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Copyright © 2004 by S.D.

Perry

© 2011 Multiplayer.it Edizioni


Titolo dell'opera originale

Zero Hour

Traduzione di Michele Giannone, Laura Daniela D’Orazio

Paperback: 229 pagine

Editore: Multiplayer.it Edizioni (2011)

Lingua: Italiano

ISBN-10: 8863551472

ISBN-13: 978-8863551471

Il Libro

Inviati ad investigare su una serie di macabri omicidi a Raccoon City, la


squadra S.T.A.R.S.

Bravo entra in azione! Lungo la via per la missione l’elicottero si schianta


al suolo. Tutti riescono fortunatamente a sopravvivere ma quello che
scoprono è raccapricciante.

Poco lontano scrutano un trasporto militare fuori strada pieno di cadaveri,


ma questo è solo

l’inizio del loro incubo!

La squadra Bravo presto scoprirà il male che si sta espandendo intorno ad


essi, e il nuovo

membro Rebecca Chambers sta cominciando a chiedersi quale scherzo del


destino l’ha spinta a

partecipare alla missione!


L’Autore

Stephani Danielle Perry, nota come S. D. Perry (14 marzo 1970), è

una scrittrice di fantascienza statunitense. È autrice di numerosi romanzi

di fantascienza e dell'orrore basati su media franchise a diffusione

mondiale. Tra le sue opere, i sette titoli della serie Resident Evil nonché

romanzi su Star Trek, Alien e Predator in collaborazione con altri autori.

È anche autrice di numerose sceneggiature e racconti brevi. Altre sue

opere sono adattamenti di Timecop e Virus. Col nome di Stella Howard

ha scritto un romanzo originale basato sulla serie televisiva di Xena -

Principessa guerriera.

Vive a Portland, nell'Oregon, con il marito e i suoi adorati cani. È

figlia dello scrittore Steve Perry.

S.D. PERRY
ZERO HOUR

(RESIDENT EVIL 7 - Zero Hour, 2004)

PROLOGO

Il treno sbatteva traballante mentre attraversava i boschi di Raccoon. Il


rumore rombante delle ruote era come un’eco del cielo tempestoso al
tramonto.

Bill Nyberg sfogliò il rapporto “Hardy” che aveva estratto dalla valigetta ai
suoi piedi. Era stato un lungo, lungo giorno, e il soave dondolio del treno lo
rilassava. Era tardi, le otto passate, ma l’Ecliptic Express era quasi pieno,
come lo era solitamente all’ora di cena. Era un treno della compagnia e, da
quando era stato rinnovato — la Umbrella aveva speso molto denaro per
dare

un’aria snob a quel vagone ristorante, partendo dai sedili di velluto sino ad
arrivare alle lampade di cristallo — molti degli impiegati portavano lì le
loro famiglie o gli amici affinché usufruissero dell’ambiente. Cerano di
solito alcune persone che erano di fuori città che facevano i pendolari da
Latham, ma Nyberg avrebbe scommesso che nove passeggeri su dieci
lavorassero per la Umbrella.

Senza l’appoggio del gigante farmaceutico, Raccoon City non sarebbe stata
neanche una macchia

sulla strada.

Uno dei camerieri passò al suo fianco e lo salutò con un lieve movimento
della testa notando la piccola spilla della Umbrella sul bavero della sua
giacca, quello che identificava Nyberg come un passeggero abituale.
Nyberg gli restituì il saluto. All’esterno, lo splendore di un lampo fu seguito
rapidamente dal frastuono di un altro tuono. A quanto pareva si stava
avvicinando un temporale

estivo. Perfino nel gradevole fresco del treno, l’aria sembrava carica di
tensione per pioggia imminente.
E il mio impermeabile sta... nel bagagliaio ?

Fantastico. Tra l’altro aveva lasciato l’automobile alla fine del parcheggio
della stazione.

Sarebbe stato bagnato fradicio prima ancora di arrivare a metà strada.

Sospirando, tornò a concentrare l’attenzione sul rapporto appoggiandosi sul


sedile. Aveva rivisto già il materiale varie volte, ma voleva essere sicuro di
ogni dettaglio. Una bambina di dieci anni, di nome Teresa Hardy, aveva
partecipato alla prova clinica di una nuova medicina pediatrica per il cuore:
il Valifin. Era risultato che il farmaco produceva esattamente l’effetto
sperato, ma causava anche dei danni ai reni e, nel caso di Teresa Hardy, il
danno era stato molto grave. Sarebbe

sopravvissuta, ma probabilmente avrebbe dovuto sottoporsi a dialisi per il


resto della vita; l’avvocato della famiglia chiedeva un’indennità
considerevole. Il caso doveva risolversi

velocemente, anche perché la famiglia Hardy non avrebbe reso pubblica la


faccenda fino a quando non avessero avuto l’opportunità di trascinare il loro
dolente cherubino dalle rosate guance davanti a un tribunale in una sala
sovraffollata di giornalisti. E proprio quello era il momento in cui Nyberg e
la sua squadra entravano in azione. Il trucco consisteva nell’offrire il
risarcimento giusto per soddisfare la famiglia, ma non tanto da rendere il
loro avvocato, uno di quei legali da quattro soldi del tipo “noi non
prenderemo nulla quando non sarete voi a prendere”, troppo avido. Nyberg
come trattare quel genere di sciacalli; avrebbe risolto tutto prima ancora che
Teresa fosse tornata dal suo primo trattamento. A quei tipi ci pensava la
Umbrella.

La pioggia spruzzò rumorosamente il finestrino, come se qualcuno avesse


lanciato una secchiata

d’acqua contro il vetro. Sorpreso, Nyberg guardò verso l’esterno. Proprio in


quel momento alcuni colpi secchi risuonarono sul soffitto del treno.
Perfetto. Scava pure grandinando. Il bagliore di un lampo guizzò nella
crescente oscurità e illuminò la piccola collina ripida che si trovava nella
parte più profonda del bosco. Nyberg alzò lo sguardo e vide una figura
spuntare in controluce dagli alberi sulla cresta della collina, qualcuno con
un cappotto lungo o una specie di tunica scossa dal vento.

La figura alzò le braccia verso il cielo furioso... e lo splendore del lampo


svanì, sommergendo di nuovo nell’ombra la bizzarra, drammatica scena.

“Che diavolo...?”, cominciò col dire Nyberg, e ancora più acqua batté
contro il vetro. Ma quella non era acqua, perché l’acqua non rimaneva
incollata formando grosse masse oscure, perché

l’acqua non sbavava né si apriva per mostrare dozzine di brillanti denti


affilati come aghi. Nyberg sbatté le palpebre senza capire minimamente
cosa fosse quello che stava vedendo.

Qualcuno cominciò a gridare nell’altro estremo del vagone, un urlo lungo e


stridente, quando le oscure creature simili a lumache della grandezza del
pugno di un uomo si lanciarono contro i

finestrini. Il suono incessante della grandine sul soffitto passò da ticchettio a


torrente e il suo fragore soffocò le molte nuove grida.

Non è grandine, quella non può essere grandine!

Un panico ardente percorse il corpo di Nyberg, che si alzò di scatto. Ebbe


appena il tempo di mettere un piede nel corridoio prima che il finestrino alle
sue spalle saltasse via in migliaia di schegge, prima che tutti i vetri del treno
volassero in pezzi con un suono acuto e asciutto che si mescolò alle grida di
terrore, mentre il tutto era quasi soffocato dal continuo strepito dell’assalto.
Le luci si spensero, e Nyberg si accorse che qualcosa di freddo, umido e
carico di vita gli cadeva sulla nuca i incominciava a mordere.

UNO

Le eliche dell’elicottero tagliavano l’oscurità che copriva il bosco di


Raccoon. Rebecca
Chambers era seduta, tesa, sforzandosi di sembrare sicura come gli uomini
che la circondavano.

L'atmosfera nella carlinga era seria, ombrosa e scura come i celi frustati
dalle pale del velivolo. Gli scherzi e le barzellette erano cessati durante il
briefing di missione. Non si trattava di

un'esercitazione o di un allenamento.

Tre persone, tre escursionisti, erano spariti — un fatto neanche troppo


inconsueto in un bosco tanto grande come quello che circondava Raccoon
— ma con l’orda di assassini selvaggi che aveva terrorizzato la popolazione
durante le ultime settimane, la parola “sparito” aveva acquisito un nuovo
significato.

Solo pochi giorni prima era stata rinvenuta la nona vittima, squarciata e
mutilata come se fosse passata in un enorme tritacarne. Stavano morendo
delle persone. Qualcosa o qualcuno attaccava

selvaggiamente chiunque si addentrasse nella foresta oltre i confini della


città, ma la polizia di Raccoon non stava ottenendo nessun risultato. Poi,
finalmente, qualcuno si era deciso a richiamare in azione il comando locale
della S.T.A.R.S., affinché collaborasse nelle investigazioni.

Rebecca alzò leggermente il mento, lasciandosi andare a uno scintillio di


orgoglio che superò il suo nervosismo. Bene c laureata in biochimica, era
stata assegnata alla squadra Bravo come medico di campo. In meno di un
mese, era entrata a far parte del gruppo.

La mia prima missione. Ciò significa che è meglio che non faccia cazzate!

Respirò profondamente e lentamente, mentre cercava di mantenere


un’espressione neutra.

Edward le dedicò un sorriso incoraggiante, mentre Sully si inclinò in avanti


nell’affollata cabina solo per darle una rincuorante pacca sulla gamba. A
quanto sembrava, la sua calma apparente non ingannava nessuno.
Nonostante tutto la cosa più importante era che lei fosse preparata e che
stava per iniziare la sua prima missione, non poteva fare niente riguardo alla
sua età, o riguardo al sembrare ancora più giovane. A diciotto anni, era la
persona più giovane che la S.T.A.R.S. avesse mai accettato, sin dalla sua
fondazione nel 1967. E, come donna nella squadra Bravo di Raccoon, tutti
la trattavano come se fosse stata una sorella minore.

Sospirò, restituendo il sorriso a Edward e annuendo a Sully con la testa.


Non era poi tanto

terribile avere una squadra di tipi duri come fratelli maggiori. A patto che
capissero che poteva badare a se stessa quando era necessario.

Almeno credo, aggiunse tra sé e sé in silenzio. Dopo tutto, era la sua prima
missione, e, benché fosse in perfetta forma fisica, la sua esperienza in
combattimento si limitava alle simulazioni video e alle missioni di
allenamento nel fine settimana.

In realtà, la S.T.A.R.S. la voleva nei suoi laboratori, ma avere esperienza sul


campo era

obbligatorio e, inoltre, Rebecca doveva fare esperienza. In ogni caso,


avrebbero dovuto ispezionare dei boschi in gruppo. Se avesse scovato le
persone o gli animali che stavano attaccando gli abitanti di Raccoon almeno
avrebbe avuto chi le copriva le spalle.

Si vide lo scintillio di un lampo verso il nord. Il rumore del tuono si perse


sotto il ruggito dell’elicottero. Rebecca si inclinò leggermente in avanti,
cercando di penetrare l’oscurità con gli occhi. Era stato un giorno chiaro e
sereno, ma giusto prima del tramonto avevano cominciato a

formarsi delle nuvole. Non c’era dubbio sul fatto che sarebbero tornati a
casa bagnati. Almeno

sembrava essere una pioggia leggera; suppose che avrebbe potuto essere
molto...

Boom!
Era tanto concentrata a pensare al temporale che scendeva su di loro che,
per un secondo, perfino mentre l’elicottero si inclinava pericolosamente e
precipitava, credette che si trattasse del fragore di un tuono. Dalla cabina si
alzò una serie terribile di gemiti confusi e il pavimento di metallo

cominciò a vibrare sotto i suoi stivali. Captò l’odore caldo della gomma
bruciata e dell’ozono.

Un fulmine?

“Che cosa è stato?”, gridò qualcuno. Era Enrico, dal sedile del copilota.

“Abbiamo un problema al propulsore!”, spiegò urlando il pilota, Kevin


Dooley.

“Atterraggio d’emergenza!”

Rebecca si strinse con forza a un montante della carlinga e guardò verso i


suoi compagni per

evitare di vedere gli alberi che si avvicinavano rapidamente verso di loro.


Osservò l’espressione decisa e seria di Sully, i denti stretti di Edward e lo
sguardo di preoccupazione che si scambiarono Richard e Forest mentre si
aggrappavano ai montanti e ai manici della vibrante parete. In cabina,
Enrico stava gridando qualcosa, qualcosa che Rebecca non poté decifrare,
assordata dal rombo

agonizzante del motore.

Chiuse gli occhi per un istante, pensò ai suoi genitori... ma la discesa era
troppo violenta per potere pensare. I colpi e le frustate dei rami degli alberi
scuotevano l’elicottero con tale forza che l’unica cosa che Rebecca riuscì a
fare fu non perdere la presa. L’elicottero roteò fuori controllo e precipitò
con una spirale da brivido, tra scosse e sbandate. Un secondo dopo tutto era
finito. Il silenzio fu tanto repentino e assoluto che Rebecca pensò di essere
diventata sorda. Ogni movimento si fermo.
Fu allora che sentì il gocciolamento sul metallo fumante, l’ultimo rantolo
soffocato del motore e i feroci battiti del proprio cuore. Si rese conto che
erano a terra. Kevin c’era riuscito, e senza un solo rimbalzo.

“State tutti bene?”, Enrico Marini, il capitano, era seduto nel suo sedile,
girato all’indietro verso di loro.

Rebecca annuì in modo insicuro, unendosi al coro di affermazioni.

“Ben fatto, Kev!”, esclamò Forest, e si sollevò un nuovo coro. Rebecca era
pienamente

d’accordo.

“Funziona la radio?”, domandò Enrico al pilota che stava dando colpetti ai


controlli e muovendo gli interruttori.

“Sembra che si sia fritta tutta la parte elettrica”, rispose Kevin.

“Credo sia stato un fulmine. Non ci ha preso in pieno, ma è passato


sufficientemente vicino. È

andato anche il trasmettitore”

“Si può sistemare?”. Enrico formulò la domanda per tutti, ma guardò


Richard, l’ufficiale delle

comunicazioni. A sua volta, Richard guardò Edward che si strinse nelle


spalle. Edward era il

meccanico della squadra Bravo.

“Gli do un’occhiata”, ripose Edward, “ma se Kev dice che quel


trasmettitore è bruciato,

sicuramente lo è”.

Il capitano assentì lentamente, accarezzandosi in modo distratto i baffi con


una mano mentre
considerava le opzioni che avevano. Passati alcuni secondi, sospirò.

“Ho provato a chiamare quando il fulmine ci ha colpito, ma non so se il


messaggio sia arrivato o meno”, disse. “Hanno le nostre ultime coordinate.
Se non ci sentono al più presto, verranno a

cercarci”.

Quelli a cui faceva riferimento erano gli ufficiali del team Alfa della
S.T.A.R.S. Rebecca assentì con gli altri, senza sapere se dovesse sentirsi o
meno delusa.

La sua prima missione era finita perfino prima di iniziare.

Enrico tornò a toccarsi i baffi, lisciandoseli agli angoli della bocca con il
dito indice e pollice.

“Tutti fuori”, ordinò.

“Vediamo dove siamo”.

Uscirono uno a uno dalla cabina. Rebecca si rese conto della situazione in
cui si trovavano solo mentre si riunivano nell’oscurità.

Erano veramente fortunati a essere ancora vivi.

Siamo stati colpiti da un fulmine. Mentre andavamo a caccia di maniaci


assassini, pensò, stupendosi solo all’idea. Perfino se la missione si fosse
conclusa ora, era stata senza dubbio più eccitante di quanto avesse mai
potuto immaginare.

L’aria era calda e carica dell’imminente pioggia, le ombre nella foresta


erano profonde e buie

come pece. Piccoli animali girovagavano per il sottobosco. Gli ufficiali


accesero le torce elettriche e dei fasci di luce tagliarono l’oscurità mentre
Enrico ed Edward giravano intorno all’elicottero esaminando i danni.
Rebecca tirò fuori la sua torcia dallo zaino, sollevata per non essersela
dimenticata.

“Tutto bene?”

Rebecca si girò e vide a Ken “Sully” Sullivan sorridere. Aveva tirato fuori
la sua arma, puntando la canna della nove millimetri verso il cielo
nuvoloso, un triste ricordo del perché fossero lì.

“Voi ragazzi sapete come fare un’entrata di scena, eh?”, scherzò,


restituendogli il sorriso.

L’uomo alto rise, e i bianchissimi denti risaltarono sul nero della pelle.

“La verità è che lo facciamo sempre con le nuove reclute. E uno spreco di
elicotteri, ma

dobbiamo mantenere la nostra reputazione”.

Rebecca stava per domandare che cosa pensasse il capo di polizia di quello
spreco — era nuova

nella zona, ma aveva sentito già dire che il capo Irons era famoso per la sua
taccagneria — quando Enrico si unì a loro, tirando fuori la sua arma e
alzando la voce così che tutti potessero sentirlo.

“D’accordo, ragazzi, Apriamoci a ventaglio e ispezioniamo i paraggi. Kev,


rimani a lavorare

sull’elicottero. Voi, non vi separate troppo, voglio solo che controlliate la


zona. La squadra Alfa potrebbe essere qui in meno di un ora . Non
completò la frase, non aggiunse che sarebbe potuto

passare anche molto più tempo... ma non era necessario. Almeno per il
momento, erano soli.

Rebecca tirò fuori le nove millimetri dal fodero e controllò accuratamente i


caricatori e il carrello otturatore come le avevano insegnato, con l'arma in
posizione verticale per evitare di mirare verso qualcuno senza rendersene
conto. Gli altri si muovevano su entrambi i suoi lati, controllando le armi e
accendendo le torce. Rebecca respirò profondamente e cominciò a
camminare in linea retta, puntando il raggio di luce della torcia in avanti.
Enrico era solo ad alcuni metri di distanza e avanzava parallelo a lei. Si era
sollevata una fine foschia bassa che si mescolava con i cespugli come in
una marea spettrale. A circa dodici metri, gli alberi si aprivano e formavano
un sentiero abbastanza largo da sembrare una piccola strada... benché la
nebbia le impedisse di esserne sicura.

Tutto sarebbe stato tranquillo e silenzioso se non fosse stato per i tuoni che
rimbombavano più vicino di quanto si aspettasse; il temporale stava per
arrivare su di loro. Il fascio di luce illuminò gli alberi, l’oscurità e dopo altri
alberi. Poi uno scintillio, sembrava...

“Guardi, capitano!”

Enrico si mise al suo fianco e, in pochi secondi, cinque fasci di luce si


diressero verso quella lucentezza metallica che Rebecca aveva intravisto tra
la vegetazione: una stretta strada sterrata e una jeep rovesciata. Mentre la
squadra si avvicinava. Rebecca riuscì a leggere le lettere MP

impresse su un lato. Polizia Militare. Vide un cumulo di vestiti che usciva


dal parabrezza in

frantumi e corrugò il sopracciglio, ripose la pistola nella fondina e si


avvicinò per vedere meglio.

Quando si rese conto della situazione prese il kit medico e corse a


inginocchiarsi vicino alla jeep rovesciata. Già prima di chinarsi seppe che
non poteva fare più niente ormai. C’era troppo sangue...

Due uomini. Uno era stato sbalzato fuori dall’abitacolo e giaceva privo di
vita ad alcuni metri.

L’altro, l’uomo biondo davanti a lei, aveva ancora metà corpo dentro al
mezzo. Ambedue

indossavano delle divise militari da lavoro. Il viso e la parte superiore del


corpo di entrambi erano stati orribilmente mutilati. Avevano grandi
lacerazioni nella pelle e nei muscoli, oltre a delle profonde ferite nel collo.

Era impossibile che fosse stato l’incidente a procurarle.

Rebecca istintivamente allungò la mano per cercare una minima pulsazione,


solo per scoprire

quanto la pelle fosse fredda. Si alzò e si avvicinò all’altro cadavere, di


nuovo cercando qualche segno di vita, ma era freddo tanto quanto il primo.

“Credi siano di Regathon?” chiese Richard. Rebecca vide una valigetta


vicino alla pallida mano

del secondo cadavere e si mise a cercare dentro, chinata.

La risposta di Enrico arrivò mentre alzava il coperchio della valigetta.

“E la base più vicina, ma guarda le mostrine. Sono dei Marines. Potrebbero


essere di Donnell”,

disse.

In una pila di cartellette di rapporti c’era un fermacarte con un documento


dall’aspetto ufficiale.

Nell’angolo superiore a sinistra si vedeva la foto di un giovane uomo dagli


occhi scuri in abito civile. Non le era sembrato nessuno dei cadaveri trovati.
Rebecca sfogliò il documento e lesse in silenzio...

“Capitano!”, disse, mentre si alzava.

Enrico alzò gli occhi, ancora chinato vicino alla jeep.

“Si? Che succede?”

Rebecca lesse a voce alta la parte più rilevante.

“Un’ordinanza del tribunale militare per il trasporto del... prigioniero


William Coen, ex tenente di ventisei anni. Giudicato dalia Corte Marziale e
condannato a morte il 22 Luglio. Il prigioniero sarà trasportato alla base di
Regathon per l’esecuzione...”

Il tenente era stato accusato di omicidio di primo grado.

Edward le prese il documento dalle mani e disse con voce carica di furia
quello che già si stava plasmando nella mente di Rebecca.

“Questi poveri soldati. Stavano solo facendo il loro lavoro, e quella canaglia
li ha uccisi ed è fuggito”.

Enrico, a sua volta, prese i documenti dalle sue mani e gettò loro una rapida
occhiata.

“Bene, ragazzi. Cambio di programma. Abbiamo un assassino in libertà.

Separiamoci e perlustriamo la zona, vediamo se riusciamo a localizzare


questo tenente Coen.

Mantenetevi in allerta e ritornate qui a fare rapporto tra quindici minuti, a


prescindere da quello che avrete trovato”.

Tutti fecero gesti di assenso. Rebecca si lasciò andare a un sospiro profondo


mentre gli altri cominciavano a muoversi; controllò il suo orologio, decisa a
essere professionale come qualunque altro componente della squadra.
Quindici minuti, nessun problema. Che cosa poteva accadere in

quindici minuti? Sola, in mezzo a quei boschi così bui.

“Hai la tua radio?”

Rebecca si girò trasalendo sentendo la voce di Edward. L’uomo si trovava


dietro di lei e le diede una pacca nella spalla, sorridendo.

“Tranquilla, ragazzina”.

Rebecca gli restituì il sorriso, benché odiasse che la chiamassero


“ragazzina”. Per l’amor di Dio, Edward avevo solo ventisei anni! Rebecca
diede alcuni colpetti alla radio che pendeva dalla sua cintura.
“Pronta”.

Edward fece un gesto affermativo con la testa e si allontanò.

Il suo messaggio chiaramente era tranquillizzante. Rebecca non sarebbe


stata mai realmente sola, non finché aveva la sua radio. Si guardò attorno e
notò che qualcuno era già fuori dalla sua| visuale.

Kevin era seduto sul sedile del pilota, stava esaminando il portadocumenti
che lei aveva trovato. La vide e le indirizzò un saluto militare. Rebecca alzò
il pollice e girò le spalle mentre tornava a sfoderare la sua arma pronta ad
addentrarsi nella notte. In alto, rombò minaccioso un tuono.

Albert Wesker sedeva nella sala di controllo B1 dell’impianto di


trattamento.

L’unica luce nella stanza proveniva dallo scintillio di sei monitor di


osservazione che

cambiavano immagine in rotazioni di cinque secondi. Da lì si potevano


controllare tutti gli ambienti del centro di addestramento, i piani superiori e
inferiori dell’impianto di trattamento delle acque e il tunnel che li
collegava.

Contemplò i silenziosi schermi in bianco e nero senza osservarli realmente;


la maggior parte

della sua attenzione era concentrata sulla trasmissione che stava ricevendo
dalla squadra di pulizia.

Un manipolo di tre uomini — anzi, due più il pilota — stava viaggiando in


elicottero già da un po’, in assoluto silenzio per la maggior parte del tempo;
erano professionisti e non perdevano tempo con barzellette puerili e
comportamenti da macho, ciò significava che Wesker stava ascoltando solo
un mucchio di statica. Nessun problema; il rumore bianco si abbinava bene
ai visi inespressivi e agli sguardi fissi che vedeva sui monitor, ai corpi
sconquassati abbandonati negli angoli mentre gli uomini che erano stati
infettati vagavano senza meta per i corridoi vuoti. Esattamente come villa
Arklay e i laboratori, che si trovavano a pochi chilometri da lì, anche la
struttura privata di addestramento e formazione dell’Ufficio Bianco, nonché
i centri a questa annessi, era stata

contaminata dal virus.

“Tempo di arrivo stimato: trenta minuti, passo”, disse il pilota con una voce
scoppiettante che risuonò nella sala mal illuminata.

“Ricevuto”, rispose Wesker, avvicinandosi al microfono.

Di nuovo silenzio. Non era necessario parlare di quello che sarebbe


successo quando fossero

arrivati al treno... e, benché fosse un canale sicuro, ohi comunque meglio


non dire più dello stretto necessario. La Umbrella era una società fondata
sul segreto, una caratteristica del gigante

farmaceutico che, anche nei livelli superiori di gestione, tutti continuavano


a rispettare. Perfino nei commerci legittimi della compagnia, meno si
parlava e meglio era.

Ma ora tutto sta venendo fuori, pensò Wesker fissando gli schermi. La a
tenuta Spencer e i laboratori che la circondavano erano caduti a metà
maggio. L’Ufficio Bianco lo aveva considerato come un semplice
“incidente”, mettendo in isolamento i laboratori fino a che i ricercatori e il
personale infetto fossero passati a essere “non infetti”. Dopotutto,
succedono sempre degli errori.

Ma l’incubo di quel centro di addestramento che ora si presentava davanti


ai suoi occhi non poteva essere una coincidenza meno di un mese dopo il
primo... e poi, solo poche ore fa, il macchinista del treno privato della
Umbrella, l’Ecliptic Express, aveva premuro il pulsante d’allarme di
pericolo biologico.

Quindi isolarlo non è servito a niente... il virus è comunque sfuggito e si è


diffuso. È cosi semplice, no?
Nella sala da pranzo del centro di addestramento c’era un pugno di reclute
infette. Una di queste camminava in circoli irregolari attorno a quello che
era stato un bel tavolo. Gli colava del fluido viscoso da una brutta ferita alla
testa e avanzava a passi incerti, inconsapevole di dove si trovasse, del
dolore, di nulla. Wesker spinse alcuni tasti del pannello di controllo che si
trovava sotto il monitor in modo da impedire che l’immagine cambiasse. Si
appoggiò allo schienale guardando il condannato fare ancora una volta il
giro del tavolo.

“Potrebbe essersi trattato di sabotaggio”, disse a voce bassa. Ma non poteva


esserne sicuro, Tutto sembrava cosi naturale; una fuoriuscita nel laboratorio
di Arklay, un isolamento insufficiente. Poche settimane dopo, un paio di
escursionisti dispersi, probabilmente opera di uno dei due soggetti
sperimentali fuggiti; e alcune settimane più tardi, l’infezione nel secondo
centro dell’Ufficio Bianco. Era altamente improbabile che uno dei portatori
del virus avesse raggiunto per caso uno degli altri laboratori di Raccoon, ma
era possibile... solo che ora c’era da considerare anche il treno.

E quello non sembrava affatto un incidente. Dava la sensazione di essere


stato... progettato.

Merda, avrei potuto farlo io, se solo ci avessi pensato.

Già da qualche tempo stava cercando il modo per uscire da tutto questo,
stanco di lavorare per

della gente chiaramente interiore a lui, e pienamente cosciente che essere


sul libro paga dell’Ufficio Bianco non fosse molto consigliabile per la
salute.

E ora pretendevano che fosse lui a guidare la S.T.A.R.S. nella villa di


Arklay e nei laboratori solo per scoprire come si sarebbero comportate le
creature da battaglia della Umbrella contro dei soldati addestrati e armati. E
si preoccupavano che lui potesse morire nella missione?

Assolutamente no, a patto che prima di farlo registrasse i dati, questo era
certo.
Investigatori, medici, tecnici — chiunque lavorasse per l’Ufficio Bianco per
più di una decade o due aveva l’abitudine di finire morto o scomparso.
George Trevor e la sua famiglia, il dottor

Marcus, Dees, il dottor Darius, Alexander Ashford... e questi erano solo i


nomi più importanti. Dio solo sapeva quanta gente che contava meno di
loro era finita sepolta da qualche parte... o era stata trasformata nel soggetto
sperimentale A, B o C. L’ombra di un sorriso si formò sulla sua bocca.

Pensandoci bene, lui aveva un’idea precisa su quanti fossero, lavorava per
l’Ufficio Bianco dalla fine degli anni Settanta, e per la maggior parte di quel
tempo era stato destinato solo all’area di Raccoon. Aveva visto i dottori
utilizzare un buon numero di individui per gli esperimenti, molti dei quali
aveva aiutato a catturare lui stesso. Avrebbe dovuto aver lasciato la
Umbrella già diverso tempo fa, ma se fosse riuscito a ottenere i dati che
volevano i pezzi grossi, avrebbe anche potuto organizzare sotto banco
un’asta che di certo sarebbe stata agguerrita, il regalo di addio per

finanziare la sua pensione. L’Ufficio Bianco non era l’unico gruppo


interessato alla ricerca sulle armi biologiche. Ma in primo luogo, c’era la
pulizia del treno.

E di questo posto, pensò, contemplando il soldato con la ferita in testa


mentre sbatteva contro una sedia e andava a finire al suolo. Il centro di
addestramento era collegato all’impianto “privato”

di trattamento delle acque da un tunnel sotterraneo; avrebbe dovuto


sgombrare tutto.

Passarono alcuni secondi, e il soldato che si vedeva sullo schermo si rimise


in piedi e proseguì con la sua passeggiata che non andava da nessuna parte.
Ora sembrava avesse una forchetta infilzata nella spalla destra, un piccolo
souvenir della caduta. Il soldato, naturalmente, non lo notò neanche.

Si trattava di una malattia affascinante. Senza dubbio ci sarebbero state


scene simili nei laboratori Arklay, Wesker ne era convinto; le ultime
chiamate disperate dal laboratorio in quarantena avevano dipinto un ritratto
vivido della gran efficacia del T-Virus. Anche quello doveva essere ripulito,
ma non fino a quando non avesse portato lì la S.T.A.R.S. per un po’ di
addestramento.

Sarebbe stato un incontro interessante. La S.T.A.R.S. era in gamba, lui


aveva scelto

personalmente la metà di loro, ma non avevano mai affrontato niente di


somigliante al T-Virus.

Il soldato agonizzante sullo schermo era un esempio perfetto: carico del


virus ricombinante,

continuava a vagare per la sala da pranzo, instancabile, lento e stupido. Non


sentiva nessun dolore, e avrebbe attaccato senza esitare chiunque o
qualunque cosa avesse incrociato la sua strada, grazie al virus che cercava
costantemente nuovi portatori da infettare. Benché quello fuoriuscito

originariamente avesse contaminato l’aria, passato qualche tempo il virus si


diffondeva solo tramite i fluidi corporei. Attraverso il sangue, o per un
morso.

E il soldato era solo un uomo, in fin dei conti; il T-Virus attaccava ogni tipo
di tessuto vivente, e c’erano gli altri... animali... per vederlo in azione, dalle
creazioni del laboratorio

fino alla fauna locale. Enrico doveva aver già. messo in azione il team
BRAVO, per cercare gli

escursionisti scomparsi, ma aveva forti dubbi che avrebbe trovato qualcosa,


là dove aveva

intenzione di cercare.

Molto presto, Wesker si sarebbe incaricato di organizzare un’escursione di


entrambe le squadre

alla “deserta” tenuta Spencer. Allora avrebbe cancellato tutte le prove,


pronto a iniziare la sua nuova, ricca, vita, mandando all’inferno l’Ufficio
Bianco e la sua vita di doppio agente, smettendo di giocare con le esistenze
di poveri uomini e donne di cui non gli importava affatto.

L’uomo agonizzante dello schermo tornò a cadere, riuscì ad alzarsi con


fatica e riprese a

camminare.

“Fallo per la grana, ragazzo”, disse Wesker, sciogliendosi in una risatina che
risuonò nell’oscuro vuoto.

Qualcosa si mosse tra i cespugli. Qualcosa di più grande di uno scoiattolo.

Rebecca si girò verso il rumore mentre dirigeva il fascio della torcia e la sua
nove millimetri verso l’arbusto. La luce catturò l’ultimo movimento, le
foglie si muovevano ancora e la torcia

tremava allo stesso ritmo. Fece un passo in avanti, deglutendo e contando a


ritroso da dieci.

Qualunque cosa fosse stata, ora non c’era più.

Un procione, sicuramente. O forse qualcuno ha lasciato il cane sciolto.

Guardò l’orologio convinta che fosse già l’ora di ritornare, ma vide che
erano passati appena

cinque minuti. Non aveva visto o sentito nessuno da quando si era


allontanata dall’elicottero; era come se tutti gli altri fossero scomparsi dalla
faccia della terra.

O sono io a essere sparita, pensò dubbiosa. Abbassò leggermente la canna


della pistola e guardò dietro per controllare la sua posizione. Si stava
dirigendo più o meno verso sudovest dal posto dove erano precipitati;
proseguì per alcuni minuti e... Rebecca sbatté le palpebre sorpresa
scorgendo una parete di metallo risplendere contro la luce della torcia, a
meno di dieci metri. Percorse la superficie col fascio e vide dei finestrini,
una porta...
“Un treno”, mormorò, corrugando il sopracciglio. Le sembrava di ricordare
qualcosa su una

ferrovia in quella zona... la Umbrella, la multinazionale farmaceutica, aveva


una linea privata che andava da Latham a Raccoon City, o no? Non era
molto sicura della storia perché non era del posto, ma avrebbe giurato che la
compagnia era stata fondata a Raccoon. Poi la sede principale della

Umbrella si era in Europa da qualche tempo, ma continuavano comunque a


essere praticamente i

padroni di quasi tutta la città.

E ora cosa ci fa qui questo coso, in mezzo al bosco, a quest’ora della notte?

Percorse dall’alto in basso il treno col fascio di luce e scoprì che c’erano
cinque vagoni, di due piani ognuno. Proprio sotto il tetto dal vagone che
aveva davanti notò la scritta Ecliptic Express.

Dentro, alcune luci erano accese, ma erano molto tenui e producevano una
luce incapace di

attraversare i finestrini, molti dei quali erano in frantumi. Le sembrò di


intravedere la sagoma di una persona dietro uno di quelli ancora intatti, ma
non si muoveva. Chissà se stava dormendo.

O forse è ferita, o morta. Forse il treno si è fermato perché Billy Coen ha


trovato il modo di entrare.

Dio che pensiero! In quello stesso momento poteva trovarsi là dentro e aver
preso degli ostaggi.

Era arrivata l’ora di chiamare i rinforzi. Mosse la mano verso la radio, ma


poi si trattenne.

O chissà, forse il treno si è guastato da un paio di settimane ed è stato


lasciato qui, e dentro non c’è altro che una colonia di marmotte.
La sua squadra ne avrebbe riso per un bel po’. Certo, si sarebbero mostrati
tutti molto gentili, ma sopportare le loro prese in giro per settimane o
perfino mesi per aver chiamato rinforzi solo per entrare in un treno vuoto.
Tornò a guardare l’orologio e vide che erano passati due minuti

dall’ultima volta. Improvvisamente, sentì una un liquido freddo cadergli sul


naso e subito un’altra sul braccio. Quindi sentì lo scampanio soave e
musicale di cento gocce che cadevano sulle foglie e per terra, e
successivamente di migliaia, quando il temporale finalmente si liberò.

La pioggia decise per lei; avrebbe dato un’occhiata rapida all’interno del
treno prima di fare

ritorno all’elicottero, giusto per assicurarsi che tutto tosse come doveva
essere, Se Billy non fosse stato lì, almeno poteva informare gli altri che il
freno era libero e tranquillo.

E, se ci fosse stato...

“Dovrai vedertela con me”, mormorò, e le sue parole si persero nel fragore
del temporale che

aumentava di intensità mentre lei avanzava verso il treno silenzioso.

DUE

Billy era seduto al suolo tra due file di sedili mentre cercava di aprire le
manette con una

graffetta che aveva trovato. Una delle manette, la destra, si era rotta quando
la jeep si era rovesciata, ma preferiva comunque evirare di passeggiare con
un braccialetto rumoroso e incriminante. Doveva liberarsi anche dell’altra.

Liberarmene e uscire di qui al più presto, pensò, cercando di forzare la


serratura col sottile pezzo di metallo. Non alzò mai lo sguardo; non aveva
bisogno di ricordare dove si trovasse, non era

necessario. L ’aria era carica dell’odore di sangue che era schizzato


dappertutto, e benché nel vagone del treno in cui era entrato non ci fossero
corpi, non aveva alcun dubbio sul fatto che gli altri vagoni ne fossero pieni.

I cani, saranno stati quei cani... ma chi diavolo... chi li avrà aizzati?

Forse lo stesso tizio che aveva visto nel bosco. Doveva essere lui. Il tipo
che si era piantato davanti alla jeep e li aveva fatti schiantare dopo che
avevano perso il controllo. Billy era stato sbalzato fuori e, ad eccezione di
alcuni lividi, ne era uscito illeso. Ma i poliziotti militari che lo scortavano,
Dickson ed Eider, erano rimasti intrappolati sotto il veicolo rovesciato,
benché fossero ancora vivi. L’uomo che li aveva fatti uscire di strada,
chiunque fosse, era scomparso.

Erano stati un paio di minuti terribili, da solo in piedi nell’oscurità, mentre


l’odore caldo e oleoso della benzina gli saliva in viso, cercando di prendere
una decisione: scappare o chiedere aiuto via radio? Non voleva morire, non
meritava di morire. Ma non voleva neanche lasciare quegli uomini

sotto una tonnellata di metallo contorto, feriti e appena coscienti, la strada


che avevano percorso, un percorso sterrato che attraversava i boschi fino
alla base, lasciava intendere che sarebbe potuto passare molto tempo prima
che qualcuno li trovasse. Sì, era vero che lo stavano conducendo davanti al
plotone dì esecuzione, ma eseguivano solo gli ordini, non era niente dì
personale, e non meritavano di morire, non più di quanto lo meritasse lui.

Aveva deciso di optare per una soluzione intermedia: chiedere aiuto via
radio per poi fuggire via... ma era stato allora che quei cani erano arrivati.
Tre bestie enormi, umide e orribili, non aveva avuto altra possibilità se non
correre per salvarsi la vita. Aveva notato subito qualcosa di molto, molto
strano in quegli esseri; se ne era reso conto perfino prima che attaccassero
Dickson, prima che gli strappassero la gola coi denti mentre lo trascinavano
fuori da sotto la jeep.

Billy pensò di aveva sentito un clic e cercò di aprire la manetta, l’aria sibilò
tra i denti con uno sbuffo quando si accorse che la chiusura di metallo
rifiutava di aprirsi. Maledetta cianfrusaglia.

Aveva trovato per caso una graffetta, benché ci fossero cose più utili sparse
ovunque — carte, borse, cappotti, oggetti personali — quasi tutto macchiato
di sangue. Chissà, avrebbe potuto trovare qualcosa di meglio che una
semplice graffetta se avesse cercato con più calma, ma ciò significava
rimanere nel treno, e farlo non sembrava affatto una buona idea. Per quanto
ne sapeva, quei cani potevano vivere lì, nascondendosi insieme al folle che
si lanciava davanti alle automobili in

movimento. Era salito su quel treno solo per sfuggire ai cani, per calmarsi e
pensare a quale sarebbe stata la sua prossima mossa.

E a quanto pare sono finito a bordo dell’Espresso del Mattatoio, pensò


mentre scuoteva la testa.

Questo si che è finire dalla padella alla brace.

Qualunque fosse stata la merda che quei boschi nascondevano, lui non
voleva farne parte. Si sarebbe tolto le manette, avrebbe cercato un qualche
tipo d’arma e magari avrebbe preso anche un portafoglio o due tra tutti quei
bagagli macchiati di sangue — era sicuro che ai proprietari non sarebbe
importato ormai — poi finalmente sarebbe ritornato alla civiltà. E dopo
chissà, Canada o forse Messico. Non aveva mai rubato prima, e neanche
aveva mai pensato di abbandonare il paese, ma arrivato a quel punto doveva
pensare come un criminale, soprattutto se aveva intenzione di

sopravvivere.

Sentì i tuoni, poi il soave picchiettio della pioggia su alcuni dei finestrini
rotti.

I colpetti si trasformarono in un ticchettio rombante, l’aria pregna di sangue


divenne meno

pesante quando una raffica entrò da uno dei vetri sconquassati. Magnifico.
A quanto pare avrebbe fatto una passeggiata in mezzo al temporale.

“Qualunque cosa è meglio di questo...”, mormorò, tirando l’inutile graffetta


contro il sedile
davanti a lui. Si era già rassegnato alla situazione, e dubitava che avrebbe
potuto peggiorare.

Billy si irrigidì, trattenendo il respiro. La porta esterna del vagone si stava


aprendo. Riusciva a sentire il metallo che scivolava; la pioggia suonò più
forte per un istante, e poi tornò debole.

Qualcuno era appena salito a bordo.

Merda!

E se fosse stato il maniaco coi cani?

O forse qualcuno ha trovato la jeep?

Sentì stringersi un nodo allo stomaco. Poteva anche essere. Forse


qualcun’altro della base aveva deciso di prendere quella strada secondaria
quella notte; chissà, potevano aver già dato l’allarme, vedendo l’incidente e
sapendo che doveva esserci un terzo passeggero, un uomo diretto verso la
sua esecuzione.

Poteva anche darsi che lo stessero già cercando.

Non si mosse; rimase ad ascoltare i movimenti di chi era venuto dalla


pioggia. Durante alcuni

secondi non sentì niente, poi un passo silenzioso, dopo un altro e un altro
ancora. Si allontanavano da lui, dirigendosi verso la parte anteriore del
vagone.

Billy si sporse in avanti infilando con attenzione le piastrine di


identificazione dentro il collo della maglietta affinché non tintinnassero; si
mosse con cautela fino ad affacciarsi con la testa al bordo del sedile vicino
al corridoio. Qualcuno stava attraversando la porta che collegava il vagone
con l’altro; qualcuno magro, basso, una ragazza, o chissà un ragazzo molto
giovane, protetto da un giubbotto antiproiettile in kevlar e uniforme militare
verde.
Billy riuscì a distinguere alcune lettere impresse sul dorso del giubbotto,
una S, una T, una A —

ma fu allora che lui o lei sparì dalla sua vista.

S.T.A.R.S. Avevano inviato una squadra alla sua ricerca? Non poteva
essere, non così in fretta.

La jeep si era rovesciata da neanche un’ora, a dir tanto, e la S.T.A.R.S. non


aveva contatti diretti con l’esercito, era un corpo speciale del Dipartimento
di Polizia, nessuno li avrebbe chiamati a intervenire. Probabilmente la sua
presenza aveva a che fare con i cani che aveva incontrato prima, col branco
selvaggio mutante.

Di solito, la S.T.A.R.S. si occupava della merda locale che la polizia non


poteva o non voleva toccare. O chissà, magari erano accorsi per investigare
su cosa era accaduto al treno.

Che importa il perché? Saranno di certo armati, e se capiscono chi sei,


questo sarà il tuo ultimo momento di libertà. Allontanati da qui, e subito
anche.

Con i cani mutanti che scorrazzavano per i boschi? No, non sarebbe uscito
senza un’arma, in

nessun modo. Doveva esserci stato qualcuno della sicurezza sul treno, una
guardia privata con una pistola, l’unica cosa che doveva fare era trovarlo.

Cominciava a essere rischioso, con la S.T.A.R.S. lì dentro, ma, a ben


vedere, c’era un solo agente. E se avesse dovuto...

Billy scosse la testa. Aveva già visto morti più che a sufficienza nelle Forze
Speciali. Alla fine, se fosse arrivato a quel punto, avrebbe lottato o sarebbe
scappato, ma non sarebbe tornato a uccidere mai più. Almeno non uno dei
buoni.

Billy si rimise in piedi, inclinato in avanti, con le manette penzolanti dal


polso. Prima avrebbe visto che cosa c’era in quel vagone, poi si sarebbe
allontanato il più possibile dall’intruso della S.T.A.R.S. Non aveva senso
confrontarsi con lui se poteva evitarlo. Semplicemente...

Bam! Bam! Bam!

Tre spari, provenienti dal vagone successivo. Una pausa, dopo altri tre,
quattro, e dopo il

silenzio.

A quanto pare non tutti i vagoni erano vuoti. Sentì che il nodo allo stomaco
si faceva ancora più stretto, ma non gli permise di fermarlo. Prese la prima
valigetta che trovò e incominciò a

rimescolare il suo contenuto.

Nel primo vagone non c’era segno di vita, ma doveva essere appena
successo qualcosa di molto

brutto, su questo non aveva alcun dubbio.

Un incidente? No, non ci sono danni strutturali... ma... tanto sangue!

Rebecca chiuse la porta dietro di lei, lasciando fuori la spessa cortina di


pioggia, e contemplò il caos che la circondava. Il vagone doveva essere
stato molto elegante, con pannelli di legno oscuro e moquette costosa,
lampade antiche e carta da parati con rilievi vellutati. C’erano giornali,
valigie, cappotti e borsette sparsi dappertutto. Lo scenario sembrava quello
di un terribile incidente, e le gocce e le macchie di sangue che coprivano le
pareti e i sedili sembravano convalidare la teoria. Ma dov’erano i
passeggeri?

Avanzò all’interno del vagone, puntando la pistola su e giù per il corridoio.

C’erano giusto alcune luci accese, quanto bastava per vedere qualcosa, ma
le ombre erano

spesse. Non si muoveva niente.


Lo schienale del sedile che aveva alla sua sinistra era sporco di sangue.

Rebecca allungò la mano e toccò una delle macchie. Subito se la ripulì sui
pantaloni con una

smorfia schifata. Era ancora fresca.

Luci accese, sangue fresco. Qualunque cosa sia successa, è accaduta di


recente.

Opera del tenente Coen forse? Dopotutto era stato accusato di omicidio...

Ma non poteva certo contare su una banda di uomini al suo servizio; la


distruzione era troppo

ampia, troppo esagerata, più simile a un disastro naturale che a un attacco


per prendere degli

ostaggi.

Molto più simile agli omicidi avvenuti nella foresta...

Assentì mentalmente, respirando profondamente. Gli assassini dovevano


aver colpito di nuovo. I

corpi recuperati dai boschi erano dilaniati e mutilati, e le scene del crimine
avevano lo stesso aspetto di quella del vagone del treno, con sangue
dappertutto. Doveva uscire di lì, contattare via radio il capitano e richiamare
il resto della squadra. Cominciò a dirigersi verso la porta, ma esitò.

Prima dovrei controllare che il treno sia sicuro.

Ridicolo. Rimanere lì da sola sarebbe stata una pazzia stupida e pericolosa.


Nessuno si sarebbe aspettato che lei controllasse la scena di un crimine da
sola, supponendo che qualcuno fosse stato assassinato. Per quanto poteva
saperne, avrebbe potuto esserci stata anche una sparatoria o qualcosa del
genere, e il treno avrebbe potuto essere stato evacuato.
No, questo sì che è stupido. Ci sarebbero poliziotti dappertutto, squadre
mediche di pronto soccorso, elicotteri giornalisti... qualunque cosa sia
successa, sono la prima a essere arrivata sulla scena del crimine... e
investigare è la mia massima priorità.

Non poté astenersi dal domandarsi che cosa avrebbero detto i ragazzi
quando avessero visto

come lei avesse fatto tutto da sola. Avrebbero dovuto smetterla di chiamarla
“ragazzina”. Come

minimo si sarebbe lasciata dietro la categoria di matricola molto più in


fretta di chiunque altro.

Poteva dare un’occhiata rapida, superficiale, e se qualcosa fosse sembrato


minimamente pericoloso, avrebbe richiamato subito la squadra.

Assentì mentalmente. D’accordo. Non aveva problemi a gettare


un’occhiata. Respirò

profondamente e cominciò dalla parte anteriore del vagone, camminando


con attenzione tra i

bagagli sparsi. Quando raggiunse la porta di collegamento, si armò di


coraggio, la attraversò

rapidamente e aprì la seconda porta senza darsi tempo per i ripensamenti.

Oh, no!

Nel primo vagone già era stata dura, ma lì c’era della gente. Cinque
persone, che poteva già

scorgere da dove si trovava, tutti chiaramente morti, coi visi devastati dagli
artigli di qualcosa di sconosciuto e i corpi inzuppati di un’oscura umidità.
Alcuni erano ancora sui sedili, come se li avessero assassinati brutalmente
nel posto che occupavano. L’odore di morte poteva quasi toccarsi, come
quello di una carogna decomposta o della frutta marcia in una giornata
calda.
La porta si chiuse automaticamente alle sue spalle e Rebecca trasalì, col
cuore che le batteva con forza, vagamente cosciente che tutto quello era
davvero troppo per lei. Doveva chiedere aiuto, ma fu allora che sentì i
sussurri e sì rese conto di non essere da sola.

Mirò con la pistola verso il corridoio vuoto, senza essere sicura da dove
provenisse il suono e col cuore che le andava al doppio della velocità.

“Si identifichi!”, disse, con una voce più ferma e autoritaria di quanto si
aspettasse. Il sussurro continuò, soffocato e distante, stranamente spento in
mezzo al silenzio del vagone. Suppose che doveva essere così che faceva un
maniaco assassino, dondolando e sussurrando a se stesso dopo la follia
omicida.

Stava per ripetere l’ordine quando, sul suolo, verso la metà del corridoio,
vide la fonte del sussurro. Era una piccola radio a transistor, apparentemente
sintonizzata su una stazione di notizie AM. Camminò verso il congegno,
stordita dal sollievo. Era sola, dopotutto. Si fermò davanti alla radio,
abbassando la sua semiautomatica. C’era un corpo nel sedile accanto al
finestrino, alla sua sinistra, ma dopo una rapida occhiata iniziale evitò di
tornare a guardarlo. Gli avevano tagliato la gola e aveva gli occhi bianchi. Il
viso grigiastro e gli abiti laceri brillavano inzuppati da fluidi organici
dall’aspetto viscoso, facendolo apparire come uno zombie da film horror.
Rebecca si piegò e raccolse la radio, sorridendo a se stessa nonostante la
paura che ancora la attraversava. Il suo

“maniaco assassino” era una donna che leggeva le notizie. La ricezione era
pessima e si sentiva lo stridio della statica ogni due o tre frasi. D’accordo,
era un’idiota. In ogni caso, era ora di avvertire Enrico.

Rebecca si girò, pensando che avrebbe avuto migliore ricezione se fosse


uscita dal treno, e il

movimento che notò nel sedile accanto al finestrino fu così lento e sottile
che, per un momento, credette che quello che aveva visto fosse un riflesso
della pioggia sul vetro. Fu allora che l’origine di quel movimento gemette,
con un lieve e misero lamento, e Rebecca capì che non poteva essere la
pioggia.
Il cadavere si era alzato dal sedile e si avvicinava verso di lei. La testa
deforme ciondolava

indietro e di lato, lasciando intravedere la pelle lacerata della gola.

Il gemito divenne più profondo, più anelante, mentre l’uomo allungava le


braccia davanti a sé, mentre dal viso pesto colava sangue e liquido viscoso.

Rebecca lasciò cadere la radio e fece un passo barcollante indietro,


inorridita.

Si era sbagliata; quell’uomo non era morto, ma era evidente che fosse
impazzito dal dolore.

Doveva aiutarlo.

