse stato una casualità. Perché non l’aveva
semplicemente ucciso? Forse Chione voleva vederlo bloccato in un
limbo per l’eternità. Magari lei sapeva che gli dei erano troppo
distratti per prestare attenzione a Ogigia, e per questo la magia
dell’isola era rotta. Quello poteva essere il motivo per cui Calypso
era ancora bloccata là, e perché la zattera magica non fosse
apparsa per portare via Leo. O forse la magia in quel luogo stava
funzionando alla perfezione. Gli dei punivano Calypso mandandole
muscolosi tipi coraggiosi che andavano via non appena lei si
innamorava di loro. Forse era quello il problema, Calypso non si
sarebbe mai innamorata di Leo. Lei voleva che lui se ne andasse.
Quindi erano bloccati in un circolo vizioso. Se quello era il piano di
Chione… wow. Subdola a livelli estremi. Poi una mattina fece una
scoperta, e le cose si fecero ancora più complicate. Leo stava
camminando tra le colline, seguendo un piccolo torrente che
scorreva tra due grandi alberi di cedro. Gli piaceva quella zona, era
l’unico posto su Ogigia da dove non riusciva a vedere il mare, così
poteva fare finta di non essere bloccato su un’isola. All’ombra degli
alberi, si sentiva quasi come se fosse di nuovo al Campo
Mezzosangue, diretto nella foresta verso il Bunker Nove. Saltò oltre
il piccolo fiume. Invece di atterrare sulla terra morbida, i suoi piedi
colpirono qualcosa di molto più duro. CLANG. Metallo. Emozionato,
Leo scavò nel terriccio fino a che non vide il luccichio del bronzo.
“Oh, cavoli.” Ridacchiò come un matto mentre estraeva i pezzi. Non
aveva idea del perché quella roba si trovasse lì. Efesto gettava
sempre parti rotte dal suo laboratorio divino e cospargeva la terra di
rottami di metallo, ma quante possibilità c’erano che qualche pezzo
finisse su Ogigia? Leo trovò una manciata di cavi, qualche
ingranaggio storto, un pistone che forse poteva ancora funzionare, e
diversi fogli ammaccati di bronzo Celeste, il più piccolo grande come
un sottobicchiere, il più grosso grande come uno scudo da guerra.
Non era molto, non se paragonato al Bunker Nove, o persino alle
sue scorte a bordo dell’Argo II. Ma era più di semplice sabbia e
rocce. Alzò lo sguardo verso il sole, strizzando gli occhi attraverso i
rami di cedro. “Papà? Se li hai mandati qui per me, grazie. Se non
l’hai fatto… bè, grazie lo stesso.” Raggruppò i suoi tesori e li
trasportò al suo rifugio. Dopo quello, i giorni trascorsero più
velocemente, e con molto più rumore. Per prima cosa Leo si creò
una fucina fatta di mattoni di fango, tutti cotti con il fuoco delle sue
stesse mani ardenti. Trovò una grande roccia che poteva usare
come incudine di base, ed evocò dalla cintura dei chiodi finché non
ne ebbe abbastanza da scioglierli per creare un piatto di metallo per
martellare. Una volta fatto questo, iniziò a ricomporre i pezzi di
bronzo Celeste. Ogni giorno il suo martello risuonava sul bronzo
finché la sua incudine di roccia non si rompeva, o non gli si
piegavano le tenaglie, oppure si ritrovava a corto di legna. Ogni sera
crollava, zuppo si sudore e ricoperto di fuliggine; ma si sentiva
benissimo. Almeno stava lavorando, cercando di risolvere il suo
problema. La prima volta che Calypso si presentò da lui, fu per
lamentarsi del rumore. “Fumo e fuoco,” disse. “Batti sul metallo tutto
il giorno. Stai facendo scappare gli uccelli!” “Oh, no, gli uccelli no!”
brontolò Leo. “Cosa speri di ottenere?” Alzò lo sguardo e per poco
non si frantumò il pollice con il martello. Fissava il metallo e il fuoco
da così tanto tempo che si era dimenticato quanto fosse bella
Calypso. Bella in maniera irritante. Se ne stava lì con la luce del sole
tra i capelli, con la sua gonna bianca che le si gonfiava intorno alle
gambe, un cesto di grappoli d’uva e del pane fresco sotto il braccio.
Leo cercò di ignorare il suo stomaco brontolante. “Spero di andare
via da quest’isola,” disse. “E’ quello che vuoi, giusto?” Calypso si
imbronciò. Mise il cesto accanto alla sua coperta. “Non mangi nulla
da due giorni. Prenditi una pausa e mangia.” “Due giorni?” Leo non
se ne era nemmeno accorto, cosa che lo sorprese, perché a lui
piaceva il cibo. Fu persino più sorpreso dal fatto che l’avesse notato
Calypso. “Grazie,” borbottò. “Io, uh, cercherò di martellare più in
silenzio.” “Huh.” Non sembrava colpita. Dopo quella volta, non si
lamentò più del rumore o del fumo. La seconda volta che gli fece
visita, Leo stava apportando i tocchi finali al suo primo progetto. Non
si accorse che si stava avvicinando finché non parlo proprio alle sue
spalle. “Ti ho portato…“ Leo fece un salto, facendo cadere i suoi
cavi. “Per i tori di bronzo, ragazza! Non ti avvicinare di soppiatto
così!” Era vestita di rosso quel giorno, il colore preferito di Leo. La
cosa era completamente irrilevante. Il rosso le stava molto bene.
Altra cosa irrilevante. “Non mi stavo avvicinando di soppiatto,” disse
lei. “Ti stavo portando questi.” Gli mostrò i vestiti che aveva ripiegati
sul braccio: un nuovo paio di jeans, una maglietta bianca, un
giubbotto militare… un attimo, quelli erano i suoi vestiti, solo che non
era possibile. Il suo giubbotto mimetico originale era bruciato mesi
prima. Non lo stava indossando quando era atterrato su Ogigia. Ma i
vestiti che Calypso aveva in mano apparivano esattamente uguali ai
vestiti che aveva indossato il primo giorno in cui era arrivato al
Campo Mezzosangue, solo che questi sembravano più grandi,
ridimensionati per vestirlo meglio. “Come hai fatto?” chiese. Calypso
poggiò i vestiti ai suoi piedi e indietreggiò come se fosse una bestia
pericolosa. “Ho un po’ di magia, sai. Continui a bruciare tutti i vestiti
che ti do, così ho pensato che avrei potuto cucire qualcosa di meno
infiammabile.” “Questi non bruceranno?” Prese i jeans, ma
sembravano fatti del tipico tessuto di denim. “Sono completamente a
prova di fuoco,” assicurò Calypso. “Rimarranno puliti e si
ingrandiranno per adattarsi a te, se mai dovessi diventare meno
scheletrico.” “Grazie.” Voleva suonare sarcastico, ma era
onestamente colpito. Leo poteva fare un sacco di cose, ma dei
vestiti a prova di fuoco che si pulivano da soli non era una di quelle
cose. “Quindi… hai ricreato una replica esatta dei miei vestiti
preferiti. Mi hai, non so, cercato su Google o qualcosa del genere?”
Lei si accigliò. “Non conosco quella parola.” “Hai fatto una ricerca su
di me,” disse lui. “Quasi come se avessi qualche interesse per me.”
Lei arricciò il naso. “Ho interesse nel doverti fare dei nuovi capi ogni
giorno. Ho interesse nel non farti puzzare così tanto e farti
camminare in giro per la mia isola con stracci fumanti.” “Oh, sì.” Leo
sogghignò. “Ti stai davvero affezionando a me.” Il volto della ragazza
si fece persino più rosso. “Sei la persona più insopportabile che
abbia mai incontrato! Stavo solo restituendo un favore. Hai
aggiustato la mia fontana.” “Quella?” Leo rise. Il problema era stato
così semplice, che se ne era quasi dimenticato. Uno dei satiri di
bronzo era stato girato di lato e la pressione dell’acqua era assente,
così aveva iniziato a fare un irritante ticchettio, dondolando su e giù
e versando l’acqua sul bordo della vasca. Aveva preso un paio di
attrezzi e aggiustato il problema in circa due minuti. “Non è stata una
cosa impegnativa. Non mi piace quando le cose non funzionano nel
modo giusto.” “E le tende all’entrata della caverna?” “L’asta non era
livellata.” “E i miei attrezzi da giardino?” “Senti, ho solo affilato le
cesoie. Tagliare le erbacce con una lama smussata è pericoloso. E
le forbici da giardino dovevano essere oliate sul perno, e…“ “Oh, sì,”
disse Calypso, in un imitazione piuttosto buona della sua voce. “Ti
stai davvero affezionando a me.” Per una volta, Leo era senza
parole. Gli occhi di Calypso luccicarono. Sapeva che si stava
prendendo gioco di lui, ma in qualche modo non sembrava una cosa
cattiva. Lei indicò il suo tavolo da lavoro. “Cosa stai costruendo?”
“Oh.” Guardò lo specchio di bronzo, che aveva appena finito di
collegare alla sfera di Archimede. Sulla superficie lucida dello
schermo, il suo riflesso lo sorprese. I suoi capelli si erano fatti più
lunghi e ricci. La sua faccia era più magra e più incavata, forse
perché non mangiava. I suoi occhi erano scuri e un po’ feroci
quando non sorrideva, con un look un po’ alla Tarzan, se Tarzan
esisteva anche in versione Spagnolo extra-small. Non poteva
biasimare Calypso per essersi allontanata da lui. “Uh, è un
dispositivo per vedere,” disse. “Ne abbiamo trovato uno del genere a
Roma, nel laboratorio di Archimede. Se riesco a farlo funzionare,
forse posso scoprire quello che sta succedendo ai miei amici.”
Calypso scosse la testa. “E’ impossibile. Questa isola è nascosta,
tagliata fuori dal mondo da magia potente. Il tempo qui non scorre
nemmeno nello stesso modo.” “Bè, devi avere qualche tipo di
contatto con l’esterno. Come hai scoperto che avevo un giubbotto
militare?” Lei giocherellò con i capelli come se la domanda la
mettesse a disagio. “Vedere il passato è una magia semplice.
Vedere il presente o il futuro, quella non lo è.” “Sì, bè,” disse Leo.
“Guarda e impara, Raggio di Sole. Devo solo collegare questi ultimi
due cavi, e…“ Il piatto di bronzo mandò delle scintille. Del fumo si
alzò dalla sfera. Una fiammata improvvisa salì lungo la manica di
Leo. Lui si levò la maglietta, la gettò a terra, e ci saltò sopra. Capiva
che Calypso stava cercando di non ridere, ma tremava dallo sforzo.
“Non dire una parola,” avvertì Leo. Lei guardò il suo petto nudo, che
era sudato, ossuto, e attraversato da antiche cicatrici causate da
incidenti avvenuti durante la costruzione di varie armi. “Nulla sul
quale valga la pena commentare,” lo assicurò lei. “Se vuoi che quel
dispositivo funzioni, magari dovresti provare con un’invocazione
musicale.” “Giusto,” disse lui. “Ogni volta che una macchina non
funziona, mi piace ballarle il tiptap intorno. Funziona ogni volta.” Lei
fece un respiro profondo e iniziò a cantare. La sua voce lo colpì
come una brezza fresca, come il primo fronte freddo in Texas
quando il caldo dell’estate finalmente scendeva e tu iniziavi a
credere che le cose sarebbe potute migliorare. Leo non riusciva a
capire le parole, ma la canzone era malinconica e agrodolce, come
se stesse descrivendo una casa alla quale non poteva tornare. Il suo
canto era magico, nessun dubbio in merito. Ma non era come la
voce incantatrice di Medea, o nemmeno come la lingua ammaliatrice
di Piper. La musica non voleva nulla da lui. Gli ricordava
semplicemente dei suoi ricordi più belli, costruire le cose con sua
madre nel suo laboratorio; stare seduto al sole con i suoi amici al
campo. Gli faceva sentire la mancanza di casa. Calypso smise di
cantare. Leo si rese conto che la stava fissando come un’idiota.
“Funziona?” chiese lei. “Uh…” Obbligò i suoi occhi a tornare sullo
specchio di bronzo. “Nulla. Aspetta…” Lo schermo brillò. Nell’aria
sopra di esso, delle immagini olografiche brillarono di vita. Leo
riconobbe il Campo Mezzosangue. Non c’erano suoni, ma Clarisse
LaRue della cabina di Ares stava gridando degli ordini ai
campeggiatori, posizionandoli in file ordinate. I fratelli di Leo della
Cabina Nove si affaccendavano tra i ranghi, distribuendo a tutti le
armature e le armi. Persino il centauro Chirone era vestito per la
battaglia. Trottava avanti e indietro di fronte ai ranghi, con l’elmo
piumato che luccicava, le zampe coperte da gambali di bronzo. Il
suo solito sorriso amichevole non c’era più, sostituito da una seria
espressione determinata. In lontananza, alcune trireme greche
galleggiavano sul Long Island Sound, allestite per la guerra. Lungo
le colline, le catapulte stavano venendo caricate. I satiri
pattugliavano i campi, e i cavalieri sui pegasi volavano in cerchio, in
allerta contro gli attacchi aerei. “I tuoi amici?” chiese Calypso. Leo
annuì. Si sentiva il volto inerte. “Si stanno preparando per la
battaglia.” “Contro chi?” “Guarda,” disse Leo. La scena mutò. Una
falange di semidei romani marciava attraverso una vigna illuminata
dalla luna. Un cartellone illuminato in lontananza diceva: AZIENDA
VINICOLA GOLDSMITH. “Ho già visto quell’insegna,” disse Leo.
“Non è lontano dal Campo Mezzosangue.” Improvvisamente i ranghi
dei romani deteriorarono nel caos. I semidei si sparpagliarono.
Caddero gli scudi. I giavellotti venivano agitati selvaggiamente, come
se l’intero gruppo fosse passato su un formicaio. Alla luce della luna
sfrecciavano due piccole figure pelose vestite con capi spaiati e
cappelli appariscenti. Sembravano essere ovunque
contemporaneamente, a colpire i romani sulla testa, a rubare le loro
armi, a tagliare loro le cinture così che si ritrovassero con i pantaloni
alle caviglie. loro promessa.” Calypso si avvicinò allo schermo,
osservando i Cercopi. “Sono tuoi cugini?” “Ha, ha, ha, no,” disse
Leo. “Sono un paio di nani che ho incontrato a Bologna. Li ho
mandati a rallentare i romani, e lo stanno facendo.” “Ma per quanto
ancora?” chiese Calypso. Bella domanda. La scena mutò di nuovo.
Leo vide Ottaviano, quel biondo augure pelle e ossa buono a nulla.
Si trovava nel parcheggio di un benzinaio, circondato da SUV neri e
semidei romani. Teneva sollevata in alto una lunga asta avvolta da
lenzuola. Quando la scoprì, un’aquila dorata brillò alla sua estremità.
“Oh, non va bene,” disse Leo. “Uno stendardo romano,” notò
Calypso. “Già. E questo spara saette, secondo quello che ha detto
Percy.” Non appena pronunciò il nome di Percy, Leo se ne pentì.
Lanciò un’occhiata a Calypso. Capiva dai suoi occhi quanto stesse
lottando, cercando di ordinare le sue emozioni in chiare e ordinate
file come le righe sul suo telaio. Quello che sorprese Leo più di tutto
fu l’ondata di rabbia che provò. Non era semplice irritazione o
gelosia. Lui era infuriato con Percy per aver ferito quella ragazza.
Tornò a prestare attenzione alle immagini olografiche. Adesso
vedeva un cavaliere solitario, Reyna, il pretore del Campo Giove,
che volava attraverso una tempesta sulla schiena di un pegaso
marrone chiaro. I capelli scuri di Reyna si agitavano nel vento. Il suo
mantello viola si gonfiava dietro di lei, rivelando il luccichio della sua
armatura. Stava sanguinando da vari tagli sul volto e sulle braccia.
Gli occhi del suo pegaso erano selvaggi, la sua bocca spalancata
per la dura cavalcata; ma Reyna procedeva con costanza attraverso
la tempesta. Mentre Leo guardava, un grifone selvaggio si tuffò fuori
dalle nuvole. Affondò i suoi artigli nelle costole del cavallo, facendo
quasi cadere Reyna. Lei sguainò la sua spada e abbatté il mostro.
Pochi secondi dopo, apparvero tre venti, scuri spiriti dell’aria che si
agitavano come tornado in miniatura avvolti da saette. Reyna li
attaccò, facendo un urlo di sfida. Poi lo specchio di bronzo si fece
scuro. “No!” gridò Leo. “No, non adesso. Mostrami cosa è successo!”
Sbatté la mano sullo specchio. “Calypso, puoi cantare di nuovo?” Lei
lo fissò. “Immagino che quella sia la tua ragazza? La tua Penelope?
La tua Elisabetta? La tua Annabeth?” “Cosa?” Leo non riusciva
capire quella ragazza. La metà delle cose che diceva non aveva
senso. “Quella è Reyna. Non è la mia ragazza! Ho bisogno di vedere
altro! Ho bisogno…“ AVERE BISOGNO, rombò una voce dalla terra
sotto i suoi piedi. Leo barcollò, sentendosi improvvisamente come in
bilico sul bordo di un trampolino. AVERE BISOGNO è una parola
abusata. Una vorticante figura umana eruttò dalla sabbia, la dea
meno preferita di Leo, la Signora del Fango, la Principessa dei
Liquidi di Scarico, Gea in persona. Leo le lanciò contro un paio di
pinze. Sfortunatamente non era solida, e queste la attraversarono
innocue. I suoi occhi erano chiusi, ma non sembrava esattamente
addormentata. Aveva un sorriso sulla sua infernale faccia di polvere,
come se stesse ascoltando attentamente la sua canzone preferita. I
suoi vestiti sabbiosi si muovevano e l’avvolgevano, ricordando a Leo
le pinne ondeggianti su quello stupido mostro gamberzilla che
avevano combattuto nell’Atlantico. Secondo lui, però, Gea era più
brutta. Vuoi vivere, disse Gea. Vuoi tornare dai tuoi amici. Ma non
hai bisogno di questo, mio povero ragazzo. Non farebbe nessuna
differenza, i tuoi amici moriranno, in qualsiasi caso. Le gambe di Leo
tremavano. Detestava la cosa, ma ogni volta che quella strega gli
compariva davanti, lui si sentiva come se avesse di nuovo otto anni,
bloccato nell’ingresso dell’officina di sua madre, ad ascoltare la
calmante voce malvagia di Gea mentre sua madre era intrappolata
all’interno del magazzino in fiamme, a morire a causa del calore e
del fumo. “Quello di cui non ho bisogno,” ringhiò lui, “sono altre bugie
da parte tua, Faccia di Terra. Mi hai detto che il mio bisnonno era
morto negli anni Sessanta. Sbagliato! Mi hai detto che non sarei
riuscito a salvare i miei amici a Roma. Sbagliato! Mi hai detto un
sacco di cose.” La risata di Gea era un morbido rumore frusciante,
come terra che cadeva lungo una collina nei primi attimi di una
valanga. Ho cercato di aiutarti a fare delle scelte migliori. Avresti
potuto salvarti. Ma mi hai rifiutato ogni volta. Hai costruito la tua
nave. Hai intrapreso quella sciocca impresa. Adesso sei intrappolato
qui, senza aiuto, mentre il mondo mortale muore. Le mani di Leo
presero fuoco. Voleva fondere il volto sabbioso di Gea fino a farlo
diventare vetro. Poi sentì la mano di Calypso sulla sua spalla. “Gea.”
La sua voce era dura e ferma. “Non sei la benvenuta.” Leo desiderò
poter suonare sicuro come Calypso. Poi si ricordò che quell’irritante
quindicenne era in realtà la figlia immortale di un Titano. Ah,
Calypso. Gea alzò le braccia come se volesse abbracciarla. Ancora
qui, vedo, nonostante le promesse degli dei. Perché credi che sia
così, mia cara nipote? Gli dei dell’Olimpo ti hanno lasciata senza
nessuna compagnia eccetto questo piccolo stupido perché sono
malvagi? O ti hanno semplicemente dimenticata, perché non sei
degna del loro tempo? Calypso fissò direttamente attraverso la
faccia movente di Gea, verso l’orizzonte. Sì, mormorò Gea con
compassione. Gli dei dell’Olimpo sono privi di fede. Loro non danno
seconde possibilità, perché continui a sperare? Hai sostenuto tuo
padre, Atlante, nella sua grande guerra. Sapevi che gli dei dovevano
essere distrutti. Perché adesso esiti? Io ti offro una possibilità che
Zeus non ti darebbe mai. “Dove sei stata per questi ultimi tremila
anni?” chiese Calypso. “Se il mio destino ti sta così a cuore, perché
mi fai visita soltanto adesso?” Gea girò i palmi delle mani verso
l’alto. La terra è lenta. La guerra arriva con i suoi tempi. Ma non
credere che ti ignorerà stando su Ogigia. Quando ricreerò il mondo,
anche questa prigione sarà distrutta. “Ogigia distrutta?” Calypso
scosse la testa, come se non riuscisse a immaginare quelle due
parole insieme. Non devi essere qui quando accadrà, assicurò Gea.
Unisciti a me adesso, uccidi questo ragazzo, versa il suo sangue
sulla terra, e aiutami a svegliarmi. Io ti libererò ed esaudirò qualsiasi
desiderio. Libertà. Vendetta contro gli dei. Persino un premio.
Vorresti ancora avere il semidio Percy Jackson? Lo risparmierò per
te. Lo porterò via dal Tartaro. Sarà tuo perché tu lo possa punire o
amare, come desideri. Devi solo uccidere questo ragazzo che ha
sconfinato nel tuo territorio. Dimostra la tua fiducia. Diversi scenari
passarono nella mente di Leo, nessuno positivo. Era sicuro che
Calypso l’avrebbe strangolato seduta stante, o ordinato ai suoi servi
del vento invisibili di ridurlo in un purè alla Leo. Perché non avrebbe
dovuto? Gea le stava offrendo il patto di una vita, uccidi un ragazzo
irritante, nei ricevi uno stupendo in omaggio! Calypso tese la sua
mano verso Gea, facendo un gesto con tre dita alzate che Leo
riconobbe per averlo visto al Campo Mezzosangue: il gesto di
protezione dell’antica Grecia contro il male. “Questa non è solo la
mia prigione, Nonna. E’ casa mia. E sei tu quella che ha sconfinato
nel mio territorio.” Il vento mosse la figura di Gea facendola
dissolvere nell’aria, disperdendo la sabbia nel cielo blu. Leo deglutì.
“Uh, non prenderla nel modo sbagliato, ma perché non mi hai
ucciso? Sei matta?” Gli occhi di Calypso bruciavano di rabbia, ma
per una volta Leo non credeva che quella rabbia fosse diretta a lui. “I
tuoi amici devono avere bisogno di te, altrimenti Gea non avrebbe
chiesto la tua morte.” “Io, uh, sì. Immagino di sì.” “In questo caso
abbiamo del lavoro da fare,” disse lei. “Dobbiamo farti ritornare alla
tua nave.”
52

LEO

Leo pensava di aver lavorato sodo in passato. Quando Calypso


decideva di fare qualcosa, era come una macchina. Nel giro di un
giorno, aveva raggruppato abbastanza scorte per un viaggio di una
settimana, cibo, borracce d’acqua, erbe medicinali prese dal suo
giardino. Cucì una vela grande abbastanza per un piccolo yacht e
realizzò cordami a sufficienza per tutti i nodi. Fu così efficiente che il
secondo giorno chiese a Leo se aveva bisogno di una mano con il
suo progetto. Lui alzò lo sguardo dalla piattaforma dei circuiti che
stava lentamente assemblando insieme. “Se non sapessi la verità,
direi quasi che non vedi l’ora di sbarazzarti di me.” “Questo è un
vantaggio in più,” ammise lei. Era vestita in tenuta da lavoro, con un
paio di jeans e una maglietta bianca sporca. Quando lui le chiese del
cambio di guardaroba, lei sostenne che si era resa conto di quanto
fossero pratici quei capi dopo averli cuciti per Leo. Con i jeans, non
sembrava molto una dea. La sua maglietta era coperta da erba e
macchie di terra, come se fosse appena andata addosso una Gea di
terra vorticante. Aveva i piedi nudi. I capelli color cannella erano
legati all’indietro, il che le faceva sembrare gli occhi mandorla
persino più grandi e penetranti. Le mani erano ricoperte di calli e
vesciche per aver lavorato con il cordame. Guardandola, Leo avvertì
una sensazione pressante allo stomaco che non riuscì a spiegare.
“Allora?” lo incitò lei. “Allora… cosa?” Lei annuì vero l’ammasso di
fili. “Allora posso aiutare? Come sta andando?” “Oh, uh, va tutto
bene. Credo. Se riesco a collegare questa cosa alla nave, dovrei
essere in grado di tornare nel mondo.” “Adesso tutto quello di cui hai
bisogno è una nave.” Cercò di leggere la sua espressione. Non era
sicuro se fosse irritata dal fatto che fosse ancora là, o triste per il
fatto che non stesse per partire anche lei. Poi guardò tutte le scorte
che aveva accumulato, bastavano senza problemi per due persone
e sarebbero durate diversi giorni. “Quello che ha detto Gea…” Esitò.
“Del fatto che potevi andare via dall’isola. Vorresti provarci?” Lei si
accigliò “Cosa vuoi dire?” “Bè… non sto dicendo che sarebbe
divertente averti intorno, sempre a lamentarti e a fissarmi male e
cose così. Ma suppongo che potrei sopportarlo, se volessi provare.”
La sua espressione si ammorbidì appena. “Come sei nobile,”
borbottò lei. “Ma no, Leo. Se provassi a venire con te, le tue
minuscole possibilità di riuscire a fuggire si annullerebbero del tutto.
Gli dei hanno messo dell’antica magia su quest’isola per tenermi qui.
Un eroe può andarsene. Io non posso. La cosa più importante è
liberare te così che tu possa fermare Gea. Non che mi importi
qualcosa di quello che ti accade,” aggiunse velocemente. “Ma il
destino del mondo è a rischio.” “Perché ti dovrebbe importare?”
chiese Leo. “Cioè, dopo essere stata lontana dal mondo per così
tanto tempo?” Lei inarcò le sopracciglia, come se fosse sorpresa che
lui avesse fatto una domanda così sensata. “Immagino che sia
perché non mi piace quando mi dicono cosa devo fare, che si tratti di
Gea o di qualsiasi altra persona. Per quanto io detesti gli dei qualche
volta, durante gli ultimi tremila anni sono arrivata a vedere che sono
migliori dei Titani. Sono senza dubbio migliori dei giganti. Almeno gli
dei mantengono i contatti. Hermes è sempre stato gentile con me. E
tuo padre, Efesto, mi ha fatto spesso visita. E’ una brava persona.”
Leo non sapeva come comportarsi con il suo tono distante. Suonava
quasi come se stesse riflettendo sul suo valore, non su quello di suo
padre. Lei allungò un braccio e gli chiuse la bocca. Non si era
accorto che la stava tenendo aperta. “Adesso,” disse Calypso,
“come posso aiutare?” “Oh.” Fissò il suo progetto, ma quando parlò,
buttò fuori un’idea che si era formata fin da quando Calypso gli
aveva creato i suoi nuovi vestiti. “Sai quel tessuto a prova di fuoco?
Credi di potermi fare un piccolo sacchettino fatto con quel tessuto?”
Le descrisse le dimensioni. Calypso agitò la mano con fare
impaziente. “Ci vorrà solo qualche minuto per quello. Aiuterà
l’impresa?” “Sì. Potrebbe salvare una vita. E, um, potresti staccare
un pezzetto di cristallo dalla tua grotta? Non me ne serve molto.” Lei
aggrottò le sopracciglia. “Questa è una richiesta strana.” “Per
favore.” “Va bene. Consideralo fatto. Farò il sacchetto a prova di
fuoco questa sera con il telaio, quando mi sarò ripulita. Ma cosa
posso fare adesso, mentre ho ancora le mani sporche?” Alzò le dita
callose e ricoperte di terra. Leo non poté fare a meno di pensare che
non ci fosse niente di più attraente di una ragazza a cui non
importava di sporcarsi le mani. Ma ovviamente, quella era solo una
considerazione generale. Non valeva per Calypso. Ovviamente.
“Bè,” disse, “potresti piegare qualche altro rocchetto di bronzo. Ma è
un lavoro piuttosto tecnico…“ Lei lo spinse per sedersi accanto a lui
sulla panchina e si mise al lavoro, con le mani che intrecciavano i
cavi di bronzo più veloce di quanto fosse capace lui. “E’ come
tessere,” disse. “Non è così difficile.” “Huh,” disse Leo. “Bè, se andrai
mai via da quest’isola e vorrai un lavoro, fammelo sapere. Non sei
una tonta totale.” Lei fece un sorriso furbo. “Un lavoro, eh? Creare
cose nella tua fucina?” “Nah, potremmo aprire il nostro negozio
personale,” disse Leo, sorprendendo se stesso. Aprire un’officina era
sempre stato uno dei suoi sogni, ma non l’aveva mai detto a
nessuno. “Il Garage di Leo e Calypso: Riparazione di Auto e Mostri
Meccanici.” “Frutta fresca e verdure,” propose Calypso. “Sidro e
spezzatino,” aggiunse Leo. “Potremmo persino offrire
dell’intrattenimento. Tu potresti cantare ed io potrei, tipo, prendere
fuoco all’improvviso.” Calypso rise, un suono chiaro e felice che fece
fare dei salti mortali al cuore di Leo. “Vedi,” disse lui, “sono
divertente.” Lei riuscì a uccidere il suo sorriso. “Non sei divertente.
Adesso, rimettiti al lavoro, o niente sidro e spezzatino.” “Sì, signora,”
disse lui. Lavorarono in silenzio, uno affianco all’altra, per tutto il
resto del pomeriggio. Due sere più tardi, la console di comando era
terminata. Leo e Calypso si sedettero sulla spiaggia, accanto al
punto in cui Leo aveva distrutto il tavolo da pranzo, e cenarono
insieme facendo un picnic. La luna piena faceva diventare le onde
d’argento. Il loro falò mandava scintille arancioni nel cielo. Calypso
indossava una maglietta bianca pulita e i suoi jeans, dove
apparentemente aveva deciso di vivere. Dietro di loro tra le dune, le
scorte erano state attentamente raggruppate e pronte per essere
caricate. “Tutto quello di cui abbiamo bisogno adesso è una nave,”
disse Calypso. Leo annuì. Cercò di non soffermarsi sull’uso al
plurale che aveva fatto del verbo. Calypso aveva fatto capire
chiaramente che non sarebbe andata con lui. “Posso iniziare a
tagliare il legno domani,” disse Leo. “Qualche giorno, e ne avremo
abbastanza per un piccolo scafo.” “Hai già fatto una nave in
passato,” ricordò Calypso. “La tua Argo II.” Leo annuì. Pensò a tutti
quei mesi che aveva passato a costruire l’Argo II. In qualche modo,
l’idea di fare una barca per andare via da Ogigia gli sembrava una
prova molto più intimidente. “Quindi quanto ci vorrà prima che tu
parta?” Il tono di Calypso era noncurante, ma lei non voleva
incontrare il suo sguardo. “Uh, non ne sono sicuro. Un’altra
settimana?” Per qualche ragione, dirlo faceva sentire Leo meno
agitato. Quando era arrivato là, non vedeva l’ora di andarsene.
Adesso, era contento di avere ancora qualche giorno di tempo.
Strano. Calypso fece scorrere le dita sulla console di comando
ultimata. “Ci è voluto così tanto per fare questo.” “Non si può mettere
fretta alla perfezione.” Un sorriso si formò all’angolo della sua bocca.
“Sì, ma funzionerà?” “Per andare via, nessun problema,” disse Leo.
“Ma per tornare avrò bisogno di Festus e…“ “Cosa?” Leo sbatté le
palpebre. “Festus. Il mio drago di bronzo. Quando avrò capito come
fare a ricostruirlo, allora…“ “Mi hai raccontato di Festus,” disse
Calypso. “Ma cosa vuoi dire tornare?” Leo fece un sorriso nervoso.
“Bè… tornare qui, no? Sono certo che l’avevo detto.” “Sono certa
che non l’hai fatto.” “Non ti lascerò qui! Dopo che tu mi hai aiutato e
tutto il resto? Ovvio che tornerò. Quando avrò ricostruito Festus, lui
sarà in grado di reggere un sistema di guida migliorato. C’è questo
astrolabio che io, uh…” Si fermò, decidendo che era meglio non
parlare del fatto che era stato costruito da una delle vecchie fiamme
di Calypso. “…che ho trovato a Bologna. In ogni modo, credo che
con quel cristallo che mi hai dato…“ “Non puoi tornare,” insistette
Calypso. Il cuore di Leo sprofondò. “Perché non sono il benvenuto?”
“Perché non puoi. E’ impossibile. Nessun uomo trova Ogigia due
volte. E’ questa la regola.” Leo mandò gli occhi al cielo. “Sì, bè, avrai
notato che non sono bravo a seguire le regole. Tornerò qui con il mio
drago, e ti faremo evadere. Ti poteremo dovunque tu voglia andare.
E’ giusto così.” “Giusto…” La voce di Calypso era a malapena
udibile. Alla luce del fuoco, i suoi occhi apparivano così tristi, che
Leo non riusciva a sopportarli. Credeva che le stesse mentendo solo
per farla sentire meglio? Lui pensava che fosse una cosa dovuta
tornare indietro e liberarla dalla sua isola. Come avrebbe potuto non
farlo? “Non crederai davvero che possa aprire il Garage di Leo e
Calypso senza Calypso, non è così?” chiese. “Non so fare il sidro e
lo spezzatino, e di certo non so cantare.” Lei fissò la sabbia. “Bè,
comunque,” disse Leo, “domani inizierò a lavorare la legna. E tra
qualche giorno…” Guardò verso l’acqua. Qualcosa stava
sobbalzando sulle onde. Leo guardò sbigottito mentre una grande
zattera di legno fluttuava verso di loro sulla cresta di un’onda e
scivolava fino a fermarsi sulla spiaggia. Leo era troppo stordito per
muoversi, ma Calypso saltò in piedi. “Sbrigati!” Si lanciò sulla
spiaggia, afferrò qualche sacca delle scorte, e corse per metterle
sulla zattera. “Non so per quanto tempo rimarrà!” “Ma…” Leo si mise
in piedi. Le sue gambe sembravano essere diventate di roccia. Si
era appena convinto di avere un’altra settimana da passare su
Ogigia. Adesso non aveva nemmeno il tempo di finire la cena.
“Questa è la zattera magica?” “Ma va!” gridò Calypso. “Potrebbe
funzionare come deve e portarti dove vuoi andare. Ma non possiamo
esserne sicuri. La magia dell’isola è ovviamente instabile. Dovrai
attivare il tuo dispositivo di guida per navigare.” Raccolse la console
da terra e corse verso la zattera, cosa che smosse Leo. L’aiutò ad
assicurarla alla zattera e fecero passare i cavi intorno al piccolo
timone a poppa. La zattera era già dotata di un albero, quindi Leo e
Calypso issarono la loro vela a bordo e iniziarono a lavorare sui
cordami. Lavorarono fianco a fianco in perfetta armonia. Persino tra i
campeggiatori di Efesto, Leo non aveva mai lavorato con qualcuno
così intuitivo come quella ragazza giardiniera immortale. In
pochissimo tempo, avevano sistemato la vela e portato a bordo tutte
le scorte. Leo premette i bottoni sulla sfera di Archimede, borbottò
una preghiera a suo padre, Efesto, e la console di bronzo Celeste si
accese ronzando. I cordami si strinsero, la vela si girò. La zattera
iniziò a grattare contro la sabbia, tesa nello sforzo di raggiungere le
onde. “Vai,” disse Calypso. Leo si voltò. Era così vicina che lui non
poteva sopportarlo. Odorava di cannella e fumo di legna, e lui pensò
che non avrebbe sentito mai più un odore così buono. “La zattera è
arrivata, alla fine,” disse. Calypso sbuffò. Forse aveva gli occhi rossi,
ma era difficile da capire alla luce della luna. “Te ne sei appena
accorto?” “Ma se si presenta solo per i ragazzi che ti piacciono…“
“Non forzare la tua fortuna, Leo Valdez,” disse. “Ti detesto ancora.”
“Okay.” “E non tornerai qui,” insistette lei. “Quindi non farmi nessuna
promessa vuota.” “Che ne dici di una promessa piena?” disse lui.
“Perché ho tutta l’intenzione…“ Lei gli prese il volto tra le mani e lo
avvicinò per baciarlo, cosa che lo zittì con efficienza. Nonostante tutti
i suoi scherzi e flirt, Leo non aveva mai baciato una ragazza prima.
Bè, dei bacetti fraterni sulla guancia con Piper, ma quelli non
contavano. Questo era un vero bacio, con contatto completo. Se Leo
avesse avuto degli ingranaggi e dei cavi nella testa, sarebbero
andati in corto circuito. Calypso lo spinse via. “Questo non è
successo.” “Okay.” La sua voce suonava di un ottava più alta del
normale. “Vai via da qui.” “Okay.” Lei si voltò, asciugandosi
furiosamente gli occhi, e corse lungo la spiaggia, con la brezza che
le arruffava i capelli. Leo voleva chiamarla, ma la vela catturò tutta la
forza del vento, e la zattera si allontanò dalla spiaggia. Lui si affrettò
per allineare la console di guida. Quando Leo si guardò indietro,
l’isola di Ogigia era una linea scura in lontananza, con il loro falò che
pulsava come un minuscolo cuore arancione. Le sue labbra stavano
ancora formicolando per il bacio. Non è successo, si disse. Non
posso essere innamorato di una ragazza immortale. Lei senza
dubbio non può essere innamorata di me. Impossibile. Mentre la
zattera scivolava sull’acqua, riportandolo nel mondo mortale,
comprese meglio uno dei versi della Profezia, con l’ultimo fiato un
giuramento si dovrà mantenere. Capiva quanto potessero essere
pericolosi i giuramenti. Ma a Leo non importava. “Tonerò per te,
Calypso,” disse al vento della notte. “Lo giuro sul Fiume Stige.”
53

