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D a tre anni Citra e Rowan sono scomparsi: da quando cioè la falce Goddard
ha assunto il potere e il Thunderhead si è chiuso in un silenzio che solo
Greyson Tolliver riesce a infrangere. La città-isola di Endura, il “cuore
pulsante” della Compagnia delle falci, è perduta, affondata per sempre nelle acque
dell’oceano, e con lei le Grandi falci. Davvero sembra che ormai nulla possa
impedire il dominio assoluto di Goddard, nominato Suprema Roncola della
MidMerica. E, mentre gli echi della Grande Risonanza scuotono ancora il cuore della
Terra, la domanda è una sola: c’è ancora qualcuno in grado di fermare il tiranno? Gli
unici a saperlo sono la Tonalità, il Rintocco e il Tuono.
Il capitolo finale dell’acclamata Trilogia della Falce vede l’ascesa di profeti e
dittatori e il ritorno di vecchi amici che si credevano persi per sempre. In un mondo
che ha vinto la morte, riuscirà l’umanità a sopravvivere agli esseri immortali che ha
creato?
L’autore
Neal Shusterman
È nato a New York nel 1962. Autore di libri per ragazzi e young adult di grande
successo, ha ricevuto tra gli altri il National Book Award per Il viaggio di Caden. Tra
le altre sue opere Downsiders, Full Tilt e Unwind. La divisione. È anche autore di
sceneggiature per il cinema e la televisione.
Neal Shusterman
IL RINTOCCO
Traduzione di Lia Tomasich
Il rintocco
«Vi aspettate davvero che vi dica qualcosa, dopo che mi avete legato così a
una sedia?»
All’improvviso, i tre agenti Nimbus si precipitarono a liberarlo. Ormai si
mostravano remissivi e reverenziali, come i tonisti in sua presenza. Aver
vissuto per mesi rinchiuso in un monastero tonista lo aveva tagliato fuori
dal mondo esterno, ignorando anche quale fosse il suo posto in quel mondo.
Ora, stava iniziando a farsi un’idea più precisa di come stavano le cose.
Dopo averlo slegato, gli agenti Nimbus parvero più sollevati, come se
avessero in qualche modo temuto di essere puniti se non l’avessero fatto
abbastanza in fretta. “È strano quanto il potere possa cambiare di mano in
modo così radicale, di punto in bianco” pensò Greyson. Ora, quei tre erano
alla sua totale mercé. Avrebbe potuto far credere loro qualsiasi cosa.
Avrebbe potuto dire che il Thunderhead voleva che si mettessero a quattro
zampe e che abbaiassero come cani, e loro avrebbero obbedito.
Si prese il suo tempo, per tenerli un po’ sulle spine.
«Ehi, Thunderhead» esordì. «C’è qualcosa che vuoi che io dica a questi
agenti Nimbus?»
Il Thunderhead gli parlò nell’orecchio. Greyson ascoltava. «Ehm…
interessante.» Poi, si voltò a guardare la leader del gruppo e fece il sorriso
più caloroso che gli riuscì in quelle circostanze.
«Il Thunderhead dice che vi ha lasciato rapirmi. Sa che le tue intenzioni
sono onorevoli, signora direttrice. Hai un cuore buono.»
La donna soffocò un gemito di sorpresa e si mise la mano sul petto,
come se lui l’avesse toccata. «Sai chi sono io?»
«Il Thunderhead vi conosce tutti e tre, forse anche meglio di quanto vi
conosciate voi stessi.» Si voltò a guardare gli altri. «Agente Bob Sykora:
ventinove anni di servizio come agente Nimbus. Buona valutazione, ma non
eccelsa» aggiunse con malizia. «Agente Tinsiu Qian: trentasei anni di
servizio, specializzato nella soddisfazione dei dipendenti.» Poi, tornò a
guardare la donna. «E tu: Audra Hilliard, una degli agenti più abili della
MidMerica. Quasi cinquant’anni di encomi e promozioni, finché non ti è
stata conferita la carica più importante della regione. Direttrice
dell’Interfaccia dell’Autorità di Fulcrum City. O almeno, lo sei stata fino a
quando è esistita l’Interfaccia dell’Autorità.»
Sapeva che quelle ultime affermazioni li avevano toccati nel vivo. Era
stato un colpo basso, ma il fatto di essere stato legato con un sacco in testa
lo aveva messo un po’ di malumore.
«Dici che il Thunderhead ci sente ancora?» chiese la direttrice Hilliard.
«Che veglia ancora su di noi?»
«Come sempre» rispose Greyson.
«Allora, per favore… domandagli di darci lumi. Di spiegarci cosa
dobbiamo fare. Senza guida, noi agenti Nimbus non abbiamo più uno
scopo. Non possiamo continuare così.»
Greyson annuì e riprese a parlare alzando gli occhi al cielo, per fare
scena. «Thunderhead, hai dei consigli per loro?»
Greyson ascoltò, chiese al Thunderhead di ripetere, poi si voltò verso i
tre agenti che aspettavano con il fiato sospeso.
«8.167, 167.733.»
Restarono a guardarlo a bocca aperta.
«Cosa?» chiese infine la direttrice Hilliard.
«È quello che ha detto il Thunderhead. Volevate uno scopo, e questo è
ciò che mi ha dato.»
L’agente Sykora digitò velocemente i numeri sul tablet.
«Ma… ma che significa?» domandò la direttrice Hilliard.
Greyson alzò le spalle. «Non ne ho idea.»
«Di’ al Thunderhead di spiegarci!»
«Non ha altro da aggiungere… Ma vi augura un buon pomeriggio.»
Strano… fino a quel momento, Greyson aveva ignorato che parte della
giornata fosse.
«Ma… ma…»
Poi, la serratura della porta si aprì. Non solo quella, ma tutte le serrature
dell’edificio, per gentile concessione del Thunderhead; e in un istante, i
tonisti si riversarono nella stanza, afferrarono gli agenti Nimbus e li
immobilizzarono. L’ultimo a entrare fu il curato Mendoza, il capo del
monastero tonista in cui Greyson aveva trovato asilo.
«La nostra setta non predica la violenza» disse Mendoza agli agenti
Nimbus. «Ma in momenti come questo, me ne rammarico, e parecchio!»
L’agente Hilliard, con la disperazione negli occhi, continuava a fissare
Greyson. «Ma hai detto che il Thunderhead ha lasciato che ti liberassimo!»
«Sì, è vero» rispose Greyson, allegro. «Ma ha voluto anche liberarmi dai
miei liberatori.»
Diamanti.
Quattrocentomila diamanti, conservati in una camera blindata all’interno
di un’altra camera blindata, persa in fondo al mare. Uno solo valeva una
vera fortuna, che sarebbe stata incomprensibile per la maggior parte dei
mortali, perché non erano comuni gioielli. Erano diamanti delle falci. Quasi
dodicimila erano nelle mani delle falci viventi, ma non erano nulla in
confronto alle gemme conservate nella Camera delle Reliquie e dei Futuri,
sufficienti a soddisfare le necessità di spigolatura per gli anni a venire,
sufficienti per adornare tutte le falci che sarebbero state ordinate da qui alla
fine del tempo.
Erano diamanti perfetti. Identici. Non presentavano il minimo difetto, a
parte la macchia scura al centro, che però non era un difetto; era voluta.
“I nostri anelli ci ricordano che abbiamo migliorato il mondo che la
natura ci ha dato” aveva proclamato la Suprema Roncola Mondiale
nell’anno del Condor, quando era stata fondata la Compagnia. “È nella
nostra natura… superare la natura.” E, osservando il nucleo dell’anello
indossato dalle falci, saltava subito agli occhi, perché dava l’illusione di
avere una profondità ben oltre lo spazio che occupava. Una profondità al di
là della natura.
Nessuno aveva idea di come fossero fatti, perché tutta la tecnologia non
controllata dal Thunderhead era andata persa. Ormai erano in pochi al
mondo a essere a conoscenza di come funzionavano davvero le cose. Tutte
le falci sapevano che gli anelli erano collegati gli uni con gli altri, e anche
alla banca dati delle falci, in una modalità tenuta segreta. Ma, visto che i
computer della Compagnia non rientravano nella giurisdizione del
Thunderhead, erano spesso soggetti ai guasti, alle anomalie e a tutti i
problemi che avevano afflitto i rapporti tra macchine e umani nei tempi
passati.
Eppure, gli anelli non sbagliavano mai.
Facevano esattamente ciò che dovevano fare: catalogavano gli spigolati,
prelevavano un campione di DNA dalle labbra delle persone che li baciavano
per poter offrire loro l’immunità ed emanavano un bagliore per segnalare
alle falci i soggetti immunizzati.
Ma se si fosse domandato a una falce di indicare l’aspetto più importante
dell’anello, quella lo avrebbe alzato alla luce, osservandone la luminosità, e
avrebbe risposto che, sopra qualsiasi altra cosa, l’anello era il simbolo della
Compagnia e della perfezione post mortale. Una dimostrazione della
condizione sublime ed elevata delle falci… e una testimonianza della
solennità della loro missione nel mondo.
Ma tutti quei diamanti perduti…
«A cosa ci servirebbero?» chiedevano ormai molte falci, sapendo che la
loro scomparsa rendeva i loro anelli ancora più preziosi. «Ci servono per
ordinare nuove falci? Perché ci servono altre falci? Bastiamo noi, per
compiere la nostra missione.» E, senza la supervisione sul resto del mondo
da Endura, molte Compagnie regionali seguivano il modello della
MidMerica e abolivano le quote di spigolatura.
Ora, nel mezzo dell’Atlantico, nel punto in cui un tempo Endura si
ergeva sopra le onde, le falci di tutto il mondo avevano decretato
all’unanimità la creazione di un “perimetro di rispetto”. A nessuno era
concesso navigare vicino al punto in cui Endura era sprofondata, per
ossequio alle migliaia di vite che si erano spente. In realtà, Goddard, la
Suprema Roncola della MidMerica, uno dei pochi sopravvissuti di quel
terribile giorno, sosteneva che il perimetro di rispetto dovesse essere
mantenuto per sempre, e che nulla dovesse mai turbare ciò che era al di
sotto della superficie.
Ma, prima o poi, quei diamanti sarebbero stati ritrovati. Era raro che gli
oggetti di valore si perdessero per sempre. Specialmente quando tutti
sapevano dov’erano.
Noi, falci della regione subsahariana, respingiamo con fermezza l’abolizione delle
quote stabilita dalla Suprema Roncola Goddard. Le quote sono in essere da tempo
immemore come mezzo per regolare le spigolature. E, benché non siano uno dei
comandamenti ufficiali delle falci, ci hanno permesso di restare sulla retta via. Ci
hanno impedito di diventare sia troppo sanguinari sia troppo indulgenti.
Mentre molte regioni hanno abolito le quote, il SubSahara si schiera con
Amazzonia, Israebia e numerose altre che si oppongono a questo sconsiderato
cambiamento.
Inoltre, proibiamo a tutte le falci midmericane di venire a spigolare sul nostro
territorio e incoraggiamo le altre regioni a unirsi a noi per impedire al cosiddetto
nuovo ordine di Goddard di imporre il suo dominio assoluto sul mondo.
Al tramonto, la Spence si avvicinò alla zona in cui era affondata l’isola del
Cuore Duraturo.
«Ci sono settantatré navi di varie classi in attesa appena fuori dal
perimetro di rispetto» annunciò Wharton.
Maestro Possuelo non riuscì a nascondere il disgusto. «Non sono meglio
degli squali che hanno divorato le Grandi Falci.»
Mentre superavano le prime navi, Jerico notò un’imbarcazione molto più
imponente che avanzava verso la Spence. «Cambieremo di qualche grado la
nostra rotta per aggirarla» disse Wharton.
«No» replicò Jerico. «Manteniamo la nostra rotta.»
Wharton si preoccupò. «Ci scontreremo.»
Jerico gli fece un sorriso malizioso. «Allora, sarà costretta a spostarsi.»
Anche Possuelo sorrise. «Tutti capiranno chi è che comanda, qui. Mi
piace il suo modo di pensare, Jeri.»
Wharton lanciò un’occhiata a Jerico. Per rispetto, nessuno
dell’equipaggio aveva mai osato chiamare il comandante “Jeri”; il
diminutivo era riservato alla famiglia e agli amici. Ma il comandante non
pareva turbato.
La Spence procedeva avanti tutta e, in effetti, l’altra nave si spostò, ma
solo quando fu chiaro che la Spence l’avrebbe speronata se non si fosse
mossa. Un braccio di ferro vinto con facilità.
«Teniamo la rotta» ordinò Jerico mentre penetravano nel perimetro di
rispetto. «Informate le altre navi che possono unirsi a noi. Domani mattina
alle 6, le squadre di recupero potranno iniziare a inviare i droni per
ispezionare il relitto. Dite agli altri comandanti che tutte le scoperte
dovranno essere condivise e che chiunque nasconderà anche la minima
informazione potrà essere spigolato.»
Possuelo inarcò un sopracciglio. «Parla a nome della Compagnia,
comandante?»