Non c’è molto nella cassetta dei medicinali, ma ho della morfina. Dovrebbe
aiutarlo a calmarsi.

Oh, Dio, che diavolo è successo qui?

L’uomo si avvicinò trascinando i piedi, cercando di raggiungerla, con gli


occhi bianchi e della saliva nera che scendeva dalla bocca. Nonostante
sapesse che il suo dovere fosse quello di aiutarlo, di alleviare la sua
sofferenza, Rebecca, inconsciamente, fece un altro passo indietro.

Una cosa era il dovere, ma il suo istinto le diceva di cominciare a correre, di


uscire di lì prima che quell’uomo potesse farle del male.

Si girò, senza essere sicura di cosa fare, e vide due persone alle sue spalle,
in piedi nel corridoio che avanzavano verso di lei con gli stessi movimenti
rigidi e barcollanti dei mostri di un film dell’orrore, ambedue con un viso
inespressivo e ferito quanto quello dell’uomo dagli occhi bianchi.

Quello che aveva davanti indossava un’uniforme, era una sorta di


inserviente del treno, col viso esangue, ossuto e grigio. Dietro lui c’era un
uomo il cui volto era stato parzialmente strappato; si vedevano perfino i
denti attraverso la guancia destra. Rebecca scosse la testa mentre alzava
l’arma.
Doveva trattarsi di qualche tipo di malattia, una fuoriuscita di sostanze
chimiche o qualcosa del genere. Erano malati, dovevano essere malati. Ma
mentre i tre uomini si avvicinavano, con le loro dita ossute rivolte verso di
lei e gemendo con avidità, capì di essere in pericolo. Anche se malati,
stavano per attaccarla. Di questo era sicura come lo era del suo nome.

Spara! Non dubitare più!

“Fermo!”, gridò, girandosi verso l’uomo dagli occhi bianchi, ormai sin
troppo vicino. Se era

consapevole del fatto che gli stessero puntando un’arma contro, non lo
diede a vedere.

“Sparo!”

“Aaaahh!”, tossicchiò gracchiarne il mostro, cercando di afferrarla e


digrignando i denti neri.

Rebecca sparò.

Due, tre colpi. Le pallottole penetrarono nella carne scolorita dell’uomo.


Due nel petto. La terza gli fece un buco sopra all’occhio destro. La creatura
lanciò un verso vuoto, un suono di frustrazione più che di dolore, e cadde a
terra.

Rebecca si girò pregando che, con il rumore degli spari, gli altri due uomini
si fossero fermati, ma scoprì che li aveva quasi sopra, con gli sguardi vitrei
e i gemiti impazienti. Il primo colpo andò a conficcarsi nel collo dell’uomo
con l’uniforme, e mentre questo si dondolava all’indietro, Rebecca mirò
alla gamba del secondo.

Chissà se posso ferirlo semplicemente, fare in modo che cada...

L’uomo dall’uniforme cominciò ad avanzare di nuovo mentre dal collo


perdeva sangue a fiotti.

“Dio!”, esclamò Rebecca, con una voce che quasi non le usciva dal corpo.
Ma gli uomini continuavano ad avanzare, non aveva tempo di porsi
domande né di pensare. Alzò

l’arma e sparò altre tre volte, tutti colpi diretti alla testa.

Sangue e pezzi di carne schizzarono per aria. I due uomini caddero


finalmente a terra.

Improvvisamente, silenzio, quiete. Rebecca osservò il vagone con gli occhi


sbarrati, il corpo vibrante per l’adrenalina. C’erano altri due o tre “cadaveri”
ma nessuno di loro si mosse.

Che cosa è successo? Credevo che fossero morti.

Ed erano morti. Erano zombie.

No, gli zombie non esistevano. Mentre cercava di capirci qualcosa, Rebecca
si accertò di aver

caricato il colpo in canna, in automatico come se fosse nel bel mezzo di uno
scontro a fuoco.

Non erano zombie, non come quelli dei film almeno. Se fossero stati già
morti, gli spari non li avrebbero fatti sanguinare a quel modo; se il cuore
non batte non può pulsare sangue.

Ma sono andati giù solo dopo averli colpiti alla testa.

Certo, ma ciò poteva significare che il tutto fosse dovuto a un qualche tipo
di malattia, forse qualcosa che bloccava i recettori del dolore.

Gli omicidi della foresta. Rebecca sentì gli occhi allargarsi ancora di più
mentre completava il puzzle. Se ci tosse stata una fuoriuscita di sostanze
chimiche o una malattia, avrebbe potuto colpire un gran numero di persone
nella foresta. spingendoli ad attaccare altri. Recentemente erano state
ricevute segnalazioni riguardo a cani selvaggi. Era possibile che l’epidemia
colpisse anche specie differenti? Alcune delle vittime erano state
parzialmente divorate, e almeno due dei corpi
presentavano morsi tanto umani quanto animali.

Sentì un leggero movimento e smise di respirare. Vicino alla porta da dove


era entrata, un

cadavere seduto sembrava aver sgocciolato un po’ di liquido sul sedile. Lo


osservò per quella che le sembrò un’eternità, ma il corpo non si mosse e
l’unica cosa che poteva sentire era il rumore della pioggia all’esterno.

Un cadavere o una vittima di qualche tragica circostanza? Rebecca non


aveva nessuna voglia di

scoprirlo. Indietreggiò, schivando l’uomo dagli occhi bianchi che


finalmente era morto del tutto, e decise di dirigersi verso la porta dalla parte
anteriore del vagone. Doveva uscire dal treno e spiegare agli altri quello che
aveva visto. La testa le girava solo al pensiero di cosa sarebbe stato
necessario fare; bisognava allertare la comunità e dichiarare
immediatamente lo stato di quarantena. Il governo federale avrebbe dovuto
mettersi in azione, così come il CDC, il Centro di controllo delle malattie, o
l’USAMRID, l’Istituto medico di malattie infettive dell’esercito, o chissà
anche l’EPA, l’Agenzia di protezione ambientale che aveva potere
sufficiente per delimitare tutta la zona e investigare su cosa fosse successo.

Sarebbe stato un lavoro enorme, ma lei poteva contribuire, segnare il...

Il cadavere sul fondo del vagone si mosse di nuovo. Abbassò la testa fino ad
appoggiarla sul

petto, e tutti i pensieri sul come salvare Raccoon volarono via dalla sua
mente sconvolta. Rebecca si girò e corse fino alla porta di collegamento, in
preda al terrore. L’unica cosa che voleva in quel momento era uscire subito
di lì.

Non tardò molto a trovare un’arma, e fortuna volle che Billy conoscesse a
menadito la pistola

d’ordinanza della polizia militare trovata in un borsone nascosto sotto un


sedile. Era la stessa arma utilizzata dalla sua scorta. C’era anche un
caricatore di scorta, mezza scatola di pallottole calibro 9xl9mm parabellum
e un accendino, un altro arnese molto utile da avere a portata di mano;

dopotutto poteva essere necessario dover dare fuoco a qualcosa.

Caricò l’arma, mise l’altro caricatore nella cintura e le pallottole nelle


tasche anteriori,

desiderando di avere la sua uniforme invece di essere vestito da civile.

I jeans non erano la cosa migliore per portarsi dietro rutta quella merda.

Iniziò a cercare una giacca, ma poi cambiò idea; perfino con la pioggia era
una notte calda, e

andare in giro con i jeans inzuppati era già sufficientemente seccante.


Doveva accontentarsi delle tasche che aveva. Rimase davanti alla porta che
conduceva alla foresta, con l’arma in mano,

ripetendosi che doveva andare via, ma senza decidersi a farlo. Non aveva
sentito nient’altro dal ragazzo della S.T.A.R.S. dopo i sette spari. Erano
passati solo alcuni minuti, se il ragazzo aveva avuto delle difficoltà non era
ancora troppo tardi per intervenire e...

Sei pazzo?, gli gridò il suo cervello.

Allontanati! Corri, idiota!

Chiaro, naturalmente. Doveva andar via. Ma non poteva cancellare dalla


testa l’eco di quegli

spari; aveva passato troppo tempo a essere uno dei buoni per voltare le
spalle a qualcuno che aveva bisogno d’aiuto. E poi, se il ragazzo era morto,
avrebbe avuto un’arma in più.

“Sì, è per questo”, mormorò, perfettamente consapevole che era alla ricerca
di una ragione
qualsiasi per giustificare la sua decisione. Non c’era altro da fare, doveva
andare a dare un’occhiata.

Gemendo mentalmente, Billy si allontanò dalla porta, dalla libertà, e avanzò


verso la parte anteriore del vagone. Attraversò la prima porta e si trattenne
un istante nella piattaforma intermedia prima di afferrare la maniglia della
seconda per entrare nel vagone successivo. L’unico rumore era quello della
pioggia che si stava trasformando in un vero e proprio temporale. Apri la
seconda porta più piano che poté e la attraversò.

L’inconfondibile odore fu la prima cosa che notò. Strinse i denti mentre


sondava il vagone con lo sguardo, contando le teste. Tre nel corridoio. Due
più avanti a destra e uno alla sua sinistra, accasciato su un sedile. Tutti
morti.

L’uomo sulla strada...

Billy si accigliò, rendendosi conto che uno tra i cadaveri intorno a lui
avrebbe potuto essere

l’idiota che si era messo davanti alla jeep, causando l’incidente. Aveva
potuto giusto intravedere l’uomo, ma ricordava di aver pensato che
sembrava ammalato.

Chissà, forse uno di loro... ma no, questi erano morti ormai da giorni.

Allora, contro che cosa aveva sparato il ragazzo?

Billy si avvicinò al cadavere più vicino, si chinò su di lui ed esaminò le


ferite con occhio esperto mentre respirava superficialmente con la bocca.

Il tipo sembrava morto da tempo; gli mancava parte della guancia sinistra, e
forse per questo sembrava gli stesse dedicando un ampio sorriso; i bordi del
tessuto, morto e nero, mostravano già i segni della decomposizione. Eppure
c’erano uno, due buchi di pallottola, e una pozzanghera di

sangue fresco gli circondava la testa e la parte superiore del corpo, come
fosse un’ombra rossa.
Billy toccò la pozzanghera, accigliandosi. Era ancora caldo. Il corpo più
vicino dopo questo, l’inserviente del treno, presentava un aspetto
abbastanza simile, ma una delle ferite era alla gola.

Billy non si riteneva di certo Einstein, ma non era neanche sprovvisto di


logica.

Il sangue fresco poteva unicamente significare che questa gente sembrava


morta.

E il fatto che fossero pieni di buchi recenti suggeriva che avessero cercato
di attaccare il solitario membro della S.T.A.R.S.

Questo significa che è meglio stare dannatamente attenti,

penso mentre si rimetteva in piedi. Si girò dì scatto fissando il corpo che ti


trovava sul sedile dietro di lui e socchiuse gli occhi. Si era mosso o era stato
solo un gioco di luci?

Qualunque fosse stata la risposta, era il caso di andare via a gran velocità.

Si affrettò per il corridoio, sorpassandoli mentre tentava di controllarli tutti


contemporaneamente e maledicendo la necessità che l’aveva spinto a
cercare quel ragazzino della S.T.A.R.S. Se non

avesse avuto una maledetta coscienza, si sarebbe già dileguato nella notte.

Scivolò rapidamente attraverso le due porte ed entrò vagone seguente con


l'arma spianata. Non

era un vagone passeggeri e non era decorato. Dall’entrata poteva vedere


solo un breve corridoio davanti a lui, due porte chiuse alla sua destra e
alcuni finestrini sul lato opposto.

Pensò di controllare prima le cabine, sicuro che fosse la cosa più


intelligente da fare, visto che dare le spalle a una zona che non era sicura
rappresentava un rischio. Non aveva intenzione di mettere in sicurezza
l’intero treno, l’unica cosa che voleva era assicurarsi che il ragazzo stesse
bene e subito dopo uscire di lì.
E se il ragazzo non salta fuori entro un paio di minuti, salto comunque giù
dal treno. Qui è tutto uno schifo.

“Schifo” non era proprio la parola più adatta, neanche riusciva a descrivere
quel terrore che gli si ritorceva nello stomaco, ma aveva visto perfino gli
uomini più forti paralizzati dalla paura e non voleva pensare troppo a quei
mostri o all’oscurità. Meglio prenderla alla leggera e proseguire, come se
fosse in un incubo del quale avrebbe riso domani.

Avanzò lentamente per il corridoio, in silenzio, appoggiando la schiena


contro la parete. Il corridoio piegava a destra e continuava passando davanti
a una porta aperta con l’entrata bloccata da alcune scatole di cartone. Un
magazzino, probabilmente. Almeno non c’erano altri corpi, ma l’odore di
marcio galleggiava nell’aria. I pochi finestrini che non erano rotti
riflettevano, quando vi passava davanti, la sua pallida ombra su uno sfondo
esterno di oscurità e pioggia. Notò inquieto che gran parte dei vetri rotti si
trovavano all’interno del vagone, sparsi sul pavimento di legno scuro.

Questo significava che qualcuno aveva cercato di entrare, non di uscire.


Inquietante.

Sembrava che più avanti il corridoio svoltasse di nuovo verso sinistra,


proprio dopo un’altra

porta chiusa che aveva una placca con su scritto UFFICIO DEL
CAPOTRENO. Doveva trovarsi

vicino la testa del treno. Improvvisamente, vide un’altra pallida ombra


rispecchiata su di un

finestrino, dietro l’angolo. Si fermò e rimase immobile osservando la figura


accovacciata che dava le spalle al corridoio, senza pensare alle minacce che
potevano arrivare da dietro. Se faceva parte delle S.T.A.R.S., lui o lei
necessitava di maggiore addestramento.

Billy avanzò di un paio di passi, alzò la sua arma e si mise dietro la figura
chinata. Sapeva che doveva evitare un confronto — ovviamente il ragazzo
era in perfette condizioni, mentre lui si
sentiva ancora un po’ acciaccato dall’incidente, inoltre avrebbe dovuto
essere già andato via da un bel po’ — ma voleva anche sapere che cosa
stesse succedendo, e quella poteva essere la sua unica opportunità di
ottenere delle informazioni.

Il membro della S.T.A.R.S. si girò, vide Billy e si mise in piedi molto


lentamente, senza smettere di guardarlo in viso.

Non mi ero sbagliato di molto a pensare che fosse poco più di un


adolescente, pensò Billy, mentre contemplava i grandi e innocenti occhi di
una ragazza molto giovane. Diamine, ultimamente la S.T.A.R.S. stava
assumendo direttamente dalle scuole superiori? Era di bassa statura, più di
quindici centimetri meno di lui, e molto bella; capelli castano rossiccio,
magra, muscolosa, con tratti delicati e regolari. Se pesava più di quaranta
chili, sarebbe stata una sorpresa.

La ragazza si era piegata su un uomo morto, il cui cadavere mutilato


giaceva contro un angolo

del corridoio, vicino alla porta d’uscita di quel vagone, e se si era sorpresa
nel vedere Billy, lo nascose molto bene.

“Billy”, disse la ragazza con voce chiara e melodica. Le sue parole gli
fecero stringere i denti,

“Tenente Coen”.

Merda. Qualcuno deve aver trovato la jeep, dopotutto.

Billy mantenne l’arma in alto, mirando direttamente al suo occhio destro,


cercando di mostrarsi calmo.

“E così sembra che tu mi conosca. Chissà cosa starai fantasticando su di


me, non è vero?”

“Sei il prigioniero che trasportavano per l’esecuzione”, rispose lei, con la


voce che acquisiva un tono duro.

“Eri coi soldati là fuori”,


Crede che sia stato io a ucciderli, pensò Billy.

Era scritto sul suo viso da folletto. Billy si rese conto che se la ragazza
pensava davvero che ci fosse una qualsiasi relazione tra lui e i morti del
treno e della jeep, molto probabilmente non aveva neanche la minima idea
di quello che stava succedendo realmente. Eppure non vide nessuna ragione
per distoglierla dalla sua convinzione, seppur errata. Stava cercando di fare
la dura, ma Billy notò comunque che la intimoriva.

Poteva sfruttare questo fattore per uscire dalla situazione e andarsene.

“Uuh, vedo che”, disse “sei della S.T.A.R.S. Bene, senza offesa dolcezza,
ma sono sicuro di non andare troppo a genio né a te né ai tuoi amici.
Cosicché la nostra piccola chiacchierata deve finire ora ”.

Abbassò l’arma, si girò e si allontanò, camminando tranquillamente e senza


fretta, come se non

fosse minimamente preoccupato dalla presenza della ragazza. Sperava che


la sua chiara mancanza

di esperienza e la paura che lui le ispirava le impedissero di agire. Era un


rischio calcolato, ma pensò che valesse la pena correrlo. Si rimise l’arma
sotto la cintura e si trovava già a metà corridoio quando senti la corsa di lei
per raggiungerlo.

Merda. Merda.

“Fermo! Sei in arresto!”, disse lei con voce ferma.

Billy si voltò e vide che la ragazza non aveva neanche sfoderato la sua
arma.

Si sforzava di apparire dura, senza però riuscirci. Se la situazione fosse stata


meno pericolosa, meno strana, Billy ne avrebbe sorriso.

“No grazie, faccia d’angelo. Porto già le manette”, ripose, alzando la mano
sinistra e facendo
tintinnare i bracciali di metallo. Si voltò e fece per allontanarsi di nuovo.

“Potrei spararti, lo sai?!”, gli gridò dietro, con una traccia di disperazione
nella voce. Billy continuò a camminare. Lei non lo seguì e, dopo qualche
secondo, stava di nuovo attraversando la prima porta di collegamento.

Aprì la porta del vagone dove si trovavano i passeggeri morti con un sorriso
incerto, sollevato.

Era meglio così, ognuno per sé e...

E si trovò davanti l’uomo morto che prima era accasciato sul sedile in
fondo, vacillante e con

l’unico occhio che gli rimaneva puntato su Billy. Con un gemito affamato,
la creatura barcollò in avanti ed estese le sue dita triturate come se volesse
afferrare la strada che lo divideva da Billy.

TRE

Rebecca osservò Billy uscire dal vagone e si sentì impotente e troppo


giovane.

Non aveva neanche guardato indietro, come se non valesse la pena


preoccuparsi di lei.

E, apparentemente è così, pensò Rebecca, lasciando cadere le spalle. Non si


aspettava che potesse essere tanto... intimidatorio. Alto, muscoloso, con
occhi scuri e lo sguardo d’acciaio e un intricato tatuaggio tribale che
copriva tutto il braccio destro. Lo aveva visto perché la fina maglietta di
cotone che indossava gli lasciava entrambe le braccia scoperte. Aveva l’aria
di essere un duro, ma, nonostante il suo terribile scontro coi non-morti,
Rebecca non si era sentita in grado di

fermarlo.

Per non parlare del fatto che ti sei lasciata cogliere impreparata.
Aveva trovato un cadavere solitario nella parte anteriore del vagone, uno del
personale del treno, scoprendo quella che sembrava una chiave nella fredda
mano del morto. Visto che l’unica altra

porta dalla quale uscire dal treno era bloccata, aveva deciso di prendere la
chiave per poi ritornare attraverso il vagone passeggeri. Era tanto
concentrata nel cercare di prendere la chiave senza rompere le rigide dita
del cadavere che non aveva neanche sentito avvicinarsi il condannato a
morte, non finché non era stato troppo tardi. Ora, mentre camminava
nuovamente verso la parte anteriore del vagone, notò che la porta chiusa si
apriva solo mediante una scheda magnetica.

Fantastico. Finora stava andando davvero alla grande.

Si voltò e allertò la radio, pronta ad ammettere la sconfitta.

Se fosse riuscita a fare in modo che i suoi compagni di squadra arrivassero


rapidamente, si

sarebbero occupati loro di Billy. E, cosa ancor più importante, non sarebbe
stata l’unica a sapere che qualche specie di morbo si era abbattuto sulla città
di Raccoon. Era curioso. Improvvisamente, acciuffare un assassino
ricercato era sceso bruscamente all’ultimo posto nella lista delle priorità.

Bam! Bam!

Prima ancora di toccare il tasto di trasmissione, udì due spari nel vagone
contiguo, proprio nella direzione in cui si era diretto Billy.

Esitò per un momento, senza sapere cosa fare e, in quell’istante, un


finestrino esplose alle sue spalle.

Sì girò di scatto e in mezzo alle schegge di vetro riuscì a intravedere una


figura cadere al suolo.

“Edward!”

Il meccanico non rispose. Rebecca corse al fianco del suo compagno di


squadra, valutando
rapidamente le sue condizioni. A parte un’enorme ferita aperta nella spalla
destra, il viso era grigio per lo shock e lo sguardo annebbiato e vago.

Tutte le parti esposte del suo corpo erano ricoperte da contusioni e


abrasioni.

“Stai bene?”, domandò Rebecca mentre apriva il medikit e tirava fuori un


cerotto di garza

bianca. Strappò il pacchetto e applicò la garza sulla spalla del suo


compagno mentre si rendeva conto, abbattuta, che non sarebbe servito a
molto.

A giudicare dalla quantità di sangue che gli inzuppava la

camicia, la vena succlavia doveva essere stata recisa. Si sorprese che fosse
ancora in vita, e

ancora di più che avesse avuto la forza per saltare attraverso il finestrino.

“Che cosa è successo?”

Edward girò la testa verso di lei, sbattendo le palpebre lentamente. La sua


voce contratta dal

dolore.

“Peggio... non si può...”

Rebecca premette la garza con forza, ma era già quasi inzuppata del tutto.

Edward aveva bisogno immediatamente di un ospedale, o non ce l’avrebbe


fatta.

La voce di Edward suonò ancora più debole.

“Fa’ attenzione, Rebecca...”, disse faticosamente, “il bosco è pieno di


zombie... e di mostri...”
Rebecca stava per dirgli di non parlare più e di risparmiare le energie,
quando un altro finestrino esplose alla sua sinistra, ricoprendo entrambi di
frammenti di vetro. Due sagome scure e

gigantesche entrarono saltando attraverso la cornice vuota. Una sparì


nell’angolo del corridoio e l’altra girò verso loro.

Zombi e mostri.

Un cane, era un cane enorme. Come nessuno dei cani che aveva visto in
vita sua. Avrebbe potuto

essere un doberman, un tempo, ma vedendo le fauci aperte gocciolanti


saliva e i pezzi di carne e muscolo che gli pendevano dalle zampe
posteriori, Rebecca si rese conto che era stato contagiato dalla stessa
epidemia che aveva infettato i passeggeri del treno. Non aveva solo
l’aspetto di un cane morto, ma sembrava distrutto, con una patina rosso
sangue sugli occhi e il corpo simile a un folle mosaico di pezzi di pelle
bagnata e tessuti sanguinolenti.

Edward non sarebbe stato capace di proteggersi da solo. Rebecca si mise in


piedi lentamente e

fece un passo indietro, allontanandosi dal meccanico agonizzante. Aveva la


pistola nella mano,

benché non ricordasse di averla sfoderata. Sentiva il secondo cane ansimare


nel corridoio, fuori dal suo campo visivo. Mirò all’occhio sinistro
dell’animale e, per la prima volta, comprese quale vero orrore fosse quella
malattia. Lo scontro con i passeggeri non-morti era stato terribile, tanto

scioccante che non aveva quasi avuto tempo di considerare il significato di


tutto ciò. Ora, vedendo davanti a lei la mostruosa bestia dalle zampe rigide,
il cui ringhio andava aumentando fino a

convertirsi in un penetrante ululato di fame, si ricordo del cane che aveva


quando era bambina, un pastore nero chiamato Donner, di quanto gli avesse
voluto bene, e si rese conto che probabilmente anche questo mostro era
stato, una volta, l’adorato cane di qualcuno.

Così come le persone a cui aveva sparato poco prima erano state un tempo
esseri umani che

avevano riso o pianto, e avevano famiglie che li attendevano, famiglie che


sarebbero rimaste col cuore spezzato per la loro perdita.

Una malattia, una fuoriuscita chimica o un attacco terroristico, qualunque


cosa avesse causato

tutto questo, era un abominio!

La sua riflessione le attraversò la mente per un istante e spari. Il cane tese i


suoi scarni fianchi, preparandosi per attaccare, e Rebecca tirò il grilletto.

La nove millimetri le tremò tra le mani e lo scoppio dell’esplosione fu


assordante in uno spazio tanto piccolo. Il cane crollò a terra.

Rebecca si girò e mirò verso il corridoio, aspettando che apparisse il


secondo cane. Non dovette aspettare molto.

Ruggendo, l’animale saltò fuori da dietro l’angolo con le fauci spalancate.

Rebecca sparò. Il colpo penetrò il petto del cane e lo lanciò all’indietro con
un acuto gemito di dolore, ma stavolta la bestia tornò in piedi. Si scosse
come per scrollarsi dell’acqua di dosso e ringhiò, pronto ad avventarsi
nuovamente su di lei, benché del sangue scuro e pustolante gli

sgorgasse a fiotti dalla ferita aperta.

L’avrebbe dovuto ammazzare, quella pallottola avrebbe dovuto lasciarlo


secco!

Proprio come per la gente nel vagone passeggeri, sembrava che solo un
colpo alla testa potesse
finirlo. Rebecca alzò la pistola e sparò di nuovo. Questa volta dritto nel
centro della stretta testa. Il cane cadde, si scosse in un spasmo e rimase
immobile. Potevano essercene altri. Rebecca abbassò leggermente l’arma, si
girò verso i finestrini rotti e cercò di vedere attraverso l’oscurità e la
pioggia, tendendo l’orecchio a qualcosa che non fosse il suono del
temporale. Dopo alcuni secondi

desistette. Si girò verso Edward mentre cercava un nuovo patch di garza


nello zaino, e si fermò con lo sguardo inchiodato sul suo compagno di
squadra. Dalla ferita alla spalla ormai non usciva più sangue.

Cercò rapidamente il polso poggiando il dito sotto il suo orecchio sinistro,


ma non sentì niente.

Edward fissava il pavimento con gli occhi mezzi aperti, morto.

“Mi dispiace”, mormorò Rebecca, sedendosi sui talloni. Sembrava


inconcepibile che Edward se

ne fosse andato, che fosse morto nel breve lasso di tempo in cui lei stava
sparando contro quelle bestie canine, e sentì il senso di colpa che la
invadeva. Se solo fosse stata più rapida, se avesse bendato meglio la ferita...

Ma non l’hai fatto, e quanto più tempo stai qui seduta sentendoti colpevole,
più probabilità hai di finire come lui. Muoviti!

Rebecca si sentì ancora più colpevole davanti a quel pensiero cinico, ma


un’occhiata verso i vetri frantumati la fece rimettere subito in piedi.
Avrebbe valutato la sua responsabilità e le sue colpe più tardi, quando non
fosse stato così pericoloso farlo.

La radiotrasmittente emise un fischio. La afferrò mentre si allontanava dai


finestrini e dal povero Edward.

La ricezione era pessima, ma riconobbe la voce di Enrico. Si portò


l’altoparlante all’orecchio e provò un gran sollievo nel sentire la voce del
capitano tra le esplosioni di statica.
“...mi ricevi?... più informazioni su... Coen...”

Malvolentieri, Rebecca si avvicinò ai finestrini sperando che la ricezione


fosse migliore, ma la statica continuò ugualmente.

“...ha ucciso almeno ventitré persone... attenzione...”

Che cosa?

Rebecca strinse il bottone di trasmissione.

“Enrico, qui Rebecca! Mi ricevi? Passo”.

Un’ondata di statica.

“Capitano! S.T.A.R.S. team BRAVO, mi ricevi?”

Lunghi secondi di statica. Aveva perso il segnale. Tornò ad allacciarsi la


radiotrasmittente alla cintura. Doveva tornare all’elicottero, spiegare agli
altri di Edward, di Billy e del treno, e del terribile pericolo che li attendeva.

Sostituì il caricatore della nove millimetri e si prese alcuni secondi per


ricaricare l’altro che era pieno a metà. Con un ultimo, triste sguardo al suo
compagno di squadra caduto, scavalcò il corpo del cane, cercando di non
scivolare sulla pozzanghera di sangue che lo circondava, e si diresse verso il
vagone passeggeri. Benché sapesse di dover essere impaziente di correre
dietro al carcerato evaso per arrestarlo, sperava di non incontrare di nuovo
Billy. La morte di Edward, i cani... si sentiva stordita e incapace di imporre
la sua autorità. Ventitré persone? La percorse un brivido, sorpresa che non
l’avesse ammazzata quando ne aveva avuto l’opportunità.

Nel vagone passeggeri vide il risultato dei due colpi che aveva udito poco
prima.

La vittima infetta che prima credeva di aver visto muoversi, benché non ne
fosse stata sicura, a quanto pare doveva essere stata “viva”, in fin dei conti.
Doveva aver cercato di attaccare Billy come gli altri avevano fatto con lei.
Si trattenne sulla porta in fondo al vagone da dove era entrata inizialmente e
osservo i corpi decomposti della gente a cui aveva sparato. Se Edward
aveva ragione, se la foresta era piena di quegli esseri, avrebbe dovuto
muoversi velocemente.

E forse non era stato Billy a uccidere i due marines.

Rebecca sbatte le palpebre. Non ci aveva pensato prima, ma poteva anche


darsi che quelle cose

avessero attaccato la jeep permettendo a Billy dì liberarsi, obbligandolo a


scappare via. Sembrava possibile. I due cadaveri portavano i segni di un
attacco violento, non avevano tracce di colpi d’arma da fuoco; potevano
averlo fatto i cani. Scosse la testa. Non aveva importanza. Era comunque un
assassino, e se non si sentiva all’altezza del compito di catturarlo, avrebbe
trovato qualcuno che fosse in grado di farlo.

Per quanto fosse seria la malattia sconosciuta con cui avevano a che fare,
non poteva permettere che Coen scappasse. Si lasciò alle spalle il vagone
passeggeri e si affrettò ad attraversare la vettura vuota fino alla porta,
sperando che gli altri fossero già di ritorno all’elicottero.

Non sapeva bene come dare la notizia della morte di Edward; sarebbe stata
dura. Rebecca si

accigliò spingendo con forza la porta scorrevole che si rifiutava di


scivolare. Abbassò la maniglia di nuovo e poi di nuovo, quindi le tirò un
calcio, maledicendo in silenzio. Era bloccata, o Billy l’aveva chiusa per
evitare che lei potesse seguirlo.

“Maledizione!”

Mordicchiandosi il labbro inferiore si ricordò della chiave stretta nella


mano dell’inserviente morto. Non era riuscita a strappargliela dalle dita e se
ne era dimenticata dopo il suo incontro con Billy, per non parlare di Edward
e dei cani. Ma chi aveva bisogno di una chiave? Sarebbe stato più facile
strisciare fuori da uno dei finestrini rotti; non c’era problema.

Sentì il suono di una porta che si chiudeva e guardò a sinistra, verso la fine
del treno. Qualcuno si muoveva nel vagone successivo. Un altro passeggero
infetto, probabilmente. O Billy. In ogni

caso, era pronta a saltare fuori dal finestrino.

A meno che... non si tratti di un’altra persona, qualcuno che ha bisogno di


aiuto.

Poteva perfino essere un altro agente della S.T.A.R.S. Una volta approdata a
quell’idea, si sentì in dovere di dare un’occhiata, per quanto potesse aver
senso. Camminò rapidamente fino al fondo del vagone vuoto mentre si
preparava ad affrontare qualunque cosa. Non le sembrava possibile che
quella notte potesse accadere qualcosa di ancora più strano, ma, d’altronde,
la maggior parte di quello che le era già successo sembrava impossibile.

Voleva essere pronta a tutto.

Aprì la porta della vettura seguente e la ispezionò con lo sguardo tenendo


puntata la nove

millimetri, sollevata di trovarla vuota e senza sangue. A sinistra c’era una


scala che saliva e, davanti a lei, una porta.

Quella doveva essere la porta che aveva sentito chiudersi...

Fu allora che sì aprì e ne uscì Billy Coen.

Billy si bloccò, guardò la ragazza e la pistola che teneva in mano e fu


contento che fosse ancora viva, che avesse un’arma e che, apparentemente,
sapesse utilizzarla. Dopo quello che aveva

scoperto, contare su un partner poteva essere la sua unica opportunità di


sopravvivere.

“La cosa si mette male”, disse lui, ma Rebecca sapeva che non si stava
affatto riferendo all’arma che aveva puntata in faccia. Non rispose, lo fissò
solamente e continuò a tenerlo sotto tiro con la nove millimetri. Billy
sapeva che i giochi erano finiti e alzò le mani. La manetta a penzoloni gli
colpì il polso.
“Quella gente, quelli che abbiamo ucciso, erano malati”, proseguì Billy.

“Uno ha provato a mordermi. Gli ho sparato un colpo e ho trovato un


libretto nella sua giacca.

Posso...?”

Cominciò ad abbassare una mano per portarsela alla tasca posteriore.

“No! Tieni le mani in alto!”, ordinò la ragazza, muovendo l’arma.

Sembrava ancora spaventata, ma evidentemente era disposta ad arrestarlo.

“D’accordo”, rispose. “Prendilo tu. Nella mia tasca posteriore destra”.

“Sei in vena di scherzi? Non mi avvicino a te”.

Billy sospirò.

“È importante, è una specie di diario. Non ci capisco molto, ma riguarda


un’investigazione in un laboratorio abbandonato o distrutto, e parla anche di
una serie di omicidi avvenuti qui intorno e della possibilità che un virus si
sia sprigionato nella zona. Qualcosa chiamato T-Virus”.

Billy captò una scintilla di interesse negli occhi di Rebecca, ma la ragazza


non voleva correre rischi.

“Lo leggerò quando ti rimetterai le manette”, disse lei.

Billy scosse con la testa.

“Non so quello che sta succedendo, ma è pericoloso qui. Qualcuno ha


chiuso tutte le uscite, non te ne sei accorta? Perché non cooperiamo finché
non riusciamo ad andarcene di qui?”

“Cooperare?”, alzò un sopracciglio, “con te?”

Billy si avvicinò e abbassò le mani senza far caso all’arma che puntava al
suo viso.
“Ascolta ragazzina, non so se l’hai notato, ma ci sono dei mostri fuori di
testa su questo treno. Io voglio uscire di qui, ma da soli non avremmo
nessuna possibilità di riuscirci”.

Rebecca non abbassò l’arma.

“Speri che mi fidi di te? Non ho bisogno del tuo aiuto, posso gestire la
situazione da sola. E non mi chiamare ragazzina”.

Billy iniziava a perdere la pazienza, ma si contenne, aveva bisogno di lei


come alleato e non come nemico.

“Molto bene, signorina faccio-tutto-io”, disse. “Come devo chiamarti?”

“Mi chiamo Rebecca Chambers”, rispose lei, “ufficiale Chambers, per te”.

“Bene, Rebecca, perché non mi spieghi il tuo piano d’azione?”, domandò


Billy. “Mi arresti?

Perfetto, fallo pure. Chiama tutto l’esercito e dì loro che portino l’artiglieria
pesante. Possiamo aspettarli qui”.

Per la prima volta, lei sembrò dubitare.

“La radio non funziona”, ripose.

Dannazione.

“Come sei arrivata qui?”, domandò lui. “Via terra o via aria? Siamo molto
lontano dal tuo mezzo di trasporto?”.

“Siamo arrivati in elicottero, ma... ora è fuori uso”, rispose Rebecca.

“In ogni caso questi non sono affari tuoi. Rimettiti le manette. La mia
squadra starà sicuramente aspettando fuori”.

Billy abbassò le mani. “Quanto sono lontani? Sei sicura che verranno a
cercarti qui?”
La ragazza si accigliò.

“Non stiamo giocando a Venti Domande, tenente. Ti porto fuori di qui.


Girati e mettiti faccia al muro”.

“No”. Billy aprì le braccia. “Spara se devi, ma in nessun caso consegnerò la


mia arma o lascerò che tu mi metta e manette”.

Le guance di Rebecca arrossirono.

“Tu farai quello che dico io, altrimenti...”

Crash!

Finestrini rotti nel compartimento superiore. Entrambi alzarono lo sguardo


verso le scale, poi si fissarono l’un l’altro. Alcuni secondi dopo sentirono
risuonare dei passi lenti e regolari sopra le loro teste... Poi il niente.

“La sala da pranzo”, disse Billy.

“Era vuota pochi minuti fa”.

Rebecca lo studiò per un istante, poi abbassò leggermente l’arma. Camminò


fino ai piedi della

scala e guardò verso l’alto con un’espressione decisa sul giovane viso.

“Aspetta qui”, ordinò. “Vado a vedere cos’è stato”.

Billy quasi sorrise. Era stato nelle Forze Speciali per sette anni e molto
probabilmente aveva

imparato a sparare prima che lei avesse finito la scuola superiore, eppure lei
stava proteggendo lui?

“Credevo non ti fidassi di me. Cosa mi impedirà di saltare fuori da un


finestrino e fuggire?”

La ragazza sorrise, benché fosse un sorriso freddo, e salì il primo gradino.


“È troppo pericoloso, non ricordi? Da solo non hai nessuna possibilità di
cavartela”.

Prima che lui potesse rispondere qualcosa di adeguatamente tagliente,


Rebecca aveva già

incominciato a salire le scale, apparentemente disposta a provargli che


aveva sufficiente autorità e competenza.

Che ragazza testarda! Con tutto quello che stava succedendo, mettersi alla
prova non avrebbe

dovuto essere la sua priorità. Billy sapeva che doveva seguirla, impedire
che si facesse ammazzare, ma aveva bisogno di un minuto per pensare. La
osservò arrivare al pianerottolo della scala e sparire girando l’angolo, senza
guardarsi mai dietro.

Come dice la canzone, devo restare o devo andar via?

Rebecca voleva arrestarlo, ma per farlo avrebbe dovuto tenerlo in vita.

E anche lei aveva bisogno del suo aiuto; era troppo inesperta per stare lì da
sola.

E chi ti ha eletto suo paladino personale? Vai via! Non sei più uno dei
buoni, ricordi?

Scappare rimaneva sempre una possibilità, ma ormai non si sentiva più


tanto sicuro delle sue

opzioni. Se aveva bisogno di altre prove riguardo al fatto che la foresta


fosse estremamente

pericolosa, il taccuino che aveva trovato, il diario dell’uomo che l’aveva


attaccato, era più che sufficiente per convincerlo.

Lo tirò fuori e sfogliò rapidamente le pagine fino ad arrivare alle ultime


annotazioni, quelle che avevano attirato la sua attenzione.
14 Luglio

Oggi il capo ha impartito gli ordini riguardo alle indagini sul laboratorio
di Arklay... ci manderanno là la settimana prossima per controllare il suo
stato. Alcuni sono preoccupati per le condizioni del posto, per quello che
potrebbe esserci rimasto, ma come dice il capo, qualcuno deve dare per
primo un’occhiata. Bene, quel qualcuno siamo noi...

L’autore poi parlava della sua fidanzata, che si sarebbe arrabbiata sapendo
che stava lasciando la città. Billy proseguì, cercando nelle note quello che
aveva letto prima.

16 Luglio

...c’è ancora così tanto che non sappiamo sulle capacità del T- Virus. A
seconda della specie e dell’ambiente, anche solo una minima dose del T-
Virus può causare sorprendenti cambiamenti delle dimensioni, un
comportamento aggressivo e lo sviluppo del cervello... negli animali,
almeno.

Niente ne è immune. Ma fino a quando non si potranno controllarne meglio


gli effetti, la

compagnia sta giocando con il fuoco.

Billy voltò pagina.

19 Luglio

Finalmente si avvicina il giorno... Sono più ansioso di quanto credessi. I


giornali, le stazioni radio e la televisione di Raccoon City continuano a
parlare dei bizzarri omicidi avvenuti appena fuori i confini della città. Non
può essere il virus. Oppure si? Se si tratta di... No. Non posso pensare a
questo ora. Devo concentrarmi sulle indagini, assicurarmi che vadano
avanti senza intoppi.

Cambiamenti nelle dimensioni, comportamento aggressivo, sviluppo del


cervello. In un cane, per
esempio? E quella frase vaga “negli animali, almeno”. Che cosa faceva quel
T-Virus agli umani?

Billy poteva scommettere di aver già assistito ai risultati.

“Li trasforma in zombie”, mormorò. O in qualcosa di simile.

Quello a cui aveva sparato stava senza dubbio cercando qualcosa con cui
pranzare. Com’è che i

cannibali chiamano gli umani? Grossi maiali, ecco come. Quell’essere era
in cerca di qualche

grosso maiale, senza dubbio.

Una foresta piena di cannibali e mostri. Avrebbe avuto più possibilità


restando insieme alla

ragazza. Fino a quel momento li aveva sistemati bene, aveva fatto fuori
perlomeno tre passeggeri senza impazzire. Poteva rimanere con lei fino a
quando fossero riusciti a trova una via di fuga, poi avrebbe studiato un
modo per scappare prima che il resto della squadra arrivasse, supponendo
che fosse rimasto ancora qualcuno di quella squadra. Una ragazza, la
ragazza, gridò dal piano superiore; un gridò di puro terrore. Billy afferrò
l’arma e si lanciò su per le scale; salì a due a due gli scalini, sperando di
non aver tardato troppo per prendere una decisione.

Nella parte alta della scalinata c’era una curva e poi una porta. Rebecca la
aprì lentamente come poté, spingendola con la canna della pistola, ed entrò.

Fu ricevuta da un fine fumo acre e dal tenue scintillio del fuoco che faceva
danzare le ombre sulle pareti. Era la sala da pranzo del vagone ristorante,
come aveva detto Billy, e doveva essere stata molto bella, coi tavoli coperti
da tovaglie di lino e le finestre con le tende color crema. Ora era tutto
sottosopra.

Piatti e bicchieri rotti ovunque, tavoli rovesciati, tovaglie inzuppate di


sangue e vino versato... e, vicino al fondo della carrozza, una figura solitaria
sedeva curva su un tavolo. L’orlo della tovaglia stava ardendo e le fiamme
salivano lentamente verso l’alto. Rebecca vide una lampada a olio

fracassata davanti al tavolo; doveva essere l’origine del fuoco, e benché


questo fosse ancora di piccole dimensioni, non lo sarebbe stato per molto.
L’uomo appoggiato sul tavolo era assolutamente immobile, e quando
Rebecca si avvicinò, vide che non era come i passeggeri di sotto. Non

sembrava essere stato infettato da quello che Billy suggeriva essere un


virus. Si trattava di un uomo anziano, dall’aspetto distinto, vestito con un
abito marrone e con i capelli bianchi impomatati e pettinati all’indietro.
Aveva la testa china sul petto, come se si fosse appisolato durante la cena.

Un attacco di cuore? O forse era svenuto? Non sembrava molto probabile


che avesse rotto lui la

finestra del secondo piano e si fosse arrampicato sin là, ma, oltre a lui,
Rebecca non vide nessun altro nel salone. Chi altri avrebbe potuto fare i
pesanti passi che avevano sentito?

Rebecca si schiarì la gola mentre si avvicinava a lui.

“Mi scusi”, disse, fermandosi accanto al tavolo e notando che l’uomo aveva
il viso e le mani

bagnate, leggermente brillanti sotto la tenue luce del fuoco. “Signore?”

Non ottenne risposta. Ma l’uomo respirava. Rebecca poteva vedere


distintamente il petto

muoversi. Si chinò su di lui e gli poggiò una mano sulla spalla.

“Signore...”

L’uomo cominciò ad alzare la testa e a volgere il viso verso lei. Si sentì un


suono malaticcio e umido, come di labbra che succhiavano qualcosa di
viscoso e liquido, mentre la testa dell’uomo scivolò via dal torso cadendo a
terra. Il suono umido si fece più forte. Il corpo decapitato cominciò a
tremare, a ribollire, come se fosse pieno di esseri viventi. Rebecca arretrò,
gridando con tutte le sue forze quando il corpo dell’uomo si sgretolò come
blocchi male ammucchiati e cadde a terra.

Quando i pezzi toccarono il suolo si disintegrarono e il tessuto dell’abito


cambiò di colore,

sfumando sul nero e trasformandosi in molte cose, ognuna della dimensione


di un pugno.

Lumache, sono come lumache...

Lumache con file di minuscoli denti affilati. Non lumache, ma sanguisughe,


grasse, rotonde e in qualche modo capaci di imitare la figura di un uomo,
perfino negli abiti.

Non è possibile, questo non può accadere!

Rebecca arretrò di nuovo, invasa dal terrore, mentre le creature si univano


di nuovo e si

mischiavano l’une con le altre in una massa vivente anomala fino a formare
una scintillante torre nelle tenebre. Si rimodellarono, acquisirono forma e
colore, e di nuovo tornarono a dar vita

all’uomo anziano che Rebecca aveva visto seduto davanti al tavolo. Lo


guardò inorridita, senza

poter credere a quello che vedeva. Perfino sapendo che era formato da
cento, anzi migliaia, di orribili creature, non poteva vedere gli spazi tra loro,
non avrebbe saputo che non era un uomo se non per il fatto che lo aveva già
visto con i propri occhi.

La tonalità dell’abito, la forma e il colore del corpo... L’unica traccia che


rivelava l’estranea natura umana era l’avulsa lucentezza della pelle e
dell’abito.

Il falso uomo estese all’indietro il braccio, come se stesse sul punto di


lanciare una palla da baseball, e poi scattò improvvisamente in avanti. Il
braccio si allungò incredibilmente. Rebecca si trovava almeno a cinque
metri da lui, ma la scintillante mano umida diede un fendente nell’aria a
pochi centimetri dal suo viso.

Rebecca inciampò sui propri piedi nella fretta di scappare via e cadde a
terra, mentre il braccio si ricomponeva di nuovo, tornando all’indietro e
preparandosi per un nuovo attacco.

La pistola, stupida! Spara!

Alzò l’arma e sparò. I due primi colpi mancarono il bersaglio, ma il terzo


sparì nel barcollante corpo dall’essere. Poté vedere la falsa pelle ondeggiare
quando le pallottole la raggiunsero. L’abito e il corpo che aveva sotto si
mossero leggermente, come se stesse guardando attraverso le onde che
produce il caldo sull’asfalto in un giorno di estate. La creatura esitò appena
prima di lanciare di nuovo il braccio contro di lei. Rebecca lo schivò, ma la
mano la raggiunse e le schiaffeggiò

leggermente la guancia sinistra. La ragazza gridò di nuovo, più per la


sensazione della mano che la sfiorava che per la forza del colpo. Era fredda,
ruvida e viscosa, come la pelle di squalo bagnata in una palude fangosa.

E, prima di ritirarsi, la mano la colpì di nuovo facendole cadere la pistola.


L’arma scivolò sul pavimento e si fermò sotto uno dei tavoli. L’uomo fece
un altro passo barcollante. Era già

sufficientemente vicino così che il colpo successivo non sarebbe stato facile
da schivare, e Rebecca ebbe solo il tempo di pensare che era una ragazza
morta.

Bam! Bam! Bam!

La creatura indietreggiò goffamente. Qualcuno sparò ancora e ancora,


l’inaspettato suono la fece rabbrividire mentre si metteva in piedi con
difficoltà.

I primi colpi sparirono dentro la forma, come prima, ma a questi ne


seguirono molti altri, fino a colpire il viso invecchiato e rilucente del mostro
dagli occhi brillanti. Un liquido scuro sgorgò dalle improvvise spaccature
nel gruppo mentre le sanguisughe venivano fatte a pezzi. Dopo il sesto o
settimo colpo, l’uomo iniziò a disfarsi e a dividersi nei suoi componenti, e i
piccoli animali neri strisciarono verso i finestrini rotti non appena toccarono
il suolo. Rebecca si voltò per guardare verso la porta e vide Billy Coen, in
piedi, nella classica posizione da tiratore, l’arma tenuta con entrambe le
mani e lo sguardo fisso sulla mostruosità che aveva davanti sé, mentre
questa

completava il suo silenzioso scomponimento e ritornava a essere la


moltitudine di creature che la formavano. Le sanguisughe continuavano a
dirigersi verso le finestre, strisciando su sentieri di melma tracciati sul suolo
coperto di resti e sulle pareti macchiate. Scivolarono senza sforzo sui bordi
appuntiti dei vetri e sparirono nel temporale notturno. A quanto pareva,
avevano terminato il loro attacco. Poi un canto acuto e lamentoso attraversò
il suono della pioggia. Ancora sotto shock, Rebecca si avvicinò alla
finestra, evitando con cura le sanguisughe che strisciavano nel vagone, e
recuperò la sua arma prima di guardare fuori alla ricerca dell’origine del
canto. Billy si unì a lei senza preoccuparsi di schivare le strane creature, e
alcune scoppiarono sotto il tacco dei suoi stivali.

Lo videro grazie alla luce di un lampo, in piedi, su una bassa collina a ovest
del treno. Una figura solitaria — un uomo a giudicare dall’altezza e dalla
larghezza delle spalle — alzò le braccia in gesto di benvenuto mentre
cantava con una voce da soprano sorprendentemente dolce; una voce

giovane, sonora e potente. Cantava in latino, come se fosse un canto di


chiesa. E come se la

situazione non fosse già sufficientemente strana, sembrava che stesse


proprio in mezzo a un lago poco profondo, poiché il suolo ai suoi piedi
sembrava incresparsi in onde intorno a lui. Era troppo buio per vedere bene.
Solo un’ombra nera e una sagoma oscura tradivano la presenza del solitario
cantante.

“Oh, Dio”, esclamò Billy. “Guarda quello”.

Rebecca sentì un formicolio dietro la nuca e la sua bocca si curvò in una


smorfia schifata. Non c’era nessun lago. Il suolo era coperto di
sanguisughe, migliaia di sanguisughe che avanzavano

verso la figura oscura. La ragazza poteva vedere come i lembi del suo
cappotto o della sua tunica ondeggiassero nel momento in cui le creature lo
risalivano sparendo sotto di lui.

“Chi è quel tipo?”, domando Billy, ma Rebecca scosse la testa.

Chissà, forse era come il vecchio di prima, fatto di piccole creature.

Il treno si scosse improvvisamente. Un suono pesante, ascendente e


meccanico invase il vagone,

e il pavimento vibrò sotto i loro piedi. Improvvisamente, il treno cominciò a


muoversi, prima

lentamente, poi guadagnando rapidamente velocità.

Rebecca guardò Billy e vide nel suo viso la stessa confusione che c’era sul
suo.

Per la prima volta provò qualcos’altro oltre al furioso disprezzo per il


criminale. Anche lui era finito in quell’incubo... come lo era lei.

E mi ha appena salvato la vita...

“Credi ancora di potertela cavare da sola?”, le domandò lui con un sorriso


ironico, e Rebecca

sentì disfarsi il tenue vincolo che li univa. Ma prima ancora che potesse
rispondere, Billy sembrò rendersi conto che il suo tentativo di sarcasmo non
era proprio ciò che la situazione richiedeva.

“Credo che a entrambi servirebbe un po’ d’aiuto”, proseguì. “Solo fino a


quando non saremo

usciti da qui, sei d’accordo?”


Rebecca pensò alle vittime del virus che aveva visto e che aveva ucciso, e a
quello che Edward le aveva detto: il bosco era pieno di zombie e mostri.
Pensò ancora al vecchio fatto di sanguisughe e all’uomo che avevano visto
cantare sotto la pioggia; infine ragionò sul fatto che qualcuno, o

qualcosa, aveva rimesso in moto il treno. Anche se Enrico e il resto della


sua squadra fossero stati ancora vivi, si stava allontanando da loro ogni
minuto di più.

“D’accordo, d’accordo”, rispose, e benché l’atteggiamento arrogante e


torvo di Billy non sembrò cambiare, Rebecca si rese conto che l’uomo si
sentiva sollevato.

E lo era anche lei.

QUATTRO

La figura solitaria sulla collina osservò il treno mentre prendeva velocità e


spariva nel temporale.

