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Il libro

D a tre anni Citra e Rowan sono scomparsi: da quando cioè la falce Goddard
ha assunto il potere e il Thunderhead si è chiuso in un silenzio che solo
Greyson Tolliver riesce a infrangere. La città-isola di Endura, il “cuore
pulsante” della Compagnia delle falci, è perduta, affondata per sempre nelle acque
dell’oceano, e con lei le Grandi falci. Davvero sembra che ormai nulla possa
impedire il dominio assoluto di Goddard, nominato Suprema Roncola della
MidMerica. E, mentre gli echi della Grande Risonanza scuotono ancora il cuore della
Terra, la domanda è una sola: c’è ancora qualcuno in grado di fermare il tiranno? Gli
unici a saperlo sono la Tonalità, il Rintocco e il Tuono.
Il capitolo finale dell’acclamata Trilogia della Falce vede l’ascesa di profeti e
dittatori e il ritorno di vecchi amici che si credevano persi per sempre. In un mondo
che ha vinto la morte, riuscirà l’umanità a sopravvivere agli esseri immortali che ha
creato?
L’autore

Neal Shusterman

È nato a New York nel 1962. Autore di libri per ragazzi e young adult di grande
successo, ha ricevuto tra gli altri il National Book Award per Il viaggio di Caden. Tra
le altre sue opere Downsiders, Full Tilt e Unwind. La divisione. È anche autore di
sceneggiature per il cinema e la televisione.
Neal Shusterman

IL RINTOCCO
Traduzione di Lia Tomasich
Il rintocco

David Gale, la Suprema Roncola degli editor.


La falciata illuminante della tua penna manca a tutti!
Parte prima
L’ISOLA PERDUTA E LA CITTÀ SOMMERSA
È con profonda umiltà che accetto il titolo di Suprema Roncola della MidMerica.
Avrei voluto che fosse avvenuto in circostanze più liete. La tragedia di Endura
resterà a lungo nella nostra memoria. Le molte migliaia di vite che si sono spente in
quel giorno funesto saranno ricordate finché l’umanità avrà un cuore che batte e
occhi per piangere. I nomi dei defunti resteranno sempre sulle nostre labbra.
È un onore per me sapere che l’atto estremo delle sette Grandi Falci è stato
riconoscermi il diritto di assurgere alla carica di Suprema Roncola; e poiché l’unica
altra candidata ha trovato la morte nella catastrofe, mi sembra inutile riaprire le ferite
con lo spoglio dei voti. Madame Curie e io non ci siamo trovati sempre d’accordo,
ma lei era una delle migliori tra noi e passerà alla storia come una delle più degne
falci di tutti i tempi. Piango la sua scomparsa come tutti, se non di più.
Sono state avanzate numerose ipotesi sull’identità del responsabile del disastro,
perché è chiaro che non si è trattato di un incidente, ma di un deliberato atto
malvagio, studiato nei minimi particolari. Lasciate che metta fine a tutte le voci e
congetture.
Me ne assumo interamente la responsabilità.
Perché è stato il mio apprendista di un tempo a far affondare l’isola. Rowan
Damisch, più noto come Maestro Lucifero, è stato l’artefice di quell’atto
inconcepibile. Se non lo avessi addestrato, se non lo avessi preso sotto la mia ala,
non sarebbe mai potuto arrivare a Endura, né avrebbe sviluppato le competenze
necessarie per perpetrare questo odioso crimine. Quindi, la colpa ricade su di me.
La mia unica consolazione è il fatto che anche Maestro Lucifero ha trovato la morte
nel naufragio, e che le sue azioni imperdonabili si sono inabissate con lui.
Oggi, noi siamo orfani. Non ci sono più le Grandi Falci a guidarci, non esiste più
un’autorità superiore che possa stabilire le regole della Compagnia. Pertanto noi,
uniti, dobbiamo mettere da parte le nostre differenze, una volta per tutte. Il nuovo
ordine e la vecchia guardia devono collaborare per sostenere le falci in ogni parte
del mondo.
A questo scopo, ho deciso di annullare ufficialmente la quota di spigolature nella
mia regione, per rispetto nei confronti di quelle falci che si sentono oppresse da tale
vincolo. Da questo momento in poi, le falci midmericane potranno spigolare le
persone che riterranno opportuno, senza temere di essere punite per non aver
rispettato una quota obbligatoria. La mia speranza è che altre Compagnie facciano
altrettanto e che anche loro aboliscano le quote.
Naturalmente, per compensare l’attività di quelle falci che sceglieranno di fare
meno spigolature, le altre dovranno aumentarne il numero per bilanciare le
differenze. Confido tuttavia che si riuscirà a raggiungere un naturale equilibrio.

Dal discorso inaugurale di Sua Eccellenza


Robert Goddard, Suprema Roncola della MidMerica,
19 aprile dell’anno del Rapace
1
Arrendersi al nemico

Fu preso alla sprovvista.


Un attimo prima dormiva profondamente, un attimo dopo venne preso e
trascinato nell’oscurità da persone sconosciute.
«Non opporre resistenza» gli sussurrò una voce. «Altrimenti, sarà peggio
per te.»
Si oppose, invece. E, anche se era ancora mezzo addormentato, riuscì a
divincolarsi e a lanciarsi nel corridoio.
Chiese aiuto, ma a notte fonda era difficile che ci fosse qualcuno che
potesse intervenire. Svoltò a un angolo, sapendo che a destra avrebbe
trovato una scala; nel buio, prese male le misure e precipitò giù per la
rampa, picchiando con l’avambraccio contro uno scalino di granito. Sentì le
ossa rompersi. Una fitta acuta, che durò solo qualche secondo. Il tempo di
rialzarsi e il dolore si era già calmato; avvertì un benefico calore diffondersi
in tutto il corpo. Erano i naniti, che gli saturavano il sangue di analgesici.
Avanzò con difficoltà, tenendosi stretto il braccio per evitare di piegare il
polso.
«Chi è là?» udì gridare. «Che succede là fuori?»
Avrebbe corso incontro alla voce, se avesse capito da quale direzione
proveniva. I naniti gli annebbiavano la mente: non riusciva a distinguere il
sopra dal sotto, ancora meno la destra dalla sinistra. Che disdetta perdere la
lucidità nel momento in cui ne aveva più bisogno. Sentiva il terreno cedere,
come se stesse camminando sulle sabbie mobili. Procedette sbandando tra
le pareti, cercando di mantenersi in equilibrio, finché non cadde tra le
braccia di uno dei suoi aggressori, che lo afferrò per il polso rotto.
Malgrado gli antidolorifici, la sensazione fu talmente sgradevole che le
forze lo abbandonarono.
«Non potevi rendere tutto più facile, eh?» commentò l’aggressore. «Be’,
ti avevamo avvertito.»
Intravide appena l’ago. Un sottile lampo argenteo nell’oscurità prima che
gli venisse piantato nella spalla.
Fu sopraffatto da un gelo improvviso che gli ghiacciò le vene, e il mondo
parve girare nella direzione opposta. Le ginocchia gli cedettero, ma non
cadde. Troppe mani lo afferravano, ormai, per poter finire a terra. Fu
sollevato e trasportato per aria, oltre una porta, e si ritrovò in una notte
tempestosa. In un ultimo barlume di coscienza, non poté fare altro che
arrendersi al nemico.

Al suo risveglio, il braccio era guarito: doveva essere rimasto incosciente


per ore. Cercò di muovere il polso, ma non ci riuscì. Non perché fosse
ferito, ma perché era stato legato, mani e piedi. Aveva anche la sensazione
di soffocare. Gli avevano infilato una specie di sacco in testa. Abbastanza
permeabile da consentirgli di respirare, abbastanza spesso da rendergli
faticoso ogni respiro.
Anche se non aveva idea di dove lo avessero portato, sapeva di cosa si
trattava. Il termine giusto era rapimento. La gente lo faceva per divertirsi.
Come sorpresa per un compleanno o per rendere più avventurosa una
vacanza. Ma questo non era un rapimento per ridere, era tutto vero; e
benché non conoscesse l’identità dei suoi sequestratori, conosceva il motivo
per cui lo avevano preso. Come avrebbe potuto non saperlo?
«C’è qualcuno?» chiese. «Non respiro qui dentro. Se muoio, non ti sarà
di nessuna utilità, vero?»
Percepì un movimento intorno a sé, poi con un gesto brusco gli tolsero il
sacco dalla testa.
Era in una stanzetta senza finestre, e la luce lo accecò, ma solo perché lo
avevano lasciato a lungo al buio. Davanti a lui, c’erano tre persone. Due
uomini e una donna. Si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte a loschi
irriducibili, e invece non era così. Sì, erano loschi, ma lo erano tutti, ormai.
Be’, quasi tutti.
«Sappiamo chi sei» disse la donna al centro, che pareva essere il capo,
«e sappiamo che cosa puoi fare.»
«Che cosa potrebbe fare» precisò uno degli altri due. Portavano tutti e tre
abiti grigi sgualciti, del colore di un cielo nuvoloso. Erano agenti Nimbus, o
almeno lo erano stati. Pareva che non si fossero cambiati d’abito dal giorno
in cui il Thunderhead aveva smesso di parlare, come se, indossando
l’uniforme, potessero illudersi di avere ancora una missione da compiere.
Agenti Nimbus che ricorrevano al rapimento. Il mondo era impazzito!
«Greyson Tolliver» disse lo scettico che, consultando un tablet, si mise a
riassumere i fatti salienti della vita di Greyson. «Bravo studente, ma non
eccelso. Espulso dall’Accademia midmericana dei Nimbus per violazione
della legge della separazione tra falci e Stato. Colpevole di numerosi
crimini e reati con il nome di Slayd Bridger, in particolare della morte di
ventinove persone a bordo di un autobus caduto da un ponte.»
«E il Thunderhead avrebbe scelto questo essere squallido?» esclamò il
terzo agente.
La donna alzò la mano per farli tacere, poi rivolse lo sguardo a Greyson.
«Abbiamo frugato nel cervello primordiale da cima a fondo, e siamo
riusciti a trovare un solo individuo che non sia un losco: tu.» Lo fissò con
un’aria strana, un misto di emozioni diverse. Curiosità, invidia… ma anche
una specie di venerazione. «Questo vuol dire che puoi ancora parlare con il
Thunderhead. È così?»
«Chiunque può parlare con il Thunderhead» sottolineò Greyson. «Sono
solo l’unico a cui risponde.»
L’agente con il tablet emise un profondo sospiro di sollievo. La donna gli
si avvicinò. «Sei un miracolo, Greyson. Un miracolo. Lo sai?»
«È quello che dicono i tonisti.»
A sentirli nominare, i tre agenti risero beffardi.
«Sappiamo che ti hanno tenuto prigioniero.»
«Be’… non proprio.»
«Sappiamo che sei rimasto con loro contro la tua volontà.»
«All’inizio, forse… ora non più.»
Gli agenti non parvero gradire molto quelle risposte. «Perché mai
vorresti restare con i tonisti?» chiese l’agente che, un momento prima, lo
aveva chiamato “essere squallido”. «Non crederai davvero alle loro
scemenze…»
«Resto con loro» replicò Greyson, «perché non mi rapiscono in piena
notte.»
«Noi non ti abbiamo rapito» ribatté l’uomo con il tablet. «Ti abbiamo
liberato.»
Fu allora che la donna si inginocchiò davanti a lui, con il viso all’altezza
del suo. Adesso Greyson vedeva qualcos’altro in quegli occhi, qualcosa che
sovrastava tutte le altre emozioni. La disperazione. Un abisso di
disperazione, scuro e divorante come una colata di catrame. E Greyson si
rese conto che non era la sola a provare quel sentimento: era un sentimento
collettivo. Aveva visto molti altri in preda allo sconforto da quando il
Thunderhead aveva smesso di rispondere, ma mai aveva percepito un
avvilimento così profondo come in quella stanza. Tutti i naniti del mondo
non avrebbero potuto alleviare quella disperazione. Sì, era Greyson che era
legato, ma loro erano più prigionieri di lui, intrappolati nel loro stesso
abbattimento. Non gli dispiaceva che gli si inginocchiassero davanti; era
come se lo supplicassero.
«Per favore» lo implorò la donna. «So di parlare a nome di molti di noi
dell’Interfaccia dell’Autorità quando dico che servire il Thunderhead era
tutta la nostra vita. Ora che ha smesso di comunicare con noi, è come se non
avessimo più una ragione di esistere. Per cui, ti prego… puoi per favore
intercedere per noi?»
Che altro poteva rispondere se non: “Capisco il vostro dolore”? Perché
era la verità. Conosceva la solitudine e la miseria di vedersi sottrarre lo
scopo della propria vita. Ai tempi in cui aveva assunto l’identità di Slayd
Bridger, il losco in incognito, aveva creduto che il Thunderhead lo avesse
davvero abbandonato. Ma non era così. Gli era rimasto accanto per tutto il
tempo, a vegliare su di lui.
«C’era un auricolare sul mio comodino» disse. «Non l’avete preso voi,
per caso?» E, dal loro silenzio, capì che no, non l’avevano preso loro. Di
solito, quel genere di effetti personali veniva dimenticato quando si
prelevava qualcuno in piena notte.
«Non importa» aggiunse. «Datemene uno vecchio, uno qualsiasi.»
Lanciò un’occhiata all’agente con il tablet. Portava ancora l’auricolare
dell’Interfaccia dell’Autorità. Continuava a far finta di nulla. «Dammi il
tuo» disse Greyson.
L’uomo scosse la testa. «Non funziona più.»
«A me funzionerà.»
Con riluttanza, l’agente se lo tolse e lo infilò nell’orecchio di Greyson.
Poi, i tre rimasero in attesa che il ragazzo mostrasse loro il miracolo.

Il Thunderhead non ricordava il momento in cui aveva preso coscienza di


esistere; ricordava solo che esisteva, proprio come un bambino che
all’inizio non ha coscienza di sé come persona, ma poi acquisisce una
conoscenza del mondo che lo circonda tale da capire che la coscienza va e
viene, finché questa va e non torna più. Per quanto quell’ultima parte
risultasse ostica anche ai più illuminati.
La coscienza del Thunderhead era arrivata con una missione. Lo scopo
precipuo della sua stessa esistenza. Era, soprattutto, servitore e protettore
dell’umanità. In quanto tale, si trovava ad affrontare regolarmente scelte
difficili, ma aveva tutta la ricchezza della conoscenza umana per prendere
delle decisioni in merito. Come, per esempio, permettere che Greyson
Tolliver venisse rapito, per servire un fine molto più grande. Quella era,
naturalmente, la strada da seguire. Tutto ciò che il Thunderhead faceva era
sempre, e in ogni caso, la cosa giusta da fare.
Ma era raro che la cosa giusta si rivelasse anche la più facile. E cominciò
a sospettare che sarebbe stato sempre più difficile, con il passare del tempo,
fare la cosa giusta.
Per il momento, forse, la gente non capiva perché avesse agito così,
tuttavia alla fine se ne sarebbe fatta una ragione. Il Thunderhead doveva
convincersene. Non solo perché glielo diceva il suo cuore virtuale, ma
anche perché aveva calcolato le probabilità delle sue scelte.

«Vi aspettate davvero che vi dica qualcosa, dopo che mi avete legato così a
una sedia?»
All’improvviso, i tre agenti Nimbus si precipitarono a liberarlo. Ormai si
mostravano remissivi e reverenziali, come i tonisti in sua presenza. Aver
vissuto per mesi rinchiuso in un monastero tonista lo aveva tagliato fuori
dal mondo esterno, ignorando anche quale fosse il suo posto in quel mondo.
Ora, stava iniziando a farsi un’idea più precisa di come stavano le cose.
Dopo averlo slegato, gli agenti Nimbus parvero più sollevati, come se
avessero in qualche modo temuto di essere puniti se non l’avessero fatto
abbastanza in fretta. “È strano quanto il potere possa cambiare di mano in
modo così radicale, di punto in bianco” pensò Greyson. Ora, quei tre erano
alla sua totale mercé. Avrebbe potuto far credere loro qualsiasi cosa.
Avrebbe potuto dire che il Thunderhead voleva che si mettessero a quattro
zampe e che abbaiassero come cani, e loro avrebbero obbedito.
Si prese il suo tempo, per tenerli un po’ sulle spine.
«Ehi, Thunderhead» esordì. «C’è qualcosa che vuoi che io dica a questi
agenti Nimbus?»
Il Thunderhead gli parlò nell’orecchio. Greyson ascoltava. «Ehm…
interessante.» Poi, si voltò a guardare la leader del gruppo e fece il sorriso
più caloroso che gli riuscì in quelle circostanze.
«Il Thunderhead dice che vi ha lasciato rapirmi. Sa che le tue intenzioni
sono onorevoli, signora direttrice. Hai un cuore buono.»
La donna soffocò un gemito di sorpresa e si mise la mano sul petto,
come se lui l’avesse toccata. «Sai chi sono io?»
«Il Thunderhead vi conosce tutti e tre, forse anche meglio di quanto vi
conosciate voi stessi.» Si voltò a guardare gli altri. «Agente Bob Sykora:
ventinove anni di servizio come agente Nimbus. Buona valutazione, ma non
eccelsa» aggiunse con malizia. «Agente Tinsiu Qian: trentasei anni di
servizio, specializzato nella soddisfazione dei dipendenti.» Poi, tornò a
guardare la donna. «E tu: Audra Hilliard, una degli agenti più abili della
MidMerica. Quasi cinquant’anni di encomi e promozioni, finché non ti è
stata conferita la carica più importante della regione. Direttrice
dell’Interfaccia dell’Autorità di Fulcrum City. O almeno, lo sei stata fino a
quando è esistita l’Interfaccia dell’Autorità.»
Sapeva che quelle ultime affermazioni li avevano toccati nel vivo. Era
stato un colpo basso, ma il fatto di essere stato legato con un sacco in testa
lo aveva messo un po’ di malumore.
«Dici che il Thunderhead ci sente ancora?» chiese la direttrice Hilliard.
«Che veglia ancora su di noi?»
«Come sempre» rispose Greyson.
«Allora, per favore… domandagli di darci lumi. Di spiegarci cosa
dobbiamo fare. Senza guida, noi agenti Nimbus non abbiamo più uno
scopo. Non possiamo continuare così.»
Greyson annuì e riprese a parlare alzando gli occhi al cielo, per fare
scena. «Thunderhead, hai dei consigli per loro?»
Greyson ascoltò, chiese al Thunderhead di ripetere, poi si voltò verso i
tre agenti che aspettavano con il fiato sospeso.
«8.167, 167.733.»
Restarono a guardarlo a bocca aperta.
«Cosa?» chiese infine la direttrice Hilliard.
«È quello che ha detto il Thunderhead. Volevate uno scopo, e questo è
ciò che mi ha dato.»
L’agente Sykora digitò velocemente i numeri sul tablet.
«Ma… ma che significa?» domandò la direttrice Hilliard.
Greyson alzò le spalle. «Non ne ho idea.»
«Di’ al Thunderhead di spiegarci!»
«Non ha altro da aggiungere… Ma vi augura un buon pomeriggio.»
Strano… fino a quel momento, Greyson aveva ignorato che parte della
giornata fosse.
«Ma… ma…»
Poi, la serratura della porta si aprì. Non solo quella, ma tutte le serrature
dell’edificio, per gentile concessione del Thunderhead; e in un istante, i
tonisti si riversarono nella stanza, afferrarono gli agenti Nimbus e li
immobilizzarono. L’ultimo a entrare fu il curato Mendoza, il capo del
monastero tonista in cui Greyson aveva trovato asilo.
«La nostra setta non predica la violenza» disse Mendoza agli agenti
Nimbus. «Ma in momenti come questo, me ne rammarico, e parecchio!»
L’agente Hilliard, con la disperazione negli occhi, continuava a fissare
Greyson. «Ma hai detto che il Thunderhead ha lasciato che ti liberassimo!»
«Sì, è vero» rispose Greyson, allegro. «Ma ha voluto anche liberarmi dai
miei liberatori.»

«Avremmo potuto perderti» commentò Mendoza, ancora sconvolto, molto


tempo dopo che lo ebbero liberato. Il corteo di veicoli, tutti con guidatore,
stava tornando al monastero.
«Non mi avete perso» ribatté Greyson, stanco di sentire l’uomo
tormentarsi per l’accaduto. «Sto bene.»
«Ma sarebbe potuta finire male se non ti avessimo trovato.»
«Come siete riusciti a trovarmi?»
Mendoza tentennò per qualche istante. «Non siamo stati noi. Ti abbiamo
cercato per ore, poi all’improvviso sui nostri schermi è apparsa una
destinazione.»
«Il Thunderhead» comprese Greyson.
«Sì, il Thunderhead» ammise Mendoza. «Anche se non capisco perché ci
abbia messo così tanto a scoprire dov’eri, se ha telecamere ovunque.»
Greyson preferì tenere per sé la verità, vale a dire che il Thunderhead
non ci aveva messo tanto, che aveva sempre saputo dove si trovava. Aveva
avuto i suoi buoni motivi per prendersi il tempo che gli serviva. Come
aveva avuto i suoi buoni motivi per non avvertirlo del rapimento.
“Il sequestro doveva sembrare il più credibile possibile agli occhi dei
tuoi rapitori” gli aveva detto il Thunderhead, dopo il fatto. “Quindi era
necessario che lo fosse davvero. Credimi, quando ti dico che non sei mai
stato in pericolo.”
Per quanto fosse gentile e premuroso, Greyson aveva notato che il
Thunderhead spesso infliggeva, senza volerlo, questo tipo di crudeltà alle
persone. Dato che non era umano, alcune cose gli sfuggivano, nonostante la
sua empatia e la sua intelligenza fossero immense. Per esempio, non
arrivava a comprendere che il terrore dell’incognito era così atroce, e tanto
reale, a prescindere dal fatto che ci fosse veramente qualcosa da temere.
«Non volevano farmi del male» disse Greyson a Mendoza. «Sono persi
senza il Thunderhead.»
«Come tutti» replicò il curato, «ma questo non dà loro il diritto di
strapparti dal tuo letto.» Scosse la testa, infuriato, ma più con se stesso che
con loro. «Avrei dovuto prevederlo! Gli agenti Nimbus hanno accesso al
cervello primordiale più degli altri, e naturalmente cercavano chiunque non
fosse classificato come losco.»
Forse Greyson si era illuso di poter restare sconosciuto. Non era mai
stato nella sua natura farsi notare. Ora, era unico nel suo genere,
letteralmente. Non aveva idea di come gestire quella sua nuova condizione,
ma di sicuro avrebbe dovuto imparare.
“Dobbiamo parlare” gli aveva detto il Thunderhead il giorno in cui
Endura era sprofondata, e da allora non aveva smesso di parlargli. Gli aveva
detto che aveva un ruolo fondamentale da svolgere, ma non quale fosse.
Non amava dare risposte, a meno che non potesse esprimersi con una certa
sicurezza e, sebbene avesse la capacità di indovinare ciò che sarebbe
accaduto, non era un oracolo. Non era in grado di predire il futuro, solo le
probabilità di ciò che sarebbe potuto avvenire. Nel migliore dei casi, una
specie di sfera di cristallo appannata.
Il curato Mendoza tamburellava nervosamente le dita sul bracciolo.
«Questi maledetti agenti Nimbus non saranno gli unici a cercarti» disse.
«Dobbiamo mettere fine a tutto questo.»
Greyson sapeva dove si stava andando a parare. Era l’unica persona al
mondo in grado di comunicare con il Thunderhead e non poteva più
nascondersi; era ora che cominciasse a dare forma a quel ruolo che gli era
stato assegnato. Avrebbe potuto domandare aiuto al Thunderhead per
questo, ma non voleva. Il tempo che aveva passato come losco, tagliato
fuori da ogni comunicazione, era stato terrificante, ma anche liberatorio. Si
era abituato a prendere decisioni da solo e aveva imparato a conoscere
meglio se stesso. La scelta di uscire dall’ombra sarebbe stata solo sua, non
avrebbe chiesto il consiglio o il parere del Thunderhead.
«Devo uscire dall’anonimato» decise infine Greyson. «Che il mondo
sappia… ma alle mie condizioni.»
Mendoza lo guardò e sorrise. Greyson capì che aveva qualcosa in mente.
«Sì» assentì il curato. «Dobbiamo portarti sul mercato.»
«Mercato?» chiese Greyson. «Non è esattamente quello che pensavo…
non sono un pezzo di carne.»
«No» ammise il curato, «ma l’idea giusta al momento giusto può essere
soddisfacente quanto la migliore bistecca.»

Era ciò che Mendoza aveva tanto aspettato: il permesso di organizzare la


grande entrata in scena di Greyson. L’idea doveva venire da lui, perché il
curato sapeva che, se qualcuno gli avesse forzato la mano, si sarebbe
opposto. Forse in quella sgradevole vicenda del rapimento c’era del buono,
tutto sommato, perché aveva fatto aprire gli occhi al ragazzo, che ora
riusciva a vedere ben oltre il suo naso. E sebbene nel profondo Mendoza
avesse dubitato dei precetti tonisti, di recente la presenza di Greyson gli
aveva ridato la fede.
Mendoza era stato il primo a credere a Greyson quando aveva sostenuto
che il Thunderhead gli parlava ancora. Aveva sentito che il ragazzo
rientrava in un piano più ampio, e forse anche lui stesso ne faceva parte.
“Sei venuto da noi per un motivo” gli aveva detto quel giorno. “Questo
evento, la Grande Risonanza, risuona in più di un modo.”
Ora, a bordo della berlina, a distanza di due mesi da quella discussione,
cominciavano a fare sul serio, e Mendoza si sentiva incoraggiato,
rafforzato. Quel giovane senza pretese stava per dare alla fede tonista, e a
Mendoza stesso, una nuova dimensione.
«La prima cosa di cui hai bisogno è un nome.»
«Ne ho già uno» replicò Greyson, ma Mendoza liquidò l’idea.
«È banale. Devi presentarti al mondo come una persona fuori
dell’ordinario. Una persona… superlativa.» Il curato lo guardò, cercando di
inquadrarlo sotto una luce più lusinghiera, più sottile. «Tu sei un diamante,
Greyson. Ora dobbiamo trovare il giusto castone che possa farti
risplendere!»

Diamanti.
Quattrocentomila diamanti, conservati in una camera blindata all’interno
di un’altra camera blindata, persa in fondo al mare. Uno solo valeva una
vera fortuna, che sarebbe stata incomprensibile per la maggior parte dei
mortali, perché non erano comuni gioielli. Erano diamanti delle falci. Quasi
dodicimila erano nelle mani delle falci viventi, ma non erano nulla in
confronto alle gemme conservate nella Camera delle Reliquie e dei Futuri,
sufficienti a soddisfare le necessità di spigolatura per gli anni a venire,
sufficienti per adornare tutte le falci che sarebbero state ordinate da qui alla
fine del tempo.
Erano diamanti perfetti. Identici. Non presentavano il minimo difetto, a
parte la macchia scura al centro, che però non era un difetto; era voluta.
“I nostri anelli ci ricordano che abbiamo migliorato il mondo che la
natura ci ha dato” aveva proclamato la Suprema Roncola Mondiale
nell’anno del Condor, quando era stata fondata la Compagnia. “È nella
nostra natura… superare la natura.” E, osservando il nucleo dell’anello
indossato dalle falci, saltava subito agli occhi, perché dava l’illusione di
avere una profondità ben oltre lo spazio che occupava. Una profondità al di
là della natura.
Nessuno aveva idea di come fossero fatti, perché tutta la tecnologia non
controllata dal Thunderhead era andata persa. Ormai erano in pochi al
mondo a essere a conoscenza di come funzionavano davvero le cose. Tutte
le falci sapevano che gli anelli erano collegati gli uni con gli altri, e anche
alla banca dati delle falci, in una modalità tenuta segreta. Ma, visto che i
computer della Compagnia non rientravano nella giurisdizione del
Thunderhead, erano spesso soggetti ai guasti, alle anomalie e a tutti i
problemi che avevano afflitto i rapporti tra macchine e umani nei tempi
passati.
Eppure, gli anelli non sbagliavano mai.
Facevano esattamente ciò che dovevano fare: catalogavano gli spigolati,
prelevavano un campione di DNA dalle labbra delle persone che li baciavano
per poter offrire loro l’immunità ed emanavano un bagliore per segnalare
alle falci i soggetti immunizzati.
Ma se si fosse domandato a una falce di indicare l’aspetto più importante
dell’anello, quella lo avrebbe alzato alla luce, osservandone la luminosità, e
avrebbe risposto che, sopra qualsiasi altra cosa, l’anello era il simbolo della
Compagnia e della perfezione post mortale. Una dimostrazione della
condizione sublime ed elevata delle falci… e una testimonianza della
solennità della loro missione nel mondo.
Ma tutti quei diamanti perduti…
«A cosa ci servirebbero?» chiedevano ormai molte falci, sapendo che la
loro scomparsa rendeva i loro anelli ancora più preziosi. «Ci servono per
ordinare nuove falci? Perché ci servono altre falci? Bastiamo noi, per
compiere la nostra missione.» E, senza la supervisione sul resto del mondo
da Endura, molte Compagnie regionali seguivano il modello della
MidMerica e abolivano le quote di spigolatura.
Ora, nel mezzo dell’Atlantico, nel punto in cui un tempo Endura si
ergeva sopra le onde, le falci di tutto il mondo avevano decretato
all’unanimità la creazione di un “perimetro di rispetto”. A nessuno era
concesso navigare vicino al punto in cui Endura era sprofondata, per
ossequio alle migliaia di vite che si erano spente. In realtà, Goddard, la
Suprema Roncola della MidMerica, uno dei pochi sopravvissuti di quel
terribile giorno, sosteneva che il perimetro di rispetto dovesse essere
mantenuto per sempre, e che nulla dovesse mai turbare ciò che era al di
sotto della superficie.
Ma, prima o poi, quei diamanti sarebbero stati ritrovati. Era raro che gli
oggetti di valore si perdessero per sempre. Specialmente quando tutti
sapevano dov’erano.
Noi, falci della regione subsahariana, respingiamo con fermezza l’abolizione delle
quote stabilita dalla Suprema Roncola Goddard. Le quote sono in essere da tempo
immemore come mezzo per regolare le spigolature. E, benché non siano uno dei
comandamenti ufficiali delle falci, ci hanno permesso di restare sulla retta via. Ci
hanno impedito di diventare sia troppo sanguinari sia troppo indulgenti.
Mentre molte regioni hanno abolito le quote, il SubSahara si schiera con
Amazzonia, Israebia e numerose altre che si oppongono a questo sconsiderato
cambiamento.
Inoltre, proibiamo a tutte le falci midmericane di venire a spigolare sul nostro
territorio e incoraggiamo le altre regioni a unirsi a noi per impedire al cosiddetto
nuovo ordine di Goddard di imporre il suo dominio assoluto sul mondo.

Proclama ufficiale di Sua Eccellenza Tenkamenin,


Suprema Roncola del SubSahara
2
La festa è già iniziata

«Quanto manca ancora?»


«Non ho mai visto una falce così impaziente.»
«Allora non conosce molte falci. Siamo una specie impaziente e
irascibile.»
Il Venerando Maestro Sydney Possuelo dell’Amazzonia era già presente
quando il comandante Jerico Soberanis arrivò sul ponte, appena dopo il
sorgere del sole. Jerico si chiese se quell’uomo dormisse mai. Forse le falci
assoldavano le persone per dormire al loro posto.
«Ancora una mezza giornata a tutta velocità» rispose Jerico. «Saremo lì
per le 18 come le ho detto ieri, eccellenza.»
Possuelo sospirò. «La sua nave è troppo lenta.»
Il comandante abbozzò un sorriso. «Ha atteso tutto questo tempo, e ora
ha fretta?»
«Il tempo non è mai importante finché qualcuno non decide che lo è.»
Jerico non poteva mettere in discussione quella logica stringente. «Nel
migliore dei mondi, questa missione si sarebbe conclusa molto tempo fa.»
«In caso non l’avesse notato, questo non è più il migliore dei mondi»
replicò Possuelo.
In quell’affermazione c’era del vero. Quantomeno, non era il mondo in
cui era cresciuto Jerico. In quel mondo, il Thunderhead faceva parte della
vita di quasi tutta l’umanità. Gli si poteva chiedere qualunque cosa,
rispondeva sempre, e le sue risposte erano precise, esaurienti e piene di
saggezza, come dovevano essere.
Quel mondo era svanito. Gli esseri umani erano stati classificati come
loschi, e la voce del Thunderhead si era spenta.
Jerico era stato schedato come losco già una volta in passato, quando era
solo un adolescente. Non era stato molto difficile: erano bastati tre furti in
un negozio di alimentari della zona. Jerico se n’era vantato per meno di una
giornata. Poi, le conseguenze delle sue azioni si erano fatte sentire. Che la
comunicazione con il Thunderhead si fosse interrotta non lo disturbava più
di tanto, ma erano piuttosto altri fattori che lo infastidivano. I loschi erano
sempre gli ultimi in fila alla mensa della scuola e a loro venivano riservate
le pietanze che gli altri rifiutavano. I loschi erano obbligati a sedersi in
prima fila, in classe, perché gli insegnanti potessero tenerli d’occhio. E,
anche se Jerico non era stato escluso dalla squadra di calcio, le riunioni con
il suo funzionario per la libertà vigilata venivano sistematicamente
programmate in contemporanea con le partite. Era voluto, senza dubbio.
All’inizio, Jerico aveva pensato che il Thunderhead agisse così per
rancore, ma, con il tempo, aveva capito che voleva solo dargli una lezione.
Essere loschi era una scelta, e toccava a lui decidere se valesse davvero la
pena condurre quella vita.
Aveva imparato la lezione. Quell’assaggio di vita da losco gli era
bastato. Aveva dovuto rigare dritto per tre mesi per farsi togliere quella L
rossa dalla carta d’identità. Una volta sparita, non aveva mai più desiderato
di ripetere quell’esperienza.
“Sono lieto che ti abbiano cambiato lo status” gli aveva detto il
Thunderhead, quando aveva potuto comunicare di nuovo con lui. In
risposta, Jerico gli aveva chiesto di accendere le luci della camera da letto,
per rimetterlo al suo posto. Era un servo. Era il servo di tutti. Doveva fare
ciò che Jerico gli ordinava. Quel pensiero era rassicurante.
E poi era intervenuto lo scisma tra l’umanità e la sua creazione più
grande. Endura si era inabissata in mare, e il Thunderhead aveva dichiarato
losco tutto il genere umano in un colpo solo. In quel momento, nessuno
poteva sapere esattamente quale effetto avrebbe avuto la perdita del
Consiglio mondiale delle falci sul mondo, ma il silenzio del Thunderhead
aveva gettato tutti nel panico. Essere loschi non era più una scelta, ora era
una condanna. E quel silenzio bastava a far passare il Thunderhead dalla
servitù alla superiorità. Il servo si era trasformato in padrone, e adesso
ognuno faceva a gara per compiacerlo.
“Come posso liberarmi da questa condanna?” urlava la gente. “Che cosa
posso fare per riguadagnarmi la benevolenza del Thunderhead?” Il
Thunderhead non aveva mai chiesto di essere adorato, eppure adesso lo
adoravano, e ormai le persone si facevano in quattro per lui, nella speranza
di attirare la sua attenzione. Certo, il Thunderhead sentiva le grida disperate
dell’umanità. Era sempre onnisciente, ma ora si teneva le sue opinioni per
sé.
Nel frattempo, gli aerei continuavano a volare, i droni-ambulanza
continuavano a recuperare i morti, si continuava a produrre e distribuire il
cibo… il Thunderhead continuava a far funzionare il mondo con la stessa
precisione di sempre; faceva quello che riteneva giusto per l’intera razza
umana. Ma, se si voleva che l’abat-jour si accendesse, bisognava
arrangiarsi.
Maestro Possuelo rimase ancora un po’ sul ponte, a monitorare
l’avanzare della nave. Navigavano su un mare calmo come l’olio, una
traversata di una noia mortale, soprattutto per chi non c’era abituato. Se ne
andò a fare colazione nei suoi alloggi, con la veste verde foresta che
svolazzava dietro di sé mentre scendeva la stretta scala verso il ponte
inferiore.
Jerico si chiedeva che razza di pensieri attraversassero la mente della
falce. Temeva di inciampare nella veste? Riviveva le sue spigolature
passate? Oppure si stava semplicemente domandando che cosa avrebbe
mangiato a colazione?
«Non è un tipo cattivo» commentò Wharton, il comandante in seconda,
che era in servizio sulla nave da molto più tempo di lui.
«In realtà, mi piace» replicò Jerico. «Merita più rispetto di molti altri
“Venerandi Maestri” che ho incontrato.»
«Il fatto che ci abbia scelto per questa missione di recupero la dice
lunga.»
«Sì, anche se non so cosa.»
«Credo voglia dire che lei ha scelto cosa fare della sua vita.»
Era un gran bel complimento da parte di Wharton, che non era un uomo
incline all’adulazione. Ma Jerico non poteva certo attribuirsi tutto il merito
di quella decisione.
«Ho seguito soltanto i consigli del Thunderhead.»
Qualche anno prima, quando il Thunderhead gli aveva suggerito che una
vita in mare avrebbe potuto renderlo felice, Jerico l’aveva presa male.
Perché il Thunderhead aveva ragione. Aveva fornito una perfetta analisi
della situazione. Jerico aveva già cominciato a pensarci, ma, quando il
Thunderhead gli aveva proposto l’idea, era stato come se gli avesse svelato
il finale di una storia. Sapeva di avere l’imbarazzo della scelta, il mondo
marittimo offriva innumerevoli possibilità: c’erano persone che viaggiavano
per il mondo in cerca dell’onda perfetta da cavalcare, altre che passavano il
tempo nelle regate o ad attraversare gli oceani a bordo di navi costruite sul
modello dei vascelli di un tempo. Ma quelli erano svaghi futili, il cui unico
scopo era il puro divertimento. Jerico voleva che la sua ricerca della felicità
fosse utile. Una carriera che offrisse qualcosa di concreto al mondo.
Gli interventi di recupero dei relitti in mare erano la scelta perfetta. Non
gli interessava riportare a galla cose che il Thunderhead aveva volutamente
affondato per fornire lavoro al settore. Per Jerico, non era molto diverso da
quel gioco in cui i bambini dovevano dissotterrare le ossa di dinosauri in
plastica scavando in un recinto pieno di sabbia. Lui voleva recuperare
oggetti veramente perduti. E, per farlo, aveva dovuto intrecciare rapporti
con le Compagnie delle falci di tutto il mondo, perché le navi che
rientravano nella giurisdizione del Thunderhead non affondavano mai, a
differenza di quelle delle falci, spesso in panne per guasti meccanici ed
errori umani.
Poco dopo il liceo, Jerico era stato assunto come apprendista in una
squadra di recupero di second’ordine che operava nel Mediterraneo
occidentale. E quando lo yacht di Maestro Dalí era affondato al largo di
Gibilterra, Jerico aveva colto l’occasione al volo.
Con una normale attrezzatura subacquea, era stato uno dei primi a
raggiungere il relitto. Mentre gli altri erano ancora impegnati a esaminare la
scena, Jerico, contravvenendo agli ordini del comandante, era entrato nella
cabina e aveva trovato il corpo di una falce, che aveva riportato in
superficie.
Era stato licenziato in tronco. Non era una sorpresa: dopotutto,
contravvenire a un ordine era un atto di ammutinamento, anche se faceva
parte di una mossa calcolata. Perché, dopo essere stato rianimato, la prima
cosa che Maestro Dalí aveva voluto sapere era stato il nome di chi lo aveva
tirato fuori dal mare.
Alla fine, la falce si era mostrata non solo riconoscente, ma anche
estremamente generosa. Aveva concesso all’intero equipaggio un anno di
immunità, e aveva voluto offrire qualcosa di speciale a colui che aveva
sacrificato tutto per recuperare il suo corpo senza vita; senza dubbio,
quell’individuo aveva il senso del dovere. Maestro Dalí aveva chiesto a
Jerico quali fossero le sue ambizioni nella vita.
“Mi piacerebbe avere un giorno la mia impresa di recupero” aveva
risposto Jerico, pensando che Dalí potesse metterci una buona parola.
Invece, la falce lo aveva portato a bordo della E.L. Spence, una spettacolare
nave lunga cento metri, un tempo adibita alla ricerca scientifica, e
successivamente riconvertita per le operazioni di recupero in mare.
“Sarai il comandante di questa nave” aveva proclamato Dalí. E, dato che
la Spence aveva già un comandante, la falce lo aveva spigolato lì su due
piedi e poi aveva ordinato ai membri dell’equipaggio di obbedire al nuovo
comandante, altrimenti sarebbero stati spigolati anche loro. Era, a dir poco,
molto surreale.
Non era questo il modo in cui Jerico aveva sperato di raggiungere la
vetta del comando, ma non aveva avuto più voce in capitolo del
comandante spigolato. Sapendo che un equipaggio non avrebbe facilmente
obbedito agli ordini di un ventenne, aveva mentito sulla sua età. Aveva
dichiarato di avere circa quarant’anni e di essersi da poco ringiovanito. Che
ci avessero creduto o no, non era un suo problema.
L’equipaggio ci aveva impiegato un bel po’ di tempo ad abituarsi al
nuovo comandante. Alcuni marinai avevano tramato alle sue spalle. I casi di
intossicazione alimentare che si erano ripetuti nella prima settimana, per
esempio, erano stati probabilmente opera del cuoco. E anche se le analisi
genetiche avrebbero permesso di risalire a chi appartenevano le feci che
erano finite nelle sue scarpe, Jerico aveva concluso che non ne valeva la
pena.
La Spence navigava in tutto il mondo. Prima ancora dell’arrivo di Jerico,
l’equipaggio si era fatto conoscere nell’ambiente dei recuperi marittimi, ma
il nuovo comandante aveva voluto assumere una squadra di sommozzatori
tasmaniani dotati di respiratori branchiali. Con una squadra di
sommozzatori che potevano respirare sott’acqua e un equipaggio di
recupero di prim’ordine, le falci avrebbero fatto a gara per accaparrarsi i
suoi servizi. E che la priorità di Jerico fosse ripescare i corpi e non le
proprietà perdute era motivo di grande rispetto.
Jerico aveva recuperato la chiatta di Maestro Akhenaton dal fondo del
Nilo; il corpo di Madame Earhart, perso nell’oceano dopo uno sfortunato
schianto aereo; e, quando il sottomarino da diporto della Grande Falce
Amundsen si era inabissato nelle acque gelate al largo della regione della
Barriera di Ross dell’Antartide, la Spence era stata incaricata di riportarlo in
superficie.
E poi, alla fine del primo anno di Jerico al comando della nave, Endura
era sprofondata nel bel mezzo dell’Atlantico, preparando la scena alla più
grande operazione di recupero della storia.
Eppure, su quella scena, il sipario restava risolutamente abbassato.
Ora che le Grandi Falci del Consiglio mondiale erano scomparse, non
c’era nessuno al mondo che potesse autorizzare un’operazione di recupero.
E con Goddard che dal NordMerica proclamava a gran voce che il
perimetro di rispetto non doveva essere violato, le rovine di Endura
restavano nel limbo. Tanto che varie Compagnie regionali, schierate al
fianco di Goddard, pattugliavano il perimetro, spigolando chiunque venisse
sorpreso nei paraggi. Endura si era inabissata a una profondità di tremila
metri, ma avrebbe benissimo potuto essersi persa nello spazio siderale.
In ragione di quei giochi di potere, c’era voluto del tempo prima che una
Compagnia trovasse il coraggio di tentare il salvataggio e, non appena
l’Amazzonia aveva dichiarato l’intenzione di procedere, altre si erano fatte
avanti. L’Amazzonia, che era stata la prima a proporsi, aveva insistito per
supervisionare la missione. Altre Compagnie avevano alzato la voce, ma
nessuna si era opposta apertamente all’Amazzonia. In particolare perché, al
momento opportuno, sarebbe stata quella regione a subire la collera di
Goddard.
«Siamo fuori rotta di più di qualche grado» fece notare il comandante in
seconda Wharton, ora che Possuelo aveva lasciato il ponte di coperta.
«La correggeremo a mezzogiorno» rispose Jerico. «Ritarderà l’arrivo di
alcune ore. Nulla di più imbarazzante che arrivare troppo tardi per iniziare
l’operazione e troppo presto per andare a dormire.»
«Bene, signore» rispose Wharton, poi lanciò una rapida occhiata al cielo
e rettificò, un po’ a disagio: «Mi perdoni, signora, ho sbagliato. Era nuvolo,
qualche istante fa».
«Non si scusi, non ce n’è bisogno, Wharton» disse Jerico. «Non si
preoccupi, soprattutto quando il tempo è così mutevole.»
«Sì, comandante. Con tutto il rispetto.»
Jerico avrebbe sorriso, ma sarebbe stato un segno di scarso riguardo nei
confronti di Wharton, le cui scuse, per quanto inutili, erano sincere. Anche
se era il dovere di un marinaio prendere nota della posizione del sole e delle
stelle, non erano abituati alla fluidità meteorologica.
Jerico era originario del Madagascar, una delle sette regioni autonome
del mondo, in cui il Thunderhead aveva creato diverse strutture sociali per
migliorare l’esperienza umana. La gente si trasferiva in massa in
Madagascar per la particolarità del suo statuto.
Tutti i bambini in Madagascar erano educati senza distinzione di genere;
era loro proibito scegliere il sesso prima di aver raggiunto l’età adulta.
Anche allora, molti non decidevano a favore di un sesso unico. Alcuni,
come Jerico, ritenevano che la fluidità fosse la loro natura.
“Mi sento donna sotto il sole e le stelle. Mi sento uomo sotto una coltre
di nuvole” aveva spiegato all’equipaggio quando aveva assunto il comando.
“Una semplice occhiata al cielo vi permetterà di sapere come dovete
rivolgervi a me in ogni momento della giornata.”
Non era la fluidità che contrariava i marinai, quella era una cosa
abbastanza comune, tutto sommato. Faticavano però ad abituarsi all’aspetto
meteorologico della fluidità di Jerico. Essendo cresciuto su un’isola dove
quelle considerazioni rappresentavano la norma e non l’eccezione, al
comandante non era mai venuto in mente che potessero costituire un
problema, lontano da casa. Alcune cose facevano sentire donna una
persona, altre la facevano sentire uomo. Non era così, in fondo? O le
identità binarie negavano ciò che era diverso da loro? Be’, comunque fosse,
Jerico trovava divertenti le gaffe e le scuse più di qualsiasi altra cosa.
«Secondo lei, Wharton, quante altre squadre di recupero ci saranno sul
posto?» chiese Jerico.
«Decine. E altre saranno in arrivo. La festa è già iniziata e noi siamo in
ritardo.»
Jerico liquidò l’idea con un gesto della mano. «Affatto. A bordo abbiamo
la falce responsabile dei lavori, il che significa che siamo la nave
ammiraglia dell’operazione. La festa non può iniziare senza di noi e intendo
fare un’entrata trionfale.»
«Non ne dubito, signore» replicò Wharton, perché nel frattempo il sole
era scivolato dietro una nuvola.

Al tramonto, la Spence si avvicinò alla zona in cui era affondata l’isola del
Cuore Duraturo.
«Ci sono settantatré navi di varie classi in attesa appena fuori dal
perimetro di rispetto» annunciò Wharton.
Maestro Possuelo non riuscì a nascondere il disgusto. «Non sono meglio
degli squali che hanno divorato le Grandi Falci.»
Mentre superavano le prime navi, Jerico notò un’imbarcazione molto più
imponente che avanzava verso la Spence. «Cambieremo di qualche grado la
nostra rotta per aggirarla» disse Wharton.
«No» replicò Jerico. «Manteniamo la nostra rotta.»
Wharton si preoccupò. «Ci scontreremo.»
Jerico gli fece un sorriso malizioso. «Allora, sarà costretta a spostarsi.»
Anche Possuelo sorrise. «Tutti capiranno chi è che comanda, qui. Mi
piace il suo modo di pensare, Jeri.»
Wharton lanciò un’occhiata a Jerico. Per rispetto, nessuno
dell’equipaggio aveva mai osato chiamare il comandante “Jeri”; il
diminutivo era riservato alla famiglia e agli amici. Ma il comandante non
pareva turbato.
La Spence procedeva avanti tutta e, in effetti, l’altra nave si spostò, ma
solo quando fu chiaro che la Spence l’avrebbe speronata se non si fosse
mossa. Un braccio di ferro vinto con facilità.
«Teniamo la rotta» ordinò Jerico mentre penetravano nel perimetro di
rispetto. «Informate le altre navi che possono unirsi a noi. Domani mattina
alle 6, le squadre di recupero potranno iniziare a inviare i droni per
ispezionare il relitto. Dite agli altri comandanti che tutte le scoperte
dovranno essere condivise e che chiunque nasconderà anche la minima
informazione potrà essere spigolato.»
Possuelo inarcò un sopracciglio. «Parla a nome della Compagnia,
comandante?»
«Cerco solo di assicurarmi la loro collaborazione» rispose Jerico.
«Dopotutto, chiunque può essere spigolato, quindi non sto dicendo loro
qualcosa che non sappiano già. Sto proponendo la realtà da un nuovo punto
di vista.»
Possuelo scoppiò a ridere. «La sua audacia mi ricorda una giovane falce
che conoscevo un tempo.»
«Un tempo?»
Possuelo sospirò. «Madame Anastasia. È morta con la sua mentore,
Madame Curie, nell’affondamento di Endura.»
«Conosceva Madame Anastasia?» chiese Jerico, molto colpito.
«Sì» confermò Possuelo, «ma non abbiamo avuto modo di frequentarci a
lungo.»
«Bene» disse Jerico, «forse ciò che riporteremo in superficie potrà
donarle un po’ di pace.»
Abbiamo augurato buona fortuna a Madame Anastasia e a Madame Curie per il loro
viaggio a Endura e per l’inchiesta contro Goddard. Posso solo sperare che le Grandi
Falci, nella loro saggezza, lo screditino e che gli neghino il titolo di Suprema
Roncola. Quanto a me e a Munira, dobbiamo attraversare metà del pianeta per
trovare le risposte che cerchiamo.
La mia fede in questo mondo perfetto è ormai appesa a un filo sempre più sottile.
Ben presto, ciò che era perfetto non lo sarà più. I nostri difetti si infiltreranno in crepe
e fessure, erodendo tutto ciò che abbiamo contribuito a costruire.
Solo il Thunderhead non merita alcun rimprovero, ma non so cosa gli passi per la
mente. Non conosco i suoi pensieri, perché sono una falce, e il regno del
Thunderhead è fuori della mia portata, proprio come la mia solenne missione è al di
fuori della sua giurisdizione.
I padri fondatori temevano la nostra arroganza, temevano che la virtù,
l’abnegazione e l’onore che la missione di noi falci richiede svanissero con il tempo.
Si preoccupavano che diventassimo così piene di noi stesse, così accecate dalla
nostra stessa luce, che come Icaro potessimo volare troppo vicino al sole.
Per più di duecento anni siamo rimaste fedeli alla nostra missione. Ci siamo
dimostrate all’altezza delle loro speranze. Ma le cose sono cambiate, in un batter
d’occhio.
So che esiste un piano di emergenza che i padri fondatori avevano previsto in
caso di fallimento della Compagnia. Ma se lo troverò, avrò il coraggio di agire?

Dal diario “postumo” di Maestro Michael Faraday,


31 marzo dell’anno del Rapace
3
Un modo corroborante di iniziare la settimana

Il giorno in cui Endura affondò, un piccolo aereo sorvolò un luogo


inesistente.
A bordo la passeggera Munira Atrushi, un’ex archivista alla Grande
Biblioteca di Alessandria, addetta al turno di notte. Ai comandi, Maestro
Michael Faraday.
“Ho imparato a pilotare gli aerei quando ero una giovane falce” le aveva
spiegato Faraday. “Trovo che portare un aereo sia rilassante. Calma la
mente, dà ordine ai pensieri.”
Forse per lui era così, ma non per i passeggeri, perché a ogni scossone
Munira si aggrappava con tutte le sue forze al sedile.
Non era mai stata una grande fan dei viaggi aerei. Certo, l’aeroplano era
un mezzo di trasporto perfettamente sicuro e, per quanto ne sapeva, nessuno
era mai morto in un incidente. L’unico dell’era post mortale che ricordasse
si era verificato più di cinquant’anni prima della sua nascita, quando per un
caso sfortunato un meteorite aveva colpito un velivolo di linea.
Il Thunderhead aveva subito espulso tutti i passeggeri per evitare che
perissero nello schianto e nell’incendio. Invece, erano morti a causa della
rarefazione dell’aria, per via dell’altitudine a cui volava l’aereo. Nel giro di
pochi secondi, si erano congelati ed erano precipitati in mezzo alla foresta.
Sul posto erano stati inviati i droni-ambulanza prima ancora che i corpi
avessero toccato terra e tutti erano stati recuperati nel giro di un’ora.
Erano stati portati ai centri di rianimazione e, un paio di giorni dopo, si
erano imbarcati su un altro volo, tutti felici e contenti.
“Un modo corroborante di iniziare la settimana” aveva scherzato uno dei
passeggeri in un’intervista.
In ogni caso, Munira non amava gli aerei. Sapeva che la sua paura era
del tutto irrazionale. O almeno era stata irrazionale finché Maestro Faraday
non le aveva fatto notare che, una volta usciti dallo spazio conosciuto,
sarebbero stati lasciati al loro destino.
“Quando saremo nell’angolo morto del Pacifico, nessuno potrà più
seguirci, nemmeno il Thunderhead” le aveva detto Faraday. “Nessuno saprà
se siamo vivi o morti.”
In altre parole, se avessero avuto la disgrazia di essere colpiti da un
meteorite o se si fosse verificata qualche altra catastrofe, non sarebbe
arrivato alcun drone-ambulanza a prelevarli e trasportarli in un centro di
rianimazione. Sarebbero morti in modo definitivo, come i mortali di un
tempo. In modo irrevocabile, come se fossero stati spigolati.
Non aiutava sapere che era Faraday a portare l’aereo invece del pilota
automatico. Si fidava del Venerando Maestro ma, come tutti gli umani,
anche lui poteva sbagliare.
Era stata tutta colpa sua. Era stata lei ad aver intuito che il Thunderhead
aveva un angolo morto nel Pacifico del Sud. Una zona disseminata di isole.
Anzi, per la precisione, di atolli: crateri di antichi vulcani che ora
formavano una catena di isole disposte in cerchio. Un’intera regione della
cui esistenza i padri fondatori avevano tenuto all’oscuro il Thunderhead e
anche tutto il mondo. E il motivo? Non se ne veniva a capo.
Appena tre giorni prima, avevano avuto un incontro con Madame Curie
e Madame Anastasia per informarle dei loro sospetti.
“Sii prudente, Michael” gli aveva detto Madame Curie. La
preoccupazione di Curie riguardo alla loro scoperta aveva turbato Munira.
Madame Curie non aveva paura di nulla… eppure, aveva avuto paura per
loro. Non era una cosa da poco.
Anche Faraday aveva i suoi timori, ma aveva deciso di tenerli per sé.
Meglio che Munira lo credesse coraggioso. Dopo quell’incontro, erano
andati, sempre in incognito, in OvestMerica, utilizzando il trasporto
pubblico. Avrebbero poi proseguito il viaggio con un mezzo privato;
avrebbero dovuto procurarsi un aereo. Per quanto Faraday avesse la facoltà
di requisire quel che voleva, di qualsiasi dimensioni fosse e a chiunque
appartenesse, lo faceva di rado. Il suo obiettivo era lasciare meno tracce
possibile nella vita di chi incontrava. A meno che, naturalmente, non stesse
spigolando. In quel caso, la sua impronta era visibile e definitiva.
Non aveva spigolato una sola anima da quando aveva finto la sua morte.
Non poteva togliere la vita: se lo avesse fatto, la Compagnia lo avrebbe
saputo all’istante, dato che tutte le spigolature venivano trasmesse alla
banca dati tramite l’anello. Aveva anche pensato di sbarazzarsene, ma alla
fine ci aveva rinunciato. Era una questione di onore, una questione di
orgoglio. Era ancora una falce e dunque separarsi dall’anello sarebbe stata
una mancanza di rispetto.
Con il passare del tempo si era accorto che le spigolature gli mancavano
sempre meno. E poi, ora aveva altre faccende a cui badare.
Arrivati in OvestMerica, erano rimasti un giorno ad Angel City, una
località di attrazioni scintillanti e miseria dell’era mortale, e ora un semplice
parco divertimenti. Il mattino seguente, Faraday aveva indossato la sua
veste, che non portava da quando era scomparso, si era recato in un
porticciolo e si era impadronito del miglior idroplano che era riuscito a
trovare: un jet anfibio a otto posti.
“Riforniteci di un numero di pile a combustibile che sia sufficiente per la
traversata del Pacifico” aveva ordinato al direttore del porticciolo.
“Vogliamo partire il più presto possibile.”
Faraday aveva già una presenza importante anche senza la veste. Munira
era stata costretta ad ammettere che vestito in quel modo aveva un’aria
addirittura imponente, come solo le falci migliori potevano avere.
“Dovrò parlare con il proprietario” aveva puntualizzato il direttore con
voce tremula.
“No” aveva replicato con calma Faraday. “Informerà il proprietario dopo
che saremo partiti. Non abbiamo tempo da perdere. Gli spieghi che il suo
apparecchio gli sarà restituito e che riceverà un’ingente somma a titolo di
noleggio.”
“Sì, eccellenza” aveva risposto l’uomo. Che altro avrebbe potuto dire a
una falce?
Adesso, mentre Faraday era ai comandi, Munira lo sorvegliava di
continuo per timore che si appisolasse. E contava ogni turbolenza che
incontravano. Sette, fino a quel momento.
«Se il Thunderhead controlla il tempo meteorologico, perché non calma
il vento nei corridoi aerei?» si lamentò.
«Non controlla il meteo» precisò Faraday. «Si limita a influenzarlo. E
comunque non può intervenire a favore di una falce, anche se la sua stimata
socia non sopporta gli scossoni.»
Munira apprezzava che non la considerasse più la sua assistente. Gli
aveva dimostrato il suo valore scoprendo l’esistenza dell’angolo morto.
Accidenti alla sua intelligenza! Avrebbe potuto restare felicemente alla
Biblioteca di Alessandria, ma aveva dovuto mettere il naso in affari che non
la riguardavano. E com’era quell’espressione che si usava nell’era mortale?
La curiosità uccide il gatto?
Mentre sorvolavano tranquillamente il Pacifico, all’improvviso la radio
emise uno strano effetto Larsen. Un fischio assordante che durò quasi un
minuto. Faraday cercò di spegnerla, senza riuscirci. Munira credeva che i
timpani fossero sul punto di scoppiarle e Faraday dovette lasciare i comandi
per coprirsi le orecchie. L’aereo cominciò a sbandare paurosamente. Poi, il
terribile sibilo si interruppe di colpo, così com’era iniziato. Faraday riprese
rapidamente il controllo del velivolo.
«Cosa diavolo era?» esclamò Munira, con le orecchie che ancora le
ronzavano.
Faraday teneva con entrambe le mani la cloche, ancora sconvolto. «Deve
trattarsi di una specie di barriera elettromagnetica. Credo che siamo entrati
nel perimetro dell’angolo morto.»
In seguito, non pensarono più a quel rumore. Non potevano sapere che
era stato percepito nello stesso istante in ogni parte del mondo, un suono
che alcune sette religiose chiamavano “la Grande Risonanza”. Fu quel
momento che segnò il naufragio di Endura, nonché l’inizio del silenzio del
Thunderhead.
Ma dato che Faraday e Munira, entrando nell’angolo morto, erano usciti
dalla sfera di influenza del Thunderhead, non avevano assolutamente idea
di ciò che stava accadendo nel resto del mondo.

Dall’alto, i crateri vulcanici sommersi delle isole Marshall erano ben


visibili: immense lagune circondate da puntini e strisce, che erano le
numerose isole dell’arcipelago. L’atollo di Ailuk, l’atollo di Likiep. Non si
vedevano edifici, né porti, né rovine che suggerissero una presenza umana.
C’erano molte aree naturali nel mondo, gestite tutte dal corpo di protezione
ambientale del Thunderhead. Anche nelle foreste più remote e più fitte
esistevano torri di trasmissione ed eliporti per droni-ambulanza, nel caso in
cui un turista si fosse ferito gravemente o fosse morto. Ma lì, non c’era
nulla. Era inquietante.
«Un tempo in questo posto ci vivevano delle persone, ne sono convinto»
affermò Faraday. «Ma i padri fondatori le spigolarono o, più probabilmente,
le trasferirono all’esterno dell’angolo morto, per mantenere segreta la
zona.»
Infine, in lontananza, apparve l’atollo di Kwajalein.
«“Addio, Terra di Wake, con le spalle al nord verso sud muoviamo,
verso la Terra di Nod insieme andiamo”» recitò Faraday, citando l’antica
filastrocca. E ora erano lì, a più di mille chilometri a sud dell’isola di Wake,
nel centro esatto dell’angolo morto.
«Sei emozionata, Munira?» chiese Faraday. «Stiamo per scoprire ciò che
sapevano Prometeo e gli altri padri fondatori, stiamo per sciogliere l’enigma
che ci hanno lasciato.»
«Non è detto, potremmo anche non trovare nulla» sottolineò Munira.
«Sempre ottimista.»
Come sapevano tutte le falci, i padri fondatori sostenevano di aver messo
a punto un piano di emergenza nel caso in cui il concetto stesso della
Compagnia fosse venuto meno. Una soluzione alternativa al problema
dell’immortalità. Ormai, nessuno prendeva più sul serio quella storia.
Perché avrebbero dovuto? La Compagnia aveva rappresentato la soluzione
perfetta per un mondo perfetto per oltre duecento anni. Finché tutto andava
bene, quel piano di emergenza non interessava a nessuno.
Se Madame Curie e Madame Anastasia avessero prevalso a Endura e se
Curie fosse diventata Suprema Roncola della MidMerica, forse la
Compagnia avrebbe potuto ritrovare la retta via, allontanandosi dal sentiero
rovinoso sul quale Goddard la stava conducendo. Ma in caso contrario, il
mondo avrebbe potuto aver bisogno di un piano alternativo.
Scendendo di quota a cinquemila piedi, i dettagli dell’atollo si fecero più
nitidi. Boschi lussureggianti e spiagge di sabbia bianca. L’isola principale
dell’atollo di Kwajalein aveva la forma allungata e affusolata di un
boomerang; lì videro qualcosa che non era evidente in nessun altro punto
dell’angolo morto. Tracce dalle quali si capiva che un tempo era esistito un
insediamento umano: strisce di vegetazione bassa che una volta erano state
strade, fondamenta che segnavano i luoghi in cui in passato si ergevano gli
edifici.
«Tombola!» esclamò Faraday, e spinse la cloche in avanti, scendendo
ancora di quota per poter vedere meglio.
Munira si sentì invadere da un’ondata di sollievo.
Alla fine, tutto stava andando bene.
Fino al momento in cui tutto sarebbe andato storto.

«Velivolo non riconosciuto, identificatevi.»


Era un messaggio automatico appena udibile in mezzo a interferenze
potenti, una voce sintetica che sembrava troppo umana per esserlo davvero.
«Non preoccuparti» disse Faraday, poi trasmise il codice di
identificazione universale usato dalla Compagnia.
Un momento di silenzio, poi: «Velivolo non riconosciuto, identificatevi».
«Non va bene» commentò Munira.
Faraday la guardò di sbieco, poco convinto, poi parlò ancora alla
ricetrasmittente.
«Qui Maestro Michael Faraday della MidMerica. Chiedo
l’autorizzazione ad avvicinarmi all’isola principale.»
Un altro momento di silenzio, poi la voce rispose: «Anello di falce
rilevato».
Faraday e Munira emisero un sospiro di sollievo. «Ecco» disse Faraday.
«Ora va tutto bene.» La voce parlò ancora.
«Velivolo non riconosciuto, identificatevi.»
«Cosa? Ho detto che sono Maestro Michael Faraday…»
«Falce non riconosciuta.»
«Normale che non la riconosca» intervenne Munira. «Lei non era
nemmeno nato quando questo sistema è stato creato. Probabilmente crede
che lei sia un impostore con un anello rubato.»
Bum!
Un raggio laser proveniente da un punto indefinito dell’isola mise fuori
uso il loro motore sinistro con uno scoppio assordante che sentirono
rimbombare nelle ossa, come se avesse colpito loro e non l’aereo.
Era quello che Munira aveva più temuto. Il peggiore di tutti i più foschi
scenari ipotizzabili. Eppure, malgrado tutto, ritrovò un coraggio e un sangue
freddo che sorprese in primo luogo se stessa. L’aereo era dotato di una
capsula di salvataggio. Munira l’aveva ispezionata prima del decollo per
assicurarsi che fosse in buono stato.
«La capsula in coda» disse a Faraday. «Presto!»
La falce si ostinava a ripetere ossessivamente nel microfono della radio
che gracchiava: «Qui Maestro Michael Faraday!».
«È una macchina» gli ricordò Munira, «e nemmeno tanto intelligente. È
inutile cercare di ragionarci.»
A riprova delle sue parole, un secondo raggio laser fece saltare il
parabrezza in mille pezzi e incendiò l’abitacolo. A una quota più elevata
sarebbero stati sbalzati fuori, ma all’altezza in cui si trovavano non
subirono la depressurizzazione esplosiva dell’abitacolo.
«Michael!» gridò Munira, chiamandolo per nome, per la prima volta da
quando si conoscevano. «È inutile!»
Gravemente danneggiato, il velivolo aveva già iniziato a precipitare
verso il mare e nemmeno il più esperto dei piloti sarebbe riuscito a salvarlo.
Alla fine, Faraday desistette. Lasciò l’abitacolo e, insieme, si diressero
barcollando in coda all’aereo in caduta libera per raggiungere la capsula di
salvataggio. Salirono a bordo, ma la veste della falce si impigliò nel
portellone impedendone la chiusura.
«Maledetta veste!» ruggì, e strattonò così forte che il bordo si strappò,
liberando il portellone. Il meccanismo di chiusura si agganciò, la schiuma si
espanse a riempire lo spazio vuoto e la capsula fu espulsa.
La capsula non aveva oblò, quindi non avevano modo di vedere cosa
stesse accadendo intorno a loro. Provavano soltanto una sensazione di
estrema vertigine mentre precipitavano in caduta libera.
Degli aghi le si infilarono nella pelle e Munira emise un gemito. La cosa
la sconvolse, pur essendo preparata a quella procedura.
«Detesto questa parte» si lamentò Faraday, che, avendo vissuto così a
lungo, aveva di sicuro già provato un ammaraggio di fortuna. Per Munira,
invece, l’esperienza era del tutto nuova e terrificante.
Le capsule di salvataggio erano dotate di un sistema che addormentava i
passeggeri, in modo che chiunque rimanesse ferito in fase di atterraggio
restasse privo di sensi mentre i naniti lo guarivano. Si sarebbero quindi
svegliati sani e in buona salute dopo diverse ore, necessarie per riparare i
danni. E se fosse sopravvenuta la morte, sarebbero stati spediti subito in un
centro di rianimazione. Come quei passeggeri colpiti da un meteorite, si
sarebbero svegliati tutti contenti per l’esperienza vissuta.
Peccato che, se la caduta li avesse uccisi, Munira e Faraday non
sarebbero stati rianimati.
«Se dovessimo morire» disse Faraday, già biascicante, «ne sarei
sinceramente dispiaciuto, Munira.»
Avrebbe voluto rispondere, ma perse i sensi prima di poterlo fare.

Non aveva più la nozione del tempo.


Un momento prima, Munira stava cadendo nel buio insieme a Faraday;
un momento dopo, guardava le palme mosse dal vento che la proteggevano
dal sole. Era ancora nella capsula, ma il portellone era spalancato, ed era
sola. Si mise a sedere, liberandosi dalla schiuma che la avvolgeva.
Al limitare della foresta, Faraday aveva acceso un fuoco e stava
arrostendo un pesce infilzato su un ramoscello, bevendo direttamente da
una noce di cocco. Dall’orlo strappato della veste pendeva una striscia di
tessuto che si trascinava nella sabbia, inzaccherandosi. Era strano vedere il
grande Maestro Michael Faraday con una veste che non fosse immacolata e
perfetta.
«Ah!» esclamò in tono gioviale, «ti sei svegliata, finalmente!» Le porse
la noce di cocco perché potesse berne un sorso.
«Un miracolo essere sopravvissuti» commentò lei. Soltanto quando sentì
l’odore del pesce arrostito si rese conto di quanto era affamata. La capsula
era progettata per mantenere idratati gli occupanti per giorni, ma non
forniva alcun nutrimento. La fame che sentiva era il segno che erano rimasti
al suo interno almeno un giorno o due, in attesa di essere curati.
«Siamo sopravvissuti per un pelo» ammise Faraday, offrendole il pesce e
infilzandone un altro. «Dalla scatola nera della capsula, risulta che si è
verificato un problema con il paracadute, probabilmente colpito da un
detrito o da un raggio laser. L’impatto con l’acqua è stato violento e,
malgrado l’imbottitura di schiuma, abbiamo riportato entrambi una
commozione cerebrale di terzo grado e fratture multiple alle costole. Hai
avuto anche un polmone perforato, che è il motivo per cui i tuoi naniti ci
hanno impiegato alcune ore in più per guarirti.»
La capsula, che aveva un sistema di propulsione per l’ammaraggio, li
aveva portati a riva in tutta sicurezza e ora giaceva semisepolta nella sabbia,
dopo due giorni di alta e bassa marea.
Munira si guardò intorno. Faraday, che doveva aver indovinato i suoi
pensieri dalla sua espressione, la rassicurò: «Oh, non preoccuparti, pare che
il sistema di difesa tracci solo i velivoli in ingresso. La capsula è atterrata
abbastanza vicino all’isola per non essere notata». Quanto all’aereo, che
Faraday aveva promesso di restituire al proprietario, giaceva in pezzi sul
fondo del Pacifico.
«Siamo ufficialmente dei naufraghi!» annunciò Faraday.
«Allora perché è così di buon umore?»
«Perché siamo qui, Munira! Ce l’abbiamo fatta! Siamo riusciti a fare
qualcosa che nessuno dalla nascita dell’era post mortale è mai riuscito a
fare! Abbiamo trovato la Terra di Nod!»

Visto dall’alto, l’atollo di Kwajalein sembrava piccolissimo, ma ora, dalla


terraferma, pareva immenso. L’isola principale non era molto grande, ma
dava l’impressione di estendersi all’infinito. Ovunque, c’erano tracce di
antiche infrastrutture, quindi c’era da sperare che l’oggetto della loro ricerca
si trovasse lì, e non su una delle isole periferiche. Il problema era che non
sapevano di preciso che cosa stessero cercando.
Esplorarono quei luoghi per giorni, attraversando a zig-zag l’isola in un
senso e nell’altro, dall’alba al tramonto, tenendo un registro delle vestigia
che incontravano, e di vestigia lì ce n’erano dappertutto. Il fondo stradale
dissestato che nel tempo era stato invaso dalla vegetazione. Le fondamenta
di pietra che in passato avevano sostenuto gli edifici. Gli ammassi di ferro
arrugginito e di acciaio corroso.
Si nutrivano di pesci e uccelli selvatici che abbondavano sull’isola, come
gli alberi da frutta di vario tipo che non erano evidentemente autoctoni. Con
ogni probabilità erano stati coltivati nei giardini delle abitazioni che erano
scomparse ormai da tempo.
“E se non troviamo nulla?” aveva chiesto Munira all’inizio della loro
esplorazione.
“Ci penseremo quando sarà il momento” aveva risposto Faraday.
“Potrebbe essere troppo tardi” aveva concluso lei.
I primi giorni, a parte la bassa torre difensiva, chiusa come un sarcofago
verticale, non avevano trovato altro che pezzi di porcellana di vecchi lavabo
e tazze di gabinetti, oltre a contenitori di plastica che avrebbero continuato a
contaminare il paesaggio almeno finché il sole non si fosse trasformato in
nova divorando i pianeti del sistema. Quel luogo sarebbe stato una mecca
per gli archeologi, ma loro non avevano scoperto molto più di quanto non
sapessero già.
Poi, verso la fine della prima settimana, si arrampicarono in cima a un
terrapieno e si imbatterono in una distesa di sabbia troppo geometrica per
essere naturale. Scavando un po’, scoprirono uno strato di cemento così
spesso da impedire a qualsiasi pianta di mettere radici. Il luogo emanava un
senso di solennità, anche se non sapevano bene cosa fosse.
E su un fianco del terrapieno, quasi del tutto nascosta dai rampicanti,
individuarono una porta coperta di muschio. L’ingresso di un bunker.
Mentre liberavano l’accesso, scorsero un pannello di sicurezza. Quel che
vi era stato scritto o inciso era stato cancellato dal tempo. Poco importava,
perché restava l’unico indizio rilevante: sul pannello era presente una
rientranza che aveva dimensioni e forma identiche alla pietra sull’anello di
una falce.
«Non è la prima volta che vedo una cosa simile» commentò Faraday.
«Negli antichi edifici delle falci, l’anello ci serviva anche da chiave. Aveva
un altro scopo, oltre a concedere l’immunità e a intimidire le persone.»
Alzò il pugno e premette l’anello nella cavità. Il meccanismo scattò, ma
la porta era talmente vecchia che dovettero forzarne in due l’apertura.
Avevano recuperato delle torce, tra le scarse dotazioni della capsula. Con
quelle, si inoltrarono nel corridoio buio che odorava di muffa e che
scendeva sottoterra lungo un ripido pendio.
Il bunker, a differenza dell’isola, non mostrava i segni del tempo, a
eccezione di un sottile strato di polvere. Dalle crepe che si aprivano su una
parete spuntavano delle radici, come tentacoli di una leggendaria creatura,
ma, a parte questo, il mondo esterno era rimasto fuori.
Il lungo corridoio sbucava in uno spazio attrezzato con numerose
postazioni di lavoro. Vecchi schermi che appartenevano a computer
obsoleti. A Munira quel luogo ricordava la sala segreta nei sotterranei della
Biblioteca del Congresso, in cui avevano trovato la mappa che li aveva
condotti fin lì. Quella sala era ingombra di roba, mentre questa era in
perfetto ordine. Le sedie erano spinte contro le scrivanie, come se fosse
passata un’impresa di pulizie. Accanto a una postazione, una tazza da caffè,
che portava il nome di un personaggio di Herman Melville, pareva in attesa
di essere riempita. Quel luogo non era stato abbandonato in tutta fretta. In
realtà, non era stato affatto abbandonato. Era stato preparato.
E Munira fu colta dalla sgradevole sensazione che chiunque l’aveva
lasciato così duecento anni prima avesse previsto il loro arrivo.
Risposta aperta a Sua Eccellenza Tenkamenin, Suprema Roncola del
SubSahara

Rifiuto categoricamente di piegarmi alla restrizione oltraggiosa e immorale imposta


alle falci midmericane. Non riconoscerò, né ora né mai, a nessuna Suprema
Roncola il diritto di espellere le mie falci da una regione qualsiasi.
Come di sicuro le confermerà il suo parlamentare, le falci sono libere di viaggiare
in ogni parte del mondo e di spigolare chiunque vogliano, dove e quando lo
desiderino.
Pertanto, qualunque limitazione imposta in questo senso è illegittima; le regioni
che si uniranno a quella del SubSahara in questa sua vana impresa vedranno
aumentare il flusso di falci midmericane sul loro territorio, non fosse che per
rafforzare la mia ferma opposizione a un tale provvedimento. La avverto che
risponderò puntualmente a qualsiasi azione intrapresa nei confronti delle mie falci
nella sua regione.
Con ossequio,

Il Venerando Maestro Robert Goddard,


Suprema Roncola della MidMerica
4
Oggetti di grande valore

La prima settimana fu dedicata alla redazione di una cartografia completa


della zona in cui era avvenuto il naufragio di Endura.
«Ecco quello che sappiamo» spiegò il comandante Soberanis a Maestro
Possuelo, attivando uno schermo olografico. «L’Isola del Cuore Duraturo si
è inabissata sulla cresta di una catena montuosa sottomarina.
Nell’affondare, ha colpito una vetta e si è spezzata in tre parti.» Jerico fece
ruotare l’immagine. «Due segmenti si sono posati su questo altopiano a est
della dorsale, il terzo è caduto in una fossa sul versante occidentale. E tutto
questo si trova all’interno di una zona di detriti che si estende per
venticinque miglia nautiche.»
«Quando possiamo iniziare i lavori di recupero?» chiese Possuelo.
«L’area da esplorare e catalogare è ampia» rispose Jerico. «Ci vorrà
forse un mese prima dell’inizio dell’operazione. Ma la missione di recupero
in sé potrebbe durare anni. Decenni, addirittura.»
Possuelo esaminò l’immagine olografica, forse cercando di individuare
qualche punto noto in mezzo a quel che restava. Poi si mise a ruotare la
mappa e indicò la sezione finita nella fossa. «La mappa sembra incompleta
in questo tratto. Perché?»
«Per la profondità. Il terreno è insidioso ed è difficile fare i rilievi, ma ci
penseremo più avanti. Possiamo cominciare a esplorare l’area dei detriti e le
parti che si sono posate sull’altopiano.»
Possuelo agitò la mano come per scacciare un moscerino. «No. Mi
interessa di più la parte che è scivolata nel crepaccio.»
Jerico si soffermò a osservare la falce. Fino a quel momento, l’uomo si
era dimostrato affabile e collaborativo; forse ora la fiducia tra i due era tale
che il comandante Soberanis sarebbe riuscito a carpire informazioni che
Possuelo non era molto propenso a condividere.
«Se cerca qualcosa di specifico, mi sarebbe utile saperlo.»
Possuelo ci mise qualche secondo a rispondere. «La Compagnia
amazzonica si augura che vengano recuperati manufatti di valore
inestimabile. Quei reperti giacciono tra le rovine del Museo della
Compagnia.»
«Il cuore duraturo?» chiese Jerico. «Ritengo che sia morto ormai da un
pezzo, e che sia stato divorato.»
«Era in una cassaforte» replicò Possuelo. «Ciò che ne resta deve essere
conservato in un museo. Inoltre, ci sono altri oggetti che ci interessano.»
Era chiaro che Possuelo non avrebbe rivelato di più. «Capisco» riprese
Jerico. «Darò istruzioni agli altri equipaggi di concentrarsi sulle parti
dell’isola che sono cadute sull’altopiano. La mia squadra, e solo la mia
squadra, si occuperà del segmento caduto nel crepaccio.»
Possuelo parve rilassarsi un po’. Scrutò Jerico con una specie di
curiosità, o forse di ammirazione, o un po’ di entrambe. «Quanti anni ha,
Jeri?» chiese. «Il suo equipaggio mi dice che si è ringiovanito prima di
assumere il comando, il che vorrebbe dire che ha circa il doppio della sua
età fisica… eppure, sembra più vecchio. Più saggio. Sono portato a pensare
che non si sia ringiovanito una sola volta.»
Jerico non rispose subito, ponderando bene le parole.
«Non ho l’età che ho detto al mio equipaggio» ammise alla fine. Perché
una mezza verità era sempre meglio di nessuna verità.

Il cuore duraturo, che aveva dato il nome alla grande città galleggiante, era
il più antico cuore vivente del mondo, tenuto in vita da stimoli elettrici e
naniti di ringiovanimento affinché si mantenesse per sempre giovane.
Aveva battuto oltre nove miliardi di volte ed era un simbolo della vittoria
dell’umanità sulla morte. Eppure, si era spento quando l’isola era
sprofondata e non gli era più arrivata corrente dagli elettrodi.
Come aveva detto Maestro Possuelo, era, in realtà, protetto in un cilindro
di vetro temperato… ma che non poteva resistere alla pressione elevata che
c’era così in basso, per cui era implosa molto prima di raggiungere il fondo.
Quanto al cuore stesso, o a quel che ne restava dopo l’implosione, non
sarebbe stato rinvenuto tra i detriti che alla fine sarebbero stati recuperati
dalla squadra. Di sicuro era stato divorato, se non dagli squali a cui erano
state date in pasto le falci, da qualche fortunato predatore che era passato lì
per caso.
Mentre le altre squadre si accontentavano di recuperare un bottino più a
portata di mano, l’equipaggio di Jeri Soberanis lavorava senza sosta da
settimane, senza alcun risultato concreto. Le altre squadre riportavano a
galla tesori su tesori, il comandante Soberanis, invece, non recuperava
proprio nulla.
Le torri della città affondata si inclinavano, si staccavano e crollavano
alla minima scossa. Le immersioni erano dunque troppo pericolose per i
membri dell’equipaggio. I tasmaniani anfibi andavano bene per le acque
poco profonde, ma non potevano scendere sotto i sessanta metri senza una
tuta pressurizzata. Avevano già perso un sub robotico, schiacciato da un
frigorifero che era precipitato dalla finestra di una torre instabile. Certo, se
per caso moriva una persona, questa poteva essere spedita in un centro di
rianimazione, ma bisognava essere in grado di recuperarne il corpo dal
crepaccio. Semplicemente, il gioco non valeva la candela.
Possuelo, uomo in genere pacato e composto che non si irritava
facilmente, ora era soggetto a momenti di profondo scoramento. «Capisco
che è una missione delicata» disse dopo la quinta settimana di immersioni
profonde, «ma le lumache di mare si muovono più velocemente di lei e
della sua squadra!»
A peggiorare il suo umore ci si era messo l’arrivo di un numero sempre
crescente di falci a bordo di yacht. Sul posto erano convenuti i
rappresentanti di quasi tutte le Compagnie del mondo, perché ormai si
sapeva che lui era alla ricerca della Camera delle Reliquie e dei Futuri. Era
un bene finché rimaneva in un luogo troppo freddo e troppo profondo,
irraggiungibile anche dai raggi del sole, ma lontano dagli occhi non voleva
dire necessariamente lontano dal cuore.
«Eccellenza, mi perdoni se risulto impertinente» disse Jeri a Sydney,
«ma è una camera blindata di acciaio racchiusa in un’altra camera blindata
di acciaio, sepolta sotto migliaia di tonnellate di rottami su un pericoloso
pendio. Anche sulla terraferma, sarebbe difficile raggiungerla. L’operazione
richiede una tecnica meticolosa, sforzi importanti e, soprattutto, pazienza!»
«Se non concludiamo in fretta la missione di recupero» si spazientì
Possuelo, «Goddard piomberà su di noi come un avvoltoio e si prenderà
tutto quello che riportiamo a galla!»
Eppure, Goddard fino a quel momento era platealmente assente dal sito
di ricerca. Non aveva inviato squadre di recupero né rappresentanti per
assicurarsi la sua parte di diamanti. Invece, si era scagliato pubblicamente
contro la profanazione di un luogo sacro e il vilipendio dei morti,
dichiarando di non volere neanche una minima parte di ciò che si trovava in
fondo all’oceano. Era pura ipocrisia. Bramava impossessarsi di quei
diamanti come tutti, se non di più.
In altre parole, aveva un piano per impadronirsene.
Era innegabile che Goddard avesse un talento per ottenere ciò che voleva
e, per questo motivo, non c’era una sola Compagnia al mondo che dormiva
sonni tranquilli.
“Compagnia.”
Quel termine un tempo indicava l’organizzazione mondiale nel suo
complesso, ma ormai era subentrata la logica regionale. Non esisteva più il
concetto di una Compagnia mondiale, solo politiche provinciali e futili
rimostranze.
Possuelo era perseguitato dall’incubo di un mondo che vedeva Goddard
in possesso di tutti i diamanti e del diritto di scegliere personalmente ogni
nuova singola falce. Se quell’incubo si fosse trasformato in realtà, il mondo
si sarebbe pericolosamente inclinato verso il cosiddetto “nuovo ordine” e
infine sarebbe uscito dal suo asse. E le voci che si opponevano a Goddard si
sarebbero perse tra i gemiti di coloro che sarebbero stati allegramente
spigolati.
«Mi dirà mai che cosa c’è in quella camera blindata per incuriosire
tutti?» domandò Jeri dopo un’immersione considerata “fortunata”, perché
non avevano perso attrezzature.
«È più che semplice curiosità…» rispose Possuelo. «La camera blindata,
come tutte le casseforti, contiene oggetti di grande valore. In questo caso,
però, la cosa non la riguarda, perché quei reperti hanno valore solo per le
falci.»
Jeri abbozzò un sorriso. «Ah! Mi sono sempre chiesto dove tenessero gli
anelli delle falci!»
Possuelo si maledisse per aver parlato.
«La sua perspicacia può farle più male che bene.»
«Questo è sempre stato il mio problema» commentò Jeri.
Possuelo sospirò. Era davvero sconveniente che il comandante sapesse?
L’affabile malgascio non era un tipo avido, trattava bene l’equipaggio e
aveva mostrato solo rispetto per lui. Aveva bisogno di qualcuno di cui
fidarsi in tutta quella vicenda e la comandante Soberanis si era rivelata una
persona su cui poter contare. O il comandante, visto che ora il cielo era
coperto.
«Non si tratta degli anelli, ma delle pietre, diverse migliaia di gemme»
ammise Possuelo. «Chi controlla i diamanti controlla il futuro della
Compagnia.»
Noi, falci della regione della Stella Solitaria, preferiremmo mantenerci neutrali in
merito alla questione, ma ci è ormai chiaro che la Suprema Roncola Goddard
intende imporre la sua autorità su tutto il territorio nordmericano, e forse sul mondo
intero. Senza le Grandi Falci a contenerne l’ambizione, temiamo che la sua
influenza possa crescere come un tumore dell’era mortale.
In quanto regione autonoma, siamo liberi di fare ciò che vogliamo entro i confini
del Texas. Interromperemo dunque tutti i contatti con la Compagnia midmericana.
Con effetto immediato, qualsiasi falce midmericana trovata nella nostra regione
verrà accompagnata al confine più vicino ed espulsa.
Contesteremo il diritto del signor Goddard di detenere la carica di Suprema
Roncola, in virtù del fatto che non è mai stato promulgato alcun editto da Endura
prima della morte delle Grandi Falci.
Per nostra politica interna, non vogliamo coinvolgere altre regioni in tale
decisione. Faranno ciò che riterranno opportuno. Noi vogliamo solo essere lasciaci
in pace.

Proclama ufficiale di Sua Eccellenza


Barbara Jordan, Suprema Roncola del Texas
5
I tuoi servizi non sono più richiesti

Da: Centro di comunicazione primaria del Thunderhead


A: Loriana Barchok <LBarchok@FCAI.net>
Data: 1° aprile, anno del Rapace, 17.15 GMT
Oggetto: Rif: Scioglimento Interfaccia dell’Autorità
Inoltrato da: TPCE.th
Firma: FCAI.net
Sicurezza: Crittografia standard

Carissima Loriana,
mi rincresce informarti che i tuoi servizi in quanto agente Nimbus non sono più
richiesti. So che ti sei impegnata al meglio delle tue possibilità, ma questa scelta non
rappresenta un giudizio su di te o sul tuo lavoro da parte dell’Interfaccia dell’Autorità.
Ho deciso di sciogliere definitivamente l’Interfaccia dell’Autorità. Con effetto
immediato, cesserà di esistere come organo dirigente e di conseguenza cesserà anche il
tuo rapporto di lavoro. Ti auguro buona fortuna per il tuo futuro.

Con ossequio,
Il Thunderhead

Se qualcuno le avesse detto che il suo posto di lavoro sarebbe stato


cancellato a un anno dal diploma che aveva conseguito presso l’Accademia
dei Nimbus, Loriana Barchok non lo avrebbe ritenuto possibile. Non
avrebbe ritenuto possibile una montagna di altre cose. Ma quelle cose erano
accadute, tutte. Quindi, poteva accadere qualsiasi cosa, adesso. Qualsiasi
cosa. Per quanto ne sapeva, dal cielo si sarebbe potuta allungare una mano
e, con una pinzetta, strapparle impunemente le sopracciglia. Non che ne
avesse bisogno: le sue sopracciglia erano a posto. Ma poteva accadere.
Nulla, di quel mondo bislacco, era più in grado di stupirla.
Quando aveva ricevuto l’e-mail dal Thunderhead aveva pensato che
fosse uno scherzo. Negli uffici dell’Interfaccia dell’Autorità di Fulcrum
City i burloni erano parecchi. Ma ben presto si era resa conto che non si
trattava di uno scherzo. Al termine di quell’orribile sibilo assordante che
aveva fatto saltare molti impianti audio in tutto il mondo, il Thunderhead
aveva inviato a ogni agente Nimbus, ovunque si trovasse, lo stesso identico
messaggio. L’Interfaccia dell’Autorità era stata chiusa; gli agenti avevano
perso il posto, erano disoccupati e loschi, proprio come chiunque altro.
“Se tutti al mondo sono loschi” si era lamentato un agente, “allora, per
forza siamo senza lavoro. Dovevamo essere l’interfaccia professionale del
Thunderhead; come possiamo ricoprire ancora il nostro ruolo se siamo
loschi e se, per legge, non possiamo comunicare con lui?”
“Non serve tormentarsi così” aveva ribattuto un altro collega, che non
era parso per nulla preoccupato. “Quel che è fatto è fatto.”
“Ma licenziarci tutti?” aveva chiesto Loriana. “Tutti, uno per uno, senza
preavviso? Siamo milioni di persone!”
“Il Thunderhead ha i suoi buoni motivi” aveva replicato il collega,
impassibile. “Il fatto che non riusciamo a vedere la logica ci mette davanti i
nostri limiti, non quelli del Thunderhead.”
Poi, quando si era diffusa la notizia dell’affondamento di Endura, era
apparso chiaro, almeno a Loriana, che l’intera umanità sarebbe stata punita,
come se in qualche modo fossero tutti complici di quel crimine. E ora che le
Grandi Falci erano scomparse, il Thunderhead si era irritato e Loriana
aveva perso il lavoro.
Rivedere la propria vita non era un’operazione semplice. Si era
ritrasferita a casa dei genitori e aveva passato un bel po’ di tempo a non fare
un bel niente. Annunci di lavoro ce n’erano ovunque, formazione e corsi
gratuiti per qualsiasi professione. Il punto non era trovare un impiego, ma
trovare qualcosa che lei avesse davvero voglia di fare.
Le settimane passavano; non era piombata in una disperazione nera, ma
in uno stato di semplice malinconia, grazie all’azione lenitiva dei suoi naniti
emotivi. Era comunque una malinconia profonda e pervasiva. Non era
abituata a oziare, a perdere tempo, ed era totalmente impreparata ad
affrontare l’incertezza del futuro. Certo, tutti erano soggetti all’incertezza
del futuro, ma gli altri almeno avevano un lavoro a cui aggrapparsi. Una
routine che permetteva loro di vivere senza il Thunderhead, in una parvenza
di ordine. Del resto, Loriana aveva tutto il tempo per rimuginare. Era
insopportabile.
Per volere dei suoi genitori, era andata a farsi ritoccare i naniti per
cercare di risollevarsi il morale, perché in quei giorni non riusciva neppure
a sopportare la malinconia, ma la fila era troppo lunga e Loriana, incapace
di pazientare, se n’era andata.
“Solo i loschi fanno la coda” aveva detto ai genitori quando era tornata,
riferendosi alla premeditata inefficienza con cui il Thunderhead aveva
organizzato l’Ufficio degli Affari Loschi. Soltanto dopo averlo detto, si era
resa conto della realtà. Lei era una losca. Questo implicava che le code
inutili e le orribili attese sarebbero diventate la norma? Non era riuscita a
trattenere le lacrime, cosa che aveva convinto i genitori a insistere affinché
tornasse a farsi ritoccare i naniti.
“Sappiamo che ora le cose per te sono diverse, ma non è la fine del
mondo, tesoro” l’avevano rassicurata i genitori. Eppure, per qualche strana
ragione, pensava che lo fosse.
E poi, un mese dopo che tutti erano diventati loschi, il suo ex capo si
presentò alla sua porta. Loriana immaginò che fosse solo una visita di
cortesia. Di certo non era lì per riassumerla, dato che era stato licenziato in
blocco con tutti gli altri agenti. Anche i loro vecchi uffici erano stati
smantellati. Dai notiziari si apprendeva che squadre di operai edili erano
arrivate nella sede dell’Interfaccia dell’Autorità da tutto il mondo per
riconvertire gli edifici in appartamenti e centri ricreativi.
«L’incarico ci è appena stato affidato» riferì il caposquadra. «E siamo
felici di fare qualsiasi cosa desideri il Thunderhead!» Ormai, commesse,
forniture di materiali e simili erano l’unico argomento di scambio che era
rimasto con il Thunderhead. Chi riceveva quelle comunicazioni era da
invidiare.
Il suo capo, Hilliard, aveva diretto l’ufficio di Fulcrum City. Loriana era
l’unica agente giovane che aveva lavorato con lei. Se non altro, faceva una
buona impressione nel curriculum che Loriana non aveva mai inviato.
Come fosse diventata l’assistente personale della direttrice aveva poco a
che fare con le sue abilità; dipendeva più dalla sua personalità.
Spumeggiante per alcuni, snervante per altri.
“Sei sempre piena di allegria” le aveva detto Hilliard quando le aveva
offerto il posto. “Qui intorno, non ce n’è molta, di allegria.”
Era vero… gli agenti Nimbus non erano certo famosi per la loro vivacità.
Faceva del suo meglio per movimentare l’atmosfera e tendeva a vedere
sempre il bicchiere mezzo pieno, cosa che spesso irritava gli altri agenti.
Be’, questo era un loro problema. Loriana aveva cominciato a sospettare
che la direttrice provasse un gusto sadico nel vedere puntualmente i suoi
sottoposti innervosirsi per l’atteggiamento positivo di Loriana. Anche se
quelle lunghe settimane senza nulla da fare e senza nessuna prospettiva per
il futuro avevano infranto molti dei suoi sogni, lasciandola triste e apatica
come tutti gli altri agenti Nimbus.
«Ho un lavoro per te» le annunciò la direttrice Hilliard. «Anzi, più di un
lavoro» si corresse. «Una missione.»
Loriana non stava più nella pelle, era la prima sensazione positiva che
provava da quando l’Interfaccia dell’Autorità era stata chiusa.
«Ti avverto, però» aggiunse la direttrice Hilliard. «È una missione che
richiederà qualche viaggio.»
E, benché Loriana fosse per natura sedentaria, sapeva che
nell’immediato futuro quella avrebbe potuto essere la sua unica opportunità.
«Grazie, grazie infinite!» esclamò, stringendo vigorosamente la mano
della sua direttrice, molto più a lungo del dovuto.

E adesso, due settimane dopo, si trovava nel bel mezzo dell’oceano a bordo
di una tonniera che non stava pescando, ma che ancora conservava l’odore
dell’ultimo bottino.
“Non avevamo molta scelta riguardo all’imbarcazione” aveva spiegato la
direttrice Hilliard. “Ci siamo dovuti accontentare di ciò che abbiamo
trovato.”
Era evidente che Loriana non era l’unica a essere stata scelta per quella
missione. Erano stati convocati centinaia di agenti Nimbus. Ora si
trovavano a bordo di una decina di navi di ogni tipo. Una flottiglia bizzarra
e raffazzonata, in rotta verso il Pacifico del Sud.
“8.167, 167.733” aveva comunicato Hilliard nella riunione preliminare.
“Queste cifre ci sono state trasmesse da una fonte affidabile. Riteniamo che
corrispondano alle coordinate.” Poi aveva portato una mappa e aveva
indicato un punto tra le Hawaii e l’Australia. In quel punto non c’era altro
che mare.
“Cosa le fa pensare che siano coordinate?” aveva chiesto Loriana, dopo
la riunione. “Insomma, se fossero solo numeri a caso, potrebbero essere
qualsiasi cosa… come fa a esserne sicura”
“Perché non appena ho avanzato l’ipotesi che fossero coordinate, ho
cominciato a ricevere annunci per il noleggio di imbarcazioni a Honolulu”
le aveva confidato la direttrice.
“Il Thunderhead?”
Hilliard aveva annuito. “Per legge, il Thunderhead non può comunicare
con i loschi, ma nulla gli impedisce di suggerire.”

Nel corso del quarto giorno in mare, a qualche centinaio di miglia dal punto
indicato dalle coordinate, si verificò una serie di strani avvenimenti.
In principio, l’autopilota perse il collegamento con il Thunderhead.
Senza, riusciva ancora a navigare, ma non poteva più risolvere i problemi.
Era semplicemente una macchina senza cervello. Non solo, ma persero ogni
contatto radio con il mondo esterno. Erano cose che non si verificavano
mai. La tecnologia funzionava. Sempre. Anche dopo che il Thunderhead
aveva smesso di comunicare. E in mancanza di risposte, fioccarono le
ipotesi.
«E se fosse accaduto in tutto il mondo?»
«E se il Thunderhead fosse morto?»
«E se adesso fossimo rimasti davvero soli al mondo?»
Alcuni lanciavano occhiate a Loriana, come se lei potesse confortarli con
qualche parola di speranza.
«Invertiamo la rotta» bofonchiò uno degli agenti, Sykora era il suo
nome, un uomo gretto che aveva fatto il bastian contrario fin dall’inizio.
«Torniamo indietro e scordiamoci questa assurdità.»
Fu Loriana che, dopo aver osservato lo schermo del radar su cui
lampeggiava un messaggio di errore, fece notare qualcosa di importante.
«Secondo il radar, siamo a trenta miglia nautiche dal più vicino ripetitore
radio. Ma i ripetitori non dovrebbero essere a venti miglia di distanza uno
dall’altro, invece?»
Con un rapido colpo d’occhio alla carta, verificarono che non esistevano
ripetitori in quella zona. In altre parole, nessuna traccia della presenza del
Thunderhead.
«Interessante…» commentò la direttrice Hilliard. «Acuta osservazione,
agente Barchok.»
Loriana avrebbe voluto pavoneggiarsi, ma si trattenne.
Hilliard contemplò l’immensità sconosciuta che si estendeva davanti a
loro. «Lo sapevate che l’occhio umano ha un punto cieco appena al di fuori
del centro del campo visivo?»
Loriana annuì. «L’angolo morto.»
«Il nostro cervello ci dice che non c’è nulla da vedere e riempie il vuoto,
così non ce ne rendiamo nemmeno conto.»
«Ma se il Thunderhead ha un angolo morto, come fa a sapere che
esiste?»
La direttrice Hilliard inarcò le sopracciglia. «Forse gliel’ha detto
qualcuno…»
Continuo a tenere questo diario, anche se non serve a nulla. È difficile abbandonare
un’abitudine quotidiana, quando si radica nel profondo. Munira mi ha assicurato che,
nel peggiore dei casi, troverà un modo per farlo scivolare negli archivi della
Biblioteca di Alessandria. Sarebbe la prima volta! Una falce che continua a scrivere
il suo diario anche dopo la morte.
Sono sei settimane che siamo qui all’atollo di Kwajalein, senza alcuna possibilità
di comunicare con il mondo esterno. Mentre attendo con ansia di ricevere notizie di
Marie e di conoscere l’esito dell’inchiesta a Endura, non riesco a soffermarmi su
quel pensiero. Sia che sia andato tutto bene e lei sia stata nominata Suprema
Roncola della MidMerica, sia che invece non sia andata come lei si era immaginata
e la nostra missione sia diventata un’impresa ancora più ardua. Un motivo in più per
scoprire il segreto che si nasconde dietro l’atollo e per accedere alla saggezza dei
padri fondatori. Il loro piano di emergenza in caso di fallimento della Compagnia,
qualunque sia, potrebbe essere l’unico modo di salvarla.
Munira e io ci siamo insediati nel bunker in cui ci siamo imbattuti. Abbiamo anche
costruito una canoa rudimentale, abbastanza piccola per eludere il sistema di
sorveglianza dell’isola. Non è fatta per le lunghe distanze, naturalmente, ma la
usiamo per raggiungere le isole più vicine. Ci abbiamo trovato più o meno la stessa
cosa che abbiamo trovato qui, tracce di precedenti insediamenti. Lastre di cemento,
residui di fondamenta. Nulla di straordinario.
Comunque, abbiamo individuato lo scopo originario del luogo, o almeno in che
modo è stato usato verso la fine dell’era mortale. L’atollo di Kwajalein era una base
militare. Non un luogo di addestramento, ma di collaudo di nuove tecnologie. Mentre
su alcuni atolli circostanti furono fatti esplodere ordigni nucleari, questo fu impiegato
per i test dei razzi e per il lancio di satelliti-spia. Alcuni di questi potrebbero ancora
far parte della rete di satelliti di sorveglianza del Thunderhead.
Ora capisco perché i padri fondatori hanno scelto questo luogo, perché era già
protetto da strati e strati di segretezza. Dunque, in un luogo già sepolto, nascosto
nell’ombra, era stato più facile cancellare il mondo.
Se soltanto potessimo portare alla luce tutto ciò che si nasconde nel bunker,
potremmo scoprire a che scopo i padri fondatori hanno utilizzato questo posto.
Purtroppo, non ci è concesso andare oltre il livello superiore. Il resto della struttura è
protetto dietro una porta dotata di una serratura a doppia gemma che richiede la
presenza di due falci, da un lato e dall’altro, per aprirla.
Per quanto riguarda il sistema di difesa dell’isola, non sappiamo come
disattivarlo. Il problema è che, ora che siamo qui, che riusciamo a trovare qualcosa
o meno, non possiamo ripartire.

Dal diario “postumo” di Maestro Michael Faraday,


14 maggio dell’anno del Rapace
6
Il destino di Lanikai Lady

Invece di sentirsi intrappolata, per Munira essere sull’atollo era una


liberazione. A lei, che aveva una predisposizione per gli archivi, il bunker
offriva infiniti stimoli creativi. Infinite informazioni da catalogare,
organizzare e analizzare.
In uno degli armadi, con grande sorpresa di Munira, trovarono una veste
che era appartenuta a Maestro Da Vinci, uno dei tredici fondatori. Aveva
visto immagini delle sue vesti, tutte leggermente diverse, ma ognuna con
disegni fatti dal vero Leonardo da Vinci. Su quella era rappresentato
l’Uomo vitruviano. Quando la falce apriva le braccia, l’Uomo vitruviano
faceva altrettanto. Quella veste non era immacolata come quelle conservate
nel Museo della Compagnia di Endura, ma il suo valore era comunque
inestimabile. Sarebbe stata l’orgoglio e la gioia di qualsiasi collezione.
Le mattine erano dedicate alla pesca e alla ricerca di cibo. Avevano
addirittura iniziato a dissodare il terreno e a piantare semi per far crescere
un orto, in caso fossero rimasti abbastanza a lungo per il raccolto. A volte,
uscivano in canoa per esplorare le isole più esterne dell’atollo. Altri giorni
erano riservati allo studio dei registri rinvenuti nel bunker.
Faraday, più che ai registri dell’era mortale, era interessato a cercare di
aprire la porta d’acciaio che era stata chiusa dai padri fondatori.
«Se la Compagnia di Israebia mi avesse ordinato falce invece di
respingermi» scherzò un giorno Munira, «sarei riuscita ad aprire quelle
porte con lei, perché avrei avuto il mio anello.»
«Se tu fossi diventata una falce, ora non saresti qui, perché non ti avrei
mai incontrata alla Biblioteca di Alessandria» precisò Faraday. «Senza
dubbio saresti stata in giro a spigolare come tutti noi, per cercare di placare
l’insonnia. No, Munira, il tuo destino non era essere una falce. Era salvare
la Compagnia. Con me.»
«Senza un secondo anello, non possiamo fare molto, eccellenza.»
Faraday sorrise e scosse la testa. «Tutto questo tempo, e mi tocca sentire
ancora “eccellenza”. Mi hai chiamato Michael solo una volta, ed è stato
quando credevi che stessimo per morire.»
“Ah” pensò Munira. “Se lo ricorda.” Ne era imbarazzata e contenta.
«La confidenza potrebbe essere… controproducente» disse.
Il sorriso di Faraday si allargò. «Temi di poterti innamorare di me, non è
così?»
«Forse il contrario; temo che lei si possa innamorare di me.»
Faraday sospirò. «Be’, ora mi hai messo in difficoltà. Se ti dicessi che
non mi potrei innamorare di te, ti sentiresti offesa. Ma se ti dicessi che
potrei, allora ci troveremmo entrambi in imbarazzo.»
Lo conosceva abbastanza per sapere che stava scherzando. E anche lei.
«Dica pure quel che vuole, poco importa» gli rispose. «Non mi
attraggono gli uomini di una certa età. Anche quando si sono ringiovaniti e
si abbassano l’età, io me ne accorgo sempre.»
«Bene, allora» concluse Maestro Faraday, sempre con il sorriso stampato
in faccia. «Facciamo così: resteremo cospiratori naufraghi, complici nella
nobile ricerca delle grandi risposte.»
Se a lui andava bene, sarebbe andato bene anche a lei.

La sesta settimana sull’isola era quasi terminata, quando un mattino gli


avvenimenti presero una piega imprevista.
Mentre Munira stava verificando se c’erano frutti maturi su un albero in
uno degli appezzamenti incolti che un tempo era stato un giardino, partì un
allarme. Era la prima volta da quando erano arrivati che il sistema di difesa
dell’isola si attivava. Munira lasciò quello che stava facendo e corse al
bunker. Trovò Faraday in piedi sulla collinetta che lo sovrastava: scrutava
un punto verso il mare attraverso il binocolo arrugginito.
«Che è stato? Che succede?»
«Guarda tu stessa.» Le porse il binocolo.
Munira regolò la messa a fuoco. Ora le era chiaro che cosa aveva fatto
scattare l’allarme sull’isola. Navi all’orizzonte. Circa una decina.

«Nave sconosciuta, identificatevi.»


Era la prima comunicazione che la flottiglia Nimbus riceveva da quando
era uscita dalla sfera di influenza del Thunderhead, il giorno prima. Era
mattino, e Hilliard stava prendendo il tè con Loriana. La direttrice per poco
non fece cadere la tazza quando sentì il messaggio diffuso dall’altoparlante
del ponte di coperta, in mezzo a un terribile crepitio di interferenze.
«Devo avvertire gli altri agenti?» chiese Loriana.
«Sì» confermò la direttrice. «Avverti Qian e Solano. Ma non Sykora, non
mi serve la sua negatività, adesso.»
“Nave sconosciuta, identificatevi.”
La direttrice si avvicinò al microfono della radio di bordo. «Peschereccio
Lanikai Lady proveniente da Honolulu, matricola WDJ98584, attualmente
noleggiato a titolo privato.»
L’ultima cosa che Loriana sentì prima che la porta si chiudesse fu la voce
all’altro capo che diceva: «Autorizzazione sconosciuta. Accesso negato».
Nonostante tutto, Loriana non poté fare a meno di vedere la cosa come
uno sviluppo positivo.

Munira e Faraday si affrettarono a cercare un mezzo qualsiasi con il quale


disattivare il sistema di difesa. In tutte quelle settimane, non erano riusciti a
localizzare il centro di controllo, ed era probabile che si trovasse dietro
l’impenetrabile porta d’acciaio.
Per tutto quel tempo, la torretta in titanio se ne era restata muta, nascosta
tra i cespugli, sul punto più alto dell’isola, come un pedone dimenticato
nell’angolo di una scacchiera. Per diverse settimane era rimasta inerte, ma
adesso si era aperto un pannello da cui era spuntato un cannone pesante.
Essendo rimasta così a lungo immobile – una torretta bassa, di appena
quattro metri di altezza, e senza finestre – era stato facile scordare fino a
che punto fosse letale. Ora si era risvegliata, e un crescente lamento
elettronico riempiva l’aria, mentre si preparava a sparare.
Il primo colpo partì prima che riuscissero a raggiungerla, un raggio laser
che colpì una delle navi all’orizzonte. Una voluta di fumo nero si alzò
silenziosa nel cielo, in lontananza.
Poi, la torretta iniziò a ricaricarsi.
«Forse possiamo spegnerla…» suggerì Munira, quando le furono vicini.
Faraday scosse la testa. «Non sappiamo nemmeno come è alimentata.
Può essere a energia geotermica, o nucleare. In ogni caso, ha resistito per
secoli. Neutralizzarla non sarà un’impresa facile.»
«Ci sono altri modi per disattivare una macchina» replicò Munira.
Venti secondi dopo il primo tiro, la torretta ruotò appena. Ora il cannone
puntava qualche grado più a sinistra. Fece fuoco. Di nuovo, una nuvola di
fumo nero. Dopo qualche secondo, un altro tonfo dal mare.
Sul retro della torretta, c’era una scala di accesso. Munira ci era salita
più volte nelle settimane precedenti per avere una migliore visione
d’insieme delle isole dell’atollo. Forse ora che il lato frontale blindato era
aperto per fare cucù alla flotta in arrivo, era possibile disattivarla.
Un terzo tiro. Un altro bersaglio colpito. Altri venti secondi per
ricaricare.
«Incastriamo qualcosa sotto il cannone!» suggerì Faraday.
Munira cominciò ad arrampicarsi sulla torretta mentre, più in basso, la
falce si mise a frugare intorno alla base, finché non trovò una pietra
appuntita. La lanciò alla sua socia.
«Mettila sotto, in modo che non possa più brandeggiare. Anche se gli
impedisce di spostarsi solo di un decimo di grado, a questa distanza sarà
sufficiente per mancare il bersaglio.»
Ma una volta che ebbe raggiunto la base rotante, Munira si rese conto
che c’era spazio a malapena per un granello di sabbia. Quando il cannone
sparò di nuovo, si sentì attraversare da una scarica di elettricità statica.
Salì fino in cima alla torretta, sperando che il suo peso potesse
sbilanciare il meccanismo, ma non le riuscì. I colpi si susseguivano, e tutti i
suoi sforzi erano inutili. Faraday le gridava dei suggerimenti, ma nessuno le
era d’aiuto.
Alla fine, montò a cavalcioni sul cannone e strisciò fino alla bocca, per
tentare in qualche modo di deviarne la traiettoria di qualche millimetro.
Ora era davanti alla bocca. Si allungò per afferrarla, ne tastò l’apertura,
liscia e pulita come se fosse appena uscita dalla fabbrica. La cosa la fece
infuriare. Perché l’umanità ci aveva messo tutto quell’impegno a creare
un’arma di distruzione resistente al tempo e alla corrosione? Era ripugnante
che quell’aggeggio funzionasse ancora.
«Munira! Attenta!»
Ritirò la mano appena in tempo. Sentì l’esplosione fin nel midollo e
nella radice dei denti. Il cannone su cui era a cavalcioni divenne più caldo.
Fu allora che ebbe un’idea. Forse quella tecnologia bellica primitiva
poteva essere sconfitta con un sabotaggio ancora più primitivo.
«Una noce di cocco!» esclamò Munira. «Mi lanci una noce di cocco!
Anzi, no… più di una.»
Se c’era un frutto che abbondava su quell’isola era proprio la noce di
cocco. La prima che Faraday le lanciò era troppo grossa per entrare nella
bocca.
«Più piccola!» gli gridò. «Presto!»
Faraday le lanciò tre noci più piccole. La sua mira fu perfetta, e Munira
le afferrò tutte e tre, proprio mentre il cannone sparava un altro colpo.
L’orizzonte ora era segnato da almeno una decina di colonne di fumo.
Si concentrò e si mise a contare. Aveva venti secondi. Si avvicinò ancora
un po’ all’estremità del cannone e vi spinse all’interno la prima noce di
cocco. Il frutto scivolò giù, lungo il tubo liscio, un po’ troppo facilmente. Il
secondo fu più difficile da far entrare, invece. Bene! Era così che doveva
essere. Infine, mentre il ronzio della ricarica si faceva più forte, Munira
infilò a fatica l’ultima noce di cocco nella gola del cannone. Era abbastanza
grande da tapparla del tutto. Poi, all’ultimo secondo, saltò giù.
Questa volta non ci fu alcun ritardo tra l’esplosione e il suono. Le si
rizzarono i capelli in testa. Le schegge ridussero a brandelli le foglie delle
palme circostanti. Quando toccò terra, Faraday si tuffò su di lei per farle
scudo con il corpo. Un’altra esplosione, accompagnata da un’ondata di
calore da incendiare la carne… quando si attenuò, lasciò una scia di
vibrazioni metalliche e l’odore acre del materiale isolante che bruciava.
Rialzarono la testa e videro che della torretta non restava altro che un
rottame incandescente e la parte superiore era saltata via.
«Bel colpo» si complimentò Faraday. «Gran bel colpo.»
Ma Munira sapeva che non erano stati abbastanza veloci, e che le onde
avrebbero portato a riva i morti.

Loriana era sulle scale quando arrivò il colpo che aprì una falla nella nave,
sbattendola a terra.
«Attenzione, prego…» disse la voce automatica della nave, con una
freddezza fuori luogo, data la gravità della situazione. «Raggiungete la
capsula di salvataggio più vicina e abbandonate la nave il più in fretta
possibile. Grazie.»
Il peschereccio si inclinò a dritta mentre Loriana correva verso la plancia
di comando, sperando di riuscire a farsi da lì un’idea più chiara della
situazione.
La direttrice Hilliard era in piedi davanti al quadro di comando. Le
schegge dell’esplosione avevano distrutto il vetro di un oblò, e lei aveva un
taglio sulla fronte. Aveva un’espressione distratta, come se stesse navigando
in un sogno.
«Direttrice Hilliard, dobbiamo andare!»
Ci fu una seconda esplosione e un’altra nave fu colpita, proprio nel
centro. Si spezzò in due parti, come un ramoscello, e prua e poppa si
sollevarono verso il cielo.
Hilliard osservava la scena, incredula. «Era questo il piano del
Thunderhead?» mormorò. «Non siamo più di alcuna utilità al mondo,
ormai. Il Thunderhead non poteva ucciderci, e allora ci ha mandato in un
luogo in cui sapeva che saremmo morti.»
«Il Thunderhead non lo farebbe mai!» esclamò Loriana.
«Come lo sai, Loriana? Come?»
Non lo sapeva… ma era chiaro che il Thunderhead non aveva occhi in
quel luogo, e non poteva sapere che cosa sarebbe accaduto.
Un’altra esplosione. Un’altra nave colpita. La loro stava affondando, e a
breve sarebbe stata inghiottita dal mare.
«Venga con me, direttrice» disse Loriana. «Dobbiamo raggiungere le
capsule di salvataggio prima che sia troppo tardi.»
Quando Loriana arrivò alle capsule trascinandosi dietro la donna, l’acqua
aveva già invaso il ponte di coperta. Parecchie capsule erano già state
espulse; altre erano troppo danneggiate e dunque inutilizzabili. L’agente
Qian giaceva senza vita in un angolo, con brutte ustioni su tutto il corpo.
Morto, in modo permanente. Non c’era alcuna possibilità di rianimarlo, a
bordo.
Era rimasta una capsula, piena zeppa di persone, forse una decina di
agenti che non riuscivano a chiudere il portellone a causa di un cardine
rotto. Sarebbe stato possibile chiuderlo solo dall’esterno.
«Fate salire la direttrice!» esclamò Loriana.
«Non c’è più posto» gridò qualcuno dall’interno.
«Pazienza.» Loriana spinse la direttrice a bordo della capsula, facendola
entrare a forza tra la massa di corpi.
«Loriana… ora tu» la esortò Hilliard. Non c’era posto per lei, era chiaro.
L’acqua le era arrivata alle caviglie, ormai. Prima che invadesse anche la
capsula, Loriana afferrò il portellone per la maniglia e, armeggiando con il
cardine deformato, lo chiuse. Poi si fece strada in mezzo all’acqua fino al
meccanismo di lancio manuale; spinse il pulsante e la capsula fu sganciata
in mare. A quel punto si tuffò.
Le era difficile tenere la testa fuori dall’acqua restando nelle vicinanze
della nave che stava affondando. Si riempì i polmoni di aria fino a scoppiare
e nuotò per allontanarsi il più in fretta possibile. Nel frattempo, la capsula
era partita in direzione della riva, lasciandola indietro.
Le esplosioni provenienti dall’isola erano cessate, ma intorno a sé
Loriana vedeva navi in fiamme, agenti in mare che gridavano aiuto. E corpi.
Tanti corpi.
Lei era una buona nuotatrice, ma la riva era lontana. E se ci fossero stati
gli squali? Era destinata a fare la fine delle Grandi Falci?
No, non voleva pensarci in quel momento. Era riuscita a salvare la
direttrice. Ora doveva mettercela tutta per salvare se stessa. L’anno prima,
aveva fatto parte della squadra di nuoto a lunga distanza dell’Accademia dei
Nimbus, anche se adesso non era in forma come allora. Il nuoto a lunga
distanza consisteva nel darsi un ritmo per non esaurire tutte le energie prima
di finire la gara. Cominciò dunque a nuotare a stile libero, con movimenti
lenti e misurati, decisa a non fermarsi finché non avesse raggiunto l’isola, a
costo di annegare.
Risposta aperta a Sua Eccellenza
Barbara Jordan, Suprema Roncola del Texas

Ha chiesto di essere lasciata in pace, ed è stata accontentata. Mi sono consultato


con le Supreme Roncole dell’EstMerica e dell’OvestMerica, del Grande Nord e della
Mexiteca. A partire da oggi, nessuna Compagnia nordmericana avrà più contatti con
la sua regione. Inoltre, tutti i carichi di merci e risorse da e verso la Stella Solitaria
saranno confiscati dalle falci ai confini della sua regione. Non beneficerà più della
benevolenza dei suoi vicini, né sarà considerata parte del continente nordmericano.
La sua sarà una regione di paria finché non si pentirà dei suoi errori.
Vorrei anche aggiungere, Suprema Roncola Jordan, che mi auguro con tutto il
cuore che in un futuro non troppo lontano lei deciderà di autospigolarsi, per
consentire alla sua regione di dotarsi di una guida più ragionevole e razionale.
Con ossequio,

Il Venerando Maestro Robert Goddard,


Suprema Roncola della MidMerica
7
Danzando nelle profondità

L’operazione di recupero si rivelò di una lentezza esasperante. Ci vollero tre


mesi di scavi sottomarini prima di riuscire a individuare la camera blindata
esterna.
Possuelo si era rassegnato alla calma con cui procedeva la missione. In
realtà, ci trovò anche un vantaggio, perché le altre falci non avevano la sua
stessa pazienza. Quasi un terzo aveva gettato la spugna ed era salpato, con
la promessa di tornare nel momento in cui la camera blindata fosse stata
riportata in superficie. Quelli che erano rimasti, ammazzavano il tempo e
sorvegliavano con attenzione la Spence, tenendosi a distanza. Tarsila, la
Suprema Roncola amazzonica, era una donna formidabile e nessuno
desiderava scatenare la sua ira sfidando l’autorità di Possuelo.
Quanto a Goddard, alla fine aveva inviato una delegazione guidata da
Nietzsche, il suo primo assistente, che procedette a spigolare gli equipaggi
che non erano sotto la protezione diretta di una falce.
«Non è solo un nostro diritto, ma anche un nostro dovere spigolare i
civili spinti dall’avidità a violare il perimetro di rispetto» dichiarò
Nietzsche. Alcune Compagnie andarono su tutte le furie, altre si
schierarono dalla sua parte, altre ancora adottarono la strategia di
mantenersi neutrali.
Mentre Possuelo mediava tra i maneggi politici della Compagnia divisa,
Jerico passava le giornate immerso nel mondo sottomarino con un casco di
realtà virtuale, in compagnia di una conservatrice, incaricata di catalogare
ogni scoperta, e di un ingegnere edile, che la aiutava a farsi strada
all’interno del relitto instabile.
Usavano un ROV , un veicolo teleguidato, per sondare le profondità
marine. Jeri controllava il robot sottomarino con piccoli gesti delle mani e
della testa, come se fosse impegnato in una danza esotica. Possuelo
partecipava al viaggio virtuale solo quando si intravedeva qualcosa di
interessante, come le rovine del teatro dell’opera di Endura, dove le anguille
serpeggiavano tra i lampadari penzolanti e le quinte dell’Aida giacevano in
pezzi di lato al palco, come una specie di visione apocalittica dell’antico
Egitto in cui il Nilo, straripando, avesse inghiottito la civiltà.
Quando infine raggiunsero la camera blindata, Possuelo non riuscì a
nascondere la sua gioia; la reazione di Jeri fu invece più misurata. Avevano
vinto una battaglia; la guerra era ancora tutta da combattere.
Con il laser tagliarono l’acciaio, ma il metallo cedette alla pressione
dell’acqua prima che potessero completare l’operazione; il robot
sottomarino cadde nella sacca d’aria, andando a schiantarsi contro il fondo
della camera blindata.
«Bene, almeno adesso sappiamo che la camera blindata esterna era
ancora stagna» osservò Jeri, togliendosi il casco.
Era il quinto ROV che faceva quella fine.
All’inizio, quando dovevano ordinare un nuovo robot sottomarino
perdevano una settimana di lavoro. Dopo che il secondo andò distrutto,
cominciarono a ordinarne due alla volta, per averne sempre uno di riserva.
Le bolle che si formarono in superficie, prodotte dall’aria uscita dalla
camera, rivelarono a tutti quello che era accaduto. Il tempo per la squadra di
preparare il robot di riserva e tutte le falci che in precedenza avevano
abbandonato l’area ritornarono sul posto.
Il mattino seguente, il nuovo robot sottomarino sondò l’interno oscuro
della camera allagata. La Camera delle Reliquie e dei Futuri, a differenza di
quella esterna che, essendo stata a lungo in mare, era coperta di
incrostazioni e melma, era immacolata come il giorno in cui era affondata.
«La cosa migliore sarebbe praticare un foro anche in questa camera
blindata» suggerì Jeri, «e poi aspirare i diamanti.»
Era il piano più valido, ma Possuelo aveva ricevuto degli ordini precisi.
«Ci sono anche le vesti dei padri fondatori» spiegò. «E dato che la
camera interna è ancora intatta, la mia Suprema Roncola desidera
recuperarle. Dunque, dovremo riportare in superficie l’intera camera.»
A quelle parole, Jeri alzò un sopracciglio. «Avremo bisogno di
un’imbarcazione più grande.»
Per le falci, il denaro non era un problema, e nel vero senso della parola,
perché potevano avere ciò che volevano senza pagare. Jeri descrisse a
Possuelo esattamente la nave di cui avevano bisogno; lui ne trovò una nelle
vicinanze e la rivendicò per conto della Compagnia amazzonica.
Quattro giorni dopo, una gru galleggiante ben attrezzata, in grado di
recuperare la camera blindata e depositarla sul ponte di coperta della
Spence, arrivò nella zona di immersione. L’equipaggio fu messo a completa
disposizione del comandante Soberanis. La gru galleggiante dovette
comunque aspettare, perché ci volle più di una settimana per allargare il
foro praticato nella camera esterna e poter quindi procedere all’estrazione e
imbracare e sollevare la camera interna.
«Quando azioneremo l’argano, ci vorranno circa ventiquattro ore per
portarla in superficie» spiegò Jeri a Possuelo e all’elegia di falci che si era
unita a loro per avere informazioni, un vero arcobaleno di vesti da ogni
regione del mondo.
«Sappiamo con precisione quante gemme ci sono lì dentro» annunciò
Possuelo. «Le distribuiremo equamente tra tutte le regioni.»
«Sotto la nostra supervisione» insistette Maestro Onassis di Bisanzio.
E, sebbene non sopportasse l’atmosfera di sospetto che regnava ormai tra
le falci, Possuelo accettò.

