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La casa di Ade
1
HAZEL
Nel corso del terzo attacco, per poco Hazel non mangiò un masso.
Stava scrutando tra la nebbia, domandandosi come potesse essere
così difficile volare sopra una stupida catena montuosa, quando le
campane di allarme della nave suonarono. “Tutta a sinistra!” gridò
Nico dall’albero di trinchetto della nave volante.
Alla postazione del timone, Leo tirò con violenza la ruota. L’Argo II
virò a sinistra, con i suoi remi aerei che tagliavano le nuvole come
una fila di coltelli. Hazel fece l’errore di guardare oltre la ringhiera.
Una scura sagoma sferica si schiantò contro di lei. Pensò: Perché la
Luna sta venendo verso di noi? Poi gridò e si gettò a terra. L’enorme
masso le passò così vicino sopra la testa, che le fece volare i capelli
all’indietro. CRACK! L’albero di trinchetto crollò, vele, aste e Nico,
andarono tutti a schiantarsi sul ponte. Il masso, che raggiungeva
senza problemi le dimensioni di un pick-up, rotolò tra la nebbia come
se avesse faccende più importanti da svolgere altrove. “Nico!” Hazel
accorse verso di lui mentre Leo raddrizzava la nave. “Sto bene,”
mormorò Nico, scalciando via pezzi di tela dalle gambe. Lo aiutò ad
alzarsi e si diressero incerti verso prua.
HAZEL
Hazel non era mai stata così felice. Bè, ad eccezione forse per la
sera del banchetto della vittoria al Campo Giove, quando aveva
baciato Frank per la prima volta… ma questo momento gli si
avvicinava parecchio. Non appena raggiunse il terreno, corse verso
Arion e gli avvolse le braccia intorno al collo. “Mi sei mancato!”
Premette il volto nel mantello caldo del cavallo, che odorava di
acqua salata e mele. “Dove sei stato?” Arion nitrì. Hazel desiderò
saper parlare con i cavalli come Percy, ma afferrò il concetto
generale. Arion sembrava impaziente, come se stesse dicendo, Non
abbiamo tempo per i sentimentalismi, ragazza! Andiamo! “Vuoi che
venga con te?” indovinò lei. Arion abbassò la testa, trottando sul
posto. I suoi occhi castano scuro brillavano di urgenza. Hazel non
riusciva ancora credere che fosse davvero lì. Era in grado di
galoppare su qualsiasi superficie, persino sul mare, ma lei aveva
pensato che non li avrebbe seguiti nelle terre antiche. Il
Mediterraneo era troppo pericoloso per i semidei e i loro alleati. Non
sarebbe venuto fin laggiù a meno che Hazel non ne avesse avuto un
bisogno assoluto. E sembrava essere così agitato… Qualsiasi cosa
che era in grado di rendere nervoso un cavallo senza paura avrebbe
dovuto terrorizzare Hazel. Al contrario, si sentiva euforica. Era così
stanca di soffrire di mal di mare e mal d’aria. A bordo dell’ Argo II, si
sentiva utile più o meno come poteva esserlo una zavorra. Era felice
di essere tornata sulla terra solida, anche se quello era il territorio di
Gaia. Era pronta per cavalcare. “Hazel!” Nico la chiamò dalla nave.
“Che succede?” “Va tutto bene!” Lei si inginocchiò a terra e fece
apparire una pepita d’oro dal terreno. Stava migliorando nel
controllare il suo potere. Ormai le pietre preziose apparivano
raramente intorno a lei per sbaglio, e far spuntare l’oro dalla terra era
facile. Diede ad Arion la pepita… il suo spuntino preferito. Poi sorrise
rivolta verso Leo e Nico, che la stavano guardando dalla cima della
scaletta a circa trenta metri d’altezza. “Arion vuole portarmi da
qualche parte.” I due ragazzi si scambiarono delle occhiate nervose.
“Uh…” Leo indicò verso nord. “Ti prego, dimmi che non ti sta
portando verso quello.” Hazel era stata così concentrata su Arion
che non aveva notato la perturbazione. A un paio di chilometri di
distanza, sulla cresta della collina successiva, si era riunita una
tempesta, proprio sopra delle antiche rovine di pietra, forse i resti di
un tempio romano o di una fortezza. Un ciclone serpeggiava dall’alto
verso la collina come un dito nero inchiostro. Hazel avvertì il sapore
del sangue in bocca. Guardò Arion. “Vuoi andare là?” Arion nitrì,
come a dire, Bè, certo! Bè… era stata Hazel a chiedere aiuto. Quella
era forse la risposta di suo padre? Sperava di sì, ma avvertiva
qualcos’altro oltre a Plutone che agiva in quella tempesta…
qualcosa di oscuro, potente e non necessariamente amichevole.
Tuttavia, quella era la sua possibilità di aiutare i suoi amici, la sua
occasione di guidare invece che seguire. Strinse le cinghie della sua
spada da cavalleria d’oro Imperiale e montò in sella ad Arion. “Andrà
tutto bene!” esclamò rivolta verso Nico e Leo. “Rimanete pronti e
aspettatemi.” “Aspettare quanto?” chiese Nico. “E se non torni?”
“Non preoccuparti, tornerò,” promise, sperando che fosse vero.
Spronò Arion, e insieme scattarono lungo la campagna, diretti dritti
verso il tornado che montava.
3
HAZEL
HAZEL
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
LEO
Leo aveva passato la notte lottando con un’Atena di dodici metri. Fin
da quando avevano portato la statua a bordo, era stato ossessionato
dal cercare di capire come funzionava. Era certo che avesse poteri
straordinari. Ci doveva essere un interruttore segreto, un disco a
pressione o qualcosa nascosto da qualche parte. Avrebbe dovuto
dormire, ma semplicemente non poteva. Passava ore accucciato
accanto alla statua, che occupava la maggior parte del ponte
inferiore. I piedi di Atena sporgevano nell’infermeria, quindi dovevi
aggirare i suoi alluci di avorio se volevi qualcosa contro il mal di
testa. Il suo corpo era lungo come il corridoio di babordo, le sue
mani aperte sporgevano nella sala motori, nell’atto di offrire la figura
a grandezza naturale di Nike che aveva sul palmo, come a dire,
Ecco qui, prendete un po’ di Vittoria! Il volto calmo di Atena
occupava la maggior parte delle stalle dei pegasi a poppa, che
fortunatamente erano vuote. Se Leo fosse stato un cavallo magico,
non avrebbe voluto vivere in una stalla con una dea della saggezza
extralarge a fissarlo. La statua era incastrata nel corridoio, dove
entrava a malapena, così Leo dovette arrampicarsi sopra di lei e
contorcersi sotto i suoi arti, in cerca di leve e bottoni. Come al solito,
non trovò nulla. Aveva fatto qualche ricerca sulla statua. Sapeva che
era fatta da uno scheletro cavo di legno ricoperto di avorio e oro, il
che spiegava perché fosse così leggera. Era in condizioni piuttosto
buone, considerando che aveva più di duemila anni, era stata
saccheggiata da Atene, trasportata a Roma, e conservata
segretamente nella caverna di un ragno per la maggior parte degli
ultimi due millenni. Doveva essere stata la magia ad averla
mantenuta intatta, immaginava Leo, combinata con un lavoro
d’artigianato davvero eccellente. Annabeth aveva detto… bè, cercò
di non pensare ad Annabeth. Si sentiva ancora in colpa per il fatto
che lei e Percy fossero caduti nel Tartaro. Leo sapeva che era colpa
sua. Avrebbe dovuto far salire tutti al sicuro a bordo dell’Argo II
prima di iniziare a legare la statua. Avrebbe dovuto rendersi conto
che il pavimento della caverna era instabile. Tuttavia, rimuginarci
sopra non avrebbe riportato indietro Percy e Annabeth. Doveva
concentrasti sul risolvere i problemi che poteva aggiustare. Ad ogni
modo, Annabeth aveva detto che la statua era la chiave per
sconfiggere Gea. Poteva guarire la spaccatura tra i semidei greci e
romani. Leo immaginava che ci fosse qualcosa di più in lei che
semplice simbolismo. Magari gli occhi di Atena erano pistole laser, o
il serpente dietro il suo scudo poteva sputare veleno. O forse la
statua più piccola di Nike prendeva vita e cominciava ad attaccare
con mosse da ninja. Leo poteva pensare a tutta una serie di cose
divertenti che la statua avrebbe potuto fare se fosse stato lui a
progettarla, ma più la esaminava più diventava frustato. L’Atena
Partenos irradiava magia. Persino lui poteva avvertirlo. Ma non
sembrava fare nulla eccetto apparire maestosa. La nave sbandò di
lato, facendo manovre evasive. Leo resistette all’impulso di correre
al timone. In quel momento Jason, Piper e Frank erano di guardia
con Hazel. Potevano affrontare qualsiasi cosa stesse succedendo.
Inoltre, Hazel aveva insistito nel voler prendere il timone per guidarli
attraverso il passaggio segreto di cui le aveva parlato la dea della
magia. Leo sperava che Hazel avesse ragione sulla lunga
deviazione a nord. Non si fidava di questa signora Ecate. Non capiva
perché una dea così inquietante avesse improvvisamente deciso di
aiutarli. Ovviamente, lui non si fidava della magia in generale. Era
per quello che stava avendo così tanti problemi con l’Atena
Partenos. Non aveva parti moventi. Qualsiasi cosa facesse,
apparentemente operava con stregoneria pura… e Leo non
apprezzava la cosa. Voleva che avesse senso, come una macchina.
Alla fine fu troppo esausto per riuscire a pensare coerentemente. Si
avvolse in una coperta nella sala motori e si mise ad ascoltare il
ronzio calmante dei generatori. Buford, il tavolo meccanico, si
trovava in un angolo in modalità addormentato, e produceva piccoli
sbuffi di vapore: Shh, pfft, shh, pfft. A Leo piaceva la sua postazione
di comando ma si sentiva più al sicuro lì, nel cuore della nave, in una
stanza piena di macchinari che sapeva come controllare. Inoltre,
forse se passava più tempo a stretto contatto con l’Atena Partenos,
alla fine avrebbe assorbito i suoi segreti. “Io o te, Signora Gigante,”
mormorò mentre si tirava la coperta fino al mento. “Alla fine
collaborerai.” Chiuse gli occhi e si addormentò. Sfortunatamente, ciò
voleva dire sognare. Stava correndo per salvarsi la vita attraverso la
vecchia officina di sua madre, dove era morta in un incendio quando
Leo aveva otto anni. Non era certo di che cosa lo stesse
inseguendo, ma avvertiva che si stava avvicinando in fretta qualcosa
di grosso, buio e carico di odio. Si scontrò con i tavoli da lavoro,
sbatté contro le cassette per gli attrezzi, e inciampò sui fili elettrici.
Intravide l’uscita e scattò verso di essa, ma una figura incombeva
davanti a lui, una donna con vestiti fatti di terra vorticante, il volto
coperto da un velo di polvere. Dove stai andando, piccolo eroe?
chiese Gea. Rimani, e incontra il mio figlio prediletto. Leo scattò sulla
sinistra, ma la risata della Dea della Terra lo seguì. La notte in cui
tua madre è morta, io ti avvertii. Ti dissi che le Parche non mi
avrebbero permesso di ucciderti allora. Ma adesso hai scelto il tuo
cammino. La tua morte è vicina, Leo Valdez. Lui corse, scontrandosi
con un tavolo inclinabile, la vecchia postazione di lavoro di sua
madre. La parete dietro di essa era decorata con i disegni a pastello
di Leo. Singhiozzò disperato e si voltò, ma la cosa che lo stava
inseguendo adesso si trovava sul suo cammino, un essere colossale
avvolto dalle ombre, con una forma vagamente umanoide, la testa
toccava quasi il soffitto sei metri più in alto. Le mani di Leo presero
fuoco. Lanciò una palla di fiamme contro il gigante, ma l’oscurità la
consumò. Leo cercò di prendere la sua cintura degli attrezzi. Le sue
tasche erano state cucite. Cercò di parlare, di dire qualsiasi cosa che
avrebbe potuto salvargli la vita, ma non riuscì a produrre nessun
suono, come se gli avessero rubato l’aria dai polmoni. Mio figlio non
permetterà nessun incendio questa notte, disse Gea dalle profondità
del magazzino. Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il freddo
che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le parole.
Leo voleva urlare: E io sono il ragazzo che se ne sta andando da
qui! La sua voce non funzionava, così usò i suoi piedi. Si lanciò sulla
destra, abbassandosi per evitare le ombrose mani del gigante, e si
gettò verso la porta più vicina. Improvvisamente, si ritrovò al Campo
Mezzosangue, solo che il campo era ridotto in macerie. Le cabine
erano ammassi bruciati. I campi in fiamme fumavano alla luce della
luna. Il padiglione della cena era crollato diventando una pila di
macerie bianche, e la Casa Grande stava andando a fuoco, con le
sue finestre che brillavano come occhi di demoni. Leo continuò a
correre, certo che il gigante d’ombra fosse ancora dietro di lui.
Zigzagò intorno ai corpi dei semidei greci e romani. Voleva
controllare se erano vivi. Voleva aiutarli. Ma in qualche modo sapeva
che era a corto di tempo. Corse verso le uniche persone vive che
vedeva, un gruppo di romani che si trovavano presso il campo da
pallavolo. Due centurioni erano appoggiati con aria indifferente ai
loro giavellotti, intenti a chiacchierare con un alto ragazzo biondo e
magrissimo che indossava una toga viola. Leo inciampò. Era il tipo
strano chiamato Ottaviano, l’augure del Campo Giove, che era
sempre in cerca di guerra. Ottaviano si voltò verso di lui, ma
sembrava essere in trance. I tratti del suo volto erano inerti, i suoi
occhi chiusi. Quando parlò, lo fece con la voce di Gea: Questo non
può essere impedito. I romani si spostano verso est da New York. Si
avvicinano al vostro campo, e nulla può rallentarli. Leo era tentato di
dare un pugno in faccia ad Ottaviano. Invece continuò a correre. Salì
sulla Collina Mezzosangue. Sulla cima, dei lampi avevano distrutto il
pino gigante. Si fermò all’improvviso. Tutto quello che c’era oltre la
collina era stato spazzato via. Al di là di essa, tutto il mondo era
svanito. Leo non vide nulla eccetto nuvole librate più in basso, un
ondulato tappeto d’argento sotto il cielo scuro. Una voce acuta disse,
“Ebbene?” Leo indietreggiò. Accanto al pino in pezzi, una donna era
inginocchiata presso l’entrata di una caverna che si era aperta tra le
radici dell’albero. La donna non era Gea. Sembrava più come
un’Atena Partenos vivente, con gli stessi vestiti dorati e le nude
braccia d’avorio. Quando si alzò, per poco Leo non precipitò oltre il
bordo del mondo. Il suo volto era regalmente bello, con zigomi alti,
grandi occhi scuri, e capelli color liquirizia legati con un’elegante
acconciatura dell’Antica Grecia, decorati con una spirale di smeraldi
e diamanti, così da ricordare a Leo un albero di Natale. La sua
espressione irradiava odio puro. Le sue labbra si incurvarono. Il suo
naso si arricciò. “Il figlio del dio meccanico,” disse con sarcasmo.
“Non sei una minaccia, ma suppongo che la mia vendetta debba
iniziare da qualche parte. Fai la tua scelta.” Leo cercò di parlare, ma
stava per schizzare fuori dalla pelle per il panico. Tra questa regina
dell’odio e il gigante che lo inseguiva, non aveva idea di cosa fare.
“Sarà presto qui,” avvertì la donna. “Il mio oscuro amico non ti darà il
lusso di una scelta. Il precipizio o la grotta, ragazzo!”
Improvvisamente Leo capì quello che voleva dire. Era stato messo
all’angolo. Avrebbe potuto saltare dal precipizio, ma quello era un
suicidio. Anche se ci fosse stata la terra sotto quelle nuvole, sarebbe
morto durante la caduta, o forse avrebbe semplicemente continuato
a cadere in eterno. Ma la grotta… fissò l’apertura buia tra le radici
dell’albero. Aveva un odore di morte e putrefazione. Sentiva dei
corpi che si agitavano dall’interno, voci che sussurravano tra le
ombre. La grotta era la casa dei morti. Se scendeva là sotto, non
sarebbe mai tornato. “Sì,” disse la donna. Intorno al suo collo era
appeso uno strano pendente di bronzo e smeraldi, come un labirinto
circolare. I suoi occhi erano così arrabbiati, che Leo capì finalmente
perché si diceva impazzire dalla rabbia. Quella donna era stata
portata alla follia dall’odio. “La Casa di Ade attende. Tu sarai il primo
piccolo roditore a morire nel mio labirinto. Hai solo un’opportunità per
fuggire, Leo Valdez. Coglila.” Fece un gesto verso il precipizio. “Lei è
matta,” riuscì a dire. Era la cosa sbagliata da dire. Lei gli afferrò il
polso. “Forse dovrei ucciderti adesso, prima che arrivi il mio amico
oscuro?” Dei passi fecero tremare il fianco della collina. Il gigante
stava arrivando, avvolto dalle ombre, enorme, pesante e incline
all’omicidio. “Hai mai sentito della morte in un sogno, ragazzo?”
chiese la donna. “E’ possibile, per mano di una maga!” Il braccio di
Leo iniziò a fumare. Il tocco della donna era acido. Cercò di liberarsi,
ma la sua presa era come acciaio. Aprì la bocca per urlare.
L’enorme sagoma del gigante incombeva sopra di lui, oscurata da
strati di fumo nero. Il gigante sollevò il pugno, e una voce arrivò
attraverso il sogno. “Leo!” Jason gli stava scuotendo la spalla. “Hey,
amico, perché stai abbracciando Nike?” Gli occhi di Leo si aprirono
di scatto. Le sue braccia erano avvolte intorno alla statua a
grandezza umana sulla mano di Atena. Doveva essersi agitato nel
sonno. Era aggrappato alla dea della vittoria come era solito
aggrapparsi al suo cuscino da bambino quando aveva degli incubi.
(Cavoli, era stata una cosa così imbarazzante nelle case adottive.)
Si sciolse dalla statua e si mise a sedere, strofinandosi la faccia.
“Nulla,” borbottò. “Ci stavamo solo facendo le coccole. Uhm, che
succede?” Jason non lo punzecchiò. Quella era una cosa del suo
amico che Leo apprezzava. Gli occhi blu ghiaccio di Jason erano
calmi e seri. La piccola cicatrice sulla sua bocca si contrasse come
faceva sempre quando doveva dare brutte notizie. “Abbiamo
attraversato le montagne,” disse. “Siamo quasi arrivati a Bologna.
Dovresti raggiungerci nella sala mensa. Nico ha delle novità.”
10
LEO
Leo aveva progettato le pareti della sala mensa in modo tale che
mostrassero immagini in tempo reale dal Campo Mezzosangue.
All’inizio aveva pensato che fosse un’idea piuttosto fantastica.
Adesso non ne era più così certo. Le scene di casa, i canti di gruppo
intorno al falò, le cene al padiglione, le partite di volleyball fuori dalla
Casa Grande, sembravano solo rendere tristi i suoi amici. Più si
allontanavano da Long Island, più la cosa peggiorava. Il fuso orario
continuava a cambiare, facendo sentire a Leo la distanza ogni volta
che guardava le pareti. Lì in Italia il sole era appena spuntato. Al
Campo Mezzosangue erano nel bel mezzo della notte. Le torce
erano accese alle porte delle cabine. La luce della luna luccicava
sulle onde di Long Island Sound. La spiaggia era ricoperta di
impronte, come se ci fosse appena passata una grande folla. Con
stupore, Leo si rese conto che il giorno prima, la scorsa notte, quello
che era, era stato il Quattro Luglio. Si erano persi la festa annuale
del Campo Mezzosangue sulla spiaggia con grandiosi fuochi
d’artificio preparati dai fratelli di Leo della Cabina Nove. Decise di
non dirlo al gruppo, ma sperava che i loro amici a casa si fossero
divertiti. Anche loro avevano bisogno di qualcosa che tenesse alto il
loro morale. Si ricordò delle immagini che aveva visto nel suo sogno,
il campo in rovina, cosparso di corpi; Ottaviano che si trovava al
campo da pallavolo, che parlava incurante nella voce di Gea. Fissò
le sue uova con bacon. Desiderò poter disattivare i video a parete.
“Allora,” disse Jason, “adesso che siamo qui…” Si mise seduto a
capotavola, in maniera quasi automatica. Da quando avevano perso
Annabeth, Jason aveva fatto del suo meglio per comportarsi come il
leader del gruppo. Essendo stato pretore del Campo Giove, era
probabilmente abituato; ma Leo poteva capire che il suo amico era
stressato. I suoi occhi erano persino più infossati del solito. I suoi
capelli biondi erano stranamente in disordine, come se si fosse
dimenticato di pettinarli. Leo guardò gli altri ragazzi intorno al tavolo.
Anche Hazel aveva gli occhi annebbiati, ma lei ovviamente era stata
in piedi tutta la notte per pilotare la nave attraverso le montagne. I
suoi ricci capelli color cannella erano legati all’indietro con una
bandana, cosa che le dava un aspetto da capitano che Leo trovava
quasi attraente, e poi si sentì immediatamente in colpa per quello.
Accanto a lei era seduto il suo ragazzo, Frank Zhang, vestito con
pantaloni da ginnastica neri e una maglietta da turista di Roma con
la scritta CIAO! (era davvero una parola?). La vecchia spilla da
centurione di Frank era appuntata alla sua maglietta, nonostante il
fatto che adesso i semidei dell’Argo II erano i Nemici Pubblici
Numero dall’1 al 7 del Campo Giove. La sua espressione seria non
faceva altro che rinforzare la sua triste somiglianza a un lottatore di
sumo. Poi c’era il fratellastro di Hazel, Nico di Angelo. Accidenti, quel
ragazzo dava a Leo i brividi. Era seduto con il suo giacchetto di pelle
da aviatore, la sua maglietta nera e i jeans, quell’anello a forma di
teschio d’argento dall’aspetto cattivo al dito, e la spada di ferro di
Stige al fianco. I suoi ciuffi di capelli neri sporgevano in ricci simili a
piccole ali di pipistrello. I suoi occhi erano tristi e in un cero senso
vuoti, come se avessero visto attraverso le profondità del Tartaro,
cosa che avevano fatto. L’unico semidio assente era Piper, che
stava facendo il suo turno al timone con il Coach Hedge, il loro satiro
accompagnatore. Leo desiderava che Piper fosse lì. Aveva la
capacità di calmare la situazione con quel suo incantesimo da figlia
di Afrodite. Dopo il sogno della notte scorsa, a Leo avrebbe fatto
comodo un po’ di calma. D’altra parte, era probabilmente una buona
cosa che lei si trovasse sopra coperta ad accompagnare il loro
accompagnatore. Ora che si trovavano nelle Terre Antiche,
dovevano stare costantemente in guardia. Leo era nervoso all’idea
di lasciare il Coach Hedge a dirigere la nave da solo. Il satiro aveva
un tantino il grilletto facile, e il timone aveva un sacco di luminosi
bottoni pericolosi che potevano far esplodere i pittoreschi paesini
italiani sotto di loro. Leo si era estraniato così tanto che non si era
reso conto che Jason stava ancora parlando. “…la Casa di Ade,”
stava dicendo. “Nico?” Nico si sporse in avanti. “Ho parlato con i
morti ieri notte.” Buttò la notizia con disinvoltura, come se avesse
detto di aver ricevuto un messaggio da un amico. “Sono stato in
grado di sapere di più su quello che affronteremo,” continuò Nico.
“Nei tempi antichi, la Casa di Ade era un posto di grande importanza
per i pellegrini greci. Ci si recavano per parlare con i morti e onorare
i loro antenati.” Leo si accigliò. “Sembra come il Dià de los Muertos.
Mia Zia Rosa prendeva quelle cose seriamente.” Si ricordava di
quando veniva trascinato da lei al cimitero locale di Houston, dove
pulivano le tombe dei loro parenti e lasciavano offerte di limonata,
biscotti e calendule fresche. Zia Rosa costringeva Leo a rimanere
per fare un picnic, come se trascorrere la giornata con persone
morte fosse stata una cosa positiva per il suo appetito. Frank emise
un brontolio. “Anche i Cinesi lo fanno, il culto degli antenati,
spazzare le tombe in primavera.” Guardò Leo. “Tua Zia Rosa
sarebbe andata d’accordo con mia nonna.” Leo ebbe una visione
terrificante di sua Zia Rosa e di qualche anziana donna cinese
vestita da lottatrice, che si attaccavano a vicenda con mazze
chiodate. “Sì,” disse Leo. “Sono certo che sarebbero state migliori
amiche.” Nico si schiarì la voce. “Numerose culture hanno tradizioni
stagionali per onorare i morti, ma la Casa di Ade era aperta tutto
l’anno. I pellegrini potevano realmente parlare con i fantasmi. In
greco, il luogo era chiamato Necromanteion, l’Oracolo della Morte.