Aveva il cuore traboccante della canzone che si era diffusa dalle sue labbra
e che vibrava con tanta dolcezza nella selvaggia aria della notte,
richiamando a sé i suoi servi. Avevano compiuto la loro missione.

Il treno era pronto per l’inevitabile squadra di pulizia che sarebbe arrivata
quando il sole fosse tramontato. Avevano anche fatto in modo che la
maggior parte degli infettati si disperdesse nei boschi, chiuso le porte e
messo in marcia il motore. Voleva che fossero le sanguisughe ad

alimentarsi, e non i portatori del virus; una volta che la squadra della
Umbrella fosse salita sul treno, non avrebbe avuto alcuna via di scampo. La
pioggia cadeva sulle sanguisughe mentre queste

strisciavano sulla collina rispondendo alla sua chiamata, ai suoi desideri.

Le accolse con un sorriso, finendo la sua canzone. Le cose andavano


proprio come desiderava.

Dopo un’attesa tanto lunga, ormai non rimaneva molto.


Il suo sogno si sarebbe realizzato. Si sarebbe trasformato nell’incubo della
Umbrella e poi in quello del mondo intero.

“La prima cosa da fare è fermare il treno”, propose Rebecca.

Billy assentì con un gesto.

“Qualche idea?”

“Separiamoci”, rispose lei, tranquilla, sorprendentemente tranquilla,


considerando quello che

aveva appena passato. “Il vagone dove ci siamo incontrati, quello nella
parte anteriore treno, è chiuso. Dobbiamo riuscire ad aprire quella porta
arrivare fino alla motrice”.

“Spariamo alla serratura allora”, disse Billy.

“È un lettore di schede magnetiche”, ripose Rebecca, scuotendo la testa.

“Dobbiamo trovare la scheda che fa da chiave”.

“Ho visto l’ufficio del capotreno...”

“Chiuso”, lo informò Rebecca.

“Dovremo trovare un’altra strada per conto nostro”.

“Potrebbe volerci un bel po’”, disse Billy.

“Dovremmo rimanere insieme”.

“Così ci impiegheremmo il doppio del tempo. Preferirti uscire da questa


ferraglia prima che

arrivi a destinazione, qualunque essa sia”.

Benché non gli piacesse per niente l’idea di girovagare solo per il treno, e
ancor di meno quella che anche lei fosse sola, Billy non poteva discutere
contro la logica di Rebecca.

“Comincerò dalla coda e procederò in avanti”, disse lei. “Tu ti occupi del
secondo piano. Ci

ritroveremo all’inizio del treno”.

Sei tutta un pepe, non credi piccola?, penso Billy, ma preferì tenerselo per
sé.

In un futuro molto prossimo, quella ragazzina sarebbe potuta essere l’unica


cosa a impedire che diventaste il di qualcuno.

“E ti sparo se provi a fare qualcosa di simpatico”, aggiunse Rebecca.

Billy stava per replicare, ma vide la lucentezza negli occhi della ragazza.
Non stava parlando sul serio. Non del tutto perlomeno.

La giovane fece un gesto con la testa indicando l’arma di Billy.

“Hai bisogno di munizioni per quell’arnese?”

“Sono a posto. E tu?”

Un altro cenno di intesa, poi Rebecca si diresse verso la porta. Quando la


raggiunse, si voltò.

“Grazie”, disse gesticolando vagamente dal fondo del vagone. “Te ne devo
una”.

Prima che lui potesse risponderle, era andata via. Billy rimase a guardarla
per un momento,

sorpreso dalla volontà della ragazza di affrontare i pericoli del treno da sola.
Si chiese se fosse stato altrettanto coraggioso alla sua età.

Si chiama “negazione della mortalità”. Succede quando sei tanto giovane,


pensò. Sì, anche lui un tempo aveva pensato che sarebbe vissuto per
sempre. Ma se poi ti condannano a morte vedi le
cose in maniera leggermente differente.

Si trattenne un istante per controllare il vagone ristorante. Osservò schifato i


resti schiacciati e liquidi di una dozzina di sanguisughe mentre si affrettava
a ispezionare il retro del piccolo bancone del bar e sotto i tavoli. C’era una
porta chiusa nella parte anteriore della sala, ma un calcio potente e una
rapida occhiata gli rivelarono che era solo una cabina di servizio vuota con
un buco nel soffitto.

Non si trattenne più del necessario. Suppose che la cosa migliore fosse
controllare i corpi degli impiegati del treno. Scese le scale e si trattenne solo
un momento per guardare verso la parte

posteriore del treno prima di continuare. Rebecca Chambers sembrava


capace di badare a se stessa, quindi tanto valeva che si preoccupasse per la
propria pelle.

Tornò ad attraversare la doppia porta; percorse il primo vagone passeggeri,


completamente

vuoto, e respirò profondamente prima di dirigersi verso il secondo. Lanciò


una rapida occhiata per assicurarsi che non ci fosse più nessuno, e si diresse
verso le scale, non volendo guardare il corpo dell’uomo che aveva ucciso.
Aveva già ucciso in passato, ma non era una cosa a cui ci si poteva abituare,
soprattutto se si aveva una coscienza. L’odore lo raggiunse prima ancora di
arrivare al secondo piano, e avanzò più lentamente, respirando in modo
superficiale. Sembrava l’olezzo di

acqua di mare putrida mista al marciume. Quando giunse in cima alle scale
vide la fonte dell’odore e inghiottì la bile.

Ora sappiamo da dove sono venute.

Arrivò al pianerottolo in cima alle scale; questo diventava un corridoio alla


sua destra che, alcuni metri più in là, girava di nuovo a destra, mentre
l’angolo sinistro del piano era coperto, dal pavimento fino al soffitto, da
qualcosa dì simile a un immenso tessuto dal quale pendevano centinaia di
sacchi di uova, come se fosse il nido di un ragno, Sacchi neri e umidi che
brillavano sotto la tenue luce di un lampadario mezzo sepolto, cullati
soavemente dall’ondulare del treno, tanto da sembrare quasi vivi. Per
fortuna erano vuoti, e Billy pregò Dio di non doversi trovare faccia a taccia
con la creatura che li aveva deposti.

Si allontanò lentamente dall’angolo, pestando i filamenti di materia


brillante che si riversavano sul pavimento come un tappeto, mentre
considerava vagamente se, dopo tutto, l’incidente della jeep fosse stato
davvero un colpo di fortuna. Non voleva morire in alcun nonio, ma un
plotone

d’esecuzione, semplice e pulito, batteva di gran lunga l’essere divorato da


un mucchio di

sanguisughe mutanti.

Non ti abbattere, soldato, Ora sei qui.

Percorse il corridoio e si rilassò un po’ vedendo che era vuoto.

C’erano due porte chiuse, una a ogni lato dello stretto passaggio, entrambe
contrassegnate da un numero, Per questo motivo, così come per il lussuoso
arredamento, suppose si trattasse delle cabine private. Aveva indovinato.
Apri la prima porta, la 102, e si ritrovò in una piccola camera da letto ben
arredata e, per fortuna, senza corpi ne sangue. Sfortunatamente non c’era
molto altro, se non un mucchio di articoli personali in un piccolo armadio.
C’erano carte, un album di foto e un portagioie.

Aprì il cofanetto e vi trovò dentro un anello d’argento dalla foggia inusuale.


Sembrava parte di uno di quegli anelli intrecciati da un set di fasce a
incastro, intagliato e cesellato in maniera del tutto unica. Ma, visto che non
stava cercando dei gioielli, lo lasciò nel portagioie e si diresse verso l’altra
cabina.

Quando aprì la porta della 101 sentì crescere una nuova speranza. Lì,
poggiato a terra come un

dono che non aspettava altri che lui, c’era un fucile.


Billy lo raccolse e lo aprì. Era un Western dalle canne sovrapposte caricato
con due cartucce

calibro dodici. Cercando più a fondo nello scompartimento, trovò un pugno


di cartucce, ma nessuna scheda magnetica.

Chiusura magnetica o no, questo aprirà di certo quella porta, pensò,


mentre si infilava le cartucce nella tasca anteriore. Il peso dell’arma gli
risultò confortante. Fu tentato di raggiungere immediatamente Rebecca, ma
decise che valeva la pena finire quello che aveva cominciato.

C’era una porta alla fine del corridoio, che conduceva presumibilmente al
secondo piano del

vagone contiguo, proprio vicino alla testa del treno. Pensandoci bene,
probabilmente era meglio ricongiungersi con la ragazzina il più presto
possibile. Non aveva paura di stare da solo, non era per quello, e non era
neanche preoccupato per Rebecca. Ma era stato abbastanza anni in servizio
da

imparare che stare da soli nel bel mezzo di un combattimento era la cosa
peggiore da fare. La porta non era chiusa a chiave e si apriva su un grande
salone vuoto, estremamente elegante. Alla sua

destra c’era il bancone in legno di un bar, levigato e ben fornito. Vicino alle
pareti si allineavano eleganti tavoli che lasciavano libera un’ampia porzione
del pavimento in moquette costosa, mentre degli splendidi lampadari
pendevano dal soffitto. Come nel vagone precedente, nessuna traccia di
sangue né di corpi. Billy gettò un’occhiata dietro il bancone per poi
dirigersi verso la porta posta all’altro estremo del salone. Sentì una strana
inquietudine mentre attraversava il largo spazio aperto della sala e strinse
con più forza il fucile. Quando fu quasi all’altro estremo dalla sala,
qualcosa si schiantò contro il soffitto.

Il suono fu rombante, quasi assordante, e l’impatto tanto forte che il


lampadario che si trovava dietro il bar rovinò a terra e il vetro andò in
frantumi. Il treno ondeggiò sulle rotaie facendo inciampare Billy, che per
poco non cadde.
Riuscì a mantenere l’equilibrio e tornò a fissare il luogo da dove proveniva
il fragore. Nel punto dove prima era fissata la lampada ora c’era una
profonda fessura. Lo spesso rivestimento di metallo era contorto,
deformato, e mentre Billy guardava atterrito, due “cose” giganti si
inchiodarono nel soffitto, attraversandolo a circa due metri una dall’altra.
Billy le guardò attonito, senza sapere bene cosa stesse vedendo. Grandi,
cilindriche ed estremamente appuntite, sembravano essere divise

longitudinalmente a partire dalla metà. Potevano essere... delle pinze?

Gli si annodò l’intestino. Erano esattamente quello che sembravano, simili


alle tenaglie di un

granchio o di uno scorpione gigante e, proprio mentre le osservava, le chele


si aprirono mostrando dei bordi seghettati. Le enormi pinze si torsero verso
l’alto e cominciarono letteralmente a segare il soffitto d’acciaio. Il suono
del metallo che si lacerava era come un urlo acuto. Aveva visto

abbastanza. Si girò e percorse in fretta i pochi metri che lo separavano dalla


porta, consapevole di essere ricoperto da una patina di sudore freddo. Alle
sue spalle, il grido del metallo torturato andava crescendo sempre di più.
Afferrò la maniglia della porta, tirò e...

Ed era chiusa. Chiaro.

Si girò appena in tempo per poter assistere all’apparizione del proprietario


delle enormi pinze mentre scendeva inclinato tra le trance frastagliate che
aveva intagliato nel metallo, bloccandogli l’unica via di fuga.

Rebecca aveva appena deciso che l’ultimo vagone era sicuro quando il cane
la attaccò. Dopo

aver lasciato Billy, aveva attraversato la cucina, situata nell’ultimo vagone.


Traboccava di sangue e di utensili culinari sparsi un po’ ovunque, ma per il
resto era vuota. Rebecca iniziava a domandarsi se alcuni dei passeggeri e
degli impiegati fossero riusciti a scappare quando il treno aveva subito
l’attacco. C’era così tanto sangue per così pochi cadaveri. Ma forse,
considerando lo stato dei pochi passeggeri nei quali si era imbattuta, era
meglio così. I piedi le scivolarono su una pozzanghera d’olio mentre
ispezionava la cucina, ma a parte questo la sua ricerca procedeva
abbastanza

tranquillamente. La porta che dava sull’altra parte del vagone,


probabilmente qualche tipo di

magazzino, era chiusa a chiave, ma c’era una specie di angusto


sottopassaggio che correva sotto il pavimento, chiuso da un coperchio che
non faticò a forzare e rimuovere. Non le piaceva l’idea di strisciare
all’interno di un tunnel buio, ma era solo un breve passaggio, poco più di un
paio di metri.

Inoltre, aveva assicurato a Billy che avrebbe ispezionato tutta la porzione


posteriore del treno e aveva intenzione di essere scrupolosa. Fare bene il
proprio lavoro era qualcosa a cui afferrarsi in mezzo a una simile follia. Le
vittime del virus erano già abbastanza pericolose, ma l’uomo fatto di
sanguisughe...

Non pensarci. Cerca la chiave magnetica, ferma il treno e va a cercare un


aiuto concreto.

Magari da qualcuno che non sia un condannato per omicidio.

Billy era il suo unico porto in mezzo alla tempesta, per così dire; le aveva
salvato la vita, ma fidarsi di lui più dello stretto necessario sarebbe stato da
idioti.

Aveva avuto ragione riguardo il vano attiguo. Dopo essere strisciata


claustrofobicamente per

quello che, per fortuna, era stato un breve tratto, si rialzò in un spazio di
immagazzinamento

illuminato da un’unica lampadina.

C’erano scatole e bidoni lungo le pareti, per la maggior pane nascosti


dall’ombra.
Non si muoveva niente, fatta eccezione per il dondolio del treno che
avanzava crepitando sui

binari. In fondo al compartimento c’era una porta con una finestrella nel
centro. Rebecca si avvicinò con l’arma spianata e vide l’oscurità in
movimento dall’altro lato del vetro. Il rumore del treno si fece più forte;
finalmente aveva raggiunto l’ultimo vagone, Guardando verso l’esterno
sentì

un’emozione simile al sollievo solo al sapere che, là fuori, il mondo


continuava a esserci. E nella peggiore delle ipotesi, poteva sempre saltare.

Il treno avanzava velocemente, ma era pur sempre un’opzione.

Clic.

Si voltò udendo il leggero suono dietro la schiena e mirò verso il buio con il
cuore che le

martellava forte dentro il petto. Il treno continuava ad avanzare, e le ombre


andavano e venivano. Il suono non si ripeté. Dopo un momento di tensione,
Rebecca espirò profondamente e buttò fuori

tutta l’aria. Probabilmente era stata una delle scatole nel dondolarsi.

Come il resto in quel vagone — almeno per quanto riguardava il piano terra
— anche quel

magazzino sembrava essere sicuro. Dubitava ci fosse una scheda magnetica


là intorno, ma almeno

poteva dire di aver controllato.

Clic. Clic. Clic-clic-clic.

Rebecca si immobilizzo. Il suono era proprio accanto a lei, e sapeva che


cos’era; chiunque
avesse avuto un cane lo sapeva: il picchiettio delle unghie su una superficie
dura. Mosse lentamente la testa verso destra, vide che c’erano un paio di
gabbie per cani, entrambe con la porta divelta e spalancata. E, uscendo
dall’ombra, dietro la più vicina... Accadde tutto molto in fretta. Con un
ringhio furioso, il cane saltò. Rebecca ebbe appena il tempo di constatare
che era proprio come gli altri che aveva visto: enorme, infetto e
decomposto. La gamba le si sollevò di riflesso, lanciando un violento calcio
nel fianco dell’enorme creatura. Accompagnata da un orribile suono umido,
sentì come parte del petto dell’animale affondasse schiacciata dal colpo,
mentre la pelliccia si separava dal muscolo grigiastro e del pelo infeltrito le
si attaccava alla suola unta della scarpa.

Incredibilmente, il cane continuò ad avanzare come se non notasse


minimamente la ferita,

spalancando le gigantesche fauci gocciolanti. L’avrebbe azzannata prima


ancora di aver avuto il tempo d’alzare l’arma, ne era sicura.

Poteva quasi sentire i denti chiudersi sul suo braccio, e sapeva che un morso
di quel cane

l’avrebbe uccisa, trasformandola in uno dei morti viventi del treno.

Ma prima che i denti arrivassero a toccarla, il piede d’appoggio si posò su


un’altra chiazza

d’olio, facendola scivolare. Rebecca cadde a terra sbattendo l’anca, mentre


la bestia le passò sopra, liberando nell’aria un penetrante olezzo di carne
marcia.

Una delle zampe posteriori le aveva calpestato la spalla sinistra nel passarle
sopra. L’inaspettata quanto fortunata caduta le aveva regalato solo un
secondo. Rebecca ruotò sullo stomaco, allungò il braccio e sparò, colpendo
l’animale mentre si girava preparandosi per un nuovo attacco. Il primo
colpo andò troppo alto, ma il secondo infilò la pallottola appena sotto
l’occhio sinistro della povera bestia.

Il cane crollò al suolo, morto già prima che gli spasmi muscolari cessassero.
Il sangue incominciò a spargersi attorno all’animale.

Rebecca si allontanò velocemente e si rimise in piedi. Oltre a quelle che


erano le nozioni

fondamentali, la virologia non era la sua specialità, ma era disposta a


scommettere che il sangue caldo del cane fosse altamente contagioso. Non
voleva certo beccarsi quell’infezione; non aveva a che fare con un semplice
raffreddore.

Sempre supponendo che questo sia un virus, pensò, mentre fissava la massa
di carne marcia che un tempo era stata un cane. Quel misterioso T-Virus di
cui aveva parlato Billy aveva tanto poco senso quanto tutto il resto di quello
aveva visto stanotte.

Come si era diffuso? Qual era il suo grado di tossicità e con quale rapidità si
amplificava nel corpo del portatore? Raschiò la suola della scarpa contro
uno dei canili e sperò che quell’umido suono che aveva sentito si
cancellasse dalla sua memoria con la stessa facilità. D’improvviso, vide
qualcosa di brillante tra le ombre. Si chinò e raccolse un piccolo anello
d’oro dal design piuttosto originale. Non sembrava essere d’oro autentico e
probabilmente non valeva niente, ma tutto

sommato era bello e, tenendo conto di tutto quello che le era successo,
poteva considerarsi fortunata per essere lì a contemplarlo.

“Questo lo trasforma in un anello fortunato”, disse infilandoselo al dito


indice della mano

sinistra. Le calzò quasi alla perfezione.

L’anello fu tutto quello che trovò. Non c’era nessuna scheda magnetica, né
altro che potesse

esserle utile. Uscì solo un momento sulla piattaforma posteriore e rimase


immediatamente
inzuppata. Il temporale era torrenziale, e il treno andava troppo veloce per
poter anche solo

considerare l’idea di saltar giù. Le si accese un debole barlume di speranza


quando vide un pannello con su scritto FRENO D’EMERGENZA, ma
pochi tocchi ai controlli le fecero capire che non c’era

corrente. Per fortuna che era da usare in caso di emergenza!

Tornò dentro, scansandosi i capelli bagnati dalla fronte. Era arrivato il


momento di andare avanti e perquisire i corpi degli uomini che lei e Billy
avevano ucciso. Per quanto spiacevole fosse

quell’idea, non aveva molte alternative. Non sapevano se qualcuno stesse


guidando il treno o se ormai fosse impazzito. In entrambi i casi, avrebbero
dovuto riprenderne il controllo.

Prima di andare via guardò un’ultima volta verso il cane che giaceva riverso
sulla schiena,

pensando a quando fosse stata fortunata, a come facilmente avrebbe potuto


essere stata morsa o

sbranata a morte. Non avrebbe più abbassato la guardia; sperava solo che
Billy stesse avendo più fortuna di lei.

Santo Dio!

Billy rimase a guardare con la bocca aperta e il cervello paralizzato


l’incredibile cosa che aveva davanti, a meno di dieci metri di distanza.
Poteva assomigliare a uno scorpione, ma solo se gli scorpioni crescevano
fino ad avere le dimensioni di un’automobile sportiva. Il mostro che aveva
attraversato il soffitto del treno era una sorta di insetto, di circa tre metri di
lunghezza, con un paio di pinze giganti e corazzate poste ai due lati del
capo piatto e una lunga coda che si incurvava sulla sua schiena e finiva con
un pungiglione ricurvo più grande della testa di Billy. Aveva molte zampe,
ma Billy non era intenzionato a contarle al momento, non finché quella cosa
avanzava verso di lui, emettendo un suono simile a quello di un motore
surriscaldato e battendo il suolo con le sue

articolate estremità. La pioggia scendeva a catinelle dal buco dal soffitto


rendendo la scena ancor più infernale, con la creatura che emergeva dalla
foschia umida come in un incubo.

Non c’era tempo per pensare. Billy appoggiò il fucile da caccia sulla spalla,
alzò le canne e mirò al cranio basso e piatto della cosa. Tra il movimento
del treno e l’avanzare barcollante del mostro, necessitò di alcuni secondi
per mirare con precisione, alcuni secondi che sembrarono eterni. La
creatura si avvicinava, e a ogni risonante passo dei suoi duri e appuntiti
artigli l’elegante tappeto si lacerava. Billy strinse il grilletto, boom, e il
fucile rinculò contro la spalla con sufficiente violenza da causargli un
ematoma. L’essere lanciò un grido acuto e un fiotto di fluido latteo uscì a
pressione dal cranio corazzato. Billy non si trattenne a valutare il danno
inferto, tornò a mirare e sparò di nuovo.

Boom!

La cosa gridò ancora più forte, ma continuò ad avanzare. Billy aprì l’arma,
fece saltare le

cartucce e ne cercò di nuove. Frugò nervosamente nella tasca e alcune delle


cartucce caddero a terra mentre il mostro copriva rapidamente la distanza
che li separava, troppo rapidamente. Gli rimaneva una sola cartuccia nella
tasca. La afferrò, la infilò in canna e si portò il fucile all’altezza dell’anca.

Speriamo che questo vada meglio...

Il colpo andò a segno, conficcandosi nel centro della terribile testa del
mostro, ormai appena a un metro da dove si trovava Billy, tanto vicino che
sentì il caldo residuo della polvere da sparo sulla sua pelle nuda. L’acuto
grido si fermò quando un grande pezzo irregolare di esoscheletro saltò in
aria dalla parte posteriore della testa del mostro, spruzzando sangue e
porzioni di massa cerebrale.
Un tremore scosse la cosa, le enormi pinze si contrassero verso l’alto,
aprendosi e chiudendosi, e la coda frustò l’aria. Con un borbottante grido
finale, il mostro stramazzò a terra e sembrò sgonfiarsi mentre le pinze e il
resto del corpo smettevano di muoversi.

L’odore che restava, come di grasso sporco, rancido e acido, era quasi
irrespirabile, ma Billy

rimase immobile per più di un minuto, volendo essere sicuro che il mostro
fosse morto. Poteva vedere dove erano penetrati i primi due colpi,
leggermente a sinistra del cranio, benché l’ultimo fosse stato il migliore
poiché aveva scortecciato l’armatura che proteggeva i suoi occhi neri e
luccicanti, devastando la massa cerebrale.

Cosa diavolo era quello? Lo osservò inorridito, senza essere troppo sicuro
di volerlo sapere realmente. Doveva essere collegato ai cani e ai morti
viventi, al T-Virus. Il diario che aveva trovato diceva qualcosa sul fatto che
perfino una piccola dose poteva causare cambiamenti di dimensione e di
aggressività...

Questo significa che quel coso ne ha dovuti inghiottire come minimo dieci
litri.

Accidentalmente? Non credo.

Il diario diceva anche qualcosa riguardo a un laboratorio. Di controllare gli


effetti di quel virus e che, fino a quando non avrebbe potuto controllarlo, la
compagnia stava “giocando con il fuoco”. Le implicazioni erano ben chiare.
Forse il T-Virus era stato sprigionato accidentalmente, ma

quell’azienda, in ogni caso, aveva sempre saputo quello che il contagio


poteva provocare. Lo

stavano sperimentando.

In ogni caso, almeno per il momento, l’unica cosa che importava era che la
creatura fosse morta
— e avesse finito di cercare la chiave. Al diavolo l’andare da soli. Se il re
scorpione aveva fratelli o sorelle che facevano la ronda lì in giro, Billy
preferiva che fosse qualcun altro a doverci giocare.

Raccolse le cartucce che gli erano cadute e ricaricò il fucile. Quindi girò
intorno all’enorme carcassa pestilenziale del mostro e si diresse alla ricerca
di Rebecca. Chissà se lei aveva avuto maggior fortuna.

Mentre entrava nel vagone seguente, a Rebecca sembrò di udire dei colpi
d’arma da fuoco

provenienti dai vagoni alle sue spalle. Si trattenne sulla porta e si appoggiò
allo stipite ancora stordita, fissando il cane morto che riusciva a intravedere
da quella posizione e sforzandosi di ascoltare distintamente i rumori.

I tuoni rimbombavano all’esterno. Dopo qualche istante, rinunciò e riprese


ad avanzare verso la testa del treno. Si muoveva lentamente, preparandosi a
imbattersi di nuovo nel corpo di Edward, desiderando di aver pensato prima
a prendere una coperta o qualcosa del genere nel caos del vagone
passeggeri appena attraversato. Che so, il cappotto di un morto. Quello di
cui era sicura era che non aveva ottenuto niente, eccetto una crescente
sensazione di indignazione verso chi avesse lasciato diffondere il T-Virus e
un forte mal di testa a furia di trattenere il fiato. Niente chiavi o altro che
potesse servire a qualcosa. Pensò al cadavere dell’inserviente del treno che
aveva trovato nel vagone anteriore, dove aveva incontrato Billy. Chissà se
la chiave che teneva in mano le poteva tornare utile.

Arrivò all’angolo dal corridoio e si impegnò a concentrarsi, evitando la


pozzanghera di fluidi che erano usciti dal cane morto... e Edward era
sparito.

Rebecca rimase di sasso fissando il pavimento vuoto. Il corpo del secondo


cane era nello stesso posto, ma solo un pezzo di garza inzuppata e alcuni
spruzzi di sangue erano rimasti a indicare che il corpo di Edward fosse stato
lì. Quelli e il penetrante odore di putrefazione. Una brezza fresca e umida
entrava dalle finestre, ma il fetore era troppo forte perché potesse sparire.
Tutto sembrò muoversi a rallentatore quando guardò verso il basso e
riconobbe le orme sul

sangue del cane. Le seguì con lo sguardo. Le impronte degli stivali erano
rosse e strascicate, come se chi camminasse fosse ubriaco o... malato.

No, è impossibile. Non c’era polso.

Il tempo rallentò ancora.

Alzò lo sguardo dal suolo e vide una parte di un braccio nudo; qualcuno che
non poteva vedere

era giusto alla fine del corridoio. Qualcuno alto. Qualcuno che indossava
degli stivali.

“No”, esclamò, ed Edward si allontanò dalla parete rendendosi visibile.


Quando la vide, le sue

esangui labbra si aprirono e lasciò fuoriuscire un gemito. Avanzò


rigidamente verso di lei, col viso grigio e gli occhi bianchi.

“Edward ?”

Lui continuò ad avanzare, dondolandosi, sfiorando la parete con la spalla


inzuppata di sangue, le braccia a penzoloni senza forza lungo i fianchi e il
viso vuoto, senza traccia d’intelligenza. Era Edward, era il suo amico e
collega, ma Rebecca alzò la pistola, fece un passo indietro e mirò.

“Non obbligarmi a farlo”, supplicò, mentre una parte della sua mente si
domandava quanta

somiglianza alla morte desse il virus alle sue vittime.

Deve avergli ridotto il ritmo cardiaco...

Edward si lamentò di nuovo.


Sembrava disperatamente affamato e, benché i suoi occhi non si
distinguessero sotto la patina

bianchiccia, Rebecca li riuscì a vedere abbastanza bene da capire che quello


non era più Edward.

Lui si dondolò, avvicinandosi.

“Riposa in pace”, mormorò Rebecca, poi sparò. La pallottola gli aprì un


buco pulito nella tempia sinistra. Edward rimase completamente immobile
per un istante, senza che l’espressione affamata sparisse dalla sua faccia,
poi crollò al suolo.

Quando Billy la trovò, alcuni minuti dopo, Rebecca era ancora lì, con la
pistola puntata contro il cadavere del suo amico.

CINQUE

William Birkin si affrettò ad attraversare il ventre dell’impianto di


trattamento delle acque,

spaventato dal fragoroso eco dei suoi passi lungo i corridoi cavernosi che lo
conducevano verso la sala di controllo B al primo livello sotterraneo.

Il posto era freddo e morto come una tomba, cosa che non sembrava affatto
una brutta analogia,

sapendo bene quello che vagabondava dietro le porte chiuse che aveva
superato. Sapeva di essere circondato da abbondante vita, o almeno da un
certo tipo di vita. In quel momento, tale

consapevolezza faceva sì che i vari echi prodotti dai suoi passi gli
risultassero ancora più sacrileghi, come se stesse urlando in un obitorio.

Che poi è quello che è realmente, anche se ancora non sono morti.

I tuoi colleghi, i tuoi amici...

Calmati. Tutti sapevamo che esisteva questa possibilità, tutti.


E stata solo sfortuna, e questo è tutto.

Sfortuna per loro. Lui e Annette si trovavano nei laboratori in città quando
c’era stata la

fuoriuscita, al lavoro per terminare la separazione della nuova sintesi.


Raggiunse le scale di

comunicazione nella parte posteriore del livello B4 e cominciò a salire,


chiedendosi se Wesker

stesse già aspettando. Probabilmente sì. Birkin era in ritardo, non aveva
voluto abbandonare il suo lavoro neanche per un momento, ma Albert
Wesker era un uomo preciso e puntuale, tra le altre

cose. Un soldato. Un ricercatore. Un sociopatico.

E forse è stato lui. Chissà se è stato lui a provocare tutto questo.

Era possibile. Wesker era solo leale a Wesker, era sempre stato così, e
benché fosse da molto

tempo nei ranghi della Umbrella, Birkin sapeva che stava cercando la
maniera di uscirne. D’altra parte, sputare nel piatto dove mangiava non
faceva parte del suo stile, e Birkin conosceva Wesker da circa venti anni. Se
Wesker aveva causato tutto questo, non sarebbe certo rimasto là per vedere
che cosa succedeva.

Birkin arrivò alla fine del tratto di scale, si girò e salì sulla rampa opposta.
Presumibilmente, gli ascensori dovevano funzionare ancora, ma non voleva
rischiare. Non c’era nessuno là che potesse aiutarlo se qualcosa andava
storto. Nessuno eccetto Wesker, ma per quanto poteva saperne, il

capitano della S.T.A.R.S. poteva aver deciso di andarsene.

Arrivato in cima alla seconda rampa di scale, Birkin udì qualcosa, un suono
leggero proveniente da dietro la porta che dava accesso al secondo livello
interrato.
Si trattenne un istante e immaginò quale anima perduta stesse dietro la
porta, battendo

irrazionalmente ancora ed ancora contro l’ostacolo nel vano tentativo di


uscire di lì. All’inizio, quando l’infezione era stata identificata, le porte
interne si erano chiuse automaticamente,

intrappolando la maggior parte dei ricercatori infettati e dei soggetti di


studio che erano fuggiti. I corridoi principali erano puliti, quelli tra le sale di
controllo almeno. Lanciò un’occhiata

all’orologio e iniziò a correre sul tratto finale di scale. Non voleva mancare
Wesker, supponendo che fosse ancora lì. Ma se non era stato Wesker, allora
chi? E come?

Tutti avevano pensato che si fosse trattato di un incidente, perfino lui stesso,
fino a qualche ora fa almeno, quando Wesker lo aveva chiamato per
spiegargli i fatti del treno. Gli incidenti erano troppi. Dio solo sapeva quanta
gente c’era con più che sufficienti ragioni per cercare di sabotare la
Umbrella, ma non era facile ottenere un passaggio anche solo per i livelli
inferiori in nessuno dei laboratori dì Raccoon. E se... Wesker aveva
menzionato qualcosa sul fatto che la compagnia volesse dei dati sul virus,
non semplici simulazioni, ma qualcosa di pratico; chissà, forse l’avevano
lasciato diffondere loro stessi.

O forse è così che pensavano di arrivare al suo G-Virus. Creare tutto questo
caos per poi

approfittarne per introdursi dentro e rubarlo.

Birkin serrò i denti. No. Non lo sapevano ancora, l’esperimento stava


riuscendo, ma loro non lo avrebbero scoperto fino a che tutto non fosse
finito. Aveva preso le giuste precauzioni, nascosto molte cose, e Annette
aveva perfino corrotto i cani da guardia della compagnia per tenerli lontani
dalle sue ricerche.

L’aveva visto succedere troppe volte: l’azienda allontanava uno scienziato


dalla sua ricerca
perché voleva risultati immediati, passandola in consegna a sangue più
giovane... e in almeno due casi che conosceva direttamente, lo scienziato
iniziale era stato eliminato, il miglior modo per impedire che passasse alla
concorrenza.

Ma a me non succederà. E neanche al G-Virus.

Era l’opera della sua vita, ma lo avrebbe distrutto piuttosto che lasciarlo
nelle mani di qualcun altro.

Arrivò alla sala di controllo che cercava. In realtà si trattava di una


piattaforma di osservazione che condivideva lo spazio col generatore
ausiliario dell’impianto, che fortunatamente stava in

silenzio. Le luci erano spente, ma, mentre avanzava lungo la passerella in


rete metallica, vide Wesker seduto davanti agli schermi di vigilanza, la
schiena delineata dal bagliore dei monitor.

Come faceva spesso, Wesker indossava gli occhiali da sole, un’abitudine


che aveva sempre irritato Birkin; era come se lui potesse vedere
nell’oscurità.

Prima che riuscisse ad aprir bocca, Wesker aveva già alzato una mano,
senza guardarlo,

aspettando che si avvicinasse.

“Vieni a vedere questo”.

La sua voce era autoritaria e urgente. Birkin si affrettò a raggiungerlo,


appoggiandosi sulla

console per vedere quello che tanto interessava Wesker.

La sua attenzione era fissata su una scena del centro di addestramento, in


quella che sembrava

essere la videoteca del secondo piano. Un soldato vagava per la sala,


ovviamente infetto, con
l’uniforme macchiata di sangue e altri fluidi. Sembrava essere bagnato, ma
Birkin non notò

nient’altro di speciale in lui.

“Non vedo...”, cominciò, ma Wesker l’interruppe.

“Aspetta”.

Birkin osservò come la giovane recluta, un ragazzo che non avrebbe mai
raggiunto la vecchiaia a causa T-Virus, sbatteva contro una piccola scrivania
in un angolo della sala, dondolandosi come facevano tutti i portatori, per
poi girarsi e dirigersi verso il tavolo con i computer. La videocamera lo
seguì. Poi, giusto quando Birkin stava per domandare a Wesker che cosa
stessero cercando, lo vide.

“Lì”, indicò Wesker.

Birkin sbatté le palpebre, senza essere sicuro di quello che aveva visto.
Mentre ritornava verso i computer, il braccio della recluta si era allungato e
assottigliato, distendendosi fin quasi a toccare il suolo, per poi ritornare alla
sua forma originaria. Il tutto era durato meno di un secondo.

“È più o meno la terza volta che succede nell’ultima mezz’ora”, lo informò


Wesker con voce

bassa e profonda.

La recluta continuò a vagare per la piccola sala, di nuovo indistinguibile


dagli altri condannati che comparivano di tanto in tanto nei piccoli schermi.

Un esperimento del quale non eravamo informati? domandò Birkin, ma


sapeva che era

improbabile. Entrambi erano al corrente di tutto come qualunque altra


persona che fosse degli uffici centrali.

“No”.
“Mutazione?”

“Tu sei lo scienziato, dimmelo tu”, replicò Wesker.

Birkin pensò un istante e poi fece segno di no con la testa.

“Suppongo che sarebbe possibile, ma... no, non lo credo”.

Osservarono in silenzio il soldato ancora per un momento, ma questi


vagava per la sala senza che niente si allungasse o cambiasse. Birkin non
sapeva che cosa era esattamente quello che avevano visto, ma non gli
piacque per niente.

Nella complicata serie di equazioni in cui si era trasformata la sua vita, tra il
lavoro e la famiglia, tra i disastri di Raccoon e i suoi sogni di riuscire a
creare artificialmente il virus perfetto, quello che avevano visto era
un’incognita.

Tra qualcosa di nuovo.

Uno scricchiolio di statica ruppe il silenzio e la voce sconosciuta di un


uomo emerse in mezzo al ronzio.

“Tempo di arrivo, dieci minuti circa, passo”.

Quella doveva essere la squadra di pulizia della Umbrella che si dirigeva


verso il treno. Wesker spinse un bottone.

“Affermativo. Voglio un rapporto non appena raggiungete l’obiettivo. Passo


e chiudo”.

Premette di nuovo il bottone, ed i due uomini tornarono a scrutare il soldato


sconosciuto, ognuno perso nei propri pensieri. Birkin non sapeva cosa
stesse pensando Wesker, ma cominciava a credere che fosse arrivata l’ora di
lasciare Raccoon.

“ Rebecca”.

La giovane non rispose né si girò, abbassò solo l’arma.


Billy desiderò che ci fosse qualcosa da poter dire, ma suppose che era
meglio tenere la bocca

chiusa. La situazione parlava da sé: l’uomo steso al suolo indossava


l’uniforme della S.T.A.R.S., probabilmente era un amico della ragazza, ed
era stato infettato. Billy concesse un momento a

Rebecca, ma sapeva che non potevano permettersi di perdere neanche un


secondo.

Non poteva esserne sicuro, ma sembrava che il treno stesse guadagnando


velocità.

Se era senza controllo, sicuramente avrebbe deragliato e sarebbero morti.


Se a guidarlo c’era

qualcuno, allora dovevano scoprire chi era e perché.

“Rebecca”, disse di nuovo, e questa volta la giovane si girò verso di lui,


senza vergognarsi delle lacrime che si stava asciugando. Sbatté le palpebre,
guardandolo.

“Hai sparato alcuni minuti fa?”, gli domandò.

Billy assentì con un gesto e cercò di sorridere, ma non gli riuscì.

“A un insetto mostruoso. Tu?”

“Un cane”, rispose Rebecca, asciugandosi l’ultima lacrima.

“E... a qualcuno che conoscevo”.

Billy si sentì a disagio ed entrambi rimasero in silenzio per qualche


secondo. Poi Rebecca

sospirò e si allontanò la frangetta dalla fronte.

“Dimmi che hai trovato la chiave”, disse.


“Qualcosa di simile”, rispose lui, alzando il fucile.

“Non servirà”, replicò lei, sospirando dì nuovo, “ha una chiusura


magnetica, come quella del

caveau di una banca o qualcosa del genere”.

“In un treno passeggeri?”, domandò Billy.

“E privato”. Rebecca si strinse le spalle, “della Umbrella”.

La compagnia farmaceutica. Tra la corte marziale e la condanna, Billy non


aveva riflettuto molto sul dove fosse diretto per l’esecuzione, ma ora si
ricordava di Raccoon City, la cosa più simile a una metropoli che c’era in
quelle zone ed era quello il posto dove la grande corporation si era stabilita
inizialmente.

“Hanno il loro treno privato?”

Rebecca annuì.

“La Umbrella è dappertutto qui. Uffici, ricerca medica, laboratori...”

Oggi il capo ha impartito gli ordini riguardo le indagini sul laboratorio di


Arklay... ci

manderanno là la settimana prossima a controllare.

La foresta di Raccoon, la stessa Raccoon City, tutto si trovava nei pressi dei
monti Arklay.

I pensieri di Rebecca sembravano andare nella stessa direzione.

“Non penserai che...”

“Non lo so”, ripose Billy. “E, in questo momento, non mi importa.


Dobbiamo ancora attraversare

quella porta”.
Rebecca cominciò a camminare di nuovo verso la parte anteriore del treno,
poi sembrò averci

ripensato, forse non voleva vedere il cadavere del suo amico. Fissò gli occhi
sul pavimento e parlò a voce bassa.

“C’è un cadavere vicino la porta, un uomo con una chiave in mano”, disse.

“Può darsi che apra qualcosa di utile”.

“Aspettami un secondo”, le disse Billy.

Passò davanti a lei e avanzò lungo il corridoio fino ad arrivarne alla fine.

Il cadavere decrepito di un inserviente del treno stava rannicchiato contro la


porta chiusa; era il corpo sul quale la giovane era chinata quando si erano
incontrati per la prima volta. Aveva una chiave metallica stretta nella scarna
mano.

Billy la prese e la osservò sotto la tenue luce. C’era incollata un’etichetta


sulla quale si leggeva VAGONE RISTORANTE.

Che gran aiuto, moltissime grazie.

La mise via e spese un minuto per controllare la giacca del cadavere. In una
tasca trovò solo un mazzo di carte e nel taschino anteriore accanto un pugno
di mentine ricoperte di sporco... ma in un’altra c’erano diverse chiavi unite
da un anello. Due non erano etichettate, ma sulla terza era incisa nel metallo
la parola CAPOTRENO. Billy le mise in tasca e, dopo un momento di
riflessione, si inginocchiò e sfilò con attenzione la giacca al cadavere. Non
riuscì a evitare una smorfia di schifo notando la consistenza fredda e
spugnosa della sua pelle. Il poveraccio non sembrava aver contratto il virus,
ma una o più persone lo avevano morso ripetutamente. Dal viso e dalle
mani gli erano stati strappati grandi pezzi di pelle e muscolo; era il ridotto a
brandelli.

Billy tornò da Rebecca, fermandosi per coprire con la giacca il cadavere


dell’agente S.T.A.R.S.
morto. Gli copriva solo il viso e la parte superiore del corpo, ma suppose,
pensando allo stato d’animo della ragazza, che sarebbe stato meglio di
niente. Quando lei si avvicinò, gli dedicò un gesto con la testa in segno di
gratitudine, ma non disse niente.

“La chiave che avevi visto era del vagone ristorante, dove siamo già stati”,
spiegò lui, poi tirò fuori il portachiavi dalla tasca, “ma può darsi che queste
aprano qualcos’altro”.

Si trovavano davanti alla porta segnalata come UFFICIO DEL CAPO


TRENO. Billy alzò la

chiave contrassegnata. Al gesto di assenso dì Rebecca, la mise nella


serratura e la fece girare senza problemi. Alzò l’arma e spinse la porta,
pronto a sparare contro qualunque cosa non si identificasse a prima vista.

Non c’era nessuno. Billy si rilassò ed entrò nell’ufficio. Rebecca aspettò


sulla porta con l’arma sfoderata guardando verso una scrivania illuminata
ricoperta di carte. Cominciò a frugarla mentre Billy ispezionava il resto
della cabina.

“Orari, lettere... c’è qualcosa intitolato Manuale d’istruzioni del rampino”,


disse Rebecca.

“Memo per la manutenzione; una nota su un lucchetto ad anello, o qualcosa


del genere; ordinazioni per la cucina...”

Billy aprì l’armadio mentre lei continuava a leggere il contenuto delle carte
sulla scrivania.

Cartine topografiche, cartoline e note varie attaccate sul retro della porta
d’ingresso, bollettini di spesa, libri sparsi qua e là e una valigetta chiusa.
Billy la raccolse e la scosse. Qualcosa si agitò all’interno, ma pesava troppo
poco. Poteva essere una chiave? Probabilmente no, ma poteva sempre
sperarlo.

Esaminò la chiusura, accigliato. Non c’era nessuna serratura, benché nella


parte superiore ci fosse una rientranza di forma circolare. Mosse il manico.
Fra chiusa saldamente. Di sicuro

smontandola l’avrebbero aperta, ma vista la solidità della valigia avrebbero


perso troppo tempo, e non potevano permetterselo.

“Un momento fa hai detto qualcosa su una chiusura ad anello, no?”,


domandò.

Rebecca sfogliò alcune carte.

“Ah...eccola. È una nota scritta a mano; dice: ‘metodo di accesso e


trasporto; chiusura con anello diviso in due parti’”.

Trasporto di cosa? Billy si strinse nelle spalle, poi sentì un’ondata di


eccitazione. La valigetta!

La chiave magnetica era nella valigetta, ne era certo.

Osservò più da vicino la bizzarra serratura e improvvisamente ricordò


l’insolito anello d’argento che aveva trovato di sopra, prima del suo
incontro con l’enorme scorpione. Gli incastri della fessura somigliavano a
quelli dentellati dell’anello.

Ma nella nota dice due parti, e...

“Ehi ho trovato un anello nella parte posteriore del treno”, esclamò


Rebecca.

Billy alzò lo sguardo mentre la giovane si tirava via un anello d’oro dal dito
indice, e prima

ancora che glielo consegnasse, seppe già che si trattava della seconda parte.

“Credo che abbiamo un vincitore!”, disse Billy, sorridendo. Era il suo primo
vero sorriso da...

non sapeva neanche da quanto. Nella cabina di guida del macchinista ci


sarebbe stata una radio, i controlli del treno, e forse una mappa che li
avrebbe guidati fuori da quella dannata foresta. Stavano per uscire fuori da
quel l’incubo, ne era certo.

Non aveva idea di quello che ancora li attendeva.

Qualcuno aveva messo in moto quel treno maledetto. Era possibile che uno
degli impiegati fosse

ancora in vita, ma Wesker riteneva più probabile che fosse stato uno dei
portatori che, col cervello ormai in pappa, era caduto sui controlli. In ogni
caso, il pilota dell’elicottero non si era posto il problema, semplicemente
era stato posticipato il tempo di arrivo di alcuni secondi. Il loro tempismo
era un colpo di fortuna; se non lo avessero fermato in tempo, il treno
sarebbe andato dritto contro il centro di addestramento, schiantandosi, e
l’ultima cosa di cui avevano bisogno era richiamare

l’attenzione su una qualunque delle aree infette.

“Ci siamo quasi, passo”.

Wesker rimase in attesa. Poteva sentire il rumore del l’elicottero in


sottofondo, poteva perfino sentire lo sfregare dei lacci con i quali gli uomini
scendevano dal velivolo tagliando il vento.

Immaginò di essere lì, sul punto dì bloccare il maledetto treno che avanzava
a gran velocità nella notte tempestosa, con l’arma sfoderata e gli infetti che
aspettavano di trovare il riposo eterno in un’esplosione di sangue e ossa.

Birkin interruppe la sua fantasia. C’era inquietudine nella sua voce e


nell’atteggiamento mentre tendeva la pallida mano per coprire il microfono
con il palmo.

“Sei sicuro che sia il virus? Voglio dire, non potrebbe trattarsi di un
dirottamento o di... un guasto meccanico? Siamo proprio sicuri che quella
squadra sia stata inviata per questo?”

Wesker sospirò internamente. William Birkin era un uomo intelligente, ma


anche ossessivamente
paranoico. La sua convinzione che la Umbrella volesse rubare il suo lavoro
era di un’intensità quasi infantile.

“Siamo sicuri”, rispose. “Cos’altro potrebbe essere se non il virus?”

Birkin fece un gesto con la testa verso il monitor in cui avevano visto il
soldato col braccio gommoso.

“Chissà, qualcosa che abbia a che fare con quello”.

Wesker si strinse nelle spalle. Fra una mutazione, doveva esserlo.

Inusuale, ma non impossibile.

“Ne dubito. Non preoccuparti, William. Nessuno sa niente del tuo prezioso
G-Virus”. Non era

proprio vero, ma Wesker non era dell’umore giusto per consolarlo. “In
quanto al treno... chissà, forse il T-Virus si sta adattando molto meglio di
quanto pensassimo”.

La spiegazione non sembrò convincere Birkin, ma non fu una sorpresa, non


convinceva neanche

Wesker. Se l’infezione del treno era un incidente, allora lui era la teiera di
sua zia Maddie, per così dire.

“La villa, i laboratori, il treno... Chi sarà stato?”, domandò Birkin a voce
bassa. “E perché?”

Una voce li interruppe.

“Siamo sul treno, passo”. Il rumore delle eliche dell’elicottero era stato
rimpiazzato dal ritmico rumore di un treno in movimento.

Alla buona, maledettissima ora.

“Ricevuto”, disse Wesker, tornando a coprire il microfono per poter


rispondere a Birkin.
“Questo è irrilevante. Quello che conta ora è che tutto ciò non venga fuori,
che non si diffonda.

Bisogna distruggere il treno. Tutte le prove devono sparire. Sono sicuro che
lo capisci, William.

Non ci sono problemi qui. Non crearne uno”.

Scoprì il microfono e parlò. “A che distanza si trova la prossima


diramazione? Passo”.

“A non più di dieci minuti, probabilmente...”

Wesker aspettò che passasse la statica.

“Cosa? Non ho ricevuto. Passo”.

Ci fu un fragore tremendo. Wesker si tirò indietro e vide Birkin fare una


smorfia davanti a quel suono...

... e fu allora che si sentirono le grida, tutti gli uomini urlarono


contemporaneamente.

“Oddio! Che diavolo...?”

“Gesù!”

“Levamele di dosso! Levamele di dosso!”

“No! Nooo! Noo...”

Si udirono alcuni colpi di mitra seguiti da grida inarticolate di dolore e


terrore, poi solo silenzio nel ronzio della statica.

Wesker strinse i denti con forza mentre, alle sue spalle, Birkin cominciava a
farfugliare in preda al panico. Sembrava fosse sorto un problema, dopotutto.

Si trovavano davanti alla porta chiusa. Rebecca aveva i mano la scheda


magnetica provando una
sensazione di trionfo sproporzionata paragonata a quello che erano riusciti
veramente a fare.

Suppose che probabilmente fosse perché si sentiva emotivamente sfinita.


Non era stato difficile, avevano trovato un paio d’anelli e avevano aperto la
valigetta. Nonostante tutto si sentiva come se avessero risolto l’enigma
della maledetta Sfinge.

Billy le fece un gesto affinché aprisse la porta, inclinando la testa di lato.


Era ancora concentrato ad ascoltare. Era certo di aver sentito un elicottero
all’esterno mentre erano andati a recuperare l’anello, e che qualcuno aveva
gridato poco dopo. Ma lei non aveva sentito niente. Probabilmente era
esausto quanto lei, considerando...

... considerando che si stava avviando verso la sua esecuzione.

No, non cominciare a fare paragoni. Per quanto abbia fatto per aiutarti,
continua a essere un animale, e dimenticarlo può costarti la vita.

D’accordo. Non appena la radio fosse tornata a funzionare, la breve tregua


sarebbe finita. Passò la scheda nel lettore e la luce da rossa divenne verde.

La porta si aprì con un clic e Billy la spinse.

Il suono del treno si trasformò in un ruggito assordante quando la porta si


aprì su una passerella di griglia metallica parzialmente esposta agli elementi
atmosferici. Quando uscirono il vento e la nebbia li spruzzarono con
violenza. Alla destra c’era una specie di gabbia chiusa per l’attrezzatura che
si estendeva lungo tutto il vagone. Alla sinistra invece c’era solo una
ringhiera e la feroce notte che stavano attraversando a tutta velocità. Più
avanti c’era un altro vagone: doveva essere la cabina del macchinista,
benché fosse difficile giudicarlo nell’oscurità. Rebecca afferrò la ringhiera
con forza rendendosi conto della velocità con la quale stava avanzando il
treno; stava letteralmente volando sulle rotaie e...

Oh.
Rebecca esitò mentre Billy avanzava rapidamente di alcuni passi per poi
chinarsi vicino ad un

soldato steso a terra. C’era un secondo corpo più o meno a un metro dal
primo. Entrambi

indossavano uniforme ed equipaggiamenti d’assalto e avevano il viso


nascosto dietro maschere

antigas.

SWAT? Quando sono arrivati qui? E perché sono solo due?