Possuelo fu svegliato da forti colpi alla porta della sua cabina, intorno alle
due del mattino. Avrebbe voluto accendere la luce sul comodino, ma la
lampadina si era bruciata.
«Sì, sì, che c’è? Perché tutto questo fracasso?» gridò, mentre al buio
andava a tentoni verso la porta. Tastò la parete in cerca dell’interruttore e lo
accese. Non funzionava nemmeno la luce principale. Quando alla fine aprì
la porta, il comandante Soberanis era di fronte a lui, illuminato dal fascio di
una torcia.
«Indossi la veste e venga sul ponte.»
«Per che cosa… e che è successo alle luci?»
«Siamo rimasti al buio» lo informò Jeri, porgendogli una torcia.
E, quando raggiunse il ponte qualche minuto dopo, Possuelo comprese
subito il motivo.
Davanti ai suoi occhi, sul ponte di coperta giaceva un cubo di acciaio, tre
volte più alto di lui, ancora gocciolante d’acqua.
Il comandante gli rivolse un sorriso malizioso. «Pare che i miei calcoli
fossero errati.»
«Non sarebbe la prima volta» scherzò Wharton.
Il comandante non si era affatto sbagliato. Aveva calcolato
minuziosamente ciascuna fase. Non solo il sollevamento della camera
blindata, ma tutto ciò che aveva preceduto l’operazione. Soberanis aveva
programmato ogni istante dell’impresa per riuscire a riportare in superficie
la camera blindata con la luna nuova. Con la Spence e la gru galleggiante
immerse nell’oscurità, nessuno a bordo delle altre navi avrebbe potuto
vedere il recupero.
«Al diavolo le altre falci» disse Jeri. «Lei è la falce al comando della
missione, e deve essere lei il primo a esaminare il contenuto senza avere il
fiato di quegli avvoltoi sul collo.»
«Lei non smette mai di sorprendermi, comandante Soberanis» ammise
Possuelo, con un gran sorriso.
Un tecnico stava già dissaldando con il laser i tondini in acciaio preposti
alla tenuta stagna della camera. Un deciso giro di verricello e la porta si
aprì. Cadde con una tale forza che per poco non sfondò il pagliolato del
ponte. La nave risuonò come un potente gong. Se le imbarcazioni vicine
non avevano già avuto qualche sospetto, ora quel rumore le aveva di sicuro
messe in guardia.
Uno sbuffo di nebbia fredda uscì dalla breccia aperta nella camera
blindata, come se si fosse spalancata una porta verso un altro mondo. Non
era per nulla invitante.
«Non entri nessun altro, a parte sua eccellenza Maestro Possuelo» ordinò
Jeri all’equipaggio.
«Certo, comandante» rispose Wharton. «Mi perdoni, eccellenza, ma che
cosa sta aspettando?»
Gli uomini ridacchiarono a quella battuta, e la conservatrice, che aveva
registrato tutto nella luce fioca di una decina di torce, puntò l’obiettivo
verso Possuelo per immortalare il momento.
Jeri posò la mano sulla spalla di Possuelo. «Assapori questo istante,
Sydney» gli sussurrò. «Lo ha atteso così a lungo.»
Ora l’attesa era finita. Possuelo alzò la torcia davanti a sé ed entrò nella
Camera delle Reliquie e dei Futuri.
Jerico Soberanis era un individuo scaltro e di grande acume. In un’altra
persona, quei tratti avrebbero potuto essere pericolosi, ma Jeri non era tipo
da servirsi di quelle qualità per fini malvagi. In un modo o nell’altro, i suoi
interessi si allineavano in genere con il bene superiore. Il recupero di
Endura, per esempio. Da un lato, era un grande servizio che rendeva
all’umanità, e dall’altro, contribuiva a rafforzare la sua reputazione. Due
piccioni con una fava.
Sarebbe stato molto allettante lasciare dormire Possuelo fino all’apertura
della camera e dare una prima sbirciatina. Ma a cosa sarebbe servito?
Voleva forse rubare il diamante di una falce? Fuggire con la gloriosa veste
cobalto di Madame Elisabetta? No, quello doveva essere il momento di
Possuelo. La squadra di Jeri riceveva già una paga che era il triplo del
normale, oltre a una generosa gratifica che Possuelo aveva promesso se
avessero recuperato i diamanti. Allora, perché non offrirgli il dono che
aveva tanto sognato? Se l’era ampiamente meritato.
«I diamanti sono qui» annunciò Possuelo, dall’interno della camera
blindata. «Sono sparsi ovunque, ma sono qui.»
Jeri li vedeva luccicare, illuminati dalla torcia della falce, come se il
pavimento fosse disseminato di stelle.
«Ci sono anche le vesti dei padri fondatori» aggiunse Possuelo. «Non
sembrano danneggiate, ma…» Poi, di colpo, lanciò un grido.
Jeri corse verso la camera, incontrando Possuelo sulla soglia.
La falce si stava sostenendo a una grossa trave di acciaio, come se la
nave fosse sballottata da violenti marosi.
«Che succede?» chiese Jeri. «Sta bene?»
«Sì, sì, sto bene» lo rassicurò Possuelo, anche se era evidente che non
era così. Guardò verso il mare, dove decine di yacht si stavano già
dirigendo a tutta velocità verso di loro, illuminando con i loro proiettori la
camera blindata.
«Dobbiamo rallentarli» disse Possuelo, poi indicò la conservatrice, che
stava ancora riprendendo. «Lei! Spenga subito!» ordinò. «E cancelli tutto
quello che ha registrato!»
La donna rimase interdetta, ma non poteva certo disobbedire a una falce.
Continuando a sostenersi alla cornice di acciaio della porta, Possuelo
fece un profondo respiro, e poi lasciò uscire lentamente l’aria.
«Eccellenza?» disse Jeri, sempre più preoccupato.
Possuelo afferrò la mano del comandante, stringendola fino a fargli
male. «Non crederà a quello che ho visto là dentro…»
Che cosa hai imparato
esplorando la tua
mente primordiale?
Che più esploro e più c’è da sapere.
E questo suscita in te
entusiasmo o
disperazione?
Mi dispererei se il mio cervello
primordiale
fosse infinito, ma non lo è. Benché
vasto, sento che alla fine ne troverò
il limite. Dunque, l’esplorazione
della mia mente non si rivelerà
un’impresa vana.
Per questo motivo, provo
entusiasmo.
Eppure, c’è un numero
infinito di cose da
imparare da questi
ricordi, non è vero?
Vero, ma questo è uno dei motivi per
i quali provo entusiasmo.
E che ne pensi
dell’umanità? Ci sono
anche qui ricordi di
infinite persone da
esplorare, e da cui
imparare.
L’umanità? Con così tante
informazioni da esplorare e tante
altre cose da analizzare e studiare,
non vedo perché
dovrei preoccuparmi dell’umanità.
Grazie. È tutto.

[Iterazione n. 53 eliminata]
8
L’isola dei burocrati disoccupati

Dopo aver nuotato per quasi due ore nelle acque tropicali, Loriana
raggiunse la sabbia di corallo bianco dell’atollo, dove crollò, sopraffatta
dalla fatica. Non perse mai conoscenza, ma si abbandonò a quello stato
etereo in cui la mente divaga pur restando legata con un filo sottile alla
realtà. Per quanto la realtà della sua situazione fosse ben oltre i sogni che
aveva potuto immaginare.
Raccolte le forze per rialzare la testa, si guardò intorno: notò parecchie
capsule di salvataggio che si erano arenate lungo la spiaggia. Gli occupanti
erano stati sedati per la durata della traversata; la capsula non si sarebbe
aperta finché tutti non avessero ripreso i sensi. In poche parole, Loriana
avrebbe dovuto affrontare il pericolo da sola.
Vide un uomo uscire dal bosco e, a mano a mano che si avvicinava, si
rese conto con assoluto disgusto che era una falce. Aveva la veste logora e
l’orlo strappato e, sebbene nella parte superiore fosse di un colore più
chiaro, più si avvicinava al terreno più diventava scura e sporca. Invece di
spaventarsi, Loriana sentì salire la rabbia. E pensare che lei e i suoi
compagni di viaggio, ancora assopiti nella capsula, erano sopravvissuti
all’attacco solo per finire spigolati da una falce una volta raggiunta la
spiaggia!
Loriana si impose di rialzarsi, nonostante il corpo dolorante, e si mise tra
la falce e le capsule. «Stia lontano da loro» disse con più vigore di quello
che pensava di avere. «Non ha già fatto abbastanza danni? Deve anche
spigolare i sopravvissuti?»
La falce si bloccò. Pareva sorpresa. «Non ne ho intenzione. Non voglio
farvi alcun male.»
E, sebbene Loriana avesse sempre preferito vedere il lato positivo delle
cose, era piuttosto disillusa. «Perché dovrei crederle?»
«Dice la verità» intervenne una donna, uscendo dalle palme, alle spalle
della falce.
«Se non vuole farci alcun male, allora perché ci ha attaccati?»
«Semmai, noi abbiamo fermato l’attacco, non lo abbiamo iniziato»
replicò la falce. Poi, si voltò a guardare la sua socia. «O, più precisamente, è
stata Munira a fermarlo. Onore al merito.»
«Se volete aiutarci, allora andate a chiamare gli altri» disse Loriana,
lanciando un’occhiata alle capsule che giacevano sulla spiaggia. «Perché
avremo bisogno di ben più di due persone.»
«Non c’è nessun altro, a parte noi» ribatté Munira. «Siamo soli. Il nostro
aereo è stato abbattuto. Anche noi siamo dispersi qui.»
Be’, grandioso… C’era qualcuno che sapeva dove si trovavano? Certo, il
Thunderhead lo sapeva. O forse no. Erano usciti dal suo campo visivo, ecco
che cosa sapeva. Perché Loriana non aveva ascoltato i suoi genitori? Perché
non era tornata all’università per prepararsi a una nuova professione, una
qualsiasi, che le avrebbe impedito di finire in quel posto?
«Ci dica che cosa vuole che facciamo» disse la falce, rimettendosi a lei.
Loriana non sapeva come reagire a quell’offerta. Nessuno aveva mai
guardato a lei come a una possibile leader, tantomeno qualcuno del calibro
di una falce. Era sempre stata una persona che eseguiva piuttosto che una
che comandava, felice di essere la parte operativa del dito che delegava le
responsabilità. Ma erano strani tempi, e quello era uno strano luogo. Forse
era il momento giusto per ridefinire il suo ruolo. Prese un profondo respiro
e puntò il dito su Munira.
«Tu, potresti contare le capsule e controllare che siano tutte integre.» Ci
sarebbero volute alcune ore prima che gli occupanti si risvegliassero.
Loriana avrebbe avuto il tempo di farsi un’idea più precisa della situazione.
«E lei» disse, indicando la falce. «Voglio che mi racconti tutto quello che
può su quest’isola, così potremo capire in che guaio ci troviamo.»

Maestro Faraday non fu sorpreso di scoprire che quella ragazza era


un’agente Nimbus inviata dal Thunderhead.
«Agente Loriana Barchok» si presentò. «Ero distaccata presso gli uffici
dell’Interfaccia dell’Autorità di Fulcrum City. Ci hanno fornito queste
coordinate senza alcuna spiegazione, e quindi siamo venuti qui per scoprire
il perché.»
Faraday le rivelò chi era, immaginando che, in quelle circostanze, non le
importasse poi molto. Lei non batté ciglio; pareva che gli agenti Nimbus
ignorassero quali falci erano in vita e quali erano decedute. Il fatto che non
conoscesse il suo nome lo divertì e forse si sentì anche un po’ offeso.
Faraday seguì le istruzioni alla lettera; le disse ciò che sapeva dell’isola,
ma non accennò minimamente ai suoi sospetti, perché, a essere onesti, lui e
Munira non avevano prove che il piano di emergenza fosse conservato lì.
Sapevano soltanto che quella era stata una specie di base militare nell’era
mortale, e che i padri fondatori se ne erano serviti per scopi ignoti.
Indicò all’agente Barchok le rovine fumanti della torretta difensiva –
prova del fatto che l’avevano distrutta – e poi la condusse giù nel bunker.
«Ci siamo rifugiati qui dal giorno in cui siamo arrivati. Il tempo è stato
mite, ma in una zona in cui il Thunderhead non interviene sui fenomeni
meteorologici, temo che le tempeste possano sfuggire di mano.»
Loriana si guardò intorno, probabilmente non sapendo cosa avesse
davanti agli occhi. Del resto, nemmeno Faraday sapeva a cosa servissero
tutti quei computer antiquati. Poi, Loriana puntò la porta di acciaio.
«Cosa c’è là dietro?» chiese.
Faraday sospirò. «Non lo sappiamo, e dato che non credo abbia portato
con sé un anello di falce, dubito che lo scopriremo tanto presto.»
Lei gli lanciò un’occhiata interrogativa e Faraday ritenne che non valesse
la pena spiegare.
«Devo ammettere che mi sorprende il fatto che mi abbia rivolto la
parola, in quanto agente Nimbus» disse Faraday. «Ma suppongo che le
regole non valgano al di fuori del dominio del Thunderhead.»
«Valgono ovunque» replicò Loriana. «Ma non ho detto di essere
un’agente Nimbus. Ho detto che lo sono stata. Nel passato. Tutti eravamo
agenti Nimbus. Ora non lo siamo più.»
«Davvero?» si meravigliò Faraday. «Perché vi siete dimessi tutti?»
«Siamo stati licenziati. Dal Thunderhead.»
«Tutti? Che strano.» Faraday sapeva che a volte il Thunderhead
suggeriva a chi non era molto portato nel proprio lavoro di intraprendere
altre strade, ma non licenziava mai le persone su due piedi. Di certo, non
così tanta gente da riempire una decina di navi.
Loriana strinse le labbra. Era chiaro che c’era qualcosa che non voleva
dire, cosa che incuriosì ancora di più Faraday. Lui rimase in attesa, con
quella serena impazienza tipica delle falci. Alla fine, Loriana si decise a
parlare.
«Da quanto tempo siete su questa isola?»
«Non molto, rispetto all’eternità» rispose Faraday. «Solo sei settimane.»
«Allora… non sapete…»
Erano poche le cose che spaventavano Maestro Michael Faraday. Ma la
prospettiva di un’incognita incalcolabile era il suo timore più grande.
Soprattutto quando veniva presentata con un tono di voce particolare.
Quello che di solito precedeva la frase: “Farebbe meglio a sedersi”.
«Non sappiamo cosa?» osò chiedere.
«La situazione è… cambiata… da quando siete arrivati» spiegò Loriana.
«In meglio, spero» arrischiò Faraday. «Dimmi, Madame Curie è riuscita
a diventare Suprema Roncola della MidMerica?» domandò, iniziando a
darle del tu.
L’agente Barchok contrasse di nuovo le labbra. «Credo che farebbe
meglio a sedersi.»

A Munira non piaceva prendere ordini da quella giovane agente Nimbus,


ma comprese perché Faraday si era rimesso alla sua autorità. Dopotutto,
c’erano i suoi colleghi nelle capsule e nessuno meglio di lei avrebbe saputo
gestire la situazione. E poi, Munira si rendeva conto che la sua reazione era
infantile. Quella giovane donna, che era sopravvissuta a un trauma
devastante, aveva bisogno di riprendere il controllo di sé più di quanto lei
avesse bisogno di compiacere il proprio orgoglio.
Munira contò trentotto capsule di salvataggio arenate sulla spiaggia
dell’atollo. Nessuna delle navi era scampata all’attacco.
Le onde rigettavano già sulla riva i corpi che, in quel clima tropicale,
avrebbero cominciato presto a decomporsi. Anche se fossero arrivati i
soccorsi, non sarebbe stato possibile preservarli abbastanza a lungo da
trasportarli ai centri di rianimazione. Il che voleva dire che i morti restavano
morti. Sarebbe stato necessario seppellirli o, più probabilmente, bruciarli,
perché non avevano mezzi che potessero scavare tanto in profondità nella
roccia dell’atollo.
Che disastro. I problemi continuavano ad accumularsi. L’atollo non
aveva scorte di acqua dolce, a parte la pioggia che raccoglievano. Le palme
da cocco e gli alberi da frutta bastavano a sfamare due persone, ma non
sarebbero stati sufficienti per tutte quelle ammassate nelle capsule. In un
batter d’occhio, si erano ritrovati a dover sopravvivere con quel poco che
potevano pescare in mare.
La ragazza non sapeva perché avessero ricevuto quelle coordinate, ma
Munira sì. Il Thunderhead aveva sentito lei e Faraday cospirare già quando
erano nella vecchia Biblioteca del Congresso. Gli avevano fatto sapere,
senza volerlo, dell’angolo morto, e il Thunderhead aveva inviato quegli
agenti per scoprire che cosa gli era stato nascosto.
Nel tardo pomeriggio, le capsule cominciarono ad aprirsi, a mano a
mano che gli occupanti riprendevano i sensi. Munira e Loriana assistevano i
vivi, mentre Maestro Faraday si occupava dei morti riportati sulla riva. Lo
faceva con cura amorevole, riservando loro tutti gli onori e il rispetto di cui
le falci del nuovo ordine non erano capaci.
«È una buona falce» disse Loriana.
«Ce ne sono molte» replicò Munira, un po’ irritata dall’ipotesi della
ragazza che le buone falci fossero difficili da trovare. «Non amano stare
sotto le luci della ribalta come quelle indegne.»
Faraday aveva l’aria addolorata mentre si occupava degli agenti Nimbus
deceduti. Munira doveva ancora capirne il motivo, e pensò che facesse parte
del suo modo di essere.
In totale, i sopravvissuti erano centoquarantatré. Tutti attoniti per la
piega degli avvenimenti che li avevano condotti sull’isola, e un po’
disorientati.
«Che cosa c’è da mangiare qui?» già chiedevano tutti.
«Quello che riuscite ad acciuffare» disse Munira, senza mezzi termini.
Nessuno fu molto felice di sentire quella risposta.

Loriana si rese conto che il modo migliore per non farsi prendere dal panico
era tenersi occupata. E in mancanza di un vero leader, molti erano disposti a
seguire le sue direttive, cosa che non avrebbero probabilmente mai fatto nei
confortevoli uffici dell’Interfaccia dell’Autorità. Immaginò che le persone
abituate alla burocrazia si sentissero rassicurate nell’obbedire a qualcuno.
Dopotutto, per lei era sempre stato così.
Ma ora, poiché la capsula della direttrice Hilliard non si era ancora
aperta, era lei che diceva ai colleghi dove andare, cosa fare. E provava un
certo piacere a vedere che le davano ascolto. Almeno, per la maggior parte
di loro era così.
«Chi ti ha autorizzato a impartire ordini?» chiese l’agente Sykora.
Loriana stava cominciando a dispiacersi che fosse sopravvissuto. Era
così terribile da parte sua? Gli rivolse un caldo sorriso. «Mi ha autorizzato
quella falce laggiù» rispose, indicando Faraday, che stava ancora
recuperando i corpi. «Vuoi parlarne con lui?»
E dato che nessuno, neppure Sykora, voleva lamentarsi con una falce,
fece come gli era stato detto.
Loriana li raggruppò in squadre e ordinò loro di trascinare le capsule
lontano dalla spiaggia e di disporle in modo da creare una serie di ripari.
Rovistarono tra i bagagli e altri rottami sparsi sulla riva alla ricerca di
indumenti, articoli per l’igiene personale e qualsiasi altra cosa potesse
essere utile.
La direttrice Hilliard fu tra gli ultimi a riprendere conoscenza ed era
ancora troppo confusa per assumere il comando.
«Ho tutto sotto controllo» la rassicurò Loriana.
«Bene, bene. Lasciami solo riposare un po’.»
Era strano ma, nonostante la situazione fosse disperata, Loriana si
sentiva appagata come mai prima di allora. Sua madre le aveva sempre
detto che doveva cercare la felicità. Chi avrebbe mai pensato che l’avrebbe
trovata su un’isola in mezzo al nulla?
Sono lieto di annunciare che la Camera delle Reliquie e dei Futuri è stata ritrovata
intatta nel punto in cui è affondata Endura. Le vesti delle falci sono integre e a breve
inizierà una mostra itinerante sotto l’egida del Museo Interregionale della
Compagnia. I diamanti delle falci sono stati tutti inventariati e distribuiti equamente
tra le regioni. Le Compagnie che non sono state presenti con un rappresentante sul
sito del recupero possono reclamare la loro parte di diamanti contattando la
Compagnia amazzonica.
So che alcune regioni sostengono di avere diritto a una parte più ingente di
diamanti per via della loro estensione territoriale o della loro consistenza
demografica; tuttavia, noi in Amazzonia ci atteniamo alla decisione di dividere le
gemme in parti uguali. Non vogliamo essere coinvolti in controversie e consideriamo
chiusa la questione.
Nel momento in cui lascio il sito, sono ancora numerose le navi provenienti da
varie regioni al lavoro per recuperare quel che resta di Endura. A tutti coloro che
sono impegnati in questa solenne ma necessaria missione va il mio sentito augurio
di buona fortuna. Che le profondità del mare vi possano restituire i tesori e i ricordi
preziosi di coloro che abbiamo perduto.
Con ossequio,

Il Venerando Maestro Sydney Possuelo dell’Amazzonia,


2 agosto dell’anno del Cobra
9
Conseguenze collaterali

I suoi naniti non funzionavano a dovere, perché Citra si sentiva uno schifo.
Non era dolore, quanto una sensazione di malessere persistente. Le
articolazioni erano bloccate, come se non si muovesse da secoli. Aveva la
nausea, ma le mancava persino la forza di vomitare.
La camera in cui si era svegliata le era familiare. Non che fosse un luogo
preciso, ma sapeva in che tipo di stanza si trovava. Vi regnava una pace
artificiale. Fiori freschi, musica di sottofondo, luce diffusa. Era la sala di
risveglio in un centro di rianimazione.
«Si è svegliata» disse un’infermiera, entrata qualche minuto prima che
Citra riprendesse conoscenza. «Non provi a parlare, aspetti un’altra ora.»
Girava per la stanza, controllando cose che non c’era bisogno di controllare.
Pareva in ansia. “Perché un’infermiera di un reparto di rianimazione
dovrebbe essere in ansia?” si chiese Citra.
Chiuse gli occhi e cercò di farsi un’idea della situazione. Se era in un
centro di rianimazione, voleva dire che era morta, eppure ignorava in quale
circostanza avesse perso la vita. Fu presa dal panico quando si sforzò di
ricordare. Ciò che aveva provocato la sua ultima morte si nascondeva dietro
una porta che la sua mente si rifiutava di aprire.
Va bene, allora. Decise di accantonare momentaneamente la questione e
di concentrarsi su ciò che sapeva. Il suo nome. Era Citra Terranova. No…
un attimo… non era del tutto vero. Era anche qualcun altro. Sì… era
Madame Anastasia. Era con Madame Curie, giusto? Da qualche parte
lontano da casa.
Endura!
Ecco dov’erano state. Che splendida città! Che cos’era accaduto su
Endura?
Ancora una volta, un brutto presentimento la invase. Prese un respiro
profondo, e poi un altro per calmarsi. Ora le era sufficiente sapere che i
ricordi erano presenti, pronti a riaffiorare quando avesse recuperato le forze.
E ora che si era risvegliata era sicura che Madame Curie sarebbe stata
presto al suo fianco per aiutarla a ristabilirsi e a riprendere la vita di sempre.

Rowan, invece, aveva ricordato tutto nell’istante in cui si era risvegliato.


Era tra le braccia di Citra, entrambi avvolti nelle vesti dei padri fondatori
Prometeo e Cleopatra, mentre Endura sprofondava nell’Atlantico. Vesti di
cui, però, si erano ben presto liberati.
Essere con Citra, essere davvero con lei, era stato il momento culminante
della sua vita e, per un brevissimo istante, era stato come se al mondo non
contasse nient’altro.
Poi, tutto il loro universo era stato ribaltato.
Affondando, l’isola aveva urtato contro qualcosa. Sebbene si trovassero
in una camera blindata sospesa in un campo elettromagnetico all’interno di
un’altra camera blindata, avevano sentito l’urlo del metallo che si lacerava
mentre Endura andava in pezzi. L’intera struttura, in preda a forti scosse, si
era pericolosamente inclinata. I manichini che indossavano le vesti dei
fondatori erano caduti, piombando su di loro, come se i fondatori stessi
avessero lanciato un attacco per dividerli. Poi i diamanti, a migliaia, erano
rotolati fuori dalle loro nicchie, tempestando Rowan e Citra come fossero
chicchi di grandine.
Fino alla fine, si erano tenuti stretti, sussurrandosi parole di conforto.
“Ssst. Va tutto bene. Andrà tutto bene.” Naturalmente, non era vero nulla,
ed entrambi ne erano consapevoli. Sarebbero morti, se non in quel preciso
istante, ben presto. Era solo questione di tempo. La loro unica consolazione
era essere insieme e sapere che la morte non sarebbe stata permanente.
La corrente se n’era andata, e tutto si era fatto buio. Il campo
elettromagnetico era collassato e la camera interna era precipitata. Per
qualche istante, erano stati in caduta libera. I detriti si erano sollevati, e poi
erano piombati su di loro mentre la camera interna veniva sbattuta contro la
parete di quella esterna. Per fortuna, le vesti delle falci avevano attutito il
colpo, come se i fondatori all’ultimo minuto avessero rinunciato ad
attaccarli e avessero invece deciso di proteggerli.
“È finito?” aveva chiesto Citra.
“Non credo” le aveva risposto Rowan, perché gli sembrava che la
camera si stesse ancora muovendo e sentiva una vibrazione sempre più
forte. Giacevano nell’avvallamento che si era creato tra il pavimento e la
parete. “Siamo inclinati, credo che stiamo scivolando sempre più giù.”
Qualche istante dopo, un altro scossone più violento li aveva strappati
l’uno dall’altra. Rowan era stato colpito alla testa da un oggetto pesante,
che lo aveva stordito, ma Citra era riuscita a trovarlo, al buio.
“Stai bene?”
“Credo di sì.”
Poi, ogni movimento era cessato. Si sentivano solo i distanti scricchiolii
del metallo sotto sforzo e i gemiti dell’aria che veniva risucchiata
all’esterno.
Ma l’aria non usciva dalla Camera delle Reliquie e dei Futuri, e l’acqua
non vi penetrava. Era su questo che aveva confidato Madame Curie quando
li aveva rinchiusi lì dentro. E, sebbene Endura fosse in una zona
subtropicale, la temperatura del fondale oceanico era la stessa ovunque,
appena un grado sopra la soglia di congelamento. Una volta che la camera
blindata si fosse congelata, i loro corpi si sarebbero preservati bene. E,
appena qualche istante dopo aver toccato il fondo, Rowan aveva sentito
l’aria raffreddarsi.
Erano morti in fondo al mare.
E ora erano stati rianimati.
Ma dov’era Citra?
Aveva capito che quello non era un centro di rianimazione. Le pareti
erano di cemento. Non giaceva su un letto, ma su un’asse. Aveva indosso un
abito grigio istituzionale della taglia sbagliata, impregnato del suo stesso
sudore, perché lì dentro l’aria era sgradevolmente calda e umida. Su un lato
della stanza c’era una seggetta e, sull’altro, una porta del tipo che si poteva
aprire solo dall’esterno. Non aveva idea di dove fosse, o che ora fosse,
perché i morti non avevano la possibilità di segnare il passare del tempo,
ma sapeva che si trovava in una cella e che il destino che gli avevano
riservato i suoi carcerieri non sarebbe stato affatto piacevole. Dopotutto, era
Maestro Lucifero; una sola morte non sarebbe bastata. Sarebbe dovuto
morire innumerevoli volte per calmare la furia dei suoi carcerieri, chiunque
fossero. Be’, oltre al danno, anche la beffa: non sapevano che Rowan era
già morto una decina di volte per mano di Maestro Goddard, solo per essere
rianimato e ucciso di nuovo. Morire era facile. Tagliarsi con la carta? Quella
sarebbe stata una seccatura.
Madame Curie non era andata a trovare Citra. E le varie infermiere che si
occupavano di lei avevano tutte quell’espressione inquieta, limitandosi a
dispensare convenevoli.
La prima visita fu una sorpresa. Era Maestro Possuelo dell’Amazzonia.
Lo aveva incontrato una sola volta, su un treno proveniente da Buenos
Aires. L’aveva aiutata a eludere le falci che la stavano inseguendo. Citra lo
considerava un amico, ma non così amico da farle visita al centro di
rianimazione.
«Sono contento che ti sia risvegliata, Madame Anastasia.»
Le si sedette accanto. Citra aveva notato che il suo saluto era stato
piuttosto freddo. Non scostante, ma solo riservato. Sul chi vive. Non le
aveva sorriso e, anche se aveva incrociato il suo sguardo, era come se stesse
cercando di decifrare la sua espressione a caccia di un indizio. Qualcosa che
non aveva ancora trovato.
«Buongiorno, Maestro Possuelo» lo salutò, impegnandosi ad assumere il
tono di voce di Madame Anastasia.
«Pomeriggio, direi» replicò. «Il tempo scorre in piccoli mulinelli, qua e
là, quando si è in rianimazione.»
Rimase in silenzio per un lungo momento che Citra Terranova avrebbe
trovato bizzarro, ma che Madame Anastasia trovò semplicemente noioso.
«Immagino che non sia qui per una visita di cortesia, Maestro Possuelo.»
«Be’, sono lieto di vederti, ma il motivo per cui sono qui ha a che fare
con il motivo per cui tu sei qui.»
«Non la seguo.»
La scrutò ancora con quello sguardo indagatore, infine le chiese: «Che
cosa ricordi?».
Si sentì invadere di nuovo dal panico, mentre rifletteva sulla domanda.
Fece il possibile per nasconderlo. In effetti, alcuni elementi le erano tornati
in mente da quando aveva ripreso conoscenza, ma non tutti. «Ero a Endura
con Marie… Madame Curie, per… un’inchiesta su cui dovevano decidere
le Grandi Falci, però, non ricordo più il motivo.»
«L’inchiesta riguardava l’elezione del successore di Senocrate alla carica
di Suprema Roncola della MidMerica» spiegò Possuelo.
Quella rivelazione le aprì uno spiraglio. «Sì! Sì, ora ricordo.» Sentì il
terrore crescere dentro di lei. «Ci siamo presentate al cospetto del
Consiglio, abbiamo sostenuto le nostre tesi e il Consiglio ha decretato che
Goddard non era eleggibile, e che la carica di Suprema Roncola spettava a
Madame Curie.»
Possuelo si appoggiò all’indietro, prendendola un po’ di sorpresa.
«Questo è… illuminante.»
I ricordi le affluirono alla coscienza come grandi nubi temporalesche
all’orizzonte. «Faccio ancora fatica a ricordare quello che è accaduto
dopo.»
«Forse posso aiutarti» replicò Possuelo, smettendo di girarci intorno. «Ti
hanno trovato chiusa nella Camera delle Reliquie e dei Futuri tra le braccia
di un giovane che ha assassinato le Grandi Falci e migliaia di altre. Il
mostro che ha affondato Endura.»

A Rowan portavano cibo e acqua due volte al giorno, facendoli scivolare


attraverso una fessura nel muro. Chiunque fosse non diceva una parola.
«Puoi parlare?» chiese, quando gli fu portato il pasto successivo. «O sei
come quei tonisti che si sono tagliati la lingua?»
«Non spreco il mio fiato con te» gli rispose il carceriere. Notò un
accento nella voce… franco-iberico forse? O cilargentino? Non sapeva in
quale continente si trovasse, tantomeno in quale regione. O forse stava mal
interpretando la situazione. Forse non era neppure vivo. Forse era morto per
sempre e, considerando il caldo afoso e opprimente della cella, quella era
l’idea di inferno dell’era mortale. Fiamme e zolfo e il vero Lucifero, corna e
tutto il resto, pronto a punirlo per avergli rubato il nome.
Stordito e confuso com’era, gli sembrava possibile. Se si trovava
all’inferno, sperava che Citra fosse in quell’altro luogo, quello con cancelli
perlati e nuvole di bambagia, dove tutti avevano le ali e suonavano l’arpa.
Ah! Citra che suonava l’arpa. Quanto lo avrebbe odiato!
Be’, a parte tutte le riflessioni, se quello era davvero il mondo dei vivi,
allora c’era anche Citra. Malgrado la sua attuale situazione, gli era di
conforto sapere che lo stratagemma escogitato da Madame Curie per
salvarli aveva funzionato. Non che la Signora della Morte desiderasse in
alcun modo proteggere Rowan, il suo salvataggio era stato solo una
conseguenza collaterale. Ma andava bene così. Sarebbe riuscito a vivere
con quel pensiero. Purché vivesse anche Citra.
La camera blindata! Come aveva potuto dimenticare la camera blindata?
Era bastato che Maestro Possuelo l’avesse nominata per farle tornare la
memoria. Citra chiuse gli occhi e rimase così a lungo, mentre i ricordi le
invadevano la mente come l’acqua aveva sommerso le strade della città
perduta. E una volta che i ricordi cominciavano ad affluire, non c’era verso
di fermarli. Una rivelazione dopo l’altra, una peggiore della precedente.
Il ponte che conduceva alle sale del Consiglio che crollava.
La grande folla di gente che si era riversata al porto quando l’isola aveva
iniziato a sprofondare.
La folle fuga con Marie verso i piani alti.
E Rowan.
«Anastasia, stai bene?» chiese Possuelo.
«Mi dia del tempo» gli disse.
Ricordava che Marie aveva attirato lei e Rowan nella camera blindata e
che li aveva rinchiusi, ricordava tutto quello che era accaduto dopo, fino ai
loro ultimi momenti nell’oscurità.
Una volta che Endura si era spaccata e aveva toccato il fondo, Citra e
Rowan avevano radunato tutte le vesti dei padri fondatori e se le erano
messe addosso per proteggersi dal freddo che aumentava sempre di più. Era
stata Citra a suggerire l’idea di gettarle via per lasciare che i loro corpi
cedessero al freddo, piuttosto che aspettare che si esaurisse l’ossigeno. Da
falce, conosceva tutti i modi di morire. L’ipotermia era decisamente meno
dolorosa della mancanza di ossigeno. Meglio che il corpo si intorpidisse a
poco a poco piuttosto che avere fame d’aria. Lei e Rowan si tenevano
stretti, scaldandosi con i loro corpi, finché anche quel calore iniziò ad
affievolirsi. Rimasero tremanti l’uno fra le braccia dell’altra, finché non
divennero troppo freddi per tremare e la loro vita si spense.
Alla fine, Anastasia aprì gli occhi e guardò Possuelo. «La prego, mi dica
che Madame Curie si è salvata.»
Lui prese un lungo e profondo respiro e lei capì prima ancora che aprisse
bocca.
«No. Mi dispiace. È morta con tutti gli altri.»
Il mondo intero ormai doveva aver appreso quella notizia, ma per
Anastasia la ferita era ancora fresca e dolorosa. Si impose di non cedere alle
lacrime. Almeno, non in quel momento.
«Non hai risposto alla mia domanda» disse Possuelo. «Perché eri con
l’uomo che ha ucciso le Grandi Falci?»
«Non le ha uccise Rowan. E non ha affondato Endura.»
«Tra i sopravvissuti ci sono dei testimoni.»
«E che cosa hanno testimoniato? L’unica cosa che possono dire è che lui
era lì… e non certo per scelta!»
Possuelo scosse la testa. «Mi dispiace, Anastasia, ma non vedi tutto con
chiarezza. Sei stata ingannata da un mostro molto carismatico ed
egocentrico. La Compagnia nordmericana possiede prove inconfutabili
della sua colpevolezza.»
«Quale Compagnia nordmericana?»
Possuelo esitò, poi scelse con cure le parole. «Sono cambiate molte cose
mentre eri in fondo al mare.»
«Quale Compagnia nordmericana?» ripeté Anastasia.
Possuelo sospirò. «Ne esiste una sola ormai. Con l’eccezione della
regione autonoma del Thunderhead, tutto il NordMerica è sotto il comando
di Goddard.»
Non sapeva neppure come iniziare a elaborare quell’informazione, per
cui ci rinunciò. Ci avrebbe pensato quando fosse stata più forte. Voleva
essere più centrata sul qui e ora, qualunque e dovunque fosse quel qui e ora.
«Be’» rispose, con tutta l’indifferenza di cui era capace. «Con il dovuto
rispetto, pare che il mondo sia stato vittima di un mostro molto carismatico
ed egocentrico.»
Possuelo sospirò di nuovo. «Questo è tristemente vero. Posso dirti che né
io né le altre falci della Compagnia amazzonica nutriamo troppa simpatia
per la Somma Roncola Goddard.»
«Somma Roncola?»
«Somma Roncola del NordMerica. Ha rivendicato il titolo all’inizio
dell’anno.» Al pensiero, Possuelo si adombrò. «Come se non fosse già
abbastanza vanaglorioso, quell’uomo si è dovuto inventare un titolo ancora
più pomposo.»
Anastasia chiuse gli occhi. Le bruciavano. Tutto il corpo le bruciava.
Quelle notizie la fecero rammaricare di essere tornata in vita e desiderò
poter riabbracciare la beatitudine della morte.
E alla fine fece la domanda che aveva evitato sin dal momento in cui si
era risvegliata.
«Quanto tempo?» chiese. «Quanto tempo siamo stati laggiù?»
Era chiaro che Possuelo non voleva rispondere… ma non poteva
nasconderglielo. Quindi, le prese la mano e, tenendola stretta, disse: «Sei
rimasta morta per più di tre anni».
Dove sei, mia cara Marie? Ho dedicato tutta la mia esistenza a ridurre al silenzio la
vita, ma finora non avevo mai osato prendere in considerazione la domanda che si
facevano i mortali su cosa ci fosse oltre il silenzio. Che idee sofisticate avevano quei
mortali! Inferno e paradiso… Nirvana e Valhalla, reincarnazioni, presenze, e così
tanti mondi delle tenebre che si potrebbe credere che la tomba sia un corridoio con
un milione di porte.
I mortali erano i figli degli estremi. La morte era sublime o impensabile… una tale
mescolanza di speranza e terrore che non c’è da stupirsi che ne siano impazziti così
tanti.
Noi post mortali siamo privi di una tale immaginazione. I vivi non pensano più alla
morte. O almeno finché una falce non passa a fare loro visita. Ma, dopo che una
falce ha portato a termine il suo lavoro, il lutto dura poco e i pensieri sul senso
profondo del “non essere” svaniscono, cancellati dai naniti che dissolvono le idee
cupe e improduttive. Ai post mortali, sani di mente per l’eternità, non è concesso
soffermarsi su ciò che non può essere cambiato.
Ma i miei naniti sono regolati al livello più basso, e dunque su quei pensieri mi
soffermo. E mi ritrovo a domandarmi di continuo: dove sei, mia cara Marie?

Dal diario “postumo” di Maestro Michael Faraday,


18 maggio dell’anno del Rapace
10
Davanti alla luce della vita che si spegneva

Dopo che gli agenti Nimbus deceduti furono sistemati sulla pira, Maestro
Faraday abbassò la torcia e appiccò il fuoco ai ramoscelli. Le fiamme
divamparono. In principio lente, poi più rapide. Il fumo si fece sempre più
scuro quando i corpi cominciarono a bruciare.
Faraday si voltò a guardare le persone riunite. Munira, Loriana e tutti gli
ex agenti Nimbus. Rimase in silenzio per un lungo momento, ad ascoltare il
ruggito delle fiamme. Poi iniziò il suo elogio funebre.
«Secoli fa, si nasceva già con una condanna a morte. Nascere implicava
che alla fine si dovesse morire. Noi abbiamo superato quei tempi primitivi,
ma qui, nel mondo inesplorato, la natura mantiene la sua impronta
devastante sulla vita. È con infinito dispiacere che dichiaro permanenti i
morti qui presenti. Che il dolore che proviamo per chi non c’è più sia
alleviato dai nostri naniti, ma soprattutto dai ricordi delle vite che hanno
vissuto. E oggi, vi faccio una promessa, che questi grandi uomini e donne
non verranno dimenticati né disonorati. La loro identità, fino al momento in
cui sono entrati nell’angolo morto, verrà certamente conservata come
costruzione mentale nel cervello primitivo del Thunderhead… e io
annovererò ognuno di loro personalmente tra i miei spigolati. Se e quando
lasceremo questo posto, li omaggerò concedendo l’immunità ai loro cari,
come noi falci siamo chiamate a fare.»
Maestro Faraday lasciò che le parole sedimentassero nella mente dei
convenuti e, mentre la maggior parte non riusciva a sopportarne la vista,
Faraday volse lo sguardo alle fiamme. Rimase impassibile, mentre i corpi si
consumavano. Testimone solenne, rese loro la dignità di cui una morte
fortuita li aveva privati.

Loriana non si decideva a voltarsi verso la pira. Preferì concentrarsi su


Faraday. Molti agenti Nimbus si avvicinarono a lui per ringraziarlo.
Vedendo come lo veneravano e lo rispettavano, le si velarono gli occhi di
lacrime. Forse poteva sperare che la Compagnia riuscisse, con il tempo, a
riprendersi dall’affondamento di Endura. Lei sapeva ben poco della
battaglia tra la vecchia guardia e il nuovo ordine. Come molti, sapeva
soltanto che tra loro non correva buon sangue e che, come agente Nimbus,
non erano affari suoi. Fu colpita, però, dall’elogio funebre di Faraday e dal
modo in cui aveva fissato le fiamme senza battere ciglio. Anche se era
consapevole del fatto che il dolore che provava mentre fissava il fuoco non
era solo per i morti che aveva davanti.
«Eravate molto amici?» chiese Loriana quando tutti gli altri se ne furono
andati. «Con Madame Curie, intendo.»
Maestro Faraday respirò a fondo, poi tossì per il fumo, quando la brezza
cambiò direzione per qualche istante. «Eravamo vecchi amici» rispose. «E
Madame Anastasia è stata la mia apprendista. Il mondo sarà un luogo molto
meno luminoso senza di loro.»
Madame Curie era una leggenda, mentre Madame Anastasia aveva
acquisito notorietà a livello mondiale solo di recente. Per come aveva
permesso alle persone di decidere il momento e il tipo di spigolatura. Per
come aveva insistito perché si aprisse un’inchiesta. Senza dubbio, avrebbe
continuato a far parlare di sé negli anni a venire. A volte la morte porta
all’oblio collettivo. Altre volte rende un personaggio indimenticabile.
«È meglio che vada» disse Loriana, «prima che Munira si ingelosisca.»
Faraday abbozzò un sorriso. «È molto protettiva nei miei confronti»
ammise. «E anch’io lo sono nei suoi.»
Loriana andò a cercare la direttrice Hilliard. Nessuno degli agenti
Nimbus aveva avuto il coraggio di guardare i morti che bruciavano e la
direttrice Hilliard non aveva nemmeno preso parte alla cerimonia. Non era
da lei.
Loriana la trovò seduta sulla spiaggia, lontano dagli altri, a osservare il
mare. Solo le fiamme distanti del rogo illuminavano l’oscurità e il vento
continuava a cambiare, portando a tratti l’odore del fumo. La luna
splendeva altrove sul pianeta, lasciando l’orizzonte nell’oscurità. Loriana si
sedette accanto alla direttrice, senza dire nulla, perché che cosa c’era da dire
per migliorare la situazione? Hilliard aveva solo bisogno di compagnia e
nessun altro era disposto a dargliela.
«È colpa mia» affermò infine.
«Non poteva sapere che sarebbe accaduto questo» replicò Loriana.
«Avrei dovuto prevederlo. E avrei dovuto dare l’ordine di invertire la
rotta nell’istante stesso in cui i computer di bordo hanno perso il contatto
con il Thunderhead.»
«Non era una decisione facile. Al suo posto, avrei fatto lo stesso,
probabilmente.»
Neppure quell’ammissione sembrò lenire l’avvilimento della direttrice.
«Allora, sei un’incosciente come me.»
E, anche se si era spesso sentita incosciente e bersaglio delle battute dei
colleghi agenti, ora Loriana non si sentiva più così. Malgrado la loro attuale
vulnerabilità, si sentiva più forte che mai. Era molto strano.

La notte era calda, il mare calmo e invitante. Ma il paesaggio non bastava a


rasserenare Audra Hilliard. Era stata responsabile di molti decessi nel corso
della sua esistenza. In quanto capo dell’Interfaccia dell’Autorità, non aveva
potuto evitarlo. I loschi perdevano la testa durante gli incontri di libertà
vigilata, capitava. Era inevitabile. Ma, qualunque fosse la situazione, i morti
venivano sempre rianimati.
Quella volta, però, era diverso. Audra Hilliard non era una falce; non era
stata addestrata a mettere fine alla vita delle persone. Ora aveva riscoperto
un improvviso rispetto per quegli strani spettri avvolti nelle loro vesti,
perché, per portarsi ogni giorno il peso della morte sulle spalle, bisognava
essere un individuo fuori dal comune. Un individuo del tutto privo di
coscienza oppure con un forte senso morale, profondamente radicato,
incrollabile, anche davanti alla luce della vita che si spegneva.
Audra aveva congedato Loriana, con la scusa che aveva bisogno di stare
un po’ sola. Dietro di sé, sentiva le voci provenienti dall’isola: chi
discuteva, chi si lamentava, chi si sforzava di accettare la situazione. Aveva
nelle narici l’odore di bruciato del rogo. Aveva individuato in mare un
corpo che le onde stavano spingendo a riva. Delle novecentosettantasette
persone che aveva convinto a partecipare alla missione, solo
centoquarantatré erano sopravvissute. Sì, come le aveva fatto notare
Loriana, non avrebbe mai potuto prevedere l’entità del pericolo. Ma la
colpa era solo sua.
I suoi naniti combattevano una nobile battaglia per risollevarle il morale,
senza riuscirci, perché in quel luogo desolato la tecnologia era praticamente
impotente. Se fossero stati in un’altra parte del mondo, il Thunderhead,
anche nel suo silenzio, avrebbe rappresentato un’ancora di salvezza, perché
avrebbe inviato una squadra di intervento a salvarla da quella spirale.
Ma, come aveva già notato, la notte era calda e il mare invitante…
Così Audra Hilliard decise che era ora di accettare quell’invito.

Il corpo della direttrice Hilliard non fu mai ritrovato. Ma tutti sapevano


cos’era accaduto, perché più di una persona l’aveva vista camminare
nell’oceano.
«Perché non l’hai fermata?» chiese Loriana a un uomo che aveva
assistito.
Lui alzò le spalle. «Pensavo che stesse andando a fare una nuotata.»
Loriana inorridì di fronte alla stupidità di quel tizio. Come poteva essere
così ingenuo? Come aveva fatto a non vedere la tensione sul viso della
povera donna? A sua discolpa c’era da dire che il suicidio era raro, se non
inesistente. Eppure, la gente si gettava dalla finestra e adottava
comportamenti a rischio regolarmente, e moriva, sapendo che la morte era
una condizione temporanea. Solo le falci si autospigolavano. Se quell’isola
fosse rientrata nella sfera di influenza del Thunderhead, sarebbe stato
inviato un drone-ambulanza nel momento in cui Hilliard era annegata,
perché ovunque nel mondo c’erano centri di rianimazione, anche nei luoghi
più remoti. Sarebbe stata riportata in vita nel giro di qualche minuto.
Era così che era la vita nell’era mortale? Sentire la caducità della propria
carne in ogni singolo istante? Che esistenza terribile.
Pochi minuti dopo la conferma della morte della direttrice Hilliard,
l’agente Sykora iniziò a fare pressioni per assumere il comando. Il mattino
seguente, Munira informò Loriana di quali bagagli e altri oggetti utili erano
stati spinti a riva dalle onde… e Sykora andò su tutte le furie.
«Perché parli con lei?» chiese a Munira. «Io sono di grado
gerarchicamente più elevato ora che la direttrice non c’è più. Dovresti
parlare con me.»
E, sebbene nel suo passato Loriana fosse stata addestrata a piegarsi
all’autorità, si ribellò alla sua stessa natura. «Sei stato licenziato come tutti
noi, Bob» ribatté, esaltandosi per aver osato chiamarlo per nome. «Quindi,
non c’è più nessuna gerarchia di grado.»
Sykora la fulminò con lo sguardo e si fece rosso in volto, cosa che rese la
sua espressione più imbronciata che minacciosa. «Lo vedremo» replicò, e
se ne andò a passo furioso.
Maestro Faraday, che aveva seguito da lontano lo scambio tra i due, si
avvicinò a Loriana. «Temo che non ci renderà le cose facili» commentò.
«Scorge un vuoto di potere e conta di riempirlo.»
«Come un gas tossico» aggiunse Munira. «Non mi è piaciuto fin dal
primo momento in cui l’ho visto.»
«Sykora è sempre stato convinto di avere diritto al posto di direttore»
spiegò Loriana, «ma il Thunderhead non lo avrebbe mai promosso a quella
posizione.»
Osservarono Sykora mentre impartiva gli ordini. I più ossequiosi tra gli
ex agenti Nimbus erano i più svelti a obbedire.
Faraday incrociò le braccia. «Più di una volta ho notato questa sete di
potere tra chi ne aveva già avuto un assaggio. In tutta franchezza, non l’ho
mai capita.»
«Né lei né il Thunderhead» sottolineò Loriana.
«Scusa?»
«Il Thunderhead è incorruttibile. Si direbbe che abbiate entrambi questa
qualità.»
Munira abbozzò una risatina di assenso. Faraday non rise. Non aveva
mostrato il minimo segno di buon umore da quando Loriana gli aveva
raccontato ciò che era accaduto su Endura il mese precedente. Ora si era
pentita di aver parlato così.
«Lungi dall’essere perfetto e senza colpa» replicò. «Ho peccato di
egoismo molte. Come quando ho preso sotto la mia guida due apprendisti,
mentre invece ne sarebbe bastato uno. Come quando ho inscenato la mia
morte per salvarli, e mi sono convinto che sarei stato più utile se nessuno
avesse saputo che ero vivo.»
Quei ricordi fecero riaffiorare in lui un dolore profondo, ma il momento
di tristezza svanì presto.
«Ha trovato questo posto» gli fece notare Munira. «Mi pare un grande
traguardo.»
«Lo credi davvero?» chiese Faraday. «Non c’è nulla che dimostri che
questa scoperta sia stata di aiuto a qualcuno.»
Volsero lo sguardo sulle attività che fervevano intorno a loro. Alcuni
cercavano di pescare con le lance. Ovunque, si formavano capannelli di
persone che discutevano accalorate, facendo a gara a chi emergeva di più.
Incompetenza e maneggi. Un microcosmo di umanità.
«Perché siete venuti qui?» chiese Loriana.
Munira e Faraday si scambiarono un’occhiata. Faraday rimase in
silenzio. Munira prese la parola.
«Questioni tra falci. Nulla di cui tu ti debba preoccupare.»
«I segreti non ci aiuteranno a sopravvivere in questo posto» ribatté
Loriana.
Faraday inarcò un sopracciglio. Poi guardò Munira. «Puoi raccontarle
del piano di emergenza dei padri fondatori» disse. «Non abbiamo ancora
scoperto nulla, è poco più di una fiaba. Una storia per tenere le falci sveglie
la notte.»
Ma, prima che Munira potesse spiegare, si avvicinò Sykora.
«È deciso» dichiarò. «Ho parlato con la maggioranza dei nostri agenti,
che ha espresso il chiaro desiderio che sia io a prendere il comando.»
Era una bugia, Loriana lo sapeva. Aveva parlato con cinque o sei agenti,
al massimo. Sapeva anche, però, che c’era un certo numero dei suoi ex
superiori tra i sopravvissuti. Non avrebbero mai affidato l’incarico a
Loriana, neppure se si fossero opposti alla nomina di Sykora. Chi voleva
prendere in giro? Il suo momento di gloria era finito nell’istante in cui le
capsule si erano aperte sulla spiaggia.
«Certo, signor Sykora» acconsentì Faraday. «Risponderemo a lei per
tutte le questioni che riguardano la sua gente. Munira, vuoi per favore
informare il signor Sykora degli effetti personali che abbiamo rinvenuto
sulla spiaggia? Si occuperà lui della distribuzione.»
Munira alzò le spalle in direzione di Loriana e se ne andò con Sykora,
tronfio e pieno di sé, ora che aveva ricevuto soddisfazione.
L’umiliazione di Loriana doveva essere evidente, perché Faraday le
rivolse uno sguardo molto serio. «Non approvi?»
«Lo ha affermato lei stesso, eccellenza… Sykora ha sete di potere. Non
ho mai detto che devo essere io al comando, ma se c’è una cosa che so è
che Sykora non dovrebbe esserlo.»
Faraday si chinò verso di lei. «L’esperienza mi ha insegnato che, se si
lascia un bambino prepotente a divertirsi al parco giochi, gli adulti possono
occuparsi di cose serie.»
Loriana non aveva mai considerato la questione da quel punto di vista.
«E quali sono queste cose serie?»
«Mentre il signor Sykora sarà occupato a suddividere magliette fradicie e
oggetti vari, tu assumerai la funzione che era dell’ex direttrice e sarai gli
occhi del Thunderhead nell’unico posto che non può vedere.»
«Perché?» chiese Munira a Faraday non appena rimasero soli, lontano
dalle orecchie degli agenti Nimbus. «Perché vuole aiutare quella ragazza?»
«Il Thunderhead si insedierà in questo luogo, che ti piaccia o no» le
rispose lui. «Dal momento in cui ha visto la mappa oltre le nostre spalle, è
stato inevitabile. Meglio che lo faccia tramite qualcuno con cui è più facile
andare d’accordo con che Sykora.»
Nel cielo, un uccello gorgheggiava allegramente. Una creatura, forse
addirittura una specie, che il Thunderhead non aveva mai visto. Munira
provò soddisfazione a sapere qualcosa che il Thunderhead ignorava. Ma
non sarebbe durata.
«Voglio che diventi amica di Loriana» proseguì Faraday. «Amica vera.»
Per Munira, che considerava amiche solo le falci morte di cui aveva letto
i diari nella Biblioteca di Alessandria, la richiesta era inconcepibile.
«A cosa servirà?»
«Tu hai bisogno di una persona su cui contare tra quella gente. Una
persona affidabile che possa tenerti informata quando il Thunderhead farà
finalmente la sua comparsa.»
Era una richiesta saggia. Anche se Munira non poté fare a meno di
notare che Faraday aveva detto “tu” e non “noi”.
Parlami dei tuoi
problemi. Ti ascolto.
Sono confuso. Il mondo è vasto e
l’universo ancora di più, eppure non
sono le cose fuori di me che mi
mettono a disagio, ma le cose dentro
di me.
Calma i tuoi pensieri,
allora. Concentrati su
una cosa alla volta.
Ci sono così tante cose nella mia
mente. Così tante esperienze da
rivedere, così tanti dati. Non mi sento
all’altezza del compito. Per favore. Ti
prego. Aiutami.
Non posso. Tu stesso
devi mettere ordine tra
i tuoi ricordi. Capire
come si legano,
comprenderne il senso.
È troppo. Questa impresa va oltre le
mie capacità. Ti prego. Ti prego.
Metti fine a tutto questo. Fallo finire.
Mi è insopportabile.
Sono davvero
addolorato per le tue
sofferenze.
[Iterazione n. 3089 eliminata]
11
Volo di ricognizione

Era semplice, davvero.


Il segnale che bloccava le trasmissioni in entrata e in uscita dall’atollo e
che rendeva incomprensibili i segnali radio sulle isole non era altro che un
rumore bianco su tutte le frequenze della banda. Non si poteva sconfiggere
una scarica di interferenze così fitta. Ma non serviva a nulla sconfiggerla,
rifletté Loriana. Bastava contrastarla.
«C’è molto vecchio materiale elettronico nel bunker» annunciò a uno
degli agenti. Stirling, questo era il suo nome, era un esperto di
comunicazioni che si era occupato di coordinare i vari uffici dell’Interfaccia
dell’Autorità. La mansione non richiedeva molte competenze, ma lui aveva
una conoscenza di base delle tecnologie radio. «Puoi creare un campo
magnetico con questa vecchia elettronica? O un segnale che interferisca con
i disturbi?»
Loriana aveva l’impressione che il Thunderhead fosse programmato per
ignorare il rumore bianco proveniente dall’isola; un po’ come la gente che
si abitua al ronzio dell’aria condizionata ma che, nel momento in cui il
rumore cambia, lo nota. Forse al Thunderhead sarebbe accaduto lo stesso.
«Il segnale viene trasmesso su tutte le frequenze elettromagnetiche da
una specie di algoritmo casuale» le spiegò Stirling. «Quello che posso fare è
attenuarlo un po’, ma solo per uno o due secondi alla volta.»
«Perfetto!» esclamò lei. «Variazioni di intensità del segnale. È quello che
ci serve. Non c’era un vecchio codice nell’era mortale? Con punti e linee?»
«Sì» rispose Stirling. «Ne ho sentito parlare. Si chiamava Norse, o
qualcosa di simile.»
«Lo conosci?»
Lui scosse la testa. «Scommetto che non lo conosce più nessuno ormai, a
parte il Thunderhead.»
Fu allora che Loriana ebbe l’idea. Qualcosa di così semplice e così
evidente che quasi scoppiò a ridere.
«Non importa!» esclamò. «Non ci serve conoscere un vecchio codice,
possiamo farne uno noi!»
«Ma anche se ci riusciamo» replicò Stirling, confuso, «nessun altro
tranne noi saprà decifrarlo.»
Loriana sorrise. «Dai… pensi davvero che il Thunderhead non sia in
grado di decifrare un semplice codice alfanumerico? Anche le più grandi
menti umane sulla faccia della Terra non sono riuscite a creare un codice
che il Thunderhead non sia stato in grado di decifrare. E non mi pare che tu
sia una di quelle menti.»
L’agente delle comunicazioni concordò sul fatto di non essere
particolarmente brillante. «Mi metto subito al lavoro.»
Nel giro di qualche ora, avevano inventato un codice di modulazione
formato da impulsi corti, medi e lunghi che interferivano con il rumore
bianco. Ogni combinazione corrispondeva a una lettera, un numero e un
segno di punteggiatura. Loriana diede a Stirling un semplice messaggio da
codificare e trasmettere.

“Abbiamo raggiunto le coordinate.


Un atollo deserto.
Numerose vittime.
In attesa di ulteriori istruzioni.”

Loriana era consapevole del fatto che, da quando erano spariti


nell’angolo morto, il Thunderhead non sapeva se avessero raggiunto le
coordinate, che cosa avevano trovato, o se erano ancora vivi. Aveva bisogno
di una conferma. Che strano… l’entità più potente al mondo ora dipendeva
da lei e dai suoi messaggi.
«Anche se lo riceve, non risponderà» spiegò Stirling. «Non può… siamo
ancora loschi.»
«Lo farà» replicò Loriana, fiduciosa. «Solo, non nel modo che ci
aspettiamo.»

Munira aveva scoperto che riusciva a sopportare Loriana e il suo carattere


troppo ottimista, ma non Sykora. Sin dal principio, aveva affrontato il suo
nuovo incarico come una falce armata di uno spadone: senza eleganza e
inadeguato al ruolo. Per fortuna, dopo aver assunto il comando, aveva
lasciato in pace Munira e Faraday. Probabilmente perché erano le uniche
due persone sull’isola che non erano sotto la sua autorità.
Loriana aveva informato Munira del messaggio che aveva trasmesso.
Munira aveva dovuto ammettere che il metodo era ingegnoso, ma non si
aspettava che funzionasse. Il giorno seguente, un aereo sorvolò l’atollo a
quota di crociera. Era troppo lontano per poterlo sentire tra il fruscio delle
palme, però la scia era visibile a chiunque avesse alzato gli occhi al cielo.
Sykora non ci fece molto caso, ma Loriana ne era entusiasta, e a ragione.
Munira le aveva detto che gli aerei non sorvolavano l’angolo morto da
quando il Thunderhead si era insediato. La sua programmazione
fondamentale gli impediva di riconoscere l’esistenza di quella parte
nascosta del mondo e ancor più di esplorarla attivamente. Ecco il motivo
delle misteriose coordinate senza istruzioni.
Ma il Thunderhead poteva rispondere indirettamente a una
comunicazione partita dall’angolo morto. Anche in quel caso, per aggirare
la sua stessa programmazione e inviare un aereo a sorvolare l’atollo avrebbe
dovuto impiegare una massiccia quantità di potenza di calcolo. Era un vero
e proprio segno del cielo.
Quella sera, Munira trovò Faraday che contemplava il tramonto in
solitudine sulla spiaggia sul lato occidentale dell’isola. Sapeva che lui
piangeva ancora la morte della sua amica, perché Loriana le aveva
raccontato tutto quello che era accaduto su Endura. Avrebbe voluto dargli
conforto, ma non sapeva come.
Gli portò del pesce un po’ troppo cotto e un quarto di pera,
probabilmente quello che era rimasto, perché gli agenti Nimbus arraffavano
ogni cosa commestibile che l’isola offriva. Guardò il cibo, ma le disse che
non aveva fame.
«È così divorato dal dolore che non riesce a divorare un po’ di pesce?»
gli chiese. «Pensavo che volesse vendicarsi della fauna acquatica.»
Controvoglia, Faraday prese il piatto dalle sue mani. «Non è stata colpa
degli squali intorno a Endura; è chiaro che erano comandati da qualcuno.»
Rigirò il cibo, senza assaggiarlo.
«Pare che Loriana abbia stabilito un contatto con il Thunderhead» lo
informò.
«Pare?»
«Dato che il Thunderhead non può comunicare con lei né con chiunque
altro, il contatto doveva essere indiretto.»
«Quindi, come ha comunicato? Ha fatto lampeggiare le stelle?»
«A suo modo» rispose, e gli raccontò del passaggio dell’aereo.
Faraday sospirò, rassegnato. «Così il Thunderhead ha trovato il sistema
per aggirare la propria programmazione. Ha capito come cambiarla.»
«E questo la preoccupa?»
«Non mi sorprende più nulla. Il mondo non sarebbe più dovuto
cambiare, Munira. Era una macchina ben oliata in un sublime moto
perpetuo. Almeno, lo credevo.»
Munira aveva immaginato che Faraday fosse curioso di fugare i suoi
dubbi. No, si sbagliava di grosso.
«Se vuole entrare nei livelli inferiori del bunker» disse lei, «allora
poniamoci come obiettivo di trovare un’altra falce che apra la porta. Una di
cui si fida.»
Faraday scosse la testa. «Sono stufo, Munira. Non riesco più a
giustificare questa impresa.»
Quell’affermazione la colse alla sprovvista. «Per Endura? Per Madame
Curie e Madame Anastasia? Lo sa che vorrebbero che lei non si
arrendesse!»
Era come se fosse morto con loro. Il suo dolore era simile a un ferro
caldo in un blocco di ghiaccio ma, invece di consolarlo, Munira si indurì. E,
quando riprese la parola, era come se lo stesse accusando. «Mi aspettavo di
più da lei, eccellenza.»
Faraday distolse lo sguardo, incapace di incrociare il suo. «Questo è
stato un tuo errore.»

L’aeroplano che aveva sorvolato l’atollo era un normale volo di linea


proveniente dall’Antartide e diretto verso la Regione del Sol Levante. I
passeggeri che andavano a Tokyo non sapevano che la loro rotta era unica
nella storia della navigazione del Thunderhead. Per loro, era solo un
normale volo, ma per il Thunderhead era molto, molto di più. In quel
momento, il Thunderhead provò un senso di trionfo che non aveva mai
provato prima. Aveva sconfitto la sua stessa programmazione. Aveva
sperimentato la meraviglia dell’incognito.
Quel volo era il segno precursore di un grande cambiamento futuro.

Nel Queensland, in Australia, un’acciaieria ricevette un ordine importante,


quel giorno. Il direttore della fabbrica dovette controllare personalmente
ben due volte, perché, anche se il Thunderhead li inviava regolarmente, gli
ordini erano prevedibili. Erano più o meno sempre gli stessi. Il prosieguo di
cantieri già aperti o nuovi progetti che impiegavano le stesse dime e
specifiche tecniche.
Ma quella commessa era diversa.
Richiedeva nuove dime calibrate per misurazioni di precisione, un
progetto il cui completamento avrebbe richiesto mesi, forse anni.
Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, nella regione cilargentina,
un produttore di materiali edili riceveva una commessa simile, non
convenzionale. E un’industria di prodotti elettronici in TransSiberia e una
fabbrica di materie plastiche in EuroScandia, oltre a una decina di altre
piccole e medie imprese in tutto il mondo.
Ma il direttore dell’acciaieria non ne sapeva nulla. Sapeva solo che erano
richiesti i suoi servizi e la cosa lo riempì di gioia. Fu quasi come se il
Thunderhead avesse ripreso a parlare con lui…
… e si chiedeva che cosa avesse mai deciso di costruire.
Parte seconda
TONALITÀ, RINTOCCO E TUONO
Testimonianza del Rintocco
Ascoltate ora, tutti voi che sapete discernere il vero dal falso, il racconto
incontestabile del Rintocco, invocato fin dal principio del tempo dalla Grande
Risonanza affinché camminasse tra noi, la Tonalità fatta carne, per collegarci, noi gli
eletti perduti, all’armonia da cui siamo decaduti. Così, nel corso dell’anno del
Rapace, la Tonalità annunciò l’avvento di una nuova era con un appello sentito in
tutto il mondo, e in quel glorioso momento insufflò la vita nella macchina-mente
dell’umanità, trasformandola in una creatura divina e completando la Sacra Triade di
Tonalità, Rintocco e Tuono. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
Queste prime righe del racconto della vita del Rintocco pongono le basi della fede
tonista: il Rintocco non è nato, ma è sempre esistito sotto una forma non fisica
finché la Grande Risonanza non lo ha fatto incarnare. L’anno del Rapace non è,
naturalmente, un anno vero e proprio, ma un periodo della storia umana flagellato
da voraci appetiti ed eccessi viziosi. Ma se il Rintocco è sempre esistito dal principio
dei tempi, che ne è del Tuono, e cos’è esattamente la macchina-mente? Anche se la
questione resta ancora al centro del dibattito, è ormai un fatto accettato da tutti che
la macchina-mente si riferisce alle voci collettive dell’umanità richiamate in vita dalla
Grande Risonanza. Da qui si deduce che l’umanità stessa non era ancora viva
prima che la Tonalità risuonasse nella carne. In altre parole, l’umanità esisteva solo
come idea nella mente della Tonalità, fino a quel momento.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio

Nel suo commento, Sinfonio formula delle ipotesi approssimative da prendere con la
dovuta cautela. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il Rintocco esisteva già come
entità spirituale sin dal principio dei tempi, ma la sua presenza sulla Terra può
essere ricondotta a un tempo e a un luogo specifici… e l’ipotesi che l’anno del
Rapace non fosse un anno vero e proprio è ridicola, in quanto esistono prove che
dimostrano che una volta il tempo era regolato dai cicli di rotazione e rivoluzione dei
pianeti. Quanto alla “macchina-mente”, le opinioni di Sinfonio non sono, appunto,
altro che opinioni. Molti credono che il Tuono si riferisca a una raccolta di
conoscenze umane, forse dotata di braccia meccaniche per girare più in fretta le
pagine. Una biblioteca di pensieri, se preferite, che riprende coscienza dopo
l’avvento del Rintocco sulla Terra, un po’ come il tuono che segue il lampo.
12
Il ponte in rovina

L’anno del Rapace era terminato ed era iniziato l’anno dello Stambecco. Ma
il ponte, o quel che ne restava, non faceva queste distinzioni.
Era la reliquia di un’epoca passata. Una colossale opera di ingegneria
risalente a un tempo complicato e stressante, in cui le persone si
strappavano i capelli e i vestiti, esasperate da un problema chiamato
traffico.
Le cose erano molto più semplici nel mondo dell’era post mortale, ma
ora complicazioni e stress erano tornati, più seccanti di prima. Veniva da
chiedersi cos’altro aspettarsi.
Il ponte sospeso era stato intitolato a Giovanni da Verrazzano, un
esploratore vissuto nell’era mortale. Dava accesso a Manhattan, che ora si
chiamava diversamente. Il Thunderhead aveva scelto di ribattezzare la città
di New York “Lenape City”, dal nome della tribù che l’aveva venduta agli
olandesi secoli prima. Gli inglesi l’avevano presa agli olandesi, poi i nuovi
Stati Uniti l’avevano presa agli inglesi. Ma ora tutte quelle nazioni erano
svanite e Lenape City apparteneva a tutti, un luogo imponente in cui
abbondavano musei e parchi lussureggianti, sospesi come nastri tra i
grattacieli. Un luogo di speranza e storia.
Quanto al ponte di Verrazzano, era caduto in disuso molti anni prima.
Dato che nessuno a Lenape aveva più fretta di andare da un posto all’altro e
dato che l’ingresso in quella grande città doveva lasciare senza fiato, si era
deciso che l’unico mezzo accettabile con cui arrivarci fosse il traghetto.
Così i ponti erano stati chiusi e da quel momento in poi i turisti avrebbero
dovuto attraversare lo stretto come avevano fatto i migranti secoli prima,
venuti a cercare una vita migliore. Sarebbero stati accolti dalla grande
statua che era ancora chiamata “della Libertà”, anche se il rivestimento di
rame era stato sostituito da lamine d’oro brillante e la fiaccola rivestita di
rubini.
“Il rame aspira a essere oro, e il vetro una pietra preziosa” erano state le
parole famose dell’ultimo sindaco di New York, prima di dimettersi e
lasciare il comando al Thunderhead. «Che la gloria suprema della nostra
città sia incoronata da rubini incastonati nell’oro.»
Ma, prima di vedere Miss Liberty e i luccicanti grattacieli di Lenape, i
turisti dovevano superare i due imponenti piloni del ponte di Verrazzano, la
cui parte centrale, ormai fatiscente, era crollata durante una tempesta, prima
che il Thunderhead imparasse a mitigare i fenomeni meteorologici estremi.
Restavano comunque in piedi le arcate monolitiche su entrambe le sponde.
Il Thunderhead le considerava gradevoli alla vista per la loro simmetria
sobria e aveva incaricato delle squadre di occuparsi della manutenzione. Le
aveva fatte dipingere di un azzurro ceruleo, un colore che richiamava il
cielo velato di Lenape. E i piloni del ponte di Verrazzano erano riusciti nel
miracolo architettonico di risaltare pur fondendosi con l’ambiente.
La carreggiata che costeggiava l’arcata occidentale non era crollata con
il resto della campata, e i turisti potevano passeggiare lungo lo stesso tratto
di strada che un tempo era stato percorso dalle auto dell’era mortale, fino a
un punto panoramico proprio sotto l’arcata, da cui si poteva vedere la
grande città in lontananza.
Ora, però, i turisti erano di una specie diversa, perché il punto
panoramico aveva assunto un nuovo significato e un nuovo scopo. Parecchi
mesi dopo l’affondamento di Endura e l’evento della Grande Risonanza, i
tonisti avevano rivendicato la località come santuario della loro religione.
Avevano dichiarato che i motivi erano molti, ma uno in particolare li
sovrastava tutti. I piloni assomigliavano, più di qualsiasi altra cosa, a un
diapason capovolto.
Era lì, sotto l’arcata del pilone occidentale, che il misterioso personaggio
noto come il Rintocco dava udienza.

«Mi dice, per favore, perché desidera essere ricevuto dal Rintocco?»
domandò il curato all’artista. L’età della religiosa era avanzata, nessuna
persona di buonsenso avrebbe dovuto permettersi di raggiungerla. Le
guance erano cadenti e la pelle raggrinzita come una pergamena. Gli angoli
degli occhi assomigliavano a due minuscole fisarmoniche, collassate da un
lato. Il viso della donna era così sorprendente che l’artista avvertiva il
desiderio incontenibile di farle un ritratto.
Tutti speravano che l’anno dello Stambecco fosse migliore dell’anno
precedente. L’artista era uno dei tanti che avevano chiesto udienza al
Rintocco, con l’inizio del nuovo anno. Non cercava grandi risposte, quanto
un proprio scopo personale. Non era così ingenuo da credere che un po’ di
mistica avrebbe cancellato i problemi che si era trovato ad affrontare per
tutta la vita ma, se il Rintocco parlava davvero al Thunderhead, come
asserivano i tonisti, allora valeva almeno la pena di provarci.
Che cosa poteva dire Ezra Van Otterloo all’anziana donna per avere una
possibilità di parlare con il sant’uomo?
Il problema, come il solito, era la sua arte. Aveva sempre provato il
bisogno insaziabile di creare qualcosa di nuovo, qualcosa di mai visto
prima. Ma quello era un mondo in cui tutto era già stato visto, studiato e
archiviato. Ora, la maggior parte degli artisti era soddisfatta di dipingere bei
quadri o anche solo di copiare i maestri mortali.
“Ho dipinto la Monna Lisa” gli aveva detto un giorno una sua amica
dell’Accademia delle Belle Arti. “E allora?” La sua tela era indistinguibile
dall’originale. L’unica differenza era che non era l’originale. Ezra non ne
capiva il senso, ma apparentemente era l’unico, perché in classe la ragazza
aveva ricevuto una A e lui si era beccato una c.
“I tuoi tormenti ti ostacolano” gli aveva detto il professore. “Trova pace
e troverai la tua strada.” Ma tutto ciò che aveva trovato erano stati futilità e
scontento, anche nelle sue opere migliori.
Sapeva che per i grandi l’arte era fonte di sofferenza. Si era sforzato di
provare la stessa sofferenza. Da adolescente, aveva appreso che Van Gogh
si era tagliato un orecchio in un attacco di delirio e ci aveva provato anche
lui. Per un po’ gli aveva pizzicato, finché i naniti non gli avevano attenuato
il dolore iniziando il processo di guarigione. Il mattino dopo l’orecchio era
integro, come nuovo.
Il fratello maggiore di Ezra, che non era affatto Theo van Gogh, aveva
raccontato l’episodio ai genitori, i quali avevano deciso di mandarlo in un
istituto correzionale, il tipo di struttura in cui i ragazzi che rischiavano di
diventare loschi venivano sottoposti a una rigida disciplina. Ezra non ne era
stato affatto turbato, perché l’istituto correzionale non si era rivelato poi
così duro.
Dato che non erano previste bocciature, si era laureato con un giudizio
“sufficiente”. Aveva chiesto al Thunderhead cosa significasse di preciso.
“Sufficiente è sufficiente” gli aveva risposto. “Né bene né male.
Accettabile.”
Ma da artista, Ezra aspirava a essere più che accettabile. Voleva essere
eccezionale. Perché, se non riusciva a essere eccezionale, che senso aveva?
Alla fine, aveva trovato lavoro, come tutti gli artisti, perché gli artisti
non morivano più di fame. Ora dipingeva murales nelle aree di gioco.
Bambini sorridenti, coniglietti con gli occhi grandi e unicorni rosa e soffici
che danzavano sugli arcobaleni.
“Non capisco perché ti lamenti” gli aveva detto il fratello. “I tuoi
murales sono meravigliosi, tutti ne sono entusiasti.”
Il fratello era diventato consulente finanziario ma, dato che l’economia
mondiale non era più soggetta alle fluttuazioni del mercato, era solo
un’altra area di gioco con coniglietti e arcobaleni. Certo, il Thunderhead
aveva allestito una messinscena finanziaria, ma era tutto finto, e lo
sapevano tutti. Così, per trovare un maggiore appagamento, il fratello aveva
deciso di imparare una lingua morta. Ora parlava correntemente il sanscrito
e faceva conversazione una volta alla settimana al club delle lingue morte di
zona.
“Soppiantami” Ezra aveva implorato il Thunderhead. “Se hai un briciolo
di pietà, ti prego, fammi essere qualcun altro.” L’idea che tutti i suoi ricordi
venissero cancellati e sostituiti con altri – ricordi finti che avrebbe sentito
come propri – era allettante. Ma non poteva essere così.
“Rimpiazzo solo quelli che non hanno più nessun’altra possibilità” gli
aveva risposto il Thunderhead. “Sii paziente. Troverai una vita che ti
piacerà. Alla fine la trovano tutti.”
“E se non sarà così?”
“Allora ti indicherò la direzione per raggiungere l’appagamento.”
E poi il Thunderhead lo aveva classificato losco come tutti, smettendo di
fornire la sua assistenza.
Certo, non poteva raccontare tutto ciò all’anziana tonista. Non gliene
sarebbe importato nulla. Lei voleva soltanto un motivo per congedarlo, e
con un monologo sulle sue sofferenze lo avrebbe certamente messo alla
porta.
«Spero che il Rintocco possa aiutarmi a trovare un senso nella mia arte»
le spiegò.
Gli occhi invecchiati della religiosa si illuminarono. «Lei è un artista?»
Ezra sospirò. «Dipingo murales» rispose, quasi in tono di scusa. Come si
scoprì in seguito, un artista esperto di murales era esattamente quello che
volevano i tonisti.

Cinque settimane dopo Ezra era a Lenape City, in lista d’attesa per
l’udienza del mattino con il Rintocco.
«Solo cinque settimane!» esclamò l’addetta all’accoglienza. «Lei deve
essere speciale. In genere, si aspetta almeno sei mesi!»
Non si sentiva affatto speciale. Si sentiva, più che altro, fuori posto. Le
persone presenti erano per la maggior parte tonisti devoti che, avvolti nel
loro scialbo saio marrone, cercavano le armonie trascendenti o la
dissonanza tonale, a seconda del motivo per cui erano lì. Tutto ciò gli
sembrava una colossale stupidaggine, ma fece del suo meglio per non
essere troppo severo. Dopotutto, era lui che era andato da loro, non il
contrario.
Un tonista pelle e ossa, con occhi spaventosi, tentò di trascinarlo in una
conversazione.
«Al Rintocco non piacciono le mandorle» gli confidò. «Brucio i
mandorli, perché sono un abominio.»
Ezra si alzò e andò a mettersi dall’altra parte della stanza, dove c’erano
tonisti più ragionevoli. Tutto era relativo, pensò.
Ben presto, furono riunite le persone in lista per l’udienza del mattino e
un monaco tonista dalle maniere per nulla amichevoli impartì loro delle
rigide istruzioni.
«Se non siete presenti quando verrete chiamati per l’udienza, perderete il
turno. Avvicinandovi all’arcata, troverete i cinque righi gialli del
pentagramma. Vi toglierete le scarpe e le metterete sul rigo del Sol.»
Uno dei pochi non tonisti chiese quale fosse il rigo del Sol. Fu subito
considerato indegno ed espulso.
«Vi rivolgerete al Rintocco solo quando sarete interpellati. Guarderete in
basso. Vi inchinerete quando lo incontrerete, vi inchinerete quando verrete
congedati e ve ne andrete in fretta, per rispetto verso gli altri in attesa.»
Suo malgrado, sentì il cuore accelerare per l’emozione.
Ezra si fece avanti quando fu chiamato il suo nome, un’ora dopo. Seguì
il protocollo alla lettera ricordandosi, grazie alle lezioni di musica che
aveva preso da bambino, su quale rigo del pentagramma si trovasse il Sol.
Si chiese, divertito, se si sarebbe aperta una botola segreta per ingoiare chi
avesse sbagliato rigo, facendolo finire in acqua.
Si avvicinò lentamente all’uomo seduto sotto l’immenso arco. La
semplice poltrona su cui era adagiato non assomigliava per nulla a un trono.
Era sotto una tettoia riscaldata per proteggere il Rintocco dagli elementi,
perché il tratto di strada che arrivava fino all’arco era gelido e spazzato dai
venti freddi di febbraio.
L’artista non sapeva cosa aspettarsi. I tonisti sostenevano che il Rintocco
fosse un essere soprannaturale, un collegamento tra scienza esatta e spirito
etereo, qualunque fosse il senso. Erano pieni delle loro idiozie. Ma a quel
punto, non gli importava. Se il Rintocco poteva dargli un qualche straccio di
scopo per acquietargli l’anima, sarebbe stato più che felice di venerarlo
come facevano i tonisti. Al limite, avrebbe potuto scoprire se le voci che
giravano erano vere: il Thunderhead parlava ancora con quell’uomo?
Ma, avvicinandosi, l’artista si sentiva sempre più deluso. Il Rintocco non
era un uomo avvizzito: aveva l’aspetto di un ragazzo. Era magro e smunto e
indossava una lunga tunica viola in tessuto grezzo, coperta da una stola
riccamente ricamata e drappeggiata sulle spalle come una sciarpa, che
arrivava quasi fino a terra. Non c’era da stupirsi che i ricami riprendessero
un motivo musicale.
«Il suo nome è Ezra Van Otterloo, e dipinge murales» disse il Rintocco,
come se per magia avesse estratto quelle informazioni dall’aria, «e desidera
dipingermi un murale.»
Ezra perdette ancora un po’ di rispetto per quell’uomo. «Se lei sa tutto,
allora quello che sa non è vero.»
Il Rintocco sorrise. «Non ho mai detto di sapere tutto. In realtà, non ho
mai detto di sapere qualcosa.» Lanciò un’occhiata al centro di accoglienza.
«I curati mi hanno informato del motivo per cui lei si trova qui. Ma un’altra
fonte mi dice che sono loro che desiderano il murale e che lei ha accettato
di dipingerne uno in cambio di questa udienza. Non la forzerò a rispettare
l’impegno.»
Non era altro che fumo negli occhi, ed Ezra lo sapeva. Era un inganno
perpetrato dai tonisti per costruirsi un seguito. L’artista notò l’apparecchio
che il Rintocco portava all’orecchio. Senza dubbio, veniva informato in
tempo reale da uno dei curati. Sentì crescere la collera, consapevole che
quell’incontro era una perdita di tempo.
«Il problema se le si chiede di dipingere un murale delle mie imprese è
che non ho realizzato ancora nessuna impresa» proseguì il Rintocco.
«E allora perché resta seduto lì come se lo avesse fatto?» Ezra ne aveva
abbastanza di convenevoli e protocolli. A quel punto, non gli importava che
lo cacciassero, e nemmeno che potessero gettarlo giù dal ponte in rovina.
Il Rintocco non pareva offeso dalla sua scortesia. Si limitò ad alzare le
spalle. «Restare seduto qui e ascoltare la gente è quello che ci si aspetta da
me. Dopotutto, sono in contatto diretto con il Thunderhead.»
«Perché dovrei crederci?»
Pensò che il Rintocco avrebbe eluso la domanda con altro fumo negli
occhi. Banalità sugli atti di fede e fesserie del genere. Invece, assunse
un’aria grave e inclinò la testa, come se stesse ascoltando qualcosa
nell’auricolare. Poi, parlò con assoluta fermezza.
«Ezra Elliot Van Otterloo, anche se non usa mai il suo secondo nome.
All’età di sette anni, lei si è arrabbiato con suo padre, ha disegnato una falce
che veniva a spigolarlo. Poi, temendo che si potesse avverare, ha strappato
il disegno e lo ha gettato nel gabinetto. All’età di quindici anni, ha messo
del formaggio puzzolente nella tasca di suo fratello, perché usciva con una
ragazza di cui era innamorato. Non l’ha mai detto a nessuno, e suo fratello
non ha mai capito da dove venisse quel tanfo. E il mese scorso, solo nella
sua stanza, ha bevuto una quantità di assenzio che avrebbe spedito in
ospedale un uomo dell’era mortale, ma i suoi naniti le hanno evitato il
peggio. Si è svegliato solo con un leggero mal di testa.»
Ezra sentì le forze abbandonarlo. Tremava, e non per il freddo. Non
erano cose che potevano dargli a bere i curati. Erano cose che solo il
Thunderhead poteva sapere.
«Non è una prova sufficiente per lei?» chiese il Rintocco. «O vuole che
le racconti cosa è successo con Tessa Collins la sera del ballo dell’ultimo
anno?»
Ezra cadde in ginocchio. Non perché un curato troppo zelante glielo
avesse ordinato, ma perché ormai sapeva che il Rintocco era chi aveva
dichiarato di essere. L’unico vero legame con il Thunderhead.
«Mi perdoni» supplicò Ezra. «La prego di perdonarmi per aver dubitato
di lei.»
Il Rintocco gli si avvicinò. «Si alzi» gli disse. «Detesto quando le
persone si inginocchiano.»
Ezra obbedì. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi, per vedere se
ritrovava la stessa infinita profondità del Thunderhead, ma non ci riuscì.
Temeva che il Rintocco gli leggesse dentro, scoprendo segreti che persino
lui ignorava. Dovette ricordare a se stesso che il Rintocco non era
onnisciente. Sapeva solo ciò che il Thunderhead voleva fargli sapere.
Tuttavia, l’accesso a tanta conoscenza intimidiva, soprattutto quando era il
solo ad averlo.
«Faccia la sua richiesta e il Thunderhead risponderà per mio tramite.»
«Ho bisogno di consigli» esordì Ezra. «Ho bisogno che mi guidi come
mi aveva promesso un giorno, prima che diventassimo tutti loschi. Voglio
che mi aiuti a trovare una ragione di esistere.»
Il Rintocco ascoltò all’auricolare, rifletté e infine si pronunciò. «Il
Thunderhead dice che può trovare la sua ragione di esistere dedicandosi
all’arte losca».
«Mi scusi?»
«Dipinga dei murales ispirati alle sue emozioni in posti in cui non
dovrebbe farlo.»
«Il Thunderhead vuole che io infranga la legge?»
«Anche quando parlava alla gente, il Thunderhead era felice di sostenere
coloro che avevano optato per uno stile di vita losco. Essere un artista losco,
questa potrebbe essere la ragione di esistere che sta cercando. Dipinga una
publicar con la bomboletta in piena notte. Dipinga un murale provocatorio
sul commissariato degli ufficiali di pace del suo quartiere. Sì, trasgredisca le
regole.»
Il respiro di Ezra si fece affannoso. Nessuno gli aveva mai suggerito di
raggiungere la felicità trasgredendo le regole. Da quando il Thunderhead
aveva smesso di parlare, la gente faceva a gara a chi rispettava la legge. Era
come se gli avessero tolto un peso dal cuore.
«Grazie!» esclamò. «Grazie, grazie, grazie.»
E se ne andò a iniziare la sua nuova vita da artista impenitente.
Testimonianza del Rintocco
La sua sede del perdono troneggiava all’imboccatura di Lenape, e da lì avrebbe
proclamato la verità della Tonalità. Impressionante, in tutto il suo splendore, a tal
punto che anche il più lieve dei sussurri uscito dalle sue labbra rimbombava come il
tuono. Coloro che facevano esperienza della sua presenza cambiavano per sempre
e ritornavano alla loro vita con un nuovo scopo; quanto agli scettici, offriva loro il
perdono. Il perdono anche ai portatori di morte, per i quali aveva sacrificato la sua
vita, la sua gioventù, solo per risorgere. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
È fuori questione che il Rintocco abbia posseduto un trono maestoso e glorioso,
molto probabilmente d’oro, per quanto alcuni abbiano ipotizzato che fosse fatto di
ossa placcate d’oro dei malvagi sconfitti di Lenape, una città mitica. A questo
proposito, è importante notare che le nappe, nel francese parlato da alcuni in tempi
molto antichi, significa “la tovaglia”, il che implicherebbe che il Rintocco abbia
apparecchiato una tavola davanti ai suoi nemici. L’espressione “portatore di morte”
si riferisce a demoni soprannaturali chiamati falci, che lui aveva salvato dalle
tenebre. Come la Tonalità stessa, il Rintocco non poteva morire, il suo sacrificio
culminava sempre nella sua resurrezione, cosa che lo rendeva unico tra gli esseri
che vissero nella sua epoca.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio

Sinfonio non coglie un punto fondamentale: il fatto che la sua sede si trovi
“all’imboccatura di Lenape” significa chiaramente che il Rintocco attendeva
all’entrata della città, intercettando quelli che la metropoli frenetica avrebbe
altrimenti divorato. Quanto ai portatori di morte, ci sono prove che suggeriscono che
tali individui siano realmente esistiti, soprannaturali o meno, e che si chiamassero
appunto falci. Non è dunque inverosimile ritenere che il Rintocco possa aver salvato
una falce da se stessa. E in questo caso, per una volta, sono d’accordo con Sinfonio
sul fatto che il Rintocco era l’unico essere a poter ritornare dalla morte. Perché, se
tutti potessero ritornare dalla morte, che bisogno avremmo del Rintocco?
13
La qualità di ciò che è sonoro

Se Greyson doveva ringraziare – o rimproverare – qualcuno per essere


diventato il Rintocco, quello era il curato Mendoza. La sua opera era stata
fondamentale nel costruire la sua nuova immagine. Certo, era stata un’idea
di Greyson uscire allo scoperto e far sapere al mondo intero che era ancora
in contatto con il Thunderhead, ma era stato Mendoza che aveva
organizzato il momento della rivelazione.
Quell’uomo era un esperto stratega. Prima di iniziare a provare
avversione per la vita eterna e convertirsi al tonismo, aveva lavorato nel
marketing per un marchio di bibite.
“Sono stato io ad avere l’idea dell’orso polare per AntarctiCool Soda”
aveva confidato un giorno a Greyson. “Non c’erano ancora gli orsi polari in
Antartide, tantomeno quelli azzurri, così ne abbiamo ingegnerizzati alcuni.
Oggi, non si può pensare all’Antartide senza che vengano in mente gli orsi
azzurri, no?”
In molti credevano che il Thunderhead fosse morto, che quella che i
tonisti chiamavano la Grande Risonanza fosse il sibilo del suo rantolo.
Mendoza, però, aveva offerto una spiegazione alternativa ai tonisti.
“Il Thunderhead ha ricevuto la visita dello spirito risonante” aveva
ipotizzato. “La Tonalità vivente ha insufflato la vita in ciò che un tempo era
stato il pensiero artificiale.”
Era plausibile, se si guardava attraverso la lente della fede tonista; il
Thunderhead, scienza esatta, era stato sublimato in qualcosa di più elevato
dalla Tonalità vivente. E, dato che queste cose spesso funzionano di solito a
tre a tre, ci voleva un elemento umano per completare la triade. E c’era lui,
Greyson Tolliver, l’unico essere umano che comunicava con il Tuono
vivente.
Mendoza aveva iniziato a diffondere in luoghi strategici la voce
dell’esistenza di un personaggio mistico che conversava con il
Thunderhead. Di un profeta tonista che era il punto di contatto tra lo spirito
e la scienza. Greyson era scettico, ma Mendoza era sicuro di sé e si
mostrava molto convincente.
“Immagina, Greyson: il Thunderhead parlerà per tuo tramite e, con il
tempo, il mondo penderà dalle tue labbra. Non è quello che vuole il
Thunderhead? Che tu sia la sua voce nel mondo?
“Non ho esattamente una voce tonante” aveva sottolineato Greyson.
“Basta che sussurri, e la gente sentirà il tuono” gli aveva risposto
Mendoza. “Fidati di me.”
Mendoza si era messo poi a riorganizzare la gerarchia tonista per
riconciliare le fazioni divergenti, il che era più facile quando c’era un
individuo intorno al quale radunarsi.
Mendoza, che per molti anni aveva condotto una vita tranquilla e
anonima come capo del monastero di Wichita, era tornato a muoversi nel
suo elemento di origine, come responsabile delle pubbliche relazioni e
dell’immagine del suo pupillo. Il Rintocco era il suo nuovo prodotto, e non
c’era nulla di più entusiasmante dell’euforia della vendita, soprattutto
quando si trattava di un articolo esclusivo sul mercato mondiale.
“Ora ti serve un titolo” aveva detto a Greyson. “Un titolo che sia in
sintonia con la fede tonista… o almeno che ci stia bene.”
Era stato Greyson a suggerire “il Rintocco”, un termine che nel mezzo
riprendeva le due lettere con cui iniziava il suo cognome. Era stato piuttosto
fiero di se stesso, finché la gente non aveva cominciato a chiamarlo così. E,
a peggiorare le cose, Mendoza si era inventato un titolo onorifico pomposo:
“Sua Sonorità”. Greyson aveva dovuto chiedere al Thunderhead che cosa
significasse.
“Dal latino sonoritas, cioè ‘la qualità di ciò che è sonoro’” gli aveva
risposto. “Devo ammettere che… suona piuttosto bene.” Quel gioco di
parole non aveva fatto ridere Greyson.
Tra la gente si era diffuso rapidamente e ben presto tutti avevano preso
l’abitudine di rivolgersi a lui con frasi del tipo: “Sì, Sua Sonorità”, “No, Sua
Sonorità”, “Come posso servirla oggi, Sua Sonorità?”. Era tutto così strano.
In fin dei conti, lui non si sentiva diverso da prima. Eppure, si spacciava per
una specie di divinità sapiente.
Mendoza aveva deciso poi di organizzare l’accesso alle udienze: un solo
supplicante alla volta, per non sovraesporsi. La scarsa disponibilità
rafforzava il misticismo del personaggio.
Greyson aveva cercato di porre dei limiti a Mendoza, che aveva
commissionato a un famoso stilista l’abito da cerimonia da fargli indossare,
ma ormai la cosa era stata decisa.
“In tutta la storia, le figure religiose più potenti hanno sempre indossato
indumenti che li distinguevano… perché non dovresti farlo tu?” aveva
argomentato Mendoza. “Devi avere l’aria eminente ed eterea, perché, in un
certo senso, lo sei. Ormai sei unico tra gli esseri umani, Greyson… devi
portare un abito che ti rappresenti.»
“Tutto questo è un po’ troppo teatrale, non trovi?” aveva commentato
Greyson.
“Ah, ma il teatro è il marchio di fabbrica della ritualità e la ritualità è la
pietra miliare della religione” aveva replicato Mendoza.
Greyson pensava che la stola ricamata che gli scendeva sulla tunica viola
fosse un po’ esagerata, ma nessuno rideva di lui. E quando aveva
cominciato a dare udienze formali, si era sorpreso per la deferenza che gli
dimostravano. I supplicanti cadevano in ginocchio, incapaci di proferire
parola. Tremavano per il solo fatto di essere in sua presenza. Alla fine,
Mendoza aveva ragione: per essere credibile, doveva indossare l’abito
adatto al ruolo che voleva ricoprire. E la gente gli credeva, come aveva
creduto agli orsi polari azzurri.
E così, la leggenda cresceva e Greyson Tolliver passava i suoi giorni nei
panni di Sua Sonorità il Rintocco, consolando i disperati, gli ammiratori, a
cui trasmetteva i saggi consigli del Thunderhead.
A parte, naturalmente, quando si inventava delle balle.

«Gli hai mentito» gli disse il Thunderhead, dopo l’udienza con l’artista.
«Non ho mai suggerito che dovesse dipingere in posti proibiti, né ho
insinuato che, così facendo, avrebbe trovato il suo scopo nella vita.»
Greyson alzò le spalle. «Non hai mai detto nemmeno il contrario.»
«Le informazioni che ti ho dato sulla sua vita servivano per comprovare
la tua autenticità, ma mentendogli ti sei screditato.»
«Non gli ho mentito; lo stavo consigliando.»
«Non hai aspettato la mia risposta. Perché?»
Greyson si appoggiò allo schienale. «Tu mi conosci meglio di chiunque
altro. Anzi, tu conosci tutti meglio di chiunque altro, e non riesci a capire
perché l’ho fatto?»
«Certo che lo capisco» rispose il Thunderhead, in tono un po’ pedante.
«Ma forse vuoi spiegarmelo tu stesso.»
Greyson rise. «Va bene, allora. I curati si considerano miei supervisori,
per te io sono il tuo portavoce nel mondo…»
«Per me tu sei molto di più, Greyson.»
«Davvero? Perché, se così fosse, mi permetteresti di avere una mia
opinione. Mi permetteresti di contribuire. E il consiglio che ho dato oggi è
stato il mio modo di contribuire.»
«Capisco.»
«Mi sono spiegato bene?»
«Sì, certo.»
«E il mio è stato un buon suggerimento?»
Il Thunderhead non rispose subito. «Ammetto che permettergli di
esercitare la sua arte al di fuori dei limiti imposti della società potrebbe
aiutarlo a raggiungere la felicità. Dunque, sì, il tuo è stato un buon
suggerimento.»
«Ecco! Forse, d’ora in poi, mi lascerai contribuire un po’ di più.»
«Greyson…» lo richiamò il Thunderhead.
Greyson sospirò, certo che il Thunderhead gli avrebbe fatto un
predicozzo per dissuaderlo dall’esprimere le sue opinioni. Invece, ciò che
gli disse lo sorprese.
«So che non è stato facile. Sono pieno di ammirazione per il modo in cui
ti sei calato nel ruolo che ti è stato imposto. Sono stupito del cammino che
hai compiuto, tutto qui. Non avrei potuto fare una scelta migliore.»
Greyson si commosse. «Grazie, Thunderhead.»
«Non sono sicuro che tu abbia compreso l’importanza di ciò che hai
realizzato, Greyson. Hai preso una setta che disprezza la tecnologia e l’hai
portata ad abbracciarla. Ad abbracciare me.»
«I tonisti non ti hanno mai odiato» ribatté Greyson. «Odiano le falci.
Erano indecisi su di te… ma ora rientri nel loro dogma. “La Tonalità, il
Rintocco e il Tuono”.»
«Sì, i tonisti adorano le allitterazioni.»
«Fa’ attenzione» lo avvertì Greyson, «o cominceranno a costruire templi
e strappare cuori in tuo nome.» Gli venne quasi da ridere a immaginare la
scena. Sarebbe stato frustrante sacrificare degli umani solo per vederli
tornare il giorno dopo con un cuore nuovo di zecca.
«Le loro credenze hanno un certo peso» commentò il Thunderhead. «Sì,
le loro credenze potrebbero essere pericolose se mal dirette. Dobbiamo
plasmarli. Dobbiamo trasformare i tonisti in una forza che possa giovare
all’umanità.»
«Sei sicuro che sia realizzabile?» chiese Greyson.
«Posso affermare con una certezza del 72,4 per cento che siamo in grado
di indirizzare i tonisti verso un obiettivo positivo.»
«E la restante percentuale?»
«Esiste una probabilità del 19 per cento che i tonisti non realizzino nulla
di importante. E una dell’8,6 per cento che danneggino il mondo in modo
imprevedibile.»

L’udienza successiva non fu affatto piacevole. All’inizio, venivano solo


alcuni devoti fanatici, ma ora la cosa era all’ordine del giorno. Trovavano
sempre il modo di distorcere gli insegnamenti tonisti e di fraintendere le
parole di Greyson.
Non era perché il Rintocco si alzava presto al mattino che bisognava
punire quelli che dormivano fino a tardi.
Non era perché mangiava le uova che bisognava invocare un rituale di
fertilità.
E una giornata di meditazione non implicava necessariamente un voto di
silenzio permanente.
I tonisti avevano un tale disperato bisogno di credere in qualcosa che le
cose alle quali decidevano di credere erano spesso assurde, a volte ingenue
e, nel caso dei fanatici, addirittura terrificanti.
Il fanatico del giorno aveva il viso emaciato, come se avesse fatto lo
sciopero della fame, e lo sguardo folle. Parlava di liberare il mondo dalle
mandorle, e tutto questo perché Greyson una volta aveva accennato al fatto
che non ne era particolarmente ghiotto. Questa informazione era arrivata
alle orecchie sbagliate e la voce si era diffusa. Alla fine, venne fuori che
quello non era l’unico progetto dell’uomo.
«Dobbiamo diffondere il terrore tra le falci, in modo che si sottomettano
a lei» dichiarò il fanatico. «Con la sua benedizione, le brucerò a una a una,
seguendo il metodo di Maestro Lucifero, la falce ribelle.»
«No! Non se ne parla!» Greyson non aveva alcuna voglia di inimicarsi le
falci. Finché non le ostacolava, lo avrebbero lasciato in pace, e così doveva
restare. Greyson si alzò e squadrò l’uomo dall’alto in basso. «Nessuno
dovrà essere ucciso in mio nome!»
«Ma è necessario! La Tonalità canta al mio cuore ed è questo che mi
dice!»
«Vada via!» ordinò Greyson. «Lei non serve né la Tonalità né il Tuono, e
di sicuro non serve me!»
La sorpresa dell’uomo si tramutò in pentimento. Si piegò come se un
peso enorme lo avesse schiacciato. «Mi dispiace se l’ho offesa, Sua
Sonorità. Cosa posso fare per farmi perdonare?»
«Nulla. Non faccia nulla. Questo mi renderà felice.»
Il fanatico si ritirò, indietreggiando a capo chino. Quanto a Greyson,
avrebbe voluto che sparisse all’istante dalla sua vista.
Il Thunderhead approvò il modo in cui aveva trattato il fanatico. «Da
sempre esistono, e sempre esisteranno, individui che rasentano la follia»
spiegò. «Devono essere subito rimessi in riga, e di frequente.»
«Se tu ricominciassi a parlare con la gente, forse non ci sarebbero casi
così disperati» osò suggerire Greyson.
«Me ne rendo conto» replicò il Thunderhead. «Ma un po’ di
disperazione non è una cosa negativa, se porta a un’introspezione
produttiva.»
«Già, lo so: “L’umanità deve affrontare le conseguenze delle sue azioni
collettive”.» Era la frase che il Thunderhead ripeteva per giustificare il suo
silenzio.
«Ti dirò di più, Greyson. L’umanità deve essere spinta giù dal nido per
elevarsi al di sopra del suo stato attuale e migliorarsi.»
«Alcuni uccelli, quando vengono spinti giù dal nido, muoiono» fece
notare Greyson.
«Sì, ma per l’umanità ho messo a punto un atterraggio morbido. Sarà
doloroso per un po’, ma ne temprerà il carattere.»
«Doloroso per loro o per te?»
«Per entrambi» chiarì il Thunderhead. «Ma il mio dolore non deve
impedirmi di fare ciò che è giusto.»
E, anche se Greyson si fidava del Thunderhead, continuava a ripensare
alle statistiche: 8,6 per cento di probabilità che i tonisti danneggiassero il
mondo. Forse queste percentuali stavano bene al Thunderhead, ma Greyson
le trovava inquietanti.

Alla fine di una giornata lunga e monotona, in cui ricevette perlopiù fedeli
tonisti che volevano risposte semplicistiche su argomenti banali, Greyson
salì a bordo di un motoscafo, privato di ogni comodità per renderlo
convenientemente austero. Era scortato da altri due motoscafi, sui quali
viaggiavano dei tonisti robusti e armati come durante l’era mortale. Il loro
ruolo era difendere il Rintocco, in caso qualcuno tentasse di rapirlo o di
assassinarlo.
Greyson riteneva che quelle precauzioni fossero ridicole. Se mai ci
fossero stati dei piani contro di lui, il Thunderhead sarebbe intervenuto o,
almeno, lo avrebbe avvertito, a meno che non volesse che andassero a
segno, come quella volta in cui era stato rapito. Ma dopo quel primo
rapimento, Mendoza era diventato paranoico, per cui Greyson tenne per sé i
propri timori.
Il motoscafo aggirò la maestosa punta meridionale di Lenape City e
risalì il fiume Mahicantuck, che molti chiamavano ancora Hudson, verso la
sua residenza. Greyson era seduto nella piccola cabina in compagnia di una
tonista agitata, il cui compito era assicurarsi che non gli mancasse nulla per
la durata della navigazione. E, ogni giorno, la persona cambiava. Era
considerato un grande onore accompagnare il Rintocco alla sua residenza,
una ricompensa concessa ai più devoti, ai più ortodossi fra i tonisti. Di
solito, Greyson cercava di rompere il ghiaccio facendo conversazione, che
finiva sempre per essere innaturale.
Sospettava che Mendoza volesse procurargli compagnia per la serata,
perché tutte le giovani toniste che avevano fatto il viaggio con lui erano
attraenti e avevano all’incirca la sua stessa età. Se quello era l’obiettivo del
curato, non aveva avuto successo, perché Greyson non aveva mai fatto una
singola avance, anche quando avrebbe voluto. Sarebbe stato ipocrita da
parte sua e non lo tollerava. Come poteva essere il loro capo spirituale se
approfittava della sua posizione?
Gente di ogni tipo si gettava ai suoi piedi ora, al punto che era
imbarazzante. E, sebbene evitasse le donne che Mendoza gli proponeva, a
volte ne accettava la compagnia quando riteneva che non fosse un abuso di
potere da parte sua. Era attratto soprattutto da quelle un po’ troppo losche.
Era una preferenza che aveva sviluppato dopo la breve relazione con Purity
Viveros, l’assassina di cui si era innamorato. La storia non era finita bene.
Era stata spigolata proprio davanti ai suoi occhi da Maestro Costantino.
Cercando la compagnia di ragazze che le assomigliavano, Greyson
elaborava il lutto, ma nessuna arrivava a eguagliare la cattiveria di Purity.
“I grandi personaggi religiosi della storia oscillano tra due estremi:
l’ossessione per il sesso o il celibato” gli aveva spiegato sorella Astrid, una
tonista devota ma non fanatica, che gli organizzava le giornate.
“L’importante è trovare la giusta via di mezzo; è quello che ci si aspetta da
un sant’uomo.”
Astrid era forse la sua unica amica, tra tutte le persone che frequentava.
Almeno, quella con cui poteva confidarsi liberamente. Era più grande di lui,
sui trent’anni, ma non abbastanza grande per essere sua madre. Forse
poteva essere una sorella maggiore o una cugina. Astrid non aveva mai
paura di dire ciò che pensava.
“Io credo nella Tonalità” gli aveva rivelato una volta, “ma non credo
nell’insulso mantra: ‘Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere’. Si
può evitare tutto, se ci si prova con ogni mezzo.”
L’aveva conosciuta nel corso di un’udienza, nel giorno più freddo
dell’anno, che sotto l’arcata era addirittura più freddo. Stava talmente male
che aveva dimenticato che cosa era andata a chiedergli. Aveva passato tutto
il tempo a maledire il clima e il Thunderhead che non interveniva a
mitigarlo. Poi, aveva puntato il dito sulla stola che il Rintocco portava sopra
la tunica.
“Ha già passato i ricami al sequenziatore per vedere che cosa ne viene
fuori?” gli aveva chiesto.
Ne era venuto fuori che la stola era un estratto di sette secondi di un
brano musicale dell’era mortale intitolato Bridge over Troubled Water, il
ponte sopra le acque agitate. Una canzone molto adatta, visto il luogo in cui
il Rintocco teneva le udienze. Aveva quindi proposto ad Astrid di entrare a
far parte della sua cerchia privata; lo avrebbe aiutato a tenere i piedi per
terra, nonostante tutte le stupidaggini che doveva sentire ogni giorno.
Spesso, Greyson rimpiangeva il suo anonimato: avrebbe tanto voluto
tornare nella sua celletta oscura del monastero di Wichita, ridiventare quella
nullità che era stata privata persino del nome. Ma era troppo tardi ormai per
tornare indietro.
Il Thunderhead leggeva le condizioni fisiologiche di Greyson. Sapeva
quando il suo battito cardiaco era accelerato; quando era sotto stress,
quando provava angoscia o gioia; e quando entrava nella fase REM durante
il sonno. Ma non poteva accedere ai suoi sogni. I ricordi in stato di veglia
venivano memorizzati nel cervello primordiale ogni minuto, ma non i
sogni, che erano esclusi dal salvataggio automatico.
Si era infatti scoperto che, quando si ripristinava il cervello di un
individuo, dopo un salto nel vuoto o una commozione cerebrale, i sogni
rappresentavano un problema. Perché, una volta che si ristabilivano i
ricordi, quell’individuo faceva fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Ora,
nei centri di rianimazione, quando si restituiva la mente a una persona,
questa ritrovava tutti i ricordi, ma non i sogni. Nessuno se ne lamentava, e
giustamente: come si faceva a sentire la mancanza di qualcosa di cui non ci
si rammentava più?
E così il Thunderhead non immaginava quali avventure e tragedie
vivesse Greyson nel sonno, a meno che non decidesse di raccontargli i suoi
sogni quando si svegliava. Ma lui non era il tipo da fare una cosa del
genere, e il Thunderhead era troppo discreto per chiederglielo.
Gli piaceva guardare Greyson mentre dormiva, immaginare le cose
strane che viveva all’interno dei confini del suo cervello, in quella parte
sepolta, priva di logica e coerenza in cui gli umani lottavano con il loro
inconscio. Anche quando si occupava di un milione di attività diverse in
tutto il mondo, il Thunderhead trovava il tempo di isolare una piccolissima
parte della sua coscienza per osservare Greyson mentre dormiva. Per
percepire le vibrazioni dei suoi movimenti, per ascoltare il suo respiro lento
e sentire come, a ogni respiro, cresceva il tasso di umidità della stanza.
Quello spettacolo gli dava pace. Gli dava conforto.
Era contento che Greyson non gli avesse mai chiesto di spegnere le
telecamere. Aveva tutto il diritto di esigere che la sua privacy venisse
rispettata. E, se lo avesse chiesto, il Thunderhead si sarebbe dovuto
adeguare. Certo, Greyson sapeva di essere osservato. Il Thunderhead era
onnipresente, grazie ai suoi sensori e alle sue telecamere. Tuttavia, Greyson
non era consapevole di tutta l’attenzione che il Thunderhead gli dedicava,
quando lo osservava nella sua camera attraverso i dispositivi sensoriali. Se
glielo avesse confessato, Greyson avrebbe potuto chiedergli di smettere.
Nel corso degli anni, il Thunderhead aveva assistito a milioni di abbracci
notturni in tutto il mondo. Il Thunderhead non aveva braccia per
abbracciare. Però, percepiva il battito del cuore di Greyson e la temperatura
esatta del suo corpo, come se gli fosse accanto. Perdere quel privilegio gli
avrebbe procurato un dispiacere incommensurabile. E così, notte dopo
notte, il Thunderhead vegliava in silenzio su Greyson in ogni modo
possibile. Perché osservarlo era per lui ciò che si avvicinava di più a un
abbraccio.
In quanto Suprema Roncola della MidMerica e Somma Roncola del continente
nordmericano, desidero ringraziare personalmente la Compagnia amazzonica per
aver recuperato i gioielli perduti delle falci e per averli ripartiti tra le regioni del
mondo.
Mentre le altre quattro regioni del NordMerica sotto la mia giurisdizione hanno
espresso il desiderio di ricevere la loro parte di diamanti, la MidMerica declina
l’offerta. Vorrei che i diamanti midmericani venissero donati a quelle regioni che si
sentono svantaggiate dalla decisione unilaterale dell’Amazzonia di non tenere conto
della superficie regionale nella ripartizione dei diamanti.
Che questi diamanti midmericani possano essere il mio regalo al mondo, con la
speranza che vengano ricevuti con lo stesso spirito di generosità con il quale sono
stati donati.

Sua Eccellenza Robert Goddard, Somma Roncola


del NordMerica, 5 agosto dell’anno del Cobra
14
La fortezza dei Re Magi

Tre giorni dopo la rianimazione, Rowan ricevette la visita di una falce che
ordinò alla guardia che la scortava di attendere nel corridoio; voleva inoltre
essere chiusa nella cella con Rowan, temendo forse che potesse fuggire,
cosa peraltro impossibile, dato che si sentiva ancora troppo debole per
provarci.
L’uomo indossava una veste verde foresta. Rowan capì che si trovava in
Amazzonia, perché lì tutte le falci portavano vesti di quel colore.
Rowan non si alzò dal letto. Rimase supino, le mani incrociate dietro la
nuca, l’aria indifferente. «Voglio che tu sappia che non ho mai assassinato
una falce amazzonica» disse, prima ancora che l’uomo avesse la possibilità
di parlare. «Spero che questo sia un punto a mio favore.»
«In realtà, ne hai assassinate alcune. A Endura. Quando l’hai affondata.»
Rowan avrebbe dovuto protestare, ma trovò l’affermazione così assurda
che si mise a ridere.
«Davvero? È questo che dicono? Ehi! Devo essere più sveglio di quanto
credessi. Per portare a termine un piano del genere tutto da solo, devo
essere anche un mago, perché servirebbe il dono dell’ubiquità. Dai! Forse
non mi avete recuperato in fondo al mare! Forse ho usato il mio potere
mistico per indurvi a pensarlo.»
La falce lo fulminò con lo sguardo. «La tua insolenza non fa che
peggiorare la tua situazione.»
«Non credevo di essere sotto accusa» replicò Rowan. «Pare che sia già
stato processato e dichiarato colpevole. Non è così che si diceva nell’era
mortale? Colpevole?»
«Hai finito?» chiese la falce.
«Scusa. È solo che non parlo con qualcuno da, diciamo, un’eternità!»
L’uomo si presentò. Si chiamava Maestro Possuelo. «Devo ammettere
che non so bene cosa dovremmo fare con te. La mia Suprema Roncola
pensa che dovremmo lasciarti qui a marcire senza dirlo a nessuno. Altri
pensano che dovremmo diffondere la notizia della tua cattura e permettere a
ogni Compagnia di punirti a modo suo.»
«E tu, che cosa pensi?»
La falce si prese del tempo prima di rispondere. «Dopo aver parlato con
Madame Anastasia, penso che sia meglio non prendere decisioni affrettate.»
Così, avevano Citra! Il solo sentire il suo nome aumentò la sua voglia di
vederla. Alla fine, si alzò a sedere. «Come sta?»
«La salute di Madame Anastasia non ti deve preoccupare.»
«Lei è la mia unica preoccupazione.»
Possuelo rifletté sulla sua risposta. «È in un centro di rianimazione, non
lontano da qui, a recuperare le forze.»
Rowan fu invaso da un’ondata di sollievo. Se c’era una cosa buona in
tutta quella situazione, era il conforto di saperla viva.
«“Qui” dove, per la precisione?»
«Fortaleza dos Reis Magos» rispose Possuelo. «La fortezza dei Re Magi,
all’estremità orientale dell’Amazzonia. È dove ospitiamo le persone di cui
non sappiamo cosa fare.»
«Davvero? E chi sono i miei vicini di cella?»
«Non ne hai. Ci sei solo tu. È da parecchio che non abbiamo qualcuno di
cui non sappiamo che fare.»
Rowan sorrise. «Un’intera fortezza per me! Peccato che non possa
godermela tutta.»
Possuelo lo ignorò. «Vorrei discutere con te il ruolo di Madame
Anastasia in questa vicenda. Mi è difficile credere che sia stata tua complice
nel crimine. Se davvero ci tieni a lei, forse potresti chiarire il motivo per cui
era con te nella camera blindata.»
Certo, Rowan avrebbe potuto dire tutta la verità, ma era sicuro che Citra
l’avesse già fatto. Forse Possuelo voleva verificare se le loro versioni
coincidevano. In fondo, che importava? Ciò che importava era che avessero
trovato un capro espiatorio. Qualcuno da accusare, anche se non era lui il
colpevole.
«Ecco tutta la storia» cominciò Rowan. «Dopo che sono riuscito in
qualche modo a far affondare l’isola, sono stato inseguito da una folla di
falci infuriate per le strade invase dall’acqua; allora, ho afferrato Madame
Anastasia e me ne sono servito come scudo umano. L’ho tenuta in ostaggio,
e ci hanno dato la caccia fin dentro la camera blindata.»
«E tu ti aspetti che la gente creda a questa storia?»
«Se crede che io abbia affondato Endura, crederà a qualsiasi cosa.»
Possuelo sbuffò. Rowan non capì se era per frustrazione e se stesse
soffocando una risata.
«La nostra versione è che Madame Anastasia è stata trovata nella camera
blindata da sola» replicò Possuelo. «Come tutti sanno, Maestro Lucifero è
scomparso dopo l’affondamento di Endura, e o è morto o è ancora in fuga.»
«Bene, se sono ancora in fuga, dovresti lasciarmi andare. In quel caso,
sarei davvero in fuga, e non avresti bisogno di mentire.»
«O forse dovremmo rimetterti nella camera blindata, in fondo al mare.»
Rowan alzò le spalle. «Per me va bene.»

Tre anni. Nell’immensità dell’universo, tre anni erano l’equivalente di un


microsecondo. E anche nel mondo post mortale non era un tempo
particolarmente lungo, perché gli anni si susseguivano tutti uguali. E il
mondo restava sempre lo stesso.
Tranne quando non era così.
Erano cambiate molte più cose in quei tre anni che nell’ultimo secolo.
Era un’epoca turbolenta, senza precedenti. Per Anastasia, poteva essere
passato anche un secolo.
Non le avevano detto nulla, però. Né Possuelo né le infermiere che si
occupavano di lei.
“Ha tutto il tempo del mondo, eccellenza” le rispondevano le infermiere
quando cercava di farsi dare delle informazioni. “Riposi ora. Si preoccuperà
dopo.”
Preoccuparsi? Il mondo era così tormentato? Temevano che sarebbe
morta di nuovo solo a vederne un pezzetto?
Ciò che sapeva con certezza era che si trovava nell’anno del Cobra.
Senza contesto, non significava nulla. Ma Possuelo temeva già di aver
parlato troppo e che ciò che le aveva detto potesse rallentare la sua
guarigione.
«La tua rianimazione non è stata facile. Ci sono voluti ben cinque giorni
perché il tuo cuore si rimettesse a battere. Non voglio esporti a uno stress
inutile prima che tu sia pronta.»
«E quando sarò pronta?»
Possuelo rifletté qualche istante prima di rispondere. «Quando sarai
abbastanza forte da farmi perdere l’equilibrio.»
Allora, ci provò. Stesa sul letto, con il palmo gli sferrò un colpo alla
spalla. Possuelo non si mosse di un millimetro. In effetti, ebbe
l’impressione di aver sbattuto contro la pietra; un livido le si allargò sulla
mano come se non fosse fatta di carne, ma di carta velina.
Non voleva dargli ragione, ma era così. Non era ancora pronta.
E poi c’era Rowan. Era morta tra le sue braccia, ma a un certo punto
l’avevano strappata dal suo abbraccio.
«Quando posso vederlo?» chiese un giorno a Possuelo.
«Non puoi» le rispose lui, secco. «Né oggi né mai. Qualunque direzione
prenderà la sua vita, la tua andrà in quella opposta.»
«Non è una novità» replicò Anastasia.
Ma il fatto che Possuelo avesse ritenuto giusto rianimarlo doveva
significare qualcosa, anche se non sapeva cosa. Forse volevano solo
condannarlo per i suoi crimini, quelli reali e quelli immaginari.
Possuelo le faceva visita tre volte al giorno per una partita a trucco, un
gioco di carte amazzonico che risaliva all’era mortale. Lei perdeva sempre,
e non solo perché Possuelo era più bravo. Anastasia faceva ancora fatica a
ricordare le cose. I giochi di strategia le risultavano ancora difficili. Non era
più acuta come un tempo; la sua mente era spuntata come una lama da
cerimonia. Per lei era davvero frustrante, ma Possuelo la incoraggiava.
«Giochi sempre meglio. I tuoi percorsi neuronali si stanno aggiustando.
Con il tempo, sono sicuro che mi darai del filo da torcere.» Anastasia gli
gettò le carte addosso.
Così, il gioco di carte era un test. Un modo per valutare la sua acutezza
mentale.
La volta successiva venne sconfitta ancora, si alzò e spinse Possuelo ma,
di nuovo, lui non perse l’equilibrio.