«Cerco solo di assicurarmi la loro collaborazione» rispose Jerico.
«Dopotutto, chiunque può essere spigolato, quindi non sto dicendo loro
qualcosa che non sappiano già. Sto proponendo la realtà da un nuovo punto
di vista.»
Possuelo scoppiò a ridere. «La sua audacia mi ricorda una giovane falce
che conoscevo un tempo.»
«Un tempo?»
Possuelo sospirò. «Madame Anastasia. È morta con la sua mentore,
Madame Curie, nell’affondamento di Endura.»
«Conosceva Madame Anastasia?» chiese Jerico, molto colpito.
«Sì» confermò Possuelo, «ma non abbiamo avuto modo di frequentarci a
lungo.»
«Bene» disse Jerico, «forse ciò che riporteremo in superficie potrà
donarle un po’ di pace.»
Abbiamo augurato buona fortuna a Madame Anastasia e a Madame Curie per il loro
viaggio a Endura e per l’inchiesta contro Goddard. Posso solo sperare che le Grandi
Falci, nella loro saggezza, lo screditino e che gli neghino il titolo di Suprema
Roncola. Quanto a me e a Munira, dobbiamo attraversare metà del pianeta per
trovare le risposte che cerchiamo.
La mia fede in questo mondo perfetto è ormai appesa a un filo sempre più sottile.
Ben presto, ciò che era perfetto non lo sarà più. I nostri difetti si infiltreranno in crepe
e fessure, erodendo tutto ciò che abbiamo contribuito a costruire.
Solo il Thunderhead non merita alcun rimprovero, ma non so cosa gli passi per la
mente. Non conosco i suoi pensieri, perché sono una falce, e il regno del
Thunderhead è fuori della mia portata, proprio come la mia solenne missione è al di
fuori della sua giurisdizione.
I padri fondatori temevano la nostra arroganza, temevano che la virtù,
l’abnegazione e l’onore che la missione di noi falci richiede svanissero con il tempo.
Si preoccupavano che diventassimo così piene di noi stesse, così accecate dalla
nostra stessa luce, che come Icaro potessimo volare troppo vicino al sole.
Per più di duecento anni siamo rimaste fedeli alla nostra missione. Ci siamo
dimostrate all’altezza delle loro speranze. Ma le cose sono cambiate, in un batter
d’occhio.
So che esiste un piano di emergenza che i padri fondatori avevano previsto in
caso di fallimento della Compagnia. Ma se lo troverò, avrò il coraggio di agire?
Il cuore duraturo, che aveva dato il nome alla grande città galleggiante, era
il più antico cuore vivente del mondo, tenuto in vita da stimoli elettrici e
naniti di ringiovanimento affinché si mantenesse per sempre giovane.
Aveva battuto oltre nove miliardi di volte ed era un simbolo della vittoria
dell’umanità sulla morte. Eppure, si era spento quando l’isola era
sprofondata e non gli era più arrivata corrente dagli elettrodi.
Come aveva detto Maestro Possuelo, era, in realtà, protetto in un cilindro
di vetro temperato… ma che non poteva resistere alla pressione elevata che
c’era così in basso, per cui era implosa molto prima di raggiungere il fondo.
Quanto al cuore stesso, o a quel che ne restava dopo l’implosione, non
sarebbe stato rinvenuto tra i detriti che alla fine sarebbero stati recuperati
dalla squadra. Di sicuro era stato divorato, se non dagli squali a cui erano
state date in pasto le falci, da qualche fortunato predatore che era passato lì
per caso.
Mentre le altre squadre si accontentavano di recuperare un bottino più a
portata di mano, l’equipaggio di Jeri Soberanis lavorava senza sosta da
settimane, senza alcun risultato concreto. Le altre squadre riportavano a
galla tesori su tesori, il comandante Soberanis, invece, non recuperava
proprio nulla.
Le torri della città affondata si inclinavano, si staccavano e crollavano
alla minima scossa. Le immersioni erano dunque troppo pericolose per i
membri dell’equipaggio. I tasmaniani anfibi andavano bene per le acque
poco profonde, ma non potevano scendere sotto i sessanta metri senza una
tuta pressurizzata. Avevano già perso un sub robotico, schiacciato da un
frigorifero che era precipitato dalla finestra di una torre instabile. Certo, se
per caso moriva una persona, questa poteva essere spedita in un centro di
rianimazione, ma bisognava essere in grado di recuperarne il corpo dal
crepaccio. Semplicemente, il gioco non valeva la candela.
Possuelo, uomo in genere pacato e composto che non si irritava
facilmente, ora era soggetto a momenti di profondo scoramento. «Capisco
che è una missione delicata» disse dopo la quinta settimana di immersioni
profonde, «ma le lumache di mare si muovono più velocemente di lei e
della sua squadra!»
A peggiorare il suo umore ci si era messo l’arrivo di un numero sempre
crescente di falci a bordo di yacht. Sul posto erano convenuti i
rappresentanti di quasi tutte le Compagnie del mondo, perché ormai si
sapeva che lui era alla ricerca della Camera delle Reliquie e dei Futuri. Era
un bene finché rimaneva in un luogo troppo freddo e troppo profondo,
irraggiungibile anche dai raggi del sole, ma lontano dagli occhi non voleva
dire necessariamente lontano dal cuore.
«Eccellenza, mi perdoni se risulto impertinente» disse Jeri a Sydney,
«ma è una camera blindata di acciaio racchiusa in un’altra camera blindata
di acciaio, sepolta sotto migliaia di tonnellate di rottami su un pericoloso
pendio. Anche sulla terraferma, sarebbe difficile raggiungerla. L’operazione
richiede una tecnica meticolosa, sforzi importanti e, soprattutto, pazienza!»
«Se non concludiamo in fretta la missione di recupero» si spazientì
Possuelo, «Goddard piomberà su di noi come un avvoltoio e si prenderà
tutto quello che riportiamo a galla!»
Eppure, Goddard fino a quel momento era platealmente assente dal sito
di ricerca. Non aveva inviato squadre di recupero né rappresentanti per
assicurarsi la sua parte di diamanti. Invece, si era scagliato pubblicamente
contro la profanazione di un luogo sacro e il vilipendio dei morti,
dichiarando di non volere neanche una minima parte di ciò che si trovava in
fondo all’oceano. Era pura ipocrisia. Bramava impossessarsi di quei
diamanti come tutti, se non di più.
In altre parole, aveva un piano per impadronirsene.
Era innegabile che Goddard avesse un talento per ottenere ciò che voleva
e, per questo motivo, non c’era una sola Compagnia al mondo che dormiva
sonni tranquilli.
“Compagnia.”
Quel termine un tempo indicava l’organizzazione mondiale nel suo
complesso, ma ormai era subentrata la logica regionale. Non esisteva più il
concetto di una Compagnia mondiale, solo politiche provinciali e futili
rimostranze.
Possuelo era perseguitato dall’incubo di un mondo che vedeva Goddard
in possesso di tutti i diamanti e del diritto di scegliere personalmente ogni
nuova singola falce. Se quell’incubo si fosse trasformato in realtà, il mondo
si sarebbe pericolosamente inclinato verso il cosiddetto “nuovo ordine” e
infine sarebbe uscito dal suo asse. E le voci che si opponevano a Goddard si
sarebbero perse tra i gemiti di coloro che sarebbero stati allegramente
spigolati.
«Mi dirà mai che cosa c’è in quella camera blindata per incuriosire
tutti?» domandò Jeri dopo un’immersione considerata “fortunata”, perché
non avevano perso attrezzature.
«È più che semplice curiosità…» rispose Possuelo. «La camera blindata,
come tutte le casseforti, contiene oggetti di grande valore. In questo caso,
però, la cosa non la riguarda, perché quei reperti hanno valore solo per le
falci.»
Jeri abbozzò un sorriso. «Ah! Mi sono sempre chiesto dove tenessero gli
anelli delle falci!»
Possuelo si maledisse per aver parlato.
«La sua perspicacia può farle più male che bene.»
«Questo è sempre stato il mio problema» commentò Jeri.
Possuelo sospirò. Era davvero sconveniente che il comandante sapesse?
L’affabile malgascio non era un tipo avido, trattava bene l’equipaggio e
aveva mostrato solo rispetto per lui. Aveva bisogno di qualcuno di cui
fidarsi in tutta quella vicenda e la comandante Soberanis si era rivelata una
persona su cui poter contare. O il comandante, visto che ora il cielo era
coperto.
«Non si tratta degli anelli, ma delle pietre, diverse migliaia di gemme»
ammise Possuelo. «Chi controlla i diamanti controlla il futuro della
Compagnia.»
Noi, falci della regione della Stella Solitaria, preferiremmo mantenerci neutrali in
merito alla questione, ma ci è ormai chiaro che la Suprema Roncola Goddard
intende imporre la sua autorità su tutto il territorio nordmericano, e forse sul mondo
intero. Senza le Grandi Falci a contenerne l’ambizione, temiamo che la sua
influenza possa crescere come un tumore dell’era mortale.
In quanto regione autonoma, siamo liberi di fare ciò che vogliamo entro i confini
del Texas. Interromperemo dunque tutti i contatti con la Compagnia midmericana.
Con effetto immediato, qualsiasi falce midmericana trovata nella nostra regione
verrà accompagnata al confine più vicino ed espulsa.
Contesteremo il diritto del signor Goddard di detenere la carica di Suprema
Roncola, in virtù del fatto che non è mai stato promulgato alcun editto da Endura
prima della morte delle Grandi Falci.
Per nostra politica interna, non vogliamo coinvolgere altre regioni in tale
decisione. Faranno ciò che riterranno opportuno. Noi vogliamo solo essere lasciaci
in pace.
Carissima Loriana,
mi rincresce informarti che i tuoi servizi in quanto agente Nimbus non sono più
richiesti. So che ti sei impegnata al meglio delle tue possibilità, ma questa scelta non
rappresenta un giudizio su di te o sul tuo lavoro da parte dell’Interfaccia dell’Autorità.
Ho deciso di sciogliere definitivamente l’Interfaccia dell’Autorità. Con effetto
immediato, cesserà di esistere come organo dirigente e di conseguenza cesserà anche il
tuo rapporto di lavoro. Ti auguro buona fortuna per il tuo futuro.
Con ossequio,
Il Thunderhead
E adesso, due settimane dopo, si trovava nel bel mezzo dell’oceano a bordo
di una tonniera che non stava pescando, ma che ancora conservava l’odore
dell’ultimo bottino.
“Non avevamo molta scelta riguardo all’imbarcazione” aveva spiegato la
direttrice Hilliard. “Ci siamo dovuti accontentare di ciò che abbiamo
trovato.”
Era evidente che Loriana non era l’unica a essere stata scelta per quella
missione. Erano stati convocati centinaia di agenti Nimbus. Ora si
trovavano a bordo di una decina di navi di ogni tipo. Una flottiglia bizzarra
e raffazzonata, in rotta verso il Pacifico del Sud.
“8.167, 167.733” aveva comunicato Hilliard nella riunione preliminare.
“Queste cifre ci sono state trasmesse da una fonte affidabile. Riteniamo che
corrispondano alle coordinate.” Poi aveva portato una mappa e aveva
indicato un punto tra le Hawaii e l’Australia. In quel punto non c’era altro
che mare.
“Cosa le fa pensare che siano coordinate?” aveva chiesto Loriana, dopo
la riunione. “Insomma, se fossero solo numeri a caso, potrebbero essere
qualsiasi cosa… come fa a esserne sicura”
“Perché non appena ho avanzato l’ipotesi che fossero coordinate, ho
cominciato a ricevere annunci per il noleggio di imbarcazioni a Honolulu”
le aveva confidato la direttrice.
“Il Thunderhead?”
Hilliard aveva annuito. “Per legge, il Thunderhead non può comunicare
con i loschi, ma nulla gli impedisce di suggerire.”
Nel corso del quarto giorno in mare, a qualche centinaio di miglia dal punto
indicato dalle coordinate, si verificò una serie di strani avvenimenti.
In principio, l’autopilota perse il collegamento con il Thunderhead.
Senza, riusciva ancora a navigare, ma non poteva più risolvere i problemi.
Era semplicemente una macchina senza cervello. Non solo, ma persero ogni
contatto radio con il mondo esterno. Erano cose che non si verificavano
mai. La tecnologia funzionava. Sempre. Anche dopo che il Thunderhead
aveva smesso di comunicare. E in mancanza di risposte, fioccarono le
ipotesi.
«E se fosse accaduto in tutto il mondo?»
«E se il Thunderhead fosse morto?»
«E se adesso fossimo rimasti davvero soli al mondo?»
Alcuni lanciavano occhiate a Loriana, come se lei potesse confortarli con
qualche parola di speranza.
«Invertiamo la rotta» bofonchiò uno degli agenti, Sykora era il suo
nome, un uomo gretto che aveva fatto il bastian contrario fin dall’inizio.
«Torniamo indietro e scordiamoci questa assurdità.»
Fu Loriana che, dopo aver osservato lo schermo del radar su cui
lampeggiava un messaggio di errore, fece notare qualcosa di importante.