ANNABETH

Annabeth non aveva mai avuto paura del buio. Ma normalmente il


buio non era alto dodici metri. Non aveva ali nere, una frusta fatta di
stelle, e un carro ombroso trainato da cavalli vampiri. Notte era quasi
troppo per essere elaborata interamente. Incombeva sopra l’abisso,
una figura fatta di vorticante cenere e fumo, grande come la statua
dell’Atena Partenos, ma molto più viva. Il suo vestito era nero come
il vuoto, mischiato con i colori di una nebulosa stellare, come se nel
suo bustino stessero nascendo delle galassie. Il suo volto era difficile
da vedere fatta eccezione per i punti dei suoi occhi, che brillavano
come quasar. Quando sbatteva le ali, delle ondate di oscurità
rotolavano sul precipizio, facendo sentire Annabeth pesante e
assonnata, offuscandole la vista. Il carro della dea era fatto dello
stesso materiale della spada di Nico di Angelo, ferro di Stige,
trainato da due enormi cavalli, interamente neri fatta eccezione per
le affilate zanne argentate. Le gambe delle creature fluttuavano
sopra l’abisso, passando dal solido al fumo mentre si muovevano. I
cavalli ringhiarono e scoprirono le zanne verso Annabeth. La dea
agitò la sua frusta, un sottile filo di stelle simili a diamanti, e i cavalli
si impennarono sulle zampe posteriori. “No, Buio,” disse la dea. “Giù,
Ombra. Questi piccoli premi non sono per voi.” Percy guardò i cavalli
mentre questi nitrivano. Era ancora avvolto dalla Foschia di Morte,
quindi sembrava un cadavere sfocato, vista che spezzava il cuore di
Annabeth ogni volta che lo vedeva. Inoltre non doveva nemmeno
trattarsi di un camuffamento così buono, dal momento che Notte
poteva ovviamente vederli. Annabeth non riusciva a leggere molto
bene l’espressione sul viso spettrale di Percy. Apparentemente non
gli piaceva qualsiasi cosa stessero dicendo i cavalli. “Uh, così non li
permetterai di mangiarci?” chiese lui alla dea. “Vogliono farlo
davvero.” Gli occhi di quasar di Notte bruciarono. “Certo che no. Non
permetterò ai miei cavalli di mangiarvi, non più di quanto avrei
permesso ad Achlys di uccidervi. Siete dei premi così pregiati, vi
ucciderò io stessa!” Annabeth non si sentiva particolarmente astuta
o coraggiosa, ma il suo istinto le diceva di prendere l’iniziativa,
altrimenti quella sarebbe stata una conversazione molto breve. “Oh,
non uccidere te stessa!” gridò Annabeth. “Non siamo così
spaventosi.” La dea abbassò la sua frusta. “Cosa? Non, non
intendevo…“ “Bè, spero di no!” Annabeth guardò Percy e fece una
risata forzata. “Non vogliamo spaventarla, non è così?” “Ha, ha,”
disse Percy debolmente. “No, non vogliamo.” I cavalli vampiri
sembravano confusi. Si agitarono e sbuffarono sbattendo le loro
teste scure una contro l’altra. Notte tirò le redini per farli calmare.
“Sapete chi sono?” chiese lei. “Bè, immagino che tu sia Notte,” disse
Annabeth. “Voglio dire, posso capirlo perché sei scura e tutto il resto,
ma la brochure non diceva molto su di te.” Gli occhi di Notte
lampeggiarono per un istante, carichi di confusione. “Quale
brochure?” Annabeth si toccò le tasche. “Ne avevamo una, non è
vero?” Percy si leccò le labbra. “Uh-Huh.” Stava ancora guardando i
cavalli, con la mano stretta sull’elsa della sua spada, ma era
abbastanza intelligente da seguire il piano di Annabeth. Adesso
doveva solo sperare di non stare peggiorando le cose…anche se in
tutta onestà, non vedeva come le cose sarebbero potute peggiorare.
“Ad ogni modo,” disse, “immagino che la brochure non dicesse
molto, perché non eri evidenziata nel tour. Abbiamo visto il Fiume
Flegetonte, il Cocito, le arai, la radura velenosa di Achlys, persino
qualche Titano e gigante, ma Notte… hm, no, non eri indicata.”
“Indicata? Evidenziata?” “Sì,” disse Percy, prendendo confidenza.
“Siamo venuti qua sotto per il tour del Tartaro, del tipo, destinazioni
esotiche, sai? L’Oltretomba è passato di moda. Il Monte Olimpo è
una trappola per turisti…“ “Dei, assolutamente!” concordò Annabeth.
“Così abbiamo prenotato l’escursione del Tartaro, ma nessuno ha
mai accennato che ci saremmo imbattuti in Notte. Huh. Oh, bè.
Immagino che non pensavano che tu fossi importante.” “Non
importante!” Notte agitò la frusta. I suoi cavalli si agitarono e fecero
scattare le zanne argentate. Ondate di oscurità si riversarono fuori
dall’abisso, facendo diventare lo stomaco di Annabeth di gelatina,
ma non poteva mostrare la sua paura. Spinse in basso il braccio di
Percy che reggeva la spada, obbligandolo ad abbassare la sua
arma. Quella era una dea che andava oltre tutto ciò che avessero
mai affrontato. Notte era più antica di qualsiasi dio dell’Olimpo,
Titano o gigante, più antica persino di Gea. Non poteva essere
sconfitta da due semidei, almeno non da due semidei che usavano
la forza. Annabeth si obbligò a guardare l’enorme volto scuro della
dea. “Bè quanti altri semidei sono venuti a visitarti durante il tour?”
chiese innocentemente. Le mani di Notte si fecero inerti sulle redini.
“Nessuno. Nemmeno uno. Questo è inaccettabile!” Annabeth scrollò
le spalle. “Forse perché non hai mai fatto qualcosa per finire sulla
brochure. Voglio dire, posso capire che Tartaro sia importante!
Questo intero luogo porta il suo nome. Oppure, se potessimo
incontrare Giorno…“ “Oh, sì,” si intromise Percy. “Giorno? Lei
sarebbe notevole. Vorrei assolutamente incontrarla. Forse potrei
avere il suo autografo.” “Giorno!” Notte afferrò l’asta del suo carro
nero. L’intero veicolo tremò. “Intendete Emera? Lei è mia figlia! Notte
è molto più potente di Giorno!” “Eh,” disse Annabeth. “Mi sono
piaciute di più le arai, o persino Achlys.” “Anche loro sono figli miei!”
Percy trattenne uno sbadiglio. “Hai un sacco di figli, Huh?” “Io sono
la madre di tutti i terrori!” gridò Notte. “Delle Parche in persona! Di
Ecate! Vecchiaia! Dolore! Sonno! Morte! E di tutte le maledizioni!
Guardate quanto sono degna di nota!”
54

ANNABETH

Notte fece scattare nuovamente la sua frusta. L’oscurità intorno a lei


si congelò. Su entrambi i lati, apparve un esercito di ombre, altre arai
dalle ali scure, che Annabeth non era emozionata di rivedere; una
vecchia raggrinzita che doveva essere Gera, la dea della vecchiaia;
e una donna più giovane con una toga nera, gli occhi brillanti e il
sorriso di un serial killer, senza dubbio Eris, la dea della discordia.
Ne continuavano a comparire sempre di più: dozzine di demoni e
divinità minori, tutte progenie di Notte. Annabeth voleva scappare. Si
trovava davanti a un branco di orrori che avrebbe spezzato la sanità
mentale di chiunque. Ma se fosse scappata, sarebbe morta. Accanto
a lei, il respiro di Percy si fece debole. Persino attraverso il suo
camuffamento spettarle, Annabeth riusciva a capire che era sull’orlo
del panico. Lei doveva mantenere la calma per entrambi. Sono una
figlia di Atena, pensò. Controllo la mia testa. Immaginò una cornice
mentale intorno a quello che stava vedendo. Si disse che si trattava
solo di un film, un film dell’orrore, certo, ma non poteva farle del
male. Aveva il controllo. “Sì, non male,” ammise. “Immagino che
potremmo fare una foto per l’album fotografico, ma non lo so. Siete
tutti così… scuri. Anche se usassi il flash, non sono certa che
verrebbe bene.” “S… sì,” balbettò Percy. “Non siete fotogenici.”
“Piccoli, miserabili turisti!” sibilò Notte. “Come osate non tremare di
fronte a me! Come osate non piangere e implorare per un mio
autografo e una foto per il vostro album! Volete qualcosa degno di
nota? Mio figlio Hypnos una volta fece addormentare Zeus! Quando
Zeus lo inseguì sulla terra in cerca di vendetta, Hypnos si nascose
nel mio palazzo per protezione, e Zeus non lo seguì. Persino il re
dell’Olimpo mi teme!” “Uh-Huh.” Annabeth si voltò verso Percy. “Bè,
si sta facendo tardi. Dovremmo probabilmente andare a pranzare in
uno di quei ristoranti che consigliava la guida. Dopo possiamo
andare a cercare le Porte della Morte.” “Ah!” gridò Notte trionfante. Il
suo branco di ombre si agitò e riecheggiò il suo grido: “Ah! Ah!”
“Volete vedere le Porte della Morte?” chiese Notte. “Si trovano nel
cuore del Tartaro. I mortali come voi non potrebbero mai
raggiungerle, se non attraverso le stanze del mio palazzo, il Palazzo
di Notte!” Fece un gesto alle sue spalle. Fluttuante nell’abisso, circa
cento metri più in basso, si trovava una porta di marmo nero, che
portava in una grande stanza. Il cuore di Annabeth batteva così forte
che se lo sentiva nelle dita dei piedi. Quella era la strada per andare
avanti, ma si trovava troppo in basso, un salto impossibile. Se
l’avessero mancato, sarebbero precipitati nel Caos e sarebbero stati
ridotti nel nulla, una morte finale senza fuga. Anche se fossero
riusciti a fare il salto, la dea della Notte e i suoi figli più spaventosi si
trovavano sul loro cammino. Con un sobbalzo, Annabeth capì quello
che doveva accadere. Come tutto quello che aveva sempre fatto, si
trattava di una scommessa pericolosa. In un certo senso, la cosa la
calmò. Un’idea folle in faccia alla morte? Okay, sembrava dire il suo
corpo, rilassandosi. Questo è un territorio familiare. Finse uno
sbadiglio annoiato. “Immagino che potremmo fare una foto, ma uno
scatto di gruppo non funzionerebbe. Notte, che ne dici di una foto
con te con il tuo figlio preferito? Chi è?” Il gruppo si agitò. Dozzine di
orribili occhi luccicanti si voltarono verso Notte. La dea si mosse a
disagio, come se il suo carro le si stesse riscaldando sotto i piedi. I
suoi cavalli ombra sbuffarono e scalpitarono sopra l’abisso. “Il mio
figlio preferito?” chiese. “Tutti i miei figli sono terrificanti!” Percy fece
un verso di scherno. “Davvero? Ho incontrato le Parche, ho
incontrato Tanato. Non erano così spaventosi. Devi avere qualcuno
in questa folla peggiore di loro.” “Il più oscuro,” disse Annabeth.
“Quello più simile a te.” “Sono io la più oscura,” sibilò Eris. “Guerra e
liti! Ho causato ogni tipo di morte!” “Io sono la persona più oscura!”
ringhiò Gera. “Offusco la vita e confondo la mente. Ogni mortale
teme la vecchiaia!” “Sì, sì,” disse Annabeth, cercando di ignorare i
denti che le battevano. “Non vedo abbastanza oscurità. Voglio dire,
siete i figli della Notte! Mostratemi l’oscurità!” Il branco di arai
gemette, sbattendo le ali e sollevando nuvole di buio. Gera allargò le
mani rugose e oscurò l’intero abisso. Eris respirò un ombroso getto
fatto di pallottole oltre il vuoto. “Sono io la più oscura!” sibilò uno dei
demoni. “No, io!” “No! Ammirate la mia oscurità!” Se un migliaio di
polipi giganti avessero spruzzato l’inchiostro allo stesso tempo, sul
fondo dell’oceano più profondo e privo di luce, la cosa non sarebbe
potuta essere più nera. Annabeth sarebbe potuta essere cieca.
Afferrò la mano di Percy e si calmò i nervi. “Aspettate!” esclamò
Notte, improvvisamente nel panico. “Non riesco a vedere nulla.” “Sì!”
gridò con orgoglio uno dei suoi figli. “Sono stato io!” “No, l’ho fatto
io!” “Sciocchi, sono stato io!” Dozzine di voci litigarono al buio. I
cavalli nitrirono allarmati. “Smettetela!” gridò Notte. “Di chi è quel
piede?” “Eris mi sta colpendo!” gridò qualcuno. “Madre, dille di
smetterla di colpirmi!” “Non lo sto facendo!” gridò Eris. “Ahia!” I suoni
di azzuffamento si fecero più forti. Se possibile, il buio divenne
ancora più profondo. Gli occhi di Annabeth si dilatarono così tanto,
che aveva la sensazione che glieli stessero strappando via. Strinse
la mano di Percy. “Pronto?” “Per cosa?” Dopo una pausa, fece un
grugnito infelice. “Per le mutande di Poseidone, non puoi essere
seria.” “Qualcuno mi faccia luce!” urlò Notte. “Ah! Non posso credere
di averlo detto!” “E’ un trucco!” gridò Eris. “I semidei stanno
scappando!” “Li ho presi,” urlò un’arai. “No, quello è il mio collo!”
disse Gera con voce strozzata. “Salta!” disse Annabeth a Percy. Si
lanciarono nell’oscurità, puntando verso la porta molto, molto più in
basso.
55

ANNABETH

Dopo la loro caduta nel Tartaro, saltare per cento metri verso il
Palazzo di Notte sarebbe dovuta sembrare una cosa veloce. Invece,
il cuore di Annabeth sembrò rallentare. Tra i vari battiti del suo cuore
ebbe tempo a sufficienza per scrivere il suo stesso necrologio.
Annabeth Chase, morta all’età di 17 anni. BA-BOOM. (Assumendo
che il suo compleanno, il 12 luglio, fosse passato mentre si trovava
nel Tartaro; ma onestamente, non ne aveva idea.) BA-BOOM. Morta
di ferite gravi mentre saltava come un’idiota nell’abisso del Caos e si
spiaccicava sul pavimento della sala d’ingresso del palazzo di Notte.
BA-BOOM. Sopravvissuta a suo padre, la sua matrigna, e due
fratellastri che la conoscevano a malapena. BA-BOOM. Al posto dei
fiori, si prega di inviare delle donazioni al Campo Mezzosangue,
assumendo che Gea non l’abbia già distrutto. I piedi colpirono il
terreno solido. Le gambe le esplosero di dolore, ma inciampò in
avanti e rimase in piedi correndo, trainando Percy dietro di lei. Sopra
di loro, nel buio, Notte e i suoi figli urlavano e si azzuffavano, “Li ho
presi! Il mio piede! Smettila!” Annabeth continuò a correre. Non
poteva vedere nulla in ogni caso, quindi chiuse gli occhi. Usò gli altri
sensi, ascoltando in cerca dell’eco degli spazi aperti, in allerta per
delle correnti di vento sul volto, odorando in caso di qualsiasi traccia
di pericolo, fumo, veleno, oppure il puzzo dei demoni. Non era la
prima volta che si lanciava nel buio. Immaginò di trovarsi di nuovo
nei tunnel sotto Roma, in cerca dell’Atena Partenos. Guardando
indietro, il suo viaggio verso la caverna di Aracne sembrava una
vacanza a Disneyland. I rumori di liti tra i figli di Notte si fecero
sempre più lontani. Quella era una buona cosa. Percy stava ancora
correndo al suo fianco, tenendole la mano. Altra cosa buona. In
lontananza davanti a loro, Annabeth iniziò ad avvertire un rumore
pulsante, come se il suo stesso battito del cuore stesse
riecheggiando, amplificandosi con tale forza, che il pavimento le
vibrò sotto i piedi. Il rumore la riempì di terrore, quindi immagino che
quella dovesse essere la strada giusta. Corse verso di esso. Mentre
il battito si faceva più forte, sentì odore di fumo e udì lo scoppiettio di
torce accese intorno a lei. Immaginò che ci dovesse essere della
luce, ma una sensazione strisciante sul collo l’avvertì che sarebbe
stato un errore aprire gli occhi. “Non guardare,” disse a Percy. “Non
avevo intenzione di farlo,” rispose lui. “Riesci ad avvertirlo, vero?
Siamo ancora nel Palazzo di Notte. Non voglio vederlo.” Ragazzo
intelligente, pensò Annabeth. Era solita prendere in giro Percy per
essere uno sciocco, ma in verità i suoi istinti erano solitamente
esatti. Qualsiasi orrore giacesse nel Palazzo di Notte, non erano
pensati per gli occhi mortali. Vederli sarebbe stato peggio che fissare
direttamente il volto di Medusa. Meglio correre al buio. La pulsazione
si fece più forte, inviando vibrazioni attraverso la schiena di
Annabeth. Sembrava che qualcuno stesse bussando sul fondo del
mondo, chiedendo di poter entrare. Avvertì le pareti che si aprivano
ai suoi lati. L’aria si fece più fresca, o comunque non così sulfurea.
C’era anche un altro rumore, più vicino del martellio profondo… il
suono di acqua che scorreva. Il cuore di Annabeth stava correndo.
Sapeva che l’uscita era vicina. Se fossero riusciti a uscire dal
Palazzo di Notte, forse si sarebbero potuti lasciare il gruppo di
demoni oscuri alle spalle. Iniziò a correre più velocemente, cosa che
avrebbe significato la sua morte se Percy non l’avesse fermata.
56

ANNABETH

“Annabeth!” Percy la tirò indietro proprio mentre il suo piede toccava


il bordo di un dislivello. Cadde quasi in avanti verso chi sa cosa, ma
Percy l’afferrò e l’avvolse tra le sue braccia. “Va tutto bene,” le
assicurò. Lei spinse il suo volto nella sua maglietta e tenne gli occhi
stretti. Stava tremando, ma non solamente dalla paura. L’abbraccio
di Percy era così caldo e consolatorio che voleva rimanere lì per
sempre, protetta e al sicuro… ma non era la realtà. Non poteva
permettersi di rilassarsi. Non poteva appoggiarsi a Percy più di
quanto fosse necessario. Anche lui aveva bisogno di lei. “Grazie…”
Si slacciò gentilmente dalle sue braccia. “Riesci a capire cosa c’è
davanti a noi?” “Acqua,” disse lui. “Ho gli occhi chiusi. Non credo che
sia ancora sicuro.” “Sono d’accordo.” “Posso avvertire la presenza di
un fiume… o forse di tratta di un fossato. Ci blocca la strada,
scorrendo da sinistra a destra attraverso un canale tagliato nella
roccia, la riva opposta è a circa sei metri di distanza.” Annabeth si
rimproverò mentalmente. Aveva sentito l’acqua che scorreva, ma
non aveva preso in considerazione il fatto che le stesse correndo
incontro. “C’è un ponte…?” “Non credo,” disse Percy. “E c’è
qualcosa che non va con l’acqua. Ascolta.” Annabeth si concentrò.
Attraverso il ruggito della corrente, migliaia di voci stavano gridando,
urlando in agonia, implorando pietà. Aiuto! Gemevano. E’ stato un
incidente! Il dolore! Piangevano le voci. Fatelo smettere! Annabeth
non aveva bisogno degli occhi per immaginarsi il fiume, una nera
corrente salata carica di anime torturate che venivano trascinate
sempre più in profondità nel Tartaro. “Il Fiume Acheronte,” indovinò.
“Il quinto fiume dell’Oltretomba.” “Preferivo il Flegetonte a questo,”
borbottò Percy. “E’ il Fiume del Dolore. La punizione finale per le
anime che sono dannate, soprattutto gli assassini.” Assassini!
Gemette il fiume. Sì, come voi! Unitevi a noi, sussurrò un’altra voce.
Non siete migliori di noi. La testa di Annabeth si riempì delle
immagini di tutti i mostri che aveva ucciso nel corse degli anni.
Quello non era omicidio, protestò lei. Mi stavo difendendo! La
corrente del fiume mutò attraverso la sua mente, mostrandole Zoe
Nightshade, che era stata uccisa sul Monte Tamalpais perché era
andata a salvare Annabeth dai Titani. Vide la sorella di Nico, Bianca
di Angelo, che moriva nel crollo del gigante di metallo Talos, perché
anche lei aveva provato a salvare Annabeth. Michael Yew e Silena
Beauregard… che erano morti nella Battaglia di Manhattan. Avresti
potuto evitarlo, disse il fiume ad Annabeth. Avresti dovuto pensare a
un piano migliore. Più doloroso di tutti: Luke Castellan. Annabeth
ricordò il sangue di Luke sul suo pugnale dopo che lui si era
sacrificato per impedire a Crono di distruggere l’Olimpo. Le tue mani
sono sporche del suo sangue! Pianse il fiume. Ci sarebbe dovuto
essere un altro modo! Annabeth aveva lottato con lo stesso pensiero
molte volte. Aveva cercato di convincersi che la morte di Luke non
fosse stata colpa sua. Luke aveva scelto il suo destino. Tuttavia…
non sapeva se la sua anima avesse trovato pace nell’Oltretomba, o
se era rinato, oppure se era stato gettato nel Tartaro a causa dei
suoi crimini. Avrebbe potuto essere una delle voci torturate che
stava scorrendo sotto di lei in quel momento. Tu l’hai ucciso! Gridò il
fiume. Salta dentro e condividi la sua punizione! Percy le afferrò il
braccio. “Non ascoltare.” “Ma…“ “Lo so.” La sua voce suonava
fragile come il ghiaccio. “Mi stanno dicendo le stesse cose. Credo…
credo che questo fossato debba essere il confine del territorio di
Notte. Se lo attraversiamo, dovremmo essere salvi. Dovremo
saltare.” “Hai detto che erano sei metri!” “Sì. Dovrai fidarti di me.
Metti le braccia intorno al mio collo e tieniti forte.” “Come puoi
riuscire a…“ “Laggiù!” gridò una voce dietro di loro. “Uccidete i turisti
ingrati!” I figli di Notte li avevano trovati. Annabeth avvolse le braccia
intorno a Percy. “Vai!” Con gli occhi chiusi, poté solo immaginare
come ci riuscì. Forse usò in qualche modo la forza del fiume. Forse
era semplicemente terrorizzato e carico di adrenalina. Percy saltò
con più forza di quanta lei credeva fosse possibile. Saltarono in aria
mentre il fiume si agitava e gemeva sotto di loro, schizzando le
caviglie nude di Annabeth con pungente acqua salata. Poi…
CLUMP. Furono nuovamente sul terreno solido. “Puoi aprire gli
occhi,” disse Percy, respirando a fatica. “Ma non ti piacerà quello che
vedrai.” Annabeth sbatté le palpebre. Dopo il buio di Notte, persino il
debole brillio rosso del Tartaro sembrava abbagliante. Davanti a loro
si estendeva una valle abbastanza grande da poter ospitare tutta la
Baia di San Francisco. Il rumore pulsante proveniva da tutto il
paesaggio, come se dei tuoni stessero riecheggiando da sottoterra.
Sotto delle nuvole venefiche, il terreno luccicava di viola con linee
simili a cicatrici rosso scuro e blu. “Sembra…” Annabeth combatté il
disgusto. “Sembra un cuore gigante.” “Il cuore di Tartaro,” mormorò
Percy. Il centro della vallata era ricoperto da una sottile peluria nera
fatta di puntini agitati. Erano così lontani, che Annabeth ci mise un
po’ a capire che stava guardando un esercito, migliaia, forse decine
di migliaia di mostri, raccolti intorno a uno scuro puntino centrale.
Era troppo lontano per poter distinguerne i dettagli, ma Annabeth
non aveva nessun dubbio su cosa fosse il puntino. Persino dal bordo
della vallata, Annabeth poteva avvertire il suo potere che le tirava
l’anima. “Le Porte della Morte.” “Sì.” La voce di Percy era roca.
Aveva ancora la pelle pallida e consumata di un cadavere… il che
voleva dire che aveva un aspetto tanto buono quanto l’umore di
Annabeth. Si rese conto di essersi completamente dimenticata dei
lori inseguitori. “Cosa è successo a Notte…?” Si voltò. In qualche
modo erano atterrati a diverse centinaia di metri dalle rive
dell’Acheronte, che scorreva attraverso un canale scavato tra scure
colline vulcaniche. Oltre quello non c’era nulla eccetto oscurità.
Nessun segno di qualcuno che li stava inseguendo. Apparentemente
persino ai tirapiedi di Notte non piaceva attraversare l’Acheronte.
Stava per chiedere a Percy come avesse fatto a saltare così lontano
quando udì il rumore di rocce che cedevano dalle colline alla loro
sinistra. Lei sguainò la sua spada di osso di dragone. Percy sollevò
Vortice. Una macchia di brillanti capelli bianchi apparve oltre la
cresta, poi un familiare volto sorridente con occhi di argento puro.
“Bob?” Annabeth era così contenta che saltellò. “Oh miei dei!”
“Amici!” Il Titano avanzò con passo pesante verso di loro. Le setole
della sua scopa erano bruciate, la sua uniforme da custode era
strappata con nuovi tagli di artigli, ma sembrava felicissimo. Sulla
sua spalla, Piccolo Bob faceva delle fusa quasi altrettanto rumorose
del cuore pulsante di Tartaro. “Vi ho trovati!” Bob li afferrò tutti e due
in un braccio da spezzare le costole. “Avete l’aspetto di fumanti
persone morte. Bene!” “Uff,” disse Percy. “Come sei arrivato qui?
Attraverso il Palazzo di Notte?” “No, no.” Bob scosse la testa con
decisione. “Quel posto è troppo spaventoso. Un’altra strada, va bene
solo per i Titani e simili.” “Lasciami indovinare,” disse Annabeth. “Sei
andato di lato.” Bob si grattò il mento, evidentemente a corto di
parole. “Hmm. No. Più… in diagonale.” Annabeth rise. Si trovavano
nel cuore di Tartaro, di fronte a un esercito impossibile, e lei avrebbe
accettato qualsiasi consolazione potesse avere. Era felice in
maniera ridicola di riavere con loro il Titano Bob. Gli diede un bacio
sul naso, cosa che gli fece sbattere le palpebre. “Adesso rimaniamo
insieme?” chiese lui. “Sì,” annuì Annabeth. “E’ arrivato il momento di
vedere se questa Foschia di Morte funziona.” “E se non funziona…”
Percy si fermò. Non c’era motivo di fermarsi a pensare a quella
possibilità. Stavano per marciare verso un esercito nemico. Se
venivano visti, erano morti. Malgrado quello, Annabeth abbozzò un
sorriso. Il loro obiettivo era in vista, avevano un Titano con una
scopa e un gattino molto rumoroso dalla loro parte. Quello doveva
pur contare qualcosa. “Porte della Morte,” disse, “stiamo arrivando.”
57

JASON

Jason non era certo di cosa sperare: fuoco o tempesta. Mentre


aspettava per la sua conferenza giornaliera con il signore del Vento
del Sud, cercò di decidere quale delle due personalità del dio, greca
o romana, fosse la peggiore. Ma dopo cinque giorni nel palazzo, era
solo certo di una cosa: era poco probabile che lui e il suo gruppo
sarebbero usciti vivi da lì. Si appoggiò contro la ringhiera della
balconata. L’aria era così calda e secca, che gli disidratava
completamente i polmoni. Durante l’ultima settimana, la sua pelle si
era scurita, i suoi capelli si erano fatti bianchi come il cotone. Ogni
volta che guardava in uno specchio, era sconvolto dal selvaggio e
vuoto sguardo che aveva negli occhi, come se fosse diventato cieco
vagando per il deserto. Trenta metri più in basso, la baia brillava
contro una spiaggia a mezzaluna di sabbia rossa. Si trovavano da
qualche parte nella costa settentrionale dell’Africa. Quello era tutto
ciò che gli spiriti selvaggi erano disposti a dirgli. Il palazzo stesso si
allungava su entrambi i lati, un reticolato di sale e tunnel, terrazzi,
colonnati, e stanze scavate nelle rocce delle scogliere, tutto
progettato perché il vento potesse soffiarci dentro e creare quanto
più rumore possibile. Il costante rumore da canna di organo
ricordava a Jason del covo fluttuate di Eolo, in Colorado, con
l’eccezione che lì i venti non sembravano avere fretta. Il che era
parte del problema. Nelle loro giornate migliori, i venti settentrionali
erano lenti e pigri. In quelle peggiori, erano tempestosi e arrabbiati.
Inizialmente avevano accolto l’Argo II, dal momento che ogni nemico
di Borea era un amico del Vento del Sud, ma sembravano essersi
dimenticati che i semidei erano loro ospiti. I venti avevano perso
velocemente interesse nell’aiutarli a riparare la nave. L’umore del re
peggiorava di giorno in giorno. Sul ponte più in basso, gli amici di
Jason stavano lavorando all’Argo II. La vela principale era stata
riparata, il cordame sostituito. Adesso stavano riparando i remi.
Senza Leo, nessuno di loro sapeva come aggiustare le parti più
complicate della nave, persino con l’aiuto del tavolo Buford e di
Festus (che adesso era permanentemente sveglio, grazie alla lingua
ammaliatrice di Piper, e nessuno di loro capiva come fosse potuto
succedere). Ma continuavano a provare. Hazel e Frank si trovavano
al timone, intenti a litigare con i controlli. Piper comunicava i loro
comandi al Coach Hedge, che era appeso oltre il fianco della nave,
intento ad appiattire le ammaccature nei remi. Hedge era molto
adatto a dare colpi alle cose. Non sembrava che stessero facendo
grandi progressi, ma considerando quello che avevano passato, era
un miracolo che la nave fosse ancora intatta. Jason tremava quando
ripensava all’attacco di Chione. Era staro messo fuori
combattimento, congelato nel ghiaccio solido non una ma due volte,
mentre Leo veniva lanciato nel cielo e Piper era stata costretta a
salvarli tutti da sola. Grazie agli dei c’era Piper. Lei si considerava un
fallimento per non aver impedito alla bomba di vento di esplodere;
ma la verità era che, lei aveva salvato l’intera ciurma dal diventare
delle sculture di ghiaccio nel Québec. Era anche riuscita a indirizzare
l’esplosione della sfera di ghiaccio, così, anche se la nave era stata
spinta per quasi tutto il Mediterraneo, aveva subito dei danni
relativamente minori. Sul ponte, Hedge gridò, “Provate adesso!”
Hazel e Frank tirarono qualche leva. I remi di babordo impazzirono,
agitandosi su e giù e facendo l’onda. Il Coach Hedge cercò di
schivarli, ma uno lo colpì sul sedere e lo lanciò in aria. Scese giù
urlando e atterrò con un tuffo nella baia. Jason sospirò. Di quel
passo, non sarebbero mai stati pronti per salpare, anche se i venti
meridionali l’avessero permesso. Da qualche parte a nord, Reyna
stava volando verso Epiro, presumendo che avesse trovato il suo
biglietto nel Palazzo di Diocleziano. Leo era perso ed era nei guai.
Percy e Annabeth… bè, lo scenario migliore era che fossero ancora
vivi, diretti verso le Porte della Morte. Jason non poteva deluderli. Un
fruscio lo fece girare. Nico di Angelo si trovava all’ombra della
colonna più vicina. Si era tolto il suo giacchetto. Adesso indossava
solo la sua maglietta con i jeans neri. La sua spada e lo scettro di
Diocleziano erano legati alla cintura. Giorni passati sotto il sole caldo
non avevano abbronzato la sua pelle. Se mai, sembrava ancora più
pallido. I capelli scuri gli cadevano sugli occhi. Il suo volto era ancora
scarno, ma aveva senza dubbio un aspetto migliore di quando
avevano lasciato la Croazia. Aveva riacquistato abbastanza peso da
non sembrare che stesse morendo di fame. Le sue braccia erano
sorprendentemente muscolose, come se avesse passato l’ultima
settimana a lottare con la spada. Per quello che ne sapeva Jason,
poteva essersi dedicato a fare pratica nell’invocare gli spiriti con lo
scettro di Diocleziano, per poi lottare contro di loro. Dopo la loro
spedizione a Spalato, nulla l’avrebbe sorpreso. “Qualche novità dal
re?” chiese Nico. Jason scosse la testa. “Ogni giorno mi chiama,
rinviando sempre.” “Dobbiamo andarcene,” disse Nico. “Presto.”
Jason aveva la stessa sensazione, ma sentirlo dire da Nico lo rese
ancora più nervoso. “Avverti qualcosa?” “Percy è vicino alle Porte,”
disse Nico. “Avrà bisogno di noi per attraversarle vivo.” Jason notò
che non aveva nominato Annabeth. Decise di non parlarne. “Va
bene,” disse Jason. “Ma se non riusciamo a riparare la nave…“ “Ho
promesso che vi avrei guidati alla Casa di Ade,” disse Nico. “In un
modo o nell’altro, lo farò.” “Non puoi fare dei viaggi ombra con tutti
noi. E serviremo tutti per raggiungere le Porte della Morte.” La sfera
all’estremità dello scettro di Diocleziano brillò di viola. Durante
l’ultima settimana, sembrava essersi accordata all’umore di Nico.
Jason non sapeva se fosse una cosa positiva. “Allora dovrai
convincere il re del Vento del Sud ad aiutarci.” La voce di Nico
ribolliva di rabbia. “Non ho fatto tutta questa strada, sofferto così
tante umiliazioni…” Jason dovette fare uno sforzo cosciente per non
portare la mano alla sua spada. Ogni volta che Nico si arrabbiava,
tutti gli istinti di Jason gridavano Pericolo! “Nico, ascolta,” disse, “io
sono qui per te se vuoi parlare di, lo sai, quello che è successo in
Croazia. Capisco quando sia difficile…“ “Non capisci nulla.”
“Nessuno ti giudicherà.” La bocca di Nico si distorse in un ghigno.
“Davvero? Sarebbe la prima volta. Io sono il figlio di Ade, Jason.
Potrei anche essere ricoperto di sangue o di liquame, per come mi
trattano le persone. Non appartengo in nessun posto. Non
appartengo nemmeno a questo secolo. Ma persino questo non basta
ad allontanarmi da tutti. Devo essere… essere…“ “Amico! Non è che
tu abbia una scelta. E’ semplicemente ciò che sei.” “Solo ciò che
sono…” La terrazza tremò. Le decorazioni sul pavimento di pietra
mutarono, come delle ossa che stavano emergendo in superficie.
“Facile per te parlare. Tu sei il ragazzo d’oro di tutti, il figlio di Giove.
L’unica persona che mi abbia mai accettato era Bianca, e lei è
morta! Non ho scelto niente di tutto questo. Mio padre, i miei
sentimenti…” Jason cercò di pensare a qualcosa da dire. Voleva
essere amico di Nico. Sapeva che era l’unico modo per aiutarlo. Ma
Nico non stava rendendo le cose facili. Alzò le mani in un gesto di
resa. “Sì, okay. Ma, Nico, tu puoi scegliere come vivere la tua vita.
Vuoi fidarti di qualcuno? Forse potresti correre il rischio sul fatto che
io sia veramente tuo amico e che ti accetterò. E’ meglio che
nascondersi.” Il pavimento tra i due si spaccò. Le crepe sibilarono.
L’aria intorno a Nico brillò con una luce spettarle. “Nascondermi?” La
voce di Nico era mortalmente calma. Le dita di Jason formicolavano
dalla voglia di sguainare la spada. Aveva incontrato un sacco di
semidei spaventosi, ma stava iniziando a rendersi conto che Nico di
Angelo, per quanto pallido e scarno potesse apparire, poteva essere
più di quello che era in grado di gestire. Nonostante quello, sostenne
lo sguardo di Nico. “Sì, nasconderti. Sei scappato da tutti e due i
campi. Hai così paura di essere rifiutato che non ci provi nemmeno.
Forse è ora che tu esca dalle ombre.” Proprio quando la tensione si
fece insostenibile, Nico abbassò lo sguardo. Le crepe sul pavimento
della terrazza si rimarginarono. La luce spettrale svanì. “Farò onore
alla mia promessa,” disse Nico, con un tono di voce poco più alto di
un sussurro. “Vi porterò ad Epiro. Vi aiuterò a chiudere le Porte della
Morte. Poi basta. Me ne andrò, per sempre.” Dietro di loro, le porte
della sala del trono si spalancarono con un getto di aria cocente.
Una voce priva di corpo disse: Lord Auster vi attende. Per quanto
avesse temuto quell’incontro, Jason si sentì sollevato. Al momento,
discutere con un dio del vento folle sembrava meno pericoloso
dell’aiutare un figlio di Ade arrabbiato. Si voltò per salutare Nico, ma
lui era scomparso, fondendosi nuovamente nel buio.
58