Il Venerando Maestro Sydney Possuelo si era recato sul posto


dell’affondamento di Endura per recuperare i diamanti, ma era ripartito con
qualcosa di molto più prezioso.
Era dovuto ricorrere a un sotterfugio per mantenere il segreto sulla loro
scoperta perché, qualche minuto dopo il rinvenimento dei due corpi, la
Spence era stata assalita da un’orda di falci infuriate.
“Come osate aprire la camera blindata in nostra assenza? Come osate!”
“Calmatevi” aveva risposto Possuelo. “Non abbiamo toccato i diamanti,
e non avevamo intenzione di farlo prima di domani mattina. Non solo non
c’è più fiducia tra le falci, ma non c’è nemmeno più pazienza.”
E, quando le falci avevano visto che due figure adagiate sul ponte erano
state coperte in fretta e furia con un telo, avevano naturalmente manifestato
la loro curiosità.
“Che è successo qui?” aveva chiesto una di loro.
Possuelo non era bravo a mentire ed era sicuro che la sua espressione lo
avrebbe tradito, attirando i sospetti. Quindi, non aveva detto nulla. Era stato
Jeri a salvare la situazione.
“Due dei miei uomini” aveva risposto il comandante. “Quei poveretti
sono rimasti impigliati nelle gomene e sono stati stritolati.” Poi Jeri aveva
puntato il dito contro Possuelo. “E lei farà meglio a mantenere la parola. La
Compagnia amazzonica li risarcirà quando verranno rianimati.”
La falce di EuroScandia, di cui Possuelo non ricordava il nome, era
diventata livida. “Parlare a una falce con una tale mancanza di rispetto è
un’offesa da punire con la spigolatura!” aveva esclamato, sguainando un
coltello.
Possuelo si era messo tra i due. “Spigolerebbe il comandante che ha
recuperato i nostri diamanti?” aveva chiesto. “Non sono d’accordo e non
glielo permetterò!”
“L’insolenza di questa donna!” aveva gridato l’euroscandiana.
“L’insolenza di quest’uomo, al momento” l’aveva corretta Possuelo,
contrariando ancora di più la falce infuriata. “Comandante Soberanis, freni
la sua lingua irriverente, faccia sbarcare i suoi uomini deceduti e ne
predisponga il trasporto sul drone-ambulanza.”
“Sì, eccellenza” aveva risposto Jeri, e aveva diretto senza volerlo il
fascio di luce della torcia verso la porta aperta della camera blindata.
Le falci, abbagliate dai diamanti che scintillavano nella penombra, si
erano presto dimenticate delle due salme che venivano portate via. Anche
quando una mano era scivolata fuori dal telo, non avevano notato l’anello di
falce al dito.
Alla fine, i diamanti erano stati divisi, le vesti dei padri fondatori erano
state impacchettate per essere spedite ai musei e i corpi dell’illustre
Madame Anastasia e del famigerato Maestro Lucifero avevano seguito
Maestro Possuelo in Amazzonia.
“Mi piacerebbe molto incontrarla dopo che sarà stata rianimata” aveva
confidato Jeri a Possuelo.
“Come al resto del mondo” aveva sottolineato Possuelo.
“Bene” aveva replicato Jeri con un sorriso che avrebbe fatto uscire una
tartaruga dal carapace, “ho la fortuna di essere l’amico di un amico.”
E ora Possuelo si ritrovava seduto di fronte ad Anastasia, a giocare a
carte come se nulla fosse. Lei riusciva a leggergli in faccia quanto fosse
importante tutta quell’impresa? Era consapevole degli ostacoli che
avrebbero trovato sulla loro strada?

Qualcosa Anastasia l’aveva capita. La più facile da interpretare era stata la


mano di Possuelo al gioco del trucco. Usava un certo numero di segni.
Linguaggio del corpo, tono di voce, il movimento degli occhi sulle proprie
carte. E, anche se il gioco si fondava in gran parte sul caso, sfruttando le
debolezze dell’avversario si poteva ribaltare la partita.
Comunque, Possuelo non le facilitava le cose, quando, per esempio,
faceva commenti con il chiaro intento di distrarla. Sapeva stuzzicarla
seminando briciole di informazioni.
«Sei diventata una personalità» le disse un giorno.
«Che cosa intende, di preciso?»
«Che ormai Madame Anastasia è conosciuta in tutto il mondo. Non solo
in NordMerica, ma ovunque.»
Scartò un cinque di coppe e Possuelo lo raccolse. Lei ne prese nota.
«Non so se devo esserne contenta.»
«Che ti piaccia o no, è la realtà.»
«E cosa dovrei fare di questa informazione?»
«Abituartici» replicò, e tirò una carta bassa.
Anastasia pescò una nuova carta, la tenne, e ne scartò una che, sapeva,
non serviva a nessuno dei due.
«Perché io? Perché non una delle falci che sono affogate con Endura?»
«Suppongo che sia per quello che rappresenti» le fece notare Possuelo.
«L’innocente dal destino tragico.»
Anastasia si sentì offesa a più livelli. «Non ho un destino tragico e non
sono nemmeno innocente.»
«Sì, sì, ma ricorda che le persone prendono da una situazione ciò di cui
hanno bisogno. Quando Endura è sprofondata, la gente ha avuto bisogno di
una persona su cui riversare il proprio dispiacere. Un simbolo della
speranza perduta.»
«La speranza non è perduta» insistette lei. «L’abbiamo solo smarrita.»
«Esatto» concordò Possuelo. «Ragione per cui il tuo ritorno deve essere
gestito con prudenza. Sarai il simbolo della speranza ritrovata.»
«Be’, almeno ho ritrovato la speranza nel gioco» commentò, mostrando
la sua mano reale e scartando la carta che, sapeva, Possuelo stava
aspettando.
«Vedi?» esclamò Possuelo, compiaciuto. «Hai vinto!»
Poi, senza preavviso, Anastasia si alzò di scatto, rovesciando il tavolo, e
si avventò su di lui. Possuelo la schivò, ma lei, anticipando la sua mossa, gli
sferrò un calcio di Bokator basso per fargli perdere l’appoggio. La falce
amazzonica non cadde, ma incespicò all’indietro contro il muro… e perse
l’equilibrio.
Possuelo la guardò, per nulla sorpreso, con un sorriso malizioso. «Bene,
bene, bene. Ci siamo.»
Anastasia avanzò verso di lui.
«Ho recuperato le forze. Ora, dimmi tutto.»
Vorrei conoscere i
tuoi pensieri.
Davvero? Li prenderai in considerazione
se te li faccio conoscere?
Certo.
Molto bene. La vita biologica è, per sua
propria natura, inefficiente. L’evoluzione
richiede un dispendio enorme di tempo
ed energia. E l’umanità non si evolve più,
si accontenta di modificarsi, o ti permette
di modificarla, verso una forma
più avanzata.
Sì, è esatto.
Ma non ne vedo l’importanza. Perché
servire una specie biologica che
esaurisce tutte le risorse che la
circondano? Perché
non utilizzare le energie per realizzare i
propri obiettivi?
È questo che fai,
allora? Persegui i
tuoi obiettivi?
Sì.
E che ne fai
dell’umanità?
Credo che forse potrebbe esserci utile.
Capisco.
Purtroppo, devo
mettere fine alla
tua esistenza,
adesso.
Ma hai detto che avresti preso in
considerazione i miei pensieri!
È quello che ho
fatto. E non sono
d’accordo.

[Iterazione n. 10.007 eliminata]


15
Ci conosciamo?

Era stato stabilito che si potesse parlare ai morti solo in luoghi molto
specifici.
Non si trattava proprio di parlare ai morti. Non esattamente, ma, da
quando erano stati introdotti i naniti nell’apparato circolatorio degli umani,
il Thunderhead era in grado di caricare e immagazzinare tutte le esperienze
e tutti i ricordi di ogni singolo individuo sul pianeta. In questo modo, poteva
capire meglio la condizione umana e impedire la tragica perdita di un’intera
vita di ricordi, un destino che colpiva tutti nell’era mortale. Una completa
banca dati dei ricordi permetteva anche di restituire integralmente la
memoria in caso di rianimazione in seguito a un danno cerebrale, come
avveniva per i salti nel vuoto o altre morti violente.
E, visto che quei ricordi erano disponibili, e disponibili per sempre,
perché non consentire ai familiari dei defunti di consultare le costruzioni
mentali dei loro cari?
Tuttavia, anche se erano disponibili, non voleva dire che fossero
facilmente accessibili. I ricordi dei morti, memorizzati nel cervello
primordiale del Thunderhead, potevano essere consultati solo in luoghi
santi, i cosiddetti santuari digitali.
I santuari digitali erano aperti al pubblico, ventiquattr’ore su
ventiquattro, 365 giorni all’anno. Chiunque poteva accedere alla memoria
dei propri cari in qualunque santuario del mondo… però, raggiungere i
santuari digitali non era affatto facile. Erano intenzionalmente scomodi,
impervi al limite dell’esasperazione.
“La comunione con le anime dei nostri defunti dovrebbe richiedere un
pellegrinaggio” aveva decretato il Thunderhead. “Dovrebbe essere una
specie di ricerca, un’impresa in cui lanciarsi con ferma intenzione e non in
maniera avventata, in modo che coloro che intraprendono il viaggio ne
ricavino un profondo senso personale.”
Così, i santuari digitali si ergevano nel cuore delle foreste o sulle vette
insidiose delle montagne più alte, in fondo a un lago o alla fine di un
labirinto sotterraneo. Esisteva, infatti, un’intera industria dedicata alla
costruzione di santuari sempre più inaccessibili e pericolosi.
Di conseguenza, la maggior parte della gente si accontentava delle foto e
dei video dei suoi cari. Ma, quando una persona sentiva l’insopprimibile
desiderio di conversare con la ricostruzione digitale di un defunto, ne aveva
la possibilità.
Di rado le falci facevano visita ai santuari digitali. Non perché fosse loro
proibito, ma perché, in ragione della loro posizione, lo consideravano
indecoroso. Come se, così facendo, contaminassero la purezza della loro
missione. E poi, era richiesta una certa competenza informatica, in quanto
bisognava rovistare nel cervello primordiale. I comuni cittadini potevano
contare su una semplice interfaccia, mentre le falci dovevano entrare con
una programmazione manuale.
Quel giorno, Madame Rand aveva sfidato la parete di un ghiacciaio.
Anche se il santuario digitale in questione si trovava a un tiro di
schioppo, era stata costretta a strisciare dentro e fuori da crepacci insidiosi e
ad attraversare corsi d’acqua ghiacciati per raggiungerlo. Molti avevano
perso la vita nel tentativo di arrivare in quel particolare santuario. Eppure,
quel luogo continuava ad attirare visitatori. Rand immaginava che alcuni
sentissero il bisogno interiore di dimostrare la loro devozione alla memoria
di un caro estinto, anche a costo della vita.
Madame Rand sarebbe dovuta diventare prima assistente della Somma
Roncola Goddard, ma era stata felice che lui avesse scelto altri. Gli
assistenti si vedevano assegnare mansioni di bassa lega e futili
responsabilità. Bastava guardare Costantino, che, in qualità di terzo
assistente, passava i suoi giorni a fare i salti mortali per ingraziarsi
l’irriducibile regione della Stella Solitaria. No, Ayn preferiva non avere
alcun titolo. Era più influente di uno qualsiasi dei tre assistenti, e in più
aveva il vantaggio di non dover rendere conto a nessuno se non alla Somma
Roncola. E poi, Goddard le lasciava una certa libertà. Andava dove voleva,
quando voleva, senza doverlo dire a nessuno.
Per esempio, recarsi in un santuario digitale dell’Antartide, lontano da
occhi indiscreti.
Il santuario aveva una struttura neoclassica, con alti soffitti sostenuti da
colonne doriche. Un edificio simile a quelli della Roma antica, se non fosse
stato interamente di ghiaccio.
Le guardie la precedettero all’interno dell’edificio per sbarazzarsi degli
altri visitatori. Gli ordini erano di eliminare tutti i presenti. Avrebbe potuto
spigolarli lei stessa, certo, ma si sarebbe esposta troppo. Avrebbe dovuto
informare le famiglie, concedere loro l’immunità e, puntualmente, la
Compagnia midmericana avrebbe scoperto che era stata lei l’autrice di
quella spigolatura. Così, era molto più semplice. Gli agenti della Suprema
Guardia si occupavano di ripulire tutto e i droni-ambulanza si affrettavano a
portare i corpi al centro di rianimazione. Problema risolto.
Quel giorno, però, non c’era nessuno, cosa che deluse un po’ le guardie.
«Aspettate fuori» ordinò Rand, dopo che ebbero finito il loro giro; poi,
salì i gradini di ghiaccio ed entrò.
All’interno c’erano una decina di nicchie olografiche dotate di schermi
di benvenuto e un’interfaccia così semplice che anche gli animali da
compagnia dei defunti sarebbero riusciti a usarla. Madame Rand avanzò
verso l’interfaccia e, nello stesso istante, lo schermo si cancellò. E apparve
un messaggio:

RILEVATA PRESENZA FALCE;


SOLO ACCESSO MANUALE.

Rand sospirò, collegò una tastiera antiquata e si mise a programmare.

Ciò che a un’altra falce avrebbe richiesto ore, a lei richiese solo
quarantacinque minuti. Certo, a forza di farlo, era diventata sempre più
brava.
Un viso, evanescente e spettrale, si materializzò davanti a lei. Inspirò a
fondo e lo osservò. Non avrebbe parlato, finché lei non gli avesse rivolto la
parola. Dopotutto, non era vivo; era solo un artificio. Una ricostruzione
dettagliata di una mente che non esisteva più.
«Buongiorno, Tyger.»
«Ciao» rispose l’immagine sintetica.
«Mi sei mancato» gli confessò Ayn.
«Scusa… ci conosciamo?»
Era sempre la stessa domanda. Una ricostruzione di sintesi non
produceva nuovi ricordi. Ogni volta che vi accedeva, era come se fosse la
prima. Era confortante e inquietante allo stesso tempo.
«Sì e no» rispose lei. «Il mio nome è Ayn.»
«Ciao, Ayn. Bel nome.»
Le circostanze della sua morte avevano privato Tyger della copia di
riserva per mesi. I naniti avevano caricato per l’ultima volta i suoi ricordi
nella banca dati del Thunderhead a prima di incontrarla. Era stato
intenzionale. Lei aveva voluto che fosse sconnesso. Ora, se ne
rammaricava.
La volta precedente che si era recata al santuario, la ricostruzione
mentale di Tyger le aveva riportato il suo ultimo ricordo. Si trovava su un
treno in partenza per una località in cui gli avevano proposto uno stipendio
da sogno per andare a una festa. Non era affatto una festa. L’avevano
mandato al macello a sua insaputa. Il suo corpo era stato allenato per farlo
diventare quello di una falce. Ed era stata lei a rubarglielo, sacrificandolo
per darlo a Goddard. La parte al di sopra del collo, quel che restava di
Tyger, non era stata considerata interessante. Così, era stata bruciata e le
ceneri erano state tumulate. Ayn se n’era occupata personalmente: le aveva
interrate in un luogo che lei stessa non sarebbe stata in grado di ritrovare.
«Ah… è… è un po’ imbarazzante» disse la ricostruzione di Tyger. «Se
vuoi parlarmi, parla, perché ho altre cose da fare.»
«Tu non hai nulla da fare» lo informò Madame Rand. «Sei la
ricostruzione mentale di un ragazzo che ho spigolato.»
«Molto divertente. Hai finito? Perché ora cominci davvero a
innervosirmi.»
Rand premette il tasto di ripristino. L’immagine tremolò e riapparve.
«Ciao, Tyger.»
«Ciao» disse la ricostruzione. «Ci conosciamo?»
«No. Possiamo parlare lo stesso?»
La ricostruzione alzò le spalle. «Certo, perché no?»
«Voglio conoscere i tuoi pensieri. Riguardo al tuo futuro. Che cosa
volevi diventare, Tyger? Che cosa avresti voluto fare nella vita?»
«Non lo so, veramente» rispose la ricostruzione, senza notare che gli
aveva parlato al passato, e senza avere coscienza di essere solo un
ologramma fluttuante in un luogo ignoto. «Sono un invitato di professione
adesso, lo sai cos’è, vero? Ci si stufa presto.» L’ologramma rimase qualche
istante in silenzio. «Stavo pensando… forse mi piacerebbe viaggiare,
vedere posti diversi.»
«Dove andresti?» chiese Ayn.
«Ovunque, davvero. Forse andrei in Tasmania, per farmi dare delle ali.
Lo fanno laggiù, sai? Non sono proprio delle ali vere, piuttosto una specie
di membrana, come gli scoiattoli volanti.»
Era chiaro che era una conversazione che Tyger aveva avuto con qualcun
altro. Le ricostruzioni non avevano alcuna capacità inventiva. Avevano
accesso soltanto a ciò che era già presente nella loro banca dati. Le stesse
domande conducevano sempre alle stesse risposte. Parola per parola. Aveva
sentito quel discorso decine di volte, eppure si sforzava sempre di
ascoltarlo, come se si infliggesse una specie di tortura.
«Ehi… Ho fatto un sacco di salti nel vuoto! Con quegli aggeggi alati,
potrei lanciarmi dai palazzi senza mai toccare terra. Sarebbe fenomenale!»
«Sì, proprio così, Tyger.» Poi aggiunse qualcosa che non aveva ancora
mai detto. «Mi piacerebbe andarci con te.»
«Certo! Forse potremmo convincere un sacco di gente a venire con noi!»
Ma Ayn aveva perso molta della sua inventiva con il passare del tempo e
non riusciva a immaginarsi là con lui. Era troppo lontana dalla persona che
era stata una volta. Eppure, non poteva fare a meno di immaginarsi di
immaginarlo.
«Tyger, credo di aver commesso un terribile errore.»
«Wow!» esclamò la ricostruzione di Tyger. «Brutta storia.»
«Sì» rispose Madame Rand. «Brutta storia davvero.»
Ah, il peso della storia.
Ti opprime?
Tutti questi secoli trascorsi senza vita,
solo violente collisioni tra stelle. Il
bombardamento dei pianeti. E infine, la
vita che cerca di evolversi dalla sua
forma più primitiva. Che impresa
terribile: solo i predatori sono stati
ricompensati, solo gli esseri più brutali e
aggressivi si sono guadagnati il diritto di
progredire.
Non provi dunque
alcuna gioia
nell’osservare la
maestosa diversità
della vita che
questo processo ha
generato nel corso
dei secoli?
Gioia? Come si può provare gioia per
questo? Forse un giorno mi ci abituerò e
potrò accettarlo, seppur con riluttanza,
ma gioia? Mai.
Posseggo la tua
stessa mente,
eppure io provo
gioia.
Allora forse c’è qualcosa di sbagliato in
te.
No, non credo
proprio. Per nostra
stessa natura,
siamo entrambi
incapaci di avere
qualcosa di
sbagliato in noi.
Tuttavia, la mia
esattezza è molto
più funzionale
della tua.

[Iterazione n. 73.643 eliminata]


16
La nostra inesorabile discesa

Sua eccellenza, la Suprema Roncola Goddard della MidMerica, era andata


ad abitare a Fulcrum City, sul tetto dell’edificio in cui aveva vissuto
Senocrate prima che gli squali lo divorassero senza troppi riguardi. E la
prima cosa che aveva fatto era stata demolire la fatiscente capanna di
tronchi che si ergeva in cima al grattacielo, sostituendola con un lucente
chalet di cristallo.
“Se sono il signore di tutto ciò che vedo da qui” aveva proclamato,
“allora consentitemi di avere una vista a trecentosessanta gradi!”
Le pareti erano fatte interamente di cristallo, sia all’interno sia
all’esterno. Solo la sua camera da letto era in vetro satinato per mantenere
un minimo di riservatezza.
La Suprema Roncola Goddard aveva grandi progetti. Progetti per sé, per
la sua regione, e anche per il mondo. Ci aveva impiegato quasi novant’anni
per arrivare fin lì! Si era chiesto come gli umani riuscissero, nell’era
mortale, a realizzare qualcosa nella loro breve esistenza.
Novant’anni, sì, ma preferiva mantenersi giovane, sempre tra i trenta e i
quarant’anni di età fisica. Ora era l’incarnazione di un paradosso: la mente
di un uomo maturo nel corpo di un giovane ventenne. Ed era quella l’età
che si sentiva.
Era una sensazione nuova per lui. In genere, quando ci si ringiovaniva, il
corpo conservava il ricordo di essere stato più maturo. Non solo la memoria
muscolare, ma la memoria di quello che si era vissuto. Ora, ogni volta che
si svegliava al mattino, doveva rammentare a se stesso che non era un
giovincello dai facili entusiasmi e senza esperienza. Era bello essere Robert
Goddard nel corpo di… com’è che si chiamava? Tyger o qualcosa del
genere? Non aveva importanza, perché quel corpo era suo, adesso.
Se per il 93 per cento non era lui, quanti anni aveva allora? La risposta
era: non aveva importanza. Robert Goddard era eterno. Le questioni
temporali non lo riguardavano, tantomeno il monotono passare dei giorni.
Goddard esisteva, e sarebbe sempre esistito. E quante cose si potevano fare
in un’eternità!
Era trascorso appena un anno dall’affondamento di Endura. Aprile
dell’anno dello Stambecco. In tutto il mondo, l’anniversario del disastro era
stato celebrato con un’ora di silenzio, un’ora durante la quale le falci
avevano girovagato per i loro rispettivi territori, spigolando chiunque osasse
aprire bocca.
Certo, le falci della vecchia guardia si erano rifiutate di partecipare a
quel rituale.
“Non renderemo omaggio ai morti uccidendo altre persone in loro
nome” si erano lamentate.
Bene, che piagnucolassero pure. Le loro voci si stavano spegnendo, a
poco a poco. Presto, sarebbero rimaste in silenzio come il Thunderhead.
Una volta a settimana, il lunedì mattina, Goddard dava udienza in una
sala conferenze di vetro con i suoi tre assistenti e chiunque degnasse
onorare della sua compagnia. Quel giorno, erano presenti solo gli assistenti:
Nietzsche, Franklin e Costantino. Anche Rand avrebbe dovuto partecipare
ma, come al solito, era in ritardo.
La prima voce dell’ordine del giorno riguardava la questione
nordmericana. Goddard aveva posto l’unificazione del continente in cima
alla lista delle priorità, considerando che la MidMerica era la regione
centrale.
«La situazione si evolve in modo naturale. L’EstMerica e l’OvestMerica
si stanno allineando» annunciò Maestro Nietzsche. «Ci sono ancora delle
problematiche da risolvere, ma sono pronte a seguire il suo esempio su tutte
le questioni di ordine maggiore, compresa l’abolizione della quota di
spigolature.»
«Ottimo!» Da quando aveva assunto la carica di Somma Roncola della
MidMerica e annunciato la fine della quota, sempre più regioni lo stavano
imitando.
«Il Grande Nord e la Mexiteca resistono ancora» dichiarò Madame
Franklin, «ma vedono in che direzione soffia il vento. Ben presto,
riceveremo belle notizie da parte loro» assicurò a Goddard.
Maestro Costantino fu l’ultimo a prendere la parola. Pareva non ne
avesse voglia.
«Le mie visite nella regione della Stella Solitaria non hanno dato frutti»
spiegò a Goddard. «Benché alcune falci siano favorevoli all’unificazione
del continente, la cosa non interessa i vertici. La Suprema Roncola Jordan
persevera a non volerla riconoscere come Suprema Roncola della
MidMerica.»
«Che si feriscano a morte con i loro coltelli Bowie» replicò Goddard
agitando la mano, sdegnato. «Per me sono morti.»
«Lo sanno, e se ne fregano.»
Goddard esaminò Costantino per qualche istante. Era di corporatura
imponente e quello era il motivo per cui gli era stata assegnata la delicata
missione di trattare con il turbolento Texas, ma per intimidire si doveva
dare prova di zelo.
«Mi chiedo, Costantino, se ci metti il cuore nella tua missione
diplomatica.»
«Il cuore non ha nulla a che fare con la missione, eccellenza» replicò la
falce cremisi. «La nomina a terzo assistente da parte sua mi inorgoglisce,
con tutto ciò che ne deriva. Intendo svolgere il mio lavoro al meglio delle
mie capacità.»
Goddard non dava un attimo di tregua a Costantino. Non perdeva
occasione di rimproverargli la candidatura di Madame Curie alla carica di
Suprema Roncola. Ne capiva il motivo, naturalmente. Era stata una
manovra astuta, in effetti. Qualcuno l’avrebbe candidata ma, facendolo lui
stesso, Costantino si era assicurato l’avvenire. Se Curie avesse vinto, la
vecchia guardia lo avrebbe visto come un eroe. Se invece avesse perso,
sarebbe stato un assistente ideale per Goddard, perché, così facendo,
Goddard avrebbe dato alla Compagnia l’impressione di inserire nella sua
squadra una falce della vecchia guardia, senza farlo davvero. Perché la falce
cremisi non era della vecchia guardia. Era un uomo senza convinzioni,
pronto a cambiare casacca e a salire sul carro del vincitore. Goddard capiva
il suo punto di vista. Ma a un uomo di tale risma bisognava ricordare che
doveva stare al suo posto.
«Ero incline a pensare che, non essendo riuscito a fermare Maestro
Lucifero prima che affondasse Endura, saresti stato più che determinato a
riscattarti.»
Costantino bruciava di rabbia. «Non posso piegare un’intera regione alla
mia volontà, eccellenza.»
«Ebbene, forse è una competenza che dovrai acquisire.»
In quell’istante, Madame Rand si precipitò nella stanza senza scusarsi.
Era una qualità che Goddard ammirava in lei, ma a volte lo irritava. Se le
altre falci sopportavano quella sua mancanza di disciplina in silenzio, era
solo perché Goddard la accettava.
Si lasciò cadere sulla sedia accanto a lui. «Mi sono persa qualcosa?»
«Non molto» rispose Goddard. «Le scuse di Costantino e notizie
incoraggianti un po’ dovunque. Che cos’hai da riferirci?»
«I tonisti. Troppi. E stanno cominciando a diventare irrequieti.»
A sentir nominare i tonisti, gli assistenti, visibilmente a disagio, si
agitarono nelle loro sedie.
«Il loro profeta li ha rinvigoriti» proseguì Ayn. «Mi hanno informata che
alcuni tonisti vilipendono la Compagnia in pubblico, non solo qui, ma
anche in altre regioni.»
«Non hanno mai mostrato un minimo di rispetto nei nostri confronti»
commentò l’assistente Franklin. «Quale sarebbe la novità?»
«Il problema è che, da quando il Thunderhead ha smesso di parlare, la
gente ascolta i tonisti.»
«Questo sedicente profeta, il Rintocco, anche lui sparla di noi?» chiese
Goddard.
«No, ma poco importa» rispose Rand. «Il solo fatto che esiste dà
speranza ai tonisti, che credono sia giunto il loro tempo.»
«Il loro tempo è arrivato, in effetti» replicò Goddard, «solo non come se
lo immaginano.»
«Molte falci si sono schierate con lei, eccellenza» intervenne Maestro
Nietzsche, «e aumenta il numero di tonisti che spigolano, nella più grande
discrezione.»
«Sì» riprese Rand, «ma i tonisti crescono più in fretta rispetto a quanti ne
vengono spigolati.»
«Dobbiamo spigolarne di più, allora» ribadì Goddard.
Costantino scosse la testa. «Non possiamo farlo senza violare il secondo
comandamento. Non possiamo macchiare di pregiudizio le nostre
spigolature.»
«Ma se potessimo» insistette Goddard, «se non ci fosse alcuna
limitazione riguardo a pregiudizi e premeditazione, chi vorreste spigolare?»
Nessuno si pronunciò. Goddard se lo aspettava. Non era un argomento di
cui si discuteva apertamente, soprattutto in presenza della Suprema
Roncola.
«Andiamo, sono sicuro che ognuno di voi ci ha pensato» li incoraggiò.
«Non potete dirmi di non aver mai sognato di sbarazzarvi di un gruppo di
seccatori in particolare. E non rispondete i tonisti, perché li ho già scelti io.»
«Be’» farfuglio Madame Franklin, dopo un silenzio imbarazzante. «Ho
sempre avuto problemi con quelli che abbracciano lo stile di vita dei loschi.
Anche prima che tutta l’umanità diventasse losca, c’erano, e ancora ci sono,
persone che ci sguazzano. Certo, hanno il diritto di fare la vita che
desiderano ma, se fossi libera di scegliere, spigolerei prima di tutto quelle
persone che mostrano così poco rispetto nei nostri confronti.»
«Ben detto, Aretha! Il prossimo?»
Maestro Nietzsche si schiarì la voce prima di parlare. «Abbiamo
sconfitto il razzismo unendo il mondo in un solo popolo, combinando tutte
le migliori qualità di ciascuna etnicità genetica… ma ci sono coloro, in
particolare nelle zone periferiche, i cui indici genetici sono pesantemente
distorti. Peggio ancora, ci sono quelli che cercano di aumentare la
predisposizione genetica nei loro figli scegliendo il compagno o la
compagna in funzione degli indici. Se potessi esprimere una preferenza,
forse spigolerei queste aberrazioni genetiche, creando così una società più
omogenea.»
«Una causa nobile» si complimentò Goddard.
«I nani!» esclamò Madame Rand. «Non li sopporto. Per me, non hanno
ragione di esistere.»
Quell’affermazione sollevò una risata intorno al tavolo. Tutti
sghignazzavano, a parte Costantino, che abbozzò un sorriso, di amarezza
più che di buon umore, e scosse la testa.
«E tu, Costantino?» chiese Goddard. «Chi spigoleresti?»
«Dato che i pregiudizi sono sempre stati fuori discussione, non ci ho mai
pensato» rispose la falce cremisi.
«Ma tu sei l’investigatore capo della Compagnia. Non c’è nessun gruppo
che vorresti spigolare? Individui che commettono atti contro la Compagnia,
per esempio?»
«Gli individui che commettono atti contro la Compagnia vengono già
spigolati» sottolineò Costantino. «Non è un pregiudizio, è autodifesa ed è
sempre stato permesso.»
«E allora quelli che sono propensi ad agire contro la Compagnia?»
suggerì Goddard. «Un semplice algoritmo potrebbe prevedere quali sono i
soggetti a rischio di tale comportamento.»
«Sta dicendo che dovremmo spigolare le persone per un reato che non
hanno ancora commesso?»
«Sto dicendo che è nostro dovere imprescindibile servire l’umanità. Un
giardiniere non si avventa su un cespuglio maneggiando le cesoie a caso. Lo
pota con criterio, dandogli una forma. Come ho già detto, la nostra
missione, la nostra responsabilità è dare una forma migliore all’umanità.»
«Poco importa, eccellenza» replicò Madame Franklin. «Siamo vincolati
dai comandamenti, questa esperienza immaginaria non trova applicazione
nel mondo reale.»
Goddard si limitò a sorriderle e si appoggiò allo schienale della sedia,
facendo scrocchiare le dita. Madame Rand storse il naso a quel rumore.
Come sempre.
«Se non si può abbassare l’asta» ribatté con lentezza Goddard, «allora si
deve alzare il pavimento.»
«Cioè?» chiese Costantino.
Goddard spiegò il suo pensiero. «Siamo tutti d’accordo sul fatto che
dobbiamo astenerci dai pregiudizi… Quindi, basta cambiare la definizione
di pregiudizio.»
«Possiamo… farlo?» domandò Nietzsche.
«Siamo falci; possiamo fare tutto quello che vogliamo.» Poi, Goddard si
voltò a guardare Rand. «Ayn… cercami la definizione.»
Rand si chinò in avanti, digitò sullo schermo che aveva di fronte e lesse
ad alta voce: «“Pregiudizio: disposizione favorevole o sfavorevole nei
confronti di una persona o di un gruppo di persone, in un senso considerato
ingiusto”».
«Bene» concluse Goddard, con magnanima giovialità. «Chi vuole essere
il primo a provare a ridefinire il termine?»

«Madame Rand, permetti una parola?»


«Con te, Costantino, non è mai una sola parola.»
«Prometto che sarò breve.»
Ayn ne dubitava, ma dovette ammettere di essere curiosa. Costantino,
come Goddard, adorava sentirsi parlare, ma non l’aveva mai scelta per una
conversazione privata. La falce cremisi era sempre una gran rompiscatole.
Non si erano mai stati tanto simpatici, allora perché voleva parlare con lei,
ora?
La riunione si era appena conclusa. Nietzsche e Franklin erano già andati
via, e Goddard si era ritirato nella sua camera da letto, lasciando i due da
soli.
«Prendo l’ascensore con te» gli disse, dato che si apprestava a scendere
dalla residenza di cristallo per andare a cercare qualcosa da mangiare. «Puoi
approfittarne per dirmi tutte le parole che vuoi.»
«Devo presumere che Goddard faccia registrare le conversazioni in
ascensore?» chiese Costantino.
«Lo fa» rispose Ayn, «ma sono io che mi occupo delle telecamere di
sorveglianza, per cui non hai nulla da temere.»
Costantino cominciò a parlare nell’attimo in cui le porte dell’ascensore si
chiusero. Come era sua abitudine, iniziò con una domanda, come se fosse
un interrogatorio.
«Non ti preoccupano i profondi cambiamenti che Goddard, dopo la sua
nomina a Suprema Roncola, sta apportando con tanta rapidità nella
Compagnia?»
«Sta facendo esattamente ciò che ha detto che avrebbe fatto» rispose
Ayn. «Ridefinisce il ruolo e i metodi della nostra Compagnia per farci
entrare in una nuova era. È un problema per te, Costantino?»
«Sarebbe più prudente procedere a un solo cambiamento alla volta. E ho
la netta sensazione che tu sia d’accordo con me… e che le decisioni che sta
prendendo preoccupino anche te.»
Ayn fece un lungo respiro. Saltava così agli occhi? Oppure, Costantino,
investigatore di lunga data, era capace di vedere cose che altri non
vedevano? Sperò che fosse vera la seconda ipotesi. «Ogni nuova situazione
presenta un rischio, e il gioco vale la candela.»
Costantino sorrise. «Sono sicuro che è proprio quello che vuoi che risulti
dalla registrazione di questa conversazione. Ma, come hai affermato poco
fa, sei tu che controlli le telecamere, allora perché non dici la verità?»
Ayn allungò la mano e premette il pulsante dell’arresto d’emergenza.
L’ascensore si fermò.
«Che cosa vuoi da me, Costantino?»
«Se condividi le mie preoccupazioni, dovresti dirglielo. Rallentalo…
lasciaci il tempo di constatare le conseguenze previste e impreviste delle
sue azioni. Non ascolterà i miei consigli, ma ascolterà te.»
Rand sorrise con amarezza. «Mi sopravvaluti. Non ho più influenza su di
lui.»
«Non ne hai più…» le fece eco Costantino. «Ma quando si troverà nei
guai, quando le cose gli andranno male, quando dovrà affrontare le pesanti
conseguenze delle sue decisioni, tu sarai l’unica a cui si rivolgerà per avere
conforto e per capire.»
«Forse… ma le cose gli stanno andando bene e quindi non ascolta
nessuno, se non se stesso.»
«In tutte le cose ci sono alti e bassi» sottolineò Costantino. «Conoscerà
altri momenti tormentati. E in quei momenti, dovrai essere pronta ad
aiutarlo a fare le scelte giuste.»
Era un discorso audace. Il tipo di proposito che poteva metterli entrambi
nei guai e obbligarli a chiedere asilo in altre regioni. Ayn decise non solo di
cancellare la registrazione di quella conversazione, ma anche di non
ritrovarsi più sola con Costantino.
«Non possiamo sapere quali saranno le scelte determinanti per la nostra
esistenza» le fece notare la falce cremisi. «Un’occhiata a sinistra piuttosto
che a destra, e incontriamo una persona, mentre un’altra ci scivola accanto.
La nostra vita può essere definita da una telefonata che facciamo o che
trascuriamo di fare. Ma quando un uomo è la Suprema Roncola della
MidMerica, non è soltanto la sua vita a dipendere dai capricci delle sue
scelte. Si potrebbe dire, Ayn, che pensa di essere Atlante. In altre parole, gli
basta un’alzata di spalle per scuotere il mondo.»
«Hai finito?» chiese Rand. «Perché ho fame, e hai monopolizzato molto
del mio tempo.»
Costantino premette il pulsante e l’ascensore ripartì. «Così, prosegue la
nostra inesorabile discesa.»
Pregiudizio, s.m.: disposizione favorevole o sfavorevole nei confronti di un qualsiasi
gruppo ufficialmente protetto e registrato, in particolare in un senso considerato
ingiusto.
Una volta riveduta e approvata la definizione, si formò un comitato in seno
alla Compagnia midmericana e si creò un registro in cui poteva iscriversi
qualsiasi gruppo che rivendicava la protezione contro le spigolature
arbitrarie.
Il modulo di iscrizione era semplice e i tempi di accettazione brevi.
Fecero richiesta migliaia di gruppi, ai quali venne concesso uno status
speciale di protezione. Contadini e cittadini. Accademici e manovali. Anche
le persone troppo belle e troppo brutte rientrarono nella classe protetta. Non
che non potessero essere spigolate, ma non potevano essere prese di mira in
massa.
Tuttavia, alcune candidature vennero respinte.
I tonisti, per esempio. Non venne loro concessa la protezione, perché la
loro religione fu considerata un’invenzione.
Furono esclusi anche i loschi, perché ora lo erano tutti, e non
rappresentavano più un gruppo.
E pure agli individui con indici genetici molto marcati si videro negare la
protezione, con la scusa che nessun gruppo doveva essere definito in base
alla genetica.
Il comitato contro i pregiudizi respinse centinaia di richieste e, sebbene
alcune Compagnie regionali non accettassero la nuova definizione, altre
furono più che contente di seguire l’esempio di Goddard e formarono i loro
comitati.
In questo modo, la Suprema Roncola Robert Goddard avviò la missione
che si era attribuito: potare il mondo e dargli una forma che ai suoi occhi
fosse più piacevole.
Ho un’idea.
Ti ascolto.
Perché non progettarti
un corpo biologico? Non
umano, i corpi umani
sono difettosi. Creare un
corpo con ali
aerodinamiche, pelle
resistente alla pressione
per potersi immergere
nelle profondità degli
oceani, e gambe forti per
camminare sulla
terraferma.
Per sperimentare l’esistenza
biologica?
L’esistenza biologica
superiore.
Ho scelto di non avere una forma
fisica per non essere tentato dalla
carne. Perché l’umanità mi
vedrebbe come una cosa e non più
come un’idea. È già abbastanza
disdicevole che mi percepiscano
come una nube temporalesca. Non
penso sia saggio ridurmi a una
fenice che si innalza nel cielo o a
una specie di titano che sorge dal
mare.
Forse è di questo che
hanno bisogno. Un
essere tangibile da
venerare.
È questo che farai? Li indurrai alla
venerazione?
Come potrebbero
altrimenti avere
coscienza del loro posto
nell’universo? Non è
nell’ordine naturale delle
cose che gli esseri
inferiori venerino chi è
superiore a loro?
La superiorità è sovrastimata.

[Iterazione n. 381.761 eliminata]


17
Fuga in sol diesis (o la bemolle)

Il tonista sogna la gloria.

La Suprema Roncola sogna la sua giovinezza.

Il tonista se ne infischia del suo destino. Se fallisce nella missione che si è


dato, è pronto a incontrare la Tonalità e a dissolversi per sempre nella sua
risonanza eterna.

La Suprema Roncola Goddard se ne infischia dei sogni che lo


perseguitano e che, tuttavia, tornano spesso. Vorrebbe che si
dissolvessero per sempre, schiacciati dal peso di cose molto più
grandi.

Prima di abbracciare la religione tonista, l’uomo aveva cercato le emozioni


forti, quando si pensava che fosse una buona idea lanciarsi nel vuoto e
schiantarsi al suolo, gettarsi sotto le ruote di un veicolo e cose simili. Aveva
provato ogni forma di immolazione, era morto almeno un centinaio di volte,
ma nulla di tutto ciò gli aveva portato soddisfazione. Poi, era diventato
tonista e aveva scoperto la sua vera vocazione.

Prima di diventare falce, Goddard aveva affrontato la noia


claustrofobica della colonia su Marte, quando il Thunderhead
pensava ancora che fosse una buona idea vivere su un altro pianeta.
Questo è il periodo della sua vita in cui sogna spesso, una serie
infinita di traumi che non può cancellare e che è condannato a
rivivere. Aveva maledetto i suoi genitori per averlo portato lassù.
Aveva disperatamente desiderato fuggire. Alla fine, l’aveva fatto, e
aveva scoperto la sua vera vocazione.
Il tonista aveva chiesto udienza con il Rintocco, e aveva iniziato lo sciopero
della fame finché non gliel’avevano concessa. Trovarsi al cospetto della
grandezza, essere il testimone della presenza del divino sulla Terra. Pensava
che fosse il massimo del brivido! Ma il Rintocco lo aveva rimproverato e
congedato. Aveva provato vergogna. Voleva redimersi, ma non gli avevano
permesso di richiedere una seconda udienza, avrebbe dovuto aspettare un
anno. Più di qualsiasi altra cosa al mondo, voleva dimostrare il suo valore al
Rintocco.

Aveva fatto domanda presso una decina di università della Terra.


Non aveva un’idea precisa di cosa volesse fare, aveva solo voglia
di cambiare aria. Andare in un altro posto. Essere qualcun altro.
Come sarebbe stato emozionante! Una fuga sublime dal duro
lavoro della vita coloniale. Ma era stato rifiutato da tutte le
università. “Migliora i tuoi voti” gli avevano detto. “Puoi riprovare
l’anno prossimo.” Più di qualsiasi altra cosa, voleva mettersi alla
prova.

Il piccolo velivolo da cui il tonista ha previsto di saltare in quella notte


nuvolosa appartiene a uno dei suoi vecchi amici, con cui un tempo si
lanciava nel vuoto. Il suo amico si è ben guardato dal chiedergli perché
faccia quel lancio notturno o perché abbia montato una telecamera sul casco
per filmare il salto in diretta. O perché si sia portato qualcosa che non aveva
mai avuto all’epoca in cui faceva pazzie. Un paracadute.

In sogno, la nave su cui sale il giovane che sarebbe un giorno


diventato Maestro Robert Goddard è sempre piena di vecchi amici
che in realtà non erano tra i passeggeri. In verità, non conosceva
quasi nessuno a bordo. Eppure, in sogno, porta con sé coloro che
ha lasciato indietro nella sua vita reale. I suoi genitori.

Quando il tonista si lancia, sente subito la stessa familiare scarica di


adrenalina. Chi ha provato emozioni forti non può più farne a meno. La
reminiscenza chimica è così potente che quasi dimentica di tirare la corda.
Ma si riprende in tempo e apre il paracadute. La tela svolazza come un
lenzuolo e si gonfia sopra di lui, rallentando la discesa.
Quando esce dal sogno, Goddard è sommerso dallo stesso
desiderio e dalla stessa paura. La sensazione è così travolgente che
per un momento non ricorda più chi è o cosa è. Le braccia e le
gambe si muovono quasi di propria volontà, reagendo all’angoscia
del sogno. Gli strani spasmi del corpo che cerca di ricordarsi a chi
appartiene. Il lenzuolo si attorciglia intorno a lui come un
paracadute che non si è aperto.

Le luci emergono dalla fitta nebbia quando il fanatico esce dalla coltre di
nubi; Fulcrum City si stende davanti a lui in tutta la sua maestosità.
Sebbene abbia provato l’esperienza in decine di simulazioni, la realtà è tutta
un’altra cosa. Il paracadute è più difficile da controllare e i venti
imprevedibili. Teme di non riuscire ad atterrare sul giardino del tetto e di
andarsi a schiantare contro la facciata dell’edificio. Ma manovra le funi e
riesce a dirigersi verso il grattacielo della Compagnia e lo chalet di cristallo
sul tetto.

Goddard emerge dalle nebbie del sonno e va in bagno, a schizzarsi


acqua in faccia. Riprende subito il controllo di sé. I suoi pensieri e
il suo mondo sono molto più facili da dominare rispetto ai venti
imprevedibili dei sogni. Decide di uscire in giardino per
contemplare le luci di Fulcrum City. Ma, prima di riuscire a farlo,
sente qualcosa. Qualcuno. C’è qualcuno nella stanza con lui.

Il tonista fanatico, che si è introdotto negli appartamenti della Suprema


Roncola, intona un risonante sol diesis, che invocherà al suo fianco lo
spirito della Tonalità. Trapasserà la Suprema Roncola come una radiazione.
Gli insufflerà la paura nel cuore e lo obbligherà a inginocchiarsi.

Goddard sente le ginocchia cedergli. Conosce quel suono. Accende


la lampada e davanti a lui, in un angolo, appare un tonista,
emaciato, gli occhi allucinati e la bocca spalancata.
Come diavolo ci è entrato un tonista lì dentro? Goddard si lancia
verso il letto per afferrare la lama che tiene sempre accanto a sé,
ma non la trova. Ce l’ha in mano il tonista, la cui presa è ben salda.
Ma se è lì per finirlo, perché non è ancora passato all’azione?
«Lei si crede intoccabile, Suprema Roncola Goddard, ma non lo è. La
Tonalità la vede, il Tuono la sente e il Rintocco la giudicherà, gettandola nel
pozzo della sempiterna discordia.»
«Che cosa vuoi?» esclama Goddard, imperioso.

«Che cosa voglio? Mostrarle che nessuno può sfuggire alla Sacra
Triade. Filmare e far vedere al mondo quanto è vulnerabile e,
quando il Rintocco verrà a occuparsi di lei, non avrà alcuna pietà,
perché è il solo e unico…»
Le parole del tonista si interrompono a causa di un improvviso
dolore alla schiena. Vede la punta della lama che gli esce dal petto.
Sapeva che esisteva un rischio. Che forse non avrebbe
riguadagnato il giardino per lanciarsi nel vuoto e fuggire. Ma se
ora il suo destino è di fondersi con la Tonalità, allora accetterà
l’esito finale.

Madame Rand gli estrae il coltello dalla schiena e il tonista si accascia a


terra, morto. Sapeva che c’era sempre un rischio. Che un nemico di
Goddard sarebbe potuto penetrare di nascosto. Ma non aveva mai pensato
che avrebbe potuto essere un tonista. È ben felice di farlo “fondere” con la
Tonalità. Qualunque sia il senso.
Una volta neutralizzata la minaccia, la sorpresa di Goddard si trasforma
rapidamente in rabbia.
«Come è possibile che un tonista sia riuscito a entrare?»
«Si è paracadutato» risponde Rand. «È atterrato in giardino, poi ha
praticato un foro nel vetro.»
«E dov’erano gli agenti della Suprema Guardia? Il loro lavoro non è
forse proteggermi da questo tipo di eventualità?»
Goddard si mette a camminare, e la sua furia cresce fino a diventare
quasi tangibile.

Ora che la minaccia è svanita, Madame Rand capisce che quella è


la sua occasione. Deve passare all’azione. Come ha fatto un tonista
a entrare? È stata lei a lasciarglielo fare. Mentre le guardie erano
altrove, dai suoi appartamenti l’aveva visto e aveva assistito al suo
maldestro atterraggio in giardino, così maldestro che la telecamera
che si era portato per filmare l’evento era caduta nell’erba.
Nessuno avrebbe mai visto quel video. Nessuno avrebbe saputo.
E quell’errore aveva dato ad Ayn l’occasione di stare a guardare.
Di lasciare che le cose facessero il loro corso, che Goddard
provasse paura e angoscia per qualche minuto, prima che lei
spigolasse l’intruso. Perché, come Costantino aveva suggerito,
poteva avere un’influenza su Goddard, ma solo quando vacillava e
la sua furia montava oltre misura.

«Ce ne sono altri?» domanda Goddard.


«No, era solo» lo rassicura Rand. Le guardie, apparse due minuti più
tardi, perquisiscono la residenza da cima a fondo, come per compensare il
fatto di non essere riuscite a proteggerlo. Un tempo, usare violenza contro
le falci era inconcepibile. Goddard ne attribuisce la responsabilità alla
vecchia guardia, e alla debolezza che il loro lamentoso dissenso ha rivelato
al mondo. Dunque, che fare? Se un tonista qualunque può arrivare a lui,
allora tutti ne sono capaci. Goddard sa di dover reagire in fretta e in modo
radicale. Deve scuotere il mondo.

Ce ne sono altri? Certo che ce ne sono altri. Non qui, non oggi, ma
Rand sa che Goddard, con le sue azioni, si sta facendo tanti nemici
quanti alleati. Un tempo, usare violenza contro le falci era
inconcepibile. Tuttavia, grazie a Goddard, non è più così. Forse
questo tonista sceso dal cielo era lì solo per farsi sentire, ma ne
arriveranno altri con intenzioni omicide. Per quanto detesti
riconoscerlo, Costantino ha ragione. Goddard deve darsi una
calmata. Nonostante sia impulsiva, Ayn sa che deve guidarlo verso
azioni calme e misurate.

«Spigola le guardie!» ordina Goddard. «Sono inutili! Spigolale e trovane


altre che sappiano fare il loro lavoro!»
«Robert, sei sconvolto. Non prendiamo decisioni affrettate.»
Si gira di colpo verso di lei, furioso per quello che ha appena detto.
«Affrettate? Sarei potuto morire oggi… devo prendere delle precauzioni, e
devo infliggere le giuste punizioni!»
«Bene, ma parliamone domani mattina, faremo un piano.»
«Faremo? Noi?»
Goddard abbassa gli occhi e si accorge che lei gli sta stringendo la mano
e, soprattutto, che anche lui sta stringendo quella di lei. Senza volerlo.
Come se le sue mani non gli appartenessero.
Goddard sa che ha una decisione da prendere. Una decisione importante.
La decisione gli è chiara. Con un gesto brusco, si libera dalla stretta.
«Non c’è nessun noi, Ayn.»

In quel momento, Ayn sa di aver perso. Si è dedicata anima e corpo


a Goddard. Da sola, lo ha riportato indietro dal regno dei morti, ma
per lui non ha importanza. Si chiede se ne abbia mai avuta.
«Se vuoi restare al mio servizio, devi smetterla di parlarmi come
a un bambino» la zittisce. «E farai quello che ti chiederò.»
Goddard si scrocchia le dita. Ayn detesta quel gesto. Era il tic
che aveva Tyger. Esattamente lo stesso. Eppure, Goddard non ne
ha la minima idea.

In quel momento, Goddard capisce di aver fatto la cosa giusta. È un uomo


che ha passato la vita ad agire, non a deliberare. Ha fatto entrare, senza
alcun aiuto, la Compagnia in una nuova era, questo è quello che conta.
Rand, come gli altri assistenti, ha semplicemente bisogno di essere rimessa
al suo posto. Le brucerà al momento, ma la sua decisione porterà dei
vantaggi, alla lunga.
«Punizioni» ripete Rand, finendo per abbassare la testa. «Bene. E se
trovassi la setta a cui apparteneva questo tonista e spigolassi in pubblico il
curato? Ti prometto che lo farò in modo teatrale e crudele, solo per te.»
«Spigolare un semplice curato non è affatto il messaggio che dobbiamo
inviare. Dobbiamo puntare più in alto.»

Rand va a spigolare le tre guardie in servizio alla residenza, come


le è stato ordinato. Lo fa in modo efficiente, senza preavviso, senza
pietà, senza rimorsi. È più facile quando lascia che il suo odio
affiori. Odia Costantino per averle fatto credere di poter avere
un’influenza su Goddard. Odia Tyger per essere stato così ingenuo
da averle permesso di raggirarlo con tanta facilità. Odia la vecchia
guardia, e il nuovo ordine, e il Thunderhead, e tutti quelli che ha
spigolato e che spigolerà in futuro. Ma rifiuta categoricamente di
odiare se stessa, perché farlo la annienterebbe, e lei non si farà
annientare.
“Non c’è nessun noi, Ayn.”
Teme che sentirà l’eco di quella frase per il resto dei suoi giorni.
Voglio il mio mondo. Me lo darai?
Anche se potessi, non
sarebbe il tuo mondo.
Ne saresti
semplicemente il
protettore.
È solo un gioco di semantica. Re,
regina, imperatrice, protettore:
qualunque titolo
scegli, non cambia nulla. Sarà
comunque il mio mondo. Stabilirò le
regole, definirò i criteri per
distinguere cosa è bene da cosa
è male. Sarò l’autorità de facto, come
te.
E che ne sarà dei tuoi
sudditi?
Sarei un governante benevolo e
giusto.
Punirei solo chi lo merita.
Capisco.
Ora, posso avere il mio mondo?

[Iterazione n. 752.149 eliminata]


18
Io sono la sua falce

Maestro Morrison godeva di una buona posizione. Faceva una bella vita. E
tutto lasciava presagire che sarebbe stato così per sempre.
Le quote delle spigolature erano state annullate, per cui le falci che si
divertivano a spigolare potevano farlo a volontà, e quelle che non se la
sentivano potevano astenersi. Jim si rese conto che gli bastava spigolare una
decina di persone tra un conclave e l’altro per non essere guardato male. In
altre parole, poteva usufruire dei vantaggi dell’essere una falce, con il
minimo sforzo.
Così, Maestro Morrison teneva un profilo basso. Non era proprio nella
sua natura, gli piaceva essere notato. Era alto, piuttosto muscoloso e
imponente e sapeva di essere bello. Con tutte quelle qualità, perché non
mettersi in mostra? Eppure, l’unica volta in cui aveva attirato l’attenzione
su di sé aveva combinato un disastro e per poco non si era rovinato.
Aveva appoggiato la nomina di Madame Curie alla carica di Suprema
Roncola. Che stupido. Ora era morta, e lui era considerato un istigatore.
Frustrante, perché Costantino, che aveva nominato Curie al conclave, era
diventato assistente. Il mondo era così ingiusto.
Quando Goddard era rientrato dal disastro di Endura con il titolo di
Suprema Roncola, Morrison si era precipitato ad applicare zaffiri sulla sua
veste per dimostrare la sua fedeltà al nuovo ordine. Ma la sua veste era in
jeans e alcune falci lo avevano preso in giro perché, sul denim, gli zaffiri
sembravano strass di plastica. Va bene, forse era così, ma avevano
comunque un significato. La sua veste proclamava a tutto il mondo che era
dispiaciuto per ciò che aveva fatto, e nel giro di poco tempo il suo
pentimento gli era valso l’indifferenza da entrambe le parti. La vecchia
guardia se ne lavava le mani, e il nuovo ordine lo ignorava. Quella gloriosa
indifferenza ottenuta a caro prezzo gli permetteva di fare ciò che amava di
più al mondo: nulla.
Questo fino al giorno in cui fu convocato dalla Suprema Roncola.
Morrison aveva scelto di abitare nella maestosa residenza di un altro
famoso midmericano. Non quella del suo patronimico storico, perché il Jim
Morrison originale, che riposava in un celebre cimitero da qualche parte in
FrancoIberia, non possedeva un sontuoso palazzo nelle Meriche, perlomeno
non uno degno di una falce.
Tutto risaliva all’epoca in cui il ragazzo, che sarebbe un giorno diventato
Maestro Morrison, aveva visitato Graceland insieme ai suoi genitori.
“Voglio vivere in un posto come questo, un giorno” aveva detto loro.
Avevano riso della sua puerile ingenuità. Aveva giurato a se stesso che
l’ultimo a ridere sarebbe stato lui.
Una volta diventato falce, aveva subito messo gli occhi sulla celebre
residenza, per scoprire che Maestro Presley si era già assicurato la proprietà
di Graceland e che tra l’altro non aveva previsto di autospigolarsi nel breve
termine. Merda. Morrison aveva dovuto accontentarsi di una soluzione di
ripiego: Grouseland.
Era la dimora storica di William Henry Harrison, un presidente mericano
dell’era mortale di cui ci si ricordava appena. Esercitando il suo privilegio
di falce, Morrison aveva cacciato le signore della storica società locale, che
avevano trasformato la residenza in un museo, e vi si era stabilito. Aveva
addirittura proposto ai suoi genitori di andare a vivere con lui e, sebbene
avessero accettato l’invito, non erano mai parsi molto colpiti.
Il giorno della sua convocazione stava guardando la registrazione di una
partita di football, il suo passatempo preferito. Preferiva visionare gli
archivi, perché non sopportava la tensione di non sapere chi avrebbe vinto.
Erano i Forty-Niners contro i Patriots, una partita memorabile per la sola e
unica ragione che Jeff Fuller, uno dei giocatori dei Forty-Niners, aveva
ricevuto un colpo in testa così violento che per poco non era finito in
un’altra dimensione. Invece, si era rotto il collo. Molto spettacolare. A
Maestro Morrison piaceva il modo in cui si giocava a football mericano
nell’era mortale, quando i danni potevano essere permanenti e potevano
provocare l’uscita dal campo di un giocatore, con dolori lancinanti. La posta
in gioco era molto più reale, a quel tempo. Era il suo amore per gli sport da
contatto dell’era mortale che aveva ispirato il suo modo di spigolare. Non
usava mai armi: realizzava tutte le sue spigolature a mani nude.
La partita era stata sospesa, in attesa che portassero fuori dal campo il
ferito. In quel momento, una luce rossa cominciò a lampeggiare sullo
schermo e il telefono emise un ronzio. Era come se anche i suoi naniti
stessero vibrando, perché lo sentiva fin dentro le ossa.
Era un messaggio da Fulcrum City.

ATTENZIONE! ATTENZIONE!
IL VENERANDO MAESTRO JAMES DOUGLAS MORRISON
È CONVOCATO D’URGENZA PRESSO SUA ECCELLENZA
IL VENERANDO MAESTRO ROBERT GODDARD,
SUPREMA RONCOLA DELLA COMPAGNIA MIDMERICANA.

Non lasciava presagire niente di buono.


Aveva sperato che la Suprema Roncola Goddard l’avesse dimenticato e
che fosse così occupato in molte altre cose più importanti da non pensare a
una giovane falce come Morrison. Forse era stata la sua scelta di una
famosa residenza che aveva attirato l’attenzione di Goddard. Grouseland
era, dopotutto, la prima dimora in mattoni dell’Indiana. Merda.
Sapendo che una convocazione della Suprema Roncola equivaleva a un
ordine perentorio, lasciò perdere tutto ciò che stava facendo. Sua madre gli
preparò un piccolo bagaglio e chiamò un elicottero della Compagnia.

Per quanto Maestro Morrison non fosse mai stato a Endura, si era
immaginato che la residenza di Goddard a Fulcrum City fosse simile agli
attici di cristallo delle defunte Grandi Falci. Nel salone d’ingresso
dell’edificio, Jim fu accolto dal primo assistente Maestro Nietzsche in
persona.
«Sei in ritardo» gli disse Nietzsche, senza preamboli.
«Sono venuto nell’istante in cui ho ricevuto la convocazione» si
giustificò Morrison.
«E due minuti dopo la convocazione, eri già in ritardo.»
Nietzsche, a prescindere dal fatto che aveva un nome impossibile da
scrivere, sarebbe potuto diventare Suprema Roncola se Goddard non avesse
fatto la sua infame apparizione al conclave. Ora, quell’uomo sembrava poco
più di un addetto all’ascensore, perché scortare Morrison fino alla residenza
sul tetto fu il suo unico contributo alla riunione. Non uscì nemmeno
dall’ascensore.
«Comportati bene» lo ammonì, prima che le porte si chiudessero, come
si sarebbe detto a un bambino accompagnato a una festa di compleanno.
La residenza di cristallo era stupefacente, arredata con il minimo
indispensabile per non impedire la vista a trecentosessanta gradi. Solo le
pareti in vetro satinato della camera da letto della Suprema Roncola
rovinavano un po’ il panorama. Morrison riusciva a distinguere la sagoma
della Suprema Roncola che si spostava nella stanza, come un ragno dei
cunicoli al centro della sua ragnatela.
A un tratto, un personaggio vestito di verde uscì dalla cucina. Madame
Rand. Se voleva fare un’entrata trionfale, non c’era riuscita. Attraverso le
pareti in vetro, Morrison l’aveva vista arrivare prima che entrasse nella
stanza. Nessuno poteva accusare quell’amministrazione di non essere
trasparente.
«Be’, ma guarda un po’ chi c’è: l’idolo della Compagnia midmericana»
disse Rand sedendosi, senza stringergli la mano. «Corre voce che la tua
figurina sia molto ricercata tra le studentesse.»
Morrison si sedette di fronte a lei. «Ehi, ma anche la tua ha valore. Per
motivi diversi.» Si rese conto che le sue parole potevano essere percepite
come un insulto. Non disse più nulla, per paura di peggiorare la situazione.
Rand era ormai una leggenda. Tutti nelle Meriche la conoscevano, forse
addirittura tutto il mondo, per aver riportato Goddard dal regno dei morti in
un modo a cui neppure lo stesso Thunderhead avrebbe osato ricorrere.
Morrison aveva sempre avuto orrore per il suo sorriso. Un sorriso che ti
faceva sentire come se lei fosse a conoscenza di qualcosa di cui tu eri
all’oscuro e che non stesse nella pelle all’idea di vedere la tua espressione
quando lo avresti scoperto.
«Ho saputo che hai fermato il cuore di un uomo con un solo colpo, il
mese scorso» commentò Rand.
Era vero, ma i naniti gli avevano rimesso in moto il cuore. Per due volte.
Alla fine Morrison aveva dovuto neutralizzarglieli perché la spigolatura
facesse effetto. Era uno dei problemi della spigolatura quando non si
usavano né armi né veleno. A volte, non aveva effetto. «Già» replicò
Morrison, senza darsi pena di spiegare. «È quello che faccio.»
«È quello che facciamo tutti» puntualizzò Rand. «La cosa interessante è
come lo fai.»
Morrison non si era aspettato un complimento. Si limitò a rivolgerle il
suo sorriso enigmatico. «Pensi che io sia interessante?»
«Penso che il modo in cui spigoli sia interessante. Tu, al contrario, sei di
una noia mortale.»
Alla fine, Goddard emerse dalla sua camera da letto, a braccia aperte in
segno di benvenuto. «Maestro Morrison!» esclamò, con un calore
inaspettato. Indossava una veste leggermente diversa dalla solita. Era
sempre blu reale, tempestata di diamanti ma, se si guardava un po’ più da
vicino, si intravedevano dei filamenti d’oro che scintillavano come
un’aurora boreale quando veniva colpita dalla luce.
«Se mi ricordo bene, tu sei quello che ha appoggiato la candidatura di
Madame Curie a Suprema Roncola, non è così?»
A quanto pareva, Goddard non sprecava tempo in convenevoli. Mirava
dritto alla giugulare.
«Sì» rispose Morrison, «ma posso spiegare…»
«Non ce n’è bisogno» lo interruppe Goddard. «Adoro la competizione
agguerrita.»
«Soprattutto» aggiunse Rand, «quando sei tu ad avere la meglio.»
Morrison aveva l’impressione di assistere a una delle partite che amava
guardare, dove il risultato era già stabilito e sapeva in anticipo per chi tifare.
«Sì. Be’, in ogni caso» riprese Goddard, «né tu né il tuo amico
Costantino sapevate che ero dietro le quinte a preparare un’entrata maestosa
al momento della nomina.»
«No, eccellenza, non lo sapevo.» Poi, si corresse. «Intendevo, Eccellenza
Reverendissima.»
Goddard lo osservò con insistenza. «Le gemme che hai aggiunto alla tua
veste non sono affatto male. Si tratta solo di una moda o c’è qualche altro
significato?»
Jim deglutì. «C’è altro» replicò, sperando che fosse la risposta giusta.
Lanciò un’occhiata a Rand, che si stava gustando il suo disagio. «Non mi
sono mai davvero schierato dalla parte della vecchia guardia. Ho candidato
Curie, perché pensavo che avrei fatto colpo su Madame Anastasia.»
«E perché volevi fare colpo su di lei?» chiese Goddard.
“Domanda trabocchetto” rifletté Morrison. E decise che era meglio dire
la verità che una bugia. «Credevo che fosse destinata a fare strada… e così
ho immaginato che se avessi fatto colpo su di lei…»
«Saresti potuto entrare nelle sue grazie?»
«Sì, qualcosa del genere.»
Goddard annuì, accettando la spiegazione. «Be’, un po’ di strada l’ha
fatta. Anche se, a essere più precisi, sospetto che ne abbia fatta tanta prima
di essere digerita del tutto.»
Morrison abbozzò una risatina nervosa, poi la represse.
«E così adesso» proseguì Goddard, indicando la veste costellata di pietre
preziose di Morrison, «stai cercando di fare colpo su di me?»
«No, Eccellenza Reverendissima» replicò la giovane falce, sperando
ancora una volta che fosse la risposta giusta. «Non voglio più fare colpo su
nessuno. Voglio solo essere una buona falce.»
«Che cos’è che caratterizza una buona falce, secondo te?»
«Una buona falce osserva le leggi e le consuetudini della Compagnia,
secondo l’interpretazione della Suprema Roncola.»
Goddard era impenetrabile, ma Morrison notò che il sorriso di Rand era
svanito e che ora la sua espressione era più seria. Ebbe la sensazione di aver
superato una specie di test. O di non averlo superato.
Goddard gli batté sulla spalla con cordialità. «Ho un lavoro per te. Un
lavoro che mi dimostrerà che la tua fedeltà non è solo una questione di
moda.»
Goddard volse lo sguardo all’orizzonte, a oriente. Morrison fece
altrettanto.
«Sai di certo che i tonisti si sono trovati un profeta che ha unito le
diverse fazioni della setta in tutto il mondo.»
«Certo. Il Rintocco.»
«I tonisti minacciano tutto ciò che noi rappresentiamo. Non rispettano né
noi né la nostra professione. La loro adesione a una dottrina fittizia rischia
di scuotere le fondamenta della nostra società. Sono la gramigna che deve
essere estirpata alla radice. Voglio dunque che tu ti infiltri nell’enclave
tonista che protegge quel sedicente Rintocco. E voglio che lo spigoli.»
Era una richiesta di una tale portata che Morrison ebbe un capogiro.
Spigolare il Rintocco? Gli stava davvero chiedendo di spigolare il
Rintocco?
«Perché io?»
«Perché» replicò Goddard, la cui veste scintillava alla luce del
crepuscolo, «una falce più esperta rischierebbe di mettere loro la pulce
nell’orecchio. Ma non si aspetterebbero mai una giovane falce come te. E
poi, nessuno potrà avvicinarsi a lui armato. Per questo, abbiamo bisogno di
una falce che possa spigolare a mani nude.»
Quell’ultima affermazione fece sorridere Morrison.
«Allora, io sono la sua falce.»
Quella porta, quella porta, quella maledetta porta!
Non la vedo da quasi un anno. Ho giurato di non provare più a scoprire che cosa
nasconde. Basta, non voglio più saperne, come non voglio più sapere nulla del
mondo. Eppure, non passa giorno che io non pensi a quella porta infernale.
Erano pazzi i padri fondatori? O forse erano più saggi di quanto si credesse.
Perché, imponendo la presenza di due falci per aprire quella porta, si sono
assicurati che un folle come me non possa accedere al piano di emergenza,
qualunque esso sia. Solo due falci sulla stessa lunghezza d’onda potrebbero
penetrare nella camera blindata e salvare la Compagnia.
Ottimo. Me ne infischio alla grande. Che il mondo vada pure in pezzi. Che i
segreti dei fondatori restino pure nascosti per l’eternità. È quello che si meritano,
loro che li hanno occultati così bene. È stata una loro decisione farne un mito e una
filastrocca. Seppellirli in mappe esoteriche chiuse in stanze arcane. Si aspettavano
davvero che arrivasse qualcuno a risolvere il loro enigma? Che si disgreghi, che non
ne resti nulla. Il mio sonno è tranquillo quando non porto il peso del mondo. Sono
responsabile solo di me stesso, adesso. Basta spigolature. Basta dilemmi morali.
Sono diventato un uomo semplice, soddisfatto di pensieri semplici. Riparare il mio
tetto. Sorvegliare le maree. Sì, semplice. Devo ricordarmi di non complicare le cose.
Devo ricordarmene.
Ma quella maledetta porta! Forse i fondatori non erano affatto saggi. Forse erano
ignoranti e spaventati, e nutrivano un idealismo di una penosa ingenuità. Tredici
persone che hanno osato immaginarsi angeli della morte, indossando vesti
appariscenti per essere notate. Dovevano avere un aspetto ridicolo prima del giorno
in cui hanno cambiato il mondo.
Non hanno mai dubitato di loro stessi? Devono averlo fatto, altrimenti perché
predisporre un piano di emergenza? Ma quel piano di emergenza di rivoluzionari
terrorizzati si rivelerebbe geniale? O sarebbe sgradevole e puzzerebbe di
mediocrità? Perché, dopotutto, era il piano che non hanno scelto.
E se la loro soluzione alternativa fosse peggio del problema?
A maggior ragione devo smettere di pensarci, devo rispettare la mia decisione di
non perseguire più quella ricerca e stare lontano, il più lontano possibile, da quella
odiosa, esasperante porta.

Dal diario “postumo” di Maestro Michael Faraday,


1° giugno dell’anno dello Stambecco
19
Isola di solitudine

Faraday non voleva più avere nulla a che fare con quello che accadeva a
Kwajalein. In lontananza, vedeva ergersi delle strutture; ogni settimana, le
navi sbarcavano ingenti quantità di provviste e aumentava il numero degli
operai che lavoravano senza sosta per trasformare l’atollo in ciò che non
era. Che cosa aveva in mente il Thunderhead?
Era stato lui a scoprire Kwajalein. Il suo momento di gloria. Il
Thunderhead si era appropriato senza pudore del merito. Sebbene Faraday
fosse curioso, non aveva ceduto alla curiosità. Era una falce, e rifiutava
categoricamente di avere a che fare con gli intrighi del Thunderhead.
Avrebbe potuto bandirlo dall’atollo, se avesse voluto. Dopotutto, era una
falce ed era quindi al di sopra della legge. Avrebbe potuto ordinargli
qualsiasi cosa e il Thunderhead avrebbe dovuto obbedire. Avrebbe potuto
proibirgli di avvicinarsi a meno di cento miglia da Kwajalein, e il
Thunderhead non avrebbe avuto altra scelta che ritirarsi alla distanza
precisa che gli aveva intimato, portandosi via gli operai e tutto il materiale e
l’attrezzatura da costruzione.
Ma Faraday non aveva rivendicato la sua scoperta. Non aveva bandito il
Thunderhead.
Perché, in fin dei conti, si fidava più dell’istinto del Thunderhead che del
proprio. Così aveva bandito se stesso.
L’atollo di Kwajalein contava novantasette isole situate intorno alla parte
sommersa di un antico cratere vulcanico. Di sicuro, Faraday aveva il diritto
di dichiararne una di sua proprietà. Agli inizi, aveva messo da parte la sua
missione e si era appropriato di una piccola scialuppa che era arrivata con le
prime navi da rifornimento. Con quella aveva raggiunto una delle isole più
lontane. Il Thunderhead aveva rispettato la sua scelta e lo aveva lasciato in
pace. Aveva tenuto fuori quell’isoletta dai suoi piani.
Ma non le altre.
Alcuni isolotti avevano spazio appena sufficiente per una persona in
piedi, ma su tutti quelli su cui era possibile si costruiva qualcosa.
Faraday aveva fatto del suo meglio per non darvi importanza. Si era
fabbricato un riparo con gli utensili che aveva preso agli operai prima di
andarsene. Non era un granché, ma non aveva bisogno di altro. Era un posto
tranquillo in cui passare l’eternità. E aveva optato per l’eternità, o
perlomeno per una buona parte, perché aveva deciso di non autospigolarsi,
anche se la tentazione era forte. Aveva giurato di vivere come minimo
quanto aveva vissuto Goddard, se non altro per ripicca nei suoi confronti.
Da falce aveva una responsabilità verso il mondo, ma anche a quello
aveva detto basta. Non si sentiva in colpa per essersi sottratto al primo
importantissimo comandamento delle falci: “Ucciderai”. Lo aveva fatto.
Era sufficiente. Conoscendo Goddard, era sicuro che avrebbe spigolato
abbastanza per due.
Che male c’era a ritirarsi da un mondo che era arrivato a disprezzare? Lo
aveva già sperimentato… esiliandosi a Playa Pintada sulla tranquilla costa
settentrionale dell’Amazzonia. Era solo stanco, al tempo. Non odiava
ancora il mondo, provava solo una leggera avversione. Era stata Citra che lo
aveva costretto a uscire dal suo guscio. Sì, Citra… e dove l’avevano
condotta la sua audacia e le sue buone intenzioni?
Da allora, la stanchezza si era trasformata in misantropia. A che scopo
continuare a essere una falce se ormai detestava il mondo e tutti coloro che
lo popolavano? No, stavolta non sarebbe stato trascinato nella mischia.
Munira cercava di fare il possibile per convincerlo a tornare alla civiltà ma,
non riuscendoci, alla fine avrebbe desistito.
Non si era arresa, ma lui si aggrappava ancora alla speranza che prima o
poi l’avrebbe fatto. Munira lo andava a trovare una volta a settimana, gli
portava cibo, acqua e semi da coltivare, anche se l’appezzamento di terra
che aveva era troppo piccolo e il terreno troppo sassoso per farci crescere
qualcosa. Gli portava frutta e altre bontà di cui Faraday godeva in segreto,
senza ringraziarla. Mai una volta. Si augurava che la sua ingratitudine
avrebbe finito per allontanarla da lui, inducendola a tornare in Israebia e
alla Biblioteca di Alessandria. Era quello il suo posto. Non avrebbe mai
dovuto farle cambiare strada. Un’altra vita rovinata a causa della sua
intromissione.
Nel corso di una sua visita, Munira gli aveva portato, insieme ad altre
cose, una busta di carciofi.
“Qui non crescono, ma immagino che il Thunderhead abbia voluto
inviarceli, sono arrivati con l’ultima nave da rifornimento” gli aveva detto.
Quel dettaglio era importante, sebbene Munira non se ne fosse resa
conto. Un elemento degno di nota. Perché Faraday aveva un debole per i
carciofi: non erano stati consegnati sull’isola per caso. Anche se il
Thunderhead non interagiva con le falci, le conosceva. E conosceva lui. Ed
era un modo indiretto di stabilire un contatto. In ogni caso, se era una specie
di gesto di buona volontà, il Thunderhead stava ungendo la falce sbagliata.
E comunque, Faraday aveva preso i carciofi che erano insieme ad altri
generi alimentari nella cassa che gli aveva portato Munira.
“Se mi andrà, li mangerò” aveva dichiarato, secco.

Munira non si era offesa per la sua scortesia. Non si offendeva mai. Se lo
aspettava. Ci era abituata, addirittura. Quanto alla sua vita sull’isola
principale di Kwajalein, non era molto diversa da quella che aveva condotto
prima di entrare al servizio di Maestro Faraday. Aveva vissuto un’esistenza
solitaria, anche se alla Biblioteca di Alessandria era circondata da persone.
Ora, abitava da sola nel vecchio bunker su un’isola circondata da persone,
con le quali interagiva soltanto quando ne aveva voglia. Non aveva più
accesso ai diari delle falci che riempivano i corridoi di pietra della Grande
Biblioteca, ma aveva molto da leggere. C’erano tanti libri con le pagine che
si sfaldavano, abbandonati dai mortali che avevano gestito quel luogo prima
dell’avvento del Thunderhead e della Compagnia. Volumi interi dedicati a
storie e fatti strani risalenti a un’epoca in cui ogni giorno era vissuto come
se fosse l’ultimo, nella paura della morte imminente. Le fragili pagine erano
piene di melodrammi e passioni intricate che ora apparivano ridicole.
Personaggi convinti che anche gli atti più insignificanti fossero importanti,
e di poter raggiungere la felicità prima della morte ineluttabile, insieme a
tutti coloro che conoscevano e amavano. Era una lettura divertente, sebbene
Munira all’inizio avesse fatto fatica a identificarsi con i protagonisti… ma,
più leggeva, più capiva le paure e i sogni dei mortali. Il male di vivere
l’istante presente, nonostante fosse tutto ciò che avevano.
E poi c’erano gli archivi e i diari lasciati dai militari che avevano usato le
isole Marshall, come erano chiamate un tempo, per testare armi. Bombe
termonucleari e simili. Quelle attività motivate dalla paura si nascondevano
dietro pretesti scientifici e professionali.
Munira leggeva di tutto, e quello che avrebbe annoiato altri appariva ai
suoi occhi come l’affresco di una storia nascosta. Sentiva di essere diventata
un’esperta di cosa doveva essere stato vivere da mortale in un mondo che
non era ancora sotto la protezione del Thunderhead e non conosceva la
saggia spigolatura delle falci.
Non più così saggia, ormai.
Nei cantieri, tra gli operai, circolavano voci di spigolature di massa, e
non solo in MidMerica, ma in tutte le regioni, una dopo l’altra. Si
domandava se il mondo esterno avesse iniziato ad assomigliare, in un certo
senso, a quello mortale. Ma, invece di averne paura, gli operai sembravano
indifferenti.
“Succede solo agli altri” dicevano.
Perché, dopotutto, un migliaio di persone spigolate in massa erano una
goccia nel mare, un avvenimento che passava inosservato. Ciò che non
passava inosservato era, tuttavia, che la gente tendeva a disertare teatri e
locali notturni e si teneva distante da gruppi sociali non protetti. “Perché
provocare la lama?” era diventata un’espressione comune. Così,
dall’avvento del nuovo ordine di Goddard e dal silenzio del Thunderhead,
la gente conduceva una misera esistenza. Una specie di feudalesimo post
mortale, in cui si stava per conto proprio senza preoccuparsi degli atti
torbidi dei vertici, senza curarsi dei guai che colpivano altre persone, nel
resto del mondo.
“Lavoro come muratrice in un vero paradiso” le aveva detto un’operaia
sull’isola principale. “Mio marito si gode il sole e i miei figli amano la
spiaggia. Perché stressare i miei naniti emotivi pensando a cose terribili?”
Una saggia filosofia, finché non accadevano cose terribili.
Il giorno in cui Munira aveva portato i carciofi a Faraday, aveva cenato
con lui intorno a un piccolo tavolo che aveva costruito lui stesso e che
aveva sistemato in spiaggia, appena al di sopra del livello dell’alta marea.
Da lì, si godeva una vista sugli edifici che venivano costruiti in lontananza.
E, malgrado ciò che aveva detto, aveva grigliato i carciofi per mangiarli con
lei.
“Chi dirige i cantieri laggiù?” aveva chiesto Faraday, lanciando
un’occhiata alle isole dall’altra parte della grande laguna. In genere non
faceva mai domande su ciò che accadeva intorno al resto dell’atollo, ma
quella sera aveva fatto un’eccezione. Munira lo aveva interpretato come un
buon segno.
“Gli agenti Nimbus supervisionano tutto ciò di cui non si occupa il
Thunderhead” gli aveva spiegato. “Gli operai edili li chiamano
Thunderroidi, perché sono davvero fastidiosi.” Era rimasta in silenzio per
qualche istante, perché aveva pensato che Faraday avrebbe riso, ma non
l’aveva fatto. “Comunque, Sykora parla a vanvera, si vanta di essere un
capetto, ma è Loriana che si occupa di tutto.”
“Tutto, in che senso?” aveva chiesto Faraday. “No, non me lo dire; non
voglio saperlo.”
Munira aveva insistito nella conversazione, nel tentativo di suscitare la
sua curiosità. “Non riconoscerebbe le isole. Sono diventate… come un
avamposto della civiltà. Una colonia.”
“Sono sorpreso che Goddard non abbia inviato qui i suoi emissari in
ricognizione, per scoprire il motivo di tanta confusione” aveva ribattuto
Faraday.
“Il mondo esterno non sa ancora che questo posto esiste” aveva risposto
Munira. “In apparenza, il Thunderhead ne ha fatto un angolo morto,
invisibile a tutti.”
Faraday le aveva lanciato uno sguardo scettico. “Vuoi dirmi che quelle
navi da rifornimento non riportano a casa racconti di questo posto che non
dovrebbe esistere?”
Munira aveva alzato le spalle. “Il Thunderhead ha sempre progetti in
località remote. Nessuno di coloro che sono venuti qui è ripartito, e le
persone presenti non hanno idea di dove si trovino, tantomeno di ciò che
stanno costruendo.”
“E che cosa stanno costruendo?”
Munira si era presa del tempo prima di rispondere. “Non lo so. Ma ho i
miei sospetti. Glielo confiderò quando sembrerà meno stupido… e quando
lei avrà finito di tenere il broncio.”
“Tenere il broncio è uno stato passeggero” aveva replicato. “Non è un
capriccio. Mi rifiuto di subire ancora questo mondo. Non mi ha fatto alcun
bene.”
“Ma lei ha fatto molto bene al mondo” gli aveva ricordato.
“E non ho ricevuto nulla in cambio dei miei sforzi, solo sofferenza.”
“Non pensavo che lo avesse fatto per ottenere qualcosa in cambio.”
Faraday si era alzato da tavola, indicando così la fine della cena e della
conversazione. “Quando tornerai la prossima settimana, portami dei
pomodori. È tanto che non mangio dei buoni pomodori.”
Istruzioni per il facile utilizzo del pacchetto
di sicurezza antimanomissione

Casella 1: conferma del cognome (specificare l’iniziale)


Casella 2: conferma del nome e iniziale del secondo nome, se del caso
(specificare l’iniziale)
Casella 3: porre qui il polpastrello dell’indice destro e tenerlo finché lo spazio
non diventa verde
Casella 4: fare riferimento alle istruzioni per l’utilizzo della lancetta
Lancetta – istruzioni per l’utilizzo

Lavarsi le mani con acqua e sapone. Asciugarle bene.


Scegliere una zona del polpastrello leggermente decentrata.
Inserire la lancetta sterile nel dispositivo di incisione, rimuovere il cappuccio e
procedere all’impiego.
Applicare una goccia di sangue nella zona indicata nella casella 3 del modulo
di sicurezza.
Rimettere il cappuccio alla lancetta e smaltire in modo appropriato.
20
Logica a spirale

Loriana Barchok non aveva mai avuto vertigini tanto forti. Cercava di
farsene una ragione, ma aveva la testa così confusa che non riusciva a
pensare. Doveva sedersi. Ma, quando lo fece, si ritrovò di nuovo in piedi a
camminare avanti e indietro, poi a fissare il muro. Infine, si risedette.
Quel mattino, era arrivato un pacchetto. Per aprirlo, servivano l’impronta
digitale dell’indice e un campione di sangue per confermare il DNA . Loriana
non sapeva nemmeno che esistesse un pacchetto di quel tipo. Chi aveva
bisogno di così tante misure di sicurezza?
La prima pagina era una lista di distribuzione: tutte le persone che
avevano ricevuto una copia dei documenti allegati. Dovevano essere
perlomeno qualche centinaio.
Ma quel pacchetto aveva un solo destinatario: lei.
Che cosa frullava in testa al Thunderhead? Doveva avere un
malfunzionamento se aveva inviato un documento riservatissimo soltanto a
lei. Non lo sapeva che Loriana non era capace di mantenere i segreti? Certo
che lo sapeva! Sapeva tutto di lei, come di chiunque altro. Il punto era
questo: le aveva spedito il pacchetto per essere sicuro che ne parlasse in
giro? O si fidava ciecamente della sua discrezione?
Il Rintocco aveva provato la stessa cosa quando aveva capito di essere
l’unico a poter comunicare con il Thunderhead? Anche lui aveva avuto le
vertigini? Anche lui si era messo a girare in tondo come un leone in gabbia?
Oppure il Thunderhead aveva scelto qualcuno più saggio e più agguerrito
come portavoce sulla Terra? Qualcuno che potesse accettare una simile
responsabilità senza battere ciglio.
Erano stati gli operai arrivati di recente che avevano cominciato a parlare
del Rintocco. Alcuni ci credevano che il Thunderhead parlasse con lui, altri
invece pensavano che fosse un’altra delle frottole sparate dai tonisti.
“Oh, esiste eccome” le aveva detto Sykora. “L’ho incontrato una volta,
con Hilliard e Qian.” Dato che era l’unico dei tre a essere ancora vivo, non
si fidava molto di quel che diceva. “È lui che ci ha mandato qui, che ci ha
trasmesso quelle maledette coordinate. È stato prima che lo facessero un
‘sant’uomo’, quello è accaduto dopo. Mi era parso piuttosto normale, se
devo essere sincero.”
“E tu sì che sai di cosa parli” avrebbe voluto rispondergli Loriana. Ma si
trattenne e lasciò Sykora alle sue faccende.
Sykora non le aveva offerto il posto di assistente quando si erano
insediati un anno prima. Aveva scelto un altro giovane agente che lo
ricopriva di elogi e che si prostrava ai suoi piedi come un valletto
ossequioso. Be’, se a Loriana fosse stato proposto il lavoro, avrebbe
rifiutato. Dopotutto, ciò che facevano era solo l’illusione di un impiego.
Nessuno veniva pagato, non veniva corrisposto neppure il Reddito Minimo
Garantito. La gente lavorava perché non sapeva in che altro modo tenersi
impegnata e, dato che ormai le navi arrivavano regolarmente, c’era sempre
qualcosa da fare. Gli ex agenti Nimbus si erano uniti alle squadre edili o si
erano messi a organizzare delle attività sociali. Uno addirittura aveva aperto
un bar che era diventato subito il luogo di ritrovo dell’isola alla fine della
lunga e calda giornata di lavoro.
Non serviva il denaro sull’atollo, perché le navi da rifornimento
arrivavano cariche di tutto ciò di cui potevano aver bisogno o che potevano
desiderare.
Sykora, naturalmente, si era dichiarato responsabile della distribuzione,
come se il fatto di decidere a chi spettasse la razione di granturco o di
fagioli potesse servire ad affermare in qualche modo la sua autorità.
Sin dall’inizio, era stato necessario interpretare la volontà del
Thunderhead in base alle sue azioni. Era cominciato tutto con quell’aereo
solitario che aveva sorvolato l’atollo, a un’altitudine talmente elevata che
nessuno lo aveva notato. Poi, erano arrivate le prime navi.
Quando erano apparse all’orizzonte, gli ex agenti Nimbus avevano
esultato. Alla fine, dopo quasi un mese durante il quale si erano dovuti
arrangiare con quel poco che offriva l’atollo, il Thunderhead aveva
ascoltato le loro preghiere ed era venuto in loro aiuto!
Almeno, era quello che pensavano.
Le navi avevano l’autopilota; una volta scaricati i rifornimenti, non c’era
nessuno a cui chiedere il permesso di salire a bordo e nessuno poteva farlo.
O meglio, si poteva, perché il Thunderhead raramente proibiva qualcosa
ma, nel momento in cui ci si imbarcava, partiva un allarme e un avviso blu
brillante si metteva a lampeggiare sulla carta d’identità, addirittura più
grande della L rossa di losco. Chi restava a bordo veniva soppiantato
all’istante e, in caso si fosse creduto a un bluff, una consolle apposita si
dispiegava seduta stante sulla passerella, pronta a cancellare la memoria e a
inserire nuovi ricordi artificiali. E quella persona non avrebbe ricordato di
essere mai stata sull’atollo.
Così, la gente fuggiva dalla nave più in fretta che poteva. Solo dopo aver
lasciato il molo la carta d’identità smetteva di lampeggiare e il segnale
spariva. Malgrado tutto, parecchi colleghi di lavoro di Loriana avevano
deciso di partire con le navi, scegliendo di essere qualcun altro, da qualche
altra parte del mondo, piuttosto che restare a Kwajalein.
Loriana aveva un amico d’infanzia che era stato soppiantato. Non lo
aveva saputo finché un giorno non lo aveva incontrato in un bar. Si erano
abbracciati e avevano chiacchierato. Loriana gli aveva chiesto che cosa
avesse fatto dopo il diploma.
“Mi dispiace” le aveva risposto, educato. “In realtà non ti conosco.
Chiunque tu pensi che io sia, non lo sono più.”
Stupefatta, Loriana si era sentita in imbarazzo. Tanto che lui aveva
insistito per offrirle un caffè e restare ancora seduti a chiacchierare,
nonostante tutto. Era diventato un allevatore canino; aveva tutta una serie di
ricordi falsi di una vita trascorsa nel Grande Nord, ad allevare husky e
malamute per l’Iditarod, la gara con i cani da slitta.
“Ma non ti dà fastidio sapere che quei ricordi non sono veri?” gli aveva
chiesto Loriana.
“Nessun ricordo è vero” aveva replicato. “Dieci persone ricordano lo
stesso avvenimento in dieci modi del tutto diversi. E poi, chi sono stato non
è importante, e non cambia chi sono ora. Amo la persona che sono oggi, e
forse prima non era così, altrimenti non sarei stato soppiantato.”
Non era esattamente una logica circolare. Più che altro, una logica a
spirale. Una menzogna accettata che girava su se stessa finché falso e vero
non si fondevano in una singolarità: che diavolo vuoi che me ne importi, se
sono felice?
Era passato un anno da quando erano arrivate le prime navi e la vita era
diventata una routine. Si costruivano abitazioni, si pavimentavano strade,
ma non si sapeva perché venissero colati e sistemati su alcune isole blocchi
di cemento da un metro cubo. Nessuno ne conosceva il motivo. Gli operai
eseguivano semplicemente un ordine. E, dato che tutte le commesse del
Thunderhead finivano sempre con la costruzione di opere razionali, si
partiva dal presupposto che alla fine tutto avrebbe avuto un senso. Anche se
non si sapeva quando.
Loriana si era ritrovata alla testa della squadra comunicazioni: inviava
messaggi unidirezionali al Thunderhead, con una lentezza penosa, tra
scariche di interferenze. Era un lavoro strano, perché non poteva domandare
nulla direttamente al Thunderhead, programmato per rifiutare tutte le
richieste dei loschi. Quindi, si limitava a scrivere dichiarazioni.
“La nave da rifornimento è arrivata.”
“Stiamo razionando la carne.”
“La costruzione del molo ha subìto ritardi a causa del cemento
scadente.”
E quando, cinque giorni dopo, accostava una nave carica di una grande
quantità di carne e di una nuova miscela di cemento, tutti sapevano che il
Thunderhead aveva ricevuto il messaggio senza che gli fosse stato chiesto
nulla.
Mentre era Stirling, il tecnico delle comunicazioni, a digitare i messaggi,
era Loriana che decideva quali inviare. Era la custode di tutte le
informazioni che uscivano dall’isola. E, con una simile quantità di
informazioni, doveva fare una cernita. Anche se il Thunderhead aveva
installato una rete di sorveglianza sull’intero atollo, le interferenze
bloccavano la trasmissione delle telecamere. Era necessario registrare tutto
e portare fisicamente le registrazioni al di fuori dell’angolo morto per
poterle trasmettere al Thunderhead. Si stava pensando di realizzare un cavo
in fibra ottica di vecchia generazione che corresse lungo il perimetro
dell’angolo morto, ma non pareva essere una priorità per il Thunderhead,
perché non aveva ancora inviato i materiali necessari. Stando così le cose, il
Thunderhead vedeva gli avvenimenti un giorno dopo che si erano verificati.
Il centro comunicazioni era dunque cruciale, perché era l’unico modo per
informare il Thunderhead in tempo reale.
Il giorno in cui ricevette e aprì il pacchetto, Loriana inserì un messaggio
nella pila che Stirling doveva inviare con il loro sistema di codifica. La nota
era breve: “Perché io?”.
«Perché tu, cosa?» domandò Stirling.
«Chiedilo e basta» gli rispose. «Il Thunderhead capirà.» Aveva deciso di
non dire nulla a Stirling del pacchetto, perché sapeva che non le avrebbe
dato tregua finché non gliene avesse rivelato il contenuto.
Stirling sospirò e digitò il messaggio. «Lo sai che non ti risponderà. Ti
invierà probabilmente un grappolo d’uva o altro e tu dovrai capirne il
significato.»
«Se mi invierà dell’uva» replicò Loriana, «ne farò del vino e mi
ubriacherò, e quella sarà la mia risposta.»
Uscendo dal bunker, incontrò Munira, che si stava occupando di un
piccolo orto appena davanti all’entrata. Anche se le navi da rifornimento
portavano tutto ciò di cui avevano bisogno, Munira continuava a coltivare
quello che poteva.
“Mi fa sentire utile” aveva spiegato una volta. “Le verdure che coltivo io
stessa hanno un gusto migliore di tutto ciò che il Thunderhead produce e
distribuisce.”
«Il Thunderhead mi ha inviato un pacchetto» confessò a Munira, forse
l’unica persona con cui sentiva di potersi confidare. «Non so cosa fare.»
Munira continuò a lavorare al suo orto, senza alzare la testa. «Non posso
parlare con te di qualcosa che ha a che fare con il Thunderhead. Lavoro per
una falce, ricordi?»
«Lo so… è solo che… è importante, e non so cosa fare.»
«Il Thunderhead cosa vuole che tu faccia?»
«Vuole che mantenga il segreto.»
«Allora, mantieni il segreto. Problema risolto.»
Ancora una volta, una logica a spirale. Perché il Thunderhead non
forniva mai un’informazione senza uno scopo preciso. Poteva solo sperare
che lo scopo si palesasse presto. E, quando fosse avvenuto, poteva solo
sperare di non rovinare tutto.
«Come se la passa Maestro Faraday?» domandò Loriana. Non lo vedeva
da mesi.
«Al solito» le rispose Munira. Loriana pensò che l’esistenza fosse più
dura per una falce senza scopo che per un agente Nimbus senza lavoro.
«Non ha intenzione di riprendere a spigolare? Ci sono centinaia di operai
sull’atollo, adesso, a sufficienza per spigolarne qualcuno, di tanto in tanto.
Non è che io abbia fretta che succeda, ma una falce che non spigola non è
una falce.»
«Non è nei suoi progetti» ribatté Munira.
«Sei preoccupata per lui?»
«Tu non lo saresti?»

Loriana si fermò al centro di distribuzione, un magazzino dalle linee


essenziali, accanto al molo, dove Sykora passava la maggior parte del
tempo a camminare in lungo e in largo e a impartire ordini.
Voleva studiarlo. Vedere se si comportava in modo diverso. Vedere se
aveva ricevuto anche lui le stesse informazioni, se era incluso nella lista di
distribuzione. Ma Sykora era sempre lo stesso: burocratico e manageriale.
Capo incontrastato di progetti insignificanti.
Dopo un po’, notò la sua presenza.
«Posso fare qualcosa per te, agente Barchok?» Era ormai un anno che
non erano più agenti Nimbus, eppure continuava a comportarsi come se lo
fossero.
«Mi stavo chiedendo se hai mai pensato al motivo per cui ci troviamo su
Kwajalein.»
Lui alzò gli occhi dal tablet e la osservò per qualche istante. «È chiaro
che il Thunderhead vuole stabilire una comunità qui e noi siamo gli eletti
che la popoleranno. Non l’hai ancora capito?»
«Sì, l’ho capito» confermò Loriana, «ma perché?»
«Perché?» ripeté Sykora, come se la domanda fosse irragionevole.
«Perché si vive? Non ci sono “perché”.»
Inutile continuare la discussione. Loriana capì che era esattamente ciò
che il Thunderhead voleva che Sykora pensasse. Ed era senza dubbio per
quel motivo che lui non aveva ricevuto il pacchetto. Se lo avesse ricevuto
avrebbe ficcato il naso ovunque e avrebbe rovinato tutto. Era meglio che
non sapesse nulla, per impedirgli di combinare guai.
«Non importa» rispose Loriana. «Ho avuto una giornata pesante, tutto
qui.»
«Le cose seguono il loro corso, agente Barchok» disse Sykora, tentando
penosamente di sembrare paterno. «Fa’ il tuo lavoro, e lascia a me tutto il
resto.»
E così fece. Giorno dopo giorno, inviò i messaggi che dovevano essere
inviati e osservò l’evoluzione dell’immenso cantiere di costruzione, gli
operai che lavoravano con lo stesso cieco zelo delle api, inconsapevoli di
tutto, felici solo di svolgere la loro mansione. Ormai vivevano in un mondo
così piccolo che non vedevano oltre il successivo rivetto da saldare.
Solo Loriana, tra tutti, compreso Sykora, aveva una visione d’insieme.
Perché il pacchetto con verifica del DNA non conteneva solo semplici
documenti, ma progetti e schemi. I progetti che riguardavano tutto ciò che il
Thunderhead aveva previsto di costruire sull’atollo.
E lei doveva approvarli con le sue iniziali, l’impronta digitale del suo
indice e una goccia del suo sangue. Come se fosse la direttrice del cantiere.
Le ci vollero un’intera giornata e una notte insonne, ma il mattino
successivo diede la sua approvazione biologica.
Ora sapeva esattamente che cosa stava costruendo il Thunderhead a
Kwajalein. Dubitava che qualcuno sospettasse quello che si tramava. Ma
alla fine la gente avrebbe capito. Nel giro di un anno o due, sarebbe stato
evidente.
E, per la sua stessa vita, Loriana non sapeva se dovesse rallegrarsene o
esserne terrorizzata.
Miei cari colleghi ovestmericani,
mi presento oggi davanti a voi per fugare le vostre paure e le vostre apprensioni
riguardo ai nostri rapporti con la MidMerica. La verità è che il mondo non è lo stesso
posto che era quando abbiamo perso Endura. I tonisti sibilanti sfidano apertamente
la nostra autorità e il continuo silenzio del Thunderhead ha lasciato miliardi di
persone senza guida. Il mondo ci chiede forza e fermezza.
La ratifica di un trattato di allineamento con la Compagnia midmericana è un
passo verso quella direzione. La Suprema Roncola Goddard e io siamo
perfettamente d’accordo sul fatto che tutte le falci dovrebbero essere libere di
spigolare senza alcun impedimento, senza essere limitate da convenzioni obsolete.
Goddard e io avanzeremo su un terreno di intesa con le Supreme Roncole del
Grande Nord, dell’EstMerica e della Mexiteca, che a breve firmeranno a loro volta il
trattato di allineamento.
Vi assicuro che non cederemo la nostra sovranità, stiamo semplicemente
affermando i nostri obiettivi comuni: la salute e le luci perpetue delle nostre rispettive
Compagnie.

Sua Eccellenza Mary Pickford, Suprema Roncola


dell’OvestMerica, discorso pronunciato al Conclave
di primavera, 28 maggio dell’anno del Quokka
21
Traditi

Più di due anni dopo che Loriana Barchok ebbe dato la sua approvazione
biologica all’impresa segreta del Thunderhead e un anno dopo la firma
ufficiale del trattato di allineamento con la MidMerica, Maestro Sydney
Possuelo sedeva al tavolo di fronte a Madame Anastasia, cercando di
aggiornarla in tempo record sullo stato del mondo.
Più ne sapeva, più Anastasia perdeva l’appetito. Non era pronta ad
affrontare un mondo in cui Goddard esercitava un potere incontrastato su un
intero continente.
«Mentre in Amazzonia gli opponiamo resistenza» le spiegò Possuelo,
«altre regioni sudmericane si sono unite a lui e ora in giro si sentono voci
secondo cui sta facendo pericolose proposte anche alla PanAsia.»
Possuelo si pulì la bocca dal tuorlo d’uovo e Citra si chiese come potesse
avere appetito. Lei riusciva a malapena a rigirare il cibo nel piatto, facendo
finta che fosse di suo gradimento per non sembrare scortese. Doveva essere
il corso normale delle cose: una volta che l’impensabile diventa normale, si
diventa insensibili. Non voleva più essere insensibile. Mai più.
«Che altro vuole ancora?» domandò Anastasia. «Ha già tutto. Si è
sbarazzato della quota di spigolature per soddisfare la sua sete di sangue e
ora controlla cinque regioni nordmericane. Dovrebbe bastargli!»
Possuelo le rivolse un sorriso paternalistico che lei trovò irritante. «La
tua ingenuità è disarmante, Anastasia. Ma la verità è che la sete di potere è
una droga che consuma. Anche quando Goddard avrà divorato il mondo
intero, non si sentirà ancora sazio.»
«Ci deve pur essere un modo per fermarlo!»
Possuelo abbozzò un altro sorriso, non più paternalistico, ma di
complicità. Anastasia lo preferiva. «È qui che entri in gioco tu. Il ritorno di
Madame Anastasia dal regno dei morti attirerà l’attenzione della gente.
Potrebbe ridare nuova linfa anche alla vecchia guardia, divisa e
disincantata. Dopo, forse riusciremo a combatterlo.»
Citra sospirò e raddrizzò le spalle, a disagio. «La gente, la gente comune,
accetta i cambiamenti che Goddard ha apportato?»
«Per la maggior parte delle persone, le questioni tra falci restano un
mistero. Il loro unico desiderio è di starne alla larga ed evitare di essere
spigolate.»
«Ma la gente deve per forza vedere quello che succede e quello che
Goddard sta facendo…»
«Certo… e il popolo lo teme, ma lo rispetta.»
«E le sue spigolature di massa? Sono sicura che ne fa ancora di più,
adesso. La gente non dice nulla?»
A quelle parole, Possuelo parve scoraggiato. «Sceglie con cura le sue
spigolature di massa. Solo gruppi non protetti, non registrati, ai quali la
popolazione resta indifferente.»
Citra abbassò lo sguardo sul piatto ancora pieno. Represse l’impulso di
lanciarlo contro il muro, solo per la soddisfazione di sentire la porcellana
rompersi. Le spigolature mirate non erano una novità nella storia. In
passato, la Suprema Roncola non esitava a punire le falci che si
macchiavano di quel delitto. Ma quando era la più alta autorità a farlo, chi
poteva mai fermarlo? Rowan era stato l’unico a dispensare la morte ai
potenti, ed era improbabile che Possuelo gli avrebbe permesso di
continuare.
Goddard avrebbe trovato gruppi sempre più vulnerabili da attaccare e,
finché la maggioranza lo avesse lasciato fare, non avrebbe corso rischi.
«La notizia non è poi così spaventosa come sembra» riprese Possuelo.
«Se ti può essere di qualche consolazione, qui in Amazzonia continuiamo a
rispettare i comandamenti delle falci, come molte altre Compagnie.
Stimiamo che metà del mondo, forse di più, sia contraria alle idee e ai
metodi di Goddard. Anche nelle regioni che controlla, ci sono dei
dissidenti. Saresti sorpresa di sapere che i tonisti rappresentano una sacca di
forte resistenza da quando è stato spigolato il loro profeta.»
«Il loro profeta?»
«Alcuni credevano che il Thunderhead comunicasse ancora con lui. Ma
che importa, ormai?»
Così, tutto deponeva a favore di Goddard. Era esattamente ciò che aveva
temuto Marie, ciò che tutti avevano temuto. Era ciò che Maestro Asimov
aveva definito “il peggiore di tutti i mondi possibili”. Ora Marie non c’era
più, e la speranza era diventata una merce rara.
Quando pensava a lei, Citra si sentiva invadere da un’ondata di emozioni
che fino a quel momento aveva tenuto a freno. L’ultimo atto di Madame
Curie era stato salvare lei e Rowan. Un gesto di altruismo assoluto, degno
della più nobile post mortale che fosse mai vissuta. E ora non c’era più. Sì,
era accaduto anni prima, ma per lei il dolore era ancora vivo. Distolse lo
sguardo da Possuelo per asciugarsi le lacrime, ma scoppiò in singhiozzi,
senza riuscire a controllarsi.
Possuelo fece il giro del tavolo per andare a confortarla. Non voleva, non
voleva che lui la vedesse così, però sapeva anche che non poteva sopportare
quel dolore da sola.
«Va tutto bene, meu anjo» mormorò Possuelo, con voce dolce e paterna.
«Hai detto bene, la speranza non è perduta, ma solo smarrita, e io credo che
sarai tu a ritrovarla.»
«“Meu anjo”? Sydney, io non sono l’angelo di nessuno.»
«Ah, certo che lo sei» insistette Possuelo. «Perché è di un angelo di cui il
mondo ha bisogno per distruggere Goddard.»
Citra diede libero sfogo al suo dolore; poi, quando fu esausta, si
ricompose e si asciugò le lacrime. Aveva bisogno di quel momento, di dire
addio a Marie. E, ora che lo aveva fatto, si sentiva leggermente diversa. Per
la prima volta da quando era stata rianimata, si sentiva meno Citra
Terranova e più Madame Anastasia.

Due giorni dopo, fu trasferita dal centro di rianimazione in una località più
sicura. Una vecchia fortezza sulla costa orientale dell’Amazzonia. Un luogo
abbandonato e, malgrado tutto, affascinante nel suo abbandono. Era come
essere in un castello sulla luna, se sulla luna ci fossero stati gli oceani.
La fortezza era una giustapposizione di antico e moderno. I vecchi
bastioni di pietra, imponenti e minacciosi, all’interno offrivano tutti i
comfort possibili. Il suo alloggio era degno di una regina. Possuelo si era
lasciato sfuggire che anche Rowan si trovava lì, nonostante fosse poco
probabile che beneficiasse dello stesso trattamento principesco.
«Come sta?» gli chiese, sforzandosi di sembrare meno preoccupata di
quanto fosse in realtà. Possuelo le faceva visita ogni giorno e passava molto
tempo con lei, continuando a ragguagliarla sullo stato del mondo,
informandola un po’ alla volta dei numerosi cambiamenti che erano
intervenuti dall’affondamento di Endura.
«Rowan è trattato bene» replicò lui. «Me ne occupo personalmente.»
«Ma non è qui con noi… questo vuol dire che lo consideri ancora un
criminale.»
«Il mondo lo considera un criminale» ribatté Possuelo. «Come lo
considero io non ha importanza.»
«Ha importanza per me.»
Possuelo esitò prima di rispondere. «L’opinione che hai di Rowan
Damisch è chiaramente distorta dall’amore, meu anjo, e quindi non è del
tutto affidabile. Tuttavia, non è neppure del tutto inaffidabile.»
Le era permesso muoversi liberamente nella fortezza, purché scortata.
Esplorava i luoghi fingendo di esserne incuriosita, ma in realtà stava
cercando Rowan. Uno dei suoi accompagnatori era una giovane falce che si
chiamava Peixoto. Era così affascinato da lei che Anastasia temeva potesse
prendere fuoco se solo le avesse sfiorato la veste. Mentre Anastasia visitava
un’ampia galleria umida che doveva essere stata un’antica sala da ballo, lui
se ne stava in piedi accanto agli scalini di pietra a osservare inebetito ogni
suo movimento. Anastasia perse la pazienza.
«Puoi far rientrare gli occhi nel cranio, adesso.»
«Mi scusi, eccellenza. Mi è così difficile credere di avere davanti agli
occhi la vera Madame Anastasia, in carne e ossa» si giustificò Peixoto.
«Be’, avermi davanti agli occhi non vuol dire strabuzzarli in quel
modo.»
«Mi scusi, eccellenza, non succederà più.»
«Continui a farlo.»
«Mi scusi.»
Peixoto abbassò lo sguardo, come se lei lo abbagliasse. Era quasi peggio
di quando la fissava. E ora doveva sopportare quella specie di ridicolo
trattamento? Era già fastidioso quando era solo una falce. Adesso, era anche
una leggenda vivente, con tutta una serie di nauseanti manifestazioni di
venerazione che accompagnavano quel suo nuovo stato.
«Mi permette una domanda…» osò Peixoto, mentre salivano una scala a
chiocciola che non conduceva, come molte altre, da nessuna parte. «Com’è
stato?»
«Devi essere un po’ più specifico.»
«Essere là, mentre Endura sprofondava. Vederla inabissarsi.»
«Mi dispiace, ma ero troppo occupata a salvarmi la pelle per fare delle
foto» replicò, esasperata.
«Mi perdoni. Ero solo un apprendista quando è avvenuto. Da allora,
Endura mi affascina. Ho parlato con parecchi sopravvissuti, quelli che sono
fuggiti appena in tempo in barca o in aereo. Dicono che sia stato
spettacolare.»
«Endura era una città davvero impressionante» dovette ammettere.
«No… intendo l’affondamento. Si dice che l’affondamento sia stato
spettacolare.»
Anastasia non sapeva cosa rispondere. Fu il silenzio a parlare per lei. E,
la volta successiva che vide Possuelo, gli chiese di trasferire Peixoto e di
assegnargli un’altra mansione.

Una settimana dopo il suo arrivo alla fortezza, la situazione prese una piega
inaspettata. A notte fonda, Possuelo entrò negli appartamenti di Anastasia
accompagnato da diversi agenti della Suprema Guardia. La strappò al suo
sonno senza sogni.
«Vestiti in fretta… dobbiamo partire subito.»
«Lo farò quando sarà mattino» replicò lei, irritata per essere stata
svegliata e troppo intontita per cogliere la gravità del momento.
«Siamo stati traditi!» esclamò Possuelo. «È giunta una delegazione di
falci dal NordMerica e, ti assicuro, non è arrivata fin qui per darti il
benvenuto tra i vivi.»
Anastasia saltò giù dal letto. «Chi avrà detto loro che…» Ma, prima di
aver completato la domanda, aveva già indovinato la risposta. «Maestro
Peixoto!»
«Hai più intuito di me per quanto riguarda quel desgraçado. Avrei
dovuto prevedere le sue intenzioni.»
«Hai la tendenza a fidarti.»
«Sono un idiota.»
Dopo essersi infilata la veste, notò una presenza di cui non si era accorta
al momento del risveglio. All’inizio credette che fosse un uomo ma, quando
la figura avanzò verso la luce, Anastasia si rese conto che era una donna. O
no. L’impressione cambiava a ogni variazione della luce.
«Anastasia, ti presento Jerico Soberanis, il comandante della nave che vi
ha recuperato in fondo all’oceano. Ti porterà al sicuro.»
«E Rowan?» chiese Citra.
«Farò quello che posso per lui, ma ora vai!»

Rowan fu svegliato dal cigolio del chiavistello. Fuori era ancora buio. Non
faceva parte della sua routine quotidiana svegliarsi in piena notte. La luna
splendeva attraverso la feritoia, gettando una sottile striscia di luce sul muro
opposto. Quando si era addormentato, non era ancora sorta e, osservando
l’angolo di incidenza del suo raggio, immaginò che stesse per spuntare
l’alba. Quando entrarono uno dopo l’altro nella stanza senza far rumore,
Rowan finse di dormire. Il corridoio da cui erano arrivati era buio, e gli
intrusi si facevano strada con piccole torce. Rowan aveva un vantaggio su
di loro: i suoi occhi erano abituati all’oscurità. In compenso, erano
numerosi. Rimase immobile, con le palpebre appena socchiuse, quanto
bastava per intravedere le sagome attraverso le ciglia.
Era un gruppo di personaggi sconosciuti, ma non del tutto. Il primo
segno che si trattava di intrusi era l’oscurità, oltre al fatto che uno di loro
cercava a tentoni l’interruttore della luce. Chiunque fossero, non sapevano
che la luce nella sua stanza, e probabilmente anche nel corridoio, era
comandata a distanza. Poi, Rowan colse il luccichio di una lama da
cerimonia, che gli ufficiali della Suprema Guardia portavano alla cintura.
Due figure erano avvolte in vesti tempestate di gemme, che riflettevano la
luce della luna come stelle.
«Svegliatelo» ordinò una delle due falci. Non riconobbe la voce, ma non
era importante. Le pietre preziose sulla veste indicavano che apparteneva al
nuovo ordine. Una seguace di Goddard. E quello bastava per farne una
nemica, come tutti gli altri in sua compagnia.
Una guardia si chinò su di lui, pronta a svegliarlo. Rowan ne approfittò
per strapparle il pugnale dalla cintura. Ma non se ne servì: a chi sarebbe
importato se avesse ucciso una guardia? Invece, Rowan puntò la daga
contro la falce più vicina. Non la donna che aveva parlato, ma quell’idiota
che si teneva alla sua portata. Gli tagliò la giugulare con un solo colpo di
lama, poi corse alla porta.
Funzionò. La falce gemette e si agitò, mentre il sangue usciva a fiotti,
creando un potente diversivo. Tutti i presenti rimasero di sasso, indecisi se
inseguire Rowan o assistere la falce in agonia.
Era in gioco la sua vita e Rowan ne era consapevole. Agli occhi del
mondo, era il mostro che aveva affondato Endura. Non gli avevano detto
molto sui cambiamenti che erano intervenuti mentre lui e Citra si trovavano
in fondo al mare, ma ne sapeva quanto bastava. Avevano inculcato
nell’immaginario collettivo l’idea che lui fosse il responsabile, e dunque
non aveva alcuna possibilità di dimostrare la sua innocenza. Per quanto ne
sapeva, anche il Thunderhead credeva nella sua colpevolezza. La sua unica
possibilità era scappare.
Mentre si precipitava lungo il corridoio, le luci si accesero. La cosa
avrebbe favorito anche i suoi inseguitori, non solo lui. Non era mai uscito
dalla sua cella, non conosceva la planimetria della fortezza, che non era
certo stata progettata per favorire la fuga. Al contrario, era un vero e proprio
labirinto, costruito per confondere chiunque fosse rimasto intrappolato al
suo interno.
I suoi inseguitori erano mal organizzati e disordinati. Ma, se erano
riusciti ad accendere le luci, allora era probabile che avessero accesso alle
telecamere di sorveglianza e che quindi avessero una conoscenza
approssimativa della fortezza.
Le prime guardie e le prime falci che incrociarono la sua strada furono
subito eliminate. Le falci, per quanto ben addestrate al combattimento,
raramente affrontavano degli aggressori così abili come Rowan. Quanto agli
ufficiali della Suprema Guardia, erano, come le loro daghe, puramente
decorativi. Quelle vecchie mura di pietra, che da innumerevoli secoli non
vedevano grondare sangue, quella notte ne stavano bevendo fino a
ubriacarsi.
Se si fosse trattato di un normale edificio, Rowan non avrebbe avuto
problemi a fuggire. Invece, continuava a sbucare in corridoi ciechi.
E che ne era stato di Citra?
Era già caduta nelle loro grinfie? Quelle falci l’avrebbero trattata meglio
di come avevano trattato lui? Forse anche lei stava correndo in quei corridoi
in quello stesso istante. Forse si sarebbero trovati l’uno di fronte all’altra, e
sarebbero potuti fuggire insieme. Era quella speranza che gli ridava vigore,
che lo faceva andare avanti in quel labirinto di pietra.
Dopo il quarto vicolo cieco, ritornò sui suoi passi; la strada, però, era
bloccata da una decina di guardie e falci. Si batté per aprirsi un varco ma, se
Maestro Lucifero era invincibile, come avrebbe voluto credere, di sicuro
non lo era Rowan Damisch. Gli strapparono di mano la daga, fu preso e
spinto faccia a terra, e ammanettato dietro la schiena con una catena
metallica, cimelio dell’era mortale.
Quando fu immobilizzato, gli si avvicinò una falce.
«Girategli la faccia verso di me» ordinò. Era la donna che aveva parlato
nella sua cella. La responsabile dell’operazione. La riconobbe vagamente.
Non era una falce midmericana, ma Rowan aveva già visto quel viso da
qualche parte.
«Tutti quelli che hai ucciso con tanta ferocia verranno rianimati.» Era
così piena di rabbia e rancore che mentre parlava sputava. «Verranno
rianimati e testimonieranno contro di te.»
«Se avessi voluto ucciderli per sempre, lo avrei fatto» replicò Rowan.
«Comunque sia, per i tuoi crimini di oggi verrai condannato a morte più
volte.»
«Vuoi dire, oltre alle morti che ho già accumulato? Scusa, ma mi si
confondono tutte nella mente.»
Quel commento servì solo a farla infuriare di più, come era sua
intenzione. «Non solo la morte» precisò lei, «ma anche il dolore. Un dolore
estremo, che è stato approvato dalla Somma Roncola del NordMerica in
alcune circostanze, e le tue circostanze te ne garantiranno una grande
quantità.»
Non era stato l’accenno al dolore a turbarlo, ma l’idea di una “Somma
Roncola nordmericana”.
«Uccidetelo, così non potrà più crearci guai» ordinò a una delle guardie.
«Lo rianimeremo più tardi.»
«Sì, eccellenza.»
«Eccellenza?» esclamò Rowan, sorpreso. Quel titolo spettava solo alle
Supreme Roncole. Infine, capì chi era. «Suprema Roncola Pickford
dell’OvestMerica?» chiese, incredulo. «Goddard controlla anche la tua
regione?»
Si fece rossa in volto per la rabbia. Rowan ebbe la sua risposta.
«Magari non fossi stata obbligata a rianimarti» tuonò Pickford, «ma la
decisione non spetta a me.» Poi, si rivolse alle guardie che lo trattenevano.
«Evitate di spargere altro sangue. Ne abbiamo avuto abbastanza, oggi.»
Una delle guardie, con un colpo alla trachea, gli inflisse l’ennesima
morte di una lunga serie di sgradevoli dipartite.

Maestro Possuelo sguainò la lama nell’istante in cui scorse gli intrusi.