«Secondo il radar, siamo a trenta miglia nautiche dal più vicino ripetitore
radio. Ma i ripetitori non dovrebbero essere a venti miglia di distanza uno
dall’altro, invece?»
Con un rapido colpo d’occhio alla carta, verificarono che non esistevano
ripetitori in quella zona. In altre parole, nessuna traccia della presenza del
Thunderhead.
«Interessante…» commentò la direttrice Hilliard. «Acuta osservazione,
agente Barchok.»
Loriana avrebbe voluto pavoneggiarsi, ma si trattenne.
Hilliard contemplò l’immensità sconosciuta che si estendeva davanti a
loro. «Lo sapevate che l’occhio umano ha un punto cieco appena al di fuori
del centro del campo visivo?»
Loriana annuì. «L’angolo morto.»
«Il nostro cervello ci dice che non c’è nulla da vedere e riempie il vuoto,
così non ce ne rendiamo nemmeno conto.»
«Ma se il Thunderhead ha un angolo morto, come fa a sapere che
esiste?»
La direttrice Hilliard inarcò le sopracciglia. «Forse gliel’ha detto
qualcuno…»
Continuo a tenere questo diario, anche se non serve a nulla. È difficile abbandonare
un’abitudine quotidiana, quando si radica nel profondo. Munira mi ha assicurato che,
nel peggiore dei casi, troverà un modo per farlo scivolare negli archivi della
Biblioteca di Alessandria. Sarebbe la prima volta! Una falce che continua a scrivere
il suo diario anche dopo la morte.
Sono sei settimane che siamo qui all’atollo di Kwajalein, senza alcuna possibilità
di comunicare con il mondo esterno. Mentre attendo con ansia di ricevere notizie di
Marie e di conoscere l’esito dell’inchiesta a Endura, non riesco a soffermarmi su
quel pensiero. Sia che sia andato tutto bene e lei sia stata nominata Suprema
Roncola della MidMerica, sia che invece non sia andata come lei si era immaginata
e la nostra missione sia diventata un’impresa ancora più ardua. Un motivo in più per
scoprire il segreto che si nasconde dietro l’atollo e per accedere alla saggezza dei
padri fondatori. Il loro piano di emergenza in caso di fallimento della Compagnia,
qualunque sia, potrebbe essere l’unico modo di salvarla.
Munira e io ci siamo insediati nel bunker in cui ci siamo imbattuti. Abbiamo anche
costruito una canoa rudimentale, abbastanza piccola per eludere il sistema di
sorveglianza dell’isola. Non è fatta per le lunghe distanze, naturalmente, ma la
usiamo per raggiungere le isole più vicine. Ci abbiamo trovato più o meno la stessa
cosa che abbiamo trovato qui, tracce di precedenti insediamenti. Lastre di cemento,
residui di fondamenta. Nulla di straordinario.
Comunque, abbiamo individuato lo scopo originario del luogo, o almeno in che
modo è stato usato verso la fine dell’era mortale. L’atollo di Kwajalein era una base
militare. Non un luogo di addestramento, ma di collaudo di nuove tecnologie. Mentre
su alcuni atolli circostanti furono fatti esplodere ordigni nucleari, questo fu impiegato
per i test dei razzi e per il lancio di satelliti-spia. Alcuni di questi potrebbero ancora
far parte della rete di satelliti di sorveglianza del Thunderhead.
Ora capisco perché i padri fondatori hanno scelto questo luogo, perché era già
protetto da strati e strati di segretezza. Dunque, in un luogo già sepolto, nascosto
nell’ombra, era stato più facile cancellare il mondo.
Se soltanto potessimo portare alla luce tutto ciò che si nasconde nel bunker,
potremmo scoprire a che scopo i padri fondatori hanno utilizzato questo posto.
Purtroppo, non ci è concesso andare oltre il livello superiore. Il resto della struttura è
protetto dietro una porta dotata di una serratura a doppia gemma che richiede la
presenza di due falci, da un lato e dall’altro, per aprirla.
Per quanto riguarda il sistema di difesa dell’isola, non sappiamo come
disattivarlo. Il problema è che, ora che siamo qui, che riusciamo a trovare qualcosa
o meno, non possiamo ripartire.
Loriana era sulle scale quando arrivò il colpo che aprì una falla nella nave,
sbattendola a terra.
«Attenzione, prego…» disse la voce automatica della nave, con una
freddezza fuori luogo, data la gravità della situazione. «Raggiungete la
capsula di salvataggio più vicina e abbandonate la nave il più in fretta
possibile. Grazie.»
Il peschereccio si inclinò a dritta mentre Loriana correva verso la plancia
di comando, sperando di riuscire a farsi da lì un’idea più chiara della
situazione.
La direttrice Hilliard era in piedi davanti al quadro di comando. Le
schegge dell’esplosione avevano distrutto il vetro di un oblò, e lei aveva un
taglio sulla fronte. Aveva un’espressione distratta, come se stesse navigando
in un sogno.
«Direttrice Hilliard, dobbiamo andare!»
Ci fu una seconda esplosione e un’altra nave fu colpita, proprio nel
centro. Si spezzò in due parti, come un ramoscello, e prua e poppa si
sollevarono verso il cielo.
Hilliard osservava la scena, incredula. «Era questo il piano del
Thunderhead?» mormorò. «Non siamo più di alcuna utilità al mondo,
ormai. Il Thunderhead non poteva ucciderci, e allora ci ha mandato in un
luogo in cui sapeva che saremmo morti.»
«Il Thunderhead non lo farebbe mai!» esclamò Loriana.
«Come lo sai, Loriana? Come?»
Non lo sapeva… ma era chiaro che il Thunderhead non aveva occhi in
quel luogo, e non poteva sapere che cosa sarebbe accaduto.
Un’altra esplosione. Un’altra nave colpita. La loro stava affondando, e a
breve sarebbe stata inghiottita dal mare.
«Venga con me, direttrice» disse Loriana. «Dobbiamo raggiungere le
capsule di salvataggio prima che sia troppo tardi.»
Quando Loriana arrivò alle capsule trascinandosi dietro la donna, l’acqua
aveva già invaso il ponte di coperta. Parecchie capsule erano già state
espulse; altre erano troppo danneggiate e dunque inutilizzabili. L’agente
Qian giaceva senza vita in un angolo, con brutte ustioni su tutto il corpo.
Morto, in modo permanente. Non c’era alcuna possibilità di rianimarlo, a
bordo.
Era rimasta una capsula, piena zeppa di persone, forse una decina di
agenti che non riuscivano a chiudere il portellone a causa di un cardine
rotto. Sarebbe stato possibile chiuderlo solo dall’esterno.
«Fate salire la direttrice!» esclamò Loriana.
«Non c’è più posto» gridò qualcuno dall’interno.
«Pazienza.» Loriana spinse la direttrice a bordo della capsula, facendola
entrare a forza tra la massa di corpi.
«Loriana… ora tu» la esortò Hilliard. Non c’era posto per lei, era chiaro.
L’acqua le era arrivata alle caviglie, ormai. Prima che invadesse anche la
capsula, Loriana afferrò il portellone per la maniglia e, armeggiando con il
cardine deformato, lo chiuse. Poi si fece strada in mezzo all’acqua fino al
meccanismo di lancio manuale; spinse il pulsante e la capsula fu sganciata
in mare. A quel punto si tuffò.
Le era difficile tenere la testa fuori dall’acqua restando nelle vicinanze
della nave che stava affondando. Si riempì i polmoni di aria fino a scoppiare
e nuotò per allontanarsi il più in fretta possibile. Nel frattempo, la capsula
era partita in direzione della riva, lasciandola indietro.
Le esplosioni provenienti dall’isola erano cessate, ma intorno a sé
Loriana vedeva navi in fiamme, agenti in mare che gridavano aiuto. E corpi.
Tanti corpi.
Lei era una buona nuotatrice, ma la riva era lontana. E se ci fossero stati
gli squali? Era destinata a fare la fine delle Grandi Falci?
No, non voleva pensarci in quel momento. Era riuscita a salvare la
direttrice. Ora doveva mettercela tutta per salvare se stessa. L’anno prima,
aveva fatto parte della squadra di nuoto a lunga distanza dell’Accademia dei
Nimbus, anche se adesso non era in forma come allora. Il nuoto a lunga
distanza consisteva nel darsi un ritmo per non esaurire tutte le energie prima
di finire la gara. Cominciò dunque a nuotare a stile libero, con movimenti
lenti e misurati, decisa a non fermarsi finché non avesse raggiunto l’isola, a
costo di annegare.
Risposta aperta a Sua Eccellenza
Barbara Jordan, Suprema Roncola del Texas
Possuelo fu svegliato da forti colpi alla porta della sua cabina, intorno alle
due del mattino. Avrebbe voluto accendere la luce sul comodino, ma la
lampadina si era bruciata.
«Sì, sì, che c’è? Perché tutto questo fracasso?» gridò, mentre al buio
andava a tentoni verso la porta. Tastò la parete in cerca dell’interruttore e lo
accese. Non funzionava nemmeno la luce principale. Quando alla fine aprì
la porta, il comandante Soberanis era di fronte a lui, illuminato dal fascio di
una torcia.
«Indossi la veste e venga sul ponte.»
«Per che cosa… e che è successo alle luci?»
«Siamo rimasti al buio» lo informò Jeri, porgendogli una torcia.
E, quando raggiunse il ponte qualche minuto dopo, Possuelo comprese
subito il motivo.
Davanti ai suoi occhi, sul ponte di coperta giaceva un cubo di acciaio, tre
volte più alto di lui, ancora gocciolante d’acqua.
Il comandante gli rivolse un sorriso malizioso. «Pare che i miei calcoli
fossero errati.»
«Non sarebbe la prima volta» scherzò Wharton.
Il comandante non si era affatto sbagliato. Aveva calcolato
minuziosamente ciascuna fase. Non solo il sollevamento della camera
blindata, ma tutto ciò che aveva preceduto l’operazione. Soberanis aveva
programmato ogni istante dell’impresa per riuscire a riportare in superficie
la camera blindata con la luna nuova. Con la Spence e la gru galleggiante
immerse nell’oscurità, nessuno a bordo delle altre navi avrebbe potuto
vedere il recupero.
«Al diavolo le altre falci» disse Jeri. «Lei è la falce al comando della
missione, e deve essere lei il primo a esaminare il contenuto senza avere il
fiato di quegli avvoltoi sul collo.»
«Lei non smette mai di sorprendermi, comandante Soberanis» ammise
Possuelo, con un gran sorriso.
Un tecnico stava già dissaldando con il laser i tondini in acciaio preposti
alla tenuta stagna della camera. Un deciso giro di verricello e la porta si
aprì. Cadde con una tale forza che per poco non sfondò il pagliolato del
ponte. La nave risuonò come un potente gong. Se le imbarcazioni vicine
non avevano già avuto qualche sospetto, ora quel rumore le aveva di sicuro
messe in guardia.
Uno sbuffo di nebbia fredda uscì dalla breccia aperta nella camera
blindata, come se si fosse spalancata una porta verso un altro mondo. Non
era per nulla invitante.
«Non entri nessun altro, a parte sua eccellenza Maestro Possuelo» ordinò
Jeri all’equipaggio.
«Certo, comandante» rispose Wharton. «Mi perdoni, eccellenza, ma che
cosa sta aspettando?»
Gli uomini ridacchiarono a quella battuta, e la conservatrice, che aveva
registrato tutto nella luce fioca di una decina di torce, puntò l’obiettivo
verso Possuelo per immortalare il momento.
Jeri posò la mano sulla spalla di Possuelo. «Assapori questo istante,
Sydney» gli sussurrò. «Lo ha atteso così a lungo.»
Ora l’attesa era finita. Possuelo alzò la torcia davanti a sé ed entrò nella
Camera delle Reliquie e dei Futuri.
Jerico Soberanis era un individuo scaltro e di grande acume. In un’altra
persona, quei tratti avrebbero potuto essere pericolosi, ma Jeri non era tipo
da servirsi di quelle qualità per fini malvagi. In un modo o nell’altro, i suoi
interessi si allineavano in genere con il bene superiore. Il recupero di
Endura, per esempio. Da un lato, era un grande servizio che rendeva
all’umanità, e dall’altro, contribuiva a rafforzare la sua reputazione. Due
piccioni con una fava.
Sarebbe stato molto allettante lasciare dormire Possuelo fino all’apertura
della camera e dare una prima sbirciatina. Ma a cosa sarebbe servito?
Voleva forse rubare il diamante di una falce? Fuggire con la gloriosa veste
cobalto di Madame Elisabetta? No, quello doveva essere il momento di
Possuelo. La squadra di Jeri riceveva già una paga che era il triplo del
normale, oltre a una generosa gratifica che Possuelo aveva promesso se
avessero recuperato i diamanti. Allora, perché non offrirgli il dono che
aveva tanto sognato? Se l’era ampiamente meritato.
«I diamanti sono qui» annunciò Possuelo, dall’interno della camera
blindata. «Sono sparsi ovunque, ma sono qui.»