Mentre si avvicinava, la giovane si accorse che entrambi brillavano della


melma che li ricopriva, la stessa sostanza viscosa prodotta dalle
sanguisughe del vagone ristorante. L’uniforme, composta da kevlar e trama
metallica, non presentava alcun distintivo o logo. Non erano del
dipartimento di polizia di Raccoon City, né dei militari. Billy stava
guardando la parete di griglia metallica alla loro destra. Rebecca lo seguì
con lo sguardo e vide quella che sembrava una gigantesca tela di ragno nera
legata alla parte interna della grata, sulla quale erano appesi migliaia di
sacchi semilucidi.

Sacchi di uova delle sanguisughe.

Rebecca rabbrividì, mentre Billy si rimise in piedi scuotendo la testa.


Dovette gridare affinché lei potesse sentirlo sopra il frastuono del treno.

“Non c’è niente da fare! Sono morti!”

Rebecca l’aveva già supposto, ma voleva accertarsene lei stessa. Gli passò
davanti ed esaminò i due corpi alla ricerca di qualche segno di vita. Notò le
strane emorragie che germogliavano dai piccoli lividi sulla pelle pallida.
Billy aveva ragione, e forse l’aveva avuta anche dicendo che aveva sentito
delle grida. Nonostante la pioggia, entrambi i corpi erano ancora caldi.

Si rialzò, tornò ad afferrare la ringhiera e seguì Billy fino alla porta della
cabina. Stava giusto pensando a che cosa avrebbero fatto se si fossero
trovati davanti un’altra porta chiusa quando vide Billy aprire la porta con
una spinta.

Si lasciarono la pioggia alle spalle ed entrarono in una cabina da


macchinista relativamente

piccola, pulita e ordinata, eccetto che per il sottile e uniforme strato di


melma che ricopriva la console dei comandi che si trovava nella parte
anteriore. Le orecchie di Rebecca fischiarono per l’immediato silenzio
quando la porta si chiuse dietro di loro, ma era molto più preoccupata per le
numerose luci rosse lampeggianti che illuminavano lo scintillante quadro
comandi. Billy si avvicinò e studiò per un istante i molteplici pannelli di
controllo, infine si dedicò a una tastiera che si trovava davanti a un piccolo
schermo. Il monitor rimase nero. Guardò Rebecca con un’espressione

interdetta.

“I controlli sono bloccati”, disse.

Rebecca tirò fuori la scheda magnetica dalla tasca del suo giubbotto. Non
c’erano numeri da

nessun lato, niente che potessero utilizzare come sequenza. Si avvicinò a


Billy cercando di non prestare attenzione alla pioggia che batteva sul
parabrezza e alla vertiginosa e tenebrosa massa di alberi ai due lati del
binario, poi prese a pugni alcuni comandi. I tasti sembravano bloccati, non
potevano essere premuti completamente. Cominciò a cercare qualunque
cosa con la parola

EMERGENZA scritta sopra.

“Qui”, disse Billy, allungando la mano verso una leva che sporgeva da un
lato della console.

Quando la tirò, sullo schermo del computer cominciarono a scorrere delle


parole.

FRENI DI EMERGENZA ― IL TERMINALE FRONTALE E QUELLO


POSTERIORE DEVONO ESSERE ATTIVATI PRIMA DI FRENARE.

RIPRISTINARE LA CORRENTI AL TERMINALE POSTERIORE?

Erano i controlli che Rebecca aveva visto alla fine del treno. Billy scrisse
rapidamente SÌ.

CORRENTE AL TERMINALE POSTERIORE RIPRISTINATA.

“Grazie a Dio”, esclamò Rebecca.

“Fallo, fermiamo questa cosa”.

Il treno sembrava andare a una velocità impossibile. Il ruggito dei motori


era più rombante di

prima e sembrava essere sul punto di raggiungere l’apice.

Billy spinse la leva. Si mosse con facilità, con troppa facilità, e nuove
parole apparvero sullo schermo.

LA SEQUENZA DEI FRENI POSTERIORI DEVE ESSERE ATTIVATA


PRIMA

CHE SI POSSANO AZIONARE I FRENI DI EMERGENZA.

“Oh, deve essere uno scherzo! ”, esclamò Billy con una smorfia.

“Perché non possiamo attivare i freni d’emergenza da questa maledetta


cabina di controllo? ”

“Forse possiamo, ma non senza autorizzazione”, ripose Rebecca.

“Manualmente... ho visto i controlli dei freni posteriori, sono fuori


dall’ultimo vagone. Vado lì”.

Billy fece segno di no con la testa, guardando verso l’oscurità che gli
passava davanti troppo in fretta.
“No, lascia che vada io. Non ti offendere, ma credo di poter correre più
veloce. C’è un sistema di intercomunicazione interna? Così posso avvertirti
non appena li avrò attivati”.

Entrambi cominciarono a cercare, ma la console era piena di interruttori e


pannelli senza nessuna indicazione, ci avrebbero messo troppo prima di
capire a cosa servissero. Rebecca stava per dirgli che avrebbe dovuto
correre, data la gran velocità con la quale avanzava il treno, quando

improvvisamente si ricordò di Edward.

“La radio di Edward”, disse. “L’aveva prima che... credo che l’abbia ancora
addosso”.

Billy già correva verso la porta.

“La prenderò di passaggio”.

“Fa’ attenzione”.

Billy assentì con un gesto e lanciò un altro sguardo verso l’esterno.

“Tieniti pronta ad azionare i freni da qui. Ho la sensazione che, in un modo


o nell’altro, ci

fermeremo molto presto”.

Aprì la porta verso il rombo assordante e uscì.

I secondi passavano lentamente. Rebecca si assicurò che la sua radio


funzionasse e mantenne

la mano sulla leva dei freni mentre fissava la notte.

Il treno prese una curva troppo velocemente, e Rebecca chiuse gli occhi
pregando affinché il

mezzo fuori controllo si mantenesse sui binari, credendo di sentire alzarsi le


ruote che poi
tornarono a cadere sulle rotaie.

Billy aveva ragione, in un modo o nell’altro, non sarebbero andati molto


lontano.

Perché tarda così tanto?

Erano passati solo alcuni minuti, ma era già tanto.

Afferrò la radio e strinse il bottone per trasmettere.

“Billy, mi senti? Com’è la situazione? Passo”.

Niente.

“Billy?” Aspettò, mentre contava lentamente fino a cinque e il cuore


iniziava a batterle tanto

veloce quasi da inciampare su se stesso. Vide che si avvicinava un’altra


curva.

“Billy, mi senti?”

Merda!

Forse non aveva trovato la radio, o aveva dimenticato di accenderla.

O era successo qualcosa ai controlli e non poteva attivarli.

Oppure è morto. Forse qualcosa l’ha attaccato.

Il treno entrò in curva, e questa volta non dovette immaginare niente, il


convoglio si inclinò

paurosamente e accelerò ancora mentre si scuoteva cadendo di nuovo sui


binari. Un’altra curva

come questa è sarebbe finito tutto.


Sarebbe dovuta andare lei nella parte posteriore; ma ora non c’era più
tempo, e non aveva

neanche alte opzioni, nemmeno...

“Ora, Rebecca!”

Rebecca vide una massa indistinta alla destra del treno, era apparsa tanto
velocemente che non si rese conto di cosa fosse fino a quando non la passò:
la banchina di una stazione ferroviaria. Il marciapiede del capolinea, e ciò
significava che l’unica cosa che c’era più avanti era il deposito dove
tenevano il maledetto treno. Questo significava che forse era già troppo
tardi.

“Tieniti forte!”, gridò per radio mentre afferrava la leva e la spingeva con
tutte le sue forze.

Qualcosa avanzava a folle velocità verso il parabrezza frontale, un’oscurità


più profonda della notte stessa. Un tunnel. I freni stridevano mentre il treno
si lanciava verso l’oscurità, distruggendo una debole barriera in legno dalla
quale schizzarono via migliaia di schegge che si infransero sul muso della
locomotiva. Il convoglio si inclinò di nuovo, ma questa volta non recuperò
la stabilità.

Rebecca sentì il proprio grido perdersi nello stridio del treno che cadeva di
lato e cominciava a scivolare. Il metallo si lacerava e le scintille brillavano
come se fossero fuochi d’artificio infernali.

La parete divenne il pavimento, e Rebecca ci sbatté addosso mentre la


pesante motrice si schiantava contro qualcosa di ancora più duro e tutte le
luci si spensero.

SEI

Billy fu svegliato dal forte dolore. Un odore di materiale sintetico bruciato


permeava l’aria calda.
Aprì gli occhi e sbatté più volte le palpebre, esaminando l’ambiente quanto
più velocemente la sua mente confusa gli permettesse, e ciò significava che
lo stava facendo molto lentamente. Era disteso sulla schiena, con lo sguardo
fisso su un alto soffitto bianco. I bagliori delle fiamme guizzavano intorno a
lui, mentre le ombre dei rottami e dei frammenti di cemento ballonzolavano
sulla parete alla sua sinistra. Non sapeva come ci fosse finito, ma si trovava
in un ambiente chiuso.

I freni, il treno... Rebecca?

Quel pensiero lo svegliò. Si tirò su fino a mettersi seduto e fu sorpreso e


sollevato di aver

riportato solo una lussazione alla spalla e alcuni graffi: niente di grave.

“Rebecca?”, chiamò, tossendo. Ovunque fosse finito, l’ondeggiante fumo


del deragliamento

stava cominciando ad aumentare e a saturare l’ambiente. Lui... loro


dovevano uscire di lì. Si mise in piedi tenendosi il braccio destro e
guardandosi intorno. Il treno sembrava essersi schiantato in un magazzino,
uno spazio enorme, vuoto, fatto di cemento, con delle impalcature di lato e
alcune luci coperte sul soffitto. Non era bene illuminato, ma quando Billy
guardò verso il basso vide una ferrovia ammaccata sotto i suoi piedi e si
rese conto che probabilmente si erano schiantati nel terminal di
mantenimento del treno, una specie di deposito.

“Rebecca?”, chiamò ancora una volta, cercando tra le macerie. C’erano


decine di cumuli di

cemento sabbiato e pozze di olio combustibile dappertutto. L’enorme


motrice era distesa su un

fianco, gli altri vagoni accatastati dietro di questa, bloccando quella che
doveva essere la gigantesca entrata del tunnel. Non aveva idea di dove
cercare il giovane membro della S.T.A.R.S. Non appena attivati i freni
posteriori, aveva iniziato a correre nuovamente verso la parte anteriore del
treno,salvo poi essere sbalzato indietro dal tremendo urto.
“Mmm...” Una sagoma giaceva vicino a un mucchio di pietre fumanti.

“Rebecca!” Billy si avvicinò barcollando, sperando che la giovane stesse


bene. La sua voce

sembrava piena di panico quando lo aveva chiamato e lui non aveva


risposto, ma era stato troppo impegnato a spingere i pulsanti per parlarle.
Ora gli dispiaceva; in fin dei conti, era solo una ragazzina, ed era
terrorizzata.

Avrei dovuto consolarla, o qualcosa del genere...

Arrivò fino al corpo contorto e malconcio, e si inginocchiò al suo fianco.


Era distesa a terra a faccia in giù, coi vestiti fatti a brandelli.

“Billy?”

Billy si girò e vide Rebecca camminare verso di lui, con la nove millimetri
in mano. Aveva una

striscia di sangue che le scendeva dall’attaccatura dei capelli, ma sembrava


essere in perfetta salute.

La persona che aveva davanti a lui si girò e gemette di nuovo, allungando


una mano insanguinata fino a sfiorare il suo viso.

“Gah!”, gridando dal disgusto, si tirò indietro fino a cadere col sedere sul
pavimento. Non poteva sapere se la creatura

moribonda fosse un uomo o una donna, poiché gran parte del suo viso e del
corpo erano sfregiati e danneggiati, tanto per la malattia quanto per
l’incidente. La creatura si mise lentamente in

ginocchio e girò il viso sfigurato verso Billy.

La bocca era aperta e una bava tinta di sangue le scivolava tra i denti rotti
mentre si lanciava contro di lui.

“Allontanati!”, ordinò Rebecca, consiglio che fu ben felice di osservare.


Indietreggiò carponi mentre la manetta sciolta premeva dolorosamente
contro il palmo della

mano sinistra. Rebecca mirò e sparò due volte. Entrambe le pallottole


raggiunsero il cranio

fratturato della creatura, finendo ciò che restava della sua vita. Cadde sul
cemento accompagnata da qualcosa che risuonò quasi come un sospiro.
Billy si rimise subito in piedi, ed entrambi passarono alcuni secondi di
tensione percorrendo con lo sguardo i rottami alla ricerca di altri mostri
pericolosi.

Se ce n’erano altri, erano ben nascosti.

“Grazie”, disse Billy, guardando di nuovo verso la patetica creatura.


Almeno le avevano

risparmiato altre sofferenze, con due colpi precisi. Billy rimase sorpreso e
abbastanza impressionato dall’abilità di Rebecca.

“Stai bene?”

“Si. Ho un mal di testa spaventoso, ma questo è tutto. È anche la seconda


volta che mi schianto oggi”.

“Veramente?”, domandò Billy. “E quando è stata la prima?”

Rebecca sorrise, cominciò a parlare e si trattenne improvvisamente. La sua


espressione tornò

fredda, e Billy sentì un’autentica fitta di tristezza; era evidente che la


ragazza si era ricordata con chi stava parlando. Nonostante tutto, continuava
ancora a pensare che fosse un pluriomicida.

“Non ha nessuna importanza”, ripose Rebecca. “Andiamo. Dobbiamo


uscire di qui prima che il

fumo peggiori ancora”.


Entrambi avevano ancora le radio; spesero alcuni minuti per cercare la
pistola di Billy, che

trovarono mezza sepolta sotto un blocco di cemento non molto lontano da


dove luì si era

risvegliato. Il fucile era passato alla storia. Nessuno dei due suggerì di
cercarlo tra i resti del treno. I piccoli incendi si andavano via via spegnendo,
ma la spessa coltre di fumo nero che saliva fino al soffitto si faceva più
densa di minuto in minuto.

Attraversarono il gigantesco deposito, ma trovarono solo una porta a circa


venti metri dalla

locomotiva ormai distrutta. Billy sperò che li conducesse all’aria aperta,


fresca, verso la sua libertà e alla sicurezza per Rebecca. In piedi davanti alla
porta, si girò a guardare i rottami fumanti e una parte della bocca si curvò
verso l’alto.

“Beh, almeno siamo riusciti a fermare il treno”, scherzò.

Rebecca annuì e sorrise leggermente, stando al gioco.

“Ce l’abbiamo fatta”, rispose.

Si girarono verso la porta. Billy respirò profondamente, strinse la maniglia e


la aprì.

Fu una scena surreale osservare in diretta sullo schermo il disastro


ferroviario nel sotterraneo del centro di addestramento e, un istante dopo,
udire l’attenuato fragore dello scontro da dove si

trovavano. Come se non bastasse, avevano anche sentito un lieve tremore


nelle pareti che li

circondavano. In pochi secondi, l’obiettivo della telecamera fu oscurata dal


fumo nero.
“Dovremmo uscire di qui, ora”, disse Birkin mentre si spostava da un lato
all’altro alle spalle di Wesker. Il fuoco non lo impensieriva, visto che il
vecchio terminal era costruito quasi

completamente in cemento armato, ma era difficile non notare il


deragliamento di un treno, e non tutti i poliziotti e i pompieri nelle
vicinanze erano sul libro paga della Umbrella. Il centro era isolato, ma
bastava una semplice telefonata da parte di qualche cittadino preoccupato e
le ricerche segrete della Umbrella sulle armi biologiche sarebbero venute
alla luce.

Wesker non lo ascoltava nemmeno. Batté sui comandi dei monitor e spostò
le immagini dalle

telecamere su altre stanze del centro, in cerca di qualcosa. Non aveva quasi
più proferito

parola dall’ultima trasmissione con la squadra di pulizia.

“Mi stai ascoltando?”, chiese Birkin per l’ennesima volta negli ultimi
minuti. Era teso, e

l’atteggiamento disinvolto di Wesker non aiutava per niente.

“Ti sento, William”, rispose Wesker, senza smettere di guardare lo schermo.

“Se vuoi andartene, vai pure”.

“D’accordo. Tu non vieni?”

“Oh, tra un momento”, rispose con tono calmo e rilassato.

“Voglio solo controllare alcune cose”.

“Che cosa? Direi che il treno sia già abbastanza pulito. Era per quello che
siamo venuti no?”

Wesker non rispose, continuò solo a osservare gli schermi. Le mani di


Birkin si chiusero a
pugno. Dio, era un uomo insopportabile! Quello era il problema dei
sociopatici. La loro incapacità di relazionarsi con gli altri li rendeva del
tutto egocentrici.

Ho molto da fare, pensò Birkin, guardando verso la porta.

Il lavoro, la famiglia... non intendeva aspettare che Joe il pompiere bussasse


alla loro porta in cerca di una spiegazione sul perché ci fossero degli
zombie che vagavano sul luogo dell’incidente.

“Ah, ecco qui”, esclamò Wesker, premendo un tasto sotto uno degli
schermi.

Era l’atrio principale del centro, creato per dare il benvenuto tanto agli
ufficiali quanto ai soci dell’azienda nel mondo non troppo legale
dell’Ufficio Bianco.

Proprio mentre guardava, una mano era apparsa e aveva spinto via il
coperchio di una botola

quadrata.

Quello è il vecchio tunnel di accesso che esce dal terminal.

Birkin si sporse in avanti, incuriosito, nonostante tutto.

Un uomo con un complesso tatuaggio su un braccio strisciò fuori dal


quadrato buio nell’angolo

nordovest della sala; lo seguì una donna di bassa statura vestita con
l’uniforme della più

precisamente una ragazza. Entrambi avevano le

pistole in mano e osservavano la sala elegantemente arredata con


un’espressione che Birkin fu

incapace di interpretare attraverso il piccolo schermo.


“Chi diavolo sono quelle persone?”, domandò.

“La ragazza è una recluta della S.T.A.R.S., una della squadra Bravo”,
rispose Wesker. “Nessuno

d’importante. L’uomo non lo conosco”.

“Credi fossero sul treno?”

“Non può essere altrimenti” ripose Wesker.

Birkin sentì una nuova ondata di panico che lo invadeva.

“Che cosa facciamo?”

Wesker alzò lo sguardo verso lui con un sopracciglio inarcato. “Che cosa
vuoi dire?”

“Loro... beh, la ragazza è della S.T.A.R.S., e lui chissà per chi lavora... se
dovessero riuscire a scappare?”

“Non essere ottuso, William. Non hanno scampo. Anche se la struttura non
è sigillata, ci sono

portatori dappertutto. Tutto quello che devono fare è aprire una porta o
due... e smetteranno di essere un problema”.

Il cinismo di Wesker era agghiacciante, ma non aveva torto. Le possibilità


che qualcuno uscisse vivo da lì erano praticamente nulle.

Osservarono i due intrusi attraversare lentamente la grande sala, l’unica in


tutto l’edificio dove non ci fossero infetti, sempre armi alla mano.

Dopo averla ispezionata a fondo, la ragazza iniziò a salire la grande


scalinata centrale,

fermandosi su un piccolo pianerottolo. Proprio lì era fissato un ritratto di


grandi dimensioni del dottor Marcus. La ragazza sembrò essere sorpresa,
come se lo riconoscesse. L’uomo con il
tatuaggio si unì a lei, e Birkin poté vederlo leggere ad alta voce la piccola
targa situata sotto il ritratto: DOTTOR JAMES MARCUS, PRIMO
DIRETTORE GENERALE.

Birkin si mosse inquieto. Odiava quel quadro. Gli ricordava come avesse
ottenuto la sua

promozione nella Umbrella, una cosa a cui non gli piaceva pensare.

“Attenzione. Parla il dottor Marcus”.

Birkin trasalì, guardandosi attorno con gli occhi spalancati e il cuore in


gola. Wesker non batté ciglio, ma alzò il volume del vecchio apparecchio di
intercomunicazione fissato sulla console, e la voce di un uomo che era
morto da dieci anni risuonò negli spazi vuoti e nei corridoi di tutto il
complesso.

“Per favore, osserviamo un attimo di silenzio riflettendo sul motto della


nostra azienda.

L’obbedienza crea disciplina. La disciplina crea unità. L’unità crea potere. Il


potere è vita...”

Anche l’uomo e la donna sullo schermo si stavano guardando intorno, ma


Birkin quasi non

prestò attenzione alla loro reazione. Afferrò la spalla di Wesker, nervoso.


Era una registrazione che non sentiva sin da quando lui e Wesker erano
ancora studenti di quel centro.

Chi..., dove...

Wesker si sottrasse dalla presa di Birkin e indicò lo schermo, là dove


l’immagine stava sparendo.

Sbatterono le palpebre più volte sorpresi nel vedere un giovane in piedi in


un’altra stanza. Birkin non riconobbe la sala, ma il giovane che restituiva
loro lo sguardo gli sembrò familiare. Aveva i capelli lunghi e gli occhi
scuri, probabilmente era sui vent’anni e aveva un sorriso secco e crudele,
fine e tagliente quanto una lama d’acciaio.

“Chi sei?”, domandò Wesker, senza aspettarsi realmente una risposta.


L’audio non era

connesso...

Il giovane si mise a ridere, e il suono uscì dalle casse espandendosi nella


sala.

Non era possibile, non aveva cuffie, e non era vicino a nessun sistema di
intercomunicazione,

eppure potevano comunque sentirlo chiaramente.

“Sono stato io a diffondere il T-Virus nella villa” rispose il giovane con


voce fredda. Il sorriso ancor più affilato.

“Non è necessario dire che ho contaminato anche il treno”.

“Che cosa?”, sbottò Birkin, “e perché?”

La voce del giovane sembrò diventare più profonda.

“Vendetta. Contro la Umbrella”.

Girò le spalle alla camera e alzò le braccia verso l’oscurità.

Birkin e Wesker si chinarono sullo schermo, cercando di capire cosa stesse


facendo il giovane.

Ma videro solo un movimento nel buio e sentirono qualcosa di simile al


rumore che produce

l’acqua.

Il giovane tornò a guardarli, con un sorriso ancora più grande. Poi dalle
ombre emerse un uomo
alto e distinto, in giacca e cravatta, con i capelli impomatati pettinati
all’indietro. I suoi tratti erano marcati dall’età, ma energici, abituati a
comandare e dare ordini. Era lo stesso viso del ritratto nell’atrio.

“Dottor Marcus?” esclamò Birkin scioccato.

“Dieci anni fa, il dottor Marcus fu assassinato dalla Umbrella”, spiegò il


giovane, la sua voce era quasi un ringhio.

“E voi li avete aiutati, non è così?”

Rise di nuovo, con una risata oscura e soave, una risata che non prometteva
niente di buono.

Birkin e Wesker guardavano attoniti e in silenzio la figura visibile e vivente


di un uomo che

avevano visto morire un decennio fa.

Il giovane iniziò a cantare e la moltitudine, i suoi piccoli, offuscarono la


telecamera,

manipolando i controlli che permettevano alla sua voce di viaggiare. Aveva


detto tutto quello che voleva dire, almeno per il momento. Rimaneva ancora
molto da fare, molte possibilità da

considerare. Le cose si stavano evolvendo e sviluppando in molte nuove


direzioni.

Cantò una canzone più lenta, e il corpo di Marcus si scompose nella


moltitudine di piccoli.

Questi si riunirono ai suoi piedi e salirono sul suo corpo, accarezzandolo,


adorandolo. Disposti ad aspettare che decidesse quale sarebbe stato il passo
successivo.

Non aveva alcun piano, a parte la distruzione della Umbrella. Aveva usato,
e avrebbe continuato a usare, tutti i metodi che aveva a disposizione: il
virus, i suoi piccoli e i falsi uomini che questi erano capaci di plasmare,
come il dottor Marcus...

Quello era stato come un regalo speciale per Albert e William, e li aveva
senza dubbio lasciati spaventati e confusi.

Il giovane sorrise. Che casualità che, tra tutti quanti, fossero loro quelli che
avrebbero assistito alla caduta della Umbrella. Con un po’ di fortuna,
avrebbe avuto l’opportunità di vederli morire, guardandoli negli occhi come
loro avevano fatto, senza nessuna pietà, osservando il dolore negli ultimi e
disperati momenti di vita del loro mentore. La loro morte non aveva
comunque alcuna

importanza nella visione d’insieme. Quello che importava era che la


Umbrella presto avrebbe

cessato di esistere.

Pensò all’uomo e alla donna del treno, a come poteva usarli ora che erano
entrati nel centro.

Istintivamente, la prima idea era stata quella di ucciderli per evitare che si
intromettessero, ma sembrava uno spreco. Dopo tutto, la Umbrella non era
anche il loro nemico? Avrebbero lottato per la loro vita, avrebbero lottato
per la loro libertà e, se ce l’avessero fatta, avrebbero attirato l’attenzione su
quel disastro, mettendo una croce sulla tomba della Umbrella.

Poteva distruggere i loro laboratori e uccidere i suoi dipendenti, ma la


compagnia poteva sempre costruire nuovi laboratori e assumere persone
nuove. Tuttavia, una volta che il faro della stampa internazionale fosse stato
puntato sulla Umbrella, la sua rovina sarebbe stata inevitabile. E il mondo,
finalmente, avrebbe conosciuto il suo nome. Il centro era sigillato,
naturalmente. Era stato progettato con innumerevoli meccanismi alle porte
e molti passaggi segreti proprio come per la villa progettata da Trevor,
costruita sul finire degli anni ‘60.

Oswell Spencer, cofondatore della Umbrella, aveva vissuto con l’ossessione


dei film e dei libri sullo spionaggio, e poiché era paranoico come ogni
megalomane, aveva voluto che tutti i suoi

edifici fossero smisuratamente sicuri. C’erano chiavi nascoste, porte che


non si aprivano senza l’aggiunta di componenti mancanti, e perfino una
stanza o due progettate per intrappolare gli intrusi più curiosi e incauti. Non
sarebbe stato facile per nessuno fuggire di lì.

E poi c’erano altri falsi uomini sparsi per tutto il complesso, e uomini creati
dalla moltitudine di sanguisughe, pronti ad infettare chiunque gli si
avvicinasse; erano stati loro i primi ad averlo aiutato a diffondere il virus.

Ma era arrivato il momento di usarli anche per aprire il centro di


addestramento, per cercare le chiavi e sbloccare le porte, per assicurarsi che
l’uomo e la donna avessero almeno una possibilità di sopravvivere. Certo
che le opportunità erano davvero scarse; i falsi umani non erano gli unici

portatori del virus che vagavano per gli ambienti del complesso, ma l’uomo
e la ragazza avevano già dimostrato di essere molto più resistenti di tanti
altri.

Il giovane si mise a ridere pensando ad Albert e William, e a che cosa si


stessero domandando.

Gli studenti più brillanti di James Marcus ora lavoravano per limitare i
danni della Umbrella. Dopo tutti questi anni. Era una gran ironia.

I piccoli lo cullavano, lo coprivano, incantati dalla sua risata e cantando la


loro dolce canzone, una canzone di caos e di distruzione, mentre i loro corpi
freddi e scivolosi, pieni del sangue dei nemici, lo avvolgevano e lo
stringevano.

“... genera potere. Il potere è vita”.

La poderosa voce svanì e l’ampio atrio sprofondò nel silenzio.

Doveva essere una registrazione o qualcosa del genere. Non sembrava la


voce di una persona che
parlasse dal vivo, qualcuno l’aveva attivata, e Rebecca aveva un’idea su chi
potesse essere stato.

Rivolse la sua attenzione al ritratto del dottor Marcus e sentì un brivido


percorrerle la schiena.

“Beh, questo sì che è inquietante”, disse Billy.

“Non tanto quanto lo è stato vederlo sul treno”, rispose Rebecca, indicando
il ritratto con un

gesto, “Formato da sanguisughe melmose”.

“Chissà, forse è un altro stadio dell’infezione, o qualcosa del genere”,


ipotizzò Billy.

Rebecca assenti, benché dubitasse che fosse così. Gli zombie che aveva
visto sul treno e l’uomo del vagone ristorante, quello che somigliava a
James Marcus, non avevano gli stessi sintomi.

“O forse, le sanguisughe infettano alcune persone e... non so, ne prendono il


controllo”, suggerì lei.

“Sì”, disse Billy, passandosi una mano tra i capelli e sorridendole con un
sorriso

sorprendentemente gradevole.

“Comunque, probabilmente dovresti cercare un telefono o qualcosa del


genere per chiamare i

tuoi amici...”

Il suo tono era sbrigativo. La mano di Rebecca strinse più forte la nove
millimetri.

“E tu cosa farai?”

Billy si voltò e cominciò a scendere le scale con passo leggero.


“Pensò che mi farò un giro”, rispose.

Rebecca lo seguì mentre si dirigeva verso la porta, senza sapere cosa fare o
cosa dire. Dubitava di riuscire a sparargli, soprattutto dopo che le aveva
salvato la vita, ma non poteva neanche lasciarlo andar via così.

“Non credo sia una buona idea”, replicò lei.

Billy aprì la porta. L’aria notturna, fresca e umida, entrò improvvisamente,


il temporale era

diventato una pioggerella sottile.

“Benché apprezzi la tua preoccupazione per me, credo di essermi


guadagnato un minimo

vantaggio, non credi? Quindi...”, si interruppe a metà frase, fermandosi a


contemplare il paesaggio battuto dalla pioggia che avevano davanti. Il
centro, a quanto pareva, era stato costruito sul pendio di una collina.
Davanti a loro c’era una via pavimentata, sufficientemente larga per essere
una strada, che si estendeva per circa dieci metri, ma solo per interrompersi
bruscamente e cadere nel nulla.

Avanzarono insieme fino al bordo del selciato. C’erano dei lampioni da


entrambi i lati

dell’ingresso principale. Ne funzionava solo uno, ma era sufficiente per


vedere che, senza una

corda, nessuno dei due sarebbe andato da nessuna parte.

La strada terminava in una linea frastagliata di macerie, in cima a un ripido


pendio che cadeva giù per circa cinque metri... o anche di più. Era troppo
buio per vedere bene.

“Che cosa stavi dicendo?”, disse Rebecca.

“Bene. Cercherò un’altra via d’uscita”, insistette Billy, tornando a guardare


l’edificio. Sembrava una casa signorile decorata come la tenuta per il fine
settimana di un miliardario. Entrambi avevano visto l’insegna con scritto
CENTRO DI RICERCA E ADDESTRAMENTO UMBRELLA nel

marmo lucido del pavimento. Rebecca immaginò si trattasse di un luogo di


villeggiatura per i

dirigenti o qualcosa del genere. Dall’aspetto esteriore sembrava essere


abbandonata, ma cera

l’elettricità, le luci... certo tutto quello che avevano visto fino a quel
momento era il deposito dove si era schiantato il treno, quell’atrio
stravagante e il tunnel seminterrato che li collegava. Non era molto per
poter giudicare.

“Ho visto almeno due porte nell’atrio, senza contare quella che sta in cima
alle scale”, proseguì Billy. “E se fossero tutte bloccate, posso sempre tentare
di strisciare attraverso i resti del treno fino ad arrivare fuori”.

“Supponendo che i miei compagni non si presentino prima”, disse Rebecca.

Fece un passo indietro, prese la radio e spinse il pulsante di trasmissione.

La radio di Billy fischiò in risposta, ma fu l’unica a farlo. Dopo un lungo


momento di silenzio, durante il quale l’unico suono era quello della pioggia
che sgocciolava sugli alberi lontani, Billy accennò un sorrisetto.

“Supponendo che trovi un telefono”.

Dio, che uomo irritante! Rebecca si diresse verso la casa, un po’ stupita,
quando raggiunse la porta, da come si sentisse sufficientemente sicura da
dargli le spalle. Anche perché se avesse voluto vederla morta, aveva già
avuto numerose occasioni per farlo. A dispetto di ciò che sapeva su di lui,
aveva difficoltà a pensare a Billy come a un uomo pericoloso. Il suo istinto
le diceva altro, e quella era una delle prime lezioni che si imparavano alla
S.T.A.R.S.: è possibile fraintendere le proprie intuizioni, ma queste
difficilmente sbagliano.
Billy la raggiunse mentre entrava nell’edificio, ed entrambi si fermarono,
immobili. Il quadro di Marcus era sparito.

Al suo posto c’era un varco, un’apertura buia nella parete. Dalla loro
posizione, alla fine delle scale, non c’era modo di vedere cosa ci fosse
dall’altro lato.

Rebecca stava per dire a Billy di rimanere dietro di lei quando lui la superò
con la pistola alzata.

Mentre l’uomo copriva l’area, con la postura e lo sguardo in totale allerta,


Rebecca fu nuovamente colpita dalla forte sensazione che lui non fosse
quello che era sembrato essere inizialmente.

E non che io abbia bisogno di protezione.

Si mise al suo fianco, esaminando la stanza come era stata addestrata a fare,
e insieme salirono le scale fermandosi sul pianerottolo. La nuova apertura
dava su alcune scale che scendevano verso il basso in un corridoio anonimo
e debolmente illuminato.

“Domande? Commenti?”, chiese Billy, sbirciando verso il basso.

“Qualcuno vuole che scendiamo”, ripose la giovane.

“È quello che stavo pensando anch’io. E penso anche che potrebbe non
essere una buona idea”.

Rebecca assentì con la testa. Si allontanò dall’apertura e cercò altre opzioni


guardandosi intorno.

C’erano due porte al piano di sorto, una nella parete sinistra e un’altra in
quella destra. Al secondo piano, da dove si trovava, poteva vedere quattro
porte. Mentre era concentrata a guardarsi intorno, il tonfo di un forte colpo
arrivò da qualche parte alle sue spalle, all’interno del corridoio anonimo e
buio che si apriva dal pianerottolo delle scale. Suonava come qualcosa di
molto morbido e pesante che cadeva al suolo. Senza proferir parola,
entrambi si allontanarono dall’apertura.
“Allora, che ne dici di estendere un po’ più a lungo la nostra tregua?”,
domandò Billy, ma

benché la sua voce fosse spensierata, non sorrideva.

Rebecca annuì di nuovo.

“D’accordo”, rispose, domandandosi in che cosa si sarebbero imbattuti


ancora e che cosa

avrebbero dovuto fare per uscire di lì.

SETTE

Tornarono nell’atrio al pianoterra. Billy fu felice nello scoprire che la


giovane era d’accordo nel continuare a cooperare. Quel posto era senza
dubbio pericoloso. La ragazza poteva essere inesperta, ma almeno non le
mancava nessuna vite in testa.

“Dovremmo separarci”, disse Rebecca.

Billy le lanciò una risata del tutto priva d’umorismo.

“Sei diventata matta? Non hai mai visto un film horror? E poi, guarda che è
successo l’ultima

volta”.

“Se non ricordo male, abbiamo trovato le chiavi per quella valigetta. E
quello di cui abbiamo

bisogno ora è un modo per uscire di qui”.

“Si, ma vivi”, replicò Billy. “È lampante che questo posto sia territorio
ostile. Se ho proposto una tregua è prima di tutto perché non voglio morire,
no?”

“Te la sei cavata abbastanza bene finora”, insistette Rebecca.


“Non dico che dobbiamo cacciarci nei guai, ma solo aprire qualche porta.
Questo è tutto. E ora

abbiamo le radio”.

Billy sospirò.

“Alla S.T.A.R.S. non ti hanno mai parlato del lavoro di squadra?”

“Veramente questa è la mia prima missione”, ammise Rebecca.

“Ascolta, diamo un’occhiata in giro e ci chiamiamo per radio se troviamo


qualcosa. Io vado di

sopra e tu guardi qui sotto. Se le radio non dovessero funzionare, ci


ritroviamo in questo punto tra venti minuti esatti”.

“Non mi piace per niente”.

“Non ti deve piacere, fallo e basta”.

“Signorsì, signora”, scattò Billy con ironia. Alla ragazza non mancava di
certo l’attitudine al comando, anche se forse non doveva essere tanto
difficile dare ordini a un condannato quando stavi dalla parte della legge.

“Quanti anni hai, comunque? Mi piacerebbe sapere se ricevo ordini da


qualcuno un po’ più

maturo dì una girl scout”.

Rebecca gli lanciò un sguardo assassino, poi si girò dirigendosi verso le


scale. Alcuni secondi dopo, Billy sentì chiudersi una porta. Gettò uno
sguardo alla hall.

Bene... Eeny, meeny, miney...

“Mo”, disse Billy, lasciando alla filastrocca l’onere di scegliere dove


dirigersi.
Si mosse verso la parete sinistra dell’atrio. Non voleva andare da solo,
avrebbe preferito avere qualcuno che gli coprisse le spalle, ma forse era
meglio così. Se avesse trovato una via d’uscita avrebbe potuto andarsene
senza problemi, dopotutto. L’avrebbe chiamata giusto per dirle addio e
indicarle da dove fuggire. Lasciarla sola non l’avrebbe fatto sentire tanto
bene, ma la ragazza avrebbe tranquillamente potuto nascondersi e arrendere
che la trovassero; anche se l’idea non gli piaceva per niente, non poteva
neanche dimenticare ciò che Io attendeva e, se qualche altro agente
S.T.A.R.S. si fosse presentato lì, o la polizia di Raccoon City o quelli della
polizia militare, sarebbe stato riportato a Regarthon in un batter d’occhio.

Allontanò quel pensiero e si avvicinò alla porta. Si sentiva scombussolato


da quando l’avevano

condannato, furioso e angosciato in parti uguali. Dall’incidente nella


foresta, era riuscito a dimenticare il suo appuntamento con la morte, cosa
molto utile se voleva ragionare con lucidità.

Doveva continuare così.

“Vediamo cosa c’è dietro la porta numero uno”, mormorò mentre apriva la
porta. Si tese, alzò la pistola e mirò. Era una sala da pranzo, un tempo
abbastanza elegante. Due, tre uomini infetti

vagavano attorno al tavolo fracassato che si trovava al centro della sala, e


tutti e tre ora si stavano dirigendo verso lui. Avevano l’aspetto di veri e
propri zombie, con la pelle grigia lacera e gli occhi bianchi. Uno di loro
aveva perfino una forchetta conficcata in una spalla.

Billy chiuse rapidamente la porta e fece un passo indietro, aspettando di


vedere se una di quelle creature fosse stata in grado di girare il pomello
della porta. Il vuoto dell’atrio gli pesava sulle spalle come uno sguardo
gelido. Alcuni secondi dopo udì grattare il legno della porta e dei grugniti di
frustrazione, il gemito privo di intelligenza degli zombie.

Ottimo. La villa, il centro di addestramento o qualunque cosa fosse, era


stato infettato tanto
quanto il treno. Quella era una risposta concreta a ogni sua domanda.
Afferrò la radio e strinse il bottone di trasmissione.

“Rebecca, rispondi. Abbiamo degli zombie qui. Passo”.

Ricordò lo scorpione gigante e fu attraversato da un brivido, sperando che


fossero davvero solo zombie quelli che c’erano lì.

Ci fu una pausa, poi risuonò una voce giovane.

“Ricevuto. Hai bisogno d’aiuto? Passo”.

“No”, rispose Billy, infastidito. “Ma non credi che dovremmo riconsiderare
il tuo piano? Passo”.

“Questo non cambia niente”, ripose lei. “Dobbiamo ancora trovare


un’uscita. Continua a cercare

e fammi sapere quello che trovi. Passo e chiudo”.

Magnifico. Wonder Woman proseguiva con il suo piano. Quindi porta


numero due, a meno che non volesse sfidare la sorte chiuso in una stanza
con tre di quegli esseri. Attraversò l’atrio, pensando che farlo sarebbe stato
solo uno spreco di munizioni, né era certo. Era altrettanto certo di non
voleva sparare contro della gente malata, per quanto fosse impazzita... e gli
zombie erano veramente andati fuori di cervello, quindi, se poteva evitarlo,
tanto meglio.

Apri la seconda porta e la trattenne, con tutti i sensi all’erta. Si apriva su un


lussuoso corridoio che si dirigeva verso destra, curvando pochi metri più
avanti. Non si sentiva niente, né rumori né movimenti, ma odorava di
polvere e di chiuso, niente di peggio. Attese un istante ed entrò nel

corridoio, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle.

Avanzò silenziosamente, aiutato dalla spessa moquette che assorbiva il


suono dei suoi passi.
Girò l’angolo con l’arma davanti a sé e smise di trattenere il respiro quando
vide che il corridoio continuava a essere deserto. Fino a lì, tutto bene. Il
passaggio continuava dritto per poi svoltare di nuovo un po’ più avanti, ma
c’era una porta sulla sinistra che avrebbe potuto provare ad aprire.

La spinse lentamente e sorrise alla vista di un bagno vuoto e di una fila di


lavandini.

“Questo mi ricorda che dovrei...”, disse mentre entrava. Controllò


rapidamente l’ambiente. La

stanza era a forma di U, con una fila di lavandini fissati su due delle pareti e
quattro cubicoli con water che coprivano la terza parete, discretamente
nascosti dalla porta di entrata. Per quanto

elegante il centro sembrava essere stato abbandonato, anche se di recente.


La porta di uno dei

cubicoli pendeva fuori dai cardini, il sedile del water sembrava essere rotto
e c’erano alcune

cianfrusaglie inutili sparse al suolo: bottiglie vuote, cocci con piante e altri
detriti improbabili per un bagno. Trovò una tanica di plastica con della
benzina in uno dei cubicoli. C’era dell’acqua

relativamente pulita nel water... quindi, tenendo conto dell’urgenza, gli


andava più che bene.

Poco dopo, si stava tirando tu la cerniera quando sentì qualcuno entrare nel
bagno. Un passo e

una lunga pausa...

Poi un altro passo.

Aveva chiuso la porta? Non lo ricordava, e si maledisse in silenzio per quel


momento che si era concesso. Alzò la pistola e si girò silenziosamente sulle
punte dei piedi, osservando l’esterno dalla porta semi aperta del cubicolo.
Da lì non poteva vedere l’ingresso dei bagni, ma parte della sala era riflessa
su di un lungo specchio posto proprio sopra alla fila di lavandini.

Tenne l’arma in alto e aspettò.

Un terzo passo, e di nuovo silenzio. Chiunque fosse, aveva le scarpe


bagnate, sentiva il suono

umido delle suole sporche di fango calpestare il pavimento.

Col quarto passo un profilo apparve sullo specchio e Billy uscì dal cubicolo,
provando un

estraneo mix d’orrore e di sollievo mentre si preparava a sparare.

Era uno zombie, un uomo col viso brillante, ma privo di espressione.

Guardava nel vuoto mentre si dondolava leggermente, cercando di


mantenere l’equilibrio. Gli

zombie risultavano orribili, ma almeno erano relativamente lenti. E, benché


non gli piacesse molto farlo, ammazzarli era senza dubbio un atto di pietà.

Lo zombie fece un altro passo e si mise sulla linea di fuoco di Billy. Questi
mirò accuratamente sopra l’orecchio destro dell’essere, non volendo
sprecare nemmeno un colpo, ma lo zombie si girò improvvisamente, a una
velocità maggiore di quanto si aspettasse. Si accovacciò leggermente,

guardò Billy attraverso un occhio iniettato di sangue, mentre l’altro era


rivolto verso la parete, e cominciò a muoversi. Era ancora a due metri di
distanza... ma il braccio gli si stava allungando; l’arto si era assottigliato
mentre lo lanciava contro Billy come fosse un elastico, e il tessuto della
camicia umida e incolore si distendeva con lui.

Billy lo schivò. La mano dell’essere gli passò sopra la testa e schiaffeggiò


con forza la porta del cubicolo con un colpo dal suono umido. Quindi si
ritirò, recuperando la sua forma al fianco del corpo inumano simile a uno
zombie.
Sul treno, come Marcus...

Era sufficientemente vicino da poter notare il movimento dei vestiti della


creatura, lo strano

effetto increspato mentre il braccio ritornava al suo posto. Sanguisughe, la


maledetta cosa era fatta di sanguisughe.

Quando avanzò di un altro passo, Billy inciampò all’indietro finendo di


nuovo nel cubicolo,

sparando contro il viso umido e carnoso dell’essere.

La cosa esitò per un istante, mentre un liquido nero gli colava dalla ferita
che si era aperta

proprio sotto l’occhio sinistro. Improvvisamente la ferita sparì, una falsa


pelle si estese sul foro e le sanguisughe si riposizionarono. Potevano
rigenerarsi. La cosa fece ancora un passo e Billy chiuse la porta del
cubicolo con un calcio e la tenne bloccata con lo stivale. La sua mente
percorreva le possibilità scartandole alla stessa velocità.

Chiama Rebecca — no non c’è tempo. Continua a sparare — non ho


sufficienti pallottole. Corri

— mi blocca la strada...

Billy sbuffò di frustrazione, e il suo sguardo cadde frenetico sulla bottiglia


di plastica con dentro la benzina. Si gettò in avanti, tenendo ferma la porta
con la spalla, e si mise a cercare nella tasca anteriore destra. Lì, sotto una
delle pallottole del fucile...

Tirò fuori l’accendino che aveva trovato sul treno, ringraziando il cielo per
averlo preso, e

afferrò la tanica dì benzina. La manetta sciolta batté contro la plastica. Era


piena fin quasi alla metà.

Dio, spero che sia veramente benzina.


Qualcosa colpì la porta come se fosse un ariete. Billy fu gettato all’indietro,
ma vi si lanciò di nuovo contro con la spalla dolorante, mentre svitava il
tappo della bottiglia con mano tremante. La creatura era orribilmente e
stranamente silenziosa mentre tornava a caricare contro la porta,

sbattendo con forza sufficiente da ammaccare il metallo.

Il nauseante odore di benzina saturò l’angusto cubicolo in un attimo. Billy


strappò il rotolo di carta igienica dalla parete... e la porta si aprì
improvvisamente, scardinata dalla forza di un altro, potente, inumano colpo.
La creatura stava lì, oscillante, con il suo unico occhio che cercava Billy,
per poi alla fine inchiodarsi su di lui.

Billy alzò la bottiglia mentre recuperava l’equilibrio e si sporcò di benzina.

Scosse in avanti il contenitore e lanciò il liquido contro il petto della


creatura.

La reazione fu immediata e ripugnante. Il corpo cominciò a contorcersi, a


tremare, e un grido

acuto inondò la stanza. Non era una voce, era lo stridere contemporaneo di
migliaia di piccole

creature. Un fluido scuro e spesso incominciò a sgorgare da ogni poro del


corpo e del viso.

Billy le lanciò un potente calcio e la cosa barcollò all’indietro, ancora


integra, ancora ululante, mentre il suono riempiva l’intera stanza.

Billy non sapeva se la benzina da sola sarebbe stata sufficiente, e non aveva
intenzione di

rimanere a scoprirlo. Aprì il coperchio dell’accendino e diede un colpo alla


rotella, mettendo il rotolo di carta igienica sulla fiamma.

Un secondo dopo, la carta ardeva.


Billy saltò fuori dal cubicolo e schivò il mostro urlante. Non appena l’ebbe
superato, si girò e gli lanciò il rotolo di carta in fiamme. Questo colpì
l’uomo-sanguisuga proprio sotto lo sterno, e il folle stridio si intensificò per
un orribile e assordante secondo mentre le fiamme lo avvolgevano, prima
che si disfacesse in mille pezzi roventi. Una specie di pozzanghera nera e
fiammeggiante si formò sulle mattonelle del pavimento, e le migliaia di
grida si spensero in pochi secondi.

Alcune sanguisughe strisciarono via dalle fiamme, ma erano disorganizzate


e si muovevano a

caso, salendo sulle pareti o scivolando vicino ai piedi di Billy. Questo


retrocedette, allontanandosi da loro e da quel fuoco gorgogliante,
rimettendosi in tasca l’accendino e avvicinandosi alla porta.

Tornato nel corridoio respirò profondamente, inspirando lentamente l’aria, e


afferrò la radio.

Ormai non gli importava dei piani di Rebecca. Dovevano riunirsi il più
presto possibile e uscire in gran fretta da quel diavolo di posto, anche a
costo di scavare i muri a mani nude.

4 dicembre

Stasera festeggeremo! Quando cominciammo, avevo i miei dubbi, ma


questa notte ha cambiato

ogni cosa. Finalmente ce l’abbiamo fatta, dopo tutto questo tempo.

Stiamo pensando di chiamare il nuovo virus “Progenitor”. L’idea è stata di


Ashford; mi piace.

Dobbiamo iniziare subito con i test.

23 marzo

Spencer dice che fonderà un’azienda specializzata in ricerca farmaceutica,


forse nel ramo dello sviluppo e produzione di farmaci. Come sempre, è lui
l’uomo d’affari del gruppo. Il suo interesse per il Progenitor è soprattutto
economico, ma non ho nulla di cui lamentarmi. Vuole vederci raggiungere
il successo, e questo significa che continuerà a finanziarci. Finche
continuerà a firmare assegni, può fare quello che vuole.

19 agosto

Il Progenitor è una meraviglia, ma le sue capacità sono ancora così


incerte.

Proprio quando pensavamo dì aver documentato la velocità di


amplificazione, quando avevamo

una mezza dozzina di riprove che davano lo stesso risultato, tutto è stato
stravolto. Ashford ancora continua a lavorare sui numeri della citosina
procedendo a ritroso, ma è solo un sogno. Dobbiamo continuare a
osservare i risultati.

Spencer continua a chiedermi di diventare il direttore di questo suo nuovo


centro di

addestramento. Probabilmente per lui è tutto un business, ma sta


diventando intollerabilmente insistente. In ogni caso, sto cominciando a
pensarci seriamente. Ho bisogno di un posto dove poter esplorare
adeguatamente le enormi possibilità del virus, un posto dove nessuno
interferisca con il mio lavoro.

30 novembre

Che sia maledetto.

“Pranziamo insieme, James ”, mi detto, per ricordare vecchi amici e tempi


migliori. Tutte stronzate. Vuole solo che il Progenitor sia pronto ora. I suoi
“amici” nel club dell’Ufficio Bianco, disgustosi ricchi coi loro ridicoli
giochi da spie, vogliono qualcosa di eccitante con cui giocare, da mettere
all’asta, e non vogliono aspettare che sia pronto. Idioti. Spencer pensa che
sia solo una questione di soldi, ma si sbaglia. Non è per questo che sto
lavorando. Devo rinforzare la mia posizione, difendere la mia regina, per
così dire, o mi calpesteranno.
19 settembre

Finalmente, finalmente! Ho creato un plasmide con il DNA di sanguisuga e


l’ho ricombinato col Progenitor, ed è stabile! Era il momento che stavo
aspettando.

Spencer ne sarà lieto, che sia dannato, anche se gli dirò solo che ho
ottenuto alcuni progressi, ma non a che punto sono, né come e né perché.
Ho già deciso il nome. Lo chiamerò T, da Tyrant, Tiranno. In suo onore.

23 ottobre

Non posso pensare a loro come a essere umani. Sono solo cavie per i test,
questo è tutto. Sapevo che le mie ricerche mi avrebbero portato a questo
giorno.

Lo sapevo, eppure... non pensavo che sarebbe stato così.

No.

Non devo perdere di vista i miei obiettivi. Il T-Virus è magnifico. Quegli


individui dovrebbero essere orgogliosi di sperimentare tale perfezione. Le
loro vite spianeranno la strada verso una maggiore consapevolezza.

Individui sperimentali. Questo è tutto. Sono pedine. E a volte bisogna


sacrificare le pedine per ottenere un potere superiore.

13 gennaio

Le mie piccole continuano a progredire. Con il loro DNA ricombinato al


virus, pensavo che

avrei potuto prevedere come l’infezione le avrebbe cambiate, ma mi


sbagliavo. Hanno cominciato a formare colonie, come le formiche o le api.
Nessun individuo è migliore dell’altro, ma lavorano insieme, con una
mentalità da alveare, unendosi per raggiungere uno scopo più alto. Il MIO
scopo.
All’inizio non riuscivo a vederlo, ero cieco, ma ora è molto più gratificante
del lavoro sugli esseri umani. Devo continuare questi esperimenti,
tuttavia... non posso rivelare di aver scoperto il vero senso, il vero valore di
T e ciò che rappresenta. Spencer cercherebbe di impadronirsi di lui, lo so.
Il mio re è in pericolo.