JASON

Così, si trattava di una giornata tempestosa. Auster, la versione


romana del Vento del Sud, era a corte. I due giorni precedenti, Jason
aveva trattato con Notus. Anche se la versione greca del dio era
impetuosa e si arrabbiava velocemente, almeno lui era veloce.
Auster… bè, non altrettanto. Delle colonne di marmo bianche e
rosse allineavano la sala del trono. Il ruvido pavimento di pietra
arenaria fumava sotto le scarpe di Jason. Il vapore impregnava
l’aria, come nelle terme del Campo Giove, con la differenza che le
terme solitamente non avevano dei lampi che tuonavano sul soffitto,
illuminando la stanza con flash di luce disorientante. I venti
meridionali vorticavano attraverso la sala con nuvole di polvere
rossa e aria bollente. Jason fu attento a rimanergli lontano. Durante
il suo primo giorno lì, ne aveva accidentalmente sfiorato uno con la
mano. Gli erano sputante così tante vesciche, che le due dita
sembravano dei tentacoli. Alla fine della sala si trovava il trono più
strano che Jason avesse mai visto, era fatto di parti uguali di fuoco e
acqua. La pedana era formata da un falò. Fiamme e fumo si
avvolgevano verso l’alto formando la seduta. Lo schienale della
sedia era formato da una vorticante nuvola di tempesta. I braccioli
sfrigolavano quando il vapore incontrava il fuoco. Non sembrava
molto comoda, ma il dio Auster era seduto con aria oziosa come se
fosse pronto per un tranquillo pomeriggio passato a guardare le
partite di calcio. In piedi, sarebbe stato alto circa tre metri. Una
corona di vapore gli avvolgeva gli irsuti capelli bianchi. La sua barba
era fatta di nuvole, che esplodevano costantemente con lampi e
pioggia lungo il petto del dio, inzuppandogli la toga color sabbia.
Jason si chiese se si potesse rasare una barba fatta di tuoni. Pensò
che poteva essere irritante, pioversi addosso in continuazione, ma
ad Auster non sembrava importare. Ricordava a Jason un Babbo
Natale zuppo, ma più pigro che allegro. “Allora…” La voce del dio
rombò come una tempesta in arrivo. “Il figlio di Giove torna.” Auster
lo fece sembrare come se Jason fosse in ritardo. Jason fu tentato di
ricordare allo stupido dio del vento che aveva passato ore intere
fuori dalla sala del trono, ogni giorno in attesa di essere convocato,
ma si limitò a inchinarsi. “Mio signore,” disse. “Ha ricevuto qualche
notizia del mio amico?” “Amico?” “Leo Valdez.” Jason cercò di
rimanere paziente. “Quello che è stato portato via dai venti.” “Oh…
sì. O meglio, no. Non abbiamo sentito nulla. Non è stato preso dai
miei venti. Senza dubbio è stata opera di Borea o dei suoi figli.” “Uh,
sì. Questo lo sapevamo.” “Quella è l’unica ragione per la quale vi ho
fatti entrare, ovviamente.” Le sopracciglia di Auster si inarcarono fino
alla corona di vapore. “Borea deve essere contrastato! I venti del
nord devono essere spinti indietro!” “Sì, mio signore. Ma per
contrastare Borea, abbiamo davvero bisogno di far uscire la nostra
nave dal porto.” “Nave nel porto!” Il dio si inclinò all’indietro e
ridacchiò, con la pioggia che si riversava dalla sua barba. “Sai
l’ultima volta in cui delle navi mortali arrivarono nel mio porto? Un re
di Libia… Psyollos era il suo nome. Diede la colpa a me per i venti
caldi che gli bruciarono i raccolti. Riesci a crederci?” Jason strinse i
denti. Aveva imparato che non si poteva mettere fretta ad Auster.
Nella sua forma piovigginosa, era lento, caldo, e parlava a vanvera.
“E lei aveva bruciato quei raccolti, mio signore?” “Certo!” Auster fece
un sorriso naturale. “Ma cosa si aspettava Psyollos, piantando delle
colture ai confini del Sahara? Lo sciocco inviò tutta la sua flotta
contro di me. Aveva intenzione di distruggere la mia fortezza così
che il vento del sud non potesse più soffiare. Io distrussi la sua flotta,
ovviamente.” “Ovviamente.” Gli occhi di Auster si strinsero. “Tu non
stai con Psyollos, vero?” “No, Lord Auster. “Io sono Jason Grace,
figlio di…“ “Giove! Sì, certo. Mi piacciono i figli di Giove. Ma perché
sei ancora nel mio porto?” Jason soffocò un sospiro. “Non abbiamo il
suo permesso per partire, mio signore. Inoltre, la nostra nave è
danneggiata. Abbiamo bisogno del nostro meccanico, Leo Valdez,
per riparare il motore, a meno che lei non conosca un altro modo.”
“Hm.” Auster sollevò le dita e lasciò vorticare tra loro una nuvola di
polvere rossa come fosse una bacchetta. “Sai, le persone mi
accusano di essere incostante. Alcuni giorni sono il vento bollente, il
distruttore di raccolti, lo scirocco dell’Africa! Altri giorni sono gentile,
annunciatore delle calde piogge estive e delle nebbie rinfrescanti del
Mediterraneo del sud. E fuori stagione, ho un palazzo adorabile a
Cancún! Ad ogni modo, nei tempi antichi, i mortali mi temevano e mi
amavano. Per un dio, l’imprevedibilità può essere forza.” “Allora lei è
davvero forte,” disse Jason. “Grazie! Sì! Ma la stessa cosa non vale
per i semidei.” Auster si sporse in avanti, abbastanza vicino che
Jason poteva sentire l’odore di campi zuppi di pioggia e delle calde
spiagge sabbiose. “Mi ricordi i miei figli, Jason Grace. Sei volato da
un luogo a un altro. Sei indeciso. Cambi ogni giorno. Se potessi far
cambiare il vento, da quale parte soffrirebbe?” Il sudore gocciolò
sulla schiena di Jason. “Signore?” “Hai detto che hai bisogno di un
navigatore. Hai bisogno del mio permesso. Io dico che non hai
bisogno di nessuno dei due. E’ arrivato il momento che tu scelga una
direzione, un vento che soffia senza scopo non serve a nessuno.”
“Non… non capisco.” Persino mentre lo diceva, in realtà capiva. Nico
aveva parlato del fatto che non apparteneva a nessun luogo. Almeno
Nico era libero da qualsiasi legame. Lui poteva andare ovunque
volesse. Per mesi, Jason aveva lottato con la decisione di dove
appartenesse. Era sempre stato logorato dalle tradizioni del Campo
Giove, dai giochi di potere, dalle lotte interne. Ma Reyna era una
brava persona. Lei aveva bisogno del suo aiuto. Se le avesse voltato
le spalle… qualcuno come Ottaviano avrebbe potuto prendere il
controllo e rovinare tutto quello che Jason amava di Nuova Roma.
Poteva essere così egoista da andarsene? La sola idea lo
schiacciava dai sensi di colpa. Ma nel suo cuore, lui voleva trovarsi
al Campo Mezzosangue. I mesi che aveva trascorso lì con Piper e
Leo erano sembrati più soddisfacenti, più giusti di tutti i suoi anni
passati al Campo Giove. Inoltre, al Campo Mezzosangue, c’era
almeno una possibilità di incontrare suo padre. Gli dei si fermavano
raramente al Campo Giove per salutare. Jason fece un respiro
tremante. “Sì. So quale direzione voglio prendere.” “Bene! E?” “Uh,
abbiamo comunque bisogno di un modo per aggiustare la nave.
C’è…?” Auster alzò un dito. “Aspetti ancora di essere guidato dai
signori del vento? Un figlio di Giove dovrebbe comportarsi
diversamente.” Jason esitò. “Ce ne andiamo, Lord Auster. Oggi
stesso.” Il dio del vento fece un grosso sorriso e allargò le braccia.
“Finalmente dichiari le tue intenzioni! Allora avete il mio permesso di
partire, anche se non ne avete bisogno. E come farete a salpare
senza il vostro ingegnere, senza che il motore sia aggiustato?”
Jason sentì i venti del sud che scattavano intorno a lui, che nitrivano
in segno di sfida come fossero stalloni testardi che stavano
mettendo alla prova la sua volontà. Per tutta la settimana aveva
aspettato, nella speranza che Auster si decidesse ad aiutare. Per
mesi si era preoccupato dei suoi obblighi nei confronti del Campo
Giove, sperando che il suo cammino diventasse più chiaro. Adesso,
si rese conto, doveva semplicemente prendersi quello che voleva.
Lui doveva controllare i venti, non il contrario. “Lei ci aiuterà,” disse
Jason. “I suoi venti possono assumere la forma di cavalli. Lei ci
fornirà una squadra per trainare l’Argo II. Ci guideranno ovunque si
trovi Leo.” “Meraviglioso!” Auster rise, con la barba che si illuminava
di elettricità. “Adesso… saprai attuare quelle parole coraggiose?
Saprai controllare quello che chiedi, o verrai fatto a pezzi?” Il dio
sbatté le mani. I venti vorticarono intorno al suo trono e divennero
dei cavalli. Non erano scuri e freddi come l’amico di Jason,
Tempesta. I cavalli del Vento del Sud erano fatti di fuoco, sabbia, e
tuoni. Quattro di loro schizzarono accanto a lui, con il loro calore che
bruciava i peli delle braccia di Jason. Galopparono intorno alle
colonne di marmo, sputando fiamme, nitrendo con un suono simile a
un sabbiatore. Più correvano, più si facevano selvaggi. Iniziarono a
lanciare occhiate verso Jason. Auster si lisciò la barba piovosa. “Sai
perché i venti possono apparire sotto forma di cavalli, ragazzo mio?
Di tanto in tanto, le divinità del vento viaggiano sulla terra sotto
forma equina. A volte siamo stati conosciuti come i generatori dei
cavalli più veloci del mondo.” “Grazie,” borbottò Jason, anche se
stava sbattendo i denti dalla paura. “Troppe informazioni.” Uno dei
venti corse verso Jason. Lui si abbassò, con i vestiti fumanti dallo
scontro appena evitato. “A volte,” continuò Auster allegramente, “i
mortali riconoscono il nostro sangue divino. Dicono, Quel cavallo
corre come il vento. E c’è una buona ragione. Come gli stalloni più
veloci, anche i venti sono nostri figli!” I cavalli di vento iniziarono a
circondare Jason. “Come il mio amico Tempesta,” tentò. “Oh, bè…”
Auster si accigliò. “Temo che quello sia un figlio di Borea. Come hai
fatto ad addestrarlo, non lo capirò mai. Questi sono miei figli, una
pregiata squadra di venti meridionali. Controllali, Jason Grace, e loro
traineranno la vostra nave fuori dal porto.” Controllarli, pensò Jason.
Sì, certo. Questi correvano avanti e indietro, creando confusione.
Come il loro padrone, il Vento del Sud, anche loro erano contesi, per
metà caldo, secco scirocco, per metà vento tempestoso. Ho bisogno
di velocità, pensò Jason. Ho bisogno di uno scopo. Visualizzò nella
sua testa Notus, la versione greca del Vento del Sud incandescente,
ma molto veloce. In quel momento, lui scelse i greci. Si mise dalla
parte del Campo Mezzosangue e i cavalli mutarono. Le nuvole
tempestose all’interno della stanza bruciarono, lasciando solo la
polvere rossa e il calore brillante, come un miraggio del Sahara.
“Ben fatto,” disse il dio. Sul trono adesso si trovava Notus, un
anziano uomo dalla pelle di bronzo con un ardente chitone greco, la
testa incoronata da un anello di fumante orzo secco. “Cosa stai
aspettando?” lo spronò il dio. Jason si voltò verso i fiammeggianti
destrieri. Improvvisamente non ne ebbe più paura. Tese il braccio
davanti a sé. Un turbinio di polvere scattò verso il cavallo più vicino.
Un lazo, una corda fatta di vento, più densa e stretta di qualsiasi
tornado, si avvolse intorno al collo del cavallo. Il vento creò una
briglia e bloccò l’animale. Jason invocò un’altra corda di vento. Legò
un secondo cavallo, imbrigliandolo secondo la sua volontà. In meno
di un minuto, aveva legato tutti e quattro i venti. Tirò le redini, mentre
questi continuavano ad agitarsi e a nitrire, ma non erano in grado di
spezzare le corde di Jason. Sembrava come se stesse facendo
volare quattro aquiloni in un vento forte, difficile, sì, ma non
impossibile. “Molto bene, Jason Grace,” disse Notus. “Sei un figlio di
Giove, e tuttavia hai scelto il tuo cammino, come hanno fatto prima
di te tutti i semidei più grandi. Non puoi controllare la tua
discendenza, ma puoi scegliere la tua eredità. Adesso, vai. Lega i
cavalli alla prua e indirizzarli verso Malta. “Malta?” Jason cercò di
concentrarsi, ma il calore dei cavalli gli stava rendendo la testa
leggera. Non sapeva nulla di Malta, eccetto qualche vago racconto
su un falcone Maltese. Era il luogo dove era stato inventato il malto?
“Quando arriverai nella città di Valletta,” disse Notus, “non avrai più
bisogno di questi cavalli.” “Vuoi dire… lì troveremo Leo?” Il dio brillò,
dissolvendosi lentamente in onde di calore. “Il tuo destino si fa più
chiaro, Jason Grace. Quando la scelta arriverà di nuovo, fuoco o
tempesta, ricordati di me. E non disperare.” Le porte della sala del
trono si spalancarono. I cavalli, avvertendo la libertà, si lanciarono
verso l’uscita.
59

JASON

A sedici anni, la maggior parte dei ragazzi si stresserebbe con i


parcheggi in fila, l’esame per la patente, e potersi permettere una
macchina. Jason si stressava per controllare una squadra di cavalli
di fiamme con redini di vento. Dopo essersi assicurato che i suoi
amici fossero a bordo e al sicuro sottocoperta, legò i venti alla prua
dell’Argo II (cosa della quale Festus non fu contento), si mise a
cavallo della polena, e gridò, “Yahia!” I venti scattarono sulle onde.
Non erano veloci come il cavallo di Hazel, Arion, ma avevano molto
più calore. Sollevavano una scia di vapore che rendeva a Jason
quasi impossibile vedere dove stavano andando. La nave fu sparata
fuori dalla baia. In pochissimo tempo l’Africa fu solo una confusa
linea sull’orizzonte alle loro spalle. Mantenere le redini di vento
richiese tutta la concentrazione di Jason. I cavalli tiravano per
liberarsi. Solo la sua forza di volontà li mantenne in riga. Malta,
ordinò. Dritti verso Malta. Quando la terra apparve finalmente in
lontananza, un’isola collinosa ricoperta da bassi edifici di pietra,
Jason era zuppo di sudore. Si sentiva le braccia di gomma, come se
avesse tenuto un bilanciere alzato davanti a lui per tutto quel tempo.
Sperava che avessero raggiunto il luogo giusto, perché non riusciva
più a tenere i cavalli sotto controllo. Lasciò andare le redini di vento.
I venti si dispersero sotto forma di particelle di sabbia e vapore.
Esausto, Jason scese dalla prua. Si appoggiò contro il collo di
Festus. Il drago si voltò e gli appoggiò il mento sulla schiena, come
in un abbraccio. “Grazie, amico,” disse Jason. “Giornata dura, uh?”
Dietro di loro, le assi del ponte scricchiolarono. “Jason?” esclamò
Piper. “Oh, dei, le tue braccia…” Non l’aveva notato, ma la sua pelle
era punteggiata da vesciche. Piper scartò un quadrato di ambrosia.
“Mangialo.” Lui lo masticò. La sua bocca si caricò del sapore dei
Browne freschi, il suo dolce preferito dalle pasticcerie di Nuova
Roma. Le vesciche sulle braccia svanirono. Sentì le forze ritornare,
ma l’ambrosia al Browne aveva un sapore più amaro del solito,
come se in qualche modo sapesse che Jason stava voltando le
spalle al Campo Giove. Quello non era più il sapore di casa. “Grazie,
Piper,” mormorò. “Per quanto?” “Circa sei ore.” Wow, pensò Jason.
Non c’è da stupirsi che mi senta affamato e indolenzito. “Gli altri?”
“Stanno tutti bene. Sono stanchi di essere rinchiusi di sotto. Devo
dire loro che possono salire sul ponte?” Jason si passò la lingua
sulle labbra secche. Nonostante l’ambrosia, si sentiva scosso. Non
voleva che gli altri lo vedessero in quello stato. “Dammi un secondo,”
disse. “… riprendo fiato.” Piper si appoggiò accanto a lui. Con la sua
canottiera verde, i pantaloncini beige, e gli scarponcini, sembrava
pronta per scalare una montagna, e poi combattere un esercito sulla
sua cima. Il suo pugnale era legato alla cintura. Aveva la cornucopia
fissata su una spalla. Aveva iniziato a indossare la spada di bronzo
seghettata che aveva preso da Zete, che era solo leggermente
meno intimidatoria di una mitragliatrice d’assalto. Durante il periodo
che avevano passato al palazzo di Auster, Jason aveva guardato
Piper e Hazel passare ore intere a fare pratica con la spada,
qualcosa in cui Piper non era mai stata interessata prima. Fin dal
suo incontro con Chione, Piper sembrava più all’erta, tesa come una
catapulta caricata, come se fosse decisa a non essere colta mai più
alla sprovvista. Jason capiva quella sensazione, ma era preoccupato
che fosse troppo dura con se stessa. Nessuno poteva essere
costantemente pronto per qualsiasi cosa. Lui avrebbe dovuto
saperlo. Aveva passato la loro ultima battaglia come un tappeto
congelato. Doveva essersi fissato a guardarla, perché lei gli rivolse
un sorriso furbo. “Ehi, sto bene. Noi stiamo bene.” Si mise in punta di
piedi e lo baciò, cosa che gli diede la stessa bella sensazione
dell’ambrosia. I suoi occhi erano chiazzati da così tanti colori che
Jason avrebbe potuto fissarli tutto il giorno, studiando i disegni
mutevoli, nello stesso modo in cui le persone ammiravano l’aurora
boreale. “Sono fortunato ad averti,” le disse. “Sì, lo sei.” Lei gli diede
un pugno gentile sul petto. “Adesso, come portiamo questa nave fino
ai moli?” Jason guardò accigliato l’acqua. Si trovavano ancora a un
chilometro di distanza dall’isola. Non aveva idea se sarebbero riusciti
a far funzionare il motore, o le vele… Fortunatamente, Festus era in
ascolto. Si voltò in avanti e sputò una fiammata di fuoco. Il motore
della nave ronzò e sferragliò. Suonava come un’enorme bicicletta
con la catena staccata, ma la nave scattò in avanti. Lentamente,
l’Argo II si diresse verso la riva. “Bravo drago.” Piper accarezzò il
collo di Festus. Gli occhi di rubino del drago brillarono come se fosse
soddisfatto di se stesso. “Sembra diverso da quando l’hai svegliato,”
disse Jason. “Più… vivo.” “Come dovrebbe essere.” Piper sorrise.
“Immagino che di tanto in tanto abbiamo tutti bisogno di una
chiamata da qualcuno che ci ama.” Lì accanto a lei, Jason si sentiva
così bene, che poteva quasi immaginarsi il loro futuro insieme al
Campo Mezzosangue, quando la guerra fosse finita, presumendo
che sarebbero sopravvissuti, presumendo che ci sarebbe ancora
stato un campo al quale fare ritorno. Quando la scelta arriverà di
nuovo, aveva detto Notus, fuoco o tempesta, ricordati di me. E non
disperare. Più si avvicinavano alla Grecia, più terrore si sedimentava
nel petto di Jason. Stava iniziando a credere che Piper avesse
ragione sul verso del fuoco e della tempesta della profezia, uno di
loro, Jason o Leo, non sarebbe tornato vivo da quel viaggio. Il che
era il motivo per il quale dovevano trovare Leo. Per quanto Jason
amasse la sua vita, non poteva permettere che il suo amico morisse
al suo posto. Non sarebbe mai potuto sopravvivere con quel senso
di colpa. Ovviamente sperava che si stesse sbagliando. Sperava che
entrambi sopravvivessero a quell’impresa. Ma se non fosse stato
così, Jason doveva essere pronto. Avrebbe protetto i suoi amici e
fermato Gea, a qualunque costo. Non disperare. Già. Facile da dire
per un dio del vento immortale. Mentre l’isola si faceva più vicina,
Jason vide i pontili affollati di vele. Dalla costa rocciosa spuntavano
delle dighe marittime simili a fortezze, alte quindici o venti metri.
Sopra le pareti si distendeva una città dall’aspetto medievale fatta di
guglie di chiese, cupole, ed edifici incastrati uno accanto all’altro, tutti
fatti della stessa pietra dorata. Da dove si trovava Jason, sembrava
che la città ricoprisse ogni centimetro dell’isola. Studiò le barche nel
porto. A cento metri di distanza, legata all’estremità della banchina
più lunga, c’era una zattera di fortuna dotata di un semplice albero e
una vela quadrata di tela. Sulla parte posteriore, il timone era
collegato a una specie di macchinario. Persino da quella distanza,
Jason poteva vedere il luccichio del bronzo Celeste. Fece un grosso
sorriso. Solo un semidio avrebbe fatto una barca del genere, e
l’aveva parcheggiata più a largo possibile, dove l’Argo II non avrebbe
potuto non vederla. “Vai a chiamare gli altri,” disse Jason a Piper.
“Leo è qui.”
60

JASON

Trovarono Leo sulla cima delle mura della città. Era seduto in un bar
all’aperto, affacciato sul mare, bevendo una tazza di caffè e con
addosso… wow. Viaggio nel tempo. I vestiti di Leo erano identici a
quelli che aveva indossato il giorno in cui erano arrivati per la prima
volta al Campo Mezzosangue, jeans, maglietta bianca, e un vecchio
giacchetto militare. Solo che quel giacchetto era bruciato mesi prima.
Piper lo fece quasi cadere dalla sedia con un abbraccio. “Leo! Dei,
dove sei stato?” “Valdez!” Il Coach Hedge sorrise. Poi sembrò
ricordarsi che aveva una reputazione da mantenere e si obbligò ad
imbronciarsi. “Se scompari di nuovo in questo modo, piccolo
teppistello, ti farò svenire per un mese!” Frank diede delle pacche
così forti sulle spalle di Leo che lo fece sussultare. Persino Nico gli
strinse la mano. Hazel baciò Leo sulla guancia. “Pensavamo che
fossi morto!” Leo abbozzò un debole sorriso. “Ehi, ragazzi. Nah, nah,
sto bene.” Jason poteva capire che non stava bene. Leo non voleva
incontrare i loro sguardi. Le sue mani erano perfettamente immobili
sul tavolo. Le mani di Leo non stavano mai ferme. Tutta la sua
energia nervosa si era prosciugata, rimpiazzata da una certa
tristezza malinconica. Jason si chiese perché la sua espressione gli
sembrasse familiare. Poi si rese conto che Nico di Angelo aveva
avuto lo stesso aspetto dopo aver affrontato Cupido tra le rovine di
Salona. Leo aveva il cuore spezzato. Mentre gli altri prendevano
delle sedie dai tavoli accanto, Jason si avvicinò a lui e gli strinse la
spalla. “Ehi, amico,” disse, “cosa è successo?” Gli occhi di Leo si
posarono sul gruppo. Il messaggio era chiaro: Non qui. Non davanti
a tutti. “Sono stato abbandonato,” disse Leo. “Lunga storia. Che mi
dite di voi? Cosa è successo con Chione?” Coach Hedge fece un
verso di scherno. “Cosa è successo? Piper è successa! Te lo dico io,
questa ragazza ha talento!” “Coach…” protestò Piper. Hedge iniziò a
raccontare la storia, ma nella sua versione Piper era un’assassina
kung fu e c’erano molti più Boreadi. Mentre il coach parlava, Jason
studiò Leo preoccupato. Quel bar aveva una vista perfetta sul porto.
Leo doveva aver visto l’Argo II che si avvicinava, tuttavia era rimasto
lì a bere caffè che non gli piaceva nemmeno, aspettando che
fossero loro a trovarlo. Quello non era affatto da Leo. La nave era la
cosa più importante della sua vita. Quando l’aveva vista avvicinarsi,
Leo avrebbe dovuto correre sulla banchina, esultando con tutta l’aria
che aveva nei polmoni. Il Coach Hedge stava descrivendo come
Piper avesse sconfitto Chione con un calcio rotante quando Piper lo
interruppe. “Coach!” disse. “Non è andata affatto così. Non avrei
potuto fare nulla senza Festus.” Leo inarcò le sopracciglia. “Ma
Festus era disattivato.” “Um, riguardo quello,” disse Piper. “Diciamo
che l’ho svegliato.” Piper raccontò la sua versione degli eventi, come
aveva riattivato il drago di metallo con la lingua ammaliatrice. Leo
picchiettò le dita sul tavolo, come se un po’ della sua vecchia
energia stesse facendo ritorno. “Non dovrebbe essere possibile,”
mormorò. “A meno che i potenziamenti non gli abbiano permesso di
rispondere ai comandi vocali. Ma se è permanentemente attivo,
questo vuol dire che il sistema di navigazione e il cristallo…”
“Cristallo?” chiese Jason. Leo sussultò. “Um, niente. Ad ogni modo,
cosa è successo dopo che è esplosa la bomba di vento?” A quel
punto Hazel prese le redini della storia. Una cameriera si avvicinò al
loro tavolo e diede loro i menu. In pochissimo tempo si ritrovarono a
masticare dei panini e a bere coca cola, godendosi la giornata
soleggiata quasi come un gruppo di normali adolescenti. Frank
afferrò una brochure per turisti incastrata sotto il portatovaglioli.
Iniziò a leggerla. Piper dava delle pacche gentili sul braccio di Leo,
come se non riuscisse a credere che fosse davvero là. Nico si
trovava al margine del gruppo, guardando i pedoni che passavano
accanto a loro come se potessero essere nemici. Il Coach Hedge
sgranocchiava la saliera e la pepiera. Nonostante il felice incontro,
sembravano tutti più abbattuti del solito, come se fossero tutti
influenzati dall’umore di Leo. Jason non aveva mai davvero pensato
a quanto fosse importante per il gruppo il senso dell’umorismo di
Leo. Persino quando le cose erano estremamente serie, potevano
sempre contare su Leo per alleggerire la situazione. Adesso,
sembrava come se l’intera squadra avesse gettato l’ancora. “Poi
Jason ha imbrigliato i venti,” concluse Hazel. “Ed eccoci qui.” Leo
fischiò. “Cavalli fatti di aria calda? Accidenti, Jason. Quindi, per
riassumere, hai trattenuto del gas fino a Malta, e poi l’hai lasciato
andare.” Jason si accigliò. “Sai, non suona così eroico descritto in
questo modo.” “Sì, bè. Io sono un esperto di aria calda. Mi sto
ancora chiedendo, perché Malta? Io sono finito qui su una zattera,
ma si è trattato di una cosa casuale, oppure…“ “Forse è per questo.”
Frank indicò la sua brochure. “Qui dice che Malta era dove viveva
Calypso.” Il sangue abbandonò il volto di Leo. “C-cosa?” Frank
scrollò le spalle. “Secondo questo, la sua casa originaria era un’isola
chiamata Gozo, appena a nord da qui. Calypso è un mito greco,
vero?” “Ah, un mito greco!” Il Coach Hedge si sfregò le mani. “Forse
la combatteremo! Possiamo combatterla? Perché io sono pronto.”
“No,” mormorò Leo. “No, non dobbiamo combatterla, Coach.” Piper
si accigliò. “Leo, c’è qualcosa che non va? Sembri…“ “Non c’è nulla
che non va!” Leo scattò in piedi. “Ehi, dovremmo andare. Abbiamo
del lavoro da sbrigare!” “Ma… tu dove sei stato?” chiese Hazel.
“Dove hai preso quei vestiti? Come…“ “Cavoli, ragazze!” disse Leo.
“Apprezzo l’interesse, ma non ho bisogno di due mamme extra!”
Piper fece un sorriso incerto. “Okay, ma…“ “C’è una nave da
aggiustare!” disse Leo. “Festus da controllare! Una dea della terra da
colpire in faccia! Cosa stiamo aspettando? Leo è tornato!” Allargò le
braccia e sogghignò. Stava facendo un coraggioso tentativo, ma
Jason poteva vedere la tristezza che persisteva nei suoi occhi. Gli
era accaduto qualcosa… qualcosa che aveva a che fare con
Calypso. Jason cercò di ricordarsi la sua storia. Era una specie di
maga, forse come Circe o Medea. Ma se Leo era fuggito dal covo di
una strega malvagia, perché sembrava così triste? Jason avrebbe
dovuto parlare con lui più tardi, assicurarsi che il suo amico stesse
bene. Per il momento, Leo non voleva chiaramente essere
interrogato. Jason si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. “Leo ha
ragione. Dovremmo andare.” Seguirono tutti il suo consiglio.
Iniziarono ad avvolgere il cibo e a finire le bibite. Improvvisamente,
Hazel boccheggiò. “Ragazzi…” Indicò l’orizzonte in direzione
nordest. All’inizio, Jason non vide nulla eccetto il mare. Poi un raggio
scuro apparve improvvisamente nel cielo come un lampo nero, come
se la notte pura si stesse facendo strada nel giorno. “Non vedo
nulla,” brontolò il Coach Hedge. “Neanche io,” disse Piper. Jason
studiò i volti dei suoi amici. La maggior parte di loro sembrava
semplicemente confusa. Nico sembrava essere l’unica altra persona
ad aver notato il lampo nero. “Non può essere…” borbottò Nico. “La
Grecia è ancora a centinaia di chilometri di distanza.” L’oscurità
lampeggiò di nuovo, dissolvendo momentaneamente i colori
dell’orizzonte. “Credi che sia Epiro?” Tutto lo scheletro di Jason
formicolò, come si sentiva quando veniva colpito da un migliaio di
volt. Non sapeva perché lui potesse vedere i lampi scuri. Non era un
figlio dell’Oltretomba. Ma la cosa gli dava una sensazione davvero
brutta. Nico annuì. “La Casa di Ade è aperta.” Qualche secondo più
tardi, un suono rombante si riversò su di loro come il rumore di
artiglieria distante. “E’ iniziata,” disse Hazel. “Cosa?” chiese Leo.
Quando apparve il lampo successivo, gli occhi dorati di Hazel si
scurirono come carta stagnola sul fuoco. “La spinta finale di Gea,”
disse. “Le Porte della Morte stanno facendo gli straordinari. Le sue
forze stanno entrando nel mondo mortale in massa.” “Non ce la
faremo mai,” disse Nico. “Quando arriveremo, ci saranno troppi
mostri da combattere.” Jason serrò la mascella. “Li sconfiggeremo. E
ci arriveremo in fretta. Abbiamo di nuovo Leo. Lui ci darà la velocità
che ci serve.” Si voltò verso il suo amico. “O si tratta solo di aria
calda?” Leo abbozzò un sorriso storto. I suoi occhi sembravano dire:
Grazie. “E’ tempo di volare, ragazzi e ragazze,” disse. “Zio Leo ha
ancora qualche trucco nella manica!”
61

PERCY

Percy non era ancora morto, ma era già stufo di essere un cadavere.
Mentre si trascinavano attraverso il cuore di Tartaro, continuava ad
abbassare lo sguardo sul suo corpo, chiedendosi come potesse
appartenere a lui. Le sue braccia sembravano fatte di pelle
sbiancata infilata dentro dei bastoncini. Le sue gambe di scheletro
sembravano dissolversi in fumo ad ogni passo. Aveva imparato a
muoversi normalmente nella Foschia di Morte, più o meno, ma il velo
magico lo faceva ancora sentire come se fosse avvolto da un
mantello di elio. Temeva che la Foschia di Morte potesse aderirli per
sempre, anche se fossero riusciti in qualche modo a sopravvivere al
Tartaro. Non voleva passare il resto della sua vita con l’aspetto di
una comparsa di The Walking Dead. Percy cercò di concentrarsi su
qualcos’altro, ma non c’era nessuna direzione sicura in cui guardare.
Sotto i suoi piedi, il terreno brillava di un viola nauseante, pulsante
con ragnatele di vene. Nella fioca luce rossa delle nuvole di sangue,
l’Annabeth avvolta dalla Foschia di Morte sembrava uno zombie
appena riesumato. Davanti a loro c’era la vista più deprimente di
tutte. Disteso fino all’orizzonte si estendeva un esercito di mostri,
stormi di arai alate, tribù di Ciclopi, gruppi di fluttuanti spiriti malvagi.
Migliaia di cattivi, forse decine di migliaia, che si agitavano e si
spingevano a vicenda, ringhiando e lottando per avere più spazio,
come il corridoio di una scuola sovraffollata durante l’intervallo, se
tutti gli studenti fossero stati violenti mutanti sotto steroidi con un
odore davvero cattivo. Bob li guidò verso il margine dell’esercito.
Non fece nessun tentativo di nascondersi, non che sarebbe servito a
qualcosa. Essendo alto tre metri e avendo dei brillanti capelli
argentati, Bob non era molto furtivo. A circa trenta metri dai mostri
più vicini, Bob si voltò verso Percy. “Rimanete in silenzio dietro di
me,” avvisò. “Non vi noteranno.” “Lo speriamo,” borbottò Percy. Sulla
spalla del Titano, Piccolo Bob si svegliò dal suo sonnellino. Fece
delle fusa simili a un terremoto e inarcò la schiena, diventando uno
scheletro e poi tornando ad essere un gatto a macchie. Almeno lui
non sembrava essere nervoso. Annabeth si esaminò le mani da
zombie. “Bob, se siamo invisibili… come mai tu puoi vederci? Voglio
dire, tecnicamente tu sei, lo sai…” “Sì,” disse Bob. “Ma noi siamo
amici” “Notte e i suoi figli potevano vederci,” disse Annabeth. Bob
scrollò le spalle. “Quello era nel regno di Notte. Questo è diverso.”
“Uh… d’accordo.” Annabeth non suonava rassicurata, ma ormai si
trovavano lì. Non avevano nessun’altra scelta se non quella di
provare. Percy fissò la folla di mostri malvagi. “Bè, almeno non
dobbiamo preoccuparci di incontrare altri amici in questa folla.” Bob
sogghignò. “Sì, questa è una buona cosa! Adesso, andiamo. La
Morte è vicina.” “Le Porte della Morte sono vicine,” lo corresse
Annabeth. “Stiamo attenti alle parole.” Si spinsero all’interno della
folla. Percy tremava così tanto, che aveva paura che si sarebbe
scrollato di dosso la Foschia di Morte. Aveva già visto grossi gruppi
di mostri in passato. Ne aveva combattuto un esercito durante la
Battaglia di Manhattan. Ma quello era diverso. Ogni volta che
combatteva contro un mostro nel mondo mortale, Percy almeno
sapeva che stava difendendo la sua casa. Quello gli dava coraggio,
non importava quanto fossero scarse le sue possibilità. Lì, l’invasore
era Percy. Non faceva parte di quella moltitudine di mostri più di
quanto il Minotauro facesse parte della Stazione di New York
durante l’ora di punta. A qualche metro di distanza, un gruppo di
Empousai faceva a pezzi la carcassa di un grifone mentre altri grifoni
le volavano intorno, strillando oltraggiati. Un Figlio della Terra a sei
braccia e un orco Lestrigone erano intrecciati tra di loro con delle
rocce in mano, tuttavia Percy non capì se stessero combattendo o
semplicemente divertendosi. Uno sbuffo di fumo nero, Percy pensò
che dovesse trattarsi di un eidolon, si infiltrò in un Ciclope,
obbligando il mostro a colpirsi in faccia da solo, poi volò via per
andare a possedere un’altra vittima. Annabeth sussurrò, “Percy,
guarda.” A pochi metri di distanza, un tipo vestito da cowboy stava
usando la sua frusta contro dei cavalli sputa fuoco. Il ragazzo
violento indossava un capello da cowboy sopra unti capelli grigi, un
paio di jeans extralarge, e un paio di stivali di pelle nera. Di lato,
sarebbe potuto passare per umano, fino a che non si girò, e Percy
vide che la parte superiore del suo corpo si divideva in tre petti
diversi, ognuno vestito con una maglietta da cowboy di colore
diverso. Era senza dubbio Gerione, che aveva cercato di uccidere
Percy due anni prima in Texas. Apparentemente il rancher malvagio
era ansioso di iniziare una nuova mandria. L’idea che quel tipo
potesse uscire dalle Porte della Morte fece riprovare a Percy tutto il
dolore che aveva avuto ai fianchi. Le sue costole pulsarono nel
punto in cui le arai avevano rilasciato la maledizione di Gerione nella
foresta. Voleva marciare fino al rancher dai tre corpi, dargli un pugno
in faccia e urlargli, Grazie tante, Tex! Purtroppo, non poteva. Quanti
altri antichi nemici si trovavano in quella folla? Percy iniziò a rendersi
conto del fatto che ogni battaglia che avesse mai vinto era stata solo
una vittoria temporanea. Non importava quanto fosse forte o
fortunato, non importava quanti mostri distruggeva, alla fine Percy
avrebbe fallito. Lui era solo un mortale. Sarebbe diventato troppo
anziano, troppo debole, o troppo lento. Sarebbe morto. Mentre quei
mostri… loro esistevano per sempre. Tornavano in continuazione.
Magari ci sarebbero voluti mesi o anni prima che si riformassero,
forse persino secoli. Ma alla fine sarebbero rinati. Vedendoli
assemblati nel Tartaro, Percy si sentì disperato come gli spiriti del
Fiume Cocito. Che importava che lui fosse un eroe? Che importava
se faceva qualcosa di coraggioso? Il male era sempre lì, pronto a
rigenerarsi, a ribollire sotto la superficie. Percy non era altro che un
piccolo fastidio per quegli esseri immortali. Dovevano solo aspettare
che lui morisse. Un giorno, i figli di Percy avrebbero potuto doverli
affrontare daccapo. Figli. Il pensiero lo colpì all’improvviso. Veloce
come l’aveva sopraffatto all’inizio, la sua disperazione scomparve.
Lanciò uno sguardo verso Annabeth. Aveva ancora l’aspetto di un
cadavere di nebbia, ma lui immaginò il suo vero aspetto, gli occhi
grigi pieni di determinazione, i capelli biondi legati indietro, il volto
stanco e ricoperto di sporcizia, ma bello come sempre. Okay, magari
i mostri continuavano a tornare per sempre. Ma così facevano anche
i semidei. Generazione dopo generazione, il Campo Mezzosangue
aveva resistito. E così aveva fatto il Campo Giove. Persino divisi, i
due campi erano sopravvissuti. Adesso, se i greci e i romani fossero
riusciti a unirsi, sarebbero stati persino più forti. C’era ancora
speranza. Lui e Annabeth erano arrivati fin lì. Avevano quasi
raggiunto le Porte della Morte. Figli. Un’idea ridicola. Una fantastica
idea. Proprio nel bel mezzo del Tartaro, Percy fece un grosso
sorriso. “Cosa c’è che non va?” sussurrò Annabeth. Con il suo
camuffamento da zombie, probabilmente sembrava che stesse
storcendo la bocca dal dolore. “Niente,” disse. “Stavo solo…“ Da
qualche parte davanti a loro, una voce profonda ruggì: “GIAPETO!”
62

PERCY

Un Titano galoppò verso di loro, prendendo a calci i mostri più piccoli


che si trovavano sulla sua strada con noncuranza. Era più o meno
della stessa altezza di Bob, con un’elaborata armatura di ferro di
Stige, un singolo diamante che brillava al centro della sua corazza. I
suoi occhi erano blu-bianco, come dei pezzi di un ghiacciaio, e
altrettanto freddi. Aveva i capelli dello stesso colore, con un taglio
alla militare. Un elmo da battaglia a forma di testa di orso era stretto
sotto il suo braccio. Alla sua cintura era appesa una spada grande
come una tavola da surf. Nonostante le sue cicatrici da battaglia, il
volto del Titano era bello e stranamente familiare. Percy era
abbastanza sicuro di non averlo mai visto prima, ma i suoi occhi e il
suo sorriso ricordavano a Percy qualcuno… Il Titano si fermò davanti
a Bob. Gli diede una pacca sulla spalla. “Giapeto! Non dirmi che non
riconosci il tuo stesso fratello!” “No!” annuì Bob nervoso. “Non te lo
dirò.” L’altro Titano gettò la testa all’indietro e rise. “Ho sentito che
sei stato gettato nel Lete. Deve essere stato terribile! Sapevano tutti
che alla fine saresti guarito. Sono Ceo! Ceo!” “Certo,” disse Bob.
“Ceo, il Titano del…” “Del Nord!” disse Ceo. “Lo sapevo!” gridò Bob.
Risero insieme e fecero a turni per darsi dei pugni sulle braccia.
Apparentemente irritato da tutto il trambusto, Piccolo Bob si
arrampicò sulla testa di Bob e iniziò a farsi un nido tra i capelli
argentati del Titano. “Povero vecchio Giapeto,” disse Ceo. “Devono
averti relegato davvero in basso. Guardati! Una scopa? Un’informe
da servo? Un gatto tra i capelli? Dico davvero, Ade deve pagare per
questi insulti. Chi era quel semidio che ti ha preso la memoria? Bah!
Dobbiamo farlo a pezzi, io e te, eh?” “Ha-ha.” Bob deglutì. “Sì, infatti.
Farlo a pezzi.” Le dita di Percy si chiusero intorno alla sua penna.
Non aveva un’alta opinione del fratello di Bob, anche senza la
minaccia del farlo a pezzi. Paragonato al semplice modo di parlare di
Bob, Ceo sembrava che stesse recitando Shakespeare. E solo
quello bastava per irritare Percy. Era pronto a levare il tappo a
Vortice se avesse dovuto, ma per adesso Ceo non sembrava
notarlo, e Bob non li aveva ancora traditi, anche se aveva avuto un
sacco di opportunità. “Ah, è bello rivederti…” Ceo picchiettò le dita
contro il suo elmo a forma di testa di orso. “Ti ricordi come ci
divertivamo ai vecchi tempi?” “Certo!” trillò Bob. “Quando abbiamo,
uh…” “Abbiamo tenuto a terra nostro padre Urano,” disse Ceo. “Sì!
Adoravamo lottare con Papà…” “L’abbiamo bloccato.” “Era quello
che volevo dire!” “Mentre Crono lo faceva a pezzi con la sua falce.”
“Sì, ha-ha.” Bob appariva leggermente nauseato. “Che divertimento.”
“Tu afferrasti il piede desto di nostro Padre, se ricordo bene,” disse
Ceo. “E Urano ti diede un calcio sulla faccia mentre si dibatteva.
Come ti prendevamo in giro per quello!” “Che sciocco che ero stato,”
annuì Bob. “Purtroppo, nostro fratello Crono è stato distrutto da
quegli impudenti di semidei.” Ceo sospirò. “Ci sono ancora piccole
parti della sua essenza, ma niente che possa essere rimesso
insieme. Immagino che alcune ferite non possano essere guarite
nemmeno dal Tartaro.” “Che peccato!” “Ma noi altri abbiamo un’altra
possibilità di brillare, eh?” Si piegò in avanti con fare cospiratorio.
“Questi giganti possono credere che governeranno. Lascia che siano
le nostre truppe di assalto e che distruggano l’Olimpo, ben vengano.
Ma quando Madre Terra si sveglierà, lei si ricorderà che noi siamo i
suoi figli più antichi. Ricorda le mie parole. I Titani alla fine
domineranno il cosmo.” “Hm,” disse Bob. “Ai giganti la cosa potrebbe
non piacere.” “Al diavolo quello che piace a loro,” disse Ceo. “Sono
già comunque passati attraverso le Porte della Morte, tornati nel
mondo mortale. Polibote è stato l’ultimo, nemmeno mezz’ora fa,
mentre ancora brontolava per aver perso la sua preda. A quanto
pare qualche semidio che stava inseguendo è stato inghiottito da
Notte. Quelli non li rivedremo più, ci scommetto!” Annabeth afferrò il
polso di Percy. Attraverso la Foschia di Morte, non riusciva a leggere
molto bene la sua espressione, ma vide l’allarme che aveva negli
occhi. Se i giganti erano già passati attraverso le Porte, allora
almeno non si sarebbero trovati nel Tartaro in cerca di Percy e
Annabeth. Sfortunatamente, ciò voleva anche dire che i loro amici
nel mondo mortale si trovavano in un pericolo ancora maggiore.
Tutte le lotte che avevano affrontato con i giganti erano state vane. I
loro nemici sarebbero rinati forti come prima. “Bene!” Ceo sguainò
l’enorme spada. La lama irradiava un freddo più profondo di quello
del Ghiacciaio Hubbard. “Devo andare. Leto dovrebbe essersi
rigenerata ormai. La convincerò a combattere.” “Certo,” mormorò
Bob. “Leto.” Ceo rise. “Hai dimenticato anche mia figlia? Suppongo
che sia passato troppo tempo dall’ultima volta che l’hai vista. Quelle
pacifiche come lei impiegano sempre più tempo per rigenerarsi.
Questa volta, però, sono certo che Leto combatterà per la vendetta.
Il modo in cui la trattò Zeus, dopo che lei gli diede quei bei gemelli?
Oltraggioso!” Per poco Percy non grugnì ad alta voce. I gemelli. Si
ricordava il nome Leto: la madre di Apollo e Artemide. Quel Ceo
aveva un aspetto vagamente familiare perché aveva gli occhi freddi
di Artemide e il sorriso di Apollo. Il Titano era il loro nonno, il padre di
Leto. L’idea gli fece venire il mal di testa. “Bene! Ci vediamo nel
mondo mortale!” Ceo diede un pugno sul petto di Bob, facendo quasi
cadere il gatto dalla sua testa. “Oh, e i nostri altri due fratelli sono di
guardia alle Porte, quindi li vedrai presto!” “Li vedrò?” “Contaci!” Ceo
si allontanò con passo pesante, quasi schiacciando Percy e
Annabeth prima che loro due potessero scansarsi. Prima che la folla
di mostri riempisse lo spazio vuoto, Percy fece segno a Bob di
avvicinarsi. “Stai bene, ragazzone?” sussurrò Percy. Bob si accigliò.
“Non lo so. In tutto questo…” fece un gesto intorno a lui “…che vuol
dire stare bene?” Giusta osservazione, pensò Percy. Annabeth si
sporse per guardare verso le Porte della Morte, anche se la folla di
mostri le bloccava alla vista. “Ho sentito bene? Ci sono altri due
Titani di guardia alla nostra uscita? Non va bene.” Percy guardò
Bob. L’espressione distante del Titano lo preoccupava. “Ti ricordi di
Ceo?” chiese gentilmente. “Tutte quelle cose di cui stava parlando?”
Bob strinse la sua scopa. “Quando le ha dette, me le sono ricordate.
Mi ha dato il mio passato come… come una lancia. Ma non so se
dovrei prenderla. È ancora mio, se non lo voglio?” “No,” disse
Annabeth con decisione. “Bob, sei diverso adesso. Sei migliore.” Il
gatto saltò giù dalla testa di Bob. Girò intorno ai piedi del Titano,
spingendo la testa contro i risvolti dei suoi pantaloni. Bob non
sembrò accorgersene. Percy desiderò poter avere la stessa
sicurezza di Annabeth. Desiderò poter dire a Bob con certezza
assoluta di dimenticarsi del suo passato. Ma Percy capiva la
confusione di Bob. Si ricordava del giorno in cui aveva aperto gli
occhi nella Casa del Lupo in California, con la memoria ripulita da
Era. Se qualcuno fosse stato lì per Percy quando si era svegliato, se
l’avessero convinto che il suo nome era Bob, e che era un amico dei
Titani e dei giganti… Percy ci avrebbe creduto? Si sarebbe sentito
tradito quando avesse scoperto della sua vera identità? Questo è
diverso, si disse. Noi siamo buoni. Ma lo erano davvero? Percy
aveva lasciato Bob nel palazzo di Ade, alla mercé di un nuovo
padrone che lo detestava. Percy non sentiva di avere qualche diritto
nel dire a Bob cosa fare adesso, anche se le loro vite dipendevano
da lui. “Credo che tu possa scegliere, Bob,” tentò Percy. “Prendi le
parti del passato di Giapeto che vuoi tenere. Lascia il resto. E’ il tuo
futuro che conta.” “Futuro…” disse Bob pensieroso. “Questo è un
concetto mortale. Io non sono pensato per cambiare, Amico Percy.”
Si guardò intorno, verso l’orda di mostri. “Noi rimaniamo gli stessi…
per sempre.” “Se tu fossi stato lo stesso,” disse Percy, “io e
Annabeth saremmo già morti. Forse non dovevamo essere amici,
ma lo siamo. Sei stato il migliore amico che avrei mai potuto volere.”
Gli occhi argentati di Bob apparivano più scuri del solito. Tese la sua
mano, e Piccolo Bob ci saltò sopra. Il Titano si alzò in piedi. “Allora,
andiamo, amici. Non manca molto.” Camminare sul cuore di Tartaro
non era neanche lontanamente tanto divertente quanto suonava. Il
terreno violaceo era scivoloso e pulsava costantemente. Sembrava
piano visto in lontananza, ma da vicino era fatto di creste e cavità
che si facevano sempre più difficili da superare mano a mano che
camminavano. Nodosi blocchi di arterie rosse e vene blu
funzionavano da prese quando Percy doveva arrampicarsi, ma
stavano procedendo lentamente. E, ovviamente, i mostri erano
ovunque. Branchi di segugi infernali si aggiravano per la distesa,
abbaiando, ringhiando e attaccando qualsiasi mostro che abbassava
la guardia. Le arai volavano in aria con le loro ali da pipistrello,
creando scure sagome spettrali nelle nuvole nocive. Percy inciampò.
Le sue mani toccarono un’arteria rossa, e un formicolio si diffuse
lungo il suo braccio. “C’è dell’acqua qui,” disse. “Dell’acqua vera.”
Bob grugnì. “Uno dei cinque fiumi. Il suo sangue.” “Il suo sangue?”
Annabeth si allontanò dal blocco di vene più vicino. “Sapevo che i
fiumi dell’Oltretomba sfociavano tutti nel Tartaro, ma…“ “Sì,” annuì
Bob. “Scorrono tutti attraverso il suo cuore.” Percy fece correre la
mano lungo la ragnatela di capillari. Era l’acqua del fiume Stige che
stava scorrendo sotto le sue dita, o forse il Lete? Se una di quelle
vene fosse scoppiata mentre ci camminava sopra… Percy rabbrividì.
Si rese conto che si stava facendo una passeggiata sul sistema
circolatorio più pericoloso dell’universo. “Dovremmo sbrigarci,” disse
Annabeth. “Se non riusciamo…” La sua voce si spense. Davanti a
loro, dei frastagliati raggi di oscurità attraversarono l’aria, come
lampi, ma fatti di buio puro. “Le Porte,” disse Bob. “Ci deve essere
passato un grosso gruppo.” Percy avvertì in bocca il sapore del
sangue di gorgone. Anche sei i suoi amici dell’Argo II fossero riusciti
a trovare l’altra parte delle Porte della Morte, come avrebbero fatto a
combattere contro le ondate di mostri che stavano passando
attraverso le Porte, soprattutto se tutti i giganti li stavano già
aspettando? “Tutti i mostri passano dalla Casa di Ade?” chiese.
“Quanto è grande quel posto?” Bob scrollò le spalle. “Forse vengono
mandati da qualche altra parte quando ci passano attraverso. La
Casa di Ade si trova nella terra, giusto? Questo è il regno di Gea.
Può mandare i suoi servi ovunque voglia.” Lo spirito di Percy
affondò. I mostri che passavano attraverso le Porte della Morte per
minacciare i suoi amici ad Epiro, quello era già brutto abbastanza.
Adesso immaginò la terra dalla parte mortale come un’unica grande
rete metropolitana, che depositava i giganti e altri orrori ovunque
Gea volesse, il Campo Mezzosangue, il Campo Giove, o sulla strada
dell’Argo II prima che questa potesse raggiungere Epiro. “Se Gea ha
tutto quel potere,” chiese Annabeth, “non potrebbe controllare dove
andiamo noi?” Percy detestava davvero quella domanda. A volte
desiderava che Annabeth non fosse così sveglia. Bob si grattò il
mento. “Voi non siete mostri. Potrebbe essere diverso per voi.”
Fantastico, pensò Percy. Non lo entusiasmava l’idea che Gea li
potesse aspettare dall’altra parte, pronta per trasportarli in mezzo a
una montagna; ma almeno le Porte erano una possibilità per uscire
dal Tartaro. Non era che avessero un’alternativa migliore. Bob li
aiutò a salire sulla cima di un’altra cresta. Improvvisamente le Porte
della Morte furono in piena vista, un rettangolo di oscurità che stava
in piedi da solo sulla cima della successiva collina di muscolo di
cuore, a circa mezzo chilometro di distanza, circondato da un’orda di
mostri malvagi così fitta che Percy avrebbe potuto raggiungere le
Porte camminando sulle loro teste. Le Porte erano ancora troppo
lontane per distinguerne i dettagli, ma i Titani che facevano la
guardia sui lati erano abbastanza familiari. Quello sulla sinistra
indossava una splendente armatura dorata che brillava di calore.
“Iperione,” borbottò Percy. “Quel tipo non vuole proprio rimanere
morto.” Quello sulla destra indossava un’armatura blu scuro, con
delle corna di ariete che gli spuntavano dai lati dell’elmo. Percy
l’aveva visto solo nei suoi sogni fino a quel momento, ma si trattava
senza dubbio di Krios, il Titano che Jason aveva ucciso nella
battaglia sul Monte Tam. “I fratelli di Bob,” disse Annabeth. La
Foschia di Morte le scintillò intorno, trasformandole per un attimo il
volto in un teschio sogghignante. “Bob, se dovrai combatterli, ce la
farai?” Bob soppesò la sua scopa, come se fosse pronto per ripulire
un grosso disastro. “Dobbiamo sbrigarci,” disse, cosa che, notò
Percy, non era esattamente una risposta. “Seguitemi.”
63