Dovevi farti strada attraverso diversi livelli di tunnel, lasciando offerte
e bevendo pozioni speciali…“ “Pozioni speciali,” borbottò Leo.
“Yum.” Jason gli lanciò un’occhiata che sembrava dire, Amico, basta
così. “Nico, vai avanti.” “I pellegrini credevano che ogni livello del
tempio ti portasse più vicino all’Oltretomba, fino a che i morti non ti
apparivano. Se erano soddisfatti delle tue offerte, rispondevano alle
tue domande, magari ti dicevano persino il futuro.” Frank picchiettò
sulla sua tazza di cioccolata calda. “E se gli spiriti non erano
soddisfatti?” “Alcuni pellegrini non trovavano nulla,” disse Nico.
“Alcuni impazzivano, oppure morivano dopo aver lasciato il tempio.
Altri si perdevano nei tunnel e non venivano più rivisti.” “Il punto è
che,” disse Jason velocemente, “Nico ha scoperto delle informazioni
che potrebbero aiutarci.” “Sì.” Nico non sembrava molto entusiasta.
“Il fantasma con il quale ho parlato la scorsa notte… era un
sacerdote di Ecate. Ha confermato quello che la dea ha detto ieri ad
Hazel presso l’incrocio. Durante la prima guerra con i giganti, Ecate
combatté con gli dei. Uccise uno dei giganti, uno che era stato
pensato come l’anti-Ecate. Un tipo di nome Clitio.” “Tipo oscuro,”
indovinò Leo. “Avvolto dalle ombre.” Hazel si voltò verso di lui,
stringendo i suoi occhi dorati. “Leo, come facevi a saperlo?”
“Diciamo che ho fatto un sogno.” Nessun sembrò sorpreso. La
maggior parte dei semidei faceva degli incubi vividi su quello che
accadeva nel mondo. I suoi amici prestarono grande attenzione
mentre Leo spiegava. Cercò di non guardare le immagini a parete
del Campo Mezzosangue mentre descriveva il luogo in rovina.
Raccontò loro del gigante scuro, e della strana donna sulla Collina
Mezzosangue, che gli offriva una morte a scelta multipla. Jason
allontanò il suo piatto di pancake. “Allora il gigante è Clitio. Immagino
che ci starà aspettando, sorvegliando le Porte della Morte.” Frank
arrotolò uno dei suoi pancake e iniziò a masticare rumorosamente,
non un tipo che permetteva a una morte imminente di impedire una
colazione salutare. “E la donna del sogno di Leo?” “Lei è un
problema mio.” Hazel si rigirò un diamante tra le dita con un rapido
movimento di mano. “Ecate ha parlato di una nemica formidabile
nella Casa di Ade, una strega che non può essere sconfitta se non
da me, usando la magia.” “Conosci la magia?” chiese Leo. “Non
ancora.” “Ah.” Cercò di pensare a qualcosa di positivo da dire, ma gli
tornarono alla mente gli occhi arrabbiati della donna, il modo in cui la
sua presa d’acciaio gli aveva fatto fumare la pelle. “Nessuna idea su
chi possa essere?” Hazel scosse la testa. “Solo che…” Lanciò
un’occhiata a Nico, e tra loro due passò qualche tipo di discussione
silenziosa. Leo ebbe la sensazione che i due avessero avuto una
conversazione privata sulla Casa di Ade, e che non stessero
condividendo tutti i dettagli. “Solo che non sarà facile da
sconfiggere.” “Ma c’è qualche buona novità,” disse Nico. “Il fantasma
con il quale ho parlato ha spiegato come Ecate sconfisse Clitio
durante la prima guerra. Usò le sue torce per mandargli a fuoco i
capelli. Lui bruciò fino a morire. In altre parole, il fuoco è la sua
debolezza.” Si girarono tutti a guardare Leo. “Oh,” disse. “Okay.”
Jason annuì incoraggiante, come se fossero delle grandi notizie,
come se si aspettasse che Leo andasse diretto verso una massa
incombente di oscurità, lanciasse qualche palla di fuoco e risolvesse
tutti i loro problemi. Leo non voleva abbatterlo, ma riusciva ancora a
sentire la voce di Gea: Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il
freddo che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le
parole. Leo era piuttosto sicuro che ci sarebbe voluto più di qualche
fiammifero per far prendere fuoco al gigante. “E’ un buon inizio,”
insistette Jason “Almeno sappiamo come uccidere il gigante. E
questa maga… bè, se Ecate crede che Hazel può batterla, allora lo
credo anche io.” Hazel abbassò lo sguardo. “Ora dobbiamo solo
raggiungere la Casa di Ade, farci strada attraverso le forze di Gea…“
“E attraverso un sacco di fantasmi,” aggiunse Nico serio. “Gli spiriti
in quel tempio potrebbero non essere amichevoli.” “… e trovare le
Porte della Morte,” continuò Hazel. “Assumendo che riusciremo in
qualche modo ad arrivare nello stesso momento di Percy e
Annabeth e salvarli.” Frank mandò giù un morso di pancake.
“Possiamo farcela. Dobbiamo farcela.” Leo ammirava l’ottimismo del
ragazzone. Desiderò averlo anche lui. “Allora, per quanto riguarda
questa deviazione,” disse Leo, “ho calcolato che ci vorranno quattro
o cinque giorni per arrivare ad Epiro, presumendo che non ci
saranno ritardi causati da, sapete, attacchi di mostri e cose così.”
Jason fece un sorriso asciutto. “Già. Quelli non accadono mai.” Leo
guardò Hazel. “Ecate ti ha detto che Gea stava pianificando la sua
grande festa di risveglio per il primo Agosto, giusto? La Festa di
Qualche Cosa?” “Spes,” disse Hazel. “La dea della speranza.” Jason
giocherellò con la sua forchetta. “Teoricamente, questo ci lascia
abbastanza tempo. Siamo solo al cinque di Luglio. Dovremmo
essere in grado di chiudere le Porte della Morte, poi trovare il
quartier generale dei giganti e impedire loro di svegliare Gea prima
del primo Agosto.” “Teoricamente,” concordò Hazel. “Ma mi
piacerebbe comunque sapere come riusciremo ad attraversare la
Casa di Ade senza impazzire o morire.” Nessuno propose qualche
idea. Frank mise giù il suo involtino di pancake come se
improvvisamente non avesse più un sapore così buono. “E’ il cinque
Luglio. Oh, cavoli, non ci avevo nemmeno pensato….” “Ehi, amico,
va tutto bene,” disse Leo. “Sei Canadese, giusto? Non mi aspettavo
che mi facessi un regalo per la Festa d’Indipendenza o niente del
genere… a meno che non volevi farlo.” “Non è quello. Mia nonna…
mi diceva sempre che il sette era un numero sfortunato. Era un
numero fantasma. Non le piacque l’idea quando le dissi che ci
sarebbero stati sette semidei nella nostra impresa. E Luglio è il
settimo mese dell’anno.” “Sì, ma…” Leo picchiettò le dita sul tavolo
con fare nervoso. Si rese conto che stava usando il codice Morse
per dire ti voglio bene, come era solito fare con sua madre, cosa che
sarebbe stata piuttosto imbarazzante se i suoi amici avessero
saputo il codice Morse. “Ma è solo una coincidenza, giusto?”
L’espressione di Frank non lo rassicurò. “In Cina,” disse Frank, “ai
tempi antichi, le persone chiamavano il settimo mese il mese
fantasma. Era quando il mondo degli spiriti e il mondo umano erano
più vicini. I vivi e i morti potevano andare avanti e indietro. Dimmi
che è una coincidenza il fatto che stiamo cercando le Porte della
Morte durante il mese fantasma.” Nessun disse nulla. Leo voleva
credere che le vecchie credenze cinesi non potessero avere nulla a
che fare con i greci e i romani. Erano cose totalmente diverse,
giusto? Ma l’esistenza di Frank era la prova che le culture erano
legate insieme. La famiglia Zhang risaliva all’Antica Grecia. Avevano
attraversato Roma e la Cina e alla fine erano arrivati in Canada.
Inoltre, Leo continuava a pensare al suo incontro con la dea della
vendetta, Nemesi, al Grande Lago Salato. Nemesi lo aveva definito
la settima ruota, la riserva dell’impresa. Non intendeva settimo per
dire fantasma, no? Jason premette le mani contro i braccioli della
sedia. “Concentriamoci sulle cose che possiamo risolvere. Ci stiamo
avvicinando a Bologna. Forse avremo più risposte una volta trovati
questi nani che Ecate…“ La nave sbandò come se avesse colpito un
iceberg. Il piatto della colazione di Leo scivolò lungo il tavolo. Nico
cadde all’indietro e sbatté la testa contro la credenza. Crollò sul
pavimento, con una dozzina di calici e piatti magici che gli
precipitarono addosso. “Nico!” Hazel corse ad aiutarlo. “Cosa…?”
Frank cercò di mettersi in piedi, ma la nave sterzò nella direzione
opposta. Si scontrò contro il tavolo e cadde di faccia nel piatto di
uova strapazzate di Leo. “Guardate!” Jason indicò le pareti. Le
immagini del Campo Mezzosangue stavano vibrando e mutando.
“Impossibile,” mormorò Leo. Non c’era modo nel quale quegli
incantesimi potessero mostrare qualcosa di diverso dalle scene del
campo, ma improvvisamente un enorme faccia distorta riempì
l’intera parete di babordo: gialli denti storti, una rossa barba incolta,
un naso bitorzoluto, e due occhi spaiati, uno molto più grande e in
alto rispetto all’altro. La faccia sembrava cercare di farsi strada nella
stanza a morsi. Le altre pareti vibrarono, mostrando scene dal ponte.
Piper si trovava al timone, ma c’era qualcosa che non andava. Dalle
spalle in giù era avvolta dal nastro adesivo, con la bocca
imbavagliata e le gambe legate alla console di controllo. All’albero
maestro, il Coach Hedge era anche lui legato e imbavagliato, mentre
una creatura dall’aspetto strano, una sorta di mix tra uno gnomo e
uno scimpanzé con scarso senso dello stile, gli danzava intorno,
acconciando i capelli del coach in minuscole treccine con elastici
rosa. Sulla parete di babordo, l’enorme volto indietreggiò così da
permettere a Leo di vedere l’intera creatura, un altro scimpanzé
gnomo, con vestiti ancora più folli. Questo qui iniziò a saltellare per il
ponte, infilando varie cose in una sacca di tela, il pugnale di Piper, il
controllore Wii di Leo. Poi andò a curiosare verso la sfera di
Archimede, tirandola fuori dalla console di comando. “No!” urlò Leo.
“Huh,” gemette Nico dal pavimento. “Piper!” urlò Jason. “Scimmie!”
gridò Frank. “Non sono scimmie,” borbottò Hazel. “Credo che quelli
siano nani.” “Che stanno rubando le mie cose!” gridò Leo, e corse
verso le scale.
11
LEO
LEO
PERCY
PERCY
PERCY
Percy ricordava quanto era stata pericolosa Kelly l’ultima volta che
avevano combattuto nel Labirinto. Nonostante quelle gambe diverse,
sapeva muoversi velocemente quando voleva. Aveva schivato i suoi
affondi e gli avrebbe mangiato la faccia se Annabeth non l’avesse
pugnalata alle spalle. Adesso aveva quattro amiche con lei. “E la tua
amica Annabeth è con te!” sibilò Kelly ridendo. “Oh, sì, mi ricordo
perfettamente di lei.” Kelly si toccò lo sterno, dove era uscita la punta
del pugnale quando Annabeth l’aveva colpita alla schiena. “Qual è il
problema, figlia di Atena? Non hai la tua arma? Che peccato. L’avrei
usata per ucciderti.” Percy cercò di pensare. Lui e Annabeth si
trovavano spalla contro spalla come avevano già fatto molte volte,
pronti per combattere. Ma nessuno di loro era in forma per una
battaglia. Annabeth era a mani vuote. Erano in netta minoranza. Non
c’era nessun posto dove scappare. Non sarebbe arrivato nessun
aiuto. Percy prese brevemente in considerazione l’idea di chiamare
Miss O’Leary, la sua amica segugio infernale che poteva fare i viaggi
ombra. Anche se l’avesse sentito, poteva raggiungere il Tartaro?
Quello era il posto dove andavano i mostri quando morivano.
Chiamarla là avrebbe potuto ucciderla, o farla tornare al suo stato
naturale di mostro feroce. No… non poteva fare questo al suo cane.
Quindi, nessun aiuto. Combattere era una scommessa persa. Quello
lasciava spazio solo alle tattiche preferite di Annabeth: astuzia,
parlare, ritardare. “Allora…” iniziò, “immagino ti stia chiedendo che
cosa ci facciamo nel Tartaro.” Kelly ridacchiò. “No di certo. Voglio
solo uccidervi.” Se fosse stato per Percy, sarebbe finita lì, ma
Annabeth riprese. “Peccato,” disse. “Perché non avete idea di cosa
sta succedendo nel mondo mortale.” Le altre Empousai strinsero il
cerchio, guardando Kelly in attesa di un cenno per attaccare; l’ex
cheerleader si limitò a ringhiare, allontanandosi dal raggio della
spada di Percy. “Sappiamo abbastanza,” disse Kelly. “Gea ha
parlato.” “Siete dirette verso una colossale sconfitta.” Annabeth
suonava così sicura, che persino Percy ne fu impressionato. Lei
guardò le altre Empousai, una alla volta, poi indicò Kelly in maniera
accusatoria. “Lei sostiene di guidarvi verso la vittoria. Sta mentendo.
L’ultima volta che è stata nel mondo mortale, Kelly aveva il compito
di mantenere il mio amico Luke Castellan fedele a Crono. Alla fine,
Luke lo rifiutò. Diede la sua vita per cacciare Crono. I Titani persero
perché Kelly fallì. Adesso Kelly vuole guidarvi verso un altro
disastro.” Le altre Empousai borbottarono e si mossero a disagio.
“Basta così!” Le unghie di Kelly si estesero fino a diventare lunghi
artigli neri. Fissò Annabeth come se la stesse immaginando ridotta in
numerosi piccoli pezzi. Percy era abbastanza sicuro che Kelly
avesse avuto una cotta per Luke Castellan. Luke aveva quell’effetto
sulle ragazze, persino sui vampiri con le gambe da asino, e Percy
non era convinto che nominarlo fosse un’idea molto buona. “La
ragazza mente,” disse Kelly. “I Titani persero. Bene! Quello era parte
del piano per svegliare Gea! Ora Madre Terra e i suoi giganti
distruggeranno il mondo mortale, e noi banchetteremo sui semidei!”
Gli altri vampiri digrignarono i denti con smania. Percy era stato nel
bel mezzo di un banco di squali quando l’acqua era carica di
sangue. Quello non era neanche lontanamente spaventoso come le
Empousai pronte per nutrirsi. Si preparò ad attaccare, ma quante
poteva ucciderne prima che lo schiacciassero? Non sarebbero state
abbastanza. “I semidei si sono uniti!” urlò Annabeth. “Fareste meglio
a pensarci due volte prima di attaccarci. Greci e Romani vi
combatteranno insieme. Non avete nessuna possibilità!” Le
Empousai indietreggiarono nervosamente, sibilando, “Romani.”
Percy indovinò che dovevano aver fatto esperienza con la
Dodicesima Legione in passato, e che la cosa non fosse finita bene
per loro. “Sì, ci potete scommettere, Romani.” Percy si scoprì
l’avambraccio e mostrò loro il simbolo che aveva avuto al Campo
Giove, la scritta SPQR, con il tridente di Nettuno. “Mischiate greco e
romano, e sapete cosa ottenete? Ottenete un BAM!” Sbatté il piede
a terra, e le Empousai indietreggiarono frettolosamente. Una cadde
dal masso sul quale si era arrampicata. Ciò fece sentire Percy bene,
ma loro si ripresero velocemente e li accerchiarono di nuovo.
“Discorso coraggioso,” disse Kelly, “per due semidei persi nel
Tartaro. Abbassa la tua spada, Percy Jackson, e ti ucciderò
velocemente. Credimi, ci sono modi peggiori di morire qua sotto.”
“Aspetta!” tentò Annabeth nuovamente. “Le Empousai non sono le
servitrici di Ecate?” Kelly arricciò le labbra. “Allora?” “Allora Ecate è
dalla nostra parte adesso,” disse Annabeth. “Ha una cabina al
Campo Mezzosangue. Alcuni dei suoi figli semidei sono miei amici.
Se ci combattete, lei sarà arrabbiata.” Percy voleva abbracciare
Annabeth, era così brillante. Una delle altre Empousai ringhiò. “E’
vero, Kelly? La nostra padrona ha fatto pace con l’Olimpo?” “Stai
zitta, Serefone!” strillò Kelly. “Dei, quanto sei irritante!” “Non mi
metterò contro la Signora Oscura.” Annabeth ne approfittò. “Fareste
tutte meglio a seguire Serefone. Lei è più anziana e più saggia.” “Sì!”
strillò Serefone. “Seguitemi!” Kelly colpì così velocemente, che Percy
non ebbe la possibilità di sollevare la sua spada. Fortunatamente,
non attaccò lui. Kelly si lanciò contro Serefone. Per mezzo secondo,
i due demoni furono una macchia indistinta di artigli e zanne. Poi finì
tutto. Kelly si trovava trionfante sopra una pila di polvere. Dai suoi
artigli pendevano i resti a brandelli del vestito di Serefone. “Qualche
altro problema?” scattò Kelly verso le sue sorelle. “Ecate è la dea
della Foschia! Le sue strade sono misteriose. Chi sa da quale parte
sta davvero? E’ anche la dea degli incroci, e lei si aspetta che noi
facciamo le nostre scelte. Io scelgo la strada che ci porterà la
maggior quantità di sangue di semidio! Io scelgo Gea!” Le sue
amiche sibilarono con approvazione. Annabeth guardò Percy, e lui
vide che era a corto d’idee. Aveva fatto tutto quello che poteva.
Aveva fatto sì che Kelly eliminasse una delle sue. Ora non era
rimasto nient’altro che combattere. “Per due anni mi sono agitata
nell’abisso,” disse Kelly. “Sai quanto sia assolutamente irritante
essere vaporizzati, Annabeth Chase? Riformarsi lentamente,
completante coscienti, affetti da un dolore bruciante per mesi e anni
mentre il tuo corpo ricresce, poi riuscire finalmente a rompere la
crosta di questo luogo infernale e farsi strada di nuovo alla luce del
giorno? Tutto questo perché qualche ragazzina ti ha pugnalato alla
schiena?” Il suo sguardo maligno sosteneva quello di Annabeth. “Mi
chiedo cosa succede se un semidio viene ucciso nel Tartaro. Dubito
che sia mai accaduto prima. Perché non lo scopriamo?” Percy
attaccò, brandendo Vortice con un ampio arco. Tagliò uno dei
demoni a metà, ma Kelly lo schivò e si lanciò verso Annabeth. Le
altre due Empousai si lanciarono verso Percy. Una gli afferrò il
braccio che teneva la spada. La sua amica gli saltò sulla schiena.
Percy cercò di ignorarle e si mosse instabile verso Annabeth,
determinato a cadere nel tentativo di difenderla se doveva; ma
Annabeth se la stava cavando piuttosto bene. Saltò da un lato,
evitando gli artigli di Kelly, e si rialzò con una roccia in mano, che
lanciò contro il naso del mostro. Kelly gemette. Annabeth raccolse
della sabbia e la lanciò negli occhi dell’empousa. Nel frattempo
Percy si dibatteva da un lato all’altro, cercando di scrollarsi di dosso
l’empousa, ma i suoi artigli affondarono più in profondità nelle sue
spalle. La seconda empousa gli teneva il braccio, impedendogli di
usare Vortice. Con la coda dell’occhio, vide Kelly attaccare,
affondando le sue zanne nel braccio di Annabeth. Annabeth urlò e
cadde. Percy cercò di muoversi nella sua direzione. Il vampiro sulla
sua schiena penetrò i denti nel suo collo. Del dolore bruciante gli
attraversò il corpo. Le sue ginocchia tremarono. Rimani in piedi, si
disse. Devi sconfiggerle. Poi l’altro vampiro gli morse il braccio, e
Vortice cadde tintinnando a terra. Era finita. La sua fortuna alla fine
si era esaurita. Kelly incombeva su Annabeth, gustandosi il suo
trionfo. Le altre due Empousai accerchiarono Percy, con le bocche
bavose, pronte per un altro assaggio. Poi un’ombra passò su Percy.
Un profondo grido di battaglia ruggì da qualche punto più in alto,
riecheggiando lungo le pianure del Tartaro, e un Titano entrò sul
campo di battaglia.
16
PERCY
FRANK
FRANK
FRANK
FRANK
Frank si gettò fuori dalla Casa Nera. La porta si chiuse alle sue
spalle, e lui crollò contro il muro, sopraffatto dal senso di colpa.
Fortunatamente i catoblepi se ne erano andati, o sarebbe
semplicemente rimasto seduto là lasciandosi calpestare da loro. Non
si meritava nulla di meglio. Aveva lasciato Hazel là dentro, morente
e indifesa, alla mercé di un pazzo dio agricoltore. Uccidi gli
agricoltori! urlava Ares nella sua testa. Torna alla legione e combatti i
greci! diceva Marte. Che ci facciamo qui? Uccidiamo gli agricoltori!
gli urlò Ares di rimando. “State zitti!” gridò Frank ad alta voce. “Tutti e
due!” Un paio di signore anziane con delle buste della spesa gli
passarono accanto. Lanciarono a Frank delle strane occhiate,
borbottarono qualcosa in italiano, e continuarono a camminare.
Frank fissò miserabilmente la spada da cavalleria di Hazel, che
giaceva ai suoi piedi accanto allo zaino. Poteva correre all’Argo II e
prendere Leo. Forse Leo poteva aggiustare il carro. Ma in qualche
modo Frank sapeva che quello non era un problema per Leo. Era il
compito di Frank. Doveva dimostrare le sue capacità. Inoltre, il carro
non era esattamente guasto. Gli mancava un serpente. Frank poteva
trasformarsi in un serpente. Magari quando quella mattina si era
svegliato nei panni di un serpente gigante, era stato un segno dagli
dei. Non voleva passare il resto della sua vita a girare la ruota del
carro di un contadino, ma se questo voleva dire salvare Hazel… No.
Ci doveva essere un altro modo. Serpenti, pensò Frank. Marte. Suo
padre aveva qualche connessione con i serpenti? L’animale sacro di
Marte era il cinghiale selvaggio, non il serpente. Tuttavia, Frank era
certo di aver sentito qualcosa una volta…. Riusciva a pensare ad
una sola persona alla quale chiedere. Con riluttanza, aprì la sua
mente alle voci del dio della guerra. Ho bisogno di un serpente,
disse loro. Come faccio? Ha, ha! urlò Ares. Sì, il serpente! Come
quel vile di Cadmo, disse Marte. Lo punimmo per aver ucciso il
nostro drago! Iniziarono a urlare insieme, finché Frank non temette
che la sua mente si stesse per spaccare in due. “Okay! Smettetela!”
Le voci si zittirono. “Cadmo” borbottò Frank. “Cadmo…” La storia gli
tornò alla mente. Il semidio Cadmo aveva ucciso un drago che era
un figlio di Ares. Perché Ares avesse un drago come figlio, era una
cosa che Frank non voleva sapere; ma come punizione per la morte
del drago, Ares aveva trasformato Cadmo in un serpente. “Allora
potete trasformare i vostri nemici in serpenti,” disse Frank. “E’ di
questo che ho bisogno. Devo trovare un nemico. Poi ho bisogno che
voi lo trasformiate in un serpente.” Credi che lo farei per te? ruggì
Ares. Non hai dimostrato il tuo valore! Solo l’eroe più grande può
chiedere un dono del genere, disse Marte. Un eroe come Romolo!
Troppo Romano! gridò Ares. Diomede! Mai! urlò Marte di rimando.
Quel codardo cadde contro Eracle! Allora, Orazio, suggerì Marte.
Ares non rispose. Frank avvertì un accordo forzato. “Orazio,” disse
Frank. “Bene. Se è questo che serve, dimostrerò che sono capace
quanto Orazio. Uh… lui cosa ha fatto?” Delle immagini inondarono la
mente di Frank. Vide un guerriero solitario su un ponte di pietra,
rivolto verso un intero esercito raggruppato sulla riva più lontana del
Fiume Tevere. Frank si ricordava della leggenda. Orazio, il generale
romano, aveva trattenuto da solo un’orda di invasori, sacrificando se
stesso su quel fiume per impedire ai barbari di attraversare il Tevere.
Dando ai suoi compagni romani il tempo di completare le loro difese,
aveva salvato la Repubblica. Venezia è invasa, disse Marte, come
stava per esserlo Roma. Purificala! Distruggili tutti! disse Ares.