11 febbraio

Mi stanno sorvegliando. Entro nel mio laboratorio e mi accorgo che alcune


cose sono state

spostate. Cercano di nasconderlo, di far sembrare che tutto è come era, ma


io noto ogni cosa. È

Spencer, maledetta sia la sua anima, sa delle mie sanguisughe, della mia
bella colonia, e questa...

questa persecuzione, non finirà fino a che uno di noi due non sarà morto.
Non posso fidarmi di nessuno... Chissà, forse solo di Albert e William, le
mie torri; loro credono nel mio lavoro, ma dovrò eliminare gli altri. La
partita si avvicina alla fine. Cercherà di prendere la mia regina, ma vincerò
io. Scaccomatto, Oswell.

Quella era l’ultima annotazione. Rebecca chiuse il diario e lo lasciò vicino


alla scacchiera

posizionata nel centro della scrivania. Quando aveva trovato il cassetto


nascosto, aveva pensato che le grossolane mappe fossero il premio. Ne
aveva trovate due; una mostrava quelli che dovevano

essere i tre piani interrati dell’edificio, comprese alcune zone senza nome
che forse conducevano all’esterno.

L’altra sembrava essere dei piani superiori, con una stanza segnata
OSSERVATORIO vicino a

un’area aperta e ampia indicata come PISCINA VIVAIO.


Ma il piccolo diario rilegato in cuoio, polveroso e raggrinzito dagli anni —
Rebecca non sapeva esattamente quanti, ma una delle annotazioni del
lavoro con le sanguisughe aveva “1988” scritto nell’angolo superiore — era
stato un’autentica scoperta. Sicuramente lo aveva scritto James

Marcus, presumibilmente il creatore del T-Virus, lo stesso virus che


trasformava la gente in zombie e che aveva infettato sia il treno che metà
della foresta di Raccoon, se si prendevano in

considerazione gli ultimi omicidi.

Rebecca osservò l’insolito arredamento dello studio, con una scacchiera


gigante che dominava la stanza ricoprendo interamente il pavimento.
Evidentemente, alla fine, doveva essere impazzito, con le sue paranoiche
divagazioni sugli scacchi e sul “vero senso” del virus. Effettuare degli
esperimenti sulle persone, forse, era stato troppo perfino per lui.

La radio emise il segnale di chiamata. Non appena spinse il bottone di


ricezione, la voce

ansimante di Billy le risuonò nelle orecchie.

“Dove sei? Dobbiamo riunirci, subito. Capito? Ah, passo”.

“Che cosa è successo? Passo”.

“È successo che mi sono imbattuto in un altro di quegli uomini-sanguisuga


che per poco non mi

ha fatto fuori. Gli zombie so come trattarli, ma quelle cose si mangiano le


pallottole, Rebecca. Non abbiamo sufficienti munizioni per tener loro testa.
Passo”.

“Hanno cominciato a formare colonie, come le formiche o le api.”

Chi le stava controllando? Marcus? O avevano sviluppato da sé il proprio


leader? O una regina?
“D’accordo”, rispose Rebecca. Raccolse gli schizzi dei sotterranei e
dell’osservatorio che aveva trovato e se li infilò sotto il giubbotto,
rimettendosi in piedi. Dopo aver esitato per un secondo, afferrò anche il
diario e lo lasciò scivolare nella tasca posteriore. “Vediamoci al
pianerottolo, dove c’era il quadro di Marcus. Forse ho trovato l’uscita,
passo”.

“Ci vediamo là. Guardati le spalle. Passo e chiudo”.

Rebecca si affrettò a uscire dalla stanza e a percorrere il corridoio,


muovendosi con rapidità. Non era arrivata molto lontano nella sua
esplorazione, solo a una sala riunioni vuota e allo studio con gli scacchi. Per
fortuna, non aveva incontrato nulla di ostile. Billy aveva ragione riguardo
agli uomini-sanguisuga, non c’era modo che potessero gestirli. In effetti, era
plausibile che l’unica ragione per cui tutte le sanguisughe del treno non li
avevano attaccati era solo perché erano state richiamate.

Aveva creduto che sarebbe potuta rimanere tranquillamente nascosta nel


centro fino a quando non fossero arrivati i rinforzi, ma dopo avere letto il
diario di Marcus e aver scoperto che l’intera struttura di addestramento era
stata infettata, voleva solo uscire di lì.

Dopo tutto quello che aveva passato quella notte — l’atterraggio forzato
con l’elicottero, il treno, Billy, il deragliamento, e ora questo — continuava
ancora a sperare che apparisse la cavalleria, che qualcun altro si facesse
carico di tutto, così che la rimandassero a casa per consumare una cena
calda, dormire un bel po’ e svegliarsi il giorno dopo per cominciare di
nuovo la sua vita normale.

Ma, apparentemente, era tutto il contrario, ed era sempre più invischiata nel
mistero di Marcus e delle sue creature, nella Umbrella e dei suoi terribili
esperimenti.

Il giovane si era ritirato in un luogo dove lo sciame potesse riunirsi con


comodità, uno spazio grande, caldo e umido, lontano dalla luce del giorno.
La moltitudine di sanguisughe lo circondava, cantando le ipnotiche canzoni
d’acqua e di oscurità, eppure non riusciva a tranquillizzarlo. Aveva
osservato con fredda furia come la ragazza — l’assassino l’aveva chiamata
Rebecca, mentre il suo maledetto nome era Billy — aveva rubato il diario
di Marcus e se lo fosse messo in tasca prima di uscire dallo studio. Non era
assolutamente per questo che le aveva lasciato aperta la scrivania. La
mappa dell’osservatorio, doveva prendere solo quella. I due si erano appena
riuniti davanti al

passaggio del quadro, parlando contemporaneamente, spiegandosi quello


che avevano trovato,

raccontandosi le loro gesta omicide.

Poteva osservare la ladra e l’assassino sullo schermo video posto in un


angolo del nuovo

ambiente, in un sottolivello dell’impianto di trattamento, ma poteva vederli


meglio attraverso la dozzina di occhi che li osservavano in silenzio, quelli
dei suoi bambini nascosti nell’ombra. Le menti della moltitudine erano
poderose, capaci di inviarsi immagini tra di loro e, di riflesso, anche a lui;
era così che riuscivano a lavorare insieme in maniera tanto efficiente.
Rebecca e Billy non avevano idea di quanto fossero vulnerabili e della
facilità con cui poteva strappar loro la vita.

Erano vivi solo per suo volere.

La ladra e il suo amico assassino. Billy aveva ucciso un collettivo. Lo aveva


bruciato. I pochi superstiti stavano ancora strisciando verso il loro padrone,
con i poveri corpi bruciacchiati,

mostrandogli tutta la mancanza di coesione della morte. Come aveva osato,


quell’uomo senza

importanza, quell’insetto miserabile?

Rebecca tirò fuori le mappe ed entrambi le studiarono, troppo stupidi, senza


dubbio, per sapere quello che lui voleva che facessero. L’osservatorio era la
chiave per la loro fuga, ma avrebbero certamente tentato prima nei
sotterranei. Benissimo. Non era più tanto sicuro di volerli lasciare fuggire
oramai.
Cominciarono a scendere le scale, e sparirono dallo schermo e dagli occhi
della moltitudine, ma solo per un istante. Come i due tornarono ad apparire
su un’altra videocamera, si fermarono,

guardando la massa di corpi di aracnidi, morti e arricciati, sul pavimento.


C’erano quattro ragni giganti, tutti morti soli pochi istanti prima. Erano stati
eliminati affinché Rebecca e il suo amico potessero scampare al loro morso
velenoso. I ragni erano stati un altro esperimento, ma destinato a fallire
poiché troppo lenti e difficili da controllare, eppure sufficientemente letali
da far preoccupare il giovane. Ora però gli dispiaceva. Adesso veder morire
la ladra e l’assassino sarebbe stato un piacere, nonostante facessero parte
del suo piano contro la Umbrella. La coppia continuò ad

avanzare senza sapere che le creature che avevano ucciso i ragni si


nascondevano ancora nei corpi gonfi e segmentati degli aracnidi, intente a
osservarli.

Che cosa fare? Se li uccideva avrebbe placato un proprio bisogno interiore,


la necessità di

vendicare le vite dei suoi piccoli, quella di affermare il suo controllo. Ma


rovinare la Umbrella era la sua priorità. Voleva condurre la corporazione
alla rovina aprendo il suo pestilenziale cuore, cosa che Billy e Rebecca
avrebbero sicuramente fatto, se fossero sopravvissuti.

I due camminarono fino alla fine del corridoio, poi attraversarono la porta
di un ufficio

abbandonato da tempo. Consultarono brevemente la mappa, e continuarono


fino a un’altra stanza,

un ambiente senza uscite dove un tempo venivano tenuti gli esemplari vivi.
Era da tempo ormai che non c’erano più gabbie lì, e la stanza era ormai
vuota. Il giovane non era certo del perché i due avessero scelto una strada
senza uscita fino a quando li vide dirigersi verso l’angolo nordovest e
guardare verso un rettangolo nero vicino al soffitto.
Il condotto di ventilazione. Non c’era sulla mappa. Forse credevano che
fosse una via

d’uscita, ma la verità era che portava a...

Il giovane scosse la testa. Le stanze private del dottore Marcus, la sala dove
un tempo

“intratteneva” alcuni dei soggetti di studio più giovani e attraenti.

Perché non andarsene semplicemente via? Non avrebbero trovato niente


nelle stanze private,

niente.

A meno che...

Il sistema di ventilazione era connesso a un’altra area di mantenimento


degli esemplari vivi, ma quella non era vuota. Era da giorni ormai che le
creature non mangiavano. Erano molto, molto

affamate. L’unica cosa che doveva fare era lasciare che i suoi piccoli
aprissero una gabbia o due...

Invece di considerarli come parte integrale del suo piano, doveva


considerare Billy e Rebecca

come due individui di studio. Potevano morire, certo, ma in fin dei conti la
loro dipartita avrebbe ritardato solo di poco la fine della Umbrella.

Era impaziente, ma doveva considerare anche il divertimento che ne poteva


conseguire. E poi...

sarebbero potuti sopravvivere. E, in questo caso, avrebbero avuto una storia


in più da raccontare.

Il giovane abbozzò un sorriso affilato come una lama mentre Billy spingeva
Rebecca alzandola
fino alla griglia di ventilazione. La ragazza ci strisciò dentro fino a sparire
dalla sua vista. Non sarebbe stato divertente se alcuni esemplari della serie
dei primati si fossero uniti al gioco?

Intorno a lui, i suoi piccoli sussurravano. Le pareti e il soffitto gocciolavano


dei loro fluidi viscosi. Circondato dalla moltitudine, col destino della
Umbrella nelle sue mani e con due soldatini con cui giocare e divertirsi
misurando le loro abilità contro i resti delle armi bio-organiche della
Umbrella, si sentì felice. Vivi o morti? In ogni caso, lui sarebbe stato
soddisfatto.

“Aprite le gabbie, miei cari”, mormorò, e cominciò a cantare.

OTTO

Rebecca si spinse nel condotto di ventilazione senza far troppo caso allo
strato di polvere e alle ragnatele che le si erano attaccate sui capelli e sui
vestiti e ignorando la sensazione claustrofobica dovuta alle soffocanti sottili
pareti di metallo. La mappa mostrava solo il condotto che univa due stanze
nel primo piano sotterraneo, ma c’erano degli spazi vuoti nel secondo
livello sotterraneo che sembravano far parte anch’essi del sistema.
Sembrava possibile che uno dei condotti si aprisse sull’esterno. Quell’idea
non aveva entusiasmato Billy — “possibile” non era esattamente la stessa
cosa di “probabile” — aveva detto, ma entrambi furono d’accordo che
valeva la pena tentare.

Almeno non sembra essere troppo lungo, pensò Rebecca, mentre strisciava
verso il rettangolo di luce che si apriva più avanti. Una fine griglia di
metallo copriva l’uscita, ma saltò via con pochi colpi, tintinnando sul suolo
sottostante.

Diede un’occhiata alla grande stanza fatta di pietra. Sotto il tremolio di una
lampada morente, l’ambiente sembrava vuoto, freddo e umido. Rebecca
afferrò il bordo dell’apertura e saltò giù rotolando con una capriola appena
toccato il terreno. Si rialzò, si ripulì l’uniforme e osservò la stanza.

Oh Gesù!
Sembrava una prigione sotterranea medievale, grande e scura come una
grotta di pietra. Dalle pareti di roccia pendevano catene di ferro arrugginito,
dalle quali, a loro volta, pendevano delle manette. C’erano vari strumenti
che Rebecca non riuscì a riconoscere, ma che evidentemente

potevano essere stati utilizzati solo per infliggere dolore. Tavole con chiodi
ossidati, corde annodate a grappoli e, vicino a una fontana coperta di muffa
e sporcizia, c’era una specie di armatura

verticale che sembrava proprio essere una vergine di ferro. Anche


nell’ombra non aveva dubbi sul fatto che le macchie sbiadite che
ricoprivano le crepe dei ruvidi muri fossero di sangue rappreso.

“Va tutto bene? Passo”.

Rebecca prese la radio.

“Non credo che ‘bene’ sia la parola più adatta”, rispose “ma io sto bene.
Passo”.

“C’è un altro condotto di ventilazione? Passo”.

Rebecca osservò le pareti alla ricerca di un’altra griglia, e ne vide una a tre
metri o anche di più di altezza.

“Sì, ma è vicina al soffitto”, rispose con un sospiro. Anche se fosse riuscita


ad arrivare sin lì con una scala, poi non sarebbe potuta scendere dall’altra
parte del condotto. Vide l’unica porta

nell’angolo sud-ovest della stanza.

“Dove conduce la porta? Passo”.

Una pausa.

“Sembra che si apra su una piccola stanza che riporta al corridoio da dove
siamo passati”, la

informò Billy. “Ci troviamo nel corridoio? Passo”.


Rebecca si diresse verso la porta.

“Si, è la cosa più logica. Magari possiamo...”

Prima che potesse completare la frase, un suono terribile riempì la stanza,


un suono che non

credeva di aver mai sentito prima, ma che allo stesso tempo le risultò
stranamente famigliare. Era un grido acuto, simile a quello di una...
scimmia...

Ecco che cosa mi ricorda, la casa dei primati, allo zoo...

... che riecheggiava nello spazio cavernoso e sembrava provenire da


nessuna e da tutte le

direzioni. Rebecca alzò lo sguardo giusto in tempo per vedere una creatura
pallida e dalle lunghe membra che la osservava dal condotto di ventilazione
del soffitto. La creatura mostrò i denti, grandi e affilati, mentre sembrava
voler afferrare l’aria davanti al suo petto muscoloso con le agili dita,
stridendo orribilmente. Prima che Rebecca potesse fare un passo, la creatura
saltò dal condotto di ventilazione fino alla parete, rimbalzò sulla roccia e
atterrò in posizione accovacciata su una pila di tavole al centro della stanza.
Le labbra tirate lasciavano scoperti i denti giallognoli. Era come un
babbuino dal pelo corto e bianco, eccetto per i grandi squarci nel manto da
cui si intravedevano brillanti fasci di gonfio muscolo rosso. Non sembrava
fosse stato attaccato o ferito, ma era come se i suoi muscoli fossero cresciuti
tanto da lacerare la pelliccia. Le zampe erano troppo grandi e le unghie
troppo lunghe e la creatura se le trascinava dietro tracciando dei segni sul
suolo di pietra mentre si avvicinava a Rebecca dalla pila di tavole, con un
sorriso malizioso sul viso contorto.

Piano...

Rebecca prese lentamente l’arma che le pendeva dall’anca, spaventata come


era sempre stata

durante quella maledetta notte.


Già i babbuini normali erano in grado di fare a pezzi una persona, ma
questo aveva anche il

vantaggio di essere infetto.

Il babbuino si avvicinò ancora, e Rebecca sentì almeno altre due voci


cominciare a urlare da

sopra. Il rumore era sempre più forte man mano che più animali malati si
avvicinavano. Quello

davanti a lei era già sufficientemente vicino da poter respirare il caldo e


selvaggio odore dell’urina e delle feci, della brutalità e, soprattutto,
dell’infezione che l’aveva sopraffatto.

“Rebecca! Che cosa sta succedendo?”

Aveva ancora la radio nella mano sinistra. Spinse il bottone, temendo di


parlare ma, ancora di

più, temendo che le grida di Billy incitassero la creatura ad attaccarla.

“Sshhh”, disse con voce soave, tanto per calmare l’animale quanto per far
tacere Billy.

Indietreggiò, si appese la radio al collo e alzò la nove millimetri. Il


babbuino si accovacciò ancor di più, irrigidendo le zampe, e saltò, proprio
nel momento in cui Rebecca faceva fuoco, mentre altri due esseri saltavano
giù agili dal condotto di ventilazione.

Uno di loro le colpì la testa con una zampa e gli artigli affilati le
strapparono i capelli.

La spinta ricevuta le permise di schivare l’attacco del primate, ma le fece


perdere l’equilibrio facendola finire sulla porzione di pavimento coperta
dalla pila di tavole, mentre i proiettili che aveva sparato colpirono
solamente il muro...

... fu allora che il pavimento cedette.


Non c’erano stati altri sviluppi. Quello strano giovane, chiunque egli fosse
— e Wesker aveva già i suoi sospetti, che tenne per se — non era più
apparso sullo schermo, come neanche la figura di James Marcus. Le
telecamere non sembravano più funzionare correttamente, e l’utilità del
restare lì a sorvegliare la situazione era ormai abbastanza discutibile. Molte
si erano spente, lasciando lo schermo nero e silenzioso e impedendogli di
vedere qualcosa.

Dopo diversi lunghi e tediosi momenti sciupati ad ascoltare Birkin che


parlava del suo nuovo

virus, Wesker si allontanò dalla console di sorveglianza, si mise in piedi,


sgranchendosi. Era buffo, qualche anno fa sarebbe stato molto interessato al
lavoro del suo vecchio amico. Ma essendo sul punto di chiudere la sua
lunga relazione con la Umbrella, ora era incapace perfino di fingere

interesse.

“Beh, è stato un lungo giorno”, disse Wesker, interrompendo l’ossessivo


monologo di William

quando questi si era concesso un momento per respirare.

“È ora che me ne vada”.

Birkin lo fissò, il suo viso pallido e angosciato sembrava spettrale sotto la


luce bianca dei monitor.

“Che cosa? E dove vai?”

“A casa. Non c’è altro da fare qui”.

“Ma... hai detto... E che cosa facciamo con la pulizia?”

Wesker si strinse nelle spalle.

“La Umbrella invierà un’altra squadra, ne sono sicuro”.


“Ma pensavo che coprire la fuoriuscita del virus fosse la cosa più
importante. Non hai detto che era vitale?”

“L’ho fatto?”

“Sì!” Birkin era visibilmente arrabbiato. “Non voglio che si intrometta più
nessuno della

Umbrella. Potrebbero cominciare a fare domande sul mio lavoro. Ho


bisogno di più tempo”.

Wesker si strinse nuovamente nelle spalle.

“Bene, allora attiva il sistema di autodistruzione e informa il nostro contatto


che è tutto

sistemato”.

Birkin assentì con un gesto, tuttavia Wesker lesse l’inquietudine brillare nei
suoi occhi. Birkin aveva paura del suo nuovo contatto con i pezzi grossi
della sede, ed evitava di avere qualunque relazione con lui. Wesker non
poteva biasimarlo. C era qualcosa in quel Trent, quella strana

tranquillità nel suo atteggiamento...

“E che cosa faccio con... lui?” Birkin fece un gesto con la testa verso gli
schermi.

Anche Wesker sentì una punta di inquietudine, ma la sua espressione rimase


imperturbabile.

“Un fanatico vendicativo. Molto bravo con gli effetti speciali, ma credo che
brucerà anche lui, come qualunque altra cosa qui dentro”. Wesker non ne
era troppo convinto, ma non era interessato a risolvere anche quel mistero.
Non era il detective di qualche romanzo da quattro soldi incentrato sulle
cospirazioni, spinto dalla necessità di arrivare fino in fondo alle cose. Per
esperienza
personale, sapeva che le anomalie normalmente tendevano a risolversi per
conto loro, in un modo o nell’altro.

“Se venisse fuori quello che è davvero successo al dottor Marcus...”

“Non accadrà”, affermò Wesker.

Birkin si rifiutò di essere ammansito.

“E per quanto riguarda la tenuta Spencer... e i laboratori segreti sottostanti?”

Wesker si avviò verso la porta, gli stivali che tintinnavano sulla rete
metallica. Birkin lo seguiva come un cucciolo fa con il padrone.

“Quelli lasciali a me”, ripose Wesker. “La Umbrella vuole i dati di


combattimento, e io glieli darò. Porterò là dentro la S.T.A.R.S., e
scopriremo come della gente altamente preparata riuscirà ad affrontare le
BOW.”.

Sorrise, pensando al talento della squadra Alfa. Il forzuto Barry, la mira


infallibile di Chris, Jill e la sua eclettica educazione dovuta all’esser figlia
di un ladro senza pari... Sarebbe stato davvero un confronto interessante.
Inoltre, dopo aver visto Rebecca Chambers all’interno della struttura, era
evidente che la squadra di Enrico doveva aver avuto un imprevisto, Wesker
poteva approfittare

della situazione, poteva portare la squadra Alfa alla “ricerca” dell’altra


squadra.

Perfino se il team Bravo fosse riuscito a tornare da solo in città, rimaneva


pur sempre Rebecca da recuperare.

La giovane era brillante, ma in combattimento il cervello non contava


quanto l’esperienza. In

verità, la cosa più probabile era che fosse già morta.

Uscirono dalla sala di controllo. Wesker si diresse con passo svelto verso la
fine del corridoio e Birkin gli corse dietro per rimanere al suo fianco.
Raggiunto l’ascensore, le porte si aprirono e Wesker ci si infilò dentro.
Birkin si fermò di fronte a lui. Sotto la luce brillante del corridoio, Wesker
poteva vedere l’ombra della pazzia che segnava il viso dello scienziato.
Delle grandi

occhiaie scure gli circondavano gli occhi e aveva un lieve tic a un angolo
della bocca. Wesker si chiese vagamente se Annette avesse notato la discesa
di suo marito nei più profondi pozzi della paranoia, ma era sicuro di no.
Quella donna era cieca a tutto tranne che alla “grandezza” del lavoro di suo
marito. Che disgrazia per la figlia, avere due genitori del genere.

“Attiverò la sequenza di autodistruzione”, asserì Birkin.

“Programmala per la mattina”, ripose Wesker con un sorriso, “L’alba di un


nuovo giorno”.

Le porte si chiusero davanti all’espressione determinata di Birkin. Il sorriso


di Wesker divenne più ampio, e si sentì euforico pensando a quello che
stava per accadere. Tutto era sul punto di cambiare, per tutti loro.

“Billy, aiuto!”

Billy aveva iniziato a correre non appena sentite le urla degli animali e il
fragore dei colpi d’arma da fuoco, ed era già nel corridoio quando l’atterrito
grido di Rebecca gracchio nella radio.

Corse più in fretta mentre si infilava le mappe nella tasca posteriore, l’arma
in mano, maledicendosi per averla lasciata andare nel condotto di
ventilazione. Lì, davanti a lui, c’era la porta, non troppo lontano dal corpo
di uno dei ragni giganti. Gli si lanciò contro e la spinse con la spalla mentre
abbassava la maniglia. Questa si aprì con un scricchiolio e Billy entrò nella
stanza. Le lampade fluorescenti sul soffitto, danneggiate, lampeggiavano
con un effetto stroboscopico, regalando alla stanza un aspetto surreale,
simile a un qualche tipo di laboratorio, benché in un angolo ci fosse una
specie di branda ricoperta di muffa.

Noti è importante, vai!


Volò attraverso la stanza fino alla porta successiva. Rebecca gridò di nuovo,
urlandogli di stare attento e di sbrigarsi. Non appena aperta la porta, colse
un movimento di lato, si girò e vide uno zombie dall’aspetto decrepito in
piedi in un angolo. Le luci si accendevano e si spegnevano con un ronzio
continuo. L’uomo agonizzante lo osservava in silenzio, e la sua sagoma
dissestata spariva nell’oscurità a ogni tremolio della luce. Cominciò ad
avanzare lentamente verso di lui.

Più tardi, amico.

Billy si lanciò verso la seconda porta e vi entrò. Quasi immediatamente,


qualcosa volò verso di lui, urlando. Si chinò e vide un’informe massa rossa
e bianca, poi un odore animalesco, e infine la creatura — era una scimmia,
un qualche tipo di scimmia — andò verso di lui, ancora urlando.

Rapidamente furono raggiunti da altre due scimmie, che formarono un


ampio cerchio attorno a

Billy. I loro arti, lunghi e muscolosi, si muovevano costantemente, cercando


di raggiungerlo, e i loro corpi malati gli si avvicinavano danzando per poi
tornare indietro.

Billy indietreggiò fino all’angolo dove la porta si univa col muro di pietra.
Non voleva stare con le spalle al muro, ma lo preoccupava molto di più
lasciare la schiena esposta a un attacco. Le scimmie continuarono a
ballonzolare avanti e indietro, urlando.

“Rebecca!”, gridò Billy.

“Quaggiù!”

La sua voce sembrava lontana. Poi vide il buco, a pochi metri di distanza.
Pezzi di legno

scheggiato ricoprivano il suolo tutto intorno, ma da quella posizione non


riusciva a vedere Rebecca.
“Tieni duro!”, gridò, concentrando la sua attenzione sulle scimmie, proprio
quando una di queste si avvicinò abbastanza da toccarlo.

La scimmia cercò di colpirlo con una delle enormi zanne, e le unghie lo


graffiarono lungo parte della gamba, strappandogli i pantaloni. Non era
arrivata a graffiargli la pelle, anche se ci sarebbe riuscita di certo al
prossimo tentativo.

Billy non mirò, puntò semplicemente l’arma e sparò.

La scimmia saltò all’indietro, urlando, mentre un getto di sangue scuro gli


sgorgava dal petto.

Ma non era morta. Scosse la testa e avanzo di nuovo. Billy pensò fosse
finita, le scimmie erano troppo forti, troppo organizzate. Non poteva sparare
ad una di esse senza rimanere esposto

all’attacco di un’altra...

Poi, improvvisamente, le altre due scimmie saltarono su quella ferita e


iniziarono ad attaccarla con avidità e ferocia. L’animale ferito urlava
cercando di divincolarsi dalla morsa, ma il sangue aveva risvegliato nelle
altre due una fame frenetica.

La fecero a pezzi in pochi istanti, mentre si mettevano grandi pezzi di carne


in bocca. Billy ebbe finalmente il tempo di mirare.

Tre colpi precisi e le scimmie caddero, morte o agonizzanti.

Corse fino al buco, si mise in ginocchio e si avvicinò al bordo irregolare


con il cuore in gola, guardando preoccupato quanto in basso fosse finita la
ragazza. Era aggrappata con entrambe le

mani a un pezzo di tubatura metallica, un piano intero sotto a quello dove si


trovava lui. Più oltre, in basso, si apriva l’oscurità. Era impossibile dire fin
dove sarebbe potuta cadere.

“Billy”, supplicò ansimante, fissandolo con occhi impauriti.


“Non mollare”, rispose Billy, tirando fuori dalla tasca le mappe nel tentativo
di individuare la sua posizione e di conseguenza trovare la strada più breve
per arrivare da lei. Non c’era nessun accesso rapido al secondo piano
interrato, non da dove si trovava lui almeno. Avrebbe dovuto tornare

indietro nell’atrio e, probabilmente, passare attraverso la sala da pranzo


dove aveva visto gli zombie. Le scale per il sotterraneo si trovavano sul lato
più a est della casa.

“Non so quanto potrò resistere ancora”, sussurrò la giovane. La sua voce fu


amplificata dalla

radio e arrivò fino a Billy. Rebecca doveva aver lasciato il canale di


trasmissione aperto.

“Non ti azzardare a mollare la presa”, disse. “Questo è un maledetto ordine


ragazzina, chiaro?”

Rebecca non replicò, ma lui la vide stringere i denti. Bene, forse la paura le
avrebbe tenuto salda la presa.

Billy era già in piedi.

“Sto arrivando”, disse. Si voltò e corse attraverso la porta che conduceva al


laboratorio con

l’illuminazione stroboscopica. Lo zombie era ancora lì e si era messo


proprio tra lui e l’uscita che dava sul corridoio. Billy non pensò neanche
all’arma, era troppo preoccupato per Rebecca per

sprecare altro tempo. Mise il braccio come fa un quarterback nel bel mezzo
di una partita

importante e caricò contro la creatura. La spinse con tutta la forza che aveva
e la superò correndo mentre lo zombie indietreggiò cadendo a terra. Billy
era già troppo lontano perché il grido frustrato e affamato della creatura
potesse arrivare alle sue orecchie. Attraversò il corridoio, passò davanti agli
orribili corpi dei ragni e salì le scale. Tirò fuori il caricatore dalla sua nove
millimetri e se lo mise in tasca, cercò a tentoni quello di scorta e lo infilò
nell’arma proprio mentre attraversava l’atrio.

Resisti, resisti...

Non esitò neanche un momento prima di entrare nella sala da pranzo. Aprì
la porta di colpo e

corse dentro. Vide due zombi fuori dalla sua traiettoria, a una distanza
relativamente sicura con il tavolo che ne intralciava il passaggio. Il terzo
invece si trovava proprio vicino alla porta che sperava lo avrebbe condotto
da Rebecca. Era il soldato con la forchetta infilzata sulla spalla, e Billy si
fermò giusto il tempo di prendere la mira e sparare due colpi alla sua testa
che grondava di liquido nero.

Il primo andò a vuoto, ma il secondo gli fece volar via buona parte dell’osso
posteriore del

cranio, dipingendo la parete di materia grigia in decomposizione.

Il corpo rimase immobile per un istante, e Billy gli passò davanti prima che
cadesse a terra.

Attraversò la porta che dava su un breve corridoio.

Destra o sinistra?

Senza la mappa del primo piano non poteva esserne sicuro, ma la


collocazione delle scale nel

piano sotterraneo gli suggerivano sinistra. Senza tempo per ragionare,


continuò a correre in quella direzione con l’arma alzata.

Scese alcuni scalini e superò una gigantesca caldaia sibilante. Il vapore


riempiva la sala di

manutenzione, ma Billy trovò lo stesso la strada scendendo altre scale di


metallo arrugginito. In fondo c’era una porta. La spinse mentre ricordava
che, secondo la mappa, si sarebbe dovuto trovare in una sala molto ampia
con una specie di fontana nel mezzo, o un qualcosa di grande e rotondo
comunque. C’erano due ambienti più piccoli verso ovest che si aprivano su
un breve corridoio,

Rebecca doveva essere in uno di questi.

Forse la stanza che si trova più in fondo...

La sala più ampia era fredda e umida, con pareti e pavimento di pietra. La
attraversò correndo

mentre lanciava uno sguardo verso il grande monumento che c’era sulla
sinistra, quello che,

guardando la mappa, aveva scambiato per una fontana. In realtà doveva


essere un qualche tipo di santuario.

Occhi ciechi lo fissavano dalle facce degli animali scolpiti nella pietra,
osservandolo mentre

correva. Girando l’angolo sentì un grido provenire dal corridoio che aveva
davanti. Riconobbe

perfettamente il suono: era un’altra scimmia. Merda!

Doveva ucciderla in fretta, non poteva correre il rischio di lasciarsela alle


spalle ancora viva...

“Billy... per favore!”

La voce alla radio suonava disperata e Billy accelerò senza fare caso alla
parte del suo cervello che gli ordinava di fermarsi e di aspettare che
l’animale si mostrasse, così da potergli sparare mirando a distanza sicura.

Si lanciò in avanti e appena girato l’angolo si ritrovò davanti la scimmia,


orribile, con il corpo mezzo scorticato, ululante...

E Billy, che era stato un gran corridore alle superiori, saltò. Le passò sopra
atterrando a due passi dalla porta, proprio quella che cercava, mentre la
scimmia gridava furiosa alle sue spalle. Se la porta fosse stata chiusa si
sarebbe cacciato in un mare di guai, ma per fortuna non fu così. La
attraversò a gran velocità, si lanciò di getto e scivolò fino ad arrivare al
grande buco nel suolo.

Rebecca era lì, era ancora lì, reggendosi con un’unica mano che ormai stava
per scivolare. Lasciò cadere la pistola e allungò il braccio afferrando la
ragazza per il polso proprio quando le dita stavano perdendo
definitivamente la presa, ormai stremate.

“Ti tengo”, esclamò ansimante. “Ti tengo”.

Rebecca cominciò a piangere mentre Billy si tirava indietro, trascinandola


fuori da quel buco

oscuro. Billy provò una soddisfazione che quasi aveva dimenticato esistesse
dopo tutti quei mesi passati in prigione: quella di sapere semplicemente di
aver fatto la cosa giusta, e di averla fatta bene.

Billy la tirò definitivamente fuori dal buco, facendo leva sul suo peso,
tirandola praticamente sopra di lui in una sorta di rozzo abbraccio. Invece di
spingersi via, Rebecca lasciò che la tenesse per un momento, stringendosi a
lui, incapace di contenere le lacrime di gratitudine e di sollievo.

Billy sembrò capire quello di cui Rebecca aveva bisogno e la strinse forte.
Era stata tanto sicura di cadere, di morire, persa e dimenticata in qualche
sotterraneo puzzolente, il cadavere divorato da animali infetti...

Passato un momento rotolò via da lui, asciugandosi il viso con una mano
tremante. Entrambi si

sedettero al suolo, e Billy osservò i tristi muri di roccia di un altro anonimo


ambiente del

sotterraneo, praticamente identico agli altri. Rebecca guardò Billy. Quando


il silenzio si prolungò troppo, la giovane gli mise la mano su un braccio.

“Grazie”, gli disse. “Mi hai salvato la vita. Un’altra volta”.


Lui la guardò per un istante, poi distolse lo sguardo.

“Già, beh. Noi abbiamo una specie di tregua, lo sai no?”

“Sì, lo so”, ripose lei. “E so anche che non sei un assassino, Billy. Perché ti
stavano portando a Regarthon? Hai... sei davvero coinvolto in quegli
omicidi?”

Billy la guardò negli occhi.

“Si potrebbe dire che sia così”, rispose. “Io ero lì, comunque”.

Ero lì...

Quella non era la stessa cosa che dire di aver ammazzato qualcuno.

“Non credo che stanotte tu abbia ucciso le guardie che ti scortavano; credo
che sia stata una di quelle creature e che solo tu sia riuscito a sopravvivere
fuggendo”, insistette Rebecca. “E, anche se non ti conosco da molto, non
credo neanche che tu abbia ucciso ventitré persone”.

“Non importa”, replicò Billy, guardandosi gli stivali. “La gente crede quello
che vuole credere”.

“Importa a me”, affermò Rebecca con tono gentile. “Io non voglio
giudicarti. Voglio solo sapere.

Che cosa è successo?”

Billy continuava a guardarsi gli stivali, ma il suo sguardo sembrava lontano,


come se stesse

vedendo un altro tempo e un altro posto.

“Lo scorso anno inviarono la mia unità in Africa per intervenire in una
guerra civile”, spiegò.

“Una missione top secret, nessun coinvolgimento degli USA, si capisce.


Fummo inviati per
effettuare un raid in un covo di guerriglieri. Era piena estate, quando il
caldo raggiunge la

temperatura massima, e fummo lasciati abbastanza lontano dalla zona di


attacco, nel bel mezzo di una fitta giungla. Dovevamo andare avanti, a ogni
costo...”

Rimase in silenzio per alcuni istanti, prendendo le piastrine di


identificazione e stringendole con forza. Quando ricominciò a parlare la sua
voce era ancora più bassa.

“Il caldo uccise la metà di noi. Il nemico fece il resto, facendoci fuori uno a
uno. Quando

arrivammo nel posto dove si supponeva ci fosse il covo, eravamo rimasti


solo in quattro. Sfiniti, quasi impazziti, malati per il caldo e con il cuore a
pezzi, suppongo, per aver visto tutti i nostri compagni morire”.

“Così, quando giungemmo sulle coordinate dell’obiettivo, volevamo solo


spazzarli via.

Qualcuno doveva pagare per tutto quello che avevamo passato, lo capisci?

Per tutta quella rabbia e quel dolore. Solo che non c’era nessun
nascondiglio. L’informazione

non era affidabile. Il posto risultò essere un tranquillo villaggio abitato da


un pugno di agricoltori.

Da famiglie. Vecchi. Bambini”.

Rebecca fece un gesto di assenso, incoraggiandolo a continuare, ma le si era


già formato un nodo allo stomaco. La fine della storia era prevedibile, ed
era certa non fosse nulla di piacevole.

“Il capo squadra ci ordinò di radunarli, e noi così facemmo”, continuò Billy.
“Poi ci disse di...”
La sua voce si spezzò. Allungò la mano, raccolse la pistola dal suolo e se la
mise nella cintura, con tanta rabbia quanta quella con cui si alzò, voltandosi.
Anche Rebecca si rimise in piedi.

Lo hai fatto?”, domandò. “Li hai uccisi?”

Billy si girò verso di lei con una smorfia sulle labbra.

“E se ti dico che l’ho fatto? Mi giudicherai?”

“Lo hai fatto?”, chiese ancora Rebecca, studiando il viso dell’uomo, i suoi
occhi, decisa

perlomeno a cercare di capire. E, come se lui potesse vederlo, come se


sentisse che era disposta ad accettare la verità, la fissò per un momento e
scosse la testa.

“Ho cercato di fermarli. Ho tentato, ma mi hanno colpito. Ero appena


cosciente ma l’ho visto, ho visto tutto... e non ho potuto fare niente”.

Distolse lo sguardo prima di proseguire. “Quando tutto era finito, quando ci


vennero a prendere, fu la loro parola contro la mia. Ci fu il processo, la
sentenza e... beh, e poi è successo tutto questo”.

Aprì le braccia, indicando l’ambiente circostante. “E così, anche ve


sopravviviamo a

quest’inferno, sono comunque morto. Oppure dovrò continuare a fuggire


per tutta la vita”.

Le sue parole suonavano vere. Se stava mentendo, meritava un Oscar...

E Rebecca non credeva lo stesse facendo. Cercò di pensare a qualcosa da


dire, qualcosa che

l’incoraggiasse e che, in qualche modo, rendesse le cose migliori, ma non


riuscì a pensare a niente.

Aveva ragione riguardo le sue opzioni.


“Ehi!”, esclamò luì, guardando qualcosa alle spalle di Rebecca. “Guarda
quello”.

Rebecca si girò mentre lui avanzava. Vide una pila di rottami di metallo
appoggiati contro il

muro. Seminascosto tra questi, c’era quello che sembrava essere un fucile
da caccia.

“È quello che penso?”, domandò.

Billy prese l’arma, sorridendo mentre l’apriva e la controllava.

“Sì, signora, lo è senza dubbio”.

“Ed è carico?”

“No, ma mi sono rimaste alcune cartucce dal treno. È calibro dodici".

Poi sorrise di nuovo: “Le cose migliorano. Chissà, forse non ce la faremo a
uscire di qui, ma c’è una scimmia nel corridoio che sta aspettando di
provare questa meraviglia”.

“In realtà credo si tratti di un babbuino”, precisò lei, sorpresa di ritrovarsi a


sorridere. Poi ridacchiarono entrambi per l’assoluta inutilità della sua
correzione. Erano intrappolati in una villa isolata e perseguitati da solo Dio
sa quanti mostri differenti, ma almeno sapevano che

probabilmente la creatura nel corridoio era un babbuino. Le risatine


passarono a essere risate.

Rebecca lo guardò ridere mentre lasciava da parte la sua aria da duro o da


macho, capendo di

essere, per la prima volta, di fronte al vero Billy Coen. In quel momento si
rese conto di aver fallito completamente la sua prima missione.

Billy era suo prigioniero tanto quanto lei lo era di lui. Supponendo che
fossero riusciti a
sopravvivere, se Billy avesse deciso di fuggire, lei non sarebbe stata in
grado di fermarlo.

Questo sì che è un bel modo per iniziare una carriera nelle forze
dell’ordine.

E quel pensiero la fece ridere ancora di più.

NOVE

Il babbuino si scagliò verso di loro non appena misero nuovamente piede


nel corridoio. Morì

spettacolarmente, fatto a pezzi da un assordante ruggito del fucile a canna


doppia. Billy lo ricaricò con l’unica cartuccia che gli rimaneva. Pensava di
averne di più, ma probabilmente le aveva perse durante la corsa. Ad ogni
modo, non fecero altri incontri fino a quando non furono tornati nella sala
principale del sotterraneo. Billy si sentiva molto più sollevato e leggero di
quanto si fosse sentito negli ultimi tempi. Oltre alle inattese risate, che
furono una pausa dall’incessante stress che stavano sopportando, era la
prima volta che aveva raccontato la sua storia a qualcuno che lo ascoltasse
realmente, qualcuno che fosse disposto a considerare che forse stava
dicendo la verità.

Si fermarono davanti al gigantesco monumento formato da una specie di


circolo di animali in pietra posto proprio in mezzo alla camera,
osservandolo. C’erano sei animali intagliati e posizionati a eguale distanza
fino a formare un cerchio, tutti rivolti verso l’esterno. Ognuno aveva
davanti a se una targa e una piccola lampada a olio posizionata di fianco a
ogni placca. Gli animali erano stati scolpiti da mani esperte, ma l’insieme
era una mostruosità, un vero pugno nell’occhio. L’animale che si trovava di
fronte a Billy era un’aquila in pieno volo con una serpe tenuta tra gli artigli.
Lesse la placca a voce alta: “DANZO LIBERAMENTE IN ARIA,
CATTURANDO UNA PREDA

SENZA ZAMPE”. Si accigliò spostandosi sull’animale seguente, un cervo,


e leggendo la placca
corrispondente: “MI ERGO SULLA TERRA MOSTRANDO LE CORNA
CON ORGOGLIO”.

Rebecca camminò tutt’intorno alla stravagante opera d’arte e si fermò


vicino a un’inferriata di acciaio che si trovava dietro il monumento. Il
cancelletto chiudeva il passaggio che portava a un breve corridoio con due
porte, una su ogni parete.

“C’è una nota qui. Dice essenzialmente che bisogna andare dal più debole
al più forte

infiammando le rispettive lampade”. Si girò verso gli animali e li studiò.

“È una specie di enigma”. Afferrò una delle sbarre di metallo della grata e
la scosse. “Deve

essere il modo per aprire questo cancello”.

“Quindi dobbiamo accendere le lampade in ordine, iniziando dall’animale


più debole”, disse

Billy. Stupido. Perché complicarsi la vita? Tirò fuori le mappe dalla tasca
posteriore e le esaminò.

“Sembra ci siano solo un paio di ambienti là dietro. Non vedo nessuna via
d’uscita”.

Rebecca si strinse nelle spalle.

“Sì, ma forse là dentro c’è qualcosa che può tornarci utile. Che male può
farci?”

“Non lo so”, rispose sinceramente. “Forse molto”.

Rebecca sorrise girandosi verso l’animale in pietra che aveva più vicino,
una tigre sulla cui

placca si leggeva: SONO IL RE DI TUTTO QUELLO CHE VEDO,


NESSUNA CREATURA PUÒ
SFUGGIRMI.

Billy si diresse verso sinistra, fino a raggiungere la scultura di un serpente


attorcigliato sul ramo di un albero.

“Questa dice: ‘AVANZO SULLE MIE VITTIME IN SILENZIO E SENZA


GAMBE, E

CONQUISTO ANCHE IL PIÙ POSSENTE DEI RE COL MIO


VELENO’”.

Rebecca lesse i due restanti a voce alta. Le parole sotto il lupo erano: IL
MIO ACUTO

INGEGNO MI PERMETTE DI ABBATTERE ANCHE LA PIÙ


PODEROSA BESTIA

CORNUTA. Il sesto animale era un cavallo sollevato sulle zampe posteriori


, e sulla sua placca c’era scritto: NESSUNA ASTUZIA PUÒ
COMPETERE CON LA VELOCITÀ DELLE MIE AGILI

ZAMPE. La bestia cornuta. Billy tornò dal cervo e lesse di nuovo la parte
sul “mostrare le corna con orgoglio.”

“Quindi il lupo è più forte del cervo”, concluse.

“E se l’astuzia non può competere con la velocità del cavallo, allora il


cavallo è più forte del lupo”, continuò Rebecca. “Che cos’è più forte del
serpente?”

“Deve essere l’aquila; stringe un serpente con gli artigli”, ripose Billy.

Entrambi camminavano intorno alle statue facendo osservazioni nel


tentativo di risolvere il

puzzle. Finalmente furono d’accordo sulla sequenza, e Billy andò di


animale in animale
infiammando l’olio delle lampade nell’ordine giusto, dal più debole al più
forte. Secondo loro, viste le statue, l’ordine era: cervo, lupo, cavallo, tigre,
serpente e aquila.

Quando Billy accese la lampada dell’aquila, si senti un pesante rumore


metallico proveniente da qualche parte all’interno del santuario, poi
l’inferriata di acciaio si alzò scivolando soavemente fino a sparire in
qualche incavo nella parte alta dell’arco. Insieme, iniziarono a camminare
nel corridoio.

A prima vista, la prima stanza, quella di destra, sembrava non contenere


nulla di utile. C’era un mucchio di casse da imballaggio vuote e una
mensola ingombra. Billy era in procinto di andare avanti quando Rebecca
entrò e si diresse verso le casse. Una di queste era aperta verso la parete e,
dalla porta, non si riusciva a vedere che cosa contenesse. Quando Rebecca
fu più vicina si fece sfuggire una risata eccitata, si chinò e girò la cassa cosi
che anche Billy potesse vederne il contenuto. L’uomo si accovacciò a1 suo
fianco, sentendosi come un bambino a Natale.

Suppongo che, dopo tutto, valesse la pena risolvere quel maledetto enigma.

Due scatole e mezza di cartucce nove millimetri. Mezza di cartucce da


ventidue, che non gli

sarebbe servita a molto, così come il paio di caricatori rapidi; Billy dovette
spiegarle che quegli arnesi tondi in metallo servivano per ricaricare
rapidamente una rivoltella con pallottole calibro .50.

Ma la scatola di cartucce del fucile, quattordici in totale, gli sarebbe stata


senza dubbio di grande aiuto. A Billy non sarebbe dispiaciuto trovare anche
un bel bazooka, ma tenendo conto della

situazione, non avrebbero potuto sperare in niente di meglio.

Spesero alcuni minuti per rifornire i caricatori che avevano.

Rebecca trovò un marsupio con la cerniera rotta in uno degli scaffali e


riempì anche questo, così come la sua cintura da combattimento. Furono
d’accordo sul fatto che fosse meglio portarsi dietro tutte le munizioni, nel
caso avessero trovato altre armi in giro. Billy riparò la cerniera con una
spilla che aveva trovato al suolo e si mise il marsupio; il peso di tante
munizioni lo rincuorava.

“Potrei baciarti”, esclamò, alzando il fucile. Notato il silenzio della ragazza,


si girò per guardarla e vide che era leggermente arrossita. Rebecca volse lo
sguardo, regolandosi la cintura.

“Non intendevo letteralmente”, aggiunse lui a gran velocità.

“Voglio dire, non che tu non sia attraente, ma sei... io sono... voglio dire...”

“Non ti agitare” replicò freddamente lei. “So cosa volevi dire”.

Billy assentì con la testa, sollevato. Avevano già abbastanza grattacapi


senza dover pensare alle incomprensioni tra maschi e femmine.

Anche se è davvero carina...

Si scrollò di dosso quell’idea ricordando che, benché avesse passato un


anno lontano da qualsiasi donna, non era in assoluto il momento giusto per
pensare a questo genere di cose. Si diressero verso la seconda porta, che per
fortuna non era chiusa a chiave. Era una stanza con dei letti a castello,
squallida e sporca.

Le cuccette erano fatte di compensato e le poche coperte che c’erano erano


sudice e logore.

Considerando le pessime condizioni di quell’alloggio e il cancello di ferro


che bloccava l’ingresso a quella zona, Billy pensò fosse lecito credere che
gli inquilini non fossero tenuti lì di loro spontanea volontà. Rebecca gli
aveva raccontato quello che aveva letto sul diario, riguardo i test su soggetti
umani...

L’intera struttura dava i brividi. Dovevano uscire di lì al più presto.

“Scendiamo o saliamo?”, chiese Rebecca una volta tornati nella sala delle
statue.
“C’è un osservatorio al piano di sopra, giusto?”, chiese Billy. Rebecca
annuì.

“Allora andiamo a dare un’occhiata. Forse possiamo mandare un segnale


d’aiuto o qualcosa del

genere”.

Si rese conto che aveva appena suggerito di chiamare aiuto, ma non se ne


pentì, benché sapesse

bene quello che poteva significare per lui.

Preferiva morire lottando per la sua vita piuttosto che essere giustiziato...
ma c’era Rebecca da considerare. Era una persona buona, onesta e sincera,
e avrebbe fatto tutto il possibile per portarla fuori di lì.

Continuarono ad avanzare. Billy si domandò che fine avesse fatto il suo


nuovo carattere

criminale, ma decise rapidamente che era meglio così. Per la prima volta da
quel terribile giorno nella giungla sentì che si piaceva di nuovo, che era
tornato se stesso.

Li osservò mentre raccoglievano le munizioni, impressionato e deluso allo


stesso tempo dalla

loro forza d’animo. Dopo aver consultato le mappe per qualche secondo, si
erano diretti verso il piano di sopra, presumibilmente all’osservatorio;
benché i suoi piccoli potessero sentire le loro voci, non erano riusciti a
distinguere le parole.

Aveva fatto in modo che i suoi bambini cercassero le tavolette di cui


avevano bisogno, e le aveva fatte portare fino alle porte che conducevano
all’osservatorio. A meno che Billy e Rebecca non fossero stati dei completi
idioti — e avevano già dimostrato di non esserlo — avrebbero capito come
mettere in funzione la rotazione della struttura, avvicinandosi sempre di più
alla loro fuga.
Da lì si sarebbero trasferiti al laboratorio nascosto dietro la cappella...

Si domandò che cosa avrebbero trovato lì, nei laboratori del Dottor Marcus.

Chissà, magari alcune cose da poter rubare. Voleva che scoprissero tutto ciò
che c’era da sapere sulla vera natura della Umbrella, anche se non gli
piaceva troppo vederli ficcare il naso tra i tristi ricordi della brillante
carriera di Marcus.

Continuava a pensare a questi come ai laboratori di Marcus, benché Marcus


non fosse stato lì per più di una decade. Tutto il complesso era stato chiuso
dopo la “sparizione” del direttore, ma, di recente, la Umbrella aveva
riaperto i laboratori, l’impianto di trattamento delle acque e il centro di
addestramento.

Nessuno di questi era ancora completamente funzionante quando il virus si


era diffuso: a gestire le varie strutture c’era solo una squadra base di
impiegati che ne curavano la manutenzione,

supervisionati da un manipolo di dirigenti di livello intermedio


dell’azienda. Tuttavia, la compagnia aveva comunque perso un buon
numero di impiegati leali.