PERCY

Fino a quel momento, il loro piano di camuffamento con la Foschia di


Morte sembrava funzionare. Quindi naturalmente, Percy si aspettava
un enorme fallimento dell’ultimo minuto. A quindici metri dalle Porte
della Morte, lui e Annabeth si bloccarono. “Oh, dei,” mormorò
Annabeth. “Sono le stesse.” Percy sapeva quello che intendeva.
Incorniciato da ferro di Stige, il portale magico era formato da una
porta da ascensore, due pannelli nero e argento incisi con
decorazioni art déco. Con la sola differenza che i colori erano
invertiti, avevano esattamente lo stesso aspetto dell’ascensore
nell’Empire State Building, l’entrata per l’Olimpo. Vedendole, Percy
avvertì una tale nostalgia di casa che non riuscì a respirare. Non gli
mancava solo il Monte Olimpo. Gli mancava tutto quello che aveva
lasciato: New York, il Campo Mezzosangue, sua madre e il suo
patrigno. Gli occhi gli pungevano. Non si fidava a parlare. Le Porte
della Morte sembravano un insulto personale, progettate per
ricordargli di tutto quello che non poteva avere. Mentre superava lo
shock iniziale, notò altri dettagli: il ghiaccio che si stava diffondendo
alla base delle Porte, il brillio violaceo nell’aria intorno, e le catene
che le tenevano. Corde fatte di ferro nero correvano da entrambi i
lati della struttura, come fili di sospensione in un ponte rialzato.
Erano legate a degli uncini incastrati nel terreno carnoso. I due
Titani, Krios e Iperione, stavano di guardia accanto ai punti di
ancoraggio. Mentre Percy guardava, tutta la cornice delle Porte
tremò. Lampi neri saettarono nel cielo. Le catene tremarono, e i
Titani misero i piedi sugli uncini per tenerli fermi. Le Porte si
aprirono, rivelando l’interno dorato di un vano d’ascensore. Percy si
fece teso, pronto per lanciarsi in avanti, ma Bob gli piantò una mano
sulla spalla. “Aspetta,” lo avvertì. Iperione urlò verso la folla
circostante. “Gruppo A-22! Sbrigatevi, pigroni!” Una dozzina di
Ciclopi si lanciò in avanti, agitando piccoli biglietti rossi e urlando
emozionati. Non sarebbero dovuti entrate tutti all’interno di quelle
porte strutturate per gli umani, ma mentre i Ciclopi si avvicinavano, i
loro corpi si distorsero e rimpicciolirono, e le Porte della Morte li
risucchiarono all’interno. Il Titano Krios spinse il bottone
dell’ascensore che portava in alto, sulla parte destra. Le Porte si
chiusero. La struttura tremò di nuovo. I lampi di oscurità svanirono.
“Dovete capire come funziona,” borbottò Bob. Si rivolse al gatto che
aveva nel palmo, forse così che gli altri mostri non si chiedessero a
chi stesse parlando. “Ogni volta che le Porte si aprono, cercano di
tele trasportarsi in una nuova destinazione. Tanato le progettò in
questo modo, così che potesse trovarle solo lui. Ma adesso sono
incatenate. Le Porte non possono spostarsi.” “Allora spezziamo
quelle catene,” sussurrò Annabeth. Percy guardò la sagoma ardente
di Iperione. L’ultima volta che aveva combattuto contro il Titano, era
servito ogni grammo della sua forza. Persino in quel caso Percy era
quasi morto. Adesso c’erano due Titani, con altre diverse migliaia di
mostri come riserve. “Il nostro camuffamento,” disse. “Scomparirà se
facciamo qualcosa di aggressivo, come spezzare le catene?” “Non lo
so,” disse Bob al gattino. “Mrow,” disse Piccolo Bob. “Bob, dovrai
distrarli,” disse Annabeth. “Io e Percy passeremo alle spalle dei due
Titani e taglieremo le catene da dietro.” “Sì, bene,” disse Bob. “Ma
questo è solo un problema. Quando sarete all’interno delle Porte,
qualcuno deve rimanere fuori per spingere il pulsante e difenderlo.”
Percy cercò di deglutire. “Uh… difendere il pulsante?” Bob annuì,
grattando il gatto sotto il collo. “Qualcuno deve tenere premuto il
pulsante per dodici minuti, altrimenti il viaggio non può terminare.”
Percy guardò verso le Porte. Come aveva detto Bob, Krios stava
ancora spingendo il pulsante. Dodici minuti… In qualche avrebbero
dovuto far allontanare i Titani da quelle porte. Poi Bob, Percy o
Annabeth avrebbero dovuto tenere quel pulsante premuto per dodici
lunghi minuti, nel bel mezzo di un esercito di mostri nel cuore del
Tartaro, mentre gli altri due si dirigevano verso il mondo mortale. Era
impossibile. “Perché dodici minuti?” chiese Percy. “Non lo so,” disse
Bob. “Perché dodici dei dell’Olimpo, o dodici Titani?” “Giusto,” disse
Percy, anche se avvertiva un sapore amaro in bocca. “Che vuol dire
che il viaggio non può terminare,” chiese Annabeth “cosa succede ai
passeggeri?” Bob non rispose. A giudicare dalla sua espressione
addolorata, Percy decise che non voleva trovarsi in quell’ascensore
se la cabina si fosse fermata tra il Tartaro e il mondo mortale. “Se
riusciamo a premere il pulsante per dodici minuti,” disse Percy, “e le
catene vengono spezzate…“ “Le Porte dovrebbero resettarsi,” disse
Bob. “E’ quello che dovrebbero fare. Scompariranno dal Tartaro.
Riappariranno da qualche altra parte, dove Gea non può usarle.”
“Tanato potrà reclamarle,” disse Annabeth. “La Morte torna ad
essere normale, e i mostri perdono la loro scorciatoia per il mondo
mortale. Percy lasciò andare un sospiro. “Facile. Se non fosse per…
bè, tutto.” Piccolo Bob fece le fusa. “Spingerò io il pulsante,” offrì
Bob. Delle sensazioni mischiate ribollirono nello stomaco di Percy,
dolore, tristezza, gratitudine e senso di colpa che si addensavano in
un cemento di emozioni. “Bob, non possiamo chiederti di farlo.
Anche tu vuoi attraversare le Porte. Vuoi vedere di nuovo il cielo, e
le stelle, e…“ “Mi piacerebbe,” annuì Bob. “Ma qualcuno deve
spingere il pulsante. E quando le catene saranno spezzate… i miei
fratelli combatteranno per impedire il vostro passaggio. Non
vorranno che le Porte scompaiano.” Percy guardò l’orda senza fine
di mostri. Anche se avesse lasciato che Bob facesse quel sacrificio,
come poteva un solo Titano difendere se stesso da così tanti mostri
per dodici minuti, tutto mentre teneva il dito su un pulsante? Il
cemento si sedimentò nello stomaco di Percy. Aveva sempre
sospettato come sarebbe andata a finire. Sarebbe dovuto rimanere
indietro. Mentre Bob tratteneva l’esercito, Percy avrebbe tenuto
premuto il pulsante dell’ascensore e si sarebbe assicurato che
Annabeth raggiungesse la salvezza. In qualche modo, doveva
convincerla ad andare senza di lui. Finché lei fosse stata salva e le
Porte fossero scomparse, lui sarebbe potuto morire sapendo di aver
fatto qualcosa di giusto. “Percy…?” Annabeth lo stava fissando, con
un tono sospettoso nella voce. Era troppo intelligente. Se avesse
incontrato il suo sguardo, avrebbe capito esattamene cosa stava
pensando. “Pensiamo prima alle cose importanti,” disse. “Andiamo a
spezzare quelle catene.”
64

PERCY

“Giapeto!” ruggì Iperione. “Bene, bene. Credevo che ti stessi


nascondendo da qualche parte sotto un carrello delle pulizie.” Bob
avanzò con passo pesante, imbronciato. “Non mi stavo
nascondendo.” Percy strisciò verso la parte destra delle Porte.
Annabeth avanzò di soppiatto verso sinistra. I Titani non diedero
segno di essersi accorti di loro, ma Percy non volle correre rischi.
Tenne Vortice in forma di penna. Si accucciò basso, camminando il
più silenziosamente possibile. I mostri minori mantenevano una
distanza rispettosa dai Titani, quindi c’era abbastanza spazio vuoto
per muoversi attorno alle Porte; ma Percy era perfettamente
consapevole della folla ringhiante alle sue spalle. Annabeth aveva
deciso di prendere il lato che stava sorvegliando Iperione, basandosi
sulla teoria che quel Titano avrebbe avuto più possibilità di avvertire
Percy. Dopotutto, Percy era stato l’ultimo ad averlo ucciso nel mondo
mortale. La cosa a Percy andava bene. Dopo essere stato nel
Tartaro così a lungo, era a stento in grado di guardare l’armatura
splendente di Iperione senza cominciare ad avere dei pallini che gli
danzavano davanti agli occhi. Sul lato delle Porte dove si trovava
Percy, Krios stava silenzioso e scuro, con l’elmo dalle corna di ariete
che gli copriva il volto. Teneva un piede piantato sull’uncino della
catena e il pollice sul pulsante dell’ascensore. Bob affrontò i suoi
fratelli. Piantò la sua lancia e cercò di apparire quanto più feroce
potesse con un gattino sulla spalla. “Iperione e Krios. Mi ricordo di
tutti e due.” “Ricordi, Giapeto?” Il Titano dorato rise, guardando Krios
per invitarlo a unirsi alla battuta. “Bè, è bello a sapersi! Ho sentito
che Percy Jackson ti aveva trasformato in una cameriera con il
lavaggio del cervello. Come ti aveva chiamato… Betty?” “Bob,”
ringhiò Bob. “Bè, era ora che ti presentassi, Bob. Io e Krios siamo
stati bloccati qui per settimane…“ “Ore,” lo corresse Krios, con la
voce proveniente dall’elmo simile a un profondo rombo. “Quello che
è!” disse Iperione. “E’ un lavoro noioso, stare di guardia a queste
porte, fare passare i mostri secondo gli ordini di Gea. Krios, chi è il
nostro prossimo gruppo?” “Doppi Rossi,” disse Krios. Iperione fece
un sospiro. Le fiamme sulle sue spalle si fecero più calde. “Doppi
Rossi. Perché passiamo da A-22 a Doppi Rossi? Che razza di
sistema è?” Guardò Bob con sguardo di fuoco. “Questo non è un
lavoro per me, il Signore della Luce! Titano dell’Est! Padrone
dell’Alba! Perché sono costretto ad aspettare nell’oscurità mentre i
giganti vanno in battaglia e si prendono tutta la gloria? Adesso,
posso capire Krios…“ “Io prendo sempre gli incarichi peggiori,”
borbottò Krios, con il pollice ancora sul pulsante. “Ma io?” disse
Iperione. “Ridicolo! Questo dovrebbe essere il tuo lavoro, Giapeto.
Ecco, prendi il mio posto per un po’.” Bob fissò le Porte, ma il suo
sguardo era distante, perso nel passato. “Noi quattro bloccammo
nostro padre, Urano,” ricordò. “Ceo, io, e voi due. Crono ci promise
di farci diventare i signori dei quattro angoli della terra per averlo
aiutato con l’assassinio.” “Infatti,” disse Iperione. “E sono stato
contento di farlo! Avrei maneggiato io stesso la falce se ne avessi
avuta l’occasione! Ma tu, Bob… tu sei stato sempre in conflitto per
quell’assassinio, non è così? Il tenero Titano dell’Ovest, tenero come
il tramonto! Perché i nostri genitori ti chiamarono il Perforatore, non
lo saprò mai. Direi più il Frignone.” Percy raggiunse l’attacco della
catena. Tolse il cappuccio alla sua penna e Vortice gli apparve in
mano. Krios non reagì. La sua attenzione era fermamente fissata su
Bob, che aveva appena alzato la punta della sua lancia contro il
petto di Iperione. “Posso ancora perforare,” disse Bob, con la voce
bassa e salda. “Ti vanti troppo, Iperione. Sei luminoso e ardente, ma
Percy Jackson ti sconfisse lo stesso. Ho sentito che eri diventato un
bell’albero a Central Park.” Gli occhi di Iperione fumarono. “Attento,
fratello.” “Almeno il lavoro di un custode è onesto,” disse Bob. “Io
pulisco dopo gli altri. Lascio il palazzo meglio di come l’ho trovato.
Ma tu… a te non importa di ciò che combini. Tu hai seguito Crono
ciecamente. Adesso prendi ordini da Gea.” “E’ nostra madre!” ruggì
Iperione. “Non si svegliò per la nostra guerra sull’Olimpo,” ricordò
Bob. “Preferisce la sua seconda progenie, i giganti.” Krios grugnì.
“Vero. I figli dell’abisso.” “Tenete a freno le lingue tutti e due!” La
voce di Iperione aveva un accenno di paura. “Non potete sapere se
sta ascoltando.” L’ascensore suonò. Tutti e tre i Titani sobbalzarono
dalla sorpresa. Erano passati dodici minuti? Percy aveva perso la
cognizione del tempo. Krios tolse il dito dal pulsante ed esclamò,
“Doppi Rossi! Dove sono i Doppi Rossi?” Orde di mostri si agitarono
e spintonarono, ma nessuno di loro si fece avanti. Krios lasciò
andare un sospiro. “Gliel’avevo detto di tenersi stretti i biglietti. Doppi
Rossi! Perderete il posto nella fila!” Annabeth era in posizione,
esattamente alle spalle di Iperione. Sollevò la sua spada di osso di
dragone sopra la base della catena. Nella luce ardente dell’armatura
del Titano, il suo camuffamento di Foschia di Morte la faceva
sembrare un fantasma in fiamme. Sollevò tre dita, pronta per il conto
alla rovescia. Dovevano spezzare le catene prima che il prossimo
gruppo cercasse di prendere l’ascensore, ma dovevano anche
assicurarsi che i Titani fossero il più distratti possibile. Iperione
borbottò un’imprecazione. “Meraviglioso. Questo manderà
completamente a monte il nostro programma.” Sogghignò verso
Bob. “Fai la tua scelta, fratello. Combatti contro di noi oppure aiutaci.
Non ho tempo per le tue ramanzine.” Bob guardò verso Annabeth e
Percy. Percy pensò che avrebbe iniziato a combattere, ma invece
sollevò la punta della sua lancia. “Molto bene. Prenderò il turno di
guardia. Chi di voi due vuole una pausa per primo?” “Io,
ovviamente,” disse Iperione. “Io!” scattò Krios. “Ho tenuto premuto
quel pulsante per così tanto tempo che mi sta per cadere il pollice.”
“Io sono stato qui più a lungo,” brontolò Iperione. “Voi due
sorvegliate le Porte mentre io salgo nel mondo mortale. Ho degli eroi
greci sui quali devo abbattere la mia vendetta!” “Oh, no!” si lamentò
Krios. “Quel ragazzo romano è diretto verso Epiro, quello che mi ha
ucciso sul Monte Othrys. E’ stato solo fortunato. Adesso è il mio
turno.” “Bah!” Iperione sguainò la sua spada. “Prima ti sventrerò io,
Testa d’Ariete!” Krios sollevò la sua lama. “Puoi provarci, ma non
resterò bloccato in questo abisso puzzolente un altro secondo!”
Annabeth catturò lo sguardo di Percy. Mimò con le labbra: Uno,
due… Prima che potesse colpire le catene, un acuto lamento gli
perforò le orecchie, come il suono di un razzo in avvicinamento.
Percy ebbe solo il tempo di pensare: Uh-oh. Poi un’esplosione
scosse il fianco della collina. Un’ondata di calore gettò Percy
all’indietro. Delle scure granate volarono contro Krios e Iperione,
riducendoli a pezzetti tanto facilmente quanto il legno in una trita
legno. ABISSO PUZZOLENTE. Una voce profonda rotolò lungo la
valle, scuotendo la terra calda. Bob si alzò incerto. In qualche modo
l’esplosione non l’aveva toccato. Agitò la lancia davanti a lui,
cercando di localizzare la fonte della voce. Piccolo Bob si
raggomitolò nel suo colletto. Annabeth era atterrata a circa sei metri
dalle Porte. Quando si alzò, Percy fu così sollevato dal fatto che
fosse viva che ci mise un momento per rendersi conto che aveva di
nuovo il suo aspetto. La Foschia di Morte era evaporata. Si guardò
le mani. Anche il suo camuffamento era andato. TITANI, disse la
voce con disprezzo. ESSERI INFERIORI. DEBOLI E IMPERFETTI.
Davanti alle Porte della Morte, l’aria si fece più scura e si solidificò.
L’essere che apparve era così enorme, irradiava una tale malvagità
pura, che Percy voleva strisciare a terra e andarsi a nascondere.
Invece, obbligò i suoi occhi a seguire la figura del dio, cominciando
dai suoi stivali di ferro nero, ognuno grande come una bara. Le sue
gambe erano ricoperte da gambali neri; la sua pelle era fatta da
spessi muscoli viola, come il terreno. La sua maglietta armata era
fatta di migliaia di ossa contorte e annerite, legate insieme come una
maglia cotta medievale e tenute ferme da una cintura di mostruose
braccia intrecciate. Sulla superficie della corazza del guerriero, dei
volti oscuri apparivano e scomparivano, giganti, Ciclopi, gorgoni, e
dragoni, tutti intenti a spingere contro l‘armatura come se stessero
cercando di uscirne fuori. Le braccia del guerriero erano nude,
muscolose, viola, e luccicanti, le mani erano grandi come pale da
escavatrice. La parte peggiore di tutte era la sua testa: un elmetto
fatto di roccia contorta e metallo senza una forma precisa, solo
punte aguzze e macchie pulsanti di magma. Tutto il suo volto era un
mulinello, una spirale interna di tenebre. Mentre Percy guardava, le
ultime particelle di essenza di Titano di Iperione e Krios furono
aspirate nelle fauci del guerriero. In qualche modo, Percy trovò la
sua voce. “Tartaro.” Il guerriero produsse un suono simile a quello di
una montagna che si spaccava a metà: un ruggito o una risata,
Percy non lo sapeva. Questa forma è solo una piccola
manifestazione del mio potere, disse il dio. Ma è abbastanza per
occuparmi di voi. Non intervengo facilmente, piccolo semidio. Va al
di sotto di me trattare con moscerini come voi. “Uh…” Le gambe di
Percy minacciavano di cedere. “Non… sai… non ti scomodare.” Vi
siete dimostrati sorprendentemente resistenti, disse Tartaro. Siete
arrivati troppo lontano. Non posso più stare da parte e assistere ai
vostri progressi. Tartaro allargò le braccia. Per tutta la valle, migliaia
di mostri gemettero e ruggirono, sbattendo le armi e urlando in
trionfo. Le Porte della Morte tremarono nelle loro catene. Siate
onorati, piccoli semidei, disse il dio dell’abisso. Persino gli dei
dell’Olimpo non sono mai stati degni della mia attenzione personale.
Ma voi sarete distrutti da Tartaro in persona!
65

FRANK

Frank sperava nei fuochi d’artificio. O almeno in una grande scritta


che diceva: BENTORNATO A CASA! Più di tremila anni fa, il suo
antenato greco, il buon vecchio Periclimeno il muta forma, era
salpato verso est con gli Argonauti. Secoli dopo, gli antenati di
Periclimeno avevano servito le legioni romane orientali. Poi,
attraverso una serie di disavventure, la famiglia era finita in Cina, alla
fine emigrata in Canada nel ventesimo secolo. Adesso Frank si
trovava di nuovo in Grecia, il che voleva dire che la famiglia Zhang
aveva completamente circumnavigato il globo. Quello sembrava un
evento da celebrare, ma l’unico comitato di accoglienza fu uno
stormo di selvagge arpie affamate che attaccarono la nave. Frank si
sentì un po’ in colpa mentre le abbatteva con il suo arco. Continuava
a pensare ad Ella, la loro arpia amica mostruosamente intelligente di
Portland. Ma quelle arpie non erano Ella. Loro avrebbero
felicemente mangiato la faccia di Frank. Così le fece esplodere in
nuvole di piume e polvere. Il paesaggio greco sotto di loro era
altrettanto inospitale. Le colline erano disseminate di massi e cedri
rachitici, splendenti nell’aria nebbiosa. Il sole batteva forte, come se
stesse cercando di scolpire la campagna in uno scudo di bronzo
Celeste. Persino da trenta metri di altezza, Frank poteva sentire il
ronzio delle cicale che cantavano tra gli alberi, un sonnolento suono
irreale che gli rendeva gli occhi pesanti. Persino le voci combattenti
del dio della guerra nella sua testa sembravano essersi assopite. Lo
avevano a malapena infastidito da quando il gruppo aveva
attraversato il confine della Grecia. Il sudore gli colava lungo il collo.
Dopo essere stato ghiacciato sottocoperta da quella folle dea della
neve, Frank aveva pensato che non avrebbe mai più avuto caldo;
ma adesso il retro della sua maglietta era zuppo di sudore. “Caldo e
fumante!” Leo sogghignò dal timone. “Mi fa rimpiangere Houston!
Che dici, Hazel? Tutto quello di cui abbiamo bisogno adesso è
qualche zanzara gigante, e sarà proprio come la Gulf Coast!”
“Grazie tante, Leo,” brontolò Hazel. “Adesso verremo probabilmente
attaccati da zanzare mostro dell’Antica Grecia.” Frank studiò i due
ragazzi, riflettendo stupito su come la tensione tra loro due fosse
scomparsa. Qualsiasi cosa fosse accaduta a Leo durante i suoi
cinque giorni di esilio, lo aveva cambiato. Continuava a scherzare,
ma Frank avvertiva qualcosa di diverso in lui, come una nave con
una nuova chiglia. Magari non si poteva vedere la chiglia, ma capivi
che era lì dal modo in cui la nave tagliava le onde. Leo non
sembrava più così interessato nel prendere in giro Frank.
Chiacchierava con più disinvoltura con Hazel, senza rubare quegli
sguardi malinconici e sognanti che avevano sempre messo a disagio
Frank. Hazel aveva diagnosticato il problema in privato con Frank.
“Ha incontrato qualcuno.” Frank era stato incredulo. “Come? Dove?
Come fai a saperlo?” Hazel aveva sorriso. “Lo so e basta.” Come se
fosse stata una figlia di Venere piuttosto che di Plutone. Frank non lo
capiva. Ovviamente era sollevato dal fatto che Leo non ci stesse più
provando con la sua ragazza, ma Frank era anche un po’
preoccupato per lui. Certo, avevano le loro differenze; ma dopo tutto
quello che avevano passato insieme, Frank non voleva vedere Leo
con il cuore spezzato. “Là!” La voce di Nico lo scosse dai suoi
pensieri. Come al solito, di Angelo era appollaiato sulla cima
dell’albero maestro. Indicò verso un luccicante fiume verde che
serpeggiava attraverso le colline a un chilometro di distanza. “Portaci
in quella direzione. Siamo vicini al tempio. Molto vicini.” Come per
dimostrarlo, dei lampi neri esplosero nel cielo, lasciando dei puntini
scuri negli occhi di Frank e rizzandoli i peli sulle braccia. Jason si
assicurò la spada alla cintura. “Tutti quanti, preparate le armi. Leo,
facci avvicinare, ma non atterrare, nessun contatto con la terra più di
quelli necessari. Piper, Hazel, prendete le corde di ormeggio.” “Ci
sono!” disse Piper. Hazel diede a Frank un bacio sulla guancia e
corse ad aiutare. “Frank,” esclamò Jason, “vai sotto a chiamare il
Coach Hedge.” “Sì!” Scese le scale e si diresse verso la cabina di
Hedge. Mentre si avvicinava alla porta, rallentò. Non voleva
sorprendere il satiro con rumori forti. Il Coach Hedge aveva
l’abitudine di saltare usando la sua mazza da baseball se pensava
che ci fossero degli assalitori a bordo. Frank aveva quasi rischiato di
perdere la testa un paio di volte mentre andava in bagno. Sollevò la
mano per bussare. Poi si accorse che la porta era socchiusa. Sentì il
Coach Hedge parlare all’interno. “Andiamo, piccola!” disse il satiro.
“Sai che non è così!” Frank si gelò. Non aveva intenzione di origliare,
ma non sapeva che fare. Hazel aveva accennato al fatto che fosse
preoccupata per il coach. Aveva insistito sul fatto che ci fosse
qualcosa che lo preoccupava, ma Frank non ci aveva pensato molto
fino a quel momento. Non aveva mai sentito il coach parlare in modo
così gentile. Solitamente gli unici rumori che Frank sentiva provenire
dalla cabina del coach erano gli eventi sportivi alla tv, o il coach che
urlava, “Sì! Mettilo al tappeto!” mentre guardava i suoi film di arti
marziali preferiti. Frank era abbastanza sicuro che il coach non
avrebbe chiamato Chuck Norris piccola. Un’altra voce parlò,
femminile, ma a malapena udibile, come se provenisse da molto
lontano. “Lo farò,” assicurò il Coach Hedge. “Ma, uh, stiamo per
andare in battaglia” si schiarì la voce, “e le cose potrebbero farsi
serie. Tu pensa solo a rimanere al sicuro. Tornerò. Promesso.” Frank
non poteva più sopportarlo. Bussò rumorosamente. “Ehi, Coach?” Il
vocio si fermò. Frank contò fino a sei. La porta si spalancò. Il Coach
Hedge stava sulla soglia imbronciato, con gli occhi iniettati di
sangue, come se avesse guardato troppa televisione. Indossava il
suo solito cappellino da baseball e la tuta, con una corazza di pelle
sopra la maglietta e un fischietto appeso al collo, forse nel caso
avesse dovuto chiamare un fallo contro gli eserciti di mostri. “Zhang.
Cosa vuoi?” “Uh, ci stiamo preparando per la battaglia. Abbiamo
bisogno di lei sul ponte.” Il pizzetto del coach tremò. “Sì. Certo che
avete bisogno di me.” Suonava stranamente apatico all’idea di una
battaglia. “Non volevo… cioè, ho sentito che stava parlando,”
balbettò Frank. “Stava inviando un messaggio-Iride?” Sembrava che
Hedge stesse per dare uno schiaffo in faccia a Frank, o come
minimo suonare il suo fischietto molto forte. Poi le sue spalle
crollarono. Fece un sospiro profondo e si voltò per rientrare in
camera, lasciando Frank in piedi impacciato sulla soglia. Il coach
crollò sulla sua cuccetta. Posò il mento tra le mani e fissò
imbronciato la cabina. Il posto somigliava al dormitorio di un college
dopo un uragano, il pavimento era disseminato di biancheria (forse
per essere usata come vestiti, forse come merendine; era difficile da
dire con i satiri), DVD e piatti sporchi erano sparpagliati intorno alla
televisione sul mobile. Ogni volta che la nave si inclinava, una folla
male assortita di attrezzi sportivi rotolava lungo il pavimento, palloni
da calcio, da basket, da baseball, e per qualche strana ragione, un
unica palla da biliardo. Ciuffi di pelo di capra fluttuavano nell’aria e si
raccoglievano sotto i mobili in piccoli gruppi. Polvere di capra?
Batuffoli di capra? Sul comodino del coach c’era una ciotola d’acqua,
una pila di dracme dorate, una torcia e un prisma di vetro per creare
gli arcobaleni. Il coach era ovviamente venuto preparato per inviare
un sacco di messaggi-Iride. Frank si ricordò di quello che gli aveva
detto Piper sulla ragazza ninfa del coach, che lavorava per suo
padre. Qual era il nome della ragazza… Melinda? Millicent? No,
Mellie. “Uh, la sua ragazza Mellie sta bene?” tentò Frank. “Non sono
affari tuoi!” scattò il Coach. “Okay.” Hedge mandò gli occhi al cielo.
“Bene! Se vuoi saperlo, sì, stavo parlando con Mellie. Ma non è più
la mia ragazza.” “Oh…” Il cuore di Frank sprofondò. “Vi siete
lasciati?” “No, zuccone! Ci siamo sposati! È mia moglie!” Frank
sarebbe stato meno sorpreso se il coach l’avesse colpito. “Coach,
è… è meraviglioso! Quando, come…?” “Non sono affari tuoi!” urlò di
nuovo. “Um… va bene.” “Alla fine di maggio,” disse il coach.
“Appena prima che l’Argo II salpasse. Non volevamo farne una storia
troppo grande.” Frank si sentì come se la nave si stesse inclinando
di nuovo, ma doveva essere solo la sua mente. L’orda di attrezzi
sportivi rimase ferma contro la parete opposta della stanza. Per tutto
quel tempo il coach era stato sposato? Nonostante fosse uno
sposino novello, aveva accettato di partecipare a quell’impresa. Non
c’era da meravigliarsi che Hedge facesse così tante chiamate a
casa. Nessuna sorpresa che fosse così instabile e bellicoso.
Tuttavia… Frank aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di più.
Dal tono del coach durante il messaggio-Iride, sembrava che i due
stessero discutendo riguardo un problema. “Non volevo origliare,”
disse Frank. “Ma… lei sta bene?” “Era una conversazione privata!”
“Sì. Ha ragione.” “Bene! Te lo dirò.” Hedge si staccò un po’ di
pelliccia dalla coscia e la lasciò fluttuare in aria. “Si è presa una
pausa dal suo lavoro a Los Angeles, è andata al Campo
Mezzosangue per l’estate, perché avevamo pensato…“ La sua voce
si spezzò. “Avevamo pensato che sarebbe stato più scuro. Adesso è
bloccata lì, con i romani in procinto di attaccare. E’… è molto
spaventata.” Frank si fece improvvisamente consapevole della spilla
da centurione sulla sua maglietta, del tatuaggio SPQR
sull’avambraccio. “Mi dispiace,” mormorò. “Ma se è uno spirito delle
nuvole, non potrebbe semplicemente… sa, volare via?” Il coach
piegò le sue dita attorno al manico della sua mazza da baseball. “In
una situazione normale, sì. Ma vedi… si trova in una condizione
delicata. Non sarebbe sicuro.” “Una condizione…” Frank spalancò gli
occhi. “Sta per avere un bambino? Lei sta per diventare padre?”
“Urlalo un po’ più forte,” brontolò Hedge. “Non credo che ti abbiamo
sentito in Croazia.” Frank non poté fare a meno di sorridere. “Ma,
Coach, è meraviglioso! Un piccolo satiro? O magari una ninfa? Sarà
un padre fantastico.” Frank non era certo del perché si sentisse così,
considerando l’amore del coach per le mazze da baseball e i calci
rotanti, ma ne era certo. Il broncio del Coach Hedge si fece persino
più profondo. “La guerra sta arrivando, Zhang. Nessun posto è
sicuro. Dovrei trovarmi là per Mellie. Se devo morire da qualche
parte…“ “Ehi, nessuno morirà,” disse Frank. Hedge incrociò il suo
sguardo. Frank poteva capire che il coach non ci credeva. “Ho
sempre avuto un debole per i figli di Ares,” borbottò Hedge. “O di
Marte, quello che è. Forse è questo il motivo per cui non ti sto
polverizzando per tutte le tue domande.” “Ma non stavo…“ “Bene, te
lo dirò!” Hedge fece un altro sospiro. “Quando mi assegnarono il mio
primo incarico come cercatore, mi trovavo molto fuori, in Arizona.
Portai questa ragazzina chiamata Clarisse.” “Clarisse?” “Una dei tuoi
fratelli,” disse Hedge. “Una figlia di Ares. Violenta. Rude. Un sacco di
potenziale. Ad ogni modo, mentre mi trovavo fuori, ebbi questo
sogno su mia madre. Lei… lei era una ninfa delle nuvole come
Mellie. Sognai che si trovava nei guai e che aveva immediatamente
bisogno del mio aiuto. Ma mi dissi, Nah, è solo un sogno. Chi
farebbe del male a una dolce anziana ninfa delle nuvole? Inoltre,
devo portare questa mezzosangue al sicuro. Così conclusi la mia
missione, portai Clarisse al Campo Mezzosangue. Dopo, andai in
cerca di mia madre. Arrivai troppo tardi.” Frank guardò i ciuffi di peli
di capra posarsi sopra la mazza da baseball. “Cosa le è accaduto?”
Hedge scrollò le spalle. “Non ne ho idea. Non la rividi mai più. Forse
se fossi stato là per lei, se fossi tornato prima…” Frank voleva dire
qualcosa per confortarlo, ma non sapeva cosa. Lui aveva perso sua
madre nella guerra in Afghanistan, e sapeva quanto potessero
suonare vuote le parole Mi dispiace. “Stava facendo il suo lavoro,”
tentò Frank. “Ha salvato la vita di un semidio.” Hedge grugnì.
“Adesso mia moglie e mio figlio si trovano in pericolo, dall’altra parte
del mondo, ed io non posso fare nulla per aiutare.” “Lei sta facendo
qualcosa,” disse Frank. “Ci troviamo qui per impedire ai giganti di
svegliare Gea. Questo è il modo migliore nel quale possiamo
proteggere i nostri amici.” “Sì. Sì, immagino sia così.” Frank desiderò
poter fare di più per sollevare il morale di Hedge, ma quella
chiacchierata stava facendo preoccupare lui per tutti coloro che
aveva lasciato alle spalle. Si chiese chi stesse difendo il Campo
Giove adesso che la legione si trovava ad est, soprattutto con tutti i
mostri che Gea stava sguinzagliando dalle Porte della Morte. Era
preoccupato per i suoi amici della Quinta Coorte, e di come si
dovevano sentire adesso che Ottaviano aveva ordinato di marciare
contro il Campo Mezzosangue. Frank voleva trovarsi di nuovo là,
anche solo per ficcare un orsacchiotto nella gola di quel viscido
augure. La nave si inclinò in avanti. Il gruppo di attrezzi sportivi
rotolò sotto la cuccetta del coach. “Stiamo atterrando,” disse Hedge
“Faremo meglio a salire.” “Sì,” disse Frank, con la voce roca. “Sei un
romano curioso, Zhang.” “Ma…“ “Andiamo,” disse Hedge. “E non
una sola parola su questo agli altri, chiacchierone che non sei altro.”
Mentre gli altri assicuravano gli ancoraggi aerei, Leo afferrò Frank e
Hazel dalle braccia. Li trascinò alla balista di poppa. “Okay, ecco il
piano.” Hazel strinse gli occhi. “Detesto i tuoi piani.” “Ho bisogno di
quel legnetto magico,” disse Leo. “Adesso!” Frank rischiò quasi di
strozzarsi con la sua stessa lingua. Hazel indietreggiò, coprendosi
istintivamente la tasca del giacchetto. “Leo, non puoi…“ “Ho trovato
una soluzione.” Leo si voltò verso Frank. “E’ una tua scelta,
ragazzone, ma posso proteggerti.” Frank pensò a tutte le volte nelle
quali aveva visto le dita di Leo prendere fuoco. Un movimento
sbagliato, e Leo poteva incenerire il pezzo di legno che controllava la
vita di Frank. Ma per qualche ragione, Frank non era terrorizzato. Da
quando aveva affrontato i mostri mucca a Venezia, aveva a stento
pensato alla sua delicata linea vitale. Sì, la più piccola fiamma
avrebbe potuto ucciderlo. Ma era anche sopravvissuto a delle cose
impossibili e aveva reso suo padre orgoglioso. Frank aveva deciso
che qualunque fosse il suo destino, non se ne sarebbe preoccupato.
Avrebbe semplicemente fatto il meglio che poteva per aiutare i suoi
amici. Inoltre, Leo suonava serio. I suoi occhi erano ancora carici di
quella strana malinconia, come se si trovasse in due posti
contemporaneamente; ma nulla nella sua espressione indicava
qualche tipo di scherzo. “Vai, Hazel,” disse Frank. “Ma…” Hazel fece
un respiro profondo. “Okay.” Tirò fuori il legnetto e lo passò a Leo.
Nelle mani di Leo, non era molto più grande di un cacciavite. Il
legnetto era ancora bruciacchiato ad un’estremità, dove Frank
l’aveva usato per bruciare le catene di ghiaccio che aveva
imprigionato il dio Tanato in Alaska. Da una tasca della sua cintura
degli attrezzi, Leo tirò fuori un pezzo di tessuto bianco. “Ammirate!”
Frank si accigliò. “Un fazzoletto?” “Una bandiera bianca?” indovinò
Hazel. “No, miscredenti!” disse Leo. “Questo è un sacchetto fatto
con un tessuto davvero forte, un dono da una mia amica.” Leo fece
scivolare il legnetto nel sacchettino e lo chiuse con un nodo fatto con
un filo di bronzo. “Il cordoncino è stata una mia idea,” disse Leo con
orgoglio. “Ci è voluto un po’ di lavoro per intrecciarlo nel tessuto, ma
il sacchetto non si aprirà a meno che non lo voglia tu. Il tessuto
traspira proprio come i vestiti normali, quindi il legno non è più
sigillato di quanto non lo sarebbe nella tasca del giacchetto di
Hazel.” “Uh…” disse Hazel. “Allora che miglioramento c’è?” “Tienilo
tu, così non ti faccio venire un attacco di cuore.” Leo lanciò il
sacchettino a Frank, che lo fece quasi cadere. Leo invocò una palla
di fuoco bianco nella mano destra. Tenne l’avambraccio sinistro sulle
fiamme, sogghignando mentre queste lambivano la manica del suo
giacchetto. “Vedete?” disse. “Non brucia!” A Frank non piaceva
dover discutere con qualcuno che aveva una palla di fuoco in mano,
ma disse, “Uh… tu sei immune alle fiamme.” Leo mandò gli occhi al
cielo. “Sì, ma devo concentrarmi se voglio che i miei vestiti non
brucino. E ora non mi sto concentrando, vedete? Questo è un
tessuto totalmente a prova di fuoco. Il che vuol dire che il tuo
legnetto non brucerà in quel sacchetto.” Hazel non sembrava
convinta. “Come fai ad esserne certo?” “Caspita, pubblico difficile.”
Leo spense il fuoco. “Immagino che ci sia un solo modo per
convincervi.” Tese la mano verso Frank. “Uh, no, no.” Frank
indietreggiò. Improvvisamente tutti quei pensieri coraggiosi
sull’accettare il suo destino sembravano molto lontani. “Va bene
così, Leo. Grazie, ma non… non posso…“ “Amico, devi fidarti di me.”
Il cuore di Frank stava correndo. Si fidava di Leo? Bè, certo… se si
trattava di un motore. Se doveva fare una battuta. Ma se si trattava
della sua vita? Si ricordò del giorno in cui era rimasto bloccato nel
laboratorio sotterraneo a Roma. Gea aveva assicurato che
sarebbero morti in quella stanza. Leo aveva promesso che avrebbe
tirato Frank e Hazel fuori da quella trappola. E l’aveva fatto. Adesso
Leo stava parlando con quella stessa sicurezza. “Okay.” Frank
passò il sacchettino a Leo. “Cerca di non uccidermi.” La mano di Leo
prese fuoco. Il sacchettino non si annerì né bruciò. Frank attese che
qualcosa andasse orribilmente storto. Contò fino a venti, ma era
ancora vivo. Si sentiva come se un blocco di ghiaccio si stesse
sciogliendo appena dietro il suo sterno, un ammasso di paura
congelata al quale aveva fatto così tanta abitudine che non ci aveva
nemmeno pensato finché non ne se fu andato. Leo estinse le
fiamme. Inarcò le sopracciglia verso Frank. “Chi è il migliore?” “Non
rispondere,” fisse Hazel. “Ma, Leo, è stato incredibile.” “Lo è, vero?”
concordò Leo. “Allora, chi vuole prendere questo nuovo legnetto
ultra-protetto?” “Lo terrò io,” disse Frank. Hazel si morse le labbra.
Abbassò lo sguardo, forse così che Frank non vedesse il dolore nei
suoi occhi. Aveva protetto quel legnetto per lui attraverso numerose
battaglie difficili. Era un segno della fiducia tra loro due, un simbolo
della loro relazione. “Hazel, non sei tu,” disse Frank, nel modo più
gentile possibile. “Non riesco a spiegarlo, ma ho… ho la sensazione
che dovrò farmi avanti quando saremo nella Casa di Ade. Devo
portare i miei stessi fardelli.” Gli occhi dorati di Hazel erano carichi di
preoccupazione. “Capisco. Solo… mi preoccupo.” Leo lanciò il
sacchettino a Frank. Lui se lo legò intorno alla cintura. Era strano
portare la sua debolezza fatale così esposta, dopo mesi in cui era
stata tenuta nascosta. “E, Leo,” disse, “grazie.” Sembrava
inadeguato per il dono che gli aveva fatto, ma Leo sogghignò. “A
cosa servono gli amici geniali?” “Ehi, ragazzi!” chiamò Piper dalla
prua. “E’ meglio se venite qui. Dovete vederlo.” Trovarono la fonte
dei lampi neri. L’Argo II era librata direttamente sopra il fiume. A
qualche centinaio di metri di distanza, sulla cima della collina più
vicina, si trovava un gruppo di rovine. Non sembravano chissà cosa,
solo qualche muro cadente che circondava il guscio di pietra
calcarea di qualche edificio, ma da qualche parte all’interno delle
rovine, dei lampi di luce si curvavano verso il cielo, come un
calamaro di fumo che si affacciava dalla sua grotta. Mentre Frank
guardava, un lampo di energia scura squarciò l’aria, facendo tremare
la nave e inviando una fredda onda d’urto tutto intorno. “Il
Necromanteion,” disse Nico. “La Casa di Ade.” Frank si resse alla
ringhiera per mantenere l’equilibrio. Immaginava che fosse troppo
tardi per suggerire di tornare indietro. Stava cominciando a sentire
nostalgia dei mostri che aveva combattuto a Roma. Accidenti,
inseguire delle mucche velenose era stato più allettante di quel
posto. Piper si strinse le braccia attorno al corpo. “Mi sento
vulnerabile quassù. Non potremmo atterrare nel fiume?” “Io non lo
farei,” disse Hazel. “Quello è il Fiume Acheronte.” Jason strizzò gli
occhi contro il sole. “Pensavo che l’Acheronte scorresse
nell’Oltretomba.” “Infatti,” disse Hazel. “Ma la sua sorgente si trova
nel mondo mortale. Il fiume qua sotto? Alla fine scorre sottoterra,
dritto nel regno di Plutone, o di Ade. Far atterrare una nave di
semidei in quelle acque…“ “Sì, rimaniamo quassù,” decise Leo. “Non
voglio nessuno zombie di acqua sul mio scafo.” A mezzo chilometro
di distanza lungo il corso d’acqua, alcune barche di pescherecci
stavano galleggiando pacificamente. Frank indovinò che non
conoscessero, o che non li importasse la storia di quel fiume.
Doveva essere bello, essere un normale mortale. Accanto a Frank,
Nico di Angelo sollevò lo scettro di Diocleziano. La sua sfera brillò di
luce viola, come fosse in armonia con la tempesta scura. Reliquia
romana o meno, lo scettro rendeva Frank nervoso. Se aveva
davvero il potere di invocare una legione di morti… bè, Frank non
era certo che fosse un’idea così buona. Una volta Jason gli aveva
detto che i figli di Marte avevano una capacità simile. A quanto
sembrava, Frank poteva chiamare i fantasmi dei soldati che avevano
fatto parte della schiera perdente di qualsiasi guerra per farsi servire.
Non aveva mai avuto molta fortuna con quel potere, probabilmente
perché lo terrorizzava troppo. Era preoccupato che potesse
diventare uno di quei fantasmi se perdevano quella guerra,
eternamente condannato a pagare per i suoi fallimenti, assumendo
che ci fosse rimasto qualcuno per invocarlo. “Allora, uh, Nico…”
Frank fece un gesto verso lo scettro. “Hai imparato a usare quella
cosa?” “Lo scopriremo.” Nico fissò i lampi di buio che ondeggiavano
dalle rovine. “Non ho intenzione di provarci finché non sarò costretto.
Le Porte della Morte stanno già facendo gli straordinari per
trasportare i mostri di Gea. Qualsiasi altra attività per risvegliare i
morti, e le Porte potrebbero distruggersi definitivamente, lasciando
uno squarcio nel mondo mortale che non può essere chiuso.” Il
Coach Hedge grugnì. “Detesto gli squarci nel mondo. Andiamo a far
esplodere qualche testa di mostro.” Frank guardò l’espressione seria
del satiro. Improvvisamente gli venne un’idea. “Coach, lei dovrebbe
rimanere a bordo, a coprirci con le baliste.” Hedge si accigliò.
“Rimanere indietro? Io? Sono il vostro soldato migliore!” “Potremmo
aver bisogno di supporto aereo,” disse Frank. “Come abbiamo fatto
a Roma. Ci ha salvato le brache.” Non aggiunse: Inoltre, vorrei che
tornasse vivo da sua moglie e da suo figlio. Apparentemente, Hedge
afferrò il messaggio. Il suo cipiglio si rilassò. Il sollievo era evidente
nei suoi occhi. “Bè…” brontolò, “immagino che qualcuno dovrà
salvare le vostre brache.” Jason diede delle pacche sulle spalle del
coach. Poi annuì con apprezzamento verso Frank. “Allora è deciso.
Tutti gli altri andiamo alle rovine. È arrivato il momento di mandare a
monte la festa di Gea.”
66