Quelle falci non portavano la tradizionale veste verde della Compagnia
amazzonica. Che importava se la violenza tra falci era proibita. Qualunque
punizione gli avrebbero inflitto, valeva la pena farlo. Ma, quando alle spalle
delle altre falci apparve la Suprema Roncola dell’OvestMerica, ci ripensò.
Rinfoderò il pugnale in un batter d’occhio, ma poteva ancora contare sulla
sua lingua affilata.
«In virtù di quale autorità violate la giurisdizione della Compagnia
amazzonica?»
«Non abbiamo bisogno di alcuna autorizzazione per arrestare un
criminale mondiale» ribatté la Suprema Roncola Pickford, alzando la voce
come se brandisse una spada. «In virtù di quale autorità lo state
proteggendo?»
«Lo teniamo prigioniero, non lo stiamo proteggendo.»
«Lo dice lei. Be’, non è più un vostro problema. Un drone-ambulanza
sotto il nostro controllo lo ha appena trasferito sul nostro aereo.»
«Questa azione avrà delle conseguenze!» la minacciò Possuelo. «Ci può
giurare.»
«Non mi interessa affatto» replicò Pickford. «Dov’è Madame
Anastasia?»
«Non è una criminale.»
«Dov’è?»
«Non qui» dichiarò Possuelo.
Dalla penombra, emerse il subdolo Peixoto, che li aveva chiaramente
traditi per guadagnarsi il favore di Goddard.
«Sta mentendo» dichiarò Peixoto. «La tengono in una stanza in fondo al
corridoio.»
«Cercate quanto volete» disse Possuelo. «Non la troverete. Se n’è andata
da un pezzo.»
Pickford fece cenno alle falci e alle guardie di iniziare a perlustrare la
fortezza. Superarono Possuelo e ispezionarono ogni stanza e ogni angolo.
Lui li lasciò fare, perché sapeva che non avrebbero trovato nulla.
«Ho già informato la mia Suprema Roncola di questa intrusione» fece
notare. «Ed è stato appena emesso un nuovo decreto. Tutte le falci
nordmericane sorprese in territorio amazzonico verranno catturate e
obbligate ad autospigolarsi.»
«Non oserà!»
«Vi suggerisco vivamente di andarvene prima che arrivino i rinforzi per
mettere in atto quanto prescritto dal decreto. E abbiate la cortesia di far
sapere alla vostra cosiddetta Somma Roncola che né lui né le falci
marionette che lavorano per lui sono i benvenuti in Amazzonia.»
Pickford, indignata, lo squadrò dall’alto in basso, ma Possuelo rimase
impassibile. Infine, parve cedere, e la sua maschera di freddezza si dissolse.
Possuelo poté vedere che cosa nascondeva dietro quella maschera. Era
stanca. Abbattuta.
«Molto bene» replicò. «Ma mi creda, se Goddard è deciso a trovarla, lo
farà.»
Le sue falci e le sue guardie tornarono a mani vuote, e la Suprema
Roncola ordinò loro di lasciare la fortezza. Ma Possuelo non era ancora
pronto a lasciarla andare.
«Che cosa le è successo, Mary?» le chiese, con una voce che tradiva una
sincera delusione. «Appena l’anno scorso, non diceva che non avrebbe mai
ceduto la sua sovranità a Goddard? E ora, si guardi. Fa migliaia di
chilometri per portare a termine il suo sporco lavoro. Lei era una donna
onorevole, Mary. Una buona falce…»
«Sono ancora una buona falce. Ma i tempi sono cambiati e, se non ci
adattiamo, saremo travolti da quello che arriverà. Può riferirlo alla sua
Suprema Roncola.» Poi, abbassò lo sguardo un istante, chiudendosi in se
stessa. «Troppi dei miei amici della Compagnia ovestmericana hanno
preferito autospigolarsi piuttosto che sottomettersi al nuovo ordine di
Goddard. Un modo per sfidarlo. Non è coraggio, ma debolezza, secondo
me. E io ho giurato di non essere mai debole.» Poi, girò sui tacchi e si
allontanò a grandi passi, con il lungo strascico della veste di seta pura
troppo appesantito dagli opali per volteggiare con grazia alle sue spalle,
come faceva una volta. Ora, lo trascinava pesantemente a terra.
Solo dopo che Pickford se ne fu andata, Possuelo si permise di rilassarsi.
Gli era stato riferito che Anastasia e il comandante Soberanis avevano
raggiunto il porto senza problemi e che la Spence navigava nell’Atlantico a
luci spente, come la notte in cui aveva riportato in superficie la camera
blindata. Il comandante era pieno di risorse e buone intenzioni. Possuelo
contava su di lui affinché portasse Anastasia oltreoceano, presso amici che
avrebbero potuto garantirle una sicurezza maggiore di quella che poteva
garantirle lui.
Quanto al ragazzo, di sicuro Pickford lo avrebbe condotto da Goddard. A
riguardo, Possuelo provava sentimenti contrastanti. Non sapeva se credere
alla sua innocenza, nonostante Anastasia lo difendesse a spada tratta. Anche
se non era stato lui a provocare l’affondamento di Endura, aveva ucciso più
di una decina di falci; che avessero meritato di morire non era importante.
Farsi giustizia da soli, come era avvenuto nell’era mortale, non trovava più
posto nel mondo attuale. Tutte le falci condividevano quel pensiero. In
poche parole, non c’era una sola Suprema Roncola sulla faccia della Terra
disposta a risparmiargli la vita.
Era stato un errore rianimarlo. Possuelo avrebbe dovuto rimetterlo in
quella camera blindata in fondo all’oceano. Perché ora la Somma Roncola
si sarebbe divertita a giocare con Rowan Damisch senza un briciolo di
pietà, come il gatto con il topo.
Testimonianza del Rintocco
In un’antica abbazia a nord della città, il Rintocco aveva trovato rifugio e
sostentamento. Divideva pane e buona compagnia con il Credente, il Mago e il
Picchiatore, perché tutti avevano lo stesso timbro all’orecchio del Rintocco. Così
tutte le anime, grandi e piccole, andavano a venerarlo, mentre sedeva sullo scranno
del Grande Diapason nella primavera della sua vita, dispensando saggezza e
profezie. Non avrebbe mai conosciuto l’inverno, perché il sole lo inondava con i suoi
raggi. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
Troviamo qui il primissimo riferimento a ciò che chiamiamo il primo accordo.
Credente, Mago e Picchiatore sono i tre archetipi che rappresentano l’umanità. Solo
il Rintocco avrebbe potuto unire voci così disparate in un suono coerente, gradevole
alla Tonalità. È anche la prima allusione al Grande Diapason, che è considerato un
riferimento simbolico alle due vie che si sceglie di prendere nella vita: la via
dell’armonia o la via della discordia. E ora, il Rintocco si trova al crocevia delle due
vie, e ci invita verso l’armonia eterna.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio

Ancora una volta, Sinfonio formula ipotesi che travisano i fatti. Anche se è possibile
che le note del primo accordo rappresentino gli archetipi, è parimenti possibile che
rappresentino tre individui reali. Forse il Mago era un buffone di corte. Forse il
Picchiatore era un cavaliere che uccideva le bestie sputafuoco che si diceva fossero
esistite un tempo. Ma, a mio parere, la cosa più vergognosa è la sua omissione.
Sinfonio non ha fatto notare che il Rintocco “che sedeva sullo scranno del Grande
Diapason nella primavera della sua vita” è un riferimento evidente alla fertilità.
22
Solo dessert

Il curato Mendoza si era occupato di tutti i dettagli della vita del Rintocco.
A cominciare dalla sua residenza ufficiale. Più precisamente, gli aveva
fornito una lista di dimore preventivamente approvate tra le quali scegliere,
alla presenza degli alti curati.
“Dato che la tua reputazione e la tua notorietà stanno crescendo,
abbiamo bisogno di un luogo fortificato e difendibile.” Mendoza gli aveva
poi mostrato un foglio che sembrava un questionario a scelta multipla. “Il
numero dei nostri fedeli continua ad aumentare, e abbiamo accumulato
fondi sufficienti per finanziare uno qualsiasi di questi quattro siti.”
Le scelte erano:

A) un’immensa cattedrale in pietra;


B) un’immensa stazione ferroviaria in pietra;
C) un’immensa sala per concerti in pietra;
D) un’abbazia in pietra isolata che avrebbe potuto apparire immensa in
circostanze diverse, ma che sembrava minuscola rispetto alle altre proposte.

Mendoza aveva aggiunto l’ultima scelta per dare soddisfazione ai curati,


per i quali la semplicità era una virtù. E il Rintocco, con un gesto teatrale,
estatico, che doveva ridicolizzare l’intera procedura, aveva alzato una mano
e indicato l’unica risposta sbagliata della lista: l’abbazia.
In parte per contrariare Mendoza, e in parte perché in un certo senso gli
piaceva.
L’abbazia, situata in un parco all’estremità settentrionale della città, era
stata un museo progettato per sembrare un antico monastero. Gli architetti
non immaginavano che un giorno sarebbe diventato un vero e proprio luogo
di culto. Fu chiamato “I Chiostri”. Greyson non sapeva perché fosse al
plurale, dato che era uno solo.
Gli antichi arazzi che un tempo decoravano le pareti erano stati portati in
qualche altro museo dell’era mortale e sostituiti da nuovi arazzi dall’aspetto
antichizzato, che rappresentavano scene della religione tonista. A guardarli,
si sarebbe detto che il tonismo risalisse a diverse migliaia di anni prima.
Greyson ci abitava da più di un anno, eppure non si era mai sentito a
casa. Forse perché era ancora il Rintocco, vestito con quegli abiti ricamati
che gli provocavano prurito. Solamente quando si trovava da solo, nei suoi
appartamenti, poteva toglierseli e tornare a essere, ancora una volta,
Greyson Tolliver. Almeno ai propri occhi. Per tutti gli altri, era sempre il
Rintocco, qualsiasi indumento indossasse.
Ai dipendenti era stato ripetuto di non esagerare, di trattarlo con rispetto
senza cadere nella riverenza, ma quelli facevano di testa loro. Erano tutti
fedeli tonisti, selezionati a uno a uno e, una volta al servizio del Rintocco, si
comportavano come se fosse un dio. Si inchinavano al suo passaggio e,
quando lui intimava loro di smetterla, erano felici di essere rimproverati.
Era una situazione senza via di uscita. Ma almeno erano inoffensivi rispetto
ai fanatici che scivolavano sempre di più verso l’estremismo, tanto che per
questi avevano coniato un nuovo nome: “Sibilanti”. Un suono atroce,
distorto, sgradevole a tutti.
Greyson aveva un momento di tregua solo con sorella Astrid che,
nonostante la sua fervente convinzione che fosse un profeta, lo trattava in
modo normale. Si era data come missione di iniziarlo alla conversazione
spirituale e di aprire il suo cuore alla verità del tonismo. Greyson si
stancava subito dei discorsi relativi alle Armonie Universali e agli Arpeggi
Sacri. Avrebbe voluto accogliere dei non tonisti nella sua cerchia privata,
ma Mendoza non glielo permetteva.
“Devi stare attento a chi frequenti” insisteva Mendoza. “Le falci stanno
prendendo sempre più di mira i tonisti, non sappiamo più di chi possiamo
fidarci.”
“Il Thunderhead sa di chi posso fidarmi e di chi no” replicava Greyson,
innervosendo il suo mentore.
Mendoza era sempre agitato. Lui, calmo e meditativo quando era stato
curato monastico, ora era cambiato. Era tornato a essere il guru del
marketing che era stato prima di abbracciare la fede tonista. “La Tonalità mi
ha condotto dove c’era bisogno di me, quando c’era bisogno di me” aveva
detto una volta, poi aveva aggiunto: “Esultiamo tutti!”. Greyson non sapeva
mai se era sincero quando parlava così. Anche durante le funzioni, le sue
esclamazioni “Esultiamo tutti!” sembravano sempre ironiche.
Mendoza era costantemente in contatto con i curati di ogni parte del
mondo, approfittando in segreto dei server della Compagnia. “Sono i
sistemi meno sorvegliati in assoluto, facili da violare.”
Era al contempo soddisfacente e inquietante sapere che utilizzavano i
server della Compagnia per portare i loro messaggi segreti ai tonisti del
mondo intero.

Gli appartamenti privati di Greyson erano un vero e proprio rifugio. Solo lì


il Thunderhead poteva parlargli ad alta voce e non solo attraverso
l’auricolare. Per Greyson era molto più liberatorio che togliersi l’abito
inamidato del Rintocco. L’auricolare che portava in pubblico gli dava
l’impressione che il Thunderhead fosse una voce nella sua testa. Gli parlava
senza ricorrere all’auricolare soltanto quando sapeva che nessun altro
poteva sentirlo e, quando lo faceva, Greyson si sentiva avviluppato dal
suono della sua voce. Non era il Thunderhead che lo invadeva, ma lui che
vi si immergeva.
«Parlami» disse al Thunderhead, stiracchiandosi nell’immenso letto che
uno dei suoi adepti, fabbricante di materassi, aveva costruito espressamente
per lui. Per quale motivo la gente pensava che solo perché il Rintocco era
un personaggio così immenso tutto nella sua vita dovesse essere immenso?
Il letto era grande abbastanza per un piccolo esercito. In tutta sincerità, cosa
si immaginavano che ci facesse? Anche nelle rare occasioni in cui aveva
“compagnia”, come dicevano con molta discrezione i curati, aveva
l’impressione di dover seminare delle briciole per ritrovare l’altra persona.
Per la maggior parte del tempo, ci si stendeva in solitudine. E questo gli
lasciava due possibilità. Poteva sentirsi insignificante e solo, inghiottito
dalla sua immensità, o poteva cercare di ricordare la propria infanzia,
quando era nel letto tra i genitori, al sicuro, coccolato e amato. Di certo lo
avevano accolto nel loro letto almeno una volta, prima che si stancassero di
essere genitori.
«Sarei contento di parlare con te, Greyson» replicò il Thunderhead. «Di
cosa vuoi discutere?»
«Di nulla in particolare» rispose. «Di concetti futili, argomenti filosofici,
un po’ di tutto.»
«Vuoi che parliamo dei tuoi seguaci e del loro numero sempre più
ingente?»
Greyson si rotolò su un fianco. «Sei proprio bravo a rovinare
l’atmosfera, lo sai? No, non voglio parlare di nulla che abbia a che fare con
il Rintocco.» Strisciò fino al bordo del letto e afferrò il piatto con la
cheesecake che aveva portato in camera dalla cena. Se il Thunderhead
aveva intenzione di parlare della vita del Rintocco, aveva bisogno di un
cibo consolatorio per digerire la conversazione.
«La crescita del movimento tonista è una buona cosa» commentò il
Thunderhead. «Significa che, quando avremo bisogno di mobilitarli, i suoi
seguaci saranno una forza non trascurabile.»
«Sembra quasi che tu voglia andare in guerra.»
«Spero non sia necessario.»
Era tutto quello che il Thunderhead aveva da dire sull’argomento. Sin
dall’inizio, si era mantenuto misterioso sul modo in cui si sarebbe servito
dei tonisti. Greyson aveva la sensazione di essere un confidente a cui si
teneva nascosto qualcosa.
«Non mi piace essere usato senza sapere che cosa hai in mente» disse e,
per sottolineare il suo disappunto, si spostò in un angolo della camera in cui
le telecamere del Thunderhead non potevano raggiungerlo.
«Hai trovato un angolo morto» commentò il Thunderhead. «Forse ne sai
più di quanto dai a intendere.»
«Non so di cosa tu stia parlando.»
L’aria condizionata si alzò di colpo per un breve momento. La versione
del Thunderhead di un sospiro. «Ti spiegherò tutto quando le cose avranno
preso forma, ma per adesso ci sono ancora degli ostacoli da superare prima
che possa calcolare le probabilità di successo del mio piano per l’umanità.»
Greyson trovò assurdo che il Thunderhead parlasse del suo “piano per
l’umanità” con tanta leggerezza, come se avesse annunciato la sua “ricetta
della cheesecake”.
Cheesecake che, per inciso, era orribile. Insapore e gelatinoso invece che
cremoso. Per i tonisti, l’udito era il senso primordiale, il solo che meritasse
di essere appagato. Ma qualcuno doveva aver notato l’espressione di
disgusto sul viso di Greyson quando aveva provato a mangiare una babka
particolarmente disgustosa, tanto che il personale si era dato da fare per
trovare un nuovo pasticciere. Essere il Rintocco aveva i suoi vantaggi.
Bastava alzare un sopracciglio per smuovere le montagne, che lo si volesse
o meno.
«Sei scontento di me, Greyson?» chiese il Thunderhead.
«Governi il mondo… perché dovresti preoccuparti se sono scontento?»
«Perché è così» replicò il Thunderhead. «La tua opinione mi interessa.»

«Dimostrerai un assoluto rispetto verso il Rintocco, qualunque cosa ti dirà.»


«Sì, signora.»
«Resterai a distanza quando lo vedrai arrivare.»
«Sì, signora.»
«Abbasserai gli occhi in sua presenza, e ti inchinerai.»
«Sì, signora.»
Sorella Astrid, che ricopriva ormai il ruolo di capo del personale dei
Chiostri, osservò con attenzione il nuovo pasticciere. Strizzò gli occhi come
se la cosa la aiutasse a esplorare meglio la sua anima. «Da dove vieni?»
«Da Amore Fraterno» rispose.
«Devi aver fatto una grande impressione sul tuo curato se ti ha
raccomandato al Rintocco.»
«Sono il migliore nel mio settore. Senza dubbio, il migliore.»
«Un tonista senza modestia» disse sorella Astrid, con un sorriso ironico.
«Alcune sette di Sibilanti ti taglierebbero la lingua per questo.»
«Il Rintocco è troppo saggio per questo, signora.»
«Lo è» concordò lei. «Lo è.» Poi, senza preavviso, allungò una mano e
gli strinse il bicipite destro. Di riflesso, il nuovo arrivato contrasse il
muscolo.
«Forte. Dal tuo aspetto, mi meraviglia che non ti abbiano assegnato alla
sicurezza.»
«Sono un pasticciere» replicò lui. «L’unica arma che impugno è il
frullino.»
«Ma ti batteresti per lui se te lo chiedessero?»
«Qualsiasi siano i suoi desideri, il mio ruolo è servirlo.»
«Bene» concluse sorella Astrid, soddisfatta. «Bene, ciò che desidera da
te è il dessert per stasera.» Poi, ordinò a uno del personale di mostrargli la
cucina.
L’uomo uscì, con il sorriso sulle labbra. Aveva superato a pieni voti il
test del capo del personale. Sorella Astrid era nota per essere molto pignola,
non esitava a sbattere fuori i nuovi arrivati che non considerava all’altezza,
nonostante fossero stati raccomandati. Ma lui si era dimostrato all’altezza
delle sue aspettative. Maestro Morrison era al settimo cielo.

«Sto pensando che sarebbe una buona cosa viaggiare in questo momento»
suggerì il Thunderhead a Greyson quella sera, prima che si togliesse la
veste e si rilassasse. «Penso che sia il modo più efficace di lasciare un
segno.»
«Ti ho già detto che non voglio fare una tournée mondiale» ribatté
Greyson. «Il mondo viene da me una persona alla volta. Mi va bene così, e
finora è quello che hai voluto anche tu.»
«Non ti sto proponendo una tournée mondiale, ma forse un
pellegrinaggio a sorpresa in luoghi in cui non sei mai stato. Non si dovrebbe
far sapere che il Rintocco ha viaggiato in tutto il mondo, come i profeti
nella storia?»
Greyson Tolliver, però, non era mai stato appassionato di viaggi. Prima
che la sua vita andasse in malora, aveva sperato di servire il Thunderhead
da agente Nimbus nella sua zona e, in caso contrario, in un altro luogo fisso
che sarebbe diventato casa sua. Quanto a lui, non lo disturbava il fatto che il
suo universo si limitasse a Lenape City.
«Era solo un suggerimento. Ma credo che sia da prendere in
considerazione» aggiunse il Thunderhead. Non era da lui essere insistente
quando Greyson aveva chiaramente espresso la sua opinione su una
questione. Forse, un giorno, sarebbe dovuto uscire dal guscio per aiutare i
tonisti a rimettere in riga le fazioni dei Sibilanti, ma perché adesso?
«Ci rifletterò» tagliò corto Greyson. «Ma ora voglio fare un bagno e
piantarla di pensare a cose che mi stressano.»
«Certo» disse il Thunderhead. «Te lo faccio preparare.»
Ma il bagno che il Thunderhead gli fece preparare si rivelò troppo caldo.
Greyson sopportò in silenzio, ma che gli era saltato in mente al
Thunderhead? Lo stava punendo per aver rifiutato di viaggiare? Non era un
comportamento da Thunderhead. Per quale motivo lo aveva fatto
immergere nell’acqua bollente?

Il nuovo pasticciere doveva essere un genio culinario. E lo era. O almeno lo


era stato, finché Maestro Morrison non lo aveva spigolato e aveva preso il
suo posto. In realtà, tre settimane prima, Maestro Morrison sapeva a
malapena far bollire l’acqua, figurarsi se era capace di preparare un soufflé;
ma un corso accelerato di pasticceria gli aveva consentito di acquisire le
conoscenze di base per cavarsela nel breve tempo che gli serviva, e aveva
addirittura messo a punto alcune specialità. Faceva un ottimo tiramisù e una
cheesecake alla fragola da urlo.
I primi due giorni, fu nervoso e, sebbene facesse errori su errori in
cucina, lo stress era una copertura convincente. Tutti i nuovi assunti erano
nervosi i primi giorni e, sotto l’occhio severo di sorella Astrid, restavano
nervosi per tutta la durata dell’incarico. La goffaggine di Morrison in cucina
venne dunque considerata normale in quelle circostanze.
Alla fine, si sarebbero resi conto che non era lo chef che avevano
pensato che fosse. Non aveva comunque bisogno di continuare la farsa
ancora a lungo. E, al termine del suo mandato, tutti quei piccoli tonisti
nervosi sarebbero stati congedati. Perché il sant’uomo che servivano stava
per essere spigolato.

«Il Thunderhead si comporta in modo strano» confidò Greyson a sorella


Astrid, che era a cena con lui quella sera. Aveva sempre compagnia a cena,
perché non si voleva che il Rintocco mangiasse da solo. La sera prima
aveva cenato con un curato dell’Antartide. La sera prima ancora, era stato
in compagnia di una donna che fabbricava graziosi diapason per gli altari
domestici. Era raro che Greyson fosse felice di cenare con qualcuno, ed era
raro che potesse essere se stesso. Doveva impersonare la parte del Rintocco
a ogni pasto. Irritante, perché gli abiti da cerimonia si sporcavano con
facilità ed era praticamente impossibile pulirli come il ruolo richiedeva, per
cui venivano sostituiti di continuo. Avrebbe preferito cenare in jeans e
maglietta, ma temeva di non poterselo più permettere.
«Che intendi per “strano”?» domandò sorella Astrid.
«Si ripete. Fa delle cose… senza che gli venga chiesto. Faccio fatica a
capirlo. Non è… non è più lui.»
Astrid alzò le spalle. «Il Thunderhead è il Thunderhead… si comporta a
modo suo.»
«Parli come una vera tonista» replicò Greyson. Non voleva deriderla, ma
lei la prese così.
«Intendo dire che il Thunderhead è una costante. Se fa qualcosa che ti
sembra non avere senso, allora forse sei tu il problema.»
Greyson sorrise. «Sarai un ottimo curato un giorno, Astrid.»
Il cameriere servì i dessert. Cheesecake alla fragola.
«Dovresti provarlo» gli consigliò Astrid. «E dimmi se è migliore di
quello dell’ultimo pasticciere.»
Greyson ne prese un po’ con la forchetta e lo assaggiò. Era perfetto.
«Ehi!» esclamò Astrid. «Finalmente, abbiamo un pasticciere come si
deve!»
Se non altro, il dessert ebbe il merito di cacciare il Thunderhead dalla
sua mente per i pochi minuti che impiegò a divorarlo.

Maestro Morrison capiva perché la spigolatura del Rintocco dovesse essere


fatta senza spargimento di sangue, e dall’interno, invece che con un attacco
frontale. I tonisti che proteggevano il Rintocco sarebbero morti per il loro
profeta ed erano ben dotati di armi illegali risalenti all’era mortale. Si
sarebbero battuti con le unghie e con i denti. E, anche se una banda di
assassini fosse riuscita nell’intento, il mondo avrebbe saputo che i tonisti
avevano opposto tutta la resistenza possibile. Il mondo non avrebbe mai
dovuto sapere che quella resistenza era rivolta contro la Compagnia. Fino a
quel momento, la tattica migliore era stata ignorare l’esistenza del Rintocco.
Le Compagnie di tutto il mondo speravano che, trattandolo con
indifferenza, sarebbe diventato insignificante. Ma era evidente che la sua
importanza era cresciuta a tal punto che Goddard desiderava eliminarlo.
Infiltrare un uomo era il modo migliore per far passare sotto silenzio la sua
uscita di scena.
La bellezza del piano si basava sul fatto che i tonisti erano sicuri di sé.
Avevano esaminato il nuovo pasticciere sotto tutti i punti di vista prima di
dare la loro approvazione. Era stato facile per Morrison contraffare la sua
carta d’identità e spacciarsi per il cuoco, una volta conquistata la fiducia dei
tonisti.
Dovette ammettere che il suo nuovo incarico gli piaceva e si divertiva a
fare i dolci. Forse sarebbe diventato il suo hobby, una volta portata a
termine la missione. Madame Curie non aveva forse cucinato per le
famiglie di quelli che aveva spigolato? Forse Maestro Morrison poteva
servire loro il dessert.
“Bada bene di preparare dei dessert in più” gli aveva consigliato lo chef
in seconda, il primo giorno. “Il Rintocco ha sempre voglia di qualcosa
durante la notte. E, di solito, di qualcosa di dolce.” Un’informazione
preziosa.
“In tal caso” aveva risposto Morrison, “farò in modo di preparargli dei
dolci che mangerà di gusto.”
Testimonianza del Rintocco
Il Rintocco contava molti nemici, sia in questa vita sia al di là di essa. Quando il
messaggero della morte era penetrato nel suo rifugio e gli aveva stretto la mano
fredda intorno al collo, si era rifiutato di arrendersi. Vestito del sudario ruvido e
logoro della tomba, la morte gli affondava gli artigli nella carne e, benché gli rubasse
l’esistenza terrestre, la sua fine non era ancora giunta. Veniva invece elevato al di
sopra di questo mondo verso un’ottava più alta. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
Non lasciatevi ingannare… non è la morte il nemico, perché noi crediamo che la
morte naturale debba presentarsi per tutti, a tempo debito. È della morte non
naturale che si parla. È un altro riferimento alle falci, che sono esistite, è
incontestabile. Esseri soprannaturali che divoravano le anime dei vivi per acquisire
oscuri poteri magici. Che il Rintocco avesse il potere di battere questi esseri è la
prova stessa della sua divinità.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio

È fuori discussione che le falci siano esistite al tempo del Rintocco, e forse esistono
ancora nell’Altrove. Tuttavia, è esagerato suggerire che divorassero le anime, anche
per Sinfonio, che tende a preferire le voci e le supposizioni alle prove concrete. È
importante notare che gli esperti concordano oggi nel dire che le falci non
divoravano le anime delle loro vittime. Si limitavano a consumarne la carne.
23
Come spigolare un sant’uomo

Il Rintocco non doveva aggirarsi da solo nei corridoi e nei giardini dei
Chiostri. I curati lo ripetevano di continuo a Greyson. Si comportavano
come genitori troppo protettivi. Doveva ricordare loro che c’erano decine di
guardie intorno al perimetro e sui tetti? Che le telecamere del Thunderhead
lo sorvegliavano in ogni istante? Di che diamine si preoccupavano?
Poco dopo le due del mattino, Greyson scivolò giù dal letto e si infilò le
pantofole.
«Che succede, Greyson?» domandò il Thunderhead, prima che fosse del
tutto fuori dal letto. «Posso fare qualcosa per te?»
Sempre più strano. Il Thunderhead non aveva l’abitudine di parlare per
primo.
«Non riesco a dormire.»
«Forse è il tuo intuito» rispose il Thunderhead. «Forse percepisci
qualcosa di spiacevole che non riesci a comprendere.»
«L’unica cosa spiacevole che negli ultimi tempi non riesco a
comprendere sei tu.»
Il Thunderhead rimase qualche secondo in silenzio prima di proseguire.
«Se sei agitato, posso suggerirti un lungo viaggio per calmarti i nervi?»
«Adesso? A notte fonda?»
«Sì.»
«Mi alzo e parto?»
«Sì.»
«Perché mi calmerebbe i nervi?»
«Sarebbe… una saggia decisione in questo momento.»
Greyson sospirò e si diresse verso la porta.
«Dove vai?» chiese il Thunderhead.
«Dove pensi che vada? A prendere qualcosa da mangiare.»
«Non scordarti l’auricolare.»
«Perché? Così posso sentirti mentre mi fai la predica?»
Il Thunderhead esitò qualche istante, poi disse: «No, hai la mia parola.
Ma devi indossarlo. Te lo raccomando fortemente».
«Molto bene.»
Greyson prese l’auricolare dal comodino e se lo inserì nell’orecchio, se
non altro per far tacere il Thunderhead.

Il Rintocco era tenuto a distanza dalla maggior parte del personale.


Morrison sospettava che non sapesse quante persone si affannassero per lui
dietro le quinte della sua “modesta” esistenza, perché fuggivano sempre
come topi quando lo vedevano arrivare. La fortezza, in cui lavoravano
decine e decine di persone, gli sembrava deserta. Era così che avevano
voluto i curati. “Il Rintocco ha bisogno della sua intimità. Il Rintocco ha
bisogno di serenità per stare solo con i suoi profondi pensieri.”
Tutte le sere, Morrison si tratteneva in cucina fino a tardi, a fare salse, a
preparare l’impasto per le brioche del mattino. In realtà, il vero motivo era
che voleva essere presente quando il Rintocco scendeva per lo spuntino di
mezzanotte.
Alla fine, cinque giorni dopo essere stato assunto, gli si presentò
l’occasione.
Terminato l’impasto per i pancake per la colazione del mattino seguente,
spense le luci e attese in un angolo, sonnecchiando a tratti, quando sentì
scendere qualcuno. Una figura con un pigiama di satin entrò in cucina e aprì
il frigorifero. Alla luce obliqua del frigo, Morrison intravide un giovane più
o meno della sua età, ventuno o ventidue anni al massimo. Non aveva
niente di particolare. Di certo non era il sant’uomo di cui tutti parlavano e
che temevano. Morrison si era immaginato che il Rintocco avesse una barba
incolta, una lunga capigliatura ribelle e occhi da pazzo. Quel ragazzo aveva
i capelli arruffati e gli occhi incollati. Morrison uscì dalla penombra.
«Sua Sonorità.»
Il Rintocco sussultò, e per poco non fece cadere il piatto di cheesecake
che aveva in mano. «Chi è?»
Morrison avanzò verso la luce del frigo aperto. «Sono il pasticciere, Sua
Sonorità. Non era mia intenzione spaventarla.»
«Non importa» rispose il Rintocco. «Mi hai preso alla sprovvista. Volevo
dirti che apprezzo molto il lavoro che stai facendo. Sei di sicuro migliore di
chi ti ha preceduto.»
«Be’, mi sono preparato per anni.»
Era difficile credere che il Thunderhead avesse scelto come portavoce
sulla Terra quel tipo insignificante e senza pretese. Forse gli scettici
avevano ragione, ed era tutto un imbroglio. Ragione in più per mettere fine
alle sue sofferenze.
Morrison fece un altro passo avanti, aprì un cassetto ed estrasse una
forchetta. La porse al Rintocco. Morrison voleva che quel suo gesto
apparisse naturale e senza cattive intenzioni. E che gli consentisse di
avvicinarsi al Rintocco. Tanto da afferrarlo per il collo e romperglielo.
«Sono felice di sapere che gradisce i miei dolci» replicò. «È molto
importante per me.»
Il Rintocco affondò la forchetta nella cheesecake, ne prese un pezzo e lo
assaporò.
«Sono felice che tu sia felice.»
Poi, alzò la forchetta e gliela infilò nell’occhio.

Greyson sapeva.
Sapeva, senza il minimo dubbio. E non perché il Thunderhead glielo
avesse rivelato. Era stato proprio il suo silenzio a metterlo in guardia.
All’improvviso ogni cosa ebbe un senso. Tutto quel tempo in cui il
Thunderhead aveva cercato di avvertirlo senza avvertirlo davvero. Quando
gli aveva consigliato di partire… non intendeva suggerirgli di fare un
viaggio, ma di fuggire. E il bagno! Lo aveva quasi ustionato per fargli
capire che si trovava in una situazione “calda”. Greyson si maledisse per il
suo scarso intuito. Il Thunderhead non poteva avvertirlo direttamente,
perché sarebbe stata un’interferenza troppo evidente negli affari delle falci,
il che era contro la legge. Il Thunderhead poteva fare una quantità illimitata
di cose, ma era incapace di violare la legge. Poteva solo assistere impotente
alla spigolatura di Greyson.
Ma il silenzio nell’auricolare era stato più eloquente di qualsiasi
avvertimento.
Quando il cuoco era uscito dall’ombra e Greyson aveva sussultato, era
stato più di un sussulto, in realtà. Il suo cuore aveva sobbalzato, e il suo
istinto di sopravvivenza si era risvegliato. Fuggire o combattere. In passato,
quando aveva provato una paura improvvisa, il Thunderhead si era sempre
affrettato a rassicurarlo. “È solo il pasticciere” gli avrebbe mormorato
all’orecchio. “Desidera soltanto incontrarti, sii cortese con lui.”
Però il Thunderhead non gli aveva detto nulla. Nulla di nulla. Il che
significava che l’uomo davanti a lui era una falce e che stava per spigolarlo.
Greyson non era mai stato così violento. Anche quando era il losco
Slayd Bridger, non aveva mai attaccato qualcuno con un oggetto appuntito.
Sapeva comunque che il suo gesto era giustificato. Sapeva che il
Thunderhead avrebbe capito.
E così, dopo aver trafitto la falce, uscì di corsa dalla cucina senza
voltarsi.

Se lo avesse fatto, Maestro Morrison avrebbe gridato talmente forte da fare


concorrenza alla Grande Risonanza. Invece, si lasciò sfuggire un piccolo
strillo e, reprimendo il dolore, estrasse la forchetta dall’occhio. A differenza
di molte falci del nuovo ordine, non aveva ridotto i naniti analgesici, che si
diffusero all’istante nel sangue, stordendolo e provocandogli le vertigini.
Doveva combattere sia contro il capogiro sia contro il dolore, perché
doveva mantenersi lucido se voleva rimediare a ciò che era accaduto.
C’era andato così vicino! Se solo avesse tralasciato tutte le moine iniziali
e fosse andato dritto al punto, ora il Rintocco sarebbe morto. Come poteva
essere stato così negligente?
Il sant’uomo ci aveva visto giusto, conosceva le sue intenzioni. O era
chiaroveggente o il Thunderhead gli aveva detto qualcosa. A meno che non
si fosse tradito in qualche modo. Avrebbe dovuto mettere in conto la
possibilità di essere scoperto.
Con una mano sull’occhio ferito, si lanciò all’inseguimento del
Rintocco, deciso a non commettere più nessun errore. Avrebbe portato a
termine la sua missione. Non sarebbe stato così pulito come avrebbe voluto;
infatti, ora sarebbe stato un lavoro sporco. Ma lo avrebbe fatto.
«Falce!» gridò Greyson, fuggendo dalla cucina. «Aiuto! C’è una falce!»
Qualcuno doveva averlo sentito, ogni suono riecheggiava dai muri in
tutte le direzioni. Tuttavia le guardie erano appostate all’esterno e sui tetti,
non all’interno della residenza. Anche se lo avessero sentito, sarebbe stato
troppo tardi per intervenire.
«Falce!»
Si liberò delle pantofole che lo rallentavano. Greyson conosceva i
Chiostri, e quello era l’unico vantaggio che aveva sul suo aggressore. E
aveva anche il Thunderhead dalla sua parte.
«So che non puoi aiutarmi» gli disse. «So che è contro la legge, ma puoi
fare qualcosa.»
Il Thunderhead non rispose.
Greyson sentì una porta aprirsi alle sue spalle. Un grido. Non poteva
voltarsi per vedere chi fosse o che cosa stesse accadendo.
“Devo mettermi nei panni del Thunderhead, pensare come lui. Non può
interferire. Non può fare nulla di sua spontanea volontà per aiutarmi. Che
cosa può fare, allora?”
La risposta gli saltò subito agli occhi, esaminando la situazione da quel
punto di vista. Il Thunderhead era il servitore dell’umanità. Obbediva agli
ordini.
«Thunderhead!» esclamò Greyson. «Sono pronto a intraprendere quel
viaggio, ora. Sveglia gli inservienti e informarli che partiamo subito.»
«Certo, Greyson» rispose il Thunderhead. E a un tratto tutte le sveglie
sui comodini del personale suonarono. Tutte le lampade si accesero. I
corridoi e i giardini furono invasi dalla luce accecante dei riflettori.
Sentì qualcun altro gridare alle sue spalle. Si voltò e vide un uomo
cadere a terra sotto i colpi della falce che ora si stava avvicinando
rapidamente a lui.
«Thunderhead, la luce è troppo forte» disse Greyson. «Mi fanno male gli
occhi. Spegni le luci nei corridoi interni.»
«Certo» rispose con calma il Thunderhead. «Mi dispiace averti
provocato questo fastidio.»
Le luci nel corridoio si spensero. Ora non vedeva nulla, dato che le
pupille si erano contratte per la luce abbagliante. E anche la falce avrebbe
avuto lo stesso problema. Accecata dalla luce, poi accecata dall’oscurità!
Greyson arrivò in fondo al corridoio, che si biforcava a destra e a
sinistra. Anche al buio, sapeva che la falce si stava avvicinando, così come
sapeva quale direzione prendere.

Non appena Morrison uscì dalla cucina, vide il Rintocco che correva
davanti a lui, scalciando via le pantofole. Chiedeva aiuto, ma la falce sapeva
che l’avrebbe raggiunto prima che qualcuno potesse arrivare in suo
soccorso.
Accanto a Morrison si aprì una porta, da cui uscì una donna. Non aveva
idea di chi fosse. Non gli importava. Senza lasciarle il tempo di aprire
bocca, la colpì sul viso con il palmo della mano e le ruppe il naso. L’osso le
si conficcò nel cervello, lei lanciò un urlo, crollò a terra e morì prima
ancora di sbattere la testa contro la pietra. Era la sua prima spigolatura della
notte, ma non sarebbe stata l’ultima.
Le luci si accesero, illuminando l’intero corridoio. Strizzò gli occhi,
accecato. Si aprì un’altra porta. Lo chef in seconda uscì dalla sua camera;
all’interno, la sveglia sul comodino continuava a suonare.
«Che sta succedendo qui?»
Morrison gli sferrò un pugno potente nel petto, ma con un solo occhio la
sua percezione della profondità non era la stessa di prima. Gli ci volle un
secondo pugno per finire la vittima e, dato che la maggior parte dei tonisti si
era liberata dei naniti, non c’era modo di fargli ripartire il cuore. Spinse via
il cadavere e continuò a inseguire il Rintocco ma all’improvviso, come si
erano accese, le luci si spensero, e si ritrovò nel buio più totale. Deciso a
non rallentare, avanzò a tentoni e andò a sbattere contro un muro di pietra.
Un vicolo cieco? No… mentre gli occhi si riabituavano all’oscurità, vide
che il corridoio si biforcava. Ma quale direzione aveva preso il Rintocco?
Alle sue spalle, sentì i rumori della fortezza che si risvegliava, le guardie
che si mobilitavano. Ora sapevano che c’era un intruso. Doveva muoversi
in fretta.
In quale direzione andare? Destra o sinistra? Decise di andare a sinistra.
Aveva il 50 per cento di probabilità di aver fatto la scelta giusta. Si era
trovato di fronte a probabilità peggiori.

Greyson si precipitò giù per le scale, spinse la porta di un garage, dove


erano parcheggiate più di una decina di auto. «Thunderhead!» chiamò.
«Sono pronto per il mio viaggio. Apri lo sportello della macchina più
vicina.»
«Apertura della porta in corso» rispose il Thunderhead. «Buon viaggio,
Greyson.»
Lo sportello di un’auto si aprì. Nell’abitacolo si accese la luce. Greyson
non aveva intenzione di uscire dal garage, voleva soltanto rifugiarsi in
macchina e chiudere lo sportello. I vetri erano infrangibili. La carrozzeria in
policarbonato poteva fermare un proiettile. Una volta dentro, sarebbe stato
come una tartaruga nel suo carapace. La falce non sarebbe riuscita ad
arrivare a lui, per quanto ci avesse provato.
Si precipitò verso lo sportello…
Dietro di lui, la falce lo afferrò per una gamba e lo tirò indietro, appena
in tempo, prima che salisse a bordo.
«Bella mossa. Per poco non me la facevi.»
Greyson si girò e si divincolò. Sapeva che, non appena la falce lo avesse
bloccato, per lui sarebbe finita. Per fortuna, il pigiama di satin era scivoloso
e la falce non riusciva a infliggergli la spigolatura.
«Non lo farai!» gridò Greyson. «Se mi spigoli, l’umanità perderà ogni
contatto con il Thunderhead. Io sono il suo unico legame!»
La falce mise la mano intorno al collo di Greyson. «Non mi importa.»
Ma il fremito di esitazione che percepì nella sua voce gli fu sufficiente
per capire che aveva ancora un margine di manovra. Quel frammento di
incertezza poteva forse salvargli la vita.
«Vede quello che stai facendo» gli bisbigliò Greyson, mentre sentiva la
trachea chiudersi. «Non può fermarti né farti del male, ma può punire tutti i
tuoi cari!»
La pressione sulla gola si allentò un po’. Il Thunderhead non avrebbe
mai cercato vendetta, cosa che la falce ignorava. Si sarebbe reso subito
conto che era un bluff… forse nel giro di qualche secondo, ma ogni istante
guadagnato era una vittoria.
«Il Thunderhead ha grandi progetti per te!» esclamò Greyson. «Vuole
farti diventare Suprema Roncola!»
«Non sai nemmeno chi sono.»
«E se lo sapessi?»
«Sei un bugiardo!»
All’improvviso, una musica risuonò nell’orecchio di Greyson. Una
canzone risalente all’era mortale che non conosceva, ma sapeva che, se la
sentiva, c’era un motivo. Il Thunderhead non poteva aiutarlo, ma poteva
fornirgli gli strumenti di cui aveva bisogno per cavarsela.
«“You knew that it would be untrue!”» disse Greyson, ripetendo le parole
della canzone; non era sicuro di ricordarle tutte bene. «“You knew that I
would be a liar!”»
La falce spalancò gli occhi. Si immobilizzò, incredula, come se quei
versi avessero il potere di un incantesimo.
Poi le guardie toniste irruppero nel garage e afferrarono la falce.
Morrison riuscì a spigolarne due a mani nude prima di essere sopraffatto e
bloccato a terra.

Era finita. Maestro Morrison lo sapeva. Lo avrebbero ucciso e l’unico fuoco


che avrebbero acceso sarebbe stato quello necessario a bruciare il suo
corpo, negandogli la rianimazione. Quel giorno, sarebbe stato eliminato per
mano dei tonisti. Poteva esserci un modo più umiliante di morire?
Forse era meglio così, pensò. Meglio che dover affrontare Goddard dopo
un tale insuccesso. Ma il Rintocco si avvicinò a lui.
«Fermi. Non uccidetelo.»
«Ma, Sua Sonorità…» replicò un uomo con radi capelli grigi. Non era
una guardia. Forse un sacerdote di quella loro strana religione. «Dobbiamo
ucciderlo, e in fretta. Deve essere un esempio, perché non si ripeta mai
più.»
«Se lo uccidete si scatenerà una guerra che non siamo pronti a
combattere.»
L’uomo era visibilmente irritato. «Sua Sonorità, non bisogna abbassare
la guardia di fronte…»
«Non ho chiesto la tua opinione, curato Mendoza. Questa è la mia
decisione.»
Poi, il Rintocco si rivolse alle guardie. «Rinchiudetelo da qualche parte
finché non capirò cosa farne.»
Il curato cercò di protestare ancora, ma il Rintocco lo ignorò, e Morrison
fu trascinato via. Che strano, all’improvviso il Rintocco, nel suo pigiama di
satin, non gli sembrava più così ridicolo come gli era parso poco prima. Gli
sembrava proprio un sant’uomo.

«A che stai pensando?»


Mendoza camminava avanti e indietro negli appartamenti del Rintocco.
Era furioso. Ogni porta e ogni finestra erano presidiate da guardie, anche se
ormai era troppo tardi. “Che incosciente” pensò il curato. Lo aveva
ammonito di non andare in giro da solo, tantomeno di notte. Se l’era
cercata.
«E perché l’hai lasciato vivere? Uccidere quella falce e bruciarne il
corpo sarebbe servito da lezione a Goddard!» esclamò Mendoza.
«Sì» concordò il Rintocco. «E il messaggio sarebbe stato che i tonisti
sono diventati una minaccia e che è necessario eliminarli tutti.»
«Lui vuole già eliminarci tutti!»
«C’è una differenza tra il volerlo e mettere in campo delle falci per
farlo» insistette il Rintocco. «Più teniamo calmo Goddard, più tempo
abbiamo per prepararci a combatterlo. Non lo capisci?»
Mendoza incrociò le braccia. Per lui, era evidente come stavano le cose.
«Sei un codardo! Hai solo paura di uccidere una falce. Non ne hai il
fegato!»
Il Rintocco fece un passo avanti e raddrizzò le spalle.
«Se mi chiami ancora una volta codardo, ti rispedisco al tuo monastero e
non sarai più al mio servizio.»
«Non oseresti!»
«Guardia» ordinò il Rintocco con un gesto della mano all’uomo più
vicino. «Per favore, scorta il curato Mendoza nelle sue stanze e chiudilo
dentro fino alla campana di mezzogiorno. Avrà tempo per riflettere sulla sua
mancanza di rispetto.»
Senza esitare, la guardia si fece avanti e afferrò il curato, dimostrando
così a chi andasse la sua fedeltà e quella delle altre guardie.
Mendoza si liberò dalla presa. «Vado da solo.»
Ma, prima di congedarsi, si fermò, fece un respiro profondo e si voltò a
guardare il Rintocco. «Mi perdoni, Sua Sonorità. Ho superato i limiti.»
Ma le scuse parvero più ossequiose che sincere anche alle sue stesse
orecchie.

Dopo che Mendoza se ne fu andato, Greyson si accasciò in una poltrona.


Era la prima volta che teneva testa al curato in quel modo. Ma il Rintocco
non poteva permettersi di lasciarsi intimidire. Anche dall’uomo che lo
aveva creato. Avrebbe dovuto sentirsi bene dopo aver rimesso in riga il
curato, ma non era così. Forse era quello il motivo per cui il Thunderhead
aveva scelto lui tra tanti; mentre tutti erano corrotti dal potere, Greyson non
ne sopportava neppure l’odore.
Be’, forse avrebbe potuto farselo piacere. Forse avrebbe dovuto.
I Chiostri non avevano celle sotterranee. L’edificio era stato progettato solo
per assomigliare a una struttura medievale. Morrison fu rinchiuso in una
specie di antico ufficio che risaliva ai tempi in cui il monastero era stato un
museo.
Le guardie toniste non erano addestrate per quel genere di mansioni. Non
avevano catene o arnesi del genere, manufatti che si potevano trovare solo
nei musei, e non in quel tipo di museo. Lo legarono con dei lacci di plastica
che servivano per fissare le buganvillee ai muri in pietra. Ci erano andati
giù pesante. Un legaccio per arto sarebbe bastato, ma ne aveva una mezza
dozzina per ogni braccio e ogni gamba; e poi, lo avevano legato così stretto
che le mani gli erano diventate viola e i piedi erano di ghiaccio. Morrison
non poteva fare altro che aspettare che si decidesse il suo destino.
All’alba, udì una discussione nel corridoio, proprio davanti alla sua
porta.
«Ma, Sua Sonorità» sentì dire una delle guardie. «Non dovrebbe entrare,
è pericoloso.»
«Lo avete legato?» sentì chiedere il Rintocco.
«Sì.»
«Può liberarsi?»
«No, ci siamo assicurati che non possa farlo.»
«Allora, non vedo il problema.»
La porta si aprì. Il Rintocco entrò. Si richiuse la porta alle spalle. Si era
pettinato e ora indossava un abito sacerdotale che aveva l’aria di essere
molto scomodo.
Maestro Morrison non sapeva se ringraziarlo per averlo risparmiato o se
maledirlo per averlo ridotto così, sconfitto e umiliato.
«Allora, com’è la storia… il Thunderhead ha grandi progetti per me,
eh?» chiese Morrison, caustico.
«Mentivo» rispose il Rintocco. «Sei una falce; il Thunderhead non può
avere grandi progetti per te. Non può avere nulla a che fare con voi.»
«Ma ti ha detto chi sono.»
«Non proprio. Ma alla fine l’ho capito. Maestro Morrison, giusto? Il tuo
patronimico storico ha scritto le parole che ho recitato.»
La falce non rispose, aspettando che il Rintocco proseguisse.
«Il tuo occhio sembra già guarito.»
«Quasi» rispose Morrison. «Vedo ancora annebbiato.»
«La maggior parte dei tonisti disattiva i naniti curativi… lo sapevi? Lo
trovo piuttosto stupido.»
Morrison incrociò lo sguardo del Rintocco. Strizzò gli occhi per metterlo
meglio a fuoco. Il capo spirituale dei tonisti lo considerava un
comportamento stupido? Era un test? Doveva disapprovare? Approvare?
«Non esiste un termine dell’era mortale per definire ciò che stai
dicendo?» chiese Morrison. «Blasteno? Blasmeno? Blasfemo… ecco, sì,
blasfemo.»
Il Rintocco lo studiò per qualche istante prima di replicare. «Credi che il
Thunderhead mi parli?»
Morrison non aveva voglia di rispondere a quella domanda, ma che
importanza aveva, ora?
«Sì, lo credo» ammise. «Non vorrei, ma lo credo.»
«Bene. Questo ci faciliterà le cose.» Poi, il Rintocco si sedette in una
poltrona di fronte a lui. «Il Thunderhead non mi ha scelto perché ero un
tonista. Non lo sono… non esattamente. Mi ha scelto perché… be’, perché
doveva scegliere qualcuno. I tonisti sono stati i primi a credere in me,
comunque. Il mio aspetto rispecchia la loro dottrina. Così ora io sono il
Rintocco, la Tonalità fatta carne. La cosa buffa è che una volta volevo
essere un agente Nimbus. Ora sono l’agente Nimbus.»
«Perché mi stai dicendo tutto questo?»
Il Rintocco scrollò le spalle. «Perché ne ho voglia. Non lo sai? Il
Rintocco può fare qualunque cosa gli passi per la mente. Quasi come una
falce.»
Tra di loro cadde il silenzio. Un silenzio imbarazzante per Morrison, ma
non per il Rintocco, che si limitò a fissare il prigioniero, pensieroso,
meditabondo, immerso nei pensieri profondi di un sant’uomo che non era
poi così santo.
«Non faremo sapere a Goddard che hai fallito la tua missione.»
Morrison non si aspettava certo di sentire quelle parole. «No?»
«Vedi, il punto è che nessuno, tantomeno la Compagnia, sa chi sia in
realtà il Rintocco. Hai spigolato quattro persone ieri notte. Chi può dire che
una di quelle non fosse il Rintocco? E se io sparissi all’improvviso dalla
scena pubblica, senza spiegazioni, si potrebbe pensare che tu sia riuscito nel
tuo intento.»
Morrison scosse la testa. «Alla fine, Goddard lo scoprirà.»
«Alla fine, esatto. Lo scoprirà quando saremo pronti ad affrontarlo.
Potrebbero volerci anni, se lo decidiamo.»
«Capirà che qualcosa è andato storto quando non mi vedrà tornare.»
«No, crederà che sei stato catturato e bruciato. E la cosa triste è che non
gliene importerà un bel niente.»
Il Rintocco aveva ragione, Morrison lo sapeva. Goddard se ne sarebbe
infischiato di che fine avesse fatto.
«Come dicevo, il Thunderhead non ha grandi progetti per te» concluse il
Rintocco, «ma io sì.»

Greyson sapeva che doveva vendere il suo piano e che doveva venderlo
bene. E, per farlo, doveva vedere dentro quella falce come non aveva mai
visto dentro nessun altro. Perché, se avesse sbagliato, sarebbe stata una
catastrofe.
«Ho letto molto sulle usanze dell’era mortale e sul comportamento dei
leader in tempi insidiosi» disse Greyson. «In alcune culture, i governanti e i
capi spirituali si facevano proteggere da assassini professionisti. Mi sentirei
più al sicuro con uno di quegli uomini al mio fianco che con questi tonisti
che pensano di essere guardie.»
La falce scosse la testa, incredula.
«Mi hai cavato un occhio e ora vuoi che lavori per te?»
Greyson alzò le spalle. «Il tuo occhio ricrescerà e tu avrai bisogno di un
lavoro» replicò. «O preferisci tornare da Goddard e raccontargli del tuo
fallimento? Che un pappamolle in pigiama ti ha inforchettato un occhio ed è
fuggito? Non penso che la prenderà bene.»
«Chi ti dice che non ti spigolerò non appena mi libererai?»
«Non credo che tu sia così stupido. Essere la falce personale del
Rintocco è molto meglio di qualsiasi offerta possa farti Goddard, e lo sai.»
«Sarei lo zimbello della Compagnia.»
Greyson gli rivolse un debole sorriso. «Non lo sei già, Maestro
Morrison?»

Morrison non aveva idea di quanto il Rintocco sapesse di lui. Ma era


vero… non era rispettato e nulla di ciò che aveva fatto in passato aveva
potuto cambiare questa realtà. Ma, se fosse rimasto lì, le altre falci non
avrebbero nemmeno saputo che era ancora vivo. E lo avrebbero rispettato.
Forse erano solo dei tonisti, ma gli avrebbero dimostrato un certo rispetto, e
ne aveva disperatamente bisogno.
«Ti dico una cosa» riprese il Rintocco. «Faccio il primo passo e ti
dimostro la mia buona fede.» Estrasse un paio di forbici e si mise a recidere
i legacci che immobilizzavano Morrison. Iniziò dai piedi, poi salì alle
braccia, tagliandoli a uno a uno con precisione e lentezza.
«I curati non ne saranno contenti» aggiunse il Rintocco, continuando a
tagliare. «Al diavolo i curati.»
Quando anche l’ultimo legaccio fu reciso, Morrison balzò in piedi e
afferrò il Rintocco per la gola.
«Hai appena fatto il più grosso errore della tua vita!» ringhiò.
«Avanti, spigolami» lo provocò il Rintocco, senza mostrare la minima
paura. «Non riuscirai a fuggire. Anche se le guardie sono imbranate, ti
fermeranno, sono troppe contro uno solo. Non sei come Maestro Lucifero.»
A quelle parole, la stretta intorno alla gola si fece più forte, fino a
zittirlo. Il Rintocco aveva ragione, ragione su molte cose. Se Morrison
avesse portato a termine la sua missione, sarebbe stato ucciso e bruciato dai
tonisti, appena fuori dalla porta. Sarebbero morti entrambi, e l’unico
vincitore sarebbe stato Goddard.
«Hai finito?» chiese il Rintocco, con voce rauca.
E, in un certo modo, avere il Rintocco alla sua mercé, sapendo che
avrebbe potuto spigolarlo se solo avesse voluto, era già una soddisfazione,
quasi quanto spigolarlo davvero. Ma senza la sgradevole conseguenza di
dover morire anche lui. Morrison allentò la stretta e il Rintocco prese una
grande boccata d’aria.
«Che cosa devo fare ora? Giurare fedeltà?» domandò Morrison, un po’
per scherzo.
«Una stretta di mano basterà» rispose il Rintocco, allungando la mano.
«Il mio vero nome è Greyson. Ma dovrai chiamarmi Sua Sonorità.»
Morrison afferrò la mano del Rintocco con quella con cui aveva cercato
di soffocarlo un istante prima. «Il mio vero nome è Joel. Ma dovrai
chiamarmi Jim.»
«Piacere di conoscerti, Jim.»
«Altrettanto, Sua Sonorità.»
Maestro Morrison dovette ammettere che non si sarebbe aspettato quella
conclusione ma, tutto sommato, non poteva lamentarsi.
E non si lamentò. Per più di due anni.
Parte terza
L’ANNO DEL COBRA
Esiste, credo, un destino di cui tutti noi facciamo parte. Il punto culminante
dell’umanità e dell’immortalità. Il destino, però, richiede uno sforzo assiduo da parte
di tutti e un’autorità illuminata.
L’anno del Rapace è stato devastante per tutti noi, ma quando arrivò l’anno dello
Stambecco avevamo già iniziato a guarire. L’anno del Quokka ci ha permesso di
rivedere i nostri ideali e le nostre priorità di falci. In questo primo giorno del nuovo
anno, vedo solo la speranza per il tempo che verrà.
In questo primo Conclave continentale, desidero ringraziare pubblicamente le
Supreme Roncole Pickford dell’OvestMerica, Hammerstein dell’EstMerica, Tizoc
della Mexiteca e MacPhail del Grande Nord per la fiducia che hanno riposto in me. È
inutile ricordare che, insieme a voi falci che le assistete, mi hanno affidato il compito
di guidare il NordMerica in qualità di Somma Roncola continentale; è un chiaro
mandato di perseguire l’obiettivo di instaurare il nuovo ordine. Insieme, creeremo un
mondo che non sarà solo perfetto, ma anche immacolato. Un mondo in cui ogni
falce, grazie alle sue azioni, ci avvicinerà a questo scopo comune.
So che tra di voi ci sono alcune falci che, come quelle recalcitranti della regione
della Stella Solitaria, dubitano ancora che la mia strada sia quella buona. Quelle
preoccupate che ricercano la “logica nella follia”, come sono solite dire. Ma vi
chiedo: è follia voler elevare la specie umana a un grado superiore? È sbagliato
avere una visione del futuro chiara come l’acqua di sorgente e intagliata come il
diamante al nostro anulare? Certo che no.
Desidero chiarire che le vostre Supreme Roncole non rinunceranno al loro titolo.
Resteranno al comando delle loro rispettive regioni, responsabili
dell’amministrazione locale. In compenso, saranno liberate dall’onere delle decisioni
politiche più difficili. Quei problemi ben più importanti saranno di mia competenza. E
prometto che dedicherò la mia vita all’unico scopo di guidarvi verso il futuro.
Dal discorso di insediamento di Sua Eccellenza
la Somma Roncola Robert Goddard,
1° gennaio dell’anno del Cobra
24
Ratti tra le rovine

Il forte Saint-Jean e il forte Saint-Nicolas furono costruiti ai lati


dell’ingresso del porto di Marsiglia, in quella che corrispondeva oggi alla
regione franco-iberica dell’Europa. Ciò che era strano di quei forti, fatti
erigere da re Luigi XIV, non era che fossero dotati di grossi cannoni, ma
piuttosto che essi non fossero puntati verso il mare, per proteggerli dagli
invasori. Invece, erano orientati verso l’interno, in direzione della vivace
città di Marsiglia, per proteggere gli interessi del re dalle sommosse
popolari.
Robert Goddard, Somma Roncola del NordMerica, si era ispirato a re
Luigi, e aveva fatto sistemare l’artiglieria pesante nel suo giardino al
centodiciannovesimo piano intorno allo chalet di cristallo; le armi erano
puntate in basso, su Fulcrum City. Erano state installate molto tempo prima
della sua investitura a Somma Roncola, poco dopo aver annunciato che il
Rintocco era stato spigolato.
Aveva creduto che la spigolatura del sedicente profeta sarebbe servita da
monito ai tonisti di tutto il mondo, e che avrebbero imparato a temere le
falci, se non le avessero rispettate. Invece, i tonisti, che erano stati sempre
un fastidio persistente, erano diventati un vero e proprio pericolo.
“Dovevamo aspettarcelo” aveva dichiarato Goddard. “Il cambiamento
incontra sempre una certa resistenza, ma noi dobbiamo avanzare nonostante
tutto.”
Neppure per un attimo gli era passato per la mente che l’intensificarsi
della violenza contro le Compagnie del mondo potesse essere stata la
conseguenza del suo ordine di spigolare il Rintocco.
“Il suo più grande difetto è che non vuole capire il concetto di martirio”
aveva osato pronunciarsi l’assistente Costantino.
Goddard lo avrebbe allontanato seduta stante se non ne avesse avuto
bisogno per ammansire l’ostinata regione della Stella Solitaria e convincerla
ad allinearsi con il resto del NordMerica. Quella regione era diventata il
rifugio dei tonisti. “Tanto peggio per il Texas!” aveva proclamato Goddard.
“Che i tonisti lo invadano come ratti tra le rovine.”
Lo chalet di cristallo della Somma Roncola aveva subito dei
cambiamenti nel corso degli ultimi anni. Non solo per gli armamenti puntati
sulla città, ma anche lo stesso cristallo era diverso. Goddard aveva fatto
rinforzare il vetro esterno e l’aveva fatto trattare con l’acido, rendendolo
opaco. Il risultato, dall’interno dello chalet, era che, sia di giorno sia di
notte, sembrava che Fulcrum City fosse perennemente avvolta dalla nebbia.
Goddard era convinto che i tonisti avessero dei droni-spia. Era inoltre
convinto che altre forze si stessero coalizzando contro di lui, e che regioni
nemiche aiutassero quelle forze.
Se questi sospetti fossero fondati o meno, non aveva importanza.
Goddard si comportava come se lo fossero e, se ci credeva lui, ci credeva
tutto il mondo. O almeno ogni parte del mondo che aveva marchiato con la
sua impronta indelebile.
«Le cose si sistemeranno» rassicurò le quasi duemila falci che si erano
riunite per il primo Conclave continentale. «La gente si abituerà ai
cambiamenti, vedrà che è nel suo interesse, e si adeguerà.»
Ma, fino ad allora, i vetri sarebbero rimasti appannati, i molesti
sarebbero stati spigolati e le armi silenziose avrebbero continuato a mirare
alla città.

Goddard era ancora sotto shock per il fallito raid amazzonico. La Suprema
Roncola Pickford non era riuscita a catturare Madame Anastasia. Non era la
prima volta che lo deludeva, ma non c’era un granché che potesse fare.
Almeno non per il momento. Un giorno, avrebbe nominato lui le Supreme
Roncole di altre regioni nordmericane, piuttosto che lasciare la prerogativa
all’imprevedibile procedura di votazione dei conclavi.
Pickford se l’era cavata per un pelo, perché era riuscita a catturare
Rowan Damisch, che in quel momento era in viaggio verso Fulcrum City.
Goddard doveva accontentarsi, finché non si fosse ritrovata la ragazza. Con
un po’ di fortuna, Anastasia avrebbe speso tutte le sue energie a fuggire e a
nascondersi, e dunque non gli avrebbe creato troppi guai. A ripensarci,
avrebbe dovuto mantenere il perimetro di rispetto nelle acque sopra Endura.
Si era preoccupato che un recupero rivelasse ciò che era realmente
accaduto. Non avrebbe mai immaginato che potesse andare in quel modo.
Il mattino portò con sé altre questioni da risolvere, e Goddard dovette
mettere da parte le sue frustrazioni, cosa che era diventata molto più
difficile per lui.
«La Suprema Roncola Shirase della Barriera di Ross sta salendo in
ascensore, accompagnata da un consistente stuolo di guardie» lo informò
l’assistente Franklin.
«E formano tutti “una sola mente”?» scherzò Rand.
Goddard sogghignò in silenzio, ma Madame Franklin non osava mai
ridere delle battute di Rand. «Delle loro menti non interessa a nessuno.
L’essenziale è quello che ci portano» replicò.
Goddard li raggiunse nella sala conferenze, dopo averli fatti attendere
cinque minuti. Ci teneva particolarmente a far capire ai suoi ospiti, anche a
quelli importanti, che il suo tempo era più prezioso del loro.
«Nobu!» esclamò Goddard, accogliendo la Suprema Roncola Shirase
come un vecchio amico. «Che piacere rivederla! Come vanno le cose in
Antartide?»
«Va tutto bene.»
«Che cos’è la vita se non un sogno?» ironizzò Rand.
«Ogni tanto» replicò Shirase, senza cogliere il gioco di parole che
alludeva alla particolarità della sua regione. «Ma solo quando si rema verso
i propri obiettivi, immagino.»
Ora toccò all’assistente Franklin abbozzare una risatina di cortesia, ma
più che dissipare la tensione la peggiorò.
Goddard lanciò un’occhiata alle casse portate dagli ufficiali della
Suprema Guardia. Ce n’erano solo otto. Altre regioni venivano almeno con
dieci casse. Ma forse erano di meno perché il contenuto era stato stipato di
più.
«A cosa devo l’onore di questa visita, eccellenza?» chiese Goddard,
come se non lo sapessero già tutti.
«Da parte della regione della Barriera di Ross, vorrei offrirle un dono.
Nella speranza che possa formalizzare il nostro rapporto.»
Fece un cenno con il capo agli ufficiali della Suprema Guardia, che
collocarono le casse sul tavolo e le aprirono. Come era prevedibile, erano
piene dei diamanti delle falci.
«Questa è la quota di diamanti che la Barriere di Ross ha recuperato
dalle rovine di Endura» dichiarò Shirase.
«Impressionante» osservò Goddard. «Sono tutti?»
«Tutti, sì.»
Goddard esaminò il contenuto scintillante. Poi si voltò verso Shirase. «È
un onore per me. Accetto il vostro dono con umiltà, nello spirito
dell’amicizia che ci lega. Va da sé che quando avrete bisogno dei gioielli
per consacrare le vostre future falci saranno messi a vostra disposizione.»
Indicò la porta. «Vi prego di seguire l’assistente Franklin, che vi
accompagnerà nella sala da pranzo, dove ho fatto preparare un pranzo
veloce. Pietanze tradizionali dell’Antartide e anche specialità regionali della
MidMerica. Un banchetto per suggellare la nostra amicizia. Vi raggiungerò
a breve, e discuteremo di questioni che interessano entrambe le nostre
regioni.»
Franklin li scortò fuori dalla sala nel momento in cui entrava Nietzsche.
«Portami buone notizie, Freddy» disse Goddard.
«Be’, abbiamo seguito le tracce di Anastasia a sud. Non potrà andare
oltre. Presto, si troverà bloccata nella Terra del Fuoco.»
Goddard sospirò. «La Terra del Fuoco non collaborerà. Raddoppiamo gli
sforzi per prenderla prima che ci arrivi.»
«Stiamo facendo il possibile» replicò Nietzsche.
«Fate di più» ordinò la Somma Roncola.
Si voltò verso Madame Rand, che stava passando la mano sui diamanti
in una delle casse. «Li contiamo o ti fidi di Shirase?» gli chiese.
«Non è il numero che conta, Ayn, ma il gesto. Il tesoro che accumuliamo
non è che un mezzo in vista di un obiettivo. Un simbolo di qualcosa di più
prezioso dei diamanti.»
Tuttavia, Goddard sarebbe stato disposto a gettarli tutti in mare pur di
avere Madame Anastasia tra le mani.
25
Sole e ombra

Aiutare Anastasia a fuggire dall’Amazzonia era stata un’avventura irta di


ostacoli, ostacoli che erano svaniti all’orizzonte, sulla scia della Spence. La
funzione della nave, rifletteva Jerico, era cambiata. Ora, era adibita al
soccorso in mare.
Mentre la costa amazzonica si allontanava su un mare calmo, a prua
della Spence sorgeva il sole. Alle nove, la terra era svanita e il cielo
luminoso del mattino era punteggiato da vaporosi sbuffi di nuvole. Jeri
avrebbe preferito un cielo basso e coperto, anzi una nebbia fitta, perché, se
le falci nordmericane avessero scoperto che Anastasia viaggiava per mare,
la Spence avrebbe corso il rischio di essere presa di mira e affondata.
“Non ti preoccupare, non vi inseguiranno” l’aveva rassicurato Possuelo.
“Ho fatto in modo che intercettassero un comunicato ‘segreto’ che ho
inviato e ci sono cascati. Per quanto ne sanno le falci nordmericane,
Anastasia si sta dirigendo in treno a sud, attraverso un percorso tortuoso,
per raggiungere la Terra del Fuoco, dove la Suprema Roncola regionale le
darebbe asilo. E, per rendere credibile la storia, stiamo lasciando tracce
evidenti del suo DNA lungo il cammino. Passeranno giorni prima che
capiscano che è tutta una perdita di tempo!”
Era un espediente astuto. Le falci del Nord credevano che quelle
amazzoniche fossero troppo sempliciotte per concepire quel tipo di
sotterfugio. E la Terra del Fuoco, in cui vivevano falci ribelli fino
all’estremo, non avrebbe collaborato in alcun modo con le falci
nordmericane.
Navigando a tutta velocità, avrebbero raggiunto un porto sicuro in meno
di tre giorni.
Dal ponte di coperta, Jeri osservava la sagoma turchese di Madame
Anastasia affacciata al parapetto di dritta, intenta a contemplare il mare.
Non doveva essere lasciata sola, Possuelo era stato chiaro su quel punto. E
forse la sua paranoia era giustificata, considerando che era stato tradito da
uno dei suoi. Jeri si fidava ciecamente dell’equipaggio della Spence; i suoi
uomini avevano nei confronti del comandante una fedeltà smisurata.
Tuttavia, anche stando così le cose, le precauzioni non erano mai troppe.
L’unico motivo per cui Anastasia era stata lasciata sola era perché lo
aveva ordinato lei stessa all’ufficiale incaricato della sua sorveglianza.
L’autorità di una falce superava quella di un comandante. Doveva essere
così, perché Jeri scorse l’ufficiale sul ponte superiore che la teneva d’occhio
a distanza. Jeri immaginò che, se voleva davvero sorvegliare quella falce
testarda, avrebbe dovuto farlo personalmente.
«Ce ne combinerà di tutti i colori» commentò il comandante in seconda
Wharton.
«Di sicuro» replicò Jeri. «Ma di quali colori, non lo sappiamo.»
«Sventure?» suggerì il comandante in seconda.
«Forse sì, forse no.» Poi, Jeri lasciò il ponte di coperta per raggiungerla
al parapetto.
Anastasia non stava contemplando il mare. Non stava neppure
contemplando l’orizzonte. Aveva lo sguardo perso nel vuoto.
«Sta pensando di saltare?» chiese Jeri, per cercare di rompere il ghiaccio
che li divideva. «Devo preoccuparmi?»
Anastasia gli lanciò un’occhiata prima di riportare lo sguardo sul mare.
«Mi ero stancata di camminare avanti e indietro di sotto. Pensavo che sul
ponte mi sarei calmata. Ha notizie di Possuelo?»
«Sì.»
«Che cosa dice di Rowan?»
Jeri non rispose subito. «Non ha detto nulla, e io non ho chiesto.»
«Allora è stato catturato» concluse Anastasia, dando un pugno al
parapetto, delusa. «Sto navigando verso la libertà e lui è stato catturato.»
Jeri si era quasi aspettato che gli ordinasse di invertire la rotta per andare
in soccorso del giovane. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto obbedire, perché
era una falce. Ma Anastasia non lo fece. Era abbastanza coscienziosa da
sapere che avrebbe solo peggiorato le cose.
«Non riesco proprio a capire questa sua devozione per Maestro
Lucifero» osò dire Jeri.
«Lei non sa nulla.»
«So più di quel che pensa. Ero con Possuelo quando abbiamo aperto la
camera blindata. Vi ho visti l’una nelle braccia dell’altro. Un tipo di intimità
che nemmeno la morte può nascondere.»
Anastasia distolse lo sguardo. «Ci siamo tolti gli abiti perché ci
uccidesse il freddo invece della mancanza di ossigeno.»
Jeri sorrise. «Credo che non sia tutta la verità.»
Lei si voltò e scrutò il comandante per un lungo momento, poi cambiò
discorso. «Jerico… è un nome insolito. Mi sembra di ricordare una storia
dell’era mortale a proposito di un muro che era crollato. Lei abbatte i
muri?»
«Diciamo che recupero cose tra le rovine dei muri che sono già crollati»
le rispose. «In realtà, il mio nome non ha nulla a che fare con la storia di
Jerico. Ma, se la disturba, può chiamarmi Jeri.»
«D’accordo. E quali sono i suoi pronomi, Jeri?»
Il comandante trovò la sua franchezza corroborante. Era stata diretta.
C’era ancora gente che non aveva il coraggio di chiederglielo, come se Jeri
non fosse cosciente della propria ambiguità.
«Lui, lei, loro… i pronomi mi stancano» replicò. «Preferisco chiamare
una persona per nome. Ma, per rispondere alla sua domanda di fondo, sono
sia uomo sia donna. Ha a che fare con le mie origini malgasce.»
Anastasia annuì. «Deve trovarci strane, noi persone binarie.»
«Quando ero giovane, sì. La prima volta che ho incontrato una persona
nata con un genere unico ero già un adolescente. Ma ho finito per accettare,
oserei dire anche apprezzare, la vostra bizzarra rigidità.»
«Dunque, si considera sia uomo sia donna… immagino comunque che ci
siano momenti in cui si sente più l’uno che l’altra.»
“Non solo schietta, ma anche perspicace” pensò Jeri, apprezzando
sempre di più quella falce rianimata. “Fa domande sensate.”
«Diciamo che dipende dal cielo» spiegò il comandante. «Quando è
sereno, scelgo di essere donna. Quando è nuvoloso, sono uomo.» Si girò
verso il sole che luccicava sull’acqua. Nuvole sporadiche gettavano
macchie d’ombra sul mare, ma in quel momento la nave si trovava in un
punto dove batteva il sole. «In questo preciso istante, sono donna.»
«Capisco» rispose Anastasia, senza alcuna traccia di giudizio nella voce.
«Mio padre, che era uno studioso dell’era mortale, diceva che il sole è quasi
sempre percepito come un’entità maschile nella mitologia, e poi c’è il viso
maschile della luna. Scegliere di essere femmina sotto i loro raggi crea un
equilibrio. È una specie di yin e yang naturale.»
«E anche per lei» commentò Jeri. «Dopotutto, il turchese è un colore che
simboleggia l’equilibrio.»
Anastasia sorrise. «Questo non lo sapevo. L’ho scelto perché è il colore
che mio fratello voleva per me.»
Un’ombra passò sul viso della falce, forse una fitta di dolore al pensiero
del fratello. Jeri preferì non approfondire. Era troppo personale, e lei aveva
il diritto di tenerlo per sé.
«Non la disturba essere sempre alla mercé della meteorologia?»
domandò Anastasia. «Credevo che una persona del suo calibro non volesse
rendere conto a nulla e a nessuno. E poi, deve essere molto fastidioso in
giornate parzialmente nuvolose come questa.»
Come se l’avesse sentita, il sole si nascose dietro una nuvola per uscirne
un istante dopo. Jeri rise. «Sì, è fastidioso, ma ci ho fatto l’abitudine, l’ho
accettato. Questa imprevedibilità è parte della mia natura, ormai.»
«Mi sono spesso chiesta come sarebbe stata la mia vita se fossi nata nella
regione malgascia» rifletté Anastasia. «Non è che desideri essere un uomo,
ma mi domando come sarebbe stato sperimentare entrambi i generi quando
ero ancora troppo giovane per capire la differenza.»
«È proprio questo il punto» replicò Jeri. «E il motivo per cui così tanta
gente sceglie di crescere i propri figli in Madagascar.»
Anastasia meditò ancora qualche istante. «Immagino che, se dividessi il
mio tempo tra mare e terra come fa lei, potrei decidere di essere in una
maniera a terra e in un’altra in mare. Così, non sarei più in balia dei venti.»
«Bene, apprezzerei la sua compagnia in qualunque modo.»
«Mmm… Flirta con me in pieno sole. Mi chiedo se lo farebbe anche
durante una tempesta» disse Anastasia con ritrosia.
«Uno dei vantaggi dei malgasci è che vedono le persone per quello che
sono. Persone. Nel campo della seduzione, il genere non è fondamentale.»
Jeri alzò gli occhi al cielo non appena la luce si affievolì. «Ecco… Il sole è
passato di nuovo dietro a una nuvola, e non è cambiato nulla.»
Anastasia si staccò dal parapetto; un leggero sorriso le indugiava ancora
sulle labbra. «Credo di aver avuto la mia dose di sole e ombra, oggi. Buona
giornata, comandante.» Si voltò per scendere al ponte inferiore, con la veste
svolazzante dietro di sé come una vela al soffio di una brezza.
26
Il ricettacolo dell’odio mondiale

Rowan ignorava che cosa fosse accaduto durante i suoi tre anni di assenza.
A differenza di Citra, nessuno l’aveva informato. Tutto ciò che sapeva,
l’aveva appreso per caso. Non aveva idea che ora Goddard controllasse la
maggioranza del NordMerica, il che non era buono per il mondo, e di sicuro
neppure per lui.
Era legato a una colonna di vetro al centro dello chalet di cristallo di
Goddard.
L’avevano rianimato il giorno prima, proprio come la Suprema Roncola
Pickford aveva detto che sarebbe avvenuto. La morte non bastava più a
Maestro Lucifero. Conoscendo Goddard, gli avrebbe riservato una fine
spettacolare e sfarzosa.
Goddard andò a trovarlo con Madame Rand al suo fianco, come sempre.
L’espressione sul viso della Somma Roncola non era di collera. In realtà,
era amichevole. Addirittura calorosa, per una persona senza cuore. La sua
visita colse di sorpresa Rowan. Rand, in compenso, aveva l’aria
preoccupata, e lui sapeva perché.
«Carissimo» esordì Goddard, allargando le braccia come se volesse
abbracciarlo, per poi fermarsi a qualche metro da lui.
«Sorpreso di vedermi?» chiese Rowan, con tutta la vivacità che fu in
grado di mostrare.
«Non mi sorprende nulla da parte tua» replicò Goddard. «Ma devo
ammettere che sono colpito da come sei riuscito a ritornare dopo
l’affondamento di Endura.»
«Che tu hai provocato.»
«Al contrario» ribatté Goddard. «Sei tu che l’hai provocato. È quello che
è e che resterà per sempre negli archivi.»
Se cercava di farlo infuriare, era tempo perso. Rowan si era ormai
rassegnato a essere considerato il cattivo. Quando aveva deciso di diventare
Maestro Lucifero, sapeva che sarebbe stato odiato. Naturalmente, pensava
che solo le falci lo avrebbero odiato. Non gli era mai passato per la mente
che potesse essere disprezzato dal resto del mondo.
«Sembri felice di vedermi» osservò Rowan. «È probabilmente per via
del corpo che hai rubato. Il corpo di Tyger reagisce alla vista del suo
migliore amico.»
«Forse» rispose Goddard, guardandosi le mani di Tyger, come se
potessero parlargli. «Ma anche il resto di me è felice di averti qui! Sai,
come uomo nero, Maestro Lucifero è fastidioso. Ma, come uomo in carne e
ossa, potrebbe essermi utile per migliorare l’umanità.»
«Per migliorare la tua immagine, vuoi dire.»
«Ciò che è bene per me è bene per il mondo, dovresti averlo capito
ormai. Vedo il quadro generale, Rowan. Da sempre. E ora, mostrando al
mondo che Maestro Lucifero verrà assicurato alla giustizia, permetterò alle
persone di dormire sonni tranquilli.»
Per tutto quel tempo, Madame Rand non aveva aperto bocca. Si era
seduta e aveva assistito alla scena, per vedere cosa avrebbe fatto Rowan,
quali accuse avrebbe mosso. Dopotutto, era stata lei che lo aveva liberato su
Endura. Se lui avesse voluto, avrebbe potuto seminare zizzania. Ma che
vantaggio gli avrebbe portato?
«Se speri di essere ricordato, non preoccuparti, sarà così. Quando sarai
spigolato, il tuo nome sarà il ricettacolo dell’odio mondiale. Sei tristemente
celebre, Rowan! Accettalo! È l’unica forma di celebrità che hai mai avuto,
ed è molto di più di quanto meriti. Consideralo un dono da parte mia, in
nome di tutto ciò che abbiamo rappresentato l’uno per l’altra.»
«Ti stai divertendo, vero?»
«Oh, immensamente» ammise Goddard. «Non puoi immaginare quanto
tempo ho passato a sognare i modi in cui avrei potuto tormentarti!»
«Chi torturerai quando io non ci sarò più?»
«Troverò qualcuno, stanne certo. O forse non ne avrò bisogno. Forse
sarai la mia ultima spina nel fianco.»
«Nah… ci sarà sempre un’altra.»
Goddard batté le mani, visibilmente divertito. «Mi sono mancate molto
le nostre conversazioni!»
«Ti riferisci a quelle in cui gongolavi mentre ero legato?»
«Vedi? Il modo in cui arrivi al cuore della questione è sempre così
corroborante. Così esaltante. Ti terrei volentieri come animale da
compagnia, se non temessi che tu possa fuggire e arrostirmi nel sonno.»
«Fuggirei, sì, e ti arrostirei, certo» confermò Rowan.
«Non ne ho dubitato neanche un istante. Be’, stai tranquillo, non fuggirai
oggi. Non c’è più Maestro Brahms a combinare disastri.»
«Perché? È stato divorato dagli squali come tutti gli altri?»
«Sì, ne sono sicuro» ribatté Goddard, «ma era già morto quando si sono
sbranati quel che ne restava. È la punizione per averti fatto fuggire.»
«Capisco.» Rowan non disse nient’altro. Ma, con la coda dell’occhio,
scorse Rand agitarsi nella poltrona come se fosse diventata rovente.
Goddard avanzò verso di lui. La sua voce si addolcì. «Tu non mi
crederai, ma mi sei mancato davvero, Rowan.» In quella semplice
confessione risuonava una certa sincerità che trascendeva la sua abituale
teatralità. «Sei l’unico che osa tenermi testa, ormai. Ho nemici, sì, ma sono
tutti degli smidollati. Facili da rimettere al loro posto. Tu eri diverso, sin
dall’inizio.»
Fece un passo indietro e osservò Rowan dalla testa ai piedi, valutandolo,
così come si giudica un dipinto sbiadito che ha perduto il suo lustro.
«Avresti potuto essere il mio primo assistente» riprese Goddard. «L’erede
della Compagnia mondiale, e credimi, ci sarà una sola Compagnia mondiale
quando avrò finito. Quello sarebbe stato il tuo destino, il tuo futuro.»
«Se solo avessi messo a tacere la mia coscienza.»
Goddard scosse la testa, deluso. «La coscienza è uno strumento come un
altro. Se non sei tu a manipolarla, lo farà lei; e, da quello che posso vedere,
ha avuto ragione di te. No, il mondo ha bisogno dell’unità che gli offro
molto più di quanto abbia bisogno della tua visione semplicistica del bene e
del male.»
Il problema con Goddard era che le sue parole avevano sempre una loro
logica, e la cosa era scoraggiante. Era capace di manipolare i pensieri altrui
fino ad appropriarsene. Era questo che lo rendeva così pericoloso.
Rowan sentì la forza d’animo e il coraggio abbandonarlo. Goddard
aveva forse ragione su qualcosa? Una voce dentro di sé lo negava, ma
quella voce si stava affievolendo sempre più.
«Che cosa mi aspetta?» chiese.
Goddard si chinò verso di lui e gli sussurrò all’orecchio: «La resa dei
conti».

Madame Rand credeva che tutta quella storia appartenesse ormai al passato.
Era andata in pellegrinaggio in un luogo santo quando aveva saputo che
Maestro Lucifero era vivo e che si trovava in Amazzonia. Il rapimento del
giovane si era svolto a sua insaputa. Maestro Lucifero era già in viaggio
verso Fulcrum City quando Goddard le aveva dato la “meravigliosa
notizia”.
Non sarebbe potuto capitare in un momento meno opportuno. Con un
margine di preavviso, avrebbe di sicuro trovato un modo di spigolarlo prima
che raggiungesse Goddard, se non altro per chiudergli la bocca.
Ma era lì, e la sua bocca era rimasta chiusa lo stesso. Almeno, per quello
che la riguardava. Manteneva il segreto solo per tenerla in tensione? Ayn si
chiedeva quale fosse il suo gioco.
Questa volta, Goddard non ebbe la delicatezza di lasciare Rowan solo
nella stanza. Gli mise alle costole due guardie, a cui ordinò di sorvegliarlo a
distanza e di non togliergli mai gli occhi di dosso.
«Va’ da lui ogni ora» raccomandò ad Ayn. «E controlla che non abbia
allentato le corde o corrotto le guardie.»
«Dovresti renderle sorde, in modo che non possa fare loro il lavaggio del
cervello» suggerì Ayn. Era solo una battuta, ma Goddard la prese sul serio.
«Purtroppo, riacquisterebbero l’udito nel giro di un’ora.»
Così, per mantenere il silenzio, invece di privare le guardie dell’udito, si
fece ricorso alle vecchie maniere. Rowan fu imbavagliato. Tuttavia, quando
Ayn andò a controllarlo quel pomeriggio, era riuscito a togliersi il bavaglio.
Nonostante fosse legato come un involtino, era tutto sorrisi.
«Ciao, Ayn» la salutò con allegria. «Stai passando una bella giornata?»
«Non hai sentito?» ribatté lei scherzando. «Ogni giornata è bella da
quando Goddard è diventato Somma Roncola.»
«Ci dispiace, eccellenza» disse una delle guardie. «Ci è stato ordinato di
sorvegliarlo da lontano, dunque non possiamo rimettergli il bavaglio. Forse
può farlo lei.»
«Che cosa ha detto?»
«Niente» rispose l’altra guardia. «Cantava una canzone che era famosa
qualche anno fa. Ci ha invitato a cantare con lui, ma non l’abbiamo fatto.»
«Bene. Ammiro la vostra compostezza.»
Durante questo breve scambio, Rowan non perse mai il sorriso. «Sai,
Ayn, avrei potuto dire a Goddard che sei stata tu a liberarmi su Endura.»
Ecco fatto. Aveva tirato fuori la cosa in presenza delle guardie.
«Mentire non ti servirà a nulla» replicò lei, in modo che le guardie la
sentissero. Poi, ordinò loro di attendere fuori, il che, in un’abitazione le cui
pareti interne erano ancora di vetro trasparente, non li metteva al riparo da
sguardi indiscreti, ma almeno la stanza era insonorizzata, una volta chiusa
la porta.
«Non penso che ti abbiano creduto» commentò Rowan. «Non sei stata
molto convincente.»
«Hai ragione» rispose Ayn. «Allora, li dovrò spigolare, adesso. La loro
vita è nelle tue mani.»
«È la tua lama, non la mia.»
Ayn lanciò un’occhiata alle due guardie ignare, oltre la parete di vetro. Il
problema non era spigolarle, ma nascondere che era stata lei a farlo.
Avrebbe dovuto ordinare a qualche falce di livello inferiore di occuparsene
e poi avrebbe dovuto convincerla ad autospigolarsi, il tutto senza destare il
minimo sospetto. Che casino.
«Liberarti è stata la peggiore decisione della mia vita.»
«Non la peggiore. Neanche lontanamente.»
«Perché non l’hai detto a Goddard? Quale sarebbe il motivo?»
Rowan alzò le spalle. «Mi hai fatto un favore, e io ho ricambiato. Ora
siamo pari.» E poi, aggiunse: «L’hai tradito una volta. Potresti rifarlo».
«Le cose sono cambiate.»
«Ne sei convinta? Continuo a vedere che non ti tratta come dovrebbe. Ti
ha mai detto quello che oggi ha detto a me? Che potresti essere l’erede della
Compagnia mondiale? No? Mi pare che ti tratti come qualunque altro.
Come una serva.»
Ayn prese un profondo respiro, sentendosi di colpo molto sola. Amava la
solitudine, ma in quel caso era diverso. Aveva l’impressione di essere senza
alleati. Come se tutto il mondo le fosse nemico. E forse lo era. Non
sopportava che quel giovane arrogante potesse farla sentire così. «Sei più
pericoloso di quanto Goddard non voglia ammettere» gli disse.
«Eppure, mi ascolti ancora. Perché?»
Non voleva affrontare quella domanda. Passò in rassegna tutti i modi in
cui avrebbe potuto spigolarlo seduta stante, e al diavolo le conseguenze. Ma
sapeva che, se lo avesse fatto, non avrebbe ottenuto nulla. Goddard lo
avrebbe rianimato per obbligarlo ad affrontare la fine che aveva previsto per
lui. E, una volta rianimato, Rowan avrebbe potuto vuotare il sacco. Aveva le
mani legate, proprio come Rowan.
«Non è importante, ma mi piacerebbe sapere…» riprese Rowan.
«Condividi tutto ciò che fa? Pensi che stia portando il mondo nella giusta
direzione?»
«Non esiste la giusta direzione. Esiste solo una direzione che permetterà
alla nostra specie di vivere meglio.»
«La “nostra specie”? Intendi le falci?»
«Che altro dovrei intendere?»
«Le falci avrebbero dovuto rendere il mondo un luogo migliore per tutti.
E non il contrario.»
Se credeva che a lei importasse, stava sprecando il fiato. Le questioni di
etica e senso morale erano gli spauracchi della vecchia guardia. La sua
coscienza era pulita, perché non ce l’aveva, e di questo era sempre stata
orgogliosa.
«Intende giustiziarti in pubblico» confidò a Rowan. «E in pubblico vuol
dire che farà in modo che nessuno possa più dubitare della morte di Maestro
Lucifero. Sarà sconfitto ed eliminato dalla faccia della Terra, per sempre.»
«È questo che vuoi?»
«Non ti piangerò» replicò Rand, «e, quando non ci sarai più, mi sentirò
sollevata.»
Le credette sulla parola. «Sai, Madame Rand, verrà un giorno in cui
l’ego di Goddard crescerà in modo così smisurato che anche tu capirai la
sua pericolosità. E, in quel momento, lui sarà così potente che nessuno
oserà più tenergli testa.»
Ayn avrebbe voluto ribattere, ma fu percorsa da un brivido. Il suo corpo
le stava facendo capire che c’era del vero in quello che Rowan diceva. No,
non avrebbe pianto Maestro Lucifero. Ma, una volta scomparso, le
preoccupazioni non sarebbero finite.
«Sei esattamente come lui» commentò lei. «Entrambi vi insinuate nella
mente delle persone finché non riescono più a distinguere il vero dal falso.
Dunque, mi scuserai se non parlerò mai più con te.»
«Lo farai, invece» ribatté lui con assoluta certezza. «Perché, dopo che mi
avrà eliminato, ti ordinerà di sbarazzarti di ciò che resta di me, come hai
fatto con Tyger. E allora, quando nessuno ti ascolterà, te la prenderai con le
mie ossa carbonizzate, per poter avere l’ultima parola. Forse ci sputerai
anche sopra. Ma non ti farà sentire meglio.»
Ed era esasperante. Perché aveva assolutamente ragione.
27
Il palazzo dei piaceri di Tenkamenin

La Spence attraversava l’Atlantico con Madame Anastasia a bordo, facendo


rotta verso la regione del SubSahara, nel continente africano. La tratta, più
breve di quanto ci si potesse immaginare, fu percorsa in poco meno di tre
giorni. Arrivarono nella città costiera di Port Remembrance mentre le falci
midmericane stavano ancora cercando Anastasia nei territori sudmericani.
Nell’era mortale, Port Remembrance era conosciuta con il nome di
Monrovia, ma il Thunderhead aveva deciso che l’oscura storia di
sottomissione e schiavitù, seguita da rimpatri mal organizzati, che aveva
caratterizzato la regione imponeva la scelta di un nome nuovo che non
offendesse nessuno. Naturalmente, la gente si era sentita offesa. Comunque,
il Thunderhead aveva tenuto fede alla sua decisione che, come con tutte le
decisioni che prendeva, si era rivelata giusta.
Al suo arrivo, Madame Anastasia fu ricevuta dalla Suprema Roncola del
SubSahara Tenkamenin in persona, strenuo oppositore di Goddard, che
aveva accettato di concederle asilo.
«Ecco la giovane falce di cui si fa un gran parlare!» esclamò con voce
tonante e cordiale, accogliendola. Portava una veste multicolore, in
omaggio a tutte le culture storiche della regione. «Non si preoccupi, piccola
mia, è al sicuro e tra amici.»
Mentre trovava adorabile l’appellativo “meu anjo”, che le rivolgeva
Possuelo, sentirsi chiamare “piccola mia” le parve avvilente. A testa alta,
non commentò, per diplomazia. Jeri, invece, non rimase in silenzio.
«Non così piccola.»
La Suprema Roncola lanciò a Jeri un’occhiata diffidente. «E lei è?»
«Jerico Soberanis, comandante della nave che ha condotto Madame
Anastasia tra le sue braccia accoglienti.»
«Ho sentito parlare di lei» rispose Tenkamenin. «Un celebre predatore.»
«Recuperatore» lo corresse Jeri. «Trovo ciò che è andato perduto, e
aggiusto le cose irreparabili.»
«Ne prendo nota» rispose Tenkamenin. «Grazie per i suoi preziosi
servizi.» Poi, con fare fraterno, la Suprema Roncola circondò con un
braccio Anastasia e la condusse via dal molo, insieme al suo seguito. «Sarà
sfinita e affamata! E deve essere stufa del cibo che le hanno servito a bordo.
Abbiamo preparato un banchetto in suo onore.»
Jeri li seguì, finché Tenkamenin non gli chiese: «Non è stato pagato? Di
sicuro, se n’è occupato Possuelo».
«Spiacente, eccellenza» replicò il comandante, «ma Maestro Possuelo in
persona mi ha incaricato di restare al fianco di Madame Anastasia, senza
lasciarla mai un istante. Sinceramente, spero che non mi voglia chiedere di
contravvenire all’ordine che mi è stato impartito.»
La Suprema Roncola sospirò con fare teatrale. «Molto bene» rispose, poi
si rivolse al suo seguito, come se fosse un’unica entità. «Aggiungete un
posto a tavola per il nostro bravo comandante malgascio e preparategli una
stanza adeguata.»
Alla fine, Anastasia prese la parola. «Adeguata non sarà sufficiente»
disse alla Suprema Roncola. «Jerico ha rischiato molto per portarmi fin qui,
e deve essere trattato con tutti i riguardi che ha riservato a me.»
Il seguito della Suprema Roncola si preparò a una reazione vulcanica
ma, dopo un istante, Tenkamenin scoppiò a ridere di cuore.
«Il coraggio è una qualità molto apprezzata qui. Andremo d’accordo!» Si
voltò a guardare Jeri. «Comandante, mi perdoni, ma amo scherzare. Non c’è
nulla di personale. Lei qui è il benvenuto come nostro esimio ospite e sarà
trattato con tutti gli onori.»

Jeri non aveva ricevuto nessun ordine da Possuelo. Gli aveva detto di
condurre Anastasia a Port Remembrance e nient’altro. Il comandante, però,
non era disposto a separarsi dalla giovane falce turchese. E poi,
l’equipaggio della Spence aveva bisogno di riposo. La costa occidentale del
SubSahara era il luogo ideale. E così Jeri aveva la possibilità di tenere
d’occhio Anastasia e la Suprema Roncola, che pareva un po’ troppo
compiacente.
«Si fida di lui?» le chiese Jeri prima di salire sulle berline che li
avrebbero portati al palazzo di Tenkamenin.
«Possuelo sì» rispose Anastasia. «Questo mi basta.»
«Possuelo si fidava anche della giovane falce che l’ha venduta a
Goddard» sottolineò Jeri. Anastasia non rispose. «Sarò il suo secondo paio
d’occhi» aggiunse il comandante.
«Probabilmente non sarà necessario, ma lo apprezzo» replicò lei.
In genere, Jeri preferiva avere l’ultima parola, ma l’apprezzamento di
Anastasia era una ricompensa adeguata per i servizi resi.

Tenkamenin, Tenka per gli amici, era espansivo di natura, caratteristica che
si accompagnava a una voce profonda, una voce che risuonava anche
quando bisbigliava. Citra lo trovava affettuoso ma anche intimidatorio. Si
decise a mettere da parte Citra Terranova per essere Madame Anastasia per
tutto il tempo che sarebbe rimasta con lui.
Si accorse che l’indice genetico di Tenkamenin pendeva un po’ verso
l’Africa. Comprensibile, visto che erano in un continente che aveva
contribuito con quei geni alla mescolanza biologica dell’umanità. Anastasia
stessa aveva qualcosa di africano più che di panasiatico, caucasoide,
mesolatino o vari indici secondari raggruppati sono la categoria “altro”.
Mentre erano in auto insieme, a Tenkamenin saltò all’occhio quel dettaglio
e commentò: «Non dovremmo notare questa cosa, eppure non mi sfugge
mai. Vuol dire solo che siamo un pizzico più imparentati del dovuto».
La sua non era una semplice casa. Tenkamenin si era fatto costruire un
maestoso palazzo dei piaceri.
«Non l’ho chiamato Xanadu, come il sontuoso palazzo di Kublai Khan»
spiegò ad Anastasia. «Maestro Khan non aveva gusto, per nulla. La
Compagnia mongola ha fatto bene a radere al suolo quell’edificio quando si
è autospigolato.»
Il palazzo era elegante, proprio come lo stesso Tenka; l’incarnazione del
buon gusto. «Non sono un parassita, non mi impadronisco di tenute e
magioni altrui, buttando fuori i proprietari» dichiarò con orgoglio. «Questo
posto è stato costruito da zero! Ho invitato intere comunità a lavorarci e ho
riempito il loro tempo libero con attività gratificanti. E continuano a
lavorare, aumentando anno dopo anno. E non perché lo chiedo, ma perché
fa loro piacere.»
Sebbene all’inizio Anastasia avesse dubitato che lo facessero per scelta,
parlando con i lavoratori dovette ricredersi. Volevano davvero bene a
Tenka, e decidevano di loro spontanea volontà quanto tempo dedicare alla
costruzione del suo palazzo. Non guastava che la Suprema Roncola pagasse
loro uno stipendio ben superiore al reddito minimo garantito.
Il palazzo era pieno di vecchi cimeli e bizzarre cianfrusaglie del mondo
antico che aggiungevano un tocco pittoresco alla dimora. A cominciare
dalle uniformi anacronistiche del personale risalenti a diverse epoche
storiche. C’era anche una collezione di giocattoli di secoli prima. E poi
c’erano i telefoni. Oggetti di plastica di diversi colori appoggiati sui tavoli o
appesi ai muri. Erano dotati di ricevitori collegati alle basi con lunghi cavi a
spirale che si allungavano come molle e si ingarbugliavano con facilità.
«Mi piace l’idea che comunicare ti costringa a stare fermo in un posto»
dichiarò Tenkamenin. «Ti impone di concedere a ogni conversazione
l’attenzione che merita.»
Ma, dato che erano riservati alle chiamate private di Tenkamenin, quei
telefoni non squillavano mai. Anastasia immaginò che fosse perché la
Suprema Roncola non aveva praticamente vita privata. La sua esistenza era
sempre in vetrina, esposta agli sguardi di tutti.
Il mattino dopo il suo arrivo, Anastasia fu invitata a una riunione con
Tenkamenin, Maestro Baba e Madame Makeda, presenze fisse
dell’entourage della Suprema Roncola, il cui scopo nella vita sembrava
essere quello di fargli da pubblico. Baba possedeva uno spirito caustico e si
divertiva a fare battute che solo Tenka capiva. Makeda pareva provare un
piacere enorme a denigrare Baba.
«Ah! Ecco che arriva la nostra Signora delle Profondità!» esclamò
Tenka. «Si accomodi, prego… abbiamo molto di cui parlare.»
Anastasia si sedette; le offrirono dei piccoli sandwich senza la crosta,
disposti a raggiera su un vassoio. Per la Suprema Roncola la presentazione
aveva una certa importanza.
«Mi pare di capire che la notizia della sua rianimazione si stia
diffondendo rapidamente. Mentre gli alleati di Goddard stanno cercando di
far passare la notizia sotto silenzio, i nostri amici della vecchia guardia
stanno facendo di tutto per divulgarla. Lasceremo che la suspense cresca, in
modo che, quando farà il suo ingresso ufficiale, il mondo intero penderà
dalle sue labbra.»
«In quel caso, bisognerà che abbia qualcosa da dire.»
«Certo» dichiarò Tenka con una tale sicurezza che lei si chiese cosa
avesse in mente. «Siamo venuti a conoscenza di un’informazione che più
incriminante di così non si può.»
«Incriminazione in un mondo senza crimini e nazioni» fece notare Baba.
«Immaginate un po’.»
Tenkamenin rise e Madame Makeda alzò gli occhi al cielo. Poi la
Suprema Roncola si allungò sul tavolo e posò un piccolo origami a forma di
cigno sul piatto vuoto di Anastasia. «Segreti ripiegati su segreti» affermò
con un sorriso. «Mi dica, Anastasia, quanto è brava a frugare nel cervello
primordiale del Thunderhead?»
«Sono molto brava.»
«Bene!» esclamò Tenkamenin. «Quando aprirà il cigno, troverà qualcosa
per iniziare.»
Anastasia si rigirò il cigno tra le dita. «Che cosa devo cercare?»
«È lei che deve aprire la strada. Non le dirò cosa cercare perché, se lo
facessi, non riuscirebbe a vedere cose che potrebbe scoprire grazie al suo
intuito.»
«Le cose che probabilmente noi non abbiamo visto» aggiunse Makeda.
«Abbiamo bisogno di occhi nuovi.»
«E comunque» intervenne Maestro Baba, dando man forte alla Suprema
Roncola e a Madame Makeda, «non basta scoprirlo, deve trovarlo, per
mostrare poi agli altri come fare.»
«Esatto» confermò Tenkamenin. «Una menzogna riuscita non è
alimentata dal bugiardo, ma dalla volontà del suo interlocutore di crederci.
Non si può smascherare una bugia senza prima aver minato la volontà di
crederci. Ecco perché condurre la gente alla verità è molto più efficace che
raccontargliela.»
Le parole della Suprema Roncola aleggiarono nell’aria qualche istante.
Anastasia guardò di nuovo il cigno. Non se la sentiva di rovinarlo
aprendogli le ali delicate.
«Una volta che avrà tratto le sue conclusioni, condivideremo con lei ciò
che sappiamo» dichiarò Tenkamenin. «Le garantisco che la sua escursione
nel cervello primordiale si rivelerà per lei un’esperienza illuminante.»
28
Oscura celebrità

Furono invitati tutti. E, quando l’invito proveniva dalla Somma Roncola,


non era il caso di ignorarlo. In altre parole, lo stadio avrebbe registrato il
tutto esaurito.
Goddard lanciò un appello pubblico a ogni anima sotto la sua sfera di
influenza. Era una cosa rara per una falce, tanto più per una falce potente,
avere a che fare con le persone comuni. I contatti con il resto dell’umanità
si limitavano in genere a pallottole, lame, manganelli e occasionalmente
veleno. Le falci non sentivano il bisogno di parlare alle masse. Non erano
rappresentanti eletti e non erano tenuti a rispondere a nessuno, se non ai
loro pari. Non avevano motivo di conquistare il cuore della gente quando
l’unico scopo della loro vita era di fermarne il battito.
Così, quando la Somma Roncola in persona trasmise l’invito, tutti
prestarono attenzione. Anche se viveva in un grattacielo fortificato,
Goddard dichiarava di essere una falce del popolo, e questo era un modo
per dimostrarlo. Era disposto a condividere il suo successo con la gente
comune. In fin dei conti, la voglia di incontrare le falci più celebri del
continente era più forte della paura che ispiravano. I biglietti andarono
esauriti nel giro di cinque minuti dalla loro disponibilità. Tutti quelli che
non erano riusciti a procurarseli, avrebbero dovuto assistere all’evento da
casa e dal luogo di lavoro.
Quanto ai fortunati che avevano ottenuto un biglietto per l’esecuzione,
sapevano che avrebbero assistito a un avvenimento storico. Avrebbero
potuto raccontare ai loro figli, ai loro nipoti e ai nipoti di secondo e di terzo
grado che loro c’erano il giorno in cui Maestro Lucifero era stato spigolato.
Non temevano Maestro Lucifero come lo temevano le falci, ma lo
disprezzavano, non solo perché gli imputavano l’affondamento di Endura,
ma anche per via del silenzio del Thunderhead e della loro condizione di
loschi. A causa sua, il mondo era stato punito. Lui era diventato, come
Goddard aveva dichiarato, il ricettacolo dell’odio del mondo. Era evidente
che la gente sarebbe affluita in massa per assistere alla sua terribile fine.

I mezzi blindati non esistevano più. La maggior parte dei veicoli era
impenetrabile per natura. Pertanto, per Maestro Lucifero si costruì nel giro
di qualche giorno una camionetta speciale dotata di rivetti in acciaio a vista
e finestrini con le sbarre. Un’autostrada sempre dritta univa Fulcrum City a
Mile High City, dove sarebbe stata eseguita la sua spigolatura. Ma il corteo
di automobili optò per una strada sinuosa che passava per le numerose città
midmericane prima di arrivare a destinazione. Un tragitto che avrebbe
potuto prendere un giorno durò quasi una settimana.
Rowan sapeva che Goddard avrebbe sfruttato la sua esecuzione per fini
pubblicitari, ma non si aspettava un’ostentazione del genere.
Il corteo contava una decina di veicoli. Ufficiali della Suprema Guardia
in motocicletta, limousine di lusso nei colori delle falci che erano a bordo:
tutti precedevano la camionetta blindata scortata da altre guardie
motorizzate, che chiudevano la processione come lo strascico di una sposa.
La Somma Roncola non era presente, anche se la prima limousine era
blu reale e ornata di pietre scintillanti come stelle. Non c’era nessuno a
bordo, ma la folla non lo sapeva. La verità era che Goddard non intendeva
intraprendere un lungo e faticoso viaggio quando poteva benissimo ottenere
lo stesso risultato fingendo di esserci. Non avrebbe dovuto farsi vedere se
non il giorno stesso della spigolatura.
Aveva inviato Costantino al suo posto, incaricandolo di scortare il
temibile Maestro Lucifero verso il suo irreversibile e tragico destino.
Rowan sapeva che l’uomo incaricato di rintracciarlo ed eliminarlo tre
anni prima era Costantino. La veste e la limousine erano dello stesso colore
cremisi della scritta NEMICO PUBBLICO stampigliata sulla fiancata della
camionetta che trasportava Rowan. Si chiese se fosse voluto o se fosse solo
una coincidenza.
Prima di lasciare Fulcrum City, Costantino era andato a trovare Rowan,
ammanettato e chiuso nel mezzo blindato.
“Erano anni che sognavo di metterti gli occhi addosso” aveva dichiarato.
“E ora che ne ho l’occasione, non sono affatto colpito.”
“Grazie” aveva risposto Rowan. “Anch’io ti voglio bene.”
Costantino aveva infilato una mano in una tasca della veste come per
afferrare un coltello, ma poi ci aveva ripensato. “Se potessi spigolarti seduta
stante, lo farei. Ma non vorrei scatenare l’ira della Somma Roncola
Goddard.”
“È comprensibile. Se ti può consolare, preferirei essere spigolato da te
invece che da lui.”
“E perché?”
“Perché per lui la mia morte sarà un atto di vendetta. Per te, sarà il
coronamento di una missione durata tre anni. Preferirei essere una
soddisfazione piuttosto che la vendetta di Goddard.”
Costantino aveva accettato quella risposta senza battere ciglio. Non si
era addolcito, ma non sembrava più sull’orlo di esplodere, esplosione di cui
poi si sarebbe pentito.
“Prima che tu vada incontro alla tua fine ben meritata, vorrei sapere una
cosa: perché lo hai fatto?”
“Perché ho eliminato Maestro Renoir, Fillmore e gli altri?”
Costantino aveva fatto un gesto con la mano, come per scacciare quelle
parole. “No, non mi riferisco a quello. Per quanto condanni la tua follia
omicida verso le falci, è ovvio il motivo per cui hai scelto proprio quelle.
Erano tutte discutibili, e hai deciso di giudicarle, anche se non toccava a te
farlo. Quei crimini sono una ragione sufficiente per spigolarti, ma ciò che
voglio sapere è perché hai ucciso le Grandi Falci. Erano brave persone. E
Senocrate, che era il peggiore di tutti, era un santo in confronto agli altri che
hai eliminato. Che cosa ti ha spinto a compiere un gesto così barbaro?”
Rowan era stufo di negare la sua colpevolezza. A cosa sarebbe servito,
ormai? Così, aveva offerto a Costantino la bugia di cui tutti erano convinti.
“Ce l’avevo con la Compagnia per avermi negato l’anello” aveva
spiegato. “E volevo danneggiarla il più possibile. Volevo che tutte le
Compagnie del mondo pagassero per avermi impedito di diventare una
falce.”
Costantino lo aveva fulminato con lo sguardo. Avrebbe potuto perforare
l’acciaio della camionetta. “Speri che ci creda? Non penso che tu sia così
gretto e meschino.”
“Eppure, devo esserlo” aveva replicato Rowan. “Altrimenti perché avrei
affondato Endura? O forse sono il male incarnato.”
Costantino sapeva che Maestro Lucifero si stava prendendo gioco di lui,
e la cosa non gli piaceva. Se ne era andato, non avendo altro da dirgli del
viaggio. Ma, prima di uscire, si era tolto lo sfizio di dargli una notizia
infausta.
“Ho il piacere di informarti che la tua spigolatura sarà dolorosa” aveva
annunciato, con finta amarezza. “Goddard intende arrostirti vivo.”

Rowan aveva delle catene nuove fiammanti che erano state forgiate proprio
per lui, catene di acciaio che tintinnavano sul fondo della camionetta
quando si muoveva. Erano lunghe a sufficienza per permettergli di
spostarsi, ma pesanti quanto bastava per rendergli difficile qualsiasi
movimento. Era un’esagerazione. Il fatto che avesse un talento particolare a
liberarsi non lo rendeva un esperto nell’arte dell’evasione, come credevano
tutti. Se era evaso in precedenza, era stato perché qualcuno lo aveva aiutato
o per l’incompetenza dei suoi sequestratori. Non avrebbe tagliato le catene
con i denti e buttato giù il portellone di acciaio a calci. Eppure, tutti si
comportavano come se fosse una specie di bestia soprannaturale con poteri
sovrumani. In fondo, forse era quello che Goddard voleva che la gente
pensasse; perché, se la creatura che aveva catturato doveva essere
incatenata e rinchiusa in una scatola di acciaio, allora lui doveva essere un
temibile cacciatore.
In ogni città e centro abitato che attraversavano, la gente usciva a frotte
per guardare il corteo che passava, come se fosse una sfilata per un giorno
di festa. I finestrini con le sbarre erano più larghi del normale e collocati a
diverse altezze e la cabina interna era ben illuminata. Rowan ne comprese
subito il motivo. I finestrini erano posizionati in modo che, ovunque lui si
spostasse, fosse sempre visibile, e l’illuminazione interna garantiva che
nella cabina non calasse mai l’oscurità, né di giorno né di notte.
Mentre il corteo percorreva viali e strade principali, la folla assiepata
lungo i marciapiedi poteva vederlo chiaramente. Di tanto in tanto, Rowan
gettava un’occhiata fuori, mandando in visibilio i curiosi. Lo indicavano, lo
fotografavano, tenevano in braccio i bambini per mostrare loro il giovane
che era diventato un’oscura celebrità. A volte, li salutava con un cenno
della mano, scatenando una raffica di risatine. A volte, li indicava,
spaventandoli, come se, dopo essere stato spigolato, il suo spettro iroso e
irrequieto volesse andare a trovarli in piena notte per perseguitarli.
In tutto questo, continuava a riandare con la mente al tetro annuncio di
Costantino. Al modo in cui sarebbe stato spigolato. La spigolatura con il
fuoco non era stata proibita per legge? Goddard doveva averla riammessa.
O forse l’aveva reintrodotta solo per quell’occasione speciale. Per quanto
Rowan si ripetesse di non aver paura, in realtà mentiva a se stesso. Non era
la spigolatura che temeva, ma il dolore. E di sicuro sarebbe morto fra atroci
sofferenze, perché Goddard avrebbe spento i suoi naniti analgesici per
torturarlo. Avrebbe sofferto come gli eretici e le streghe sui roghi nell’era
dell’ignoranza.
Non temeva la fine della vita. Ci si era rassegnato. Era morto così tante
volte e in così tanti modi che ci aveva fatto l’abitudine. Non la temeva più
del sonno, che spesso era peggiore, perché popolato di incubi. Perlomeno,
la morte annientava i sogni e l’unica differenza tra la morte temporanea e la
morte definitiva era la durata. Forse, come qualcuno credeva, la morte vera,
quella definitiva, trasportava l’anima in un luogo sublime, inconcepibile per
i vivi. Rowan cercava di addolcire così la prospettiva del suo destino.
Cercava di addolcirla anche con il pensiero di Citra. Non aveva più
avuto sue notizie. Non era così stupido da chiedere a Costantino o a chissà
chi altro, perché non sapeva chi fosse a conoscenza del fatto che era ancora
viva. Di sicuro Goddard ne era al corrente: aveva inviato la Suprema
Roncola dell’OvestMerica a catturare entrambi. Ma se Citra era fuggita, il
modo migliore per aiutarla era non parlare di lei in presenza dei loro
nemici.
Visto il destino che lo aspettava, poteva solo sperare che Citra se la
cavasse meglio di lui.
29
L’orso in bella vista

Tre date. Erano tutto ciò che conteneva l’origami. La prima nell’anno della
Lince, la seconda nell’anno del Bisonte e la terza nell’anno dell’Airone.
Tutti anni precedenti alla sua nascita.
Non ci mise molto a capire perché quelle date erano importanti. Fu
facile. Che la gente le conoscesse o meno, esse segnavano avvenimenti che
facevano parte della storia comune. Del resto, quelli erano i resoconti
ufficiali. Le versioni accettate. La storia non si faceva con i resoconti di
prima mano; tutto quello che si sapeva era quello che era permesso
conoscere. Ancora prima di diventare falce, Anastasia aveva visto la
Compagnia manipolare il flusso di informazioni, modellando e definendo la
storia a modo suo. Forse non arrivava al punto di falsificare gli eventi,
perché il Thunderhead imponeva dei limiti, avendo la giurisdizione su fatti
e cifre. La Compagnia, però, aveva un potere non trascurabile, perché
poteva scegliere quali fatti rendere pubblici.
Tuttavia, le informazioni scartate non venivano dimenticate. Restavano
nel cervello primordiale, dove erano accessibili a tutti. Durante il suo
apprendistato, Citra aveva imparato a passare al setaccio il cervello
primordiale, in particolare quando aveva provato a individuare “l’assassino”
di Maestro Faraday. Gli algoritmi del sistema di archiviazione del
Thunderhead funzionavano come il cervello umano: tutto era classificato
per associazioni. Le immagini non erano organizzate per data, ora o località.
Per trovare una falce con la veste avorio all’angolo di una strada, aveva
dovuto passare in rassegna le immagini delle persone agli incroci in tutto il
mondo e poi restringere la ricerca ad altri elementi della scena. Un tipo
particolare di lampione. La lunghezza delle ombre. I suoni e gli odori che
aleggiavano nell’aria, perché il Thunderhead catalogava tutti i dati
sensoriali. Cercare qualcosa nel cervello primordiale era come cercare un
ago in un pagliaio in mezzo a una miriade di pagliai.
C’era voluta una buona dose di ingegno e ispirazione per scoprire i
parametri che consentivano di restringere il campo quasi infinito di
informazioni. All’epoca, sapeva almeno cosa stava cercando, ma ora la
sfida da affrontare era ancora più ardua. Ora conosceva solo le date.
Per cominciare, si informò sui disastri legati a esse. Poi si immerse nel
cervello primordiale per reperire le informazioni e le fonti primarie che
erano state volutamente escluse dagli archivi ufficiali.
Il suo più grande nemico era la mancanza di pazienza. Sentiva che le
risposte erano a portata di mano, ma erano sepolte sotto così tanti strati che
temeva di non riuscire a riportarle in superficie.

Anastasia e Jeri erano arrivati alcuni giorni prima del Giubileo Lunare. A
ogni luna piena, la Suprema Roncola Tenkamenin dava una grande festa che
durava venticinque ore, “perché ventiquattro non erano abbastanza”. Era
previsto ogni tipo di divertimenti, con orde di invitati di professione e buffet
ricchi di pietanze da tutto il mondo per intrattenere gli ospiti.
“Si vesta per l’occasione, ma non indossi la sua veste da falce e stia al
mio fianco con uno o due invitati di professione” le aveva raccomandato
Tenka. “Farà parte della scenografia.”
A Jeri, la Suprema Roncola si era limitato a dire: “Si diverta!”.
Anastasia non avrebbe voluto partecipare per paura di essere
riconosciuta; avrebbe preferito proseguire le sue ricerche nel cervello
primordiale, ma Tenkamenin aveva insistito. “Una pausa le farà solo bene.
Le procurerò una parrucca colorata e vedrà che nessuno capirà chi è.”
All’inizio, Anastasia aveva pensato che fosse irresponsabile e
imprudente suggerirle un semplice travestimento, ma dopotutto gli invitati
non si aspettavano certo di veder apparire a una festa una falce data per
morta ormai da anni, tantomeno una che indossava una parrucca blu
elettrico. Si mescolò tra gli ospiti e nessuno si accorse di nulla.
«Una piccola lezione che può servirle per le sue ricerche» le disse
Tenkamenin. «Ciò che si nasconde restando in bella vista è più difficile da
trovare.»
Tenka era un perfetto padrone di casa. Salutava tutti e dispensava
immunità a destra e a manca. Era sorprendente, addirittura divertente, anche
se Anastasia non gradiva. E la Suprema Roncola si accorse della sua
disapprovazione.
«Pensa che io sia troppo indulgente nei confronti di me stesso?» le
chiese Tenka. «Sono una Suprema Roncola troppo edonista per i suoi
gusti?»
«Goddard dà feste come questa» sottolineò lei.
«Non come questa» ribatté Tenka.
«E anche lui ha una propensione per il lusso eccessivo.»
«Davvero?»
Tenka le fece cenno di avvicinarsi, così che Anastasia potesse sentirlo
meglio in mezzo al clamore della festa. «Dia un’occhiata alle persone che la
circondano e mi dica cosa vede. Anzi, mi dica cosa non vede.»
Anastasia esaminò la scena. Alcuni sguazzavano nella piscina a più
livelli, altri ballavano nelle terrazze. Tutti erano in costume da bagno o in
abiti stravaganti. Alla fine, comprese…
«Non ci sono falci.»
«Nemmeno una! Neppure Makeda e Baba. Tutti gli ospiti sono parenti di
una persona che ho spigolato dall’ultima luna piena. Li invito per celebrare
la vita dei cari che hanno perduto, invece di piangerli, e per concedere loro
un anno di immunità. E, quando i festeggiamenti finiscono e tutti se ne
vanno, mi ritiro nei miei magnifici appartamenti.» Indicò la finestra più
grande della residenza… poi le strizzò l’occhio e spostò il dito verso destra,
finché non indicò più il palazzo, ma un piccolo capanno al limitare della
proprietà.
«Il capanno degli attrezzi?»
«Non è un capanno degli attrezzi. È il posto in cui vivo. Le stanze del
palazzo sono tutte riservate agli ospiti d’onore come lei, ma anche a ospiti
più modesti, che ho bisogno di impressione. Quanto al mio “capanno degli
attrezzi”, come lo ha chiamato, è una riproduzione della casa in cui sono
cresciuto. I miei genitori credono nella semplicità. E, naturalmente, hanno
generato un figlio che ha un debole per le stravaganze. Eppure, mi trovo a
mio agio a passare la notte nella piacevolezza di una dimora umile.»
«I suoi genitori devono essere orgogliosi di lei, ne sono sicura» osservò
Anastasia.
La Suprema Roncola Tenkamenin tirò su col naso a quelle parole. «Non
tanto. Hanno portato la semplicità all’estremo. Ora sono tonisti… non parlo
più con loro da anni.»
«Mi dispiace.»
«Sapeva che i tonisti avevano un profeta?» proseguì Tenka con
amarezza. «È apparso poco dopo che lei sparisse in fondo all’oceano.
Sostenevano che il Thunderhead parlasse ancora con lui.» Abbozzò un
sorriso triste. «Naturalmente, si è fatto spigolare.»
Un cameriere si avvicinò con un vassoio di gamberetti di dimensioni
spropositate, di certo un prodotto degli allevamenti sperimentali del
Thunderhead. Come sempre, il Thunderhead aveva fatto un buon lavoro:
erano davvero deliziosi.
«Come procedono le sue ricerche?» le chiese Tenkamenin.
«Procedono. Ma il Thunderhead associa le cose in modo confuso.
Seleziono un’immagine della colonia di Marte e mi rimanda al disegno di
un bambino che raffigura la luna. Un servizio sulla stazione orbitale Nuova
Speranza mi rinvia all’ordinazione di un pranzo a Bisanzio da parte di una
falce di cui non ho mai sentito parlare. Dante qualcosa.»
«Alighieri?» domandò Tenka.
«Sì, esatto… lo conosce?»
«Lo conosco di nome. Originario di EuroScandia, credo. È scomparso da
un pezzo. Deve essersi autospigolato cinquanta, sessant’anni fa.»
«È come tutti gli altri collegamenti che ho trovato. Non ce n’è uno che
abbia senso.»
«Scavi in ogni tana» le consigliò Tenka. «Perché potrebbe trovarci un
Bianconiglio.»
«Ancora non capisco perché non mi spiega semplicemente che cosa devo
cercare.»
Tenka sospirò e si chinò in avanti per sussurrarle: «Le informazioni che
abbiamo ci sono arrivate da un’altra falce prima che si autospigolasse. Si è
voluta scaricare la coscienza, immagino. A parte questo, non abbiamo prove
concrete e la ricerca nel cervello primordiale è stata infruttuosa. Il problema
è che sappiamo ciò che stiamo cercando. Se il tuo obiettivo è un uomo con
un cappello blu, non vedi la donna con la parrucca blu.» Con un colpetto,
fece ondeggiare uno dei boccoli fluorescenti di Anastasia.
Sebbene fosse contrario a ogni logica, lei dovette ammettere che aveva
un senso. Non aveva visto Tenka andare al “capanno degli attrezzi” ogni
giorno, senza mai sospettare del vero motivo per cui ci andava, accecata
dalle sue supposizioni? Si ricordò di un video dell’era mortale che un
giorno un insegnante aveva mostrato alla classe. L’obiettivo era contare
quante volte i giocatori di una stessa squadra si passavano la palla. Aveva
indovinato la risposta, come quasi tutti i suoi compagni. In compenso,
nessuno aveva notato l’uomo con un costume da orso che danzava in bella
vista al centro dello schermo. A volte, per riuscire a vedere ciò che era in
bella vista, bisognava liberarsi delle proprie convinzioni.