Billy e Rebecca attraversarono le stanze della zona est del primo piano e
tornarono nell’atrio

dell’edificio, poi si diressero al secondo piano. Trovarono facilmente la


porta che li avrebbe

condotti verso il terzo piano ed entrarono nella tromba delle scale con le
armi spianate. I loro giovani visi erano determinati e, apparentemente, senza
paura. Li osservò cominciare a salire gli scalini e si trovò davanti a un
dilemma emotivo. Voleva che avessero successo, ma voleva anche vederli
morire. Esisteva un modo per avere entrambe le cose?

Si erano comportati abbastanza bene con la serie Eliminator, benché i


primati fossero abbastanza debilitati per la fame e la mancanza di cure. Ma
come sarebbe andata con gli Hunter? O col proto-Tyrant?
E che cosa sarebbe successo se fossero arrivati dove lui e i bambini
aspettavano e li

osservavano? Che cosa avrebbero fatto?

Il giovane si accigliò infastidito davanti a quell’idea. Sensibile al suo


umore, la moltitudine gli sali su per le gambe e sul petto, raccogliendosi in
una sorta di abbraccio.

Li accarezzò e si assicurò col tatto che stessero tutti bene. Se i due


avventurieri fossero riusciti ad arrivare al suo nido — cosa molto
improbabile — li avrebbe lasciati andare, affinché potessero raccontare la
storia dei peccati della Umbrella.

“O forse li ammazzerò”, disse, scrollando le spalle. Era lui che doveva


decidere il se, il come e il quando ci sarebbe stato l’incontro con Rebecca e
Billy. Dire che lui fosse indifferente alla loro sorte era falso; mentre
aspettava la caduta della Umbrella, osservare le mosse dei due giovani era

divenuto un piacevole passatempo. Era molto più interessato a scoprire cosa


sarebbe successo. Ma li avrebbe sicuramente uccisi prima di permettere loro
di far nuovamente del male ai suoi piccoli.

Erano arrivati in cima alla scala e guardavano cautamente al di sopra della


ringhiera, in cerca di qualche movimento. Improvvisamente, il giovane si
ricordò del Centurione, quello nascosto nelle pareti della vasca di
allevamento, e si domandò se sarebbe uscito a vedere chi aveva osato
invadere il suo territorio. Billy e Rebecca avrebbero preferito di no. Se gli
Eliminator erano i fanti, in quel gioco il Centurione era uno degli alfieri.

Il giovane si avvicinò allo schermo, ansioso di vedere che cosa sarebbe


successo.

Il tragitto fino al terzo piano era stato tranquillo, benché si fossero dovuti
affrettare per

attraversare la sala da pranzo. I due zombie che vagavano intorno ai tavoli


erano troppo lenti perché si disturbassero a eliminarli, ma Rebecca non si
sentiva troppo tranquilla a camminare lentamente davanti a quelle creature
moribonde, Billy era tre scalini avanti a lei, quindi suppose che anche lui
provasse la stessa cosa. Arrivando alla parte alta della scala, Rebecca si
rilassò un po’.

Il terzo piano, o almeno la parte in cui si trovavano, era un unico stanzone


gigantesco, senza angoli nascosti di cui preoccuparsi. Le porte
dell’osservatorio si trovavano alla loro destra. Di fronte, invece, c’era una
vasca di allevamento, un pozzo vuoto che occupava la maggior parte della
stanza, mentre a sinistra c’era una porta che, secondo la mappa, portava a
un patio esterno.

“Che cosa credi che stessero allevando?”, domandò Billy con vote bassa.

Anche così, risuono leggermente nell’enorme ambiente.

“Non so. Sanguisughe, forse”, rispose Rebecca. Ricordò la solitaria figura


che avevano visto dal treno, quella che cantava alle sanguisughe, e contenne
un brivido. “Allora, osservatorio o patio?”

Billy guardò da un lato all’altro, e si strinse nelle spalle.

“Il posto sembra sicuro. Potremmo provare una porta per uno. Basta aprire
e guardare, niente

separazioni, ok?”

Rebecca assenti con un gesto. Si sentiva molto più sicura ora che aveva una
buona scorta di

munizioni con se, ma la caduta di prima le aveva insegnato a essere più


cauta. Ormai l’idea di separarsi non la entusiasmava più.

“Prenderò il patio”.

Presero a camminare, e i passi produssero un’eco nell’enorme camera.

La porta dell’osservatorio era la più vicina; cosi, dopo pochi secondi, si


sentirono solo i passi di Rebecca che continuava ad avanzare verso la parete
sud.

“Ehi”, Billy la chiamò proprio quando era arrivata davanti alla porta.

Aveva in una mano quello che sembrava un libro e, nell’altra, altri due.
Rebecca aguzzò la vista e vide che erano fatti di pietra e che avevano un
estremo arrotondato.

“C’erano questi davanti la porta”.

“Che cosa sono?”, domandò Rebecca. La sua voce, benché bassa, si sentì
perfettamente nell’aria

fredda e quieta.

“Forse sono oggetti decorativi”, rispose. “Ognuno ha una parola incisa sulla
parte anteriore”.

Guardò le tavole “Ah... ecco, unità, disciplina e obbedienza”.

La registrazione che avevano sentito, la voce del dottore Marcus che


recitava il motto della

compagnia... erano le stesse tre parole.

“Tienili”, disse Rebecca. “Potrebbero essere parte di qualche altro enigma,


come quello degli

animali”.

“È la stessa cosa che stavo pensando”, concordò Billy, “maledetta casa di


pazzi”, aggiunse a

bassa voce.

Rebecca si girò verso la porta e alzò l’arma mentre girava il pomello. Era
chiusa a chiave.
Sospirò e rilassò le spalle, rendendosi conto di quanto fosse stata tesa,
aspettandosi un qualche tipo di attacco.

“Chiusa”, informò alzando il tono della voce.

Billy aveva aperto la porta dell’osservatorio e stava guardando ancora verso


l’interno. Si voltò indietro, tenendo la porta aperta.

“Questo sembra promettente. Non so a cosa servano, ma ci sono parecchie


strumentazioni qua

dentro; forse c’è anche una radio”.

Una radio. Rebecca sentì rinascere la speranza.

“Ok, sto...”

La parola “arrivando” fu soffocata dal tremendo rumore di un animale in


movimento e da quello

di un sonaglio pesante che risuonò in tutta la sala. Rebecca e Billy si


guardarono, e la distanza che li separava divenne improvvisamente molto
più ampia di quello che sembrava fino a poco prima.

Si sentì di nuovo quel suono inquietante. Era il rumore di qualcosa di duro


che colpiva la roccia, come se qualcuno tamburellasse con delle dita di
acciaio su un tavolino, ed era molto forte.

Qualunque cosa fosse, era grande, e si stava avvicinando man mano che il
suono aumentava.

Risultava difficile capire da dove arrivasse quel frastuono, perché l’eco ne


mascherava la direzione.

“La vasca di allevamento”, gridò Billy, mentre faceva segni a Rebecca


affinché si muovesse.

“Andiamo!”
Rebecca cominciò a correre col cuore che le batteva forte nel petto,
temendo di guardare verso la piscina, ma anche di non farlo. Avverti un
movimento, qualcosa di scuro e denso, e corse più

veloce. Alla fine si decise a lanciare un sguardo di sfuggita mentre vi


passava accanto.

Quello che vide per poco non le fece perdere qualsiasi pensiero coerente.

Era un centopiedi, o meglio un millepiedi, sufficientemente grande da far


vergognare quei ragni delle dimensioni di un cane pastore. Molteplici occhi
gialli sembravano brillare da entrambi i lati di un lucente cranio nero,
mentre delle lunghe antenne rossastre vibravano e tremavano nella parte più
alta della testa. Il corpo, lungo e sinuoso, era basso sul suolo, ricoperto da
dure placche segmentate che si muovevano su dozzine di appuntite zampe
rosse. Doveva misurare circa una decina di metri, probabilmente anche più,
ed era rotondo come un barile... si muoveva rapidamente verso Rebecca,
con le zampe ondeggianti, mentre attraversava come un razzo la piscina
vuota.

“Corri!”, gridò Billy, e la ragazza corse più veloce che poté, respirando il
fetore della creatura, un terribile odore aspro che le avrebbe causato la
nausea se avesse avuto il tempo di

preoccuparsene. Billy teneva aperta la porta dell’osservatorio con un piede,


mirando con il fucile in direzione dell’insetto. Rebecca poteva sentire la
creatura alle sue spalle, come un’ombra sul punto di raggiungerla.

Proprio quando raggiunse Billy, lui sparò, caricò di nuovo il fucile e tornò a
sparare mentre lei si tuffava dall’altro lato della porta. Non appena la
ragazza fu al sicuro, lui saltò indietro e chiuse rapidamente i battenti.

Mezzo secondo dopo udirono distintamente il suono del corpo corazzato del
mostro che

premeva contro il pesante legno. Aspettarono, entrambi con gli occhi


inchiodati sulla porta; passati alcuni secondi il rumore cessò e tornò a
sentirsi il ticchettio di molti piedi che si allontanavano.
“Dio”, esclamò Billy. Rebecca assentì con un gesto.

Billy si chinò e l’aiutò a rimettersi in piedi, entrambi ansimanti.

“Non ritorniamo là”, suggerì Rebecca, desiderando con tutte le sue forze
che non ci dovessero

più passare.

“Sembra un buon piano”, concordò Billy.

Rimasero in silenzio per qualche secondo mentre osservavano il loro


rifugio. Era una sala grande e circolare, strutturata su due livelli. Si
trovavano in piedi su una sorta di passerella in metallo che circondava metà
perimetro dello spazio; nel lato nord si vedeva un’altra porta doppia. Vicino
a questa c’era una breve scala che scendeva dalla passerella e conduceva su
una specie di piattaforma centrale dove si allineavano diversi dispositivi. Al
di sotto della piattaforma c’era solo l’oscurità.

Insieme, percorsero la passerella e si fermarono vicino alla porta


successiva. Chiusa.

I due si scambiarono un ombroso sguardo e proseguirono in silenzio verso


le scale.

Rebecca scese per prima e si fermò vicino a un imponente macchinario che


dominava tutto il

centro dell’ambiente, presumibilmente il telescopio.

Il braccio del telescopio era nella parte più alta, fuori della loro portata.
Dietro di lei, Billy stava gettando uno sguardo al resto della strumentazione:
console, computer e altri dispositivi che non riusciva a riconoscere.
Rebecca si girò di nuovo verso il telescopio e guardò il ripiano alla base,
rimanendo senza fiato. C’erano tre cavità, tutte con la forma di una lapide,
dritte in un estremo e ricurve nell’altro.

“Non vedo radio qui, ma...”, disse Billy prima che lei lo interrompesse.
“Dimmi che hai ancora
quelle tavole di pietra”, disse.

Billy si girò a guardare il ripiano mentre apriva il marsupio. Tirò fuori le tre
tavole, ognuna del volume di un libro tascabile, ma più sottili. Rebecca le
prese e richiamò alla memoria lo

sconcertante motto della Umbrella per collocarle nel posto giusto,


“l’obbedienza crea disciplina. La disciplina crea unità. L’unità crea
potere...”

“E il potere è vita...”, concluse Billy.

Non appena la terza tavola fu al suo posto, un suono assordante riempì lo


spazio circostante, il rumore di enormi macchine in funzionamento, e i due
notarono come la sala cominciasse a

scendere, come un ascensore. Non solo la piattaforma centrale, bensì la


stanza intera, pareti e tutto il resto. Sotto i loro piedi, l’oscurità si sollevò
trasformandosi in acqua schiumosa, agitata dal movimento della
piattaforma. Per un secondo, Rebecca si chiese se la piattaforma si stesse

inabissando ed ebbe un lampo di panico al pensiero che stavano per


annegare, quando il suono

meccanico svanì e la sala si fermò. Mentre si spegneva il ronzio degli


enormi macchinari, sentirono un chiaro clic sopra le loro teste, proveniente
dalle porte nel lato nord.

Si guardarono l’un l’altra, e Rebecca vide la propria sorpresa rispecchiata


nel viso magro del suo compagno.

“Suppongo che sappiamo già dove ci tocca andare”, scherzò Billy, tentando
di abbozzare un

sorriso, benché non gli uscì molto convincente.

Rebecca non provò neanche a sorridere; stavano andando verso la libertà o


erano come degli
agnelli che andavano verso il mattatoio?

C’è solo un modo per scoprirlo.

Senza dire una parola, si voltò e si diresse verso la scaletta.

DIECI

Attraversata la doppia porta a nord si ritrovarono a respirare la fresca aria


notturna. Billy sentì un autentico sollievo, respirando profondamente. Fino
a quel momento non si era reso conto di quanto temesse di non riuscire più
a uscire da quella struttura della Umbrella. Sfortunatamente, ben presto si
accorse che non ne erano ancora usciti, o almeno non esattamente. Le porte
dell’osservatorio si aprivano su un passaggio stretto che correva dritto fino
a un altro edificio, a circa cinquanta metri.

La passerella era delimitata su entrambi i lati dall’acqua, un qualche tipo di


bacino o lago artificiale che confinava con il lato est del centro.

Si allontanarono dall’osservatorio. Quindi tornarono a guardare indietro e


spesero alcuni minuti cercando di capire quale fosse la loro posizione in
relazione all’atrio e alle stanze che avevano visitato. Era una causa persa.

Billy non aveva mai avuto molto senso dell’orientamento e,


apparentemente, neanche Rebecca.

Alla fine decisero di rinunciare, dirigendo la loro attenzione verso l’alto


edificio dall’aspetto inquietante che si innalzava all’altro estremo del
passaggio.

Camminarono verso il palazzo. Billy continuava a respirare a pieni polmoni


l’aria dolce e

nebbiosa. Era tardi, probabilmente mancava poco all’alba, ma guardare il


cielo non aiutava, c’era solo un grande mantello di nuvoloni grigi carichi di
pioggia.

“Dove credi che siamo?”, domandò lui.


“Non ne ho idea”, rispose Rebecca. “Da qualche parte con un telefono,
spero”.

“E una cucina”, aggiunse Billy. Stava morendo di fame. “Magari” esclamò


con tono

malinconico. “Un magazzino di pizza e gelato”.

“Salame piccante?”

“Hawaiana”, disse, “e gelato al pistacchio”.

“Aagh”, protestò lui con una smorfia, godendo della conversazione. Non
avevano avuto molto

tempo per conoscersi, ma sentiva una sorta di legame tra loro, una
connessione che spesso aveva notato con altri durante un combattimento.

“E ti piaceranno sicuramente anche i cibi arancioni”.

“Cibi arancioni?”

“Sì. Sai, quel colore arancione innaturale. Ormai l’hanno messo nei
maccheroni al formaggio,

nelle bibite arancioni aromatizzate artificialmente, negli snack dolci, o nelle


patatine fritte al formaggio...”

Rebecca sorrise.

“Beccata. Amo quella roba”.

Billy alzò gli occhi.

“Adolescenti... Perché sei un’adolescente, giusto?”

“Giusto l’età per votare”, rispose lei, con un tono leggermente sulla
difensiva.
Prima che potesse chiederle come fosse entrata nella S.T.A.R.S. alla sua
giovane età, lei

aggiunse: “Sono una dei tanti bambini prodigio, laureata al college e tutto il
resto. E tu quanti anni hai, nonno? Trenta?”

Fu la volta di Billy a mettersi un po’ sulla difensiva.

“Ventisei”.

Rebecca rise.

“Wow, che vecchietto! Lascia che ti porti una sedia a rotelle”.

“Taci!”, replicò lui sorridendo.

“Ho detto: lascia che ti porti una sedia a rotelle! ” , gridò, prendendolo
ancora in giro. Billy non riuscì a trattenersi dal ridere. Ridevano ancora
quando passarono davanti a una piccola cabina di guardia alla destra della
passerella e videro dentro un corpo, disteso al suolo.

Parte di un corpo, pensò Billy, e il buon umore si volatilizzò in un secondo


quando si fermarono lì davanti, incapaci di non guardare. Giaceva prono e
gli mancavano le gambe e un braccio, dando l’impressione che il cadavere
fosse inabissato nella densa pozzanghera di sangue che lo circondava.

Non ripresero a parlare fin quando non arrivarono all’edificio; quel


cadavere era un promemoria della tragedia che si era verificata tra quelle
mura. Era impossibile tenerla a mente ogni secondo; pensare costantemente
all’orrore dovuto allo scoppio dell’infezione virale. E ridere di tanto in tanto
era importante, perfino necessario, per continuare a mantenere la loro salute
mentale. D’altra parte, se potevi guardare il corpo di un uomo morto e
continuare a ridere, allora sì che la salute mentale era qualcosa di cui
preoccuparti.

Arrivarono davanti al misterioso edificio e rallentarono il passo per


studiarne la planimetria.
C’erano due piccoli sentieri che si diramavano dalla stradina principale da
cui erano arrivati, proprio di fronte all’edificio, ed erano fiancheggiati da
fiori e alberi ormai secchi e spogli. I due sentieri sparivano poi dietro delle
siepi incolte.

Cerano alcuni lampioni ancora funzionanti, ma non facevano altro che


rendere le ombre ancora

più oscure. Non era un posto molto invitante, ma Billy non vide nessuno
zombie o uomini-

sanguisuga in giro, quindi gli sembrò comunque molto meglio dell’edificio


dove si trovavano

prima.

Alcuni ampi scalini davano su una porta a due ante. Billy rimase a vigilare
sugli ombrosi sentieri mentre Rebecca salì fino alla porta scuotendola.

“È chiusa a chiave”, lo informò.

“Maledizione”, esclamò Billy, raggiungendola davanti alla porta. Cercò di


aprirla spingendo e si accorse che il legno era resistente ma la serratura non
lo era altrettanto.

“Stai indietro”.

Si girò di lato, abbassò il suo baricentro e diede un violento calcio alla


serratura, seguito da un altro. Al terzo, sentì il legno scheggiarsi, e la
maniglia della porta si aprì improvvisamente mentre la scadente chiusura di
metallo saltava in aria. Entrambi attraversarono la soglia e guardarono verso
l’interno. Dopo quello che avevano passato, Billy pensava di non potersi
più sorprendere di nulla, ma si sbagliava. Erano entrati in una chiesa, tanto
ornata quanto tutte le altre che aveva visto in vita sua, dalla vetrata nella
parte alta della parete dietro l’altare fino alle panche di legno nero lucido.

Ma era anche quasi distrutta; almeno la metà delle panche era rovesciate, e
poteva vedere l’esterno da un enorme buco nel soffitto, non lontano da dove
si trovavano.

“Guarda l’altare”, sussurrò Rebecca.

Billy assentì con la testa. Non tanto l’altare quanto per quello che c’era
intorno.

Sulla piattaforma nella parte anteriore della chiesa c’erano centinaia di


candele consumare, statue di icone religiose danneggiate o annerite dalla
cenere, e mazzi di fiori morti. In poche parole, da brivido.

“Mi sentirò meglio quando saremo usciti di qui”, disse Billy, alzando
leggermente il tono della voce, accorgendosi che anche lui stava
sussurrando.

“Potremmo ispezionare il giardino e vedere dove portano quei sentieri”.

Rebecca assentì e fece un passo indietro. Fu allora che qualcosa di enorme e


nero discese verso di loro dal soffitto a volta, qualcosa che lanciava uno
stridio incredibilmente acuto e che volteggiava e agitava delle enormi ali
polverose. Il tempo sembrò fermarsi quanto bastava perché Billy potesse
vederlo chiaramente. Era una specie di pipistrello, ma molto, molto più
grande di qualsiasi altro avesse mai sentito parlare. La cosa aveva l’apertura
alare di un condor, come minimo. All’ultimo istante l’essere fermò la sua
discesa, rialzandosi in volo come impazzito e dirigendosi verso

l’oscurità nella parte alta del tetto; si era avvicinato quanto bastava perché
un’ondata di respiro putrido li raggiungesse, come se fosse fatto di carne
marcia.

Billy spinse indietro Rebecca con una mano e afferrò i pomi rotti della porta
con l’altra. La

chiuse come poteva, desiderando di non averla mai forzata, ma si rese


subito conto che non avrebbe fatto una grossa differenza. Potevano sentire il
gigantesco pipistrello farsi strada attraverso il buco del soffitto, i suoi
enormi artigli graffiare le tegole.
“Andiamo!”, gridò Billy.

Scesero gli scalini correndo, e Rebecca girò verso destra seguita da Billy.
Verso quel lato

sembrava esserci più protezione; parte del sentiero che costeggiava


l’edificio era coperto. Girarono bruscamente una, due volte seguendo le
svolte del sentiero nascoste dalle siepi e dalle piante trascurate. Rebecca era
veloce, ma Billy le stava incollato dietro, più che motivato dall’immagine di
quelle ali nere che lo avvolgevano e degli artigli che gli penetravano la
carne...

“Lì!”, Rebecca rallentò e indicò un punto.

Alla destra della stradina, un po’ più avanti, c’era quello che sembrava
essere un ascensore, situato vicino alla parete della chiesa. Billy non era
sicuro che fosse l’opzione migliore, ma poteva sentire chiaramente il battito
delle ali da qualche parte sopra le loro teste e il feroce grido del pipistrello
alla ricerca di prede.

Seguì Rebecca fino all’ascensore, ringraziando Dio quando le porte si


aprirono.

Era piccolo, non c’era quasi posto per tutti e due. Si spinsero dentro e
videro che l’unica

direzione era verso il basso. Meglio così, Billy non aveva nessun voglia di
visitare il campanile della chiesa e scoprire se quel folle pipistrello avesse
qualche fratello o sorella da quelle parti.

Rebecca spinse il bottone di chiusura delle porte. Appena prima che si


chiudessero, un zombie si trascinò verso di loro, uscendo dal nulla: era una
donna con le braccia tese e le dita triturate fino all’osso. Gemeva,
mostrando i denti neri; poi le porte scorrevoli si chiusero, allontanandoli
dallo zombie e dallo stridio ad alta frequenza del pipistrello infetto.

Entrambi si lasciarono cadere appoggiandosi contro le pareti del piccolo


ascensore. Potevano
udire il grido affamato della donna zombie attraverso le porte e il grattare
delle ossa delle dita contro il metallo. In pochi secondi, i suoi gemiti gravi e
aspri furono accompagnati da un’altra voce, e poi da molte altre, tutte
piagnucolanti d’ansia e di frustrazione.

Avevano solo due opzioni, piano sotterraneo Bl o B2. Billy guardò


Rebecca, e fece segno di no

con la testa, pallida. Fuori, gli zombie continuavano a graffiare le porte.


Billy spinse B1.

L’ascensore non si mosse.

“Ok, vada per B2”, disse Billy, sperando di non essersi infilati in una
trappola.

Spinse il bottone. L’ascensore diede una leggera scossa e cominciò a


scendere.

Billy si mise davanti a Rebecca, preparò il fucile e sperò che le porte non
stessero per aprirsi su un’orda di creature infette, ansiose di gustare uno
spuntino notturno.

Le porte si aprirono senza fare rumore rivelando un corridoio disseminato


di macerie, ma per il resto completamente vuoto. Billy tornò a spingere il
bottone Bl sperando di avere un’altra opzione, ma le porte neanche si
chiusero. Stantio ai fatti, potevano scegliere tra il tornare dal pipistrello e
dagli zombie o esplorare il secondo livello sotterraneo. Billy optò per
l’esplorazione.

Uscì cautamente, con Rebecca subito dietro. Come nel palazzo del centro di
addestramento,

l’arredamento e l’architettura erano raffinati e probabilmente senza prezzo.


Il pavimento era in marmo, scheggiato in alcuni punti, ma levigato fino a
brillare; nel corridoio si allineavano eleganti colonne portanti ad arco. Alla
loro sinistra c’era una scala che saliva verso l’alto, ma era ostruita da pezzi
di roccia e frammenti di muro. Poco più avanti, sulla sinistra, c’era un’altra
porta, appena prima che il corridoio girava bruscamente verso destra. Si
fermarono davanti alla scala, ma era inutilizzabile, i rottami si
ammucchiavano dal pavimento al soffitto. Se volevano tornare sopra
dovevano utilizzare l’ascensore, ma al momento Billy non voleva risalire.
Sembrava che la raffica costante di disgustose, pericolose e spaventose
creature non fosse destinata a finire, e lui era più che disposto a prendersi
un piccola pausa.

“Tutti quelli a favore di niente più mostri”, disse a voce bassa.

“Sono a favore”, rispose Rebecca con un tono altrettanto basso.

Gli lanciò un sorriso, ma sembrava tesa. Cominciarono a percorrere il


corridoio, schiacciando le macerie con gli stivali mentre avanzavano.

Rebecca rimase vicino alla prima porta mentre Billy ispezionava il resto del
corridoio. C’era

un’altra porta chiusa a chiave, con una serratura a combinazione, e una


terza possibile porta. Billy non poteva esserne certo, visto che sembrava
come se il corridoio finisse all’improvviso con un muro blu, ma c’era una
specie di nicchia elaborata: due statue gemelle sistemate una di fronte
all’altra ritagliavano il profilo di qualcuno che somigliava molto a James
Marcus. Non c’era

nessuna maniglia o serratura, ma sotto al busto c’era un buco grande quanto


il pugno di un

bambino, era come se mancasse un pezzo.

Fantastico. Un’altra porta con rompicapo, pensò Billy, infastidito, mentre


tornava da Rebecca.

Che gli è preso a quella gente? Se avevano bisogno di essere cosi


maledettamente intelligenti,

perché non potevano semplicemente attenersi alle parole crociate? Per


fortuna, la prima porta non era chiusa. Entrarono e si ritrovarono in un’altra
stanza tanto elegante quanto trascurata, piena di scaffali e libri. Un tappeto
orientale copriva il pavimento della prima parte della stanza. La forma della
sala ricordava vagamente una U. Molte delle lampade erano accese, e
questo lo rese

l’ambiente più luminoso che avevano visitato in tutta la notte. Oltre agli
scaffali, c’erano diversi tavoli bassi e una piccola scrivania con un’antica
macchina da scrivere poggiata sopra. Billy si avvicinò al tavolo più vicino e
prese un pezzo di carta.

“Non credo che ci siano problemi, ma ho preso delle precauzioni”, lesse.

“Per nascondere una foglia, mettila nella foresta. Per nascondere una
chiave, fa’ che sembri una foglia”.

“Bene, questo chiarisce tutto”, esclamò Rebecca, e Billy assentì con un


gesto.

Di nuovo, che cosa era preso a quella gente?

Rebecca controllava le librerie mentre Billy esaminava la stanza, notando


un grande buco nel

soffitto, proprio dietro l’angolo rispetto alla porta.

Era alto, ma usando un tavolo...

“La maggior parte di questi libri sono di biologia”, commentò Rebecca.


“Mammiferi, insetti,

anfibi...”

“Vieni a vedere questo”, la richiamò Billy. Mentre lei girava l’angolo, Billy
prese il tavolo più vicino e lo spinse sotto il foro. Ancora non era sufficiente
per raggiungerlo...

“Porrei salire io”, propose Rebecca. “Dare un’occhiata in giro e trovare una
corda o qualcosa di simile per far salire anche te”.
Billy si accigliò.

“Non lo so. L’ultima volta che sei voluta andare a cercare qualcosa...”

“Sì”, ripose Rebecca, ma la sua espressione era sicura. Era disposta ad


andare, perfino ansiosa di tentare, e comunque dovevano pur far qualcosa.

Billy salì sul tavolo e intrecciò le dita per darle una spinta. Rebecca salì
dopo di lui, gli mise il piede destro sulle mani e una mano sulla sua spalla.

Era leggera come una piuma; probabilmente Billy avrebbe potuto alzarne
due senza troppi sforzi.

La spinse su con facilità e Rebecca sparì dalla sua vista passando attraverso
il buco. Un secondo dopo, si affacciò.

“Sembra tranquillo, ma è buio”, lo informò.

“Credo sia un laboratorio, ci sono molti scaffali e un paio di scrivanie. Vedo


cosa riesco a

trovare”.

E sparì di nuovo. Billy aspettò, guardando verso il buco e ricordando a se


stesso che la giovane sapeva come cavarsela anche da sola. Aveva già
dimostrato di avere più forza e capacità di molti altri soldati veterani che
aveva conosciuto, e se c’era qualche problema, avrebbe solo dovuto saltare
giù. Non c’era niente di cui preoccuparsi.

Rebecca lanciò un grido breve e acuto, e il sangue di Billy si gelò nelle


vene.

“Rebecca!”, urlò, con lo sguardo impotente inchiodato sul buco nero nel
soffitto.

Sembrava un laboratorio, ma era come se fosse stato utilizzato solo


saltuariamente durante

l’ultima decade e mai ripulito in tutto quel tempo.


C’era una spessa coltre di polvere sul pavimento e sugli scaffali, ma
qualcuno doveva aver

spostato degli oggetti che avevano lasciato dei segni: tracce dietro le sedie e
impronte digitali sulle bottiglie dei campioni. Rebecca gettò una rapida
occhiata all’ambiente circostante e si chinò sul buco. L’espressione di Billy
era tesa.

“Sembra tranquillo, ma è buio. Credo sia un laboratorio, ci sono molti


scaffali e un paio di

scrivanie. Vedo cosa riesco a trovare”.

Si girò e percorse di nuovo la stanza con lo sguardo. Notò che era più
grande di quanto avesse

pensato inizialmente e che una parte rimaneva nascosta dietro un’imponente


scaffalatura che

divideva l’area in due parti. Non l’avrebbe notato se non fosse stato per una
debole, pallida luce bluastra che sembrava essere emanata da qualche punto
della zona nascosta. Tenendo la nove

millimetri in mano fece un passo dietro l’angolo e... lanciò un grido. Stava
quasi per sparare al mostro luminoso che galleggiava all’interno di un tubo
cilindrico di fronte a lei prima di rendersi conto che non era vivo.

“Rebecca!”

“Sto bene!”, rispose, osservando la raccapricciante creatura.

“Mi sono solo sorpresa, tutto qui. Aspetta”.

Fece un passo verso il tubo a grandezza d’uomo, era pieno di un liquido


chiaro e illuminato

dall’interno. In realtà c’erano quattro di quei tubi, tutti in fila, e ognuno


conteneva un’orribile creatura leggermente differente da quella vicina.
Le cose là dentro dovevano essere state umane, un tempo, ma avevano
subito numerose

operazioni chirurgiche e sicuramente erano state infettate col T-Virus. Cercò


di pensare a una

descrizione da dare a Billy, ma ciò che aveva davanti non si poteva


descrivere: arti orribilmente deformati pendevano dai torsi muscolosi e
rammendati; i volti quasi irriconoscibili mostravano

terribili espressioni d’angoscia e sete di sangue. Erano orripilanti. Oltre la


fila di mostruosità umanoidi c’era una vetrina per contenere campioni piena
di cilindri di vetro molto più piccoli.

Rebecca si avvicinò e vide che dentro ognuno di questi c’era una


sanguisuga. Fece una smorfia

disgustata e, stava per allontanarsi, quando si rese conto che uno dei cilindri
era differente dagli altri.

La sanguisuga che conteneva era... non era una sanguisuga.

Aprì la polverosa porta di vetro e tirò fuori il tubo anomalo, osservandolo


contro la tenue luce. Il tappo del piccolo cilindro di vetro era incollato o
saldato, ma ciò che c’era dentro aveva solo la forma di una sanguisuga: in
realtà era scolpita o intagliata e di un intenso blu cobalto.

Perché qualcuno dovrebbe fare una sanguisuga finta per poi metterla...

Sbatté le palpebre ricordando il pezzo di carta che Billy aveva letto: “Per
nascondere una foglia, mettila nella foresta. Per nascondere una chiave...”

Rebecca tornò al buco e alzò il piccolo tubo per mostrarlo a Billy.

“Credo di aver trovato la chiave-foglia”, disse, lanciandoglielo.

“O suppongo che dovremmo chiamarla la chiave-sanguisuga”.

Billy afferrò il tubo e lo scrutò.


“Sono sicuro che si incastrerà perfettamente nel foro di una di quelle porte .
Scendi e controlliamo”.

“Il tappo non verrà via...”, si fermò, vedendo Billy tirare il tubo al suolo,
vicino al tavolo. Il giovane le sorrise, e saltò giù schiacciando il cilindro col
tacco dello stivale. Il vetro scricchiolò, e un secondo dopo Billy aveva la
chiave in mano. “Risolto”, disse. “Andiamo”.

Rebecca si mordicchiò il labbro girandosi verso il laboratorio. C’erano


schedari pieni e carte sparse dappertutto.

“Vai e prova tu. Io voglio vedere se riesco a trovare un’altra mappa”.

Billy si accigliò.

“Sei sicura ?”

“Paura di andare da solo?”, lo schernì, sorridendo leggermente.

“Francamente, sì”, replicò, restituendole il sorriso.

“D’accordo. Tornerò in un minuto. Non andare troppo lontano, ok? Se hai


bisogno di qualcosa,

chiamami”.

Rebecca diede alcuni colpi alla radio. “Nessun problema”. Billy la guardò
per un istante, poi si voltò e si allontanò. Rebecca osservò di nuovo il
laboratorio concentrando l’attenzione sulle due grandi scrivanie della
stanza.

“Bene, Marcus, vediamo se ci hai lasciato qualcosa di utile”, disse


avvicinandosi alla scrivania, inconsapevole di essere molto, molto
attentamente, mentre prendeva un plico di fogli di carta e incominciava a
leggere.

Questo non può essere!


Strinse i pugni, furioso. I piccoli cercavi no di calmarlo trascinandosi sulle
sue spalle, ma lui li spazzò via, ignorando i loro tentativi.

Rebecca stava leggendo le note personali di Marcus. Aveva trovato


l’amuleto che conduceva al

santuario privato del Dottor Marcus e lo aveva dato a Billy. Tutto quello che
avrebbero dovuto fare era raggiungere la funivia, forse scassinare una
serratura o due e poi correre via verso la libertà.

Invece, sembrava che non volessero proprio lasciare in pace la memoria del
dottore, che volessero violare le poche cose private che aveva lasciato.

“A meno che noi non li fermiamo”, disse ai piccoli, mentre osservava Billy
usare la piccola

effige per aprire le stanze di Marcus e Rebecca curiosare senza rispetto tra
le carte private del dottore. Osservare quei due era stato un interessante
diversivo, ma ora si era stancato. Il mondo avrebbe saputo la verità sulla
Umbrella anche senza di loro.

Era ora di mandare i bambini a giocare.

UNDICI

Come aveva sospettato, il santuario che chiudeva il corridoio era una porta
e la piccola statua della sanguisuga che aveva trovato Rebecca si incastrava
perfettamente nella “serratura”.

Si udì un dolce clic e la porta si aprì.

Billy esaminò la parte anteriore della porta prima di entrare, e si convinse


che quello doveva

essere proprio il profilo del Dottor James Marcus.

Si domandò perché l’uomo-sanguisuga che aveva visto sul treno


somigliasse così tanto a
Marcus; le sanguisughe erano controllate da qualcuno chiaramente più
giovane, il ragazzo che

cantava che aveva visto là fuori. Era quello l’autentico Marcus? Non
sembrava possibile. Nel diario che Rebecca aveva trovato, Marcus rivelava
deliri paranoici contro Spencer, sospettando che

volesse impadronirsi del suo lavoro; e questo accadeva circa dieci anni fa.
La gente che perdeva la testa, normalmente, non era in grado di continuare
il proprio lavoro. Ad ogni modo, Rebecca stava aspettando. Lasciò da parte
quel mistero minore e spinse la stravagante porta con la canna del

fucile. Gettò una rapida occhiata in cerca di un movimento — niente — e,


abbassando l’arma, fece un passo dentro.

“Wow!”, esclamò a voce bassa guardando la stanza. Era un grande ufficio


lussuosamente

arredato, con, su un lato. scaffali e armadi a muro in legno scuro levigato e


vetro smussato e con un camino ornato sul lato opposto.

I mobili in legno erano molto antichi: c’era un tavolo basso, delle sedie e
una grande scrivania centrale. Lo spesso tappeto attutiva i suoi passi.

Vide una porta in fondo alla stanza, dietro la scrivania, e incrociò


mentalmente le dita sperando che fosse una via d’uscita. Gran parte
dell’illuminazione dello studio proveniva da un enorme

acquario che dominava l’angolo nordest, proprio vicino a lui. Era ricolmo
d’acqua e illuminato da una luce azzurrina, anche se vuoto.

Billy si sforzò per vedere meglio, avvicinandosi. No, non era vuoto. Non
c’erano pesci, né rocce, né piante, ma c’erano numerose cose che
galleggiavano sulla superficie, cose non piacevoli, ormai irriconoscibili, ma
non per questo meno grottesche. Sembravano essere pezzi di carne umana,
ma
senza forma, senza ossa, come pezzi amputati e deformi. Billy si allontanò
rapidamente, nauseato dai pallidi oggetti galleggianti. Uno degli armadi a
parete era aperto. Si avvicinò e gettò un’occhiata ai libri che c’erano dentro.
Su uno degli scaffali giaceva un vecchio album di foto, lo prese. Sapeva di
dover tornare da Rebecca, ma la curiosità lo pungeva e si domandò se il
busto della porta

indicasse che si trovava nell’ufficio di Marcus.

Le foto erano vecchie, ingiallite e arricciate. Sfogliate alcune pagine, Billy


si rese conto che era solo una perdita di tempo. Stava rimettendo l’album
sullo scaffale quando una foto staccata ne

scivolò fuori volteggiando. Si chinò per raccoglierla, e la osservò alla luce


azzurra e ondulante. La foto non era particolarmente interessante: tre
uomini giovani, negli anni trenta o quaranta, ben vestiti e puliti, sorridevano
alla macchina fotografica. Sul retro, qualcuno aveva scritto: “A James,
come ricordo della cerimonia di laurea. 1939”.

Billy studiò la foto e dedusse che il giovane nel mezzo poteva essere James
Marcus. Qualcosa

nella forma della testa... gli risultava in qualche modo familiare.

“Quel tipo”, disse a se stesso. Il cantante del treno.

Non lo avevano visto molto bene, ma aveva la stessa aria, le stesse spalle
larghe... “Potrebbe

essere il figlio di Marcus. O suo nipote”.

Tutta quella storia era come un puzzle, e stava cominciando a pensare che
aveva appena trovato

un’altra tessera. Se Spencer si era liberato di Marcus e gli aveva rubato il


lavoro, il figlio di Marcus, o il figlio di suo figlio, non avrebbe voluto
vendicarsi? Forse l’infezione virale non era stata un incidente. Forse era
stato il tipo delle sanguisughe.
Billy sospirò lasciando la foto sopra l’album. Tutto sembrava cominciare a
quadrare... ma in fin dei conti, a chi diavolo importava? Quello che doveva
fare era cercare una via d’uscita. Controllò la scrivania in cerca di mappe o
chiavi, ma non trovò nulla, quindi si diresse verso la seconda porta della
stanza che, fortunatamente, non era chiusa a chiave. La aprì, e sentì le sue
speranze svanire; non c’era nessun tunnel, nessun corridoio, nessuna
insegna lampeggiante fissata al soffitto con su scritto “uscita”. Era un
deposito di opere d’arte, o così sembrava, con quadri accatastati uno

sull’altro contro le pareti e alcune sculture coperte da lenzuola vecchie e


impolverate. Una statua era rimasta semiscoperta: era un grosso pezzo di
marmo bianco che sembrava rappresentare un dio

romano seduto, appoggiato contro una parete ornata, il polveroso sguardo


rivolto verso l’alto e una mano ricurva sull’addome. Ma... in mano aveva
qualcosa, qualcosa di verde.

Billy si avvicinò, prese il piccolo oggetto dalle dita pallide della statua e
sorrise quando si rese conto di cosa si trattava.

Aveva trovato un’altra chiave-sanguisuga, ma questa era verde invece che


azzurra.

Un’altra chiave per un’altra porta segreta. E questa poteva essere davvero
loro biglietto d’uscita.

Giorno 1

Somministrato il T a quattro sanguisughe. La loro unicità mentale biologica


le rende i candidati ideali per questa ricerca ma può anche essere che siano
troppo semplici per adattarsi. Non si osservano cambiamenti immediati.

La parola quattro era sottolineata. Nel margine qualcuno aveva segnato


“codice numerico” con mano leggera e lo aveva cerchiato.

Era parte di un diario di laboratorio, c’erano principalmente numeri e date.


Rebecca l’aveva quasi accantonato quando si era accorta che nelle ultime
pagine alcune frasi e

parole erano state sottolineate.

Continuò a leggere, cercando altri passaggi segnati.

Giorno 8

È passata una settimana. La rapida crescita ha raddoppiato il loro volume


originale.

Cominciano a mostrare segni di trasformazione. Riproduzione avviata con


successo, il loro numero si è raddoppiato, ma è comparso un istinto
cannibale, possibilmente dovuto a un aumento

dell’appetito. Mi sono affrettato ad aumentare le razioni di alimenti, ma ne


ho perse due.

Numero si è raddoppiato e perse due erano sottolineati.

Giorno 12

Ho fornito loro del cibo vivo, ma ne ho perse la meta poiché la preda ha


combattuto. Tuttavia, imparano dall’esperienza, cominciano a mostrare
comportamenti di attacco collettivo. La loro evoluzione supera le
aspettative.

Perse la metà era sottolineato.

Non c’erano più parole sottolineate, ma Rebecca continuò a sfogliare il


diario, inquietata e

incuriosita dal successo dello strano esperimento.

Giorno 23

Le sanguisughe ormai non mostrano più caratteristiche individuali, ma si


muovono
collettivamente.

Giorno 31

Si riproducono a una velocità fantastica, ora mangiano tutto quello che si


offre loro...

L’ultima nota le illustrò chiaramente fino a che punto era arrivata la follia
del dottor Marcus.

Giorno 46

Un giorno degno di essere ricordato. Oggi hanno cominciato a imitarmi.


Credo che riconoscano il loro padre. Provo un forte affetto nei loro
confronti. Sono in grado di ricambiarlo? Credo di sì.

Ora siamo noi, io e i miei brillanti piccoli. Nessuno li allontanerà da me.

Con tutto quello che ho imparato, non oseranno.

“Ehi!”

Era Billy, che chiamava dal piano di sotto. Rebecca lasciò le carte e
camminò fino al buco,

inginocchiandosi sul bordo.

“Hai trovato qualcosa di utile?”, domandò, guardandolo da sopra. “Forse.


Prendi”, rispose,

lanciandole qualcosa attraverso il buco. Rebecca lo prese al volo. Era


un’altra chiave-sanguisuga, ma verde.

“C’è una porta con il busto di Marcus lassù?”, domandò Billy. Rebecca fece
segno di no con la

testa.
“Non lo so. Non in questa stanza, comunque. Stavo leggendo qualcosa in
più sugli esperimenti di questo fanatico. Vuoi che dia un’occhiata?”

Billy esitò.

“Perché non aspetti che salga e diamo un’occhiata in due? Lascia solo che
trovi un tavolo o

qualcosa per...”

“Farò attenzione”, assicurò Rebecca. “Non hai detto che c’è un’altra porta lì
sotto? Forse

dovresti cercare di aprirla mentre vedo se riesco a trovare la serratura per


questa cosa”.

“Ha una serratura a combinazione”, rispose Billy. “A meno che tu non abbia
un set di

grimaldelli, non credo riusciremo ad aprirla”.

Rebecca sospirò. Era un peccato che Jill Valentine non fosse con loro.

Faceva parte della squadra Alfa e, secondo Barry, era in grado di forzare
qualsiasi...

... “codice numerico” .

“Aspetta. Hai detto una serratura a combinazione?”

Billy assentì. Rebecca si allontanò dal buco e ritornò in fretta alla scrivania
e alle note di Marcus.

Lesse i passaggi sottolineati, fece i calcoli e tornò al buco.

Quattro sanguisughe... raddoppiato... perse due... perse la metà...

“Prova con... quattro, otto, sei, tre”, propose.


“Un’ispirazione divina?”, chiese Billy.

Rebecca sorrise leggermente.

“Forse. Provalo”. Alzò la sanguisuga verde intagliata, “Io vedrò se riesco a


trovare dove va

questa”.

Billy assentì a malincuore. Rebecca si mise in piedi e si diresse verso la


porta della stanza,

incapace di capire se si sentiva più coraggiosa o più stupida.

In verità non avrebbe voluto fare niente da sola, soprattutto dopo l’incontro
con i primati, ma visto che si trovava già lì al primo piano, aveva senso che
fosse lei a dare uno sguardo veloce.

La porta del laboratorio dava su un breve corridoio con tre porte, oltre a
quella che aveva attraversato. La prima porta, a destra, era chiusa a chiave.

La seconda, nell’angolo sempre a destra, era aperta, ma una rapida occhiata


la convinse che era solo una grande stanza vuota con un piccolo ufficio
collocato in un lato. Era troppo buio per vedere altro. Rebecca chiuse la
porta, sollevata di essere già a due terzi della sua breve ispezione, e si
diresse verso l’ultima porta, sul fondo del corridoio. Anche questa era
aperta. Rebecca la spinse e vide un’altra porta a soli pochi metri da lei; sulla
sinistra, la stanza si apriva verso quello che sembrava essere lo stesso
laboratorio dal quale era uscita...

Non lo era, ma per il modo in cui era disposto, doveva essere connesso al
primo laboratorio.

Forse lo avevano diviso successivamente e...

Un movimento. Lì, vicino al tavolo della parete divisoria, c’era uno degli
uomini infetti, scarno e giallognolo, con gli occhi bianchi e la bocca aperta
e affamata. Si trascinò verso di lei producendo un suono gorgogliante dal
fondo della gola. Era lento, molto lento. Rebecca guardò lo spazio tra lui e
la porta che aveva di fronte mentre sentiva il peso della chiave sanguisuga
nella mano. Si lanciò di scatto, avanzò fino alla porta e l’aprì,
richiudendosela dietro prima che lo smunto zombie potesse fare un altro
passo. Era entrata in una sala operatoria, vecchia e sporca; le piastrelle, un
tempo sterilizzate, erano ricoperte di un leggero strato grigio di sporcizia.

C’erano alcune barelle di metallo storte e accatastate di lato. E di fronte a


lei, verso sinistra, c’era una porta verdognola con il profilo del dottor
Marcus inciso sopra.

“Ti ho trovato”, esclamò, avvicinandosi alla porta. Evitò di guardare troppo


verso il tavolo

operatorio situato nell’angolo in fondo, soprattutto dopo aver visto le


cinghie sporche di sangue che vi erano fissate. Aveva già un’idea di quello
che Marcus aveva fatto; non c’era bisogno di perdersi nei dettagli.

La piccola sanguisuga si incastrò a perfezione nella cavità posta sotto il


busto del dottore. Sentì il suono di un chiavistello, e la porta si aprì...

Rebecca fece un passo indietro, stordita dall’odore, un fetore che le


risultava sin troppo

familiare. L’angusto ambiente era rivestito su entrambi i lati con


innumerevoli vani da obitorio, alcuni dei quali erano aperti.

Due corpi giacevano a terra, entrambi immobili, ma tenne comunque stretta


la pistola.

Respirando superficialmente, entrò nella sala.

Dio fa che ci sia qualcosa per cui valga la pena entrare, pensò mentre
aggirava una barella rovesciata, e che sia in bella vista, se non è troppo
disturbo.

Non aveva nessuna intenzione di controllare i vani frigo uno ad uno.

Sul fondo, la sala si apriva verso destra. Rebecca scavalcò il secondo corpo,
girò l’angolo e cercò di non vomitare per l’atroce fetore. C’era un’altra
barella da un lato, con sopra una chiave di metallo. La prese, sentendo un
mix di emozioni. Aveva trovato qualcosa, questo era buono, ma...

un’altra chiave. Poteva essere di qualunque posto; per quanto ne sapeva


poteva anche essere la

chiave della residenza estiva di Marcus.

Chissà se la prima porta del corridoio...

“Rebecca?”

Mise la chiave in tasca e prese la radio mentre si dirigeva verso la porta,


rispondendo alla

chiamata di Billy.

“Sì. Che cosa succede? Passo”.

Attraversò la sala operatoria e si trattenne davanti alla porta che conduceva


al laboratorio

secondario. Doveva correre fino all’entrata del corridoio per evitare di


dover sparare allo zombie...

“Non c’è nessun quadrante per la combinazione”, rispose Billy con voce
irritata.

“Sono tornato nell’ufficio di Marcus e l’ho messo a soqquadro ma non ho


trovato niente. Tu hai

avuto più fortuna? Passo”.

“Forse”, ripose. “Devo controllare una cosa. Ci ritroviamo nella biblioteca.


Passo”.

“Fa’ attenzione. Passo e chiudo”.


Attenzione. Rebecca scosse leggermente la testa mentre tornava ad
allacciarsi la radio alla cintura, stupita da quanto velocemente un rapporto
potesse cambiare a seconda delle circostanze giuste... o sbagliate. Solo
alcune ore fa l’aveva minacciato con la pistola ed era convinta che sarebbe
riuscita a sparargli. Ma ora, erano... beh, forse “amici” non era la parola
giusta, ma ogni secondo che passava era sempre più improbabile che
dovessero finire con l’uccidersi a vicenda.

Per la prima volta dopo tanto tempo, si domandò cosa stessero facendo i
suoi compagni di

squadra. Stavano continuando a dare la caccia a Billy?

E se fossero stati alla ricerca di lei e di Edward? Si erano imbattuti anche


loro negli stessi

problemi? Avevano incontrato le orribili creature prodotte dal T-Virus?

A proposito...

Ascoltò attraverso la porta per un momento, ma non sentì nulla.

Respirò profondamente, aprì la porta e attraversò a gran velocità la breve


distanza che la

separava da quella successiva, senza neanche guardare verso il laboratorio.


Mentre chiudeva la

porta alle sue spalle, udì un soffocato gemito di frustrazione e fu mossa a


pietà per quella vittima dagli occhi infossati. Probabilmente quell’uomo
aveva lavorato lì, ma lei non avrebbe augurato la malattia degli zombie
neanche al suo peggior nemico. Era una morte orribile. Avanzò fino alla

prima porta che aveva visto e sperò che la chiave la aprisse, benché non
avesse molte speranze.

Suppose che ci sarebbe voluta un’esplorazione più approfondita per trovare


la porta che
corrispondeva a quella chiave, o semplicemente, avrebbe dovuto cercare
un’altra mappa, un’altra chiave, o un altro buco nel suolo.

Era sconfortante, tanto per utilizzare un eufemismo. Se non fossero riusciti


a trovare nulla,

sarebbero dovuti tornare all’ascensore e tentare la fortuna di sopra...

Mise la chiave nella serratura della porta e la girò, udendo un chiavistello


cedere.

“Non ci credo...”, mormorò sorridente mentre apriva la porta. Qualcosa di


enorme e scuro saltò

verso di lei, urlando.

Billy aspettava vicino al buco tra il primo e il secondo piano, chiedendosi


pigramente se c’era qualche possibilità di aprire la porta a combinazione
numerica usando le cartucce della Magnum, quando improvvisamente sentì
risuonare un terribile grido inumano proveniente dal piano superiore,
seguito da due spari.

Non pensò neanche di usare la radio. Saltò sul tavolo posto sotto il buco,
lanciò il fucile al piano superiore e saltò, aggrappandosi al bordo del foro
con entrambe le mani. Prima aveva dubitato delle sue capacità, ma in quel
momento l’eventualità di non essere in grado di salire non gli attraversò
nemmeno la mente. Con un grugnito di fatica sollevò il corpo nel buco,
prima appoggiandosi sui

gomiti e poi, finalmente, passando con le ginocchia. Afferrò il fucile e fu in


piedi giusto in tempo per sentire nuovamente l’urlo animalesco, un suono
strano e sovrannaturale, come se qualcuno

stesse facendo a pezzi un uccello. Spese mezzo secondo per orientarsi e


trovare la porta, poi si lanciò correndo.