FRANK

Nonostante il calore di mezzogiorno e la violenta tempesta di


energia morta, un gruppo di turisti stava scalando verso le rovine.
Fortunatamente non erano molti, e non degnarono i semidei di
un’occhiata. Dopo le folle di Roma, Frank aveva smesso di
preoccuparsi troppo di essere notato. Se potevano far volare la loro
nave da guerra nel Colosseo romano con le baliste in azione e non
provocare neanche un rallentamento nel traffico, immaginava che
potessero cavarsela in qualsiasi situazione. Nico apriva la strada.
Sulla cima della collina, si arrampicarono oltre un antico muro di
difesa e scesero all’interno di un fossato scavato. Alla fine arrivarono
a un arco di pietra che portava dritto nel fianco della collina. La
tempesta di morte sembrava avere origine esattamente da sopra le
loro teste. Guardando i vorticanti tentacoli di oscurità, Frank ebbe la
sensazione di trovarsi intrappolato sul fondo di un gabinetto che
veniva scaricato. La cosa non gli calmò affatto i nervi. Nico si rivolse
verso l’intero gruppo. “Da qui in poi, si fa difficile.” “Bello,” disse Leo.
“Perché finora ci siamo andati assolutamente leggeri.” Nico lo fissò.
“Vedremo quanto durerà il tuo senso dell’umorismo. Ricordatevi, qui
è dove si recavano i pellegrini per unirsi agli antenati morti.
Sottoterra, potreste vedere cose che sono difficili da guardare, o
sentire delle voci che cercano di attirarvi lontano dal percorso,
facendovi smarrire tra i tunnel. Frank, hai le tortine di orzo?” “Cosa?”
Frank stava pensando a sua nonna e a sua madre, chiedendosi se
gli sarebbero apparse. Per la prima volta da giorni le voci di Ares e
Marte avevano ricominciato a discutere nella sua mentre, dibattendo
sui loro tipi di morte violenta preferiti. “Ho io le torte,” disse Hazel.
Tirò fuori le sfoglie di farina di orzo magiche che avevano cucinato
con il grano che Trittolemo gli aveva dato a Venezia. “Mangiatele,”
avvisò Nico. Frank masticò la sua sfoglia di morte e cercò di non
soffocarsi. Gli ricordava un biscotto con la segatura al posto dello
zucchero. “Yum,” disse Piper. Persino la figlia di Afrodite non poté
evitare di fare una smorfia. “Okay.” Nico ingoiò l’ultimo pezzo di
sfoglia. “Questo dovrebbe proteggerci dal veleno.” “Veleno?” chiese
Leo. “Mi sono perso il veleno? Perché io adoro il veleno.” “Presto,”
assicurò Nico. “Dobbiamo rimanere uniti, e forse potremmo evitare di
perderci o di impazzire.” E con quel pensiero allegro, Nico li guidò
sottoterra. Il tunnel scendeva gradualmente verso il basso, con il
soffitto sorretto da degli archi di pietra bianca che ricordavano a
Frank la cassa toracica di una balena. Mentre camminavano, Hazel
fece scivolare le mani sulla parete. “Questo non era parte di un
tempio,” sussurrò. “Questo era… la cantina di una villa nobile,
costruita successivamente, durante il periodo greco.” Frank trovava
inquietante il modo in cui Hazel potesse capire così tanto di un luogo
sotterraneo solo trovandosi lì. Per quello che sapeva, non si era mai
sbagliata. “Una villa nobile?” chiese lui. “Ti prego, non dirmi che ci
troviamo nel posto sbagliato.” “La Casa di Ade si trova sotto di noi,”
lo rassicurò Nico. “Ma Hazel ha ragione, questi livelli superiori sono
molto più nuovi. Quando gli archeologi portarono alla luce questo
posto, pensarono di aver trovato il Necromanteion. Poi si accorsero
che le rovine erano troppo recenti, così decisero che si trovavano nel
punto sbagliato. Avevano indovinato al primo tentativo. Solo che non
scavarono abbastanza in profondità.” Svoltarono un angolo e si
fermarono. Davanti a loro, il tunnel finiva con un enorme blocco di
pietra. “Una frana sotterranea?” chiese Jason. “Un test,” disse Nico.
“Hazel, faresti gli onori?” Hazel si fece avanti. Posò la mano sulla
roccia, e l’intero masso si ridusse in polvere. Il tunnel tremò. Delle
crepe si aprirono lungo il soffitto. Per un terrificante attimo, Frank
immaginò che sarebbero stati tutti schiacciati sotto tonnellate di
terra, un modo deludente di morire, dopo tutto quello che avevano
affrontato. Il rombo cessò. La polvere si posò a terra. Una scalinata
scendeva più in profondità nella terra, con il soffitto a volta sorretto
da un’altra serie di archi, più vicini gli uni agli altri e scolpiti con
lucida pietra nera. Gli archi in discesa fecero venire le vertigini a
Frank, come se stesse guardando in uno specchio riflettente che
andava avanti all’infinito. Dipinte sulle pareti c’erano delle grezze
immagini di bestiami che marciavano verso il basso. “Non mi
piacciono proprio le mucche,” borbottò Piper. “Sono d’accordo,”
disse Frank. “Quelli sono i bestiami di Ade,” disse Nico. “E’ solo un
simbolo di…“ “Guardate.” Frank indicò. Sul primo scalino delle scale,
si trovava un luccicante calice dorato. Frank era sicurissimo che non
si trovava là fino a un attimo prima. Il calice era pieno di un liquido
verde scuro. “Urrà,” disse Leo con tono apatico. “Immagino che
quello sia il nostro veleno.” Nico raccolse il calice. “Ci troviamo
sull’antica entrata del Necromanteion. Odisseo venne qui, insieme
ad altre dozzine di eroi, in cerca di consigli dai morti.” “I morti li
avvertivano di andarsene immediatamente?” chiese Leo. “Io
accetterei quel consiglio,” ammise Piper. Nico bevve dal calice, poi lo
offrì a Jason. “Mi hai parlato di fiducia, e di correre dei rischi? Bè,
ecco qui, figlio di Giove. Quanto ti fidi di me?” Frank non sapeva di
cosa stesse parlando Nico, ma Jason non esitò. Prese il calice e
bevve. Lo fecero passare per tutto il gruppo, e ogni membro prese
un sorso di veleno. Mentre aspettava il suo turno, Frank cercò di
controllare le gambe che gli tremavano e lo stomaco che si agitava.
Si chiese cosa avrebbe detto sua nonna se avesse potuto vederlo.
Stupido, Fai Zhang! Lo avrebbe probabilmente rimproverato. Se tutti
i tuoi amici bevessero il veleno, lo faresti anche tu? Frank fu l’ultimo.
Il sapore del liquido verde gli ricordava quello del succo di mela
andato a male. Svuotò il calice. Questo si trasformò in fumo tra le
sue mani. Nico annuì, apparentemente soddisfatto. “Congratulazioni.
Assumendo che il veleno non ci uccida, dovremmo essere in grado
di passare attraverso il primo livello del Necromanteion.” “Solo il
primo livello?” chiese Piper. Nico si girò verso Hazel e fece un gesto
verso le scale. “Dopo di te, sorella.” Immediatamente, Frank si sentì
completamente perso. Le scale si dividevano in tre diverse direzioni.
Non appena Hazel scelse un percorso, le scale si divisero di nuovo.
Si fecero strada attraverso dei tunnel interconnessi e delle primitive
camere sepolcrali che avevano tutte lo stesso aspetto, le pareti
scavate con polverose nicchie che probabilmente una volta avevano
ospitato dei corpi. Gli archi sopra le porte erano dipinti con mucche
nere, alberi di pioppo bianchi e gufi. “Pensavo che il gufo fosse il
simbolo di Minerva,” mormorò Jason. “Il gufo urlante è uno degli
animali sacri di Ade,” disse Nico. “Il suo grido simboleggia un brutto
presagio.” “Da questa parte.” Hazel indicò un arco che aveva lo
stesso aspetto di tutti gli altri. “E’ l’unico che non ci crollerà addosso.”
“In questo caso, buona scelta,” disse Leo. Frank iniziò a sentirsi
come se stesse lasciando il mondo dei vivi. La sua pelle pungeva, e
si chiese se fosse un effetto collaterale del veleno. Il sacchettino con
il suo legnetto sembrava più pesante appeso alla sua cintura. Nel
brillio inquietante delle loro armi magiche, i suoi amici
assomigliavano a fantasmi tremolanti. Dell’aria fredda gli accarezzò
il volto. Nella sua mente, Ares e Marte si erano fatti silenziosi, ma
Frank credeva di sentire altre voci che sussurravano nei corridoi
laterali, invitandolo a cambiare strada, ad avvicinarsi per ascoltarli
parlare. Finalmente raggiunsero un arco scolpito con forme di teschi
umani, o forse erano teschi umani incastonati nella roccia. Nella luce
viola dello scettro di Diocleziano, le orbite vuote dei teschi
sembravamo ammiccare. Frank stava quasi per colpire il soffitto
quando Hazel gli posò una mano sul braccio. “Questa è l’entrata del
secondo livello,” disse. “E’ meglio se do un’occhiata.” Frank non si
era nemmeno accorto che si era spostato davanti all’entrata. “Uh,
certo…” Le fece spazio. Hazel fece scorrere le dita lungo i teschi
scolpiti. “Nessuna trappola sulla porta, ma… c’è qualcosa di strano
qui. I miei sensi sotterranei sono… sono confusi, come se qualcuno
mi stesse opponendo, nascondendo quello che ci aspetta davanti.”
“La maga della quale ti ha parlato Ecate?” indovinò Jason. “Quella
che Leo ha visto nei suoi sogni? Come si chiamava?” Hazel si morse
le labbra. “Sarebbe più sicuro non pronunciare il suo nome. Ma state
in guardia. Di una cosa sono certa: da questo punto in poi, i morti
sono più forti dei vivi.” Frank non era certo di come facesse a
saperlo, ma le credeva. Le voci nell’oscurità sembravano sussurrare
più forte. Catturò dei lampi di movimento nelle ombre. Dal modo in
cui gli occhi dei suoi amici saettavano intorno alla stanza, indovinò
che li vedessero anche loro. “Dove sono i mostri?” chiese ad alta
voce. “Pensavo che Gea avesse un esercito a sorvegliare le Porte”
“Non lo so,” disse Jason. La sua carnagione pallida appariva verde
come il veleno del calice. “A questo punto preferirei quasi uno
scontro diretto.” “Attento a quello che desideri, amico.” Leo invocò
una palla di fuoco nella mano, e per una volta Frank fu contento di
vedere le fiamme. “Personalmente, sto sperando che non ci sia
nessuno in casa. Entriamo, troviamo Percy e Annabeth,
distruggiamo le Porte della Morte, e usciamo. Magari ci fermiamo al
negozio di souvenir.” “Sì,” disse Frank. “Andrà proprio così.” Il tunnel
tremò. Dei detriti caddero dal soffitto. Hazel afferrò la mano di Frank.
“Era vicino,” mormorò. “Questi corridoi non reggeranno ancora a
lungo” “Le Porte della Morte si sono appena riaperte,” disse Nico.
“Accade più o meno ogni quindici minuti,” notò Piper. “Ogni dodici,”
la corresse Nico, anche se non spiegò come facesse a saperlo.
“Faremo meglio a sbrigarci. Percy ed Annabeth sono vicini. Sono in
pericolo. Posso avvertirlo.” Mentre procedevano più in profondità, i
corridoi si allargarono. Il soffitto salì fino a sei metri, decorato con
elaborati dipinti di gufi tra i rami di bianchi pioppi. Lo spazio in più
avrebbe dovuto sollevare Frank, ma tutto quello a cui riusciva a
pensare era la situazione tattica. I tunnel erano abbastanza grandi
per ospitare grossi mostri, persino giganti. Ovunque c’erano angoli
ciechi, perfetti per le imboscate. Il loro gruppo poteva essere
facilmente affiancato o circondato. Non avrebbero avuto nessuna
opzione di ritirata. Tutti gli istinti di Frank gli dicevano di uscire da
quei tunnel. Se non c’era nessun mostro visibile, quello voleva solo
dire che si stavano nascondendo, in attesa di far scattare la trappola.
Anche se Frank lo sapeva, non c’era molto che potesse fare.
Dovevano trovare le Porte della Morte. Leo tenne il fuoco vicino alle
pareti. Frank vide delle antiche scritte in greco antico graffiate nella
pietra. Non sapeva leggere il greco antico, ma indovinò che si
trattava si preghiere o di suppliche ai morti, scritte dai pellegrini
migliaia di anni prima. Il pavimento del tunnel era cosparso da
frammenti di ceramica e monete d’argento. “Offerte?” indovinò Piper.
“Sì,” disse Nico. “Se volevi che comparissero i tuoi antenati, dovevi
fare un’offerta.” “Noi non facciamo offerte,” suggerì Jason. Nessun lo
contraddisse. “Da qui il tunnel è instabile,” avvertì Hazel. “Il
pavimento potrebbe… bè, voi seguitemi, camminate esattamente
dove passo io.” Andò in avanti. Frank camminava subito dopo di lei,
non perché si sentisse particolarmente coraggioso, ma perché
voleva essere vicino se Hazel avesse avuto bisogno di aiuto. Le voci
del dio della guerra avevano ripreso a litigare nelle sue orecchie.
Poteva avvertire il pericolo, molto vicino adesso. Fai Zhang. Si fermò
di colpo. Quella voce… non era quella di Ares o Marte. Sembrava
essere vicino a lui, come se qualcuno gli stesse sussurrando
nell’orecchio. “Frank?” sussurrò Jason dietro di lui. “Hazel, aspetta
un secondo. Frank, cosa c’è che non va?” “Nulla,” mormorò Frank.
“Ho solo…“ Pylos, disse la voce. Ti aspetto a Pylos. Frank aveva la
sensazione che il veleno gli stesse risalendo lungo la gola. Era stato
spaventato numerose volte in passato. Aveva persino affrontato il
dio della Morte. Ma quella voce lo terrorizzava in modo diverso. Gli
risuonava nelle ossa, come se conoscesse ogni cosa di lui, la sua
maledizione, la sua storia, il suo futuro. Sua nonna aveva sempre
preso seriamente la tradizione dell’onorare gli antenati. Era una cosa
Cinese. Dovevi appagare i fantasmi. Dovevi prenderli seriamente.
Frank aveva sempre pensato che le superstizioni di sua nonna
fossero sciocche. Adesso aveva cambiato idea. Non aveva nessun
dubbio… la voce che gli aveva parlato era uno dei suoi antenati.
“Frank, non muoverti.” Hazel suonava spaventata. Abbassò lo
sguardo e si rese conto che era in procinto di uscire dal percorso.
Per sopravvivere, devi guidare, disse la voce. Alla rottura, devi
prendere il comando. “Guidare dove?” chiese ad alta voce. Poi la
voce scomparve. Frank poteva avvertire la sua assenza, come se
improvvisamente fosse precipitata l’umidità. “Uh, ragazzone?” disse
Leo. “Potresti non impazzire? Per favore e grazie.” Gli amici di Frank
lo stavano tutti guardando preoccupati. “Sto bene,” riuscì a dire.
“Solo… una voce.” Nico annuì. “Ti avevo avvertito. Non farà che
peggiorare. Dovremmo…“ Hazel alzò la mano per chiedere silenzio.
“Aspettate tutti qui.” A Frank non piaceva, ma lei avanzò da sola. Lui
contò fino a ventitré prima di vederla tornare, con il volto teso e
meditabondo. “Stanza paurosa davanti a noi,” avvertì. “Non fatevi
prendere dal panico.” “Quelle due cose non vanno d’accordo
insieme,” mormorò Leo. Ma seguirono tutti Hazel nella caverna. La
stanza assomigliava a una cattedrale circolare, con un soffitto così
alto che si perdeva nel buio. Dozzine di altri tunnel portavano in varie
direzioni, ognuno riecheggiante di voci spettrali. La cosa che rese
Frank nervoso fu il pavimento. Era un raccapricciante mosaico di
ossa e gemme, femori umani, bacini, e costole distorte e fuse
insieme fino a formare una superficie liscia, punteggiata di diamanti
e rubini. Le ossa formavano dei disegni, come dei contorsionisti
scheletrici intrecciati insieme, avvolti per proteggere le pietre
preziose, una danza di morte e ricchezze. “Non toccate nulla,” disse
Hazel. “Non avevo intenzione di farlo,” borbottò Leo. Jason studiò
l’uscita. “Adesso da che parte si va?” Per una volta, Nico apparve
incerto. “Questa dovrebbe essere la camera dove i preti invocavano
gli spiriti più potenti. Uno di questi passaggi porta più in profondità
nel tempio, fino al terzo livello e all’altare di Ade stesso. Ma
quale…?” “Quello.” Frank indicò un tunnel. Sulla soglia di un
corridoio all’estremità opposta della stanza, uno spettrale legionario
romano gli fece cenno di avvicinarsi. Il suo volto era nebbioso e
indistinto, ma Frank ebbe la sensazione che il fantasma stesse
guardando dritto verso di lui. Hazel si accigliò. “Perché quello?” “Non
vedete il fantasma?” chiese Frank. “Fantasma?” chiese Nico.
Okay… se Frank stava vedendo un fantasma che i figli
dell’Oltretomba non vedevano, c’era senza dubbio qualcosa che non
andava. Si sentì come se il pavimento stesse vibrando sotto i suoi
piedi. Poi si rese conto che stava vibrando. “Dobbiamo raggiungere
quell’uscita,” disse. “Adesso!” Hazel dovette quasi placcarlo per
fermarlo. “Aspetta, Frank! Questo pavimento non è stabile, e sotto…
bè, non sono certa di cosa ci sia sotto. Devo trovare un passaggio
sicuro.” “Allora fallo in fretta,” la incitò. Tirò fuori il suo arco e scortò
Hazel quanto più velocemente osasse andare. Leo correva dietro di
lui per fare luce. Gli altri erano nella retroguardia. Frank poteva
capire che stava spaventando i suoi amici, ma non poteva farci nulla.
Sapeva nella pancia che avevano solo pochi secondi prima che…
Davanti a loro, il fantasma legionario si vaporizzò. La caverna
riecheggiò con mostruosi ruggiti, dozzine, forse centinaia di nemici
che stavano arrivando da tutte le direzioni. Frank riconobbe l’urlo
roco dei Figli della Terra, lo strillo dei grifoni, il gutturale grido di
battaglia dei Ciclopi, tutti suoni che si ricordava dalla Battaglia di
Nuova Roma, amplificati sottoterra, riecheggianti nella sua testa
persino più forte delle voci del dio della guerra. “Hazel, non fermarti!”
ordinò Nico. Prese lo scettro di Diocleziano dalla sua cintura. Piper e
Jason sguainarono le spade mentre i mostri si riversavano nella
caverna. Un’avanguardia di Figli della Terra dalle sei braccia lanciò
una raffica di pietre che frantumò il pavimento fatto di gioielli ed ossa
come fosse ghiaccio. Una crepa si allargo dal centro della stanza,
correndo dritta verso Leo e Hazel. Non c’era tempo per essere cauti.
Frank placcò i suoi amici, e insieme scivolarono tutti e tre sul
pavimento della caverna, atterrando sul bordo del tunnel del
fantasma mentre pietre e lance volavano sopra di loro. “Andate!”
gridò Frank. “Andate, andate!” Hazel e Leo si riversarono nel tunnel,
che sembrava essere l’unico libero dai mostri. Frank non sapeva se
fosse un buon segno. Dopo due metri, Leo si voltò. “Gli altri!” L’intera
caverna tremò. Frank si guardò indietro e il suo coraggio si ridusse
in polvere. A dividere la caverna c’era un nuovo abisso di quindici
metri, unito solo da due traballanti strisce di pavimento di ossa. La
massa dell’esercito dei mostri si trovava dall’altra parte, urlante di
frustrazione e intenta a lanciare qualsiasi cosa riuscissero a trovare,
inclusi loro stessi. Alcuni cercarono si attraversare i ponti, che
scricchiolarono e si creparono sotto il loro peso. Jason, Piper e Nico
si trovavano nella parte vicina dell’abisso, il che era un bene, ma
erano circondati da un anello di Ciclopi e segugi infernali. Altri mostri
continuavano a riversarsi dai corridoi laterali, mentre i grifoni
volavano da sopra, non scoraggiati dal pavimento cadente. I tre
semidei non sarebbero mai riusciti a raggiungere il tunnel. Anche se
Jason avesse provato a farli volare, sarebbero stati attaccati via
aerea. Frank si ricordò della voce del suo antenato: Alla rottura, devi
prendere il comando. “Dobbiamo aiutarli,” disse Hazel. La mente di
Frank stava correndo, facendo dei calcoli di battaglia. Vide
esattamente quello che sarebbe accaduto, dove e quando i suoi
amici sarebbero stati sopraffatti, come tutti loro sei sarebbero morti
in quella caverna… a meno che Frank non avesse cambiato
l’equazione. “Nico!” gridò. “Lo scettro.” Nico sollevò lo scettro di
Diocleziano, e l’aria della caverna brillò di viola. Dei fantasmi si
arrampicarono dalle crepe nel pavimento e filtrarono dalle pareti,
un’intera legione romana in tenuta da battaglia. Iniziarono ad
assumere una forma fisica, come cadaveri ambulanti, ma
sembravano confusi. Jason gridò in latino, ordinando loro di formare
dei ranghi e di attaccare. I morti si limitarono a muoversi confusi tra i
mostri, causando un momentaneo scompiglio, ma non sarebbe
durato. Frank si voltò verso Hazel e Leo. “Voi due andate avanti.” Gli
occhi di Hazel si spalancarono. “Cosa? No!” “Dovete.” Era la cosa
più difficile che Frank avesse mai fatto, ma sapeva che era l’unica
scelta. “Trovate le Porte. Salvate Annabeth e Percy.” “Ma…“ Leo
guardò oltre la spalla di Frank. “Giù!” Frank si gettò a terra per
ripararsi mentre una raffica di pietre volava sopra la sua testa.
Quando riuscì ad alzarsi, tossendo e ricoperto di polvere, l’entrata
del tunnel era sparita. Un’intera sezione del muro era crollata,
lasciando una cascata di detriti fumanti. “Hazel…” La voce di Frank
si spezzò. Doveva sperare che lei e Leo fossero vivi dall’altra parte.
Non poteva permettersi di pensare diversamente. La rabbia gli ribollì
nel petto. Si voltò e caricò contro l’esercito di mostri.
67

FRANK

Frank non era un esperto di fantasmi, ma i legionari morti dovevano


essere stati tutti dei semidei, perché erano assolutamente ADHD. Si
fecero strada fuori dall’abisso, poi vagarono intorno senza scopo,
colpendosi sul petto a vicenda senza nessuna ragione apparente,
spingendosi l’un l’altro oltre la voragine, sparando frecce in aria
come cercando di uccidere le mosche e, di tanto in tanto, solo per
pura fortuna, lanciavano un giavellotto, una spada, o uno dei loro
compagni nella direzione del nemico. Nel frattempo, l’esercito di
mostri si faceva sempre più grande e arrabbiato. I Figli della Terra
lanciavano raffiche di pietre che atterravano sui legionari zombie,
schiacciandoli come carta. Demoni femminili con gambe spaiate e
capelli di fiamme (Frank indovinò che fossero delle Empousai)
digrignavano le loro zanne e gridavano ordini agli altri mostri. Una
dozzina di Ciclopi avanzava sui ponti instabili, mentre degli umanoidi
con forma di foche, telchini, come quelli che Frank aveva visto ad
Atlanta, trascinavano fiale di fuoco greco oltre l’abisso. Nella mischia
c’era persino qualche centauro selvaggio, che scoccava frecce di
fuoco e schiacciava i suoi alleati più piccoli sotto gli zoccoli. Infatti, la
maggior parte dei nemici sembrava essere armata con qualche tipo
di arma in fiamme. Nonostante il suo sacchetto a prova di fuoco,
Frank trovò la cosa estremamente negativa. Si fece largo tra la folla
di romani morti, abbattendo i mostri fino a che non terminò le frecce,
aprendosi lentamente la strada verso i suoi amici. Un po’ troppo
tardi, si rese conto, stupito, che avrebbe potuto trasformarsi in
qualcosa di grosso e potente, come un orso o un drago. Non appena
quel pensiero lo colpì, del dolore gli balenò lungo il braccio. Inciampò
all’indietro, abbassò lo sguardo, e guardò incredulo l’estremità di una
freccia che gli sporgeva dal bicipite sinistro. La manica della
maglietta era inzuppata di sangue. Quella vista gli diede le vertigini.
Soprattutto lo fece arrabbiare. Cercò di trasformarsi in un drago,
senza successo. Il dolore rendeva troppo difficile concentrarsi. Forse
non poteva mutare forma se era ferito. Fantastico, pensò. Lo scopro
solo adesso. Lasciò cadere il suo arco e raccolse una spada da…
bè, in realtà non era certo di cosa si trattasse, qualche tipo di donna
rettile con dei serpenti al posto delle gambe che si trovava sconfitta
a terra. Si aprì la strada in avanti, cercando di ignorare il dolore e il
sangue che gli colava dal braccio. A circa cinque metri di distanza,
Nico stava agitando la spada nera con una mano, tenendo lo scettro
di Diocleziano sollevato con l’altra. Continuava a gridare ordini ai
legionari, ma questi non gli prestavano attenzione. Certo che no,
pensò Frank. Lui è greco. Jason e Piper si trovavano alle spalle di
Nico. Jason invocava delle raffiche di vento per far deviare giavellotti
e frecce. Fece volare di lato una fiala di fuoco greco, spedendola
dritta nella gola di un grifone, che esplose in fiamme e precipitò
nell’abisso. Piper faceva buon uso della sua spada, mentre riversava
del cibo dalla sua cornucopia con l’altra mano, usando prosciutti,
polli, mele, e arance come missili intercettori. L’aria sopra l’abisso si
trasformò in uno spettacolo di fuochi d’artificio fatti di proiettili di
fuoco, rocce esplosive e prodotti freschi. Tuttavia, gli amici di Frank
non potevano resistere per sempre. Il volto di Jason era già
imperlato di sudore. Continuava a gridare in latino: “Formate dei
ranghi!” Ma i legionari morti non ascoltavano nemmeno lui. Alcuni
degli zombie erano utili semplicemente trovandosi in mezzo,
bloccando i mostri e intercettando i colpi. Se continuavano ad essere
abbattuti, però, non ce ne sarebbero rimasti abbastanza per
organizzarli. “Fate largo!” gridò Frank. Con sua sorpresa, i legionari
morti si spostarono per farlo passare. Quelli più vicini si voltarono e
lo fissarono con occhi vuoti, come in attesa di nuovi ordini. “Oh,
meraviglioso…” borbottò Frank. A Venezia, Marte lo aveva messo in
guardia sul fatto che la sua vera prova da leader stava per arrivare.
L’antenato spettrale di Frank lo aveva esortato a prendere il
comando. Ma sei quei romani morti non ascoltavano Jason, perché
avrebbero dovuto ascoltare lui? Perché era un figlio di Marte, o forse
perché… La verità lo investì. Jason non era più completamente
romano. Il periodo che aveva trascorso al Campo Mezzosangue lo
aveva cambiato. Reyna se ne era accorta. Apparentemente, lo
avevano fatto anche i legionari morti. Se Jason non irradiava più la
giusta aura, l’aura di un leader romano… Frank raggiunse i suoi
amici mentre un’ondata di Ciclopi si gettava contro di loro. Sollevò la
sua spada per parare la mazza di un Ciclope, poi pugnalò un altro
mostro nella gamba, facendolo volare all’indietro nell’abisso. Un altro
lo attaccò. Frank riuscì a impalarlo, ma la perdita di sangue lo stava
rendendo debole. La sua vista si fece sfocata. Le orecchie gli
fischiavano. Era parzialmente consapevole di Jason sul fianco
sinistro, che parava un missile in arrivo con il vento; di Piper sulla
sua destra, che gridava comandi con la lingua ammaliatrice,
incoraggiando i mostri ad attaccarsi a vicenda o di fare un salto
rinfrescante nell’abisso. “Sarà divertente!” li assicurava. Alcuni le
davano ascolto, ma dall’altra parte dell’abisso, le Empousai stavano
contrastando i suoi ordini. Apparentemente anche loro avevano la
lingua ammaliatrice. I mostri si affollarono così stretti intorno a Frank
che lui fu a stento in grado di usare la sua spada. Il puzzo dei loro
aliti e dei loro corpi era quasi abbastanza da farlo svenire, persino
senza la freccia che gli pulsava nel braccio. Cosa avrebbe dovuto
fare Frank? Aveva un piano, ma i suoi pensieri si stavano facendo
confusi. “Stupidi fantasmi!” gridò Nico. “Non ascoltano!” concordò
Jason. Ecco cos’era. Frank doveva far sì che i fantasmi
ascoltassero. Chiamò tutta la sua forza e gridò, “Coorti, serrate gli
scudi!” Gli zombie attorno a lui si mossero. Si allinearono davanti a
Frank, unendo gli scudi, creando un’imprecisa formazione di difesa.
Ma si stavano muovendo troppo lentamente, come sonnambuli, e
solo alcuni di loro avevano risposto alla sua voce. “Frank, come hai
fatto?” gridò Jason. La testa di Frank stava nuotando nel dolore. Si
obbligò a non svenire, “Sono classificato come ufficiale romano,”
disse. “Loro, uh, loro non ti riconosco. Scusa.” Jason fece una
smorfia, ma non sembrava particolarmente sorpreso. “Come
possiamo aiutare?” Frank desiderò avere una riposta. Un grifone
volò sopra di lui, riuscendo quasi a decapitarlo con i suoi artigli. Nico
lo colpì con lo scettro di Diocleziano, e il mostro deviò contro un
muro. “Orbe formate!” ordinò Frank. Circa due dozzine di mostri
obbedirono, lottando per formare un anello di difesa intorno a Frank
e ai suoi amici. Era abbastanza da concedere ai semidei un po’ di
respiro, ma c’erano troppi nemici che spingevano in avanti. La
maggior parte dei legionari fantasmi stava ancora vagando in trance.
“Il mio rango,” capì Frank. “Tutti questi mostri formano un rango!”
gridò Piper, pugnalando un centauro selvaggio. “No,” disse Frank.
“Io sono solo un centurione.” Jason imprecò in latino. “Vuol dire che
non può controllare un’intera legione. Non appartiene a un rango
abbastanza elevato.” Nico affondò la sua spada nera contro un altro
grifone. “Bè, allora promuovilo!” La mente d Frank era lenta. Non
capiva quello che stava dicendo Nico. Promuovere lui? In che
modo? Jason gridò con la sua migliore voce da sergente: “Frank
Zhang! Io, Jason Grace, pretore della Dodicesima Legione
Fulminata, ti do il mio ordine finale: lascio il mio posto e concedo a te
una promozione sul campo di emergenza come pretore, con i pieni
poteri di quel rango. Prendi il controllo di questa legione!” Frank si
sentì come se da qualche parte nella Casa di Ade si fosse aperta
una porta, lasciando entrare una raffica di aria fresca che era soffiata
attraverso tunnel. Improvvisamente la freccia nel suo braccio non
ebbe più importanza. I suoi pensieri erano chiari. La sua vista si fece
più nitida. Le voci di Marte e Ares parlarono nella sua testa, forti e
unificate: Distruggili! Frank riconobbe a malapena la sua voce
quando urlò: “Legione, agmen formate!” Istantaneamente, ogni
legionario morto nella caverna sguainò la spada e sollevò lo scudo.
Si mossero verso la posizione di Frank, spingendo e colpendo i
mostri che si trovavano sulla loro strada fino a che non si trovarono
spalla contro spalla con i loro compagni, ordinandosi in una
formazione a quadrato. Pietre, giavellotti e fuoco piovevano contro il
gruppo di semidei, ma adesso Frank aveva una disciplinata linea
difensiva che li proteggeva dietro a un muro fatto di bronzo e pelle.
“Arcieri!” gridò Frank. “Eiaculare flammas!” Non aveva molta
speranza che il comando avrebbe funzionato. Gli archi degli zombie
non potevano essere in buono stato. Ma con suo stupore, numerose
dozzine di guerrieri spettrali scoccarono delle frecce
contemporaneamente. Le punte delle loro frecce presero fuoco
spontaneamente e un’ardente ondata di morte cadde disegnando un
arco sopra le file della legione, dritta verso il nemico. I Ciclopi
caddero. I centauri furono gettati a terra. Un telchino strillò e corse in
cerchio con una freccia in fiamme impalata nella fronte. Frank udì
una risata alle sue spalle. Si guardò indietro e non riuscì a credere a
quello che vide. Nico di Angelo stava davvero sorridendo. “Così va
meglio,” disse Nico. “Andiamo a invertire la corrente!” “Cuneum
formate!” urlò Frank. “Avanzate con le pila!” La linea di zombie si
fece più stretta nella parte centrale, formando un cuneo progettato
per sbaragliare l’armata nemica. Abbassarono le lance per formare
un’acuminata linea di armi e si spinsero in avanti. I Figli della Terra
gemettero e lanciarono massi, i Ciclopi abbassarono i loro pugni e le
loro mazze sulla formazione di scudi, ma i legionari zombie non
erano più bersagli di carta. Avevano una forza inumana,
barcollavano a malapena sotto gli attacchi più violenti. In poco tempo
il pavimento fu ricoperto di polvere di mostro. La fila di giavellotti
avanzava attraverso il nemico come fossero dei denti giganti,
abbattendo orchi, donne serpente e segugi infernali. Gli arcieri di
Frank sparavano contro i grifoni in aria e causavano caos nel corpo
centrale dell’esercito dei mostri dall’altra parte dell’abisso. Le forze di
Frank iniziarono a prendere il controllo della loro parte di caverna.
Uno dei ponti di pietra crollò, ma altri mostri continuavano a
riversarsi attraverso il secondo. Frank avrebbe dovuto impedirlo.
“Jason,” esclamò, “puoi far volare alcuni legionari oltre l’abisso? Il
fianco sinistro del nemico è debole, vedi? Attaccalo!” Jason sorrise.
“Con piacere.” Tre romani morti si sollevarono in aria e volarono oltre
la voragine. Poi furono raggiunti da altri tre. Alla fine, Jason fece
volare se stesso dall’altra parte e la sua squadra iniziò ad attaccare
dei telchini dall’aspetto molto sorpreso, diffondendo paura attraverso
i ranghi del nemico. “Nico,” disse Frank, “continua a cercare di
evocare i morti. Abbiamo bisogno di più forze.” “Ci sono.” Nico
sollevò lo scettro di Diocleziano, che brillò di un viola persino più
scuro. Altri romani spettrali filtrarono dalle pareti per unirsi alla
battaglia. Oltre l’abisso, le Empousai gridavano dei comandi in una
lingua che Frank non conosceva, ma il succo della questione era
ovvio. Stavano cercando di spronare i loro alleati e continuare a farli
attaccare attraverso il ponte. “Piper!” gridò Frank. “Opponiti a quelle
Empousai! Abbiamo bisogno di un po’ di caos.” “Pensavo che non
l’avresti mai chiesto.” Iniziò a fischiare verso le demoni: “Il vostro
trucco è sbavato! La tua amica ti ha chiamato strega! Quella lì ti sta
facendo le boccacce alle spalle!” Presto le donne vampiro furono
troppo impegnate a combattere una contro l’altra per gridare
qualsiasi ordine. I legionari si mossero in avanti, mantenendo
costante la pressione. Dovevano impossessarsi del ponte prima ce
Jason venisse sopraffatto. “E’ arrivato il momento di guidare
dall’avanguardia,” decise Frank. Sollevò la sua spada presa in
prestito e gridò per l’attacco.
68