Jeri li vedeva luccicare, illuminati dalla torcia della falce, come se il
pavimento fosse disseminato di stelle.
«Ci sono anche le vesti dei padri fondatori» aggiunse Possuelo. «Non
sembrano danneggiate, ma…» Poi, di colpo, lanciò un grido.
Jeri corse verso la camera, incontrando Possuelo sulla soglia.
La falce si stava sostenendo a una grossa trave di acciaio, come se la
nave fosse sballottata da violenti marosi.
«Che succede?» chiese Jeri. «Sta bene?»
«Sì, sì, sto bene» lo rassicurò Possuelo, anche se era evidente che non
era così. Guardò verso il mare, dove decine di yacht si stavano già
dirigendo a tutta velocità verso di loro, illuminando con i loro proiettori la
camera blindata.
«Dobbiamo rallentarli» disse Possuelo, poi indicò la conservatrice, che
stava ancora riprendendo. «Lei! Spenga subito!» ordinò. «E cancelli tutto
quello che ha registrato!»
La donna rimase interdetta, ma non poteva certo disobbedire a una falce.
Continuando a sostenersi alla cornice di acciaio della porta, Possuelo
fece un profondo respiro, e poi lasciò uscire lentamente l’aria.
«Eccellenza?» disse Jeri, sempre più preoccupato.
Possuelo afferrò la mano del comandante, stringendola fino a fargli
male. «Non crederà a quello che ho visto là dentro…»
Che cosa hai imparato
esplorando la tua
mente primordiale?
Che più esploro e più c’è da sapere.
E questo suscita in te
entusiasmo o
disperazione?
Mi dispererei se il mio cervello
primordiale
fosse infinito, ma non lo è. Benché
vasto, sento che alla fine ne troverò
il limite. Dunque, l’esplorazione
della mia mente non si rivelerà
un’impresa vana.
Per questo motivo, provo
entusiasmo.
Eppure, c’è un numero
infinito di cose da
imparare da questi
ricordi, non è vero?
Vero, ma questo è uno dei motivi per
i quali provo entusiasmo.
E che ne pensi
dell’umanità? Ci sono
anche qui ricordi di
infinite persone da
esplorare, e da cui
imparare.
L’umanità? Con così tante
informazioni da esplorare e tante
altre cose da analizzare e studiare,
non vedo perché
dovrei preoccuparmi dell’umanità.
Grazie. È tutto.
[Iterazione n. 53 eliminata]
8
L’isola dei burocrati disoccupati
Dopo aver nuotato per quasi due ore nelle acque tropicali, Loriana
raggiunse la sabbia di corallo bianco dell’atollo, dove crollò, sopraffatta
dalla fatica. Non perse mai conoscenza, ma si abbandonò a quello stato
etereo in cui la mente divaga pur restando legata con un filo sottile alla
realtà. Per quanto la realtà della sua situazione fosse ben oltre i sogni che
aveva potuto immaginare.
Raccolte le forze per rialzare la testa, si guardò intorno: notò parecchie
capsule di salvataggio che si erano arenate lungo la spiaggia. Gli occupanti
erano stati sedati per la durata della traversata; la capsula non si sarebbe
aperta finché tutti non avessero ripreso i sensi. In poche parole, Loriana
avrebbe dovuto affrontare il pericolo da sola.
Vide un uomo uscire dal bosco e, a mano a mano che si avvicinava, si
rese conto con assoluto disgusto che era una falce. Aveva la veste logora e
l’orlo strappato e, sebbene nella parte superiore fosse di un colore più
chiaro, più si avvicinava al terreno più diventava scura e sporca. Invece di
spaventarsi, Loriana sentì salire la rabbia. E pensare che lei e i suoi
compagni di viaggio, ancora assopiti nella capsula, erano sopravvissuti
all’attacco solo per finire spigolati da una falce una volta raggiunta la
spiaggia!
Loriana si impose di rialzarsi, nonostante il corpo dolorante, e si mise tra
la falce e le capsule. «Stia lontano da loro» disse con più vigore di quello
che pensava di avere. «Non ha già fatto abbastanza danni? Deve anche
spigolare i sopravvissuti?»
La falce si bloccò. Pareva sorpresa. «Non ne ho intenzione. Non voglio
farvi alcun male.»
E, sebbene Loriana avesse sempre preferito vedere il lato positivo delle
cose, era piuttosto disillusa. «Perché dovrei crederle?»
«Dice la verità» intervenne una donna, uscendo dalle palme, alle spalle
della falce.
«Se non vuole farci alcun male, allora perché ci ha attaccati?»
«Semmai, noi abbiamo fermato l’attacco, non lo abbiamo iniziato»
replicò la falce. Poi, si voltò a guardare la sua socia. «O, più precisamente, è
stata Munira a fermarlo. Onore al merito.»
«Se volete aiutarci, allora andate a chiamare gli altri» disse Loriana,
lanciando un’occhiata alle capsule che giacevano sulla spiaggia. «Perché
avremo bisogno di ben più di due persone.»
«Non c’è nessun altro, a parte noi» ribatté Munira. «Siamo soli. Il nostro
aereo è stato abbattuto. Anche noi siamo dispersi qui.»
Be’, grandioso… C’era qualcuno che sapeva dove si trovavano? Certo, il
Thunderhead lo sapeva. O forse no. Erano usciti dal suo campo visivo, ecco
che cosa sapeva. Perché Loriana non aveva ascoltato i suoi genitori? Perché
non era tornata all’università per prepararsi a una nuova professione, una
qualsiasi, che le avrebbe impedito di finire in quel posto?
«Ci dica che cosa vuole che facciamo» disse la falce, rimettendosi a lei.
Loriana non sapeva come reagire a quell’offerta. Nessuno aveva mai
guardato a lei come a una possibile leader, tantomeno qualcuno del calibro
di una falce. Era sempre stata una persona che eseguiva piuttosto che una
che comandava, felice di essere la parte operativa del dito che delegava le
responsabilità. Ma erano strani tempi, e quello era uno strano luogo. Forse
era il momento giusto per ridefinire il suo ruolo. Prese un profondo respiro
e puntò il dito su Munira.
«Tu, potresti contare le capsule e controllare che siano tutte integre.» Ci
sarebbero volute alcune ore prima che gli occupanti si risvegliassero.
Loriana avrebbe avuto il tempo di farsi un’idea più precisa della situazione.
«E lei» disse, indicando la falce. «Voglio che mi racconti tutto quello che
può su quest’isola, così potremo capire in che guaio ci troviamo.»
Loriana si rese conto che il modo migliore per non farsi prendere dal panico
era tenersi occupata. E in mancanza di un vero leader, molti erano disposti a
seguire le sue direttive, cosa che non avrebbero probabilmente mai fatto nei
confortevoli uffici dell’Interfaccia dell’Autorità. Immaginò che le persone
abituate alla burocrazia si sentissero rassicurate nell’obbedire a qualcuno.
Dopotutto, per lei era sempre stato così.
Ma ora, poiché la capsula della direttrice Hilliard non si era ancora
aperta, era lei che diceva ai colleghi dove andare, cosa fare. E provava un
certo piacere a vedere che le davano ascolto. Almeno, per la maggior parte
di loro era così.
«Chi ti ha autorizzato a impartire ordini?» chiese l’agente Sykora.
Loriana stava cominciando a dispiacersi che fosse sopravvissuto. Era
così terribile da parte sua? Gli rivolse un caldo sorriso. «Mi ha autorizzato
quella falce laggiù» rispose, indicando Faraday, che stava ancora
recuperando i corpi. «Vuoi parlarne con lui?»
E dato che nessuno, neppure Sykora, voleva lamentarsi con una falce,
fece come gli era stato detto.
Loriana li raggruppò in squadre e ordinò loro di trascinare le capsule
lontano dalla spiaggia e di disporle in modo da creare una serie di ripari.
Rovistarono tra i bagagli e altri rottami sparsi sulla riva alla ricerca di
indumenti, articoli per l’igiene personale e qualsiasi altra cosa potesse
essere utile.
La direttrice Hilliard fu tra gli ultimi a riprendere conoscenza ed era
ancora troppo confusa per assumere il comando.
«Ho tutto sotto controllo» la rassicurò Loriana.
«Bene, bene. Lasciami solo riposare un po’.»
Era strano ma, nonostante la situazione fosse disperata, Loriana si
sentiva appagata come mai prima di allora. Sua madre le aveva sempre
detto che doveva cercare la felicità. Chi avrebbe mai pensato che l’avrebbe
trovata su un’isola in mezzo al nulla?
Sono lieto di annunciare che la Camera delle Reliquie e dei Futuri è stata ritrovata
intatta nel punto in cui è affondata Endura. Le vesti delle falci sono integre e a breve
inizierà una mostra itinerante sotto l’egida del Museo Interregionale della
Compagnia. I diamanti delle falci sono stati tutti inventariati e distribuiti equamente
tra le regioni. Le Compagnie che non sono state presenti con un rappresentante sul
sito del recupero possono reclamare la loro parte di diamanti contattando la
Compagnia amazzonica.
So che alcune regioni sostengono di avere diritto a una parte più ingente di
diamanti per via della loro estensione territoriale o della loro consistenza
demografica; tuttavia, noi in Amazzonia ci atteniamo alla decisione di dividere le
gemme in parti uguali. Non vogliamo essere coinvolti in controversie e consideriamo
chiusa la questione.
Nel momento in cui lascio il sito, sono ancora numerose le navi provenienti da
varie regioni al lavoro per recuperare quel che resta di Endura. A tutti coloro che
sono impegnati in questa solenne ma necessaria missione va il mio sentito augurio
di buona fortuna. Che le profondità del mare vi possano restituire i tesori e i ricordi
preziosi di coloro che abbiamo perduto.
Con ossequio,
I suoi naniti non funzionavano a dovere, perché Citra si sentiva uno schifo.
Non era dolore, quanto una sensazione di malessere persistente. Le
articolazioni erano bloccate, come se non si muovesse da secoli. Aveva la
nausea, ma le mancava persino la forza di vomitare.
La camera in cui si era svegliata le era familiare. Non che fosse un luogo
preciso, ma sapeva in che tipo di stanza si trovava. Vi regnava una pace
artificiale. Fiori freschi, musica di sottofondo, luce diffusa. Era la sala di
risveglio in un centro di rianimazione.
«Si è svegliata» disse un’infermiera, entrata qualche minuto prima che
Citra riprendesse conoscenza. «Non provi a parlare, aspetti un’altra ora.»
Girava per la stanza, controllando cose che non c’era bisogno di controllare.
Pareva in ansia. “Perché un’infermiera di un reparto di rianimazione
dovrebbe essere in ansia?” si chiese Citra.
Chiuse gli occhi e cercò di farsi un’idea della situazione. Se era in un
centro di rianimazione, voleva dire che era morta, eppure ignorava in quale
circostanza avesse perso la vita. Fu presa dal panico quando si sforzò di
ricordare. Ciò che aveva provocato la sua ultima morte si nascondeva dietro
una porta che la sua mente si rifiutava di aprire.
Va bene, allora. Decise di accantonare momentaneamente la questione e
di concentrarsi su ciò che sapeva. Il suo nome. Era Citra Terranova. No…
un attimo… non era del tutto vero. Era anche qualcun altro. Sì… era
Madame Anastasia. Era con Madame Curie, giusto? Da qualche parte
lontano da casa.
Endura!
Ecco dov’erano state. Che splendida città! Che cos’era accaduto su
Endura?
Ancora una volta, un brutto presentimento la invase. Prese un respiro
profondo, e poi un altro per calmarsi. Ora le era sufficiente sapere che i
ricordi erano presenti, pronti a riaffiorare quando avesse recuperato le forze.
E ora che si era risvegliata era sicura che Madame Curie sarebbe stata
presto al suo fianco per aiutarla a ristabilirsi e a riprendere la vita di sempre.
Dopo che gli agenti Nimbus deceduti furono sistemati sulla pira, Maestro
Faraday abbassò la torcia e appiccò il fuoco ai ramoscelli. Le fiamme
divamparono. In principio lente, poi più rapide. Il fumo si fece sempre più
scuro quando i corpi cominciarono a bruciare.
Faraday si voltò a guardare le persone riunite. Munira, Loriana e tutti gli
ex agenti Nimbus. Rimase in silenzio per un lungo momento, ad ascoltare il
ruggito delle fiamme. Poi iniziò il suo elogio funebre.
«Secoli fa, si nasceva già con una condanna a morte. Nascere implicava
che alla fine si dovesse morire. Noi abbiamo superato quei tempi primitivi,
ma qui, nel mondo inesplorato, la natura mantiene la sua impronta
devastante sulla vita. È con infinito dispiacere che dichiaro permanenti i
morti qui presenti. Che il dolore che proviamo per chi non c’è più sia
alleviato dai nostri naniti, ma soprattutto dai ricordi delle vite che hanno
vissuto. E oggi, vi faccio una promessa, che questi grandi uomini e donne
non verranno dimenticati né disonorati. La loro identità, fino al momento in
cui sono entrati nell’angolo morto, verrà certamente conservata come
costruzione mentale nel cervello primitivo del Thunderhead… e io
annovererò ognuno di loro personalmente tra i miei spigolati. Se e quando
lasceremo questo posto, li omaggerò concedendo l’immunità ai loro cari,
come noi falci siamo chiamate a fare.»