Sfondò la porta del corridoio e lì c’era Rebecca, appoggiata contro la parete


opposta. Una delle maniche della sua uniforme era stata strappata e aveva
quattro profondi graffi nella parte superiore del braccio, stava puntando
l’arma contro...

Ma che diavolo...

... un mostro, un immenso mostro dall’aspetto di un rettile. Era umanoide,


con muscoli enormi e la pelle a scaglie di color verde scuro. Aveva le
braccia così lunghe che le mani, provviste di artigli, quasi toccavano il
suolo.

Vedendo Billy, spalancò mandibola e lanciò un altro grido; i piccoli occhi


sul cranio piatto e liscio brillavano di malvagità. Un rivolo di sangue scuro
gli sgorgava dalla parte alta del torace, risultato di uno dei proiettili di
Rebecca, anche se il mostro non sembrava essere troppo preoccupato dalla
ferita.

Assaggia questo, pensò Billy, alzando il fucile mentre Rebecca tornava a


sparare, il colpo del fucile prese la creatura in pieno viso. Billy caricò e
sparò un’altra volta, senza aspettare di vedere quale effetto avesse avuto il
primo colpo. La cosa non aveva più il viso, gli era saltato in pezzi e aveva
sporcato la parete e il suolo circostante. Il suo corpo cadde pesantemente a
terra.

Un gorgogliante fiume di sangue sgorgava dai resti del collo e da quel poco
che rimaneva della

testa: un pezzo di mandibola, alcuni denti e brandelli di pelle annerita.

Billy non si mosse per qualche secondo, in ascolto, alla ricerca di qualche
altro suono, altri

movimenti, ma non c’era niente.

Rivolse la sua attenzione su Rebecca, la quale si stringeva la spalla sinistra,


ferita, con la mano destra. Il sangue le colava attraverso le dita.

“La borsa sulla mia cintura”, gli disse. “Dentro c’è una bottiglia di
disinfettante, garze e cerotti...
mi ha solo graffiato. Non mi ha morso”.

Era pallida; fece una smorfia di sofferenza quando Billy pulì e coprì la
ferita, ma lo sopportò bene, tollerando il dolore piuttosto che cedere a
questo. Era una brutta ferita e probabilmente aveva bisogno di alcuni punti
di sutura, ma sarebbe potuta andare molto peggio. Quando Billy finì,

Rebecca fece un cenno con la testa indicando la porta mezza aperta che
avevano davanti.

“Era rinchiuso lì. Quella cosa, voglio dire”.

Sembrava sconvolta, stordita. Billy si diresse verso la porta, voleva stare tra
lei e qualunque altra cosa sarebbe potuta saltare fuori da lì. Si fermò davanti
al mostro senza testa e rimase a guardarlo.

“Al mostro della Laguna Nera hanno dato gli steroidi”, commentò Billy,
lanciando un’occhiata a

Rebecca, sperando che sorridesse. Ottenne un sorriso abbastanza tremulo


ma autentico, e ancora

una volta rimase sorpreso dalla sua forza d’animo. Non era tanto facile
riprendersi da un attacco a sorpresa, soprattutto se proveniva da un incubo
come il mostro che aveva davanti. La maggior parte delle persone avrebbe
continuato a tremare per ore in preda al panico.

Rebecca si portò al suo fianco e spinse una delle grosse gambe della
creatura con la punta dello stivale.

“Sorprendenti”, commentò, “le cose che stavano facendo qui. Ingegneria


genetica, virus

ricombinanti...”

“Credo che psicotiche sia la parola che stavi cercando” disse Billy.

Rebecca annuì.
“Questo non si può negare. Vediamo se stava facendo la guardia a qualcosa
di importante”.

Superarono il corpo della creatura. Mentre entravano nella stanza, Rebecca


aggiornò Billy su

quello che aveva trovato nel resto del primo piano. Si ritrovarono in una
specie di canile, ma Billy era quasi sicuro che non fosse stato utilizzato per
tenere dei cani; c’era una pila di gabbie con sbarre d’acciaio, molte di
queste dotate di catene, e l’odore nell’aria era di animale selvaggio, un
fetore forte e pestilenziale.

“...che è dove ho trovato la chiave per questa stanza”, stava dicendo


Rebecca.

“Spero che ci sia qualcosa di importante”.

Anche questo ambiente era a forma di U, diviso da scaffalature. Avanzarono


tra gli scaffali e

Rebecca si lasciò scappare un lieve lamento di disgusto. Ammassata


nell’angolo più lontano c’era una pila di pelli e ossa rosicchiate,
sembravano resti di quelle creature simili a babbuini. C’erano anche un
sacco di escrementi sparsi dappertutto, mucchi di una sostanza nera e
catramosa che

odorava... beh, come la merda. Evidentemente il mostro era rinchiuso là da


tempo. Tra due file di gabbie, c’era un piccolo tavolo di legno con alcuni
documenti sparsi sopra. Billy si avvicinò, attento a dove metteva i piedi, e
prese il foglio che stava in cima alla pila, mentre Rebecca controllava
alcune gabbie aperte.

Sembrava essere parte di una relazione.

... fino ad oggi gli esperimenti hanno dimostrato che quando il virus
Progenitor viene
somministrato a organismi viventi, si riscontrano violenti cambiamenti
cellulari che provocano i1

collasso di tutti i sistemi principali, per la maggior parte consistenti nel


sistema nervoso centrale.

Inoltre, non si è trovato nessun metodo soddisfacente per controllare


organismi che si prevede di utilizzare come armi. Chiaramente, una
maggiore coordinazione al livello cellulare è essenziale per permettere
un’ulteriore crescita.

Esperimenti con insetti, anfibi e mammiferi (primati) hanno dato risultati


sotto le aspettative.

A quanto pare non potremo fare ulteriori progressi fino a quando non
inizieremo a usare l’uomo come organismo di base. La nostra
raccomandazione in questo momento e che gli animali

sperimentali debbano essere tenuti in vita per altri studi o come possibili
prede per i test sul campo di nuovi ibridi BOW, come l’imminente serie
Tyrant.

Gesù!

Billy frugò tra le pagine, cercando il resto della relazione, ma trovò solo una
manciata di orari di alimentazione macchiati di caffè.

La serie Tyrant. Tutte le creature che abbiamo visto... e stavano lavorando


a qualcosa che potrebbe dar loro un bel calcio in culo.

“Ah!”

Billy alzò lo sguardo e vide Rebecca che teneva qualcosa di piccolo in


mano, con un sorriso

trionfante sul volto.

“Hai qualche numero per me?”


Billy lasciò cadere le carte sul tavolo.

“Mi prendi in giro?”

“Per niente. Era in una delle gabbie”. Gli lanciò l’oggetto. Billy lo prese e
sentì il proprio sorriso distendersi. Era esattamente quello che stavano
cercando, una specie di manopola rotonda fatta

apposta per incastrarsi nella parte frontale della porta a combinazione che
avevano trovato nel piano inferiore.

“Quattro, otto, sei, tre?” domandò Billy.

Rebecca assentì.

“Quattro, otto, sei, tre”, ripeté lei, alzando la mano per mostrargli che aveva
le dita incrociate.

Billy incrociò le sue. Era una sciocchezza, una superstizione infantile, ma


ormai non gli importava più comportarsi in modo razionale. Avrebbe
tentato qualsiasi cosa avrebbe potuto essergli d’aiuto.

“Andiamo a vedere”, disse, sentendo riemergere la speranza ancora una


volta mentre uscivano

dalla stanza del mostro, sorpreso dalla resistenza di quel particolare


sentimento.

C’era un detto a riguardo, su come finché ci fosse vita, continuava a esserci


anche la speranza.

L’aveva sentito mentre lo stavano processando, e in quel momento gli era


sembrato ovvio e stupido.

Era strano e fino ad un certo punto meraviglioso il fatto di aver scoperto la


verità su

quell’affermazione lottando disperatamente per la sua vita, anche se in


circostanze tanto differenti.
Insieme, si diressero di nuovo verso il laboratorio. Billy mantenne le dita
incrociate.

DODICI

Osservò i due scendere giù per il buco, per poi tornare alla porta con la
serratura a combinazione.

Finalmente, avevano trovato il modo per uscire; si era aspettato di vederli


forzare la serratura, ma uno dei due aveva trovato le relazioni sulla crescita
delle sanguisughe ed era riuscito a decifrare il codice.

Da quanto aveva visto, un unico Hunter, un guerriero solitario, non era un


rivale alla loro altezza.

Il giovane si sentì sorpreso, ma neanche troppo, mentre li osservava aprire


la porta. Quei due

possedevano una certa intelligenza animale; che cosa triste per il mondo che
dovessero essere

distrutti.

Il giovane sorrise. Senza dubbio l’umanità si sarebbe ripresa da quella


perdita in tempo per

portare a termine la crocifissione della Umbrella. Inoltre, i suoi piccoli


erano già ai loro posti. Billy spinse la porta che dava accesso alla funivia, e
i due sorrisero, congratulandosi l’un l’altra per aver

“scoperto” il modo di scappare dal laboratorio. La funivia era operativa,


anche se loro non

avrebbero avuto tempo di vederla in funzione; le loro vite erano sul punto di
finire. I piccoli li osservavano dall’ombra sotto la cabina e dai condotti
fognari semidrenati, raccolti in due forme umanoidi. Con un pensiero e un
sospiro, il giovane li rilasciò, lanciando i due alfieri barcollanti contro la
preda.
Un suono, un grido. Corrugò il sopracciglio e ordinò a uno dei falsi uomini
di andare a vedere

che cosa avesse gridato dall’oscurità che si apriva dietro di lui... e questo fu
attaccato da un Eliminator. Il primate saltò sull’umanoide praticamente dal
nulla, ululando mentre attaccava i

piccoli dritto al collo con le fauci gocciolanti. I suoni della lotta allertarono
Billy e Rebecca, che si trovavano sulla piattaforma. Rapidamente
prepararono le armi.

Furioso, il giovane vacillò senza sapere che fare; voleva farla finita con i
due, ammazzarli, ma era preoccupato per i bambini...

Li fece avanzare ignorando l’attacco del primate, lasciando che la


moltitudine si dividesse per scappare dalle fauci sanguinarie, per riformarsi
di nuovo sul bordo della piattaforma, vicino all’altro umanoide. I due falsi
uomini saltarono sulla piattaforma, ansiosi di assaporare gli intrusi, ma
l’Eliminator li segui, saltando dietro a loro.

Osservò inorridito Billy sparare un unico colpo di fucile a uno dei falsi
uomini, colpendolo in pieno. Il giovane senti la moltitudine urlare, e lo
sciame diminuire.

La sua furia si intensificò e si mischiò all’angoscia per i suoi piccoli quando


Billy sparò di nuovo e Rebecca si unì a lui con la pistola. In pochi secondi,
uno dei due collettivi fu praticamente distrutto.

“No, NO!”

I suoi piccoli non avevano mai affrontato un fucile. Non avevano la minima
idea di quanto

questo potesse far loro del male e in modo tanto rapido, ma non poteva
ritirarsi adesso, non durante l’attacco. I suoi pensieri si rincorsero per
indicare ai superstiti di unirsi al secondo falso uomo mentre l’Eliminator si
lanciava contro Billy, cercando di colpirlo con i grossi artigli. Il primate
lottò contro l’assassino, e ambedue caddero al di là della ringhiera,
sparendo nelle fogne con un grande spruzzo.

Rebecca urlò, precipitandosi verso la ringhiera ma il secondo sciame era


quasi su di lei adesso. Il giovane sentì una gradevole soddisfazione vedendo
il falso uomo estendere il braccio e

schiaffeggiare lo stupido viso di Rebecca con forza sufficiente da farla


cadere. La giovane rotolò al suolo mentre lui si girò un momento per
decidere quale sarebbe stato il modo migliore per finirla.

Le perdite che aveva sofferto lo sciame erano tremende, senza precedenti, e


desiderava con tutte le sue forze che la giovane pagasse per questo...

Se non fosse stato per il fatto che la ragazza era riuscita a rimettersi in piedi
e, col viso teso dalla furia, aveva preso il fucile caduto a Billy. Sparò verso
il falso uomo facendogli esplodere una delle braccia. I piccoli gridavano di
dolore mentre lei sparava ancora e ancora. Il giovane ora riusciva a
malapena a vederla; erano rimasti pochi sguardi su di lei, molte
sanguisughe stavano morendo

mentre lui si sforzava di mantenere il contatto. La sua ultima visione della


ragazza fu un contorno torbido, un’ombra che andava oscurandosi e che,
alla fine, sparì completamente. Intorno a lui la multitudine piangeva, le
lacrime salate dei suoi piccoli si mischiavano con le sue, e il triste odore
dell’oceano si alzava dalla massa disperata. Il giovane chiuse gli occhi e
pianse con essi, ma non per molto. Era troppo furioso. Lei doveva morire,
come sicuramente era morto il suo amico assassino.

Ma non voleva più rischiare la vita dei piccoli...

Il Tyrant. Il suo re.

Riuscì ad abbozzare un sorriso. La sua rabbia era grande, ma la sua collera


lo sarebbe stata

ancora di più.
Nella cabina della funivia trovò una Magnum stretta tra le fredde e
gommose dita di un morto.

Mentre la piccola cabina percorreva il breve tragitto da una piattaforma


all’altra, scivolando

silenziosamente nell’oscurità, Rebecca riuscì a impadronirsi dell’arma e la


controllò, era scarica.

Ricordò che Billy aveva con sé dei caricatori con cartucce del calibro .50
Magnum, ma lui era...

È... lui è vivo, e io lo troverò, si disse con fermezza.

Quando l’oscillante funivia si arrestò, Rebecca scese dalla cabina ignorando


quella voce

terrorizzata che le sussurrava dentro la testa, quella parte che continuava a


insistere sul fatto che Billy fosse morto, disperso nelle acque della
fognatura che correvano rapidamente sotto la

piattaforma della funivia e che l’avevano trascinato via insieme al mostro.

Ma era vivo e lei lo avrebbe trovato. Si ripeteva costantemente quel


pensiero, gli doveva quella speranza e gli doveva quella convinzione.

La seconda piattaforma della funivia somigliava molto alla prima, era


piccola, fredda e oscura, ma qui c’era una scaletta che saliva conducendo
all’esterno dell’hangar. Rebecca si concesse un minuto per controllare le
armi e ricaricare le nove millimetri. Billy aveva con sé le cartucce di riserva
del fucile, ma fortunatamente l’aveva ricaricato subito dopo l’attacco di
quel mostro fuori del canile.

Dopo averti salvato la vita, ancora una volta.

Rimanevano ancora due cartucce. Non voleva lasciarlo, ma pensò che non
fosse neanche troppo
saggio abbandonare la Magnum. Forse avrebbe trovato un altro deposito di
munizioni. La pesante

rivoltella le tirava la cintura e il fucile le premeva dolorosamente la spalla


ferita, ma voleva essere pronta a tutto.

È morto, Rebecca, devi salvarti...

No...

Devi salvarti, ora, hai...

No!

Corse su per le scale senza prestare attenzione alla stanchezza.

Devo trovarlo, devo trovarlo.

In cima alle scale c’era una porta aperta che dava su un grande magazzino
vuoto, con l’estremo

opposto aperto verso la notte. Rebecca attraversò la stanza, saltò al di là di


un nastro trasportatore e passò vicino a una fila di barili mezzi marci che
erano allineati contro la parete. Aveva la mente troppo occupata con Billy
per pensare con chiarezza. Se era ferito, se era...

Morto. Poteva essere morto.

Cercò di rifiutare quell’idea per principio, ma la sua voce mentale non era
né terrorizzata né si stava lasciando andare al panico, era tranquilla e calma.

Ragionevole. Inspirò profondamente alcune volte, si fermò un istante sulla


piattaforma del

montacarichi industriale che confinava con l’enorme magazzino e


contemplò il freddo cielo azzurro e scuro delle prime ore del mattino. Le
nuvole si stavano aprendo e si vedevano brillare un pugno di stelle, pallide
e distanti.
Il temporale era passato. Confidò nel fatto che quello fosse un presagio per
indicare che le cose stavano per migliorare. Ma poteva solo sperare.

Se Billy era morto, e probabilmente era così, l’avrebbe dovuto affrontare.

Ma non farò niente fino a che non ne avrò la certezza.

C’era una console di comando nella sezione nord della piattaforma del
montacarichi. Rebecca

studiò un attimo i controlli, alla fine decise che doveva scendere al livello
più basso, il B4, e lì cercare una via d’accesso per le fogne. Spinse un
pulsante. L’enorme piattaforma ottagonale diede una scossa e cominciò a
scendere. Le pareti del gigantesco pozzo che circondava la piattaforma

cominciarono a sollevarsi davanti a lei e il cielo notturno sparì sopra la sua


testa.

Il montacarichi finalmente si arrestò in un ambiente ampio e funzionale,


dalle pareti grigie di cemento e acciaio. Alla sua destra c’era un piccolo
ufficio con un cartello che diceva SICUREZZA e un breve corridoio che
dava su un altro ascensore più convenzionale, simile a quello di un palazzo
d’uffici. Alla sua sinistra invece c’era stato un crollo, cumuli di detriti si
ammucchiavano fino al soffitto divelto, e proprio lì, davanti alle macerie
accatastate, sembrava esserci un altro ascensore, ma più grande, come
quello di un magazzino. Fece un passo fuori dalla piattaforma e osservò

l’ambiente poco illuminato alla ricerca di segni di vita. I suoi passi


risultarono sorprendentemente silenziosi sul calcestruzzo scheggiato. Era
vuoto. Rebecca si avvicinò all’ufficio della sicurezza ma la porta era chiusa
a chiave.

Uno sguardo attraverso la sudicia finestra incassata nella porta la convinse


che non c’era niente che valesse la pena recuperare. Sospirò senza sapere
dove andare. Il suo piano era quello di

continuare a scendere con la speranza di arrivare fino all’acqua del sistema


fognario, ma qualunque ascensore poteva condurla nella direzione
sbagliata.

Quindi scegline uno. Meglio sbagliare che perdere tempo cercando di


decidere.

D’accordo. Lanciò una monetina mentalmente e si diresse verso l’ascensore


a ovest della

piattaforma, proprio vicino all’ufficio della sicurezza.

Stava per premere l’unico pulsante di chiamata che si trovava sul pannello
di controllo, quando si senti un soave campanello e l’ascensore si fermò al
suo piano. Indietreggiò velocemente, ma non c’erano né il tempo né il posto
per nascondersi. Si schiacciò quanto poté contro l’angolo contiguo alle
porte e sperò che, chiunque fosse, avesse troppa fretta per guardare indietro.
Le porte si aprirono. Rebecca strinse il fucile e trattenne il respiro. Uscì una
sola persona dell’ascensore, un uomo possente, con un giubbotto
antiproiettile...

Rebecca abbassò l’arma e sgranò gli occhi dalla sorpresa mentre Enrico
Marini si girava

tenendola sotto tiro con la sua nove millimetri.

“Non sparare!”

Vide la sorpresa accendersi sul viso dell’uomo, scioccato dall’inaspettato


incontro.

Riconoscendola, Enrico alzo l’arma verso il soffitto.

“Rebecca!”, esclamò, rilassandosi leggermente, la giovane notò la sporcizia


che gli ricopriva il viso e le mani, oltre alle macchie di sangue sulle braccia.

Le nocche di entrambe le mani sembravano peste e ferite; il suo giubbotto


con il logo della S.T.A.R.S. era strappato in vari punti. Evidentemente, lei
non era stato l’unico membro della

squadra Bravo ad aver dovuto lottare sopravvivere.


“Stai bene?”

“Sei vivo” , rispose Rebecca facendo un passo in avanti, tanto felice di


vederlo che non capiva perché non stesse piangendo dal sollievo. Lui la
abbracciò goffamente con un braccio e le diede alcune pacche sulla spalla
prima di tirarsi indietro.

“E gli altri?”, chiese lei.

Enrico si girò guardando verso l’ascensore industriale.

“Sono andati avanti. Vi stavamo cercando, te ed Edward”.

Rebecca abbassò lo sguardo.

“Edward... non ce l’ha fatta”.

Lo sguardo di Enrico si indurì leggermente, ma assentì con la testa.

“Hai visto passare il resto della squadra?

“No”.

“Li hai mancati per poco”, spiegò, “abbiamo trovato alcuni documenti...”.

Scosse la testa, come a negare una storia che sarebbe stata troppo lunga da
spiegare. Rebecca lo capì perfettamente.

“A est da qui c’è una vecchia villa”, continuò, “pensiamo che la Umbrella
la usi per i suoi

esperimenti. Andiamo. Li potremo raggiungere se ci affrettiamo”.

Enrico cominciò ad allontanarsi, e Rebecca sentì come se le si fosse


formato un nodo al cuore,

tanto ardente quanto stretto.


“Aspetta!”, esclamò prima di poterci ripensare due volte. “Devo trovare
Billy”.

Enrico tornò a guardarla.

“Billy Coen? L’hai trovato?”

“Sì, ma ci siamo separati e...”, lasciò la frase a metà, senza sapere come
spiegarsi.

“Non ti preoccupare per lui, non riuscirà a sopravvivere. Andiamo”, rispose


Enrico.

“Signore, io...”, deglutì e si costrinse a guardarlo negli occhi.

“È una storia molto lunga, ma devo trovarlo. Non preoccuparti, vi


raggiungerò”.

“Rebecca...” cominciò Enrico, che sembrava però aver notato qualcosa


nella voce di Rebecca,

nel suo viso, forse la stessa storia che lei poteva leggere nel suo; erano
successe troppe cose e una spiegazione richiedeva più tempo di quello che
potevano permettersi. “Fa’ attenzione”, disse

sospirando.

Rebecca assentì con un movimento secco della testa, il riconoscimento di


un professionista verso un altro. Enrico si voltò e andò via.

Rebecca lo guardò andare via, lo vide arrivare fino al cumulo di macerie


dall’altro lato della

piattaforma e voltarsi verso l’ascensore per poi sparire dalla sua vista.

Finalmente incontro la mia squadra e dico loro di andar via senza di me,
pensò, troppo stanca per sorprendersi della sua decisione. Almeno sapeva
che erano vivi. Quanto a Billy, dopo averlo trovato sarebbe andata — anzi
sarebbero andati — verso est e avrebbero raggiunto la sua squadra alla villa
della Umbrella.

Ispezionò l’ascensore dal quale era apparso Enrico e scoprì che conduceva
solo ai piani

superiori. Questo le facilitò la decisione. Attraversò nuovamente la stanza e


giunse fino all’altro ascensore. Spinse il pulsante di chiamata e udì un
cigolio dovuto al meccanismo di movimento che ronzò da qualche parte nel
vano.

Era lento, sembrava strisciare dal punto in cui Enrico l’aveva lasciato.
Rebecca si appoggiò

contro la porta, desiderando che fosse più rapido. Era troppo stanca per
fermarsi, temeva che poi non sarebbe più stata capace di tornare a
muoversi.

Un grande pezzo di roccia rotolò giù dalle ombre in cima al cumulo di


macerie, batte contro il

suolo di cemento non lontano da dove si trovava lei e si frantumò in vari


pezzi. Subito dopo fu seguito da un altro e poi da un altro ancora.
Improvvisamente, una piccola valanga smosse diverse lastre di pietra
ricollocandole in una nuvola di polvere che si alzò dalle macerie.

Rebecca si allontanò dall’ascensore, osservando il cumulo con inquietudine.

Crunch. Crunch. Crunch.

Suonavano come dei passi pesanti provenienti dalla pila di calcinacci.


Caddero ancora più pietre che finirono con lo sbriciolarsi rumorosamente al
suolo.

“Enrico?”, chiamò con una voce speranzosa che si perse nell’aria carica di
polvere.

Crunch.
Crunch.

Tornò a spingere il bottone di chiamata. Dal rumore, l’ascensore sembrava


continuare ad

avvicinarsi, ma ora Rebecca poteva vedere qualcosa muoversi tra le ombre,


qualcosa di molto

grande, che si dirigeva verso lei.

Billy si aggrappava ai resti corrosi di un pilastro di sostegno mentre onde e


vortici di un’acqua fredda e scura lo sbattevano da una parte all’altra.
Risvegliare le dita intorpidite non era facile. Si afferrò con forza al cemento,
semi incosciente, nel tentativo di valutare, di decidere.

Quasi non riusciva a pensare. Ricordava la scimmia...

... babbuino, aveva detto lei...

... attaccarlo, i suoi sporchi artigli affondargli nella parte superiore delle
braccia. Ricordava di aver sbattuto con forza contro la ringhiera; ricordava
anche l’impatto contro l’acqua sporca, il sapore grasso e l’odore aspro
mentre veniva inghiottito. Ricordava Rebecca gridare il suo nome, la sua
voce perdersi mentre la corrente lo trascinava via. Ci fu l’urlo gorgogliante
dell’animale in preda ai panico, l’oscurità quando fu sommerso dall’acqua,
poi finalmente una sporgenza rocciosa, e un acuto dolore alla tempia. E ora
era lì. Da qualche parte.

Era ferito, stordito, perso. Alla sua destra, le acque ruggivano facendosi
strada in una gigantesca tubatura che conduceva verso il buio. Era un
condotto abbastanza grande da inghiottirlo

completamente. A una decina di metri alla sua sinistra c’era una specie di
passerella sospesa sopra l’acqua vorticosa, ma era come se fosse stata
lontana chilometri viste le sue possibilità di

raggiungerla. L’acqua era troppo rapida, la corrente troppo forte e lui non
era mai stato un gran nuotatore. Si tenne ancora più stretto. Era l’unica cosa
che poteva fare.

TREDICI

La creatura che sorse dalle macerie non somigliava a niente che Rebecca
avesse mai visto prima.

Si mise in piedi sopra la pila di detriti e alzò le braccia come se stesse


facendo dello stretching, il che le permise di contemplarlo per intero.
Rebecca aveva la bocca completamente asciutta e le mani ricoperte di
sudore. Aveva una voglia disperata di andare in bagno.

Era umanoide. Quasi umano, nel senso che aveva i tratti facciali di un
uomo, eccetto per il fatto che nessun uomo brillava con tale pallore; la pelle
era glabra e il corpo di un bianco quasi luminoso.

Nessun uomo aveva artigli che raggiungessero quasi la stessa lunghezza


delle braccia, artigli ricurvi e splendenti come coltelli, più lunghi nella
mano destra che in quella sinistra.

Le vene erano grosse e visibili attraverso la pelle; masse di tessuto rosso e


bianco sormontavano le enormi spalle e il gigantesco petto. Gruppi di ferite
color rosso sangue disseminavano i suoi tre metri di corpo, e la parte più
bassa del viso era stata strappata via, rivelando una specie di sorriso
sanguinante fatto di ossa e di carne. Girò il suo macabro sorriso verso
Rebecca mentre fletteva gli artigli, come se avesse aspettato con ansia di
incontrarla. La creatura abbassò lo sguardo su di lei e il suo orribile sorriso
sembrò allargarsi leggermente. Rebecca poteva sentire il suo respiro, un
suono aspro e asciutto; poteva vedere i battiti del suo strano cuore coperto
solo parzialmente dalla gabbia toracica. A malapena consapevole di aver
già alzato il fucile, Rebecca sparo. L’esplosione colpì il petto del mostro e
alcuni rivoli di sangue scuro cominciarono a scivolargli giù lungo il corpo.
La creatura tirò indietro la sua enorme testa calva e gridò, lanciando un urlo
apocalittico, come se annunciasse la fine di tutto. Non c’era dolore nel suo
ruggito, ma rabbia furente, e Rebecca

comprese improvvisamente che non sarebbe sopravvissuta a lungo. Con un


unico balzo aggraziato,
il mostro saltò agilmente dalla pila di rocce frantumate e atterrò
accovacciandosi a circa quattro metri da Rebecca. Il suolo tremò per un
istante. Gli artigli della creatura graffiarono il cemento mentre si rialzava,
fissando il suo sguardo grigio e maligno sulla ragazza.

Rebecca indietreggiò e ricaricò il fucile; le tremava tutto il corpo mentre


cercava di mirare verso l’orribile ghigno. La cosa si avvicinò, mettendosi
tra lei e l’ascensore, proprio quando sentì il meccanismo di arresto della
cabina e le porte si sbloccarono.

La creatura fece un altro passo.

Almeno è lento. Se riesco ad attirarlo lontano e poi corro via...

Un altro passo, e Rebecca vide apparire una crepa nel pavimento sotto le
grosse unghie nere dei piedi del mostro. La giovane si spostò ancora,
cercando di allungare la distanzia tra loro, quando, improvvisamente, la
cosa si mise a correre veloce, il suo braccio era come un riflesso torbido che
si abbassava e si rialzava a grande velocità.

Gli artigli le passarono talmente vicino da permetterle quasi di captarvi il


suo riflesso mentre saltava di lato per schivarli. Si lanciò al suolo e roteò
sulla spalla, col fucile stretto contro il petto, ed era già in piedi quando la
creatura terminò il suo strano movimento. Delle scintille si

sprigionarono dalla parete vicino all’ascensore quando il pannello di


controllo andò in pezzi.

Dietro di lei si azionarono le luci di allarme e una sirena cominciò a


suonare. Un’enorme porta di metallo iniziò ad abbassarsi tra Rebecca e la
piattaforma del montacarichi con la quale era scesa.

Avrebbe tagliato in due l’ambiente intrappolandola con l’orripilante mostro.

Si mise a correre, decisa nel tornare al di là di quella porta. Era pesante e


scendeva in fretta, un’enorme lastra di metallo impenetrabile, anche per
quella creatura. Raggiunse agilmente l’altro lato e si voltò per guardarsi
indietro. La mostruosità artificiale corse dietro di lei e si chinò per passare
sotto il pesante pannello in movimento. Rebecca sentì il cuore batterle
ferocemente dentro al petto e un velo di sudore freddo ricoprirle il corpo. Se
si fosse ritrovata nello stesso ambiente con il mostro, sarebbe finito tutto.

Attese, osservando la creatura avanzare lentamente verso di lei e, quando la


parte bassa della

porta arrivò all’altezza della sua testa, corse di nuovo dall’altro lato.
Dovette chinarsi per passare, e pregò che la cosa rimanesse intrappolata nel
montacarichi.

La creatura tornò a inseguirla; si abbassò sotto la lastra di metallo, alzando


gli artigli sulla testa mentre cercava di passarci sotto. Rebecca sentì un
barlume di speranza; forse la porta lo avrebbe schiacciato. Fu allora che
sentì il metallo stridere quando gli artigli giganti scavarono dei solchi nella
lastra. Guardò, con orrore e stupore, come la cosa riuscisse a rallentare la
discesa della porta il tempo sufficiente per passarle sotto. La porta
raggiunse il suolo con un risonante fragore. Tutti gli istinti di Rebecca le
gridavano di correre e di uscire di lì, ma non c’erano più vie di fuga. Scesa
la porta di metallo, l’ambiente era non molto più grande del suo
monolocale. Doveva arrivare

all’ascensore. Era la sua unica opportunità. Corse verso le porte, afferrò la


maniglia e cominciò a farle scorrere quando sentì il mostro avvicinarsi, i
suoi pesanti passi alle sue spalle, lo scricchiolio del cemento sotto i suoi
piedi.

Merda!

Neanche sì voltò, istintivamente sapeva che non aveva più tempo. Si chinò,
cadde sulle

ginocchia e si lanciò di lato proprio nel momento in cui gli artigli calarono
sbattendo contro la porta dell’ascensore, perforando il metallo davanti a cui
stava in piedi fino a un secondo prima.

Indietreggiò mentre il mostro sì girava per guardarla, facendo un passo in


avanti. La puntava,
implacabile come una macchina. Lanciò all’indietro lo smisurato braccio,
come se stesse per tirare una palla invisibile, e fece un secondo, risonante
passo.

Pensa! Pensa!

Non poteva lottare contro di lui, probabilmente non poteva neanche


ucciderlo con quello che

aveva a disposizione; la sua unica speranza era quella di ingannarlo in


qualche modo... Il piano si stava ancora formando nella sua mente quando
lo mise in azione. La creatura era troppo grande, e non le risultava facile
fermarsi una volta cominciato a correre. Se fosse riuscita a farsi inseguire e
a schivare l’attacco all’ultimo secondo, forse avrebbe avuto il tempo
necessario per aprire le porte dell’ascensore e gettarcisi dentro. Rebecca
smise di muoversi, restando il più lontano possibile dall’ascensore, almeno
per quando poteva permetterglielo il piccolo spazio.

Un altro passo. Gli artigli scricchiolarono. Rebecca ebbe bisogno di tutta la


sua forza di volontà per non cominciare a correre prima del momento
giusto.

Mirò alla creatura col fucile e si preparò per lanciarsi verso l’ascensore non
appena il mostro si fosse messo in moto. Il sorriso della creatura divenne
più ampio mentre inclinava leggermente le ginocchia, preparandosi a
scattare... e si mosse, solo un altro paio di falcate in corsa e sarebbe arrivato
a lei. Rebecca si chinò per schivarlo e corse fino alle porte dell’ascensore,
sbattendoci contro. Le afferrò con mani tremanti, le strattonò facendole
scorrere e si lanciò dentro. Quando si girò per chiuderle, la cosa stava già
muovendosi nuovamente verso di lei, in fretta, troppo in fretta.

Anche chiudendole, le porte non avrebbero retto, ne era certa.

Allora alzò il fucile e sparò senza avere neanche il tempo di mirare. Il colpo
centrò la spalla destra della creatura, che indietreggiò, gridando, mentre il
sangue schizzava a getto dalla ferita, ma Rebecca non si fermò a guardare
oltre. Chiuse rapidamente le porte e spinse il bottone più in basso sul
pannello dei comandi, poi chiuse gli occhi e cominciò a pregare.
Passarono i secondi. L’ascensore continuò a scendere giù e sempre più giù
finche non si fermò.

Rebecca smise di pregare solo quando senti lo scrosciare dell’acqua


all’esterno. Doveva essere il sistema fognario, ma in quel momento era
troppo terrorizzata per pensare, tutto il suo corpo continuava a tremare
incontrollabilmente.

Dopo quello che le sembrò un lungo momento, il tremore cessò.

Stava bene... o almeno era viva, e quello era già qualcosa. Pregando di non
rivedere mai più

quella cosa, Rebecca aprì la porta e uscì.

***

Finalmente William Birkin stava andando via, quando udì un grido


inumano risuonare in quello

che, fino a un momento fa, era un impianto silenzioso; un grido di pura


rabbia. Si fermò all’ingresso del piccolo tunnel sotterraneo che conduceva
all’esterno, girandosi per guardare verso la sala di controllo esecutivo.
Aveva passato le ultime due ore in quella piccola area nascosta, prima
cercando di prendere una decisione e dopo lottando affinché il computer
accettasse il suo ordine di

distruzione. La sequenza di autodistruzione era programmata per poco più


di un’ora dopo; come aveva suggerito Wesker, la cancellazione del centro e
delle strutture che lo circondavano avrebbe sancito l’alba di un nuovo
giorno.

Quel grido... non aveva mai sentito nulla di simile, ma sapeva cosa lo aveva
prodotto, aveva

assistito alle fasi finali del progetto. Nient’altro poteva produrre un suono
del genere. Il prototipo Tyrant era libero.
Improvvisamente, le ombre che circondavano lo stretto tunnel gli
sembrarono troppo profonde,

troppo solitarie. Capaci di contenere troppi segreti. Birkin si affrettò,


convinto di aver preso la decisione giusta.

Tutto sarebbe stato divorato dalle fiamme.

Billy sentì qualcosa. Alzò la testa, pesante come mai, e riuscì a girarla
leggermente. Lì, verso sinistra, si era aperta una porta che dava sulla
passerella e ne uscì una figura umana.

“Ehi!”, chiamò, ma non riusciva a percepire il volume della voce e le sue


parole si persero nel ruggito dell’acqua.

Chiuse gli occhi.

“Billy!”

Guardò di nuovo e senti un’ondata di calore riempirlo dal profondo,


Rebecca.

Era Rebecca, piegata sulla ringhiera, che chiamava il suo nome, e nel
vederla e sentirla, si

accorse che un po’ della sua terribile stanchezza spariva leggermente.

“Rebecca”, disse alzando il tono della voce, ma senza essere sicuro che
potesse sentirlo. Cercò di pensare a qualcosa da dirle, a qualcosa che lei
potesse fare, ma riuscì solo a ripetere il suo nome, di nuovo; la situazione si
spiegava da sola, e lui stava messo male. Se voleva aiutarlo, avrebbe dovuto
inventarsi qualcosa da sola.

“Billy, attento!”. Rebecca faceva frenetici gesti con una mano mentre
cercava la pistola con

l’altra. Il terrore nella sua voce lo risvegliò dal torpore.


Strinse con più forza il pilastro di sostegno e cercò di tirarsi su, per capire a
cosa stesse mirando Rebecca. Intravide qualcosa di sfuggita, un’ombra che
si muoveva in fretta, qualcosa di lungo e affusolato che scivolavo
nell’acqua come un serpente gigante e che si dirigeva verso lui.

Cercò di muoversi, di spostarsi dall’altro lato del pilastro, ma la corrente era


troppo forte. Se avesse perso la presa, sarebbe stato trascinato via in meno
di un secondo. Rebecca sparò due colpi e l’invisibile creatura cozzò contro
il pilastro con tale forza da far volare via Billy.

Gridò, nuotò furiosamente per mantenersi a galla nell’acqua schiumosa, per


resistere alla

corrente che lo trascinava nella condotta di scolo, ma non servì a niente. In


pochi secondi, fu trascinato verso l’oscurità, spinto e sbattuto dalla corrente.
Il suono dell’acqua gli invase le orecchie mentre lo portava via.

QUATTORDICI

Durante il breve scontro tra Rebecca e il proto-Tyrant, William Birkin


sgattaiolava fuori dalla struttura, con la testa bassa e la proverbiale coda tra
le gambe.

Il giovane ne aveva perse le tracce qualche ora prima, desumendo che lo


scienziato avesse

lasciato la struttura esattamente come aveva fatto Wesker, e come avevano


fatto tutti quelli della squadra di Rebecca solo pochi minuti prima.

E invece era ancora lì, a metà di uno dei tunnel segreti d’uscita, col viso
pallido e tremulo per il terrore, il volto tramutato in una maschera di paura.

Senza dubbio terrorizzato dai frastuoni del combattimento, era


inconsapevole del fatto che fosse vivo solo perché la sua vita non aveva la
minima importanza. Benché allettato dall’idea di occuparti personalmente
di lui, il giovane lasciò che lo scienziato andasse via, almeno per il
momento;
sarebbe stato la sua preda per un altro giorno. Era troppo preso dalla lotta,
troppo ansioso di vedere come gli arti di Rebecca venissero strappati uno ad
uno. Ma, contrariamente alle sue speranze, la vide evitare di nuovo il suo
destino, una combinazione tra abilità e fortuna che lasciava di stucco.

La osservò lasciarsi dietro il Tyrant e, un momento dopo, ritrovare Billy,


ancora vivo, attaccato come una ventosa su una roccia mentre un mare
d’acqua sudicia si agitava intorno a lui. Il colpo di una delle creature
acquatiche lo aveva fatto volare via nella corrente, spedendolo verso una
delle numerose sale di filtraggio dell’impianto, e lasciando Rebecca a urlare
il suo nome dietro di lui, colma di frustrazione, arrabbiata, triste e delusa. Il
giovane sorrise, un sorriso freddo e spiacevole, e si sentì più tranquillo di
quanto fosse stato ultimamente, mentre guardava Rebecca attraversare la
passerella, trovare l’ascensore della sala operativa e avanzare verso le
profondità dell’impianto delle acque, dove lui e i suoi piccoli speravano di
accoglierla nel loro bozzolo di secrezioni liquide scintillanti. Con un po’ di
fortuna, si sarebbe ricongiunta a Billy, chissà, forse era ancora vivo. Anzi,
probabilmente lo era.

Il giovane capì solo in quel momento che forse si era intestardito troppo nel
voler accelerare gli eventi, nell’affrettare il loro destino. Ormai un
confronto era inevitabile... E poi, non aveva sempre voluto un pubblico,
qualcuno che potesse apprezzare la magnificenza della sua impresa? Inoltre,
presto sarebbe giunta l’alba, un momento molto pericoloso per i bambini,
perché i loro delicati corpi ardevano facilmente, anche con la luce solare
molto debole. Meglio che gli intrusi si

affrettassero, così avrebbero conosciuto la sua gloria prima di essere


schiacciati. Osservò e aspettò, ansioso di iniziare il capitolo finale del suo
trionfo.

Rebecca non era sicura di dove si trovasse. I livelli e gli ambienti della
struttura sconosciuta erano incredibilmente intricati, ma continuò comunque
ad avanzare verso il basso. I corridoi erano tranquilli, ma due delle stanze in
cui era passata — una piccola sala di controllo dalla funzione sconosciuta e
una saletta per impiegati semidistrutta — erano infestate dagli zombie.
Aveva sparato solo contro due dei sette infetti in cui si era imbattuta, i
restanti erano troppo decrepiti e lenti per costituire una minaccia reale.
Avrebbe desiderato di aver avuto più tempo e più munizioni per finirli tutti,
per liberarli dall’incubo in cui si era trasformata la loro vita, ma l’avere
visto Billy ancora in vita le mise ancora più fretta.

Era ferito, ma vivo, e era disperso da qualche parte nelle profondità


dell’intricata struttura.

L’edificio doveva essere un impianto per il trattamento delle acque, almeno


a giudicare

dall’onnipresente fetore, dai cartelli e dai pannelli di controllo che


riempivano quasi tutte le sale.

Probabilmente, anche questo doveva essere un altro centro per le attività


illegali della Umbrella; in effetti, non era forse collegato al centro di
addestramento, anche se indirettamente? Attraversò una specie di cortile
interno nel settimo livello sotterraneo, o almeno pensò che si trattasse del
settimo livello, visto che doveva essere ancora in piena fase di costruzione
quando il virus aveva attaccato, e dubitava che il bunker scavato nella
pietra, pieno di carrelli elevatori, avesse qualcosa a che fare col trattamento
delle acque.

Sì ma ora che diavolo me ne importa, pensò, cercando di muoversi più in


fretta. Attraversò

un’altra porta e si ritrovò in una stanza con, in un lato, una vasca piena di
casse. Fino a quella notte non aveva creduto affatto negli zombie o in
cospirazioni con armi biologiche... Ad essere sinceri, non aveva creduto
neanche che si potesse fare deliberatamente tanto male a così tante
persone. Ciò che aveva visto, ciò che aveva sperimentato da quando era
salita su quel treno tutte quelle ore fa... Tutto era diverso, ora. Non sapeva
se sarebbe riuscita a guardare il mondo con la stessa innocenza di prima, se
sarebbe stata in grado di osservare una persona o un luogo senza

chiedersi se ci fosse qualcosa nascosto dietro alle apparenze. Non era sicura
se sentirsi furiosa o grata per la perdita di quell’innocenza; ma era certa che
rimanere nella S.T.A.R.S. avrebbe
significato stare dalla giusta.

In fondo alla stanza c’era una scala di metallo.

Rebecca si fermò in cima alla scala, guardò verso il basso trattenendo il


fiato e abbozzò una

smorfia di disgusto, incerta su come procedere. C’erano delle sanguisughe


sulle scale, almeno

mezza dozzina, sparse sugli scalini, i fili di melma lasciavano una scia
brillante sul metallo grigio.

Non voleva avvicinarsi troppo, temeva che l’avrebbero attaccata se ne


avesse schiacciata una involontariamente, ma non poteva neanche tornare
indietro. Sentiva come se il tempo stesse

accelerando, come se gli eventi si stessero susseguendo sempre più


velocemente, e che doveva

tenere il passo o rischiava di rimanere indietro e perdersi.

O rischiare di scontrarmi di nuovo con quella cosa. Quella macchina


assassina provvista di artigli.

Il grido furioso della creatura risuonava ancora nella sua testa. L’aveva
ferito, ma le probabilità che fosse strisciato in qualche angolo buio per
morire erano praticamente nulle. Le cose non erano mai tanto facili.

Strinse i denti e passò con attenzione tra le sanguisughe, fermandosi a ogni


passo, ma dovette

inghiottire la bile quando una le strisciò sullo stivale per poi riprendere la
sua strada. Perlomeno, la scala era breve; scese fino in fondo senza pestare
nessuna di quelle orrende creature e raggiunse la porta che c’era dall’altra
parte della stanza senza incorrere in ulteriori rallentamenti.

Quando la aprì, una nebbia fredda spruzzò la sua pelle sudata e il ruggito
delle tubature di scarico fu come una musica. Era una grande sala, dominata
da enormi condotti che sbucavano da un lato e dai quali l’acqua veniva
spruzzata su una serie di filtri di rete... e là, in mezzo ai detriti galleggianti...

“Billy!”

Rebecca corse verso Billy. Una cascata spruzzava acqua proprio vicino a
dove era sdraiato. Si

inginocchiò vicino a lui e gli mise la mano sul collo. Spostò le piastrine di
identificazione

scuotendole leggermente... finalmente riuscì a sentire il battito, forte e


stabile. Al suo tocco, lui aprì gli occhi e la guardò con uno sguardo confuso.

“Rebecca?”, disse tossendo, cercando di mettersi seduto. Lei gli mise


dolcemente una mano sul

petto e lo spinse di nuovo giù. Aveva un grande ematoma sulla tempi


sinistra.

“Riposa per un minuto”, disse, ma dovette sforzarsi per far passare le parole
dal nodo che le si era formato in gola. Voleva credere che Billy stesse bene,
ma era difficile che fosse cosi...

“Lascia che ti visiti”.

Un piccolo sorriso attraversò le labbra di Billy.

“Ok, ma dopo tocca a me”, mormorò, tornando a tossire.

Rispose alle domande senza mostrare sintomi di stato confusionale;


Rebecca lo esaminò

fisicamente, controllando i movimenti e pulendogli alcuni dei graffi più


profondi.

Il colpo alla testa sembrava essere la ferita peggiore e gli causava vertigini e
nausea, ma non era così grave come aveva temuto inizialmente. Dopo
qualche minuto, Billy si tirò a sedere e le sorrise debolmente.
“Ok ok”, disse, fremendo quando Rebecca gli toccò la tempia dolorante.

“Sopravviverò, ma non se continui a colpirmi dappertutto”.

“D’accordo”, ripose Rebecca, sedendosi sui talloni con una profonda


sensazione di

soddisfazione; l’aveva cercato e l’aveva trovato. Non aveva idea che la


semplice sensazione di riuscire in quello che ci si era prefissati fosse tanto
appagante da poter sopraffare facilmente tutti i lati negativi della loro
situazione, anche se solo per un momento.

“Sono contenta che tu sia vivo, Billy”.

Billy assentì e fece una smorfia di dolore muovendosi.

“Non sai quanto ne sia contento io”.

Rebecca lo aiutò a rialzarsi e lo sostenne fino a che non riuscì a recuperare


completamente

l’equilibrio. Quando si sentì sufficientemente sicuro, Billy si discosto da lei,


e Rebecca lo vide abbozzare un’espressione di fastidio e una smorfia di
disgusto, la bocca curva verso il basso mentre si muoveva davanti a lei,
dirigendosi verso un angolo della stanza dove un getto di acqua sporca
cadeva su un altro filtro a rete.

L’angolo della stanza era pieno di ossa ammucchiate. Ossa umane, levigate
per anni dal getto

d’acqua e ricoperte da uno spesso strato di muffa verdognola.

Rebecca contò almeno undici crani tra la montagna di femori e costole


incrinate, la maggior

parte delle quali schiacciati e rotti.

“Alcuni dei vecchi esperimenti di Marcus?”, disse Billy a voce bassa; non
era una domanda vera
e propria e Rebecca infatti non rispose, annuendo solamente.

“E la Umbrella”, aggiunse dopo un momento, “... lo incoraggiava. Erano


complici”.

Toccò a Billy non rispondere, tenendo lo sguardo fisso sulle ossa con
un’emozione sconosciuta

rinchiusa nel suo sguardo buio. Un secondo dopo se la scrollò di dosso,


allontanandosi da quei macabri resti umani.

“Cosa ne dici se lasciamo questa cella frigorifera?”, domandò, e benché il


tono sembrasse

leggero, nessuno dei due sorrise.

“Sì”, rispose Rebecca, allungando il braccio e afferrandogli la mano per un


momento, solo per un momento, stringendo forte le sue dita contro le
proprie.

Lui le strinse a sua volta.

“Sì, mi sembra una buona idea”.

Billy si sentiva uno schifo, ma seguì Rebecca mentre si dirigeva verso est,
desiderando con tutte le sue forze di lasciare al più presto quel maledetto
parco divertimenti di Marcus. Prima di svenire, almeno. Mentre avanzavano
in un labirinto di corridoi e stanze, Billy si sentì completamente

disorientato appena dopo aver girato il secondo angolo; Rebecca intanto gli
spiegava quello che le era successo da quando lui era caduto dalla
piattaforma della funivia. Aveva incontrato il capo della sua squadra e in
seguito aveva lottato contro una specie di supercreatura alla Frankenstein,
scontro in cui per poco non ci lasciava la pelle. Aveva trovato anche una
Magnum calibro .50 che

funzionava con alcune delle munizioni che lui si era portato dietro, e
tenendo conto che aveva
ancora con se il fucile, potevano contare su una notevole potenza di fuoco.
In definitiva, Billy pensò che avesse fatto persino meglio di quanto sarebbe
riuscito a far lui nelle stesse circostanze.

Trovarono un dormitorio vuoto e lo sfruttarono per ricaricare le armi. Billy


prese la Magnum e

Rebecca tenne il fucile. C’era una bottiglia d’acqua sigillata sotto una delle
cuccette a castello, si alternarono, entrambi alla disperata ricerca di un po’
d’idratazione. A quanto pareva, nuotare nelle acque fognarie non aiutava
molto a calmare la sete.

Rinfrancato dall’acqua e con le armi cariche, Billy sentì che sarebbe


riuscito a riprendersi dalla nuotata per le rapide. Imboccarono l’uscita a sud
del dormitorio e si ritrovarono in un locale di trattamento industriale,
seguito da un altro identico. Gli ambienti dell’impianto si confondevano
nella mente di Billy; le stanze erano tutte uguali, pareti e pavimenti di
metallo arrugginito, tubature ovunque e muri enormi ricoperti con
attrezzature sconosciute costellate di quadranti e interruttori.

Parte dei macchinari continuava a funzionare, riempiendo i locali con un


rumore metallico; solo Dio sapeva cosa stessero controllando. Billy si rese
conto che non gli importava poi molto. Mentre

continuavano ad avanzare, entrambi potevano sentire l’impeto dell’acqua,


di tanta acqua, sempre più vicina, e dopo aver attraversato un’ampia sala
pompe che si apriva sulla fredda alba, si

ritrovarono su una passerella che attraversava una vera diga. Si fermarono


alcuni istanti,

affacciandosi per contemplare la superficie nera e buia del bacino artificiale


che si estendeva lungo l’edificio dell’impianto da cui erano appena usciti e
la parete d’acqua scrosciante con cui terminava nella sua parte estrema. Il
fragore impediva loro di sentirsi, quindi tornarono indietro rientrando nella
sala pompe, sorridendo. Perlomeno avevano trovato un’uscita. A dirla tutta,
il passaggio conduceva pur sempre a un altro edificio, ma anche solo il
semplice vedere le pallide stelle e la luna bassa fu un’ iniezione di coraggio
per Billy. Il loro incubo all’interno del complesso della Umbrella stava per
finire, lo sentiva, la fine era vicina com’era vero che un nuovo giorno stava
per sorgere.

“Probabilmente la mia squadra è passata da qui, ripulendo la strada”, disse


Rebecca, speranzosa.