Uccidili! Frank chiuse le voci fuori dalla sua testa. Si guardò le mani
e fu stupito nel vedere che non stavano tremando. Per la prima volta
da giorni, i suoi pensieri erano chiari. Sapeva esattamente quello
che doveva fare. Non sapeva come avrebbe fatto. Le possibilità di
morire erano eccellenti, ma doveva provare. La vita di Hazel
dipendeva da lui. Si legò la spada di Hazel alla cintura, mutò il suo
zaino in arco e faretra, e corse verso la piazza dove si era scontrato
con i mostri mucca. Il piano era composto da tre fasi: pericoloso,
molto pericoloso, e pazzamente pericoloso. Frank si fermò presso
l’antico pozzo di pietra. Non c’era nessun catoblepa in vista. Sguainò
la spada di Hazel e la usò per rovistare tra i ciottoli, dissotterrando
un grosso groviglio di radici acuminate. I viticci si sciolsero,
diffondendo i loro puzzolenti vapori verdi mentre strisciavano verso i
piedi di Frank. In lontananza, il muggito da nave di un catoblepa
riempì l’aria. Altri si unirono al suono da tutte le direzioni. Frank non
sapeva come facessero i mostri a sapere che stava mietendo il loro
cibo preferito, forse avevano semplicemente un eccellente olfatto.
Adesso doveva muoversi velocemente. Tagliò un lungo mazzo di
viticci e li legò facendoli passare attraverso uno dei passanti della
sua cintura, cercando di ignorare il bruciore e il prurito che aveva alle
mani. In poco tempo aveva un brillante lasso puzzolente fatto di
alghe velenose. Urrà. I primi catoblepi entrarono con passo pensate
nella piazza, ruggendo di rabbia. Gli occhi verdi brillavano sotto le
loro criniere. I loro lunghi musi rilasciavano nuvole di gas, come
macchine a vapore pelose. Frank scoccò una freccia. Provò una
temporanea fitta di colpa. Quelli non erano i mostri peggiori che
avesse mai incontrato. In realtà erano solo animali brucanti che per
caso erano anche velenosi. Hazel sta morendo a causa loro, si
ricordò. Lasciò andare la freccia. Il catoblepa più vicino crollò,
riducendosi in cenere. Scoccò una seconda freccia, ma il resto della
mandria era quasi su di lui. Altri ne stavano arrivando dalla direzione
opposta. Frank si trasformò in un leone. Ruggì in segno di sfida e
balzò verso l’arco, dritto sopra le teste della seconda mandria. I due
gruppi di catoblepi si scontrarono tra loro, ma si ripresero
velocemente e corsero verso di lui. Frank non era stato sicuro che le
radici avrebbero continuato a puzzare quando lui avesse cambiato
forma. Solitamente i suoi vestiti e gli oggetti che aveva addosso si
limitavano a unirsi alla sua forma animale, ma apparentemente
continuava a odorare come una succulenta cena velenosa. Ogni
volta che correva accanto a un catoblepa, questo ruggiva oltraggiato
e si univa alla Parata dell’Uccidiamo Frank! Svoltò in una strada più
ampia e si fece largo tra la folla di turisti. Non aveva idea di quello
che vedevano i mortali, un gatto inseguito da un branco di cani? Le
persone imprecarono contro Frank in circa dodici lingue diverse.
Volavano coni gelato. Una donna fece cadere una pila di maschere
di carnevale. Un tizio cadde nel canale. Quando Frank si guardò
indietro, aveva almeno due dozzine di mostri al suo seguito, ma
aveva bisogno di altri. Aveva bisogno di tutti i mostri di Venezia, e
doveva far sì che quelli dietro di lui continuassero ad essere
arrabbiati. Trovò un passaggio libero tra la folla e si ritrasformò in
umano. Sguainò la spata di Hazel, non era mai stata la sua arma
preferita, ma era abbastanza grande e forte che la pesante spada
non lo infastidiva. Al contrario, era felice per la portata extra. Agitò la
lama dorata, distruggendo il primo catoblepa e lasciando che gli altri
si raggruppassero attorno a lui. Cercò di evitare i loro occhi, ma
poteva avvertire i loro sguardi fissi e brucianti su di lui. Immaginò che
se tutti quei mostri avessero soffiato contro di lui
contemporaneamente, le loro nuvole nocive combinate sarebbero
bastate per farlo sciogliere in una pozzanghera. I mostri si mossero
in avanti e cozzarono uno contro l’altro. Frank urlò, “Volete le mie
radici velenose? Venite a prendervele!” Si trasformò in un delfino e
saltò nel canale. Sperava che i catoblepa non sapessero nuotare.
Perlomeno, sembravano riluttanti nel seguirlo, e lui non poteva
biasimarli. Il canale era disgustoso, maleodorante e salato e caldo
come una zuppa, ma Frank avanzò rapidamente tra le sue acque,
schivando le gondole e i motoscafi, fermandosi di tanto in tanto per
rivolgere qualche insulto nei versi del delfino contro i mostri che lo
inseguivano dai marciapiedi. Quando raggiunse il molo più vicino,
Frank tornò in forma umana, pugnalò qualche altro catoblepa per
mantenerli arrabbiati, e riprese a correre. E così continuò. Dopo un
po’, Frank entrò in una sorta di trance. Attrasse altri mostri, fece
sparpagliare altre folle di turisti, e guidò il seguito ormai enorme di
catoblepa attraverso le strade serpeggianti dell’antica città. Ogni
volta che aveva bisogno di una rapida via di fuga, si gettava nel
canale in forma di delfino, o si trasformava in un’aquila e volava in
alto, ma non si allontanava mai troppo dai suoi inseguitori. Ogni volta
che pensava che i mostri stessero perdendo interesse nei suoi
confronti, si fermava sul tetto di una casa e prendeva il suo arco,
abbattendo qualcuno dei catoblepa al centro della mandria. Agitava
il suo lasso di viticci velenosi e insultava l’alito cattivo dei mostri,
aizzandoli contro di lui. Poi riprendeva a correre. Fece marcia
indietro. Si perse. Una volta svoltò un angolo e si ritrovò davanti la
coda della sua stessa folla inseguitrice. Avrebbe dovuto essere
esausto, tuttavia in qualche modo trovava la forza per continuare a
correre, il che era un bene. La parte più difficile doveva ancora
arrivare. Individuò un paio di ponti, ma non sembravano giusti. Uno
era elevato e completamente coperto; non sarebbe mai riuscito a
farci passare i mostri. Un altro era troppo affollato dai turisti. Anche
se i mostri ignoravano i mortali, quel gas nocivo di certo non era
buono per nessuno. Più grande si faceva la mandria di mostri, più
mortali venivano spinti di lato, buttati in acqua o calpestati. Alla fine
Frank vide qualcosa che avrebbe potuto funzionare. Proprio davanti
a lui, dopo una grande piazza, un ponte di legno attraversava uno
dei canali più ampi. Il ponte in sé era un arco di legno intrecciato,
come una montagna russa vecchio stile, lungo circa cinquanta metri.
Dall’alto, in forma di aquila, Frank non vide nessun mostro in
lontananza. Ogni catoblepa di Venezia sembrava essersi unito alla
mandria e si stava facendo avanti per le strade dietro di lui mentre i
turisti urlavano e si sparpagliavano, forse pensando di essersi
ritrovati nel mezzo di una fuga di cani randagi. Il ponte era privo di
pedoni. Era perfetto. Frank precipitò come una pietra e tornò umano.
Corse fino al centro del ponte, un punto di restringimento naturale, e
lanciò la sua esca di radici velenose sul pavimento alle sue spalle.
Mentre la parte anteriore della mandria di catoblepa raggiungeva
l’inizio del ponte, Frank sguainò la spata dorata di Hazel. “Andiamo!”
urlò. “Volete sapere quanto vale Frank Zhang? Fatevi avanti!” Si
rese conto che non stava solo urlando contro i mostri. Stava
sfogando settimane di paura, rabbia e risentimento. Le voci di Marte
e Ares urlavano insieme a lui. I mostri caricarono. La vista di Frank si
fece rossa. Più tardi, non riuscì a ricordarsi chiaramente tutti i
dettagli. Attaccò con la spada contro i mostri finché non si ritrovò
circondato da polvere gialla che gli arrivava alle caviglie. Ogni volta
che stava per essere sopraffatto e le nuvole di gas iniziavano a
soffocarlo, lui cambiava forma, diventando un elefante, un drago, un
leone, e ogni trasformazione sembrava purificare i suoi polmoni,
dandogli una nuova carica di energia. I suoi mutamenti di forma si
fecero così fluidi, che poteva iniziare un attacco in forma umana con
la sua spada e concluderlo in forma di leone, affondando i suoi artigli
sui musi dei catoblepi. I mostri attaccavano con i loro zoccoli.
Sputavano gas nocivo e fissavano Frank con i loro occhi velenosi.
Avrebbe dovuto morire. Sarebbe dovuto essere schiacciato. Ma in
qualche modo, rimase in piedi, illeso, e sguinzagliò un vortice di
violenza. Non provava nessun tipo di piacere nel farlo, ma non esitò
nemmeno. Pugnalava un mostro e ne affrontava un altro. Si
trasformò in un drago e afferrò un catoblepa affettandolo a metà, poi
mutò in un elefante e ne schiacciò tre contemporaneamente sotto le
sue zampe. La sua vista era ancora tinteggiata di rosso, e si accorse
che i suoi occhi non gli stavano giocando un brutto scherzo. Stava
davvero brillando, era circondato da un’aura rosata. Non capiva il
perché, ma continuò a lottare fino a che non fu rimasto un solo
mostro. Frank lo affrontò con la spada pronta. Era a corto di fiato,
sudato, e ricoperto da polvere di mostro, ma era illeso. Il catoblepa
ringhiò. Non doveva essere il mostro più sveglio di tutti. Malgrado il
fatto che diverse centinaia dei suoi fratelli erano appena morti, lui
non si ritirò. “Marte!” gridò Frank. “Ho dimostrato il mio valore. Ora
ho bisogno di un serpente!” Frank non credeva che qualcuno avesse
mai urlato quelle parole prima d’ora. Era una richiesta abbastanza
strana. Non ebbe nessuna risposta dai cieli. Per una volta, le voci
nella sua testa erano silenziose. Il catoblepa perse la pazienza. Si
lanciò contro Frank e non gli lasciò altra scelta. Affondò la spada.
Non appena la lama colpì il mostro, il catoblepa scomparve in un
lampo di luce rosso sangue. Quando la visione di Frank si schiarì, ai
suoi piedi era acciambellato un pitone del Burmese marrone e
chiazzato. “Ben fatto,” disse una voce familiare. A pochi metri da lui
si trovava suo padre, Marte, con addosso un berretto rosso e una
tuta mimetica color oliva con il distintivo delle Forze Speciali Italiane,
una mitragliatrice sulla schiena. Il suo volto era duro e spigoloso, gli
occhi erano coperti da occhiali da sole neri. “Padre,” balbettò Frank.
Non riusciva a credere a quello che aveva appena fatto. Il terrore
iniziò a sopraffarlo. Sentiva il bisogno di piangere, ma indovinò che
non sarebbe stata una buona idea davanti a Marte. “E’ normale
avere paura.” La voce del dio della guerra era sorprendentemente
calda, carica di orgoglio. “Tutti i grandi guerrieri hanno paura. Solo
quelli stupidi e indegni non la provano. Ma tu hai affrontato la tua
paura, figlio mio. Hai fatto quello che dovevi fare, come Orazio.
Questo era il tuo ponte, e tu l’hai difeso.” “Io…“ Frank non sapeva
cosa dire. “Io… mi serviva solo un serpente.” Un minuscolo sorriso
apparve all’angolo della bocca di Marte. “Sì. E adesso ne hai uno. Il
tuo coraggio ha unito le mie forme, greca e romana, anche solo per
un attimo. Vai. Salva i tuoi amici. Ma ascolta, Frank. Il tuo test più
grande deve ancora arrivare. Quando affronterai l’esercitò di Gea in
Epiro, la tua guida…“ Improvvisamente il dio si piegò su se stesso,
stringendosi la testa. La sua figura vacillò. I suoi vestiti si
trasformarono in una toga, poi nel giacchetto e i jeans di un
motociclista. La sua mitragliatrice divenne una spada e poi un
lanciarazzi. “Agonia!” ruggì Marte. “Vai! Sbrigati!” Frank non fece
domande. Nonostante fosse esausto, si trasformò in un’aquila
gigante, afferrò il pitone con i grossi artigli, e si lanciò in aria.
Quando guardò indietro, un’esplosione in miniatura eruttò dal centro
del ponte, con anelli di fuoco che si riversavano verso l’esterno, e
due voci, Marte e Ares, urlarono, “Noooo!” Frank non sapeva cosa
fosse accaduto, ma non aveva tempo per pensarci. Volò sopra la
città, ora completamente libera dai mostri, e si diresse verso la casa
di Trittolemo. “Ne hai trovato uno!” esclamò il dio dell’agricoltura.
Frank lo ignorò. Si gettò nella Casa Nera, trascinando il pitone dalla
coda come una sacca di Babbo Natale davvero strana, e lo scaricò
accanto al letto. Si inginocchiò al fianco di Hazel. Era ancora viva,
verde e tremante, che respirava a malapena, ma viva. Per quanto
riguardava Nico, lui era ancora una pianta di mais. “Guariscili,” disse
Frank. “Adesso.” Trittolemo incrociò le braccia. “Come faccio a
sapere che il serpente funzionerà?” Frank strinse i denti.
Dall’esplosione sul ponte, le voci del dio della guerra nella sua testa
si erano fatte silenziose, ma avvertiva ancora la loro rabbia
combinata che ribolliva dentro di lui. Si sentiva anche fisicamente
diverso. Era possibile che Trittolemo si fosse abbassato? “Il serpente
è un dono da Marte,” ringhiò Frank. “Funzionerà.” Come se avesse
ricevuto un segnale, il pitone Burmese strisciò fino al carro e si
arrotolò intorno alla ruota di destra. L’altro serpente si svegliò. I due
serpenti di studiarono a vicenda, si toccarono i nasi, poi girarono le
ruote all’unisono. Il carro si mosse in avanti, con le ali che
sbattevano. “Vedi?” disse Frank. “Adesso, cura i miei amici!”
Trittolemo si picchiettò il mento. “Bè, ti ringrazio per il serpente, ma
non sono certo che mi piaccia il tuo tono, semidio. Forse ti trasformo
in un…“ Frank fu più rapido. Si lanciò verso Trit e lo sbatté contro la
parete, con le dita chiuse attorno alla gola del dio. “Pensa alle tue
prossime parole,” avvertì Frank, con un tono mortalmente calmo. “O
invece di trasformare la mia spada in un aratro, te la sbatterò in
testa.” Trittolemo deglutì. “Sai… credo che curerò i tuoi amici.”
“Giuralo sul Fiume Stige.” “Lo giuro sul Fiume Stige.” Frank lo lasciò
andare. Trittolemo si toccò la gola, come per assicurarsi che fosse
ancora là. Fece un sorriso nervoso verso Frank, gli passò accanto, e
si affrettò verso la camera anteriore. “Prendo… prendo solo delle
erbe!” Frank guardò mentre il dio raccoglieva delle foglie e delle
radici e le frantumava in un mortaio. Fece una pallina grande quanto
una pillola fatta di sostanza verde e corse da Hazel. Mise la pallina
viscida sotto la lingua di Hazel. Istantaneamente, lei tremò e si mise
a sedere, tossendo. I suoi occhi si spalancarono. La tinta verdastra
sulla sua pelle scomparve. Si guardò intorno, disorientata, finché
non vide Frank. “Cosa…?” Frank la travolse con un abbraccio.
“Andrà tutto bene,” disse con forza. “Va tutto bene.” “Ma…” Hazel gli
mise la mano sulle spalle e lo fissò stupita. “Frank, cosa ti è
successo?” “A me?” Si alzò, improvvisamente imbarazzato. “Io
non…” Abbassò lo sguardo e capì quello che voleva dire. Trittolemo
non si era abbassato. Frank era più alto. La sua pancia si era ridotta.
Il suo petto sembrava più muscoloso. Frank aveva avuto degli
sviluppi rapidi prima d’ora. Una volta si era svegliato due centimetri
più alto di quando era andato a dormire. Ma quello era da pazzi. Era
come se un po’ del drago e del leone fossero rimasti con lui quando
era tornato umano. “Uh… io non… Forse posso aggiustarlo.” Hazel
rise divertita. “Perché? Sei fantastico!” “D… davvero?” “Voglio dire,
prima eri bellissimo! Ma adesso sembri più adulto e più alto, e così
distinto,“ Trittolemo fece un sospiro drammatico. “Sì, si tratta
ovviamente di qualche tipo di benedizione da Marte.
Congratulazioni, blah, blah, blah. Adesso, se abbiamo finito…?”
Frank lo fissò furioso. “Non abbiamo finito. Cura Nico.” Il dio
dell’agricoltura fece volare gli occhi al cielo. Indicò la pianta di mais,
e BAM! Nico di Angelo apparve con un’esplosione di foglie di
frumento. Nico si guardò intorno nel panico. “Ho… ho fatto l’incubo
più strano di sempre sui popcorn.” Guardò accigliato Frank. “Perché
sei più alto?” “Va tutto bene,” assicurò Frank. “Trittolemo stava per
dirci come sopravvivere alla Casa di Ade. “Non è così, Trit?” Il dio
dell’agricoltura alzò gli occhi al cielo, come a dire, Demetra, perché a
me? “Bene,” disse Trit. “Quando arriverete ad Epiro, vi sarà offerto
un calice dal quale bere.” “Offerto da chi?” chiese Nico. “Non
importa,” scattò Trit. “Sappiate soltanto che è pieno di veleno
mortale.” Hazel tremò. “Quindi stai dicendo che non dobbiamo
berlo.” “No!” disse Trit. “Dovete berlo, o non sarete mai in grado di
attraversare il tempio. Il veleno vi collega al mondo dei morti, vi
permette di passare nei livelli più bassi. Il segreto per sopravvivergli
è…” i suoi occhi luccicarono “…l’orzo.” Frank lo fissò. “L’orzo.” “Nella
stanza anteriore, prendete un po’ del mio orzo speciale. Fateci alcuni
pasticcini. Mangiateli prima di entrare nella Casa di Ade. L’orzo
assorbirà il peggio del veleno, così che vi farà effetto, ma non vi
ucciderà.” “Tutto qui?” chiese Nico. “Ecate ci ha fatto attraversare
mezza Italia così che tu potevi dirci di mangiare dell’orzo?” “Buona
fortuna!” Trittolemo attraversò la stanza di corsa e saltò nel suo
carro. “E, Frank Zhang, ti perdono! Hai fegato. Se mai decidessi
cambiare idea, la mia offerta è sempre valida. Mi piacerebbe
tantissimo vederti prendere una laurea in agricoltura!” “Sì,” borbottò
Frank. “Grazie.” Il dio tirò una leva del carro. Le ruote-serpenti
girarono. Le ali sbatterono. Sul retro della stanza, le porte del garage
si aprirono. “Oh, di nuovo in movimento!” urlò Trit. “Così tante terre
ignoranti che hanno bisogno della mia conoscenza. Insegnerò loro le
glorie della coltivazione, irrigazione, fertilizzazione!” Il carro si sollevò
da terra e scattò verso l’esterno, con Trittolemo che urlava verso il
cielo, “Via, miei serpenti! Via!” “Questo,” disse Hazel, “è stato molto
strano.” “Le glorie della fertilizzazione.” Nico si spazzò via qualche
foglia di frumento dalle spalle. “Possiamo uscire da qui adesso?”
Hazel mise la mano sulla spalla di Frank. “Stai bene, davvero? Hai
contrattato per le nostre vite. Cosa ti ha fatto fare Trittolemo?” Frank
cercò di mantenere il controllo. Si rimproverò del fatto che si sentiva
così debole. Poteva affrontare un esercito di mostri, ma non appena
Hazel gli mostrava la sua gentilezza, lui voleva strillare e piangere.
“Quei mostri mucca… i catoblepi che ti hanno avvelenata… ho
dovuto distruggerli.” “E’ stato coraggioso,” disse Nico. “Ce ne
dovevano essere, quanti, sei o sette rimasti in quella mandria.” “No.”
Frank si schiarì la gola. “Tutti. Ho ucciso tutti quelli della città.” Nico e
Hazel lo fissarono in un silenzio sconvolto. Frank temeva che
potessero dubitare di lui, o iniziare a ridere. Quanti mostri aveva
ucciso su quel ponte, duecento? Trecento? Ma vide nei loro occhi
che gli credevano. Erano figli dell’Oltretomba. Forse potevano
avvertire la morte e la carneficina che aveva affrontato. Hazel lo
baciò sulla guancia. Adesso doveva sollevarsi in punta di piedi per
farlo. I suoi occhi erano incredibilmente tristi, come se si fosse resa
conto che qualcosa in Frank era cambiato, qualcosa di molto più
importante della crescita fisica. Anche Frank lo sapeva. Non sarebbe
stato mai più lo stesso. Solo che non sapeva se fosse una buona
cosa. “Bè,” disse Nico, spezzando la tensione, “qualcuno di voi sa
che aspetto abbia l’orzo?”
21
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
HAZEL
Tutto aveva l’odore del veleno. Due giorni dopo aver lasciato
Venezia, Hazel non riusciva ancora a togliersi il profumo di eau di
mostri mucca dal naso. Il mal di mare non aiutava. L’Argo II navigava
attraverso l’Adriatico, una stupenda distesa scintillante di blu; ma
Hazel non riusciva ad apprezzarla grazie al costante dondolio della
nave. Sopra coperta, cercava di tenere gli occhi fissi sull’orizzonte,
sulle cime bianche che sembravano trovarsi sempre a soli due
chilometri verso est. Che paese era quello, la Croazia? Non lo
sapeva. Desiderava solo trovarsi di nuovo sulla terra ferma. La cosa
che le dava più la nausea era la donnola. La scorsa notte,
l’animaletto di Ecate, Gale, era apparso nella sua cabina. Hazel si
era svegliata da un incubo, pensando, Cos’è questo odore? Aveva
trovato un roditore peloso acciambellato sul suo petto, che la fissava
con i suoi lucidi occhietti neri. Non c’era nulla di paragonabile al
svegliarsi urlando, scalciandosi via le coperte e ballando per la
cabina mentre una donnola ti correva tra i piedi, stridendo e
rilasciando aria. I suoi amici si erano precipitati nella sua stanza per
vedere se stava bene. Era stato difficile spiegare la donnola. Hazel
poteva capire che Leo aveva cercato con tutte le sue forze di non
fare battute. La mattina dopo, una volta che l’emozione era scemata,
Hazel aveva deciso di fare visita al Coach Hedge, dal momento che
lui poteva parlare con gli animali. Aveva trovato la porta della sua
cabina socchiusa e aveva sentito il coach all’interno, intento a
parlare come se fosse al telefono con qualcuno, solo che non
c’erano telefoni a bordo. Forse stava inviando un messaggio-Iride?
Hazel aveva sentito dire che i greci li usavano spesso. “Certo,
tesoro,” stava dicendo Hedge. “Sì, lo so, piccola. No, è una notizia
fantastica, ma…“ La sua voce si spezzò dall’emozione. Hazel si
sentì immediatamente una persona orribile per il fatto che stesse
origliando. Sarebbe tornata indietro, ma Gale squittì ai suoi piedi.
Hazel bussò alla porta del coach. Hedge tirò fuori la testa,
imbronciato come al solito, ma aveva gli occhi rossi. “Cosa?” ringhiò.
“Um… mi dispiace,” disse Hazel. “Si sente bene?” Il coach fece uno
sbuffo e aprì completamente la porta. “Che razza di domanda è
questa?” Non c’era nessun altro nella stanza. “Io…“ Hazel cercò di
ricordare la ragione per qui era lì. “Mi chiedevo se potesse parlare
con la mia donnola.” Gli occhi del coach si strinsero. Abbassò la
voce. “Stiamo parlando in codice? C’è un intruso a bordo?” “Bè, in
un certo senso.” Gale spuntò da dietro i piedi di Hazel e iniziò a
squittire. Il coach sembrava offeso. Squittì di rimando alla donnola.
Si calarono in quella che sembrava una discussione molto animata.
“Cosa ha detto?” chiese Hazel. “Un sacco di cose maleducate,”
brontolò il satiro. “Il succo del discorso: è qui per vedere come va.”