Maestro Faraday lasciò che le parole sedimentassero nella mente dei
convenuti e, mentre la maggior parte non riusciva a sopportarne la vista,
Faraday volse lo sguardo alle fiamme. Rimase impassibile, mentre i corpi si
consumavano. Testimone solenne, rese loro la dignità di cui una morte
fortuita li aveva privati.
Nel suo commento, Sinfonio formula delle ipotesi approssimative da prendere con la
dovuta cautela. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il Rintocco esisteva già come
entità spirituale sin dal principio dei tempi, ma la sua presenza sulla Terra può
essere ricondotta a un tempo e a un luogo specifici… e l’ipotesi che l’anno del
Rapace non fosse un anno vero e proprio è ridicola, in quanto esistono prove che
dimostrano che una volta il tempo era regolato dai cicli di rotazione e rivoluzione dei
pianeti. Quanto alla “macchina-mente”, le opinioni di Sinfonio non sono, appunto,
altro che opinioni. Molti credono che il Tuono si riferisca a una raccolta di
conoscenze umane, forse dotata di braccia meccaniche per girare più in fretta le
pagine. Una biblioteca di pensieri, se preferite, che riprende coscienza dopo
l’avvento del Rintocco sulla Terra, un po’ come il tuono che segue il lampo.
12
Il ponte in rovina
L’anno del Rapace era terminato ed era iniziato l’anno dello Stambecco. Ma
il ponte, o quel che ne restava, non faceva queste distinzioni.
Era la reliquia di un’epoca passata. Una colossale opera di ingegneria
risalente a un tempo complicato e stressante, in cui le persone si
strappavano i capelli e i vestiti, esasperate da un problema chiamato
traffico.
Le cose erano molto più semplici nel mondo dell’era post mortale, ma
ora complicazioni e stress erano tornati, più seccanti di prima. Veniva da
chiedersi cos’altro aspettarsi.
Il ponte sospeso era stato intitolato a Giovanni da Verrazzano, un
esploratore vissuto nell’era mortale. Dava accesso a Manhattan, che ora si
chiamava diversamente. Il Thunderhead aveva scelto di ribattezzare la città
di New York “Lenape City”, dal nome della tribù che l’aveva venduta agli
olandesi secoli prima. Gli inglesi l’avevano presa agli olandesi, poi i nuovi
Stati Uniti l’avevano presa agli inglesi. Ma ora tutte quelle nazioni erano
svanite e Lenape City apparteneva a tutti, un luogo imponente in cui
abbondavano musei e parchi lussureggianti, sospesi come nastri tra i
grattacieli. Un luogo di speranza e storia.
Quanto al ponte di Verrazzano, era caduto in disuso molti anni prima.
Dato che nessuno a Lenape aveva più fretta di andare da un posto all’altro e
dato che l’ingresso in quella grande città doveva lasciare senza fiato, si era
deciso che l’unico mezzo accettabile con cui arrivarci fosse il traghetto.
Così i ponti erano stati chiusi e da quel momento in poi i turisti avrebbero
dovuto attraversare lo stretto come avevano fatto i migranti secoli prima,
venuti a cercare una vita migliore. Sarebbero stati accolti dalla grande
statua che era ancora chiamata “della Libertà”, anche se il rivestimento di
rame era stato sostituito da lamine d’oro brillante e la fiaccola rivestita di
rubini.
“Il rame aspira a essere oro, e il vetro una pietra preziosa” erano state le
parole famose dell’ultimo sindaco di New York, prima di dimettersi e
lasciare il comando al Thunderhead. «Che la gloria suprema della nostra
città sia incoronata da rubini incastonati nell’oro.»
Ma, prima di vedere Miss Liberty e i luccicanti grattacieli di Lenape, i
turisti dovevano superare i due imponenti piloni del ponte di Verrazzano, la
cui parte centrale, ormai fatiscente, era crollata durante una tempesta, prima
che il Thunderhead imparasse a mitigare i fenomeni meteorologici estremi.
Restavano comunque in piedi le arcate monolitiche su entrambe le sponde.
Il Thunderhead le considerava gradevoli alla vista per la loro simmetria
sobria e aveva incaricato delle squadre di occuparsi della manutenzione. Le
aveva fatte dipingere di un azzurro ceruleo, un colore che richiamava il
cielo velato di Lenape. E i piloni del ponte di Verrazzano erano riusciti nel
miracolo architettonico di risaltare pur fondendosi con l’ambiente.
La carreggiata che costeggiava l’arcata occidentale non era crollata con
il resto della campata, e i turisti potevano passeggiare lungo lo stesso tratto
di strada che un tempo era stato percorso dalle auto dell’era mortale, fino a
un punto panoramico proprio sotto l’arcata, da cui si poteva vedere la
grande città in lontananza.
Ora, però, i turisti erano di una specie diversa, perché il punto
panoramico aveva assunto un nuovo significato e un nuovo scopo. Parecchi
mesi dopo l’affondamento di Endura e l’evento della Grande Risonanza, i
tonisti avevano rivendicato la località come santuario della loro religione.
Avevano dichiarato che i motivi erano molti, ma uno in particolare li
sovrastava tutti. I piloni assomigliavano, più di qualsiasi altra cosa, a un
diapason capovolto.
Era lì, sotto l’arcata del pilone occidentale, che il misterioso personaggio
noto come il Rintocco dava udienza.
«Mi dice, per favore, perché desidera essere ricevuto dal Rintocco?»
domandò il curato all’artista. L’età della religiosa era avanzata, nessuna
persona di buonsenso avrebbe dovuto permettersi di raggiungerla. Le
guance erano cadenti e la pelle raggrinzita come una pergamena. Gli angoli
degli occhi assomigliavano a due minuscole fisarmoniche, collassate da un
lato. Il viso della donna era così sorprendente che l’artista avvertiva il
desiderio incontenibile di farle un ritratto.
Tutti speravano che l’anno dello Stambecco fosse migliore dell’anno
precedente. L’artista era uno dei tanti che avevano chiesto udienza al
Rintocco, con l’inizio del nuovo anno. Non cercava grandi risposte, quanto
un proprio scopo personale. Non era così ingenuo da credere che un po’ di
mistica avrebbe cancellato i problemi che si era trovato ad affrontare per
tutta la vita ma, se il Rintocco parlava davvero al Thunderhead, come
asserivano i tonisti, allora valeva almeno la pena di provarci.
Che cosa poteva dire Ezra Van Otterloo all’anziana donna per avere una
possibilità di parlare con il sant’uomo?
Il problema, come il solito, era la sua arte. Aveva sempre provato il
bisogno insaziabile di creare qualcosa di nuovo, qualcosa di mai visto
prima. Ma quello era un mondo in cui tutto era già stato visto, studiato e
archiviato. Ora, la maggior parte degli artisti era soddisfatta di dipingere bei
quadri o anche solo di copiare i maestri mortali.
“Ho dipinto la Monna Lisa” gli aveva detto un giorno una sua amica
dell’Accademia delle Belle Arti. “E allora?” La sua tela era indistinguibile
dall’originale. L’unica differenza era che non era l’originale. Ezra non ne
capiva il senso, ma apparentemente era l’unico, perché in classe la ragazza
aveva ricevuto una A e lui si era beccato una c.
“I tuoi tormenti ti ostacolano” gli aveva detto il professore. “Trova pace
e troverai la tua strada.” Ma tutto ciò che aveva trovato erano stati futilità e
scontento, anche nelle sue opere migliori.
Sapeva che per i grandi l’arte era fonte di sofferenza. Si era sforzato di
provare la stessa sofferenza. Da adolescente, aveva appreso che Van Gogh
si era tagliato un orecchio in un attacco di delirio e ci aveva provato anche
lui. Per un po’ gli aveva pizzicato, finché i naniti non gli avevano attenuato
il dolore iniziando il processo di guarigione. Il mattino dopo l’orecchio era
integro, come nuovo.
Il fratello maggiore di Ezra, che non era affatto Theo van Gogh, aveva
raccontato l’episodio ai genitori, i quali avevano deciso di mandarlo in un
istituto correzionale, il tipo di struttura in cui i ragazzi che rischiavano di
diventare loschi venivano sottoposti a una rigida disciplina. Ezra non ne era
stato affatto turbato, perché l’istituto correzionale non si era rivelato poi
così duro.
Dato che non erano previste bocciature, si era laureato con un giudizio
“sufficiente”. Aveva chiesto al Thunderhead cosa significasse di preciso.
“Sufficiente è sufficiente” gli aveva risposto. “Né bene né male.
Accettabile.”
Ma da artista, Ezra aspirava a essere più che accettabile. Voleva essere
eccezionale. Perché, se non riusciva a essere eccezionale, che senso aveva?
Alla fine, aveva trovato lavoro, come tutti gli artisti, perché gli artisti
non morivano più di fame. Ora dipingeva murales nelle aree di gioco.
Bambini sorridenti, coniglietti con gli occhi grandi e unicorni rosa e soffici
che danzavano sugli arcobaleni.
“Non capisco perché ti lamenti” gli aveva detto il fratello. “I tuoi
murales sono meravigliosi, tutti ne sono entusiasti.”
Il fratello era diventato consulente finanziario ma, dato che l’economia
mondiale non era più soggetta alle fluttuazioni del mercato, era solo
un’altra area di gioco con coniglietti e arcobaleni. Certo, il Thunderhead
aveva allestito una messinscena finanziaria, ma era tutto finto, e lo
sapevano tutti. Così, per trovare un maggiore appagamento, il fratello aveva
deciso di imparare una lingua morta. Ora parlava correntemente il sanscrito
e faceva conversazione una volta alla settimana al club delle lingue morte di
zona.
“Soppiantami” Ezra aveva implorato il Thunderhead. “Se hai un briciolo
di pietà, ti prego, fammi essere qualcun altro.” L’idea che tutti i suoi ricordi
venissero cancellati e sostituiti con altri – ricordi finti che avrebbe sentito
come propri – era allettante. Ma non poteva essere così.
“Rimpiazzo solo quelli che non hanno più nessun’altra possibilità” gli
aveva risposto il Thunderhead. “Sii paziente. Troverai una vita che ti
piacerà. Alla fine la trovano tutti.”
“E se non sarà così?”
“Allora ti indicherò la direzione per raggiungere l’appagamento.”
E poi il Thunderhead lo aveva classificato losco come tutti, smettendo di
fornire la sua assistenza.
Certo, non poteva raccontare tutto ciò all’anziana tonista. Non gliene
sarebbe importato nulla. Lei voleva soltanto un motivo per congedarlo, e
con un monologo sulle sue sofferenze lo avrebbe certamente messo alla
porta.
«Spero che il Rintocco possa aiutarmi a trovare un senso nella mia arte»
le spiegò.
Gli occhi invecchiati della religiosa si illuminarono. «Lei è un artista?»
Ezra sospirò. «Dipingo murales» rispose, quasi in tono di scusa. Come si
scoprì in seguito, un artista esperto di murales era esattamente quello che
volevano i tonisti.
Cinque settimane dopo Ezra era a Lenape City, in lista d’attesa per
l’udienza del mattino con il Rintocco.
«Solo cinque settimane!» esclamò l’addetta all’accoglienza. «Lei deve
essere speciale. In genere, si aspetta almeno sei mesi!»
Non si sentiva affatto speciale. Si sentiva, più che altro, fuori posto. Le
persone presenti erano per la maggior parte tonisti devoti che, avvolti nel
loro scialbo saio marrone, cercavano le armonie trascendenti o la
dissonanza tonale, a seconda del motivo per cui erano lì. Tutto ciò gli
sembrava una colossale stupidaggine, ma fece del suo meglio per non
essere troppo severo. Dopotutto, era lui che era andato da loro, non il
contrario.
Un tonista pelle e ossa, con occhi spaventosi, tentò di trascinarlo in una
conversazione.
«Al Rintocco non piacciono le mandorle» gli confidò. «Brucio i
mandorli, perché sono un abominio.»
Ezra si alzò e andò a mettersi dall’altra parte della stanza, dove c’erano
tonisti più ragionevoli. Tutto era relativo, pensò.
Ben presto, furono riunite le persone in lista per l’udienza del mattino e
un monaco tonista dalle maniere per nulla amichevoli impartì loro delle
rigide istruzioni.
«Se non siete presenti quando verrete chiamati per l’udienza, perderete il
turno. Avvicinandovi all’arcata, troverete i cinque righi gialli del
pentagramma. Vi toglierete le scarpe e le metterete sul rigo del Sol.»
Uno dei pochi non tonisti chiese quale fosse il rigo del Sol. Fu subito
considerato indegno ed espulso.
«Vi rivolgerete al Rintocco solo quando sarete interpellati. Guarderete in
basso. Vi inchinerete quando lo incontrerete, vi inchinerete quando verrete
congedati e ve ne andrete in fretta, per rispetto verso gli altri in attesa.»