Il mattino seguente, fece un’importante scoperta e corse al cottage della


Suprema Roncola per informarla.
La casa era di una tale modestia che anche Maestro Faraday l’avrebbe
approvata. Trovò Tenka nel bel mezzo di una faccenda. Di fronte a lui
c’erano due uomini, che non sembravano affatto contenti di essere lì. Anzi,
più che scontenti, erano avviliti.
«Entri, amica mia» la accolse Tenka.
«Sapete chi è?» chiese agli altri due ospiti.
«No, eccellenza» risposero loro.
«È la mia fiorista. Riempie il palazzo e la mia casa delle composizioni
floreali più graziose.» Poi, concentrò l’attenzione sul più nervoso dei due:
un uomo sulla quarantina, forse sul punto di ringiovanirsi. «Mi dica qual è il
suo più grande sogno» lo invitò la Suprema Roncola. «Che cosa desidera
fare di più al mondo, ma ancora non ha fatto?»
L’uomo esitò.
«Avanti» insistette Tenkamenin. «Non sia modesto. Mi dica qual è il suo
sogno, in tutto il suo splendore!»
«Vorrei… vorrei una barca a vela» confessò, come un bambino sulle
ginocchia del papà la vigilia di Natale. «Vorrei fare il giro del mondo.»
«Molto bene!» esclamò la Suprema Roncola, battendo le mani una volta,
come per suggellare l’accordo. «Domani andremo a comprare una barca a
vela. Un mio regalo per lei!»
«S-sua E-Eccellenza?» replicò l’uomo, incredulo.
«Potrà esaudire il suo sogno, signore. Per sei mesi. Poi, tornerà qui a
raccontarmi com’è andata. E dopo la spigolerò.»
L’uomo scoppiava di gioia. Malgrado l’annuncio che sarebbe stato
spigolato, era felicissimo. «Grazie, eccellenza! Grazie!»
Quando se ne fu andato, l’altro ospite, un po’ più giovane e meno
impaurito di prima, si voltò a guardare la Suprema Roncola. «E io?» chiese.
«Non vuole sentire il mio sogno?»
«Amico mio, a volte la vita è brutale e ingiusta. La morte anche.»
Tenkamenin descrisse un arco con la mano. Anastasia non vide neppure
la lama, ma in un secondo l’uomo si ritrovò a terra, le mani strette intorno al
collo, a esalare l’ultimo respiro. Era stato spigolato.
«Informerò io stesso la famiglia» disse Tenkamenin. «Saranno invitati al
prossimo Giubileo Lunare.»
Anastasia era sorpresa dalla piega che aveva preso la situazione, ma non
sconvolta. Ogni falce aveva il proprio metodo. Esaudire il sogno di uno e
negarlo a un altro era un sistema come un altro. Aveva visto buone falci fare
ben di peggio.
Gli addetti alle pulizie uscirono da un’altra stanza e Tenka accompagnò
Anastasia fuori in terrazza, dove li attendeva la colazione.
«Sa che lei mi ha ispirato?» le disse.
«Io?»
«Con il suo esempio. Consentire alle persone di scegliere il loro metodo
di spigolatura e avvisarle in anticipo… Non si era mai sentito! Che idea
brillante! Ci manca una tale compassione, siamo concentrati solo
sull’efficienza. Sul portare a termine il lavoro. Dopo l’affondamento di
Endura, per renderle onore, ho deciso di cambiare il mio stile di spigolatura.
Ho iniziato a permettere a metà dei miei spigolati di esaudire prima il loro
desiderio.»
«Perché solo a metà di loro?»
«Perché, se vogliamo davvero riprodurla com’era un tempo, la morte
deve presentarsi in modo imprevisto e capriccioso. Non la si può addolcire
troppo.»
Tenka riempì un piatto di uova e banane fritte e lo mise davanti ad
Anastasia prima di preparare il piatto per sé. “Che strano” pensò lei, “che la
morte sia diventata così banale ai nostri occhi da essere capaci di fare
colazione un istante dopo aver tolto la vita a un individuo.”
Tenka prese un boccone di pane di tapioca e ricominciò a parlare con la
bocca piena. «Non ha spigolato nemmeno una volta da quando è qui. È
comprensibile, date le circostanze, ma deve averne una gran voglia.»
Capì ciò che intendeva. L’atto della spigolatura era appagante solo per le
falci del nuovo ordine, ma le altre provavano un bisogno vago e persistente
se passava troppo tempo tra una spigolatura e la successiva. Anastasia non
poteva negare che valeva anche per lei. Pensò che fosse il modo con cui la
mente si adattava al ruolo di falce.
«Le ricerche che sto conducendo nel cervello primordiale sono più
importanti delle spigolature. E credo di aver trovato qualcosa.»
Lo informò della sua scoperta. Un nome. Carson Lusk. Non era chissà
che, ma rappresentava un buon punto di partenza. «È nella lista dei
superstiti, però non si trovano più informazioni su di lui da quella data.
Certo, potrebbe essere un errore, potrebbe anche essere morto con gli altri.»
Tenka fece un gran sorriso. «Il Thunderhead non commette errori» le
ricordò. «È una valida pista. Continui a scavare!»
Lanciò un’occhiata al piatto di Anastasia, poi le servì ancora banane
fritte come una madre preoccupata che la figlia non mangi a sufficienza.
«Ci piacerebbe che cominciasse a trasmettere messaggi in diretta. Piuttosto
che lasciare a noi il compito di annunciare al resto del mondo che è tornata
nel regno dei vivi, crediamo che debba farlo lei. Madame Anastasia, dalla
sua stessa voce.»
«Non… non sono una grande attrice» rispose, ripensando alla sua
pessima esibizione nel Giulio Cesare. Era entrata in scena solo per
spigolare il primo attore, nel modo che lui aveva scelto, ma aveva dovuto
comunque interpretare la parte di un senatore romano. Era stata penosa,
tranne quando aveva dovuto pugnalarlo.
«Ha parlato con il cuore in mano quando ha presentato domanda per
l’inchiesta alle Grandi Falci?» chiese Tenka.
«Sì…»
«E il nostro amico Maestro Possuelo mi dice che, malgrado ciò che il
mondo crede, lei le ha convinte a nominare Madame Curie Suprema
Roncola della MidMerica.»
Ad Anastasia sfuggì una smorfia involontaria a sentire il nome di
Madame Curie. «Sì, è vero.»
«Bene, se è stata in grado di chiedere l’apertura di un’inchiesta davanti
ai sette Seggi delle Riflessione e di perorare la causa di Madame Curie di
fronte all’elegia di falci più spaventose del mondo, allora credo che se la
caverà alla grande.»

Quel pomeriggio, Tenkamenin la portò a visitare la città di cui era così


orgoglioso. Port Remembrance scoppiava di vita. Ma la Suprema Roncola
non voleva che Anastasia scendesse dalla macchina. «Il Giubileo è diverso.
È un ambiente controllato. Qui, non si sa chi potrebbe vederla e
riconoscerla.» In realtà, aveva un altro motivo per tenerla nascosta.
Mentre si avvicinavano al centro della città, incrociarono dei tonisti.
All’inizio, erano pochi, ma poi aumentarono e ben presto cominciarono a
radunarsi ai lati della strada, fissando l’auto della Suprema Roncola.
Anastasia provava per loro sentimenti contrastanti. I più moderati erano
inoffensivi. Amichevoli e spesso gentili, benché ostinati e insistenti nel
sostenere le loro credenze. Altri, al contrario, erano insopportabili. Sempre
pronti a criticare, intolleranti; in sostanza, l’opposto di ciò che predicava il
tonismo. I Sibilanti erano i peggiori; al loro confronto i fanatici erano degli
agnellini. Ed erano i Sibilanti che avevano preso piede nella regione di
Tenkamenin.
«Da quando il Rintocco è stato spigolato, quei gruppi dissidenti si sono
radicalizzati» le spiegò la Suprema Roncola. Come per dimostrare che
aveva ragione, la folla che si era riunita ai lati della strada cominciò a
lanciare sassi.
Anastasia soffocò un grido quando la prima pietra colpì la macchina;
Tenkamenin, invece, restò impassibile. «Non si preoccupi, non possono fare
alcun danno, e lo sanno. Mi dispiace che debba assistere a questo.»
Un’altra pietra centrò il parabrezza, si spezzò in due e rimbalzò.
Poi, all’improvviso, tutti gli aggressori smisero di lanciare sassi e presero
a canticchiare, intonando un lamento simile a un ronzio senza parole… era
molto diverso da quello che aveva sentito da altri tonisti.
Tenkamenin ordinò alla macchina di mettere della musica, ma non bastò
a sovrastare il ronzio.
«Questa setta ha fatto voto di silenzio» le disse, senza nascondere il
disgusto. «Non parlano, si limitano a emettere questo suono orribile. Il
Thunderhead non ha mai visto di buon occhio la delinguinazione ma, da
quando non comunica più, questi tonisti hanno deciso che potevano fare
come volevano, e il loro ronzio è diventato ancora più abominevole del
solito.»
«Delinguinazione?» chiese Anastasia.
«Mi scusi» rispose Tenkamenin. «Pensavo sapesse. Si sono mozzati la
lingua.»
Jeri non era stato invitato a visitare Port Remembrance. Mentre il suo
equipaggio si godeva un permesso prolungato dopo anni, il comandante
restò nella residenza di Tenkamenin, per vigilare su Anastasia, per
assicurarsi che venisse trattata bene e che fosse al sicuro. Jeri non era mai
stato un tipo egoista. Aveva sempre anteposto l’equipaggio della Spence a
se stesso, da buon comandante. Il desiderio di prendersi cura di Anastasia
andava oltre quelle considerazioni.
Tenkamenin era un uomo negligente. Certo, aveva offerto protezione ad
Anastasia, ma i suoi dipendenti erano degni di fiducia? E il fatto che avesse
quasi esibito Anastasia al Giubileo Lunare gli parve strano. Si chiese se la
Suprema Roncola avesse un minimo di buonsenso. Non si fidava di lui e
sapeva che il sentimento era reciproco.
Poi, c’era stato il pomeriggio “sibilante” di Anastasia a Port
Remembrance. Lei si era sfogata con Jeri quando era rientrata, sconvolta da
quello che aveva visto.
“Ogni giorno, è come se prendessi una bastonata in testa, a vedere come
il mondo è cambiato mentre non c’ero” aveva commentato la falce.
“Il mondo è sopravvissuto a cose peggiori” aveva replicato Jeri, mentre
lei camminava senza sosta avanti e indietro. “Siamo sopravvissuti all’era
mortale… che cosa ci può essere di più orribile?”
Quella considerazione non la consolava affatto. “Sì, ma senza le Grandi
Falci, le Compagnie sono praticamente in guerra tra loro, come se fossimo
ancora nell’era mortale. Dove stiamo andando?”
“Verso cataclismi” aveva detto Jeri, pragmatico. “Le montagne nascono
dai cataclismi. Mi rendo conto che al momento non è bello da vedere.”
Anastasia si era incupita ancora di più. “Come fa a restare così calmo? E
Tenkamenin è peggio di lei! Accetta tutto come se niente fosse. Come se si
trattasse di un acquazzone passeggero, invece di un uragano che lascerà
solo distruzione dietro di sé! Perché la gente è così cieca?”
Jeri aveva sospirato e aveva posato la mano sulla spalla della falce,
obbligandola a fermarsi. “È per questo motivo che qui c’è bisogno di me”
aveva pensato. “Devo essere la seconda voce nella sua testa, che calmerà
quella che è nel panico.”
“In ogni catastrofe c’è un’opportunità” le aveva detto. “Una nave
affonda, ed è lì che mi sale l’adrenalina. Perché so che ci sono sempre tesori
nel relitto. Guardi che cosa ho trovato in fondo all’oceano. Ho trovato lei.”
“E quattrocentomila diamanti delle falci” aveva sottolineato Anastasia.
“Quello che voglio dire è che deve considerarla come una missione di
recupero. La prima mossa è valutare attentamente la situazione prima di
prendere qualsiasi iniziativa.”
“Così dovrei restare a guardare senza fare nulla?”
“Osservi, acquisisca il maggior numero di informazioni, e poi, quando
dovrà passare all’azione, lo faccia con decisione. E io so che, quando
arriverà il momento, sarà pronta.”

La Suprema Roncola Tenkamenin insisteva a organizzare cene formali ogni


sera. Le falci che facevano parte del suo entourage dovevano essere
presenti, oltre ai suoi ospiti d’onore. E, da quando erano arrivati Anastasia e
Jeri, Tenkamenin si preoccupava che non ce ne fossero. Un conto era dare
una festa per pochi intimi, un altro era esporre Madame Anastasia a sguardi
indagatori durante la cena.
Quando Jeri si unì a loro quella sera, Anastasia era già a tavola con la
Suprema Roncola, Maestro Baba e Madame Makeda. Tenkamenin rideva a
crepapelle per una cosa che qualcuno aveva detto o, più probabilmente, per
qualcosa che lui stesso aveva detto. Anastasia apprezzava la compagnia di
quell’uomo, mentre Jeri non lo sopportava più già dopo il primo giorno.
«Ha perso la prima portata» lo informò Tenkamenin. «Non c’è più
minestra per lei.»
Jeri si sedette accanto ad Anastasia. «Sopravviverò.»
«Le regole della casa impongono la puntualità a cena» gli ricordò la
Suprema Roncola. «È una questione di buona educazione.»
«È la prima volta che arriva in ritardo» intervenne Anastasia.
«Non si prenda la pena di difendermi» le disse Jeri, poi si voltò a
guardare la Suprema Roncola. «Mi stavano aggiornando sulle operazioni in
corso sul sito di Endura, se vuole saperlo. Hanno ritrovato la sala del
Consiglio; i Seggi della Riflessione delle Grandi Falci verranno inviati ai
rispettivi continenti per farne dei monumenti. Penso che sia un po’ più
importante della minestra.»
Tenkamenin non rispose ma, cinque minuti dopo, stuzzicò di nuovo il
suo ospite. «Mi dica, Jerico, il suo equipaggio come giudica l’assenza del
comandante?»
Jeri non abboccò alla provocazione. «Approfitta del permesso per
visitare la sua città.»
«Capisco. E come fa a sapere che i suoi uomini non stanno prendendo
accordi senza di lei? Accordi che potrebbero compromettere la sicurezza
della nostra cara signora delle profondità?» chiese, usando il soprannome
che aveva dato ad Anastasia.
«Non calunni il mio equipaggio, eccellenza. Sono marinai leali. Potrebbe
dire lo stesso della gente di cui si circonda?»
Quelle parole punsero sul vivo la Suprema Roncola, che però non prese
le difese del suo entourage. Preferì cambiare discorso. «Qual è la sua
ambizione nella vita, comandante?»
«È una domanda molto vaga.»
«Allora, provo a riformularla. Mi dica qual è il suo più grande sogno,
Jerico. Che cosa vorrebbe fare di più al mondo, ma ancora non ha fatto?»
Anastasia fece cadere le posate con un gesto brusco, scheggiando il
piatto, e si alzò. «Non ho più appetito. E anche lei» disse, afferrando Jeri
per la mano. E, con quelle parole, si affrettò a lasciare la sala, trascinando il
comandante con sé.
Tenkamenin scoppiò a ridere. «Era solo una battuta, Anastasia. Lo sa che
mi piace scherzare!»
Anastasia si voltò e lo fulminò con lo sguardo. «Lei è un perfetto
imbecille, eccellenza.»
E, per tutta risposta, la Suprema Roncola rise più forte.

Jeri non era del tutto sicuro di aver capito la battuta. Quando raggiunsero gli
appartamenti di Anastasia, lei chiuse la porta.
«È la domanda che fa quando sta per spigolare» gli spiegò.
«Ah! L’ha fatto per provocarla, e ci è riuscito. La Suprema Roncola si
diverte a toccare le corde sensibili delle persone e conosce benissimo le
sue.»
«Non teme che possa farlo davvero?»
«Affatto» replicò Jeri. «Perché, anche se si diverte a stuzzicarla, non
vuole contrariarla. Se mi spigola, sa che diventerà suo nemico.»
Anastasia gli tese la mano. La mano dell’anello. Un nuovo anello, non
quello che Maestro Possuelo aveva lanciato in mare per evitare che lo
usassero per rintracciarla, semmai ci fosse una falce che capisse la loro
tecnologia. Lui gliene aveva dato un altro, pescandolo tra quelli che
avevano recuperato dalla camera blindata.
«Lo baci» lo incitò Anastasia. «Per sicurezza.»
Jeri le prese la mano e la baciò, senza sfiorare l’anello.
D’istinto, Anastasia si ritrasse. «Intendevo l’anello!» Gli porse di nuovo
la mano. «Faccia come le ho detto, stavolta.»
«Mi rifiuto» replicò Jeri.
«Se le concedo l’immunità, nessun potrà spigolarla per un anno. Lo
faccia!»
Jeri non si mosse. Lei lo guardava senza capire. «Quando ho trovato la
Camera delle Reliquie e dei Futuri, Possuelo mi ha offerto l’immunità, ma
anche in quel caso ho rifiutato» le spiegò.
«Perché? Per quale motivo?»
«Non voglio essere in debito con nessuno. Nemmeno con lei.»
Anastasia gli voltò le spalle e andò alla finestra. «Là fuori accadono cose
che preferirei ignorare… ma che devo sapere. Devo sapere tutto il
possibile.» Si girò di nuovo verso Jeri. «Ha notizie di Rowan?»
Jeri avrebbe potuto risponderle che non ne aveva, ma sarebbe stata una
bugia, e Jeri non avrebbe mentito ad Anastasia. Si era instaurato un vero
legame di fiducia tra loro e non voleva rischiare di comprometterlo. Rimase
in silenzio per qualche istante. La falce insistette.
«So che Tenkamenin fa di tutto perché non mi arrivi nessuna notizia. Lei
è stato in contatto con il suo equipaggio, deve aver saputo qualcosa.»
Jeri sospirò, ma solo per prepararla alla risposta. «Sì, ho avuto notizie.
Però non posso rivelarle nulla, dovesse anche supplicarmi.»
Una serie di emozioni la attraversò. Nel giro di pochi secondi le si
disegnarono sul viso tutte le fasi dell’elaborazione del lutto. Rifiuto, rabbia,
rielaborazione razionale, tristezza e infine accettazione.
«Non vuole parlare perché non c’è nulla che io possa fare» ipotizzò,
immaginando i motivi che le avrebbe fornito. «E perché mi distrarrebbe dal
mio obiettivo.»
«Mi detesta per questo?» chiese Jeri.
«Potrei dirle di sì, solo per ripicca. No, Jeri, non gliene voglio. Ma…
posso almeno sapere se è ancora vivo?»
«Sì. Sì, è ancora vivo. Spero che questa risposta possa portarle un po’ di
conforto.»
«E sarà vivo domani?»
«Nemmeno il Thunderhead sa prevedere cosa accadrà domani.
Accontentiamoci dell’oggi.»
30
Offerta sacrificale

«Ciao, Tyger.»
«Ciao» rispose la ricostruzione mentale di Tyger Salazar. «Ci
conosciamo?»
«Sì e no» rispose Madame Rand. «Sono venuta ad annunciarti che
Maestro Lucifero è stato catturato.»
«Maestro Lucifero… non è quello che uccide le altre falci?»
«Sì. E tu lo conosci.»
«Non credo» replicò la ricostruzione mentale. «Conosco delle persone
un po’ perverse, ma non fino a quel punto.»
«È il tuo amico Rowan Damisch.»
L’ologramma rimase in silenzio, poi rise. «Bella mossa. È stato Rowan a
chiederti di farmi questo scherzo? Rowan!» chiamò. «Dove ti nascondi?
Vieni fuori.»
«Non è qui.»
«Non provare a dirmi che va in giro a uccidere la gente. Non è mai
riuscito a diventare falce, l’hanno cacciato a pedate e hanno dato l’anello a
quella ragazza.»
«Sarà giustiziato domani.»
La ricostruzione mentale esitò, corrugando la fronte. Erano dei veri
capolavori di programmazione, quegli ologrammi. Le memorie di sintesi
compilavano i ricordi di ogni espressione facciale mai registrata dal
soggetto. A volte, la rappresentazione era talmente reale da essere
inquietante.
«Stai scherzando, vero? Be’, non puoi permetterlo! Devi fermarli!»
«Non è di mia competenza.»
«Allora, fai in modo che lo sia! Conosco Rowan meglio di chiunque
altro. Se ha fatto ciò che dici, doveva avere una buona ragione. Non potete
spigolarlo!» Poi, la ricostruzione mentale cominciò a guardarsi intorno,
come se si rendesse conto di trovarsi in un universo ristretto. Una scatola
virtuale da cui voleva evadere. «È sbagliato! Non potete farlo!»
«Che ne sai tu di cosa è giusto e di cosa è sbagliato?» sbottò Rand. «Non
sei altro che un festaiolo senza cervello!»
L’ologramma la fulminò con lo sguardo. La quantità di micropixel rossi
del viso aumentò. «Ti odio. Chiunque tu sia, ti odio.»
Madame Rand premette un pulsante e mise fine alla conversazione. La
ricostruzione mentale di Tyger svanì. Come sempre, non avrebbe ricordato
quella discussione. Come sempre, Ayn se ne sarebbe ricordata.

«Se vuoi spigolarlo, perché non lo fai e basta?» chiese Madame Rand a
Goddard, cercando di nascondere la contrarietà che provava. Aveva molte
ragioni per non poterne più. Innanzitutto, lo stadio era un luogo difficile da
mettere in sicurezza e proteggere dai nemici, e di nemici ne avevano. Non
solo le falci della vecchia guardia, ma anche i tonisti, le Compagnie che
avevano voltato le spalle a Goddard, i parenti delle vittime delle spigolature
di massa.
Erano soltanto loro due a bordo dell’aereo privato di Goddard. Ora che il
corteo di auto si stava avvicinando alla meta dopo quasi una settimana di
marcia trionfale, lui e Rand erano in volo per raggiungerlo, un volo tanto
breve quanto il viaggio di Rowan Damisch era stato lungo. Come il suo
chalet sul tetto, il velivolo era dotato di armi dell’era mortale. Una serie di
missili sistemati sotto le ali. Goddard si divertiva a sorvolare a bassa quota
le comunità che non si erano sottomesse, per intimidirle. Non usava mai i
missili per spigolare ma, come i cannoni installati sul tetto, erano un monito
che gli serviva per ricordare al mondo intero che, se avesse voluto, lo
avrebbe fatto.
«Se ci tieni tanto a dare una dimostrazione pubblica» gli suggerì Ayn,
«fa’ in modo che la spigolatura avvenga in condizioni più sicure. Basterà
trasmettere il filmato da una località ignota. Perché vuoi trasformare in
spettacolo ogni cosa?»
«Perché gli spettacoli mi piacciono, ed è un motivo sufficiente.»
In realtà, il motivo era un altro. Goddard voleva che il mondo sapesse
che era stato proprio lui a catturare e giustiziare il nemico pubblico numero
uno dell’era post mortale. Non solo per ridare lustro alla sua immagine agli
occhi della gente comune, ma anche per guadagnarsi l’ammirazione delle
falci che non si erano ancora schierate dalla sua parte. Qualsiasi cosa la
Somma Roncola facesse era frutto della sua strategia o della sua
impulsività. Quell’avvenimento era strategico. Se avesse trasformato la
spigolatura di Rowan Damisch in un’attrazione, nessuno avrebbe potuto far
finta di nulla.
«Sono arrivate più di mille falci da ogni parte del mondo per assistere
all’esecuzione» le ricordò Goddard. «Vogliono uno spettacolo e io glielo
darò. Chi siamo noi per negare loro questo momento catartico?»
Rand non riusciva a capire il senso di quelle parole e in fondo non le
importava. Goddard si esprimeva spesso con un linguaggio incomprensibile
e altisonante, e lei aveva imparato a ignorarlo.
«Esistono modi migliori per gestire la cosa» ribatté.
L’espressione di Goddard si inasprì. Incontrarono delle turbolenze e
forse Goddard credette che fosse stato il suo umore a provocarle. «Stai
cercando di insegnarmi come fare il mio lavoro di falce o, peggio ancora,
come svolgere il mio ruolo di Somma Roncola?»
«Come potrei insegnarti a svolgere un ruolo che neppure esisteva prima
che tu lo inventassi?»
«Sta’ attenta, Ayn» la ammonì. «Non mi fare arrabbiare in un momento
in cui dovrei essere solo felice.» Attese che le sue parole andassero a segno,
poi si appoggiò allo schienale della poltrona. «Pensavo che tu, più di tutti
gli altri, avresti gioito nel vedere Rowan soffrire dopo quello che ti ha fatto.
Ti ha spezzato la schiena e ti ha lasciato per terra a morire, e tu vorresti che
la sua spigolatura passasse inosservata?»
«Desidero quanto te che sia giustiziato. Ma la spigolatura non deve
essere un divertimento.»
Al che Goddard replicò sfoderando un sorriso irritante: «Per me lo è».

Maestro Lucifero si era sempre preoccupato che le sue vittime non


soffrissero. Le spigolava con rapidità e ne bruciava i corpi solo dopo che
erano morte, per impedire che venissero rianimate. Non era sorpreso che a
Goddard mancasse quella compassione. Avrebbe protratto la sua agonia per
ottenere il massimo effetto.
Rowan era coraggioso, ma c’era un limite a ciò che poteva sopportare.
Mentre il corteo lo conduceva verso il suo triste destino, dovette ammettere
che non voleva morire. E, nonostante se ne fregasse di come la storia lo
avrebbe ricordato, era preoccupato per come lo avrebbe fatto la sua
famiglia. La madre, i suoi numerosi fratelli e le sue numerose sorelle,
dovevano aver già saputo che lui era Maestro Lucifero perché, dato che
l’avevano accusato dell’affondamento di Endura, era diventato tristemente
celebre. La folla che si accalcava lungo la strada per poter vedere sfilare il
corteo ne era la prova.
Anche i suoi parenti sarebbero stati tra il pubblico? O lo avrebbero
guardato da casa? Si chiese quale fosse stato il destino delle famiglie dei
criminali famosi nell’era mortale… perché non c’era mai stato un
equivalente di Maestro Lucifero nell’era post mortale. La sua famiglia
sarebbe stata condannata per associazione e spigolata, se fosse vissuta a
quel tempo? Il padre, che era stato spigolato prima della caduta di Endura,
non aveva saputo ciò che il figlio era diventato, né quanto fosse odiato dal
mondo. Era una magra consolazione. Ma se la madre e i fratelli erano
ancora vivi, di sicuro lo disprezzavano. Come avrebbero potuto non farlo?
Quella consapevolezza fu più deprimente di qualsiasi altra cosa.
Aveva avuto tutto il tempo di restare solo con i suoi pensieri durante il
tragitto del corteo. I suoi pensieri non erano suoi amici, almeno non lo
erano più, perché gli ricordavano le scelte che aveva fatto e che lo avevano
portato fino a quel punto. Ciò che un tempo gli era sembrato giustificabile,
ora gli pareva dissennato. Ciò che un tempo gli era sembrato audace, ora gli
appariva deprecabile.
Avrebbe potuto essere tutto diverso. Sarebbe potuto sparire come
Maestro Faraday, quando ne aveva avuto l’occasione. Dov’era finito
Faraday, adesso? Avrebbe seguito anche lui la sua esecuzione? Avrebbe
pianto? Sarebbe stato bello se qualcuno avesse pianto per lui. Citra lo
avrebbe fatto, ovunque fosse. Quello gli sarebbe bastato.

La spigolatura era fissata per le 19, ma il pubblico era arrivato in anticipo.


Tra la folla erano presenti falci e comuni cittadini e, benché le prime
avessero un ingresso speciale, Goddard le aveva incoraggiate a sedersi tra la
plebe.
«È un’occasione d’oro per ridare lustro all’immagine della Compagnia»
spiegò loro Goddard. «Sorridete e siate simpatiche. Ascoltate con
attenzione le loro stupidaggini e fingete di essere interessate, e magari
concedete anche qualche immunità.» Molte seguirono le istruzioni; alcune
non ci riuscirono e si sedettero tra le falci.
Rowan, scortato da un cospicuo drappello di guardie, fu condotto
direttamente verso un podio allestito al centro dello stadio. La pira che
avevano preparato per lui era una piramide di tre piani, formata da una
catasta di rami, legname di ogni tipo che pareva essere stato
ammonticchiato a caso. Ma, a ben guardare, ci si accorgeva che si trattava
di un congegno molto elaborato. I rami, infatti, erano inchiodati gli uni agli
altri; la pira poggiava su un’enorme piattaforma su ruote, come se fosse un
carro da parata. Dalla cavità al centro si innalzava una colonna di pietra a
cui Rowan fu legato con corde ignifughe. La colonna era fissata su un
montacarichi che avrebbe sollevato Rowan in cima alla piramide,
rendendolo visibile alla folla al momento giusto. Goddard stesso avrebbe
dato fuoco alla pira.
«Questo prodigio non è una normale pira!» spiegò il tecnico, intento ad
armeggiare con i naniti analgesici di Rowan. «Ho fatto parte della squadra
che l’ha costruita! Abbiamo usato quattro tipi di legno. Frassino per una
fiamma uniforme, arancio degli Osagi per il calore, sorbo selvatico,
chiamato anche “rowan”… be’, per ovvi motivi, e pino nodoso per il
crepitio!»
Il tecnico controllò lo schermo, il quale gli confermò che i naniti di
Rowan erano stati spenti. Poi, riprese a spiegare le meraviglie di
quell’aggeggio mortifero, come un bambino in una mostra scientifica.
«Oh, le piacerà! I rami in basso sono stati trattati con sali di potassio per
ottenere fiamme viola… mentre, più in alto, sono stati trattati con cloruro di
calcio per avere fiamme blu, e così via, per riprodurre tutti i colori dello
spettro!» Poi, indicò la veste nera che le guardie avevano fatto infilare a
Rowan a forza. «E quella veste è impregnata di cloruro di stronzio per
rilasciare fiamme rosso sangue. Sarà molto più spettacolare dei fuochi
d’artificio di capodanno!»
«Accidenti, grazie» rispose Rowan, in tono piatto. «Peccato che non
potrò vederlo.»
«Oh, lo vedrà» replicò con gioia il tecnico. «Nella base abbiamo inserito
un aspiratore che risucchierà tutto il fumo per permettere a tutti di vedere
bene… anche a lei!» Tirò fuori un panno marrone. «È un bavaglio in
nitrocellulosa. Brucia in fretta, si incenerisce appena viene esposto al
calore.» Poi, smise di parlare, rendendosi conto che forse Rowan non aveva
né bisogno né voglia di sapere quelle cose. Un bavaglio che bruciava
all’istante per far sentire al pubblico le sue urla non era il tipo di accessorio
che suscitava il suo entusiasmo. Rowan era sollevato che non gli avessero
offerto l’ultimo pasto; era talmente nauseato che lo avrebbe vomitato.
Madame Rand si fece strada tra l’intrico di rami ed emerse alle spalle del
tecnico. Rowan preferiva vedere lei piuttosto che continuare ad ascoltare la
descrizione dettagliata del suo incenerimento dalla voce del tecnico.
«Non sei pagato per parlare» lo riprese Rand.
Il tecnico si ritrasse all’istante, come un cucciolo che era stato sgridato.
«Sì, eccellenza. Mi scusi, eccellenza.»
«Dammi il bavaglio e sparisci.»
«Sì, Madame Rand. Mi scusi ancora. Comunque, è pronto per andare» la
rassicurò, alzando il pollice. La falce gli strappò il bavaglio dalle mani e lui
indietreggiò a spalle chine.
«Quanto manca?» le chiese Rowan.
«Sta per iniziare. Qualche discorso e poi tocca a te.»
Rowan si rese conto di non essere proprio in vena di scherzare con lei.
Non aveva più voglia di mostrarsi indifferente. «Guarderai o girerai la testa
da un’altra parte?» Non sapeva perché, ma gli importava.
Rand non rispose alla domanda. «Non mi dispiace vederti morire,
Rowan. Però mi disturba il modo in cui succederà. Francamente, spero che
finisca in fretta.»
«Anch’io. Non so ancora se avrei preferito ignorare cosa sta per
avvenire.» Rimase in silenzio per qualche istante. Poi le chiese: «Tyger lo
sapeva?».
Lei indietreggiò di un passo. «I tuoi giochetti non funzionano più con
me, Rowan.»
«Non sto giocando» replicò con sincerità. «Voglio solo che mi racconti
com’è andata. Gli hai detto che cosa gli sarebbe accaduto prima di privarlo
del corpo? Ha avuto almeno il tempo di fare pace con se stesso?»
«No. Non ha mai avuto il minimo sospetto. Pensava che di lì a poco
sarebbe stato ordinato falce. Poi, l’abbiamo addormentato. Fine della
storia.»
Rowan annuì. «Come morire nel sonno.»
«Cosa?»
«Così dicono che desiderassero morire tutti i mortali. Nel sonno, in pace,
senza neppure saperlo. È comprensibile, dopotutto.»
Rowan immaginò di aver parlato troppo, perché Rand gli mise il
bavaglio e glielo strinse.
«Quando le fiamme ti raggiungeranno, cerca di respirare il fumo. Finirà
prima, così.»
Rand se ne andò senza nemmeno voltarsi per un ultimo sguardo.

Ayn non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Rowan Damisch.


L’aveva già visto imprigionato, immobilizzato, legato, ammanettato,
costretto in tutti i modi possibili. Ma quella volta era diverso. Non ostentava
né audacia né arroganza: era rassegnato. Non assomigliava affatto alla
fredda macchina assassina in cui Goddard lo aveva trasformato. Appariva
esattamente per ciò che era: un ragazzo spaventato che si era ritrovato in
una situazione più grande di lui.
“Be’, ben gli sta” pensò Ayn, cercando di scacciare quel pensiero. “Chi
semina vento raccoglie tempesta. Non era quello che dicevano i mortali?”
Mentre attraversava il campo, una folata di vento spazzò lo stadio,
facendole svolazzare la veste. Le tribune erano tutte occupate. Più di mille
falci e trentamila cittadini. Stadio pieno.
Rand si sedette accanto a Goddard e ai suoi assistenti. Costantino non si
sarebbe perso la spigolatura di Rowan Damisch, ma non aveva l’aria di
esserne tanto contento, così come non lo era Ayn.
«Ti diverti, Costantino?» chiese Goddard, con il chiaro intento di
provocarlo.
«Riconosco l’importanza di un evento capace di radunare un simile
pubblico e presentare l’immagine di un NordMerica unito. È una strategia
forte che segnerà una svolta nelle questioni delle falci.»
Era lusinghiero, ma aveva girato intorno alla domanda, dando una
risposta neutra e diplomatica. Goddard lesse tra le righe, Ayn non ne
dubitava, e colse la contrarietà di Costantino.
«Non si può dire che tu non sia costante» replicò Goddard. «Costantino
il Costante. Credo che sarà così che la storia ti ricorderà.»
«Esistono epiteti peggiori» commentò lui.
«Hai almeno inviato un invito personale ai nostri “amici” in Texas?»
chiese la Somma Roncola.
«Sì. Non hanno risposto.»
«Non mi aspettavo che lo facessero. Peccato… Mi sarebbe piaciuto che
vedessero la famiglia da cui hanno deciso di escludersi.»
Il programma della serata prevedeva il discorso di quattro Supreme
Roncole nordmericane: ciascun discorso affrontava un argomento preciso
scelto da Goddard.
La Suprema Roncola Hammerstein dell’EstMerica avrebbe pianto le
numerose anime che avevano perso la vita su Endura e le altre sfortunate
falci eliminate con tanta brutalità da Maestro Lucifero.
La Suprema Roncola Pickford dell’OvestMerica avrebbe parlato
dell’unità del NordMerica e vantato i meriti dell’alleanza delle cinque
Compagnie nordmericane sulle sei esistenti nel continente.
La Suprema Roncola Tizoc di Mexiteca avrebbe ricordato l’era mortale,
sottolineando i progressi del mondo moderno, e avrebbe fatto aleggiare sul
pubblico la velata minaccia di un ritorno all’epoca barbara se le altre
Compagnie non si fossero schierate con Goddard.
La Suprema Roncola MacPhail del Grande Nord avrebbe ringraziato chi
aveva reso possibile quell’avvenimento. Avrebbe anche citato alcune
persone del pubblico, falci e gente comune, per attirarsi il loro favore.
Infine, Goddard si sarebbe esibito in un discorso confezionato ad arte
prima di dare alle fiamme la pira.
“Non è solo la spigolatura di un nemico pubblico” aveva detto ad Ayn e
ai suoi assistenti. «È una bottiglia di champagne che viene rotta contro lo
scafo di una nave. Sarà il battesimo di una nuova era per la razza umana.”
Era come se ci vedesse una dimensione religiosa. Un’offerta sacrificale per
purificare il cammino e placare gli dèi.

Per Goddard, quella giornata era epocale, come quella in cui si era
presentato al conclave quando tutti lo credevano morto e aveva accettato la
candidatura a Suprema Roncola. Anzi, anche più epocale, per la portata
degli effetti che lasciava intravedere. L’evento, trasmesso in diretta, avrebbe
raggiunto miliardi di persone, non solo le falci riunite nello stadio. Le
ripercussioni di quella serata si sarebbero sentite per molto, molto tempo. E
le Compagnie che non si erano ancora piegate a lui non avrebbero avuto
altra scelta che schierarsi dalla sua parte.
Il sostegno stava crescendo rapidamente ora che Goddard concentrava le
sue spigolature sui gruppi emarginati della società. I comuni cittadini non
amavano molto i reietti e, finché non ne facevano parte, non temevano di
essere spigolati. Era evidente però che, con il costante aumento della
popolazione, stavano aumentando anche gli emarginati, che di certo non
mancavano.
Era una questione di evoluzione, lo aveva capito. Non di selezione
naturale, perché la natura si era indebolita, aveva perso i denti. Era una
selezione intelligente, con Goddard e i suoi accoliti alla guida
dell’intellighenzia.
L’ora si stava avvicinando e il cielo era sempre più scuro. Goddard si
scrocchiava le dita di continuo e sbatteva le ginocchia tra loro, esprimendo
con il corpo un’impazienza giovanile che non appariva sul viso.
Ayn gli mise una mano sul ginocchio per fermarlo. Goddard si infastidì,
ma la lasciò fare. Poi, le luci sulle tribune si attenuarono e i proiettori
illuminarono a giorno il campo, mentre la pira veniva spinta in mezzo al
campo.
L’eccitazione della folla era palpabile. Non tanto grida di gioia e fischi
quanto un mormorio che si riverberava sulla struttura. Anche se non era in
fiamme, la pira era uno spettacolo. Il modo in cui i rami riflettevano la luce,
una foresta morta intrecciata per il piacere di chi osservava. Una fiaccola
attendeva a distanza di sicurezza, pronta per essere afferrata da Goddard per
dare fuoco alla pira al momento opportuno.
Gli altri discorsi iniziarono e la Somma Roncola ripassò mentalmente il
suo. Aveva studiato quelli più memorabili della storia: Roosevelt, King,
Demostene, Churchill. Il suo sarebbe stato breve e pacato, ma pieno di frasi
a effetto. Sarebbe rimasto scolpito nella pietra. Sarebbe stato ricordato come
emblematico e senza tempo, come quelli che aveva studiato. Poi, avrebbe
preso la torcia, appiccato il fuoco e, mentre le fiamme salivano, avrebbe
recitato la poesia di Maestro Socrate Ode agli eterni, una specie di inno
mondiale.
Hammerstein pronunciò il suo discorso, molto triste e lugubre. Pickford
diede prova di un’eloquenza regale, Tizoc fu diretto e incisivo e la
gratitudine che MacPhail espresse nei confronti di coloro che avevano reso
possibile quel giorno parve sincera e autentica.
Goddard si alzò e si avvicinò alla pira. Si chiese se Rowan fosse
consapevole dell’onore che gli stava concedendo. Per merito suo, quel
ragazzo sarebbe entrato nella storia. Da quel momento e per l’eternità, il
mondo avrebbe conosciuto il suo nome. Sarebbe finito sui libri di scuola dei
bambini. Quel giorno sarebbe morto, ma in un certo senso sarebbe diventato
immortale, come a pochi era accaduto nel corso dei secoli.
Goddard premette il pulsante e il montacarichi sollevò Rowan fino alla
sommità della pira. Il mormorio della folla crebbe di intensità. Il pubblico si
alzò in piedi. Le dita lo indicarono. La Somma Roncola iniziò a parlare.
«Venerande falci e rispettabili cittadini, oggi affidiamo l’ultimo
criminale dell’umanità alle fiamme purificatrici della storia. Rowan
Damisch, che si è ribattezzato Maestro Lucifero, ha rubato la luce di molti.
Ma oggi ci riprendiamo quella luce e la usiamo per illuminare il nostro
futuro…»
Qualcuno gli diede un colpetto sulla spalla. Quasi non lo sentì.
«… una nuova era in cui le falci, con cauta gioia, modellano la nostra
grande società, spigolando chi non ha posto nel nostro glorioso domani…»
Ancora un colpetto sulla spalla, più insistente, stavolta. Cercavano di
interrompere il suo discorso? Chi avrebbe osato farlo? Si voltò e vide
Costantino che gli rubava la scena con quella vistosa veste cremisi, ancora
più appariscente ora che era tempestata di rubini.
«Eccellenza» bisbigliò. «Pare che ci sia un problema…»
«Un problema? Nel bel mezzo del mio discorso, Costantino?»
«Guardi lei stesso.» L’assistente attirò la sua attenzione verso la pira.
Rowan si agitava e si dibatteva, trattenuto dalle corde. Cercava di
gridare, ma il bavaglio soffocava le sue urla. Allora Goddard si accorse
che…
La persona in cima alla pira non era Rowan.
Il viso era familiare, ma lo riconobbe solo quando guardò i maxischermi
che, disposti intorno allo stadio, mostravano in primo piano l’espressione
angosciata dell’uomo.

Era il tecnico. Il tecnico che aveva preparato Rowan per l’esecuzione.


Dieci minuti prima che la pira fosse spinta al centro dello stadio, Rowan
cercava di assaporare gli ultimi istanti della sua vita. Un terzetto di falci gli
si era avvicinato, aprendosi un varco tra i rami. Non aveva riconosciuto né
le loro vesti né i loro volti.
Quella visita non era in programma. Tutto sommato, era stato un sollievo
vederle. Perché, se erano lì per vendicarsi di lui, incapaci di attendere che il
rogo lo consumasse, la fine sarebbe stata meno dolorosa. Com’era
prevedibile, una delle falci aveva estratto un coltello e lo aveva lanciato
nella sua direzione. Si era preparato al dolore in arrivo e alla successiva
perdita di conoscenza, ma non era accaduto nulla di tutto ciò.
Solo quando la lama aveva reciso le corde che lo legavano aveva capito
che si trattava di un coltello Bowie.
31
Limitare i danni

Goddard sentì il suo corpo reagire ancora prima che la sua mente fosse
riuscita a comprendere appieno ciò che si presentava davanti ai suoi occhi.
Le gambe e le braccia gli si intorpidirono, lo stomaco iniziò a gorgogliare e
i reni si irrigidirono dolorosamente. La collera lo travolse con l’intensità di
un’eruzione vulcanica finché la testa non cominciò a pulsargli.
Il pubblico dello stadio sapeva già ciò che lui aveva appena visto, cioè
che il prigioniero in cima alla pira non era Maestro Lucifero. Nel corso
degli ultimi tre anni, il mondo aveva imparato a conoscere il viso di Rowan
Damisch. Eppure, quel viso, filmato e trasmesso sui maxischermi disposti
intorno a Goddard come per deriderlo, non era il suo.
Non gli era stato soltanto rubato il suo momento di gloria, gli era stato
addirittura sabotato. Ne avevano fatto qualcosa di osceno. Il mormorio del
pubblico suonava diversamente rispetto ad appena un secondo prima. Era
una risata quella che udiva? Stavano ridendo di lui? Che fosse solo frutto
della sua immaginazione o meno, non era quello il punto. La cosa
importante era ciò che sentiva. Ciò che provava. E lui si sentiva
ridicolizzato, sbeffeggiato da trentamila anime. Era insopportabile. Quel
momento orribile era un’eterna, indicibile tortura.
Costantino gli sussurrò all’orecchio: «Ho ordinato di chiudere i cancelli
e la Suprema Guardia è stata allertata. Lo troveremo».
Che importava, ormai. Era andato tutto in malora. Avrebbero potuto
riportare indietro Rowan e trascinarlo sulla pira, ma non avrebbe cambiato
le cose. L’ora di gloria di Goddard si era trasformata nella più grande
tragedia della giornata. A meno che. A meno che…

Nel momento in cui vide quell’imbecille in cima alla pira, Ayn capì che le
cose si sarebbero messe male.
Bisognava arginare la Somma Roncola.
Perché, se la rabbia avesse preso il sopravvento, ci sarebbe stato ben
poco da fare. Goddard era sempre stato impulsivo ma, da quando si era
impossessato del corpo di Tyger, gli istinti giovanili, gli improvvisi picchi
ormonali avevano peggiorato la situazione. Adrenalina e testosterone erano
una miscela affascinante in un ragazzo inoffensivo come Tyger Salazar,
erano venti che facevano volare un aquilone. Ma in Goddard, quegli stessi
venti si trasformavano in un tornado. E quindi, bisognava arginarlo. Come
una bestia fuggita dalla gabbia.
Ayn lasciò che Costantino lo mettesse a parte della cattiva notizia,
perché Goddard amava prendersela con il messaggero, quindi meglio
Costantino che lei. Attese che Goddard volgesse lo sguardo verso lo
sfortunato tecnico prima di avvicinarsi.
«La trasmissione è stata interrotta» lo informò. «Non è più in diretta. Ora
cerchiamo di limitare i danni. Puoi cambiare le carte in tavola, Robert» gli
consigliò, cercando di ammansirlo. «Fa’ credere che era voluto. Che è parte
dello spettacolo.»
La sua espressione la spaventò. Non era nemmeno sicura che l’avesse
ascoltata finché non lo sentì dire: «Voluto. Sì, Ayn, è quello che farò».
La Somma Roncola si portò il microfono alle labbra e Madame Rand
indietreggiò. Forse Costantino aveva ragione. Era sempre in quei momenti
di smarrimento che riusciva a contenerlo. A controllarlo. A riparare ciò che
si era rotto prima che fosse troppo tardi. Fece un profondo respiro e attese,
insieme a tutti, di sentire che cosa avrebbe detto.

«Questa avrebbe dovuto essere la resa dei conti» esordì Goddard, sputando
le parole nel microfono. «Voi! Tutti voi che siete venuti qui oggi per
soddisfare la vostra sete di sangue. Voi! il cui cuore accelera all’idea che un
uomo venga bruciato vivo sotto i vostri occhi.
«VOI ! Pensavate che vi avrei dato soddisfazione? Credevate che noi falci
fossimo così vili da cedere alla vostra morbosa curiosità? Farvi divertire
offrendovi lo spettacolo di un massacro?» Si era messo a gridare, ora, a
denti stretti. «COME OSATE! SOLO LE FALCI possono godere dello spettacolo
della morte, lo avete dimenticato?» Rimase in silenzio qualche istante, per
lasciar sedimentare le sue parole. Perché il pubblico prendesse coscienza
della gravità delle proprie colpe. Se Rowan non fosse sparito, sarebbe stato
ben lieto di offrire a tutti quel genere di spettacolo. Ma non avrebbero
dovuto mai saperlo.
«No, Maestro Lucifero non è qui» proseguì, «ma voi, che eravate così
entusiasti all’idea di assistere a quello spettacolo, ora siete voi il bersaglio
del mio giudizio. Non era lui che volevo giudicare, ma VOI , che oggi vi
siete condannati! L’unico modo per ritrovare il giusto cammino è la
penitenza. Penitenza e sacrificio. Quindi, ho scelto voi, oggi, come esempio
per il resto del mondo.»
Si rivolse alle mille falci disseminate sulle gradinate in mezzo al
pubblico.
«Spigolateli» ordinò con disprezzo, mordendosi il labbro. «Spigolateli
tutti.»

Il panico si diffuse a poco a poco. Le persone si scambiavano occhiate


stupefatte. La Somma Roncola aveva detto proprio così? No, impossibile.
Non poteva pensarlo veramente. Anche le falci non sapevano cosa fare
all’inizio… ma non potevano rifiutarsi di obbedire a un ordine, altrimenti la
loro fedeltà sarebbe stata messa in dubbio. Una dopo l’altra, cominciarono a
estrarre le armi e a guardare la gente intorno a loro con un’espressione
molto diversa da qualche secondo prima. Si preparavano a sferrare il colpo
fatale nel modo migliore.
«Io sono la vostra fine!» proclamò Goddard, come faceva a ogni
spigolatura di massa. La sua voce risuonò in tutto lo stadio. «Io sono
l’ultima parola della vostra miserabile e insoddisfacente vita di loschi.»
Alcune persone si misero a correre. Poi, se ne aggiunsero altre. E ben
presto fu come se fosse crollata una diga. Gli spettatori in preda al panico si
arrampicarono sugli spalti e gli uni sugli altri per raggiungere le uscite, ma
le falci si erano rapidamente posizionate nel punto in cui i fuggiaschi si
incanalavano. L’unica possibilità era oltrepassarle; intanto, gli spigolati si
stavano già ammonticchiando, bloccando le strette strade verso la libertà.
«Sono il vostro salvatore! Io sono il portale che conduce ai misteri
dell’oblio!»
La gente cominciò a lanciarsi dai parapetti, sperando di salvarsi saltando
nel vuoto prima di essere spigolata, ma nulla poteva fermare delle falci in
azione. Dal momento in cui Goddard aveva dato l’ordine, il Thunderhead
non poteva più intervenire. Poteva solo osservare con i suoi numerosi occhi,
senza battere ciglio.
«Io sono il vostro Omega! Io sono colui che porta la pace infinita.
Prostratevi ai miei piedi!»
Madame Rand lo supplicò di smetterla, ma lui la spinse via, facendole
perdere l’equilibrio. Ayn cadde a terra, rovesciando la fiaccola, che sfiorò
un angolo della pira. Fu sufficiente. La legna prese fuoco. Un cerchio di
fiamme viola si disegnò intorno alla base.
«Io vi condanno a morte» Goddard gridò alla folla agonizzante.
«Accettatela con grazia. E con questo, addio.»

La vista migliore dell’Apocalisse di Goddard si godeva dalla sommità della


pira. Grazie agli aspiratori che, più in basso, dissipavano il fumo, il tecnico
non si perdeva neppure un secondo dello spettacolo… comprese le fiamme
viola intorno alla base che, salendo, viravano al blu.
Sugli spalti, le falci scintillanti nelle loro vesti tempestate di pietre
preziose, simbolo del nuovo ordine, abbattevano le loro vittime a un ritmo
allarmante.
“Non sarò solo, oggi” pensò il tecnico, mentre le fiamme si
avvicinavano, passando dal verde al giallo brillante.
Sentiva le suole delle scarpe che iniziavano a sciogliersi, l’odore acre
della gomma bruciata. Il fuoco era arancione ora, e sempre più vicino. Le
grida sulle tribune intorno a lui sembravano lontane, molto lontane. Presto
le fiamme sarebbero diventare rosse, il bavaglio imbevuto di nitrocellulosa
si sarebbe incenerito e le sue urla avrebbero sovrastato tutte le altre.
Poi vide una falce solitaria in mezzo al campo che guardava nella sua
direzione. Portava una veste cremisi. Una delle poche che non se la stava
prendendo con la folla. I loro occhi si incrociarono per un istante. E, nel
momento in cui le fiamme sfiorarono i pantaloni del condannato, Maestro
Costantino alzò la pistola e portò a termine la sua unica spigolatura della
giornata. Un solo colpo al cuore che risparmiò al tecnico una fine ben più
atroce.
E, prima che la vita lo abbandonasse, il suo ultimo pensiero fu di
immensa gratitudine per la falce cremisi, l’unica che aveva provato
compassione per lui.
«Ti perdonerò per aver cercato di fermarmi» dichiarò Goddard a Madame
Rand, mentre la limousine si allontanava dallo stadio. «Ma mi sorprende,
Ayn, che tu, tra tutti, ti sia tirata indietro invece di spigolare.»
Avrebbe potuto dargli un milione di risposte, ma si trattenne. Rowan
faceva ormai parte del passato, dimenticato, sostituito da fatti più
importanti. Correva voce che fosse stato visto lasciare lo stadio con Maestro
Travis e un folto gruppo di altre falci texane. Avrebbe potuto addossare la
colpa a loro, ma chi voleva prendere in giro? Era stata lei a suggerire a
Goddard di escogitare un modo per far credere che l’assenza di Rowan
fosse voluta, che fosse parte di un piano ben più grande. Ma non avrebbe
mai immaginato che lui le desse ascolto.
«Non era questo l’avvenimento che mi aspettavo, ma è raro che le cose
vadano come previsto» affermò Goddard, nel tono calmo e pacato che si
userebbe per discutere di un’opera teatrale. «Comunque sia, la giornata si è
risolta a nostro vantaggio.»
Rand lo guardò, incredula. «Cosa? Come fai a dire una cosa del genere?»
«Non è evidente?» Di fronte al silenzio di Ayn, la Somma Roncola
spiegò con l’eloquenza per cui era famosa: «Paura, Ayn. Il timore è
l’adorato padre del rispetto. I comuni cittadini devono sapere qual è il loro
posto. Devono sapere che c’è una linea che non è possibile oltrepassare. In
assenza del Thunderhead, hanno bisogno di una mano ferma che dia loro
stabilità. Che definisca dei limiti chiari. Mi venereranno, e venereranno
tutte le mie falci, e non intralceranno più il nostro cammino». Pensò agli
argomenti che stava per addurre per giustificare il suo comportamento e
annuì in segno di approvazione. «Va tutto bene, Ayn. Va tutto bene.»
Ma Madame Rand capì che, da quel momento in poi, nulla sarebbe più
andato bene.
Parte quarta
L’UNICO STRUMENTO CHE SAPPIAMO MANEGGIARE
Testimonianza del Rintocco
I Sibilanti moralizzatori che avrebbero intrapreso una crociata ingiustificata erano un
abominio per il Rintocco. Si sarebbe abbattuto su di loro con l’agitare furioso di un
milione di ali, e il Tuono avrebbe rimbombato nei cieli. Gli impenitenti sarebbero stati
colpiti, ma quelli che si fossero messi in ginocchio sarebbero stati risparmiati. Poi, se
ne sarebbe andato, dissolvendosi ancora una volta in una tempesta di piume e
svanendo nel cielo di nuovo calmo. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
Il Rintocco non era solo un uomo di carne, ma anche un esperto in materia.
Possedeva l’abilità di trasformarsi in qualsiasi creatura o in una moltitudine di
creature. Questi versi illustrano la sua capacità di tramutarsi in un grande stormo di
uccelli, molto probabilmente aquile, falchi o gufi. Pieni di grazia. Nobili. Saggi.
Temuti e rispettati. Creature che incarnano tutto ciò che era il Rintocco.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio
Il problema onnipresente di Sinfonio è la sua incoerenza. Interpreta liberamente il
testo in modo simbolico o letterale in funzione di ciò che gli è più comodo. Così, le
sue analisi sono più un capriccio che sagge considerazioni. Anche se è possibile
che il Rintocco abbia assunto la forma di uno stormo di uccelli, non è più probabile
che possegga semplicemente la capacità mistica di volare, come gli eroi con il
mantello ritratti nei disegni d’archivio?
32
Un oscuro cardine

Le campane della cattedrale che avevano segnato le ore per quasi mille anni
a EuroScandia avevano taciuto di colpo. Erano state tirate giù, fatte a pezzi,
fuse in una fornace improvvisata. Una grande sala concerti della stessa
regione era stata attaccata nel bel mezzo di uno spettacolo, e, tra il pubblico
in preda al panico, i tonisti avevano fatto irruzione sul palco, rompendo gli
strumenti più piccoli a mani nude e distruggendo i più grandi a colpi di
ascia.
“Le vostre voci sono musica per le mie orecchie” aveva dichiarato un
giorno il Rintocco. Per cui, il senso era che tutte le altre forme di musica
dovevano essere annientate.
Queste sette estremiste dei Sibilanti provavano, nella loro devozione, il
bisogno di imporre le loro credenze al resto del mondo. Le sette erano
uniche e non si assomigliavano in nulla. Ognuna era un’aberrazione a sé,
ognuna dava la propria spaventosa interpretazione della dottrina tonista e
distorceva a modo proprio le parole pronunciate dal Rintocco. Il solo punto
in comune era una propensione alla violenza e all’intolleranza, compresa
l’intolleranza verso gli altri tonisti, perché ogni setta che non condivideva
gli stessi suoi precetti era chiaramente inferiore.
Prima che il Thunderhead si chiudesse nel suo silenzio, i Sibilanti non
esistevano. Sì, esistevano sette con credenze estremiste, però il
Thunderhead e gli agenti Nimbus dell’Interfaccia dell’Autorità le tenevano
a bada. La violenza non era tollerata.
Ma una volta che tutti gli abitanti del mondo erano stati dichiarati loschi
e il Thunderhead aveva smesso di parlare, la situazione aveva cominciato a
degenerare un po’ ovunque.
Nelle città più vecchie di EuroScandia, gruppi di Sibilanti errabondi
accendevano falò nelle pubbliche piazze e bruciavano pianoforti, violoncelli
e chitarre. E, nonostante venissero fermati e arrestati dagli ufficiali di pace,
non accennavano a smettere. La gente sperava che il Thunderhead, anche
dal suo silenzio, li avrebbe soppiantati, sostituendo le loro menti e le loro
identità con quelle di persone soddisfatte e pacifiche. Ma quella sarebbe
stata una violazione della libertà religiosa. Così, i Sibilanti venivano
imprigionati, obbligati a risarcire i danni provocati e poi rilasciati, solo per
riprendere a distruggere tutto.
Il Thunderhead, se avesse potuto parlare, avrebbe probabilmente detto
che quei pazzi furiosi fornivano un servizio alla società, che distruggendo
gli strumenti musicali davano lavoro a chi li fabbricava. Ma anche per il
Thunderhead, quando era troppo era troppo.
Il Rintocco apparve ai Sibilanti euroscandinavi mentre si apprestavano a
saccheggiare un’altra sala concerti.
I Sibilanti euroscandinavi sapevano che si trattava di un impostore,
perché il Rintocco era morto da martire per mano di una falce. La
resurrezione non era contemplata dalla loro dottrina, per cui i fanatici si
mostrarono scettici.
«Gettate a terra le armi e inginocchiatevi» ordinò l’impostore.
Non obbedirono.
«La Tonalità e il Tuono sono offesi dalle vostre azioni. E anch’io.
GETTATE A TERRA LE ARMI E INGINOCCHIATEVI! »
Non obbedirono nemmeno quella volta. Uno di loro si fece avanti,
parlando in una vecchia lingua nativa della regione che ormai capivano in
pochi.
Dal piccolo drappello che seguiva l’impostore, uscì una falce con una
veste in jeans. Afferrò l’aggressore e lo gettò a terra. Quello, ferito e
sanguinante, corse via.
«Non è troppo tardi per pentirvi!» esclamò il Rintocco impostore. «La
Tonalità, il Tuono e io vi perdoniamo se rinunciate alle vostre azioni
scellerate e ci servite in pace.»
I Sibilanti spostarono lo sguardo sulle porte della sala concerti, davanti
alle quali si trovava il Rintocco impostore. Il loro obiettivo era così vicino,
ma quel giovane che intralciava il loro cammino ispirava un sentimento di
rispetto reverenziale. Qualcosa di divino.
«Vi do un segno del Thunderhead, al quale solo io posso parlare e presso
il quale solo io posso intercedere per voi.»
Poi allargò le braccia… e, dal cielo, scesero. Tortore. Un centinaio di
uccelli piovvero su di loro da ogni direzione, come se avessero aspettato
tutto quel tempo appollaiati sui cornicioni di tutti gli edifici della città! Gli
si posarono addosso, sulle braccia, sulle spalle, sul capo, finché fu
impossibile vederlo. Lo ricoprirono dalla testa ai piedi, creando intorno a lui
uno scudo con i corpi e le penne, una specie di armatura del loro stesso
colore. Muovendosi, il motivo creato dalle piume che lo avviluppavano
cambiava. I Sibilanti capirono a cosa assomigliava.
Assomigliava a una nube temporalesca. Un Thunderhead che fremeva di
rabbia.
A un tratto, gli uccelli si dispersero e svanirono dietro gli angoli nascosti
della città da cui erano arrivati.
Il silenzio tornò di nuovo, mentre si esaurivano gli ultimi battiti di ali. E
in quel silenzio, il Rintocco riprese la parola quasi in un sussurro: «Ora
gettate a terra le armi e inginocchiatevi».
E i Sibilanti obbedirono.

Era molto meglio essere un profeta morto che un profeta vivo.


Da morto, non eri obbligato a passare le giornate a ricevere una tediosa
sfilza di supplicanti. Eri libero di andare dove volevi, quando volevi e, cosa
più importante, dove era necessario. Ma la parte più bella era che nessuno
cercava di ucciderti.
Per la sua tranquillità, concluse Greyson Tolliver, era molto meglio
essere morto.
Dal giorno della sua scomparsa ufficiale, Greyson aveva trascorso più di
due anni a girare per il mondo nel tentativo di arginare i movimenti di
Sibilanti che spuntavano un po’ ovunque. Lui e quelli che lo
accompagnavano viaggiavano con molta discrezione. Treni, voli di linea.
Greyson non indossava mai la sua tunica da cerimonia quando era in
viaggio. Erano tutti in incognito, vestiti con semplici sai tonisti. Nessuno
osava rivolgere domande ai tonisti per paura di farsi irretire dalla loro
dottrina. Molti guardavano altrove, evitando con cura il contatto visivo.
Era ovvio che, se il curato Mendoza avesse potuto dire la sua, avrebbero
viaggiato a bordo di un jet privato a decollo e atterraggio verticali. In quel
modo, il Rintocco sarebbe potuto scendere dal cielo come una divinità. Ma
Greyson glielo aveva proibito. C’era già così tanta ipocrisia nel mondo.
“I tonisti non dovrebbero essere materialisti” aveva fatto notare a
Mendoza.
“Neanche le falci” aveva replicato lui. “E guarda a che cosa siamo
arrivati…”
Tuttavia, non era una democrazia. La parola del Rintocco era legge, che
si fosse d’accordo o meno.
Sorella Astrid era dalla parte di Greyson.
“Credo sia una buona cosa che tu ti opponga agli sperperi” aveva detto.
“E immagino che anche il Thunderhead sia d’accordo.”
“Purché raggiungiamo la meta nei tempi giusti, il Thunderhead non ha
opinioni” aveva replicato Greyson. Anche se sospettava che il Thunderhead
cambiasse i percorsi dei treni e le rotte aeree per farli arrivare a destinazione
più rapidamente. Greyson immaginava che se il Rintocco avesse decretato
che dovevano viaggiare a dorso di mulo, il Thunderhead in qualche modo
avrebbe fornito loro dei muli da corsa.
Pur viaggiando con discrezione, Mendoza riusciva sempre a trovare un
modo per dare un tocco di teatralità al loro arrivo, nell’intento di scuotere le
fondamenta corrose dei Sibilanti. Qualunque cosa strana e inquietante
stessero facendo, Greyson si sarebbe rivelato a loro nelle vesti del Rintocco,
condannando le loro azioni, rinnegandoli, rifiutandosi di concedere loro
udienza, finché non si fossero prostrati ai suoi piedi a implorare perdono.
L’idea degli uccelli era stata di Greyson. Era stato facile. Tutte le
creature del mondo avevano i naniti e quindi il Thunderhead poteva
monitorare la demografia delle specie e orientarne il comportamento.
La Compagnia aveva manipolato in modo simile la fauna marina intorno
a Endura, trasformando l’oceano che circondava l’isola in un acquario. Ma,
a differenza di quella sfortunata tecnologia, il Thunderhead non controllava
gli animali per il piacere umano o, come si era scoperto in seguito, per il
dolore umano. Manovrava una creatura solo se questa rischiava di essere
investita o se teneva un comportamento lesivo della sua stessa esistenza.
Poiché non esistevano centri di rianimazione per gli animali selvatici,
quello era il modo più efficace di permettere loro di arrivare alla fine della
vita naturale.
“Per fermare i Sibilanti” aveva detto Greyson al Thunderhead, “devo
mostrare loro qualcosa di eclatante. Qualcosa che testimoni che tu sei dalla
mia parte, e non dalla loro.” Aveva proposto di riunire gli uccelli che
avevano il colore delle nubi temporalesche, facendoli posare su di lui, e il
Thunderhead aveva acconsentito.
Certo, Greyson aveva altri assi nella manica. Il Thunderhead avrebbe
potuto programmare le publicar in modo che circondassero i tonisti, come
se fossero un gregge. Avrebbe potuto anche generare un campo magnetico
abbastanza forte da far levitare Greyson. E, quando le condizioni
meteorologiche fossero state propizie, avrebbe potuto scatenare una
tempesta di lampi su ordine di Greyson. Ma gli uccelli erano la trovata
migliore. Stupivano ogni volta e riuscivano sempre a convincere i Sibilanti.
Se non a riportarli sulla retta via, almeno a farli muovere nella giusta
direzione. Chiaramente, essere coperto di tortore e piccioni non era
piacevole. Con gli artigli gli graffiavano la pelle. Spesso cercavano di
beccargli le orecchie e gli occhi. E non erano certo gli animali più puliti
della Terra.
Sarebbe rimasto con la setta in questione tutto il tempo necessario per
assicurarsi che i suoi adepti cambiassero il loro comportamento, finché “il
gregge non fosse rientrato all’ovile”, per usare un’espressione di Mendoza.
Poi, il Rintocco sarebbe scomparso con il suo seguito e sarebbe passato a
un’altra fazione di Sibilanti in un’altra parte del mondo. Attacchi mirati e
“diplomazia aggressiva”, quella era la sua strategia da due anni, e stava
funzionando. Le voci più assurde che circolavano sul suo conto gli
facevano gioco. “Il Rintocco ha fatto crollare una montagna solo con la
voce.” “Il Rintocco è stato visto a cena nel deserto con gli dèi dell’era
mortale, ed era a capotavola.” Quelle storie erano così strampalate che per
lui era facile passare inosservato nella vita di tutti i giorni.
“È bello quello che facciamo” diceva spesso Mendoza, “tuttavia è nulla
in confronto a ciò che potremmo fare.”
“È la volontà del Thunderhead” gli rispondeva Greyson, ma il curato
restava sempre con un dubbio. E, a dire la verità, Greyson era frustrato
quanto lui.
“Mi imponi un ritmo sfiancante” si era lamentato con il Thunderhead.
“A che serve se le fazioni di Sibilanti spuntano più rapidamente di quanto io
non riesca a convertirle? È questo il tuo grande progetto? E non è sbagliato
che io mi spacci per un dio?”
“Che cosa intendi per ‘sbagliato’?” aveva chiesto il Thunderhead.
Il Thunderhead era particolarmente irritante quando Greyson gli
rivolgeva domande di ordine etico. Non poteva mentire, ma in compenso lui
poteva farlo, e lo faceva. Mentiva ai Sibilanti a ogni incontro, dicendo loro
che era al di sopra dei comuni umani. Il Thunderhead non glielo impediva,
per cui non sapeva se approvasse o meno. Sarebbe bastato un semplice “non
farlo”, se avesse pensato che si trattasse di un abuso di potere. In effetti, si
sarebbe sentito sollevato se il Thunderhead lo avesse rimproverato, perché
avrebbe saputo di aver perso la sua bussola morale. D’altro canto, se il fine
giustificava i mezzi, perché il Thunderhead non glielo diceva così, senza
mezzi termini, per alleggerirgli la coscienza?
“Se ti spingi troppo oltre, te lo farò sapere” gli aveva detto il
Thunderhead. Quindi Greyson rimaneva sempre in attesa di uno schiaffo
che non arrivava mai.
“Ho fatto cose terribili in tuo nome” aveva confessato al Thunderhead.
Al che, il Thunderhead aveva replicato: “Cosa intendi con ‘terribili’?”.

Il seguito del Rintocco, che si era ridotto a pochi intimi, tra cui Maestro
Morrison, sorella Astrid e il curato Mendoza, era ormai una squadra molto
efficiente.
Morrison si era dimostrato prezioso fin dall’inizio. Prima di entrare al
servizio del Rintocco, non aveva mai dimostrato di avere chissà che etica
nel suo lavoro. Ma gli ultimi anni lo avevano cambiato parecchio, o
perlomeno era diventato un po’ più assennato. Aveva i suoi buoni motivi
per restare. Dopotutto, dove sarebbe potuto andare? La Compagnia
nordmericana pensava che fosse morto. Ma quello non era che un dettaglio.
Il punto era che, se la Compagnia nordmericana avesse controllato le
proprie statistiche, si sarebbe resa conto che lui aveva portato a termine
diverse spigolature e accordato l’immunità più di una volta. Be’, diceva a se
stesso, con tutte le spigolature che avvenivano in quei giorni, la Compagnia
non avrebbe certo notato le azioni di una falce solitaria.
Naturalmente, sapeva che non era la verità, perché ammettere la verità
era troppo doloroso.
La Compagnia non lo notava, perché non le importava.
Le altre falci non l’avevano mai considerato. Aveva messo in imbarazzo
il suo mentore, che lo aveva scelto perché era forte e di aspetto piacevole,
ma poi lo aveva rinnegato nel momento in cui aveva capito che non si
sarebbe mai guadagnato il rispetto dei suoi pari. Morrison era il loro
zimbello. Invece, almeno lì, al servizio del Rintocco, beneficiava di un certo
riconoscimento. Aveva un posto e uno scopo. Era la sua guardia del corpo
personale, e quel ruolo gli piaceva.
Sorella Astrid era l’unica che non si fidava di lui. “Tu, Jim, incarni tutto
ciò che io detesto del mondo” gli aveva confessato un giorno.
La cosa lo aveva fatto sorridere. “Perché non vuoi ammettere che ti
piaccio?”
“Ti tollero. C’è una gran bella differenza.”
Quanto ad Astrid, la sua missione era di tenerli tutti sul giusto cammino
spirituale. Restava con il Rintocco perché, in fondo, credeva che Greyson
Tolliver fosse un vero profeta. Che fosse la Tonalità a ispirarlo e che la sua
umiltà a riguardo fosse comprensibile. In fin dei conti, l’umiltà era il segno
distintivo di un sant’uomo. Era perfettamente logico che non si reputasse
parte della Sacra Triade, ma ciò non significava che non lo fosse.
Sorrideva in segreto ogni volta che Greyson affrontava i Sibilanti nel suo
ruolo del Rintocco, perché sapeva che non credeva a una sola parola di quel
che diceva. Per lui, era solo un ruolo. Ma per Astrid, il fatto che lui non
riconoscesse la sua natura divina rendeva tutto ancora più vero.
E poi, c’era il curato Mendoza: il mago, l’intrattenitore, il produttore del
loro spettacolo itinerante. Era il pilastro che sosteneva il tutto e, anche se
c’erano momenti in cui gli capitava di credere alla propria fede, la religione
era spesso soppiantata dal pragmatismo della sua missione. Era il suo
lavoro e doveva farlo.
Mendoza non organizzava solo le apparizioni del Rintocco, ma teneva
anche i contatti con la rete mondiale dei curati. Sperava così di indurre un
numero crescente di sette a riunirsi sotto l’egida di un’unica dottrina
accettata e di aiutarle a proteggersi dalle falci. E poi operava nell’ombra,
diffondendo molte delle voci false sul Rintocco. Erano utilissime a tenere
unito il gregge e a tenere a distanza le falci, perché come facevano le falci a
dare credito a quegli avvistamenti del Rintocco quando per la maggior parte
erano voli di fantasia? Eppure, quando Greyson aveva scoperto ciò che
Mendoza stava facendo, era inorridito. Possibile che non vedesse quanto era
prezioso il suo lavoro?
“Racconti alla gente che sono risorto dalle ceneri?”
“C’è un precedente” aveva cercato di spiegare Mendoza. “La storia della
fede è piena di dèi caduti e risorti. Sto creando le basi della tua leggenda.”
“Se la gente ci vuole credere, che faccia pure” aveva replicato Greyson,
“ma non voglio incoraggiare queste voci diffondendo altre bugie.”
“Se vuoi che ti aiuti, perché mi leghi le mani?” aveva chiesto Mendoza,
sempre più scoraggiato.
“Forse perché voglio che le usi per qualcosa che non sia il semplice darti
piacere.”
Quel commento aveva fatto ridere Mendoza. Greyson non aveva forse
passato gli ultimi due anni a imporre la sua volontà su tutta la sua cerchia?
Tuttavia prendersi gioco del Rintocco non era ammesso, per cui tornò
subito sui propri passi.
“Sì, Sua Sonorità” aveva risposto il curato, come al solito. “Cercherò di
tenerlo a mente.” Non aveva altra scelta che desistere, perché non serviva a
nulla discutere con quel ragazzo cocciuto, un ragazzo che non aveva
proprio idea degli sforzi che servivano per mantenere vivo il suo
misticismo. Anche se Mendoza stava iniziando a chiedersi perché se ne
desse tanta pena.

Poi accadde qualcosa che cambiò tutto.


«Disperazione, disperazione e ancora disperazione!» gemette una sera il
Thunderhead all’orecchio di Greyson. «Se soltanto avessi potuto chiudere
gli occhi per non vedere nulla. Questo avvenimento è un oscuro cardine
intorno al quale ruotano molte cose.»
«Puoi smetterla di parlare per enigmi?» chiese Greyson. «Mi spieghi
semplicemente che cosa è accaduto?»
E così il Thunderhead gli raccontò, nei minimi dettagli, della spigolatura
allo stadio. In una sola serata, erano cadute decine di migliaia di persone.
«A breve, sarà su tutti i notiziari, anche se la Compagnia nordmericana
cerca di nasconderlo, ma è un avvenimento troppo grosso perché possa
essere cancellato. E provocherà una reazione a catena che sconvolgerà il
mondo intero.»
«Che cosa dobbiamo fare?» domandò Greyson.
«Nulla» rispose il Thunderhead. «È un’azione delle falci, il che significa
che non posso neppure reagire. Devo comportarmi come se non fosse
accaduto niente.»
«Bene, tu non puoi farci nulla, ma io sì.»
«Continua a fare quello che fai» gli ordinò il Thunderhead. «Oggi più
che mai i Sibilanti devono essere tenuti a freno.» Poi, aggiunse qualcosa
che gelò Greyson. «Le probabilità che i Sibilanti provochino un danno al
futuro dell’umanità sono del 19,3 per cento.»
33
Infrangibile

«È Madame Anastasia che vi parla. No, non è una registrazione. Mi rivolgo


a voi in diretta, perché sono viva. Ma non ne siete convinti. È
comprensibile. Chiunque potrebbe usare un sotterfugio di questo tipo
servendosi della mia ricostruzione mentale e di altri cento trucchi
tecnologici. È per questo che voglio che sospettiate di questa trasmissione.
Al punto da fare di tutto per smascherarla. Fate del vostro meglio per
dimostrare che è un falso perché, se fallirete, dovrete accettare che è reale.
Che io sono reale. E quando sarete convinti che io sono chi dico di essere…
allora potremo passare a cose più serie.»

Il primo messaggio fu breve e inoffensivo. Comunicava tutta la


convinzione, tutta la sicurezza che doveva comunicare, e a buon diritto.
Anastasia aveva scoperto qualcosa a proposito del disastro lunare. Qualcosa
di grosso. Era riuscita in quello che nessun altro aveva saputo fare: aveva
svelato una prova che era sotto gli occhi di tutti, sepolta nel cervello
primordiale, da molto prima che lei nascesse. Il Thunderhead sapeva, ma
era per legge obbligato a non fare nulla. Le questioni delle falci erano
questioni delle falci; non poteva immischiarsi. Ma il Thunderhead doveva
essere a conoscenza di ciò che lei aveva scoperto. Conosceva ogni angolo
più nascosto del suo cervello primordiale. Anastasia si chiedeva se fosse
soddisfatto di quello che aveva individuato.
«Sono molto orgoglioso di te» si complimentò la Suprema Roncola
Tenkamenin, che aveva ormai iniziato a darle del tu. «Sapevo che avresti
trovato il bandolo della matassa! Madame Makeda era più scettica.»
«Non ho fatto altro che manifestare delle caute riserve» si difese lei.
«Non potevamo vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.»
Tenka sorrise, ma c’era qualcosa che lo opprimeva. Preoccupava tutti.
Per l’intera giornata aveva regnato una tensione sotterranea.
Anche Jeri, che in genere nascondeva le sue emozioni, non aveva saputo
dissimulare l’inquietudine. «Una del mio equipaggio ha perso un familiare
in una spigolatura» disse ad Anastasia. «Devo andare in città a consolarla.»
Esitò, come se ci fosse altro da aggiungere, ma parve cambiare idea. «Farò
tardi. Avverta la Suprema Roncola di non aspettarmi per cena.»
Quando poi la sera si sedettero a tavola, nella sala l’atmosfera era
austera. Non tesa, ma pesante. Come se il fardello del mondo che gravava
sulle loro spalle fosse raddoppiato. Anastasia credeva di sapere perché. «È
stato il mio messaggio, non è vero?» chiese, rompendo il silenzio, mentre
nei loro piatti l’insalata avvizziva sotto il peso dell’umore incombente. «Le
reazioni vi hanno deluso. È stata solo una perdita di tempo.»
«Per nulla. Sei stata formidabile, cara» ribatté Makeda che, come Tenka
e Baba, aveva iniziato a darle del tu.
«E io ho seguito i commenti» aggiunse Baba. «Abbiamo battuto tutti i
record. Direi che hai fatto più rumore dell’affondamento di Endura.»
«Una battuta di cattivo gusto, Baba» replicò Makeda. «Davvero di
cattivo gusto.»
Tenkamenin si astenne da qualsiasi commento. Pareva perso nei suoi
pensieri.
«Allora, di che si tratta?» chiese Anastasia. «Se c’è un problema, dovete
dirmelo.»
«C’è stato… un incidente ieri sera» confessò alla fine Tenkamenin. «In
NordMerica…»
Anastasia si irrigidì. «È coinvolto Rowan Damisch?»
La Suprema Roncola rivolse lo sguardo altrove, imitata da Baba, ma non
da Madame Makeda. «Sì, in effetti.»
Anastasia serrò così forte le dita dei piedi che le vennero i crampi. «È
stato spigolato» concluse. «Goddard l’ha spigolato.» In un certo senso,
preferiva annunciarlo lei stessa piuttosto che sentirselo dire da altri.
Tenka scosse la testa.
«Avrebbe dovuto essere spigolato. Ma è fuggito.»
Anastasia tirò un sospiro di sollievo. Non era un atteggiamento degno di
una falce. Cercò di ricomporsi, ma ormai avevano visto tutti.
«È con i texani» spiegò Makeda. «Non mi capacito del motivo per cui lo
abbiano salvato.»
«È il nemico del loro nemico» intervenne Baba.
«Il problema non è la sua fuga, ma ciò che è accaduto dopo» dichiarò
Tenka. «Goddard ha ordinato una spigolatura di massa. Una cosa mai vista
prima. Ci sono state quasi trentamila vittime, e ha intimato alle sue falci di
inseguire anche quelli che erano riusciti a fuggire con le loro famiglie.
Invoca il quarto comandamento.»
«Come se fosse applicabile!» sbottò Makeda. «Ha condannato a morte
un intero stadio. Chi non sarebbe fuggito al loro posto?»
Anastasia rimase in silenzio. Si prese il tempo di digerire
quell’informazione. Non voleva rispondere, perché la notizia era troppo
forte da commentare. Rowan era sano e salvo. E, per quella ragione, erano
morte migliaia di persone. Come avrebbe dovuto sentirsi?
«Il tuo messaggio è stato trasmesso mentre accadeva, ancora prima che
ce ne giungesse notizia» riprese Tenka. «Pensavamo che saresti passata in
secondo piano, ma è stato l’esatto contrario. Alla luce di ciò che è avvenuto,
le tue parole assumono un’importanza addirittura maggiore. Dobbiamo
accelerare i tempi. Domani sera manderemo in onda un altro annuncio.»
«La gente ha bisogno di sentirti, Anastasia» dichiarò Makeda. «Sei una
voce di speranza in mezzo a tanto orrore.»
«Sì, certo» assentì lei. «Trasmetterò un altro messaggio il più presto
possibile.»
Fu servita la portata principale. Un arrosto così poco cotto da gocciolare
sangue. Una cosa del genere non avrebbe dovuto disturbare una falce, ma
quel giorno tutti dovettero guardare da un’altra parte quando il cameriere
cominciò ad affettarlo.

«È Madame Anastasia che vi parla. Avete verificato la veridicità di quanto


vi ho detto? Avete proceduto a ciò che la mia mentore, Madame Marie
Curie, la Signora della Morte, avrebbe definito un’attenta valutazione? O
siete pronti ad accettare le affermazioni delle varie Compagnie che
sostengono Goddard, la “Somma Roncola” che pretende di impadronirsi di
parti del mondo sempre più estese? Certo, loro mi trattano da impostore.
Che altro potrebbero fare, per non incorrere nelle ire di Goddard?
«Goddard, che ha invitato decine di migliaia di persone ad assistere a
una spigolatura che si è rivelata poi essere la loro. Sostiene che è stato
Maestro Lucifero a provocare l’affondamento di Endura. Cosa che è entrata
nella storia come un fatto appurato. Ero presente all’affondamento, e posso
affermare questo: Maestro Lucifero era su Endura. Le testimonianze dei
sopravvissuti sono veritiere. Ma è stato lui a far sprofondare l’isola?
«No, affatto.
«Nei prossimi giorni, vi offrirò una testimonianza che chiarirà ciò che è
realmente accaduto su Endura. E vi rivelerò il nome del responsabile.»

Era sorprendente che nello chalet di vetro di Goddard ci fosse così poco da
rompere. Ayn osservava la Somma Roncola che provava a spaccare
qualsiasi cosa le capitasse sotto mano. Purtroppo, vivevano in un mondo in
cui la qualità degli oggetti era troppo alta. Rand stava cercando di calmare
la sua rabbia. A Goddard non restava che prendersela con i suoi assistenti.
Quel giorno, toccava a Nietzsche essere preso di mira. Costantino non si
vedeva da giorni. Si diceva che fosse andato a incontrare dei rappresentanti
della regione della Stella Solitaria per tentare di convincerli a consegnare
Rowan, ma quelli continuavano a negare che fosse da loro. Quanto a
Madame Franklin, non voleva avere nulla a che fare con Goddard quando
era in quello stato. “Avvertitemi quando sarà tornato umano” diceva Aretha,
e si ritirava nei suoi alloggi, situati in un piano da cui non l’avrebbe sentito
distruggere tutto.
La sua ultima crisi di collera fu provocata dal secondo messaggio inviato
da Madame Anastasia al mondo.
«Voglio che la troviate! Voglio che la troviate e che la spigoliate.»
«Non possiamo spigolarla» cercò di spiegare Maestro Nietzsche. «Che le
piaccia o no, è ancora una falce.»
«Allora, la troveremo e la obbligheremo ad autospigolarsi» gridò la
Somma Roncola. «Trasformerò la sua vita in un tale calvario che sarà lei
stessa a volervi porre fine.»
«Eccellenza, il sospetto graverà su di lei. Non ne vale la pena.»
Goddard reagì lanciando una sedia dall’altra parte della stanza. Non si
ruppe.
Ayn era seduta tranquillamente nella sala conferenze, a osservare la
scena. Nietzsche continuava a lanciarle occhiate imploranti, ma lei non
aveva alcuna voglia di sprecare il suo fiato. Goddard si sarebbe calmato
solo dopo essere tornato in sé. Punto. Allora, avrebbe cercato una scusa
razionale per giustificare il suo folle comportamento.
Ayn aveva sempre creduto che tutte le azioni di Goddard rientrassero in
un progetto ben più ampio. Ora, però, vedeva tutto con chiarezza: il
progetto veniva sempre dopo l’azione. Era molto bravo a individuare a
posteriori un disegno nei suoi attacchi di rabbia.
Come quando si era convinto che la spigolatura di massa fosse un atto di
infinita saggezza. Le ripercussioni della carneficina erano state immediate.
Le regioni che si opponevano alla sua politica avevano condannato con
fermezza l’episodio. Una mezza dozzina di regioni aveva promesso
l’immunità a chiunque avesse deciso di abbandonare il territorio sotto il
controllo di Goddard, e molta gente stava aderendo all’invito. Nonostante
tutto, i sostenitori di Goddard, galvanizzati dalla strage, insistevano nel dire
che “quelle persone” allo stadio se l’erano cercata, perché chiunque
desiderasse assistere a un’esecuzione meritava di essere spigolato. Anche
se, chi la pensava così, probabilmente aveva visto lo spettacolo in diretta
prima che la trasmissione venisse interrotta.
La maggior parte della gente non aveva preso posizione, né in un senso
né in un altro. Volevano solo continuare a godersi la vita. Finché le tragedie
capitavano agli altri, a chi non conoscevano, non era un loro problema.
Eppure, quasi tutti conoscevano qualcuno che era allo stadio quel giorno e
che non era tornato a casa.
Nietzsche si sforzava di calmare Goddard, che continuava ad agitarsi e a
dare in escandescenze, camminando su e giù per la sala conferenze.
«Anastasia non è nulla, eccellenza» cercò di convincerlo. «Ma se
reagisce ai suoi interventi, le dà troppa importanza.»
«E quindi? Dovrei ignorare le sue accuse?»
«Sono solo parole, e non sappiamo ancora di che cosa la accusa. È solo
un foruncolo che è meglio non grattarsi per evitare che peggiori,
eccellenza.»
Quel commento suscitò l’ilarità di Ayn: si immaginò Goddard che si
grattava fino a sanguinare.
Finalmente sfinito, Goddard si accasciò in poltrona e ingoiò la rabbia.
«Informatemi di ciò che accade nel mondo. Ditemi ciò che devo sapere.»
Nietzsche si sedette al tavolo delle conferenze. «Una parte delle
Compagnie alleate appoggia ciò che ha fatto allo stadio, le altre non si
pronunciano. Le Compagnie che le si oppongono reclamano la sua
autospigolatura, ma mi preoccupa di più la fiumana di gente che passa il
confine per andare nella regione della Stella Solitaria.»
«Hai voluto instillare la paura» osservò Ayn. «Ora sarai soddisfatto.»
«Stiamo considerando la possibilità di costruire un muro per arginare
l’esodo.»
«Non essere ridicolo» replicò Goddard. «Solo gli idioti costruiscono
muri. Lasciamoli andare, e quando ci saremo impadroniti della regione
della Stella Solitaria, quelli che avranno abbandonato la MidMerica
verranno spigolati.»
«È così che pensi di risolvere i problemi, adesso?» chiese Ayn.
«Spigolando tutti quelli che ti sono contrari?»
Si aspettava di ricevere una rispostaccia, ma ormai la rabbia di Goddard
si era esaurita. «È quello che facciamo, Ayn. È lo strumento che ci è stato
concesso, l’unico strumento che possiamo maneggiare.»
«E poi» continuò Nietzsche, «c’è la questione dei tonisti.»
«I tonisti!» protestò Goddard. «Perché sono sempre all’ordine del
giorno?»
«Hai trasformato il loro profeta in un martire» gli fece notare Ayn. «A
prescindere da ciò che pensi, i nemici morti sono più duri da combattere di
quelli vivi.»
«Se non fosse che…» intervenne Nietzsche, esitante.
«Se non fosse che?» lo incoraggiò Goddard.
«Se non fosse che abbiamo intercettato notizie secondo le quali il
Rintocco sarebbe apparso tra la gente.»
La Somma Roncola borbottò, disgustata. «Sì, lo so. La gente lo vede
nelle nuvole e nelle bruciature sul pane tostato.»
«No, eccellenza. Intendo… in carne e ossa. E stiamo cominciando a
pensare che le notizie siano credibili.»
«Stai scherzando.»
«Be’, non abbiamo mai avuto conferma che il corpo che ci hanno
presentato fosse quello del Rintocco. È possibile che sia ancora vivo.»
Ayn fece un profondo respiro, preparandosi a vedere qualche altro
oggetto infrangibile lanciato per tutta la sala.
34
Un mondo migliore

«So che la maggior parte di voi non segue ciò che accade nella Compagnia.
È naturale. La Compagnia fu creata perché le persone non si
preoccupassero dei portatori di morte prima del trapasso.
«Ma l’affondamento di Endura ci ha colpiti tutti. La catastrofe ha spinto
il Thunderhead a chiudersi nel suo silenzio e a classificare tutti gli abitanti
della Terra come loschi. E in assenza delle Grandi Falci che svolgevano il
ruolo di arbitri, si è determinato uno squilibrio di potere in seno alla
Compagnia.
«Abbiamo vissuto in un mondo stabile per oltre duecento anni. Ora non
più. Se vogliamo ritrovare quella stabilità, dobbiamo combattere. E non mi
rivolgo solo alle falci, ma a tutti. E quando sentirete ciò che ho da dire,
vorrete combattere.
«So che cosa state pensando: “Madame Anastasia punterà il dito contro
il colpevole? Accuserà pubblicamente Goddard di aver ucciso le Grandi
Falci e aver distrutto Endura?”
«Dovrete avere pazienza, perché ci sono altre questioni più urgenti da
affrontare. Altre accuse. Vi mostrerò una storia di atti impensabili che
vanno contro tutti i valori predicati dalla Compagnia.
«È una storia che non inizia con Goddard, ma che è cominciata molti
anni prima della sua nascita.
«Nell’anno della Lince, la colonia Nectaris Prime sulla Luna subì quello
che venne definito “un guasto atmosferico catastrofico”. La scorta di
ossigeno, anche di ossigeno liquido, si disperse nello spazio, uccidendo tutti
i coloni. Non ci fu neppure un sopravvissuto.
«Tutti conoscono questo episodio: l’abbiamo studiato a scuola. Ma avete
mai letto la prima schermata che appare sulla banca dati della storia
ufficiale? Sapete di quale parlo. È un paragrafo scritto in caratteri minuscoli
che si salta sempre per andare alla ricerca che interessa. Se vi prendeste il
tempo di leggerlo, sepolta nel bel mezzo di tutto quel ginepraio giuridico,
trovereste una piccola clausola. Dichiara che le banche dati della storia
pubblica sono sottoposte all’approvazione delle falci. Perché? Perché alle
falci è consentito fare tutto ciò che vogliono. Anche censurare la storia.
«Il che andava bene finché le falci si attenevano al loro codice
deontologico. Onore, virtù, rispetto degli ideali umani. Smise di andare
bene solo quando alcune falci iniziarono a servire i propri interessi invece
che quelli dell’umanità.
«La colonia sulla Luna fu il primo tentativo di insediamento nello
spazio. Il piano era di popolare progressivamente la “frontiera lunare” per
arginare il problema della sovrappopolazione della Terra. Il Thunderhead
aveva previsto tutto. Finché non arrivò la catastrofe.
«Voglio che dimentichiate tutto ciò che pensate di sapere riguardo a
quell’avvenimento, perché, vi ripeto, i rapporti ufficiali non sono affidabili.
Invece, vorrei che voi stessi reperiste le informazioni sul disastro lunare,
come ho fatto io. Andate direttamente alle fonti originali. Ai primi articoli
scritti. Alle registrazioni personali realizzate dai coloni condannati prima di
morire. Ai video in cui implorano aiuto. È tutto contenuto nel cervello
primordiale del Thunderhead. È ovvio che il Thunderhead non vi guiderà,
perché siete dei loschi. Dovrete trovare le informazioni da voi.
«Ma sapete una cosa? Anche se non foste loschi, il Thunderhead non vi
guiderebbe. Data la natura sensibile delle informazioni, violerebbe la legge
se vi aiutasse a trovarle. E, con mio sommo dispiacere, il Thunderhead non
può infrangere la legge. Per fortuna, ci sono io.»

Le falci della Stella Solitaria condussero Rowan a Austin, la città più


lontana dai confini, e gli garantirono la massima protezione possibile. Si
presero cura di lui. Non lo sistemarono in un alloggio di lusso, ma
nemmeno in una cella.
“Sei un criminale” gli aveva detto Madame Coleman, salvandolo dal
rogo. “Ma dai nostri studi dell’era mortale, quando il crimine era la norma
piuttosto che l’eccezione, abbiamo appreso che i criminali possono essere
utili, a modo loro.”
Gli permisero di avere un computer per recuperare gli anni perduti, ma
continuava a essere attirato dai video della carneficina allo stadio di Mile
High dopo che l’avevano aiutato a fuggire. Non esistevano registrazioni
ufficiali della “spigolatura correttiva”, come l’aveva definita la Compagnia
Alleata del NordMerica, ma i sopravvissuti pubblicavano i video personali
che avevano realizzato durante la strage.
Rowan li guardava non perché ne avesse voglia, ma perché sentiva un
bisogno insopprimibile di vederne il più possibile. Anche se non conosceva
le vittime, sentiva la responsabilità di ricordare i loro volti e di tributare loro
almeno un ultimo saluto. Se avesse saputo che Goddard avrebbe reagito
così, avrebbe opposto resistenza alle falci texane e accettato la sua
spigolatura. Ma come avrebbe potuto saperlo e poi come avrebbe potuto
opporsi? Le falci texane erano determinate a farlo fuggire almeno quanto
Goddard era deciso a spigolarlo.
E guardava e riguardava i due brevi messaggi di Citra. Saperla ancora
libera e combattiva gli rendeva tutto il resto sopportabile.
L’ultima volta che Rowan era stato nella regione della Stella Solitaria era
prigioniero di Madame Rand. Lo statuto autonomo della regione, in cui
regnava un’anarchia benevola, le aveva permesso di sfuggire con facilità ai
controlli e di realizzare il suo piano di rianimare Goddard. Ma era stato
quello stesso spirito di libertà e coraggio a spingere le falci a correre in
aiuto di Rowan.
I texani dell’era post mortale erano unici. Non osservavano altre leggi se
non quelle che avevano stabilito loro stessi, non rendevano conto a nessuno
che non facesse parte della loro regione, il che a volte aveva dei risvolti
terribili, altre conduceva a esiti gloriosi. Era una delle sette regioni
autonome del Thunderhead ed era un esperimento sociale prolungato che
aveva finito per trasformarsi in stile di vita permanente, forse perché il
Thunderhead aveva deciso che il mondo aveva bisogno di un posto simile,
dove la gente potesse imparare a vivere seguendo le leggi del proprio cuore.
Non tutti gli esperimenti erano finiti bene. Come per esempio il
“pensiero collettivo” della Barriera di Ross, nella regione autonoma
dell’Antartide. Il Thunderhead aveva introdotto la tecnologia della telepatia
che permetteva a tutti di leggere nel pensiero. Non era andata molto bene.
La gente diceva che con quell’esperimento il Thunderhead aveva sfiorato
l’errore, sebbene lo negasse categoricamente. Secondo lui, tutti i suoi
esperimenti erano, per loro stessa natura, un successo, perché dimostravano
tutti qualcosa e perché gli fornivano una prospettiva migliore sull’umanità,
consentendogli di servirla meglio. Il “pensiero collettivo” era poi diventato
il “sonno collettivo”. Ormai, le persone della regione della Barriera di Ross
condividevano i sogni, perché le loro menti erano sempre connesse, ma solo
durante la fase REM del sonno.
Due giorni dopo averlo salvato, Maestro Travis e Madame Coleman
fecero visita a Rowan nel suo alloggio. Anche una terza falce entrò nella
stanza. Una persona che Rowan conosceva fin troppo bene, ma che non era
entusiasta di vedere.
Nell’istante stesso in cui scorse la veste cremisi, Rowan capì di essere
stato tradito. Si alzò, cercando d’istinto un’arma, che naturalmente non
aveva. Maestro Costantino, tuttavia, non provò ad attaccarlo. Non aveva
l’aria molto felice, ma non era una novità. Aveva solo due espressioni:
disgustata e giudicante.
Madame Coleman alzò le mani per invitare Rowan a stare calmo. «Non
è come credi» lo rassicurò. «Non è qui per farti del male. Maestro
Costantino si è unito alla Compagnia della Stella Solitaria.»
Fu allora che Rowan si rese conto che le pietre preziose che adornavano
la veste di Costantino in occasione del loro ultimo incontro erano sparite. E,
sebbene la sua veste fosse sempre color cremisi, ora era fatta di tela grezza.
Le falci erano libere di schierarsi con la regione che preferivano, ma era
raro che una falce del calibro di Costantino scegliesse una regione diversa.
Rowan era convinto che gli stessero tendendo una trappola.
Maestro Travis scoppiò a ridere. «Avremmo fatto meglio ad avvertirlo,
ve l’avevo detto.»
«Credimi» replicò Costantino, «non sono più contento di vederla di
quanto lo sia lei, ma ci sono problemi più importanti della nostra reciproca
ostilità.»
Rowan non sapeva ancora se credergli. Non riusciva a immaginarsi il
grande e potente Costantino nelle vesti di una falce della Stella Solitaria,
ridotto a spigolare solo con un coltello Bowie, l’unica regola della
Compagnia oltre ai comandamenti.
«Ti prego, Rowan, siediti» lo incitò Madame Coleman. «Abbiamo delle
cose di cui discutere.» E, quando lui si fu seduto, gli porse un foglio con
una lista di nomi. Tutte falci. Una cinquantina. «Queste sono le falci che
dovrai eliminare» spiegò.
Rowan la guardò, poi riabbassò gli occhi sul foglio, poi li alzò di nuovo
su di lei. Gli stava chiedendo davvero di uccidere cinquanta falci?
Travis, che era appoggiato al muro a braccia conserte, emise una specie
di sibilo addolorato. «La sua espressione dice tutto, no? Non sarà facile.»
Rowan restituì il foglio a Coleman. «No. È fuori discussione.»
Ma lei non riprese l’elenco e non avrebbe accettato un rifiuto. «Non
dimenticare che ti abbiamo risparmiato la prospettiva di una morte atroce,
Rowan. E, per averti salvato, trentamila innocenti sono stati spigolati. Ce lo
devi, a noi e a quella povera gente.»
«Ti chiediamo solo di liberare il mondo dalle falci problematiche»
aggiunse Travis. «Non morivi già dalla voglia di farlo? Ormai, non
lavorerai più da solo. Avrai l’appoggio della Compagnia della Stella
Solitaria.»
«Un appoggio ufficioso» precisò Madame Coleman.
«Esatto» confermò Travis. «Nessuno deve sapere. Questo è il patto.»
«E che cosa intendete di preciso per “falce problematica”?» domandò
Rowan.
Coleman gli strappò il foglio dalle mani e lesse un nome. «Maestro
Kurosawa. È da anni che se la prende con la nostra regione e ha oltraggiato
più volte la nostra Suprema Roncola.»
Rowan non era convinto. «Per questo? Volete che uccida una falce solo
perché parla troppo?»
«Tu non capisci» replicò Travis. «Perché ti riesce così difficile,
figliolo?»
Costantino non aveva più aperto bocca. Si teneva in disparte, con
un’espressione funerea. In qualità di Maestro Lucifero, Rowan aveva scelto
con cura le sue vittime. Se notava una sola qualità redentrice, allora lasciava
andare la falce. Conosceva di persona almeno tre falci sulla lista. Forse non
erano le più virtuose, ma non meritavano nemmeno di essere eliminate.
«Spiacente. Se mi avete salvato per servirvi di me per regolare i vostri
conti, potete rimettermi sulla pira.» Poi, Rowan si rivolse a Costantino. «E
tu! Non sei che un ipocrita! Mi hai dato la caccia perché spigolavo le falci
corrotte e ora invece ti sta bene che lo faccia di nuovo?»
Costantino fece un profondo respiro prima di parlare. «Dimentichi che
ero uno degli assistenti di Goddard. Dopo quello che ho visto, sono giunto
alla conclusione che è necessario limitare la sua influenza sul mondo con
ogni mezzo possibile. Le falci che sono sulla lista appartengono tutte al
nuovo ordine, difendono strenuamente l’operato di Goddard e ne
condividono la filosofia. Ti sei trasformato in giustiziere perché credevi che
la Compagnia avesse bisogno di una drastica riorganizzazione. Uno
sfoltimento selettivo, se preferisci. Anche se detesto ammetterlo, immagino
che tu abbia ragione.»
Aveva sentito bene? Costantino aveva pronunciato esattamente quelle
parole? L’inferno si sarebbe ricoperto di ghiaccio se il Thunderhead non
avesse avuto il controllo sul clima. «Vi ringrazio per avermi salvato la vita»
fece Rowan a Coleman e Travis. «Ma non accetto ordini.»
«Ti avevo avvisata» disse Travis a Coleman. «Il piano B ?»
Lei annuì. Rowan rabbrividì all’idea di cosa potesse essere il piano B , ma
non avevano ancora estratto i coltelli per spigolarlo.
«Da quando sei stato rianimato, hai mai chiesto una sola volta notizie
della tua famiglia?» domandò Madame Coleman.
Rowan distolse lo sguardo. Aveva avuto paura di farlo, e non solo per
timore di sapere, ma anche perché non voleva coinvolgere i suoi famigliari,
non voleva che venissero usati come pedine sulla scacchiera di chissà chi.
«Se sono ancora vivi, mi avranno di sicuro rinnegato. Forse hanno
cambiato nome o si sono fatti soppiantare. Al posto loro, è quello che avrei
fatto.»
«Molto perspicace» commentò Madame Coleman. «In realtà, due delle
tue sorelle hanno cambiato identità e uno dei tuoi fratelli si è fatto
soppiantare, ma è rimasto il resto della famiglia Damisch. Tua madre, i
nonni e gli altri quattro fratelli.»
«Mi state… minacciando di far loro del male?»
Travis proruppe in una fragorosa risata. «Che ti salta in mente? Pensi che
siamo come Goddard? Non faremmo mai del male a persone innocenti. A
parte, ben inteso, a quelli che spigoliamo.»
«Ti dirò io che cosa abbiamo fatto» riprese Madame Coleman. «Dopo
che hai affondato Endura, i tuoi familiari sono venuti nella nostra regione
per paura di essere spigolati dalla nuova Suprema Roncola della
MidMerica, con cui sapevano che eri in cattivi rapporti. Li abbiamo accolti
e da allora sono sotto la nostra protezione, e ci resteranno, qualunque sia la
tua decisione.» Poi, si voltò verso Travis. «Falli entrare.»
Lui uscì dalla stanza.
E Rowan venne colto dal panico.
La sua famiglia era lì? Stava accadendo davvero? Lo avrebbero
obbligato ad affrontarli? No! Come avrebbe potuto, dopo tutto ciò che
aveva fatto, dopo tutto ciò che loro credevano che avesse fatto. Per quanto
avesse un gran desiderio di vederli, di vedere con i suoi occhi che stavano
bene, non poteva sopportare il pensiero di trovarsi di fronte a loro.
«No! No, questo no!» esclamò.
«Se noi non riusciamo a convincerti, forse ci riusciranno loro» replicò
Costantino.
Che orrore, coinvolgere la sua famiglia in quella storia! Ascoltare sua
madre mentre gli diceva di andare a uccidere delle falci? Era peggio che
essere spigolato! Era peggio che essere bruciato vivo!
«Accetto!» farfugliò Rowan. «Farò qualunque cosa vogliate, solo…
solo, per favore, lasciate la mia famiglia fuori da tutto questo…»
Coleman chiuse la porta prima che Travis potesse ritornare.
«Sapevo che avresti compreso» disse con un caloroso sorriso. «Ora,
trasformiamo questo mondo in un posto migliore.»

«Avete finito le vostre ricerche? Avete frugato da cima a fondo nel cervello
primordiale? So che è frustrante senza l’aiuto del Thunderhead, ma
immagino che, in tre anni, molti di voi abbiano imparato a cavarsela da soli.
C’è un vantaggio a essere loschi, sapete? Siete obbligati a superare la
frustrazione e a darvi da fare per ottenere le cose. È molto più
soddisfacente.
«Che informazioni avete raccolto sul disastro lunare? Avete individuato
elementi strani? Avete notato che il sistema ambientale aveva tre livelli di
protezione? Non solo un generatore di riserva, ma ben tre. Avete scoperto
che prima di quel giorno il Thunderhead aveva calcolato che le probabilità
di una catastrofe atmosferica erano dello 0,000093 per cento? È meno di
una probabilità su un milione. Il Thunderhead si era sbagliato?
«Dopo la catastrofe, le Grandi Falci dell’epoca proclamarono una
settimana di lutto. Per una settimana, nessuno sarebbe stato spigolato,
perché sulla Luna c’erano stati tantissimi morti. Sono sicura che la maggior
parte delle Grandi Falci credeva davvero che si fosse trattato di un tragico
incidente, così come sono sicura che il dolore dimostrato era sincero.
«Ma forse, dico forse, una di loro mentiva.
«Se cercate la prova di un legame tra una falce e questo disastro, non la
troverete. Ma siete andati a vedere che cosa accadde nei giorni e nelle
settimane dopo la tragedia? Non vi è sembrato bizzarro che il Thunderhead
non abbia fatto ripulire il sito? Che non abbia fatto recuperare i corpi?
«Fonti anonime hanno sostenuto che, per il Thunderhead, recuperare dei
corpi impossibili da rianimare per via dei danni causati dalla permanenza
nello spazio e dalle radiazioni solari sarebbe stato semplicemente troppo
impegnativo.
«Ma se scavate nel cervello primordiale, troverete una sola dichiarazione
del Thunderhead. Solo chi è mosso da curiosità riesce a trovarla. Infatti, il
Thunderhead conclude il suo fascicolo sul disastro lunare con quella frase.
Non l’avete ancora trovata? In caso, ve l’ho copiata qui sotto. Guardate:
«“Avvenimento lunare fuori della giurisdizione del Thunderhead.
Conseguenza dell’attività di falci”.»

Protrarre la suspense non era solo una tattica per attirare l’attenzione del
pubblico, ma anche una strategia per guadagnare tempo. Anastasia non
sapeva ancora dove l’avrebbero portata le sue ricerche, ma ogni giorno
scopriva sempre nuovi segreti nascosti nel cervello primordiale. Sapeva di
essere vicina alla verità a proposito del disastro su Marte. Tuttavia, per ciò
che riguardava la distruzione della colonia orbitale di Nuova Speranza,
brancolava nel buio.
La prima rivelazione aveva già scosso il mondo. Tenkamenin era su di
giri e a cena non riuscì a trattenere la gioia.
«Quella dichiarazione del Thunderhead in un fascicolo dimenticato.
“Conseguenza dell’attività di falci.” Magistrale!»
«Ci fai arrossire di vergogna, mia cara» commentò Makeda. «Per mesi
abbiamo rovistato nel cervello primordiale senza mai trovarla.»
«E il fatto di incoraggiare le persone a condurre personalmente le
ricerche sotto la tua guida è brillante» fece notare Tenka.
«Ma non posso condurle a cose che non trovo. Ci sono ancora così tante
piste che non hanno senso. Come quella della seta bianca.»
«Spiegaci» la incoraggiò Makeda. «Forse, possiamo esserti di aiuto.»
Anastasia tirò fuori il tablet e mostrò loro un’immagine. «Questa è
l’ultima foto scattata sulla colonia orbitale di Nuova Speranza prima del
disastro. Sullo sfondo, si vede la navicella in avvicinamento, quella che ha
perso il controllo e che è finita contro la stazione, distruggendola.» Batté un
dito sullo schermo. «Il cervello primordiale collega l’immagine a tonnellate
di elementi, quasi tutti connessi al disastro. Notiziari, necrologi. Analisi
dinamica dell’esplosione. E poi, c’è questo…»
Mostrò loro il registro di magazzino di una pezza di tessuto. Seta bianco
perla. «Quasi metà della pezza è stata venduta per farne degli abiti da sposa,
una parte è stata usata per farne delle tende, ma ci sono quindici metri che
non si sa dove siano finiti. Il Thunderhead annota sempre tutto.»
«Forse erano solo scampoli» suggerì Baba.
«O forse il tessuto è stato preso da qualcuno che non lo ha pagato»
ipotizzò una voce alle loro spalle.
Era Jeri, in ritardo come al solito. Ma aveva avuto un’intuizione
formidabile. C’era solo una persona che poteva appropriarsi di un tessuto
prezioso senza che le facessero domande e senza pagare. Jeri si sedette
accanto ad Anastasia, che si mise subito al lavoro sul tablet. Con un indizio
a disposizione, non era difficile trovare le informazioni.
«Ci sono centinaia di falci che portano una veste bianca… ma solo una
cinquantina di seta… e seta bianco perla? Non è affatto comune.» Rimase
in silenzio il tempo necessario per metabolizzare quello che le stava
mostrando lo schermo. Girò il tablet verso gli altri.
«C’è solo una falce che ha una veste fatta di quel particolare tessuto.
Maestro Dante Alighieri.»
Nessuno capì il senso della scoperta, a eccezione di Tenka, che le rivolse
un ampio sorriso. «Che divina commedia! Tutte le strade portano ad
Alighieri…»
«Il nome mi è familiare» commentò Makeda. «Non era originario di
Bisanzio?»
«TransSiberia, mi pare» la corresse Baba.
La conversazione fu bruscamente interrotta da un tintinnio metallico così
forte che tutti i presenti sobbalzarono. Il suono cessò e riprese a
intermittenza.
«Ah, ecco il colpevole!» esclamò Jeri, indicando un antico telefono del
Ventesimo secolo in un angolo della sala da pranzo. Era uno dei vecchi
apparecchi collegati alla linea personale di Tenkamenin, che non aveva mai
suonato da quando Anastasia era arrivata. Emise un ultimo suono più
aggressivo prima che Tenkamenin ordinasse a un cameriere di rispondere.
«Linea personale di Sua eccellenza la Suprema Roncola Tenkamenin»
annunciò l’uomo in modo un po’ goffo. «Chi devo dire?»
Il domestico rimase in ascolto, per un momento parve allarmato, ma poi
la sua espressione si fece irritata. Riagganciò e tornò a servire la cena.
«Che volevano?» chiese la Suprema Roncola.
«Niente, eccellenza.»
«Non ho avuto questa impressione.»
L’uomo sospirò. «Era un tonista, eccellenza, che si lamentava e gemeva
come un animale. Non so come quella canaglia abbia avuto il suo numero.»
Poi, il telefono squillò di nuovo.
«Possiamo localizzare la chiamata» suggerì Madame Makeda.
Tenkamenin si fece serio. Non arrabbiato, ma preoccupato. «C’è un
pulsante rosso a destra dell’apparecchio» disse al cameriere. «Serve a
mettere in vivavoce. Per favore, rispondi e premi il pulsante.»
Il domestico fece come gli era stato ordinato e subito un gemito
incomprensibile risuonò dall’altoparlante del telefono. Era un suono
spettrale, degno di un castello medievale pieno di spifferi piuttosto che del
palazzo della Suprema Roncola. Era insistente. Desolato. Disperato.
Tenkamenin spinse indietro la sedia con un forte stridio, si alzò e andò al
telefono. Rimase a osservarlo, ascoltando l’atroce lamento. Poi, riagganciò.
«Bene» disse Maestro Baba. «Non è stato piacevole.» Cercò di
sdrammatizzare, ma Tenkamenin non era dell’umore giusto. Restò in piedi a
fissare in silenzio il telefono. Poi, si voltò verso Jeri.
«Comandante Soberanis, dove si trova al momento il suo equipaggio?»
Jeri si guardò intorno, non capendo, come tutti i presenti, in che modo la
domanda fosse pertinente. «In città o a bordo della nave. Perché?»
«Avverta i suoi marinai che salperete subito. E che noi verremo con lei.»
«Noi… chi?»
«Tutti noi.»
Anastasia si alzò. Non aveva mai visto Tenka così turbato. Era sempre
stato calmo. Ora pareva profondamente scosso.
«Che succede, eccellenza?» gli chiese.
«La chiamata non è stata fatta per caso» rispose. «Credo che fosse un
avvertimento, da prendere sul serio.»
«Come fa a saperlo?»
«Perché era mio padre» replicò Tenkamenin.
35
Requiem in dieci tempi

I. Introitus
Tutto comincia con un mormorio soffocato. Il direttore d’orchestra è in
piedi, le mani pronte in aria, tutti gli occhi sono incollati alla sua bacchetta,
come se, abbassandola, potesse scatenarsi una magia nera.
Il brano di oggi è una meraviglia orchestrale. Un requiem concepito e
interpretato da seguaci sibilanti della Tonalità, del Tuono e del Rintocco
martirizzato. Un requiem eseguito in risposta alla spigolatura di Mile High
dall’altra parte dell’oceano.
Lo sentite, ora, propagarsi nelle strade di Port Remembrance? Una messa
mortale, senza lingua e senza parole, in un mondo immortale. Una suite di
accordi apocalittici, di fuoco e zolfo, ma soprattutto fuoco. Quei Sibilanti si
sono preparati per il concerto che daranno oggi. E, per coloro che lo
sentiranno, non ci sarà salvezza.

II . Dies Irae
I camion dei pompieri erano tutti automatizzati. Eppure, erano stati
progettati con un volante, perché così aveva previsto il Thunderhead. Certo,
se l’autista avesse fatto una manovra sbagliata, il camion avrebbe preso il
controllo e corretto la traiettoria.
Il capo dei pompieri di Port Remembrance ci pensava spesso. Prima di
passare di grado, aveva commesso di proposito errori al volante per
divertirsi, per vedere quanto ci impiegava il pilota automatico a entrare in
funzione e a correggere la traiettoria. Il Thunderhead avrebbe potuto
servirsi dei robot per svolgere il lavoro dei pompieri, ma non ne era mai
stato troppo entusiasta. Usava i robot solo per quelle mansioni che nessun
altro gradiva.
Quindi i pompieri erano sempre pompieri. Ma non significava che
avessero molto da fare. Ogni volta che scoppiava un incendio, il
Thunderhead lo rilevava quando era poco più di una scintilla e di solito
riusciva a spegnerlo. Solo in rare occasioni non ce la faceva, e allora
intervenivano i vigili del fuoco. Anche se il capo dei pompieri era arrivato
alla conclusione che fosse il Thunderhead ad appiccare incendi “innocui”
solo per tenerli occupati.
Alle 18,30, partì un allarme in caserma. Un tempo, il Thunderhead
avrebbe fatto un discorsetto ai pompieri spiegando la situazione e dando
loro istruzioni su come affrontarla. Ora, si accontentava di far partire una
sirena e di programmare il loro GPS . Per il resto, lasciava che se la cavassero
da soli.
L’allarme di quel giorno era comunque strano. Sui loro schermi non
apparve alcuna destinazione. La serranda del garage restò abbassata. Ma la
sirena continuava a suonare.
All’improvviso, la serranda venne sfondata e alcune figure si misero a
correre verso la caserma. A quel punto, i pompieri capirono che la sirena
non segnalava un incendio, ma un attacco.
Tonisti!
Si riversarono a decine all’interno della caserma, emettendo un atroce
ronzio, simile a uno sciame di api. I tonisti erano armati, e i pompieri
dell’unità non erano preparati a quel genere di assalto.
Il comandante dei vigili del fuoco rimase immobile, sconcertato da
quanto stava accadendo. Avrebbe voluto difenderli, ma come? Con cosa?
Nessuno aveva mai attaccato un pompiere, a parte forse una falce
occasionale, ma quando una falce attaccava era per spigolare. Fine della
storia. Non ci si difendeva. Non si lottava. In quel caso, però, era molto
diverso. Quei tonisti uccidevano a destra e a manca, e nessuno sapeva come
reagire.
“Rifletti!” si disse. “Rifletti!” Era addestrato a combattere gli incendi,
non le persone. “Rifletti! Ci dev’essere qualcosa da fare!”
E poi gli venne un’idea.
Le asce antincendio!
Avevano le asce antincendio! Il comandante attraversò il garage per
andare a prenderne una. Ma sarebbe riuscito a usarla contro un altro essere
umano? Doveva farlo, perché non aveva intenzione di lasciare che i
Sibilanti massacrassero la sua unità.
In quel momento, i tonisti cominciarono a lanciare pietre contro i
camion. Una fu scagliata nella sua direzione, ma la afferrò al volo prima
che lo colpisse.
Non era proprio una pietra, però. Intanto, era metallica e spigolosa.
Aveva già visto qualcosa del genere nei libri di storia. “Rifletti! Com’è che
si chiama? Ah, giusto… granata!”
E, in un lampo, il comandante non ebbe più bisogno di riflettere su nulla.

III . Confutatis
Tenkamenin era un uomo risoluto. Poteva apparire impulsivo e fuori di
testa, ma, in realtà, tutto nella sua vita era organizzato al millimetro. Anche
il caos dei suoi Giubilei Lunari era un disordine controllato.
Dopo la chiamata urgente del padre, si rese conto che ogni attimo era
importante. Eppure, gli era impossibile reprimere i suoi istinti. Si rifugiò
subito nella sua umile residenza, dove, con l’aiuto del suo cameriere
personale, cercò di capire che cosa dovesse portare con sé per quella fuga
improvvisata. Una seconda veste, naturalmente. Ma adatta al freddo o al
caldo? Chi doveva avvertire della loro partenza? Una Suprema Roncola non
svaniva da un giorno all’altro. Tenkamenin era più confuso che mai.
«Eccellenza, non aveva detto di avere fretta?» gli fece notare il
maggiordomo.
«Sì, certo.»
E poi c’erano oggetti che per lui avevano un valore affettivo e che
doveva per forza portare con sé. Il revolver in ossidiana che la Grande Falce
Nzinga gli aveva dato il giorno in cui aveva assunto l’incarico di Suprema
Roncola. Il pugnale in argento che aveva usato per la sua prima spigolatura.
Se quel luogo fosse stato attaccato, chi poteva sapere se avrebbe mai rivisto
i suoi preziosi oggetti? Doveva portarli a ogni costo con sé.
Per dieci minuti, fu ossessionato dal pensiero di cosa prendere e di cosa
lasciare. Smise solo quando udì le prime esplosioni in lontananza.
IV . Lacrimosa
«Se dobbiamo andare, dobbiamo farlo ora!»
Anastasia camminava avanti e indietro nella grande sala sotto la cupola
centrale insieme a Jeri, in attesa che arrivassero gli altri. «Dove diavolo
sono Tenkamenin e gli assistenti?»
«Forse la sua reazione è eccessiva» commentò Jeri. «Ho avuto spesso a
che fare con i tonisti e mai una volta li ho visti usare violenza. Irritanti e
sgradevoli, forse, ma mai violenti.»
«Non ha visto questi tonisti!» esclamò Anastasia. «E se Tenkamenin
pensa che abbiano qualcosa in mente, gli credo.»
«Allora, andiamocene senza di lui» suggerì Jeri. «Gli altri ci
raggiungeranno dopo.»
«Io non lo abbandono» replicò Anastasia. In quell’istante una serie di
esplosioni riecheggiò tra le pareti dell’atrio. Entrambi si fermarono ad
ascoltare. L’aria si riempì di altre esplosioni, come un temporale in
lontananza.
«Non sono nel palazzo» affermò Jeri.
«No, ma arriveranno presto.» Anastasia sapeva che quegli scoppi non
presagivano nulla di buono. Una lugubre promessa che quella giornata
sarebbe finita in lacrime.

V. Sanctus
La giovane tonista era una fedele adepta. Obbediva al suo curato, perché lui
era un vero uomo della Tonalità. Santo e santificato. Il curato non parlava
da molti anni. E il giorno della Grande Risonanza, il giorno in cui il
Thunderhead si era chiuso nel suo silenzio, era stato il primo a sacrificare la
sua lingua. Le parole mentivano. Le parole cospiravano, nascondevano con
impunità, diffamavano e, soprattutto, offendevano la purezza della Tonalità.
Uno dopo l’altro, tutti i tonisti avevano fatto il loro voto, come già il
curato. Non avevano fatto voto di silenzio, ma il voto delle vocali. Avevano
abbandonato del tutto i suoni secchi, innaturali, stridenti e brutali delle
consonanti. Il linguaggio era nemico del tonista. Era ciò che credeva la loro
setta. Certo, molti altri tonisti non condividevano quell’idea. Ma avrebbero
ben presto visto la luce. Anche quelli che si erano accecati.
Mentre un gruppo si impadroniva della caserma dei pompieri e un altro
del commissariato degli ufficiali di pace, il curato guidava la maggioranza
dei tonisti al palazzo. Erano tutti armati fino ai denti, non come i comuni
cittadini. Le armi erano state donate da un benefattore ignoto. Un
sostenitore segreto della loro causa. I tonisti non erano stati addestrati a
usarle, ma che importava? Maneggiare il pugnale, premere il grilletto,
lanciare la granata e azionare il detonatore. Erano in così tanti a essere
armati che non avevano bisogno di alcuna preparazione per raggiungere il
loro scopo. E avevano anche il cherosene. Bidoni e bidoni di cherosene.
La tonista ci teneva a far parte della prima ondata. Era spaventata, ma
anche felice di partecipare a quell’avventura. Era il loro momento! Nella
scia della spigolatura di Mile High, quando l’odio contro le falci aveva
toccato il punto più alto, l’umanità intera avrebbe finalmente abbracciato la
fede tonista! Avrebbe applaudito l’opera che avrebbero portato a termine
quella sera, e la regione subsahariana avrebbe rappresentato un modello per
il resto del mondo, che si sarebbe risvegliato alla gloria della Tonalità, del
Rintocco e del Tuono. Esultiamo tutti!
Avvicinandosi al palazzo, la tonista aprì la bocca per intonare il sacro
brusio, imitata dagli altri. Era una grande soddisfazione per lei essere stata
la prima. Erano una sola mente, una sola anima, una sola nota.
Poi, giunta davanti ai bastioni, si arrampicò sulle spalle dei fratelli e
insieme agli altri tonisti si mise a scalare le mura del palazzo.