“Come va cosa?” Coach Hedge sbatté lo zoccolo a terra. “Come
faccio a saperlo? E’ una moffetta! Loro non danno mai delle risposte
chiare. Adesso, se vuoi scusarmi, ho delle, uh, cose da…” Le chiuse
la porta in faccia. Dopo colazione, Hazel andò alla ringhiera di
babordo, cercando di calmare il suo stomaco. Accanto a lei, Gale
correva su e giù lungo la balaustra, lasciando aria; ma il forte vento
dell’Adriatico aiutava a spazzarla via. Hazel si domandò cosa ci
fosse che non andava con il Coach Hedge. Doveva aver usato il
messaggio-Iride per parlare con qualcuno, ma se aveva ricevuto
delle notizie fantastiche, perché era apparso così devastato? Non
l’aveva mai visto così scosso. Sfortunatamente, dubitava che il
coach avrebbe chiesto aiuto se ne avesse avuto bisogno. Non era
esattamente il tipo che si apriva facilmente. Fissò le cime bianche in
lontananza e pensò al motivo per cui Ecate aveva mandato la
moffetta Gale. E’ qui per vedere come va. Stava per accadere
qualcosa. Hazel sarebbe stata messa alla prova. Non sapeva come
avrebbe dovuto imparare la magia senza addestramento. Ecate si
aspettava che sconfiggesse qualche maga potentissima, la signora
con il vestito dorato, quella che Leo aveva descritto dal suo sogno.
Ma come? Hazel aveva trascorso tutto il suo tempo libero cercando
di capirlo. Aveva fissato la sua spatha, cercando di farla apparire
come un bastone da passeggio. Aveva cercato di evocare una
nuvola per nascondere la luna piena. Si era concentrata fino a che
non le si era incrociata la vista e non le si erano tappate le orecchie,
ma non era accaduto nulla. Non era in grado di manipolare la
Foschia. Nelle ultime notti, i suoi sogni erano peggiorati. Si era
ritrovata di nuovo nei Campo dell’Asfodelio, vagando senza meta tra
i fantasmi. Poi si era trovata nella grotta di Gea in Alaska, dove
Hazel e sua madre erano morte mentre il soffitto crollava e la voce
della Dea della Terra urlava di rabbia. Si ritrovò sulle scale
dell’appartamento di sua madre a New Orleans, faccia a faccia con
suo padre, Plutone. Le sue dita fredde le afferravano il braccio. Il
tessuto del suo completo di lana nera si contorceva con le anime
imprigionate al suo interno. Lui la bloccava con i suoi scuri occhi
arrabbiati e diceva: I morti vedono quello che credono vedranno.
Così fanno i vivi. E’ questo il segreto. Non le aveva mai detto quella
cosa nella realtà. Non aveva idea di cosa volesse dire. L’incubo
peggiore assomigliava a un assaggio di futuro. Hazel stava
arrancando attraverso uno scuro tunnel mentre la risata di una
donna riecheggiava attorno a lei. Controlla questo se ci riesci, figlia
di Plutone, la derideva la donna. E come sempre, Hazel sognava le
immagini che aveva visto all’incrocio di Ecate: Leo che precipitava
dal cielo; Percy e Annabeth a terra privi di sensi, forse morti, davanti
a delle scure porte di metallo; e una figura avvolta che incombeva
sopra di loro, il gigante Clitio avvolto dalle tenebre. Accanto a lei
sulla balaustra, la donnola Gale squittì impaziente. Hazel era tentata
di spingere quello stupido roditore in mare. Non riesco nemmeno a
controllare i miei stessi sogni, voleva urlare. Come faccio a
controllare la Foschia? Era così affranta, che non notò Frank finché
non le apparve affianco. “Ti senti meglio?” chiese. Le prese la mano,
le sue dita coprivano completamente quelle di lei. Non riusciva a
credere a quanto si fosse alzato. Si era trasformato in così tanti
animali, che non era certa che un’altra trasformazione l’avrebbe
stupita, ma improvvisamente lui era cresciuto adattandosi al suo
corpo. Nessuno poteva più chiamarlo grassottello o tenero. Aveva
l’aspetto di un giocatore di football, solido e forte, con un nuovo
centro di gravità. Le sue spalle si erano allargate. Camminava con
più sicurezza. Quello che Frank aveva fatto su quel ponte a
Venezia… Hazel era ancora scioccata. Nessuno di loro aveva
davvero visto la battaglia, ma nessuno ne dubitava. L’intera postura
di Frank era cambiata. Persino Leo aveva smesso di fare battute a
suo conto. “Sto… sto bene,” riuscì a dire Hazel. “Tu?” Lui sorrise,
con delle rughette che gli apparvero agli angoli degli occhi. “Sono,
uh, più alto. A parte quello, sì. Sto bene. Non sono davvero, sai,
cambiato dentro…” La sua voce aveva ancora un po’ dei vecchi
dubbi e imbarazzi, la voce del suo Frank, che era sempre
preoccupato di essere un inadatto e di combinare qualche guaio.
Hazel si sentiva sollevata. Le piaceva quella parte di lui. All’inizio, il
suo nuovo aspetto l’aveva scioccata. Era stata preoccupata che
fosse cambiata anche la sua personalità. Adesso stava iniziando a
rilassarsi. Malgrado tutta la sua forza, Frank era rimasto lo stesso
ragazzo dolce di sempre. Era ancora vulnerabile. Si fidava ancora di
lei con la sua più grande debolezza, il legnetto magico che lei aveva
nella tasca del suo giacchetto, accanto al suo cuore. “Lo so, e ne
sono felice.” Gli strinse la mano. “Non… non è di te che sono
preoccupata.” Frank grugnì. “Come sta Nico?” Lei stava pensando a
se stessa, non a Nico, ma seguì lo sguardo di Frank verso la cima
dell’albero di trinchetto, dove Nico era appollaiato sulla varea. Nico
sosteneva che gli piaceva fare la guardia perché aveva una buona
vista. Hazel sapeva che non era quella la ragione. La cima
dell’albero era uno dei pochi posti a bordo della nave dove Nico
poteva stare da solo. Gli altri gli avevano proposto di usare la cabina
di Percy, visto che Percy era… bè, assente. Nico aveva rifiutato
duramente. Passava la maggior parte del suo tempo in alto tra le
vele e gli alberi, dove non era costretto a parlare con il resto della
ciurma. Da quando era stato trasformato in una pianta di mais a
Venezia, si era fatto solo più chiuso e scontroso. “Non lo so,”
ammise Hazel. “Ne ha passate parecchie. Essere catturato nel
Tartaro, essere tenuto prigioniero in quella giara di bronzo, vedere
Percy e Annabeth cadere…” “E promettere di guidarci ad Epiro.”
Frank annuì. “Ho la sensazione che Nico non si trovi molto a suo
agio con gli altri.” Frank si raddrizzò. Indossava una maglietta
marrone chiaro con l’immagine di un cavallo e la scritta PALIO DI
SIENA. L’aveva comprata solo un paio di giorni prima, ma adesso
era troppo piccola. Quando si allungava con le braccia, aveva
l’addome esposto. Hazel si rese conto che lo stava fissando.
Distolse velocemente lo sguardo, con il volto in fiamme. “Nico è il
mio unico parente,” disse. “Non è facile farselo piacere, ma… grazie
per essere gentile con lui.” Frank sorrise. “Ehi, hai sopportato mia
nonna a Vancouver. Tanto per parlare di persone non facili da farsi
piacere.” “Adoro tua nonna!” La moffetta Gale corse verso di loro,
lasciò del gas, e corse via. “Ugh.” Frank agitò la mano per mandare
via l’odore. “Perché quella cosa è qui?” Hazel era quasi grata del
fatto che non si trovasse sulla terra ferma. Per come era agitata,
probabilmente avrebbe fatto spuntare oro e gemme tutto intorno a
lei. “Ecate ha mandato Gale per osservare,” disse. “Osservare
cosa?” Hazel cercò di trovare conforto nella presenza di Frank, nella
sua nuova aura di sicurezza e forza. “Non lo so,” disse alla fine.
“Qualche tipo di test.” Improvvisamente la barca fu lanciata in avanti.
26
HAZEL
HAZEL
PERCY
PERCY
PERCY
PERCY
JASON
JASON
JASON
JASON
Jason aveva cavalcato i venti molte volte. Essere vento non era la
stessa cosa. Si sentiva fuori controllo, con i pensieri sparsi, senza
confini tra il suo corpo e il resto del mondo. Si chiese se fosse così
che si sentivano i mostri quando venivano sconfitti, esplosi in
polvere, indifesi e privi di forma. Jason poteva avvertire la presenza
di Nico vicina. Il Vento dell’Ovest li trasportò nel cielo sopra Spalato.
Insieme corsero sopra le colline, oltre gli acquedotti romani, le
autostrade, e le vigne. Mentre si avvicinavano alle montagne, Jason
vide le rovine di una città romana sparse nella valle sotto di loro,
muri cadenti, fondamenta quadrate, e strade crepate, il tutto coperto
da erba incolta, così che sembrava un gigante ed erboso tavolo da
gioco. Favonio li fece scendere al centro delle rovine, accanto a una
colonna distrutta grande come una sequoia. Il corpo di Jason si
riformò. Per un attimo si sentì persino peggio di quando era vento,
come fosse stato improvvisamente avvolto con un cappotto di
piombo. “Sì, i corpi dei mortali sono terribilmente ingombranti,” disse
Favonio, come se gli stesse leggendo i pensieri. Il dio del vento si
sistemò su un muro vicino insieme al suo cesto di frutta e allargò le
ali color ruggine al sole. “Onestamente, non so come possiate
sopportarlo, tutti i giorni sempre così.” Jason studiò il paesaggio
circostante. La città doveva essere stata enorme un tempo. Poteva
riconoscere le strutture dei templi e delle terme, un anfiteatro mezzo
sepolto, e dei piedistalli vuoti che una volta dovevano aver ospitato
delle statue. File di colonne spuntavano da tutte le parti. Le antiche
mura della città serpeggiavano dentro e fuori il fianco della collina
come un filo di pietra in un tessuto verde. Alcune aree sembravano
essere state scavate, ma la maggior parte della città sembrava
semplicemente abbandonata, come se fosse stata lasciata in balia
degli elementi per gli ultimi duemila anni. “Benvenuto a Salona,”
disse Favonio. “La Capitale della Dalmazia! Il luogo di nascita di
Diocleziano! Ma prima di quello, molto prima, era la casa di Cupido.”
Il nome riecheggiò, come se delle voci stessero sussurrando
attraverso le rovine. Qualcosa riguardo quel posto sembrava persino
più inquietante della stanza sotterranea nel palazzo di Spalato.
Jason non aveva mai pensato molto a Cupido. Sicuramente non ci
aveva mai pensato come a un essere spaventoso. Persino per i
semidei romani, il nome portava alla mente l’immagine di un buffo
bimbetto alato con arco e frecce giocattolo, che volava in giro vestito
con un pannolino durante il giorno di San Valentino. “Oh, non è
così,” disse Favonio. Jason sussultò. “Sai leggere il pensiero?” “Non
ne ho bisogno.” Favonio lanciò il suo cerchio di bronzo in aria. “Tutti
hanno l’idea sbagliata su Cupido… finché non lo incontrano.” Nico si
appoggiò contro una colonna, con le gambe che gli tremavano
visibilmente. “ehi, amico…” Jason fece un passo verso di lui, ma
Nico lo allontanò con un gesto della mano. Ai piedi di Nico, l’erba si
fece marrone e appassita. La macchia di erba morta si allargò, come
se del veleno stesse filtrando dalle suole delle sue scarpe. “Ah…”
Favonio annuì con compassione. “Non ti biasimo per essere
nervoso, Nico di Angelo. Tu sai come io sono finito a servire
Cupido?” “Io non servo nessuno,” borbottò Nico. “Soprattutto non
Cupido.” Favonio proseguì come se non avesse sentito. “Mi sono
innamorato di un mortale chiamato Giacinto. Era assolutamente
straordinario.” “Un mortale…?” La mente di Jason era ancora
confusa a causa del suo viaggio nel vento, quindi gli ci volle qualche
secondo per metabolizzare la cosa. “Oh…” “Sì, Jason Grace.”
Favonio inarcò un sopracciglio. “Mi sono innamorato di un ragazzo.
La cosa ti sconvolge?” Onestamente, Jason non lo sapeva. Cercava
di non pensare ai dettagli delle vite romantiche degli dei, non
importava di chi si innamorassero. Dopotutto, suo padre, Giove, non
era esattamente un modello di comportamento. Paragonato ad
alcuni degli scandali amorosi dell’Olimpo che aveva sentito, il Vento
dell’Ovest che si innamorava di un ragazzo mortale non sembrava
così sconvolgente. “Immagino di no. Quindi… Cupido ti ha colpito
con la sua freccia, e tu ti sei innamorato.” Favonio fece un verso di
scherno. “Lo fai sembrare così semplice. Purtroppo, l’amore non è
mai semplice. Vedi, anche al dio Apollo piaceva Giacinto. Lui
sosteneva che erano solo amici. Non lo so. Ma un giorno li ho
incontrati mentre stavano insieme, intenti a giocare al gioco dei
cerchi…“ Ecco che si parlava di nuovo di cerchi. “Quale gioco?” “Un
gioco che si fa con quegli anelli,” spiegò Nico, anche se la sua voce
era instabile. “Come ferri di cavallo.” “Più o meno,” disse Favonio.
“Ad ogni modo, divenni geloso. Invece di affrontarli e scoprire la
verità, feci cambiare il vento e mandai un pesante anello di metallo
dritto contro la testa di Giacinto e… bè.” Il dio del vento inspirò.
“Mentre Giacinto moriva, Apollo lo trasformò in un fiore, il giacinto.
Sono certo che Apollo si sarebbe vendicato in maniera terribile su di
me, ma Cupido mi offrì la sua protezione. Avevo fatto una cosa
terribile, ma ero impazzito a causa dell’amore, così mi risparmiò, con
la condizione che lavorassi per sempre per lui.” CUPIDO. Quel nome
riecheggiò nuovamente tra le rovine. “Quello sarebbe il mio
segnale.” Favonio si alzò in piedi. “Pensa a lungo e duramente a
come procederai, Nico di Angelo. Non puoi mentire a Cupido. Se
lasci che la tua rabbia ti guidi… bè, il tuo destino sarà persino più
triste del mio.” Jason ebbe la sensazione che la sua mente si stesse
trasformando nuovamente in vento. Non capiva quello di cui stava
parlando Favonio, o perché Nico sembrasse così scosso, ma non
aveva tempo di pensarci. Il dio del vento scomparve in un vortice
rosso e oro. L’aria estiva si fece improvvisamente opprimente. Il
terreno tremò, e Jason e Nico sguainarono le loro spade. *** Allora.
La voce attraversò le orecchie di Jason come un proiettile. Quando
si voltò, dietro di lui non c’era nessuno. Siete venuti per prendere lo
scettro. Nico si trovava dietro di lui, e per una volta Jason era grato
di avere la compagnia del ragazzo. “Cupido,” esclamò Jason, “dove
sei?” La voce rise. Senza dubbio non suonava come la voce di un
tenero angioletto. Appariva profonda e ricca, ma anche minacciosa,
come un tremore che precede un grosso terremoto. Dove meno vi
aspettate, rispose Cupido. Dove si trova sempre l’Amore. Qualcosa
si scagliò contro Jason e lo trasportò lungo la strada. Cadde lungo
una serie di scale e si ritrovò sdraiato sul pavimento di una cantina
romana aperta. Credevo che fossi più saggio, Jason Grace. La voce
di Cupido vorticava intorno a lui. Dopotutto, tu hai trovato il vero
amore. O dubiti ancora di te? Nico corse lungo le scale. “Stai bene?”
Jason accettò la sua mano e si rimise in piedi. “Sì. Solo una botta
nello stomaco.” Oh, pensavi che avrei giocato seguendo le regole?
rise Cupido . Io sono il dio dell’amore. Non sono mai giusto. Questa
volta, i sensi di Jason erano in allerta. Avvertì l’aria muoversi proprio
quando si materializzò una freccia, che correva rapida verso il petto
di Nico. Jason la intercettò con la spada e la fece deviare. La freccia
esplose contro la parete più vicina, cospargendoli di frammenti di
pietra. Corsero lungo le scale. Jason tirò Nico da una parte mentre
un’altra raffica di vento faceva cadere una colonna che stava per
schiacciarlo. “Questo tipo è l’Amore o la Morte?” ringhiò Jason.
Chiedi ai tuoi amici, disse Cupido. Frank, Hazel, e Percy hanno
incontrato la mia controparte, Tanato. Non siamo così diversi. Con
l’eccezione che ogni tanto Morte è più gentile. “Vogliamo solo lo
scettro!” urlò Nico. “Stiamo cercando di fermare Gea. Sei dalla parte
degli dei o no?” Una seconda freccia colpì il terreno tra i piedi di Nico
e brillò di un intenso bianco. Nico indietreggiò velocemente mentre la
freccia esplodeva in un geyser di fuoco. L’Amore è da tutte le parti ,
disse Cupido. E da quella di nessuno. Non chiedere quello che
l’Amore può fare per te. “Fantastico,” disse Jason. “Adesso lancia
frasi da cartolina.” Un movimento alle sue spalle: Jason si voltò,
abbassando la sua spada nell’aria. La sua lama colpì qualcosa di
solido. Udì un grugnito e attaccò di nuovo, ma il dio invisibile non
c’era più. Sul pavimento di pietra, luccicava una traccia di icore
dorato… il sangue degli dei. Molto bene, Jason, disse Cupido.
Almeno sei in grado avvertire la mia presenza. Persino un casuale
colpo al vero amore è più di quello che riescono a fare la maggior
parte degli eroi. “Quindi adesso posso avere lo scettro?” chiese
Jason. Cupido rise. Sfortunatamente, tu non puoi brandirlo. Solo un
figlio dell’Oltretomba può invocare una legione di morti. E solo un
ufficiale di Roma può guidarli. “Ma…” Jason esitò. Lui era un
ufficiale. Era un pretore. Poi si ricordò di tutti i suoi dubbi su dove
appartenesse. A Nuova Roma, aveva offerto di rinunciare alla sua
posizione in favore di Percy Jackson. Quello lo aveva reso indegno
di guidare una legione di fantasmi romani? Decise di affrontare il
problema quando si fosse presentato. “Lasciacela e basta,” disse.
“Nico può invocare…“ La terza freccia sfrecciò accanto alla spalla di
Jason. Non poté fermarla in tempo. Nico boccheggiò mentre questa
affondava nel suo braccio. “Nico!” Il figlio di Ade barcollò. La freccia
si dissolse, senza lasciare sangue e nessuna ferita visibile, ma il
volto di Nico era contratto dalla rabbia e dal dolore. “Basta con i
giochi!” gridò Nico. “Fatti vedere!” E’ una cosa costosa, disse
Cupido, guardare il vero volto dell’Amore. Un’altra colonna crollò.
Jason si spostò velocemente. Mia moglie Psiche imparò quella
lezione, disse Cupido. Fu portata qui secoli fa, quando questo era il
luogo del mio palazzo. Ci incontravamo solo al buio. Era stata
avvertita di non guardarmi mai, e tuttavia non riusciva a sopportare il
mistero. Temeva che fossi un mostro. Una notte, accese una
candela, e vide il mio volto mentre dormivo. “Eri così brutto?” Jason
credeva di aver individuato la voce di Cupido, al bordo dell’anfiteatro,
a circa venti metri di distanza, ma voleva esserne certo. Il dio rise.
Temo che fossi troppo bello. Un mortale non può guardare il vero
aspetto di un dio senza soffrirne le conseguenze. Mia madre,
Afrodite, maledisse Psiche per la sua sfiducia. La mia povera
amante fu tormentata, obbligata all’esilio, le vennero affidate delle
prove orribili per dimostrare il suo valore. Fu persino mandata
nell’Oltretomba in un’impresa per provare la sua dedizione. Si
guadagnò la strada per tornare al mio fianco, ma soffrì
enormemente. Adesso ti ho preso, pensò Jason. Alzò la spada verso
il cielo e dei tuoni scossero la valle. Dei lampi fecero esplodere un
cratere nel punto da cui proveniva la voce. Silenzio. Jason aveva
appena iniziato a pensare, accidenti, ha davvero funzionato, quando
una forza invisibile lo gettò a terra. La sua spada scivolò lungo la
strada. Una bella prova, disse Cupido, con la voce già distante. Ma
l’Amore non può essere individuato così facilmente. Accanto a lui,
crollò una parte. Jason riuscì a stento a rotolare via. “Smettila!” urlò
Nico. “E’ me che vuoi. Lascialo da solo!” Le orecchie di Jason
fischiavano. Era confuso a causa delle cadute. In bocca aveva il
sapore della roccia calcarea. Non capiva perché Nico pensava di
essere l’obiettivo principale, ma Cupido sembrava essere d’accordo.
Povero Nico di Angelo. Nella voce del dio c’era una traccia di
disappunto. Sai quello che tu vuoi, molto meno di quello che voglio
io? La mia amata Psiche ha rischiato tutto nel nome dell’Amore. Era
l’unico modo per scontare la sua mancanza di fiducia. E tu, cosa hai
rischiato nel mio nome? “Sono stato nel Tartaro e sono tornato,”
ringhiò Nico. “Non mi fai paura.” Ti faccio molta, molta paura.
Affrontami. Sii onesto. Jason si alzò in piedi. Tutto intorno a Nico, il
terreno tremò. L’erba appassì, e tutte le rocce si spaccarono come
se qualcosa si stesse muovendo sottoterra, cercando di emergere.
“Dacci lo scettro di Diocleziano,” disse Nico. “Non abbiamo tempo
per i giochi.” Giochi? Cupido attaccò, mandando Nico a sbattere
contro un piedistallo di granito. L’Amore non è un gioco! Non è una
cosa dolce e delicata! E’ duro lavoro, un’impresa che non ha mai
fine. Richiede tutto da una persona, soprattutto la verità. Solo allora
concederà la ricompensa. Jason recuperò la sua spada. Se quel
tizio invisibile era Amore, Jason stava cominciando a pensare che
l’Amore fosse sopravvalutato. Gli piaceva di più la versione di Piper,
premuroso, gentile e bello. Poteva capire Afrodite. Cupido sembrava
più un criminale, un vigilante delle regole. “Nico,” esclamò, “che cosa
vuole da te?” Diglielo, Nico di Angelo, disse Cupido. Digli che sei un
codardo, spaventato da te stesso e dai tuoi sentimenti. Digli la vera
ragione per la quale sei scappato dal Campo Mezzosangue, e
perché sei sempre da solo. Nico lasciò andare un urlo gutturale. Il
terreno ai suoi piedi si spaccò lasciando uscire fuori degli scheletri,
romani morti con mani mancanti e teschi deformati, costole rotte, e
mascelle staccate. Alcuni erano vestiti con i resti delle toghe. Altri
avevano dei luccicanti pezzi di armatura appesi al petto. Ti
nasconderai tra i morti, come fai sempre? lo provocò Cupido.
Ondate di oscurità si riversarono dal figlio di Ade. Quando colpirono
Jason, il ragazzo perse quasi i sensi, sopraffatto dall’odio, dalla
paura e dalla vergogna… Nella sua mente apparvero delle immagini.
Vide Nico e sua sorella su una rupe nevosa nel Maine, con Percy
Jackson che li stava proteggendo dall’attacco di una manticora. La
spada di Percy brillava nel buio. Era stato il primo semidio che Nico
avesse mai visto in azione. Più tardi, al Campo Mezzosangue, Percy
prese Nico per il braccio, promettendogli di tenere al sicuro sua
sorella Bianca. Nico gli credette. Aveva guardato nei suoi occhi
verde mare e pensato, Come potrebbe mai fallire? Questo è un vero
eroe. Era come il gioco preferito di Nico, la Mitomagia, nella vita
reale. Jason vide quando Percy era tornato e gli aveva detto che
Bianca era morta. Nico aveva urlato e lo aveva chiamato bugiardo.
Si era sentito tradito, ma… quando i guerrieri scheletro avevano
attaccato, non aveva potuto permetterli di fare del male a Percy.
Nico aveva invocato la terra perché li ingoiasse, e poi era scappato,
terrorizzato dai suoi stessi poteri, e dalle sue emozioni. Jason vide
un’altra dozzina di scene del genere dal punto di vista di Nico… E
queste lo lasciarono sconvolto, incapace di muoversi o di parlare.
Nel frattempo, gli scheletri romani di Nico si lanciarono in avanti e
afferrarono qualcosa di invisibile. Il dio lottò gettando i morti di lato,
rompendo costole e teschi, ma gli scheletri continuavano ad arrivare,
afferrando le braccia del dio. Interessante, disse Cupido. Hai la
forza, dopotutto? “Ho lasciato il Campo Mezzosangue per amore,”
disse Nico. “Annabeth… lei…“ Continui a nasconderti, disse Cupido,
riducendo un altro scheletro in pezzi. Non ne hai la forza. “Nico,”
riuscì a dire Jason, “va tutto bene. Ho capito.” Nico guardò verso di
lui, il volto carico di dolore e tristezza. “No, non capisci.” disse. “Non
c’è modo nel quale tu possa capire.” E così scappi di nuovo, lo
rimproverò Cupido. Dai tuoi amici, da te stesso. “Io non ho amici!”
urlò Nico. “Ho lasciato il Campo Mezzosangue perché non
appartengo là! Non ne farò mai parte!” Gli scheletri avevano bloccato
Cupido, ma il dio invisibile rise così crudelmente che Jason ebbe
l’impulso di invocare un altro lampo. Sfortunatamente, non credeva
di averne la forza. “Lascialo stare, Cupido,” disse Jason con voce
strozzata. “Non sono…” La voce lo abbandonò. Aveva voluto dire
che non erano affari di Cupido, ma si rese conto che quelli erano
esattamente affari di Cupido. Qualcosa che Favonio aveva detto
continuava a risuonargli nelle orecchie: La cosa ti sconvolge?