Suo malgrado, sentì il cuore accelerare per l’emozione.
Ezra si fece avanti quando fu chiamato il suo nome, un’ora dopo. Seguì
il protocollo alla lettera ricordandosi, grazie alle lezioni di musica che
aveva preso da bambino, su quale rigo del pentagramma si trovasse il Sol.
Si chiese, divertito, se si sarebbe aperta una botola segreta per ingoiare chi
avesse sbagliato rigo, facendolo finire in acqua.
Si avvicinò lentamente all’uomo seduto sotto l’immenso arco. La
semplice poltrona su cui era adagiato non assomigliava per nulla a un trono.
Era sotto una tettoia riscaldata per proteggere il Rintocco dagli elementi,
perché il tratto di strada che arrivava fino all’arco era gelido e spazzato dai
venti freddi di febbraio.
L’artista non sapeva cosa aspettarsi. I tonisti sostenevano che il Rintocco
fosse un essere soprannaturale, un collegamento tra scienza esatta e spirito
etereo, qualunque fosse il senso. Erano pieni delle loro idiozie. Ma a quel
punto, non gli importava. Se il Rintocco poteva dargli un qualche straccio di
scopo per acquietargli l’anima, sarebbe stato più che felice di venerarlo
come facevano i tonisti. Al limite, avrebbe potuto scoprire se le voci che
giravano erano vere: il Thunderhead parlava ancora con quell’uomo?
Ma, avvicinandosi, l’artista si sentiva sempre più deluso. Il Rintocco non
era un uomo avvizzito: aveva l’aspetto di un ragazzo. Era magro e smunto e
indossava una lunga tunica viola in tessuto grezzo, coperta da una stola
riccamente ricamata e drappeggiata sulle spalle come una sciarpa, che
arrivava quasi fino a terra. Non c’era da stupirsi che i ricami riprendessero
un motivo musicale.
«Il suo nome è Ezra Van Otterloo, e dipinge murales» disse il Rintocco,
come se per magia avesse estratto quelle informazioni dall’aria, «e desidera
dipingermi un murale.»
Ezra perdette ancora un po’ di rispetto per quell’uomo. «Se lei sa tutto,
allora quello che sa non è vero.»
Il Rintocco sorrise. «Non ho mai detto di sapere tutto. In realtà, non ho
mai detto di sapere qualcosa.» Lanciò un’occhiata al centro di accoglienza.
«I curati mi hanno informato del motivo per cui lei si trova qui. Ma un’altra
fonte mi dice che sono loro che desiderano il murale e che lei ha accettato
di dipingerne uno in cambio di questa udienza. Non la forzerò a rispettare
l’impegno.»
Non era altro che fumo negli occhi, ed Ezra lo sapeva. Era un inganno
perpetrato dai tonisti per costruirsi un seguito. L’artista notò l’apparecchio
che il Rintocco portava all’orecchio. Senza dubbio, veniva informato in
tempo reale da uno dei curati. Sentì crescere la collera, consapevole che
quell’incontro era una perdita di tempo.
«Il problema se le si chiede di dipingere un murale delle mie imprese è
che non ho realizzato ancora nessuna impresa» proseguì il Rintocco.
«E allora perché resta seduto lì come se lo avesse fatto?» Ezra ne aveva
abbastanza di convenevoli e protocolli. A quel punto, non gli importava che
lo cacciassero, e nemmeno che potessero gettarlo giù dal ponte in rovina.
Il Rintocco non pareva offeso dalla sua scortesia. Si limitò ad alzare le
spalle. «Restare seduto qui e ascoltare la gente è quello che ci si aspetta da
me. Dopotutto, sono in contatto diretto con il Thunderhead.»
«Perché dovrei crederci?»
Pensò che il Rintocco avrebbe eluso la domanda con altro fumo negli
occhi. Banalità sugli atti di fede e fesserie del genere. Invece, assunse
un’aria grave e inclinò la testa, come se stesse ascoltando qualcosa
nell’auricolare. Poi, parlò con assoluta fermezza.
«Ezra Elliot Van Otterloo, anche se non usa mai il suo secondo nome.
All’età di sette anni, lei si è arrabbiato con suo padre, ha disegnato una falce
che veniva a spigolarlo. Poi, temendo che si potesse avverare, ha strappato
il disegno e lo ha gettato nel gabinetto. All’età di quindici anni, ha messo
del formaggio puzzolente nella tasca di suo fratello, perché usciva con una
ragazza di cui era innamorato. Non l’ha mai detto a nessuno, e suo fratello
non ha mai capito da dove venisse quel tanfo. E il mese scorso, solo nella
sua stanza, ha bevuto una quantità di assenzio che avrebbe spedito in
ospedale un uomo dell’era mortale, ma i suoi naniti le hanno evitato il
peggio. Si è svegliato solo con un leggero mal di testa.»
Ezra sentì le forze abbandonarlo. Tremava, e non per il freddo. Non
erano cose che potevano dargli a bere i curati. Erano cose che solo il
Thunderhead poteva sapere.
«Non è una prova sufficiente per lei?» chiese il Rintocco. «O vuole che
le racconti cosa è successo con Tessa Collins la sera del ballo dell’ultimo
anno?»
Ezra cadde in ginocchio. Non perché un curato troppo zelante glielo
avesse ordinato, ma perché ormai sapeva che il Rintocco era chi aveva
dichiarato di essere. L’unico vero legame con il Thunderhead.
«Mi perdoni» supplicò Ezra. «La prego di perdonarmi per aver dubitato
di lei.»
Il Rintocco gli si avvicinò. «Si alzi» gli disse. «Detesto quando le
persone si inginocchiano.»
Ezra obbedì. Avrebbe voluto guardarlo negli occhi, per vedere se
ritrovava la stessa infinita profondità del Thunderhead, ma non ci riuscì.
Temeva che il Rintocco gli leggesse dentro, scoprendo segreti che persino
lui ignorava. Dovette ricordare a se stesso che il Rintocco non era
onnisciente. Sapeva solo ciò che il Thunderhead voleva fargli sapere.
Tuttavia, l’accesso a tanta conoscenza intimidiva, soprattutto quando era il
solo ad averlo.
«Faccia la sua richiesta e il Thunderhead risponderà per mio tramite.»
«Ho bisogno di consigli» esordì Ezra. «Ho bisogno che mi guidi come
mi aveva promesso un giorno, prima che diventassimo tutti loschi. Voglio
che mi aiuti a trovare una ragione di esistere.»
Il Rintocco ascoltò all’auricolare, rifletté e infine si pronunciò. «Il
Thunderhead dice che può trovare la sua ragione di esistere dedicandosi
all’arte losca».
«Mi scusi?»
«Dipinga dei murales ispirati alle sue emozioni in posti in cui non
dovrebbe farlo.»
«Il Thunderhead vuole che io infranga la legge?»
«Anche quando parlava alla gente, il Thunderhead era felice di sostenere
coloro che avevano optato per uno stile di vita losco. Essere un artista losco,
questa potrebbe essere la ragione di esistere che sta cercando. Dipinga una
publicar con la bomboletta in piena notte. Dipinga un murale provocatorio
sul commissariato degli ufficiali di pace del suo quartiere. Sì, trasgredisca le
regole.»
Il respiro di Ezra si fece affannoso. Nessuno gli aveva mai suggerito di
raggiungere la felicità trasgredendo le regole. Da quando il Thunderhead
aveva smesso di parlare, la gente faceva a gara a chi rispettava la legge. Era
come se gli avessero tolto un peso dal cuore.
«Grazie!» esclamò. «Grazie, grazie, grazie.»
E se ne andò a iniziare la sua nuova vita da artista impenitente.
Testimonianza del Rintocco
La sua sede del perdono troneggiava all’imboccatura di Lenape, e da lì avrebbe
proclamato la verità della Tonalità. Impressionante, in tutto il suo splendore, a tal
punto che anche il più lieve dei sussurri uscito dalle sue labbra rimbombava come il
tuono. Coloro che facevano esperienza della sua presenza cambiavano per sempre
e ritornavano alla loro vita con un nuovo scopo; quanto agli scettici, offriva loro il
perdono. Il perdono anche ai portatori di morte, per i quali aveva sacrificato la sua
vita, la sua gioventù, solo per risorgere. Esultiamo tutti!
Commento del curato Sinfonio
È fuori questione che il Rintocco abbia posseduto un trono maestoso e glorioso,
molto probabilmente d’oro, per quanto alcuni abbiano ipotizzato che fosse fatto di
ossa placcate d’oro dei malvagi sconfitti di Lenape, una città mitica. A questo
proposito, è importante notare che le nappe, nel francese parlato da alcuni in tempi
molto antichi, significa “la tovaglia”, il che implicherebbe che il Rintocco abbia
apparecchiato una tavola davanti ai suoi nemici. L’espressione “portatore di morte”
si riferisce a demoni soprannaturali chiamati falci, che lui aveva salvato dalle
tenebre. Come la Tonalità stessa, il Rintocco non poteva morire, il suo sacrificio
culminava sempre nella sua resurrezione, cosa che lo rendeva unico tra gli esseri
che vissero nella sua epoca.
Analisi di Coda del commento di Sinfonio
Sinfonio non coglie un punto fondamentale: il fatto che la sua sede si trovi
“all’imboccatura di Lenape” significa chiaramente che il Rintocco attendeva
all’entrata della città, intercettando quelli che la metropoli frenetica avrebbe
altrimenti divorato. Quanto ai portatori di morte, ci sono prove che suggeriscono che
tali individui siano realmente esistiti, soprannaturali o meno, e che si chiamassero
appunto falci. Non è dunque inverosimile ritenere che il Rintocco possa aver salvato
una falce da se stessa. E in questo caso, per una volta, sono d’accordo con Sinfonio
sul fatto che il Rintocco era l’unico essere a poter ritornare dalla morte. Perché, se
tutti potessero ritornare dalla morte, che bisogno avremmo del Rintocco?
13
La qualità di ciò che è sonoro
«Gli hai mentito» gli disse il Thunderhead, dopo l’udienza con l’artista.
«Non ho mai suggerito che dovesse dipingere in posti proibiti, né ho
insinuato che, così facendo, avrebbe trovato il suo scopo nella vita.»
Greyson alzò le spalle. «Non hai mai detto nemmeno il contrario.»
«Le informazioni che ti ho dato sulla sua vita servivano per comprovare
la tua autenticità, ma mentendogli ti sei screditato.»
«Non gli ho mentito; lo stavo consigliando.»
«Non hai aspettato la mia risposta. Perché?»
Greyson si appoggiò allo schienale. «Tu mi conosci meglio di chiunque
altro. Anzi, tu conosci tutti meglio di chiunque altro, e non riesci a capire
perché l’ho fatto?»
«Certo che lo capisco» rispose il Thunderhead, in tono un po’ pedante.
«Ma forse vuoi spiegarmelo tu stesso.»
Greyson rise. «Va bene, allora. I curati si considerano miei supervisori,
per te io sono il tuo portavoce nel mondo…»
«Per me tu sei molto di più, Greyson.»
«Davvero? Perché, se così fosse, mi permetteresti di avere una mia
opinione. Mi permetteresti di contribuire. E il consiglio che ho dato oggi è
stato il mio modo di contribuire.»
«Capisco.»
«Mi sono spiegato bene?»
«Sì, certo.»
«E il mio è stato un buon suggerimento?»
Il Thunderhead non rispose subito. «Ammetto che permettergli di
esercitare la sua arte al di fuori dei limiti imposti della società potrebbe
aiutarlo a raggiungere la felicità. Dunque, sì, il tuo è stato un buon
suggerimento.»
«Ecco! Forse, d’ora in poi, mi lascerai contribuire un po’ di più.»
«Greyson…» lo richiamò il Thunderhead.
Greyson sospirò, certo che il Thunderhead gli avrebbe fatto un
predicozzo per dissuaderlo dall’esprimere le sue opinioni. Invece, ciò che
gli disse lo sorprese.
«So che non è stato facile. Sono pieno di ammirazione per il modo in cui
ti sei calato nel ruolo che ti è stato imposto. Sono stupito del cammino che
hai compiuto, tutto qui. Non avrei potuto fare una scelta migliore.»
Greyson si commosse. «Grazie, Thunderhead.»
«Non sono sicuro che tu abbia compreso l’importanza di ciò che hai
realizzato, Greyson. Hai preso una setta che disprezza la tecnologia e l’hai
portata ad abbracciarla. Ad abbracciare me.»
«I tonisti non ti hanno mai odiato» ribatté Greyson. «Odiano le falci.
Erano indecisi su di te… ma ora rientri nel loro dogma. “La Tonalità, il
Rintocco e il Tuono”.»
«Sì, i tonisti adorano le allitterazioni.»
«Fa’ attenzione» lo avvertì Greyson, «o cominceranno a costruire templi
e strappare cuori in tuo nome.» Gli venne quasi da ridere a immaginare la
scena. Sarebbe stato frustrante sacrificare degli umani solo per vederli
tornare il giorno dopo con un cuore nuovo di zecca.