FRANK

Frank non si accorse che stava brillando. In seguito Jason gli disse
che la benedizione di Marte lo aveva avvolto con una luce rossa,
come aveva fatto a Venezia. I giavellotti non lo toccavano, le pietre
in qualche modo venivano deviate. Persino con una freccia che gli
spuntava dal bicipite sinistro, Frank non si era mai sentito così carico
di energia. Il primo Ciclope che incontrò fu abbattuto così
velocemente che fu quasi uno scherzo. Frank lo affettò a metà dalle
spalle alla vita. Il ragazzone esplose in polvere. Il Ciclope successivo
indietreggiò nervoso, così Frank gli tagliò le gambe e lo spedì nella
voragine. I mostri rimanenti dalla loro parte dell’abisso cercarono di
ritirarsi, ma la legione li bloccò. “Formazione Tetsubo!” urlò Frank.
“Unica fila, avanzate!” Frank fu il primo ad attraversare il ponte. I
morti lo seguirono, con gli scudi serrati su entrambi i lati e sopra le
loro teste, deviando tutti gli attacchi. Quando l’ultimo zombie
attraversò il ponte, questo crollò precipitando nel buio, ma ormai non
importava più. Nico continuava a invocare altri legionari per unirsi
alla battaglia. Durante la storia dell’impero, migliaia di romani
avevano servito ed erano morti in Grecia. Adesso erano tornati,
rispondendo alla chiamata dello scettro di Diocleziano. Frank
avanzò, distruggendo tutto quello che incontrava sul suo cammino.
“Ti brucerò!” strillò un telchino, agitando disperatamente una fiala di
fuoco Greco. “Ho il fuoco!” Frank lo abbatté. Mentre la fiala
precipitava verso il terreno, Frank le diede un calcio spedendola oltre
il bordo del precipizio prima che potesse esplodere. Un’empousa
abbassò i suoi artigli sul petto di Frank, ma lui non avvertì nulla.
Affettò il demone riducendolo in polvere e continuò a muoversi. Il
dolore non era importante. Fallire era impensabile. Lui era un leader
della legione adesso, e stava facendo ciò per cui era nato,
combattere i nemici di Roma, difendere la sua eredità, proteggere le
vite dei suoi amici e dei suoi compagni. Lui era il pretore Frank
Zhang. Le sue forze spazzarono via il nemico, spezzando ogni loro
tentativo di raggrupparsi. Jason e Piper combattevano al suo fianco,
gridando in segno di sfida. Nico avanzava attraverso l’ultimo gruppo
di Figli della Terra, riducendoli in cumuli di argilla bagnata con la sua
spada di ferro nero. Prima che Frank se ne rendesse conto, la
battaglia era terminata. Piper affettò l’ultima empousa, che si
vaporizzò con un lamento sofferente. “Frank,” disse Jason, “vai a
fuoco.” Lui abbassò lo sguardo. Qualche goccia di olio doveva
essersi versata sui suoi pantaloni perché avevano iniziato a fumare.
Frank li colpì con la mano finché il fumo non si fermò, ma non era
particolarmente preoccupato. Grazie a Leo, non doveva più temere il
fuoco. Nico si schiarì la voce. “Uh… hai anche una freccia conficcata
nel braccio.” “Lo so.” Frank spezzò la punta della freccia e la
estrasse tirandola dall’altra estremità. Avvertì solo una calda
sensazione tirante. “Me la caverò.” Piper gli fece mangiare un pezzo
di ambrosia. Mentre gli bendava la ferita, disse, “Frank, sei stato
eccezionale. Assolutamente terrificante, ma eccezionale.” Frank
ebbe dei problemi ad elaborare le sue parole. Terrificante non poteva
riferirsi a lui. Lui era soltanto Frank. La sua adrenalina si prosciugò.
Si guardò intorno, chiedendosi dove fossero andati tutti i nemici. Gli
unici mostri rimasti erano i suoi romani morti, che si trovavano
storditi con le armi abbassate. Nico sollevò il suo scettro, con la
sfera scura e inattiva. “I morti non rimarranno ancora a lungo,
adesso che la battaglia è finita.” Frank si voltò verso le sue truppe.
“Legione!” I soldati zombie si misero sull’attenti. “Avete combattuto
bene,” disse loro Frank. “Adesso potete riposarvi. Andate.”
Crollarono disfacendosi in pile di ossa, armature, scudi e armi. Poi
persino quelle si disintegrarono. Frank si sentiva come se anche lui
potesse disintegrarsi. Nonostante l’ambrosia, il suo braccio ferito
iniziò a pulsare. I suoi occhi erano pesanti dalla stanchezza. La
benedizione di Marte era scomparsa, lasciandolo vuoto. Ma il suo
lavoro non era ancora finito. “Hazel e Leo,” disse. “Dobbiamo
trovarli.” I suoi amici guardarono oltre la voragine. All’altra estremità
della caverna, il tunnel nel quale erano entrati Hazel e Leo era
sepolto sotto tonnellate di detriti. “Non possiamo andare da quella
parte,” disse Nico. “Forse…” Improvvisamente barcollò. Sarebbe
precipitato, se Jason non l’avesse preso al volo. “Nico!” disse Piper.
“Cosa c’è?” “Le Porte,” disse Nico. “Sta succedendo qualcosa. Percy
e Annabeth… dobbiamo andare adesso.” “Ma come?” disse Jason.
“Quel tunnel è sparito.” Frank serrò la mascella. Non era arrivato fin
lì per rimanere bloccato, incapace di aiutare mentre i suoi amici
erano nei guai. “Non sarà divertente,” disse, “ma c’è un altro modo.”
69

ANNABETH

Essere uccisi da Tartaro non sembrava un granché come onore.


Mentre Annabeth fissava lo scuro vortice che aveva al posto del
volto, decise che avrebbe preferito morire in qualche modo meno
memorabile, magari cadendo dalle scale, o andandosene
serenamente via nel sonno a ottant’anni, dopo una bella vita
tranquilla con Percy. Sì, quello le piaceva. Non era la prima volta che
Annabeth affrontava un nemico che non poteva sconfiggere con la
forza. Normalmente, quello sarebbe stato il segnale per iniziare a
prendere tempo con qualche furba chiacchierata da figlia di Atena.
Solo che la sua voce non funzionava. Non riusciva nemmeno a
chiudere la bocca. Per quanto ne sapeva, stava sbavando tanto
quanto faceva Percy quando dormiva. Era a stento consapevole
dell’esercito di mostri che vorticava intorno a lei, ma dopo il loro
iniziale ruggito di trionfo, l’orda si era fatta silenziosa. Ormai
Annabeth e Percy sarebbero dovuti essere già stati fatti a pezzi,
invece, i mostri mantenevano le loro distanze, in attesa di qualche
mossa da parte di Tartaro. Il dio dell’abisso flesse le dita,
esaminandosi i lucidi artigli neri. Non aveva espressione, ma
raddrizzò le spalle come se fosse soddisfatto. E’ bello aveva una
forma, esclamò. Con queste mani, posso eviscerarvi. La sua voce
suonava come una registrazione al contrario, come se le parole
venissero risucchiate nel vortice della sua faccia invece che gettate
fuori. Infatti, tutto sembrava essere attratto verso il volto di quel dio,
la debole luce, le nuvole velenose, l’essenza dei mostri, persino la
fragile forza vitale di Annabeth. Si guardò intorno e si rese conto che
su ogni oggetto in quella vasta pianura era spuntata una vaporosa
coda di cometa, tutte dirette verso Tartaro. Annabeth sapeva che
avrebbe dovuto dire qualcosa, ma i suoi istinti le dicevano di
nascondersi, di evitare di fare qualsiasi cosa che avrebbe attratto
l’attenzione del dio. Inoltre, cosa avrebbe potuto dire? Non ce la farai
mai! Non era vero. Lei e Percy erano riusciti a sopravvivere così a
lungo solo perché Tartaro si stava gustando la sua nuova forma.
Voleva provare il piacere di farli fisicamente a pezzi. Se Tartaro lo
voleva, Annabeth non aveva nessun dubbio che avrebbe potuto
divorare la sua esistenza con un solo pensiero, tanto facilmente
quanto aveva vaporizzato Iperione e Krios. Ci sarebbe stata una
rinascita da quello? Annabeth non voleva scoprirlo. Accanto a lei,
Percy fece qualcosa che lei non gli aveva mai visto fare. Fece
cadere la sua spada. L’arma si limitò a scivolare dalla sua mano e a
colpire il terreno con un tonfo. La Foschia di Morte non gli avvolgeva
più il volto, ma aveva ancora la carnagione di un cadavere. Tartaro
sibilò di nuovo, probabilmente ridendo. La vostra paura ha un odore
meraviglioso, disse il dio. Capisco il fascino di avere un corpo fisico
con così tanti sensi. Forse la mia amata Gea ha ragione, a
desiderare di svegliarsi dal suo sonno. Allungò la sua enorme mano
viola, e avrebbe potuto raccogliere Percy da terra come fosse
un’erbaccia, ma Bob lo bloccò. “Vattene!” Il Titano puntò la sua
lancia contro il dio. “Non hai il diritto di immischiarti!” Immischiarmi?
Tartaro si voltò. Io sono il signore di tutte le creature dell’oscurità,
piccolo Giapeto. Io posso fare come voglio. Il suo scuro volto da
ciclone vorticò più velocemente. Il suono ululante era così orribile,
che Annabeth cadde sulle ginocchia stringendosi le orecchie. Bob
barcollò, mentre la sua sottile scia di forza vitale si allungava
risucchiata verso il volto del dio. Bob ruggì in segno di sfida. Attaccò
e affondò la sua lancia verso il petto di Tartaro. Prima che potesse
toccarlo, Tartaro colpì Bob, facendolo volare di lato come fosse un
insetto fastidioso. Il Titano cadde a terra. Perché non ti disintegri?
disse Tartaro con tono meditativo. Tu non sei nulla. Sei persino più
debole di Krios e Iperione. “Io sono Bob,” disse Bob. Tartaro sibilò.
Cos’è? Cos’è Bob? “Ho deciso di esser più di Giapeto,” disse il
Titano. “Tu non mi controlli. Io non sono come i miei fratelli.” Il
colletto della sua divisa si gonfiò. Piccolo Bob saltò fuori. Il gattino
atterrò al suolo di fronte al suo padrone, poi inarcò la schiena e
soffiò contro il signore dell’abisso. Mentre Annabeth guardava,
Piccolo Bob iniziò a crescere, la sua forma vibrò fino a che il piccolo
gattino non si fu trasformato in una traslucida tigre dai denti a
sciabola a grandezza naturale fatta di ossa. “Inoltre,” annunciò Bob,
“ho un bravo gatto.” Piccolo Bob non più così piccolo balzò verso
Tartaro, affondando i suoi artigli nella coscia del dio. La tigre si
arrampicò lungo la sua gamba, dritta sotto la maglietta di maglia
cotta. Tartaro si agitò e gridò, apparentemente non più innamorato di
avere una forma fisica. Nel frattempo, Bob affondò la sua lancia nel
fianco del dio, esattamente sotto la sua corazza. Tartaro ruggì. Si
lanciò verso Bob, ma il Titano indietreggiò fuori dalla sua portata.
Bob tese la mani in avanti, la sua lancia si estrasse da sola dalla
carne del dio e volò nella mano di Bob, il che fece boccheggiare
Annabeth dallo stupore. Non avrebbe mai immaginato che una
scopa potesse avere così tante funzioni utili. Piccolo Bob saltò fuori
dalla maglietta di Tartaro. Corse al fianco del suo padrone, con le
zanne a sciabola gocciolanti di icore dorato. Tu morirai per primo,
Giapeto, decise Tartaro. Dopo, aggiungerò la tua anima alla mia
armatura, dove si dissolverà lentamente, ancora e ancora, in
un’agonia eterna. Tartaro batté il suo pugno contro la corazza. Dei
volti lattiginosi vorticarono nel metallo, urlando silenziosamente per
uscire. Bob si voltò verso Percy e Annabeth. Il Titano fece un grosso
sorriso, che probabilmente non sarebbe stata la reazione di
Annabeth davanti a una minaccia di agonia eterna. “Prendete le
Porte,” disse Bob. “Io penserò a Tartaro.” Tartaro lanciò la testa
all’indietro e ruggì, creando un risucchio così forte che i demoni
volanti più vicini furono tirati nella sua faccia di vortice e ridotti a
brandelli. Pensare a me? Lo derise il dio. Tu sei solo un Titano, un
figlio minore di Gea! Ti farò soffrire per la tua arroganza. E per
quanto riguarda i tuoi minuscoli amici mortali… Tartaro agitò la mano
verso l’esercito di mostri, invitandoli a farsi avanti.
DISTRUGGETELI!
70

ANNABETH

DISTRUGGETELI. Annabeth aveva sentito quelle parole abbastanza


spesso da scuoterla dalla sua paralisi. Sollevò la sua spada e grido,
“Percy!” Lui raccolse Vortice da terra. Annabeth si lanciò verso le
catene che reggevano le Porte della Morte. La sua lama di osso di
dragone tagliò le funi di sinistra con un unico colpo. Nel frattempo,
Percy tratteneva la prima ondata di mostri. Pugnalò un arai e
gemette, “Bah! Stupide maledizioni!” poi abbatté una mezza dozzina
di telchini. Annabeth corse alle sue spalle e spezzò le catene
dall’altra parte. Le Porte tremarono, poi si aprirono con un piacevole
Ding! Bob e la sua spalla dai denti a sciabola continuavano a
muoversi velocemente intorno alle gambe di Tartaro, attaccando e
schivando per rimanere fuori dalla portata dei suoi artigli. Non
sembrava che stessero causando molti danni, ma Tartaro stava
barcollando, evidentemente non abituato a combattere con un corpo
umanoide. Attaccava e mancava l’obbiettivo, attaccava e mancava.
Altri mostri si riversarono verso le Porte. Una lancia volò accanto alla
testa di Annabeth. Lei si voltò e pugnalò un empousa nello stomaco,
poi si lanciò verso le Porte mentre queste cominciavano a chiudersi.
Le tenne aperte con il piede mentre combatteva. Almeno, con la
schiena rivolta alle porte dell’ascensore, non doveva preoccuparsi di
attacchi alle spalle. “Percy, vieni qui!” urlò. Lui la raggiunse alla
porta, con il volto gocciolante di sudore e sangue proveniente da
numerosi tagli. “Stai bene?” chiese lei. Lui annuì. “Ho ricevuto una
maledizione del dolore da quell’arai.” Colpì un grifone e lo fece
precipitare dal cielo. “Fa male, ma non mi ucciderà. Entra
nell’ascensore. Io terrò il pulsante.” “Sì, come no!” Lei colpì un
cavallo carnivoro sul muso con l’elsa della sua spada e spedì il
mostro in mezzo alla folla. “Hai promesso, Testa d’Alghe. Non ci
separeremo! Mai più!” “Sei impossibile!” “Ti amo anche io!” Un’intera
fila di Ciclopi corse verso di loro, gettando i mostri più piccoli fuori
dalla loro strada. Annabeth pensò che stesse per morire. “Dovevano
essere proprio Ciclopi,” brontolò. Percy lanciò un grido di battaglia.
Ai piedi dei Ciclopi, una vena rossa che si trovava nel terreno
esplose, investendo i mostri con del fuoco liquido proveniente dal
Flegetonte. L’acqua di fuoco poteva curare i mortali, ma non fece
nessun favore ai Ciclopi. Questi presero fuoco in un’onda anomala di
calore. La vena scoppiata guarì da sola, ma dei mostri non rimase
nulla eccetto una fila di segni di bruciatura. “Annabeth, devi andare!”
disse Percy. “Non possiamo rimanere tutti e due!” “No!” gridò lei.
“Giù!” Lui non chiese perché. Si abbassò, e Annabeth si mosse
sopra di lui, abbassando la sua spada sulla testa di un orco
completamente tatuato. Lei e Percy si trovavano spalla contro spalla
davanti alle Porte, in attesa della prossima ondata. La vena esplosa
aveva dato una pausa ai mostri, ma non ci sarebbe voluto molto
prima che questi si fossero ricordati: Ehi, aspetta, noi siamo
settantacinque miliardi e loro sono solo in due. “Bè, allora,” disse
Percy, “hai un’idea migliore?” Annabeth desiderò che fosse così. Le
Porte della Morte si trovavano proprio alle loro spalle, la loro uscita
da quel mondo da incubo. Ma non potevano usare le Porte senza
qualcuno che rimaneva ai controlli per dodici lunghi minuti. Se
entravano e lasciavano che le Porte si chiudessero senza che
qualcuno spingesse il pulsante, Annabeth non credeva che il
risultato sarebbe stato salutare. E se per qualsiasi ragione si fossero
allontanati dalle Porte, pensava che l’ascensore si sarebbe chiuso e
sarebbe scomparso senza di loro. La situazione era così
pateticamente triste, da essere quasi divertente. La folla di mostri
avanzò lentamente, ringhiando e raccogliendo il coraggio. Nel
frattempo, gli attacchi di Bob si stavano facendo più lenti. Tartaro
stava imparando a controllare il suo nuovo corpo. Piccolo Bob dai
denti a sciabola balzò verso il dio ma Tartaro colpì il gatto
spedendolo di lato. Bob attaccò, ruggendo di rabbia ma Tartaro
afferrò la sua lancia e la strappò dalle mani del Titano. Diede un
calcio a Bob spendendolo a terra, abbattendo una fila di telchini
come fossero dei birilli fatti di mammiferi marini. ARRENDITI! rombò
Tartaro. “Non lo farò,” disse Bob. “Tu non sei il mio padrone.” Allora
muori resistendomi, disse il dio dell’abisso. Voi Titani non siete nulla
per me. I miei figli, i giganti, sono sempre stati migliori, più forti, e più
malvagi. Loro renderanno il mondo superiore scuro come il mio
regno! Tartaro spezzò la lancia a metà. Bob gemette in agonia.
Piccolo Bob saltò verso di lui per aiutarlo, ringhiando verso Tartaro e
scoprendo le sue zanne. Il Titano cercò di rialzarsi, ma Annabeth
sapeva che era finita. Persino i mostri si voltarono per guardare,
come se avvertissero che il loro signore stava per entrare in azione.
La morte di un Titano era una cosa degna di essere vista. Percy
afferrò la mano di Annabeth. “Rimani qui. Devo aiutarlo.” “Percy, non
puoi,” disse lei con voce strozzata. “Tartaro non può essere
combattuto. Non da noi.” Sapeva di avere ragione. Tartaro
apparteneva a una categoria a parte. Era più potente degli dei o dei
Titani. I semidei non erano nulla in confronto a lui. Se Percy
attaccava per aiutare Bob, sarebbe stato schiacciato come una
formica. Ma Annabeth sapeva anche che Percy non le avrebbe dato
ascolto. Non poteva lasciare che Bob morisse da solo. Non era una
cosa da lui, e quella era una delle numerose ragioni per la quale lo
amava, anche se era una sofferenza formato Olimpo. “Andremo
insieme,” decise Annabeth, sapendo che quella sarebbe stata la loro
ultima battaglia. Se si allontanavano dalle Porte, non avrebbero mai
lasciato il Tartaro. Almeno sarebbero morti combattendo fianco a
fianco. Stava per dire: Adesso. Un’ondata di panico attraversò
l’esercito. In lontananza, Annabeth udì grida, urla, e un persistente
boom, boom, boom che era troppo veloce per essere il battito del
cuore nel terreno, assomigliava più a qualcosa di grosso e pesante,
che stava correndo a forte velocità. Un Figlio della Terra volò in aria
come se fosse stato lanciato. Uno sbuffo di gas verde acceso si levò
sulla cima dell’orda di mostri come acqua spruzzata da un idrante.
Tutto ciò che colpiva si dissolse. Oltre la distesa di sfrigolante
terreno, adesso vuoto, Annabeth vide la causa del panico. Iniziò a
sorridere. Il dragone Meoniano aprì il suo collare e sibilò, con l’alito
velenoso che riempiva il campo di battaglia dell’odore di pino e
zenzero. Mosse il suo corpo di trenta metri, agitando la sua coda
chiazzata di verde e spazzando via un battaglione di orchi. A cavallo
sulla sua schiena c’era un gigante dalla pelle rossa con fiori negli
intrecciati capelli color ruggine, un giacchetto di pelle verde, e una
lancia fatta con una costola di dragone nella mano. “Damasene!”
gridò Annabeth. Il gigante inclinò la testa. “Annabeth Chase, ho
seguito il tuo consiglio. Mi sono scelto un nuovo destino.”
71

ANNABETH

Cos’è? sibilò il dio dell’abisso. Perché sei venuto, figlio disgraziato?


Damasene lanciò uno sguardo verso Annabeth, con un messaggio
chiaro negli occhi: Vai. Adesso. Il gigante si voltò verso Tartaro. Il
dragone Meoniano pestò le zampe a terra e ringhiò. “Padre,
desideravi un avversario più degno?” chiese Damasene con tono
calmo. “Io sono uno dei giganti dei quali sei così orgoglioso. Volevi
che fossi più battagliero? Magari inizierò con il distruggerti!”
Damasene puntò la sua lancia verso di lui e caricò. L’esercito di
mostri lo assalì, ma il dragone Meoniano spianava tutto quello che
trovava sul suo cammino, spazzando con la sua coda e spruzzando
veleno mentre Damasene attaccava Tartaro, obbligando il dio a
ritirarsi come un leone in trappola. Bob si allontanò velocemente
dalla battaglia, con il gatto dai denti sciabola al suo fianco. Percy
garantì loro tutta la copertura che poteva, facendo esplodere i vasi
sanguigni nel terreno uno dopo l’altro. Alcuni mostri vennero
carbonizzati nelle acque dello Stige. Ad altri toccò una doccia di
acqua del Cocito e caddero a terra, scossi dal pianto. Altri furono
inzuppati con il liquido del Lete e si ritrovarono a guardarsi intorno
apatici, senza essere più sicuri su dove si trovassero o persino su
chi fossero. Bob zoppicò fino alle Porte. L’icore dorato gli usciva
dalle ferite sulle braccia e sul petto. La sua divisa da custode era a
brandelli. Stava in piedi storto e ingobbito, come se il fatto che
Tartaro avesse spezzato la sua lancia gli avesse rotto qualcosa
dentro. Nonostante tutto quello, stava sorridendo, con gli occhi
argentati che luccicavano di soddisfazione. “Andate,” ordinò. “Io terrò
il pulsante.” Percy lo fissò sconvolto. “Bob, non sei nelle
condizioni…“ “Percy.” La voce di Annabeth rischiava di spezzarsi. Si
detestava per il fatto che stesse permettendo che Bob facesse
quella cosa, ma sapeva che era l’unico modo. “Dobbiamo farlo.”
“Non possiamo lasciarli qui!” “Devi, amico.” Bob diede una pacca sul
braccio di Percy, gettandolo quasi a terra. “Posso ancora premere un
pulsante. E ho un buon gatto che mi protegge.” Piccolo Bob ringhiò
in segno di assenso. “Inoltre,” disse Bob, “tornare nel mondo è il
vostro destino. Mettete una fine a questa pazzia di Gea.” Un Ciclope
urlante, sfrigolante a causa degli spruzzi di veleno, volò sopra le loro
teste. A cinquanta metri di distanza, il dragone Meoniano si fece
strada attraverso i mostri, con le zampe che producevano dei
rivoltanti squish-squish come se stesse camminando sull’uva. Sulla
sua schiena, Damasene gridava insulti e punzecchiava il dio
dell’abisso, adescando Tartaro ad allontanarsi sempre di più dalle
Porte. Tartaro lo seguiva con passo pesante, creando dei crateri nel
terreno con i suoi stivali di ferro. Non puoi uccidermi! ruggì. Io sono
l’abisso in persona. E’ come cercare di uccidere la terra. Io e Gea,
noi siamo eterni. Noi vi possediamo, carne e spirito! Abbassò il suo
enorme pugno, ma Damasene si spostò di lato, impalando il suo
giavellotto nel lato del collo di Tartaro. Tartaro ringhiò,
apparentemente più irritato che ferito. Girò il suo vorticante volto
aspiratore verso il gigante, ma Damasene si spostò in tempo. Una
dozzina di mostri furono risucchiati nel vortice e si disintegrarono.
“Bob, non farlo!” disse Percy, con gli occhi imploranti. “Ti distruggerà
permanentemente. Nessun ritorno. Nessuna rigenerazione.” Bob
scrollò le spalle. “Chi sa cosa succederà? Dovete andare ora.
Tartaro ha ragione su una cosa. Non possiamo sconfiggerlo.
Possiamo solo farvi guadagnare del tempo.” Le Porte cercarono di
chiudersi sul piede di Annabeth. “Dodici minuti,” disse il Titano.
“Posso darveli.” “Percy… tieni le Porte.” Annabeth saltò fuori
dall’ascensore e gettò le sue braccia intorno al collo del Titano. Gli
baciò la guancia, con gli occhi così carichi di lacrime, che non
riusciva a vedere nitidamente. Il volto ispido di Bob aveva l’odore di
prodotti per pulire, lucido per mobili al limone e olio per il legno. “I
mostri sono eterni,” gli disse, cercando di impedirsi di piangere. “Noi
ricorderemo te e Damasene come eroi, come il Titano migliore e il
gigante migliore. Lo racconteremo ai nostri figli. Manterremo la storia
in vita. Un giorno, vi rigenererete.” Bob le scompigliò i capelli. Delle
rughe di sorriso gli apparvero intorno agli occhi. “Questo è bello.
Fino ad allora, amici miei, salutate il sole e le stelle per me. E siate
forti, questo potrebbe non essere l’ultimo sacrificio che dovrete fare
per fermare Gea.” La spinse via gentilmente. “Non c’è più tempo.
Vai.” Annabeth afferrò il braccio di Percy. Lo trascinò dentro
l’ascensore. Ebbe un’ultima veloce immagine del dragone Meoniano
che scuoteva un orco come fosse un pupazzo, e di Damasene che
punzecchiava le gambe di Tartaro. Il dio dell’abisso indicò le Porte
della Morte e gridò: Mostri, fermateli! Piccolo Bob si acquattò e
ringhiò, pronto per attaccare. Bob fece l’occhiolino verso Annabeth.
“Tenete le Porte chiuse dalla vostra parte,” disse. “Loro cercheranno
di opporsi al vostro passaggio. Tenetele…“ Le porte si chiusero.
72

ANNABETH

“Percy, aiutami!” gridò Annabeth. Gettò tutto il suo corpo contro la


porta di sinistra, spingendola verso il centro. Percy fece la stessa
cosa sulla destra. Non c’erano maniglie, o nient’altro a cui potersi
reggere. Mentre il vano dell’ascensore saliva, le Porte tremavano e
cercavano di aprirsi, minacciando di gettarli fuori in qualsiasi cosa ci
fosse tra la vita e la morte. Le spalle di Annabeth erano doloranti. La
musichetta di sottofondo dell’ascensore non aiutava. Se tutti i mostri
dovevano ascoltare quella canzone che parlava di pigna-colada e di
essere persi nella pioggia, non c’era da stupirsi che fossero
dell’umore di massacrare quando raggiungevano il mondo mortale.
“Abbiamo lasciato Bob e Damasene,” disse Percy con voce roca.
“Moriranno per noi, e noi abbiamo…“ “Lo so,” mormorò lei. “Dei
dell’Olimpo, Percy, lo so.” Annabeth era quasi grata per il compito di
dover reggere le Porte. Il terrore che le scorreva nel cuore almeno la
distraeva dal lasciarsi andare alla sofferenza. Abbandonare
Damasene e Bob era stata la cosa più dura che aveva mai fatto. Per
anni al Campo Mezzosangue, non aveva sopportato quando gli altri
campeggiatori partecipavano alle imprese mentre lei doveva
rimanere là. Aveva guardato mentre gli altri guadagnavano la
gloria… o fallivano e non tornavano. Da quando aveva sette anni,
aveva pensato: Perché io non ho la possibilità di dimostrare le mie
capacità? Perché non posso guidare io un’impresa? Adesso, si rese
conto che la prova più difficile per un figlio di Atena non era guidare
un’impresa o affrontare la morte in battaglia. Era prendere la
decisione strategica di farsi da parte, di lasciare che qualcun’altro
affrontasse il pericolo,soprattutto quando quella persona era un tuo
amico. Doveva affrontare il fatto che non poteva proteggere tutti
quelli che amava. Non poteva risolvere ogni problema. Detestava la
cosa, ma non aveva tempo per piangersi addosso. Sbatté le
palpebre per scacciare via le lacrime. “Percy, le Porte,” lo mise in
guardia. I panelli avevano iniziato ad aprirsi, lasciando entrare un
alito di… ozono? Zolfo? Percy spinse con forza il suo lato e
l’apertura si chiuse. I suoi occhi erano accesi di rabbia. Sperava che
non fosse infuriato con lei, ma se lo era, non poteva biasimarlo. Se
la cosa lo faceva andare avanti, pensò, allora lascia che sia
arrabbiato. “Ucciderò Gea,” borbottò lui. “La farò a pezzi a mani
nude.” Annabeth annuì, ma stava pensando al vanto di Tartaro. Lui
non poteva essere ucciso. Così valeva per Gea. Contro un tale
potere, persino i Titani e i giganti erano spacciati. I semidei non
avevano nessuna possibilità. Si ricordò anche dell’avvertimento di
Bob: Questo potrebbe non essere l’ultimo sacrificio che dovrete fare
per fermare Gea. Avvertiva quella verità nelle sue ossa. “Dodici
minuti,” mormorò. “Solo dodici minuti.” Pregò Atena perché Bob
potesse reggere il pulsante così a lungo. Pregò per avere forza e
saggezza. Si chiese cosa avrebbero trovato una volta raggiunta la
cima di quella corsa in ascensore. Se i loro amici non si fossero
trovati là, a controllare l’altra parte… “Possiamo farcela,” disse
Percy. “Dobbiamo.” “Sì,” disse Annabeth. “Sì, dobbiamo.” Tennero le
Porte chiuse mentre l’ascensore tremava e la musica andava avanti,
mentre da qualche parte sotto di loro, un Titano e un gigante
sacrificavano le loro vite per farli scappare.
73