Finalmente la storia di Psiche divenne chiara, perché una ragazza
mortale avrebbe dovuto essere così spaventata. Perché avrebbe
dovuto rischiare di infrangere le regole per guardare il dio dell’amore
in faccia, temendo che potesse essere un mostro. Psiche aveva
avuto ragione. Cupido era un mostro. L’Amore era il mostro più
selvaggio di tutti. La voce di Nico sembrava vetro infranto. “Non…
non ero innamorato di Annabeth.” “Eri geloso di lei,” disse Jason. “E’
per questo che non volevi starle accanto. Soprattutto perché non
volevi stare accanto a… lui. Ha perfettamente senso.” Tutta la lotta e
le negazioni sembrarono abbandonare Nico all’improvviso. L’oscurità
cessò. I morti romani crollarono in una pila di ossa e si ridussero in
polvere. “Ho odiato me stesso,” disse Nico. “Ho odiato Percy
Jackson.” Cupido divenne visibile, un giovane uomo alto, slanciato e
muscoloso con bianche ali immacolate, lisci capelli neri, un semplice
completo bianco. L’arco e la freccia che aveva sulla schiena non
erano giocattoli, erano armi da guerra. I suoi occhi erano rossi come
il sangue, come se tutti i cuori di San Valentino del mondo fossero
stati spremuti, distillati in un’unica miscela velenosa. Il suo volto era
bello, ma anche duro, difficile da guardare direttamente, come un
riflettore. Guardò Nico soddisfatto, come se avesse identificato il
prossimo punto dove puntare la sua freccia per un’uccisione rapida.
“Avevo una cotta per Percy,” sputò fuori Nico. “Questa è la verità.
Questo è il grande segreto.” Fissò Cupido con rabbia. “Contento
adesso?” Per la prima volta, lo sguardo di Cupido sembrava
addolcito. “Oh, non direi che l’Amore renda sempre felici.” La sua
voce suonava più piccola, molto più umana. “A volte rende
incredibilmente tristi. Ma almeno adesso l’hai affrontato. Questo è
l’unico modo per conquistarmi.” Cupido si dissolse nel vento. Sul
terreno al suo posto giaceva un bastone d’avorio di un metro, con
all’estremità uno scuro globo di marmo lucido grande come una palla
da baseball, annidato sulle schiene di tre aquile romane dorate. Lo
scettro di Diocleziano. Nico si inginocchiò e lo raccolse. Guardò
Jason, come in attesa di un attacco. “Se gli altri lo scoprono…“ “Se
gli altri lo scoprono,” disse Jason, “avresti tutte quelle persone in più
pronte a spalleggiarti, e a sguinzagliare la furia degli dei su chiunque
ti crei problemi.” Nico si accigliò. Jason avvertiva ancora il
risentimento e la rabbia che si riversavano dal ragazzo. “Ma è una
tua scelta,” aggiunse Jason. “Tu devi decidere se dirlo o meno. Io
posso solo dirti…“ “Non lo sono più,” borbottò Nico. “Voglio dire… ho
rinunciato a Percy. Ero piccolo e facilmente impressionabile, e io…
io non…” La sua voce tremò, e Jason poteva capire che al ragazzo
stavano per salire le lacrime agli occhi. Che Nico avesse davvero
rinunciato a Percy o meno, Jason non riusciva a immaginare come
doveva essere stato per Nico tutti quegli anni, mantenendo un
segreto che sarebbe stato impensabile da condividere negli anni
quaranta, negando chi era, sentendosi completamente solo, persino
più isolato degli altri semidei. “Nico,” disse gentilmente, “ho visto un
sacco di cose coraggiose. Ma quello che hai appena fatto? Quella è
stata forse la più coraggiosa di tutte.” Nico alzò lo sguardo incerto.
“Dovremmo tornare alla nave.” “Sì. Possiamo volare…“ “No,”
annunciò Nico. “Questa volta useremo il viaggio-ombra. Per adesso
ne ho avuto abbastanza dei venti.”
37
ANNABETH
ANNABETH
L’insulto più grande? Il dragone era senza problemi la cosa più bella
che Annabeth avesse visto da quando era precipitata nel Tartaro. La
sua pelle era chiazzata di verde e giallo, come luce del sole che
filtrava tra le chiome degli alberi di una foresta. I suoi occhi da rettile
erano della sfumatura di verde preferita di Annabeth (proprio come
quelli di Percy). Quando il collare che aveva intorno al collo gli si aprì
intorno alla testa, Annabeth non poté fare a meno di pensare a come
fosse regale e stupendo il mostro che stava per ucciderla. Era lungo
come il treno di una metropolitana. I suoi enormi artigli scavavano
nel fango mentre li usava per tirarsi in avanti, con la coda che
frustava da una parte all’altra. Il dragone sibilò, sputando getti di
acido verde che fumavano sul terreno muschioso e che davano
fuoco alle fosse di catrame, riempiendo l’aria con il profumo di pino
fresco e zenzero. Il mostro aveva persino un odore buono. Come la
maggior parte dei dragoni, era privo di ali, più lungo e più serpentino
di un drago, e sembrava affamato. “Bob,” disse Annabeth, “cosa
stiamo affrontando qui?” “Dragone Meoniano,” disse Bob. “Dalla
Meonia.” Altre informazioni utili. Annabeth avrebbe colpito Bob sulla
testa con la sua stessa scopa se fosse riuscita a sollevarla. “C’è
qualche modo nel quale possiamo ucciderlo?” “Noi?” disse Bob.
“No.” Il dragone ruggì come per sottolineare il concetto, riempiendo
l’aria con altro veleno al pino-zenzero, che sarebbe stato
un’eccellente profumo per macchine. “Porta Percy al sicuro,” disse
Annabeth. “Io lo distrarrò.” Non aveva idea di come l’avrebbe fatto,
ma era la sua unica scelta. Non poteva permettere che Percy
morisse, non se lei aveva ancora la forza di stare in piedi. “Non devi
farlo,” disse Bob. “In qualsiasi momento…“ “ROOOOOAAAR!”
Annabeth si voltò mentre il gigante emergeva dalla sua capanna.
Era alto circa sei metri, tipica altezza da gigante, con la parte
superiore del corpo umanoide, e delle squamate gambe da rettile,
come un dinosauro bipede. Non aveva nessuna arma. Al posto
dell’armatura, indossava solo una maglietta formata da un mantello
di pecora e della pelle chiazzata di verde cucite insieme. La sua
pelle era rosso ciliegia; la sua barba e i suoi capelli avevano il colore
del ferro arrugginito, intrecciato con ciuffi di erba, foglie e fiori di
palude. Gridò in segno di sfida, ma fortunatamente non stava
guardando Annabeth. Bob la tirò via dalla strada mentre il gigante
scattava verso il dragone. Si scontrarono come uno strano tipo di
combattimento natalizio, rosso contro verde. Il dragone sputò
veleno. Il gigante balzò da una parte. Afferrò la quercia e la tirò fuori
dal terreno, radici e tutto il resto. Il vecchio teschio si ridusse in
polvere mentre il gigante sollevava l’albero come una mazza da
baseball. La coda del dragone si avvolse attorno alla vita del
gigante, trascinandolo più vicino ai suoi denti digrignati. Ma non
appena il gigante si fu avvicinato abbastanza, ficcò l’albero dritto
dentro la gola del mostro. Annabeth sperò di non dover assistere
mai più ad una scena così raccapricciante. L’albero trafisse la gola
del dragone e lo impalò al terreno. Le radici iniziarono a muoversi,
scavando sempre più in profondità non appena toccavano terra,
ancorando la quercia finché non sembrò che si trovasse in quel
punto da secoli. Il dragone tremò e si agitò, ma era bloccato
strettamente. Il gigante abbassò il suo pugno sul collo del dragone.
CRACK. Il mostro divenne inerte. Iniziò a dissolversi, lasciando solo
avanzi di ossa, carne, pelle e un nuovo teschio di dragone le cui
mascelle circondavano la quercia. Bob borbottò. “Bella mossa.” Il
gattino fece le fusa in assenso e iniziò a leccarsi le zampe. Il gigante
diede dei calci ai resti del dragone, esaminandoli con aria critica.
“Nessun osso buono,” si lamentò. “Volevo un nuovo bastone da
passeggio. Hmpf. Però c’era un po’ di pelle buona per il bagno.”
Strappò un po’ di pelle morbida dal collare del dragone e se la infilò
nella cintura. “Uh…” Annabeth voleva chiedere se il gigante usasse
davvero la pelle di dragone come carta igienica, ma decise che era
meglio non farlo. “Bob, vuoi presentarci?” “Annabeth…” Bob diede
delle pacche sulle gambe di Percy. “Questo è Percy.” Annabeth
sperava che il Titano la stesse solo prendendo in giro, anche se il
volto di Bob non rivelava nulla. Strinse i denti. “Intendevo il gigante.
Hai promesso che poteva aiutare.” “Promesso?” Il gigante distolse lo
sguardo dal suo lavoro. I suoi occhi si strinsero sotto le cespugliose
sopracciglia rosse. “Una cosa grossa, una promessa. Perché Bob
dovrebbe promettere il mio aiuto?” Bob spostò il peso del suo copro
da un piede all’altro. I Titani facevano paura, ma Annabeth non ne
aveva mai visto uno accanto a un gigante prima. Paragonato
all’uccisore di dragoni, Bob appariva come un perfetto nanerottolo.
“Damasene è un gigante buono,” disse Bob. “Lui è pacifico. Lui può
curare i veleni.” Annabeth guardò il gigante Damasene, che adesso
stava strappando pezzi di carne sanguinante dalla carcassa del
dragone a mani nude. “Pacifico,” disse. “Sì, lo vedo.” “Carne buona
per la cena.” Damasene si raddrizzò e studiò Annabeth, come se
fosse un’altra potenziale fonte di proteine. “Venite dentro.
Mangeremo stufato. Poi penseremo a questa promessa.”
39
ANNABETH
ANNABETH
PIPER
PIPER
Leo fissò il pugnale. “Okay… allora la tua idea non mi piace così
tanto come pensavo. Credi che uno di noi sconfiggerà Gea e l’altro
morirà? O forse uno di noi morirà mentre sta lottando contro Gea?
Oppure…“ “Ragazzi,” disse Jason, “diventeremo pazzi
ossessionandoci con questo verso. Sapete come sono le profezie.
Gli eroi finiscono sempre nei guai quando cercano di prevenirle.”
“Già,” borbottò Leo. “Sarebbe bruttissimo finire nei guai. Siamo
andati così bene finora.” “Sai cosa voglio dire,” disse Jason. “L’ultimo
fiato potrebbe non essere connesso alla parte del fuoco e della
tempesta. Per quanto ne sappiamo, magari noi due non siamo
nemmeno il fuoco e la tempesta. Percy può creare degli uragani.”
“Ed io potrei sempre dare fuoco a Coach Hedge,” offrì Leo. “Allora lui
può essere il fuoco.” Il pensiero di un satiro in fiamme che urlava, “A
morte, feccia!” mentre attaccava Gea era quasi abbastanza da far
ridere Piper, quasi. “Spero di stare sbagliando,” disse con cautela.
“Ma tutta l’impresa è iniziata con noi alla ricerca di Era e il risveglio di
quel re dei giganti, Porfirione. Ho la sensazione che anche la
conclusione della guerra sarà con noi tre. Comunque finirà.” “ehi,”
disse Jason, “personalmente, mi piace il noi.” “Sono d’accordo,”
disse Leo. “Noi sono le mie persone preferite.” Piper abbozzò un
sorriso. Adorava davvero quei ragazzi. Desiderò poter usare la sua
lingua ammaliatrice sulle Parche, descrivere loro un lieto fine, e
obbligarle a farlo avverare. Sfortunatamente, era difficile immaginare
un lieto fine con tutti i pensieri oscuri che aveva nella testa. Era
preoccupata che il gigante Clitio fosse stato messo sul loro cammino
per eliminare la minaccia di Leo. Se era così, ciò voleva dire che
Gea avrebbe anche cercato di eliminare Jason. Senza fuoco e
tempesta, la loro impresa sarebbe fallita. E anche quel tempo
invernale la innervosiva… Era sicura che fosse causato da qualcosa
di più dello scettro di Diocleziano. Il vento freddo, la pioggia e il
ghiaccio sembravano essere coscientemente ostili, e in qualche
modo familiari. Quell’odore nell’aria, il denso profumo di… Piper
avrebbe dovuto capire prima quello che stava accadendo, ma aveva
trascorso la maggior parte della sua vita nella California Meridionale
dove non c’erano grossi cambiamenti stagionali. Non era cresciuta
con quell’odore… l’odore della neve in arrivo. Ogni muscolo del suo
corpo si fece teso. “Leo, suona l’allarme.” Piper non si era resa conto
di stare usando la lingua ammaliatrice, ma Leo lasciò
immediatamente cadere il suo cacciavite e spinse il bottone di
allarme. Poi si accigliò quando non accadde nulla. “Uh, è
disconnesso,” ricordò. “Festus è scollegato. Dammi un minuto per
riallacciare il sistema.” “Non abbiamo un minuto! Fuoco, abbiamo
bisogno di fiale di fuoco Greco. Jason, chiama i venti. Calore, venti
meridionali.” “Aspetta, che?” Jason la fissò confuso. “Piper, cosa c’è
che non va?” “E’ lei!” Piper afferrò il suo pugnale. “E’ tornata!
Dobbiamo…“ Prima che potesse finire, la barca si inclinò verso
babordo. La temperatura precipitò così velocemente, che le vele
scricchiolarono ricoprendosi di ghiaccio. Gli scudi di bronzo lungo le
balaustre scoppiarono come lattine di coca cola sottoposte a troppa
pressione. Jason sguainò la sua spada, ma era troppo tardi.
Un’ondata di particelle di ghiaccio lo inondarono, ricoprendolo come
una ciambella glassata e congelandolo sul posto. Sotto uno strato di
ghiaccio, i suoi occhi erano spalancati dalla sorpresa. “Leo! Fiamme!
Adesso!” gridò Piper. La mano destra di Leo si accese, ma il vento
vorticò intorno a lui e soffocò le fiamme. Leo afferrò la sua sfera di
Archimede mentre una tromba d’aria di nevischio lo sollevava da
terra. “Ehi!” gridò. “Ehi! Lasciami andare!” Piper corse verso di lui,
ma una voce nella tempesta disse, “Oh, sì, Leo Valdez. Ti lascerò
andare permanentemente.” Leo venne sparato verso il cielo, come
se fosse stato lanciato con una catapulta. Scomparve tra le nuvole.
“No!” Piper sollevò il suo pugnale, ma non c’era nulla da attaccare.
Guardò disperatamente verso le scale, sperando di vedere i suoi
amici arrivare in suo soccorso, ma un blocco di ghiaccio aveva
sigillato il boccaporto. L’intero ponte inferiore poteva essere
completamente congelato. Aveva bisogno di un’arma migliore con la
quale combattere, qualcosa di più della sua voce, uno stupido
pugnale che prevedeva il futuro, e una cornucopia che sparava
prosciutto e frutta fresca. Si chiese se avesse potuto raggiungere le
baliste. Poi i suoi nemici apparvero, e si rese conto che nessuna
arma sarebbe stata sufficiente. Al centro della nave c’era una
ragazza con un vestito fluente di seta bianca, la sua chioma di
capelli neri tirata indietro da un cerchietto di diamanti. I suoi occhi
erano color caffè, ma senza il suo calore. Dietro di lei c’erano i suoi
fratelli, due giovani uomini con ali viola, disordinati capelli bianchi, e
spade seghettate di bronzo Celeste. “E’ così’ bello vederti di nuovo,
ma chère,” disse Chione, la dea della neve. “E’ tempo di fare una
riunione molto fredda.”
43
PIPER
PIPER
Passò tra i due Boreadi, che era come camminare in un freezer per
la carne. L’aria intorno a loro era così fredda, che le bruciava la
faccia. Si sentiva come se stesse respirando neve pura. Piper cercò
di non guardare il corpo congelato di Jason mentre gli passava
accanto. Cercò di non pensare ai suoi amici sotto ponte, o a Leo che
era stato sparato nel cielo verso un luogo senza ritorno. E più di tutti
cercò di non pensare ai Boreadi e alla dea della neve, che la
stavano seguendo. Fissò i suoi occhi sulla polena. La nave
dondolava sotto i suoi piedi. Un’unica folata d’aria estiva attraversò il
freddo, e Piper la respirò, prendendola come un buon auspicio. Era
ancora estate là fuori. Chione e i suoi fratelli non appartenevano a
quel posto. Piper sapeva che non poteva vincere una lotta diretta
contro Chione e due tipi alati con le spade. Non era intelligente come
Annabeth, o brava a risolvere i problemi come Leo. Ma aveva dei
poteri. E aveva intenzione di usarli. La scorsa notte, durante la sua
chiacchierata con Hazel, Piper si era accorta che il segreto della
lingua ammaliatrice era molto simile a usare la Foschia. In passato,
Piper aveva avuto un sacco di problemi nel far funzionare il suo
incanto, perché aveva sempre ordinato ai suoi nemici di fare quello
che lei voleva. Urlava Non ucciderci quando il desiderio più profondo
del mostro era proprio quello di ucciderli. Metteva tutto il suo potere
nella sua voce e sperava che fosse abbastanza per sopraffare la
volontà del suo nemico. A volte funzionava, ma era spossante e non
ci si poteva affidare in modo sicuro. Afrodite non usava lo scontro
frontale. Afrodite usava la sottigliezza, la scaltrezza e l’incanto. Piper
aveva deciso che non si sarebbe concentrata sul far fare alle
persone quello che lei voleva. Doveva spingerli a fare le cose che
loro volevano. Una teoria fantastica, se solo fosse riuscita a farla
funzionare… Si fermò all’albero di trinchetto e si girò verso Chione.
“Wow, mi sono appena resa conto del perché ci odi così tanto,”
disse, riempiendo la sua voce di pietà. “Ti abbiamo completamente
umiliata a Sonoma.” Gli occhi di Chione luccicarono come un caffè
espresso ghiacciato. Lanciò un’occhiata nervosa ai suoi fratelli. Piper
rise. “Oh, non gliel’hai raccontato!” indovinò. “Non ti biasimo. Avevi
un re dei giganti dalla tua parte, più un esercito di lupi e di Figli della
Terra, e non sei comunque riuscita a sconfiggerci.” “Silenzio!” sibilò
la dea. L’aria si fece nebbiosa. Piper sentì il ghiaccio che le si
solidificava sulle sopracciglia e che le congelava le orecchie, ma
finse un sorriso. “Come vuoi.” Fece l’occhiolino a Zete. “Ma è stato
piuttosto divertente.” “La bella ragazza sta mentendo,” disse Zete.
“Chione non è stata sconfitta alla Casa del Lupo. Ha detto che è
stato un… ah, qual era il termine? Una ritirata tattica.” “Parata?”
chiese Cal. “Le parate sono belle.” Piper diede una spinta giocosa al
petto del ragazzo grosso. “No, Cal. Intende dire che tua sorella è
scappata.” “Non sono scappata!” gridò Chione. “Come ti aveva
definita Era?” rifletté Piper. “Giusto, una dea di terza categoria!”
Scoppiò nuovamente a ridere, e il suo divertimento era così genuino,
che anche Zete e Cal iniziarono a ridere. “Questa è très bon!” disse
Zete. “Una dea di terza di categoria. Ha!” “Ha!” disse Cal. “Sorella
scappa! Ha!” Il vestito bianco di Chione iniziò a fumare. Del ghiaccio
si formò sulle bocche di Zete e Cal, imbavagliandoli. “Mostraci
questo tuo segreto, Piper McLean,” ringhiò Chione. “Poi prega che ti
lasci su questa nave tutta intera. Se ci stai prendendo in giro, ti
mostrerò gli orrori del congelamento da ghiaccio. Dubito che Zete ti
vorrà ancora se non hai più dita delle mani o dei piedi… magari
senza naso o orecchie.” Zete e Cal sputarono i loro tappi di ghiaccio.
“La ragazza carina sarebbe meno carina senza un naso,” ammise
Zete. Piper aveva visto delle immagini di persone vittime del
congelamento. La minaccia la terrorizzava, ma non lo lasciò vedere.
“Andiamo, allora.” Fece strada verso la prua, mormorando una delle
canzoni preferite di suo padre, “Summertime”. Quando raggiunse la
polena, mise la mano sul collo di Festus. Le sue scaglie di bronzo
erano fredde. Non c’era nessun ronzio di macchinari. Gli occhi di
rubino erano opachi e scuri. “Ti ricordi del nostro drago?” chiese
Piper. Chione fece un verso di scherno. “Questo non può essere il
tuo segreto. Il drago è rotto. Il suo fuoco è andato.” “Bè, sì…” Piper
accarezzò il muso del drago. Non aveva i poteri di Leo per far
ruotare gli ingranaggi o attivare i circuiti. Non riusciva ad avvertire
nulla sul funzionamento di una macchina. Tutto quello che poteva
fare era parlare con il cuore e dire al drago quello che lui voleva
sentire più di ogni altra cosa. “Ma Festus è più di una macchina. Lui
è una creatura vivente.” “Ridicolo,” sputò la dea. “Zete, Cal, riunite i
semidei ghiacciati sottocoperta. Poi romperemo la sfera dei venti.”
“Potreste farlo, ragazzi,” concordò Piper. “Ma poi non vedreste
Chione che viene umiliata. So che vi piacerebbe.” I Boreadi
esitarono. “Hockey?” chiese Cal. “Quasi altrettanto bello,” gli
assicurò Piper. “Avete combattuto al fianco di Jason e gli Argonauti,
giusto? Su una nave come questa, la prima Argo.” “Sì,” annuì Zete.
“L’Argo. Molto simile a questa, ma non avevamo un drago.” “Non
ascoltatela!” scattò Chione. Piper avvertì del ghiaccio che le si
formava sulle labbra. “Puoi zittirmi,” disse velocemente. “Ma vuoi
sapere il mio potere segreto, come distruggerò te, Gea, e i giganti.”
L’odio ribolliva negli occhi di Chione, ma bloccò il ghiaccio. “Tu…
non… hai… poteri,” insistette. “Parli come una dea di terza
categoria,” disse Piper. “Una che non viene mai presa seriamente,
che vuole sempre altro potere.” Si voltò verso Festus e fece scorrere
la mano dietro alle due orecchie di metallo. “Tu sei un buon amico
Festus. Nessuno può disattivarti completamente. Tu sei più di una
macchina. Chione non lo capisce.” Si voltò verso i Boreadi. “Non
stima neanche voi, sapete. Crede di potervi comandare perché voi
siete semidei, non divinità complete. Non capisce che voi siete una
squadra potente.” “Una squadra,” grugnì Cal. “Come i Ca-na-di-ens.”
Dovette lottare con la parola dal momento che aveva più di due
sillabe. Fece un grosso sorriso e apparve molto compiaciuto di se
stesso. “Esattamente,” disse Piper. “Proprio come una squadra di
hockey. L’intero è più forte delle parti.” “Come una pizza,” aggiunse
Cal. Piper rise. “Tu sei intelligente, Cal! Persino io ti ho
sottovalutato.” “Adesso, aspetta un attimo,” protestò Zete. “Anche io
sono intelligente. E anche bello.” “Molto intelligente,” annuì Piper,
ignorando la parte del bello. “Quindi posa la bomba dei venti, e
guarda Chione che viene umiliata.” Zete fece un grosso sorriso. Si
accucciò e fece rotolare la sfera di ghiaccio lungo il ponte. “Stupido!”
urlò Chione. Prima che la dea potesse inseguire la sfera, Piper gridò,
“La nostra arma segreta, Chione! Noi non siamo solo un mucchio di
semidei. Noi siamo una squadra. Proprio come Festus non è solo un
insieme di parti. Lui è vivo. E’ mio amico. E quando i suoi amici si
trovano nei guai, soprattutto Leo, può svegliarsi da solo.” Incanalò
tutta la sua sicurezza nella voce, tutto il suo amore per il drago di
metallo e tutto quello che aveva fatto per loro. La parte razionale di
lei sapeva che era una situazione senza speranza. Come si poteva
attivare una macchina con le emozioni? Ma Afrodite non era
razionale. Lei governava attraverso le emozioni. Lei era la più antica
e più primordiale degli dei dell’Olimpo, nata dal sangue di Urano
mescolato al mare. Il suo potere era più antico di quello di Efesto, o
di Atena, o persino di Zeus. Per un momento orribile, non accadde
nulla. Chione la fissò con rabbia. I Boreadi iniziarono a risvegliarsi
dalla loro confusione, con espressioni deluse. “Lasciate stare il
nostro piano,” ringhiò Chione. “Uccidetela!” Mentre i Boreadi
sollevavano le loro spade, la pelle di metallo del drago cominciò a
scaldarsi sotto la mano di Piper. Lei si spostò dalla traiettoria,
placcando la dea della neve, mentre Festus voltava la sua testa di
centottanta gradi e colpiva in pieno i Boreadi, vaporizzandoli al loro
posto. Per qualche ragione, la spada di Zete venne risparmiata.