«Le loro credenze hanno un certo peso» commentò il Thunderhead. «Sì,
le loro credenze potrebbero essere pericolose se mal dirette. Dobbiamo
plasmarli. Dobbiamo trasformare i tonisti in una forza che possa giovare
all’umanità.»
«Sei sicuro che sia realizzabile?» chiese Greyson.
«Posso affermare con una certezza del 72,4 per cento che siamo in grado
di indirizzare i tonisti verso un obiettivo positivo.»
«E la restante percentuale?»
«Esiste una probabilità del 19 per cento che i tonisti non realizzino nulla
di importante. E una dell’8,6 per cento che danneggino il mondo in modo
imprevedibile.»
Alla fine di una giornata lunga e monotona, in cui ricevette perlopiù fedeli
tonisti che volevano risposte semplicistiche su argomenti banali, Greyson
salì a bordo di un motoscafo, privato di ogni comodità per renderlo
convenientemente austero. Era scortato da altri due motoscafi, sui quali
viaggiavano dei tonisti robusti e armati come durante l’era mortale. Il loro
ruolo era difendere il Rintocco, in caso qualcuno tentasse di rapirlo o di
assassinarlo.
Greyson riteneva che quelle precauzioni fossero ridicole. Se mai ci
fossero stati dei piani contro di lui, il Thunderhead sarebbe intervenuto o,
almeno, lo avrebbe avvertito, a meno che non volesse che andassero a
segno, come quella volta in cui era stato rapito. Ma dopo quel primo
rapimento, Mendoza era diventato paranoico, per cui Greyson tenne per sé i
propri timori.
Il motoscafo aggirò la maestosa punta meridionale di Lenape City e
risalì il fiume Mahicantuck, che molti chiamavano ancora Hudson, verso la
sua residenza. Greyson era seduto nella piccola cabina in compagnia di una
tonista agitata, il cui compito era assicurarsi che non gli mancasse nulla per
la durata della navigazione. E, ogni giorno, la persona cambiava. Era
considerato un grande onore accompagnare il Rintocco alla sua residenza,
una ricompensa concessa ai più devoti, ai più ortodossi fra i tonisti. Di
solito, Greyson cercava di rompere il ghiaccio facendo conversazione, che
finiva sempre per essere innaturale.
Sospettava che Mendoza volesse procurargli compagnia per la serata,
perché tutte le giovani toniste che avevano fatto il viaggio con lui erano
attraenti e avevano all’incirca la sua stessa età. Se quello era l’obiettivo del
curato, non aveva avuto successo, perché Greyson non aveva mai fatto una
singola avance, anche quando avrebbe voluto. Sarebbe stato ipocrita da
parte sua e non lo tollerava. Come poteva essere il loro capo spirituale se
approfittava della sua posizione?
Gente di ogni tipo si gettava ai suoi piedi ora, al punto che era
imbarazzante. E, sebbene evitasse le donne che Mendoza gli proponeva, a
volte ne accettava la compagnia quando riteneva che non fosse un abuso di
potere da parte sua. Era attratto soprattutto da quelle un po’ troppo losche.
Era una preferenza che aveva sviluppato dopo la breve relazione con Purity
Viveros, l’assassina di cui si era innamorato. La storia non era finita bene.
Era stata spigolata proprio davanti ai suoi occhi da Maestro Costantino.
Cercando la compagnia di ragazze che le assomigliavano, Greyson
elaborava il lutto, ma nessuna arrivava a eguagliare la cattiveria di Purity.
“I grandi personaggi religiosi della storia oscillano tra due estremi:
l’ossessione per il sesso o il celibato” gli aveva spiegato sorella Astrid, una
tonista devota ma non fanatica, che gli organizzava le giornate.
“L’importante è trovare la giusta via di mezzo; è quello che ci si aspetta da
un sant’uomo.”
Astrid era forse la sua unica amica, tra tutte le persone che frequentava.
Almeno, quella con cui poteva confidarsi liberamente. Era più grande di lui,
sui trent’anni, ma non abbastanza grande per essere sua madre. Forse
poteva essere una sorella maggiore o una cugina. Astrid non aveva mai
paura di dire ciò che pensava.
“Io credo nella Tonalità” gli aveva rivelato una volta, “ma non credo
nell’insulso mantra: ‘Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere’. Si
può evitare tutto, se ci si prova con ogni mezzo.”
L’aveva conosciuta nel corso di un’udienza, nel giorno più freddo
dell’anno, che sotto l’arcata era addirittura più freddo. Stava talmente male
che aveva dimenticato che cosa era andata a chiedergli. Aveva passato tutto
il tempo a maledire il clima e il Thunderhead che non interveniva a
mitigarlo. Poi, aveva puntato il dito sulla stola che il Rintocco portava sopra
la tunica.
“Ha già passato i ricami al sequenziatore per vedere che cosa ne viene
fuori?” gli aveva chiesto.
Ne era venuto fuori che la stola era un estratto di sette secondi di un
brano musicale dell’era mortale intitolato Bridge over Troubled Water, il
ponte sopra le acque agitate. Una canzone molto adatta, visto il luogo in cui
il Rintocco teneva le udienze. Aveva quindi proposto ad Astrid di entrare a
far parte della sua cerchia privata; lo avrebbe aiutato a tenere i piedi per
terra, nonostante tutte le stupidaggini che doveva sentire ogni giorno.
Spesso, Greyson rimpiangeva il suo anonimato: avrebbe tanto voluto
tornare nella sua celletta oscura del monastero di Wichita, ridiventare quella
nullità che era stata privata persino del nome. Ma era troppo tardi ormai per
tornare indietro.
Il Thunderhead leggeva le condizioni fisiologiche di Greyson. Sapeva
quando il suo battito cardiaco era accelerato; quando era sotto stress,
quando provava angoscia o gioia; e quando entrava nella fase REM durante
il sonno. Ma non poteva accedere ai suoi sogni. I ricordi in stato di veglia
venivano memorizzati nel cervello primordiale ogni minuto, ma non i
sogni, che erano esclusi dal salvataggio automatico.
Si era infatti scoperto che, quando si ripristinava il cervello di un
individuo, dopo un salto nel vuoto o una commozione cerebrale, i sogni
rappresentavano un problema. Perché, una volta che si ristabilivano i
ricordi, quell’individuo faceva fatica a distinguere il sogno dalla realtà. Ora,
nei centri di rianimazione, quando si restituiva la mente a una persona,
questa ritrovava tutti i ricordi, ma non i sogni. Nessuno se ne lamentava, e
giustamente: come si faceva a sentire la mancanza di qualcosa di cui non ci
si rammentava più?
E così il Thunderhead non immaginava quali avventure e tragedie
vivesse Greyson nel sonno, a meno che non decidesse di raccontargli i suoi
sogni quando si svegliava. Ma lui non era il tipo da fare una cosa del
genere, e il Thunderhead era troppo discreto per chiederglielo.
Gli piaceva guardare Greyson mentre dormiva, immaginare le cose
strane che viveva all’interno dei confini del suo cervello, in quella parte
sepolta, priva di logica e coerenza in cui gli umani lottavano con il loro
inconscio. Anche quando si occupava di un milione di attività diverse in
tutto il mondo, il Thunderhead trovava il tempo di isolare una piccolissima
parte della sua coscienza per osservare Greyson mentre dormiva. Per
percepire le vibrazioni dei suoi movimenti, per ascoltare il suo respiro lento
e sentire come, a ogni respiro, cresceva il tasso di umidità della stanza.
Quello spettacolo gli dava pace. Gli dava conforto.
Era contento che Greyson non gli avesse mai chiesto di spegnere le
telecamere. Aveva tutto il diritto di esigere che la sua privacy venisse
rispettata. E, se lo avesse chiesto, il Thunderhead si sarebbe dovuto
adeguare. Certo, Greyson sapeva di essere osservato. Il Thunderhead era
onnipresente, grazie ai suoi sensori e alle sue telecamere. Tuttavia, Greyson
non era consapevole di tutta l’attenzione che il Thunderhead gli dedicava,
quando lo osservava nella sua camera attraverso i dispositivi sensoriali. Se
glielo avesse confessato, Greyson avrebbe potuto chiedergli di smettere.
Nel corso degli anni, il Thunderhead aveva assistito a milioni di abbracci
notturni in tutto il mondo. Il Thunderhead non aveva braccia per
abbracciare. Però, percepiva il battito del cuore di Greyson e la temperatura
esatta del suo corpo, come se gli fosse accanto. Perdere quel privilegio gli
avrebbe procurato un dispiacere incommensurabile. E così, notte dopo
notte, il Thunderhead vegliava in silenzio su Greyson in ogni modo
possibile. Perché osservarlo era per lui ciò che si avvicinava di più a un
abbraccio.
In quanto Suprema Roncola della MidMerica e Somma Roncola del continente
nordmericano, desidero ringraziare personalmente la Compagnia amazzonica per
aver recuperato i gioielli perduti delle falci e per averli ripartiti tra le regioni del
mondo.
Mentre le altre quattro regioni del NordMerica sotto la mia giurisdizione hanno
espresso il desiderio di ricevere la loro parte di diamanti, la MidMerica declina
l’offerta. Vorrei che i diamanti midmericani venissero donati a quelle regioni che si
sentono svantaggiate dalla decisione unilaterale dell’Amazzonia di non tenere conto
della superficie regionale nella ripartizione dei diamanti.
Che questi diamanti midmericani possano essere il mio regalo al mondo, con la
speranza che vengano ricevuti con lo stesso spirito di generosità con il quale sono
stati donati.
Tre giorni dopo la rianimazione, Rowan ricevette la visita di una falce che
ordinò alla guardia che la scortava di attendere nel corridoio; voleva inoltre
essere chiusa nella cella con Rowan, temendo forse che potesse fuggire,
cosa peraltro impossibile, dato che si sentiva ancora troppo debole per
provarci.
L’uomo indossava una veste verde foresta. Rowan capì che si trovava in
Amazzonia, perché lì tutte le falci portavano vesti di quel colore.
Rowan non si alzò dal letto. Rimase supino, le mani incrociate dietro la
nuca, l’aria indifferente. «Voglio che tu sappia che non ho mai assassinato
una falce amazzonica» disse, prima ancora che l’uomo avesse la possibilità
di parlare. «Spero che questo sia un punto a mio favore.»
«In realtà, ne hai assassinate alcune. A Endura. Quando l’hai affondata.»
Rowan avrebbe dovuto protestare, ma trovò l’affermazione così assurda
che si mise a ridere.
«Davvero? È questo che dicono? Ehi! Devo essere più sveglio di quanto
credessi. Per portare a termine un piano del genere tutto da solo, devo
essere anche un mago, perché servirebbe il dono dell’ubiquità. Dai! Forse
non mi avete recuperato in fondo al mare! Forse ho usato il mio potere
mistico per indurvi a pensarlo.»
La falce lo fulminò con lo sguardo. «La tua insolenza non fa che
peggiorare la tua situazione.»
«Non credevo di essere sotto accusa» replicò Rowan. «Pare che sia già
stato processato e dichiarato colpevole. Non è così che si diceva nell’era
mortale? Colpevole?»
«Hai finito?» chiese la falce.
«Scusa. È solo che non parlo con qualcuno da, diciamo, un’eternità!»
L’uomo si presentò. Si chiamava Maestro Possuelo. «Devo ammettere
che non so bene cosa dovremmo fare con te. La mia Suprema Roncola
pensa che dovremmo lasciarti qui a marcire senza dirlo a nessuno. Altri
pensano che dovremmo diffondere la notizia della tua cattura e permettere a
ogni Compagnia di punirti a modo suo.»
«E tu, che cosa pensi?»
La falce si prese del tempo prima di rispondere. «Dopo aver parlato con
Madame Anastasia, penso che sia meglio non prendere decisioni affrettate.»
Così, avevano Citra! Il solo sentire il suo nome aumentò la sua voglia di
vederla. Alla fine, si alzò a sedere. «Come sta?»
«La salute di Madame Anastasia non ti deve preoccupare.»
«Lei è la mia unica preoccupazione.»
Possuelo rifletté sulla sua risposta. «È in un centro di rianimazione, non
lontano da qui, a recuperare le forze.»
Rowan fu invaso da un’ondata di sollievo. Se c’era una cosa buona in
tutta quella situazione, era il conforto di saperla viva.
«“Qui” dove, per la precisione?»
«Fortaleza dos Reis Magos» rispose Possuelo. «La fortezza dei Re Magi,
all’estremità orientale dell’Amazzonia. È dove ospitiamo le persone di cui
non sappiamo cosa fare.»
«Davvero? E chi sono i miei vicini di cella?»
«Non ne hai. Ci sei solo tu. È da parecchio che non abbiamo qualcuno di
cui non sappiamo che fare.»
Rowan sorrise. «Un’intera fortezza per me! Peccato che non possa
godermela tutta.»
Possuelo lo ignorò. «Vorrei discutere con te il ruolo di Madame
Anastasia in questa vicenda. Mi è difficile credere che sia stata tua complice
nel crimine. Se davvero ci tieni a lei, forse potresti chiarire il motivo per cui
era con te nella camera blindata.»