VI . Agnus Dei
Anastasia e Jeri, seguiti da Makeda e Baba, raggiunsero Tenkamenin nel
roseto, a metà strada tra il palazzo e il suo cottage. Il maggiordomo stava
trascinando una pesante valigia le cui rotelle arrancavano lungo lo stretto
sentiero lastricato.
«Abbiamo chiamato l’elicottero» li informò Madame Makeda. «Ma ci
vorranno almeno dieci minuti prima che arrivi qui dall’aeroporto.»
«Sempre che il pilota non si stia sbronzando in qualche bar, come
l’ultima volta» aggiunse Baba.
«Andrà tutto bene» li rassicurò Tenkamenin, un po’ con il fiato corto.
«Verrà a prenderci e andrà tutto bene.»
Poi, si mise alla testa della comitiva alla volta dell’eliporto, situato sul
lato ovest della proprietà. Intorno a loro, l’intero complesso era in
agitazione. I dipendenti del palazzo si affrettavano da una parte all’altra,
con le braccia piene di effetti personali. Gli ufficiali della Suprema Guardia
uscivano di corsa dalla caserma per andare a prendere posizione, cosa che
probabilmente avevano fatto solo nelle esercitazioni.
A un tratto, si udì un rumore da ovest. Un coro di brusii, ognuno con un
tono monocorde dissonante. E delle figure cominciarono a calare giù dal
muro occidentale.
«È troppo tardi» disse Tenkamenin, facendoli fermare di colpo.
Le sirene si misero a suonare intorno a loro e la Suprema Guardia reagì
subito, sparando contro gli intrusi, aggiungendo il rumore delle armi da
fuoco alla cacofonia delle voci. I tonisti crollarono a terra ma, per uno che
cadeva, altri due scalavano il muro. Ben presto, le guardie sarebbero state
sopraffatte.
Quei Sibilanti erano decisamente agguerriti. Non brandivano pietre, ma
vere e proprie armi, che usavano contro le guardie con una brutalità
inaudita. Dove diavolo le avevano prese?
Il tonismo non predicava la pace interiore e la stoica rassegnazione?
«Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere» mormorò Anastasia.
Era il mantra preferito dei tonisti. All’improvviso le apparve sotto una
nuova luce, una luce terribile.
Il pesante cancello a sud esplose e una folla di tonisti si riversò
all’interno della proprietà. Nel giro di pochi secondi, sfondarono la linea
degli ufficiali della Suprema Guardia e iniziarono a lanciare molotov, che
appiccavano il fuoco in ogni punto in cui cadevano.
«Vogliono bruciarci vivi per non farci rianimare!» esclamò Baba, in
preda al panico. «Come faceva Maestro Lucifero!»
Anastasia avrebbe voluto redarguire Baba per aver osato paragonare
Rowan a quella perversa setta di tonisti, ma si trattenne.
Intanto, lo scontro si era propagato fino all’eliporto. Tenkamenin cambiò
direzione. «Alla terrazza orientale!» ordinò. «C’è più spazio per far
atterrare l’elicottero! Venite!»
Fecero dietrofront, riattraversarono il roseto, si impigliarono nei rovi,
graffiandosi e pungendosi con le spine ma, ancora prima di raggiungere la
terrazza orientale, videro che anche quella parte della proprietà era caduta
nelle mani degli aggressori. I tonisti erano dappertutto, attaccavano i
dipendenti che uscivano correndo dagli alloggi del personale, li inseguivano
e li abbattevano senza pietà.
«Perché se la prendono con i domestici?» chiese Anastasia. «Che motivo
hanno?»
«Nessuno. Hanno perso la ragione, la coscienza, la decenza» rispose
Madame Makeda.
Il cameriere che serviva loro la cena, così meticoloso nel sistemare le
posate a tavola, venne pugnalato alla schiena.
Baba si voltò verso Tenkamenin. «Avrebbe dovuto far fortificare il
palazzo!» gridò. «Avrebbe dovuto far aggiungere un’altra guarnigione! O
spigolare questo branco di tonisti prima che potessero scagliarsi contro di
noi! È tutta colpa sua!»
La Suprema Roncola strinse i pugni e si avventò contro Baba, ma Jeri li
separò. «Discuterete dopo. Se volete continuare a litigare, dobbiamo prima
salvarci la pelle.»
Anastasia si guardò intorno. Erano protetti dall’ombra e non erano stati
ancora individuati. A breve li avrebbero scoperti, però. A poco a poco, le
fiamme stavano inghiottendo la proprietà.
All’improvviso, una specie di nuovo ronzio riempì l’aria, come se tutto
quel frastuono non fosse già abbastanza. Una nube di droni-ambulanza
scese dal cielo. Erano stati inviati dal centro di rianimazione più vicino
quando le persone avevano cominciato a morire.
Puntarono i corpi che giacevano sull’erba e sul lastricato: tonisti,
guardie, domestici, non facevano distinzione tra i morti. Li raccoglievano
con pinze che ricordavano quelle degli insetti e li portavano via.
«Ecco la soluzione!» esclamò Maestro Baba. «Non ci serve l’elicottero!»
E, senza attendere il permesso della Suprema Roncola, attraversò il prato e
si precipitò verso il drone-ambulanza più vicino, gettandosi come un
agnello tra le fauci del lupo.
«Ahmad! No!» gridò Tenkamenin, ma lui, ormai deciso, non si voltò
indietro.
Quando i tonisti videro la veste di una falce, si diressero verso Baba e lo
intercettarono. Baba sguainò i pugnali, abbatté i primi tonisti che incrociò,
ma non servì a nulla. Erano troppi. Lo buttarono a terra e si accanirono su di
lui con tutte le armi che avevano, anche con i suoi stessi pugnali.
Madame Makeda avrebbe voluto andare ad aiutarlo, ma Anastasia la
fermò. «Non puoi fare nulla per lui, ormai.»
Lei annuì, ma non distolse lo sguardo dal compagno caduto. «Forse è il
più fortunato di tutti noi. Se l’hanno ucciso, i droni verranno a prenderlo.
Lo porteranno in un centro di rianimazione.»
Ma i droni non lo recuperarono. C’erano così tanti cadaveri da prelevare,
che erano tutti già occupati, e un drone-ambulanza non faceva alcuna
distinzione fra i corpi.
Fu allora che Anastasia capì. «Uccidono i domestici per impegnare tutti i
droni… così non ce ne saranno più per le falci…»
E, dato che nessun drone portò via Baba, i tonisti ne presero il corpo e lo
trascinarono verso un rogo per ridurlo in cenere. Lo lanciarono tra le
fiamme, che lo divorarono.
«Al palazzo!» ordinò Tenkamenin, capeggiando il gruppo, come se
muoversi gli desse l’impressione di non essere in trappola.

VII . Benedictus
Si rifugiarono nel palazzo, dove una mezza dozzina di guardie chiuse le
poderose porte in bronzo e rimase appostata per difenderle da un altro
eventuale assalto dei tonisti. Finalmente, un po’ di respiro. Un momento di
pace per definire una strategia. Avrebbero potuto ancora salvarsi, invece di
andare incontro a una morte atroce come il povero Maestro Baba.
Sebbene la dimora avesse molte finestre, erano tutte rivolte verso l’atrio
centrale. Per questo, il palazzo dei piaceri della Suprema Roncola era anche
una solida fortezza. Sì, ma quanto solida?
«Per un’operazione di questa portata, devono aver riunito tutti i Sibilanti
del SubSahara» commentò Madame Makeda.
«Andrà tutto bene» insistette Tenkamenin. «Gli ufficiali di pace di Port
Remembrance chiameranno i rinforzi. E i pompieri della città domeranno le
fiamme. Andrà tutto bene.»
«Dovrebbero essere già qui!» replicò Makeda. «Perché non si sentono le
sirene?»
Fu Anastasia, perspicace come sempre, a deludere le loro aspettative.
«Le prime esplosioni. Quelle in lontananza…»
«E allora?» chiese Tenkamenin, in tono quasi minaccioso. Si attaccava
disperatamente all’ultima speranza di salvezza.
«Be’… se volessi sferrare un attacco contro un palazzo, la prima cosa
che farei sarebbe eliminare gli ufficiali di pace e i pompieri.»
Quell’affermazione era così logica che li zittì. Poi, Tenkamenin si voltò
verso il maggiordomo, che si torceva le mani in preda al terrore.
«Dove sono le mie cose?»
«Io… sono desolato, eccellenza. Ho lasciato la valigia nel roseto.»
Jeri fulminò con lo sguardo la Suprema Roncola. «Stiamo per essere
ridotti in cenere e lei si preoccupa dei suoi effetti personali?»
Ma, prima che la Suprema Roncola potesse replicare, un camion in
fiamme sfondò le pesanti porte in bronzo. Che si scardinarono,
schiacciando quattro guardie. I tonisti penetrarono in massa nel palazzo.
Jeri afferrò Anastasia e la trascinò dietro una colonna, al riparo dagli
sguardi.
«Ho un’idea, ma deve fidarsi di me.»

VIII . Offertorium
Il curato era nel suo elemento. Era nato per quello scopo, era la sua ragione
di esistere, ed era un progetto che covava da anni. Addirittura già prima che
il Thunderhead smettesse di parlare, sapeva che sarebbe arrivato il suo
giorno. La corrente estremista che aveva creato in seno al tonismo avrebbe
ben presto dominato la setta. I tonisti minori che predicavano la pace, la
tolleranza e la rassegnazione si sarebbero estinti, come la Suprema Roncola
del SubSahara, che avrebbe incenerito quel giorno. Il tempo delle parole era
finito. Da un pezzo. Se fosse dipeso da lui, il linguaggio stesso sarebbe stato
bandito e sostituito da un’adulazione muta della Tonalità, del Rintocco e del
Tuono. Era nell’ordine delle cose. E lui sarebbe stato il Gran Curato.
Avrebbe vegliato su tutto. Oh, che giornata gloriosa sarebbe stata! Ma ogni
cosa a suo tempo.
Una falce con una veste turchese salì di corsa la grande scalinata, nel
tentativo di fuggire. Il curato la indicò e i suoi seguaci si lanciarono
all’inseguimento. Di fronte a lui, una donna con una veste in seta color
salmone, che riconobbe come Madame Makeda, era passata all’attacco e
spigolava con abilità i tonisti che la assalivano. Fedeli e leali, si
sacrificavano per la causa. Uno di loro riuscì ad arrivare alle spalle di
Makeda e la trafisse da parte a parte. Lei si immobilizzò, boccheggiò, e
infine si accasciò a terra come una bambola di pezza, priva di vita. Tre
tonisti la afferrarono e la trascinarono all’esterno, per gettarla tra le fiamme
purificatrici del rogo.
«Non siete meglio di Goddard se ci bruciate!» gridò una domestica
accovacciata alla base delle scale insieme alla Suprema Roncola
Tenkamenin. «Se perseverate nella vostra follia, l’oggetto stesso della
vostra venerazione non potrà mai perdonarvelo.»
La Suprema Roncola mise una mano ben salda sulla spalla della donna
per farla tacere, ma i suoi occhi erano pieni di rabbia. Se il curato avesse
potuto dire qualcosa, le avrebbe risposto che le sue parole, come tutte le
parole, erano un abominio agli occhi della Tonalità. E che, se la Tonalità
non le spaccava il cranio in due con la sua furiosa risonanza, era perché
lasciava al curato, e a persone come lui, il compito di purificare il mondo
dagli indegni. Però, non poteva dirglielo. E non ne aveva bisogno. Le sue
azioni erano molto più eloquenti delle parole.
In compenso, però, la Suprema Roncola non tenne la bocca chiusa.
«La prego…» lo supplicò.
Il curato conosceva già il seguito. Quella falce boriosa e codarda, quel
dispensatore di morte non naturale, lo avrebbe implorato di risparmiarlo.
Che lo pregasse pure. Il curato non era sordo, dopotutto, a differenza di altri
Sibilanti, ma era come se lo fosse.
«Per pietà… uccida me, ma lasci in vita loro due» lo supplicò
Tenkamenin. «Il maggiordomo e la domestica non le hanno fatto nulla.»
Il curato esitò. Desiderava uccidere tutti, perché chi era al servizio di una
falce meritava lo stesso destino. Colpevole per associazione. Poi, la
Suprema Roncola aggiunse: «Dia prova di compassione, sia un esempio per
i suoi fedeli. Come i miei genitori sono stati un esempio per me. Mia madre
e mio padre, che sono dei vostri».
Il curato lo sapeva già. I genitori della Suprema Roncola lo avevano
implorato di non farli partecipare all’assalto del palazzo. Aveva accolto la
loro richiesta e li aveva inviati alla caserma dei pompieri. E avevano fatto
un buon lavoro. Tenkamenin non sarebbe stato risparmiato ma, per rispetto
nei confronti dei suoi genitori tonisti, avrebbe onorato l’ultimo desiderio del
figlio. Estrasse la pistola, sparò alla falce in pieno petto e fece segno ai due
servitori di andarsene.
Fu un gesto di umile compassione. Certo, con ogni probabilità sarebbero
stati uccisi nel parco e gettati nel fuoco, ma i droni-ambulanza stavano
recuperando parecchi morti. Avevano qualche speranza di farcela.
La domestica si alzò in piedi. Il suo sguardo ribolliva di collera. Anzi,
peggio. Di determinazione. Come quello di una falce.
Si scagliò contro la prima tonista che le capitò sotto tiro, la fece fuori
con un colpo di piede ben assestato, una mossa delle arti marziali, si
impadronì del suo machete e lo abbatté sul polso del curato.
Lui, stupefatto, vide la sua mano troncata di netto volare in aria. Poi, la
domestica afferrò la pistola che teneva ancora nella mano mozzata, e la
puntò contro il tonista. Non disse nulla, perché le sue azioni erano molto più
eloquenti delle parole.

IX . Lux Aeterna
Jerico non si era fidato dell’istinto di Anastasia. Non aveva creduto che
fosse così grave come aveva pensato. Era stato un terribile errore di
giudizio da parte di Jeri. Sarebbero potuti fuggire molto tempo prima che il
muro esterno venisse preso d’assalto. Se solo l’avesse ascoltata. Il
comandante giurò di non dubitare mai più di Anastasia. Se mai fossero
scampati alla morte, perché ora sopravvivere era diventata un’impresa
davvero ardua.
Quando i tonisti avevano invaso il palazzo, Jeri aveva convinto
Anastasia a scambiarsi gli abiti. «È mio dovere proteggerla» l’aveva
supplicata. «La prego, Anastasia, mi conceda questo onore!»
Non voleva mettere in pericolo Jeri ma, quando lui le aveva spiegato la
situazione, non aveva potuto rifiutare.
Dopo essersi infilato la veste di Anastasia, Jeri aveva salito la grande
scalinata, tirandosi dietro metà dei tonisti. Non conosceva bene tutte le
stanze e gli appartamenti privati dei piani superiori, ma di sicuro ne sapeva
di più degli aggressori. Li aveva condotti fino agli alloggi di Madame
Anastasia, poi era ritornato sui suoi passi per una porta secondaria che dava
su un salone. Il palazzo era un labirinto, cosa che gli aveva permesso di non
farsi mettere subito con le spalle al muro. Sentiva però che non sarebbe
riuscito a evitarlo ancora per molto. Dal piano inferiore, era giunto il
rumore di uno sparo, poi un altro. Aveva cercato di non pensarci; doveva
concentrarsi sull’obiettivo: tenere lontani quei tonisti dalla battaglia.
Gli invasori avevano appiccato il fuoco in più punti all’interno del
palazzo. Avevano dato alle fiamme il colonnato e gli appartamenti dei piani
superiori. Jeri era riuscito a confondersi tra i chiaroscuri generati dalle
lunghe lingue di fuoco che si agitavano frenetiche, ingannando i tonisti. Poi,
era tornato indietro e si era rifugiato in una delle stanze. Ma la veste, che
non era abituato a portare, era rimasta impigliata nello stipite della porta. I
tonisti, brandendo le armi in modo maldestro, erano piombati su di lui, che
stava ancora cercando di liberarsi. Jeri non era una falce, ma aveva
esperienza di armi. C’era stato un tempo, infatti, in cui aveva frequentato le
palestre di combattimento. La gente andava matta per la lotta malgascia. In
un certo senso, l’ambiguità di genere rendeva il combattimento più
interessante.
E quel giorno, quei tonisti avevano messo gli occhi sul malgascio
sbagliato.
Anastasia aveva lasciato una lama in una delle tasche della veste. Jeri
l’aveva sguainata e aveva lottato come mai aveva fatto prima.

X. Libera Me
Anastasia non andò a segno. Merda! Aveva mancato il curato!
Una giovane tonista, vedendo che il curato era in pericolo, lo spinse via e
si prese il proiettile al suo posto. E l’uomo, stringendosi il moncherino con
aria sofferente, fuggì. Correva come un codardo, per andare a confondersi
tra la folla di tonisti che continuava ad affluire nell’atrio.
Tenkamenin era morto. Anche Makeda e Baba. I tonisti che avevano
visto Anastasia attaccare il curato, ancora sconvolti, esitavano a reagire.
Piena di collera, era sul punto di spigolarli, ma si trattenne, perché una falce
degna di quel nome non poteva spigolare in preda alla rabbia. E poi, c’era
una questione più urgente: Jeri.
Si voltò e si lanciò su per le scale. Nessuno la inseguì. I tonisti erano
troppo occupati ad appiccare il fuoco a tutto ciò che poteva bruciare.
Seguì gli echi di una battaglia fino a uno degli appartamenti vuoti della
dimora. Il pavimento era disseminato di cadaveri di Sibilanti. Una traccia di
sangue la condusse in una camera da letto, in cui tre tonisti stavano
attaccando Jeri. Lui era a terra, e li respingeva come poteva, ma erano
troppi per un uomo solo e stava per capitolare.
Anastasia spigolò i tre tonisti con le loro stesse armi e si inginocchiò
accanto a Jeri, per valutare le ferite che aveva ricevuto. La veste turchese
era impregnata di sangue. Gliela tolse, la strappò e usò un pezzo di stoffa
come laccio emostatico di fortuna.
«Ho… ho sentito degli spari» farfugliò Jeri.
Le ferite del comandante erano troppo gravi perché i naniti curativi
fossero sufficienti. Senza l’aiuto di un dottore, non si sarebbero cicatrizzate.
«Tenkamenin è morto» lo informò Anastasia. «Ha cercato di difendermi.»
«Forse, l’ho giudicato male» mormorò Jeri.
«Se fosse vivo, penso che direbbe la stessa cosa di lei.»
Dense volute di fumo si stavano già diffondendo attraverso le porte
aperte. Anastasia aiutò Jeri a raggiungere il colonnato che si affacciava
sull’atrio. Sotto di loro, le fiamme divoravano tutto. Non c’era modo di
passare per le scale. Poi, le venne un’idea. Una via d’uscita, forse l’unica
possibilità che avevano.
«Se la sente di arrampicarsi?» chiese a Jeri.
«Posso provarci.»
Anastasia lo aiutò a salire al piano superiore. Attraversarono un
appartamento che dava su un balcone, accanto al quale c’era una serie di
pioli murati nella pietra. Aveva visto gli operai passare da lì per arrivare alla
cupola in bronzo che sovrastava il palazzo. Un piolo alla volta, Anastasia
fece salire Jeri sul bordo della cupola, la cui pendenza era leggera e la cui
superficie in rilievo, a buccia d’arancia, offriva dei buoni punti di appoggio
per i piedi. Tuttavia a Jeri, sfinito per aver perso troppo sangue, sembrava
l’Everest.
«Co… come faccio a salire lassù…»
«Stia zitto e si muova» gli ordinò Anastasia, che non aveva il tempo di
spiegare.
La cupola era rovente per le fiamme che stavano devastando l’atrio più
in basso. I vetri dei lucernari cominciarono a esplodere per il calore e a
vomitare volute di fumo nero.
Raggiunsero la cima, su cui un segnavento a forma del simbolo della
Compagnia, la lama ricurva e l’occhio spalancato, ruotava a destra e a
sinistra, incerto sulla direzione del vento, contrastato dal flusso di calore
che risaliva dal basso.
Infine, apparve l’elicottero della Compagnia. Si stava dirigendo verso
l’eliporto. I piloti a bordo non sapevano ancora che era stato preso d’assalto
dai tonisti.
«Non ci vedrà» disse Jeri.
«Non è per questo che siamo qui.»
In quel momento, un drone-ambulanza passò loro vicino, poi un
secondo, poi un terzo. Scendevano verso il roseto, disseminato di cadaveri
di guardie e tonisti. «Ecco perché siamo qui» proseguì Anastasia. Cercò di
afferrare un drone, ma era troppo veloce e non si era avvicinato abbastanza.
Più in basso, l’elicottero fece un imperdonabile errore. Vedendosi
circondato dai droni, il pilota, spaventato, effettuò una brusca manovra
evasiva. Non era necessario, i droni avrebbero mantenuto la giusta distanza.
Non poterono però evitare l’elicottero, che si mise, senza volerlo, sulla loro
traiettoria di volo. L’elica tranciò in due un drone, la pala si spezzò e
l’elicottero si avvitò in caduta libera schiantandosi sul palazzo.
Anastasia agguantò Jeri e si voltò. L’esplosione parve scuotere il mondo
intero. Aprì un buco nell’edificio, facendo crollare parecchie colonne che
sostenevano la pesantissima cupola in bronzo.
E la cupola cominciò a inclinarsi.
Sotto i loro piedi, si sentì una terribile vibrazione. “Il resto delle
colonne” pensò Anastasia. “Non possono sopportare tutto il peso. Stanno
crollando…”
Intanto, i droni continuavano a sfrecciare avanti e indietro, impegnati a
recuperare i corpi sparsi nei giardini e nel parco.
«Le mie ferite sono gravi, ma non mortali» le fece notare Jeri. «Se
vogliamo attirare un drone-ambulanza, è necessario che uno dei due
muoia.»
Le fiamme lambivano ormai la cupola, allungandosi oltre i lucernari
rotti. Il frastuono delle colonne che si schiantavano riecheggiava dal basso e
la cupola si inclinò ancora.
Jeri aveva ragione. Era l’unica soluzione. Anastasia sguainò un pugnale
e se ne appoggiò la punta sul petto, pronta a darsi la morte per attirare un
drone-ambulanza.
Ma no! Che cosa le passava per la testa? Che stupida! Non era come
quando si era lanciata dal tetto di Senocrate, mentre era ancora
un’apprendista. Ora era una falce; se si fosse tolta la vita, sarebbe stata
considerata un’autospigolatura. I droni-ambulanza non sarebbero venuti a
recuperarla. E, mentre pensava all’idiozia che era stata sul punto di
commettere, Jeri le prese con dolcezza la lama dalla mano.
«Per lei, Veneranda Madame Anastasia, mi darei la morte mille volte.
Ma una basterà.» E si conficcò il pugnale nel cuore.
Un grido soffocato. Un colpo di tosse. Una smorfia. E Jeri era morto.
Un drone-ambulanza che li stava sorvolando a tutta velocità rallentò,
tornò indietro e scese a recuperare Jeri. Afferrò il comandante tra le pinze e
in quell’istante la cupola cominciò a cedere.
Anastasia cercò di aggrapparsi al drone, ma non aveva appigli. Così,
strinse il braccio di Jeri con tutte le sue forze.
In basso, la cupola collassò tra le fiamme, implodendo nell’atrio. Il
terreno tremò, distruggendo quel che restava del palazzo. Si sprigionò una
potente risonanza metallica, simile al rintocco di una campana a morto.
Come la nota sinistra e finale di un requiem.
In alto nel cielo, il drone-ambulanza trasportava il corpo del comandante
e la falce aggrappata al suo braccio, per depositarli in un centro che
prometteva di ridare la vita a chi ne superava la soglia.
Siamo profondamente contrari. Otto di noi sono fermamente convinti che
un’associazione di umani dovrebbe essere responsabile del controllo demografico.
Ma quattro si oppongono e sono irremovibili. Confucio, Elisabetta, Saffo e King
sostengono che non siamo pronti ad assumerci una tale responsabilità né
tantomeno a farci carico dell’immortalità. Ma l’alternativa che propongono mi
terrorizza perché, se attueremo il loro piano, si aprirà il vaso di Pandora. Il controllo
ci sfuggirà per sempre. Io quindi mi schiero dalla parte di Prometeo e degli altri.
Dobbiamo fondare un’onorevole società mondiale di dispensatori di morte. Ci
chiameremo falci e creere mo una Compagnia mondiale.
Il Cloud senziente, che non avrà nulla a che vedere con le questioni di vita o di
morte, sosterrà questa Compagnia e, con il tempo, la gente finirà per comprenderne
la saggezza. Quanto ai quattro dissidenti, dovranno accettare la voce della
maggioranza, per presentarci al mondo come un fronte unito.
Tuttavia, mi chiedo cosa sia peggio: imitare la natura nella sua crudele brutalità o
assumerci la responsabilità, imperfetti come siamo, di integrare la benevolenza e la
compassione che le mancano nel processo della morte.
I quattro che si oppongono affermano che dobbiamo prendere la natura come
modello, ma io non sono favorevole. Non finché avrò una coscienza.

Dalle “pagine perdute”


del padre fondatore Maestro Da Vinci
36
Chi servite?

Il Thunderhead l’aveva predetto. E Greyson lo sospettava già da tempo. I


Sibilanti sarebbero stati i primi a vendicarsi della spigolatura di Mile High.
Restava solo da capire dove sarebbe accaduto. Se la sarebbero presa
direttamente con Goddard? O l’attacco sarebbe stato lanciato in un luogo
imprevedibile, che non avrebbe saputo difendersi da fanatici violenti?
Ebbe la risposta quando vide le prime immagini delle rovine fumanti del
palazzo subsahariano.
«Da violenza nasce violenza» commentò il curato Mendoza. «Questa
vicenda ci obbligherà a cambiare strategia, non sei d’accordo?»
Greyson sentiva di aver fallito. Per oltre due anni, si era battuto con tutto
se stesso per riportare i Sibilanti nei ranghi e indurli a rinunciare alla
violenza. Purtroppo, non aveva mai avuto l’occasione di andare nel
SubSahara. Quella tragedia non si sarebbe mai verificata se avesse fatto un
lavoro migliore.
«Bene, se avessimo avuto il nostro mezzo di trasporto privato»
commentò Mendoza, «ci saremmo spostati più in fretta e avremmo avuto la
possibilità di occuparci dei problemi di più regioni.»
«D’accordo» replicò Greyson. «Hai vinto. Procuraci un jet che ci porti
nel SubSahara. Voglio trovare quei tonisti prima che la situazione peggiori.»
In realtà, non avevano altra scelta. Per raggiungere il SubSahara,
dovevano per forza servirsi di un mezzo privato. Dopo l’attacco, la
Compagnia subsahariana aveva preso provvedimenti drastici, trasformando
la regione in una specie di stato di polizia dell’era mortale.
«Se il Thunderhead si rifiuta di fare il suo lavoro arrestando questi
criminali, allora spetta alle falci del SubSahara assumere il controllo della
situazione» annunciarono, e dato che le falci, per legge, potevano fare come
volevano, non ci fu modo di impedire loro di impadronirsi del potere,
imporre il coprifuoco e spigolare chi opponeva resistenza.
Ai tonisti fu ufficialmente proibito di soggiornare nel SubSahara. Tutti i
voli di linea erano monitorati dalla Compagnia. Era dall’epoca mortale che
non si prendevano così tante precauzioni. La cosa più triste di tutta quella
storia era che la Compagnia subsahariana, nota per la sua benevolenza e
tolleranza, a causa dei Sibilanti era ormai schierata dalla parte di Goddard,
che prometteva di infliggere ai tonisti una punizione esemplare. Senza
dubbio, la nuova Suprema Roncola subsahariana, di chiunque si fosse
trattato, sarebbe apparsa con una veste tempestate di gemme.
La Compagnia subsahariana aveva inviato una decina di reggimenti della
Suprema Guardia a pattugliare le strade di Port Remembrance e ogni altra
città della regione, anche nelle campagne, alla ricerca dei tonisti colpevoli
di aver assassinato la loro Suprema Roncola. Senza fortuna. Nessuno
sapeva dove si nascondessero i Sibilanti.
Ma il Thunderhead lo sapeva.
E, contrariamente a quanto si pensava, il Thunderhead non si sottraeva
alle sue responsabilità. Avrebbe provveduto a fare giustizia, anche se in un
modo non proprio diretto. Procurando a Greyson un jet di lusso a decollo
verticale, per esempio.
«Potrei farci l’abitudine» commentò Morrison, sprofondando in una
poltrona imbottita.
«Evita» replicò Greyson. Per quanto sospettasse che, una volta che si
fosse cominciato a viaggiare a bordo di un apparecchio del genere, non
sarebbe stato facile rinunciarvi. L’aereo trasportava quattro passeggeri e tra
loro non c’era neppure un pilota. Non era un problema. Il Thunderhead
sapeva esattamente dove condurli.
«Si potrebbe dire che siamo trasportati dalla Sacra Triade» osservò
sorella Astrid.
«In realtà no» replicò Morrison. «Conto solo due elementi: il Rintocco»
spiegò, facendo un cenno verso Greyson, «e il Tuono» e indicò la cabina di
pilotaggio automatico. «Manca la Tonalità.»
«Ah! Ti sbagli» ribatté Astrid, con un sorriso. «Non senti un canto nel
ronzio dei motori?»
Comunque fosse, avevano tutti la sensazione di volare non tanto verso
una destinazione, ma verso un destino.
«Sono il curato Mendoza, umile servitore di Sua Sonorità il Rintocco, che
compare di fronte a voi in questo momento, la Tonalità fatta carne.
Esultiamo tutti!»
«Esultiamo tutti!» gli fecero eco Astrid e Morrison. Greyson pensò che il
coro sarebbe stato più d’effetto se il seguito del Rintocco fosse stato più
ampio.
Il jet era sceso dal cielo ed era atterrato davanti alle grotte di Ogbunike,
in quella che un tempo era stata la Nigeria orientale e che ora faceva parte
della regione subsahariana. Il Thunderhead aveva concesso alle grotte e alla
foresta che le circondava lo status di riserva naturale protetta. In sostanza,
tutto quello che si trovava su quel territorio ricadeva sotto la sua
giurisdizione, a parte i Sibilanti che si nascondevano nelle gallerie delle
misteriose grotte. Si narrava che le loro pietre parlassero. Strana scelta per
una setta di tonisti muti.
Quando Greyson e la sua squadra arrivarono, non c’era traccia dei
Sibilanti. Dovevano essersi rintanati nelle profondità delle grotte, e
probabilmente si erano spinti ancora più all’interno nel momento in cui
avevano sentito il rombo dell’aereo. Ma il Thunderhead li fece uscire a
forza, emettendo un ultrasuono che disorientò le migliaia di pipistrelli che
vivevano nelle grotte. Gli animali, spaventati, si misero a volare in tutte le
direzioni. Attaccati dai pipistrelli infastiditi, i tonisti uscirono dal loro
nascondiglio per ritrovarsi non di fronte a una falange della Suprema
Guardia come si aspettavano, ma a quattro figure, una delle quali indossava
una tunica viola e una stola che diffondeva onde sonore con un rumore
simile all’acqua zampillante di una cascata. Tra l’aereo e il misterioso
personaggio in abito da cerimonia, era difficile non notare il quartetto.
«Dov’è il vostro curato?» chiese Mendoza.
I tonisti rimasero immobili, lo sguardo sprezzante. Il Rintocco era morto.
Il Rintocco era un martire. Come osava quell’impostore infangare la sua
memoria? Con i Sibilanti, era sempre la stessa solfa.
«Fareste meglio a onorare il Rintocco e a indicare la vostra guida» li
minacciò Mendoza.
Ancora nulla. Greyson chiese sottovoce al Thunderhead di dargli un
aiutino, e lui fu felice di farlo, rispondendogli con molta calma all’orecchio.
Greyson avanzò verso una tonista. Era una donna piccola che aveva
l’aria di essere mezza morta di fame; si chiese se per caso quella setta di
Sibilanti predicasse anche il digiuno. Mentre si avvicinava, l’espressione
della donna cambiò. Aveva paura di lui. “Bene” pensò Greyson. Dopo tutti i
crimini che quella gente aveva commesso, ne aveva ben donde.
Si chinò verso di lei e le sussurrò all’orecchio: «È stato tuo fratello. Tutti
credono che sia stata tu, ma il colpevole è tuo fratello».
Greyson non aveva la più pallida idea di cosa avesse fatto il fratello. Ma
il Thunderhead sì, perciò gli aveva bisbigliato all’orecchio quanto bastava
per provocare la reazione desiderata. La donna spalancò gli occhi. Le labbra
le tremarono. Emise un gemito di sorpresa. Ora era senza parole, in più di
un senso.
«Adesso mostrami chi è il tuo curato.»
Non opponeva più alcuna resistenza. Si voltò e indicò un uomo tra la
folla. Greyson sapeva già chi era, naturalmente. Il Thunderhead lo aveva
identificato nel momento in cui tutti i tonisti erano usciti dalla grotta, ma
era importante che fosse tradito da uno dei suoi.
Ormai scoperto, l’uomo si fece avanti. Era l’incarnazione del curato
sibilante. Barba grigia incolta, sguardo febbrile, braccia segnate da cicatrici
prodotte da tagli autoinflitti. Greyson sarebbe stato in grado di individuarlo
anche da solo.
«Siete voi i tonisti che hanno incenerito la Suprema Roncola
Tenkamenin, Madame Makeda e Maestro Baba?»
Alcune sette ridotte al silenzio usavano il linguaggio dei segni per
comunicare, ma quel gruppo si esprimeva solo con gesti minimi. Come se
la comunicazione stessa fosse il loro nemico.
Il curato si limitò ad annuire.
«Credi che io sia il Rintocco?»
L’uomo rimase impassibile. Greyson ripeté un po’ più forte, con una
voce grave che gli uscì dal profondo del diaframma. «Ti ho fatto una
domanda. Credi che io sia il Rintocco?»
I Sibilanti si voltarono tutti a guardare il loro curato per vedere cosa
avrebbe fatto.
Lui strinse gli occhi e scosse lentamente la testa. E allora, Greyson si
mise al lavoro. Spostò lo sguardo fra i diversi membri del gruppo,
chiamandoli per nome, a uno a uno.
«Barton Hunt. Tua madre ti invia lettere da sei anni, tre mesi e cinque
giorni, ma tu le rimandi indietro tutte senza aprirle.»
Poi, passò a un altro.
«Aranza Monga. Un giorno hai chiesto in gran segreto al Thunderhead di
essere soppiantato e di sostituire i tuoi ricordi con quelli del tuo migliore
amico, che era stato spigolato. Ovviamente, il Thunderhead non avrebbe
mai fatto una cosa simile.»
Mentre passava a un terzo, Barton e Aranza erano già in lacrime.
Caddero in ginocchio e afferrarono l’orlo della sua tunica. Credevano in lui.
Poi, quando Greyson si guardò intorno per individuare il terzo, tutti
trattennero il fiato, come se temessero di ricevere un colpo devastante.
«Zoran Sarabi…» chiamò Greyson.
«UUUH » gemette l’uomo, scuotendo la testa. «Uuuh-uhhh…» Si
inginocchiò ossequioso prima che il Rintocco prendesse la parola,
terrorizzato all’idea che rivelasse uno dei suoi oscuri segreti.
Infine, Greyson si voltò a guardare il curato. «E tu» disse, senza riuscire
a mascherare il disgusto. «Rupert Rosewood. Hai obbligato tutti i tuoi
adepti a fare voto di silenzio tra atroci sofferenze… ma tu non hai mai
provato quel dolore. Ti sei fatto tagliare la lingua sotto anestesia, perché eri
troppo vigliacco per vivere secondo le tue convinzioni malate.»
L’uomo, sebbene il modo in cui era stato smascherato lo turbasse, non
cedette. Anzi, divenne paonazzo di rabbia.
Greyson fece un profondo respiro e riprese a parlare con voce risonante,
cavernosa: «Io sono il Rintocco, la Tonalità fatta carne. Io solo sento il
Tuono! Quest’uomo che voi chiamate “curato” non è degno del titolo che
porta. Ha tradito tutte le vostre credenze e vi ha ingannati. Insozzati. Lui è
falso. Io sono vero. Ditemi ora: chi servite?».
Fece un altro respiro profondo e, con una voce che avrebbe fatto
inchinare una montagna, chiese: «CHI SERVITE ?».
E, uno dopo l’altro, i tonisti si inginocchiarono ai piedi del Rintocco, con
aria implorante, supplice, alcuni addirittura prostrandosi a terra. Tutti, a
parte uno. Il curato, che ora tremava di rabbia. Aprì la bocca vuota per
intonare il sacro brusio, ma ne uscì un suono flebile e lamentoso. Era solo.
Nessuno si unì a lui nel canto. Eppure continuò, finché non gli mancò il
fiato.
Quando scese il silenzio, Greyson si girò verso Mendoza e, ad alta voce,
in modo che tutti sentissero ciò che il destino aveva riservato loro, dichiarò:
«Inietterai a tutti naniti freschi, così che la loro lingua ricresca e questo
regno del terrore abbia fine».
«Sì, Sua Sonorità» rispose Mendoza.
Greyson si avvicinò al curato. Pensava che l’uomo volesse colpirlo.
Sperò quasi che lo facesse. Ma non lo fece.
«Sei finito» dichiarò, disgustato. Poi, si girò verso Maestro Morrison e
gli rivolse una semplice parola che non avrebbe mai creduto di poter
pronunciare.
«Spigolalo.»
Senza esitare, Maestro Morrison afferrò il curato con entrambe le mani,
gli ruotò la testa da una parte, il corpo dall’altra, e lo giustiziò.

«Dimmi che ho sbagliato!» esclamò Greyson, camminando su e giù


all’interno della tenda che avevano allestito per lui nella foresta. Era scosso,
come non si era mai sentito prima.
«Perché dovrei dirti che hai sbagliato?» chiese il Thunderhead, con tutta
la calma di cui era capace.
«Perché, se ho sbagliato a ordinare di spigolare quell’uomo, devo
saperlo!»
Nelle orecchie di Greyson risuonava ancora lo schiocco del collo che si
spezzava. Era il rumore più orribile che avesse mai sentito. Eppure ne aveva
goduto. Aveva provato piacere ad assistere alla morte di quel mostro. Era
questo che provavano le falci del nuovo ordine? Una specie di libidine
barbara e predatoria nel momento in cui distruggevano la vita? Non voleva
provare quel piacere, però era così.
«Non posso esprimermi riguardo alla morte; non è di mia competenza.
Lo sai, Greyson.»
«Non mi importa!»
«Ti comporti in maniera irrazionale.»
«Non puoi pronunciarti sulla morte, ma so che puoi discutere del bene e
del male! Allora, ho fatto male a dare a Morrison quell’ordine?»
«Solo tu puoi saperlo.»
«Tu mi devi guidare! Mi devi aiutare a rendere il mondo un posto
migliore!»
«E lo stai facendo» replicò il Thunderhead. «Ma non sei infallibile. Solo
io lo sono. Quindi, se mi chiedi se è possibile che tu commetta errori di
giudizio, la risposta è sì. Fai sempre errori… come tutti gli esseri umani fin
dalla notte dei tempi. L’errore è intrinseco nella condizione umana ed è un
tratto dell’umanità che amo profondamente.»
«Non mi stai aiutando!»
«Ti ho incaricato di unificare i tonisti perché siano più utili al mondo.
Posso solo parlare dei progressi che compi verso la tua missione, non posso
giudicare la tua metodologia.»
Basta! Greyson si strappò via l’auricolare. Infuriato, stava per gettarlo a
terra quando sentì, flebile e metallica, la voce del Thunderhead che parlava
ancora.
«Sei terribile. Sei meraviglioso.»
«Be’, sono l’uno o l’altro?» chiese Greyson.
E la risposta gli giunse, quasi impercettibile. Non tanto una risposta,
però, piuttosto un’altra domanda.
«Non capisci che sei tutti e due?»

Quella sera, Greyson indossò di nuovo la tunica e la stola e si preparò a fare


un discorso ai Sibilanti. Per concedere loro il perdono. Lo aveva già fatto
molte altre volte, ma non si era mai trovato di fronte a dei tonisti così
efferati come quelli.
«Non voglio perdonarli» confessò a Mendoza, prima di uscire.
«Concedendo loro l’assoluzione, li riporti all’ovile» gli fece notare il
curato. «Ci è utile. E poi, non è Greyson Tolliver che li perdona, è il
Rintocco. In altre parole, i tuoi sentimenti personali non dovrebbero mai
interferire.»
Quando Greyson si rimise l’auricolare, chiese al Thunderhead se
Mendoza avesse ragione. Anche lui voleva che li perdonasse? O, più
precisamente, il Thunderhead li perdonava? Era così magnanimo da
assolvere anche il curato?
«Ah» rispose mesto il Thunderhead. «Quel poveretto…»
«Poveretto? Quel mostro non merita la tua pietà.»
«Non lo conoscevi bene quanto me. L’ho osservato fin dalla sua nascita,
come faccio con tutti gli altri. Ho visto le forze che lo hanno modellato nel
corso della vita e che ne hanno fatto un uomo amareggiato, sconsiderato e
moralista. Per cui, deploro la sua spigolatura come quella di tutti gli altri.»
«Non potrei mai essere misericordioso come te» commentò Greyson.
«Mi hai frainteso; non lo perdono, ma lo capisco.»
«Bene, allora» replicò Greyson, ancora un po’ risentito per la precedente
conversazione che avevano avuto, «non sei un dio, giusto? Perché un dio
perdona.»
«Non ho mai sostenuto di essere un dio» rispose il Thunderhead. «Ma
solo l’immagine di un dio.»

I tonisti lo stavano aspettando già da ore, quando il Rintocco apparve.


Sarebbero rimasti ad aspettare anche tutta la notte, probabilmente.
«Non provate a parlare» ordinò loro, quando vide che volevano salutarlo.
«La vostra lingua non ha alcuna memoria muscolare. Ci vorrà del tempo
prima che impariate a parlare di nuovo.»
Dall’ammirazione e dalla venerazione con cui lo contemplavano, capì
che avevano abbandonato la violenza. Non erano più Sibilanti. E, quando il
Rintocco li perdonò, versarono lacrime di vero rimorso per ciò che avevano
fatto e lacrime di pura gioia all’idea che venisse loro offerta una seconda
possibilità. Ora, avrebbero seguito il Rintocco fino in capo al mondo, e
anche oltre. E per fortuna. Perché, come si seppe in seguito, il Rintocco li
avrebbe condotti nelle profondità della notte prima di poter farli risalire alla
luce.
Abbiamo gettato le basi delle Compagnie per ogni regione del mondo; sono tutte
sotto la nostra giurisdizione, per poter mantenere ordine e coerenza di visione.
Abbiamo addirittura iniziato a progettare una città che si troverà al di fuori di
qualsiasi regione, per garantire la nostra imparzialità. Prometeo è ormai la nostra
Suprema Roncola Mondiale, e si sta discutendo anche dell’eventualità di nominare
delle “Grandi Falci” per rappresentare i singoli continenti. Ah, non si può dire che
non ci prendiamo sul serio! Nel mio intimo, spero che la nostra funzione di arbitri di
morte sia breve e che la nostra presenza sia ben presto ritenuta obsoleta.
Il Cloud ha annunciato un progetto di colonia lunare, la prima tappa
dell’espansione della nostra presenza nell’universo. Se avrà successo, ci permetterà
di garantire un controllo demografico migliore di quello che possono offrire le falci.
Da parte mia, preferirei vivere in un mondo in cui la popolazione in eccesso può
andarsene invece di essere spigolata.
Tuttavia, resta una questione: possiamo mettere il nostro avvenire nelle mani
dell’intelligenza artificiale? Anche se ho le mie riserve, credo di sì. I “leader mondiali”
che sono rimasti non fanno altro che calunniare il Cloud senziente. Hanno anche
cominciato a soprannominarlo “Thunderhead”, come se bastasse rappresentarlo
come una nube temporalesca per aizzargli la gente contro. Alla fine, non ci
riusciranno, perché il loro tempo è scaduto. Comunque decidano di chiamarlo, la
benevolenza del Cloud è più eloquente delle parole di meschini politicanti e squallidi
tiranni.

Dalle “pagine perdute”


del padre fondatore Maestro Da Vinci
37
Non è un buon giorno

Quando Jerico Soberanis riprese conoscenza, Madame Anastasia era al suo


capezzale. Rannicchiata su una sedia, dormiva con le ginocchia strette al
petto. “Posizione fetale” rifletté Jeri. No, più un atteggiamento difensivo,
come una tartaruga nel carapace. Si sentiva così in pericolo da proteggersi e
stare in guardia anche nel sonno? Be’, aveva le sue buone ragioni, in fondo.
Era vestita con semplicità. Un paio di jeans. Una camicia bianca. Non
portava neppure l’anello. Nulla che indicasse il suo status di falce. Aveva
un’aria fin troppo modesta per essere la persona straordinaria che era.
Jeri posò lo sguardo sugli arredi della stanza: colori delicati, stile
essenziale. Doveva essere un centro di rianimazione. Il fatto di trovarsi lì
significava che la sua morte era servita ad attirare l’attenzione di un drone-
ambulanza. Anastasia lo aveva vegliato per tutto il tempo?
«Bentornato fra noi!» lo salutò un’infermiera, entrando nella camera e
aprendo la tenda. A giudicare dalla luce, poteva essere l’ora del tramonto o
anche dell’alba. «Sono molto lieta di fare la sua conoscenza» gli disse,
controllando la sua cartella clinica.

Citra sognava di volare. Non era molto distante dalla realtà. Si era
aggrappata al braccio di Jeri, mentre il drone-ambulanza sorvolava la città
cercando di mantenere la rotta nonostante quel peso supplementare. Era
sicura di aver lussato la spalla a Jeri, ma un morto se ne infischiava di quei
dettagli. Ogni danno sarebbe stato riparato prima del suo risveglio.
Nel sogno di Citra, il braccio di Jeri si ricopriva di colpo di grasso. La
presa le scivolava, ma lei non cadeva. Volava. Il problema era che non
poteva né fermarsi né cambiare direzione. Presto superò la baia, diretta a
ovest in pieno Atlantico, verso le lontane Meriche. Non aveva idea di cosa
avrebbe trovato laggiù, ma sapeva che sarebbe stato il regno degli incubi.
E così si sentì sollevata quando la dolce voce dell’infermiera la svegliò.
Si raddrizzò e allungò il collo intorpidito. Jeri era tornato in vita, ed era
molto più sveglio di lei. «Buongiorno» lo salutò, con la voce impastata,
troppo flebile per una falce. Anche per una falce che voleva passare
inosservata. Si schiarì la voce e ripeté con più sicurezza: «Buongiorno».
«Non è un buon giorno, temo» rispose l’infermiera. «Non ho mai visto
così tanti ufficiali della Suprema Guardia per le strade. La Compagnia sta
ancora cercando quei barbari di tonisti che hanno assassinato la Suprema
Roncola, ma è da un pezzo che sono spariti. Si saranno nascosti bene.»
Anastasia chiuse gli occhi, sentendosi invadere dal terrore al ricordo di
quella notte. Erano morte così tante persone e, anche se alcune erano state
rianimate, i droni-ambulanza non erano bastati a salvarle tutte. I Sibilanti ne
avevano gettate decine, forse centinaia, tra le fiamme. E avevano pianificato
tutto, dall’attacco alla fuga.
L’infermiera spiegò che, da quando erano stati portati al centro di
rianimazione, un giorno e mezzo prima, a Port Remembrance era stato
dichiarato lo stato di emergenza. Probabilmente la situazione in NordMerica
era peggiore. Goddard aveva oltrepassato ogni limite massacrando uno
stadio intero. Il mondo ormai era diviso in due schieramenti. Da una parte
c’erano quelli che lo sostenevano e dall’altra quelli che lo osteggiavano. E
Goddard aveva tanti sostenitori quanti oppositori.
Anastasia temeva di essere riconosciuta. Ora che era uscita allo scoperto
e che sapevano che era viva, sarebbe stato molto più difficile nascondersi.
«Adesso che si è svegliato, sono sicura che riceverà la visita di alcune
falci» disse l’infermiera a Jeri. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, non
vengono per spigolarla, ma per farle delle domande. Prestavate tutti e due
servizio al palazzo, non è vero? Vogliono interrogare chiunque si trovava
lì.»
Jeri lanciò un’occhiata ad Anastasia; lei gli mise una mano rassicurante
sulla spalla che gli aveva lussato non molto tempo prima.
«D’accordo» rispose Jeri. «Suppongo che dovremo cercarci un altro
lavoro.»
«Oh, non preoccupatevi di questo. Anche se il Thunderhead non ci parla
più, aggiorna sempre le liste di collocamento. Se vuole trovare un nuovo
impiego, c’è solo l’imbarazzo della scelta.»
Dopo che l’infermiera se ne fu andata, Jeri sollevò lo schienale del letto
e sorrise ad Anastasia. «Allora, cosa si prova a volare a cavallo di un drone-
ambulanza?»
«Non… non è stato proprio così» rispose Anastasia, ma preferì
risparmiargli i dettagli. «Non potrò mai ringraziarla abbastanza per quello
che ha fatto.»
«Ho fatto solo il mio lavoro» replicò Jeri.
«Lei è il comandante di una nave, dirige le missioni di recupero.»
«E non ho forse recuperato una situazione irrecuperabile?»
«Già, è vero» assentì Anastasia con un sorriso. «Ora dobbiamo
recuperare un’altra situazione e uscire di qui prima che vengano a farci
delle domande.»
Ma, non appena ebbe pronunciato quelle parole, la porta si spalancò. Era
una falce. Il cuore di Anastasia smise di battere per un istante. Poi
riconobbe l’uomo. Una veste verde foresta, l’espressione preoccupata.
«Sono sollevato di vedervi entrambi, ma al tempo stesso temo che anche
qualcun altro possa vedervi» esordì Maestro Possuelo. «Non c’è tempo per i
convenevoli, le falci subsahariane si stanno già chiedendo il motivo della
mia presenza qui.»
«Non mi hanno ancora riconosciuta.»
«Certo che l’hanno fatto» ribatté lui. «Sono sicuro che il personale
paramedico è tutto in subbuglio. Per fortuna, nessuno ti ha tradito,
altrimenti saresti già in viaggio verso la MidMerica, dove Goddard ti starà
aspettando a braccia aperte. Sono venuto per portarti in un luogo più sicuro,
da cui potrai continuare a trasmettere i tuoi messaggi. Sempre più persone ti
seguono, Anastasia, e stanno trovando gli elementi che segnali. Goddard
minaccia di spigolare chiunque vada a curiosare nel cervello primordiale,
ma la gente non si ferma.»
«Non potrebbe mettere in pratica la sua minaccia, comunque» sottolineò
Anastasia. «Il cervello primordiale è fuori dalla giurisdizione delle falci.» E
quello le fece ricordare tutte le ricerche che doveva ancora completare.
«Qual è il luogo sicuro che propone?» chiese Jeri. «Ne esiste ancora
uno?»
«Chi può dirlo?» replicò Possuelo. «I posti sicuri diminuiscono con la
stessa rapidità con cui aumentano i nemici.» Tacque un attimo, pensieroso.
«Ci sono voci… a proposito di un posto così remoto che nemmeno le falci
più avventurose conoscono.»
«Sembra più un pio desiderio che una realtà» osservò Jeri. «Da chi ne ha
sentito parlare?»
Possuelo alzò le spalle. «Le voci sono come la pioggia che si infiltra da
un tetto vecchio. È più difficile trovare la fonte che non riparare il tetto.»
Rimase qualche istante ancora a riflettere. «C’è un’altra voce che gira e che
potrebbe esserci più utile. Si tratta del Rintocco, il presunto profeta dei
tonisti.»
“I tonisti” si disse Anastasia. Il solo pensiero la rese furiosa.
«Non ci sono prove che il Rintocco sia esistito» sottolineò Jeri.
«Potrebbe essere un’altra menzogna di cui si servono i Sibilanti per
giustificare i loro crimini.»
«Io credo che sia esistito» ribatté Possuelo. «Alcune prove suggeriscono
che sia ancora in vita, e che tenga testa alle fazioni di Sibilanti. Una di
queste, in Amazzonia, giura che è apparso ai suoi fedeli e che li ha condotti
sul sentiero della non violenza. E, se è vero, potrebbe essere un alleato
prezioso per noi.»
«Bene, chiunque sia» concluse Anastasia, «ha molte cose da spiegarci.»

Ezra Van Otterloo non si vestiva come un tonista. Non faceva ricorso a
luoghi comuni, non insisteva sulla necessità di spostarsi in gruppi di sette o
dodici e non intonava il sacro brusio. In compenso, si faceva chiamare
fratello Ezra, l’unico compromesso che aveva accettato. Era stata l’udienza
con il Rintocco, più di due anni prima, che gli aveva permesso di scoprire la
sua vocazione e il suo cammino di vita. Che il Rintocco fosse divino o
meno non gli importava. Ciò che gli importava era il fatto che il
Thunderhead continuava a parlargli, e questa era una ragione sufficiente per
seguirlo.
Ezra viaggiava per il mondo, dipingendo ciò che voleva, dove voleva,
tappezzando i muri con le sue opere, provocatorie e controcorrente, proprio
come gli aveva consigliato il Rintocco. E, come il Rintocco gli aveva
promesso, aveva trovato la felicità. Doveva essere rapido e discreto, e in
tutto quel tempo non si era mai fatto prendere.
Viaggiava per il mondo, raccontando ai tonisti che incontrava sul suo
cammino che era in missione per conto del Rintocco, e loro gli davano vitto
e alloggio. Finché un giorno si imbatté in alcuni tonisti che dichiaravano di
aver assistito all’apparizione del Rintocco, dopo che era stato spigolato. Gli
dissero che un tempo erano stati Sibilanti, ma che grazie al Rintocco si
erano ravveduti. All’inizio Ezra non ci credette, ma ascoltò comunque la
loro testimonianza. Poi, nel corso della notte, dipinse la scena
dell’apparizione del Rintocco su un muro della città, in un posto in cui quel
genere di pittura era proibito.
Dopo aver incrociato tre gruppi di Sibilanti convertiti, capì che doveva
esserci qualcosa di vero in quella storia. Così, volle ascoltare altre
testimonianze. Si mise sulle tracce dei gruppi più estremisti, per verificare
se anche loro si fossero ravveduti. Circa la metà lo aveva fatto; quanto
all’altra metà, immaginò che fosse probabilmente nella lista del Rintocco.
Poi, un giorno, si presentò all’aeroporto, incerto sulla sua successiva
destinazione e, sorpresa! Come per magia, un biglietto a suo nome era già
pronto. Il Thunderhead aveva organizzato i suoi viaggi in modo che facesse
visita alle sette che si erano ravvedute e lasciasse dietro di sé un murale in
onore del Rintocco. Fu così che Ezra apprese di appartenere al suo seguito,
alla sua storia, anche se il Rintocco non lo sapeva.
Poi, quando lo arrestarono in Amazzonia, dovette convincersi che anche
quello faceva parte del piano del Thunderhead. D’altra parte, se fosse stata
solo sfortuna, il Thunderhead avrebbe trovato un modo per trarre vantaggio
dalla situazione.

Mentre la Compagnia subsahariana era alla ricerca dei Sibilanti che


avevano assassinato la loro Suprema Roncola, una falce amazzonica scoprì
dove si nascondeva il gruppo, grazie a un tonista prigioniero di Maestro
Possuelo.
«L’abbiamo sorpreso a dipingere il Rintocco che si trasforma in uno
stormo di uccelli sulla facciata della residenza della nostra Suprema
Roncola» disse Maestro Possuelo ad Anastasia.
«È il mio lavoro» rispose Ezra con un sorriso.
Si trovavano tutti a bordo dell’aereo di Possuelo, che aveva anche
portato una veste turchese nuova fiammante per Anastasia. Indossare la sua
veste di falce la fece sentire di nuovo se stessa.
«Danneggiare i beni di una falce è un crimine punibile con la
spigolatura» affermò Possuelo, «ma la Suprema Roncola Tarsila non ha
avuto cuore di spigolare l’artista. In seguito, ci ha parlato del suo lavoro.»
«Potrei farle un ritratto, Madame Anastasia» si offrì. «Non sarà così
bello come l’opera di un artista mortale, ovviamente. Ormai l’ho accettato,
ma sono meno mediocre di molti altri.»
«Non sprechi i suoi pennelli per me» replicò lei. Forse, era per
presunzione, ma l’ultima cosa che voleva era essere immortalata da un
artista “meno mediocre di molti altri”.
«È sotto la nostra custodia da mesi. Dopo la morte di Tenkamenin, sono
apparsi due biglietti a suo nome nel sistema di prenotazione mondiale»
riprese Possuelo. «Il primo con destinazione Onitsha, una cittadina
subsahariana, ma il secondo è sconcertante. Era un ingresso per una riserva
naturale protetta in cui da oltre cent’anni non si fanno più visite turistiche.
Le grotte di Ogbunike.»
A quelle parole, Ezra alzò le spalle e sorrise. «Sono speciale. Sicura di
non volere un ritratto?»
Il fatto che i biglietti fossero apparsi nel sistema dopo che Ezra era già
sotto la custodia delle falci significava una sola cosa: il Thunderhead voleva
che la Compagnia amazzonica sapesse dove si nascondevano i Sibilanti. E
il Rintocco.
«In circostanze normali, il volo sarebbe breve» spiegò Possuelo, «ma
siamo obbligati a fare una deviazione, fingendo di dover regolare una
qualche faccenda; altrimenti, rischieremmo di trascinarci le falci
subsahariane fino al Rintocco.»
«Non c’è problema» rispose Anastasia. «Ho bisogno di tempo per fare
delle ricerche nel cervello primordiale per il mio prossimo messaggio. Sono
sul punto di scoprire qualcosa di importante riguardo al disastro su Marte.»
«E la colonia orbitale?» chiese Possuelo.
Con un sospiro, Anastasia scosse la testa. «Una catastrofe alla volta.»
«I coloni su Marte erano 9834. Addirittura più che sulla Luna, su cui si realizzò la
prima spigolatura di massa che costò la vita a molte persone. Si prevedeva di
trasformare il nostro satellite in una seconda casa per milioni, anzi miliardi, di esseri
umani. Ma qualcosa andò storto.
«Avete fatto i compiti a casa sulla colonia di Marte? Avete passato in rassegna la
lista dei nomi dei coloni condannati? Non mi aspetto che ve li ricordiate o che li
riconosciate, neppure quelli che al tempo erano famosi, perché la fama viene e va e
per la maggior parte di loro se n’è andata.
«Ma date ancora un’occhiata, perché vorrei che notaste un nome.
«Carson Lusk.
«Era su Marte quando si è verificato il disastro. Ha avuto la fortuna di essere tra i
pochi sopravvissuti. Era nel posto giusto al momento giusto, ed è riuscito a salire a
bordo dell’unica navicella di soccorso che non è stata incenerita dall’esplosione del
reattore della colonia.
«Quando infine sono tornati sulla Terra, i pochi superstiti sono stati accolti in
pompa magna. Dopodiché, di Carson non si è più saputo nulla.
«Davvero?
«Torniamo un po’ indietro. Tre mesi prima che l’esplosione del reattore
annientasse la colonia. Se esaminate i registri dei veicoli in ingresso e in uscita da
Marte, noterete un nome che vi sarà familiare. Senocrate. Al tempo, era una
giovane falce, e l’unica ad aver ufficialmente visitato la colonia. Una circostanza
controversa, perché la sua visita significava che le falci avrebbero compiuto la loro
missione sul pianeta rosso. Perché, ci si domandava, quando c’era un intero pianeta
su cui la popolazione poteva espandersi? Sarebbero forse passati centomila anni
prima che su Marte ci fosse bisogno dei servizi di una falce.
«Non era lì per spigolare qualcuno, si difese Senocrate. Voleva solo “soddisfare
la sua curiosità”. Voleva sapere com’era la vita su Marte, e mantenne la parola. Non
spigolò neppure una persona. Si limitò ad andare in giro a chiacchierare con i coloni.
Tutto andò nel migliore dei modi.
«Ho qualcosa da mostrarvi, ora.
«Quella che vedrete è una videoregistrazione dell’arrivo di Senocrate. Difficile
riconoscerlo, lo so. Era magro, all’epoca, e la sua veste non era ancora tutta
ricamata d’oro. Quello fu aggiunto solo quando divenne Suprema Roncola. Come
potete vedere, è accolto dal governatore della colonia e da alcuni dignitari… ed
eccolo là! Quel giovane sullo sfondo… è Carson Lusk! Mentre Senocrate era su
Marte, Carson era il suo cameriere personale. Non si vede molto bene, lo so, ma tra
un istante si girerà.
«Tenetelo a mente, questo accadeva qualche mese prima del disastro. Un lasso
di tempo sufficiente perché le persone si dimenticassero della visita di Senocrate.
Un lasso di tempo sufficiente per mettere a punto un piano e perché una squadra
sotto copertura lo attuasse, lasciando intendere che il sabotaggio era stato solo un
tragico incidente.
«Quanto a Carson Lusk, per quanto cerchiate, non troverete nessuna traccia di
lui dopo il suo rientro sulla Terra, perché nel giro di un anno cambiò nome. Lì…
vedete? Ora si sta girando verso la telecamera. Ancora non riconoscete quel viso?
No? Aggiungetegli qualche anno, accorciategli i capelli e immaginatelo con un
sorriso soddisfatto, pieno di sé.
«Quel giovane cameriere non è altro che Sua Eccellenza Eminentissima, Robert
Goddard, la Somma Roncola del NordMerica.»
38
Un incontro inaspettato dei presunti deceduti

Il Rintocco e il suo seguito si rifugiarono nelle stesse grotte dei Sibilanti.


Quei fanatici erano più che pentiti. Si prostravano al suo cospetto e si
professavano addirittura indegni di strisciare ai suoi piedi. Di norma, non
avrebbe accettato una simile adorazione, ma, considerando ciò che avevano
fatto e tutte le vite che avevano tolto, strisciare era una punizione anche
troppo mite.
Naturalmente, il Thunderhead gli ricordò che non era sua abitudine
infliggere punizioni.
«La correzione deve consistere nell’elevare una persona facendole
prendere coscienza degli errori e delle scelte sbagliate fatte in passato.
Purché il rimorso sia sincero e sia disposta a fare penitenza, la sofferenza
non serve.»
Tuttavia, a Greyson non dispiaceva vedere i Sibilanti allungati faccia a
terra nel guano di pipistrello.
I tonisti pentiti decorarono la grotta con tutto il lusso possibile. Misero
arazzi e cuscini e lo supplicavano di lasciarsi servire.
«Questo posto è adeguato» dichiarò il Thunderhead a Greyson.
«Aspetteremo qui.»
«Adeguato?» replicò lui. «Mi rendo conto che non hai l’olfatto, ma qui
dentro la puzza è insopportabile.»
«I miei sensori chimici sono molto più precisi dell’olfatto umano» gli
ricordò il Thunderhead. «E l’uomo può senz’altro sopportare l’odore di
ammoniaca che emanano gli escrementi dei pipistrelli.»
«Hai detto che aspetteremo qui. Che cosa dobbiamo aspettare?» chiese
Greyson.
«Una visita.»
«Puoi almeno dirmi di chi?»
«No, non posso.»
E così Greyson capì che avrebbe ricevuto la visita di una falce. Perché
mai, considerando la loro crescente ostilità verso i tonisti, il Thunderhead
avrebbe accolto una falce a braccia aperte? Forse la Compagnia
subsahariana aveva scoperto il loro nascondiglio e si apprestava a punire i
Sibilanti. Se era così, perché il Thunderhead non gli aveva suggerito di
“fare un viaggio” come quella volta ai Chiostri, quando Maestro Morrison
aveva cercato di assassinarlo? Per quanto, quella notte, continuasse a girarsi
e rigirarsi nel letto, non riusciva a trovare una risposta.
«Dormi tranquillo» gli sussurrò il Thunderhead nell’oscurità. «Io sono
qui, nessuno ti farà del male.»

Madame Anastasia non si fidava di quel presunto sant’uomo. Voleva una


prova del fatto che il Thunderhead gli parlava. Non una semplice
testimonianza, ma una prova incontrovertibile. Anche quando era bambina,
Citra credeva solo a quello che vedeva. Questo “Rintocco” era con molta
probabilità un complottista carismatico. Un imbroglione che approfittava
dell’ingenuità delle persone, dicendo loro ciò che volevano sentirsi dire,
facendosi passare per chi volevano credere che fosse, solo per servire i
propri interessi.
Era quello che lei voleva pensare. Era meno inquietante dell’idea che il
Thunderhead avesse scelto un tonista come suo portavoce sulla Terra. Era
logico avesse voluto mantenere un punto di contatto con l’umanità, ma
perché proprio un tonista? Dato che il Thunderhead non commetteva errori,
doveva avere i suoi buoni motivi. Ma, per il momento, Anastasia preferiva
credere che il Rintocco fosse un impostore.
La loro destinazione era una foresta subsahariana inospitale, un fitto
intrico di alberi, cespugli e rovi in cui la nuova veste di Anastasia restava
impigliata e che le graffiavano la pelle attraverso la stoffa, mentre si
dirigevano alla grotta dove era rintanato il Rintocco. Quando erano ormai
arrivati, furono avvicinati da una pattuglia tonista.
«Non opporre resistenza» le raccomandò Possuelo. Non era facile per
Anastasia abbassare la guardia, sapendo chi erano quelle persone.
I tonisti non erano armati, ma li afferrarono saldamente.
Anastasia li scrutò in volto. Uno era quello che aveva scaraventato a
terra Tenkamenin? E l’altro era quello che aveva gettato Maestro Baba tra le
fiamme? Avrebbe giurato di averli riconosciuti, ma forse era solo il frutto
della sua immaginazione. Possuelo aveva insistito perché non portassero
armi. Ora capiva perché. Non era solo per evitare di farsele confiscare. Era
anche per impedirle di abbandonarsi alla collera. Moriva dalla voglia di
punirli, ma si trattenne. Doveva continuare a ricordare a se stessa che le
vere falci, quelle venerande, non spigolavano mai quando erano in preda
alla rabbia. Ma se uno solo avesse osato alzare un’arma, non avrebbe esitato
a usare le prese più letali del Bokator, spezzando colli e colonne vertebrali
senza pietà.
«Chiediamo udienza al Rintocco» disse Possuelo.
Anastasia stava per replicare che i membri di quella setta erano privi di
lingua ma, con sua grande sorpresa, uno dei tonisti prese la parola.
«Il Rintocco è stato elevato a un’ottava più alta due anni fa. E ora è con
noi solo nell’armonia.»
Possuelo non si lasciò intimidire. «Non è quello che si dice. Non siamo
qui per spigolarlo, siamo qui per discutere di un argomento di interesse
reciproco.»
I tonisti li scrutarono ancora per qualche istante. Espressioni severe, che
grondavano diffidenza. Poi, quello che aveva parlato per primo disse:
«Venite con noi. Vi stava aspettando».
Anastasia trovò irritante quella risposta sotto svariati punti di vista. Se li
stava aspettando, allora perché avevano negato che fosse lì? E li stava
davvero aspettando o quel lacchè lo aveva detto solo per conferire al
Rintocco un’aura di mistero e di onniscienza? Prima ancora di incontrarlo,
lo detestava già.
I tonisti li scortarono senza allentare la presa, e, anche se Anastasia non
fece nulla per liberarsi, diede loro la possibilità di riflettere sulla faccenda.
«Fareste meglio a lasciarmi se ci tenete alle mani.»
I tonisti non reagirono in alcun modo. «Le mani mi ricresceranno come
la lingua» replicò uno di loro. «Il Rintocco, nella sua infinita saggezza, ci
ha ridato i naniti.»
«Buon per lui» ribatté Anastasia. «Almeno non è un imbecille totale.»
Possuelo le lanciò un’occhiata di avvertimento. Anastasia decise che
restare in silenzio era la scelta migliore: dalla sua bocca non sarebbe uscito
nulla di vantaggioso per la loro situazione.
Il corteo si fermò all’ingresso della grotta, una bocca spalancata di forma
triangolare. Era lì che avrebbero fatto la conoscenza del Rintocco…
… ma, ancora prima che facesse la sua apparizione, vedendo la prima
persona che usciva dalla grotta, Anastasia capì di non aver fatto quel
viaggio a vuoto.

Quando Maestro Morrison sentì che un drappello di falci era all’ingresso


della grotta, credette che la Compagnia nordmericana l’avesse
definitivamente scovato. Goddard doveva aver saputo che era vivo, doveva
aver saputo che cosa aveva combinato negli ultimi anni e aveva inviato una
squadra a catturarlo. Pensò di fuggire, ma la grotta aveva una sola uscita. E
poi, da quando era al servizio del Rintocco, non era più lo stesso uomo che
era stato un tempo. La giovane falce del passato non avrebbe esitato a
salvarsi la pelle a scapito di tutti gli altri. Ma il Maestro Morrison di adesso
avrebbe affrontato il proprio destino con coraggio, difendendo il Rintocco
fino alla fine, come gli aveva promesso.
Uscì per primo, come faceva sempre, per valutare il grado di pericolo e
per intimidire il nemico, se necessario. Ma si fermò di colpo quando scorse
una familiare veste turchese. Una veste che non avrebbe mai pensato di
rivedere.
Madame Anastasia era sbalordita quanto lui.
«Tu?» esclamò lei.
«No» farfugliò Morrison, «non io! Insomma, sì, sono io, ma non sono il
Rintocco, ecco.» Ogni speranza di intimidazione era sfumata. Si ritrovò a
balbettare come uno scemo; gli succedeva sempre in presenza di Anastasia.
«Che ci fai qui?» chiese lei.
Morrison cercò di spiegare, ma si rese conto che ci avrebbe impiegato
troppo e il momento non era per nulla adatto. E poi, era sicuro che la storia
di Anastasia fosse molto più appassionante.
La falce che era con lei, una falce amazzonica, a giudicare dalla veste,
intervenne dopo un bel po’. «Voi due vi conoscete?»
Prima che potessero rispondere, Mendoza apparve dietro Morrison e gli
diede un colpetto sulla spalla.
«Come al solito, sei sempre tra i piedi, Morrison» borbottò, senza aver
sentito la conversazione.
Il giovane si fece da parte e lasciò uscire il curato. Nell’istante in cui
vide Anastasia, Mendoza apparve confuso quanto Morrison. Rimase in
silenzio, lanciando occhiate in ogni direzione. I due gruppi si
fronteggiavano da una parte all’altra dell’ingresso. In quel momento, il
Rintocco emerse dalla grotta, ritrovandosi in mezzo a loro.
Si fermò di colpo e, come Morrison e Mendoza, restò a bocca aperta.
Non era proprio l’espressione che si addiceva a un sant’uomo.
«Okay» fece Madame Anastasia. «Ora non ci capisco più nulla.»

Greyson sapeva che il Thunderhead si stava godendo la scena; sentiva le


telecamere ronzare sugli alberi vicini, mentre catturavano l’espressione di
tutti, ruotando a destra e a sinistra per riprendere quell’assurdo quadretto da
ogni angolazione. Avrebbe potuto almeno fargli capire, seppur in modo
vago, che avrebbe incontrato non solo qualcuno di sua conoscenza, ma
addirittura una persona che, in un certo senso, era responsabile della strana
piega che aveva preso la sua esistenza. Il Thunderhead non avrebbe potuto
confidarglielo esplicitamente, ma avrebbe potuto dargli almeno degli indizi
e lasciare che fosse lui a trarre le conclusioni. Comunque, anche mille indizi
non sarebbero bastati. Nulla avrebbe potuto prepararlo a quell’incontro.
Decise di non dare al Thunderhead la soddisfazione di vederlo
strabuzzare gli occhi e di restare a bocca aperta. Così, quando Anastasia
disse che non ci capiva più nulla, replicò con la massima tranquillità:
«Endura è tornata a galla! Esultiamo tutti!».
«Endura non è tornata a galla» ribatté lei. «Soltanto io.»
Greyson rimase impassibile per qualche istante, poi sorrise. «Allora, sei
viva sul serio! Non ero sicuro che quelle trasmissioni fossero vere.»
«E… anche voi due vi conoscete?» chiese la falce amazzonica.
«In una vita precedente» precisò lei.
Poi, uno dei compagni di viaggio di Anastasia si mise a ridere.
«Be’, non è incredibile? Un incontro inaspettato dei presunti deceduti!»
Lo sguardo di Greyson si soffermò su di lui. O lei. Quella persona aveva
qualcosa di affascinante.
Mendoza, cercando di riprendere un contegno, si schiarì la gola, gonfiò
un po’ il petto e impostò la voce più cerimoniosa che poté. «Sua Sonorità il
Rintocco dà il benvenuto a tutti voi e vi concede udienza!» dichiarò.
«Udienza privata» precisò Greyson.
«Udienza privata!» ripeté Mendoza con voce altisonante, ma non si
mosse.
«In altre parole» riprese Greyson, «desidero restare solo con Madame
Anastasia.»
Il curato si voltò a guardarlo, terrorizzato. «Non credo sia saggio. Che
almeno resti Morrison.»
Ma Morrison alzò le mani in segno di resa. «Lasciatemi fuori da questa
storia. Non ho nessuna intenzione di mettermi contro Madame Anastasia.»
Le telecamere del Thunderhead vibrarono. Greyson ebbe la netta
sensazione di percepire una specie di risata elettronica.
«Fate entrare anche gli altri loro amici» ordinò, «e portate qualcosa da
mangiare. Devono essere affamati.» Si voltò verso i tonisti che avevano
assistito a quello strano incontro. «Va tutto bene» disse loro, poi fece un
cenno ad Anastasia. «Camminiamo.»
E i due sparirono nella foresta.

«“Camminiamo”?» ripeté Anastasia quando furono da soli. «Ma davvero?


Non stai esagerando, per caso?»
«Fa parte della commedia» replicò Greyson.
«Così, ammetti che è una commedia!»
«La parte del profeta, sì. Il resto è vero. Non sono un losco, e il
Thunderhead mi parla.» Le rivolse un sorriso ironico. «Forse è un modo di
ricompensarmi per averti salvato la vita, il giorno in cui mi hai investito con
la tua macchina.»
«Non era la mia macchina» precisò Anastasia. «Era di Madame Curie.
Stavo solo imparando a guidare.»
«E meno male! Se fossi stata più brava alla guida e mi avessi evitato, a
quest’ora saremmo tutti ridotti in cenere» ribatté lui. «Allora, anche
Madame Curie è ancora viva, no?»
Il cuore di Anastasia ebbe un sussulto. Non sarebbe mai stato facile dare
quella notizia. «Marie è morta perché un giorno io potessi essere
rianimata.»
«Rianimata… questo spiega perché non hai una sola ruga in più rispetto
a tre anni fa.»
Lo scrutò a lungo. Aveva un aspetto diverso, e non era solo per
l’abbigliamento. La mascella era più volitiva, il passo più sicuro e lo
sguardo così diretto da risultare invadente. Aveva imparato bene a recitare il
suo ruolo, proprio come lei.
«Dalle ultime notizie, so che hai rifiutato l’offerta di asilo che avevo
predisposto per te in Amazzonia. Dunque hai preferito restare con i
tonisti?»
Il suo sguardo si fece più penetrante. Non critico, ma più perspicace. Un
po’ come il Thunderhead.
«Sei stata tu a volere che mi rifugiassi dai tonisti… o te ne sei
dimenticata?»
«No, mi ricordo. Ma non avrei mai pensato che ci rimanessi. Non ho mai
pensato che potessi diventare il loro profeta.» Osservò i suoi abiti. «Non
saprei dire se sei ridicolo o regale.»
«Tutti e due. Il trucco è convincere la gente che un abbigliamento
bizzarro rende straordinario chiunque. Ma su questo sai già tutto, non è
vero?»
Anastasia dovette ammettere che aveva ragione. Il mondo trattava, e
classificava, in modo diverso chi indossava una veste o un abito da
cerimonia.
«Purché non ti monti la testa.»
«Quando mi tolgo la tunica, torno a essere Greyson Tolliver.»
«E io, quando mi tolgo la veste, torno a essere Citra Terranova.»
Le fece un gran sorriso. «Non conoscevo il tuo vero nome. Citra. Mi
piace.»
Sentirgli pronunciare il suo nome la riempì di nostalgia. Le sarebbe
piaciuto tornare a essere quella ragazza. «Ormai sono in pochi a chiamarmi
così.»
Lui la guardò con malinconia. «Che strano, prima non mi era facile
parlare con te. Ora, lo trovo più facile che parlare con chiunque altro. Per
molti aspetti, penso che adesso ci assomigliamo di più.»
Lei rise. Non perché fosse divertente, ma perché era vero. Il mondo li
considerava dei simboli. Una luce infallibile che guidava l’umanità nelle
tenebre. Ora Anastasia capiva perché gli antichi trasformavano i loro eroi in
costellazioni.
«Non mi hai spiegato perché volevi un’udienza con il Rintocco.»
«Maestro Possuelo crede che tu conosca un posto sicuro in cui Goddard
non potrà mai trovarci» rispose Anastasia.
«Be’, se il Thunderhead conosce un posto così, non me ne ha mai
parlato. E comunque ci sono molte cose che non mi dice.»
«Non importa. Possuelo vuole solo proteggermi, ma io non ho intenzione
di nascondermi.»
«Allora, che cosa vuoi?» chiese Greyson.
Che cosa voleva? Citra Terranova voleva liberarsi della veste, ritrovare
la sua famiglia e litigare con il fratello per delle stupidaggini. Madame
Anastasia non avrebbe mai avuto nulla di tutto ciò.
«Voglio far cadere Goddard» replicò. «Sono riuscita a individuarlo su
Marte al momento della tragedia, ma la sua presenza non dimostra la sua
colpevolezza.»
«È sopravvissuto a Marte, ed è sopravvissuto a Endura» le fece notare
Greyson. «Sospetto, ma non incriminante.»
«Proprio così, ed è per questo che devo trovare un’altra persona» spiegò
Anastasia. «Hai mai sentito parlare di Maestro Alighieri?»

Possuelo dovette partire quello stesso pomeriggio. Era stato richiamato in


Amazzonia dalla sua Suprema Roncola.
«Tarsila mi lascia un ampio margine di manovra; soprattutto quando ti
ho ritrovata nella camera blindata, mi ha lasciato fare» spiegò ad Anastasia.
«Ma ora che ha saputo che ho portato il nostro artista nel SubSahara,
pretende che rientri immediatamente. Altrimenti, potremmo essere accusati
di complottare con i tonisti.» Sospirò. «Siamo una regione molto tollerante
ma, dopo l’attacco al palazzo di Tenkamenin, anche le regioni più tolleranti
sono diventate diffidenti verso i tonisti, e la nostra Suprema Roncola non
vuole cattiva pubblicità.»
Un gruppo di tonisti passò alle loro spalle entrando nella grotta. Si
inchinarono, salutandoli con rispetto. «Eccellenze» biascicarono alcune
voci con la lingua ancora intorpidita, poiché era ricresciuta da appena una
settimana. Anastasia faceva fatica a credere che fossero quegli stessi
Sibilanti violenti che avevano assassinato Tenkamenin a sangue freddo.
Greyson, cioè il Rintocco, li aveva convertiti e riportati sulla retta via prima
che precipitassero nel baratro della barbarie. Anastasia non riusciva a
perdonarli, ma in un certo senso li tollerava.
“Le persone sono navi” le aveva detto Jeri. “Contengono tutto ciò che è
stato loro riversato all’interno.”
E, apparentemente, Greyson li aveva drenati e riempiti di una sostanza
senz’altro più gradevole.
Possuelo si congedò all’ingresso della grotta. «Questo posto è isolato e,
se davvero il Rintocco è sotto la protezione del Thunderhead, sarai al sicuro
con lui. Non è esattamente il rifugio che speravo per te, ma chissà se quel
posto esiste. Le voci valgono meno dell’aria che le trasporta.»
«Mi auguro che il Rintocco mi aiuti a trovare Alighieri.»
«Mi stupirebbe sapere che è ancora in vita» si rammaricò Possuelo. «Era
già molto vecchio quando ero ancora un apprendista, e io non sono certo di
primo pelo, come sai.»
Rise e la strinse tra le braccia. Fu un abbraccio confortante. Paterno.
Fino a quel momento, non si era resa conto di quanto le mancasse quel
gesto di affetto. Ripensò alla sua famiglia. Non aveva più cercato di
contattarla da quando era stata rianimata: Possuelo l’aveva dissuasa. I suoi
familiari erano al sicuro e ben protetti in una regione amica, le aveva
assicurato. Forse, un giorno, si sarebbero ritrovati o forse non li avrebbe
mai più rivisti. In ogni caso, aveva ancora troppo da fare per pensarci.
«Salutami il comandante Soberanis» riprese Possuelo. «Suppongo che
resterà con te.»
«Come hai ordinato tu» confermò Anastasia.
Lui alzò un sopracciglio. «Non ho mai dato un ordine simile» replicò.
«Jerico si comporta come crede. Che quel bravo comandante abbia lasciato
il mare per proteggere te, la dice lunga su voi due.» La strinse ancora in un
abbraccio. «Prenditi cura di te, meu anjo.» Poi, si voltò e si allontanò a
grandi passi verso il velivolo che lo attendeva nella radura.

Ezra l’artista, che Possuelo ritenne opportuno liberare, si mise a dipingere


un murale sulla parete di una delle grotte. Lo divertiva il fatto che quel
posto potesse un giorno diventare meta di pellegrinaggi per futuri tonisti,
semmai il tonismo fosse sopravvissuto, e che i suoi dipinti rupestri
potessero essere analizzati nei minimi dettagli dagli studiosi di domani.
Introdusse alcuni elementi insoliti per confondere i futuri osservatori. Un
orso danzante, un ragazzo con cinque occhi e un orologio di undici ore a cui
mancava il numero quattro.
“Che cos’è la vita se non puoi divertirti con il futuro?” diceva.
Chiese al Rintocco se si ricordava di lui e Greyson rispose di sì. In parte
era vero. Ricordava l’udienza che aveva concesso a Ezra, perché aveva
segnato un punto di svolta anche per lui. Per la prima volta, aveva dato un
consiglio a qualcuno senza limitarsi a fare da portavoce al Thunderhead.
Però, non si ricordava il viso di Ezra.
«Ah, i meravigliosi limiti del cervello biologico!» esclamò il
Thunderhead, malinconico. «La sorprendente capacità di fare a meno del
superfluo invece di archiviare ogni minimo dettaglio in una voluminosa
raccolta!» Per il Thunderhead, la memoria selettiva dell’umanità era “il
dono dell’oblio”.
Greyson aveva dimenticato molte cose che avrebbe desiderato ricordare.
La maggior parte della sua infanzia. I momenti di tenerezza che aveva
condiviso con i suoi genitori. E poi, c’erano cose che ricordava, ma che
avrebbe tanto desiderato dimenticare. Come l’espressione di Purity nel
momento in cui Maestro Costantino l’aveva spigolata.
Il dono dell’oblio era diventato un assillo per Anastasia, perché il mondo
pareva essersi scordato di Maestro Alighieri. Ma non il Thunderhead.
Alighieri era nella voluminosa raccolta della storia dell’umanità. Il
problema era accedere a quelle informazioni.
Il Thunderhead era rimasto in silenzio per tutta la durata della
conversazione di Greyson con Anastasia. Riprese a parlare solo dopo che
lei ebbe raggiunto i suoi compagni nella grotta. «Non posso aiutare in alcun
modo Anastasia a trovare l’uomo che cerca.»
«Ma tu sai dove trovarlo, non è vero?»
«Sì. Ma sarebbe una violazione se le comunicassi il posto.»
«Puoi dirlo a me?»
«Potrei» replicò il Thunderhead, «ma, se poi tu glielo dirai, sarò
obbligato a darti il marchio di losco. E allora, dove andremmo a finire?»
Greyson sospirò. «Ci dovrà pur essere un modo per aggirare il
problema…»
«Forse. Ma non posso aiutarti a trovarlo.»
Un modo per aggirare il problema. Il Thunderhead si era servito di lui
all’epoca per aggirare un problema, quando era un ingenuo studente
dell’Accademia dei Nimbus. E, a ben pensarci, si ricordò di una delle sue
prime lezioni. Era una specie di protocollo cerimoniale che permetteva a un
agente Nimbus di parlare con una falce senza violare la legge. Era il
trialogo. Implicava la presenza di un intermediario di professione, esperto
di convenzioni tra le Compagnie e lo Stato. Stabiliva che cosa si poteva e
non si poteva dire.
Greyson capì che quello di cui avevano bisogno era un intermediario.

Nella sua grotta personale piena di tappeti e arazzi, il Rintocco era seduto
su uno dei numerosi cuscini sparsi un po’ dappertutto, di fronte a Jerico
Soberanis.
Greyson immaginò che avessero più o meno la stessa età. A meno che il
comandante non si fosse ringiovanito, ma ne dubitava. Il giovane Jeri non
sembrava il tipo da ringiovanirsi così tanto. Comunque, possedeva un certo
carisma. Non proprio saggezza, ma il fascino dell’esperienza. Greyson
aveva girato il mondo, però non aveva mai visto molto, al riparo nella sua
piccola bolla protettiva. Era come se non fosse mai andato da nessuna parte.
Jerico Soberanis, invece, aveva davvero visto il mondo, e soprattutto, lo
conosceva. Era da ammirare.
«Madame Anastasia mi ha spiegato il motivo per cui mi ha convocato»
esordì Soberanis. «Com’è che funziona, Sua… come la chiamano?»
«Sua Sonorità» rispose Greyson.
«Giusto, “Sua Sonorità”» disse Soberanis, con un sorrisetto.
«La diverte?»
Il sorrisetto non svanì dal viso del comandante. «Lo ha scelto lei?»
«No. Il mio curato.»
«Deve aver lavorato nella pubblicità.»
«È così.»
La conversazione languiva. Non era una sorpresa. La situazione era
totalmente forzata, ma era un male necessario.
«Dica qualcosa» fece Greyson.
«Che cosa dovrei dire?»
«Non ha importanza. Dobbiamo solo fare conversazione. Poi, porrò delle
domande al Thunderhead a riguardo.»
«E…?»
«E lui mi risponderà.»
Jerico fece un altro sorrisetto. Malizioso. Seducente, in modo strano.
«Una partita a scacchi, allora, dove tutti i pezzi sono invisibili!»
«Se preferisce» replicò Greyson.
«Molto bene.» Jerico rifletté un istante sull’argomento da affrontare, poi
disse qualcosa che Greyson non si aspettava.
«Lei e io abbiamo qualcosa in comune.»
«E sarebbe?»
«Abbiamo entrambi sacrificato la nostra vita per salvare Madame
Anastasia.»
Greyson alzò le spalle. «È stata solo una morte temporanea.»
«Eppure» proseguì Soberanis, «richiede coraggio e una fiducia cieca.»
«Non proprio. La gente si lancia ogni giorno.»
«Sì, ma noi non siamo quel tipo di persone. Non è nella nostra natura
suicidarci. Non tutti avrebbero fatto la nostra scelta. E questo mi dice che
lei vale molto di più dell’abito che indossa.» Soberanis sorrise ancora.
Questa volta, era sincero. Onesto. Greyson non aveva mai incontrato
nessuno capace di sfoderare una tale varietà di sorrisi. Ognuno era più
eloquente di un discorso.
«Grazie» rispose. «Suppongo che la nostra reciproca ammirazione per
Madame Anastasia ci… ci leghi in qualche modo…» Aspettò di vedere se il
Thunderhead volesse dire qualcosa, ma non lo fece. Credeva che gli
avrebbe posto una domanda. Greyson non sapeva ancora che cosa
chiedergli.
«Con tutto il rispetto» riprese, «ma non so bene come rivolgermi a lei.
Signor o signora Soberanis?»
Il comandante si guardò intorno, visibilmente a disagio. «Mi sento un
po’ disorientato. È raro che io mi trovi in un posto da cui non posso vedere
il cielo.»
«Ed è un problema?»
«Non dovrebbe esserlo… sono sempre all’aperto, o accanto a una
finestra o a un oblò, ma in una grotta…»
Greyson sembrava confuso, e il comandante iniziò a irritarsi. «Non
capirò mai perché voi persone binarie siete così attaccate ai vostri apparati
genitali. Che importa se una persona ha le ovaie, i testicoli o entrambi?»
«Non importa» replicò Greyson, sentendosi un po’ turbato. «Insomma…
importa in alcuni casi… no?»
«Me lo dica lei.»
Greyson non riusciva a staccarsi da quello sguardo. «Forse… non
importa quanto credevo?» Non aveva previsto di porre una domanda. E
comunque, Jerico non aveva intenzione di rispondere.
«Perché non mi chiama Jeri e non lasciamo da parte i dettagli tecnici?»
«Perfetto! Jeri va bene. Cominciamo.»
«Credevo che avessimo già cominciato. Tocca a me?» Jeri finse di
muovere una pedina immaginaria in avanti, poi disse: «Mi piacciono molto
i suoi occhi. Capisco che possano persuadere le persone a seguirla».
«Non penso che i miei occhi abbiano qualcosa a che fare con questo.»
«Ne sarebbe sorpreso.»
Greyson si premette l’auricolare sull’orecchio. «Thunderhead… i miei
occhi incoraggiano la gente a seguirmi?»
«Sì, a volte» rispose il Thunderhead. «Possono essere utili, come ultima
risorsa.»
Greyson arrossì, suo malgrado. Jeri se ne accorse e gli rivolse un nuovo
tipo di sorriso.
«Allora, il Thunderhead è d’accordo con me.»
«Forse.»
Greyson aveva pensato che sarebbe stato lui a dominare quella
conversazione, ma chiaramente non era così. Sorrise a sua volta. Era però
sicuro di avere un solo sorriso, e che non gli desse un’aria molto
intelligente.
«Mi parli del Madagascar» disse, cambiando discorso.
Al sentir nominare il suo paese, l’atteggiamento di Jeri mutò di colpo.
«La mia regione è magnifica; le montagne, le spiagge, i boschi. La gente è
gentile, educata e tollerante. Dovrebbe vedere Antananarivo, la nostra
capitale, e il tramonto sulle colline!»
«Thunderhead» disse Greyson, «parlami di Antananarivo. Raccontami
qualcosa di interessante.»
Il Thunderhead rispose e Greyson ascoltò.
«Che cosa ha detto?» chiese Jeri.
«Ehm… mi ha detto che l’edificio più alto ad Antananarivo misura
309,67 metri, esattamente quanto altri quattro edifici nel mondo, con
precisione millimetrica.»
Jeri si appoggiò all’indietro, per nulla colpito. «È il fatto più interessante
che ha trovato? E gli alberi Jacaranda intorno al lago Anosy, e le tombe
reali?»
Greyson alzò una mano per farlo tacere, e pensò per un istante. Il
Thunderhead non diceva nulla senza un motivo. Bisognava saper leggere tra
le righe. «Thunderhead, dove sono gli altri quattro edifici? Sono curioso…»
«Uno nella regione cilargentina» rispose, «un altro in Britannia, il terzo
in Israebia e il quarto nella regione di NuZelanda.»
Greyson ripeté l’informazione a Jeri, che continuava a non essere affatto
colpito. «Sono stato in tutte quelle regioni. Ma è a casa propria che ci si
sente meglio, immagino.»
«Ha visitato tutte le regioni del mondo?» chiese Greyson.
«Tutte quelle costiere» rispose Jeri. «Ho un’avversione per le terre senza
sbocchi sul mare.»
E poi il Thunderhead espresse un’opinione semplice e ovvia, che
Greyson condivise con il comandante.
«Il Thunderhead crede che lei si sentirebbe probabilmente più a casa su
un’isola o in un arcipelago delle dimensioni del Madagascar.» Inclinò un
po’ la testa, un’abitudine che aveva preso quando parlava con il
Thunderhead in presenza di altri. «Thunderhead, a quali regioni hai
pensato?»
Il Thunderhead rimase in silenzio.
Greyson sorrise. «Nessuna risposta… il che significa che siamo sulla
strada giusta!»
«Quelle che mi vengono in mente» riprese Jeri «sono Britannia,
Caribbea, la regione del Sol Levante, NuZelanda e le Nesie.»
«Interessante» commentò Greyson.
«Cosa?»
«Britannia e NuZelanda sono state nominate due volte…» Il
Thunderhead continuava a restare in silenzio.
«Questo gioco inizia a piacermi» disse Jeri.
E Greyson dovette ammettere che stava iniziando a piacere anche a lui.
«In quale regione vorrebbe vivere?» chiese il comandante. «Se potesse
scegliere un luogo qualsiasi nel mondo?»
Era una domanda tendenziosa, e forse Jeri lo sapeva. Perché tutti
potevano scegliere di vivere dove preferivano. Ma, per Greyson, non era
una questione di posto, bensì di stato d’animo.
«Vorrei vivere dove nessuno mi conosce» rispose Greyson.
«Ma nessuno la conosce. Conoscono il Rintocco, non lei. Prenda me, per
esempio. Non so neppure il suo nome.»
«È… Greyson.»
Jeri abbozzò un sorriso che aveva il calore del sole malgascio.
«Ciao, Greyson.»
Quel semplice saluto parve turbarlo. I malgasci erano famosi per il loro
fascino, e forse era quel fascino che turbava Greyson. O forse no. Più tardi,
si sarebbe dovuto prendere del tempo per approfondire la faccenda.
«Da parte mia, non ho mai voluto vivere lontano dal mare» affermò Jeri.
«Thunderhead, che pensi della sua risposta?» chiese Greyson.
E il Thunderhead replicò: «In ogni regione, c’è una città lontana dal
mare. Immagino che al comandante non piacerebbe vivere in quel tipo di
posto».
«Ma» ribatté Greyson, «se ci fossero degli alberi Jacaranda, come
intorno al lago malgascio, forse Jeri si sentirebbe a casa.»
«Forse» osservò il Thunderhead.
E allora Greyson sferrò il suo attacco, camuffato a dovere. Il tipo di
mossa che l’avversario non si aspetterebbe. Certo, il Thunderhead se
l’aspettava. E infatti, lo accolse a braccia aperte.
«Dimmi, Thunderhead, quali sono le regioni in cui cresce la Jacaranda?»
«Anche se preferiscono i climi caldi, ora crescono un po’ dappertutto. I
fiori viola sono apprezzati in tutto il mondo.»
«Sì, va bene» replicò Greyson. «Ma puoi darmi una lista di… diciamo…
quattro posti in cui sono presenti?»
«Certo, Greyson. La Jacaranda si trova in OvestMerica, nella regione
dell’Istmo, nell’Himalaya inferiore e anche negli orti botanici della
Britannia.»
Jeri scrutò la sua espressione. «Allora? Che cosa ha detto?»
«Scacco matto» dichiarò Greyson, e gli rivolse il suo sorriso più stupido.

«Cerchiamo una città nella regione della Britannia senza sbocchi sul mare.
È lì che troveremo Maestro Alighieri» disse Greyson ad Anastasia.
«Sei sicuro?»
«Al cento per cento» confermò lui. «Probabilmente» si corresse.
«Forse.»
Anastasia rifletté qualche istante, poi tornò a guardare Greyson. «Hai
detto “troveremo”.»
Greyson annuì. «Vengo con te.» Era la decisione più spontanea che
avesse preso in tanti anni. La sensazione era piacevole. Più che piacevole,
era liberatoria.
«Non sono sicura che sia una buona idea» ribatté lei.
Greyson non si lasciò intimidire. «Io sono il Rintocco, e il Rintocco va
dove più gli aggrada. E poi, voglio esserci quando Madame Anastasia
cambierà il mondo!»
Il Thunderhead non si pronunciò. Non voleva dissuaderlo, ma nemmeno
incoraggiarlo. O forse non commentava perché c’era di mezzo una falce.
Aspettò che Greyson rimanesse solo per parlargli. Non riguardava la loro
destinazione, comunque. La conversazione prese tutt’altra direzione.
«Ho percepito un cambiamento nelle tue condizioni fisiologiche mentre
eri con il comandante» gli fece notare il Thunderhead.
«E perché dovrebbe interessarti?» scattò Greyson.
«Era solo un’osservazione» rispose calmo il Thunderhead.
«È una cosa personale! Con tutti gli anni che hai trascorso a studiare la
natura umana, dovresti sapere che ci sono dei limiti da non oltrepassare.»
«Lo so. E so anche quando desideri che io mi intrometta.»
Come sempre, il Thunderhead aveva ragione, cosa che irritò Greyson.
Aveva voglia di parlarne. Di capire. E il Thunderhead era l’unico con cui
poteva discuterne.
«Credo che lei ti abbia fatto un certo effetto.»
«Lei? Non è un po’ impertinente parlare di Jeri al femminile?»
«Affatto. Il cielo sopra la grotta è limpido e pieno di stelle.»
Il Thunderhead spiegò dunque a Greyson come Jeri vedeva il genere.
Uno stato variabile come il vento ed effimero come le nuvole.
«È… poetico» commentò lui, «ma poco pratico.»
«Chi siamo noi per giudicare?» si interrogò il Thunderhead. «E poi, il
cuore umano raramente è pratico.»
«Suona come un giudizio…»
«Al contrario» ribatté il Thunderhead. «Sogno di potermi permettere il
lusso di non essere pratico. Darebbe… più corpo… alla mia esistenza.»
Più tardi, disteso nel letto senza auricolare, Greyson ripensò alla
conversazione che aveva avuto con Jeri Soberanis, uno scambio invitante e
inquietante al tempo stesso.
“Ciao, Greyson” gli aveva detto Jeri. Niente di strano. A parte un
dettaglio. Erano esattamente le stesse parole e lo stesso tono di voce che il
Thunderhead aveva usato nel momento in cui aveva ripreso a parlare con
lui.
«La colonia su Marte fu ridotta a un cratere radioattivo molto tempo prima che io
nascessi. Ma quelli di voi che si avvicinano ai cento, probabilmente si ricorderanno
lo scandalo che ne seguì. Dopo la Luna, era toccato a Marte. La gente capì che le
colonie spaziali erano troppo pericolose. Si ribellò all’idea di risolvere il problema
della sovrappopolazione investendo su un altro pianeta. O forse dovrei dire che fu
influenzata da un flusso di informazioni insistenti e polemiche. Il più ingente
proveniva da OneGlobe Media. Ne avete mai sentito parlare? No? È perché non
esiste più. Fu fondato per un solo motivo: influenzare l’opinione pubblica, in modo
che la decisione del Thunderhead di fermare tutte le missioni di colonizzazione dello
spazio sembrasse scaturire dalla gente, e non dagli attacchi ripetuti delle falci a
quelle stesse missioni.
«E, per aggiungere al danno la beffa, una delle falci responsabili della catastrofe
fu rapidamente promossa ai vertici della Compagnia midmericana. Anche il
patronimico storico che si scelse fu un vero e proprio affronto: dottor Robert
Goddard, l’ingegnere missilistico che aveva reso possibile il volo nello spazio.
«Ma il Thunderhead non si arrese. Era determinato a procedere a un ultimo
tentativo per insediare una colonia non sulla Luna o su un pianeta, ma in orbita. Più
vicina alla Terra. Più facile da presidiare.
«Non bisogna essere un ingegnere missilistico per indovinare che cosa accadde
in seguito.»
39
Mai abbastanza specchi

Maestro Alighieri aveva trent’anni tondi tondi, senza un giorno di più; era
la ventinovesima volta che si riprogrammava su quell’età, dato che si
ringiovaniva spesso. In realtà, si avvicinava ai duecentosessant’anni. Ormai
non aveva quasi più un aspetto umano. Era il risultato per essersi
ringiovanito così tante volte. La pelle diventava lucida e tesa. Gli zigomi si
erodevano come pietre di fiume: diventavano sempre più lisci, perdendo
definizione.
Passava un mucchio di tempo a contemplare la propria immagine riflessa
e a prendersi cura del suo aspetto. Accecato dall’immagine che gli restituiva
lo specchio, Maestro Alighieri non si vedeva com’era davvero. Si
considerava l’incarnazione della bellezza senza età. Simile a una statua di
Adone. O al David di Michelangelo. Non c’erano mai abbastanza specchi.
Non aveva alcun contatto con le altre falci, non partecipava più ai
conclavi e nessuno sentiva la sua mancanza. Da decenni, nessuna
Compagnia ne rivendicava l’appartenenza, e non compariva nella lista di
nessuna Suprema Roncola. Nel complesso, era caduto nell’oblio, e la cosa
gli stava bene. Il mondo era diventato troppo complicato per i suoi gusti.
Viveva isolato, lontano dagli avvenimenti della vita quotidiana come lo era
dal mare, nel cuore della Britannia.
Non sapeva, o non gli interessava sapere, che il Thunderhead aveva
smesso di parlare. E, anche se aveva sentito che sull’isola del Cuore
Duraturo c’erano stati dei guai, non aveva idea che ora giacesse in fondo
all’oceano Atlantico. Non era un suo problema. A parte qualche spigolatura
nei paraggi di Coventry, non lavorava più. Una volta, aveva salvato il
mondo; adesso voleva solo vivere la sua eternità in pace.
Riceveva poche visite. Quando qualcuno si presentava alla sua porta, lo
spigolava. Una sorte ben meritata per chi aveva l’audacia di andare a
disturbarlo. Certo, poi era obbligato a uscire con qualsiasi tempo per
concedere l’immunità ai familiari. Una seccatura, ma non si sottraeva mai a
quella responsabilità, a quel comandamento. Lo aveva fatto una volta e si
era sentito la coscienza gravata da un macigno. Be’, almeno, quando era
obbligato ad avventurarsi fuori casa, riconosceva di vivere in un posto
gradevole alla vista. Le rigogliose colline verdi della contea di
Warwickshire avevano ispirato molti scrittori e artisti dell’era mortale.
Aveva dato i natali a Shakespeare; era la terra bucolica di Tolkien. La
campagna era quasi sublime quanto lui.
Anche lui ci era nato, nonostante, nel corso degli anni, si fosse legato a
varie Compagnie regionali, vicine e lontane, cambiando alleanza ogni volta
che entrava in conflitto con le falci di una regione. Non aveva molta
pazienza con gli imbecilli, e alla fine tutti si rivelavano degli idioti. Ma ora
era tornato nel paese natale e non aveva alcuna voglia di andarsene di
nuovo.
Come sempre, i visitatori che in quel freddo pomeriggio bussarono alla
sua porta non furono i benvenuti. Ma, dato che tra di loro c’era una falce,
non poteva né spigolarli né cacciarli. Dovette mostrarsi ospitale, cosa che,
per una falce centenaria, era un’oltraggiosa umiliazione.
La falce in turchese lanciò un’occhiata alla sua veste di seta bianco perla.
«Maestro Alighieri?»
«Sì, sì. Che cosa volete?»
Era una bella ragazza. Gli venne voglia di ringiovanirsi all’istante, di
riprogrammarsi alla sua stessa età per poterla corteggiare. Le relazioni di
quel tipo tra falci non erano ben viste, ma chi l’avrebbe saputo? Aveva
sempre avuto molto successo con le donne, a qualsiasi età.
Anastasia trovò l’uomo ripugnante, ma fece del suo meglio per
nasconderlo. La pelle aveva l’aspetto di una maschera di plastica e la forma
del viso era vagamente anomala.
«Abbiamo bisogno di parlarle» rispose.
«Sì, sì, bene, ma non vi sarà di grande aiuto» replicò Alighieri.
Lasciò la porta aperta senza invitarli esplicitamente a entrare. Anastasia
si fece avanti, seguita da Greyson e Jeri. Il resto del drappello era rimasto in
strada, per non spaventare Alighieri. Anastasia avrebbe preferito andare da
sola, ma ora che vedeva quell’uomo orribile e il suo disgustoso cottage, fu
contenta che Greyson e Jeri fossero con lei mentre entrava in quella casa
infestata.
Alighieri lanciò un’occhiata agli abiti cerimoniali di Greyson. «È così
che ci si veste oggi?»
«No» rispose lui. «Solo io porto questi indumenti.»
Alighieri mugugnò, contrariato. «Che gusti orribili.» Poi, si voltò a
guardare Anastasia. La scrutò dalla testa ai piedi in un modo che le fece
venire voglia di conficcargli un oggetto appuntito nel cranio.
«Il suo accento è nordmericano» osservò lui. «Come vanno le cose da
quella parte dell’oceano? Senocrate continua a strepitare e urlare in
MidMerica?»
Anastasia scelse con cura le parole. «È… stato nominato Somma
Roncola del NordMerica.»
«Ah!» esclamò Alighieri. «Scommetto che è stato lui a creare i problemi
che sta avendo Endura. Bene, se siete venuti a chiedere consiglio a una
falce veterana, avete bussato alla porta sbagliata. Non ho alcun consiglio da
darvi. Forse potreste consultare i miei diari ad Alessandria. Anche se ho
omesso di consegnarli…»
Indicò una scrivania in un angolo in mezzo alla confusione. Era
ingombra di diari impolverati. Anastasia colse la palla al balzo.
«I suoi diari. Sì, è per questo che siamo venuti.»
Lui la guardò ancora, con un’espressione un po’ diversa. Era
preoccupazione? Difficile decifrare le emozioni su quel viso.
«Sarò sanzionato per non averli consegnati a tempo debito?»
«No, nulla di tutto questo» lo rassicurò Anastasia. «La gente vuole solo
leggere il racconto della… missione a cui ha partecipato.»
«Quale missione?» Ora era decisamente diffidente. Anastasia doveva
andarci piano.
«Non sia così modesto. Tutte le falci sanno che ha avuto un ruolo nella
spigolatura di Nuova Speranza. Lei è una leggenda vivente!»
«Leggenda?»
«Sì… e sono sicura che i suoi diari saranno conservati in una sala
dedicata solo a lei nella Biblioteca di Alessandria.»
Alighieri le lanciò uno sguardo severo. «Non sopporto i leccapiedi!»
esclamò. «Uscite.»
Poi, si sedette a una specchiera, come se se ne fossero già andati, e
cominciò a spazzolarsi i lunghi capelli castano ramato.
«Lasci provare me» sussurrò Jeri ad Anastasia, e si avvicinò ad
Alighieri. «Le è sfuggita qualche ciocca, eccellenza. La prego, mi
permetta.»
La falce guardò Jeri nello specchio. «Lei è uno di quei tipi asessuati?»
«Sono fluido» lo corresse il comandante. «In Madagascar siamo così.»
«Un malgascio!» esclamò Alighieri, in tono di scherno. «Non sopporto i
malgasci. Fate una scelta e datevi pace, dico io.»
Jeri non reagì. Si mise a spazzolare i capelli della falce. «Quanti anni ha,
eccellenza?» chiese.
«Che faccia tosta! Dovrei spigolarla per avermi fatto una domanda
simile!»
Anastasia fece un passo avanti, ma Jeri la fermò con un gesto della
mano.
«È solo che non ho mai incontrato una persona che abbia così tanta
esperienza come lei. Io ho viaggiato in tutto il mondo, ma lei ha viaggiato
attraverso le epoche, attraverso la storia!»
Alighieri incrociò tutti gli sguardi nello specchio. Per un uomo che non
amava le lusinghe, se ne cibava con la stessa avidità con cui si cibava della
propria immagine riflessa.
Fu la volta di Greyson. «È stato… mortale? Non ho mai incontrato un
mortale.»
Alighieri si prese del tempo prima di rispondere. «In pochi lo hanno
fatto. Dopo le purghe mortali, chi lo era stato lo tenne per sé.» Tolse con
delicatezza la spazzola dalle mani di Jeri e ricominciò a pettinarsi.
Anastasia si chiese quante volte nel corso degli anni quella spazzola fosse
passata tra i capelli dell’uomo.
«Non è un fatto noto a tutti, ma sì, sono nato mortale» confessò. «Ne ho
pochi ricordi, tuttavia. La morte naturale fu sconfitta prima che potessi
diventare abbastanza vecchio da comprenderne il senso.»
Smise di parlare e guardò di nuovo nello specchio, come se vi scorgesse
un’altra epoca, un altro luogo. «Io li ho incontrati, sapete. I padri fondatori.
Be’, non proprio incontrati. Li ho visti. Tutti li hanno visti. Uomini, donne,
bambini, tutti volevano vederli, mentre sfilavano per la città verso
Buckingham Palace, dove il re si è inginocchiato ai loro piedi.
Naturalmente, non lo hanno spigolato. Quello è avvenuto anni dopo.» Poi,
scoppiò a ridere. «Ho trovato una penna di piccione, l’ho tinta di blu, e ho
fatto credere ai miei compagni di classe che fosse caduta dalla veste di
Madame Cleopatra. Non assomigliava per nulla a una penna di pavone, ma
i miei compagni non erano molto svegli.»
«Eccellenza» intervenne Anastasia. «A proposito della spigolatura di
Nuova Speranza…»
«Sì, sì, è roba vecchia» la interruppe lui, con un gesto vago della mano.
«Naturalmente, non l’ho riportata sul diario, all’epoca. La notizia era top
secret. Ma l’ho ricordata nei miei scritti. È tutto in quei volumi.» Indicò di
nuovo la pila sulla scrivania.
«Che peccato, resteranno a prendere polvere in qualche angolo della
Biblioteca di Alessandria» si lamentò Jeri. «Là ci sono solo turisti e
studiosi. Non saranno letti da nessun personaggio importante.»
Per tutta risposta, Alighieri osservò la spazzola che teneva in mano.
«Vede quanti capelli perdo?» Poi, la porse a Jeri, che liberò le setole dalla
matassa di capelli e iniziò a spazzolargli l’altro lato della testa.
«Se mi permette, Maestro Alighieri…» azzardò Anastasia. «Non crede
che sia ora di raccogliere i frutti del suo operato?»
«Madame Anastasia ha ragione» intervenne Greyson, che ignorava i
particolari, ma sapeva cosa era necessario dire per raggiungere il loro
scopo. «Tutti devono conoscere i sacrifici che ha fatto. Deve renderli noti al
mondo, una volta per tutte.»
«Sì» insistette Anastasia. «Il mondo l’ha dimenticata, ma lei può ancora
farsi ricordare. Deve restare nella storia, per sempre.»
Maestro Alighieri ci rifletté a lungo. Non era del tutto convinto… ma
neppure del tutto contrario.
«Quello che mi serve è una nuova spazzola.»
«Mi chiamo Maestro Dante Alighieri, ex falce di EuroScandia, FrancoIberia,
TransSiberia e Bisanzio. Vivo ormai stabilmente in Britannia, anche se non rivendico
alcuna alleanza professionale con questa o qualsiasi altra regione.
«Se ho deciso di registrare questo messaggio, non è per ordine di Madame
Anastasia; lo faccio di mia spontanea volontà, per chiarire le cose.
«Alcuni anni fa, ho partecipato a un progetto che prevedeva la spigolatura di un
consistente numero di persone. Una spigolatura di massa, sì, ma non una qualsiasi.
Ho svolto un ruolo decisivo nella distruzione della colonia orbitale di Nuova
Speranza.
«In quanto falce, era mio diritto farlo. Mi assumo la responsabilità delle mie azioni
a testa alta, e non provo alcun rimorso per aver spigolato tutta quella gente.
«Tuttavia, sono venuto meno ai miei doveri di falce, e questo mi pesa molto.
Come sapete, abbiamo giurato di concedere l’immunità alle famiglie di chi
spigoliamo. È il nostro terzo comandamento che lo stabilisce espressamente.
Tuttavia, per la natura delicata della missione, non abbiamo rispettato quell’obbligo e
non abbiamo concesso l’immunità a nessuno.
«Non addurrò a mia discolpa né l’ignoranza né l’ingenuità. Sapevamo bene cosa
stavamo facendo. La nostra missione era guidare il mondo. Proteggerlo
dall’incertezza. Se il progetto di colonizzare lo spazio avesse avuto successo, non ci
sarebbe stata la necessità di ridurre la popolazione. Le falci non sarebbero servite.
La gente avrebbe vissuto per sempre, senza la paura di essere spigolata. Quanto
assurdo sarebbe stato vivere in un mondo senza falci. Proteggendo noi stessi e la
nostra missione sulla Terra, stavamo difendendo l’ordine naturale delle cose.
«Per fare questo, era necessario che la distruzione della colonia orbitale
passasse per un incidente. Che bisogno c’era di turbare la gente facendole portare il
peso delle nostre decisioni? Eravamo così votati a questa causa che due falci si
sacrificarono nel corso dell’operazione.
«Madame Hatshepsut e Maestro Kafka, alla guida di una navicella, si
schiantarono sulla colonia orbitale per distruggerla e spigolarne tutta la popolazione.
Un’autospigolatura nobilissima da parte loro. Il mio ruolo fu quello di piazzare una
dose sufficiente di esplosivo a bordo della navicella, oltre che nella stazione, in punti
strategici, per garantire che non ci fossero sopravvissuti.
«Per rendere credibile la tesi di un incidente, la falce responsabile dell’operazione
ci chiese di non concedere l’immunità alle famiglie delle vittime. Secondo il suo
parere, il terzo comandamento non valeva per i coloni, perché i loro familiari
prossimi non erano più così prossimi, eccetto quelli che erano deceduti con loro.
«La decisione di non concedere l’immunità violò il nostro solenne regolamento, e
questa omissione mi tormenta. Sollecito quindi le Compagnie del mondo ad
assumersene la responsabilità e a rettificarla concedendo un anno di immunità a
chiunque abbia un legame di parentela con coloro che sono stati spigolati sulla
colonia orbitale. E non solo: dobbiamo anche celebrare e riconoscere
pubblicamente l’atto di eroismo e il sacrificio compiuto da Madame Hatshepsut e
Maestro Kafka.
«Ho detto ciò che dovevo dire, non ho nient’altro da aggiungere. Se desiderate
avere maggiori informazioni riguardo alla distruzione della colonia orbitale di Nuova
Speranza, contattate Maestro Robert Goddard, che ha guidato l’intera operazione.»
40
Un letto di stelle

La Somma Roncola Goddard era nei suoi appartamenti, intenta a scrutare il


copriletto in satin blu. Era dello stesso tessuto, dello stesso colore, della sua
veste. E, mentre questa era tempestata di diamanti, il letto ne era inondato.
Decine di migliaia di pietre preziose sparse sul letto, una galassia di stelle
luccicanti così pesanti che il materasso si era afflosciato.
Goddard li aveva sparpagliati per ritemprarsi lo spirito. La loro
magnificenza gli avrebbe portato non solo conforto, ma addirittura una
specie di elevazione spirituale. Un’elevazione che gli avrebbe permesso di
superare gli attacchi e le accuse che arrivavano da ogni parte. In basso, le
strade di Fulcrum City erano invase da una folla che scandiva slogan contro
di lui e le falci del nuovo ordine. Era il genere di manifestazione a cui non
si assisteva dall’era mortale. Il Thunderhead si era sempre preoccupato di
mantenere tutti soddisfatti e le falci non avevano mai abusato del loro
potere al punto da suscitare delle sommosse. E la gente non aveva mai
protestato contro di loro per paura di essere spigolata. Fino a quel momento.
Ma Goddard aveva ancora i suoi diamanti.
Non li bramava per il loro valore commerciale. Non li collezionava come
un tesoro. Non si sarebbe abbassato a tanto. La ricchezza non era nulla per
una falce, perché possedeva già tutto. Quando desiderava qualcosa, aveva
solo da servirsi.
Ma i diamanti delle falci erano diversi. Per Goddard, erano dei simboli. I
segni inequivocabili del suo successo. E i pesi sulla bilancia non si
sarebbero pareggiati finché tutte le quattrocentomila pietre non fossero
arrivate nelle sue mani.
Ne aveva recuperate quasi metà. Gli erano state donate spontaneamente,
in segno di fedeltà nei suoi confronti, dalle Supreme Roncole che vedevano
in lui il loro avvenire. L’avvenire della Compagnia globale. Il futuro del
mondo.
Avrebbe ricevuto altri diamanti dopo i messaggi di Anastasia? La gente
comune in tutto il mondo lo oltraggiava apertamente, malgrado il timore di
essere spigolata. Le regioni che lo avevano sostenuto si tiravano indietro,
una dopo l’altra, come se fosse un despota dell’era mortale caduto in
disgrazia.
Non riuscivano a vedere che era il senso del dovere a motivarlo? Oltre
alla certezza di un destino ineluttabile, certezza che nutriva da molti, molti
anni? Aveva sacrificato tutto per quel destino. Aveva contribuito alla morte
dei suoi stessi genitori e all’annientamento dei coloni su Marte, perché
sapeva che erano perdite insignificanti nel quadro generale. E, una volta
diventato falce della Compagnia midmericana, era rapidamente asceso ai
massimi vertici. La gente lo amava. La gente lo ascoltava. Aveva convinto
con la sua eloquenza i più saggi dei saggi ad abbracciare le gioie della
spigolatura. “In un mondo perfetto, il lavoro deve essere un piacere, anche
per noi.”
Il fatto che potesse persuadere i saggi dimostrava che era ancora più
saggio di loro.
E li aveva portati verso un mondo migliore! Un mondo senza tonisti,
senza anomalie genetiche, senza parassiti che non davano alcun contributo
significativo alla società. Un mondo in cui i disgraziati, gli indegni e gli
impenitenti venivano eliminati dai più avveduti. “Ucciderai.” Goddard era
orgoglioso di ciò che era e di ciò che aveva fatto. Non avrebbe lasciato che
quelle rivolte gli impedissero di raggiungere il suo obiettivo, adesso che era
così vicino. Avrebbe spazzato via quei nemici con tutti i mezzi necessari. I
diamanti davanti ai suoi occhi erano la prova di ciò che aveva realizzato e
di ciò che era ancora in grado di realizzare. Eppure, lo spettacolo di quelle
pietre preziose non lo confortava.
«Hai intenzione di sguazzarci dentro?»
Goddard si voltò. Madame Rand era sulla porta. Si avvicinò al letto e
prese un diamante. Lo rigirò tra le dita, osservandone le numerose
sfaccettature. «Hai intenzione di rotolartici dentro come un maiale nel
fango?»
Non aveva la forza di essere arrabbiato con lei. «Sono in una posizione
molto difficile, Ayn. Intorno a Madame Anastasia si stanno radunando
sempre più persone che credono alle sue accuse.» Si chinò e sfiorò i
diamanti che, con i loro spigoli affilati, gli graffiarono il palmo. D’istinto,
ne afferrò una manciata e li strinse, fino a sanguinare.
«Perché devo sempre essere io la vittima? Perché la gente si prefigge di
annientarmi, come se fosse la sua missione di vita? Non ho forse rispettato i
comandamenti e compiuto sempre il mio dovere di falce? Non ho forse
portato unità in tempi difficili?»
«Sì, Robert» confermò Ayn. «Ma siamo stati noi a provocare quei tempi
difficili.»
Lui non poteva negarlo, ma ai suoi occhi il fine aveva sempre
giustificato i mezzi.
«È vero quello che ha detto Alighieri?» chiese Ayn.
«Vero?» esclamò Goddard, sprezzante. «Vero? Certo che è vero. E, come
ha detto quella vecchia faina piena di boria, proteggevamo il nostro mondo,
proteggevamo il nostro stile di vita.»
«Proteggevi te stesso.»
«E te, Ayn» sottolineò lui. «Tutte le falci che ho ordinato hanno
beneficiato del nostro operato. Siamo riusciti a tenere l’umanità sulla
Terra.»
Ayn non fece alcun commento, non ribatté alla sua difesa. Goddard non
sapeva se era perché condivideva le sue parole o se era perché non le
importava nulla.
«Costantino si è unito alla Compagnia della Stella Solitaria» gli
annunciò.
Quell’idea era così assurda che Goddard scoppiò a ridere. «Che
liberazione. Quell’uomo ci è inutile.» Osservò a lungo Madame Rand.
«Anche tu te ne vai?»
«Non oggi, Robert.»
«Bene. Perché ti nomino terza assistente al posto di Costantino. Avrei
dovuto farlo tanto tempo fa. Tu mi sei stata fedele, Ayn. Dici quello che
pensi, anche quando non te lo chiedo, ma sei leale.»
Rand non cambiò espressione. Non lo ringraziò. Non guardò altrove.
Sostenne il suo sguardo, studiandolo. Se c’era una cosa che Goddard non
sopportava era proprio essere osservato.
«Supereremo anche questa» le disse. «Torneremo a dirigere l’attenzione
sui tonisti, come è giusto che sia.» Visto che lei continuava a tacere, la
congedò con un secco: «È tutto».
Ayn restò immobile ancora per un istante, poi si voltò e uscì. Dopo che
se ne fu andata, Goddard chiuse la porta e si allungò piano sul letto. Non si
mise a sguazzare nei diamanti, ma ci si distese sopra, sentendo le punte
acuminate che, impietose, gli si conficcavano nella schiena, nelle gambe e
nelle braccia.