Dovevano quasi gridare per sentirsi sopra il fragore della cascata e il


frastuono delle pompe che riempivano parte della stanza. Il riverbero delle
voci risuonò all’interno della vasca piena d’acqua posta proprio nel centro
della sala.

“Mi ha detto che si stavano dirigendo verso est. Praticamente siamo fuori”.

“Credevo avessi detto che Enrico era salito con l’ascensore”, disse Billy.

“Oh, è vero”, ripose Rebecca, e la sua espressione si adombrò. Sbatté le


palpebre rendendosi

conto di quanto dovesse essere stanca.

“Perdonami. L’avevo dimenticato”.

“È comprensibile. Ma hai ragione, siamo praticamente fuori”.

Diede un colpo alla Magnum infilata nella cintura e la manetta sciolta che
gli pendeva dal polso risuonò battendole contro, un inaspettato promemoria
della sua vita prima dell’incidente con la jeep.

Quella vita sembrava così lontana ora, come se fosse stata quella di un altro
uomo...

Ma lo stava aspettando, da qualche parte, là fuori. Abbandonò questi


pensieri, se ne sarebbe

occupato dopo. Abbozzò un leggero sorriso e accarezzò la Magnum.

“Questa è una specie di chiave universale. Apre le porte ed elimina tutti i


portatori di virus
indesiderati, fa tutto ciò che vuoi”.

Rebecca gli restituì il sorriso, fece per dire qualcosa ma si fermò di colpo,
fissandolo negli occhi, entrambi agghiacciati nel sentire il suono degli
spruzzi d’acqua sulla passerella di metallo.

Si girarono contemporaneamente per guardare e videro un gigante


sollevarsi dalla vasca ad

alcuni metri di distanza, un qualcosa che Billy capì istantaneamente essere


il mostro che Rebecca gli aveva descritto, quello dell’ascensore.

Era enorme, bianco, coperto di sangue e ferite; la creatura allungò la mano e


la poggiò al suolo per sollevarsi dall’ acqua, rivelando degli artigli lunghi e
affilati come coltelli con le punte che stridevano contro il metallo della
ringhiera. Billy afferrò la Magnum e indietreggiò, cercando di spingere
Rebecca dietro di sé. Lei si scostò e rimase dov’era col fucile alzato. Gli
ideali eroici di Billy andarono alla deriva quando la creatura li vide e lanciò
un urlo terribile, un suono profondo e folle di odio, carico del desiderio non
solo di ucciderli, ma di mutilare e lacerare. Affrontare quell’energumeno da
solo non era da eroe, ma da stupido suicida.

“Quando comincia a correre non riesce a girarsi molto bene”, lo informò


prontamente Rebecca,

quasi sussurrando. Billy doveva sforzarsi per sentirla sotto il battito ritmico
dei potenti motori delle pompe.

“Se riusciamo a farlo allontanare dalla porta, a fare in modo che corra,
potremmo riuscire a

schivarlo quando cercherà di girarsi”.

Billy mirò accuratamente verso il rozzo viso della creatura. La cosa fece un
passo ed entrambi

indietreggiarono.

“E se invece l’ammazziamo?”
“No”, rispose Rebecca con la voce piena di panico. “Colpendolo lo farai
solo infuriare di più.

L’ho centrato con due colpi di fucile, uno dei quali praticamente a
bruciapelo, ed è ancora in piedi”.

La cosa fece un altro passo, si accovacciò leggermente e tese le gambe


come se stesse per

scattare.

“Corri!”

Billy non se lo fece ripetere due volte. Si voltarono e cominciarono a


correre insieme,

imboccando la parte sinistra del passaggio quadrato. Alle loro spalle si


udirono tre passi risuonare contro il metallo, poi gli artigli del mostro
squarciarono la parete dell’ angolo e ci fu un tremendo stridio quando la
spessa lastra d’acciaio si ripiego come un truciolo di legno.

Billy si girò e alzò la Magnum mentre il mostro si fermava puntando


lentamente verso di loro.

“Continua a correre!”, gridò a Rebecca, mirando verso il tumore rosso che


pulsava mezzo

sepolto nel petto della creatura; quello doveva essere il cuore. Il mostro
avanzò e i suoi opachi occhi si inchiodarono su Billy mentre alzava gli
enormi artigli.

Billy sparò. Il rinculo della potente rivoltella gli scosse la mano e


l’esplosione fu a dir poco assordante all’interno dell’ambiente chiuso. Nel
petto della cosa si aprì un buco enorme, non

direttamente sul cuore, ma vicino. Il sangue cominciò a sgorgare dalla ferita


scivolando lungo il grosso addome bianco. La cosa urlò, producendo un
suono ancor più potente di quello della
Magnum e infinitamente più mortale, ma non cadde.

Cielo, quello avrebbe fermato un elefante...

“Andiamo!”, gridò Rebecca, tirandolo per un braccio. Ma Billy si divincolò


e mirò di nuovo. Se

la cosa sanguinava, poteva morire, e a parte un lanciagranate, la Magnum


calibro .50 era l’arma più adatta per quel lavoro.

Il mostro fece un passo in avanti, vacillante, ma sembrò recuperare subito


l’equilibrio, e il suo sguardo assassino si posò su Billy. Il sangue continuava
a sgorgare dalla ferita, inzuppando

l’inguine senza sesso e i grossi muscoli delle cosce. Quel sorriso,


quell’orribile sorriso... La cosa sembrava ridere, come se non vedesse l’ora
di condividere un qualche scherzo riservato solo a lui.

Billy ipotizzò che molto probabilmente la battuta finale avrebbe incluso una
gag in cui la

creatura gli avrebbe strappato un braccio per poi picchiarcelo a morte.

Mirò al cuore e strinse il grilletto...

Altra tremenda cannonata, più sangue per aria e il mostro urlò nuovamente.

Oh mio Dio, dimmi che quello è dolore!

Ma non cadde. Eppure non cadde ancora. Era difficile dire dove lo avesse
colpito, c’era sangue

dappertutto, ma il cuore continuò a battere.

“Spostati!”

Rebecca scostò Billy e fece un passo in avanti. Alzò il fucile mentre la


creatura cominciava di nuovo ad accovacciarsi e a tendere le gambe. Mirò
in basso, troppo in basso per riuscire a colpire il cuore. Il fucile tuonò e,
finalmente, il mostro cadde con un grido di furia assassina. Strappò

l’acciaio della balaustra con gli artigli, provocando un doloroso stridio


metallico. Billy vide che Rebecca gli aveva fatto saltare un ginocchio, ed
esitò solo per un istante, giusto il tempo di

chiedersi perché non c’avesse pensato anche lui, prima. La creatura non era
morta, ma a meno che non gli fossero spuntate le ali, non sarebbe riuscita a
seguirli molto velocemente. Billy alzò di nuovo la Magnum e mirò al cranio
bianco della cosa che cercava di strisciare usando gli artigli, determinato a
continuare l’attacco.

Ma la creatura riuscì solo a scivolare fino all’acqua scura della vasca, che
ribolliva di una

schiuma rosa mentre questa cercava affannosamente di uscire.

“Uno piccolo spreco di munizioni?”, si domandò Billy a mezza voce,


guardando Rebecca in

cerca della sua approvazione. Per quanto terrificante fosse stato, non si
sentiva troppo umano al pensiero di lasciare che quell’essere si
dissanguasse fino alla morte, soffrendo terribilmente. In un certo senso,
anche lui era una vittima della Umbrella; non aveva chiesto di nascere così.

“Sì”, ripose Rebecca, assentendo con la testa; Billy riconobbe la


compassione nel suo viso, capì che si sentiva proprio come lui.

“Fallo”.

Due colpi secchi, il secondo per sicurezza, e il pesante corpo scivolò


silenziosamente nell’acqua scura, scomparendo sotto la superficie.

QUINDICI

Camminarono lungo la diga sotto la nascente luce del giorno mentre il blu
profondo delle prime
ore dell’alba cedeva il passo a un grigio pallido e sbiadito che nascondeva
tutto, ad eccezione delle stelle più brillanti. Rebecca camminava
tranquillamente vicino a Billy, fissando le nuvole sempre più sparse. Stava
per cominciare un’altra calda giornata estiva anche se, al momento, stava
facendo del suo meglio per non tremare dal freddo; il sole non sarebbe
spuntato prima di un’altra mezzora, almeno. Era stanca, molto più di quanto
lo fosse mai stata in vita sua, ma il solo pensiero che quella lunga e terribile
notte stesse finalmente per finire, e che un nuovo giorno stesse per sorgere,
era abbastanza per impedirle di arrendersi.

In fondo alla passerella della diga c’era una breve scala che dava su una
porta. Salirono — Billy sempre davanti — ed entrarono nella sala delle
turbine; nel locale c’erano numerose ringhiere

arrugginite che delimitavano i passaggi di cemento e forse anche più


tubature rispetto alle stanze precedenti, tutte allineate contro le pareti.
Notarono due porte. Quella a nord portava a un ripostiglio senza uscita.
Quella a ovest era socchiusa e si apriva su un lungo corridoio recintato che
finiva con un’altra porta.

“Proseguiamo?”, chiese Billy. Rebecca annuì.

Probabilmente si sarebbero ritrovati in un altro vicolo cieco, ma preferivano


rimandare il più

possibile il dover ritornare da dove erano venuti. Avevano già visto


sufficiente morte e distruzione; non le andava di tornate a contemplarle.

Rebecca si fermò un momento mentre Billy avanzava lungo il corridoio,


notando il bordo

argentato della pesante porta rinforzata in acciaio, con un lettore di schede


magnetiche sulla parete accanto. Qualcuno aveva fermato la porta
infilandoci sotto un bastone in modo che rimanesse

aperta.
Un bastone bagnato, pensò, mentre si chinava per toccare il legno
luccicante.

Quando ritrasse la mano, si accorse che dei sottili fili di bava le si erano
attaccati alle dita, estendendosi dal bastone. Per mezzo secondo, le balenò
in testa la bizzarra idea che, per qualche ragione, le sanguisughe avessero
aperto e bloccato la porta, ma se la scrollò subito di dosso, ricordando a se
stessa che c’erano sanguisughe disseminate per tutto il complesso. Si ripulì
la mano sul giubbotto e raggiunse Billy, che nel frattempo era quasi arrivato
all’altro estremo del corridoio, intento a ricaricare la Magnum. La porta non
era chiusa a chiave e Billy la spinse. Un altro ingresso di cemento e metallo
che si apriva sull’ennesima stanza. Billy la attraversò sospirando. Rebecca
sospirò insieme a lui; quel posto non sembrava avere fine. Il locale odorava
come una spiaggia con la bassa marea, ma non riuscivano a vedere niente
dall’entrata poiché la stanza era fuori dalla loro vista. Avevano appena fatto
due passi verso l’interno quando sentirono il clic di una serratura e la porta
alle loro spalle si chiuse.

“Chiusura automatica?", chiese Rebecca, aggrottando le sopracciglia.

Billy fece un passo indietro verso la porta e tirò la maniglia.

“Era chiusa anche prima, ma non a chiave. Non ha senso che si attivi la
serratura dopo essere entrati”.

Fu allora che Rebecca udì qualcosa, un suono basso che le fece tremare il
cuore.

Il suono aumento rapidamente di intensità mentre si trasformava in una


risata profonda e secca

proveniente della stanza oltre l’ingresso.

Senza dire una parola, lei e Billy si allontanarono dalla porta, strinsero le
armi in mano e

girarono l’angolo...
Rimasero raggelati mentre contemplavano il vasto mare di vita che li
circondava, e che sembrava ricoprire ogni centimetro quadrato di parete,
gocciolando e strisciando dal soffitto al pavimento.

Sanguisughe, migliaia, centinaia di migliaia di sanguisughe. Il locale era


grande, alto e largo, diviso da un piccolo corridoio che correva fino alla
parete di fondo. Vari inceneritori si allineavano in una struttura centrale che
si sollevava fino al soffitto, le aperture nel metallo lasciavano intravedere
danzanti lingue di fuoco. Cera una grande porta doppia in metallo nella
parete sud, un portone di metallo incassato che sembrava essere l’unica via
d’uscita. Certo, sempre se avevano intenzione di correre sopra tutte quelle
sanguisughe per raggiungerlo, cosa che Rebecca non si sentiva molto

disposta a fare. L’ambiente cavernoso era strutturato su due livelli, una


passerella infatti circondava tutta la struttura centrale. Una fiamma libera
ardeva da un lato del passaggio metallico illuminando con luce tremolante
una figura solitaria, un giovane alto e dalle spalle larghe, che rideva; la sua
voce, forte e strana, risuonava nell’aria salata e putrida.

“Benvenuti", disse, ridendo di nuovo. Aveva delle sanguisughe accoccolate


sulle spalle mentre altre gli percorrevano il braccio teso. Era circondato da
quelle creature. “Sono così felice che abbiate deciso di unirvi a noi. Siete gli
ospiti d’onore... dopotutto, questa è la vostra veglia funebre”.

Rebecca continuò a guardarlo, troppo sorpresa per parlare, ma Billy fece un


passo in avanti e

alzò la voce.

“Sei suo figlio, non è vero? O suo nipote?”

Rebecca capì immediatamente di chi stava parlando, e assentì con la testa.


Ma certo...

“Proprio cosi”, disse il giovane, con un sorriso ampio e diabolico, “In un


certo senso, sono

entrambi”.
Fece un movimento alzando le braccia e cambiò aspetto, la trasformazione
increspò il suo corpo

come se fosse stato d’acqua, come una sorta di effetto cinematografico. I


suoi lunghi capelli scuri si accorciarono sino a divenire bianchi.

I suoi lineamenti giovanili invecchiarono, formando linee e rughe; gli occhi


cambiarono di colore e le pupille si ingrandirono. In cinque secondi del
giovane non c’era più traccia, anche se il suo sorriso era altrettanto freddo e
brutale.

Toccò a Billy rimanere senza parole, mentre Rebecca sussurrava il nome,


incapace di credere che non fosse tutto un trucco.

“Dottor Marcus?”

L’uomo sulla passerella annuì e iniziò a parlare.

“Dieci anni fa, Spencer mi fece assassinare”, disse. I ricordi gli tornarono
alla mente, aiutato dalla moltitudine che ricorda per lui. Le immagini erano
sfocate e scure, senza colore, ma le sensazioni erano tanto forti quanto lo
erano state il giorno in cui aveva perso la vita. Si aspettava un attacco già da
qualche tempo, ma lo avevano colto comunque di sorpresa. Stava lavorando
nel suo laboratorio mentre i piccoli giocavano nella vasca ai suoi piedi,
quando la porta si era aperta improvvisamente e aveva sentito gli spari,
potenti e mortali. Ricordava il dolore di quando era caduto in ginocchio,
stringendosi i fori nel petto e nel ventre, ma ricordava soprattutto di aver
visto due volti familiari, quelli degli uomini che entrarono nella stanza, i
suoi brillanti discepoli, i suoi migliori allievi, che lo fissavano mentre
esalava il suo ultimo respiro.

Albert Wesker e William Birkin, entrambi sorridenti, sorridenti!

Ricordava la sensazione di sconfitta, l’incredibile rabbia che aveva afferrato


la sua mente

moribonda mentre il suo corpo cadeva, spruzzando l’acqua della vasca, e i


suoi piccoli che
strisciavano mentre tutto diventava nero...

... e fu allora che i ricordi erano cambiati, cominciando a trasformarsi nei


pensieri della

moltitudine. Poteva vedere il suo viso e il suo corpo, mezzo sommerso,


pallido e imbruttito dalla morte, ma caro, profondamente caro alla mente
collettiva del suo sciame. Lui era stato il loro dio, il loro creatore e il loro
maestro, era come un padre. Nuotarono fino a lui, si accalcarono strisciando
tra le sue labbra morte, si sforzarono e dimenarono per penetrare nei fori
che erano stati aperti nella sua povera carne.

Marcus continuò a parlare, spiegando ai suoi increduli spettatori quello che


avevano bisogno di sapere, di capire.

“Mi lasciarono lì a marcire. Portarono via i miei appunti e chiusero il


laboratorio, lasciando che tutto andasse in rovina col passare del tempo.
Non capirono, come potete vedere voi stessi, che il tempo era necessario. Ci
vollero degli anni perché il T-Virus si ricombinasse dentro la mia regina,
perché evolvesse... e mutasse nella variante che ha creato ciò che sono ora”.

Sorrise, assaporando il loro muto stupore, godendo di quel momento di


gloria.

“Quindi avete ragione. Sono Marcus, ma sono anche suo figlio e suo nipote,
o qualunque altra

estensione, qualunque altra progenie, l’unione tra Marcus e la sua regina.


La mia regina. Lei vive dentro me. Canta ai suoi piccoli”.

Con l’intensificarsi della sua gioia, del suo trionfo, la moltitudine andò
verso di lui e lo risalì per le gambe, percorrendo la sua forma più familiare,
quella di James Marcus. Rise a crepapelle

vedendo il disgusto passare sulle facce dei suoi due giovani invitati,
crogiolandosi in quella

sensazione. Se solo sapessero!


La fantastica estasi che si provava nell’essere parte dello sciame, dell’essere
il suo leader e il suo seguace allo stesso tempo. La morte di Marcus lo
aveva liberato, lo aveva reso molto più grande di quanto la sua vita mortale
gli avrebbe mai permesso di essere.

“Io ho causato la diffusione del virus”, disse. “Ora il mondo saprà quello
che ha fatto la

Umbrella. Quello che Spencer e la sua stupida avidità hanno architettato. La


Umbrella brucerà, e Marcus sarà acclamato come un dio per ciò che ha
creato. Io sono l’archetipo di un nuovo uomo, di gran lunga superiore
rispetto al vecchio modello di umanità; il mondo mi cercherà, mi pregherà
di unirsi allo sciame, di unirsi in una sola mente, in un essere onnipotente!”

L’uomo, Billy, parlò di nuovo, con un’espressione d’odio sul viso e la voce
tesa di rabbia.

“Tu stai sognando. Sei malato, mostro contorto, o qualunque cosa tu sia. Ed
è vero che il mondo ti cercherà, ma solo per ammazzarti, per farla finita con
i tuoi deliri di pazzia!”

Che sciocco, quanta arroganza nella sua stupidità! Sentì una grande furia
invadere lui e i suoi bambini, macchiando la sua gioia e il suo trionfo.
Sentiva il suo corpo tremare dalla rabbia.

“Vedremo chi sarà a morire”, disse con voce carica di ira, ma non era più la
voce di Marcus, era tornato a trasformarsi nel giovane, o meglio nella
visione dei piccoli di Marcus da giovane. Si accigliò, senza capire molto
bene come o perché si fosse trasformato, lui non l’aveva richiesto, non
aveva né cantato ne voluto il cambiamento di forma.

I piccoli lo ricoprivano, gonfi di rabbia, ignorando i suoi ordini interiori.

Per la prima volta da quando era strisciato fuori dalla vasca solo pochi mesi
prima, e da quando lo sciame gli aveva dato nuova vita, perse il controllo
sulla moltitudine.

I piccoli non lo ascoltavano, volevano solo colpire gli intrusi, schiacciarli.


Il giovane li sentì risalire su per la sua gola, come fossero bile,
soffocandolo.

Cercò di resistere, di esercitare la sua influenza, ma la furia era troppo


poderosa, troppo

onnicomprensiva. Stava cambiando, trasformandosi in qualcosa di


completamente nuovo, e la sua

lotta per il dominio si perse in mezzo al tumulto.

La regina! Poteva sentire la sua volontà riempirlo, il suo potere


impadronirsi di lui, richiamando i suoi piccoli da ogni dove per dar vita alla
sua metamorfosi finale.

La regina voleva uccidere, voleva distruggere i due umani che avevano


osato giudicarla, ed era

molto più forte di quello che Marcus avesse mai immaginato.

La cosa che era stata Marcus non poteva far altro che arrendersi,
abbandonandosi alla

trasformazione che lo avrebbe condotto allo stadio più potente di tutti.


Trasformarsi nella regina stessa.

Marcus iniziò a cambiare di nuovo, mutando in una nuova forma che lo


sorprese tanto quanto

sorprese Billy. Le sanguisughe cominciarono a uscirgli dalla bocca come


conati di vomito. Ne

venivano fuori a dozzine in torrenti di melma, battendo il suolo come grasse


gocce di pioggia.

Gli occhi del giovane erano spalancati e la sua espressione piena di


incredulità, mentre

continuava a rigettare la marea viscida di sanguisughe.


Non appena toccato il pavimento, le creature si affrettavano a risalire sul
giovane ricoprendolo interamente, attaccandosi a lui e penetrandogli il
corpo. Sagome arrotondate si muovevano sotto la sua pelle, cambiando la
forma e la consistenza dei tessuti e della carne. I vestiti si sciolsero mentre
le sanguisughe continuavano ad accalcarsi donando al suo corpo una strana
apparenza gommosa. Le braccia e le gambe iniziarono a sembrare grandi
masse di vermi intrecciati insieme. Il suo volto si allungò e si allargò,
mentre la pelle si strappava mostrando striature elastiche di tessuto
muscolare violaceo, pulsante, che diventava più denso e umido man mano
che si ricopriva di una strana

sostanza appiccicosa.

In piedi vicino a Billy, Rebecca soffocò un grido mentre la creatura-Marcus


perdeva totalmente

le sue sembianze umane. Adesso tutto il suo corpo era formato da grossi
vermi neri, incollati da uno strillante reticolo di limo trasparente. L’essere
aumentò anche di volume; tutte le sanguisughe nelle vicinanze si unirono
alla moltitudine aumentandone massa e altezza. Dei lunghi tentacoli

filamentosi, dal colore rossastro di un’infiammazione o di un’infezione, gli


spuntarono dalla schiena e incominciarono a frustare l’aria come stelle
filanti in una tormenta.

“La regina”, ansimo Rebecca. “Sta prendendo il controllo”.

Billy mirò con la Magnum verso l’enorme creatura, ma la cosa volò verso
l’alto facendo un gran

salto. Colpì il soffitto con il suono di un poderoso schiaffo bagnato e rimase


appesa lì per un istante, mentre dei densi fluidi colavano fino al suolo.
Eccetto per le quattro estremità simili ad arti, la forma umana era
scomparsa,

Billy sparò verso il soffitto, ma la cosa si era lasciata cadere di fronte a loro,
condensandosi leggermente nel toccare il pavimento un po’ come un
gigantesco giocattolo di gomma. L’essere si distese di nuovo e si sollevò al
di sopra di Billy e Rebecca; i suoi tentacoli scuri battevano l’aria mentre si
avvicinavano.

Indietreggiarono istintivamente. L’uomo sentì gli stivali scivolare nel


pestare alcune delle

sanguisughe che ancora coprivano il suolo, udendo le morbide e grasse


esplosioni di ogni creatura sotto i suoi talloni. Rebecca gli afferrò il braccio,
quasi scivolando anche lei sul tappeto di sanguisughe.

La morte dei suoi orrendi piccoli ebbe un effetto immediato. La regina


ritrasse i suoi tentacoli e lanciò un urlo acuto, qualcosa di mai sentito prima,
come un innaturale e melodioso lamento.

Tutte le sanguisughe nella stanza strisciarono immediatamente verso di lei,


allontanandosi dai

piedi assassini di Billy e Rebecca, lasciando loro la strada libera.

La regina continuò a crescere aggiungendo a sé altri piccoli corpi, tanto che


il suo volume

raddoppiò in meno di un minuto. Billy lanciò un’occhiata alle sue spalle,


accorgendosi che si

stavano spingendo verso un vicolo cieco, con la schiena rivolta verso la


porta da cui erano entrati, ormai chiusa. Non dovevano permettere al mostro
di metterli con le spalle ai muro, nel senso

letterale del temine.

Nella parte più a sud del locale c’era sempre il pesante portone incassato
nella parete, ma li

separava un mare di sanguisughe, un mare che si muoveva, che scorreva


verso il sempre più

voluminoso mostro regina-Marcus.


La regina sembrava essersi dimenticata per un attimo della loro presenza
mentre continuava a

richiamare il suo sciame, raggiungendo proporzioni gigantesche con un


morbido sussurro liquido.

“Porta a sud”, suggerì Billy a voce bassa mentre continuavano a


retrocedere. Dovevano agire

velocemente e in quello stesso istante, o avrebbero perso la loro unica


possibilità.

“E se è chiusa?”, sussurrò Rebecca.

“Dobbiamo rischiare”, insistette Billy.

“Io ti copro. Al mio tre. Uno... due... tre! ”

Rebecca cominciò a correre mentre Billy apriva il fuoco contro il gonfio,


gigantesco corpo della regina. Questa gridò, con un lamento acuto carico di
dolore e di odio, e lanciò una manciata di tentacoli veloci come il lampo
verso di lui.

I tentacoli lo afferrarono sollevandolo da terra. Billy perse la presa sulla


Magnum e non riuscì a prendere l’altra pistola mentre veniva scosso
violentemente; la testa gli andava da una parte all’altra e aveva le braccia
immobilizzate dalla forza bruta della creatura. I tentacoli attorcigliati
intorno al suo petto lo stringevano come una morsa, avvolgendolo così forte
da non riuscire più a respirare.

Dopo appena pochi secondi, Billy sentì che stava per perdere conoscenza, e
il mondo che si

scuoteva davanti ai suoi occhi cominciò a trasformarsi in un universo di


brillanti punti neri in dissolvenza. Improvvisamente, udì il potente fragore
del fucile e il mostro gridò ancora una volta.

La regina lo lasciò cadere e si girò per affrontare il suo nuovo nemico. Billy
si schiantò al suolo.
Ignorando il dolore cercò con lo sguardo dove fosse finita la Magnum,
mentre più di cento

sanguisughe si dirigevano verso di lui. Rebecca sparo di nuovo e il mostro


le si avvicinò ancora di più, scuotendo i tentacoli in tutte le direzioni.

Billy si rimise in piedi e vide che Rebecca era di spalle alla creatura. Il
secondo colpo non era stato diretto verso la regina ma a un pannello di
controllo che si trovava vicino alla porta sud. La giovane tornò a sparare e,
contemporaneamente, tirò un violento calcio alla porta. Finalmente la porta
si spalancò ma la regina era già su di lei, due volte più alta e molto più
pesante della ragazza.

La farà a pezzi come se fosse una bambola di carta.

“Ehi!”, gridò Billy. Non aveva tempo per ricaricare la Magnum, ma ne


aveva per riuscire ad

attirare velocemente l’attenzione della regina saltando sull’ondata di


sanguisughe più vicina. Ci camminò sopra, calpestandole e scalciandole con
tutte le sue forze. Ne scoppiarono a dozzine

mentre il sangue e la melma spruzzavano il suolo, inzuppando gli stivali di


Billy. Danzò sui loro corpi agonizzanti, provando una feroce, disinibita
soddisfazione quando la regina si girò di nuovo verso di lui, urlando dalla
disperazione. Billy ebbe appena il tempo di vedere Rebecca che

attraversava la soglia della porta a sud, sentendosi sollevato per appena


mezzo secondo, prima che il mostro lo afferrasse di nuovo lanciandolo
attraverso la stanza con una furia assassina.

Billy si schiantò contro la parete sul fondo. Il dolore lancinante gli fece
capire che doveva essersi rotto una costola nell’atterrare pesantemente sul
pavimento di cemento. Rimase senza respiro, ma in pochi secondi era già in
piedi che correva verso la porta a sud, cercando di respirare mentre le
sanguisughe ancora scoppiavano sotto i suoi stivali.

Il mostro era più o meno alla sua stessa distanza dalla porta.
Billy non impiegò molto a capire che non sarebbe riuscito ad arrivarci
prima della regina, e

pregò silenziosamente chiunque lo stesse ascoltando che almeno Rebecca


potesse uscire viva da lì...

e poi la vide, non all’altro lato della porta sud come credeva, ma in mezzo
alla stanza, con il fucile puntato sulla regina e la schiena rivolta
all’inceneritore centrale. Billy si rese conto che doveva essere tornata di
corsa quando la regina era troppo occupata a lanciarlo contro la parete.

Le gridò di tornare alla porta, ma Rebecca lo ignorò, sparando contro la


regina quando questa era pronta a scagliarsi contro Billy. A ogni colpo, una
manciata di sanguisughe saltava via dell’enorme corpo, ma per ogni
sanguisuga persa, se ne arrampicavano un’altra mezza dozzina. Al quarto
colpo, la regina deviò verso di lei, esitante, come se non sapesse decidere
verso chi doveva andare.

“Vai di là!”, gridò Rebecca. “Io ti raggiungo subito!”

Billy corse verso la porta, pregando Dio che Rebecca avesse un piano. La
giovane continuava a

sparare contro la creatura, caricava e sparava, caricava e sparava, poi Billy


sentì solo un secco clic, l’inconfondibile suono della sconfitta.

Anche la regina lo sentì e iniziò a caricare verso Rebecca. Si lanciò in


avanti con un suono

umido mentre il suo corpo continuava ad aumentare senza limiti. Billy era
arrivato alla porta sud ma si fermò; poteva sentire l’adrenalina percorrergli
tutto il corpo. Si frugò alla ricerca degli ultimi due proiettili per la Magnum.

“Corri!”, gridò, ma Rebecca non si mosse. Non stava ricaricando il fucile e


non stava neanche

tirando fuori la pistola, nonostante la regina avanzasse.


Poi, improvvisamente, afferrò il fucile dalla canna, fece un passo indietro
fino a mettersi vicino alla parete dell’inceneritore, e colpì la lamina di una
tubatura di metallo con il pesante calcio dell’arma, facendo saltare uno dei
pannelli con un contorto stridio metallico. Materiale ardente si sparse sul
pavimento. Rebecca ci saltò proprio in mezzo e cominciò a calciarlo,
lanciando grumi sintetici ardenti e rifiuti fiammeggianti sull’ondata di
sanguisughe che le era più vicina.

La regina gridò e smise di avanzare, ancora lontana dall’inaspettato


incendio. Alcune delle

sanguisughe bruciate strisciarono fino alla loro regina-padre, cercando di


salire sul suo imponente corpo alla ricerca di sollievo e conforto, ma
portando con loro un dolore che si espanse a tutto sciame. Il grido della
regina aumentò di intensità quando le sanguisughe fumanti e ardenti si

unirono a lei, ferendola, facendola contorcere in quella che Billy sperò


essere un’agonia

insopportabile.

Rebecca approfittò dell’occasione per scattare verso la parete sud mentre la


regina si dimenava gridando. Billy svuotò il revolver magnum, facendo
cadere i bossoli al suolo, e ricaricò il tamburo con gli ultimi due colpi,
richiudendolo con un gesto della mano e mirando verso la regina mentre la
ragazza le passava proprio davanti.

Il mostro però sembrava troppo occupato, almeno per il momento; alcune


porzioni del suo corpo

si stavano annerendo e disgregando, sciogliendosi al suolo come melassa


fumante.

Billy continuò a tenere la regina sotto tiro con la Magnum fino a quando
Rebecca non gli passò

davanti e uscì dalla porta sud.


La seguì rapidamente e la ragazza sbarrò la porta non appena fu dentro
anche lui. Billy respirò profondamente e sentì il dolore alle costole, alle
braccia, alle gambe e alla testa, una sorda agonia in tutti i pori del suo
corpo. Fino a quando si girò e vide ciò che Rebecca stava indicando, e
allora un sorriso di gioia gli si dipinse sul volto macchiato. Billy sentì il suo
dolore sparire, tramutato in un fastidioso ricordo davanti a quel sollievo
improvviso.

Si erano chiusi nel pozzo di un enorme montacarichi che saliva verso l’alto,
e a giudicare dalla profondità dell’ampio tunnel che si apriva in diagonale
verso un rettangolo di luce molto, molto lontana, sembrava proprio che
arrivasse in superficie. Si sorrisero come due bambini, troppo colmi di
felicità per potere parlare, ma durò solo per pochi istanti. I sorrisi sparirono
quando l’agonizzante regina torno a ruggire nel locale accanto, un
promemoria di quanto la morte fosse ancora tanto

vicina.

Senza dire neanche una parola, corsero fino alla console di controllo della
piattaforma

montacarichi. Billy studiò i comandi per un istante e alla fine, con una
preghiera speranzosa, attivò l’alimentazione. La piattaforma cominciò a
salire, portandoli in alto, lontano da quell’incubo.

O almeno, così credevano.

SEDICI

L’agonia era eccezionale nella sua misura, uccidendola con una intensità al
di là di ogni sua

conoscenza. I piccoli in fiamme si univano a lei, in cerca di sollievo,


toccandola e toccando i loro fratelli, diffondendo così il dolore in un’ondata
ormai inarrestabile. Andò avanti fino a quando parti del collettivo si
sciolsero, cadenti e morenti; i suoi piccoli si stavano sacrificando in modo
che lei potesse vivere. Lentamente, molto lentamente, l’agonia andò
decrescendo, smise di essere fisica e si trasformò in un’infinita sofferenza
per i morti.

Mentre i feriti si scioglievano, lasciandosi cadere dalle sue avvolgenti


braccia per morire da soli, il resto dei piccoli si avvicinò, cantando
soavemente per lei, calmando il suo tormento come meglio potevano. La
avvolsero, la cullarono e la tranquillizzarono coi loro baci liquidi. Ci volle
solo un momento. La regina perse la sua identità così come Marcus aveva
perso la sua, convertendosi

insieme allo sciame, passando dall’essere in molti a diventare tutti. La


totalità della nuova creatura era integra e sana, un vero gigante, differente
da prima. Più forte. Sentì dei rumori meccanici nelle vicinanze. Si girò
dall’altro lato, interrogò la sua mente per ottenere informazione e capì: gli
assassini stavano cercando di fuggire.

No, non avevano scampo. Lo sciame si raccolse in mille agili zampe e si


diresse verso di loro.

Nessuno dei due voleva pensare che sarebbe potuti incorrere in altri
problemi, ma dovevano

aspettarsi il peggio. Rebecca controllò le pistole mentre Billy ricaricava il


fucile, comunicandosi a vicenda i patetici numeri della loro riserva di
munizioni: quindici proiettili da nove millimetri, quattro cartucce per il
fucile, due pallottole per la Magnum.

“Probabilmente non ne avremo neanche bisogno”, disse Rebecca,


speranzosa, mentre fissava il

crescente bagliore di luce. Il montacarichi era lento, ma costante e si


trovava già quasi a metà strada; sarebbero arrivati in superficie in un minuto
o due. Billy annuì, tenendosi il fianco sinistro con una mano sporca.

“Credo che quella puttana mi abbia rotto una costola”, disse, ma sorrise
leggermente, guardando verso la luce.
Rebecca fece un passo verso di lui, preoccupata, e allungò la mano per
toccargli il fianco, ma

prima che potesse farlo, un allarme cominciò a suonare nel pozzo del
montacarichi. Ogni livello che si lasciavano dietro aveva una porta con
sopra delle luci rosse scintillanti che proiettavano macchie color cremisi
sulla piattaforma.

“Che cosa...?”, cominciò a dire Billy, ma fu interrotto dalla tranquilla voce


femminile di una

registrazione.

“Il sistema di autodistruzione è stato attivato. Tutto il personale deve


evacuare immediatamente la struttura. Ripeto. Il sistema di
autodistruzione...”

“Attivato da chi?”, domandò Rebecca. Billy la zittì tirando su una mano e


continuò ad ascoltare.

“... immediatamente. La sequenza inizierà tra — dieci minuti”.

Le luci continuarono a scintillare e la sirena risuonò senza fermarsi, ma la


voce tacque. Billy e Rebecca si scambiarono uno sguardo preoccupato, non
potevano fare molto. In dieci minuti,

se Dio voleva, sarebbero già stati fuori lì.

“Forse la regina...”, disse Rebecca, ma non finì la frase. Sembrava


improbabile, ma non riusciva a capire come il sistema si fosse attivato.

“Potrebbe essere”, ripose Billy, anche se sembrava dubbioso. “Comunque,


noi due saremo fuori

di qui prima che succeda”.

Rebecca mosse la testa assentendo, e fu allora che sentirono uno schianto


provenire dal basso, il cigolante stridio del metallo che veniva piegato e
spezzato alla base del pozzo del montacarichi.
Entrambi guardarono verso il basso attraverso i buchi della griglia che
ricopriva il pavimento della piattaforma e videro qualcosa che saliva, era la
regina, o per meglio dire, oramai non lo era più. Era qualcosa di molto,
molto più grande, e anche dannatamente più veloce; una gigantesca

massa scura che si dirigeva verso di loro.

Rebecca guardò subito verso l’alto per vedere a che punto fossero.

Solo un altro minuto e saremo fuori...

Tornò a guardare verso il basso e rimase senza fiato vedendo la creatura


ormai vicinissima. Ebbe l’immagine di un’enorme onda sul punto di
schiantarsi, nera e viva, che si apriva avanzando verso di loro a gran
velocità, mostrando l’oscurità del suo interno.

“Oh, merda!”, esclamò Billy.

La piattaforma si piegò da una parte, penetrando il muro del pozzo e


lanciandoli in aria. Rebecca atterrò duramente su un fianco, ma si rimise
immediatamente in piedi, tenendo ancora il fucile

stretto tra le mani. Anche Billy si stava rialzando ad alcuni metri di


distanza. Sotto i suoi piedi alcune linee gialle si irradiavano sulla superficie
di cemento liscio.

Un eliporto. Un eliporto sotterraneo.

Si trovavano in un grande hangar. Nessun elicottero in vista, ma c’erano


alcune pile di

attrezzature meccaniche sparse al suolo. Le piccole isole di metallo


sottolineavano la spaziosità dell’ambiente. Quella poca luce che c’era
proveniva da alcuni raggi di sole che filtravano qua e là dal soffitto mobile,
il che significava che si trovavano solo a un piano al di sotto della
superficie.

Rebecca impiegò lo spazio di un battito di cuore per capire dove fossero,


nel secondo battito
localizzò la regina. O quello che era diventata.

La cosa stava strisciando attraverso il buco irregolare che la piattaforma del


montacarichi aveva aperto nella parete; masse di tentacoli si agitavano sui
pezzi di metallo e di pietra. Mentre passava dal pozzo alla stanza, la sua
forma colossale non sembrava finire mai, era come un’illusione ottica
allucinante. La cosa finalmente si fermò sul pavimento di cemento, era
grande quanto un furgone, lunga e palpitante, con grossi e contorti tentacoli
composti da sanguisughe.

Rebecca la fissò a bocca aperta e quasi cadde quando Billy l’afferrò per il
braccio, tirandola a sé.

“C’è una scala laggiù!”. Billy fece un gesto vago verso un cartello con la
scritta USCITA

dall’altro lato del locale, a una distanza che sembrava incredibilmente


lontana. Come se li avesse sentiti, come se li avesse capiti, la mostruosa
regina avanzò facendo strisciare il suo enorme corpo per terra con
sorprendente velocità, tagliando la loro via di fuga. Si girò verso di loro. I
tentacoli che le uscivano della testa senza forma frustavano l’aria, mentre
una densa pozzanghera di liquido

appiccicoso e nerastro colava dall’orrendo corpo. Poi la cosa cominciò a


ergersi, agitandosi

selvaggiamente da un lato all’altro e lanciando un suono sibilante e acuto.


Dell’autentico fumo nerastro cominciò a salirle dalla schiena, lì dove...

La luce del sole.

Un raggio di sole, sottile ma luminoso, illuminava la schiena della bestia.


La creatura strisciò di lato, spostandosi dalla luce, e riportò la sua
attenzione su di loro.

Billy afferrò di nuovo Rebecca e la tirò indietro. L’allarme del sistema di


autodistruzione
continuava a riecheggiare nell’ eliporto, mentre la tranquilla voce
femminile tornò ad informarli che rimanevano solo otto minuti alla
detonazione.

“Non sopporta la luce del sole!”, gridò Rebecca, mentre si giravano


cominciando a correre. Si

diressero verso l’angolo nordovest dell’eliporto, quello più lontano dal


mostro che continuava a strisciare verso di loro, schivando i raggi di sole.
Non era più tanto veloce come lo era stato nel pozzo del montacarichi, ma
poteva correre veloce quasi quanto loro.

“Hai idea di come aprire il soffitto?”, domandò Billy, mentre lanciava


un’occhiata alle loro

spalle dirigendosi più a nord.

“Non c’è corrente”, ansimò Rebecca. “Ma dovranno pur esserci dei fermi
manuali,

probabilmente idraulici. Se il soffitto è inclinato, si aprirà del tutto nel


momento in cui li attiviamo...

almeno spero”.

“Fallo”, disse Billy, visibilmente senza fiato. “Io provo a distrarla”.

Ribecca assentì con la testa e lanciò un sguardo verso la creatura. Era


rimasta indietro, ma non stava ansimando, a lei non serviva riprendere fiato
come a loro.

Si diresse verso quello che sembrava essere un pannello fissato nella parete
più a est, mentre alle sue spalle Billy si girava cominciando a sparare con la
nove millimetri.

Lo sciame li rincorse. Gli si era staccata parte della materia sulla schiena
dove la luce del sole aveva colpito. La sua coscienza non era del tutto
animale, né umana, ma possedeva elementi di entrambe. Sapeva che il suo
nido era minacciato da un’altra forza, qualcosa che avrebbe distrutto la sua
casa in un batter d’occhio. Sapeva anche che la luce del sole significava
dolore, ma anche

morte; e infine sapeva che i due esseri umani che gli correvano davanti
erano la causa di tutto, erano loro gli artefici della sua imminente fine.

Uno degli umani si fermò, mirò con un’arma e sparò. I proiettili gli
attraversarono la carne,

ferendolo, ma senza penetrare fino al nucleo. Come era successo con le


scottature provocate dal sole, la creatura lasciò cadere la materia ferita e
continuò ad avanzare fin quasi a raggiungerli. Era già abbastanza vicina da
riuscire ad annusare il terrore dell’uomo. Si lanciò in avanti e lo colpì.

Merda!

Billy rovinò al suolo mentre il mostro che era stato la regina saltava verso
di lui. Uno dei

tentacoli sferzanti l’aveva preso per un piede sbattendolo a terra. Cercò di


rotolare per allontanarsi, ma aveva la caviglia destra saldamente bloccata.
Imprecando, Billy si spinse più vicino alla massa della creatura e calpestò
con tutte le sue forze il tentacolo che lo stringeva. Sotto i colpi del tallone
l’appendice si ritrasse e il mostro si contorse, allontanandosi da lui.

Billy saltò in piedi e vide Rebecca nella parete ovest, occupata con un altro
pannello di controllo.

Si girò verso est e corse, guardando indietro per assicurarsi che la cosa lo
stesse seguendo.

“La detonazione inizierà tra — sette minuti.”

Fantastico. Piove sul bagnato, maledizione.

Billy corse più in fretta, spingendosi al limite, ma il mostro che lo inseguiva


era ancora troppo vicino per i suoi gusti. Quando fu sufficientemente
lontano, decise di rischiare, si voltò e vide Rebecca davanti a un altro
pannello di controllo, all’altro lato dell’hangar. Il mostro avanzava verso di
lui ma era ancora troppo lontano, le sue membra protese arrivavano a non
meno di un metro da Billy. Il giovane sparò un altro colpo in quella che
sembrava la faccia del mostro, poi si girò e riprese a correre, incespicando
sulle gambe che sembravano di burro.

La cosa lo seguì, apparentemente inesauribile.

Andiamo, Rebecca, implorò in silenzio, cercando di correre più in fretta.

Rebecca raggiunse il pannello del quarto e ultimo fermo quando la


registrazione li informò che

rimanevano solo altri sei muniti.

Afferrò la ruota che faceva da chiavistello manuale, la girò e... era bloccata.
Non del tutto, ma dovette ricorrere a tutta la sua forza solo per farle fare
mezzo giro. Si sforzò ancora di più e sentì i suoi muscoli urlarle clemenza
mentre riusciva a farla girare ancora un po’.

Andiamo forza...

“Rebecca, muoviti!”

Lanciò uno sguardo alle sue spalle e vide che, in qualche modo, la regina le
si era avvicinata molto, anzi troppo; sarebbe arrivata da lei in trenta secondi
o meno, ma non poteva, non voleva correre via, sapeva che non avrebbe
avuto il tempo necessario per fare il giro e provare di nuovo, quindi si voltò
e provò ancora.

Billy sparò e il suono dei proiettili che penetravano la carne liquida le


sembrò spaventosamente vicino. Non si guardò indietro, sapeva che
avrebbe perso il coraggio se avesse visto quanto vicina fosse la creatura.

“Andiamo!”, urlò, mentre tirava l’ostinata ruota con tutte le forze che le
rimanevano... E la ruota si sbloccò, proprio nel momento in cui un grosso e
umido tentacolo le circondava la caviglia

sinistra, una protuberanza orribilmente viva dal movimento sinuoso e


molliccio. Con un pesante
stridio di ossido polverizzato e ruggine, il soffitto si spalancò e la luce
piovve sopra a tutto.

La luce! La luce!

Lo sciame gridò mentre la morte gli piombava sopra inesorabile, prima


scottando la pelle, poi

sciogliendola. Migliaia di sanguisughe morirono, cadendo; l’incendio era


peggiore del fuoco di prima, poiché questo era contemporaneamente
dappertutto. Tentò di scappare, di trovare riparo da quella tortura, ma non
c’era niente, nessun posto dove andare.

I due umani corsero via sparendo da un buco nella parete, mala creatura non
ci fece caso, non le importava, ormai. Si ritorse arrotolo agonizzante, grandi
pezzi di carne le si stavano strappando cadendo sul pavimento. Ampie
porzioni del suo corpo si disfacevano impiastrando il pavimento di cemento
e poi, finalmente, il suo nucleo rosa e palpitante rimase esposto alla luce
assassina e crudele, la luce purificatrice del giorno.

Quando l’edificio esplose, alcuni minuti dopo, della cosa ormai rimaneva
solo un pugno di

sanguisughe disorientare e confuse che annegavano in quel lago di morte


che un tempo era stato il loro padre, che un tempo era stato James Marcus.

DICIASSETTE

Corsero con ampie falcate tra i tronchi degli alberi nella fresca aria
mattutina.

Billy aveva la sensazione di aver vissuto un’esperienza folle e surreale. Era


passato dallo sparare nell’oscurità a una creatura gigantesca fatta di
sanguisughe al correre liberamente per la foresta, con gli uccelli che
cantavano le loro canzoni mattutine e una leggera brezza che gli agitava i
capelli sporchi e spettinati.
Continuarono a correre. Billy contò silenziosamente a ritroso, fino ad
arrivare vicino a quello che doveva essere lo zero.

Si fermò per guardare indietro mentre Rebecca arrestò la corsa respirando


affannosamente.

Erano usciti dagli alberi ritrovandosi in una piccola radura, proprio sulla
cima di una collina che si affacciava sulla foresta orientale di Arklay.

“Qui sembra sicuro”, disse Billy. Prese una gran boccata d’aria pulita e si
distese al suolo; i suoi muscoli lo ringraziarono. Rebecca fece lo stesso, e
alcuni secondi dopo il conto alla rovescia arrivò al termine.

L’esplosione fu devastante; il suolo tremò e il fragore riempì il bosco


estendendosi nella valle che si apriva sotto di loro. Passato un momento,
Billy si mise seduto e osservò la fluttuante colonna di fumo che si innalzava
sopra le cime degli alberi.

Pensando a tutto ciò che era accaduto, nonostante il dolore, la fame e la


stanchezza emotiva, si sentì in pace contemplando come il fumo di quel
terribile posto spariva nel nuovo giorno. Rebecca si sedette al suo fianco, in
silenzio e con un’espressione quasi sognante. Non c’era niente da dover
dire; erano stati lì entrambi.

Billy si grattò distrattamente il polso che gli prudeva leggermente... e le


manette caddero a terra, atterrando sull’erba con un tintinnio ovattato. Billy
sorrise. A un certo punto, durante la loro avventura, la seconda manetta
doveva essersi allentata. Scosse la testa, pensando a quanto sarebbe stato
meglio averle perse più o meno dodici ore prima. Le raccolse e le lanciò
verso un gruppo di alberi. Rebecca si mise in piedi, diede le spalle al fumo e
si protesse gli occhi dal sole.

“Quello deve essere il posto del quale parlava Enrico”, disse. Billy fece uno
sforzo per alzarsi e si mise al suo fianco. Là, a circa due o tre chilometri
sotto il pendio in cui si trovavano in quel momento, si vedeva un’enorme
tenuta circondata dagli alberi. Le finestre scintillavano sotto la luce
mattutina, dando l’idea che fosse chiusa e vuota.
Billy annuì, e improvvisamente non seppe che cosa dire. Lei doveva
desiderare di riunirsi alla sua squadra. E in quanto a lui...

Rebecca allungò la mano, gli prese le piastrine di identificazione e le tirò


con forza. La catena cedette e Rebecca le legò al suo magro collo mentre
osservava la villa.

“Suppongo sia arrivato il momento di dirci addio”, gli disse.

Billy la guardò, ma lei non gli restituì lo sguardo, continuando invece a


guardare verso il suo nuovo destino, quella silenziosa casa mezza nascosta
tra gli alberi.

“Ufficialmente, il tenente Billy Coen è morto”, aggiunse Rebecca.

Billy cercò di ridere, ma non gli riuscì.

“Già, ora sono un zombie”, scherzò, sorpreso per l’inaspettata sensazione di


malinconia che gli opprimeva il petto e lo stomaco.

Rebecca si girò e lo guardò negli occhi, tenendo il suo sguardo fisso in


quello dell’uomo. Billy vide negli occhi della ragazza sincerità,
compassione e forza.

E capì che anche lei sentiva la stessa strana nostalgia, lo stesso vago dolore
e la stessa tristezza che erano scesi su di lui come una morbida ombra.

Se le cose fossero state diverse... Se le circostanze non fossero quelle che


sono...

Rebecca fece un lieve gesto di assenso, come se fosse entrata nella sua
mente e fosse stata

d’accordo con quello che vi aveva letto. Quindi alzò la testa, spinse indietro
le spalle e scattò in un saluto militare senza smettere mai di guardarlo negli
occhi.

Billy rispecchiò la sua postura e le restituì il saluto, mantenendolo fino a


che lei non lasciò cadere la mano. Senza dire altre parole, Rebecca si voltò
e cominciò ad allontanarsi, dirigendosi verso la leggera pendenza che
discendeva tra gli alberi. Billy la guardò fino a perderla di vista tra le ombre
del bosco, poi si girò, alla ricerca della sua strada. Decise che il sud gli
andava piuttosto bene, e cominciò a camminare, godendosi il caldo del sole
che gli batteva sulle spalle e il canto degli uccelli tra gli alberi.

EPILOGO

L’esplosione lontana raggiunse anche la tenuta Spencer, facendo tremare


leggermente il suolo.

La polvere si spostò sui tavoli. Fili di terra caddero dai soffitti dei tunnel
sotterranei. E le creature che ancora vivevano lì rotearono i loro occhi
ciechi e morti verso le finestre e le pareti, ascoltando, brancolando nel buio,
sperando che il lieve movimento significasse che il cibo sarebbe arrivato
presto. Erano affamate.

FINE

I LIBRI DI S.D. PERRY

Serie «Aliens»

Aliens - Book 3: The Female War

Labyrinth

Berserker

Serie «Resident Evil»

Tyrant il distruttore

Caliban Cove

La città dei morti

L'orrore sotterraneo
Nemesis

Codice Veronica

Zero Hour

Serie «Star Trek: Deep Space Nine»

The Transformation

Rising

Unity
Document Outline
Il Libro
L’Autore
ZERO HOUR
PROLOGO
UNO
DUE
TRE
QUATTRO
CINQUE
SEI
SETTE
OTTO
NOVE
DIECI
UNDICI
DODICI
TREDICI
QUATTORDICI
QUINDICI
SEDICI
DICIASSETTE
EPILOGO
I LIBRI DI S.D. PERRY

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