HAZEL

Hazel non era orgogliosa di piangere. Dopo che il tunnel era crollato,
aveva frignato e urlato come una bambina di due anni che faceva i
capricci. Non poteva spostare i detriti che separavano lei e Leo dagli
altri. Se la terra si fosse spostata di nuovo, l’intera struttura sarebbe
potuta crollare sulle loro teste. Tuttavia, batté i pugni contro le pietre
e urlò delle imprecazioni che le avrebbero fatto guadagnare una
lavata di lingua con sapone di lisciva alla St. Agnes Academy. Leo la
fissava, con gli occhi spalancati e senza parole. Non si stava
comportando giustamente con lui. L’ultima volta che erano stati
insieme, lei lo aveva trasportato nel suo passato e gli aveva
mostrato Sammy, il suo bisnonno, il primo ragazzo di Hazel. Lo
aveva caricato con un bagaglio di emozioni di cui non aveva
bisogno, e lo aveva lasciato così sconvolto che erano quasi stati
uccisi da un gamberetto gigante. Adesso si trovavano lì, di nuovo da
soli, mentre i loro amici rischiavano di morire per mano di un esercito
di mostri, e lei stava facendo i capricci. “Scusa.” Si asciugò le
lacrime dalla faccia. “Ehi, sai…” Leo scrollò le spalle. “Anche io ho
attaccato qualche roccia ogni tanto.” Lei deglutì con difficoltà. “Frank
è… lui è…“ “Ascolta,” disse Leo. “Frank Zhang ha delle doti.
Probabilmente si trasformerà in un canguro e farà qualche mossa di
karate da marsupiale sugli orrendi volti di quei mostri.” L’aiutò ad
alzarsi. Nonostante il panico che le ribolliva dentro, sapeva che Leo
aveva ragione. Frank e gli altri non erano indifesi. Avrebbero trovato
un modo per sopravvivere. La cosa migliore che lei e Leo potevano
fare era andare avanti. Studiò Leo. I suoi capelli erano cresciuti e si
erano fatti più disordinati, e il suo volto era più magro, così
assomigliava di meno a un folletto e più a uno di quegli elfi della
natura delle favole. La differenza più grande era nei suoi occhi. Si
muovevano in continuazione, come se stesse cercando di scorgere
qualcosa all’orizzonte. “Leo, mi dispiace,” disse lei. Lui inarcò le
sopracciglia. “Okay. Per cosa?” “Per…” Si fece un gesto intorno con
fare impotente. “Tutto. Per aver pensato che tu fossi Sammy, per
averti incoraggiato con me. Voglio dire, non volevo farlo, ma se l’ho
fatto…“ “Ehi.” Lui le strinse la mano, anche se Hazel non avvertì
nulla di romantico in quel gesto. “Le macchine sono progettate per
funzionare.” “Uh, cosa?” “Credo che alla fine l’universo sia solo una
macchina. Non so chi l’abbia creata, se sono state le Parche, o gli
dei, o Dio con la D maiuscola, o quello che è. Ma la maggior parte
delle volte corre lungo la strada che è destinato a prendere. Certo,
ogni tanto si rompono dei piccoli pezzi e delle parti vanno in corto
circuito, ma per la maggior parte… le cose accadono per una
ragione. Come il fatto che noi due ci siamo incontrati.” “Leo Valdez,”
disse Hazel meravigliata, “tu sei un filosofo.” “Nah,” disse lui. “Sono
solo un meccanico. Ma credo che il mio bisabuelo Sammy sapesse.
Ti ha lasciata andare, Hazel. Il mio compito è quello di dirti che va
bene. Tu e Frank, state bene insieme. Supereremo tutti questa
battaglia. Spero che voi due abbiate la possibilità di essere felici.
Inoltre, Zhang non sarebbe in grado di allacciarsi le scarpe senza il
tuo aiuto.” “Questa è cattiva,” lo rimproverò Hazel, ma si sentì come
se qualcosa si stesse sciogliendo dentro di lei, un nodo di tensione
che si stava portando con sé da settimane. Leo era veramente
cambiato. Hazel stava cominciando a credere di aver trovato un
buon amico. “Cosa ti è successo quando eri da solo?” chiese. “Chi
hai incontrato?” Gli occhi di Leo scattarono. “E’ una lunga storia. Un
giorno te la racconterò, ma sto ancora aspettando di vedere come
andrà a finire.” “L’universo è una macchina,” disse Hazel, “quindi
andrà bene.” “Si spera.” “Solo se non è una delle tue macchine,”
aggiunse Hazel. “Perché le tue macchine non fanno mai quello che
dovrebbero.” “Sì, ha-ha.” Leo fece apparire del fuoco nella mano.
“Adesso, dove si va, Miss Sottoterra?” Hazel studiò il percorso che
avevano davanti. A circa nove metri più in basso, il tunnel si divideva
in quattro arterie più piccole, tutte identiche, ma quella sulla sinistra
irradiava freddo. “Da quella parte,” decise. “Sembra la più
pericolosa.” “Mi hai convinto,” disse Leo. Iniziarono a scendere. Non
appena raggiunsero il primo passaggio, la moffetta Gale li trovò. Si
arrampicò correndo sul fianco di Hazel e si raggomitolò intorno al
suo collo, squittendo irritata come a dire: Dove sei stata? Sei in
ritardo. “Non di nuovo la donnola che spara gas,” si lamentò Leo.
“Se quella cosa rilascia in spazi chiusi come questo, con il mio fuoco
e tutto il resto, esploderemo.” Gale abbaiò un insulto da moffetta
verso Leo. Hazel zittì entrambi. Poteva avvertire il tunnel più avanti
scendere gentilmente verso il basso per circa cento metri, per poi
aprirsi in una grande stanza. In quella stanza si trovava una
presenza… fredda, pesante e potente. Hazel non aveva avvertito
nulla del genere dalla grotta in Alaska, dove Gea l’aveva obbligata a
far risorgere Porfirione, il re dei giganti. Quella volta, Hazel aveva
contrastato i piani di Gea, ma aveva dovuto far crollare la caverna,
sacrificando la sua vita e quella di sua madre. Non era ansiosa di
vivere un’esperienza simile. “Leo, tieniti pronto,” sussurrò. “Ci stiamo
avvicinando.” “Avvicinando a cosa?” La voce di una donna
riecheggiò dalla fine del corridoio. “Vi state avvicinando a me.”
Un’ondata di nausea colpì Hazel così violenta che le tremarono le
ginocchia. Tutto il mondo vacillò. Il suo senso dell’orientamento,
solitamente perfetto sottoterra, divenne completamente vago. Non
sembrava che lei e Leo si stessero muovendo, ma improvvisamente
si ritrovarono più avanti di cento metri, davanti all’entrata della
stanza. “Benvenuti,” disse la voce di donna. “Aspettavo impaziente
questo momento.” Gli occhi di Hazel studiarono la caverna. Non
riusciva a vedere chi parlava. La stanza le ricordava quella del
Pantheon a Roma, con l’unica differenza che quel luogo era stato
decorato in stile Ade. Le pareti di ossidiana erano scolpite con scene
di morte: vittime della peste, cadaveri sul campo di battaglia, stanze
della tortura con scheletri appesi in gabbie di ferro, il tutto abbellito
da gemme preziose che in qualche modo rendevano le scene
persino più spettrali. Come nel Pantheon, il tetto a cupola era
formato da uno schema a cassettoni fatto di pannelli quadrati
incavati, ma lì ogni pannello era una stele, una lapide con inscrizioni
in greco antico. Hazel si chiese se dietro quelle stele ci fossero
seppelliti dei corpi veri. Con i suoi sensi sotterranei fuori uso, non ne
poteva essere sicura. Non vide nessun’altra uscita. Sull’apice del
soffitto, da dove sarebbe dovuta entrare la luce del cielo sopra il
Pantheon, brillava un cerchio di oscurità pura, come per rinforzare la
sensazione che non ci fosse una via d’uscita da quel luogo, niente
cielo sopra di loro, solo oscurità. Gli occhi di Hazel si spostarono fino
al centro della stanza. “Sì,” borbottò Leo. “Quelle sono porte, non c’è
dubbio.” A quindici metri di distanza si trovava una porta doppia
priva di muro, con i pannelli incisi d’argento e ferro. File di catene
correvano su entrambi i lati, fissando la struttura a dei grossi uncini
nel pavimento. La zona attorno alle porte era cosparsa di detriti neri.
Con un senso di rabbia sempre più stringente, Hazel si rese conto
che una volta in quel punto si trovava un antico altare di Ade. Era
stato distrutto per fare spazio alle Porte della Morte. “Dove sei?”
gridò lei. “Non ci vedi?” la provocò la voce di donna. “Pensavo che
Ecate ti avesse scelta per le tue capacità.” Un altro attacco di
nausea si agitò nello stomaco di Hazel. Sulla sua spalla, Gale
abbaiò e lasciò aria, il che non aiutò. Dei puntini neri danzavano
davanti agli occhi di Hazel. Cercò di scacciarli via, ma questi si
fecero solo più scuri. I puntini si solidificarono in un’ombrosa sagoma
di sei metri che incombeva accanto alle Porte. Il gigante Clitio era
avvolto nel fumo nero, proprio come lo aveva visto nelle sue visioni
presso l’incrocio, ma adesso Hazel poteva appena scorgere la sua
forma, gambe da drago con scaglie color cenere; un enorme petto
umanoide racchiuso in un’armatura di ferro di Stige; lunghi capelli
intrecciati che sembravano essere fatti di fumo. La sua carnagione
era scura come quella della Morte (Hazel doveva saperlo, visto che
aveva incontrato Morte personalmente). I suoi occhi luccicavano
freddi come i diamanti. Non aveva nessuna arma, ma la cosa non lo
rendeva affatto meno terrificante. Leo fischiò. “Sai, Clitio… per
essere un tipo così grosso, hai una voce bellissima.” “Idiota,” sibilò la
donna. A metà strada tra Hazel e il gigante, l’aria brillò. La maga
apparve. Indossava un elegante vestito senza maniche fatto di oro
intrecciato, con i capelli impilati in un cono, circondati da diamanti e
smeraldi. Intorno al collo aveva un pendente simile a un labirinto in
miniatura, appeso a un filo incastonato di rubini che faceva pensare
ad Hazel alle gocce di sangue cristallizzate. La donna era bella in un
modo regale e senza tempo, come una statua che si poteva
ammirare ma mai amare. I suoi occhi brillavano di malignità.
“Pasifae,” disse Hazel. La donna inclinò la testa. “Mia cara Hazel
Levesque.” Leo tossì. “Voi due vi conoscete? Del tipo, compagne
dell’Oltretomba, oppure…“ “Silenzio, sciocco.” La voce di Pasifae era
morbida ma carica di veleno. “Non ho nessun interesse nei ragazzi
semidei, sempre così pieni di se stessi, così avventati e distruttivi.”
“Ehi, signora,” protestò Leo. “Non distruggo molto. Io sono un figlio di
Efesto.” “Un pensatore,” scattò Pasifae. “Persino peggio. Conoscevo
Dedalo. Le sue invenzioni non mi hanno portato nulla eccetto guai.”
Leo sbatté le palpebre. “Dedalo… cioè, il Dedalo? Bè, allora,
dovresti sapere tutto su noi pensatori. Noi siamo più portati
all’aggiustare, al costruire, ogni tanto al ficcare batuffoli di tela cerata
nelle bocche delle signore maleducate…“ “Leo.” Hazel gli mise il
braccio sul petto. Aveva la sensazione che la maga stesse per
trasformarlo in qualcosa di spiacevole se non si fosse stato zitto.
“Lascia fare a me, okay?” “Ascolta la tua amica,” disse Pasifae. “Fai
il bravo ragazzo e lascia parlare le donne.” Pasifae camminò davanti
a loro, esaminando Hazel con gli occhi così carichi di odio che le
fecero formicolare la pelle. Il potere della dea si irradiava da lei come
il calore da una fornace. La sua espressione era inquietante e
vagamente familiare…. In qualche modo, però, il gigante Clitio la
innervosiva di più. Rimaneva sullo sfondo, silenzioso e immobile
fatta eccezione per il fumo scuro che si alzava dal suo corpo,
raccogliendosi in una pozzanghera intorno ai suoi piedi. Era lui la
presenza fredda che Hazel aveva sentito prima, come un vasto
deposito di ossidiana, così pesante che Hazel non sarebbe mai
riuscita a muoverlo, potente e indistruttibile e completamente privo di
emozioni. “Il… il tuo amico non parla molto,” notò Hazel. Pasifae
guardò verso il gigante e sbuffò con disprezzo. “Prega che rimanga
in silenzio, mia cara. Gea mi ha concesso il piacere di pensare a voi;
ma Clitio è la mia, ah, assicurazione. Detto tra me e te, come sorelle
maghe, credo che si trovi qui anche per tenere i miei poteri sotto
controllo, nel caso dimenticassi gli ordini della mia nuova padrona.
Gea è attenta a queste cose.” Hazel era tentata di protestare
dicendo che lei non era una maga. Non voleva sapere come Pasifae
avesse pianificato di ‘pensare’ a loro, o a come facesse il gigante a
tenere la sua magia sotto controllo. Ma raddrizzò la schiena e cercò
di sembrare sicura. “Qualsiasi cosa tu stia panificando,” disse Hazel,
“non funzionerà. Abbiamo superato ogni mostro che Gea ha messo
sul nostro cammino. Se sei intelligente, non ti opporrai a noi.” La
moffetta Gale digrignò i denti in segno di approvazione, ma Pasifae
non sembrava impressionata. “Non sembri granché,” rifletté la maga.
“Ma alla fine voi semidei non lo sembrate mai. Mio marito, Minosse,
re di Creta? Lui era un figlio di Zeus. Non l’avresti mai detto
guardandolo. Era magrolino quasi come quello là.” Agitò la mano
verso Leo. “Wow,” borbottò Leo. “Minosse doveva aver fatto
qualcosa di davvero orribile per meritarsi te.” Le narici di Pasifae si
allargarono. “Oh… non ne hai idea. Era troppo orgoglioso per fare i
giusti sacrifici a Poseidone, così gli dei punirono me per la sua
arroganza.” “Il Minotauro,” ricordò Hazel improvvisamente. La storia
era così grottesca e rivoltante che Hazel si tappava sempre le
orecchie quando la raccontavano al Campo Giove. Pasifae era stata
maledetta, fatta innamorare del toro di suo marito. Aveva partorito il
Minotauro, metà uomo, metà toro. Adesso, mentre Pasifae la fissava
con sguardo omicida, Hazel si rese conto del perché la sua
espressione le risultasse così familiare. La maga aveva lo stesso
odio e amarezza negli occhi che ogni tanto aveva anche la madre di
Hazel. Nei suoi momenti peggiori, Marie Levesque guardava Hazel
come se sua figlia fosse stata una bambina mostruosa, una
maledizione dagli dei, la fonte di tutti i problemi di Marie. Era per
quello che la storia del Minotauro inquietava Hazel, non solo per
l’idea repellente di Pasifae e il toro, ma per l’idea che un figlio, un
qualsiasi figlio, potesse essere considerato un mostro, una punizione
per i suoi genitori da essere imprigionata da qualche parte e odiata.
Ad Hazel, il Minotauro era sempre sembrato la vittima della storia.
“Sì,” disse alla fine Pasifae. “La mia disgrazia fu insopportabile.
Quando mio figlio nacque e fu rinchiuso nel Labirinto, Minosse si
rifiutò di avere qualsiasi cosa a che fare con me. Disse che avevamo
rovinato la sua reputazione! E sai cosa accade a Minosse, Hazel
Levesque? Per i suoi crimini e per il suo orgoglio? Fu ricompensato.
Fu nominato giudice dei morti dell’Oltretomba, come se avesse
qualche diritto di giudicare gli altri! Fu Ade ad assegnargli quella
posizione. Tuo padre.” “In realtà è Plutone.” Pasifae fece una
smorfia. “Irrilevante. Quindi, vedi, io detesto i semidei tanto quanto
detesto gli dei. Qualsiasi tuo fratello che dovesse sopravvivere alla
guerra, è stato promesso a me da Gea, così che potrò guardarli
morire lentamente nel mio nuovo regno. Vorrei solo avere più tempo
per torturare voi due come si deve. Purtroppo…“Al cento della
stanza, le Porte della Morte produssero un piacevole suono di
campanello. Il pulsante verde sul lato destro della struttura iniziò a
brillare. Le catene tremarono. “Ecco, vedi?” Pasifae scrollò le spalle
con fare di scuse. “Le Porte sono in funzione. Dodici minuti e si
apriranno.” La pancia di Hazel tremava quasi quanto quelle catene.
“Altri giganti?” “No, grazie al cielo,” disse la maga. “Con loro
abbiamo finito, sono tornati nel mondo mortale pronti per l’assalto
finale.” Pasifae le rivolse un sorriso freddo. “No, immagino che le
Porte siano utilizziate da qualcun altro… qualcuno non autorizzato.”
Leo si fece avanti. Dai suoi pugni stretti si levò del fumo. “Percy e
Annabeth.” Hazel non riusciva a parlare. Non era certa se il groppo
che aveva in gola fosse causato dalla gioia o dalla frustrazione. Se i
loro amici avevano raggiunto le Porte, se fossero veramente apparsi
là tra dodici minuti… “Oh, non preoccuparti.” Pasifae agitò la mano
con noncuranza. “Ci penserà Clitio a loro. Vedi, quando la
campanella suonerà di nuovo, qualcuno dalla nostra parte deve
premere il pulsante o le Porte non si apriranno e chiunque si trovi
all’interno… poof. Andato. O magari Clitio li lascerà uscire e penserà
a loro di persona. Questo dipende da voi due.” Hazel aveva in bocca
il sapore del ferro. Non voleva chiedere, ma doveva farlo. “Come fa
a dipendere da noi esattamente?” “Bè, ovviamente, abbiamo
bisogno solo di una coppia di semidei vivi,” disse Pasifae. “I due
fortunati saranno portati ad Atene e sacrificati per Gea durante la
Festa della Speranza.” “Ovviamente,” borbottò Leo. “Quindi, sarete
voi due, o i vostri amici nell’ascensore?” La maga allargò le braccia.
“Vediamo chi sarà ancora vivo tra dodici… in realtà, undici minuti
ormai.” La caverna si dissolse nell’oscurità.
74

HAZEL

La bussola interna di Hazel vorticò selvaggiamente. Si ricordò che


quando era molto piccola, a New Orleans alla fine degli anni Trenta,
sua madre l’aveva portata dal dentista per farsi estrarre un dente. Fu
la prima e unica volta nella quale le era stato dato l’etere. Il dentista
le aveva assicurato che l’avrebbe resa assonnata e rilassata, ma
Hazel si era sentita come se stesse fluttuando via dal suo corpo, nel
panico e fuori controllo. Quando l’effetto dell’etere era svanito, era
stata malata per tre giorni. Ora si sentiva come se avesse preso una
dose massiccia di etere. Parte di lei sapeva che si trovava ancora
nella caverna. Pasifae si trovava solo a pochi metri davanti a loro.
Clitio aspettava in silenzio accanto alle Porte della Morte. Ma
numerosi strati di Foschia circondavano Hazel, distorcendo il suo
senso della realtà. Fece un passo in avanti e si scontrò contro un
muro che non sarebbe dovuto essere lì. Leo premette le mani contro
la pietra. “Cosa accidenti è? Dove siamo?” Un corridoio si estendeva
su entrambi i lati. Delle torce gocciolavano dentro candelabri di ferro.
L’aria odorava di muffa, come in una vecchia tomba. Sulla spalla di
Hazel, Gale abbaiava con rabbia, scavando i suoi artigli nella sua
pelle. “Sì, lo so,” borbottò Hazel alla donnola. “E’ un’illusione.” Leo
batté contro le pareti. “Un’illusione piuttosto solida.” Pasifae rise. La
sua voce suonava attutita e molto distante. “E’ un’illusione, Hazel
Levesque, o qualcosa di più? Non vedi cosa ho creato?” Hazel si
sentiva così scossa che era a malapena in grado di mantenere
l’equilibrio, meno che mai pensare lucidamente. Cercò di espandere
i suoi sensi, di vedere attraverso la Foschia e di trovare di nuovo la
caverna, ma tutto quello che avvertiva erano dei tunnel che si
dividevano in una dozzina di direzioni, che procedevano ovunque
tranne che in avanti. Dei pensieri casuali le apparvero nella mente,
come pepite d’oro che spuntavano in superficie: Dedalo. Il Minotauro
rinchiuso lontano. Morirete lentamente nel mio nuovo regno. “Il
Labirinto,” disse Hazel. “Sta ricreando il Labirinto.” “Cosa?” Leo era
impegnato a picchiare contro le pareti con un martello da metallo,
ma si voltò verso di lei con aria accigliata. “Pensavo che il Labirinto
fosse crollato durante quella battaglia al Campo Mezzosangue,
fosse, tipo, connesso alla forza vitale di Dedalo o qualcosa del
genere, e poi lui è morto.” La voce di Pasifae suonava carica di
disapprovazione. “Ah, ma io sono ancora viva. Attribuisci a Dedalo
tutti i segreti del labirinto? Io ho soffiato vita magica nel suo
Labirinto. Dedalo non era nulla paragonato a me, la maga immortale,
figlia di Elio, sorella di Circe! Adesso il Labirinto sarà il mio regno.”
“E’ un’illusione,” insistette Hazel. “Dobbiamo semplicemente
spezzarla.” Anche mentre lo diceva, le pareti sembravano diventare
più solide, l’odore di muffa più intenso. “Troppo tardi, troppo tardi,”
canticchiò Pasifae. “Il labirinto è già sveglio. Si espanderà sotto la
pelle della terra ancora una volta mentre il vostro mondo mortale
verrà raso al suolo. Voi semidei… voi eroi… vagherete per i suoi
corridoi, morendo lentamente di sete, di paura e di miseria. O forse,
se mi sentirò clemente, morirete in fretta, molto dolorosamente!” Dei
fori si aprirono nel pavimento sotto i piedi di Hazel. Lei afferrò Leo e
lo spinse di lato mentre una fila di chiodi veniva sparata dal basso
verso l’alto, impalandosi al soffitto. “Corri!” gridò Hazel. La risata di
Pasifae riecheggiò lungo il corridoio. “Deve stai andando, giovane
maga? Scappi da un’illusione?” Hazel non rispose. Era troppo
impegnata a cercare di rimanere in vita. Dietro di loro, file dopo file di
chiodi schizzavano verso il soffitto con un continuo thunk, thunk,
thunk. Tirò Leo lungo il corridoio, saltò sopra un filo teso in mezzo al
tunnel, poi si fermò di colpo davanti a un abisso largo sei metri.
“Quanto è profondo?” Leo cercava di riprendere fiato. Le gambe dei
suoi pantaloni erano strappate dove uno dei chiodi lo aveva graffiato.
I sensi di Hazel le dissero che quella fossa era profonda almeno
quindici metri, con una piscina di veleno sul fondo. Poteva fidarsi dei
suoi sensi? Che Pasifae avesse creato o meno un nuovo Labirinto,
Hazel credeva che si trovasse ancora nella stessa caverna, e che la
maga li stesse facendo correre senza scopo avanti e indietro mentre
lei e Clitio li guardavano divertiti. Illusione o meno: a meno che Hazel
non riuscisse a trovare un modo per uscire da quel labirinto, le
trappole potevano ucciderli. “Otto minuti ora,” disse la voce di
Pasifae. “Amerei vedervi sopravvivere, davvero, sareste dei degni
sacrifici per Gea ad Atene. Ma in quel caso, ovviamente, non
avremmo bisogno dei vostri amici nell’ascensore.” Il cuore di Hazel
martellava. Si rivolse verso la parte sulla sua sinistra. Nonostante ciò
che le dicevano i suoi sensi, quella sarebbe dovuta essere la
direzione delle Porte. Pasifae doveva essere proprio davanti a lei.
Hazel voleva irrompere attraverso la parete e strozzare la maga. Tra
otto minuti, lei e Leo dovevano trovarsi accanto alle Porte della
Morte per lasciare uscire i loro amici. Ma Pasifae era una maga
immortale con migliaia di anni di esperienza nel tessere incantesimi.
Hazel non poteva sconfiggerla solo con la forza di volontà. Era
riuscita a ingannare il bandito Scirone mostrandogli quello che lui si
aspettava di vedere. Hazel doveva capire quale era la cosa che
Pasifae voleva più di tutte. “Adesso siamo a sette minuti,” si lamentò
Pasifae. “Se solo avessimo più tempo! Ci sarebbero così tante
offese che vi vorrei far soffrire.” Era quello, si rese conto Hazel.
Doveva accettare il guanto di sfida. Doveva rendere il labirinto più
pericoloso, più spettacolare, far concentrare Pasifae sulle trappole
piuttosto che sulla direzione in cui li portava il Labirinto. “Leo,
salteremo,” disse Hazel. “Ma…“ “Non è profondo come sembra.
Andiamo!” Afferrò la sua mano e si lanciarono dentro la fossa.
Quando atterrarono, Hazel si guardò indietro e non vide nessun
precipizio, solo una crepa di sei centimetri nel pavimento. “Andiamo!”
lo incitò. Corsero mentre la voce di Pasifae rimbombava intorno a
loro. “Oh, cari, no. Non sopravvivrete mai da quella parte. Sei
minuti.” Il soffitto sopra di loro si spaccò. La donnola Gale squittì
spaventata, ma Hazel immaginò un nuovo tunnel che portava sulla
sinistra, un tunnel persino più pericoloso, che procedeva nella
direzione sbagliata. La Foschia si ammorbidì sotto la sua volontà. Il
tunnel apparve, e loro si lanciarono di lato. Pasifae sospirò delusa.
“Non sei davvero brava in questo, mia cara.” Ma Hazel avvertì un
lampo di speranza. Aveva creato un tunnel. Aveva creato un piccolo
buco nel tessuto magico del Labirinto. Il pavimento crollò sotto di
loro. Hazel saltò da una parte, trascinando Leo con sé. Immaginò un
altro tunnel, che portava nella direzione dalla quale erano venuti, ma
pieno di gas velenoso. Il labirinto le obbedì. “Leo, trattieni il fiato,” lo
avvertì. Corsero attraverso la nebbia tossica. Ad Hazel sembrava di
essersi sciacquata gli occhi con salsa di peperoncino, ma continuò a
correre. “Cinque minuti,” disse Pasifae. “Che peccato! Se solo
potessi vedervi soffrire di più.” Entrarono in un corridoio con aria
fresca. Leo tossì. “Se solo si potesse farla stare zitta.” Si
abbassarono passando sotto una garrota. Hazel immaginò il tunnel
che curvava tornando verso Pasifae, un pezzetto alla volta. La
Foschia si piegò sotto la sua volontà. Le pareti del tunnel iniziarono
a chiudersi su entrambi i lati. Hazel non cercò di fermarle. Le fece
chiudere più velocemente, scuotendo il pavimento e crepando il
soffitto. Lei e Leo corsero per salvarsi la vita, seguendo la curva
mentre questa li portava più vicini a quello che sperava fosse il
centro della stanza. “Un peccato,” disse Pasifae. “Vorrei poter
uccidere voi e i vostri amici nell’ascensore, ma Gea ha insistito che
due di voi debbano essere tenuti in vita fino alla Festa di Speranza,
quando il vostro sangue servirà a una buona causa! Ah, bè. Dovrò
trovare altre vittime per il mio Labirinto. Voi due siete stati dei
fallimenti di seconda categoria.” Hazel e Leo si fermarono. Davanti a
loro si estendeva un abisso così ampio, che Hazel non riusciva a
vedere dall’altra parte. Da qualche parte più in basso, nell’oscurità,
proveniva un suono di sibili di migliaia e migliaia di serpenti. Hazel
era tentata di ritirarsi, ma il tunnel si stava chiudendo dietro di loro,
lasciandoli bloccati su una minuscola sporgenza. Gale si mosse
agitata sulle spalle di Hazel rilasciando aria per l’ansia. “Okay, okay,”
borbottò Leo. “Le pareti sono delle parti moventi. Devono essere
meccaniche. Dammi un secondo.” “No, Leo,” disse Hazel. “Non
possiamo tornare indietro.” “Ma…“ “Tienimi la mano,” disse lei. “Al
tre.” “Ma…“ “Tre!” “Cosa?” Hazel saltò nella fossa, tirandosi dietro
Leo. Cercò di ignorare le sue urla e la donnola flatulenta attaccata al
suo collo. Usò tutta la sua volontà per reindirizzare la magia del
Labirinto. Pasifae rise di piacere, sapendo che in qualsiasi momento
si sarebbero schiantati, o sarebbero stati morsi fino alla morte in una
fossa di serpenti. Invece, Hazel immaginò che ci fosse un canale
laterale nell’oscurità, appena alla loro sinistra. Si voltò a mezz’aria e
cadde verso di esso. Lei e Leo colpirono il canale inclinato e
scivolarono nella caverna, atterrando esattamente sopra Pasifae.
“Ack!” La testa della maga sbatté contro il pavimento mentre Leo si
sedeva sul suo petto. Per un attimo, loro tre e la donnola furono una
massa di corpi contorti e arti che si agitavano nell’aria. Hazel cercò
di sguainare la sua spada, ma Pasifae riuscì a districarsi per prima.
La maga indietreggiò, con la sua acconciatura così piegata da un
lato da assomigliare a una torta sciolta. Il suo vestito era coperto di
macchie di grasso causate dalla cintura degli attrezzi di Leo. “Piccoli
sciagurati!” urlò lei. Il labirinto era sparito. A qualche metro di
distanza, Clitio dava loro le spalle, intento a osservare le Porte della
Morte. Secondo i calcoli di Hazel, avevano circa trenta secondi
prima dell’arrivo dei loro amici. Hazel si sentiva esausta per aver
corso attraverso il labirinto mentre controllava la Foschia, ma aveva
bisogno di giocare qualche altro trucco. Era riuscita a far vedere a
Pasifae quello che più desiderava. Adesso Hazel doveva far vedere
alla maga ciò che lei temeva di più. “Devi odiare davvero i semidei,”
disse Hazel, cercando di mimare il sorriso crudele di Pasifae. “Noi
abbiamo sempre la meglio su di te, non è così, Pasifae?”
“Sciocchezze!” urlò Pasifae. “Vi farò a pezzi! Vi…“ “Ti tiriamo sempre
via il tappeto da sotto i piedi,” disse Hazel con pietà. “Tuo marito ti
tradì. Teseo uccise il Minotauro e rapì tua figlia Ariadne. Adesso due
fallimenti di seconda categoria ti hanno messo contro il tuo stesso
labirinto. Ma tu sapevi che sarebbe successo, non è così? Alla fine
vieni sempre sconfitta.” “Io sono immortale!” gemette Pasifae. Fece
un passo indietro, toccandosi la sua collana. “Non potete rimanere in
piedi contro di me!” “Tu non puoi affatto rimanere in piedi,” ribatté
Hazel. “Guarda.” Indicò verso i piedi della maga. Una botola si aprì
sotto Pasifae. La maga precipitò, urlando, in un abisso senza fondo
che non esisteva davvero. Il pavimento si solidificò. La maga non
c’era più. Leo fissò Hazel stupito. “Come hai…“ Proprio in quel
momento l’ascensore suonò. Invece di premere il pulsante, Clitio
indietreggiò dai controlli, tenendo i loro amici intrappolati all’interno.
“Leo!” gridò Hazel. Si trovavano a sei metri di distanza, troppo
lontani per raggiungere l’ascensore, ma Leo tirò fuori un cacciavite e
lo tirò come un lanciatore di coltelli. Un colpo impossibile. Il
cacciavite volò dritto oltre Clitio e si schiantò contro il pulsante. Le
Porte della Morte si aprirono con un sibilo. Del fumo nero si riversò
all’esterno, e due corpi caddero di faccia sul pavimento, Percy e
Annabeth, inerti come cadaveri. Hazel singhiozzò. “Oh, dei…” Lei e
Leo si fecero avanti, ma Clitio sollevò la sua mano con un gesto
inequivocabile che significava fermi. Sollevò il suo enorme piede da
rettile sopra la testa di Percy. Il fumoso velo del gigante si riversò sul
pavimento, andando a ricoprire Annabeth e Percy in una piscina di
nebbia scura. “Clitio, hai perso,” ringhiò Hazel. “Lasciali andare, o
farai la fine di Pasifae.” Il gigante inclinò la testa. I suoi occhi di
diamante luccicarono. Ai suoi piedi, Annabeth tremò come se fosse
stata colpita da una scossa elettrica. Rotolò sulla sua schiena, con
del fumo nero che le usciva dalla bocca. “Io non sono Pasifae.”
Annabeth parlò con una voce che non era la sua, le parole erano
profonde come quelle di un basso. “Non avete vinto nulla.”
“Smettila!” Anche da sei metri di distanza, Hazel poteva avvertire la
forza vitale di Annabeth che diminuiva, il suo battito sempre più
flebile. Qualunque cosa stesse facendo Clitio, facendo uscire le
parole dalla sua bocca la stava uccidendo. Clitio diede un colpetto
con il piede alla testa di Percy. Il suo volto ciondolò di lato. “Non
completamente morto.” Le parole del gigante riecheggiarono dalla
bocca di Percy. “Immagino che sia uno shock terribile per il corpo
mortale tornare dal Tartaro. Saranno fuori uso per un po’.” Rivolse
nuovamente la sua attenzione su Annabeth. Altro fumo si riversò
dalle labbra della ragazza. “Li legherò e li porterò da Porfirione ad
Atene. Proprio i sacrifici di cui abbiamo bisogno. Sfortunatamente,
ciò vuol dire che voi due non mi servite più.” “Oh, davvero?” ringhiò
Leo. “Bè, bè, forse tu hai il fumo, amico, ma il ho il fuoco.” Le sue
mani si accesero. Sparò una colonna di fiamme bianche contro il
gigante, ma l’aura fumosa di Clitio le assorbì all’impatto. Scie di
nebbia nera risalirono lungo le fiamme, spegnendo la luce e il calore
e ricoprendo Leo di oscurità. “No!” Hazel corse verso di lui, ma Gale
squittì con allarme sulla sua spalla, un chiaro avvertimento. “Io non
lo farei.” La voce di Clitio si riverberò dalla bocca di Leo. “Tu non
capisci, Hazel Levesque. Io divoro la magia. Io distruggo la voce e
l’anima. Non puoi opporti a me.” Della nebbia nera si diffuse
maggiormente nella stanza, ricoprendo Annabeth e Percy, rotolando
verso di lei. Il sangue ribollì nelle orecchie di Hazel. Doveva agire,
ma come? Se quel fumo nero era in grado di mettere fuori uso Leo
così velocemente, quante possibilità aveva lei? “F… fuoco,” balbettò
con voce piccola. “Tu dovresti essere debole contro il fuoco.” Il
gigante ridacchiò, questa volta usando le corde vocali di Annabeth.
“Ci contavi, eh? È vero che non mi piace il fuoco. Ma le fiamme di
Leo Valdez non sono abbastanza forti da darmi problemi.” Da
qualche parte alle spalle di Hazel, una dolce voce musicale disse,
“Che ne dici delle mie fiamme, vecchio amico?” Gale squittì
emozionata e saltò dalla spalla di Hazel, correndo verso l’entrata
della caverna dove si trovava una donna bionda con un vestito nero
e la Foschia che le vorticava intorno. Il gigante indietreggiò,
sbattendo contro le Porte della Morte. “Tu,” disse attraverso la bocca
di Percy. “Io,” annuì Ecate. Allargò le braccia. Delle torce ardenti le
apparvero nelle mani. “Sono passati millenni da quando ho
combattuto al fianco di un semidio, ma Hazel Levesque si è
dimostrata degna. Che ne dici, Clitio? Giochiamo un po’ con il
fuoco?”
75

HAZEL

Se il gigante fosse scappato via urlando, Hazel ne sarebbe stata


grata. In quel caso si sarebbero tutti potuti prendere il resto della
giornata libera. Clitio la deluse. Quando vide le torce della dea
accese, il gigante sembrò riprendersi. Pestò il suo piede, scuotendo
il terreno e mancando per un pelo il braccio di Annabeth. Del fumo
nero gli vorticò intorno fino a che Annabeth e Percy non ne vennero
completamente ricoperti. Hazel non riusciva a vedere nulla eccetto
gli occhi brillanti del gigante. “Parole coraggiose.” Clitio parlò
attraverso la bocca di Leo. “Ti sei dimenticata, dea. Quando ci siamo
incontrati l’ultima volta, tu avevi l’aiuto di Ercole e di Dioniso, gli eroi
più potenti del mondo, entrambi destinati a diventare divinità. Adesso
porti… questi?” Il corpo privo di sensi di Leo si contorse in preda al
dolore. “Smettila!” urlò Hazel. Non aveva pianificato quello che
accadde dopo. Sapeva semplicemente che doveva proteggere i suoi
amici. Li immagino alle sue spalle, nello stesso modo nel quale si
era immaginata i nuovi tunnel che apparivano nel Labirinto di
Pasifae. Leo si dissolse. Riapparve ai piedi di Hazel, insieme ad
Annabeth e Percy. La Foschia vorticò intorno a lei, riversandosi sulle
pietre e avvolgendo i suoi amici. Dove la Foschia bianca incontrava il
fumo scuro di Clitio, essa fumava e sfrigolava, come lava che
scorreva nel mare. Leo aprì gli occhi e boccheggiò. “Co…cosa…?”
Annabeth e Percy rimasero immobili, ma Hazel poteva avvertire i
loro battiti farsi più forti, i respiri che si facevano più regolari. Sulla
spalla di Ecate, la moffetta Gale abbaiò in segno di ammirazione. La
dea si fece avanti, con gli occhi scuri luccicanti alla luce delle torce.
“Hai ragione, Clitio. Hazel Levesque non è Ercole o Dioniso, ma
credo che la troverai altrettanto formidabile.” Attraverso il velo
fumoso, Hazel vide il gigante aprire la bocca. Non ne uscì fuori
nessuna parola. Clitio sogghignò frustrato. Leo cercò di mettersi a
sedere. “Cosa sta succedendo? Cosa posso…“ “Guarda Percy e
Annabeth.” Hazel sguainò la sua spatha. “Rimani dietro di me.
Rimani nella Foschia.” “Ma…“ Lo sguardo che Hazel gli rivolse
doveva essere più duro di quanto si fosse resa conto. Leo deglutì.
“Sì, afferrato. Foschia bianca buona. Fumo nero cattivo.” Hazel
avanzò. Il gigante allargò le braccia. Il soffitto a cupola tremò, e la
voce del gigante riecheggiò attraverso la stanza, amplificata di un
centinaio di volte. Formidabile? Chiese il gigante. Suonava come se
stesse parlando attraverso un coro di morti, usando tutte le anime
sfortunate che erano state seppellite dietro le lapidi della cupola.
Perché la ragazza ha imparato i tuoi trucchetti magici, Ecate?
Perché permetti a questi codardi di nascondersi nella tua Foschia?
Una spada apparve nella mano del gigante, una lama di ferro di
Stige molto simile a quella di Nico, solo cinque volte più grande. Non
capisco perché Gea ritiene questi semidei degni di essere sacrificati.
Li schiaccerò come noci vuote. La paura di Hazel si trasformò in
rabbia. Gridò. Le pareti della stanza produssero uno scricchiolio,
come del ghiaccio che si scioglieva nell’acqua calda, e dozzine di
gemme precipitarono verso il gigante, colpendo la sua armatura
come pallottole. Clitio barcollò all’indietro. La sua voce priva di corpo
ruggì di dolore. La sua corazza di ferro era tempestata di fori. Del
sangue dorato scendeva da una ferita sul suo braccio destro. Il suo
velo di oscurità si assottigliò. Hazel poteva vedere l’espressione
assassina che aveva sul volto. Tu, ringhiò Clitio. Tu,
inutile…“Inutile?” chiese Ecate con tono calmo. “Io direi che Hazel
Levesque conosce qualche trucchetto che persino io non avrei
potuto insegnarle.” Hazel si trovava davanti ai suoi amici,
determinata a proteggerli, ma la sua energia stava svanendo. La sua
spada era già pesante nella mano, e non l’aveva ancora neanche
usata. Desiderò che Arion fosse lì. Le avrebbe fatto comodo la
velocità del cavallo e la sua forza. Sfortunatamente, il suo amico
equino non sarebbe stato in grado di aiutare quella volta. Lui era una
creatura da ampi spazi aperti, non da sotterranei. Il gigante scavò le
dita nella ferita che aveva sul bicipite. Ne tirò fuori un diamante e lo
gettò di lato. La ferita si rimarginò. Allora, figlia di Plutone, rombò
Clitio, credi davvero che ad Ecate stiano a cuore i tuoi interessi?
Circe era una delle sue predilette. Così lo era Medea. E Pasifae.
Che fine hanno fatto loro, eh? Dietro di lei, Hazel sentì Annabeth
muoversi, gemendo di dolore. Percy borbottò qualcosa che suonava
come, “Bob-bob-bob?” Clitio si fece avanti, tenendo la spada con
noncuranza lungo il fianco come se fossero compagni di squadra
invece che nemici. Ecate non ti dirà la verità. Lei invia assistenti
come te per svolgere i suoi compiti e prendersi tutti i rischi. Se per
qualche miracolo tu mi ferirai, solo allora lei sarà in grado di darmi
fuoco. Allora lei si prenderà la gloria dell’uccisione. Hai sentito come
Bacco si è comportato con i gemelli Aloidi nel Colosseo. Ecate è
peggio. Lei è un Titano che ha tradito i Titani. Poi ha tradito gli dei.
Credi davvero che manterrà la parola con te? Il volto di Ecate era
illeggibile. “Non posso rispondere alle sue accuse, Hazel,” disse la
dea. “Questo è il tuo incrocio. Devi decidere tu.” Sì, un incrocio. La
risata del gigante riecheggiò. Le sue ferite sembravano essere
completamente guarite. Ecate ti offre l’oscurità, delle scelte, delle
vaghe promesse di magia. Io sono l’anti-Ecate. Io ti darò la verità. Io
eliminerò le scelte e la magia. Io strapperò via la Foschia, una volta
per tutte, e ti mostrerò il mondo in tutto il suo vero orrore. Leo lottò
per mettersi in piedi, tossendo come un asmatico. “Adoro questo
ragazzo,” ansimò. “Seriamente, dovremmo tenercelo per tenere
seminari ispiratori.” Le sue mani si accesero come torce. “Oppure
potremmo semplicemente dargli fuoco.” “Leo, no,” disse Hazel. “Il
tempio di mio padre. Compito mio.” “Sì, va bene. Ma…“ “Hazel…”
ansimò Annabeth. Hazel fu così piena di gioia nel sentire la voce
della sua amica che fu quasi sul punto di voltarsi, ma sapeva che
non doveva togliere gli occhi di dosso a Clitio. “Le catene…” riuscì a
dire Annabeth. Hazel fece un respiro strozzato. Era stata una
sciocca! Le Porte della Morte erano ancora aperte, tremanti contro le
catene che le bloccavano. Hazel doveva spezzarle così sarebbero
scomparse e sarebbero finalmente state fuori dalla portata di Gea.
L’unico problema: un grosso gigante fumoso si trovava nel mezzo.
Non puoi seriamente credere che ne hai la forza, la rimproverò Clitio.
Cosa farai, Hazel Levesque, mi bersaglierai con altri rubini? Mi farai
fare una doccia di zaffiri? Hazel gli diede una risposta. Sollevò la sua
spatha e attaccò. Apparentemente, Clitio non si era aspettato che
avesse degli istinti suicidi così forti. Fu lento a sollevare la sua
spada. Quando colpì, Hazel si era già abbassata sotto le sue gambe
e aveva conficcato la sua lama d’oro Imperiale nel suo gluteo
maximum. Non molto signorile. Le suore alla St. Agnes non
avrebbero mai approvato. Ma funzionò. Clitio ruggì e inarcò la
schiena, allontanandosi da lei mentre camminava ancheggiando. La
Foschia vorticava intorno ad Hazel, sibilando quando incontrava il
fumo nero del gigante. Hazel si rese conto che Ecate la stava
assistendo, prestandole la forza per mantenere attivo un velo
difensivo. Hazel sapeva anche che l’attimo in cui la sua
concentrazione avesse vacillato e quell’oscurità l’avesse toccata, lei
sarebbe caduta. Se fosse successo, non era certa che Ecate
sarebbe stata in grado, o che avrebbe voluto, fermare il gigante dallo
schiacciare lei e i suoi amici. Hazel si lanciò verso le Porte della
Morte. La sua lama spezzò le catene sulla parte sinistra come se
fossero fatte di ghiaccio. Corse verso destra, ma Clitio gridò, NO!
Per pura fortuna, non fu affettata a metà. La parte piatta della lama
del gigante la colpì al petto e la fece volare all’indietro. Lei si
schiantò contro il muro e avvertì le ossa che si rompevano. Dall’altra
parte della stanza, Leo gridò il suo nome. Attraverso la vista sfocata,
Hazel vide un lampo di fuoco. Ecate si trovava vicino, con la sagoma
luccicante come se stesse per dissolversi. Le sue torce sembravano
sul punto di spegnersi, ma quello poteva essere solo il fatto che
Hazel stava iniziando a perdere i sensi. Non poteva arrendersi
adesso. Si obbligò a mettersi in piedi. Aveva la sensazione di avere
delle lame affilate conficcate nel fianco. La sua spada giaceva a
terra a circa due metri di distanza. Procedette zoppicante verso di
essa. “Clitio!” urlò. Voleva che sembrasse un grido di sfida
coraggioso, ma uscì più simile a un gracidio. Almeno catturò la sua
attenzione. Il gigante distolse lo sguardo da Leo e dagli altri. Quando
la vide zoppicare in avanti, rise. Un bel tentativo, Hazel Levesque,
ammise Clitio. Sei stata migliore di quanto mi aspettassi. Ma la
magia da sola non può sconfiggermi, e tu non hai la forza sufficiente.
Ecate ti ha tradita, come tradisce tutti i suoi seguaci alla fine. La
Foschia intorno a lei si stava assottigliando. Dall’altra parte della
stanza, Leo stava cercando di obbligare Percy a mangiare un po’ di
ambrosia, anche se Percy era ancora praticamente fuori uso.
Annabeth era sveglia ma debole, a malapena in grado di sollevare la
testa. Ecate se ne stava ferma con le sue torce, osservando e in
attesa, cosa che fece infuriare Hazel così tanto da farle trovare
un’ultima ondata di energia. Lanciò la sua spada non verso il
gigante, ma verso le Porte della Morte. Le catene sulla parte destra
si spezzarono. Hazel cadde a terra agonizzante, con il fianco in
fiamme, mentre le Porte tremavano e scomparivano in un lampo di
luce viola. Clitio ruggì così forte che una mezza dozzina di stele
precipitarono dal soffitto e si ridussero a pezzi. “Quello era per mio
fratello Nico,” disse Hazel senza fiato. “E per aver distrutto l’altare di
mio padre.” Hai perso il diritto a una morte veloce, ringhiò il gigante.
Ti soffocherò nel buio, lentamente, dolorosamente. Ecate non può
aiutarti. NESSUNO può aiutarti! La dea sollevò le sue torce. “Io non
ne sarei così sicura, Clitio. Gli amici di Hazel avevano solo bisogno
di un po’ di tempo per raggiungerla, del tempo che tu hai dato loro
con le tue vanterie e arie.” Clitio fece un verso di scherno. Quali
amici? Quei codardi? Loro non rappresentano una sfida. Davanti ad
Hazel, l’aria si increspò. La Foschia si fece più densa, creando una
porta, e quattro persone ci passarono attraverso. Hazel pianse dal
sollievo. Il braccio di Frank era sanguinante e bendato, ma era vivo.
Accanto a lui si trovavano Nico, Piper e Jason, tutti con le spade
sguainate. “Scusate per il ritardo,” disse Jason. “E’ questo il tipo che
deve essere ucciso?”
76