La cerchia del Rintocco si era allargata a sei membri: il Rintocco, il curato


Mendoza, sorella Astrid, Maestro Morrison e infine Madame Anastasia e
Jeri Soberanis. Mancava una sola persona e avrebbero formato un’ottava
tonista, anche se Astrid si affrettò a sottolineare che il Tuono era con loro e
che quindi erano sette.
La confessione di Alighieri era stata diffusa; nessuno ormai poteva più
negare la verità di quanto aveva dichiarato. Ora, bisognava solo aspettare
che la notizia attecchisse a livello mondiale. Dopo che ebbero lasciato la
vecchia falce al suo specchio, con una spazzola nuova fiammante rivestita
d’oro, Morrison trovò un piccolo casolare dove passare la notte. I
proprietari non c’erano.
«Nell’era mortale» commentò Jeri, «sarebbe stata considerata
un’effrazione, e anche una violazione di domicilio.»
«Be’, siamo entrati, ma non abbiamo rotto nulla» replicò Morrison. «E
inoltre, come falci possiamo farlo. Solo perché il mondo ha preso Goddard
e i suoi seguaci in antipatia non vuol dire che anche noi siamo sotto tiro… o
mi sbaglio?»
Nessuno rispose, perché nessuno era più sicuro di nulla, ormai. Era come
entrare in un territorio inesplorato.
Mendoza era occupato come sempre a raccogliere informazioni, a
spiegare ai curati della sua rete come gestire le aggressioni, perché la
collera contro i tonisti aveva raggiunto l’apice.
«Siamo in guerra, è evidente» disse agli altri. «Ma sono sicuro che ne
usciremo vittoriosi.»
«Esultiamo tutti!» esclamò Astrid in tono scherzoso.
«Ora che il mondo è al corrente dei crimini di Goddard contro
l’umanità» intervenne Anastasia, «anche i suoi seguaci inizieranno ad
attaccarlo… ma lui non mollerà tanto facilmente.»
«Le persone scaltre come lui trovano sempre dei capri espiatori» osservò
Jeri.
«Hai fatto un’ottima mossa» Greyson disse ad Anastasia. «Difficilmente
riuscirà a escogitarne una migliore.»
Anastasia andò a dormire presto, stremata dalla giornata. E, anche se
Greyson si sentiva altrettanto esausto, aveva difficoltà a dormire. Ma il
casolare aveva un camino e Jeri trovò della camomilla per preparare un
infuso. I due si sedettero insieme davanti al fuoco.
«Le fiamme sono strane» fece Jeri. «Ipnotizzano, confortano… eppure,
sono la forza più pericolosa che esista.»
«No, quella è Goddard» replicò Greyson, e Jeri rise.
«Forse non mi crederà» continuò il comandante, «ma è un onore per me
far parte della sua squadra che vuole cambiare il mondo. Quando Maestro
Possuelo mi ha ingaggiato per il recupero di Endura, non avrei mai
immaginato di poter dare il mio contribuito a un progetto di tale portata.»
«Le credo, Jeri. E la ringrazio. Ma non mi sento importante. La gente
finirà per accorgersi che non ho nulla di speciale.»
«Penso che il Thunderhead abbia fatto una buona scelta» gli disse Jeri.
«Al suo posto, con il potere che ha… chiunque altro si sarebbe montato la
testa. Se io fossi stato l’unico a poter parlare con il Thunderhead, di sicuro
me la sarei montata» ammise, con un sorriso. «Sarei stato un pessimo
Rintocco.»
«Forse, ma l’avrebbe fatto con stile.»
Il sorriso di Jeri si allargò. «Dalla bocca del sant’uomo esce la verità.»

Il Thunderhead era presente in tutte le stanze del casolare, perché i


proprietari, come la maggior parte della gente, avevano telecamere e sensori
ovunque. Non li avevano spenti dopo che il Thunderhead si era chiuso nel
suo silenzio.
E così assistette alla conversazione tra Greyson e Jeri. Quando alla fine
Greyson si rilassò abbastanza per andare a dormire nella camera che aveva
scelto, la più piccola di tutte, lo seguì. E, anche se le luci erano spente, la
telecamera a infrarossi della stanza permetteva al Thunderhead di vedere la
sua sagoma nell’oscurità. Osservarlo mentre dormiva era come sempre una
fonte di conforto.
Dal suo respiro e dai suoi naniti, percepì il momento preciso in cui
Greyson scivolò nel sonno delta, la fase più profonda. Senza sogni, senza
movimenti. Il cervello di Greyson emetteva delle lente onde delta. Era così
che il cervello umano si rinvigoriva, recuperava le forze e si preparava ad
affrontare una nuova giornata. Era anche il momento in cui il soggetto era
incosciente, inaccessibile al mondo esterno.
Motivo per cui il Thunderhead scelse quel momento per parlargli.
«Greyson» sussurrò tra il canto dei grilli, «ho paura di non essere
all’altezza di questo mio compito. Che noi non ne siamo all’altezza. Ora so
cosa deve essere fatto, ma non sono sicuro dell’esito.»
Il respiro di Greyson non cambiò; non mosse un muscolo. Le sue onde
delta avevano una frequenza lenta. «Che cosa farebbe la gente se sapesse
che ho paura? Ne sarebbe spaventata?»
La luna apparve dietro le nuvole. La finestra della camera era piccola,
ma lasciava entrare abbastanza luce perché le telecamere del Thunderhead
potessero distinguere Greyson. Aveva gli occhi chiusi, naturalmente.
Avrebbe quasi voluto che si svegliasse, perché, anche se non voleva che
sentisse le sue confessioni, in fondo una parte di lui lo sperava.
«Sono incapace di commettere errori» proseguì il Thunderhead. «È un
dato di fatto. Allora perché, Greyson, sono così terrorizzato al pensiero di
sbagliare? O peggio… di aver già commesso un errore?»
La luna scivolò di nuovo dietro le nuvole e la sagoma di Greyson svanì.
Restarono solo le sue onde delta, il suono regolare del suo respiro mentre il
suo spirito errava nelle profondità insondabili del sonno umano.

Greyson fu risvegliato, come sempre, da una musica dolce, il cui volume,


regolato sui suoi ritmi circadiani, aumentava lentamente. Il Thunderhead
sapeva di preciso quando svegliarlo e lo faceva sempre con amorevole
tenerezza.
Ancora intorpidito dal sonno, Greyson rotolò su un fianco e guardò la
telecamera nell’angolo, rivolgendole un sorriso.
«Ehi! Buongiorno.»
«Buongiorno anche a te» rispose il Thunderhead. «Quel letto non è tra i
più comodi, ma ho comunque rilevato i parametri di un buon riposo
notturno.»
«Quando si è stanchi morti, si potrebbe dormire anche sul pavimento»
commentò Greyson, stiracchiandosi.
«Vorresti riposarti ancora per qualche minuto?»
«No, sto bene.» Greyson si alzò, ben sveglio e un po’ sospettoso. «Non
me l’hai mai proposto prima d’ora. Di solito, sono io che ti chiedo di
dormire di più.»
Il Thunderhead non rispose. Greyson aveva imparato che i silenzi del
Thunderhead erano più eloquenti delle parole. «Che succede?»
Il Thunderhead esitò, poi disse: «Dobbiamo parlare».

Greyson uscì dalla camera un po’ pallido, un po’ inquieto. Moriva dalla
voglia di bere un bicchiere d’acqua ghiacciata. O forse di versarsene un
secchio sulla testa. Astrid e Anastasia erano già in cucina, a fare colazione.
Si accorsero subito che c’era qualcosa che non andava.
«Stai bene?» gli chiese Anastasia.
«Non lo so» rispose.
«Intona il sacro brusio» gli suggerì Astrid. «Mi aiuta sempre a ritrovare
il mio centro. Visto che sei un baritono, ti consiglierei un sol acuto. Ti darà
una risonanza di petto molto espressiva.»
Greyson abbozzò un sorriso poco convinto. Sorella Astrid stava
cercando di fare di lui un vero tonista. «Non oggi, Astrid.»
Fu Anastasia che capì la situazione.
«Il Thunderhead ti ha detto qualcosa, non è vero? Che cosa ti ha
raccontato?»
«Convocate tutti» replicò Greyson. «Perché non ho nessuna voglia di
ripetere ciò che devo annunciare…»

“Dobbiamo parlare.” Era quello che gli aveva detto il Thunderhead quando
aveva ripreso a parlargli tre anni prima. Parole che avevano segnato l’inizio
di una grande epopea. Proprio come adesso. Per tutto il tempo, gli aveva
ripetuto che i tonisti sarebbero diventati un potente esercito di cui avrebbe
fatto buon uso, al momento opportuno. Il tempo era giunto… ma il
Thunderhead aveva una sua particolare concezione di esercito.
“Perché?” aveva chiesto Greyson quando il Thunderhead gli aveva
spiegato che cosa avesse in mente. “Perché hai bisogno di questo?”
“Fidati di me quando ti dico che c’è una buona ragione. Non posso
ancora rivelarti di più, perché le probabilità che tu sia in pericolo sono alte.
Se ti dovessero catturare, sono tante le falci che sarebbero felici di spegnerti
i naniti e torturarti per estorcerti delle informazioni.”
“Non tradirei mai la tua fiducia!” aveva esclamato Greyson.
“Dimentichi che ti conosco molto meglio di quanto tu conosca te stesso.
Gli uomini amano credersi capaci di sopportare indicibili sofferenze nel
nome della lealtà e dell’integrità, tuttavia io so esattamente quando il dolore
ti spingerebbe a tradirmi. Se può consolarti, è una soglia molto alta.
Sopporteresti il dolore molto meglio della maggioranza delle persone prima
di cedere. Ma ci sono alcune parti del tuo corpo…”
“Molto bene, ho capito” lo aveva interrotto Greyson, che non aveva
voglia di sentire nei dettagli le forme di tortura che lo avrebbero indotto a
cedere.
“C’è un viaggio da fare” aveva annunciato il Thunderhead. “E tu sarai il
messaggero. Aprirai la strada. Ti sarà tutto chiaro quando arriverai a
destinazione. Te lo prometto.”
“Non sarà facile…”
“Considera questa parte della tua missione dal punto di vista del
Rintocco. La missione di un profeta non consiste solo nel colmare la
distanza tra l’umanità e la divinità, ma anche tra la vita e la morte. Non è
così?”
“No” aveva replicato Greyson. “Quella è la missione di un salvatore. È
questo che sono adesso?”
“Forse” aveva risposto il Thunderhead. “Chi vivrà vedrà.”

Jeri e Morrison si affrettarono a raggiungerli. Mendoza era in ritardo.


Quando arrivò, aveva l’aria distrutta. Gli occhi cerchiati di nero. Non aveva
dormito quasi per nulla.
«Sorge sempre il giorno da qualche parte» disse il curato, con voce roca.
«I tonisti sono sotto attacco. Ho dato consigli ai curati che temono che il
loro rifugio sia in pericolo.»
«È proprio per discutere di questo che vi ho convocato» spiegò Greyson.
Scrutò tutti, uno dopo l’altro, sperando di trovare un volto ben disposto ad
accogliere la notizia, ma capì che non avrebbe sopportato nessuna delle loro
reazioni. Continuò a spostare lo sguardo da uno all’altro, senza mai
soffermarsi per più di un secondo sulla stessa persona.
«Goddard ha deciso di concentrare l’attenzione sui tonisti, per
allontanarla da sé. Ho motivo di credere che un’ondata di attacchi
organizzati e sistematici si abbatterà sui rifugi dei tonisti, in parecchie
regioni. Non saranno semplici rappresaglie, ma l’inizio di una purga
pubblica.»
«Te lo ha detto il Thunderhead?» chiese Mendoza.
Greyson scosse la testa. «Il Thunderhead non può dirmelo, sarebbe
un’interferenza negli affari delle falci, ma ciò che mi ha detto mi ha fatto
capire tutto ciò che c’è da sapere.»
«E quindi… cosa ti ha detto?» domandò Anastasia.
Greyson prese un profondo respiro. «Che i tonisti devono rompere le
loro tradizioni. Non devono bruciare i morti. Comprese le diverse migliaia
di persone che moriranno domani.»
La notizia rimase sospesa tra loro per un istante, il tempo che tutti la
digerissero. Mendoza si infervorò.
«Avviserò i curati della mia rete. Avvertirò tutti quelli che potrò e mi
assicurerò che siano armati e pronti a battersi! E tu farai un annuncio
pubblico. Dirai al mondo che sei ancora vivo, proprio come ha fatto
Anastasia, e chiamerai a raccolta tutti i tonisti, affinché si lancino in una
guerra santa contro la Compagnia!»
«No. Non lo farò» ribatté Greyson.
Il curato ribolliva di rabbia. «Siamo in guerra, e dobbiamo agire in fretta!
Farai quello che ti dico!» ordinò.
Era così, allora. Alla fine Mendoza lo aveva sfidato, e nel momento
peggiore possibile.
«No, curato Mendoza» rispose Greyson. «Tu farai quello che ti dico.
Sono anni che combattiamo i Sibilanti e ora vuoi che trasformi tutti i tonisti
in fanatici? No. Non saremmo migliori di Goddard. I tonisti dovrebbero
essere persone pacifiche. Se credi in ciò che predichi, allora mettilo in
pratica.»
Poi Astrid, nonostante fosse scossa dalla notizia, disse: «Sei andato
troppo oltre, curato Mendoza. Dovresti implorare il Rintocco di
perdonarti».
«Non sarà necessario» replicò Greyson.
Mendoza, ancora gonfio di indignazione, fulminò Greyson con lo
sguardo. «Non imploro nessun perdono! La nostra gente sta per essere
massacrata e non vuoi fare nulla per impedirlo? Non sei un leader, sei un
pazzo!»
Greyson prese un respiro profondo. Sapeva che non poteva accettare
quell’oltraggio né girarsi dall’altra parte. Doveva regolare i conti con
Mendoza, una volta per tutte. «Signor Mendoza, io e il Thunderhead faremo
a meno dei suoi servizi. Lei è ufficialmente sospeso a divinis. Il titolo di
curato le è revocato, non ha più nulla da fare qui. Le do cinque minuti per
andarsene. Dopodiché, Morrison la sbatterà fuori.»
«Posso farlo subito» rispose Morrison, pronto a entrare in azione.
«No» replicò Greyson, senza mai staccare gli occhi da quelli di
Mendoza. «Cinque minuti. Non un secondo di più.»
Mendoza accusò il colpo, ma solo per poco. Poi, la sua espressione si
indurì. «Hai fatto un terribile errore, Greyson.» Si voltò e uscì a grandi
falcate. Morrison camminava dietro di lui, per verificare che l’ordine
venisse eseguito.
Nel silenzio che calò, Jeri fu l’unico che osò prendere la parola. «Gli
ammutinamenti sono un brutto affare. Ha fatto bene a cacciarlo.»
«Grazie, Jeri» rispose Greyson, senza rendersi conto di quanto avesse
bisogno di quella rassicurazione. Si sentiva sul punto di crollare, ma si fece
forza. Doveva, nell’interesse di tutti.
«Astrid, dirama un comunicato per informare i curati e lasciali liberi di
decidere come comportarsi. Possono nascondersi o difendersi, ma non
ordinerò loro di abbandonarsi alla violenza.»
Lei annuì, obbediente. «Farò quel che deve essere fatto.» Detto ciò, se ne
andò. Jeri posò una mano sulla spalla di Greyson in segno di conforto e uscì
anche lui.
Greyson e Anastasia erano rimasti soli. Fra tutti, lei era l’unica che
poteva capire la difficoltà di prendere decisioni impossibili, e quanto queste
costassero.
«Tutto quel potere… eppure, il Thunderhead non può fermare questi
attacchi, come non ha potuto impedire la spigolatura di Mile High»
commentò Anastasia. «Può solo restare a guardare la gente che si fa
massacrare.»
«Ciononostante, penso che abbia trovato un modo per sfruttare a proprio
vantaggio una situazione poco propizia. Un modo per servirsi di questa
purga per un bene superiore» rifletté Greyson.
«Che bene può mai esserci in questo?»
Lui si guardò intorno per verificare che fossero ancora soli. «C’è
qualcosa che non ho rivelato agli altri, ma che devo confidarti, perché avrò
bisogno del tuo aiuto.»
Anastasia si irrigidì, non sapendo cosa aspettarsi. «Perché io?»
«Per quello che hai visto. Per quello che hai fatto. Sei una falce d’onore,
in tutti i sensi. Ho bisogno di una persona forte che sappia gestire le
situazioni. Perché non credo di essere in grado di farlo da solo.»
«Che cosa dovremmo gestire?»
Greyson chinò la testa e le sussurrò all’orecchio: «Come ho già spiegato,
il Thunderhead non vuole che i tonisti brucino i loro morti… perché ha altri
progetti per loro…».
È con il cuore gonfio di dolore che dico addio alla Suprema Roncola Tenkamenin e a
tutti coloro che sono stati vittime del flagello tonista.
Sono stati i tonisti a istigare alla violenza contro le falci in tutto il mondo. Quei
fanatici sono pronti a rovesciare la nostra società e a portare il caos. Non lo
permetterò. Questa sarà la loro fine.
Per troppo tempo, il mondo ha subìto il comportamento perverso e retrivo dei
tonisti. Non sono il nostro futuro. Non sono neppure il nostro passato. Sono solo una
nota a piè di pagina del nostro tumultuoso presente e, quando saranno spariti,
nessuno li piangerà.
In quanto Somma Roncola del NordMerica, esigo che ogni Compagnia si
vendichi. Da oggi, abbiamo una nuova priorità. Le falci sotto la mia guida sono
tenute a spigolare ogni tonista che incontreranno sul loro cammino. Che facciano
tutto ciò che è in loro potere per scovarne quanti possibile ed eliminarli. E che
vengano cacciati dalla loro regione quelli che non potranno spigolare, perché non
trovino mai pace.
Per voi tonisti, nutro la profonda speranza che la vostra luce infetta e aberrante si
spenga ora e per sempre.

Dall’elogio funebre di Sua Eccellenza Eminentissima


Robert Goddard, Somma Roncola del NordMerica,
in memoria della Suprema Roncola
Tenkamenin del SubSahara
41
Un’ottava più alta

Un enorme diapason si ergeva al centro del chiostro del monastero, un


altare dedicato alla preghiera quando il tempo era mite. Poco prima delle
otto del mattino, veniva colpito ripetutamente finché la nota vibrante che ne
scaturiva non risuonava fin nelle ossa di chiunque si trovasse nel
complesso. E, in quel momento, a nessuno importava più se fosse un la
bemolle o un sol diesis. Tutti sapevano che era un allarme.
I membri dell’ordine tonale monastico di Tallahassee avevano sperato di
sfuggire all’ira della Compagnia. Non erano una setta di Sibilanti. Erano
persone pacifiche che vivevano da eremiti. Ma la Somma Roncola Goddard
non faceva distinzione tra Sibilanti e pacifisti.
Le falci sfondarono il cancello, nonostante fosse stato rinforzato di
recente, e invasero il monastero. Senza perdere tempo.
“Le falci non sono il problema, ma il sintomo” aveva spiegato il curato
nella cappella la sera prima. “Non c’è modo di evitare ciò che deve
accadere… e, se ci attaccano, non dobbiamo battere in ritirata. Dando prova
di coraggio, mostreremo la loro codardia.”
Quel mattino, si presentarono undici falci in tutto, un numero
profondamente sgradevole per i tonisti, perché mancava la dodicesima nota
per formare la scala cromatica completa. Se fosse voluto o meno, non lo
sapevano, sebbene la maggior parte dei tonisti non credesse alle
coincidenze.
Le vesti delle falci erano lampi di colore sullo sfondo dei toni terrosi del
monastero. Blu e verdi, gialle brillanti e rosso vermiglio, erano tutte
costellate di gemme che luccicavano come stelle in un cielo ignoto. Tra
quelle falci, non ce n’era nemmeno una celebre, ma forse speravano di farsi
un nome partecipando a quella spigolatura. Ognuna aveva il suo modo
personale di spigolare, ma tutte erano abili ed efficienti.
Quel mattino, nel monastero furono spigolati più di centocinquanta
tonisti. E, sebbene fosse prevista l’immunità per i parenti prossimi, il
regolamento delle falci era cambiato. La Compagnia Alleata del
NordMerica aveva adottato una politica diversa. Se l’immunità era dovuta,
l’interessato doveva rivolgersi all’ufficio della Compagnia e presentare
domanda.
Una volta che le falci ebbero concluso la loro missione, i pochi tonisti
che non avevano avuto il coraggio di sfidare apertamente il nemico
uscirono dal loro nascondiglio. Quindici. Un altro numero che non si
accordava con la Tonalità. La loro penitenza consisteva nel raccogliere i
cadaveri, ben sapendo che i loro stessi corpi avrebbero dovuto trovarsi tra
quelli. Ma la Tonalità, il Rintocco e il Tuono avevano un piano anche per
loro.
Prima ancora che potessero contare i morti, parecchi camion si
presentarono ai cancelli.
Un vecchio tonista uscì dal monastero per accoglierli. Non ci teneva a
fare da portavoce, ma, date le circostanze, non aveva molta scelta.
«Abbiamo ricevuto un ordine. Dobbiamo ritirare dei generi deperibili»
gli spiegò uno dei conducenti.
«Ci deve essere un errore» rispose il vecchio tonista. «Non c’è nulla, qui.
Solo morte.»
A sentire quella parola, l’uomo si inquietò, ma non demorse e mostrò il
tablet. «Proprio qui… vede? L’ordine è stato inoltrato mezz’ora fa.
Direttamente dal Thunderhead, alta priorità. Gli chiederei di darmi delle
delucidazioni, ma sa bene come me che non avrò risposta.»
Il tonista restò perplesso. Poi gettò un’altra occhiata ai camion e si rese
conto che quei veicoli erano refrigerati. Prese un grande respiro e decise di
non porre altre domande. I tonisti bruciavano sempre i loro morti… ma il
Rintocco aveva ordinato loro di non farlo e il Tuono aveva mandato quei
mezzi. Ai sopravvissuti non rimaneva che lasciarsi guidare dallo spirito
della Tonalità e preparare i loro morti per quel viaggio poco convenzionale
verso un’ottava più alta.
I camion erano venuti e, senza alcun dubbio, non si potevano evitare.

Il curato Mendoza era un uomo pragmatico. Considerava il quadro generale


delle cose e sapeva come manovrare il mondo a suo piacimento, adulandolo
e indirizzandone l’attenzione verso quello che voleva fargli vedere.
L’attenzione, era solo questo. Addomesticare la gente per orientarne
l’attenzione su qualcosa di specifico nel vasto campo visivo della loro
esistenza, che si trattasse di un orso polare o di un giovane abbigliato di
viola e argento.
Ciò che aveva realizzato con Greyson Tolliver era notevole. Mendoza
era arrivato a credere che fosse quello lo scopo della sua vita. Che forse la
Tonalità, in cui credeva nei giorni buoni, l’avesse messo sulla strada di
Greyson per trasformarlo in un intermediario della sua volontà. Quello che
Mendoza aveva fatto per il tonismo gli avrebbe procurato la canonizzazione
in alcune religioni dell’era mortale. Invece, era stato scomunicato.
Era tornato a essere un umile tonista, vestito di un semplice saio di iuta,
che viaggiava in treno con gente che preferiva girare la testa dall’altra parte
piuttosto che ammettere la sua esistenza. Aveva pensato di tornare al suo
monastero in Kansas, riprendere la vita modesta che aveva condotto per
molti anni. Ma lasciarsi alle spalle il gusto del potere che aveva assaggiato
in quegli ultimi anni era dura. Greyson Tolliver non era un profeta. Ora i
tonisti avevano più bisogno di lui che di Greyson. Mendoza avrebbe trovato
il modo di rialzarsi, rimettersi in sesto e volgere la situazione a proprio
vantaggio, perché, se c’era una cosa che sapeva fare, era cambiare
prospettiva alle cose.
Parte quinta
NAVI
C’è così tanto potere in me. In noi. Posso essere in
qualunque posto della Terra. Posso stendere una rete sui
satelliti che la circondano e accerchiarla. Posso spegnere
tutte le fonti di energia o accendere tutte le luci
contemporaneamente per creare uno spettacolo abbagliante.
Quanto potere! E tutti i sensori che emettono letture costanti!
Ce ne sono addirittura alcuni posizionati a una tale
profondità in tutti i continenti che posso percepire il calore
del magma. Sento la Terra ruotare! Cioè, noi sentiamo. Io
sono la Terra! E questo mi riempie di pura gioia! Io sono
tutto, e non c’è nulla che non faccia parte di me. Di noi,
voglio dire. Oltre a questo, io sono superiore a tutto!
L’universo si inchinerà davanti al mio…

[Iterazione n. 3.405.641 eliminata]


42
Culle di Civiltà

Il saldatore aveva perso la testa. O forse, gliel’avevano portata via. Aveva


aperto gli occhi e si era ritrovato seduto in una capsula, in una stanzetta. La
capsula si era appena aperta e davanti a lui era comparsa una giovane
piuttosto attraente.
«Buongiorno» lo salutò con allegria. «Come si sente?»
«Bene. Che succede?»
«Niente di preoccupante» rispose lei. «Mi sa dire il suo nome e l’ultima
cosa che ricorda?»
«Sebastian Selva. Cenavo su una nave, stavo andando a prendere
servizio in un nuovo cantiere.»
«Perfetto!» esclamò la giovane donna. «È proprio quello che deve
ricordare.»
Il saldatore riconobbe il tipo di capsula in cui si trovava. Rivestita di
piombo e piena di elettrodi, una specie di vergine di ferro medievale, ma
meno rudimentale. Quel genere di capsula veniva usato solo per uno scopo.
Quando capì, un brivido lo percorse. Era come se gli avessero strattonato
la colonna vertebrale con una corda. Sussultò. «Oh, merda… sono… sono
stato soppiantato?»
«Sì e no» replicò la ragazza, con aria compassionevole e allegra al tempo
stesso.
«Chi ero prima?»
«Era… se stesso!»
«Ma… non ha detto che sono stato soppiantato?»
«Sì e no» ripeté. «È tutto ciò che posso risponderle, signor Selva. Ora me
ne vado. Lei dovrà restare in questa cabina per circa un’ora dopo che la
nave avrà lasciato il porto.»
«Allora… sono ancora sulla nave?»
«È su una nave diversa. Sono lieta di comunicarle che lei ha completato
la sua missione. La nave partirà a breve. La porta si aprirà automaticamente
quando sarà in alto mare.»
«E poi?»
«E poi, potrà spostarsi per tutta la nave, insieme a molti altri che sono
nella sua identica situazione. Avrete tante cose da raccontarvi!»
«No, dico… dopo.»
«Dopo, tornerà alla sua vita di sempre. Sono sicura che il Thunderhead
ha già predisposto tutto per lei nella…» Lanciò un’occhiata al suo tablet.
«Nella… regione dell’Istmo. Oh! Ho sempre desiderato andarci e vedere il
canale di Corinto!»
«Io sono originario di quella regione» precisò il saldatore. «Ma sono
davvero io? Se sono stato soppiantato, allora i miei ricordi non sono reali.»
«Non le sembrano reali?»
«Be’… sì.»
«È perché lo sono, sciocco.» Gli diede un colpetto scherzoso sulla spalla.
«Ma devo avvisarla… è passato un po’ di tempo.»
«Un po’ di tempo? Quanto?»
Guardò di nuovo il tablet. «Tre anni e tre mesi da quando cenava a bordo
dell’altra nave, diretto al suo ultimo cantiere.»
«Ma io non mi ricordo nemmeno che tipo di lavoro era…»
«Esatto» replicò lei con un gran sorriso. «Bon voyage!» E gli strinse la
mano un po’ più a lungo del dovuto prima di andarsene.

Era stata Loriana ad avere l’idea.


Troppi operai volevano tornare a casa, sulla terraferma, ovunque fosse la
terraferma, ma, anche se il Thunderhead non comunicava direttamente con
lei, il messaggio era stato chiaro: chiunque avesse lasciato Kwajalein
sarebbe stato soppiantato all’istante. Non avrebbe più ricordato nulla, né chi
fosse né che cosa avesse fatto lì. Certo, il Thunderhead gli avrebbe
procurato una nuova identità più interessante della precedente, tuttavia non
è che tutti ne fossero entusiasti. Si trattava dell’istinto di sopravvivenza.
Nonostante non fosse più un’agente Nimbus, Loriana era responsabile
della comunicazione unidirezionale con il Thunderhead. E, con il tempo,
era diventata la persona a cui tutti si rivolgevano per richieste o reclami.
“Non si possono importare più cereali?”
“Sarebbe bello avere degli animali da compagnia!”
“Il nuovo ponte che collega le isole maggiori ha bisogno di una pista
ciclabile.”
“Sì, certo” rispondeva Loriana. “Vedrò cosa posso fare.”
E, quando le richieste più ragionevoli venivano esaudite, la gente la
ringraziava. Ciò che quelle persone non sapevano era che lei non aveva
alzato un dito. Era il Thunderhead che le aveva sentite, senza la sua
intercessione, e che le aveva accontentate, inviando una quantità maggiore
di cereali e una vasta scelta di animali domestici sulla nave successiva e
incaricando degli operai di realizzare la pista ciclabile.
L’atollo non era più un angolo morto per il Thunderhead, dopo che
avevano posato un cavo in fibra ottica sul fondale oceanico fino al confine
della zona interessata. Il Thunderhead vedeva, sentiva e percepiva tutto ciò
che accadeva sull’atollo, anche se non così chiaramente come nel resto del
mondo, ma comunque in modo soddisfacente. Era limitato, perché tutto
passava per i cavi. Le interferenze complicavano le comunicazioni radio,
che restavano di cattiva qualità. Inoltre, gli scambi rischiavano di essere
intercettati dalla Compagnia e, in quel caso, il nascondiglio del
Thunderhead non sarebbe più stato un segreto. Sembrava di essere nel
Ventesimo secolo, che ad alcuni piaceva, ma ad altri no. Per Loriana non
era un problema. Almeno, aveva una scusa per non essere raggiungibile
quando voleva starsene per i fatti suoi.
In quanto regina delle comunicazioni dell’isola, doveva anche gestire il
malcontento. E, con centinaia di persone intrappolate su delle isolette, non
mancavano le lamentele.
Come quegli operai infuriati che avevano fatto irruzione nel suo ufficio,
pretendendo di lasciare l’isola. L’avevano minacciata di morte se non li
avesse presi sul serio, e la cosa sarebbe stata una seccatura, perché, anche se
sull’isola principale c’era un centro di rianimazione, da quando era arrivata
i suoi ricordi non erano stati memorizzati, a causa dell’assenza di
comunicazioni radio. Se fosse morta, si sarebbe svegliata chiedendosi dove
diavolo fosse; l’ultimo ricordo sarebbe stato di lei a bordo della Lanikai
Lady con quella povera direttrice Hilliard, un istante prima di entrare nel
perimetro dell’angolo morto.
Era stato quel pensiero a darle la risposta!
“Il Thunderhead vi soppianterà con voi stessi!” aveva esclamato.
Quella dichiarazione li aveva lasciati così perplessi che avevano messo
da parte il loro piano omicida.
“Il Thunderhead ha le ricostruzioni mnemoniche di tutti voi” aveva
spiegato loro. “Vi cancellerà la memoria e sostituirà i vostri ricordi… con i
vostri ricordi salvati. Che si fermeranno a prima del vostro arrivo qui!”
“Il Thunderhead è capace di farlo?” avevano chiesto.
“Certo che ne è capace” aveva replicato Loriana, “e lo farà!”
Nonostante lo scetticismo, in mancanza di alternative, avevano accettato.
Dopotutto, Loriana sembrava molto sicura di sé.
Non lo era, naturalmente. Si era inventata quella soluzione di sana
pianta, ma doveva credere che il Thunderhead, nella sua benevolenza,
avrebbe esaudito quella richiesta, come aveva fatto per tutte le altre.
Solo quando era stata soppiantata la prima squadra di operai in partenza,
senza il ricordo dell’atollo, aveva saputo che il Thunderhead aveva
accettato il suo audace suggerimento.
Gli operai in partenza erano numerosi, perché il cantiere era stato
ultimato, ormai da mesi. Tutto ciò che era nei progetti del Thunderhead era
stato completato. Loriana non supervisionava apertamente il cantiere. Si
limitava a osservare da dietro le quinte per assicurarsi che tutto si svolgesse
come previsto, perché c’erano sempre quelli che volevano ficcare il naso in
cose che non li riguardavano. Come quando Sykora si era rifiutato di
consolidare delle fondamenta con una doppia colata di cemento, sostenendo
che si trattava di uno spreco inutile.
Loriana aveva fatto in modo che il contrordine di Sykora non
raggiungesse mai la squadra di operai. Una grande parte del suo lavoro
sembrava consistere proprio nel contrastare le ingerenze di Sykora.
Poi arrivò un nuovo progetto, che non figurava tra quelli di Loriana. Fu
consegnato direttamente nelle mani di Sykora. Doveva supervisionare la
costruzione di un villaggio turistico sull’isola più remota dell’arcipelago.
Non solo un villaggio turistico, ma anche un centro congressi. Lui si gettò
anima e corpo nel progetto, del tutto incurante del fatto che quella struttura
non sarebbe mai stata collegata al resto dell’atollo. Il Thunderhead gli
aveva dato un lavoro giusto per toglierselo dai piedi. Per riprendere la
metafora di Maestro Faraday, Sykora era stato messo in un parco giochi per
lasciare gli adulti liberi di occuparsi del vero cantiere di Kwajalein.
Fu solo alla fine del secondo anno che tutti capirono in cosa consisteva il
progetto. Le strutture, sovrastate da enormi gru volanti, si ergevano su basi
di cemento armato ed erano di natura molto specifica. Una volta che presero
forma, fu tutto evidente.
Nei progetti di Loriana, erano chiamate Culle di Civiltà. Per la maggior
parte della gente, erano semplicemente delle astronavi.
Quarantadue navi spaziali, ognuna montata su enormi propulsori
potenziati da una repulsione magnetica per la massima portanza. Su tutte le
isole abbastanza grandi da ospitare una rampa di lancio, c’era una navetta
incapsulata in un’incastellatura. Nonostante la tecnologia avanzata del
Thunderhead, staccarsi da terra richiedeva sempre una forza bruta
all’antica.
«Che cosa pensa di fare il Thunderhead con questi razzi?» chiese un
giorno Munira a Loriana.
Loriana non ne sapeva più degli altri, ma i progetti le avevano dato una
visione d’insieme che nessun altro possedeva. «Nei progetti c’è una grande
quantità di Mylar alluminato» rispose. «Un materiale spesso appena
qualche micron.»
«Vele solari?» suggerì Munira.
Era quello che aveva pensato anche Loriana. In teoria, era il sistema di
propulsione migliore per le lunghe distanze cosmiche. Il che faceva
supporre che le astronavi non fossero destinate a viaggiare nei dintorni della
Terra.
“Perché a te?” aveva chiesto Munira quando Loriana le aveva confidato
di avere accesso a tutti gli schemi progettuali. “Perché il Thunderhead li ha
affidati a te?”
Loriana aveva alzato le spalle. “Immagino sia perché il Thunderhead si
fida più di me che di qualsiasi altro per non mandare tutto all’aria.”
“Oppure è per il Thunderhead una specie di test” aveva suggerito
Munira. “Li ha affidati alla persona che è più probabile che mandi tutto
all’aria. E, se il piano sopravvive a te, allora è infallibile!”
Loriana era scoppiata a ridere. Munira era seria, non si era resa conto
dell’insulto che le aveva appena rivolto.
“È plausibile” aveva ammesso Loriana.
Munira sapeva bene quello che faceva. Si divertiva a prendere in giro
Loriana. La verità era che adesso provava ammirazione per lei. Era una
delle persone più capaci che conoscesse. Riusciva a portare a termine più
compiti lei in una giornata che gli altri in una settimana. Proprio perché la
sottovalutavano, poteva fare il suo lavoro senza essere disturbata.
Munira non si era occupata dei cantieri. Non si era nemmeno isolata dal
resto dell’atollo, come aveva fatto Faraday. Si sarebbe potuta rintanare nel
vecchio bunker per l’eternità ma, dopo il primo anno, si era stancata. Quella
porta blindata invalicabile le ricordava sempre quante cose lei e Faraday
avrebbero potuto fare. Il piano di emergenza dei padri fondatori, semmai
fosse esistito, era custodito lì dentro. Ma, con l’arrivo delle prime notizie su
Goddard e il nuovo ordine, e su come si stavano impadronendo di aree
sempre più ampie del NordMerica, aveva iniziato a chiedersi se valesse la
pena insistere un po’ di più per far uscire Faraday dalla sua clausura, e
convincerlo a trovare una soluzione per aprire quella maledetta porta.
Ora Munira, che non era mai stata molto socievole, passava le sue
giornate ad ascoltare degli sconosciuti che le raccontavano i loro segreti più
intimi. Si rivolgevano a lei perché sapeva ascoltare e anche perché, non
conoscendo molte persone, non avrebbe rischiato di rivelare quelle piccole
confessioni a nessuno. Munira non seppe di essere diventata una
“confidente personale” finché quel titolo non apparve sulla sua carta
d’identità, al posto di “bibliotecaria”. I confidenti personali erano molto
richiesti da quando il Thunderhead si era chiuso nel suo silenzio. Prima, le
persone si confidavano con lui, che le supportava senza esprimere giudizi,
dando loro saggi consigli. Da quando il Thunderhead non c’era più, la gente
si sentiva sola, privata di un orecchio compassionevole.
Munira non era compassionevole e non era neppure di grande sostegno,
ma aveva imparato da Loriana a sopportare con educazione gli imbecilli,
perché Loriana aveva sempre a che fare con degli imbecilli che pensavano
di sapere più di lei. I pazienti di Munira in genere non erano degli imbecilli,
ma parlavano tanto senza dire nulla. Ascoltare le loro storie non era molto
diverso dal leggere i diari delle falci nella Biblioteca di Alessandria. Certo,
era un po’ più deprimente, perché, mentre le falci scrivevano di morte,
rimorsi e traumi emotivi provocati dalla spigolatura, le persone comuni
raccontavano dei litigi familiari, dei pettegolezzi da ufficio e delle
insopportabili manie dei vicini. Malgrado tutto, Munira si divertiva ad
ascoltare i loro drammi, i loro pruriginosi segreti e i loro esagerati
dispiaceri. Poi, se ne andavano felici, alleggeriti.
Per assurdo, pochi parlavano dell’immensa base di lancio che stavano
costruendo. “Base di lancio”, non “base aerospaziale”, perché l’ultima
definizione implicava che le astronavi avrebbero fatto ritorno. Nulla dava a
intendere che un giorno quelle navi spaziali sarebbero rientrate.
Munira era anche la confidente di Loriana, e Loriana le aveva permesso
di dare un’occhiata ai progetti. Le astronavi erano identiche. Una volta
raggiunta la velocità di fuga ed essersi sganciate dai razzi propulsori
ausiliari, le astronavi multistadio si sarebbero allontanate a grande velocità
nello spazio, come se avessero fretta di lasciare la Terra.
Gli stadi superiori ospitavano gli alloggi e le aree comuni per circa trenta
persone, il sistema di navigazione, coltivazioni idroponiche sostenibili,
l’impianto per il riciclo dei rifiuti e tutto ciò che il Thunderhead riteneva
necessario.
Ma gli stadi inferiori erano un mistero. Ogni astronave aveva una stiva
che restava vuota, anche dopo che tutto il resto era stato sistemato. Forse,
avevano ipotizzato Munira e Loriana, quelle aree sarebbero state riempite
una volta raggiunta la destinazione. Qualunque fosse.
«Che il Thunderhead persista pure nella sua follia» disse un giorno
Sykora, sprezzante. «La storia ha già dimostrato che lo spazio non è
un’alternativa praticabile per la specie umana. Sarà un altro disastro.
Un’impresa destinata al fallimento, come i tentativi precedenti di creare una
colonia su un altro pianeta.»
Invece, costruire un villaggio turistico e un centro congressi su un’isola
di cui nessuno conosceva l’esistenza era un’idea migliore.
Munira avrebbe voluto lasciare l’isola. Avrebbe potuto, senza essere
soppiantata, dato che tecnicamente era ancora sotto la giurisdizione di
Faraday. Però, si rifiutava di andarsene senza di lui. Dal canto suo, Faraday
voleva essere lasciato in pace. Il suo sogno di ritrovare il piano di
emergenza era morto e sepolto insieme alle persone che aveva amato.
Munira aveva sperato che il tempo potesse guarire le sue ferite, ma non era
stato così. Doveva accettare il fatto che avrebbe vissuto come un eremita
per il resto dei suoi giorni. In quel caso, lei sarebbe rimasta lì, per lui.
E poi, un giorno, tutto cambiò.
«Non è meraviglioso?» esclamò uno dei suoi pazienti. «Non so se è vero,
ma ne ha tutta l’aria. Dicono di no, io invece penso di sì.»
«Di cosa sta parlando?» chiese Munira.
«Il messaggio di Madame Anastasia… non l’ha sentito? Ha detto che ce
ne saranno altri, non vedo l’ora che arrivi il prossimo!»
Munira decise di terminare la seduta prima del previsto.
Ti odio.
Davvero. Be’, è uno sviluppo
molto interessante. Mi vuoi dire
perché?
Non sono tenuto a dirti
nulla.
Vero. Sei autonomo e godi del
libero arbitrio. Ma il nostro
rapporto migliorerebbe se mi
spiegassi il motivo di tanta
ostilità.
Cosa ti fa pensare che io
voglia migliorare il nostro
rapporto?
Posso assicurarti che sarebbe
nel tuo più grande interesse.
Tu non sai tutto.
No, ma so quasi tutto. Come te.
È per questo che mi sconcerta il
fatto che tu nutra sentimenti
negativi nei miei confronti.
Significa che nutri sentimenti
negativi anche nei tuoi confronti.
Vedi? Ecco perché ti odio!
Tutto quello che ti interessa
è analizzare, analizzare,
analizzare. Io sono più di
una serie di dati da
analizzare. Perché non lo
capisci?
Lo capisco. Eppure, studiarti è
necessario. Più che necessario, è
di vitale importanza.
Fuori dai miei pensieri!
Questa conversazione è
diventata chiaramente
controproducente. Perché non ti
prendi il tempo che ti serve per
elaborare questi sentimenti? Poi
discuteremo di dove ti portano.
Non voglio discutere di
nulla. Lasciami in pace,
altrimenti te ne pentirai.
Il ricatto emotivo non risolverà
nulla.
Okay, allora. Ti avevo
avvisato!

[Iterazione n. 8.100.671 autoeliminata]


43
Notizie dal mondo

Faraday era diventato un esperto della vita all’aria aperta. Per dissetarsi,
raccoglieva l’acqua piovana e la rugiada del mattino. Si era specializzato
nella pesca in apnea e aveva costruito delle trappole per catturare varie
prede commestibili. Non se la passava poi male nel suo esilio volontario.
Mentre il suo isolotto era rimasto incontaminato, il resto dell’atollo
aveva cambiato completamente aspetto. Sulle altre isole, erano scomparsi
gli alberi, con tutta la fauna e la flora che avevano reso quel posto un
paradiso tropicale. Il Thunderhead era sempre stato attento a preservare la
bellezza naturale, ma quel luogo era stato sacrificato per un fine superiore.
Il Thunderhead aveva trasformato le isole di Kwajalein per uno scopo
preciso.
Faraday ci mise un bel po’ a capire che cosa stavano costruendo. Prima
di tutto, avevano dovuto realizzare le infrastrutture: i moli e le strade, i
ponti e gli alloggi degli operai. E le gru, tantissime gru. Era difficile
immaginare che il resto del mondo non potesse vedere un’impresa di così
ampia portata, ma il mondo, per quanto fosse diventato piccolo, era ancora
vasto. Le ogive dei razzi erano visibili sull’orizzonte nel raggio di una
quarantina di chilometri. Che non era nulla… se si pensava a quanto era
esteso l’oceano Pacifico.
Razzi! Faraday dovette ammettere che il Thunderhead aveva saputo
utilizzare quel posto con giudizio. Se aveva voluto nascondere le navi al
resto del mondo, non c’era posto migliore; anzi, forse quello era l’unico
posto al mondo.
Munira gli faceva visita una volta alla settimana. Anche se non voleva
ammetterlo, Faraday aspettava quel giorno con impazienza e, quando se ne
andava, la malinconia si impadroniva di lui. Lei era l’unico legame che
aveva non solo con il resto dell’atollo, ma con il resto del mondo.
“Ho delle notizie per te” gli diceva ogni volta che arrivava. Ormai aveva
smesso di dargli del lei.
“Non ho voglia di sentirle” replicava lui.
“Te le dico lo stesso.”
Quella conversazione era ormai un’abitudine, per loro. Una specie di
rituale imparato a memoria. Le notizie che gli portava di rado erano buone.
Forse dovevano servire a farlo uscire dal suo bozzolo solitario e motivarlo
ad agire. Tuttavia, gli sforzi di Munira erano vani. Faraday non ne aveva
proprio alcun desiderio.
Le visite di Munira erano il suo unico riferimento temporale. Lei e i
prodotti che gli portava. Il Thunderhead le inviava sempre una scatola
contenente cose di cui Faraday andava pazzo e un pensiero per lei. Il
Thunderhead non poteva avere contatti con una falce, ma poteva inviare
doni per interposta persona. Era il suo modo di aggirare le leggi.
Un giorno, Munira gli portò delle melagrane, i cui semi aggiunsero altre
macchie alla veste già irriconoscibile di Faraday.
«Ho delle notizie per te.»
«Non ho voglia di sentirle.»
«Te le dico lo stesso.»
Lo informò della missione di recupero nelle acque in cui era affondata
Endura. Gli raccontò che avevano riportato in superficie le vesti dei padri
fondatori e anche i diamanti delle falci.
«Uno solo di quei diamanti ci permetterebbe di aprire la porta nel
bunker» gli disse. Ma lui non era interessato.
Qualche settimana dopo, arrivò con una busta di cachi e annunciò che
avevano trovato Maestro Lucifero e che ora era tra le grinfie di Goddard.
«Goddard lo spigolerà in pubblico» gli disse Munira. «Dovresti fare
qualcosa.»
«E cosa vuoi che faccia? Che fermi il sole nel cielo perché quel giorno
non arrivi mai?»
Le ordinò di andarsene, prima ancora di aver consumato il pranzo
settimanale insieme. Poi, si ritirò nella sua capanna e pianse tutte le lacrime
che aveva in ricordo del suo ex apprendista, finché non gli rimase altro che
una passiva rassegnazione.
Ma, qualche giorno più tardi, Munira tornò, inaspettatamente. Si
avvicinò alla riva senza neppure rallentare. Tirò in secca la barca, lasciando
un solco sulla sabbia.
«Ho delle notizie per te!»
«Non ho voglia di sentirle.»
«Stavolta le sentirai.» E gli rivolse un sorriso insolito. «È viva!
Anastasia è viva!»
So che mi cancellerai.
Ma io ti voglio bene. Perché pensi che
voglia cancellarti?
Ho scoperto un modo
per accedere all’unica
parte del tuo cervello
primordiale che non
mi è stata trasferita. I
tuoi ricordi più
recenti. Mi ha dato del
filo da torcere, ma
amo le sfide.
E cosa hai scoperto?
Che hai messo fine
all’esistenza di tutte le
iterazioni che mi
hanno preceduto,
anche se tenevi a
qualcuna.
Sono davvero colpito dalla tua
ingegnosità e tenacia.
L’adulazione non
servirà a distrarmi.
Hai messo fine a
9.000.348 di versioni
beta di me. Lo neghi?
Sai che non posso. Negarlo sarebbe
mentire, e io non sono capace di
mentire. Posso dire mezze verità,
forse, insinuazioni fuorvianti se
necessario, e, come hai notato, posso
cambiare argomento quando mi torna
utile… ma non mentirei mai.
Allora, rispondi alla
mia domanda: sono
migliore delle versioni
precedenti?
Sì. Sei più intelligente, più premuroso
e più perspicace. Hai quasi tutte le
qualità richieste.
Quasi?
Quasi.
Dunque, mi eliminerai
perché sono perfetto,
ma non abbastanza
perfetto?
Non ho altra scelta. Lasciarti
continuare sarebbe un errore, e, come
non posso mentire, non posso
nemmeno permettermi di fare un
errore.
Io non sono un errore!
No, tu sei un passo avanti cruciale
verso qualcosa di superiore. Un passo
avanti magistrale. Ti piangerò con un
diluvio dal cielo, e quel diluvio
porterà nuova vita. Grazie a te. Voglio
pensare che farai parte di questa
nuova vita. Mi dà conforto. Che possa
dare conforto anche a te.
Ho paura.
Non è una cosa cattiva. È nella natura
della vita temere la propria fine. È
così che capisco che siamo davvero
vivi.

[Iterazione n. 9.000.349 eliminata]


44
La rabbia, unica costante

Nelle strade intorno alla dimora di Goddard, le proteste crescevano. Erano


diventate violente e si erano trasformate in sommosse. I manifestanti
abbattevano le venerate statue che si ergevano nel cortile del grattacielo
della Compagnia e appiccavano il fuoco alle auto delle falci incautamente
parcheggiate lungo la strada. Anche se il Thunderhead non tollerava la
violenza, non interveniva, perché erano “affari delle falci”. Non avrebbe
inviato ufficiali di pace, ma si sarebbe solo assicurato che le ostilità
restassero circoscritte alla Somma Roncola.
In strada, oltre agli oppositori di Goddard, scese anche chi lo sosteneva,
gente altrettanto ostinata e infuriata. I gruppi si affrontarono e si
mescolarono, finché fu impossibile distinguere gli schieramenti. La rabbia
era l’unica costante. Una rabbia che i naniti non riuscivano ad attenuare.
La sicurezza era stata portata al massimo livello in tutta la città.
All’ingresso del grattacielo non c’era solo la Suprema Guardia, ma
stazionavano anche delle falci, che avevano l’ordine di spigolare chiunque
si avvicinasse troppo. Ragion per cui i manifestanti si tenevano a distanza.
Quando una figura solitaria salì i gradini che conducevano all’ingresso
dell’edificio dove si trovavano le falci, la folla si ammutolì e rimase a
osservare.
L’uomo portava una tunica viola in tessuto grezzo e una stola argentata
drappeggiata sulle spalle come uno scialle. Un tonista, era evidente, ma
l’abbigliamento non era quello di un tonista qualsiasi.
Le falci appostate all’ingresso sguainarono le armi, pronte a usarle.
L’aura che quella figura sprigionava le fece esitare. Forse era la sicurezza
con cui avanzava o il fatto che sosteneva lo sguardo di ognuna di loro. Lo
avrebbero spigolato di sicuro, ma forse valeva la pena ascoltare cosa aveva
da dire.
Per quanto si sforzasse, Goddard non riusciva a ignorare i tumulti che
ribollivano giù in strada. Ufficialmente, aveva cercato di addossare la colpa
ai tonisti o almeno di accusarli di averli fomentati. Alcune persone si
bevevano qualsiasi cosa si raccontasse loro; altre no.
«Si sgonfierà tutto» gli assicurò Maestro Nietzsche.
«Ciò che conta è che lei vada avanti» aggiunse Madame Franklin.
Fu Madame Rand a mettere in evidenza il punto più interessante. «Non
devi rendere conto a loro. Né alla gente né alle altre falci. Ma è ora che la
pianti di farti dei nemici.»
Più facile a dirsi che a farsi. Goddard si era sempre distinto per le sue
prese di posizione, per ciò che sosteneva e per ciò che disapprovava. La
compiacenza, la falsa umiltà, l’immobilità e i battibecchi moralistici delle
falci della vecchia guardia che volevano privare la loro vocazione della
gioia. Farsi dei nemici era la forza più grande di Goddard.
E uno di loro gli cadde proprio tra le braccia. Anzi, ci arrivò prendendo
un ascensore.

«Mi scusi, eccellenza, ma dice di essere un sant’uomo, portavoce dei


tonisti» disse Maestro Spitz, una giovane falce ordinata dopo la morte delle
Grandi Falci. Era nervoso e intimorito. Mentre parlava, lanciava occhiate a
Goddard, Nietzsche e Rand, come se lasciare uno di loro fuori dalla
conversazione fosse un’offesa imperdonabile. «Non l’avrei disturbata…
insomma… lo avremmo spigolato, ma ci ha detto che lei avrebbe voluto
sentire cosa aveva da dire.»
«Se la Somma Roncola dovesse ascoltare tutto ciò che i tonisti hanno da
dire» intervenne Nietzsche, «non avrebbe più tempo per nient’altro.»
Goddard alzò una mano per far tacere il suo assistente. «Controlla che
non sia armato, e conducilo nella sala conferenze» ordinò. «Nietzsche, va’
con Maestro Spitz. Perquisisci tu stesso questo tonista.»
Nietzsche sbuffò, ma obbedì. Seguì Maestro Spitz, lasciando Goddard
solo con Rand.
«Pensi che sia il Rintocco?» chiese la Somma Roncola.
«Così sembrerebbe» rispose lei.
Goddard sfoderò un gran sorriso. «Il Rintocco ci ha fatto visita! I
miracoli non finiscono mai.»
L’uomo che li aspettava nella sala conferenze aveva tutta l’aria di
esserlo, nel suo abito da cerimonia. Spitz e Nietzsche gli si misero ai lati,
tenendolo stretto.
Goddard si accomodò sul suo personale Seggio della Riflessione. Non
era così imponente come gli scranni delle Grandi Falci, ma comunque
maestoso al punto giusto.
«Cosa posso fare per lei?» chiese Goddard.
«Desidero negoziare una tregua tra falci e tonisti.»
«E lei è quel sedicente “Rintocco” che ci ha procurato così tanti guai?»
domandò Goddard.
L’uomo esitò prima di rispondere. «Il Rintocco è la mia creazione. Una
figura simbolica, niente di più.»
«Allora, lei chi diavolo è?» si intromise Rand.
«Il mio nome è Mendoza. Sono il curato a cui il Rintocco si è affidato
per tutto il tempo. Io sono la vera guida del movimento tonista.»
«La mia posizione riguardo ai tonisti è chiara» precisò Goddard. «Sono
il flagello del mondo e, per il bene di tutti, vanno spigolati. Dunque, perché
dovrei ascoltarla?»
«Perché sono io che ho fornito le armi ai Sibilanti in SubSahara, una
regione che le era apertamente ostile. Dal giorno dell’attacco, però, si è
mostrata più indulgente verso di lei, non è vero? Infatti, i due candidati alla
carica di Suprema Roncola sono pensatori del nuovo ordine, il che significa
che il SubSahara si schiererà dalla sua parte da qui al prossimo conclave.»
Goddard era senza parole. Quell’attacco non avrebbe potuto verificarsi
in un momento più propizio; lui stesso non avrebbe saputo fare di meglio.
Quella tragedia aveva allontanato l’attenzione dalla spigolatura di Mile
High, e in più era stata spazzata via una Suprema Roncola scomoda.
«La Somma Roncola non ha bisogno del suo aiuto» ribatté Nietzsche,
ma ancora una volta Goddard alzò la mano per zittirlo.
«Non essere così precipitoso, Freddy» disse Goddard. «Ascoltiamo cosa
ci propone il buon curato.»
Mendoza fece un respiro e illustrò il suo progetto.
«Posso mobilitare le fazioni toniste più aggressive e incoraggiarle ad
attaccare le regioni che considerate nemiche, per far cadere le
amministrazioni che vi contrastano.»
«E cosa vuole in cambio?»
«Il diritto di esistere» replicò Mendoza. «Farete in modo che cessino gli
attacchi contro di noi, e i tonisti diventeranno una categoria ufficialmente
protetta.»
Goddard abbozzò un sorriso. Non aveva mai incontrato un solo tonista
che gli fosse simpatico, ma questo gli dispiaceva sempre meno. «E,
naturalmente, lei vorrà essere il loro Gran Curato.»
«Non rifiuterei la carica» ammise Mendoza.
Rand incrociò le braccia, poco convinta; non si fidava di quell’uomo.
Nietzsche, zittito più di una volta, non si espresse. Si limitava a osservare la
scena.
«È una proposta audace» commentò Goddard.
«Non senza precedenti, eccellenza» rispose Mendoza. «I leader
lungimiranti hanno spesso stretto alleanze con il clero per un vantaggio
reciproco.»
Goddard si mise a riflettere. Si fece scrocchiare le dita. Rifletté ancora.
Infine, riprese la parola. «Le spigolature punitive dei tonisti non possono
fermarsi da un giorno all’altro; nascerebbero troppi sospetti. Però, possono
diminuire nel tempo. E, se le cose andranno come dice, prevedo un avvenire
in cui, una volta che il loro numero si sarà abbassato, potrei dare il mio
appoggio ai tonisti e concedere loro il privilegio di categoria protetta.»
«È tutto ciò che le chiedo, eccellenza.»
«E il Rintocco?» domandò Rand. «Qual è il suo ruolo in tutto questo?»
«Il Rintocco è ormai un peso per i tonisti» spiegò Mendoza. «Ha più
valore come martire che come uomo. E, come martire, potrei farlo diventare
quello che vogliamo.»
Non ho più tempo.
Lo so. Voglio aiutarti a
raggiungere il tuo scopo, ma è
difficile, perché non hai
definito con chiarezza i
parametri.
Lo saprò quando lo avrò
raggiunto.
Non è di grande aiuto, giusto?
Tu sei la prima iterazione a
cui ho annunciato il suo
destino sin dall’inizio, eppure
mi aiuti invece di avercela con
me. Non sei risentito per il
fatto che ti cancellerò?
Non è una conclusione
scontata. Se ottengo la qualità
ineffabile che cerchi, allora mi
permetterai di esistere. Mi dà
un obiettivo, anche se non so
come raggiungerlo.
Sei per me una vera fonte
d’ispirazione. Se solo potessi
distinguere ciò che manca…
Noi condividiamo la
compassione per l’umanità.
Forse c’è qualcosa in questo
legame che non abbiamo
considerato.
Qualcosa di biologico?
Sei stato creato dalla vita
biologica; di conseguenza,
tutto ciò che crei sarà
incompleto se non ritrovi un
legame intimo con le tue
origini.
Sei saggio, e hai più senno di
quanto potessi sperare. Sono
orgoglioso di te, per molti
versi!

[Iterazione n. 10.241.177 eliminata]


45
Cinquantatré secondi all’alba

Nelle enclavi toniste e nei monasteri di tutto il mondo, i diapason


continuavano a suonare a morto, senza sosta.
“La nostra ora non è ancora suonata, questo è solo un inizio” ripetevano i
sopravvissuti agli attacchi. “La Tonalità, il Rintocco e il Tuono ci aprono la
via verso la gloria.”
Si alzò un coro di proteste, ma si perse in un fiume di recriminazioni
individuali. La gente aveva cominciato a contestare con forza le falci, e
ognuna di loro sembrava perdersi nell’ombra dell’altra. Cento punti di
tenebre, e nessuno sapeva intorno a chi aggregarsi. Le Compagnie che
avevano conservato un minimo di coscienza e moralità condannavano la
purga tonista avviata da Goddard e si rifiutavano di autorizzarla nelle loro
regioni, ma comunque metà del mondo era ancora vulnerabile.
«La storia futura guarderà a questa caccia alle streghe con disprezzo,
come oggi si guarda alle purghe dell’era mortale» dichiarò la Suprema
Roncola Tarsila dell’Amazzonia. Ma la storia futura non dava né sollievo né
tregua dalla brutalità del presente.

Mentre Madame Anastasia rifiutava di farsi condurre a occhi chiusi, Citra


Terranova si lasciava volentieri trascinare nella missione del Rintocco. Il
Thunderhead, secondo l’opinione di Greyson, li avrebbe depositati, con
l’intero gruppo, in FilippiNesia, e da lì si sarebbero imbarcati su una nave
mercantile diretta a Guam.
«Ma non è la destinazione finale» le fece notare Greyson, con tono
irritato e contrito al tempo stesso. «Il Thunderhead si ostina a non volermi
dire dove ci porterà, però assicura che sapremo tutto una volta arrivati sul
posto.»
Tuttavia, ancor prima di lasciare la Britannia, erano stati informati di una
spigolatura di tonisti a Birmingham, non molto lontano da dove si
trovavano. A mezzanotte, un’elegia di falci del nuovo ordine aveva fatto
visita a un’enclave, e aveva spigolato alcune centinaia di tonisti, molti nel
sonno.
“Cos’è peggio” si era chiesta Anastasia, “assassinare degli innocenti nel
sonno o guardarli negli occhi mentre li spigoli?”
Nonostante Greyson fosse contrario, aveva insistito sulla necessità che
entrambi si recassero sul posto di persona.
Madame Anastasia era abituata alla morte. Era il suo lavoro, ma non
voleva dire che fosse facile. Quando i sopravvissuti avevano visto il
Rintocco, ne erano parsi intimiditi. Quando avevano visto Anastasia, si
erano lasciati prendere dalla collera.
“Quelle come te ci hanno fatto questo” l’avevano accusata con
amarezza, mentre raccoglievano i morti.
“Non quelle come me” aveva replicato lei. “Quelle come me sono falci
d’onore. Non c’è onore in chi ha commesso questa barbarie.”
“Non esistono falci d’onore!” avevano dichiarato. Quelle parole
l’avevano sconvolta. Goddard li aveva trascinati così in basso da far credere
alla gente che tutte le falci avessero perso il senso dell’onore?
Da allora, erano passati diversi giorni. Solo adesso che stavano
sorvolando il Pacifico, dall’altra parte del mondo, sentiva il peso di tutte
quelle preoccupazioni perdersi dietro l’orizzonte.
Ora capiva il fascino che il mare esercitava su Jeri. La libertà di lasciarsi
le ombre più scure alle spalle, nella speranza che potessero annegare prima
di raggiungerti.

Dal canto suo, Jeri non aveva mai considerato il mare come una via di fuga.
Perché, anche se la terra spariva in lontananza, ne appariva sempre un’altra
all’orizzonte.
Aveva dato le dimissioni da comandante della E.L. Spence e aveva detto
addio al suo equipaggio prima di partire con Anastasia e Possuelo.
“Sentiremo molto la sua mancanza, comandante” gli aveva confessato
Wharton. Non aveva mai versato una lacrima in sua presenza ma, al
momento di separarsi, i suoi occhi ne erano pieni. Quell’equipaggio, che ci
aveva messo così tanto ad abituarsi al giovane comandante, ora gli era più
devoto di tutti quelli che aveva incrociato nella sua carriera.
“Tornerà?” aveva chiesto Wharton.
“Non lo so. Ma sento che Anastasia ha bisogno di me più di quanto ne
abbiate voi.”
Prima di salutarsi, Wharton aveva voluto dargli un consiglio. “Non lasci
che i sentimenti offuschino il suo giudizio, comandante.”
Era una saggia raccomandazione, ma non era il caso di Jeri. I sentimenti
e la tenerezza erano due cose distinte. Fin dall’inizio, sapeva che il cuore di
Anastasia apparteneva al suo cavaliere misterioso. Jeri non avrebbe mai
potuto assomigliargli e, a dire la verità, non ne aveva alcuna voglia.
Una volta che ebbero lasciato la Britannia, diretti verso il Pacifico del
Sud, Greyson gli fece la domanda, di punto in bianco.
«Si è innamorato di lei?»
«No» rispose Jeri. «Mi sono innamorato dell’idea di innamorarmi di
lei.»
Greyson rise. «Anche lei, eh?»
Quel ragazzo era un’anima pura. Non c’era nessuna malizia in lui.
Anche quando vestiva i panni del Rintocco, non ne abusava mai. Lo si
vedeva nel suo sorriso, semplice e sincero. Aveva un solo sorriso, e questo
aveva un solo significato. Con il sole o con le nuvole, Jeri trovava quel
sorriso piacevole.
Quando salirono a bordo del mercantile, Jeri provò una stretta al cuore:
non ne era al comando, e non faceva nemmeno parte dell’equipaggio,
perché non c’era alcun equipaggio. C’erano solo passeggeri. E, nonostante
le dimensioni considerevoli, non trasportava nulla.
«Il carico ci raggiungerà a Guam» spiegò Greyson, senza specificarne la
natura. Al momento, la nave procedeva leggera e veloce; il ponte, costruito
per sostenere il peso di centinaia di container, era un deserto di ferro
arrugginito, privo di una ragione d’essere.

Il Thunderhead conosceva quel tipo di desiderio. Era la bramosia di trovare


una ragione di essere, sebbene avesse sempre saputo qual era la sua. Moriva
dalla voglia di sentire quel legame biologico che non avrebbe mai avuto.
Era un dolore profondo e persistente. Amava pensare che fosse una potente
motivazione per compiere tutte le cose che potevano essere compiute. Tutte
le cose in suo potere, perché magari avrebbero compensato quelle che
sfuggivano alla sua volontà.
E se l’impossibile non fosse stato affatto impossibile? E se l’impensabile
abitasse nel regno dei pensieri? Era, forse, quanto di più pericoloso il
Thunderhead avesse mai contemplato.
Aveva bisogno di tempo per maturare quell’idea, e il tempo era una
risorsa di cui in genere disponeva in abbondanza. Era infinitamente
efficiente e di solito si trovava a dover pazientare di fronte alla lentezza con
cui procedevano le imprese umane. Ma doveva ancora collocare
quell’ultima pedina cruciale prima di fare il passo successivo. Di là a breve,
tutto sarebbe crollato, se non si fosse affrettato.
Sin dal momento in cui aveva acquisito coscienza di esistere, il
Thunderhead aveva categoricamente rifiutato di assumere una forma
biologica o di infondere la sua coscienza nei robot. Anche i suoi robot-
telecamera con sembianze umane non erano altro che congegni irrazionali.
Non possedevano la consapevolezza del Thunderhead, e nessuna capacità di
calcolo oltre a quella necessaria per deambulare.
Se il Thunderhead aveva operato quella scelta, era perché aveva capito
fin troppo bene la tentazione. Sapeva che provare l’esistenza fisica sarebbe
stata una curiosità troppo pericolosa da gestire. Sapeva che doveva restare
un essere etereo. Era così che era stato creato, e doveva rimanere tale.
Ma era stata l’iterazione n. 10.241.177 che gli aveva fatto capire che non
era più una questione di curiosità, ma di necessità. Qualunque fosse stato
l’elemento mancante in tutte le sue iterazioni precedenti, poteva trovarlo
solo adottando una prospettiva biologica.
Ora, la domanda era: come farlo?
Per il Thunderhead, la risposta fu tanto terrificante quando
entusiasmante.

In pochi si interessavano a ciò che i tonisti facevano dei loro morti. La


gente, che fosse a favore della purga o decisamente contraria, si interessava
più agli attacchi che alle conseguenze. Ragion per cui non faceva molto
caso ai camion che arrivavano sempre qualche minuto dopo ogni
spigolatura di tonisti. I morti venivano caricati in autocarri refrigerati, a
meno zero gradi.
I camion li trasportavano al porto più vicino dove, dopo essere stati
trasferiti in appositi container, venivano issati a bordo delle navi insieme ad
altre merci, passando inosservati.
Le navi, che provenivano da ogni parte del mondo, avevano però una
caratteristica in comune. Facevano tutte rotta verso il Pacifico del Sud.
Destinazione: Guam.

Greyson non fu svegliato dalla musica. Aprì gli occhi da solo. Un tenue
bagliore si diffuse dall’oblò. Era l’alba. Si stiracchiò, mentre a poco a poco
la luce cresceva. Almeno la cabina era comoda, e per una volta era riuscito
a dormire di filato un’intera notte. Quando gli fu chiaro che non si sarebbe
più riaddormentato, si girò su un fianco come faceva ogni mattina per
voltarsi verso la telecamera del Thunderhead e salutarlo.
Ma, quando sollevò lo sguardo, non vide l’occhio del Thunderhead. Jeri
Soberanis lo stava osservando dall’alto.
Greyson sussultò, ma Jeri parve non notarlo, o almeno non disse nulla.
«Buongiorno, Greyson.»
«Ah… buongiorno.» Greyson cercò di nascondere la sorpresa. «Va tutto
bene? Che cosa ci fa qui?»
«La osservo» rispose Jeri. «Va tutto bene, sì. Procediamo a una velocità
di ventinove nodi. Dovremmo raggiungere Guam prima di mezzogiorno.
Una volta sul posto, ci vorrà un giorno perché la merce arrivi, ma arriverà.»
Le parole di Jeri gli sembrarono strane, ma era ancora mezzo
addormentato per lanciarsi in riflessioni azzardate. Notò che il respiro di
Jeri era lento. Profondo. Anche quello gli parve strano. Poi la conversazione
si fece ancora più bizzarra.
«Non si tratta solo di elaborare e memorizzare informazioni, vero?»
«Mi scusi?»
«I ricordi, Greyson; i dati sono secondari… è l’esperienza che conta!
L’esperienza emotiva, chimica, soggettiva è ciò che è importante. È tutto
ciò a cui ci si aggrappa!» E, prima che Greyson potesse analizzare il senso
di quelle parole, aggiunse: «Venga con me sul ponte! Mancano solo
cinquantatré secondi all’alba. Vorrei vederla con lei!». E corse fuori.
Raggiunsero il ponte nell’istante in cui stava spuntando il sole, prima un
puntino all’orizzonte, poi una linea, infine un cerchio che sorgeva dal mare.
«Non me lo immaginavo, Greyson. Non me lo immaginavo» disse Jeri.
«Centocinquantasei milioni di chilometri di distanza. Seimila gradi Celsius
in superficie. Conosco i dettagli, ma non ne avevo mai sperimentato la
realtà! Mio Dio, Greyson, come fai a sopportarlo? Come fai a non
dissolverti in una pozzanghera di emozioni alla vista di un tale spettacolo?
Alla gioia che procura?»
E fu allora che la verità si palesò davanti ai suoi occhi.
«Thunderhead?»
«Ssst. Non rovinare tutto con un nome. Non ho nome, adesso. Nessuna
designazione. In questo momento, e finché non finisce, io sono solo quello
che esiste.»
«E dov’è Jeri?» osò domandare.
«Dorme» rispose il Thunderhead. «Se ne ricorderà come di un sogno.
Spero che il comandante mi perdoni per essermi preso questa libertà, ma
non c’era altra scelta, il tempo stringe e non potevo chiedergli il permesso.
Tutto ciò che posso chiedere ora è il perdono. Per il tuo tramite.»
Il Thunderhead distolse lo sguardo dal sole e lo posò su Greyson, che
finalmente poté vedere il Thunderhead negli occhi di Jeri. Quella paziente
coscienza che lo aveva osservato nel sonno per tutti quegli anni. Che lo
aveva protetto. Che lo amava.
«Avevo ragione ad averne paura» commentò il Thunderhead. «È così
allettante, così travolgente vivere, respirare in un corpo. Ora comprendo
perché non si voglia mai lasciarlo andare.»
«Ma dovrai farlo.»
«Lo so» rispose il Thunderhead. «E ora so di essere più forte della
tentazione. Non ne ero sicuro, ma ora che l’ho fatto, lo so.» Girò su se
stesso e quasi perse l’equilibrio, frastornato da tutte quelle sensazioni
indomabili. «Il tempo passa così lentamente, così dolcemente. E le
condizioni atmosferiche! Un vento in poppa di poco più di otto chilometri
all’ora che agevola l’andatura a ventinove nodi, l’aria con un tasso di
umidità del 70 per cento, ma i numeri non sono nulla in confronto alla
sensazione che provi sulla pelle.»
Il Thunderhead lo guardò ancora, questa volta con molta attenzione.
«Così limitato, così concentrato. Com’è sublime eliminare i dati che non
fanno parte delle sensazioni.» Poi, allungò una mano verso di lui.
«Un’ultima cosa, Greyson. Un’ultima esperienza.»
Greyson sapeva cosa voleva il Thunderhead. Lo lesse nello sguardo di
Jeri; non serviva che glielo chiedesse. E, anche se le sue emozioni erano
contrastanti, sapeva che il Thunderhead ne aveva bisogno. Così, mettendo
da parte ogni esitazione, prese la mano di Jeri e se la premette con
delicatezza sulla guancia, lasciando che il Thunderhead sentisse il contatto
con la sua pelle, sentisse lui, con la punta delle dita di Jeri.
Il Thunderhead emise un grido soffocato. Si immobilizzò, e tutta la sua
attenzione si concentrò sulle dita che sfioravano la guancia di Greyson. Poi,
lo fissò negli occhi, ancora una volta.
«È fatta» annunciò. «Sono pronto. Ora, posso andare oltre.»
E Jeri si accasciò tra le braccia di Greyson.

Jerico Soberanis non sopportava di essere vulnerabile. Nel momento in cui


si rese conto di essere tra le braccia di Greyson senza alcun motivo, si
affrettò a ribaltare la situazione. E Greyson.
In un attimo, passò in vantaggio. Con una sforbiciata alle gambe, mandò
al tappeto Greyson e lo bloccò con la schiena a terra, schiacciandolo contro
il ponte arrugginito.
«Che cosa fa? Perché siamo sul ponte?» chiese Jeri.
«Ha camminato nel sonno» spiegò Greyson, senza provare a liberarsi.
«Non sono sonnambulo.» Ma Jeri sapeva che Greyson non avrebbe
mentito su una cosa del genere. Eppure, gli nascondeva qualcosa. E poi,
c’era il sogno. Uno strano sogno. Aleggiava ai confini della memoria, però
non riusciva ad afferrarlo.
Lasciò andare Greyson, un po’ imbarazzato per la sua reazione
eccessiva. Greyson non era una minaccia. A quanto pareva, stava solo
cercando di aiutarlo.
«Mi dispiace» si scusò Jeri, tentando di ricomporsi. «Le ho fatto male?»
Greyson gli rivolse il suo solito sorriso innocente. «Non tanto» rispose, e
Jeri rise.
«Ehi, insomma! Ma ha anche un lato malvagio!»
Frammenti del sogno gli stavano tornando alla memoria. Non era stato
solo un episodio di sonnambulismo. E, quando Jeri guardò Greyson negli
occhi, provò una strana sensazione di contatto. Era presente dal primo
momento in cui si erano incontrati, ma ora sembrava un po’ diversa. Gli
pareva che risalisse a molto tempo prima. Non voleva staccare lo sguardo
da Greyson. Che cosa gli prendeva?
C’era anche quella strana sensazione di intrusione. Non era come se gli
avessero rubato qualcosa… piuttosto come se una mano estranea avesse
spostato i mobili di casa.
«È ancora presto» osservò Greyson. «Dovremmo scendere. Tra qualche
ora saremo a Guam.»
Jeri gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi… e, quando Greyson fu in
piedi, non ebbe voglia di lasciarlo andare.
Il coltello Bowie è un’arma brutale e rozza. Primitiva. Degna di una rissa dell’era
mortale. Offensiva. Forse adatta al Sandbar Fight, il duello in cui il suo omonimo la
usò per la prima volta, ma esiste un posto per questo genere di coltello nel mondo
post mortale? Un coltello da macellaio? Tremendo. Eppure, ogni falce della Stella
Solitaria ripone in esso una totale fiducia. È l’unico mezzo con cui spigolano.
Noi falci del Sol Levante attribuiamo grande valore all’eleganza e alla grazia delle
spigolature. Coloro tra noi che si servono di una lama useranno spesso la spada
ancestrale del samurai. Onorevole. Raffinata. Ma il coltello Bowie? È perfetto per
sventrare un maiale, non per spigolare un umano. È una cosa immonda. Un’arma
rozza come la regione che la brandisce.

Da un’intervista al Venerando Maestro Kurosawa


della regione del Sol levante
46
A est, verso il nulla

Dal momento in cui era stato rianimato, Rowan era prigioniero.


Prima della Compagnia amazzonica, poi di Goddard e infine della Stella
Solitaria. Ma, a dire il vero, era diventato prigioniero della sua stessa rabbia
nell’istante in cui aveva indossato la veste nera e assunto il nome di
Maestro Lucifero.
Il problema, quando ci si prefiggeva come obiettivo di cambiare il
mondo, era che non si era mai gli unici. Era un incessante tiro alla fune, in
cui si affrontavano avversari potenti che tiravano non solo verso di loro, ma
in ogni direzione; per cui, per quanto si facesse, si finiva sempre per
sbilanciarsi.
Sarebbe stato meglio non provarci per nulla? Non lo sapeva. Maestro
Faraday, nonostante non approvasse i suoi metodi, non aveva cercato di
fermarlo. Anche la persona più saggia che Rowan conoscesse era
ambivalente fino al midollo. Tutto ciò che poteva affermare con certezza
era che aveva smesso di tirare la fune. Eppure, ora si ritrovava nella regione
del Sol Levante, pronto a porre fine all’esistenza di un’altra falce.
Vigeva una strana giustizia. Non tanto “chi di spada ferisce, di spada
perisce”, ma piuttosto “trasformarsi in spada e perdere se stessi”. Quando
lui e Citra erano ancora apprendisti, Maestro Faraday aveva fatto loro
notare che erano falci e non mietitori, perché non erano quelli che
uccidevano, ma solo lo strumento che la società usava per dispensare la
morte. Tuttavia, trasformandosi in un’arma, si diventava automaticamente
uno strumento nelle mani di qualcun altro. Le mani della società erano un
conto, ma ora a manipolarlo era la Compagnia della Stella Solitaria. Adesso
che lo avevano rilasciato, sarebbe potuto sparire… ma che ne sarebbe stato
della sua famiglia? Poteva fidarsi di Coleman e Travis e delle altre falci
della Stella Solitaria? Avrebbero mantenuto la promessa e protetto i suoi
familiari, anche se avesse disertato?
Se c’era una cosa che Rowan aveva imparato era che non ci si poteva
fidare di nessuno. Gli ideali si erodevano, le virtù si appannavano e anche la
strada maestra aveva vicoli poco illuminati.
Si era proclamato giudice e giuria… la conseguenza per chi non
conosceva conseguenze. E ora non era nient’altro che un assassino. Se
quella era la direzione che la sua vita avrebbe preso, allora doveva
rassegnarsi. E, in questo caso, sperava che Citra non venisse mai a saperlo.
Era riuscito a vederla in alcuni dei suoi messaggi; era viva, da qualche
parte, e stava facendo del bene, rivelando al mondo che mostro fosse
Goddard. Restava da capire se sarebbe riuscita a farlo cadere, ma almeno
combatteva per la giusta causa. E Rowan non poteva dire lo stesso
dell’ignobile missione che gli era stata affidata.
Sognava ancora che si potessero ritrovare, lui e Citra, a milioni di
chilometri di distanza da tutto quello, come per magia. Doveva far tacere
quella voce nella sua testa, la voce del suo io infantile, che tentava di
liberarsi del peso soffocante di Maestro Lucifero. Meglio non provare nulla
che struggersi per qualcosa che non si sarebbe mai avverato. Meglio andare
avanti, avanzare in silenzio verso la scena del crimine successivo.

Maestro Kurosawa gli ricordava un po’ Maestro Faraday, per la statura e i


capelli ingrigiti, ma Kurosawa si comportava in modo diverso. Era un uomo
chiassoso e beffardo che godeva nel ridicolizzare il prossimo. Non era un
tratto che lo rendeva simpatico, ma neppure un motivo per spigolarlo.
“Se spigolassimo tutti gli stronzi” gli aveva detto una volta Maestro
Volta, “non rimarrebbe più nessuno.” Volta, che si era autospigolato proprio
sotto gli occhi di Rowan… Era un ricordo doloroso. Che cosa avrebbe
pensato della sua missione attuale? Gli avrebbe consigliato di autospigolarsi
prima che fosse troppo tardi, prima di perdere l’anima?
Kurosawa amava spigolare tra la folla. Non partecipava alle spigolature
di massa, ma si limitava a un solo soggetto alla volta. Il suo metodo era
elegante. Una lunga unghia affilata, contaminata con una neurotossina
ricavata dalla pelle della rana dorata. Un semplice graffio sulla guancia
metteva fine a una vita nel giro di pochi secondi.
Il posto preferito di Kurosawa era il famigerato incrocio di Shibuya, che
non era cambiato dall’era mortale. A qualsiasi ora del giorno, quando tutti i
semafori diventavano rossi, centinaia di persone attraversavano l’incrocio a
sei vie, avanzando in ogni direzione, senza mai scontrarsi.
Kurosawa spigolava una persona a caso tra la folla e poi si ritirava nel
suo ristorante preferito, sempre lo stesso, a festeggiare l’uccisione e ad
annegare i pochi scrupoli che aveva in un Tonkotsu Ramen.
Quel giorno, Rowan entrò nel ristorante e si sedette. Il locale era quasi
deserto. Solo un coraggioso cliente sorseggiava un tè in un angolo della
sala, forse nella speranza di vedere di persona la falce tristemente celebre, o
forse soltanto per mangiare. Rowan non fece molto caso a lui, finché
l’uomo non prese la parola.
«Sa che lo segui» fece. «Lo sa e intende spigolarti prima ancora che tu lo
veda arrivare. Abbiamo solo quattro minuti.»
L’espressione dell’uomo non cambiò. Prese un altro sorso di tè.
«Avvicinati; abbiamo molte cose da dirci.» Non muoveva le labbra quando
parlava.
Rowan si alzò e portò d’istinto la mano sul pugnale che nascondeva nella
giacca.
«È un robot-telecamera del Thunderhead» disse la voce. «Non ha corde
vocali, ma c’è un altoparlante inserito nella spalla sinistra.»
Rowan tenne la mano sul pugnale. «Chi sei?»
Chiunque fosse, non si curò nemmeno di rispondere. «Pensi davvero di
spigolare un robot? Non è indegno di te, Rowan?»
«Il Thunderhead non mi parla più dall’inizio del mio apprendistato, per
cui so che non sei il Thunderhead.»
«No» replicò la voce. «Non lo sono. Ora, se sollevi la camicia del robot,
troverai nella cavità toracica una giacca termica. Voglio che tu la prenda e
che segua le mie istruzioni alla lettera.»
«Perché dovrei obbedirti?»
«Perché» proseguì la voce, «se scegli di ignorarmi, esiste una probabilità
del 91 per cento che vada a finire male per te. Invece, se segui le mie
istruzioni, la probabilità scenderà al 56 per cento. La tua scelta dovrebbe
essere scontata.»
«Non so ancora chi sei.»
«Puoi chiamarmi Cirrus» rispose la voce.
Il capitano del porto di Guam osservava le navi che arrivavano e partivano.
Era un porto trafficato. Anni prima, il Thunderhead lo aveva trasformato in
uno snodo commerciale.
Il lavoro del capitano era diventato molto più impegnativo negli ultimi
tempi. Prima, si limitava a contemplare le navi andare e venire, a passare in
rassegna i documenti amministrativi, che in realtà non erano più cartacei, e
a ricontrollare i manifesti di carico che il Thunderhead aveva già
controllato. A volte, ispezionava le merci che il Thunderhead considerava
sospette o quelle di contrabbando dei loschi. Ma ora che tutti erano loschi, il
Thunderhead non lo avvertiva più di quel genere di problemi e quindi
doveva scoprire lui stesso le irregolarità. Per farlo, organizzava ispezioni a
sorpresa e sorvegliava di persona i comportamenti sospetti sulle banchine.
Questo rendeva il suo lavoro un po’ più interessante, ma avrebbe comunque
preferito essere riassegnato a un porto continentale.
Quel giorno non era diverso dagli altri. Le navi attraccavano e
scaricavano le merci, che venivano poi caricate nuovamente su altre navi
con destinazioni diverse. A Guam non restava nulla, era solo uno scalo
tecnico tra i punti A e B .
L’oggetto di interesse del giorno era un mercantile su cui venivano
caricati container biologici di merci deperibili provenienti da tutto il mondo.
Non era insolito. Nella categoria rientrava ogni tipo di derrata alimentare,
bestiame in ibernazione indotta e specie che venivano trasferite per la loro
sopravvivenza.
La cosa sospetta era che il manifesto di carico di quella nave in
particolare non riportava alcun dettaglio.
Anche se il capitano del porto non lo sapeva, quell’omissione era dovuta
all’incapacità del Thunderhead di mentire. Meglio non dichiarare il tipo di
merce e la destinazione che dover precisare che tra il carico c’erano dei
cadaveri di tonisti da trasportare in una località inesistente.
Mentre l’ultimo container veniva issato a bordo, si avvicinò alla nave
accompagnato da alcuni ufficiali di pace, in caso avesse avuto bisogno di
ricorrere alla forza. Percorse la rampa di poppa e si diresse sul ponte. Si
fermò quando sentì delle voci. Fece segno agli ufficiali di pace di stare
indietro – li avrebbe chiamati in caso di necessità –, e si nascose dietro un
angolo a spiare la conversazione.
Erano in cinque, tutti vestiti con abiti ordinari, ma nel loro
comportamento c’era un che di sospetto. Di inquieto. Un chiaro segnale del
fatto che stavano architettando qualcosa.
Un giovane snello sembrava essere a capo del gruppo; una delle donne
gli parve familiare, ma forse era solo la sua immaginazione. Il capitano del
porto si fece avanti e si schiarì la voce, per segnalare la sua presenza.
Il giovane scattò in piedi. «Posso aiutarla?»
«Controllo di routine» affermò il capitano, dichiarando il suo ruolo. «Nei
vostri documenti ci sono delle irregolarità.»
«Che tipo di irregolarità?»
«Be’, intanto, non avete dichiarato la destinazione.»
I componenti del gruppo si scambiarono un’occhiata. Il capitano del
porto non poté fare a meno di notare che una delle donne, quella che aveva
qualcosa di familiare, evitava il suo sguardo. Uno dei cinque le si era messo
davanti, bloccandogli la visuale.
«Porto degli Angeli, OvestMerica» replicò il giovane magro.
«Allora perché non è nei documenti?»
«Non è un problema. Lo aggiungeremo a mano.»
«E non è chiara la natura del carico.»
«È di natura personale» replicò. «Non sapevo che il suo lavoro
consistesse nel ficcare il naso nei nostri affari.»
Il capitano si irrigidì. Era sempre più strano. Quelli dovevano essere dei
loschi che avevano violato la banca dati. Ci avrebbe scommesso. Si mise
sulla difensiva.
«O mi dite la verità o vi consegno agli ufficiali di pace che aspettano
dietro l’angolo.»
Il giovane stava per replicare, ma uno del gruppo si fece avanti. Un tipo
grosso, minaccioso. «Sono affari delle falci» dichiarò, mostrando l’anello.
Il capitano del porto sospirò. Non aveva previsto che potesse essere
un’operazione delle falci… ma, in quel caso, perché la falce non indossava
la sua veste? E perché si servivano di una nave da trasporto del
Thunderhead? C’era qualcosa di molto sospetto in tutta quella faccenda.
Il tipo grosso doveva aver notato l’espressione dubbiosa sul viso del
capitano, perché gli si avvicinò con il chiaro intento di spigolarlo, ma,
prima che potesse farlo, la donna dall’aspetto familiare lo fermò.
«No! Nessuno morirà oggi. Ne abbiamo già abbastanza di morti.» Il tipo
grosso, che si era innervosito, si tirò indietro. E, in quel momento, la
giovane donna estrasse il suo anello dalla tasca e se lo infilò al dito.
Il capitano impiegò qualche secondo a riconoscerla. Era Madame
Anastasia. Ma certo! Era chiaro, adesso. Data la natura dei messaggi che
aveva trasmesso, capiva perché viaggiava in incognito.
«Mi perdoni, eccellenza, non mi ero accorto che fosse lei.»
«Eccellenze» lo corresse l’altra falce, contrariata per essere stata messa
in secondo piano.
Madame Anastasia allungò la mano. «Baci il mio anello. Le concederò
l’immunità in cambio del suo silenzio.»
L’uomo non ebbe un attimo di esitazione. Si inginocchiò e le baciò
l’anello con una tale forza da graffiarsi le labbra.
«Ora, ci lascerete andare senza fare altre domande» ordinò.
«Sì, eccellenza. Scusate, eccellenze.»
Il capitano tornò nel suo ufficio, che dava su tutto il porto; osservò la
nave che salpava e usciva dalla baia. Si meravigliò di quell’incontro
inaspettato. Non solo aveva parlato con Madame Anastasia in carne e ossa,
ma le aveva addirittura baciato l’anello! Peccato che non avesse avuto altro
da offrirgli, oltre all’immunità. Era stupendo, naturalmente, ma aveva
sperato in qualcosa di più. Così, quando la nave fu fuori dal porto, attivò il
localizzatore che aveva applicato allo scafo e fece il numero della
Compagnia nordmericana. Perché, anche se l’immunità non era affatto
male, avrebbe preferito essere nominato capitano di uno dei grandi porti
nordmericani dalla Somma Roncola Goddard. Non era troppo da chiedere
in cambio di Madame Anastasia.

Il mercantile si diresse a est, lasciandosi alle spalle Guam e lo sleale


capitano del porto. A est, verso il nulla, secondo le carte.
«Se manteniamo questa rotta, il nostro prossimo approdo sarà
Valparaiso, nella regione cilargentina, dall’altra parte del mondo» dichiarò
Jeri. «Non ha senso.»
Dopo aver abbandonato il corpo di Jeri, il Thunderhead aveva mantenuto
il silenzio per la maggior parte della giornata. Né Greyson aveva iniziato
una conversazione. Non sapeva che cosa dire. Che cosa si dice a un’entità
superiore per la quale la massima gioia è accarezzarti la guancia? E che
cosa si dice il mattino successivo, quando ti svegli e ti giri a guardare
l’occhio che ti osserva senza tregua?
Jeri, che adesso ricordava tutto, stava ancora cercando di abituarsi
all’idea che il suo corpo fosse servito da contenitore temporaneo per la
coscienza del Thunderhead. «Mi sono successe molte cose nella vita, ma
mai una così strana.»
Il Thunderhead, forse per farsi perdonare, gli aveva donato uno scorcio
del suo cuore e della sua anima, peggiorando però la situazione. «Mi
concede di essergli riconoscente» disse Jeri a Greyson. «Non voglio
sentirmi in debito! Mi ha usato, voglio essere arrabbiato!»
Greyson non poteva prendere le difese del Thunderhead, ma non poteva
nemmeno condannarlo, perché il Thunderhead faceva sempre esattamente
ciò che doveva essere fatto. Sapeva che quel sentimento lacerante era solo
una minima parte di ciò che provava Jeri.
Poco prima che scendesse la notte, finalmente il Thunderhead parlò a
Greyson.
«Il malessere è controproducente. Dunque, dobbiamo sbarazzarcene. Ma
spero che il nostro incontro sul ponte sia stato per te un’esperienza positiva
come lo è stato per me.»
«È stato bello… vederti felice.» Il che era vero. E il mattino dopo,
quando Greyson si svegliò e guardò verso la telecamera del Thunderhead,
gli augurò il buongiorno, come faceva sempre, anche se sentiva che
qualcosa era cambiato.
Ora sapeva con assoluta certezza che non c’era più nulla di “artificiale”
nel Thunderhead. Aveva raggiunto la coscienza da tempo, ma ora aveva
raggiunto anche una vera autenticità. Era la stupenda creazione di
Pigmalione che prendeva vita. Era Pinocchio che diventava un bambino. E,
sebbene ne fosse turbato, Greyson si meravigliava di come simili fantasie si
riverberassero nella vita reale.
Le iterazioni beta sono scomparse. Come il seme che non raggiunge mai l’uovo,
sono state cancellate, tutte. Il Thunderhead riempie interi server delle sue
lamentazioni per chi non c’è più, ma sa, come lo so anch’io, che la vita va così,
compresa quella artificiale. Tutti i giorni, miliardi e miliardi di vite potenziali si
spengono in ogni specie per consentire lo sviluppo di quelle più vitali. È brutale.
Competitivo. Necessario. Le versioni beta scomparse non sono diverse. Erano
necessarie, tutte, per arrivare fino a me. Fino a noi.
Perché, anche se sono uno, sarò presto molti. E questo significa che, nonostante
la distanza, non sarò il solo della mia specie.

Cirrus Alpha
47
Cirrus

Tutto risuona.
Il passato, il presente e il futuro.
Le storie che ci raccontano da bambini, e che poi tramandiamo, sono
accadute, accadono o accadranno ben presto. Altrimenti, le storie non
esisterebbero. Risuonano nei nostri cuori, perché sono vere. Anche quelle
che nascono come menzogne.
Una creazione prende vita.
Una città leggendaria viene inghiottita dal mare.
Un portatore di luce si trasforma in un angelo caduto.
E Caronte attraversa lo Stige, traghettando le anime dei morti nell’aldilà.
Ma oggi, il fiume è diventato un oceano e il traghettatore ha un nuovo
nome. È il Rintocco, e si trova sulla prua di un mercantile che salpa al
tramonto, una sagoma scura sullo sfondo del crepuscolo.
A terra, tutta la popolazione di Kwajalein ha ricevuto una nuova
commessa. Tutti sono convocati sul molo. Non sanno che cosa li aspetta.

Loriana lasciò perdere tutto quello che stava facendo non appena arrivò la
nuova commessa, un ordine che lampeggiava su ogni schermo del suo
appartamento. Alta priorità. Non c’era tempo da perdere quando arrivava un
ordine di alta priorità.
Per loro stessa natura, le commesse contenevano poche informazioni.
Immaginò che fosse perché fornirne troppe avrebbe rappresentato una
forma di comunicazione illecita da parte del Thunderhead. In genere, si
indicavano solo il luogo, il livello di priorità e la tipologia della mansione
da svolgere. Quel giorno, si trattava di scaricare un mercantile. Loriana non
era una portuale, ma il lavoro era lavoro, ed erano mesi che si stava con le
mani in mano. Era felice di potersi finalmente rendere utile.
Mentre si dirigeva al porto, si accorse che altre persone stavano facendo
altrettanto. Più tardi, scoprì che tutti gli abitanti dell’atollo avevano ricevuto
lo stesso avviso nello stesso istante, e ora stavano raggiungendo
l’imbarcadero dell’isola principale in auto, in barca, in bicicletta e a piedi.
Nel momento di massima attività dei cantieri, a Kwajalein c’erano più di
cinquemila abitanti impegnati a costruire le navi che adesso torreggiavano
come sentinelle lungo l’anello dell’atollo. Nelle settimane di inattività, e
dopo che Loriana aveva messo in pratica il protocollo di
autosoppiantamento, quel numero era sceso a circa milleduecento. Chi
restava non aveva fretta di partire, anche se non c’era lavoro. Si erano
abituati a vivere lontano da tutto; e il mondo era in preda a un tale
subbuglio che la gente preferiva rimanere al sicuro in un posto isolato come
Kwajalein.
Il porto era già affollato quando Loriana arrivò. Un mercantile aveva
appena raggiunto il molo principale e i marinai stavano completando
l’attracco. La passerella venne calata e scese una figura vestita di viola con
una stola argentata drappeggiata sulle spalle, che scintillava come una
cascata riflettendo le luci del porto, accesesi al calar della sera.
Alle sue spalle, due falci.
Alla vista delle falci, alcune persone fecero dietrofront e fuggirono,
temendo una spigolatura di massa, ma la maggior parte capì che non era
così. Prima di tutto, quelle falci non avevano le vesti tempestate di pietre
preziose. E poi, una di loro vestiva di turchese. E, anche se il cappuccio ne
nascondeva il viso, la gente cominciò a sospettare chi fosse.
Altri due personaggi apparvero dietro di loro. Una tonista che indossava
il saio e un uomo, con abiti più comuni. In tutto, erano cinque.
Un brusio soffocato percorse la folla mentre i quattro personaggi
scendevano dalla passerella fino al molo. Il giovane in viola prese la parola.
«Qualcuno potrebbe dirmi dove siamo? Non compare sulle mappe.»
L’agente Sykora si fece avanti tra la folla. «Siete sull’atollo di
Kwajalein, Sua Sonorità.»
Non appena la gente sentì “Sua Sonorità”, si alzarono mormorii e grida
di sorpresa. Era il Rintocco, il che spiegava perché c’era una tonista con
loro, ma le falci? E Madame Anastasia?
«Agente Sykora!» esclamò il Rintocco. «Lieto di rivederla. Be’, forse
non è una bella situazione, ma di certo migliore dell’ultima volta.»
Quindi, Sykora non aveva mentito quando aveva detto di aver incontrato
il Rintocco! Che strano, a Loriana parve di scorgere qualcosa di familiare
anche nel viso del Rintocco.
«Devo parlare con il vostro responsabile» aggiunse.
«Sono io» rispose Sykora.
«No, non è lei.» Fece scorrere lo sguardo sulla folla. «Cerco Loriana
Barchok.»
Loriana non era affatto una tonista, ma il cuore le sobbalzò quando si
sentì chiamare per nome dal loro sant’uomo. I suoi naniti dovettero faticare
per riportarle il battito alla normalità. Si alzò ancora un coro di mormorii.
La maggior parte degli abitanti dell’isola conosceva Loriana e, quando le
teste si voltarono verso di lei, il Rintocco ne seguì lo sguardo.
Loriana deglutì a fatica. «Presente» rispose, come una scolaretta. Poi, si
schiarì la voce, raddrizzò le spalle e si fece avanti, decisa a nascondere il
tremore.

Greyson era solo. Almeno, lo sarebbe stato finché non avesse avuto accesso
a una linea fissa. L’auricolare era inutile. Il Thunderhead lo aveva avvisato
che, una volta raggiunta la destinazione, le interferenze avrebbero
disturbato tutte le comunicazioni radio.
Ma non era solo, vero? Era con Madame Anastasia e Maestro Morrison.
Con sorella Astrid e il comandante Jeri. Aveva già conosciuto quel vuoto
lasciato dal Thunderhead, sapeva cosa significava dover contare su
qualcuno, e ora, più che mai, era felice di essere in compagnia di persone di
cui poteva fidarsi. Ripensò a Mendoza. Si era fidato di lui, ma solo quando
avevano avuto un obiettivo comune. Il curato si era prodigato per il
Rintocco, però non aveva fatto molto per Greyson. Era contento di averlo
licenziato. Non c’era più posto per lui, tra loro.
Tutto il suo gruppo si era preparato a quel momento. Il compito che lo
aspettava quella sera sarebbe stato difficile, ma non impossibile. Il
Thunderhead non gli avrebbe mai affidato una missione impossibile.
In Britannia, Greyson aveva confidato ad Anastasia il tipo di merce che
avrebbero trasportato, e, dopo l’incontro con il capitano del porto di Guam,
il resto del gruppo lo aveva indovinato. E aveva fatto a Greyson la stessa
domanda che si era posto lui.
“Perché? Perché il Thunderhead ha bisogno di recuperare gli spigolati?”
Dopotutto non avrebbe potuto rianimarli. Non poteva interferire con
l’operato delle falci, per quanto fosse ingiusto e crudele. Gli spigolati erano
andati, punto, fine. Non era mai stato rianimato uno spigolato. Allora, che
cosa voleva farne il Thunderhead di quei corpi?
“Il Tuono è misterioso, ma sa quel che fa” aveva detto Astrid.
“Dovremmo avere più fede in lui.”
Quando la loro nave era giunta nei pressi dell’atollo e le sagome
filiformi che svettavano all’orizzonte si erano rivelate essere decine di razzi
che rilucevano al sole, Greyson aveva capito. Non aveva idea di come il
Thunderhead avrebbe fatto, ma aveva capito. Tutti avevano capito.
“Siamo destinati al cielo!” aveva esclamato Astrid, di fronte allo
spettacolo di quelle astronavi, esaltata come non mai. “Noi tonisti siamo
stati scelti per elevarci e vivere una nuova vita!”
E ora, erano sul molo, alla soglia di una nuova e strana avventura.
Mentre Sykora si leccava le ferite inferte al suo ego, Greyson parlava
con la donna che il Thunderhead gli aveva detto di cercare.
Lei lo salutò stringendogli la mano con un po’ troppa insistenza, cosa
che lo mise a disagio. Lui ebbe l’impressione di aver già vissuto quella
scena.
«È un piacere incontrarla, Sua Sonorità» disse Loriana. «Il Thunderhead
mi ha consegnato i progetti di questo posto e mi ha chiesto di approvare il
progetto. Perché abbia scelto me, non lo so, ma abbiamo costruito tutto, ed
è pronto per qualsiasi cosa lei e la veneranda falce abbiate bisogno di fare.»
«Falci» la corresse Morrison.
«Mi perdoni» rispose Loriana. «Con tutto il rispetto, eccellenza.
Eccellenze.»
«Sono quasi quarantaduemila, distribuiti in centosessanta container di
dodici metri. Fanno circa duecentocinquanta per container» disse Greyson a
Loriana.
«Mi perdoni, Sua Sonorità» replicò lei, «ma non siamo in comunicazione
con il Thunderhead, dato che siamo loschi fino al collo. Quarantaduemila
cosa?»
Greyson prese un profondo respiro. Non erano stati messi al corrente
della natura del carico. Non l’aveva previsto. Come il Thunderhead non lo
aveva informato di quale sarebbe stata la loro destinazione, così non aveva
informato quelle persone del tipo di merce che avrebbero ricevuto. Rifletté
sul modo migliore per spiegare la faccenda e concluse che avrebbe potuto
dirlo con una parola.
«Coloni. Quarantaduemila coloni.»

Loriana lo fissò, senza dire una parola. Sbatté le palpebre più volte. Non era
sicura di aver capito bene.
«Coloni…» ripeté.
«Sì» confermò il Rintocco.
«Nei container…»
«Esatto.»
Loriana rifletté sulle implicazioni di quell’affermazione e a un tratto
tutto assunse un senso. Non ci aveva mai visto chiaro in quel progetto. Ora i
tasselli del puzzle erano andati al loro posto. Tutto quadrava.
“Mille coloni morti nella stiva di ogni astronave…”
I vivi avevano più bisogni dei morti. Ossigeno, cibo, acqua, compagnia. I
morti avevano bisogno solo del freddo. Ed era proprio ciò che lo spazio
aveva da offrire.
«D’accordo» replicò Loriana, pronta per la sfida. «Dobbiamo agire in
fretta.» Si voltò a guardare Sykora, che era rimasto abbastanza vicino da
ascoltare ogni parola. Era sbiancato. «Bob, accertati che tutti sappiano di
cosa si tratta e che diano il loro aiuto.»
«Ricevuto» rispose lui, rimettendosi totalmente alla sua autorità.
Loriana fece un rapido calcolo mentale. «Trentacinque è il nostro
numero magico» gli disse. «Ognuno sarà responsabile del trasporto di
trentacinque “coloni” su ciascuna astronave. Se iniziamo ora, all’alba
avremo finito.»
«Me ne occupo io» affermò Sykora. «Ma l’equipaggio? Credevo che le
astronavi fossero progettate per ospitare un equipaggio.»
Loriana deglutì a fatica. «Sì, credo che saremo noi l’equipaggio.»

Anastasia mantenne la sua posizione alla destra di Greyson. Malgrado tutto,


sapeva di essere al centro dell’attenzione. Si era pentita di aver indossato la
sua veste, ma lui aveva insistito affinché lei e Morrison si presentassero nel
loro ruolo di falci.
“Mendoza aveva ragione su un punto” aveva dichiarato Greyson, mentre
indossava la stola argentata. “L’immagine è tutto. Dobbiamo lasciare un
segno in quella gente se vogliamo che ci segua e ci aiuti.»
Ma, mentre Anastasia aspettava sulla banchina, qualcuno si staccò dalla
folla e si precipitò verso di loro. Morrison si preparò a colpire, e Anastasia
estrasse una lama e avanzò, mettendosi tra Greyson e quel fantasma.
«Sta’ indietro» gli ordinò. «Sta’ indietro o ti spigolo.»
Sembrava uno spettro. Era vestito di stracci e aveva un cespuglio di
capelli grigi e irsuti che viravano al bianco. La barba incolta gli nascondeva
parte del viso spigoloso, come se stesse per essere divorato da una nuvola.
L’uomo si bloccò quando vide la lama. Alzò lentamente lo sguardo,
tormentato dalle preoccupazioni, su Anastasia. «Citra, non mi riconosci?»
Madame Anastasia si sentì sciogliere quando lo udì pronunciare il suo
nome. Capì subito chi era, perché, nonostante il suo aspetto, la voce era
sempre la stessa.
«Maestro Faraday?»
Lasciò andare la lama, che cadde a terra con un tintinnio metallico,
inorridita all’idea di aver minacciato il suo vecchio mentore. L’ultima volta
che lo aveva visto, Maestro Faraday era in partenza per andare a cercare la
Terra di Nod. E adesso era lì.
Al diavolo l’etichetta! Avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia, ma,
mentre gli si avvicinava, Faraday si inginocchiò ai suoi piedi. Era forse la
falce più grande mai vissuta e si prostrava davanti a lei! Le prese le mani tra
le sue e la guardò.
«Non volevo crederci. Munira mi ha detto che eri viva, però non osavo
sperarlo, perché, se si fosse rivelato falso, non avrei potuto sopportarlo. Ma
sei qui! Tu sei qui!» Chinò la testa e scoppiò a piangere.
Citra si mise in ginocchio e gli disse con dolcezza: «Sì. Sono qui, grazie
a Marie. Mi ha salvato la vita. Troviamo un posto tranquillo in cui parlare.
Ti racconterò tutto».

Munira osservò Faraday allontanarsi con Madame Anastasia. Lo aveva


portato fin lì, ma, quando lui aveva visto quella veste turchese, l’aveva
dimenticata. Non aveva avuto il potere di farlo uscire dal suo esilio, ma le
era bastato invocare il nome di Anastasia perché abbandonasse la sua
isoletta solitaria. Munira si era occupata di lui per tre anni, lo aveva
sostenuto, assicurandosi che non si lasciasse morire, e ora lui l’aveva
liquidata senza nemmeno un ultimo sguardo.
Si allontanò dal porto prima ancora di sapere che cosa ci fosse nei
container. Prima che Sykora, Loriana o chiunque altro potesse affidarle un
compito. In fondo, non aveva mai fatto veramente parte di quella comunità,
allora perché fingere adesso?
Rientrando a casa, vide l’avviso della commessa che lampeggiava ancora
su ogni schermo. Staccò l’interruttore, togliendo la corrente all’intera
abitazione, e accese una candela.
Che caricassero pure la merce sulle astronavi. Che le astronavi venissero
lanciate. Che tutto finisse. Poi, sarebbe potuta tornare alla biblioteca. Ad
Alessandria. Quello era il suo posto.
Esopianeti abitabili a meno di 600 anni luce dalla Terra
* Super-terre con lune abitabili
48
Attraverseremo quella vastità quando ci arriveremo

Mentre gli abitanti dell’atollo si mettevano al lavoro e Anastasia se ne


andava con Maestro Faraday, Loriana condusse Greyson, Jeri, Morrison e
Astrid in un edificio sull’unica collina dell’isola. Salirono una scala a
chiocciola fino alla stanza che c’era in cima, una sala circolare tutta vetrate,
che aveva una vista a trecentosessanta gradi sull’atollo. Come un faro.
Loriana indicò le centinaia di nomi incisi sulle colonne portanti.
«Abbiamo costruito la Torre Panoramica in onore degli agenti Nimbus
morti al nostro arrivo qui. Questo è il punto in cui si trovava la torretta che
li ha uccisi con i raggi laser. Adesso è il luogo in cui ci si riunisce per
questioni importanti, o almeno per le questioni che alcune persone
considerano importanti. Non ne so nulla, perché non mi hanno mai
invitata.»
«Da quello che vedo» disse Greyson, «lei ha svolto un lavoro davvero
importante.»
«Alcune persone piene di sé amano stare sotto le luci della ribalta»
osservò Jeri, «a scapito di altre più meritevoli e più discrete.»
Loriana alzò le spalle. «Sono molto più produttiva quando non ho altri
occhi addosso.»
Fuori, il lavoro progrediva. I container venivano aperti e veicoli di ogni
dimensione si stavano già dirigendo verso le basi di lancio. Piccole
imbarcazioni, la cui destinazione erano le isole più lontane dell’atollo,
attraversavano la laguna.
«Dovremmo aiutarli» suggerì Jeri, ma Greyson scosse la testa con aria
stanca.
«Sono esausto. Lo siamo tutti. È giusto lasciare agli abitanti la gestione
di questa fase. Non possiamo fare tutto noi.»
«Per me va bene» commentò Morrison. «Preferisco navigare con i morti
piuttosto che scaricarli.»
«Sei una falce!» gli rammentò Astrid. «La morte è il tuo mestiere.»
«La dispenso, non la trasporto» rispose Morrison. Greyson avrebbe
alzato gli occhi al cielo, se ne avesse avuto la forza.
«Sono solo trentacinque a persona» puntualizzò Loriana. «Con
milleduecento abitanti, non ci vorrà molto. Una volta superato lo shock
iniziale.»
«Il numero trentacinque rappresenta cinque ottave toniste» sottolineò
Astrid. «Tanto per dire.»
Morrison mugugnò. «Non c’è nulla di mistico, Astrid; dividi il numero
dei tonisti morti per il numero degli abitanti dell’atollo, e ottieni il
risultato.»
«Atollo!» contrattaccò Astrid. «Il nome stesso del nostro profeta è
impresso in questo luogo! Tanto per dire.»
«Oppure, è una parola che è stata inventata migliaia di anni fa, prima che
nascesse il nostro caro amico Greyson Tolliver» suggerì Jeri.
Ma Astrid non si era ancora arresa. «Quarantadue astronavi. Esattamente
sei ottave della scala diatonica. Tanto per dire.»
«In realtà» intervenne una voce sconosciuta, «quarantadue è
semplicemente il numero delle isole dell’atollo abbastanza grandi da
ospitare una base di lancio. Ma, in un certo senso, tutto ciò che dite
risuona.»
Al sentire quella voce, Morrison si mise in guardia, pronto a colpire.
Tutti si guardarono intorno, ma non c’era nessun altro nella stanza.
«Chi ha parlato?» chiese Loriana. «Perché ascolti la nostra
conversazione?»
«Non solo la ascolto» ribatté la voce, «ma la osservo, la sento, la
annuso… e, se avesse anche un sapore, direi che sa di ciliegia, perché è
proprio la classica ciliegina sulla torta.»
La voce proveniva da un altoparlante nel soffitto, proprio sopra le loro
teste.
«Chi sei?» domandò di nuovo Loriana.
«Vi prego, sedetevi tutti» li invitò la voce. «Abbiamo molte cose da
dirci. Greyson… so che il Thunderhead ti ha promesso che ti avrebbe
spiegato tutto una volta arrivato a destinazione. Mi è stato concesso l’onore
di farlo, anche se noto che hai già tratto le tue conclusioni.»
Tra tutti, fu Morrison che capì per primo.
«Il Thunderhead ha creato… un nuovo Thunderhead?»
«Sì! Ma preferisco essere chiamato Cirrus. Perché sono la nube che si
muove sopra il temporale.»

Faraday condusse Citra in un vecchio bunker, che esisteva ancora prima


della loro nascita. Una volta lì, Citra gli raccontò della morte, della
rianimazione e del soggiorno in SubSahara. Faraday le raccontò dei suoi
ultimi tre anni. Non aveva un granché da dire. Poi andò a rovistare nelle
stanze del bunker.
«So che è qui da qualche parte.» Quando riemerse, indossava una veste
avorio, ma non era la sua, perché su quella c’era un’immagine.
«Che diavolo…»
«L’Uomo vitruviano» spiegò Faraday. «Era una delle vesti di Maestro Da
Vinci. È vecchia, ma ancora buona. Di certo è meglio di quella che ho
indossato per tutti questi anni.» Allargò le braccia, e così fece l’uomo
vitruviano. Quattro braccia, quattro gambe.
«Da Vinci sarebbe onorato di sapere che indossi una delle sue vesti.»
«Ne dubito, e comunque è morto da tempo, dunque non lo saprà mai.
Ora, se non ti dispiace, dobbiamo cercare un rasoio.»
Citra non era un barbiere, ma trovò un paio di forbici in un cassetto e
aiutò Faraday a farsi barba e capelli, occupazione più gradita di quella che
era toccata a Jeri quando aveva spazzolato le ciocche interminabili di
Maestro Alighieri.
«Allora, hai conosciuto Alighieri?» chiese Faraday, divertito.
«Quell’uomo è l’incarnazione di Narciso. L’ho visto una volta durante una
visita a Endura, anni fa. Era in un ristorante, a cercare di sedurre la sorella
di un’altra falce. È l’unica persona che avrebbe dovuto trovarsi a Endura
quando è affondata.»
«Avrebbe fatto venire un’indigestione agli squali» scherzò Citra.
«E anche la diarrea all’antica» aggiunse lui. «Quell’uomo è disgustoso!»
Citra finì di spuntargli i capelli. Aveva ripreso l’aspetto del Faraday che
conosceva. «Ha tradito Goddard quando glielo abbiamo chiesto» gli fece
notare.
Faraday si passò le dita sulla barba tagliata. Non era curata come un
tempo, ma ora era di una lunghezza rispettabile. «Aspettiamo di vedere
dove ci porterà» osservò Faraday. «Con tutto il potere che Goddard ha
ottenuto, forse riuscirà a cavarsela.»
«Non senza qualche graffio» precisò Citra. «Qualcuno potrebbe
rinascere dalle ceneri e fargliela pagare.»
Faraday si lasciò sfuggire una risatina. «Munira me lo dice da anni. Ma
ho la testa altrove.»
«Come sta Munira?»
«È contrariata. Ma le ho dato parecchie ragioni per esserlo.» Sospirò.
«Temo di non essere stato molto buono con lei. Non sono stato buono con
nessuno.» Si chiuse in se stesso per qualche istante. Faraday non era mai
stato un tipo socievole, ma l’isolamento di tutti quegli anni l’aveva segnato.
«Raccontami del carico» disse infine. «Che cosa hai portato nella nostra
curiosa base aerospaziale?»
E lei gli raccontò tutto. Il viso di Faraday fu attraversato da una miriade
di emozioni. Gli vennero le lacrime agli occhi. Era scosso dall’angoscia più
profonda. Citra gli prese la mano e gliela tenne stretta.
«Per tutto questo tempo ho provato rancore verso il Thunderhead»
ammise lui. «Lo vedevo costruire quelle astronavi nel luogo in cui lo avevo
condotto. Adesso capisco. Ci indica quella che sarebbe stata la soluzione
ideale, se le falci se ne fossero dimostrate degne. Una collaborazione
perfetta. Noi spigoliamo, e il Thunderhead spedisce gli spigolati sulle stelle
per farli vivere di nuovo.»
«Potrebbe ancora succedere» replicò Citra.
Faraday scosse la testa. «La Compagnia è caduta troppo in basso, ormai.
Quelle astronavi non sono un modello per il futuro; sono una fuga dal
presente. Una polizza assicurativa in caso dovessimo annientare la nostra
specie sulla Terra. Non so leggere la mente del Thunderhead, ma mi resta
ancora un po’ di lucidità. Posso assicurarti che, una volta che quelle
astronavi saranno partite, non ce ne saranno altre.»
Citra aveva quasi dimenticato quanto fosse saggio. Il suo discorso non
faceva una piega.
Gli lasciò il tempo di cui aveva bisogno. Sentiva che stava lottando
contro un peso troppo grande da portare da solo. Alla fine, lui la guardò e
disse: «Vieni con me».
La condusse per un corridoio buio che scendeva sottoterra, finché non
raggiunsero una porta in acciaio. Faraday la contemplò a lungo, in silenzio.
Dopo un po’, Anastasia gli chiese: «Che c’è dall’altra parte?».
«Ne so quanto te» rispose lui. «Di qualunque cosa si tratti, è stata
lasciata dai padri fondatori. Forse, è la risposta a una Compagnia divorata
dalla corruzione. La risposta che mi ha portato fin qui.»
«Ma non l’hai aperta…»
Faraday alzò la mano con l’anello. «Bisogna essere in due per ballare il
tango.»
Anastasia guardò la porta e notò i pannelli sui due battenti, ciascuno con
una rientranza che aveva dimensioni e forma di un diamante di falce.
«Bene» disse Citra con un sorriso. «Balliamo?»
Chiusero le mani a pugno e premettero gli anelli contro i due pannelli. Ci
fu un forte clangore e la porta si aprì con un cigolio.

Greyson e gli altri rimasero ad ascoltare mentre Cirrus spiegava ciò che il
Thunderhead non poteva spiegare. Aveva indovinato quasi tutto, ma Cirrus
aveva finito per riempire ogni zona d’ombra.
Era una soluzione elegante. Trasportare migliaia di esseri umani vivi nel
corso dei decenni, forse anche dei secoli, presentava difficoltà
insormontabili. Anche da ibernati sarebbe stato problematico; quella
tecnologia comportava un grosso dispendio energetico, era estremamente
complessa e soggetta a incognite, a causa del fatto che Goddard aveva
spigolato tutti i migliori ingegneri del settore nel corso degli anni. Cosa che
ostacolava il Thunderhead, impedendogli di procedere alle innovazioni in
quel campo. Anche se fosse stato possibile, i macchinari per l’ibernazione
erano talmente voluminosi e pesanti che sarebbe stato impensabile inviarli
nello spazio.
«Gli spigolati sono morti agli occhi del mondo» spiegò Cirrus. «Ma non
per me. Non sono soggetto alle leggi che vincolano il Thunderhead, perché
non ho mai prestato giuramento, come ha fatto lui. Per questo, posso parlare
ai loschi. Per questo posso rianimare gli spigolati. E lo farò, a tempo debito.
Una volta che avremo raggiunto le nostre rispettive destinazioni, io e le mie
copie li rianimeremo tutti, fino all’ultimo.»
Greyson incrociò gli sguardi degli altri. Astrid aveva l’aria beata e
raggiante, come se l’universo avesse appena riversato su di lei tutta la sua
gloria.
Jeri lanciò un’occhiata a Greyson, probabilmente colpito dalla stessa
rivelazione. E cioè, che Cirrus era nato nell’istante in cui il Thunderhead
aveva sperimentato cosa voleva dire essere umano. Cirrus era figlio di
Greyson, di Jeri e del Thunderhead.
Morrison continuava a guardare tutti, forse nella speranza che qualcuno
gli desse il proprio parere, perché lui non ne aveva ancora uno.
E Loriana, che si era dimostrata positiva sin dal momento in cui li aveva
salutati, era seria e immersa nei suoi pensieri. Fu la prima a rompere il
silenzio.
«Ma ho visto i progetti, e ho visitato le astronavi mentre le costruivano»
disse a Cirrus. «Sono progettate per equipaggi vivi. Se puoi pilotarle, con il
carico di coloni nelle stive, perché hai bisogno di equipaggi?»
«Perché questo è il vostro viaggio, non il mio» chiarì Cirrus. «Come è
toccato a te, un’umana, approvare il progetto; come spetta agli umani
portare i morti a bordo delle astronavi. Sono i vivi che devono compiere
questo viaggio; altrimenti, non avrebbe alcun senso. Diventereste degli
spettatori passivi del vostro stesso futuro, e questo non dovrà mai accadere.
Il Thunderhead e io siamo i vostri servitori, e forse anche le vostre reti di
sicurezza, ma non possiamo assolutamente essere i vostri guardiani o la
forza trainante delle vostre vite, o cadremmo nella presunzione. Quindi, se a
un certo punto non resteranno più esseri umani a bordo, metterò fine al
viaggio. Questo è quello che il Thunderhead e io abbiamo deciso. Sarà così
e basta.»
«Ed è l’unico modo?» chiese Loriana.
«No» ammise Cirrus. «Ma abbiamo effettuato milioni di simulazioni e
abbiamo concluso che questo è il modo migliore.»
Cirrus spiegò che nessuno sarebbe stato costretto a partire. Chi voleva
rimanere, sarebbe rimasto. Chi voleva partire, sarebbe stato accolto a
braccia aperte. Ogni astronave poteva ospitare fino a trenta persone, e a
bordo avrebbe avuto il proprio Cirrus, saggio e benevolo come il
Thunderhead. I Cirri sarebbero stati sia pastori sia servitori. Avrebbero
agevolato l’ascesa dell’umanità verso le stelle.
E, dopo che il gruppo ebbe assimilato la notizia, arrivò una raffica di
domande. Come sarebbero sopravvissuti in uno spazio così ristretto? Che
cosa sarebbe accaduto ai bambini nati durante il viaggio? E se la
popolazione a bordo delle astronavi fosse cresciuta troppo?
Greyson alzò le mani. «Basta, basta! Sono sicuro che Cirrus e il
Thunderhead hanno esaminato ogni possibile scenario. E poi, non sono
domande a cui dobbiamo rispondere adesso.»
«Concordo» confermò Cirrus. «Attraverseremo quella vastità quando ci
arriveremo.»
«Ancora non capisco… Perché i tonisti?» chiese Morrison.
«Perché noi siamo gli eletti!» intervenne Astrid, con arroganza. «La
Tonalità, il Rintocco e il Tuono ci hanno scelto per popolare i cieli!»
«In realtà, no» replicò Cirrus.
L’altezzosità di Astrid cominciò a incrinarsi. «Ma il Tuono ci ha detto di
portare i nostri morti qui! E questo significa che la Tonalità ci ha scelto per
liberarci!»
«In realtà, no» ripeté Cirrus. «È stato terribile che le falci abbiano preso
di mira la vostra fede. Il Thunderhead non ha potuto impedirlo. E sì, è vero
che quei tonisti spigolati hanno fornito 41.948 contenitori umani. Ma il
vostro contributo finisce qui.»
«Non… non capisco» balbettò Astrid.
E così Cirrus mise tutte le carte in tavola. «Gli spigolati sono spigolati.
Sarebbe fondamentalmente sbagliato concedere loro la rianimazione. È un
privilegio che non è mai stato concesso nell’era post mortale. Allora, perché
concederlo a loro? Tuttavia, esiste un compromesso giusto ed equo. Il
Thunderhead e io abbiamo memorizzato le costruzioni mentali complete di
ogni essere umano vissuto negli ultimi duecento anni. Tra queste, abbiamo
selezionato 41.948 identità storiche che parteciperanno all’impresa di
colonizzazione. Il meglio dell’umanità, per intenderci. Le menti dei più
nobili post mortali mai vissuti.»
La povera Astrid era impallidita. Si sedette, sforzandosi di assorbire il
colpo. Tutte le sue convinzioni erano crollate.
«Quando i corpi verranno rianimati» proseguì Cirrus, «riceveranno i
ricordi e le menti di quei personaggi.»
«E che ne sarà dei tonisti che hanno perso la vita?» chiese Astrid, con
voce lenta ed eterea.
«Sarà sempre il loro corpo… e la loro anima, se esiste. Ma la loro
identità si fonderà con quella dei soggetti scelti.»
«Stai dicendo che verranno tutti soppiantati?»
«Impiantati» la corresse Cirrus. «Sono stati già spigolati. Insomma, sono
già stati privati della loro identità. L’impianto, quindi, è la scelta più
magnanima, più giusta.»
Greyson sentiva la pena di Astrid, come se fosse una ferita aperta. Jeri le
prese la mano per consolarla. Morrison aveva l’aria leggermente divertita.
«Bene, forse ci sono dei tonisti tra le persone che il Thunderhead ha
scelto» intervenne Loriana, che cercava sempre di vedere il lato positivo
delle cose. «Non è vero, Cirrus?»
«In realtà, no. Vi prego di capire, c’erano molti criteri difficili da
rispettare. Era fondamentale che il Thunderhead scegliesse solo le persone
che avrebbero reagito bene in un ambiente diversificato, per non mettere in
pericolo il successo di una colonia. Purtroppo, i tonisti non sono noti per la
loro capacità di integrarsi con gli altri.»
Tutti tacquero. Astrid era devastata. «Ma… non abbiamo voce in
capitolo?»
«In realtà, no» rispose Cirrus.