Cadde sul ponte, ancora fumante. Piper si rimise velocemente in
piedi. Vide la sfera di vento alla base dell’albero di trinchetto. Corse
verso di essa, ma prima che potesse avvicinarsi, Chione si
materializzò davanti a lei in un turbinio di ghiaccio. La sua pelle
brillava abbastanza luminosa da accecarla. “Ragazzina miserabile,”
sibilò. “Credi di poter sconfiggere me, una dea?” Alle spalle di Piper,
Festus ruggiva e fumava, ma Piper sapeva che non poteva sputare
nuovamente il fuoco senza colpire anche lei. A circa sei metri alle
spalle della dea, la sfera di ghiaccio iniziò a creparsi e fischiare.
Piper era a corto di tempo per le sottigliezze. Gridò e sollevò il suo
pugnale, attaccando la dea. Chione le afferrò il polso. Il ghiaccio di
diffuse lungo il braccio di Piper. La lama di Katoptris divenne bianca.
Il volto della dea era a soli dieci centimetri di distanza dal suo.
Chione sorrise, sapendo di aver vinto. “Una figlia di Afrodite,” la
rimproverò. “Non sei nulla.” Festus cigolò di nuovo. Piper poteva
giurare che stava cercando di urlare degli incoraggiamenti.
Improvvisamente il suo petto si riscaldò, non con rabbia o paura, ma
con l’amore che provava per quel drago; e per Jason, che dipendeva
da lei; e per i suoi amici intrappolati di sotto; e per Leo, che era
perso e avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Forse l’amore non era
all’altezza del ghiaccio… ma Piper l’aveva usato per svegliare un
drago di metallo. I mortali compivano continuamente degli atti super
eroici in nome dell’amore. Le madri sollevavano le macchine per
salvare i loro figli. E Piper era più di una mortale. Lei era un semidio.
Un eroe. Il ghiaccio sulla sua lama si sciolse. Il suo braccio fumò
sotto la presa di Chione. “Continui a sottovalutarmi,” disse Piper alla
dea. “Devi davvero lavorare sulla cosa.” L’espressione compiaciuta
di Chione vacillò mentre Piper abbassava con sicurezza il pugnale.
La lama toccò il petto di Chione, e la dea esplose in una tormenta in
miniatura. Piper crollò, stordita dal freddo. Sentiva Festus che
cigolava e ronzava, le campane d’allarme, di nuovo in funzione, che
suonavano. La bomba. Piper lottò per alzarsi in piedi. La sfera era a
tre metri di distanza, stava ruotando su se stessa e rilasciando fumo
mentre i venti al suo interno iniziarono ad agitarsi. Piper si gettò
verso di essa. Le sue dita si chiusero intorno alla bomba proprio
mentre il ghiaccio si frantumava e i venti esplodevano.
45
PERCY
PERCY
PERCY
PERCY
LEO
Per come la vedeva Leo, aveva passato più tempo a precipitare che
a volare sulla sua nave. Se ci fosse stata una carta premio per chi
precipitava molto spesso, lui avrebbe avuto, tipo, il doppio livello
platino. Riacquistò conoscenza mentre stava andando in caduta
libera tra le nuvole. Aveva un ricordo confuso di Chione che lo
derideva appena prima di essere lanciato nel cielo. Non l’aveva
davvero vista, ma non si sarebbe mai potuto dimenticare la voce di
quella strega della neve. Non aveva idea per quanto tempo avesse
acquistato altezza, ma ad un certo punto doveva essere svenuto a
causa del freddo e della mancanza di ossigeno. Adesso stava
scendendo, diretto verso il suo schianto più grande di sempre. Le
nuvole si aprivano intorno a lui. Vide il mare luccicante molto, molto
più in basso. Nessun segno dell’Argo II. Nessun segno di terra,
familiare e non, eccetto una minuscola isola all’orizzonte. Leo non
sapeva volare. Aveva al massimo un paio di minuti prima di colpire
l’acqua e spiaccicarsi. Decise che non gli piaceva quel finale per
l’Epica Ballata di Leo. Stava ancora stringendo in mano la sfera di
Archimede, cosa che non lo sorprese. Privo di sensi o meno, non
avrebbe mai lasciato andare l’oggetto più prezioso che aveva. Con
qualche piccola manovra, riuscì a tirare fuori dello scotch dalla sua
cintura degli attrezzi e a fissarsi la sfera sul petto. Quello lo fece
assomigliare a un Iron Man con una tuta economica, ma almeno
adesso aveva le mani libere. Si mise al lavoro, agendo furiosamente
con la sfera, tirando fuori dalla sua cintura magica qualsiasi cosa che
pensava avrebbe potuto essergli d’aiuto: una tenda, degli estensori
di metallo, qualche molla e piccoli occhielli di ferro. Lavorare mentre
si precipitava era quasi impossibile. Il vento gli ruggiva nelle
orecchie. Continuava a scalzargli attrezzi, viti, e tessuto dalle mani,
ma alla fine riuscì a costruire un’intelaiatura improvvisata. Aprì uno
sportelletto nella sfera, tirò fuori due cavi, e li collegò alla sua
struttura. Quanto gli restava prima di colpire l’acqua? Forse un
minuto? Girò i quadranti di controllo della sfera, e questa si azionò
ronzando. Altri cavi di bronzo uscirono dalla sfera, avvertendo
intuitivamente ciò di cui Leo aveva bisogno. Delle funi si avvolsero al
tessuto da tenda. La struttura iniziò a spandersi autonomamente.
Leo tirò fuori una lattina di cherosene e un tubo di gomma e li
collegò al nuovo assetato motore che la sfera lo stava aiutando ad
assemblare. Alla fine si costruì una briglia e la spostò così che la
struttura ad X fosse legata sulla sua schiena. Il mare si stava
avvicinando sempre di più, una distesa luccicante di morte. Emise
un grido di sfida e premette l’interruttore della sfera. Il motore entrò
incerto in azione. I rotori improvvisati ruotarono. Le lame della tela
iniziarono a girare, ma troppo lentamente. La testa di Leo era
indirizzata dritta verso il mare, a circa trenta secondi dall’impatto.
Almeno non c’era nessuno in giro, pensò amaramente, o sarei
diventato una barzelletta di semidei per l’eternità. Cosa è stata
l’ultima cosa che è passata per la testa di Leo? Il Mediterraneo.
Improvvisamente la sfera si fece più calda contro il suo petto. Le
lame iniziarono a girare più velocemente, il motore tossì, e Leo si
inclinò lateralmente, muovendosi contro l’aria. “SI’!” gridò. Aveva
appena creato con successo l’elicottero personale più pericoloso del
mondo. Si diresse sparato verso l’isola in lontananza, ma stava
ancora precipitando troppo velocemente. Le lame tremarono. La tela
gemette. La spiaggia si trovava a sole poche centinaia di metri di
distanza quando la sfera si fece bollente come lava e l’elicottero
esplose, sparando fiamme in tutte le direzioni. Se non fosse stato
immune al fuoco, Leo sarebbe diventato un tizzone ardente. Per
come si rivelò in seguito, l’esplosione a mezz’aria probabilmente gli
salvò la vita. Lo scoppio fece volare Leo di lato mentre la massa in
fiamme del suo congegno si schiantò sulla riva a velocità massima
con un enorme KA-BOOM! Leo aprì gli occhi, stupito di essere vivo.
Si trovava all’interno di un cratere grande come una vasca da bagno
scavato nella sabbia. A qualche metro di distanza, una colonna di
denso fumo nero si alzava nel cielo da un cratere molto più grande.
La spiaggia circostante era cosparsa da parti più piccole del relitto.
“La mia sfera.” Leo si toccò il petto. La sfera non si trovava là. Il
nastro adesivo e la briglia si erano disintegrati. Si alzò con fatica.
Non sembrava avere nessun osso rotto, il che era una buona cosa;
ma più che altro era preoccupato per la sua sfera di Archimede. Se
aveva distrutto il suo artefatto inestimabile per creare un elicottero in
fiamme che era durato trenta secondi, sarebbe andato a cercare
quella stupida dea della neve di Chione e l’avrebbe colpita in testa
con una chiave inglese. Avanzò incerto lungo la spiaggia,
chiedendosi perché non ci fossero turisti o hotel o barche in vista.
L’isola sembrava perfetta per un resort, con l’acqua azzurra e la
soffice sabbia bianca. Forse non si trovava sulle mappe. Esistevano
ancora delle isole non scoperte nel mondo? Forse Chione l’aveva
direttamente sparato fuori dal Mediterraneo. Per quanto ne sapeva,
poteva trovarsi a Bora Bora. Il cratere più grande era profondo circa
due metri e mezzo. Sul fondo, le lame dell’elicottero stavano ancora
girando. Il motore eruttava fumo. I rotori gracchiavano come rane ma
accidenti, era piuttosto notevole per essere un lavoro fatto di fretta.
L’elicottero si era apparentemente schiantato su qualcosa. Il cratere
era cosparso di mobili di legno rotti, piatti di porcellana frantumati,
qualche calice mezzo fuso, e dei tovagliolini di lino bruciati. Leo non
sapeva perché tutte quelle cose eleganti si trovassero su una
spiaggia, ma almeno ciò voleva dire che quel luogo era abitato,
dopotutto. Alla fine individuò la sfera di Archimede, al centro del
relitto, fumante e bruciacchiata ma ancora intatta, dalla quale
provenivano dei preoccupanti rumori scattanti. “Sfera!” gridò. “Vieni
da papà!” Scivolò sul fondo del cratere e raccolse la sfera. Crollò, si
mise seduto a gambe incrociate, e si cullò il meccanismo nelle mani.
La superficie di bronzo era bollente, ma a Leo non importava. Era
ancora intera, il che voleva dire che poteva ancora usarla. Adesso,
se solo fosse riuscito a capire dove si trovava, e come tornare dai
suoi amici… Stava facendo una lista mentale degli attrezzi che gli
sarebbero potuti servire quando la voce di una ragazza lo interruppe:
“Cosa stai facendo? Hai fatto esplodere il mio tavolo da pranzo!”
Immediatamente Leo pensò: Uh-oh. Aveva incontrato numerose
divinità, ma la ragazza che lo stava fissando furiosa dal bordo del
cratere aveva davvero l’aspetto di una divinità. Indossava un vestito
bianco in stile greco senza maniche, con una cintura intrecciata
d’oro. I suoi capelli erano lunghi, lisci, e di un castano dorato, quasi
lo stesso color cannella di Hazel, ma le somiglianze con Hazel
finivano lì. Il volto della ragazza era bianco latte, con scuri occhi a
mandorla e labbra corrucciate. Aveva l’aspetto di una quindicenne,
circa l’età di Leo, e, certo, era carina; ma con quell’espressione
arrabbiata sulla faccia ricordava a Leo tutte le ragazze popolari di
ogni scuola che aveva frequentato, quelle che si prendevano gioco
di lui, spettegolavano un sacco, credevano di essere così superiori,
e praticamente facevano tutto quello che potevano per rendere la
sua vita miserabile. Leo la trovò istantaneamente antipatica. “Oh, mi
dispiace!” disse. “Sono appena caduto dal cielo, ho costruito un
elicottero a mezz’aria, ho preso fuoco mentre precipitavo, mi sono
schiantato a terra, e sono a malapena sopravvissuto. Ma certo,
parliamo del tuo tavolo da pranzo!” Afferrò da terra un calice mezzo
fuso. “Chi mette un tavolo da pranzo sulla spiaggia dove dei semidei
innocenti possono schiantarsi? Chi lo fa?” La ragazza strinse i pugni.
Leo era abbastanza sicuro che sarebbe scesa nel cratere e lo
avrebbe colpito in faccia. Invece alzò gli occhi al cielo. “DAVVERO?”
urlò verso il blu vuoto. “Volete peggiorare ancora di più la mia
maledizione? Zeus! Efesto! Hermes! Non provate vergogna?” “Uh…”
Leo notò che aveva appena scelto tre divinità da incolpare e che una
di queste era suo padre. Pensò che non fosse un buon segno.
“Dubito che siano in ascolto. Sai, con tutta la faccenda delle
personalità spaccate…“ “Mostratevi!” urlò la ragazza contro il cielo,
ignorando completamente Leo. “Non è già brutto abbastanza che io
sia esiliata? Non è già brutto abbastanza che portate via i pochi eroi
buoni che ho il permesso di incontrare? Credete che sia divertente
mandarmi questo, questo omuncolo carbonizzato per rovinare la mia
tranquillità? Questo NON E’ DIVERTENTE! Riprendetelo!” “Ehi,
Raggio di Sole,” disse Leo. “Sono proprio qui, sai.” Lei ringhiò come
un animale mezzo all’angolo. “Non chiamarmi Raggio di Sole! Esci
da quel buco e vieni con me adesso così posso mandarti via dalla
mia isola!” “Bè, visto che l’hai chiesto così gentilmente…” Leo non
sapeva per cosa la ragazza folle fosse così infuriata, ma non gli
importava davvero. Se poteva aiutarlo a lasciare l’isola, la cosa gli
andava perfettamente bene. Strinse la sua sfera bruciata e uscì dal
cratere. Quando raggiunse la superficie, la ragazza stava già
marciando verso la costa. Lui corse per raggiungerla. Lei fece un
verso di disgusto verso il relitto fumante. “Questa era una spiaggia
incorrotta! Guardala adesso.” “Sì, colpa mia,” borbottò Leo. “Avrei
dovuto schiantarmi su una delle altre isole. Oh, aspetta, non ce ne
sono altre!” Lei ringhiò e continuò a camminare lungo il bordo
dell’acqua. Leo avvertì un odore di cannella, forse era il suo
profumo? Non che gli importasse. I suoi capelli le oscillavano sulla
schiena con un movimento che incantava, cosa della quale,
ovviamente, non gli importava allo stesso modo. Studiò il mare.
Proprio come aveva visto durante la sua caduta, non c’erano terre o
navi fino all’orizzonte. Guardando verso l’entroterra, vide delle colline
erbose punteggiate da alberi. Un sentiero tagliava attraverso un
boschetto di cedri. Leo si chiese dove portasse: probabilmente al
covo segreto della ragazza, dove arrostiva i suoi nemici così li
poteva mangiare sul suo tavolo da pranzo sulla spiaggia. Era così
preso da quell’idea che non si accorse quando la ragazza si fermò.
Le andò a sbattere contro. “Bah!” Lei si voltò e gli afferrò le braccia
per evitare di cadere sul bagnasciuga. Le sue mani erano forti, come
se fosse abituata a fare dei lavori manuali. Al campo, le ragazze
della cabina di Efesto avevano delle mani forti come quelle, ma lei
non aveva l’aspetto di una figlia di Efesto. Lo fissò furiosa, con gli
scuri occhi a mandorla a soli pochi centimetri di distanza dai suoi. Il
suo odore di cannella gli ricordava l’appartamento della sua abeula.
Cavoli, non aveva ripensato a quel posto da anni. La ragazza lo
spinse via. “D’accordo. Questo punto va bene. Adesso dimmi che
vuoi andartene.” “Cosa?” La mente di Leo era ancora confusa a
causa dello schianto. Non era certo di aver sentito bene. “Vuoi
andartene?” chiese lei. “Sicuramente avrai un posto dove andare!”
“Uh… sì. I miei amici sono nei guai. Devo tornare alla mia nave e…“
“Bene,” tagliò corto lei. “Devi solo dire, Voglio lasciare Ogigia.” “Uh,
okay.” Leo non sapeva il perché, ma il suo tono lo feriva… il che era
stupido, dal momento che non gli importava quello che pensava
quella ragazza. “Voglio lasciare, quello che hai detto tu.” “O-gì-già.”
La ragazza lo pronunciò lentamente, come se Leo avesse cinque
anni. “Voglio lasciare O-gì-già,” disse lui. Lei lasciò andare un
sospiro, chiaramente sollevata. “Bene. Tra un attimo, dovrebbe
apparire una zattera magica. Ti porterà ovunque tu voglia andare.”
“Chi sei tu?” Sembrava sul punto di rispondere ma si fermò. “Non
importa. Te ne andrai presto. Sei ovviamente uno sbaglio.” Questa
era cattiva, pensò Leo. Aveva passato abbastanza tempo a pensare
di essere un errore, come semidio, come parte di quell’impresa,
nella vita in generale. Non aveva bisogno di una folle dea incontrata
per caso che rinforzasse l’idea. Si ricordò di una leggenda greca che
riguardava una ragazza su un’isola… forse ne aveva parlato uno dei
suoi amici? Non importava. Bastava solo che lo lasciasse andare.
“Arriverà a momenti…” La ragazza fissò l’acqua. Non apparve
nessuna zattera magica. “Forse è bloccata nel traffico,” disse Leo.
“E’ sbagliato.” Lei fissò il cielo. “E’ completamente sbagliato!”
“Quindi… vai con il piano B?” chiese Leo. “Hai un cellulare,
oppure…“ “Argh!” La ragazza si voltò e si diresse verso l’entroterra.
Quando raggiunse il sentiero, si lanciò verso il boschetto di alberi e
scomparve. “Okay,” disse Leo. “Oppure puoi semplicemente
scappare via.” Dalla tasca della cintura degli attrezzi tirò fuori un po’
di corda e un moschettone, poi si legò la sfera di Archimede alla
cintura. Guardò verso il mare. Ancora nessuna zattera magica.
Sarebbe potuto rimanere lì e aspettare, ma aveva fame, sete ed era
stanco. Era abbastanza provato dalla sua caduta. Non voleva
seguire quella matta, non importava che buon odore avesse. D’altra
parte, non aveva nessun altro posto dove andare. La ragazza aveva
un tavolo da pranzo, quindi probabilmente aveva anche del cibo. E
sembrava trovare la presenza di Leo irritante. “Irritarla è un
vantaggio in più,” decise. La seguì tra le colline.
50
LEO
“Santo Efesto,” disse Leo. Il sentiero si apriva nel giardino più bello
che Leo avesse mai visto. Non che avesse passato un sacco di
tempo nei giardini, ma accidenti. Sulla sinistra c’erano un frutteto e
un vigneto, alberi di pesco con frutti rosso-dorati che avevano un
odore fantastico al sole caldo, vigne diligentemente potate straripanti
di grappoli di uva, pergolati fatti di gelsomini in fiore, e un sacco di
altre piante delle quali Leo non sapeva il nome. Sulla destra c’erano
delle ordinate file di verdure ed erbe, disposte come i raggi di una
ruota intorno a una grande fontana luccicante, dove dei satiri di
bronzo sputavano acqua in una bacinella centrale. All’estremità del
giardino, dove finiva il sentiero, una caverna si apriva nel fianco di
una collina erbosa. Paragonata al Bunker Nove del campo, l’entrata
era minuscola, ma era notevole a modo suo. Su entrambi i lati, delle
rocce cristalline erano state scavate nella forma di colonne greche.
Le estremità superiori ospitavano un’asse di bronzo che reggeva
delle tende bianche di seta. Il naso di Leo venne assalito da buoni
odori, cedro, ginepro, gelsomino, pesche ed erba fresca. L’aroma
che veniva dalla caverna catturò più di tutto la sua attenzione, come
spezzatino di manzo sul fuoco. Iniziò a dirigersi verso l’entrata.
Seriamente, come poteva non farlo? Si fermò quando notò la
ragazza. Era inginocchiata nel suo giardino di verdure, e dava la
schiena a Leo. Borbottava qualcosa tra se e se mentre scavava
furiosamente con una paletta. Leo le si avvicinò lateralmente così
che lei potesse vederlo. Non se la sentiva di prenderla di sorpresa
quando era armata con un affilato attrezzo da giardino. Lei
continuava a imprecare in greco antico e a pugnalare la terra. Aveva
macchie di terra sulle braccia, sulla faccia e sul vestito bianco, ma
non sembrava importarle. Leo apprezzava la cosa. Aveva un aspetto
migliore con un po’ di terra, assomigliava meno a una reginetta di
bellezza e più a una persona alla quale piaceva sporcarsi le mani.
“Credo che abbia punito quella terra abbastanza,” tentò lui. Lei lo
guardò imbronciata, con gli occhi rossi e lucidi. “Va via.” “Stai
piangendo,” disse lui, cosa che era stupidamente ovvia; ma vederla
in quel modo tolse il vento alle lame del suo elicottero, tanto per dire.
Era difficile rimanere arrabbiati con qualcuno che piangeva. “Non
sono affari tuoi,” borbottò lei. “E’ un’isola grande. Trova… trovati un
posto tuo. Lasciami da sola.” Agitò la mano senza interesse,
indicando verso sud. “Magari puoi andare da quella parte.” “Quindi,
nessuna zattera magica,” disse Leo. “Non c’è un altro modo per
andarsene?” “A quanto pare no!” “Cosa dovrei fare, allora? Sedermi
sulla sabbia finché non muoio?” “Quello andrebbe bene…” La
ragazza lanciò per terra la sua paletta e imprecò verso il cielo. “Solo
che immagino che lui non possa morire qui, non è così? Zeus! Non è
divertente!” Non può morire qui? “Frena.” La testa di Leo girava
come un’elica. Non riusciva a tradurre perfettamente quello che
stava dicendo quella ragazza, come quando ascoltava gli spagnoli o
i sudamericani parlare spagnolo. Sì, riusciva a capirli, più o meno;
ma suonava così diverso, che sembrava quasi un’altra lingua. “Mi
servirà qualche altra informazione,” disse. “Non vuoi avermi tra i
piedi, va bene. Nemmeno io voglio essere qui. Ma non andrò in un
angolo a morire. Devo andare via da quest’isola. Ci deve essere un
modo. Ogni problema può essere risolto.” Lei fece una risata amara.
“Non hai vissuto molto, se lo credi ancora.” Il tono con cui lo disse gli
mandò un brivido lungo la schiena. Sembrava avere la sua stessa
età, ma si chiese quanti anni avesse davvero. “Hai detto qualcosa
riguardo una maledizione,” la incitò. Lei flesse le dita, come se si
stesse allenando sulla sua tecnica di strangolamento. “Sì. Non
posso lasciare Ogigia. Mio padre, Atlante, combatté contro gli dei, ed
io lo sostenni.” “Atlante,” disse Leo. “Del tipo Atlante il Titano?” La
ragazza mandò gli occhi al cielo. “Sì, impossibile, piccolo…”
Qualsiasi cosa stesse per dire, se la rimangiò. “Fui imprigionata qui,
dove non potevo creare guai agli dei dell’Olimpo. Circa un anno fa,
dopo la Seconda Guerra dei Titani, gli dei giurarono di perdonare i
loro nemici e di offrire l’amnistia. Apparentemente Percy gli fece
promettere…“ “Percy,” disse Leo. “Percy Jackson?” Lei chiuse gli
occhi. Una lacrima le corse sulla guancia. Oh, pensò Leo. “Percy è
venuto qui,” disse. Lei scavò le dita nel terreno. “Pensavo… pensavo
che sarei stata liberata. Ho osato sperare… ma sono ancora qui.”
Adesso Leo si ricordava. La storia doveva essere un segreto, ma
ovviamente ciò voleva dire che si era diffusa come un incendio in un
campo. Percy l’aveva detto ad Annabeth. Mesi più tardi, quando
Percy era sparito, Annabeth l’aveva detto a Piper. Piper l’aveva detto
a Jason… Percy aveva parlato di essere stato su quell’isola. Aveva
incontrato una dea che si era presa un’enorme cotta per lui e voleva
che restasse, ma alla fine lo aveva lasciato andare. “Tu sei quella
ragazza,” disse Leo. “Quella con il nome da musica Caraibica.” I suoi
occhi luccicarono con sguardo assassino. “Musica Caraibica.” “Sì.
Reggae?” Leo scosse la testa. “Merengue? Aspetta, ci sono.”