HAZEL

Hazel fu quasi dispiaciuta per Clitio. Lo attaccarono da ogni


direzione, Leo sparando fuoco contro le sue gambe, Frank e Piper
pugnalandolo al petto, Jason volando in aria e assestandogli dei
calci in faccia. Hazel fu orgogliosa di vedere quanto Piper si
ricordasse bene delle loro lezioni di combattimento con la spada.
Ogni volta che il velo fumoso del gigante cominciava a strisciare
verso uno di loro, Nico era lì, pronto ad attaccarlo con la sua spada,
assorbendo l’oscurità con la lama di ferro di Stige. Percy e Annabeth
erano in piedi, deboli e scioccati, ma avevano le spade sguainate.
Da quando in qua Annabeth aveva una spada? E di che cosa era
fatta, avorio? Sembrava che volessero aiutare, ma non ce n’era
bisogno. Il gigante era circondato. Clitio ringhiava, voltandosi avanti
e indietro come se non riuscisse a decidere chi uccidere per primo.
Aspettate! Fermi! No! Ahia! Il buio che lo circondava si disperse
completamente, lasciando nulla a proteggerlo se non la sua
armatura ammaccata. L’icore colava da una dozzina di ferite. I danni
guarivano quasi altrettanto velocemente di quanto venivano inflitti,
ma Hazel capiva che il gigante si stava stancando. Un’ultima volta,
Jason volò verso di lui, gli diede un calcio sul petto, e la corazza del
gigante si spezzò. Clitio inciampò all’indietro. La sua spada scivolò a
terra. Cadde sulle ginocchia, e i semidei lo circondarono. Solo allora
Ecate si fece avanti, con le torce sollevate. La Foschia strisciò
intorno al gigante, sibilando e ribollendo quando entrava in contatto
con la sua pelle. “E così finisce qui,” disse Ecate. Non finisce qui. La
voce di Clito riecheggiò da qualche parte in alto, stanca e attutita. I
miei fratelli sono risorti. Gea sta solo aspettando il sangue
dell’Olimpo. Ci siete voluti tutti per sconfiggere me. Cosa farete
quando Madre Terra aprirà gli occhi? Ecate mise le torce a testa in
giù. Le affondò come pugnali contro la testa di Clitio. I capelli del
gigante presero fuoco più velocemente di legna secca, diffondendo
le fiamme sulla testa e lungo il suo corpo fino a che il calore del falò
non costrinse Hazel ad indietreggiare. Clitio cadde di faccia nei
detriti dell’altare di Ade, senza produrre alcun suono. Il suo corpo si
ridusse in cenere. Per un momento, non parlò nessuno. Hazel sentì
uno stridente rumore dolorante, e si accorse che era il suo respiro.
Nel fianco aveva la sensazione di essere stata colpita con un
bastone da assedio. La dea Ecate si voltò verso di lei. “Adesso
dovresti andare, Hazel Levesque. Porta i tuoi amici fuori da questo
posto.” Hazel strinse i denti, cercando di trattenere la sua rabbia.
“Solo questo? Nessun ‘grazie’? Nessun ‘bel lavoro’?” La dea inclinò
la testa. La donnola Gale squittì, forse un arrivederci, forse un
avvertimento, e scomparve tra le pieghe della gonna della sua
padrona. “Cerchi nel posto sbagliato per la gratitudine,” disse Ecate.
“Per quanto riguarda il ‘bel lavoro,’ questo rimane da vedere.
Recatevi in fretta verso Atene. Clitio non aveva torto. I giganti sono
risorti, tutti i giganti, più forti che mai. Gea è sul punto di svegliarsi.
La Festa della Speranza non avrà un nome indicato, a meno che
non arriviate voi per fermarla.” La stanza rombò. Un’altra stele si
schiantò sul pavimento. “La Casa di Ade è instabile,” disse Ecate.
“Andatevene adesso. Ci rincontreremo di nuovo.” La dea si dissolse.
La Foschia evaporò. “E’ amichevole,” brontolò Percy. Gli altri si
voltarono verso lui e Annabeth, come se si fossero appena accorti
che si trovavano lì. “Amico.” Jason investì Percy con un abbraccio
da orso. “Tornati dal Tartaro!” esultò Leo. “Questi sono i miei amici!”
Piper gettò le braccia intorno ad Annabeth e pianse. Frank corse da
Hazel. La avvolse gentilmente con le braccia. “Sei ferita,” disse.
“Probabilmente ho le costole rotte,” ammise lei. “Ma Frank, cosa è
successo al tuo braccio?” Lui abbozzò un sorriso. “Lunga storia.
Siamo vivi. E’ questo quello che conta.” Hazel era così scossa dal
sollievo che le ci volle un momento per notare Nico, tutto da solo con
l’espressione carica di dolore e conflitto. “Ehi,” lo chiamò, facendogli
segno di avvicinarsi con il braccio buono. Lui esitò, poi si avvicinò e
la baciò sulla fronte. “Sono felice che tu stia bene,” disse. “I fantasmi
avevano ragione. Solo uno di noi ha raggiunto le Porte della Morte.
Tu… avresti reso orgoglioso nostro padre.” Lei sorrise, prendendogli
gentilmente il volto tra le mani. “Non avremmo potuto sconfiggere
Clitio senza di te.” Strofinò il pollice sotto l’occhio di Nico e si chiese
se avesse pianto. Voleva capire così disperatamente cosa gli stava
succedendo, cosa gli era accaduto nelle ultime settimane. Dopo tutto
quello che avevano appena passato, Hazel era più grata che mai di
avere un fratello. Prima che potesse dirlo, il soffitto tremò. Delle
crepe apparvero nelle piastrelle rimaste. Colonne di polvere caddero
dall’alto. “Dobbiamo uscire di qui,” disse Jason. “Uh, Frank…?”
Frank scosse la testa. “Credo che un favore dai morti sia tutto quello
che posso fare per oggi.” “Aspetta, che?” chiese Hazel. Piper sollevò
le sopracciglia. “Il tuo incredibile ragazzo ha invocato un favore
come figlio di Marte. Ha richiamato gli spiriti di qualche guerriero
morto, gli ha ordinato di portarci qui attraverso… um, bè, in realtà
non lo so. I passaggi dei morti? Tutto quello che so è che era molto,
molto buio.” Alla loro sinistra, una sezione del muro si spaccò. Due
occhi di rubino provenienti da uno scheletro di pietra scolpito
caddero a terra e rotolarono sul pavimento. “Dovremmo usare il
viaggio-ombra,” disse Hazel. Nico sussultò. “Hazel, riesco a farlo a
malapena da solo. Con sette persone in più…“ “Ti aiuterò io.” Cercò
di suonare sicura. Non aveva mai usato il viaggio-ombra prima d’ora,
e non aveva nessuna idea se fosse in grado di farlo; ma dopo aver
lavorato con la Foschia, alterando il Labirinto, doveva credere che
fosse possibile. Un’intera sezione di piastrelle si staccò dal soffitto.
“Tutti quanti, prendetevi per mano!” urlò Nico. Formarono un cerchio
in fretta. Hazel visualizzò la campagna greca sopra di loro. La
caverna crollò, e lei avvertì che si stavano dissolvendo nell’ombra.
Apparvero sul fianco della collina che si affacciava sul Fiume
Acheronte. Il sole aveva appena cominciato a sorgere, rendendo
l’acqua luccicante e le nuvole arancioni. La fresca aria del mattino
sapeva di caprifoglio. Hazel stava tenendo la mano a Frank sulla
sinistra e a Nico sulla destra. Erano tutti vivi e quasi completamente
integri. La luce del sole tra gli alberi era la cosa più bella che avesse
mai visto. Voleva vivere in quel momento, libera dai mostri, dagli dei
e dagli spiriti malvagi. Poi i suoi amici iniziarono a muoversi. Nico si
rese contro che stava tenendo la mano di Percy e la lasciò andare
velocemente. Leo indietreggiò incerto. “Sai… credo che mi metterò a
sedere.” Crollò a terra. Gli altri si unirono a lui. L’Argo II stava ancora
fluttuando sopra al fiume a qualche centinaio di metri di distanza.
Hazel sapeva che avrebbero dovuto avvertire il Coach Hedge e dirgli
che erano vivi. Erano stati nel tempio tutta la notte? Oppure diverse
notti? Ma in quel momento, il gruppo era troppo stanco per fare
qualsiasi cosa eccetto stare seduti e rilassarsi e meravigliarsi del
fatto che stessero bene. Iniziarono a scambiarsi le storie. Frank
spiegò di quello che era accaduto con la legione fantasma e
l’esercito di mostri, come Nico avesse usato lo scettro di
Diocleziano, e di quanto coraggiosamente avessero combattuto
Jason e Piper. “Frank sta facendo il modesto,” disse Jason. “Lui ha
controllato tutta la legione. Avreste dovuto vederlo. Oh, e
comunque…” Jason guardò Percy. “Ho ceduto la mia carica, dando
a Frank una promozione sul campo da pretore. A meno che tu non
voglia contestare.” Percy sogghignò. “Niente in contrario.” “Pretore?”
Hazel fissò Frank. Lui scrollò le spalle a disagio. “Bè… sì. So che
sembra strano.” Lei cercò di gettargli le braccia al collo, poi sussultò
a causa delle costole ferite. Decise di baciarlo. “Sembra perfetto.”
Leo diede delle pacche sulla spalla di Frank. “Grande, Zhang.
Adesso puoi ordinare ad Ottaviano di cadere sulla sua spada.”
“Allettante,” concordò Frank. Si voltò preoccupato verso Percy. “Ma
voi ragazzi… il Tartaro deve essere la vera storia. Cosa è successo
là sotto? Come avete…?” Percy allacciò le sue dita a quelle di
Annabeth. Hazel guardò per caso verso Nico e vide il dolore nei suoi
occhi. Non ne era certa, ma forse stava pensando a quanto fossero
stati fortunati Percy e Annabeth ad avere l’un l’altro. Nico aveva
attraversato il Tartaro da solo. “Vi racconteremo la storia,” promise
Percy. “Ma non adesso, okay? Non sono pronto a ricordarmi di quel
posto.” “No,” concordò Annabeth. “In questo momento…” Spostò lo
sguardo verso il fiume e si interruppe. “Uh, credo che il nostro
passaggio stia arrivando.” Hazel si voltò. L’Argo II girò verso
babordo, con i remi aerei in movimento e le vele gonfie al vento. La
testa di Festus brillava alla luce del sole. Persino da quella distanza,
Hazel poteva sentirlo sferragliare e cigolare dalla gioia. “Ecco il mio
ragazzo!” gridò Leo. Mentre la nave si avvicinava, Hazel vide il
Coach Hedge in piedi a prua. “Era l’ora!” gridò il coach verso il
basso. Stava facendo il suo cipiglio migliore, ma i suoi occhi
brillavano come se forse, solo forse, fosse felice di vederli. “Perché
vi ci è voluto così tanto, pasticcini? Avete fatto aspettare il vostro
visitatore!” “Visitatore?” mormorò Hazel. Alla balaustra accanto al
Coach Hedge, apparve una ragazza dai capelli scuri con un mantello
viola, il volto così ricoperto da polvere e graffi sanguinanti che Hazel
quasi non la riconobbe. Era arrivata Reyna.
77

PERCY

Percy fissò l’Atena Partenos, aspettando che lo polverizzasse. Il


nuovo sistema montacarichi meccanico di Leo aveva abbassato la
statua sul fianco della collina con facilità sorprendente. Adesso la
dea di dodici metri guardava serenamente verso il Fiume Acheronte,
con il vestito dorato simile a metallo sciolto alla luce del sole.
“Incredibile,” ammise Reyna. Aveva ancora gli occhi rossi a causa
del pianto. Poco dopo essere atterrata sull’Argo II, il suo pegaso
Scipio era crollato a terra, sopraffatto dalle ferite velenose provocate
dall’attacco di un grifone la notte prima. Reyna aveva messo fine alla
sofferenza dal cavallo con il suo pugnale dorato, trasformando il
pegaso in polvere che si era dispersa nella dolce aria greca. Forse
non era una fine brutta per un cavallo volante, ma Reyna aveva
perso un amico fedele. Percy immaginò che avesse già perso troppo
nella sua vita. Il pretore si aggirò con cautela intorno all’Atena
Partenos. “Sembra nuova.” “Sì,” disse Leo. “Abbiamo pulito via le
ragnatele, e usato un po’ di lucido. Non è stato difficile.” L’Argo II era
librata sopra di loro. Con Festus in allerta in caso di minacce sul
radar, tutta la ciurma aveva deciso di pranzare sulla collina mentre
discutevano cosa fare. Dopo le ultime settimane, Percy pensava che
si fossero guadagnati un buon pasto insieme qualsiasi cosa che non
fosse acqua di fuoco o zuppa di carne di dragone. “Ehi, Reyna,”
esclamò Annabeth. “Mangia qualcosa. Unisciti a noi.” Il pretore
guardò nella loro direzione, con le sopracciglia scure aggrottate,
come se ‘unisciti a noi’ non la convincesse totalmente. In
precedenza Percy non aveva mai visto Reyna senza la sua
armatura. Si trovava a bordo della nave, mentre veniva riparata da
Buford il Tavolo delle Meraviglie. Reyna indossava un paio di jeans e
una maglietta viola del Campo Giove e sembrava quasi una normale
adolescente, fatta eccezione per il pugnale legato alla cintura e per
l’espressione attenta, come se fosse pronta per un attacco da
qualsiasi direzione. “Va bene,” disse alla fine. Si spostarono per farle
posto nel cerchio. Si mise seduta a gambe incrociate accanto ad
Annabeth, prese un panino al formaggio, e lo mordicchiò al bordo.
“Allora,” disse Reyna. “Frank Zhang… pretore.” Frank si mosse a
disagio, pulendosi le briciole dal mento. “Bè, sì. Promozione sul
campo.” “Per guidare una legione diversa,” notò Reyna. “Una
legione di fantasmi.” Hazel mise il braccio su quello di Frank con fare
protettivo. Dopo aver passato un’ora in infermeria, avevano entrambi
un aspetto migliore; ma Percy poteva capire che non erano certi di
cosa pensare sul fatto che il loro vecchio capo del Campo Giove si
fosse unito a loro per il pranzo. “Reyna,” disse Jason, “avresti dovuto
vederlo.” “E’ stato fenomenale,” concordò Piper. “Frank è un leader,”
insistette Hazel. “Sarà un grande pretore.” Gli occhi di Reyna
rimasero su Frank, come se stesse cercando di indovinare il suo
peso. “Ti credo,” disse. “Approvo.” Frank sbatté le palpebre.
“Davvero?” Reyna fece un sorriso asciutto. “Un figlio di Marte, l’eroe
che ha aiutato a riportare indietro l’aquila della legione… posso
lavorare con un semidio così. Mi sto solo chiedendo come fare a
convincere la Dodicesima Fulminata.” Frank si imbronciò. “Già. Mi
stavo chiedendo la stessa cosa.” Percy non riusciva ancora a
capacitarsi di quanto Frank fosse cambiato. Parlare per dire ‘crescita
veloce’ sarebbe stato dire poco. Era come minimo sei centimetri più
alto, meno tozzo e più muscoloso, come un giocatore di rugby. Il suo
volto appariva più robusto, la mascella più pronunciata. Era come se
Frank si fosse trasformato in un toro e poi fosse tornato ad essere
un umano, ma avesse mantenuto un po’ del toro che era stato. “La
legione ti darà ascolto, Reyna,” disse Frank. “Sei arrivata fino qui, da
sola, attraversando le Terre Antiche.” Reyna masticò il suo panino
come se fosse cartone. “Facendolo, ho infranto le leggi della
legione.” “Cesare infranse le leggi quando attraversò il Rubicone,”
disse Frank. “I grandi leader devono pensare al di fuori degli schemi
ogni tanto.” Lei scosse la testa. “Io non sono Cesare. Dopo aver
trovato il biglietto di Jason al Palazzo di Diocleziano, rintracciarvi è
stato facile. Ho solo fatto quello che pensavo fosse necessario.”
Percy non poté fare a meno di sorridere. “Reyna, sei troppo
modesta. Volare dall’altra parte del mondo da sola per rispondere
alla chiamata di Annabeth, perché sapevi che era la nostra migliore
possibilità per la pace, è mostruosamente eroico.” Reyna scrollò le
spalle. “Parla il semidio che è precipitato nel Tartaro ed è tornato
indietro.” “Ha avuto aiuto,” disse Annabeth. “Oh, ovviamente,” disse
Reyna “Senza di te, dubito che Percy riuscirebbe a trovare l’uscita in
una busta di carta.” “Vero,” concordò Annabeth. “Ehi!” protestò
Percy. Gli altri iniziarono a ridere, ma a Percy non importava. Era
bello vederli sorridere. Cavoli, solo trovarsi nel mondo mortale era
bello, respirare aria non velenosa, godersi della vera luce del sole
sulla schiena. Improvvisamente pensò a Bob. Salutate il sole e le
stelle per me. Il sorriso di Percy si spense. Bob e Damasene
avevano sacrificato le loro vite così che Percy e Annabeth potessero
stare seduti là in quel momento, a godersi la luce del sole a ridere
con i loro amici. Non era giusto. Leo tirò fuori un minuscolo
cacciavite dalla sua cintura degli attrezzi, pugnalò una fragola
ricoperta di cioccolato e la passò al Coach Hedge. Poi tirò fuori un
altro cacciavite e impalò una seconda fragola per se stesso. “Allora,
la domanda da un milione di dollari,” disse Leo. “Abbiamo questa
statua di Atena di dodici metri appena usata. Cosa ci facciamo?”
Reyna guardò verso l’Atena Partenos. “Per quanto stia bene su
questa collina, non ho fatto tutta questa strada per ammirarla.
Secondo Annabeth, deve essere riportata al Campo Mezzosangue
da un leader romano. Ho capito bene?” Annabeth annuì. “Ho fatto un
sogno nel… sì, nel Tartaro. Ero sulla Collina Mezzosangue, e la voce
di Atena ha detto, Devo stare qui. Devono portarmi i romani.” Percy
studiò la statua a disagio. Non era mai stato in grandi rapporti con la
madre di Annabeth. Continuava ad aspettarsi che la statua della
Grande Mammina prendesse vita e lo rimproverasse per aver
cacciato sua figlia in così tanti guai, o forse lo avrebbe solo
schiacciato senza dire una parola. “Ha senso,” disse Nico. Percy
sobbalzò. Suonava quasi come se Nico gli avesse letto nella mente
e fosse d’accordo sul fatto che Atena lo schiacciasse. Il figlio di Ade
era seduto dalla parte opposta del cerchio, e non aveva mangiato
nulla eccetto metà melograno, il frutto dell’Oltretomba. Percy si
chiese se quella fosse l’idea di scherzo di Nico. “La statua è un
simbolo potente,” disse Nico. “Un romano che la riconsegna ai
greci… quello potrebbe guarire la frattura storica, forse potrebbe
persino guarire le divinità dal loro problema di personalità spaccate.”
Il Coach Hedge inghiottì la sua fragola insieme a metà cacciavite.
“Adesso, aspetta un attimo. La pace mi piace tanto quanto
piacerebbe a qualunque satiro…“ “Lei detesta la pace,” disse Leo. “Il
punto è, Valdez, che ci troviamo a soli… cosa, qualche giorno da
Atene? Abbiamo un esercito di giganti che ci aspetta là. Abbiamo
affrontato tutti quei guai per salvare questa statua…“ “Io ho
affrontato la maggior parte dei guai,” gli ricordò Annabeth. “…perché
quella profezia parla di un flagello dei giganti,” continuò il coach.
“Allora perché non la stiamo portando ad Atene con noi? Si tratta
ovviamente della nostra arma segreta.” Guardò l’Atena Partenos.
“Per me assomiglia a un razzo. Forze se Valdez ci attaccasse
qualche motore…“ Piper si schiarì la gola. “Uh, idea fantastica,
Coach, ma molti di noi hanno avuto sogni e visioni di Gea che
sorgeva al Campo Mezzosangue…” Sguainò il suo pugnale
Katoptris e lo mise sul suo piatto. In quel momento, la lama non
mostrava nulla eccetto il cielo, ma guardarla rendeva comunque
Percy nervoso. “Da quando siamo tornati alla nave,” disse Piper, “ho
visto delle brutte cose nel coltello. La legione romana è quasi a
distanza di attacco dal Campo Mezzosangue. Stanno raggruppando
dei rinforzi: spiriti, aquile, lupi.” “Ottaviano,” ringhiò Reyna. “Gli avevo
detto di aspettare.” “Quando prenderemo il comando,” suggerì
Frank, “il nostro primo ordine potrebbe essere quello di far caricare
Ottaviano nella catapulta più vicina e di spararlo il più lontano
possibile.” “Sono d’accordo,” disse Reyna. “Ma per adesso…“ “Ha
intenzione di attaccare,” esclamò Annabeth. “E lo farà, a meno che
non lo fermiamo.” Piper fece ruotare la lama del suo pugnale.
“Sfortunatamente, questa non è la parte peggiore. Ho visto delle
immagini di un futuro possibile, il campo in fiamme, semidei greci e
romani che giacevano morti a terra. E Gea…” La voce la tradì. Percy
si ricordò del dio Tartaro nella sua forma fisica, che incombeva su di
lui. Non si era mai sentito così inerme e terrorizzato. Stava ancora
bruciando di vergogna, ricordandosi come gli fosse scivolata la
spada di mano. E’ come cercare di uccidere la terra, aveva detto
Tartaro. Se Gea era così potente, e aveva un esercito di giganti dalla
sua parte, Percy non vedeva come sette semidei potessero fermarla,
soprattutto quando la maggior parte degli dei era fuori uso.
Dovevano fermare i giganti prima che Gea si svegliasse, altrimenti
sarebbe stato game over. Se l’Atena Partenos era un’arma segreta,
portarla ad Atene era piuttosto allettante. Cavoli, a Percy in un certo
senso piaceva l’idea del coach di usarla come un razzo e di spedire
Gea in alto con una divina esplosione nucleare. Sfortunatamente, la
sua pancia gli diceva che Annabeth aveva ragione. La statua doveva
tornare a Long Island, dove avrebbe potuto fermare la guerra tra i
due campi. “Quindi Reyna si prende la statua,” disse Percy. “E noi
continuiamo verso Atene.” Leo scrollò le spalle. “Per me va bene.
Ma, uh, qualche seccante problema logistico. A noi mancano
quanto, due settimane prima di quella festa romana in cui Gea
dovrebbe svegliarsi?” “La Festa di Spes,” disse Jason. “E’ il primo
Agosto. Oggi è…“ “Il diciotto di Luglio,” disse Frank. “Quindi, sì, da
domani sono esattamente quattordici giorni.” Hazel sussultò. “Ci
sono voluti diciotto giorni per arrivare da Roma a qui, un viaggio che
avrebbe dovuto richiedere solo due o tre giorni, al massimo.”
“Quindi, data la nostra solita fortuna,” disse Leo, “forse abbiamo
abbastanza tempo per portare l’Argo II ad Atene, trovare i giganti, e
impedire loro di svegliare Gea. Forse. Ma come dovrebbe fare
Reyna a riportare questa statua gigante al Campo Mezzosangue
prima che i greci e i romani inizino ad azzuffarsi? Non ha più
nemmeno il suo pegaso. Uh, scusa…“ “Non fa niente,” scattò Reyna.
Forse poteva trattarli come alleati invece che nemici, ma Percy
capiva che Reyna aveva ancora del risentimento verso Leo,
probabilmente perché lui aveva fatto esplodere metà del Foro a
Nuova Roma. Lei fece un respiro profondo. “Sfortunatamente, Leo
ha ragione. Non vedo come posso trasportare qualcosa di così
grosso. Pensavo… bè, speravo che voi avreste avuto una risposta.”
“Il Labirinto,” disse Hazel. “Voglio, voglio dire, se Pasifae l’ha
davvero riaperto, ed io credo che sia così…” Guardò Percy con aria
apprensiva. “Bè, tu hai detto che il Labirinto può portare ovunque.
Quindi forse…“ “No.” Percy e Annabeth parlarono all’unisono. “Non
per abbatterti, Hazel,” disse Percy. “E’ solo che…” Lottò per trovare
le parole giuste. Come poteva descrivere il Labirinto a qualcuno che
non l’aveva mai esplorato? Dedalo l’aveva creato perché fosse una
struttura vivente e in continua crescita. Nel corso dei secoli si era
esteso come le radici di un albero sotto l’intera superficie del mondo.
Certo, poteva portare ovunque. La distanza al suo interno non aveva
significato. Potevi entrare nel Labirinto a New York, fare tre metri, e
uscire dal labirinto a Los Angeles, ma solo se trovavi una via
affidabile per muoverti al suo interno. Altrimenti il Labirinto ti
ingannava e cercava di ucciderti ad ogni svolta. Quando la rete di
tunnel era crollata dopo la morte di Dedalo, Percy si era sentito
sollevato. L’idea che il labirinto si stesse rigenerando, scavandosi
nuovamente la strada sottoterra e creando una spaziosa nuova casa
per i mostri… la cosa non lo rendeva felice. Aveva già abbastanza
problemi. “Per prima cosa,” disse, “i passaggi per il Labirinto sono
troppo piccoli per l’Atena Partenos. Non c’è modo nel quale potresti
farla passare là sotto…“ “E anche se il labirinto si sta davvero
riaprendo,” continuò Annabeth, “non sappiamo come potrebbe
essere ora. Era già abbastanza pericoloso prima, sotto il controllo di
Dedalo, e lui non era malvagio. Se Pasifae ha ricreato il Labirinto
come voleva lei…” Scosse la testa. “Hazel, forse i tuoi sensi
sotterranei potrebbero guidare Reyna, ma nessun altro avrebbe una
sola possibilità. E noi abbiamo bisogno di te qui. Inoltre, se ti
perdessi là sotto…“ “Avete ragione,” disse Hazel accigliata. “Non
importa.” Reyna spostò lo sguardo verso il resto del gruppo. “Altre
idee?” “Potrei andare io,” propose Frank, anche se non sembrava
molto felice al riguardo. “Se sono un pretore, dovrei andare. Forse
potremmo allestire un qualche tipo di slitta, oppure…“ “No, Frank
Zhang.” Reyna gli rivolse un sorriso stanco. “Spero che lavoreremo
insieme in futuro, ma per adesso il tuo posto è con la ciurma di
questa nave. Tu sei uno dei sette della profezia.” “Io non lo sono,”
disse Nico. Smisero tutti di mangiare. Percy fissò dall’altra parte del
cerchio verso Nico, cercando di decidere se stesse scherzando.
Hazel mise giù la sua forchetta. “Nico…“ “Andrò con Reyna,” disse.
“Posso trasportare la statua attraverso il viaggio-ombra.” “Uh…”
Percy alzò la mano. “Voglio dire, so che ci hai appena portati tutti e
otto in superficie, ed è stato incredibile. Ma un anno fa hai detto che
trasportare solo te stesso era pericoloso e imprevedibile. Un paio di
volte sei finito in Cina. Trasportare una statua di dodici metri e due
persone dall’altra parte del mondo…“ “Sono cambiato da quando
sono tornato dal Tartaro.” Gli occhi di Nico brillavano di rabbia, una
rabbia più intensa di quella che Percy riusciva a comprendere. Si
chiese se avesse fatto qualcosa per offendere il ragazzo. “Nico,”
intervenne Jason, “non stiamo mettendo in discussione i tuoi poteri.
Vogliamo solo essere sicuri che non ti ucciderai provandoci.” “Posso
farlo,” insistette. “Farò dei salti brevi, qualche centinaio di chilometri
ogni volta. È vero, dopo ogni salto non sarò nella condizione di
difendermi dai mostri. Avrò bisogno di Reyna per difendere me e la
statua.” Reyna aveva un’eccellente faccia da poker. Studiò il gruppo,
esaminando i loro volti, ma non tradì nessuno dei suoi pensieri.
“Nessuna obiezione?” Non parlò nessuno. “Molto bene,” disse, con il
tono definitivo di un giudice. Se avesse avuto un martelletto, Percy
sospettava che l’avrebbe battuto. “Non vedo nessuna alternativa
migliore. Ma ci saranno molti attacchi di mostri. Mi sentirei meglio
portando una terza persona. Questo è il numero ottimale per
un’impresa.” “Coach Hedge,” disse Frank all’improvviso. Percy lo
fissò, non sicuro di aver sentito bene. “Uh, cosa, Frank?” “Il coach è
la scelta migliore,” disse Frank. “L’unica scelta. E’ un buon
combattente. E’ un protettore certificato. Farà il suo dovere.” “Un
fauno,” disse Reyna. “Satiro!” abbaiò il coach. “E, sì, andrò. Inoltre,
quando arriverete al Campo Mezzosangue, vi servirà qualcuno con
delle conoscenze e abilità diplomatiche per impedire ai greci di
attaccarvi. Fatemi solo andare a fare una telefonata, voglio dire a
prendere la mia mazza.” Si alzò e lanciò a Frank un messaggio muto
che Percy non riuscì a leggere. Nonostante il fatto che fosse stato
appena reso volontario per una missione molto probabilmente
suicida, il coach sembrava grato. Corse verso la scaletta della nave,
saltando e sbattendo gli zoccoli l’uno contro l’altro come un bambino
emozionato. Nico si alzò. “Anche io dovrei andare, e riposarmi prima
del viaggio iniziale. Ci incontreremo alla statua al tramonto.” Quando
se ne fu andato, Hazel aggrottò le sopracciglia. “Si sta comportando
in maniera strana. Non sono certa che stia considerando
attentamente la cosa.” “Starà bene,” disse Jason. “Spero che tu
abbia ragione.” Passò la mano sul terreno. In superficie apparvero
dei diamanti, una luccicante via lattea di pietra. “Ci troviamo a un
altro incrocio. L’Atena Partenos va ad ovest. L’Argo II va ad est.
Spero che abbiamo fatto le scelte giuste.” Percy desiderò poter dire
qualcosa di incoraggiante, ma si sentiva inquieto. Malgrado tutto
quello che avevano affrontato e tutte le battaglie che avevano vinto,
sembravano non essere affatto più vicini a sconfiggere Gea. Certo,
avevano liberato Tanato. Avevano chiuso le Porte della Morte. Per lo
meno adesso potevano uccidere i mostri e farli rimanere nel Tartaro
per un po’. Ma i giganti erano tornati, tutti. “C’è una cosa che non mi
convince,” disse. “Se la Festa di Spes è tra due settimane, e Gea ha
bisogno del sangue di due semidei per svegliarsi, come l’ha
chiamato Clitio? Il sangue dell’Olimpo? In questo caso non stiamo
facendo esattamente ciò che vuole Gea, andando ad Atene? Se non
andiamo, e lei non può sacrificare nessuno di noi, questo non vuol
dire che non può svegliarsi completamente?” Annabeth gli prese la
mano. Adesso che erano tornati nel mondo mortale, lui si affogava
nella sua vista; senza la Foschia di Morte, con i capelli biondi che
catturavano la luce del sole, anche se era ancora magra e pallida,
come lui, e i suoi occhi grigi erano tempestati di pensieri. “Percy, le
profezie funzionano da entrambi i lati,” disse. “Se non andiamo,
potremmo perdere la nostra migliore e unica occasione per fermarla.
Atene è dove ci aspetta la nostra battaglia. Non possiamo evitarlo.
Inoltre, cercare di impedire le profezie non funziona mai. Gea
potrebbe catturarci da qualche altra parte, o versare il sangue di
qualche altro semidio.” “Sì, hai ragione,” disse Percy. “Non mi piace,
ma hai ragione.” Il morale del gruppo si fece cupo come l’aria del
Tartaro finché Piper non spezzò la tensione. “Bene!” Rinfoderò la
sua arma e picchiettò con la mano sulla sua cornucopia. “Bel picnic.
Chi vuole il dolce?”
78

PERCY

Al tramonto, Percy trovò Nico intento a legare le corde intorno al


piedistallo dell’Atena Partenos. “Grazie,” disse Percy. Nico aggrottò
le sopracciglia. “Per cosa?” “Avevi promesso di guidare gli altri alla
Casa di Ade,” disse Percy. “L’hai fatto.” Nico legò insieme le
estremità delle corde, creando un’imbrigliatura. “Tu mi hai tirato fuori
da quella giara di bronzo a Roma. Mi hai salvato la vita ancora una
volta. Era il minimo che potessi fare.” La sua voce era inflessibile,
controllata. Percy desiderò poter capire quali fossero le motivazioni
di quel ragazzo, ma non ne era mai stato in grado. Nico non era più
il bambino di West over Hall con le carte di Mitomagia. Né era più il
solitario arrabbiato che aveva seguito il fantasma di Minosse
attraverso il Labirinto. Ma chi era? “Inoltre,” disse Percy, “sei andato
a trovare Bob…” Gli raccontò del loro viaggio attraverso il Tartaro.
Immaginava che se c’era qualcuno che avrebbe potuto capire, quello
era Nico. “Hai convinto Bob che si poteva fidare di me, anche se io
non lo sono mai andato a trovare. Non ho mai pensato a lui.
Probabilmente ci hai salvato la vita facendo il gentile con lui.” “Sì,
bè,” disse Nico, “non pensare alle persone… quello può essere
pericoloso.” “Amico, sto cercando di ringraziarti.” Nico rise senza
allegria. “Io sto cercando di dirti che non devi farlo. Adesso devo
finire questo, mi puoi lasciare un po’ di spazio?” “Sì. Sì, va bene.”
Percy indietreggiò mentre Nico prendeva la parte avanzata delle
corde. Se le fece scivolare sopra le spalle come se l’Atena Partenos
fosse un zainetto gigante. Percy non poté fare a meno di sentirsi un
po’ ferito, sentendosi dire che se ne doveva andare. Tuttavia, Nico
ne aveva passate parecchie. Il ragazzo era sopravvissuto al Tartaro
da solo. Percy capiva di prima mano quanta forza avesse richiesto
farlo. Annabeth salì sulla collina per unirsi a loro. Prese la mano di
Percy, cosa che lo fece sentire meglio. “Buona fortuna,” disse a
Nico. “Sì.” Lui non incrociò i suoi occhi. “Anche a te.” Un minuto più
tardi, Reyna e il Coach Hedge arrivarono vestiti con l’armatura
completa, muniti di zaini sulle spalle. Reyna appariva seria e pronta
per combattere. Coach Hedge sorrideva come se si aspettasse una
festa a sorpresa. Reyna abbracciò Annabeth. “Ce la faremo,” le
promise. “So che lo farai,” disse Annabeth. Coach Hedge si mise la
mazza da baseball sulla spalla. “Sì, non preoccupatevi. Arriverò al
campo e vedrò il mio bambino! Uh, voglio dire, poterò questa
bambinona al campo!” Diede dei colpetti sulla gamba dell’Atena
Partenos. “Va bene,” disse Nico. “Per favore, afferrate le corde. Ci
siamo.” Reyna ed Hedge si aggrapparono. L’aria si scurì. L’Atena
Partenos precipitò nella sua stessa ombra e scomparve, insieme ai
suoi tre accompagnatori. L’Argo II salpò quando era già scesa la
notte. Si diressero in direzione sudovest fino a che non raggiunsero
la costa, poi si ritrovarono nel Mar Ionio. Percy era sollevato di
sentire di nuovo le onde sotto di lui. Sarebbe stato un viaggio più
breve fino ad Atene via terra, ma dopo l’esperienza del gruppo con
gli spiriti delle montagne in Italia, avevano deciso di non volare sopra
il territorio di Gea più di quanto fosse necessario. Avrebbero
navigato intorno alla Grecia, seguendo la rotta che gli eroi greci
avevano preso nei tempi antichi. La cosa andava bene a Percy.
Adorava trovarsi di nuovo nell’elemento di suo padre, con la fresca
aria di mare nei polmoni e gli schizzi salati sulle braccia. Si trovava
alla ringhiera di tribordo e chiuse gli occhi, avvertendo le correnti
sotto di lui. Ma le immagini del Tartaro continuavano a bruciargli
impresse nella mente, il fiume Flegetonte, il terreno ricoperto di
vesciche dalle quali si rigeneravano i mostri, la foresta scura dove le
arai volavano in alto tra le nuvole color sangue. Più di tutto,
ripensava a una capanna in una palude con un fuoco caldo e scaffali
di erbe secche e carne essiccata di dragone. Si chiese se adesso
quella capanna fosse vuota. Annabeth si strinse accanto a lui alla
ringhiera, con il suo calore che lo rassicurava. “Lo so,” mormorò lei,
leggendo la sua espressione. “Neanche io riesco a togliermi quel
luogo dalla testa.” “Damasene,” disse Percy. “E Bob…” “Lo so.” La
sua voce era fragile. “Dobbiamo far sì che il loro sacrificio sia servito
a qualcosa. Dobbiamo sconfiggere Gea.” Percy fissò il cielo della
notte. Desiderò che lo stessero guardando dalla spiaggia di Long
Island invece che dalla parte opposta del mondo, diretti verso una
morte quasi certa. Si chiese dove si trovassero Nico, Reyna ed
Hedge in quel momento, e quanto ci avrebbero messo per tornare
indietro, assumendo che fossero sopravvissuti. Immaginò i romani
che organizzavano i ranghi di battaglia in quel momento,
circondando il Campo Mezzosangue. Quattordici giorni per
raggiungere Atene. Poi, in un modo o nell’altro, la guerra sarebbe
stata decisa. Alla prua, Leo fischiettava felice mentre lavorava con la
testa meccanica di Festus, borbottando qualcosa riguardo a un
cristallo e ad un astrolabio. Dal centro della nave, Piper e Hazel si
stavano allenando con la spada, lame di oro e bronzo che
risuonavano nella notte. Jason e Frank si trovavano al timone,
parlando a bassa voce, forse raccontandosi storie sulla legione, o
condividendosi pensieri sulla carica di pretore. “Abbiamo una buona
squadra,” disse Percy. “Se devo navigare verso la mia morte…“
“Non morirai con me qui, Testa d’Alghe,” disse Annabeth. “Non ti
ricordi? Non ci separeremo mai più. E quando torneremo a casa…”
“Cosa?” chiese Percy. Lei lo baciò. “Chiedimelo di nuovo quando
avremo sconfitto Gea.” Lui sorrise, felice di avere qualcosa di bello
da aspettare. “Come dici tu.” Mentre navigavano sempre più lontani
dalla costa, il cielo si scurì e spuntarono altre stelle. Percy studiò le
costellazioni, quelle che Annabeth gli aveva insegnato così tanti anni
prima. “Bob vi saluta,” disse alle stelle. L’Argo II scivolò nella notte.

FINE

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