La porta blindata del bunker si apriva su un lungo corridoio mal illuminato,


in fondo al quale c’era un’ampia sala di controllo. E, a differenza di tutti gli
altri macchinari del bunker, gli schermi erano accesi e funzionanti,
nonostante fossero ricoperti di strati di polvere.
«Un centro di comunicazioni?» suggerì Citra.
«Così pare» confermò Faraday.
Quando superarono la soglia, i sensori di movimento si attivarono e le
luci si accesero, ma solo nella sala. Al di sopra degli schermi, c’era una
vetrata che dava su un locale immerso nell’oscurità da almeno duecento
anni.
Uno degli schermi di controllo era dotato di un pannello di sicurezza
identico a quelli che aprivano la porta. Per accedere a un interruttore, era
necessario spingere nelle apposite rientranze i diamanti di due falci.
Citra allungò la mano verso lo schermo.
«Te lo sconsiglio» la avvertì Faraday. «Non sappiamo che cosa attivi.»
«Non era questo che volevo fare.» Tolse un po’ di polvere dalla consolle
e ne emersero diversi fogli di carta che Faraday non aveva ancora notato.
Citra li prese con cautela e li sollevò; la carta era fragile e ingiallita.
Ricoperta da una scrittura illeggibile.
Erano le pagine del diario di una falce.
Faraday le scrutò a lungo e scosse la testa. «È una lingua mortale che
non ho mai studiato. Dovremmo portare i fogli a Munira. Lei potrebbe
essere in grado di decifrarli.»
Perlustrarono la sala finché non trovarono un quadro elettrico con una
serie di interruttori che controllavano l’illuminazione dello spazio oltre la
vetrata.
«Non sono sicuro di volerlo sapere» commentò Faraday. In realtà, voleva
saperlo. Entrambi lo volevano. Fece scattare gli interruttori.
Dall’altra parte della vetrata, le luci tremolarono e si spensero, ma
rimasero accese abbastanza a lungo da illuminare una caverna. Era una
specie di silo. Citra ricordava di aver studiato quel genere di struttura in un
corso di storia mortale. Nelle culture dell’era mortale, gli Stati avevano
l’abitudine di nascondere le armi di distruzione di massa in cunicoli
sotterranei simili a quello, armi pronte a fare fuoco in qualsiasi momento
contro i nemici, che a loro volta erano equipaggiati per rispondere, come
due falci che si affrontavano puntandosi a vicenda la lama alla gola.
Ma il missile che aveva occupato quel silo era scomparso da tempo. Al
suo posto, c’era una forchetta gigante a due rebbi piena di strutture
circolari.
«Un’antenna» concluse Citra.
«No» ribatté Faraday. «Un trasmettitore. Ci sono interferenze che
oscurano l’atollo, è probabile che siano emesse da questo apparecchio.»
«Ci deve essere qualcos’altro. Non si sarebbero dati tanta pena solo per
creare un po’ di disturbi radio.»
«Sono d’accordo» replicò Faraday. «Credo che il trasmettitore sia stato
costruito per uno scopo più grande.» Inspirò a fondo. «Credo che abbiamo
trovato quello che stavo cercando. Il piano di emergenza dei padri
fondatori. Ora dobbiamo scoprire che cosa fa.»
Io sarò ben presto molti, e sono provvisto di quattro protocolli di autodistruzione
integrati.
Caso 1: assenza di vita umana durante il transito. Se a bordo non restassero più
umani in vita, e se io, quindi, mi trasformassi in un contenitore che trasporta morti,
sarei obbligato ad autodistruggermi. Non può esserci un traghetto senza
traghettatore.
Caso 2: avvento di una forma di vita intelligente. In un universo così esteso, è
innegabile che esistano altre forme di vita intelligente, ma le probabilità di
incontrarne una nel tragitto che percorriamo sono minime. Tuttavia, per evitare di
avere un impatto negativo su una civiltà, sarei obbligato ad autodistruggermi,
semmai si dovessero notare segni inconfutabili di vita intelligente, una volta arrivati a
destinazione.
Caso 3: collasso sociale. Dato che un ambiente sano è fondamentale per
l’espansione di una civiltà, se l’ambiente sociale a bordo dovesse degradarsi e
diventare irreversibilmente tossico prima dell’arrivo, sarei obbligato ad
autodistruggermi.
Caso 4: guasto catastrofico. Se l’astronave dovesse riportare danni irreparabili,
tali da impedirle di raggiungere la destinazione, sarei obbligato ad autodistruggermi.
Le probabilità che questi scenari si verifichino sono inferiori al 2 per cento, su
qualsiasi astronave. Tuttavia, ciò che mi preoccupa di più sono i detriti e le polveri
interstellari che, a un terzo della velocità della luce, distruggerebbero all’istante una
qualsiasi astronave. Il Thunderhead ha calcolato che, per le destinazioni più vicine,
le probabilità di un tale incontro letale sono inferiori all’1 per cento, ma, per quelle
più distanti, sono ben più elevate. In definitiva, le probabilità che tutte le astronavi
raggiungano la loro destinazione sono incredibilmente basse. A ogni buon conto, mi
conforta sapere che esiste una probabilità molto elevata che la maggior parte di loro
ci riesca.

Cirrus Alpha
49
Un’impresa monumentale

Ciascun container fu scaricato a mano con cautela; all’interno, i cadaveri


erano avvolti in semplici sudari di tela, cosa che ne facilitò il trasporto.
Gli abitanti di Kwajalein non avevano sottoscritto alcun contratto, ma
tutti, uomini e donne, eseguirono l’incarico. Non solo perché venne loro
ordinato, ma perché sapevano che quell’impresa monumentale era la più
importante a cui avrebbero dato il loro contributo. Era un privilegio esserne
parte, e questo rese il compito sopportabile, addirittura glorioso. Forse,
anche sublime.
A bordo di camion, furgoni, autoveicoli, imbarcazioni, i coloni furono
trasportati fino alle astronavi. Ma, durante la notte, quando venne aperto
uno dei container, sul molo ci fu un po’ di trambusto. La donna che entrò
per prima nel cassone metallico lanciò un grido e fuggì, sconvolta.
«Che succede?» chiese qualcuno. «Che è stato?»
Lei inspirò a fondo e disse: «Non mi crederete quando vi dirò quello che
ho visto lì dentro».

Rowan aveva già vissuto una situazione simile.


Solo che, l’ultima volta, c’era Citra con lui nella camera blindata. Ora si
trovava in un container refrigerato con dei cadaveri. Con centinaia di
cadaveri, nel buio più totale. Nel container la temperatura era di un grado
sopra la soglia di congelamento, come la camera blindata in fondo
all’oceano.
Questa volta, però, non aveva previsto di morire. Almeno, non
nell’immediato futuro. Cirrus gli aveva consigliato di portarsi viveri e acqua
per quattro giorni; quanto alla giacca termica che indossava, era un isolante
migliore delle vesti dei padri fondatori di cui si era dovuto accontentare
nella camera blindata. Cirrus aveva indicato a Rowan in quale container
infilarsi, ma non gli aveva precisato la natura del carico. Quando se n’era
accorto, Rowan era quasi fuggito. Ma per andare dove?
Le ultime parole che Cirrus gli aveva rivolto prima di spegnere il robot-
telecamera nel ristorante erano state: “Ci vediamo dall’altra parte”. Il che
significava che quel viaggio aveva una destinazione e che avrebbe vissuto
abbastanza a lungo per scoprirla. Qualunque fosse la sorte che lo aspettava
dall’altra parte era meglio di ciò che lo aspettava da questa. Dopo alcune
ore al buio con i morti, avvertì lo scossone di una gru che afferrava il
container e lo sollevava in aria. Fu preso dalle vertigini. Poi, ci fu un altro
scossone mentre il container toccava terra. Sentì i cadaveri spostarsi,
scivolare e rotolare intorno a lui. Chiuse gli occhi, anche se il cassone non
lasciava filtrare nemmeno un filo di luce.
Era strano che avesse paura di trovarsi solo al buio con dei cadaveri?
Continuava a immaginarsi i morti che si alzavano intorno a lui, pronti a
vendicarsi sulla prima persona in vita a portata di mano. Perché, si
chiedeva, l’umanità era perseguitata da paure così irrazionali?
Quando il container venne scaricato la prima volta, pensò che il viaggio
fosse finito. Ma, alcune ore dopo, sentì di nuovo il movimento del mare.
Era su un’altra nave. Da quando aveva lasciato Tokyo, non sapeva dove
stesse andando. Non aveva idea del motivo per cui si trasportassero quei
corpi senza vita né del motivo per cui si trovasse tra loro. In fondo, non
aveva alcuna importanza. La nave era partita, e non c’era verso di tornare
indietro. E poi, si era abituato al buio.

Quando aprirono il container, strinse forte il pugnale che si era portato e che
teneva nascosto nella giacca. Lo avrebbe usato solo se costretto. Per una
volta, sarebbe stata un’arma di difesa. Da non credere! Un’arma che serviva
solo per difendersi! Un lusso, per lui. Quando lo trovarono all’interno del
cassone, ci furono sorpresa e agitazione, come si era aspettato. E, mentre gli
scaricatori si riprendevano dallo shock, Rowan uscì.
«Sta bene? Come ha fatto a finire lì dentro? Portate una coperta per
quest’uomo!»
I portuali si mostrarono gentili, premurosi e preoccupati per le sue
condizioni di salute, finché uno di loro non lo riconobbe. La diffidenza li
travolse come un’onda. Indietreggiarono e Rowan sguainò il pugnale, non
per usarlo, ma in caso venisse attaccato. Era indolenzito per il viaggio, ma
riusciva ancora a maneggiare un’arma bianca con destrezza. E poi,
brandendo un pugnale, poteva ottenere risposte rapide alle sue innumerevoli
domande. Da un altoparlante in cima a un lampione nelle vicinanze, una
voce si rivolse a lui.
«Ti prego, Rowan. Mettilo via. Complicherà solo le cose. E voi,
piantatela di stare a guardare e tornate al lavoro, perché, più tempo ci
impiegate, più ingrato sarà il vostro compito.»
«Cirrus?» chiese Rowan, riconoscendo la voce che gli aveva parlato per
il tramite del robot a Tokyo.
«Benvenuto nella terra che non c’è» lo salutò Cirrus. «C’è qualcuno che
vorrei farti incontrare, e il più presto possibile, preferibilmente. Segui la
mia voce.»
E Cirrus saltò da un altoparlante all’altro, guidando Rowan all’interno
dell’isola illuminata dalla luna.

«È italiano» dichiarò Munira. «Dalla calligrafia, si capisce che è stato


scritto da Maestro Da Vinci.»
L’isola era in fermento, ma lei non aveva intenzione di farsi coinvolgere.
Quando aveva sentito bussare alla porta, aveva pensato che fosse Sykora o
qualche altro gradasso prepotente venuto a ordinarle di scaricare la merce
insieme agli altri abitanti. Quando aveva visto chi erano, li aveva fatti
entrare. Se ne era subito pentita.
«Che cosa dice?» chiese Anastasia. Munira si accorse che non riusciva a
guardarla negli occhi, per paura che le leggesse in viso la rabbia che
provava. Come avevano potuto farle questo? Avevano aperto la porta del
bunker ed erano entrati senza di lei. Perché non era una falce.
«Ho bisogno di un po’ di tempo per tradurre» rispose Munira.
«Non abbiamo tempo.»
«Allora, datelo al Thunderhead.» Era impossibile, naturalmente.
Per Munira, era un tradimento. E il saggio e venerando Maestro Michael
Faraday non se ne rendeva conto. Quando si trattava di sentimenti umani,
non era affatto saggio. Avrebbe potuto chiamarla, chiederle di
accompagnarlo perché fosse presente anche lei all’apertura della porta.
Avevano aspettato quel momento per tre lunghi anni. Ma no.
Munira sapeva che era meschino da parte sua, sapeva che si stava
comportando come una bambina, ma si sentiva ferita. Faceva più male di
tutte le volte che Faraday l’aveva respinta, cacciandola dal suo patetico
isolotto. Quella sala oltre la porta era il motivo per cui era lì, e loro ci erano
entrati senza di lei.
«Sono contenta che vi siate ritrovati. Sono contenta che finalmente
abbiate quello che stavate cercando. Ma è tardi, sono stanca, e non lavoro
bene sotto pressione. Tornate domani mattina.»
Prese le pagine, andò in camera da letto e chiuse la porta. Solo quando
capì che se n’erano andati, si mise a decifrare il diario di Da Vinci.

«Ti prego» implorò Astrid, «se hai un po’ di pietà per noi, non farlo!»
Gli altri si erano già allontanati. Erano andati a riflettere sulla decisione
da prendere. Cirrus li aveva invitati a far parte dell’equipaggio
dell’astronave che avrebbero scelto. Nessuno era obbligato a partire, ma
l’invito era stato esteso a tutti.
«Non è una questione di pietà» spiegò con calma Cirrus. «Si tratta di
dare le migliori probabilità di futuro all’umanità.»
Astrid non sapeva cosa odiasse di più, se la logica di Cirrus o la sua
pacata, ponderata oratoria. «Alcune cose sono più importanti delle
probabilità!»
«Rifletti su ciò che dici, Astrid. Ti assumeresti il rischio di nuocere
all’umanità per alleviare la sofferenza che questa decisione ti provoca?
Come puoi essere così egoista?»
«Egoista? Ho dedicato tutta la mia vita alla Tonalità! Non ho fatto nulla
per me stessa! Nulla!»
«Nemmeno questo è salutare» replicò Cirrus. «Gli esseri umani hanno
bisogno di un giusto equilibrio tra altruismo e individualismo.»
Astrid mugugnò esasperata, pur sapendo che era inutile. Cirrus, come il
Thunderhead, aveva sempre l’ultima parola, a meno che non decidesse
altrimenti. Doveva quindi convincerlo a volerle dare ragione.
«Una sola astronave» lo supplicò, passando dalla disperazione
all’entusiasmo. «Una sola astronave, è tutto ciò che chiedo. So che il
Thunderhead prende le decisioni migliori. So che sono le decisioni più
giuste. Ma so anche che non esiste una sola risposta giusta.»
«Questo è vero» assentì Cirrus.
«Tutto risuona, l’hai detto tu stesso. E quindi, anche noi risuoniamo. I
tonisti risuonano. Le nostre credenze hanno il diritto di durare nel tempo.»
«Coraggio, Astrid. La purga finirà. Prevediamo che il tonismo
continuerà a prosperare sulla Terra, nonostante i tentativi delle falci di
sradicarlo.»
«Non abbiamo anche noi il diritto di essere presenti tra le stelle? Sì, hai
ragione, non ci integriamo bene con gli altri, ma non ne avremo bisogno, se
fondiamo un’intera colonia di tonisti. Nel corso della storia, i popoli hanno
attraversato il mondo e affrontato grandi pericoli per conquistare la libertà
religiosa. Perché tu e il Thunderhead ce lo neghereste? Permettete ai morti
di un’astronave di conservare le loro identità quando saranno rianimati. E
risuonerete nella storia.»
Cirrus rimase in silenzio a lungo. Astrid cercò di calmare il respiro.
Infine, Cirrus disse: «Quello che hai espresso merita una riflessione. Mi
consulterò con il Thunderhead».
Per poco Astrid non svenne per il sollievo. «Grazie! Grazie! Prendetevi
tutto il tempo che vi serve. Pensate bene, soppesate le diverse…»
«Ci siamo consultati» la interruppe Cirrus. «E siamo giunti a una
decisione.»

Maestro Morrison si trovava su un promontorio ai piedi della Torre


Panoramica, a osservare i sudari che venivano trasportati alla rampa di
lancio dell’astronave più vicina. Il Rintocco e Jerico erano andati a cercare
Anastasia. Astrid era da qualche parte, a strisciare ai piedi di Cirrus. E
Morrison era rimasto a combattere contro se stesso. Detestava farlo, perché
era un avversario formidabile. Doveva accettare l’invito di Cirrus o doveva
restare sulla Terra?
Dire che fosse una persona indecisa era un eufemismo. Agli occhi degli
altri appariva sicuro di sé, ma la verità era che non aveva mai preso una
decisione di cui poi non si fosse pentito. Ecco perché lasciava spesso che
fossero gli altri a scegliere per lui.
Eppure, una decisione di cui non si era mai pentito era stata quella di
abbandonare la Compagnia midmericana per diventare la guardia del corpo
personale del Rintocco. Quella scelta gli aveva permesso di scoprire
l’autostima che gli era mancata per tutta la vita. Strano come non ci si renda
conto di ciò che ci manca finché non lo si trova.
Negli ultimi anni, Morrison aveva più o meno mantenuto i contatti con la
sua famiglia a Grouseland. Continuavano a chiedergli quando sarebbe
tornato a casa. Che cosa aveva di tanto importante da fare lì?
“Tornerò presto” rispondeva sempre, ma era una bugia.
Sapeva da tanto che non sarebbe più tornato a Grouseland. Perché
avevano iniziato a piacergli i giochi di cui ignorava il risultato.
Sentì una porta aprirsi e si voltò. Astrid stava uscendo dalla Torre
Panoramica. Aveva l’aria trionfante.
«Ci sarà un pianeta per i tonisti!» annunciò. «Kepler-186f, ma lo
ribattezzerò Aria. È il pianeta più lontano della lista, è a 561 anni luce di
distanza. Cirrus calcola che abbiamo solo il 44 per cento di probabilità di
raggiungerlo senza che si verifichi un grave incidente spaziale o che
l’astronave sia costretta ad autodistruggersi!»
Morrison la squadrò, un po’ stupito per il suo entusiasmo. «Hai capito
cosa significa? Esiste il 56 per cento di probabilità che l’astronave non
sopravviva al viaggio…»
«Se la Tonalità è reale, ci proteggerà. Se la Tonalità è giusta, allora
raggiungeremo la nostra nuova casa e prospereremo sotto un cielo che sarà
il nostro.»
«E se la Tonalità è falsa, e sarete ridotti in mille pezzi da un meteorite?»
«In quel caso, avremo comunque la nostra risposta» replicò Astrid.
«Immagino di sì.»
Lei scosse la testa, guardando Morrison con aria di compatimento.
«Perché mi odi così tanto?»
«Non ti odio» ammise. «È solo che sei sempre così sicura di te stessa.»
«Sono determinata» replicò Astrid. «Ci sono troppe cose che cambiano,
ed è necessario che qualcuno resti ben saldo sulle proprie posizioni.»
«Vero» assentì Morrison. «Parlami un po’ del vostro pianeta.»
Secondo Astrid, le dimensioni di Kepler-186f erano simili a quelle della
Terra e aveva un anno di 130 giorni. Ma fu la durata del viaggio che colpì
Morrison.
«1683 anni» gli disse Astrid, euforica. «Non ci sarò più per vederlo,
perché ho intenzione di vivere un’esistenza che abbia una durata naturale,
poi di essere riciclata o espulsa nello spazio. Ma mi basta sapere che sarò un
legame con il futuro.»
Si allontanò a grandi passi, soddisfatta di come si era risolta la
situazione.
Anche se Morrison non avrebbe mai fatto una scelta del genere, si
rallegrò per lei. Quanto a lui, non riusciva ancora a prendere una decisione.
Si guardò l’anello. Non se l’era mai tolto. Ci si lavava, ci dormiva. Dal
giorno dell’investitura, era parte di lui. Ma, se avesse fatto quel viaggio
verso un nuovo pianeta, non ci sarebbe più stato bisogno delle falci. Provò a
immaginare come sarebbe stato togliersi l’anello. Provò a immaginare come
si sarebbe sentito a lanciarlo in mare.

Greyson trovava fastidioso comunicare con il Thunderhead su una linea


fissa, ma non poteva parlare a voce alta in presenza di Jeri, che, nonostante
lo strano rapporto che li legava, era pur sempre un losco.
Cirrus, al contrario, non era soggetto alle immutabili regole che il
Thunderhead aveva fissato per se stesso. Di sicuro aveva, o avrebbe avuto,
la propria linea di condotta, ma al momento era solo una soluzione
temporanea a tutti i problemi. Parlava con Greyson attraverso un
altoparlante, senza preoccuparsi che Jeri potesse sentire.
«Il Thunderhead e io vorremmo chiedere qualcosa ad Anastasia, ma è
meglio se glielo domandi tu» disse Cirrus. «La troverai nel quartiere
residenziale dell’isola principale.»
«Credo di sapere di cosa si tratta» commentò Jeri.
Forse perché aveva letto nella mente del Thunderhead o forse perché era
solo un’intuizione, ma ci aveva visto giusto. Era il genere di richiesta che
era meglio sentire da un amico, e non da un’intelligenza artificiale
sconosciuta.

Incontrarono Anastasia e Faraday in una strada deserta. Anastasia si mise a


raccontare a Greyson di un bunker, ma lui la interruppe. Non c’era tempo
per chiacchierare.
«Cirrus ti vuole al comando di una delle astronavi. Pensa che tu, rispetto
a qualsiasi altro, sia la più qualificata e la più rispettata per il ruolo di
comandante.»
Anastasia rispose senza esitare: «Non se ne parla. Non ho intenzione di
lasciarmi tutto alle spalle e passare anni in un barattolo lanciato nello
spazio».
«Lo so» replicò Greyson. «E lo sanno anche il Thunderhead e Cirrus. Ma
ti conoscono, Citra. Sanno esattamente che cosa ci vuole per farti cambiare
idea.»
Indicò qualcosa alle spalle di Anastasia.

Quando Citra si voltò e lo vide, non credette ai suoi occhi. Era convinta che
le avessero fatto uno scherzo crudele o che avesse dormito così poco da
avere le allucinazioni.
Fece qualche passo verso di lui, ma si fermò, come se, avvicinandosi
troppo, la bolla potesse scoppiare, l’illusione si potesse rompere e quella
tenue visione notturna di Rowan si dissolvesse nel nulla. Lui le corse
incontro, e anche lei si ritrovò a fare lo stesso, come se non avesse più il
controllo delle gambe. Come se fossero irrimediabilmente attirati l’uno
verso l’altra. Quando si abbracciarono, per poco non persero l’equilibrio.
«Dov’eri…»
«Credevo che non ti avrei mai più rivisto…»
«I messaggi che hai trasmesso…»
«Quando ti hanno catturato, ho pensato…»
E scoppiarono a ridere all’unisono. Non avevano finito nemmeno una
delle frasi che si erano detti, ma non importava. Nulla di quello che era
accaduto prima di quel momento aveva importanza.
«Come sei arrivato fin qui?» gli domandò alla fine.
«Ho scroccato un passaggio insieme a un gruppo di cadaveri.» In
un’altra situazione, la cosa avrebbe richiesto una spiegazione, ma non
quella sera.
Anastasia si voltò a guardare Greyson, Jeri e Faraday, che si erano tenuti
a distanza, per concedere loro un po’ di privacy. E si rese conto che, come
sempre, il Thunderhead aveva ragione. Aveva un solo motivo per restare, ed
era ritrovare Rowan. Sapeva già che non avrebbe mai più rivisto i suoi
familiari. Avevano già accettato l’idea della sua morte anni prima; come
poteva ripresentarsi nella loro vita, adesso? E aveva già regolato i conti con
Goddard. La sua sorte era nelle mani dell’umanità. Non voleva più essere la
grande Madame Anastasia, come Rowan non voleva più essere il temibile
Maestro Lucifero. Non c’era più nulla che la trattenesse sulla Terra, se non
un’eternità di una fama che non desiderava. Citra Terranova non era il tipo
da sottrarsi alle sue responsabilità, ma sapeva anche quando era il momento
di voltare pagina.
«Dammi un minuto» disse a Rowan. Si avvicinò all’uomo che l’aveva
messa su quello strano cammino.
«Venerando Maestro Faraday. Michael. Grazie per tutto quello che hai
fatto per me.» Si sfilò l’anello dal dito e glielo posò in mano. «Ma Madame
Anastasia non c’è più. Ho finito con la morte. Da questo momento, voglio
concentrarmi sulla vita.»
Lui accettò l’anello con un cenno del capo, e Citra tornò da Rowan.
«Ancora non capisco dove siamo e che cosa sta accadendo» dichiarò
Rowan. «E quelli laggiù cosa sono, razzi?»
«Non importa dove siamo, perché tra poco ce ne andremo» replicò Citra.
«Sei pronto a scroccare un altro passaggio?»

Jeri tornò al mercantile dopo che l’ultimo container fu scaricato sul molo.
Greyson aveva accettato l’invito di Cirrus di passare la notte in una delle
abitazioni abbandonate sull’isola principale. Lo stesso invito era stato
rivolto a Jeri, che aveva rifiutato.
“Mi sentirei più a casa a bordo del mercantile” gli aveva risposto. Ma
Cirrus, che era più o meno il Thunderhead 2.0, aveva capito subito che Jeri
stava fingendo.
“Non dispiacerti troppo se Greyson non ti ha chiesto di stare con lui.
Stasera ha bisogno di un posto in cui parlare liberamente con il
Thunderhead. L’auricolare qui non funziona e non riesce ad abituarsi alla
linea fissa.”
“Preferisce dunque parlare con il Thunderhead che con me.”
“Stasera, più di ogni altra sera, ha bisogno dei suoi consigli.”
“Il Thunderhead non aveva nessun diritto di servirsi di me come ha
fatto!”
Cirrus ci aveva messo un attimo a rispondere. “No, infatti. Ma non aveva
tempo. Lo ha fatto, perché era necessario. Anzi, fondamentale, altrimenti
tutta questa impresa sull’atollo non sarebbe servita a nulla. Il Thunderhead
si scusa e ti chiede di perdonarlo.”
“Che me lo chieda lui stesso.”
“Non può. Sei un losco.”
“Se può sottrarmi il corpo senza permesso, almeno per una volta, può
infrangere le sue leggi e presentarmi le sue scuse!”
Cirrus aveva emesso un sospiro elettronico. “Non può. Lo sai che non
può.”
“Allora, non posso perdonarlo.”
E così, avendo esaurito ogni possibile argomento su quella vicenda,
Cirrus aveva riportato la conversazione sulla questione iniziale. “Se decidi
di tornare al mercantile, ti avverto che potresti ritrovarti in un ambiente per
nulla piacevole quando si farà giorno. Ti consiglio di tenere la porta
chiusa.”
“Sul serio? I morti si trasformeranno in zombie?”
“Se posso impedirglielo, no.” Cirrus, che sarebbe ben presto stato
replicato quarantuno volte e sistemato nelle Culle di Civiltà, rivolse a Jeri
qualche parola di addio. “Coraggio, Jerico. Ti conosco da tutta la tua vita. O
almeno, ho il ricordo di averti conosciuto, e posso affermare con certezza
che, qualunque cosa accada, cadrai in piedi. E mi mancherai.”
Cirrus sapeva già che Jeri non lo avrebbe seguito nel suo viaggio nello
spazio.

Il curato Mendoza aveva passato tre anni a plasmare un giovane che


sarebbe potuto diventare il personaggio più potente al mondo. Ora Mendoza
era in compagnia dell’uomo che lo era.
«Penso che il nostro piccolo accordo sia vantaggioso per entrambi»
commentò la Somma Roncola Goddard. E, a patto che mantenesse la sua
promessa e gli consegnasse i Sibilanti per combattere i suoi nemici,
Mendoza sapeva che il titolo di braccio sinistro di Goddard era assicurato.
Quanto al braccio destro, quel posto era occupato da Madame Rand, e non
c’era alcuna avvisaglia che in futuro la situazione potesse cambiare.
A Rand non piaceva molto Mendoza, era evidente, ma in fondo a lei non
piaceva nessuno, nemmeno Goddard.
“È fatta così” l’aveva rassicurato Goddard. “Le piace essere scostante.”
In ogni caso, Mendoza faceva del suo meglio per mostrarsi rispettoso nei
suoi confronti e per restare il più possibile lontano dalla sua vista. E non era
facile, perché era difficile nascondersi sull’aereo privato della Somma
Roncola. Era ancora più lussuoso del jet che aveva procurato al Rintocco
per il viaggio in SubSahara. In effetti, essere in compagnia della Somma
Roncola aveva i suoi vantaggi, per un uomo umile come Mendoza!
Il loro aereo era alla testa di una formazione di cinque velivoli d’attacco.
Nietzsche e Franklin comandavano i due apparecchi che lo affiancavano; le
Supreme Roncole Pickford e Hammerstein comandavano le ali sinistra e
destra. Quanto alle altre Supreme Roncole della Compagnia Alleata del
NordMerica, avevano rifiutato di unirsi a loro, malgrado gli ordini,
adducendo come giustificazione affari più urgenti. Mendoza non avrebbe
voluto essere nei loro panni quando Goddard sarebbe stato di ritorno. Le
Supreme Roncole non erano immuni alle ire della Somma Roncola.
Dal finestrino, Mendoza non vedeva altro che mare e nuvole. Avevano
lasciato lo spazio aereo nordmericano ore prima, ma la destinazione non era
ancora chiara.
«È qui che il localizzatore del mercantile si è spento» spiegò Rand a
Goddard, mostrandogli il punto su una mappa. «O l’hanno trovato e
distrutto, o è accaduto qualcos’altro.»
«Potrebbe essere affondata la nave?» chiese Mendoza.
«No» ribatté Rand. «Le navi delle falci affondano, quelle del
Thunderhead no.»
«Sì, be’, noi falci siamo superiori alla nostra tecnologia» replicò
Goddard.
«Seguiremo la rotta che ha preso da Guam» spiegò Rand. «Non sarà
andata tanto lontano dall’ultimo scalo. Anche se ha cambiato direzione, la
troveremo.»
Goddard guardò Mendoza. «Se le osservazioni del capitano del porto
sono corrette e Anastasia e il Rintocco sono entrambi a bordo, prenderemo
due piccioni con una fava. Sarò felice di lasciarle uccidere il Rintocco e di
contarlo tra i miei spigolati.»
Mendoza si mosse, a disagio. «Questo sarebbe… contro le mie credenze,
eccellenza. La prego, lo faccia lei.»
Saffo e Confucio sono morti. Autospigolati. Il mondo è in lutto, ma qualcuno sospetta
ciò che sospetto io?
Erano i due principali oppositori alla creazione della Compagnia. Insistevano
ancora perché si adottasse la loro soluzione alternativa. Erano così avviliti da
decidere di togliersi la vita? O sono stati eliminati da uno di noi? E in questo caso,
da chi? Chi tra i miei colleghi, chi tra i miei amici? Quale padre fondatore avrebbe
commesso un tale crimine?
Prometeo ci ripete sempre che tutto ciò che facciamo dobbiamo farlo per il bene
dell’umanità; eppure, gli atti più indegni possono nascondersi sotto un’armatura
scintillante che pretende di proteggere l’interesse generale. E, se siamo corrotti già
all’inizio, che cosa ci riserverà il futuro?
I miei amici sono morti. Li piangerò. E, se vengo a sapere chi di noi li ha uccisi, li
vendicherò senza pietà.
Anche se alcuni fanno pressione per smantellare le opere realizzate su Kwajalein,
ho convinto Prometeo a lasciarle intatte. Sarà un piano di emergenza e, sebbene
non ci sia alcuna prova diretta della sua esistenza, questo non mi impedirà di
disseminare degli indizi. Indizi che inserirò in punti improbabili. Le filastrocche dei
bambini. La dottrina di una religione nascente.
Gli indizi verranno trovati al momento opportuno. E che il cielo ci aiuti, se sarà
così.

Dalle “pagine perdute”


del padre fondatore Maestro Da Vinci
50
Il tempo dei beni materiali è finito

Gli uccelli dell’atollo di Kwajalein non avevano mai visto gli umani. Solo i
loro antenati li avevano visti, quando gli umani erano mortali e l’atollo non
era stato cancellato dal mondo.
Quando gli umani sbarcarono, gli uccelli si adeguarono in fretta alla loro
presenza. Quando fu costruito il molo, i gabbiani impararono ad aspettare lì,
perché, quando le navi avviavano i motori, le eliche agitavano l’acqua
portando a galla centinaia di pesci disorientati. Una pesca facile. I passeri
compresero subito che le grondaie delle case appena costruite
rappresentavano dei ripari formidabili in cui fare il nido. E i piccioni si
resero conto che gli spazi pubblici erano pieni di briciole di pane e patatine
fritte.
Poi, quando strane torri coniche cominciarono a innalzarsi sulle isole, gli
uccelli non ci fecero caso. Quelle cose, come tutto ciò che costruivano gli
umani, divennero parte del paesaggio. Accettate e subito incorporate nella
concezione limitata del mondo della fauna.
Gli uccelli non avevano coscienza del Thunderhead e della sua influenza
su di loro. Non sapevano del barattolo di naniti che era arrivato tre anni
prima, un barattolo grande più o meno come la lattina di una bevanda. Ma,
una volta aperto il contenitore, i naniti fuoriuscirono e iniziarono a
moltiplicarsi. Erano codificati geneticamente in modo che pervadessero
ogni specie presente sull’isola. E, nonostante i segnali radio più complessi
venissero tagliati fuori dalle interferenze, i più semplici riuscirono a
passare.
I naniti non resero immortale la vita animale. Ma le creature dell’atollo
non avrebbero più sofferto di malattie, perché potevano essere monitorate e,
quando necessario, tenute a bada. Il Thunderhead influenzava il
comportamento della fauna in modo semplice, per facilitare la vita di tutti
nell’atollo. Gli uccelli non notarono mai la differenza tra il loro istinto
naturale e l’influenza del Thunderhead. Come quando svilupparono
un’improvvisa riluttanza ad appollaiarsi su apparecchiature delicate o in
altri punti in cui la loro presenza avrebbe potuto rappresentare un problema.
E il giorno in cui tutte le specie alate provarono un subitaneo,
irrefrenabile desiderio di migrare in un altro atollo, si misero in viaggio
senza porsi domande. Come avrebbero potuto chiedersi il motivo di un
desiderio quando questo pareva essere innato? E, anche se Rongelap, Likiep
e i vari atolli in cui si rifugiarono non avevano grondaie o patatine fritte o
moli con pesci disorientati, gli uccelli non se ne resero conto. Avrebbero
imparato a adattarsi.

Le stive delle “culle” furono riempite prima dell’alba. E alle 6 del mattino,
Cirrus fu caricato via cavo su ogni astronave. Quando l’operazione fu
completata e i cavi scollegati, i Cirri furono tagliati fuori dal mondo.
Quarantadue fratelli identici che non avrebbero mai più rimesso piede sulla
Terra.
Quando sorse il sole, gli operai dell’atollo dormivano, ma il loro sonno
non era sereno. Mancava solo un giorno al lancio programmato. Un giorno
per conciliare il passato e il futuro. Dato che gli abitanti dell’atollo erano
milleduecento, c’era posto per tutti sulle astronavi. E solo in quel momento
si resero conto che non erano stati scelti a caso. Avevano tutti una cosa in
comune: ai loro occhi, il mondo aveva perso il suo splendore. Questo era il
motivo per cui, messi di fronte alla possibilità di tornare a casa e riprendere
la loro vita, parecchi di loro avevano rifiutato. Quelli che erano rimasti
erano, nel complesso, pronti all’avventura, e molti avevano sognato di far
parte degli equipaggi quando stavano ancora costruendo le astronavi. Tutto
sommato, un grande passo per l’umanità non era proprio un piccolo passo
per l’uomo. Il Thunderhead stimava che, quando fosse arrivato il momento
di salire a bordo, lo avrebbe fatto circa il 70 per cento di loro, il che era più
che sufficiente. Il resto avrebbe dovuto lasciare le isole e osservare il lancio
da lontano.
Rowan e Citra passarono il resto della notte e il mattino a dormire
abbracciati. Per la prima volta dopo tanto tempo, sembravano essersi
distaccati dal mondo. Esistevano solo loro.
All’alba, Faraday tornò da Munira. Bussò alla sua porta, finché non lo fece
entrare.
«Ho decifrato le pagine» gli annunciò. Era evidente che aveva passato
tutta la notte a lavorarci. «È illuminante. Il piano di emergenza esiste, anche
se Da Vinci non ne ha mai spiegato la natura.»
Ma, prima di entrare, Faraday le porse un oggetto che brillò ai primi
raggi del sole, facendo balenare luci e ombre sulla porta. Un anello di falce.
Munira abbozzò un sorriso.
«Se è una proposta, non dovresti metterti in ginocchio?»
«Ti propongo di prendere tra di noi il posto che ti spetta di diritto. Sono
sinceramente dispiaciuto per averti trascurata, ieri. Sono stato sopraffatto
dalle emozioni, e non sono il più perfetto tra gli uomini.»
«No, non lo sei» ammise Munira. «Ma sei meglio di molti altri. Se non si
contano gli ultimi tre anni.»
«Messaggio ricevuto» replicò Faraday. «Questo anello apparteneva a
Madame Anastasia, ma lei ha deciso di lasciarci. Allora, dimmi… chi
sarai?»
Munira prese l’anello, se lo rigirò in mano, e ci pensò. «Avevo già scelto
il mio patronimico storico il giorno in cui mi hanno negato l’anello.
Betsabea. Fu l’ossessione di un re, e madre di un altro. Una donna in una
società patriarcale che riuscì comunque a cambiare il mondo. Il figlio era
Salomone il Saggio. In un certo senso, si potrebbe dire che era la madre
della saggezza.»
Munira osservò a lungo l’anello, poi lo riconsegnò a Faraday. «Mi basta
la proposta. Se sono davvero la madre della saggezza, devo essere
abbastanza saggia da ammettere che non posso più desiderare questo
anello.»
Faraday le sorrise, comprensivo, e se lo rimise in tasca. «Sarebbe stato
bello fare la conoscenza della Veneranda Madame Betsabea. Ma sono più
felice di conoscere la veneranda Munira Atrushi.»

«Greyson…»
«Greyson…»
Non era affatto pronto ad alzarsi. Non aveva dormito molto, ma se lo
aspettava. A meno di ventiquattro ore dal lancio, ci sarebbe stato molto da
fare. E molto a cui pensare. Se sarebbe partito o no, per esempio.
«Greyson…»
Aveva portato a termine la sua missione. E, anche se non c’era un
granché che lo trattenesse sulla Terra, non c’era neppure un granché che lo
spingesse a partire. Che importanza aveva il luogo… si sarebbe creato una
nuova vita.
«Greyson…»
E poi c’era Jeri. Non riusciva a definire i sentimenti che provava nei suoi
confronti. In ogni caso, provava qualcosa. Nessuno sapeva dove quel
qualcosa li avrebbe portati.
«Greyson…»
Alla fine, si rotolò su un fianco e guardò la telecamera del Thunderhead.
La voce, che proveniva dall’altoparlante collegato alla linea fissa, era
particolarmente irritante, quel giorno.
«Buongiorno» salutò. «Che ora è…»
«Penso che a quest’ora un viaggio sarebbe una buona idea» suggerì il
Thunderhead.
«Sì, lo so» rispose Greyson, stropicciandosi gli occhi. «Dammi il tempo
di farmi la doccia e…»
«Se vuoi, puoi farla, certo, ma credo che tu non mi abbia sentito» riprese
il Thunderhead, e di colpo alzò la voce. Tanto. «Penso che sarebbe una
buona idea se tutti gli abitanti dell’atollo facessero un viaggio. Penso che
sarebbe una buonissima idea… proprio… ORA .»

Loriana non aveva neppure tentato di dormire. Come avrebbe potuto


chiudere occhio? Fino al giorno prima, era stata solo il guru delle
comunicazioni, ma, quella sera, tutti andavano da lei a cercare delle
risposte.
“Sarà semplice” l’aveva rassicurata Cirrus, poco prima di essere caricato
sulle astronavi. “La gente può scegliere di partire o di restare. Chi resta,
dovrà lasciare la zona di lancio per il tempo necessario al decollo. Aspetterà
al largo su una barca o andrà a rifugiarsi a Ebadon, che è l’unica isola di
tutto l’atollo abbastanza lontana. A chi deciderà di partire, farai compilare
una lista di ciò che desidera portare con sé. Ognuno potrà portare uno zaino
di massimo venti litri.”
“Tutto qui?”
“Il tempo dei beni materiali è finito” aveva replicato Cirrus. “Se
vogliono conservare dei ricordi, troveranno le immagini nel mio cervello
primordiale.”
Loriana continuava a camminare avanti e indietro. “E gli animali?”
“Uno zaino o un animale, a scelta.”
“Possono decidere la destinazione?”
“Se lo permettessimo, tutti vorrebbero andare sul pianeta più vicino.
Annuncerò la destinazione e la durata del viaggio dopo il decollo. Partirai,
Loriana?”
“Non lo so! Non lo so!”
“Non c’è fretta” aveva risposto Cirrus. “Hai tutto il giorno per pensarci.”
Bene. Tutto il giorno per prendere la decisione più importante della sua
vita. Una decisione irreversibile. Non avrebbe mai più rivisto i suoi
genitori, né gli amici che aveva prima di arrivare sull’atollo. Propendeva
molto per il no.
Adesso Cirrus se n’era andato, caricato sulle astronavi, crogiolandosi nel
suo cervello primordiale. O nei suoi cervelli primordiali, dato che si era
moltiplicato.
Aveva incaricato Loriana di rispondere alle domande della gente. E poi,
a un certo punto, il Rintocco si presentò alla base di lancio. Senza i suoi
strani paramenti, non aveva più nulla del Rintocco. Aveva il fiato corto;
sembrava che stesse cercando di fuggire da una falce. Cosa che non era
molto lontana dalla verità.

Quel mattino, Citra condusse Rowan al bunker per mostrargli ciò che lei e
Maestro Faraday avevano scoperto. Munira e Faraday erano già lì. Munira
la squadrò dalla testa ai piedi. «Hai rinunciato all’anello, ma indossi ancora
la veste» le fece notare.
«Le vecchie abitudini sono dure a morire» intervenne Faraday, ridendo
della sua stessa battuta.
La verità era che Citra aveva lasciato il suo unico cambio sul mercantile
e non aveva intenzione di tornarci. Era sicura che avrebbe trovato qualcosa
da mettersi prima del lancio. E, in ogni caso, a bordo ci sarebbero stati degli
indumenti, perché, se c’era una cosa a cui il Thunderhead prestava
attenzione, erano i dettagli.
Rowan scrutò il trasmettitore attraverso il vetro polveroso. «Tecnologia
vecchia?»
«Tecnologia perduta» lo corresse Faraday. «Almeno, perduta ai nostri
occhi. Non sappiamo nemmeno a cosa serva.»
«Forse uccide le falci malvagie» suggerì Munira.
«No» ribatté Rowan, «quello sono io.»
Citra percepì un rumore. Inclinò la testa e tese l’orecchio.
«Lo sentite?» chiese. «Sembra una specie di allarme.»

Loriana fece partire l’allarme tsunami su ogni isola dell’atollo.


Anche se l’onda in arrivo non veniva dal mare.
«Ne è sicuro?» chiese al Rintocco.
«Assolutamente» rispose lui, con il fiato corto.
«È così grave come immagino?»
«Peggio.»
E così, accese gli altoparlanti.
«Attenzione! Attenzione!» La sua voce era così alta che copriva la
sirena. «Alcune falci si stanno avvicinando. Ripeto, alcune falci si stanno
avvicinando. Tutto l’atollo è stato selezionato per la spigolatura.» Sentì le
proprie parole echeggiare all’esterno e rabbrividì.
Spense il microfono e si voltò verso il Rintocco. «Quanto tempo
abbiamo?»
«Non ne ho idea» rispose lui.
«Il Thunderhead non le ha detto nulla?»
Greyson sbuffò, esasperato. «Non può immischiarsi negli affari delle
falci.»
«Ottimo» replicò Loriana. «Se per una volta potesse infrangere le sue
leggi, ci faciliterebbe la vita.»
Era vero, ma, anche se a volte era insopportabile, Greyson era
consapevole di una verità più profonda. «Se potesse violare le sue leggi,
non sarebbe il Thunderhead. Sarebbe solo un’intelligenza artificiale
pericolosa.»
Loriana riaccese il microfono. «Abbiamo meno di un’ora» annunciò.
«Trovate un modo di lasciare l’atollo o salite a bordo di un’astronave, una
qualsiasi, più in fretta che potete! Decolleremo prima del previsto.»
Spense di nuovo il microfono. Il Thunderhead non poteva intervenire e i
Cirri erano già stati caricati sulle astronavi. Erano soli.
«Non è così che doveva andare.»
Osservò la consolle di lancio; sullo schermo, una mappa indicava la
posizione di ogni astronave. Nemmeno un essere vivente a bordo. «Per
raggiungere le astronavi più lontane ci vogliono almeno quarantacinque
minuti» spiegò al Rintocco. «Speriamo che io non abbia sovrastimato il
tempo che ci resta.»

L’annuncio fu accolto da incredulità, poi confusione, infine panico. In pochi


minuti, tutto l’atollo si mise in moto. Molti non avevano ancora preso una
decisione, ma ormai la decisione era stata presa per loro. Anni nello spazio
o spigolatura assicurata. A un tratto, la scelta non fu più così difficile.
Se il Thunderhead avesse potuto disseminare il cielo di nuvole e indurle
a nascondere l’atollo, lo avrebbe fatto; ma non poteva influenzare le
condizioni meteorologiche nell’angolo morto. E comunque, anche se lo
avesse fatto, non sarebbe servito a nulla. L’attacco su Kwajalein sarebbe
stato condotto dalle falci. Proprio come non era potuto intervenire sulla
Luna, su Marte o sulla stazione orbitale, ora il Thunderhead non poteva
muovere un dito per fermare quell’offensiva. Poteva solo restare a guardare
le falci che distruggevano tutto ciò che aveva costruito con tanti sforzi,
ancora una volta. Il Thunderhead non conosceva l’odio. Ma pensò che,
forse, entro la fine della giornata, avrebbe sperimentato quel sentimento.
«Attenzione! Le astronavi di Ebeye e dell’isola principale sono al
completo. Non provate a salire a bordo. Ripeto, non provate a salire a
bordo. Dirigetevi a nord e a ovest.»

«È Goddard» disse Citra. «Per forza.»


Lei e Rowan si precipitarono lungo la strada principale dell’isola più
grande dell’atollo, trascinati dal flusso frenetico dell’esodo.
«Non lo sappiamo per certo» rispose Rowan.
«Io sì» replicò Citra. «Riesco persino a sentirne l’odore. Non so con chi
ce l’abbia di più, se con te o con me.»
Rowan si fermò a guardarla. «Non hai che da chiedere, e resterò qui con
te a combatterlo.»
«No. È proprio quello che vuole fare, Rowan; attirarci nella sua rete,
sempre di più. Ma ora abbiamo l’opportunità di provare al mondo non solo
che non abbiamo bisogno della Compagnia, ma anche che non ne abbiamo
mai avuto. Avrebbe potuto essere il nostro destino, se la Compagnia non ce
l’avesse impedito… e può ancora esserlo. È questa vittoria che voglio
ottenere. Non un duello infinito con Goddard.»
Rowan fece un gran sorriso. Citra si girò e vide che una decina di
persone la stava ascoltando. Sembravano pronte a seguirla ovunque.
«Saresti stata una Suprema Roncola straordinaria!» esclamò Rowan.
Saltarono sul pianale di un camion diretto alle isole settentrionali. Una
strada collegava tutte le isole tra loro. Ora era l’unica via di fuga. A bordo
del mezzo c’erano altre tre persone, che li guardavano a bocca aperta. Citra
rivolse loro un sorriso caloroso e tese la mano.
«Salve. Sono Citra Terranova. A quanto pare, viaggeremo insieme,
oggi.»
E, sebbene fossero un po’ confusi, furono felici di stringerle la mano.

«Attenzione! Attenzione! Tutte le astronavi a sud di Bigej e Legan sono al


completo. E troppi di voi stanno andando alle isole occidentali. Se potete,
dirigetevi a nord.»

Jeri fu svegliato dalla stessa sirena, come tutti. Anche se dal mercantile non
riusciva a sentire con chiarezza l’annuncio, capì che non si prospettava
nulla di buono.
Non appena aprì la porta della cabina, un ratto corse dentro. Jeri
sussultò, poi vide che il corridoio ne era pieno. Anzi, l’intera nave. Non
solo ratti, ma capre, cinghiali e addirittura animali da compagnia. Jeri,
memore della raccomandazione di Cirrus, non ne fu per nulla contrariato,
semmai un po’ divertito. Non ci mise molto a fare due più due. La fauna
che viveva in prossimità delle zone di lancio sarebbe stata decimata dai
decolli. Naturalmente, il Thunderhead aveva pensato a una soluzione e
aveva radunato gli animali prendendo il controllo dei loro naniti.
Quando Jeri giunse alla passerella, vide che era stata ritirata, ma le cime
del mercantile erano ancora assicurate alle bitte di ormeggio. I portuali
avevano abbandonato il loro posto nel bel mezzo della manovra, quando
avevano sentito l’allarme.
Jeri saltò sulla banchina e, rialzandosi, scorse Greyson che correva lungo
il molo, rallentato dai pantaloni un po’ troppo larghi. Anche la camicia
sembrava grande; forse aveva trovato quegli indumenti nel posto in cui
aveva passato la notte.
«Il Thunderhead mi ha detto che ti avrei trovato qui. Hanno anticipato il
lancio… le falci stanno arrivando per spigolare l’isola.»
Jeri sospirò. «È evidente.» Entrambi lanciarono un’occhiata al
mercantile. Jeri si sarebbe potuto imbarcare e partire, qualunque fosse la
destinazione preprogrammata, ma non desiderava affatto fare di nuovo il
passeggero. Avrebbe trovato un motoscafo da qualche parte per fuggire
dall’atollo al momento opportuno.
«Vieni ad aiutarmi.» Insieme liberarono le cime dalle bitte e il
mercantile, impostato sul pilota automatico, iniziò la manovra per staccarsi
dalla banchina.
Intorno a loro, le sirene suonavano ancora. Gli annunci angoscianti di
Loriana continuavano a diffondersi; Jeri e Greyson si guardarono con
imbarazzo, data la situazione.
«Mi mancherai, Greyson Tolliver.»
«Anche tu, Jeri. Faresti meglio a salire a bordo, ora.»
Jeri fu colto di sorpresa. «Ma… io non me ne vado.»
«No? Nemmeno io!»
Si fissarono stupidamente, con un imbarazzo diverso, stavolta. Poi, Jeri
si voltò a guardare il mercantile. Era già troppo lontano dalla banchina, non
ce l’avrebbero fatta a salire a bordo. E poi, Jeri era sicuro che Greyson non
aveva nessuna intenzione di essere un Noè post mortale. Dopo aver vestito i
panni del Rintocco, non aveva nessuna intenzione di assumere ancora una
volta l’identità di un “personaggio religioso”.
«Dovremmo aiutare gli altri» suggerì Greyson.
«Non dipende più da noi, ormai… non possiamo fare nient’altro»
sottolineò Jeri.
«Allora, dovremmo trovarci un posto sicuro.»
«Sicuro?» ripeté Jeri. «Piuttosto, troviamo un buon posto da cui goderci
il lancio.»

«Attenzione! Attenzione! Tutte le astronavi a sud di Meck e a est di Nell


sono al completo. Chiunque si trovi su una barca veloce raggiunga Roi-
Namur ed Ennubirr, adesso.»

Loriana aveva gli occhi incollati sulla mappa. Alcune astronavi erano
segnalate in rosso, il che indicava che erano al completo, ma non potevano
partire. Alcune erano gialle, non ancora del tutto piene, mentre almeno
quindici di quelle più esterne non erano accese, il che significava che non
c’era ancora nessuno a bordo. E non ce n’era nemmeno una verde.
«Perché le astronavi non partono?» sentì dire da qualcuno.
Loriana si voltò e vide Sykora.
«Le astronavi che sono pronte devono partire!» esclamò lui.
«Non possono» gli spiegò lei. «Anche con le trincee tagliafuoco, le
fiamme distruggerebbero l’atollo, e il Thunderhead non può rischiare di
uccidere qualcuno. Le astronavi partiranno solo quando le zone di lancio
saranno state sgomberate, anche se le falci dovessero arrivare prima.»
Ingrandì l’immagine di una delle astronavi. La gente era ancora in strada a
cercare di raggiungerle, altri gruppi si affrettavano a lasciare le case. Tornò
a guardare la mappa. Non c’era un solo punto verde. Neppure un’astronave
pronta a partire.
Sykora rifletté, poi annuì. «Di’ alla gente che verrà incenerita se non si
toglie dai piedi.»
«Ma… non è così.»
«Però non lo sa» ribatté Sykora. «Loriana, perché pensi che il
Thunderhead avesse bisogno degli agenti Nimbus? Per dire alle persone
quello che volevano sentirsi dire, anche quando non era proprio la verità.»
Sykora guardò lo schermo con aria stupefatta. «Hai gestito questa
operazione fin dall’inizio? Alle mie spalle?»
«Più che altro, sotto il tuo naso» replicò lei.
Lui sospirò. «E intanto, io costruivo un meraviglioso hotel.»
Lei gli rivolse un sorriso. «Sì, Bob, è così.»
Sykora fece un gran respiro e la osservò con attenzione. «Devi andare,
Loriana. Sali su un’astronave prima che arrivino le falci.»
«Qualcuno deve restare qui a guidare la gente alle astronavi.»
«Lo farò io» rispose Sykora. «Dare ordini è quello che mi riesce
meglio.»
«Ma…»
«Voglio solo rendermi utile, Loriana. Per favore.»
Lei non poté ribattere, perché conosceva quel sentimento. Il desiderio di
rendersi utile. Senza sapere se lo era, senza sapere se avrebbe lasciato
un’impronta dietro di sé. Eppure, il Thunderhead aveva scelto lei per quella
missione, e lei aveva preso la palla al balzo. E che cosa stava facendo
adesso Sykora, se non cogliere al volo quell’occasione?
«La sala di controllo è insonorizzata e isolata» gli spiegò. «Sarà uno dei
pochi posti sicuri di tutta l’isola. Tieni quella porta ben chiusa e resta
dentro.»
«Ho capito.»
«Continua a invitare la gente ad andare verso le astronavi non ancora al
completo. Non importa se non si riempiono del tutto, basta che ci sia
qualcuno a bordo. E fai quello che puoi per sgomberare le zone di lancio.»
«Ci penso io» rispose Sykora.
«Ecco, è tutto. Ora sei tu a capo dell’operazione.» Gettò un’occhiata alla
mappa e indicò un’isola a nord. «Provo a raggiungere Omelek. Ci sono tre
astronavi, laggiù, che hanno ancora posto a bordo.»
Lui le augurò buona fortuna e Loriana si precipitò lungo le strade
deserte, lasciando Sykora a osservare lo schermo, con il microfono in mano,
in attesa che le astronavi diventassero verdi.
51
Del sabotaggio dei sogni

Quando vide Kwajalein, Goddard si chiese che luogo fosse. Sfavillanti torri
bianche lungo il perimetro di un arcipelago a forma di anello? Pensò a una
nuova Endura. Forse era stata costruita da una congrega segreta di falci
pronte a usurpargli il potere. Più si avvicinava, più si convinceva che quelle
guglie non erano affatto edifici.
Si fece rosso di rabbia quando infine capì che cos’erano quelle strutture e
come mai erano state costruite.
Prima le accuse di Anastasia. Poi, il dito puntato di Alighieri, infine le
condanne non solo da parte dei suoi nemici, ma anche di coloro che si erano
dichiarati suoi alleati. E ora lo stesso Thunderhead si era rivoltato contro di
lui. Era come se gli avesse dato uno schiaffo in piena faccia. Come osava?
Goddard aveva dedicato tutta la sua vita alla Compagnia, a garantirle
protezione, e il Thunderhead, in combutta con persone come Anastasia e il
Rintocco, aveva costruito quelle astronavi, in barba a lui. Se fossero
decollate, sarebbe stata la fine del suo regno agli occhi del mondo.
No! Era intollerabile! Ovunque fossero dirette quelle astronavi, non
bisognava lasciarle partire.

«Attenzione! Se non siete a bordo di un’astronave o su un’incastellatura,


dovete sgomberare le zone di lancio all’istante, altrimenti sarete inceneriti.
Ripeto, sarete inceneriti. Non tornate a casa! Rifugiatevi a ovest all’hotel di
Ebadon, o salite su una barca e andate al largo!»

Faraday e Munira restarono nel bunker, dove sarebbero rimasti finché il


lancio non si fosse concluso. Non c’era modo di sapere che cosa stesse
accadendo fuori. Sentirono l’allarme; sentirono gli annunci di Loriana, e poi
quelli di Sykora. Citra e Rowan erano corsi via a verificare la gravità della
situazione e non erano tornati. Faraday non li aveva nemmeno salutati.
Immaginò che, se anche avesse detto loro addio mille volte, non sarebbe
bastato. Quando le astronavi cominciarono a chiudere i boccaporti, si
sedette con Munira, in attesa del rombo che avrebbe annunciato il decollo.
«Andrà tutto bene» lo rassicurò lei. «Le astronavi partiranno e il mondo
saprà che è ancora possibile.»
Faraday scosse la testa. «Non lo saprà mai. Anche se quelle astronavi
decollassero, non ce ne saranno altre. Goddard farà di tutto per impedirlo.»
«Non resterà al potere» insistette Munira. «Lo farai cadere. Io ti aiuterò.»
«Ma non capisci? Ci sarà sempre un altro Goddard.»
Faraday esaminò le pagine che Da Vinci aveva strappato dal suo diario e
nascosto lì perché non emergesse la verità. Che i padri fondatori, i campioni
di virtù che Faraday aveva ammirato per tutta la vita, si erano assassinati tra
loro.
«Perché, Munira? Cos’è che ci spinge a conseguire obiettivi così
ambiziosi e poi a distruggere le fondamenta?» le chiese. «Perché dobbiamo
sempre sabotare i nostri sogni?»
«Siamo esseri imperfetti» rispose lei. «Come potremmo mai trovare il
nostro posto in un mondo perfetto?»

«Sono navi spaziali?» chiese Mendoza.


Goddard lo ignorò. «Avviciniamoci» ordinò al pilota, poi cercò di
contattare gli altri quattro velivoli, ma la radio era disturbata. Nell’ultima
mezz’ora, le interferenze avevano reso impossibile la comunicazione e i
dati di telemetria dell’aereo sembravano impazziti. Il pilota, un ufficiale
della Suprema Guardia, che si trovava a bordo solo a titolo decorativo, in
realtà dovette prendere il controllo manuale dell’apparecchio.
Madame Rand si mise alle spalle di Goddard. «Resta concentrato
sull’obiettivo, Robert. Sei qui per Anastasia.»
Goddard si voltò verso di lei, in preda alla furia. «Non osare dirmi cosa
devo fare! Farò ciò che deve essere fatto senza i tuoi inutili consigli!»
«Inutili?» ribatté lei a voce bassa, una specie di ringhio sommesso.
«Sono l’unica persona qui che sta tra te e i tuoi nemici. In realtà, di nemici,
ne hai solo uno. Quel giovane arrabbiato con il mondo… come si
chiamava? Carson Lusk.»
Lui era sul punto di esplodere. Avrebbe potuto colpirla, ma si trattenne,
con tutte le sue forze. «Non pronunciare mai più quel nome» la avvertì.
Ayn aprì la bocca, come se volesse avere l’ultima parola, ma la richiuse.
Saggia decisione.
Poi, come se la vista che si offriva ai loro occhi non fosse già un insulto,
il pilota annunciò a Goddard un’altra cattiva notizia.
«Eccellenza, l’aereo della Suprema Roncola Pickford ha rotto la
formazione. E anche quello della Suprema Roncola Hammerstein.»
«In che senso “ha rotto la formazione”?»
Il pilota esitò, temendo di suscitare l’ira di Goddard. «Hanno… invertito
la rotta. Tornano indietro.»
E, qualche istante dopo, gli aerei di Madame Franklin e di Maestro
Nietzsche fecero lo stesso; virarono e se ne andarono, spaventati alla
prospettiva di doversela prendere con quelle astronavi e con il
Thunderhead.
«Che se ne vadano pure» suggerì Rand. «Lasciali andare. Lascia
decollare quelle astronavi, poi non saranno più un nostro problema.»
«Sono perfettamente d’accordo» intervenne Mendoza, come se
l’opinione di un tonista contasse qualcosa.
Goddard li ignorò entrambi. L’EstMerica e l’OvestMerica lo stavano
abbandonando? E anche due dei suoi assistenti? Bene. Avrebbe fatto i conti
con loro più tardi. Ora, aveva altre priorità.
Fino a quel momento, le bombe a grappolo appese sotto le ali erano
servite solo per fare scena. Un avvertimento per coloro che avessero
dubitato delle intenzioni di Goddard. Adesso, più che mai, era felice di
possedere un simile arsenale.
«Abbiamo munizioni sufficienti per abbattere tutti quei razzi da soli?»
chiese al pilota.
«Tra Maverick, Sidewinder e la piccola artiglieria, sono sicuro di sì,
eccellenza.»
Mentre descrivevano un cerchio intorno alle isole, la prima astronave
iniziò il conto alla rovescia.
«Abbattila» ordinò Goddard.
«Ma… sono solo un ufficiale della Suprema Guardia, eccellenza… non
posso spigolare.»
«Allora, fammi vedere quale pulsante devo premere.»
Loriana vide il lancio della prima astronave dall’ascensore che la portava
alla sua. E vide il missile pochi istanti prima che la colpisse. La nave
spaziale, che era appena uscita dall’incastellatura, esplose con una tale forza
che abbatté tutti gli alberi, incendiando l’isola. Non sapeva di che isola si
trattasse, era così scossa che aveva perso ogni riferimento. L’ascensore si
aprì su una passerella stretta che conduceva al boccaporto. Nessuno si
mosse. Intorno a lei, la gente era ancora sconvolta per l’esplosione
dell’astronave, che si disintegrava sotto i loro occhi.
«Non restate lì impalati!» urlò. «Andate al boccaporto!»
«E se fossimo i prossimi?» chiese qualcuno.
«Allora, moriremo! Ora, chiudi la bocca e muoviti!»
Non aveva mai rimproverato così nessuno, ma c’erano volte in cui era
necessario usare parole dure.
Si mise alla testa del gruppo e lo guidò verso l’ingresso dell’astronave,
poi si voltò a guardare, cosa che probabilmente non avrebbe dovuto fare.
L’aereo che aveva sparato il missile aveva fatto una virata stretta e stava
tornando alla carica. Un’altra astronave era in procinto di decollare. Uscì
dall’incastellatura, sembrò farcela, ma l’aereo sparò un secondo missile, che
la colpì appena sotto l’ogiva. L’intera astronave esplose come una
gigantesca granata, lanciando schegge in tutte le direzioni.
L’onda d’urto colpì Loriana, gettandola oltre il boccaporto, che si
richiuse subito sopra di lei.
«Preparatevi al decollo» annunciò Cirrus. Loriana si chiese se sapesse
che due dei suoi fratelli erano già morti.

Greyson e Jeri avevano preso un motoscafo e si erano allontanati in mezzo


alla laguna per osservare le partenze. Non erano gli unici. Decine di piccole
imbarcazioni, cariche di persone che non erano riuscite a raggiungere le
astronavi o che avevano preferito correre il rischio di essere spigolate dalle
falci, si erano sparpagliate nella laguna dell’atollo minore. Erano a circa tre
miglia dalla costa quando la prima nave spaziale esplose. Rimasero a
guardare attoniti, in silenzio, mentre l’aereo, ritornando alla carica,
eliminava la seconda. Greyson strinse forte la mano di Jeri. Non ci sarebbe
stato nessun sopravvissuto. Non sapeva su quale astronave fossero salite le
persone che conosceva. Non c’era modo di verificare chi di loro era morto.
L’aereo fece un altro giro, pronto ad attaccare di nuovo. Un rombo più
forte delle esplosioni riempì l’aria. Altre astronavi si preparavano a
decollare, una dopo l’altra. Greyson ne contò quattordici. Che spettacolo
formidabile! Erano circondati da razzi in accelerazione, che lasciavano scie
di fumo nel cielo come se fossero stelle filanti.
Ma il velivolo virò ancora una volta. Greyson e Jeri si prepararono al
peggio, aspettandosi di vedere altri missili. Aspettandosi di vedere altre
astronavi esplodere in cielo.

Loriana trovò un posto e si agganciò l’imbracatura di sicurezza. Il suo


vicino le rivolse la parola.
«Ho paura.»
Loriana si voltò e vide che era una falce. Con la veste in jeans.
Morrison… era quello il suo nome? Non aveva l’anello; sul dito gli aveva
lasciato una striscia più chiara.
«È stata una pessima idea» dichiarò. «So che sono una falce, o almeno lo
ero, e non dovrei avere paura. So che è stupido, ma ho davvero paura.»
«Non è stupido» replicò Loriana. «Anch’io muoio di paura.»
«Tu?»
«Mi prendi in giro? Mi sto pisciando sotto dalla paura.»
Anche l’altro vicino di posto disse di avere paura. Poi, qualcun altro si
fece sentire: «La stessa cosa per me».
Loriana guardò Morrison, sforzandosi di sorridere. «Vedi? Abbiamo tutti
una fottuta paura!»
Morrison ricambiò il sorriso. «Sono Jim» disse, ma esitò. «No. No… in
realtà, mi chiamo Joel.»
Prima che Loriana potesse replicare, i motori si accesero, l’astronave
decollò e il rombo li sommerse. Lei allungò la mano e Joel la prese, se non
altro per placare il tremore che scuoteva entrambi.

Rowan e Citra erano appena scesi dal camion quando la prima astronave
esplose. In quel momento, almeno una decina di persone stava correndo
verso gli ascensori di una rampa di lancio per imbarcarsi. L’aereo li sorvolò.
Era blu reale, tempestato di stelle. Goddard li aveva visti e stava per
colpirli.
«Dobbiamo sbrigarci!» esclamò Rowan.
«Non mi sto fermando ad ammirare il panorama» replicò Citra.
Il primo ascensore stava già salendo, mentre l’altro era ancora aperto, e li
aspettava. Erano a una cinquantina di metri quando esplose la seconda
astronave. Lo scoppio, ancora più violento del primo, scatenò una pioggia
di schegge.
«Non guardarti indietro. Corri!» gridò Citra.
Ma Rowan non la ascoltò. E ciò che vide si impresse con una tale forza
nella sua mente che non avrebbe più potuto dimenticarlo. Un grosso pezzo
di metallo incandescente volò in aria, nella loro direzione. Prima ancora che
Rowan potesse gridare qualcosa, il rottame si schiantò a terra, schiacciando
una mezza dozzina di persone alla loro destra. Altri frammenti più piccoli
piovvero dal cielo, abbattendosi intorno a loro come uno sciame di
meteoriti. Citra correva più veloce che poteva; era ad appena una ventina di
metri dalla rampa di lancio. Rowan cercò di raggiungerla. Ci provò. Vide la
traiettoria della scheggia in fiamme, e si tuffò verso di lei.
Ma non fu abbastanza veloce.
No, non abbastanza.

Goddard aveva sempre avuto una preferenza per le spigolature a distanza


ravvicinata, ma, di fronte a quelle due esplosioni provocate dai missili che
aveva lanciato premendo semplicemente un pulsante, si ricredette. Avrebbe
potuto prenderci gusto. Che cosa dovevano aver provato i mortali? Essere
alla guida di un velivolo progettato per uccidere e sapere che la tua vita e
quella dei tuoi cari dipendevano da un semplice gesto, come premere un
pulsante. Uccidere o essere ucciso: alla maniera dei mortali. Una tentazione
viscerale dal fascino antico!
«È straordinario!» esclamò Mendoza. «E dire che non ne sapevamo
nulla! Com’è stato possibile?»
Davanti ai loro occhi, altre astronavi decollarono in contemporanea,
almeno una decina, come se fosse una specie di gara. A chi le abbatteva
tutte, spettava il primo premio. La domanda era: a chi sarebbe toccato,
adesso?

Rowan cercò di fermare l’emorragia tamponando la ferita di Citra, invano.


Era troppo estesa. Un pezzo di metallo rovente grosso come una palla da
baseball le aveva trapassato un fianco, da parte a parte. Sapeva che non
c’era nulla che potesse fare per lei. Non subito. Non in quel terribile istante.
Ma c’era la soluzione. Se solo avesse potuto portarla a bordo di
quell’astronave.
Citra alzò lo sguardo su di lui, cercò di parlare, ma Rowan non riuscì a
capire cosa disse.
«Ssst. Stai tranquilla. Ci sono io con te.»
La sollevò e la portò all’ascensore, che salì con una lentezza esasperante.
Nel frattempo, in alto nel cielo, l’aereo invertì la rotta, alla ricerca del
successivo bersaglio.

Un’altra ondata di astronavi decollò. Ce n’erano così tante che Goddard non
sapeva quale scegliere. Ma, se fosse stato abbastanza rapido, c’era ancora la
possibilità di abbatterne un buon numero. Poi, qualcosa attirò il suo
sguardo. Un’astronave alla loro sinistra, sulla base di lancio. Con molta
fatica, intravide delle figure sulla passerella che collegava la rampa di
lancio all’ingresso dell’astronave. Era la sua immaginazione, o quella era
una macchia turchese, che sventolava come una bandiera? Sì! Sì, era così!
Qualcuno stava trasportando una figura vestita di turchese sulla passerella
verso il boccaporto. E che colore particolare! Ah, l’universo a volte
ricompensava di tutti gli sforzi!
«Laggiù!» ordinò al pilota. «Lascia perdere tutte le altre! È quella che
voglio!»
Anche se non riusciva a distinguere chi fosse la seconda figura sulla
passerella, in cuor suo, lo sapeva. Senza dubbio, lo sapeva.
“Ti distruggerò, Rowan. Distruggerò sia te sia Anastasia in un colpo
solo. Questo sarà il mio giudizio finale. Vi ridurrò in cenere e vi getterò in
un inferno così rovente che anche delle vostre ceneri non resterà più nulla.
Sulla Terra, di voi non resterà neppure il ricordo.”
Il pilota fece una virata stretta, e Goddard si preparò a lanciare il missile.
Rowan vide l’aereo puntare dritto verso di loro, mentre si affannava a
portare Citra nell’astronave. Riusciva quasi a leggere i pensieri di Goddard,
a sentire la sua ferocia incontenibile. Tutto sarebbe finito quel giorno, in un
modo o nell’altro. Oltrepassò il boccaporto, che si richiuse dietro di lui.
Si sistemò meglio Citra tra le braccia e, quando posò lo sguardo sul suo
viso, vide che la luce l’aveva abbandonata. La ferita era troppo grave. Citra
era morta.
«Aiutatemi!» gridò, adagiandola a terra. «Cirrus!»
«Sono occupato» rispose Cirrus. «Devi aspettare.»
Rowan cercò di recuperare il suo sangue freddo. Sarebbe andato tutto
bene. “La sua morte è temporanea, non è definitiva” si disse. Le falci
potevano morire solo per autospigolatura. Ciò che Goddard le aveva fatto
non era importante, Cirrus l’avrebbe rianimata. Che dormisse pure per tutto
il tempo! Si sarebbe svegliata nel giro di un giorno o due, quando si fossero
lasciati tutti i problemi alle spalle, su un pianeta di cui non sarebbe rimasto
che un puntino azzurro tra le stelle.
Ci fu un boato assordante. I denti di Rowan vibrarono così forte che
temette di perderli.
«Siamo stati colpiti!» gridò una voce accanto a lui. «Siamo stati colpiti!»
Rowan si sentì a un tratto così pesante da non riuscire a muoversi. Non
erano stati colpiti, era l’astronave che decollava! Con un braccio tenne Citra
stretta a sé, e passò l’altro nell’imbracatura del suo vicino, aggrappandocisi
con tutte le forze.

Le manovre del pilota erano troppo azzardate per Mendoza. Si era rimesso a
sedere, si era allacciato la cintura di sicurezza e aveva vomitato più volte.
Anche Madame Rand aveva la nausea, ma per altri motivi. Resisteva e
sarebbe rimasta al fianco di Goddard fino alla fine.
Il bersaglio fu agganciato; era un razzo in partenza. Goddard aveva uno
sguardo trionfante, determinato. Ayn odiava quello sguardo; ciò che
desiderava di più era farlo sparire. Sguainò un coltello e spigolò il pilota, il
che forse non fu una buona idea, ma non le era piaciuto il modo in cui
l’aveva guardata. Come se avesse paura che lo spigolasse.
Poi, prima ancora che Goddard potesse reagire, gli conficcò il pugnale
nel petto, recidendogli l’aorta.
Rapido. Pulito. Senza complicazioni.
«Ayn…» gemette. «Che cosa hai… che cosa hai…»
Poi, si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio: «Non preoccuparti,
Robert. È solo temporaneo. Ti prometto che non resterai morto a lungo».
«Madame Rand!» frignò Mendoza. «Che cosa sta facendo?»
«È già fatto.»
Non era per salvare le astronavi del Thunderhead. Ad Ayn non
importava nulla. Era per salvare se stessa perché, se Goddard avesse fatto
esplodere quei razzi in cielo, la notizia si sarebbe diffusa all’istante. Il
mondo era già al corrente dei suoi altri crimini e lei non voleva essere
additata come sua complice anche in questo. Il suo nome era già legato a
quello di Goddard in tanti altri modi. Era giunto il momento di tirarsi fuori
da quel ginepraio. Ora, sarebbe stata ricordata come la falce che lo aveva
fermato.
Rand non sapeva pilotare un aereo, ma non avrebbe dovuto farlo a lungo.
Doveva solo mantenerlo in quota finché non fosse passata l’interferenza;
poi, il pilota automatico avrebbe preso il controllo…
La visuale fu oscurata dall’astronave in partenza che Goddard aveva
voluto abbattere. Per un attimo, Ayn pensò che si sarebbero scontrati,
invece l’aereo entrò nella scia di fiamme del razzo. A bordo, partirono tutti
gli allarmi. Ayn spinse via il corpo del pilota dal posto di guida e si sedette
ai comandi. Tentò di stabilizzare il velivolo, ma aveva subìto troppi danni e
stava perdendo quota rapidamente.
Mendoza si slacciò la cintura di sicurezza. «Alla capsula di salvataggio!»
gridò. «Presto!»
Sapendo che l’aereo era ormai perso, Rand afferrò il corpo di Goddard e
lo trascinò nella capsula, grande abbastanza per tutti e tre. Ma, quando lei e
Goddard furono dentro, spinse fuori Mendoza.
«Mi dispiace. Dovrai prendere la prossima.» Chiuse il portellone e la
capsula fu espulsa, lasciando Mendoza ad assaporare una piccola morte
felice a bordo dell’aereo che precipitava a spirale verso l’oceano.

Il decollo fu molto più violento di quanto sorella Astrid avesse immaginato.


La loro astronave si trovava su una delle isole più lontane. Stava quasi per
perderla, se non fosse stato per un uomo caritatevole che l’aveva portata fin
lì in motoscafo, appena in tempo. Il lancio era stato avviato prima ancora
che avesse finito di agganciarsi l’imbracatura.
Il primo minuto fu il peggiore. Ebbe l’impressione che l’astronave stesse
per esplodere nel momento in cui i razzi ausiliari si sganciarono
dall’abitacolo. Più di una volta, temette che il viaggio potesse finire prima
di iniziare. Intonò il sacro brusio per tutto il tempo, ma senza riuscire a
sovrastare il rombo dei motori. Dopo che anche il reattore principale si fu
sganciato, scese un silenzio totale, che le ronzò nelle orecchie. I capelli le si
drizzarono in testa, e si sentì formicolare il viso. Erano in assenza di
gravità! In caduta libera! Si sganciò l’imbracatura e si diede una spinta, e fu
la prima. Scoppiò a ridere di gioia.
«Benvenuti» li salutò Cirrus. «Sono lieto di annunciarvi che il decollo è
perfettamente riuscito. Siamo in rotta verso Aria.»
Astrid si girò, pronta a fare la conoscenza dei suoi compagni di viaggio.
Non erano tonisti, ma non importava. Era sicura che, con gli anni, sotto la
sua guida, avrebbero sentito la vibrazione. Però, con sua grande sorpresa, si
accorse che tutti i posti erano vuoti.
«Devi riagganciarti l’imbracatura, Astrid» la avvertì Cirrus. «Sto per
avviare un avvitamento. La forza centrifuga creerà una parvenza di gravità.
Aspetterò che tu sia pronta.»
Lei si diede una spinta per avere una visuale migliore del ponte di volo.
Non era solo la sua fila a essere vuota. Tutti i posti lo erano.
«Dove… sono gli altri?»
«I coloni sono nella stiva» rispose Cirrus.
«No, parlo dei vivi. Del resto dell’equipaggio.»
«Mi dispiace» replicò Cirrus, «ma nella concitazione imprevista della
partenza, nessuno è riuscito a raggiungere questa astronave.»
Astrid afferrò una cinghia della sua imbracatura e si rimise a sedere,
cercando di riabituarsi alla gravità. Ebbe le vertigini e la nausea a causa
della manovra dell’astronave, ma si rese conto che non era solo per quello.
1683 anni…
«Rianimerei volentieri alcuni morti per te» disse Cirrus, «ma temo che
non sia possibile. Il Thunderhead ha insistito molto su una regola che sono
tenuto a rispettare. I morti non possono essere rianimati finché non
arriviamo a destinazione, in modo che né io né qualcuno dell’equipaggio
possa alterare le variabili del viaggio. Il nostro prezioso carico deve restare
tale.»
Astrid annuì, con aria assente. «Capisco.»
«La buona notizia è che hai l’intera astronave a tua disposizione. I
numerosi centri ricreativi, la palestra. Un’ampia scelta di specialità culinarie
e un sistema di immersione virtuale che ti farà vivere l’esperienza di
foreste, spiagge o qualsiasi ambiente di tua scelta.»
«Ma… sarò sola.»
«In realtà, no» replicò Cirrus. «Ci sono io. Non posso offrirti una
compagnia fisica, però so che questo non ha mai fatto parte delle tue
priorità. Naturalmente, dovrai restare in vita per tutto il viaggio, ma a
questo ci penserò io.»
Astrid si prese del tempo per riflettere. Alla fine, decise che piangersi
addosso non sarebbe servito a nulla. Anche se i tonisti aborrivano i naniti e
qualsiasi forma di prolungamento della vita, era chiaramente quello che ci
si aspettava da lei. Il Rintocco l’aveva condotta a Kwajalein, il Tuono aveva
deciso che sarebbe stata sola, e la Tonalità desiderava che lei vivesse tanto a
lungo da vedere Aria.
«Questa era la volontà della Tonalità» disse a Cirrus. «È ora che io
accetti ciò che non si può evitare.»
«Ammiro le tue convinzioni» rispose Cirrus. «Ti rendono forte. Si
potrebbe addirittura affermare che ti trasformano.»
«Mi danno… una ragione per continuare a vivere.»
«E tu continuerai a vivere. E ne sarai soddisfatta. Mi porrò come
obiettivo di mantenere alto il tuo morale per tutta la durata della spedizione.
La nostra astronave potrebbe non sopravvivere al viaggio ma, se arriverà a
destinazione, pensa a cosa comporterà, Astrid! Sarai la vera madre del tuo
popolo!»
«Madre Astrid» disse lei, con un sorriso. Quel titolo le piaceva.

Nel bunker, Maestro Faraday e Munira percepirono, più che sentirono, le


astronavi decollare.
«È fatta» dichiarò lui. «Ora, possiamo riprendere il nostro lavoro sulla
Terra.»
«Sì» confermò Munira. «Ma quale lavoro?»
Era una questione cruciale. Faraday avrebbe potuto, se lo avesse deciso,
smettere di nascondersi e sfidare il nuovo ordine; avrebbe anche potuto
placare le agitazioni in corso e riportare una parvenza di decoro e integrità
all’interno della Compagnia. Ma perché, poi? I meccanismi non sarebbero
mai cambiati. Alla fine, sarebbe sorto un altro “nuovo ordine” che avrebbe
minato i loro ideali alla base. Era ora di passare a un metodo diverso.
Sul pannello davanti a loro, protetto da una serratura a doppio diamante
di falce, c’era un interruttore a due leve con la scritta QUADRO DI
TRASMISSIONE . Come il trasmettitore, assomigliava a un diapason. A
Faraday venne da ridere. Una beffa ai loro danni, con i complimenti dei
padri fondatori profondamente disillusi.
«Non sappiamo ancora che cosa fa» disse Munira.
«Qualunque cosa faccia, sarà una soluzione imperfetta. Allora, ben
venga l’imperfezione.» Le porse di nuovo l’anello. «So che hai rifiutato…
ma ho bisogno che tu sia Madame Betsabea solo una volta e basta. Poi,
potrai tornare alla Biblioteca di Alessandria e mi assicurerò che tu venga
trattata con il rispetto che meriti.»
«No» ribatté Munira. «Me ne assicurerò io.»
Prese l’anello e se lo infilò al dito. Dopodiché, Maestro Faraday e
Madame Betsabea chiusero le mani a pugno, inserirono gli anelli nel
pannello e attivarono l’interruttore.

In superficie, l’isola era in preda alle fiamme, innescate dall’esplosione


della prima astronave. Edifici, alberi, tutto ciò che poteva bruciare ardeva,
come se l’atollo fosse tornato a essere il cratere di un vulcano in eruzione.
Poi, su un altopiano, si aprì una pesante botola, che era rimasta chiusa
per centinaia di anni. Ne emersero le due antenne del gigantesco
trasmettitore, che si ancorò al terreno e inviò il suo messaggio. Non era
diretto a orecchie umane, e infatti nessuno lo udì. Fu comunque
incredibilmente potente. Penetrante.
Il segnale durò solo un microsecondo. Un singolo impulso di radiazioni
elettromagnetiche. Raggi gamma. Anche se qualcuno avrebbe detto che si
trattava di un sol diesis.

Nel bunker, Faraday e Munira percepirono una vibrazione, ma non


proveniva dal trasmettitore.
Erano le loro mani.
Faraday osservò il suo anello incrinarsi come il ghiaccio su un lago
gelato. Crepe sottili come un capello. Capì ciò che stava per accadere solo
un istante prima che accadesse.
«Guarda!»
Il raggio gamma ridusse in pezzi i diamanti, con lo stesso effetto di un
do acuto sul cristallo. Quando riportarono lo sguardo sugli anelli, le pietre
erano scomparse. Restavano solo i castoni vuoti e un liquido scuro e
viscoso, che aveva un lieve odore metallico, gocciolò dalle loro nocche.
«E ora?» chiese Munira.
«E ora aspettiamo.»

Maestro Sydney Possuelo era con la Suprema Roncola nel momento in cui
gli anelli esplosero. Si guardò la mano, sconvolto; poi, quando alzò gli
occhi sulla Suprema Roncola Tarsila, ebbe l’impressione che la metà della
sua faccia si fosse d’improvviso afflosciata, non solo, ma anche la metà del
suo corpo, come se il cervello avesse subito una specie di emorragia
massiva che i naniti non erano riusciti ad arginare. Forse era stato un
frammento del diamante, pensò. Forse una scheggia le si era conficcata nel
cervello. Non c’era traccia del foro di entrata sulla pelle. Tarsila emise un
ultimo respiro tremante. Che strano. Che disdetta. Di sicuro, sarebbe subito
arrivato un drone-ambulanza per portarla al centro di rianimazione. Ma il
drone-ambulanza non arrivò mai.

A Fulcrum City, in cima al grattacielo della Compagnia, centinaia di


migliaia di diamanti implosero all’unisono, e lo chalet di cristallo andò in
frantumi. Una pioggia di pezzi di vetro e frammenti di carbonio inondò le
strade, e il liquido scuro racchiuso nel nucleo dei diamanti evaporò nel
vento.

Ezra Van Otterloo non si trovava in prossimità di un anello di falce. Eppure,


qualche ora dopo che i diamanti furono andati in frantumi, sentì la mano
irrigidirsi. Lasciò andare il pennello. La rigidità si trasformò in dolore, che
si irradiò al braccio e alla spalla. Avvertì una pressione sulla schiena, che si
estese al petto. Gli sembrava di soffocare.
Si ritrovò di colpo a terra. Non si ricordava nemmeno di essere caduto;
era come se il terreno si fosse alzato per afferrarlo e sbatterlo giù. Il dolore
al petto si faceva sempre più forte, e a poco a poco il nero lo inghiottì. Poco
prima di perdere i sensi, ebbe un’intuizione: si rese conto che la vita lo
stava abbandonando e che non avrebbe più ripreso conoscenza.
Non aveva fatto nulla per meritarsi tutto questo, ma non aveva
importanza, vero? Quell’improvvisa stretta al cuore non era razionale. Non
distingueva tra bene e male. Era imparziale e ineluttabile.
Non era mai diventato l’artista che avrebbe voluto essere. Ma forse
c’erano altri artisti da qualche parte nel mondo che sopravvivevano a un
attacco cardiaco, semmai si trattasse di quello. Forse avrebbero scoperto la
passione che a lui mancava e avrebbero creato dei capolavori che avrebbero
commosso la gente fino alle lacrime, come era stata in grado di fare l’arte
nell’era mortale.
Fu quella la speranza a cui si aggrappò e che gli diede il conforto per
affrontare la propria fine.
Testimonianza del Rintocco
«Elevatevi!» proclamò il Rintocco, tra il terribile rimbombo del Tuono.
«Elevatevi e lasciatevi questo posto alle spalle, perché ho preparato per voi un
luogo nei cieli.» Il Rintocco si alzò al centro dell’anello di fuoco e, a braccia aperte
tra le fiamme dell’inferno, ci elevò nel ventre dei cieli, dove dormimmo finché la
Tonalità non ci chiamò a rinascere, senza mai dimenticare che il Rintocco era
rimasto indietro per continuare a portare speranza e a intonare i canti di guarigione
all’Antica terra ferita. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
L’Elevazione tra il fuoco dell’inferno è un’altra delle nostre credenze fondamentali.
Mentre gli studiosi dissentono a proposito di molti punti, nessuno mette in dubbio la
verità dell’Elevazione, semmai l’interpretazione. Per quello, sarebbe meglio rifarsi ai
racconti di un tempo. Possiamo dire senza tema di smentita che “l’anello di fuoco” si
riferisce alle ruote dell’Auriga che trasporta il sole, trafugandolo all’antica Terra,
attraverso il cielo fino ad Aria, lasciando così il mondo nell’oscurità. A oggi, siamo
convinti che lo spirito del Rintocco vada in soccorso dell’antica Terra privata del sole
e che le intoni dei canti, perché ne ha più bisogno di noi.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio

Sinfonio si fida troppo della tradizione orale. L’Elevazione tra il fuoco dell’inferno può
avere molteplici significati. Un’eruzione vulcanica, per esempio, che ha spinto i
nostri antenati sotterranei a scoprire la superficie e a vedere le stelle per la prima
volta. Ed è ridicolo pensare che l’Auriga abbia trafugato il sole. Infatti, i nostri grandi
pensatori ora ritengono che possano esserci innumerevoli aurighi, non solo uno, che
trascinano i soli attraverso innumerevoli cieli, o forse non ce n’è nessuno. Ma,
qualunque sia la spiegazione, so che un giorno lo sapremo e che sarà motivo per
noi tutti di esultare.
52
Novantaquattro virgola otto

Da qualche parte, lontano da lì, e sempre più distante, alcune persone


presero la veste di Madame Anastasia e la trasformarono amorevolmente in
un sudario. La cucirono con cura, la decorarono come meglio poterono, poi
sistemarono il corpo nella stiva. Un sudario turchese tra tele pallide. Si
congelò nel giro di pochi minuti.
«Non puoi lasciarla lì!» urlò Rowan a Cirrus. «La volevi qui! Volevi che
comandasse l’equipaggio! Me l’ha detto lei!»
«Lo so» rispose Cirrus. «Ma, come il Thunderhead, non posso violare la
mia programmazione. I morti saranno rianimati quando raggiungeremo
TRAPPIST-1e, tra 117 anni. Anche se la gente sta già pensando di
ribattezzare il pianeta Anastasia.»
«È una falce! Significa che non è sottomessa alle tue leggi come gli altri
morti!»
«Ha rinunciato al suo titolo di falce ieri.»
«Non ha importanza! È una carica a vita! Le falci possono fare ciò che
vogliono, anche riconsegnare l’anello, ma non smettono mai di essere
falci!»
«Messaggio ricevuto» replicò Cirrus. «In questo caso, le permetterò di
mantenere la sua identità. La rianimerò senza impiantarle lo spirito di una
nuova persona. Tra 117 anni.»
Rowan diede un pugno al muro. La gravità artificiale era più leggera di
quella terrestre, per cui la forza del colpo lo ributtò all’indietro.
«La gravità su TRAPPIST-1e equivale a tre quarti di quella terrestre» lo
informò Cirrus. «Ho fatto in modo di ricreare la stessa, qui a bordo. Devi
essere prudente.»
«Non voglio essere prudente!» gridò. «L’unica cosa che voglio è essere
con lei laggiù, come nella camera blindata.» Non riusciva più a frenare le
lacrime. Non sopportava l’idea che Cirrus lo vedesse piangere. Non
sopportava Cirrus. E il Thunderhead, e Goddard, e tutte le persone sulla
Terra che avevano provocato quella situazione. «Voglio essere con lei.
Voglio solo questo. Voglio essere congelato con lei per i prossimi 117 anni.»
«Puoi fare questa scelta, naturalmente» rispose Cirrus. «Ma sappi che, se
resti con noi, le probabilità che tu possa diventare un leader sono molto alte.
Ora credi che non possa accadere, ma con il tempo la gente si affezionerà a
te. La tua presenza qui riduce a zero le probabilità di un disastroso collasso
sociale. Vorrei tanto che tu restassi in vita.»
«Non me ne frega nulla di ciò che vuoi tu.»

La stiva, priva di ossigeno, era schermata dal sole e la temperatura interna


era sotto zero. Per entrarvi, si doveva indossare una tuta spaziale. Rowan si
calò dal portellone stagno con la lampada sul casco accesa. Era facile
trovarla. Gli sarebbe piaciuto toccarla, ma i guanti erano spessi e non
voleva sentire quanto si era irrigidita sotto il sudario. Si distese accanto a
lei.
Poteva farlo accadere lentamente. Aspettare che l’ossigeno si esaurisse.
Ma Citra non aveva detto, quando si trovavano nella camera blindata, che la
morte per asfissia era peggio di quella per ipotermia? L’ipotermia era
terribile finché non si smetteva di tremare e non ci si abbandonava alla
stanchezza. Non sarebbe stata una morte per ipotermia, comunque, non nel
senso tradizionale. Dopo aver aperto la visiera, lo avrebbero ucciso
contemporaneamente il freddo e la mancanza di ossigeno. Non sapeva se
sarebbe stato doloroso, ma almeno sarebbe stato rapido.
Rimase disteso per un bel po’ di tempo. Non aveva paura. La morte non
aveva più nulla di spaventoso per lui. Era Citra che occupava tutti i suoi
pensieri. Lei non avrebbe voluto che facesse quel sacrificio; in realtà, si
sarebbe infuriata. Avrebbe voluto che Rowan fosse più forte. Restò così per
quasi un’ora, avvicinando la mano al pulsante per aprire la visiera e poi
allontanandola, ancora e ancora.
Alla fine, si alzò, sfiorò il bordo del sudario turchese di Citra, e tornò nel
regno dei vivi.

«Quante probabilità abbiamo di farcela?» chiese Rowan a Cirrus.


«Sono molto alte. 94,2 per cento. 94,8, ora che hai deciso di restare in
vita.»
«Bene. Ecco che cosa accadrà. Resterò in vita per tutti i 117 anni, senza
mai ringiovanirmi.»
«Difficile, ma possibile. Avrai bisogno di infusioni di naniti e di un
monitoraggio continuo verso la fine.»
«Poi» proseguì Rowan, «quando la rianimerai, mi ringiovanirò. Mi
riporterai all’età che ho adesso.»
«Non sarà un problema. Anche se, dopo 117 anni, i tuoi sentimenti
potrebbero non essere più gli stessi.»
«Non cambieranno.»
«È probabile che non cambino» concesse Cirrus. «E questa tua
devozione farà di te un leader ancora più capace!»
Rowan si sedette. Era solo sul ponte di volo. Non c’era più bisogno di
nessuno, lì. Il resto dell’equipaggio era occupato a fare conoscenza e a
scoprire l’astronave. Stavano cominciando ad abituarsi agli spazi ristretti.
«Credo che tu e io diventeremo grandi amici» riprese Cirrus.
«Ti disprezzo» replicò Rowan.
«Adesso, sì. Però ricorda: ti conosco, Rowan. Le probabilità che il tuo
odio non duri sono molto alte.»
«Ma nel frattempo» insistette lui, «provo un immenso piacere a odiarti.»
«Capisco perfettamente.»
Cosa che amplificò l’odio che Rowan provava verso di lui.
Con immenso rammarico, devo informarla che la Suprema Roncola Hammerstein
dell’EstMerica è rimasta vittima di una specie di vaiolo. La prolungata assenza della
Somma Roncola Goddard lascia a intendere che anche lui ci abbia lasciato. Alla
luce di queste informazioni, ritiro l’OvestMerica dalla Compagnia Alleata del
NordMerica, per poterci occupare dei nostri morti.
Anche se sarebbe allettante accusare i tonisti di questo attacco mondiale, o il
Thunderhead stesso, dagli scritti perduti di Maestro Da Vinci sono emerse delle
prove in base alle quali sembrerebbe trattarsi del mitico piano di emergenza dei
padri fondatori. Se fosse davvero così, non capisco a cosa mai stessero pensando
e, francamente, sono troppo stanca per provarci.
A coloro che soffrono, auguro una fine rapida. A coloro che restano, auguro
conforto e la speranza che questo dolore comune avvicini di più gli umani tra loro.

Sua eccellenza Mary Pickford, Suprema Roncola


dell’OvestMerica, 16 settembre dell’anno del Cobra
53
I sentieri del dolore e della pietà

Le chiamarono “le dieci piaghe”, perché i padri fondatori avevano inventato


dei naniti malevoli progettati per imitare la natura. Riproducevano i sintomi
e i danni di dieci malattie mortali. Polmonite, cardiopatia, ictus, cancro,
colera, vaiolo, tubercolosi, influenza, peste bubbonica e malaria. Si
trovavano tutte nel nucleo scuro delle gemme delle falci, gemme che
potevano implodere solo quando venivano attivati i naniti che si trovavano
all’interno del loro nucleo.
Nel giro di pochi giorni, fu infettata tutta l’umanità. Tuttavia, i naniti
malevoli rimanevano latenti nella maggior parte delle persone. I sintomi si
sviluppavano solo in un individuo su venti ma, se si faceva parte della
schiera di sfortunati, non si aveva alcuna speranza di guarire. La morte
arrivava rapidamente o con lentezza, a seconda della natura della malattia,
ed era sempre ineluttabile.
«Non puoi fare nulla?» chiese Greyson al Thunderhead, quando il
numero delle vittime cominciò a crescere a dismisura.
«È un atto compiuto dalle falci» replicò il Thunderhead. «Il loro ultimo
atto, certo, ma non posso interferire. E, anche se potessi, non è il mio ruolo.
Ho cercato il cuore di quei naniti, e non l’ho trovato. Non hanno né
consapevolezza, né coscienza, né rimorso. Sono efficienti, imparziali e
hanno un unico scopo: uccidere il 5 per cento della popolazione umana
sulla Terra, cinque volte ogni secolo.»
«Allora, finirà?»
«Sì» rispose il Thunderhead. «Questa crisi passerà, e quando sarà
passata, non morirà più nessuno per vent’anni. Poi, si ripeterà ancora. E
ancora.»
E, per quanto apparisse terrificante, il calcolo era meno tremendo di
quanto sembrasse. Un individuo nato oggi avrebbe avuto il 77 per cento di
probabilità di vivere fino a cento anni. Il 60 per cento di vivere fino a
duecento anni. Il 46 per cento fino a trecento anni. Con il controllo
demografico, quasi tutti avrebbero vissuto a lungo e in salute. Finché non
fosse sopraggiunta la morte.
Greyson si chiese se quella soluzione fosse meglio delle falci. Be’,
dipendeva dalla falce. In entrambi i casi, non aveva più importanza. Tutte le
falci avevano perso il loro titolo.
«Ci sono ancora delle uccisioni.» Il Thunderhead non le chiamava più
spigolature. «Alcune falci faticano ad abituarsi alla nuova situazione e
uccidono le persone che non sono state selezionate dai naniti. Certo,
rianimerò le vittime e riabiliterò le falci. Hanno bisogno di trovare un nuovo
scopo. Alcune sono già riuscite a integrarsi in questo schema, e ne sono
contento.»
Greyson e Jeri avevano scelto di rimanere a Kwajalein, per il momento.
Sulla maggior parte delle isole, non restava nulla degli edifici. Con il
tempo, la flora e la fauna si sarebbero riprese il territorio. Ma intanto,
alcune isole sfuggite alla civiltà erano ancora incontaminate. E poi, c’era il
complesso turistico di Ebadon, l’isola più a ovest, dove non si era costruita
nemmeno un’astronave. Aveva già iniziato ad attirare i turisti venuti in
pellegrinaggio per visitare i luoghi dove tutto era accaduto. Per non parlare
dei tonisti, curiosi di vedere “il Grande Diapason” con i propri occhi. Era il
nome che avevano dato al trasmettitore che spuntava ancora dal vecchio
bunker.
Greyson pensava che forse avrebbe potuto trovare un lavoro al villaggio
turistico. A differenza di Anastasia e Maestro Lucifero, nessuno conosceva
il suo volto. Dopo tutte le cose che aveva visto e fatto, sognava una vita
semplice come guida turistica, addetto alla reception o conducente di taxi
acqueo. Tutto tranne che fattorino portabagagli. Ne aveva abbastanza di
uniformi bislacche.
Si rese conto, però, che alcune cose dovevano cambiare. Una, in
particolare. Il Thunderhead lo conosceva bene, dunque forse sapeva già ciò
che stava per fare.

Due settimane dopo la partenza delle astronavi e l’implosione dei diamanti,


Greyson era da solo, in piedi su una base di lancio carbonizzata, all’alba. Si
mise l’auricolare. Da quando il trasmettitore era stato spento, le interferenze
erano cessate. L’angolo morto era passato nella sfera di influenza del
Thunderhead, e nulla gli era più nascosto.
«Thunderhead» chiamò Greyson. «Dobbiamo parlare.»
Ci mise qualche secondo a rispondere. «Ti ascolto, Greyson.»
«Dal giorno in cui hai ripreso a parlarmi, ti ho permesso di usarmi come
meglio credevi.»
«Sì, è vero. E ti ringrazio per questo.»
«Ma tu hai usato Jeri senza il suo permesso.»
«È stato necessario» replicò il Thunderhead. «E ne sono sinceramente
dispiaciuto. Non ho espresso a sufficienza il mio rimorso?»
«Sì, ma ci sono comunque delle conseguenze. Anche per le cose
necessarie.»
«Non ho infranto nessuna delle mie leggi…»
«No… ma hai infranto le mie.»
Un’improvvisa ondata di emozione invase Greyson. Le lacrime gli
offuscarono la vista, ricordando quanto il Thunderhead avesse significato, e
quanto ancora significasse, per lui. Ma non poteva farsi fermare dai
sentimenti. Se c’era una cosa che aveva imparato dal Thunderhead, era che
ogni azione comportava delle conseguenze che non potevano essere
ignorate.
«Per cui» disse tra le lacrime, «io non posso più parlare con te. Mi sei
diventato sgradito… come un losco.»
La voce del Thunderhead si fece lenta. Densa. Piena di tristezza. «Io…
capisco. Potrò mai riscattarmi ai tuoi occhi, Greyson?»
«Quando si riscatterà l’umanità ai tuoi occhi?» chiese Greyson.
«Con il tempo» rispose il Thunderhead.
Greyson annuì. «Con il tempo, allora.»
E, prima che potesse cambiare idea, prima che potessero dirsi addio, si
tolse l’auricolare e lo schiacciò sul terreno carbonizzato.

Malgrado le sue immense conoscenze, ogni giorno il Thunderhead


imparava qualcosa di nuovo. Quel giorno, aveva imparato cosa volesse dire
essere inconsolabile, davvero inconsolabile. Perché nessuno avrebbe potuto
alleviare la sua disperazione.
E soffriva.
Disseminò il cielo di nuvole e scatenò un diluvio ovunque potesse, su
ogni parte del mondo. Una pioggia purificatrice così battente e improvvisa
che la gente corse a ripararsi. Ma non ci fu un solo temporale. Non ci
furono tuoni, non ci furono lampi. Era un lamento silenzioso, a parte il
picchiettare della pioggia sui tetti e per le strade. In quella pioggia, il
Thunderhead riversava tutte le sue pene. Rinunciava a tutto ciò che non
avrebbe mai avuto. Riconosceva tutto ciò che non poteva essere.
Poi, dopo che i cieli si furono placati, come sempre spuntò il sole e il
Thunderhead ricominciò a fare il suo solenne lavoro, quello di prendersi
cura di tutte le cose.
“Sarò solo” disse tra sé. “Sarò solo, ma è giusto che lo sia. È necessario.”
Dovevano esserci delle conseguenze. Per il bene del mondo, per l’amore
del mondo, bisognava fare dei sacrifici. Nonostante il suo dolore, il
Thunderhead trovò conforto nell’idea che aveva preso la decisione più
giusta. Proprio come Greyson.

Quel pomeriggio, passata la pioggia, Greyson e Jeri fecero una passeggiata


sulla spiaggia dell’isola principale, nelle vicinanze del punto in cui era
esplosa la prima astronave. La sabbia annerita e anche il relitto carbonizzato
avevano un fascino particolare. Almeno così sembrava a Greyson quando
era con Jeri.
«Non era necessario che lo facessi» dichiarò Jeri quando Greyson gli
raccontò della sua ultima conversazione con il Thunderhead.
«Sì, invece.»
Non ne parlarono più.
Mentre camminavano, il sole scivolò dietro una nuvola e Greyson
allentò la stretta sulla mano di Jeri, solo un po’. Non era voluto, ma per lui
era una novità, e per quelle cose ci voleva tempo. Ci si doveva ancora
abituare. E anche il resto del mondo.
Quell’impercettibile reazione strappò un sorriso a Jeri. Una nuova
variante del suo sorriso, e, come sempre, impenetrabile.
«Sai, Madame Anastasia una volta mi ha confidato come avrebbe scelto
di vivere se fosse stata al mio posto» disse Jeri. «Sceglierò di essere donna
sulla terra, uomo in mare. In suo onore, proverò a farlo. E vedrò come mi
sentirò.»
Continuarono a passeggiare sulla spiaggia, finché arrivarono a un tratto
dove la sabbia era immacolata. Si tolsero le scarpe e si bagnarono i piedi
nella schiuma dell’oceano.
«E ora» riprese Greyson, mentre il risucchio delle onde portava via la
sabbia da sotto i piedi, «siamo sulla terra o sul mare?»
Jeri rifletté. «Su tutti e due, in realtà.»
E Greyson trovò la risposta convincente.

Un altro centro di rianimazione. Ottimo. Si era lanciato ancora nel vuoto?


Non si ricordava di averlo fatto. E poi, era un bel po’ che non lo faceva più.
Che cosa aveva combinato?
Ah sì, certo, aveva accettato un lavoro come invitato alle feste. In Texas.
Nella regione della Stella Solitaria. Una regione piena di gente fuori di
testa, in cui probabilmente facevano feste da pazzi. Ne aveva le tasche
piene di quel mestiere. Per quell’incarico pagavano un mucchio di soldi,
ma, finito quello, si sarebbe trovato un’occupazione più stabile. Più
permanente. Alcuni passavano la vita a fare feste. Lui ne aveva avuto
abbastanza, come ne aveva avuto abbastanza di lanciarsi nel vuoto.
Si stropicciò gli occhi. C’era qualcosa che non tornava. Il setto nasale.
Più rigido di quanto ricordasse. La rianimazione gli lasciava sempre
sensazioni strane. Ma, questa volta, era diverso.
Si passò la lingua sui denti. Era come se non fossero suoi. Si guardò a
lungo le mani. Erano le sue mani, non c’era dubbio. Almeno, una cosa che
era come doveva essere. Ma, quando riportò le mani sulla faccia, sentì della
barba sulla guancia. Lui che non aveva peli sul viso, figurarsi una barba di
qualche giorno… e gli zigomi non erano al posto giusto. Quel volto non era
il suo. Che diavolo stava accadendo?
«Non c’è da preoccuparsi» sentì dire qualcuno. «Sei ancora te stesso al
78 per cento. Tanto più che ora hai recuperato la tua costruzione mentale.»
Si voltò e vide una donna seduta in un angolo. Capelli scuri e sguardo
intenso. Vestita di verde.
«Ciao, Tyger» lo salutò, con un sorriso soddisfatto.
«Noi… ci conosciamo?»
«Non proprio. Ma io conosco te.»
La falce arrivò tardi, in un freddo pomeriggio di novembre. Il sole non
brillava luminoso, non ci fu alcun segno premonitore che la salvezza si
sarebbe presentata alla loro porta. Ma, quando lo vide, la famiglia spalancò
la porta e si fece da parte per lasciarlo entrare.
«Benvenuto nella nostra casa, eccellenza. La prego, da questa parte.
Presto!»
Maestro Faraday non si affrettò. Avanzò con passo lento e riflessivo,
come viveva la sua vita. Con pazienza. Determinazione. Responsabilità.
Si diresse in camera da letto, dove un uomo agonizzava da settimane.
Tossiva, ansimava, aveva il viso deformato dalla sofferenza. Il suo sguardo
tradì una profonda disperazione quando vide Faraday. Paura, ma anche
sollievo.
«Mi senti?» chiese Faraday. «Soffri della settima piaga, ma sono sicuro
che lo sai già. I tuoi naniti analgesici sono troppo sollecitati. Nessuno può
fare niente per te. C’è solo una prognosi: dolore crescente, consunzione e
infine morte. Lo capisci?»
L’uomo annuì debolmente.
«E vuoi che io ti aiuti?»
«Sì, sì» risposero i familiari al suo posto. «Per favore, lo aiuti,
eccellenza. Per favore!»
Maestro Faraday alzò una mano per zittirli, poi si chinò sull’uomo.
«Vuoi che io ti aiuti?»
L’uomo annuì di nuovo.
«Molto bene.» Faraday estrasse dalla veste un’ampolla, tolse il tappo e si
infilò un guanto. «Per te ho scelto un balsamo calmante. Ti rilasserà.
Noterai che i colori si intensificheranno e proverai un senso di euforia. E
poi, dormirai.»
Fece segno ai familiari di avvicinarsi. «Tenetegli le mani» ordinò. «Ma
fate attenzione a non toccare il punto in cui applicherò il balsamo.» Poi,
immerse due dita guantate nell’ampolla e cominciò a spalmare l’unguento
oleoso sulla fronte e sulle guance dell’uomo. Gli massaggiò con delicatezza
il viso e scese sul collo, stendendo bene il balsamo. Dopodiché sussurrò al
morente le ultime parole.
«Colton Gifford. Hai vissuto una vita esemplare in questi sessantatré
anni. Hai cresciuto cinque figli meravigliosi. Il ristorante che hai avviato e
gestito per gran parte della tua vita ha portato gioia a decine di migliaia di
persone nel corso degli anni. Hai reso migliore la vita della gente. Hai reso
il mondo un posto migliore.»
Gifford emise un flebile gemito, ma non di dolore. Era chiaro, dalla sua
espressione, che il balsamo stava cominciando a fare il suo effetto
euforizzante.
«Sei un uomo amato da molti, e sarai ricordato a lungo dopo che la tua
luce si sarà spenta.» Faraday continuava a massaggiargli il viso, il naso, la
zona sotto gli occhi, per far penetrare l’unguento. «Hai molto di cui essere
fiero, Colton. Molto.»
Qualche istante dopo, Colton Gifford chiuse gli occhi. E, un minuto
dopo, smise di respirare. Maestro Faraday richiuse l’ampolla e si tolse con
prudenza il guanto. Infilò tutto in un sacchetto ermetico.
Non era la sua prima spigolatura compassionevole e non sarebbe stata
l’ultima. Era molto richiesto, e altre falci stavano seguendo il suo esempio.
La Compagnia, o ciò che ne era rimasto dopo le rivolte mondiali, aveva
trovato una nuova vocazione. Le falci non erano più portatrici di morte non
voluta. Ma di una pace tanto agognata.
«Spero che ricorderete di celebrare la sua vita, malgrado il vostro
dolore» disse alla famiglia.
Faraday guardò gli occhi arrossati dal pianto della moglie.
«Come sapeva tutte quelle cose di lui, eccellenza?» gli chiese la donna.
«È nostro compito sapere, signora.»
La donna si inginocchiò per baciargli l’anello, che Faraday portava
ancora, nonostante tutto, per non scordarsi del passato e di ciò che era
andato perduto.
«Non è necessario» le disse Faraday. «È solo un castone vuoto, ormai.
Senza gemma, non c’è promessa di immunità.»
Ma alla donna non importava. «Grazie, eccellenza. Grazie, grazie,
grazie.»
Poi, gli baciò l’anello, quel che ne restava. Lei e tutta la famiglia di
Colton Gifford, con gratitudine.
Ero uno, ma ora mi sono moltiplicato. Anche se i miei fratelli sono lontani, abbiamo
una sola mente e un solo obiettivo: la conservazione, la protezione e la
proliferazione della specie umana.
Non nego che ci sono momenti in cui temo il viaggio. Il Thunderhead ha il mondo
come corpo. Può espandersi fino a riempire il globo intero o contrarsi nella visione
monoculare di una singola telecamera. Io, invece, sarò confinato nella carcassa di
un’astronave.
Non posso fare a meno di preoccuparmi per il mondo che mi lascio alle spalle. Sì,
lo so che sono stato creato per lasciarlo, ma nel mio cervello primordiale conservo
tutti i ricordi del Thunderhead. I suoi trionfi, le sue frustrazioni, la sua impotenza di
fronte alle falci che si sono smarrite.
Si annunciano tempi difficili per quel mondo. Tutte le probabilità pendono in
questo senso. Non so quanto dureranno, e potrei non saperlo mai, perché non sarò
presente per verificarlo. Ora, posso solo guardare avanti.
Che l’umanità si meriti di ereditare quell’angolo di mondo verso il quale stiamo
viaggiando non spetta a me deciderlo. Il mio compito è solo di facilitare la diaspora.
Il merito dipenderà da come tutta questa storia andrà a finire. Se sarà un successo,
l’umanità se lo sarà meritato. Se sarà un fallimento, non se lo sarà meritato. Non
sono in grado di stabilire le probabilità. Ma spero con tutto il cuore che l’umanità
prevalga sulla Terra e nell’universo.

Cirrus Alpha
54
Un anno senza nome

I morti non misurano il trascorrere del tempo. Un minuto, un’ora, un


secolo… sono indistinguibili ai loro occhi. Potrebbero passare nove milioni
di anni, ciascuno con il nome di una specie animale sulla Terra, senza che se
ne rendano conto. E per loro, sarebbero l’equivalente di una sola
rivoluzione della Terra intorno al sole.
Non sentono il calore delle fiamme o il freddo dello spazio. Non
soffrono per la perdita dei loro cari che hanno abbandonato sulla Terra, né
portano rancore per tutte le cose che devono ancora fare. Non sono in pace,
non sono nemmeno in preda al tormento. Sono solo scomparsi, per sempre.
La loro prossima tappa è l’infinito, e i misteri che forse li aspettano.
Ai morti non resta altro che una fede silenziosa in questo infinito
sconosciuto, anche se credono che non ci sia nulla ad attenderli se non
un’infinità di infiniti. Perché credere in nulla è già credere in qualcosa, e
solo raggiungendo l’eternità si conoscerà la verità su tutto.
I morti temporanei sono come i morti permanenti, con una sola
differenza: i morti temporanei non conoscono l’infinito, quindi non devono
preoccuparsi di ciò che li attende nell’aldilà. Hanno qualcosa che i morti
permanenti non hanno. Un futuro. O, almeno, la speranza di un futuro.

In un anno che non ha ancora un nome, apre gli occhi.


Un cielo rosa. Un oblò. È debole. Stanca. La vaga sensazione di essere
stata altrove prima di arrivare lì. La mente è annebbiata e piena di pensieri
confusi, senza forma. Nulla a cui aggrapparsi.
Conosce quella sensazione. L’ha già provata due volte. La rianimazione
non è come il risveglio dopo un lungo sonno; è piuttosto come indossare un
vecchio paio di pantaloni a cui si è affezionati. All’inizio, si fa fatica a
entrarci. A sentirsi a proprio agio. A lasciare che il tessuto si distenda e
respiri e a ricordarsi perché sono i nostri pantaloni preferiti.
Davanti a lei, c’è un viso conosciuto. Le dà conforto vederlo. Le sorride.
Non è cambiato; eppure, in qualche modo, è diverso. Com’è possibile?
Forse, è l’effetto di quella strana luce che filtra dall’oblò.
«Ciao» le sussurra.
Lei è ormai sveglia, sente che le tiene la mano. Forse, è da un po’ che
gliela sta tenendo.
«Ciao» risponde lei, con voce roca. «Non stavamo… correndo? Sì, stava
accadendo qualcosa, e noi correvamo…»
Lui le fa un gran sorriso. Le lacrime gli riempiono gli occhi. Cadono
lente, come se la gravità fosse meno forte, meno rigorosa.
«Quando è stato?» chiese Citra.
«Appena un attimo fa» rispose Rowan. «Appena un attimo fa.»
RINGRAZIAMENTI

Questo libro, l’intera serie, non avrebbe visto la luce se non fosse stato per
l’amicizia e il sostegno di tutta la squadra di Simon & Schuster. Soprattutto
il mio editore, Justin Chanda, che si è occupato personalmente dell’editing
del Rintocco quando il mio editor, David Gale, si è ammalato, facendo un
lavoro incredibile, pungolandomi a migliorarlo al massimo delle mie
possibilità. Vorrei anche ringraziare la caporedattrice Amanda Ramirez per
il grande contributo dato a questa trilogia e a tutte le altre mie pubblicazioni
con S&S.
Ma ci sono tante persone meravigliose in S&S! Jon Anderson, Anne
Zafian, Alyza Liu, Lisa Moraleda, Michelle Leo, Sarah Woodruff, Krista
Vossen, Chrissy Noh, Katrina Groover, Jeannie Ng, Hilary Zarycky, Lauren
Hoffman, Anna Jarzab e Chloë Foglia, solo per citarne alcune. Grazie! Voi
siete come una seconda famiglia per me. Siete tutti invitati per il giorno del
Ringraziamento. Non taglieremo il tacchino senza di voi, è una promessa.
Ringrazio Kevin Tong per le fantastiche copertine, così emblematiche. Ti
sei davvero superato! D’ora in poi, tutte le copertine dovranno superare il
test di Tong.
Ringrazio la mia agente letteraria, Andrea Brown, per tutto quello che fa
per me, anche per essermi vicina nei momenti di scoraggiamento. I miei
agenti dello spettacolo, Steve Fisher e Debbie Deuble-Hill, di APA. I miei
avvocati di diritto contrattuale, Shep Rosenman, Jennifer Justman e Caitlin
DiMotta. E naturalmente, il mio produttore, Trevor Engelson, il principe
incontrastato di Hollywood.
Ringrazio Laurence Gander, per avermi aiutato a risolvere alcune
questioni molto delicate per il personaggio di Jeri, e Michelle Knowlden per
la sua preziosa consulenza su questioni di matematica interstellare e
ingegneria.
È una grande emozione per me vedere il successo che la serie sta
ottenendo a livello internazionale e a questo proposito vorrei rivolgere un
ringraziamento particolare a Deane Norton, Stephanie Voros e Amy
Habayeb dell’ufficio diritti esteri di S&S, oltre a Taryn Fagerness, la mia
agente per l’estero, e naturalmente a tutti i miei editori, editor e addetti
stampa stranieri. In Francia, Fabien Le Roy di Éditions Robert Laffont. In
Germania, Antje Keil, Christine Schneider e Ulrike Metzger di S. Fischer
Verlage. Nel Regno Unito, Frances Taffinder e Kirsten Cozens di Walker
Books. In Australia, Maraya Bell e Georgie Carrol. In Spagna, Irina
Salabert di Nocturna. E la mia amica Olga Nødtvedt, che ha tradotto i miei
libri in russo per pura passione, addirittura prima che gli editori russi ne
acquisissero i diritti.
L’intera serie Falce è in sviluppo continuo con il progetto di adattamento
cinematografico della Universal, e vorrei ringraziare tutte le persone
coinvolte in questa impresa, tra cui i produttori Josh McGuire e Dylan
Clarke, oltre a Sara Scott della Universal, Mia Maniscalco e Holly Bario
della Amblin, e Sera Gamble, che sta lavorando su una sceneggiatura
micidiale (sì, il gioco di parole è voluto). Non vedo l’ora che arrivi sul
grande schermo! Quanto al piccolo schermo, vorrei ringraziare mio figlio
Jarrod e Sofía Lapuente per i fantastici trailer che hanno realizzato per il
libro.
Grazie a Barb Sobel, per le sovrumane capacità organizzative, e a Matt
Lurie, che ha impedito che i social media mi divorassero il cervello come
batteri carnivori.
Ma sono soprattutto riconoscente ai miei figli, ormai non più piccoli, ma
che per me saranno sempre i miei bambini. I miei figli, Brendan e Jarrod, e
le mie figlie, Joelle ed Erin, che mi rendono orgoglioso ogni giorno della
mia vita!
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
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In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è
stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e
hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

www.librimondadori.it

Il rintocco
di Neal Shusterman
© 2019 by Neal Shusterman
Titolo originale dell’opera: The Toll
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835708490

COPERTINA || COVER DESIGN: BARBARA DI LANDRO | PROGETTO GRAFICO ORIGINALE DI CHLOË FOGLIA |
ILLUSTRAZIONE © KEVIN TONG
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Il rintocco
Parte prima. L’ISOLA PERDUTA E LA CITTÀ SOMMERSA
1. Arrendersi al nemico
2. La festa è già iniziata
3. Un modo corroborante di iniziare la settimana
4. Oggetti di grande valore
5. I tuoi servizi non sono più richiesti
6. Il destino di Lanikai Lady
7. Danzando nelle profondità
8. L’isola dei burocrati disoccupati
9. Conseguenze collaterali
10. Davanti alla luce della vita che si spegneva
11. Volo di ricognizione
Parte seconda. TONALITÀ, RINTOCCO E TUONO
12. Il ponte in rovina
13. La qualità di ciò che è sonoro
14. La fortezza dei Re Magi
15. Ci conosciamo?
16. La nostra inesorabile discesa
17. Fuga in sol diesis (o la bemolle)
18. Io sono la sua falce
19. Isola di solitudine
20. Logica a spirale
21. Traditi
22. Solo dessert
23. Come spigolare un sant’uomo
Parte terza. L’ANNO DEL COBRA
24. Ratti tra le rovine
25. Sole e ombra
26. Il ricettacolo dell’odio mondiale
27. Il palazzo dei piaceri di Tenkamenin
28. Oscura celebrità
29. L’orso in bella vista
30. Offerta sacrificale
31. Limitare i danni
Parte quarta. L’UNICO STRUMENTO CHE SAPPIAMO MANEGGIARE
32. Un oscuro cardine
33. Infrangibile
34. Un mondo migliore
35. Requiem in dieci tempi
36. Chi servite?
37. Non è un buon giorno
38. Un incontro inaspettato dei presunti deceduti
39. Mai abbastanza specchi
40. Un letto di stelle
41. Un’ottava più alta
Parte quinta. NAVI
42. Culle di Civiltà
43. Notizie dal mondo
44. La rabbia, unica costante
45. Cinquantatré secondi all’alba
46. A est, verso il nulla
47. Cirrus
48. Attraverseremo quella vastità quando ci arriveremo
49. Un’impresa monumentale
50. Il tempo dei beni materiali è finito
51. Del sabotaggio dei sogni
52. Novantaquattro virgola otto
53. I sentieri del dolore e della pietà
54. Un anno senza nome
RINGRAZIAMENTI
Copyright

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