Schioccò le dita. “Calypso! Ma Percy ha detto che eri fantastica. Ha
detto che eri tutta dolce e disponibile, non, um…” Lei si alzò di
scatto. “Sì?” “Uh, niente,” disse Leo. “Tu saresti dolce,” chiese, “se
gli dei si dimenticassero della loro promessa di lasciarti andare? Tu
saresti dolce se ti prendessero in giro mandandoti un altro eroe, ma
un eroe che è come… come te?” “E’ una domanda a trabocchetto?”
“Di Immortales!” Si voltò e marciò verso la sua grotta. “Ehi!” Leo le
corse dietro. Quando entrò, perse il filo dei pensieri. Le pareti erano
fatte di pezzi di cristallo multicolore. Delle tende bianche dividevano
la caverna in stanze diverse con comodi cuscini, tappeti intrecciati e
vassoi di frutta fresca. Intravide un’arpa in un angolo, un telaio in un
altro, e una grossa pentola dove stava bollendo lo spezzatino,
riempiendo la caverna con un profumo delizioso. La cosa più strana
di tutte? Le faccende si stavano facendo da sole. Degli asciugamani
volavano in aria, piegandosi e impilandosi in pile ordinate. Le posate
si lavavano da sole in un lavandino di rame. La scena ricordava a
Leo gli spiriti del vento invisibili che gli avevano servito il pranzo al
Campo Giove. Calypso si trovava accanto a un lavabo, intenta a
levarsi la terra dalle braccia. Guardò imbronciata verso Leo, ma non
gli urlò di andarsene. Sembrava che stesse perdendo l’energia per
rimanere arrabbiata. Leo si schiarì la gola. Se voleva avere qualche
tipo di aiuto da quella ragazza, doveva essere gentile. “Quindi…
capisco perché sei arrabbiata. Probabilmente non vorrai vedere mai
più un semidio. Immagino che non sia stato carino quando, uh,
Percy ti ha lasciata…“ “Lui è stato solo l’ultimo,” ringhiò. “Prima di lui,
ci fu quel pirata Drake. E prima di lui Odisseo. Erano tutti uguali! Gli
dei mi mandano gli eroi più grandi, coloro dei quali non posso fare a
meno di…” “Ti innamori di loro,” indovinò Leo. “E poi loro ti lasciano.”
Il suo mento tremò. “Questa è la mia maledizione. Avevo sperato
che ormai ne sarei stata liberata, ma eccomi qui, ancora bloccata su
Ogigia dopo tremila anni.” “Tremila.” La bocca di Leo stava
formicolando, come se avesse appena mangiato le caramelle
frizzanti. “Uh, hai un bell’aspetto per avere tremila anni.” “E
adesso… l’insulto peggiore di tutti. Gli dei si prendono gioco di me
mandandomi te.” La rabbia ribollì nella pancia di Leo. Sì, tipico. Se
Jason fosse stato lì, Calypso si sarebbe immediatamente
innamorata di lui. Lo avrebbe implorato di rimanere, ma lui avrebbe
fatto tutto il nobile sul dover tornare alle sue responsabilità, e
avrebbe lasciato Calypso con il cuore spezzato. Quella zattera
magica per lui sarebbe arrivata di sicuro. Ma Leo? Lui era l’ospite
irritante del quale non poteva sbarazzarsi. Non si sarebbe mai
innamorata di lui, perché lei era totalmente fuori dalla sua portata.
Non che la cosa gli importasse. Non era comunque il suo tipo. Era
fin troppo seccante, e bella, e, bè, non importava. “Bene,” disse. “Ti
lascerò da sola. Mi costruirò qualcosa per conto mio e me ne andrò
da questa stupida isola senza il tuo aiuto.” Lei scosse la testa
tristemente. “Non capisci, non è vero? Gli dei si stanno prendendo
gioco di tutti e due. Se la zattera non compare, ciò vuol dire che
hanno chiuso Ogigia. Sei bloccato qui proprio come me. Non potrai
mai andartene.”
51
LEO
LEO
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
Dopo la loro caduta nel Tartaro, saltare per cento metri verso il
Palazzo di Notte sarebbe dovuta sembrare una cosa veloce. Invece,
il cuore di Annabeth sembrò rallentare. Tra i vari battiti del suo cuore
ebbe tempo a sufficienza per scrivere il suo stesso necrologio.
Annabeth Chase, morta all’età di 17 anni. BA-BOOM. (Assumendo
che il suo compleanno, il 12 luglio, fosse passato mentre si trovava
nel Tartaro; ma onestamente, non ne aveva idea.) BA-BOOM. Morta
di ferite gravi mentre saltava come un’idiota nell’abisso del Caos e si
spiaccicava sul pavimento della sala d’ingresso del palazzo di Notte.
BA-BOOM. Sopravvissuta a suo padre, la sua matrigna, e due
fratellastri che la conoscevano a malapena. BA-BOOM. Al posto dei
fiori, si prega di inviare delle donazioni al Campo Mezzosangue,
assumendo che Gea non l’abbia già distrutto. I piedi colpirono il
terreno solido. Le gambe le esplosero di dolore, ma inciampò in
avanti e rimase in piedi correndo, trainando Percy dietro di lei. Sopra
di loro, nel buio, Notte e i suoi figli urlavano e si azzuffavano, “Li ho
presi! Il mio piede! Smettila!” Annabeth continuò a correre. Non
poteva vedere nulla in ogni caso, quindi chiuse gli occhi. Usò gli altri
sensi, ascoltando in cerca dell’eco degli spazi aperti, in allerta per
delle correnti di vento sul volto, odorando in caso di qualsiasi traccia
di pericolo, fumo, veleno, oppure il puzzo dei demoni. Non era la
prima volta che si lanciava nel buio. Immaginò di trovarsi di nuovo
nei tunnel sotto Roma, in cerca dell’Atena Partenos. Guardando
indietro, il suo viaggio verso la caverna di Aracne sembrava una
vacanza a Disneyland. I rumori di liti tra i figli di Notte si fecero
sempre più lontani. Quella era una buona cosa. Percy stava ancora
correndo al suo fianco, tenendole la mano. Altra cosa buona. In
lontananza davanti a loro, Annabeth iniziò ad avvertire un rumore
pulsante, come se il suo stesso battito del cuore stesse
riecheggiando, amplificandosi con tale forza, che il pavimento le
vibrò sotto i piedi. Il rumore la riempì di terrore, quindi immagino che
quella dovesse essere la strada giusta. Corse verso di esso. Mentre
il battito si faceva più forte, sentì odore di fumo e udì lo scoppiettio di
torce accese intorno a lei. Immaginò che ci dovesse essere della
luce, ma una sensazione strisciante sul collo l’avvertì che sarebbe
stato un errore aprire gli occhi. “Non guardare,” disse a Percy. “Non
avevo intenzione di farlo,” rispose lui. “Riesci ad avvertirlo, vero?
Siamo ancora nel Palazzo di Notte. Non voglio vederlo.” Ragazzo
intelligente, pensò Annabeth. Era solita prendere in giro Percy per
essere uno sciocco, ma in verità i suoi istinti erano solitamente
esatti. Qualsiasi orrore giacesse nel Palazzo di Notte, non erano
pensati per gli occhi mortali. Vederli sarebbe stato peggio che fissare
direttamente il volto di Medusa. Meglio correre al buio. La pulsazione
si fece più forte, inviando vibrazioni attraverso la schiena di
Annabeth. Sembrava che qualcuno stesse bussando sul fondo del
mondo, chiedendo di poter entrare. Avvertì le pareti che si aprivano
ai suoi lati. L’aria si fece più fresca, o comunque non così sulfurea.
C’era anche un altro rumore, più vicino del martellio profondo… il
suono di acqua che scorreva. Il cuore di Annabeth stava correndo.
Sapeva che l’uscita era vicina. Se fossero riusciti a uscire dal
Palazzo di Notte, forse si sarebbero potuti lasciare il gruppo di
demoni oscuri alle spalle. Iniziò a correre più velocemente, cosa che
avrebbe significato la sua morte se Percy non l’avesse fermata.
56
ANNABETH
JASON
JASON
JASON
JASON
Trovarono Leo sulla cima delle mura della città. Era seduto in un bar
all’aperto, affacciato sul mare, bevendo una tazza di caffè e con
addosso… wow. Viaggio nel tempo. I vestiti di Leo erano identici a
quelli che aveva indossato il giorno in cui erano arrivati per la prima
volta al Campo Mezzosangue, jeans, maglietta bianca, e un vecchio
giacchetto militare. Solo che quel giacchetto era bruciato mesi prima.
Piper lo fece quasi cadere dalla sedia con un abbraccio. “Leo! Dei,
dove sei stato?” “Valdez!” Il Coach Hedge sorrise. Poi sembrò
ricordarsi che aveva una reputazione da mantenere e si obbligò ad
imbronciarsi. “Se scompari di nuovo in questo modo, piccolo
teppistello, ti farò svenire per un mese!” Frank diede delle pacche
così forti sulle spalle di Leo che lo fece sussultare. Persino Nico gli
strinse la mano. Hazel baciò Leo sulla guancia. “Pensavamo che
fossi morto!” Leo abbozzò un debole sorriso. “Ehi, ragazzi. Nah, nah,
sto bene.” Jason poteva capire che non stava bene. Leo non voleva
incontrare i loro sguardi. Le sue mani erano perfettamente immobili
sul tavolo. Le mani di Leo non stavano mai ferme. Tutta la sua
energia nervosa si era prosciugata, rimpiazzata da una certa
tristezza malinconica. Jason si chiese perché la sua espressione gli
sembrasse familiare. Poi si rese conto che Nico di Angelo aveva
avuto lo stesso aspetto dopo aver affrontato Cupido tra le rovine di
Salona. Leo aveva il cuore spezzato. Mentre gli altri prendevano
delle sedie dai tavoli accanto, Jason si avvicinò a lui e gli strinse la
spalla. “Ehi, amico,” disse, “cosa è successo?” Gli occhi di Leo si
posarono sul gruppo. Il messaggio era chiaro: Non qui. Non davanti
a tutti. “Sono stato abbandonato,” disse Leo. “Lunga storia. Che mi
dite di voi? Cosa è successo con Chione?” Coach Hedge fece un
verso di scherno. “Cosa è successo? Piper è successa! Te lo dico io,
questa ragazza ha talento!” “Coach…” protestò Piper. Hedge iniziò a
raccontare la storia, ma nella sua versione Piper era un’assassina
kung fu e c’erano molti più Boreadi. Mentre il coach parlava, Jason
studiò Leo preoccupato. Quel bar aveva una vista perfetta sul porto.
Leo doveva aver visto l’Argo II che si avvicinava, tuttavia era rimasto
lì a bere caffè che non gli piaceva nemmeno, aspettando che
fossero loro a trovarlo. Quello non era affatto da Leo. La nave era la
cosa più importante della sua vita. Quando l’aveva vista avvicinarsi,
Leo avrebbe dovuto correre sulla banchina, esultando con tutta l’aria
che aveva nei polmoni. Il Coach Hedge stava descrivendo come
Piper avesse sconfitto Chione con un calcio rotante quando Piper lo
interruppe. “Coach!” disse. “Non è andata affatto così. Non avrei
potuto fare nulla senza Festus.” Leo inarcò le sopracciglia. “Ma
Festus era disattivato.” “Um, riguardo quello,” disse Piper. “Diciamo
che l’ho svegliato.” Piper raccontò la sua versione degli eventi, come
aveva riattivato il drago di metallo con la lingua ammaliatrice. Leo
picchiettò le dita sul tavolo, come se un po’ della sua vecchia
energia stesse facendo ritorno. “Non dovrebbe essere possibile,”
mormorò. “A meno che i potenziamenti non gli abbiano permesso di
rispondere ai comandi vocali. Ma se è permanentemente attivo,
questo vuol dire che il sistema di navigazione e il cristallo…”
“Cristallo?” chiese Jason. Leo sussultò. “Um, niente. Ad ogni modo,
cosa è successo dopo che è esplosa la bomba di vento?” A quel
punto Hazel prese le redini della storia. Una cameriera si avvicinò al
loro tavolo e diede loro i menu. In pochissimo tempo si ritrovarono a
masticare dei panini e a bere coca cola, godendosi la giornata
soleggiata quasi come un gruppo di normali adolescenti. Frank
afferrò una brochure per turisti incastrata sotto il portatovaglioli.
Iniziò a leggerla. Piper dava delle pacche gentili sul braccio di Leo,
come se non riuscisse a credere che fosse davvero là. Nico si
trovava al margine del gruppo, guardando i pedoni che passavano
accanto a loro come se potessero essere nemici. Il Coach Hedge
sgranocchiava la saliera e la pepiera. Nonostante il felice incontro,
sembravano tutti più abbattuti del solito, come se fossero tutti
influenzati dall’umore di Leo. Jason non aveva mai davvero pensato
a quanto fosse importante per il gruppo il senso dell’umorismo di
Leo. Persino quando le cose erano estremamente serie, potevano
sempre contare su Leo per alleggerire la situazione. Adesso,
sembrava come se l’intera squadra avesse gettato l’ancora. “Poi
Jason ha imbrigliato i venti,” concluse Hazel. “Ed eccoci qui.” Leo
fischiò. “Cavalli fatti di aria calda? Accidenti, Jason. Quindi, per
riassumere, hai trattenuto del gas fino a Malta, e poi l’hai lasciato
andare.” Jason si accigliò. “Sai, non suona così eroico descritto in
questo modo.” “Sì, bè. Io sono un esperto di aria calda. Mi sto
ancora chiedendo, perché Malta? Io sono finito qui su una zattera,
ma si è trattato di una cosa casuale, oppure…“ “Forse è per questo.”
Frank indicò la sua brochure. “Qui dice che Malta era dove viveva
Calypso.” Il sangue abbandonò il volto di Leo. “C-cosa?” Frank
scrollò le spalle. “Secondo questo, la sua casa originaria era un’isola
chiamata Gozo, appena a nord da qui. Calypso è un mito greco,
vero?” “Ah, un mito greco!” Il Coach Hedge si sfregò le mani. “Forse
la combatteremo! Possiamo combatterla? Perché io sono pronto.”
“No,” mormorò Leo. “No, non dobbiamo combatterla, Coach.” Piper
si accigliò. “Leo, c’è qualcosa che non va? Sembri…“ “Non c’è nulla
che non va!” Leo scattò in piedi. “Ehi, dovremmo andare. Abbiamo
del lavoro da sbrigare!” “Ma… tu dove sei stato?” chiese Hazel.
“Dove hai preso quei vestiti? Come…“ “Cavoli, ragazze!” disse Leo.
“Apprezzo l’interesse, ma non ho bisogno di due mamme extra!”
Piper fece un sorriso incerto. “Okay, ma…“ “C’è una nave da
aggiustare!” disse Leo. “Festus da controllare! Una dea della terra da
colpire in faccia! Cosa stiamo aspettando? Leo è tornato!” Allargò le
braccia e sogghignò. Stava facendo un coraggioso tentativo, ma
Jason poteva vedere la tristezza che persisteva nei suoi occhi. Gli
era accaduto qualcosa… qualcosa che aveva a che fare con
Calypso. Jason cercò di ricordarsi la sua storia. Era una specie di
maga, forse come Circe o Medea. Ma se Leo era fuggito dal covo di
una strega malvagia, perché sembrava così triste? Jason avrebbe
dovuto parlare con lui più tardi, assicurarsi che il suo amico stesse
bene. Per il momento, Leo non voleva chiaramente essere
interrogato. Jason si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. “Leo ha
ragione. Dovremmo andare.” Seguirono tutti il suo consiglio.
Iniziarono ad avvolgere il cibo e a finire le bibite. Improvvisamente,
Hazel boccheggiò. “Ragazzi…” Indicò l’orizzonte in direzione
nordest. All’inizio, Jason non vide nulla eccetto il mare. Poi un raggio
scuro apparve improvvisamente nel cielo come un lampo nero, come
se la notte pura si stesse facendo strada nel giorno. “Non vedo
nulla,” brontolò il Coach Hedge. “Neanche io,” disse Piper. Jason
studiò i volti dei suoi amici. La maggior parte di loro sembrava
semplicemente confusa. Nico sembrava essere l’unica altra persona
ad aver notato il lampo nero. “Non può essere…” borbottò Nico. “La
Grecia è ancora a centinaia di chilometri di distanza.” L’oscurità
lampeggiò di nuovo, dissolvendo momentaneamente i colori
dell’orizzonte. “Credi che sia Epiro?” Tutto lo scheletro di Jason
formicolò, come si sentiva quando veniva colpito da un migliaio di
volt. Non sapeva perché lui potesse vedere i lampi scuri. Non era un
figlio dell’Oltretomba. Ma la cosa gli dava una sensazione davvero
brutta. Nico annuì. “La Casa di Ade è aperta.” Qualche secondo più
tardi, un suono rombante si riversò su di loro come il rumore di
artiglieria distante. “E’ iniziata,” disse Hazel. “Cosa?” chiese Leo.
Quando apparve il lampo successivo, gli occhi dorati di Hazel si
scurirono come carta stagnola sul fuoco. “La spinta finale di Gea,”
disse. “Le Porte della Morte stanno facendo gli straordinari. Le sue
forze stanno entrando nel mondo mortale in massa.” “Non ce la
faremo mai,” disse Nico. “Quando arriveremo, ci saranno troppi
mostri da combattere.” Jason serrò la mascella. “Li sconfiggeremo. E
ci arriveremo in fretta. Abbiamo di nuovo Leo. Lui ci darà la velocità
che ci serve.” Si voltò verso il suo amico. “O si tratta solo di aria
calda?” Leo abbozzò un sorriso storto. I suoi occhi sembravano dire:
Grazie. “E’ tempo di volare, ragazzi e ragazze,” disse. “Zio Leo ha
ancora qualche trucco nella manica!”
61
PERCY
Percy non era ancora morto, ma era già stufo di essere un cadavere.
Mentre si trascinavano attraverso il cuore di Tartaro, continuava ad
abbassare lo sguardo sul suo corpo, chiedendosi come potesse
appartenere a lui. Le sue braccia sembravano fatte di pelle
sbiancata infilata dentro dei bastoncini. Le sue gambe di scheletro
sembravano dissolversi in fumo ad ogni passo. Aveva imparato a
muoversi normalmente nella Foschia di Morte, più o meno, ma il velo
magico lo faceva ancora sentire come se fosse avvolto da un
mantello di elio. Temeva che la Foschia di Morte potesse aderirli per
sempre, anche se fossero riusciti in qualche modo a sopravvivere al
Tartaro. Non voleva passare il resto della sua vita con l’aspetto di
una comparsa di The Walking Dead. Percy cercò di concentrarsi su
qualcos’altro, ma non c’era nessuna direzione sicura in cui guardare.
Sotto i suoi piedi, il terreno brillava di un viola nauseante, pulsante
con ragnatele di vene. Nella fioca luce rossa delle nuvole di sangue,
l’Annabeth avvolta dalla Foschia di Morte sembrava uno zombie
appena riesumato. Davanti a loro c’era la vista più deprimente di
tutte. Disteso fino all’orizzonte si estendeva un esercito di mostri,
stormi di arai alate, tribù di Ciclopi, gruppi di fluttuanti spiriti malvagi.
Migliaia di cattivi, forse decine di migliaia, che si agitavano e si
spingevano a vicenda, ringhiando e lottando per avere più spazio,
come il corridoio di una scuola sovraffollata durante l’intervallo, se
tutti gli studenti fossero stati violenti mutanti sotto steroidi con un
odore davvero cattivo. Bob li guidò verso il margine dell’esercito.
Non fece nessun tentativo di nascondersi, non che sarebbe servito a
qualcosa. Essendo alto tre metri e avendo dei brillanti capelli
argentati, Bob non era molto furtivo. A circa trenta metri dai mostri
più vicini, Bob si voltò verso Percy. “Rimanete in silenzio dietro di
me,” avvisò. “Non vi noteranno.” “Lo speriamo,” borbottò Percy. Sulla
spalla del Titano, Piccolo Bob si svegliò dal suo sonnellino. Fece
delle fusa simili a un terremoto e inarcò la schiena, diventando uno
scheletro e poi tornando ad essere un gatto a macchie. Almeno lui
non sembrava essere nervoso. Annabeth si esaminò le mani da
zombie. “Bob, se siamo invisibili… come mai tu puoi vederci? Voglio
dire, tecnicamente tu sei, lo sai…” “Sì,” disse Bob. “Ma noi siamo
amici” “Notte e i suoi figli potevano vederci,” disse Annabeth. Bob
scrollò le spalle. “Quello era nel regno di Notte. Questo è diverso.”
“Uh… d’accordo.” Annabeth non suonava rassicurata, ma ormai si
trovavano lì. Non avevano nessun’altra scelta se non quella di
provare. Percy fissò la folla di mostri malvagi. “Bè, almeno non
dobbiamo preoccuparci di incontrare altri amici in questa folla.” Bob
sogghignò. “Sì, questa è una buona cosa! Adesso, andiamo. La
Morte è vicina.” “Le Porte della Morte sono vicine,” lo corresse
Annabeth. “Stiamo attenti alle parole.” Si spinsero all’interno della
folla. Percy tremava così tanto, che aveva paura che si sarebbe
scrollato di dosso la Foschia di Morte. Aveva già visto grossi gruppi
di mostri in passato. Ne aveva combattuto un esercito durante la
Battaglia di Manhattan. Ma quello era diverso. Ogni volta che
combatteva contro un mostro nel mondo mortale, Percy almeno
sapeva che stava difendendo la sua casa. Quello gli dava coraggio,
non importava quanto fossero scarse le sue possibilità. Lì, l’invasore
era Percy. Non faceva parte di quella moltitudine di mostri più di
quanto il Minotauro facesse parte della Stazione di New York
durante l’ora di punta. A qualche metro di distanza, un gruppo di
Empousai faceva a pezzi la carcassa di un grifone mentre altri grifoni
le volavano intorno, strillando oltraggiati. Un Figlio della Terra a sei
braccia e un orco Lestrigone erano intrecciati tra di loro con delle
rocce in mano, tuttavia Percy non capì se stessero combattendo o
semplicemente divertendosi. Uno sbuffo di fumo nero, Percy pensò
che dovesse trattarsi di un eidolon, si infiltrò in un Ciclope,
obbligando il mostro a colpirsi in faccia da solo, poi volò via per
andare a possedere un’altra vittima. Annabeth sussurrò, “Percy,
guarda.” A pochi metri di distanza, un tipo vestito da cowboy stava
usando la sua frusta contro dei cavalli sputa fuoco. Il ragazzo
violento indossava un capello da cowboy sopra unti capelli grigi, un
paio di jeans extralarge, e un paio di stivali di pelle nera. Di lato,
sarebbe potuto passare per umano, fino a che non si girò, e Percy
vide che la parte superiore del suo corpo si divideva in tre petti
diversi, ognuno vestito con una maglietta da cowboy di colore
diverso. Era senza dubbio Gerione, che aveva cercato di uccidere
Percy due anni prima in Texas. Apparentemente il rancher malvagio
era ansioso di iniziare una nuova mandria. L’idea che quel tipo
potesse uscire dalle Porte della Morte fece riprovare a Percy tutto il
dolore che aveva avuto ai fianchi. Le sue costole pulsarono nel
punto in cui le arai avevano rilasciato la maledizione di Gerione nella
foresta. Voleva marciare fino al rancher dai tre corpi, dargli un pugno
in faccia e urlargli, Grazie tante, Tex! Purtroppo, non poteva. Quanti
altri antichi nemici si trovavano in quella folla? Percy iniziò a rendersi
conto del fatto che ogni battaglia che avesse mai vinto era stata solo
una vittoria temporanea. Non importava quanto fosse forte o
fortunato, non importava quanti mostri distruggeva, alla fine Percy
avrebbe fallito. Lui era solo un mortale. Sarebbe diventato troppo
anziano, troppo debole, o troppo lento. Sarebbe morto. Mentre quei
mostri… loro esistevano per sempre. Tornavano in continuazione.
Magari ci sarebbero voluti mesi o anni prima che si riformassero,
forse persino secoli. Ma alla fine sarebbero rinati. Vedendoli
assemblati nel Tartaro, Percy si sentì disperato come gli spiriti del
Fiume Cocito. Che importava che lui fosse un eroe? Che importava
se faceva qualcosa di coraggioso? Il male era sempre lì, pronto a
rigenerarsi, a ribollire sotto la superficie. Percy non era altro che un
piccolo fastidio per quegli esseri immortali. Dovevano solo aspettare
che lui morisse. Un giorno, i figli di Percy avrebbero potuto doverli
affrontare daccapo. Figli. Il pensiero lo colpì all’improvviso. Veloce
come l’aveva sopraffatto all’inizio, la sua disperazione scomparve.
Lanciò uno sguardo verso Annabeth. Aveva ancora l’aspetto di un
cadavere di nebbia, ma lui immaginò il suo vero aspetto, gli occhi
grigi pieni di determinazione, i capelli biondi legati indietro, il volto
stanco e ricoperto di sporcizia, ma bello come sempre. Okay, magari
i mostri continuavano a tornare per sempre. Ma così facevano anche
i semidei. Generazione dopo generazione, il Campo Mezzosangue
aveva resistito. E così aveva fatto il Campo Giove. Persino divisi, i
due campi erano sopravvissuti. Adesso, se i greci e i romani fossero
riusciti a unirsi, sarebbero stati persino più forti. C’era ancora
speranza. Lui e Annabeth erano arrivati fin lì. Avevano quasi
raggiunto le Porte della Morte. Figli. Un’idea ridicola. Una fantastica
idea. Proprio nel bel mezzo del Tartaro, Percy fece un grosso
sorriso. “Cosa c’è che non va?” sussurrò Annabeth. Con il suo
camuffamento da zombie, probabilmente sembrava che stesse
storcendo la bocca dal dolore. “Niente,” disse. “Stavo solo…“ Da
qualche parte davanti a loro, una voce profonda ruggì: “GIAPETO!”
62
PERCY
PERCY
PERCY
FRANK
FRANK
FRANK
FRANK
Frank non si accorse che stava brillando. In seguito Jason gli disse
che la benedizione di Marte lo aveva avvolto con una luce rossa,
come aveva fatto a Venezia. I giavellotti non lo toccavano, le pietre
in qualche modo venivano deviate. Persino con una freccia che gli
spuntava dal bicipite sinistro, Frank non si era mai sentito così carico
di energia. Il primo Ciclope che incontrò fu abbattuto così
velocemente che fu quasi uno scherzo. Frank lo affettò a metà dalle
spalle alla vita. Il ragazzone esplose in polvere. Il Ciclope successivo
indietreggiò nervoso, così Frank gli tagliò le gambe e lo spedì nella
voragine. I mostri rimanenti dalla loro parte dell’abisso cercarono di
ritirarsi, ma la legione li bloccò. “Formazione Tetsubo!” urlò Frank.
“Unica fila, avanzate!” Frank fu il primo ad attraversare il ponte. I
morti lo seguirono, con gli scudi serrati su entrambi i lati e sopra le
loro teste, deviando tutti gli attacchi. Quando l’ultimo zombie
attraversò il ponte, questo crollò precipitando nel buio, ma ormai non
importava più. Nico continuava a invocare altri legionari per unirsi
alla battaglia. Durante la storia dell’impero, migliaia di romani
avevano servito ed erano morti in Grecia. Adesso erano tornati,
rispondendo alla chiamata dello scettro di Diocleziano. Frank
avanzò, distruggendo tutto quello che incontrava sul suo cammino.
“Ti brucerò!” strillò un telchino, agitando disperatamente una fiala di
fuoco Greco. “Ho il fuoco!” Frank lo abbatté. Mentre la fiala
precipitava verso il terreno, Frank le diede un calcio spedendola oltre
il bordo del precipizio prima che potesse esplodere. Un’empousa
abbassò i suoi artigli sul petto di Frank, ma lui non avvertì nulla.
Affettò il demone riducendolo in polvere e continuò a muoversi. Il
dolore non era importante. Fallire era impensabile. Lui era un leader
della legione adesso, e stava facendo ciò per cui era nato,
combattere i nemici di Roma, difendere la sua eredità, proteggere le
vite dei suoi amici e dei suoi compagni. Lui era il pretore Frank
Zhang. Le sue forze spazzarono via il nemico, spezzando ogni loro
tentativo di raggrupparsi. Jason e Piper combattevano al suo fianco,
gridando in segno di sfida. Nico avanzava attraverso l’ultimo gruppo
di Figli della Terra, riducendoli in cumuli di argilla bagnata con la sua
spada di ferro nero. Prima che Frank se ne rendesse conto, la
battaglia era terminata. Piper affettò l’ultima empousa, che si
vaporizzò con un lamento sofferente. “Frank,” disse Jason, “vai a
fuoco.” Lui abbassò lo sguardo. Qualche goccia di olio doveva
essersi versata sui suoi pantaloni perché avevano iniziato a fumare.
Frank li colpì con la mano finché il fumo non si fermò, ma non era
particolarmente preoccupato. Grazie a Leo, non doveva più temere il
fuoco. Nico si schiarì la voce. “Uh… hai anche una freccia conficcata
nel braccio.” “Lo so.” Frank spezzò la punta della freccia e la
estrasse tirandola dall’altra estremità. Avvertì solo una calda
sensazione tirante. “Me la caverò.” Piper gli fece mangiare un pezzo
di ambrosia. Mentre gli bendava la ferita, disse, “Frank, sei stato
eccezionale. Assolutamente terrificante, ma eccezionale.” Frank
ebbe dei problemi ad elaborare le sue parole. Terrificante non poteva
riferirsi a lui. Lui era soltanto Frank. La sua adrenalina si prosciugò.
Si guardò intorno, chiedendosi dove fossero andati tutti i nemici. Gli
unici mostri rimasti erano i suoi romani morti, che si trovavano
storditi con le armi abbassate. Nico sollevò il suo scettro, con la
sfera scura e inattiva. “I morti non rimarranno ancora a lungo,
adesso che la battaglia è finita.” Frank si voltò verso le sue truppe.
“Legione!” I soldati zombie si misero sull’attenti. “Avete combattuto
bene,” disse loro Frank. “Adesso potete riposarvi. Andate.”
Crollarono disfacendosi in pile di ossa, armature, scudi e armi. Poi
persino quelle si disintegrarono. Frank si sentiva come se anche lui
potesse disintegrarsi. Nonostante l’ambrosia, il suo braccio ferito
iniziò a pulsare. I suoi occhi erano pesanti dalla stanchezza. La
benedizione di Marte era scomparsa, lasciandolo vuoto. Ma il suo
lavoro non era ancora finito. “Hazel e Leo,” disse. “Dobbiamo
trovarli.” I suoi amici guardarono oltre la voragine. All’altra estremità
della caverna, il tunnel nel quale erano entrati Hazel e Leo era
sepolto sotto tonnellate di detriti. “Non possiamo andare da quella
parte,” disse Nico. “Forse…” Improvvisamente barcollò. Sarebbe
precipitato, se Jason non l’avesse preso al volo. “Nico!” disse Piper.
“Cosa c’è?” “Le Porte,” disse Nico. “Sta succedendo qualcosa. Percy
e Annabeth… dobbiamo andare adesso.” “Ma come?” disse Jason.
“Quel tunnel è sparito.” Frank serrò la mascella. Non era arrivato fin
lì per rimanere bloccato, incapace di aiutare mentre i suoi amici
erano nei guai. “Non sarà divertente,” disse, “ma c’è un altro modo.”
69
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
ANNABETH
HAZEL
Hazel non era orgogliosa di piangere. Dopo che il tunnel era crollato,
aveva frignato e urlato come una bambina di due anni che faceva i
capricci. Non poteva spostare i detriti che separavano lei e Leo dagli
altri. Se la terra si fosse spostata di nuovo, l’intera struttura sarebbe
potuta crollare sulle loro teste. Tuttavia, batté i pugni contro le pietre
e urlò delle imprecazioni che le avrebbero fatto guadagnare una
lavata di lingua con sapone di lisciva alla St. Agnes Academy. Leo la
fissava, con gli occhi spalancati e senza parole. Non si stava
comportando giustamente con lui. L’ultima volta che erano stati
insieme, lei lo aveva trasportato nel suo passato e gli aveva
mostrato Sammy, il suo bisnonno, il primo ragazzo di Hazel. Lo
aveva caricato con un bagaglio di emozioni di cui non aveva
bisogno, e lo aveva lasciato così sconvolto che erano quasi stati
uccisi da un gamberetto gigante. Adesso si trovavano lì, di nuovo da
soli, mentre i loro amici rischiavano di morire per mano di un esercito
di mostri, e lei stava facendo i capricci. “Scusa.” Si asciugò le
lacrime dalla faccia. “Ehi, sai…” Leo scrollò le spalle. “Anche io ho
attaccato qualche roccia ogni tanto.” Lei deglutì con difficoltà. “Frank
è… lui è…“ “Ascolta,” disse Leo. “Frank Zhang ha delle doti.
Probabilmente si trasformerà in un canguro e farà qualche mossa di
karate da marsupiale sugli orrendi volti di quei mostri.” L’aiutò ad
alzarsi. Nonostante il panico che le ribolliva dentro, sapeva che Leo
aveva ragione. Frank e gli altri non erano indifesi. Avrebbero trovato
un modo per sopravvivere. La cosa migliore che lei e Leo potevano
fare era andare avanti. Studiò Leo. I suoi capelli erano cresciuti e si
erano fatti più disordinati, e il suo volto era più magro, così
assomigliava di meno a un folletto e più a uno di quegli elfi della
natura delle favole. La differenza più grande era nei suoi occhi. Si
muovevano in continuazione, come se stesse cercando di scorgere
qualcosa all’orizzonte. “Leo, mi dispiace,” disse lei. Lui inarcò le
sopracciglia. “Okay. Per cosa?” “Per…” Si fece un gesto intorno con
fare impotente. “Tutto. Per aver pensato che tu fossi Sammy, per
averti incoraggiato con me. Voglio dire, non volevo farlo, ma se l’ho
fatto…“ “Ehi.” Lui le strinse la mano, anche se Hazel non avvertì
nulla di romantico in quel gesto. “Le macchine sono progettate per
funzionare.” “Uh, cosa?” “Credo che alla fine l’universo sia solo una
macchina. Non so chi l’abbia creata, se sono state le Parche, o gli
dei, o Dio con la D maiuscola, o quello che è. Ma la maggior parte
delle volte corre lungo la strada che è destinato a prendere. Certo,
ogni tanto si rompono dei piccoli pezzi e delle parti vanno in corto
circuito, ma per la maggior parte… le cose accadono per una
ragione. Come il fatto che noi due ci siamo incontrati.” “Leo Valdez,”
disse Hazel meravigliata, “tu sei un filosofo.” “Nah,” disse lui. “Sono
solo un meccanico. Ma credo che il mio bisabuelo Sammy sapesse.
Ti ha lasciata andare, Hazel. Il mio compito è quello di dirti che va
bene. Tu e Frank, state bene insieme. Supereremo tutti questa
battaglia. Spero che voi due abbiate la possibilità di essere felici.
Inoltre, Zhang non sarebbe in grado di allacciarsi le scarpe senza il
tuo aiuto.” “Questa è cattiva,” lo rimproverò Hazel, ma si sentì come
se qualcosa si stesse sciogliendo dentro di lei, un nodo di tensione
che si stava portando con sé da settimane. Leo era veramente
cambiato. Hazel stava cominciando a credere di aver trovato un
buon amico. “Cosa ti è successo quando eri da solo?” chiese. “Chi
hai incontrato?” Gli occhi di Leo scattarono. “E’ una lunga storia. Un
giorno te la racconterò, ma sto ancora aspettando di vedere come
andrà a finire.” “L’universo è una macchina,” disse Hazel, “quindi
andrà bene.” “Si spera.” “Solo se non è una delle tue macchine,”
aggiunse Hazel. “Perché le tue macchine non fanno mai quello che
dovrebbero.” “Sì, ha-ha.” Leo fece apparire del fuoco nella mano.
“Adesso, dove si va, Miss Sottoterra?” Hazel studiò il percorso che
avevano davanti. A circa nove metri più in basso, il tunnel si divideva
in quattro arterie più piccole, tutte identiche, ma quella sulla sinistra
irradiava freddo. “Da quella parte,” decise. “Sembra la più
pericolosa.” “Mi hai convinto,” disse Leo. Iniziarono a scendere. Non
appena raggiunsero il primo passaggio, la moffetta Gale li trovò. Si
arrampicò correndo sul fianco di Hazel e si raggomitolò intorno al
suo collo, squittendo irritata come a dire: Dove sei stata? Sei in
ritardo. “Non di nuovo la donnola che spara gas,” si lamentò Leo.
“Se quella cosa rilascia in spazi chiusi come questo, con il mio fuoco
e tutto il resto, esploderemo.” Gale abbaiò un insulto da moffetta
verso Leo. Hazel zittì entrambi. Poteva avvertire il tunnel più avanti
scendere gentilmente verso il basso per circa cento metri, per poi
aprirsi in una grande stanza. In quella stanza si trovava una
presenza… fredda, pesante e potente. Hazel non aveva avvertito
nulla del genere dalla grotta in Alaska, dove Gea l’aveva obbligata a
far risorgere Porfirione, il re dei giganti. Quella volta, Hazel aveva
contrastato i piani di Gea, ma aveva dovuto far crollare la caverna,
sacrificando la sua vita e quella di sua madre. Non era ansiosa di
vivere un’esperienza simile. “Leo, tieniti pronto,” sussurrò. “Ci stiamo
avvicinando.” “Avvicinando a cosa?” La voce di una donna
riecheggiò dalla fine del corridoio. “Vi state avvicinando a me.”
Un’ondata di nausea colpì Hazel così violenta che le tremarono le
ginocchia. Tutto il mondo vacillò. Il suo senso dell’orientamento,
solitamente perfetto sottoterra, divenne completamente vago. Non
sembrava che lei e Leo si stessero muovendo, ma improvvisamente
si ritrovarono più avanti di cento metri, davanti all’entrata della
stanza. “Benvenuti,” disse la voce di donna. “Aspettavo impaziente
questo momento.” Gli occhi di Hazel studiarono la caverna. Non
riusciva a vedere chi parlava. La stanza le ricordava quella del
Pantheon a Roma, con l’unica differenza che quel luogo era stato
decorato in stile Ade. Le pareti di ossidiana erano scolpite con scene
di morte: vittime della peste, cadaveri sul campo di battaglia, stanze
della tortura con scheletri appesi in gabbie di ferro, il tutto abbellito
da gemme preziose che in qualche modo rendevano le scene
persino più spettrali. Come nel Pantheon, il tetto a cupola era
formato da uno schema a cassettoni fatto di pannelli quadrati
incavati, ma lì ogni pannello era una stele, una lapide con inscrizioni
in greco antico. Hazel si chiese se dietro quelle stele ci fossero
seppelliti dei corpi veri. Con i suoi sensi sotterranei fuori uso, non ne
poteva essere sicura. Non vide nessun’altra uscita. Sull’apice del
soffitto, da dove sarebbe dovuta entrare la luce del cielo sopra il
Pantheon, brillava un cerchio di oscurità pura, come per rinforzare la
sensazione che non ci fosse una via d’uscita da quel luogo, niente
cielo sopra di loro, solo oscurità. Gli occhi di Hazel si spostarono fino
al centro della stanza. “Sì,” borbottò Leo. “Quelle sono porte, non c’è
dubbio.” A quindici metri di distanza si trovava una porta doppia
priva di muro, con i pannelli incisi d’argento e ferro. File di catene
correvano su entrambi i lati, fissando la struttura a dei grossi uncini
nel pavimento. La zona attorno alle porte era cosparsa di detriti neri.
Con un senso di rabbia sempre più stringente, Hazel si rese conto
che una volta in quel punto si trovava un antico altare di Ade. Era
stato distrutto per fare spazio alle Porte della Morte. “Dove sei?”
gridò lei. “Non ci vedi?” la provocò la voce di donna. “Pensavo che
Ecate ti avesse scelta per le tue capacità.” Un altro attacco di
nausea si agitò nello stomaco di Hazel. Sulla sua spalla, Gale
abbaiò e lasciò aria, il che non aiutò. Dei puntini neri danzavano
davanti agli occhi di Hazel. Cercò di scacciarli via, ma questi si
fecero solo più scuri. I puntini si solidificarono in un’ombrosa sagoma
di sei metri che incombeva accanto alle Porte. Il gigante Clitio era
avvolto nel fumo nero, proprio come lo aveva visto nelle sue visioni
presso l’incrocio, ma adesso Hazel poteva appena scorgere la sua
forma, gambe da drago con scaglie color cenere; un enorme petto
umanoide racchiuso in un’armatura di ferro di Stige; lunghi capelli
intrecciati che sembravano essere fatti di fumo. La sua carnagione
era scura come quella della Morte (Hazel doveva saperlo, visto che
aveva incontrato Morte personalmente). I suoi occhi luccicavano
freddi come i diamanti. Non aveva nessuna arma, ma la cosa non lo
rendeva affatto meno terrificante. Leo fischiò. “Sai, Clitio… per
essere un tipo così grosso, hai una voce bellissima.” “Idiota,” sibilò la
donna. A metà strada tra Hazel e il gigante, l’aria brillò. La maga
apparve. Indossava un elegante vestito senza maniche fatto di oro
intrecciato, con i capelli impilati in un cono, circondati da diamanti e
smeraldi. Intorno al collo aveva un pendente simile a un labirinto in
miniatura, appeso a un filo incastonato di rubini che faceva pensare
ad Hazel alle gocce di sangue cristallizzate. La donna era bella in un
modo regale e senza tempo, come una statua che si poteva
ammirare ma mai amare. I suoi occhi brillavano di malignità.
“Pasifae,” disse Hazel. La donna inclinò la testa. “Mia cara Hazel
Levesque.” Leo tossì. “Voi due vi conoscete? Del tipo, compagne
dell’Oltretomba, oppure…“ “Silenzio, sciocco.” La voce di Pasifae era
morbida ma carica di veleno. “Non ho nessun interesse nei ragazzi
semidei, sempre così pieni di se stessi, così avventati e distruttivi.”
“Ehi, signora,” protestò Leo. “Non distruggo molto. Io sono un figlio di
Efesto.” “Un pensatore,” scattò Pasifae. “Persino peggio. Conoscevo
Dedalo. Le sue invenzioni non mi hanno portato nulla eccetto guai.”
Leo sbatté le palpebre. “Dedalo… cioè, il Dedalo? Bè, allora,
dovresti sapere tutto su noi pensatori. Noi siamo più portati
all’aggiustare, al costruire, ogni tanto al ficcare batuffoli di tela cerata
nelle bocche delle signore maleducate…“ “Leo.” Hazel gli mise il
braccio sul petto. Aveva la sensazione che la maga stesse per
trasformarlo in qualcosa di spiacevole se non si fosse stato zitto.
“Lascia fare a me, okay?” “Ascolta la tua amica,” disse Pasifae. “Fai
il bravo ragazzo e lascia parlare le donne.” Pasifae camminò davanti
a loro, esaminando Hazel con gli occhi così carichi di odio che le
fecero formicolare la pelle. Il potere della dea si irradiava da lei come
il calore da una fornace. La sua espressione era inquietante e
vagamente familiare…. In qualche modo, però, il gigante Clitio la
innervosiva di più. Rimaneva sullo sfondo, silenzioso e immobile
fatta eccezione per il fumo scuro che si alzava dal suo corpo,
raccogliendosi in una pozzanghera intorno ai suoi piedi. Era lui la
presenza fredda che Hazel aveva sentito prima, come un vasto
deposito di ossidiana, così pesante che Hazel non sarebbe mai
riuscita a muoverlo, potente e indistruttibile e completamente privo di
emozioni. “Il… il tuo amico non parla molto,” notò Hazel. Pasifae
guardò verso il gigante e sbuffò con disprezzo. “Prega che rimanga
in silenzio, mia cara. Gea mi ha concesso il piacere di pensare a voi;
ma Clitio è la mia, ah, assicurazione. Detto tra me e te, come sorelle
maghe, credo che si trovi qui anche per tenere i miei poteri sotto
controllo, nel caso dimenticassi gli ordini della mia nuova padrona.
Gea è attenta a queste cose.” Hazel era tentata di protestare
dicendo che lei non era una maga. Non voleva sapere come Pasifae
avesse pianificato di ‘pensare’ a loro, o a come facesse il gigante a
tenere la sua magia sotto controllo. Ma raddrizzò la schiena e cercò
di sembrare sicura. “Qualsiasi cosa tu stia panificando,” disse Hazel,
“non funzionerà. Abbiamo superato ogni mostro che Gea ha messo
sul nostro cammino. Se sei intelligente, non ti opporrai a noi.” La
moffetta Gale digrignò i denti in segno di approvazione, ma Pasifae
non sembrava impressionata. “Non sembri granché,” rifletté la maga.
“Ma alla fine voi semidei non lo sembrate mai. Mio marito, Minosse,
re di Creta? Lui era un figlio di Zeus. Non l’avresti mai detto
guardandolo. Era magrolino quasi come quello là.” Agitò la mano
verso Leo. “Wow,” borbottò Leo. “Minosse doveva aver fatto
qualcosa di davvero orribile per meritarsi te.” Le narici di Pasifae si
allargarono. “Oh… non ne hai idea. Era troppo orgoglioso per fare i
giusti sacrifici a Poseidone, così gli dei punirono me per la sua
arroganza.” “Il Minotauro,” ricordò Hazel improvvisamente. La storia
era così grottesca e rivoltante che Hazel si tappava sempre le
orecchie quando la raccontavano al Campo Giove. Pasifae era stata
maledetta, fatta innamorare del toro di suo marito. Aveva partorito il
Minotauro, metà uomo, metà toro. Adesso, mentre Pasifae la fissava
con sguardo omicida, Hazel si rese conto del perché la sua
espressione le risultasse così familiare. La maga aveva lo stesso
odio e amarezza negli occhi che ogni tanto aveva anche la madre di
Hazel. Nei suoi momenti peggiori, Marie Levesque guardava Hazel
come se sua figlia fosse stata una bambina mostruosa, una
maledizione dagli dei, la fonte di tutti i problemi di Marie. Era per
quello che la storia del Minotauro inquietava Hazel, non solo per
l’idea repellente di Pasifae e il toro, ma per l’idea che un figlio, un
qualsiasi figlio, potesse essere considerato un mostro, una punizione
per i suoi genitori da essere imprigionata da qualche parte e odiata.
Ad Hazel, il Minotauro era sempre sembrato la vittima della storia.
“Sì,” disse alla fine Pasifae. “La mia disgrazia fu insopportabile.
Quando mio figlio nacque e fu rinchiuso nel Labirinto, Minosse si
rifiutò di avere qualsiasi cosa a che fare con me. Disse che avevamo
rovinato la sua reputazione! E sai cosa accade a Minosse, Hazel
Levesque? Per i suoi crimini e per il suo orgoglio? Fu ricompensato.
Fu nominato giudice dei morti dell’Oltretomba, come se avesse
qualche diritto di giudicare gli altri! Fu Ade ad assegnargli quella
posizione. Tuo padre.” “In realtà è Plutone.” Pasifae fece una
smorfia. “Irrilevante. Quindi, vedi, io detesto i semidei tanto quanto
detesto gli dei. Qualsiasi tuo fratello che dovesse sopravvivere alla
guerra, è stato promesso a me da Gea, così che potrò guardarli
morire lentamente nel mio nuovo regno. Vorrei solo avere più tempo
per torturare voi due come si deve. Purtroppo…“Al cento della
stanza, le Porte della Morte produssero un piacevole suono di
campanello. Il pulsante verde sul lato destro della struttura iniziò a
brillare. Le catene tremarono. “Ecco, vedi?” Pasifae scrollò le spalle
con fare di scuse. “Le Porte sono in funzione. Dodici minuti e si
apriranno.” La pancia di Hazel tremava quasi quanto quelle catene.
“Altri giganti?” “No, grazie al cielo,” disse la maga. “Con loro
abbiamo finito, sono tornati nel mondo mortale pronti per l’assalto
finale.” Pasifae le rivolse un sorriso freddo. “No, immagino che le
Porte siano utilizziate da qualcun altro… qualcuno non autorizzato.”
Leo si fece avanti. Dai suoi pugni stretti si levò del fumo. “Percy e
Annabeth.” Hazel non riusciva a parlare. Non era certa se il groppo
che aveva in gola fosse causato dalla gioia o dalla frustrazione. Se i
loro amici avevano raggiunto le Porte, se fossero veramente apparsi
là tra dodici minuti… “Oh, non preoccuparti.” Pasifae agitò la mano
con noncuranza. “Ci penserà Clitio a loro. Vedi, quando la
campanella suonerà di nuovo, qualcuno dalla nostra parte deve
premere il pulsante o le Porte non si apriranno e chiunque si trovi
all’interno… poof. Andato. O magari Clitio li lascerà uscire e penserà
a loro di persona. Questo dipende da voi due.” Hazel aveva in bocca
il sapore del ferro. Non voleva chiedere, ma doveva farlo. “Come fa
a dipendere da noi esattamente?” “Bè, ovviamente, abbiamo
bisogno solo di una coppia di semidei vivi,” disse Pasifae. “I due
fortunati saranno portati ad Atene e sacrificati per Gea durante la
Festa della Speranza.” “Ovviamente,” borbottò Leo. “Quindi, sarete
voi due, o i vostri amici nell’ascensore?” La maga allargò le braccia.
“Vediamo chi sarà ancora vivo tra dodici… in realtà, undici minuti
ormai.” La caverna si dissolse nell’oscurità.
74
HAZEL
HAZEL
HAZEL
PERCY
PERCY
FINE