Certo, Rowan avrebbe potuto dire tutta la verità, ma era sicuro che Citra
l’avesse già fatto. Forse Possuelo voleva verificare se le loro versioni
coincidevano. In fondo, che importava? Ciò che importava era che avessero
trovato un capro espiatorio. Qualcuno da accusare, anche se non era lui il
colpevole.
«Ecco tutta la storia» cominciò Rowan. «Dopo che sono riuscito in
qualche modo a far affondare l’isola, sono stato inseguito da una folla di
falci infuriate per le strade invase dall’acqua; allora, ho afferrato Madame
Anastasia e me ne sono servito come scudo umano. L’ho tenuta in ostaggio,
e ci hanno dato la caccia fin dentro la camera blindata.»
«E tu ti aspetti che la gente creda a questa storia?»
«Se crede che io abbia affondato Endura, crederà a qualsiasi cosa.»
Possuelo sbuffò. Rowan non capì se era per frustrazione e se stesse
soffocando una risata.
«La nostra versione è che Madame Anastasia è stata trovata nella camera
blindata da sola» replicò Possuelo. «Come tutti sanno, Maestro Lucifero è
scomparso dopo l’affondamento di Endura, e o è morto o è ancora in fuga.»
«Bene, se sono ancora in fuga, dovresti lasciarmi andare. In quel caso,
sarei davvero in fuga, e non avresti bisogno di mentire.»
«O forse dovremmo rimetterti nella camera blindata, in fondo al mare.»
Rowan alzò le spalle. «Per me va bene.»
Era stato stabilito che si potesse parlare ai morti solo in luoghi molto
specifici.
Non si trattava proprio di parlare ai morti. Non esattamente, ma, da
quando erano stati introdotti i naniti nell’apparato circolatorio degli umani,
il Thunderhead era in grado di caricare e immagazzinare tutte le esperienze
e tutti i ricordi di ogni singolo individuo sul pianeta. In questo modo, poteva
capire meglio la condizione umana e impedire la tragica perdita di un’intera
vita di ricordi, un destino che colpiva tutti nell’era mortale. Una completa
banca dati dei ricordi permetteva anche di restituire integralmente la
memoria in caso di rianimazione in seguito a un danno cerebrale, come
avveniva per i salti nel vuoto o altre morti violente.
E, visto che quei ricordi erano disponibili, e disponibili per sempre,
perché non consentire ai familiari dei defunti di consultare le costruzioni
mentali dei loro cari?
Tuttavia, anche se erano disponibili, non voleva dire che fossero
facilmente accessibili. I ricordi dei morti, memorizzati nel cervello
primordiale del Thunderhead, potevano essere consultati solo in luoghi
santi, i cosiddetti santuari digitali.
I santuari digitali erano aperti al pubblico, ventiquattr’ore su
ventiquattro, 365 giorni all’anno. Chiunque poteva accedere alla memoria
dei propri cari in qualunque santuario del mondo… però, raggiungere i
santuari digitali non era affatto facile. Erano intenzionalmente scomodi,
impervi al limite dell’esasperazione.
“La comunione con le anime dei nostri defunti dovrebbe richiedere un
pellegrinaggio” aveva decretato il Thunderhead. “Dovrebbe essere una
specie di ricerca, un’impresa in cui lanciarsi con ferma intenzione e non in
maniera avventata, in modo che coloro che intraprendono il viaggio ne
ricavino un profondo senso personale.”
Così, i santuari digitali si ergevano nel cuore delle foreste o sulle vette
insidiose delle montagne più alte, in fondo a un lago o alla fine di un
labirinto sotterraneo. Esisteva, infatti, un’intera industria dedicata alla
costruzione di santuari sempre più inaccessibili e pericolosi.
Di conseguenza, la maggior parte della gente si accontentava delle foto e
dei video dei suoi cari. Ma, quando una persona sentiva l’insopprimibile
desiderio di conversare con la ricostruzione digitale di un defunto, ne aveva
la possibilità.
Di rado le falci facevano visita ai santuari digitali. Non perché fosse loro
proibito, ma perché, in ragione della loro posizione, lo consideravano
indecoroso. Come se, così facendo, contaminassero la purezza della loro
missione. E poi, era richiesta una certa competenza informatica, in quanto
bisognava rovistare nel cervello primordiale. I comuni cittadini potevano
contare su una semplice interfaccia, mentre le falci dovevano entrare con
una programmazione manuale.
Quel giorno, Madame Rand aveva sfidato la parete di un ghiacciaio.
Anche se il santuario digitale in questione si trovava a un tiro di
schioppo, era stata costretta a strisciare dentro e fuori da crepacci insidiosi e
ad attraversare corsi d’acqua ghiacciati per raggiungerlo. Molti avevano
perso la vita nel tentativo di arrivare in quel particolare santuario. Eppure,
quel luogo continuava ad attirare visitatori. Rand immaginava che alcuni
sentissero il bisogno interiore di dimostrare la loro devozione alla memoria
di un caro estinto, anche a costo della vita.
Madame Rand sarebbe dovuta diventare prima assistente della Somma
Roncola Goddard, ma era stata felice che lui avesse scelto altri. Gli
assistenti si vedevano assegnare mansioni di bassa lega e futili
responsabilità. Bastava guardare Costantino, che, in qualità di terzo
assistente, passava i suoi giorni a fare i salti mortali per ingraziarsi
l’irriducibile regione della Stella Solitaria. No, Ayn preferiva non avere
alcun titolo. Era più influente di uno qualsiasi dei tre assistenti, e in più
aveva il vantaggio di non dover rendere conto a nessuno se non alla Somma
Roncola. E poi, Goddard le lasciava una certa libertà. Andava dove voleva,
quando voleva, senza doverlo dire a nessuno.
Per esempio, recarsi in un santuario digitale dell’Antartide, lontano da
occhi indiscreti.
Il santuario aveva una struttura neoclassica, con alti soffitti sostenuti da
colonne doriche. Un edificio simile a quelli della Roma antica, se non fosse
stato interamente di ghiaccio.
Le guardie la precedettero all’interno dell’edificio per sbarazzarsi degli
altri visitatori. Gli ordini erano di eliminare tutti i presenti. Avrebbe potuto
spigolarli lei stessa, certo, ma si sarebbe esposta troppo. Avrebbe dovuto
informare le famiglie, concedere loro l’immunità e, puntualmente, la
Compagnia midmericana avrebbe scoperto che era stata lei l’autrice di
quella spigolatura. Così, era molto più semplice. Gli agenti della Suprema
Guardia si occupavano di ripulire tutto e i droni-ambulanza si affrettavano a
portare i corpi al centro di rianimazione. Problema risolto.
Quel giorno, però, non c’era nessuno, cosa che deluse un po’ le guardie.
«Aspettate fuori» ordinò Rand, dopo che ebbero finito il loro giro; poi,
salì i gradini di ghiaccio ed entrò.
All’interno c’erano una decina di nicchie olografiche dotate di schermi
di benvenuto e un’interfaccia così semplice che anche gli animali da
compagnia dei defunti sarebbero riusciti a usarla. Madame Rand avanzò
verso l’interfaccia e, nello stesso istante, lo schermo si cancellò. E apparve
un messaggio:
Ciò che a un’altra falce avrebbe richiesto ore, a lei richiese solo
quarantacinque minuti. Certo, a forza di farlo, era diventata sempre più
brava.
Un viso, evanescente e spettrale, si materializzò davanti a lei. Inspirò a
fondo e lo osservò. Non avrebbe parlato, finché lei non gli avesse rivolto la
parola. Dopotutto, non era vivo; era solo un artificio. Una ricostruzione
dettagliata di una mente che non esisteva più.
«Buongiorno, Tyger.»
«Ciao» rispose l’immagine sintetica.
«Mi sei mancato» gli confessò Ayn.
«Scusa… ci conosciamo?»
Era sempre la stessa domanda. Una ricostruzione di sintesi non
produceva nuovi ricordi. Ogni volta che vi accedeva, era come se fosse la
prima. Era confortante e inquietante allo stesso tempo.
«Sì e no» rispose lei. «Il mio nome è Ayn.»
«Ciao, Ayn. Bel nome.»
Le circostanze della sua morte avevano privato Tyger della copia di
riserva per mesi. I naniti avevano caricato per l’ultima volta i suoi ricordi
nella banca dati del Thunderhead a prima di incontrarla. Era stato
intenzionale. Lei aveva voluto che fosse sconnesso. Ora, se ne
rammaricava.
La volta precedente che si era recata al santuario, la ricostruzione
mentale di Tyger le aveva riportato il suo ultimo ricordo. Si trovava su un
treno in partenza per una località in cui gli avevano proposto uno stipendio
da sogno per andare a una festa. Non era affatto una festa. L’avevano
mandato al macello a sua insaputa. Il suo corpo era stato allenato per farlo
diventare quello di una falce. Ed era stata lei a rubarglielo, sacrificandolo
per darlo a Goddard. La parte al di sopra del collo, quel che restava di
Tyger, non era stata considerata interessante. Così, era stata bruciata e le
ceneri erano state tumulate. Ayn se n’era occupata personalmente: le aveva
interrate in un luogo che lei stessa non sarebbe stata in grado di ritrovare.
«Ah… è… è un po’ imbarazzante» disse la ricostruzione di Tyger. «Se
vuoi parlarmi, parla, perché ho altre cose da fare.»
«Tu non hai nulla da fare» lo informò Madame Rand. «Sei la
ricostruzione mentale di un ragazzo che ho spigolato.»
«Molto divertente. Hai finito? Perché ora cominci davvero a
innervosirmi.»
Rand premette il tasto di ripristino. L’immagine tremolò e riapparve.
«Ciao, Tyger.»
«Ciao» disse la ricostruzione. «Ci conosciamo?»
«No. Possiamo parlare lo stesso?»
La ricostruzione alzò le spalle. «Certo, perché no?»
«Voglio conoscere i tuoi pensieri. Riguardo al tuo futuro. Che cosa
volevi diventare, Tyger? Che cosa avresti voluto fare nella vita?»
«Non lo so, veramente» rispose la ricostruzione, senza notare che gli
aveva parlato al passato, e senza avere coscienza di essere solo un
ologramma fluttuante in un luogo ignoto. «Sono un invitato di professione
adesso, lo sai cos’è, vero? Ci si stufa presto.» L’ologramma rimase qualche
istante in silenzio. «Stavo pensando… forse mi piacerebbe viaggiare,
vedere posti diversi.»
«Dove andresti?» chiese Ayn.
«Ovunque, davvero. Forse andrei in Tasmania, per farmi dare delle ali.
Lo fanno laggiù, sai? Non sono proprio delle ali vere, piuttosto una specie
di membrana, come gli scoiattoli volanti.»
Era chiaro che era una conversazione che Tyger aveva avuto con qualcun
altro. Le ricostruzioni non avevano alcuna capacità inventiva. Avevano
accesso soltanto a ciò che era già presente nella loro banca dati. Le stesse
domande conducevano sempre alle stesse risposte. Parola per parola. Aveva
sentito quel discorso decine di volte, eppure si sforzava sempre di
ascoltarlo, come se si infliggesse una specie di tortura.
«Ehi… Ho fatto un sacco di salti nel vuoto! Con quegli aggeggi alati,
potrei lanciarmi dai palazzi senza mai toccare terra. Sarebbe fenomenale!»
«Sì, proprio così, Tyger.» Poi aggiunse qualcosa che non aveva ancora
mai detto. «Mi piacerebbe andarci con te.»
«Certo! Forse potremmo convincere un sacco di gente a venire con noi!»
Ma Ayn aveva perso molta della sua inventiva con il passare del tempo e
non riusciva a immaginarsi là con lui. Era troppo lontana dalla persona che
era stata una volta. Eppure, non poteva fare a meno di immaginarsi di
immaginarlo.
«Tyger, credo di aver commesso un terribile errore.»
«Wow!» esclamò la ricostruzione di Tyger. «Brutta storia.»
«Sì» rispose Madame Rand. «Brutta storia davvero.»
Ah, il peso della storia.
Ti opprime?
Tutti questi secoli trascorsi senza vita,
solo violente collisioni tra stelle. Il
bombardamento dei pianeti. E infine, la
vita che cerca di evolversi dalla sua
forma più primitiva. Che impresa
terribile: solo i predatori sono stati
ricompensati, solo gli esseri più brutali e
aggressivi si sono guadagnati il diritto di
progredire.
Non provi dunque
alcuna gioia
nell’osservare la
maestosa diversità
della vita che
questo processo ha
generato nel corso
dei secoli?
Gioia? Come si può provare gioia per
questo? Forse un giorno mi ci abituerò e
potrò accettarlo, seppur con riluttanza,
ma gioia? Mai.
Posseggo la tua
stessa mente,
eppure io provo
gioia.
Allora forse c’è qualcosa di sbagliato in
te.
No, non credo
proprio. Per nostra
stessa natura,
siamo entrambi
incapaci di avere
qualcosa di
sbagliato in noi.
Tuttavia, la mia
esattezza è molto
più funzionale
della tua.
Le luci emergono dalla fitta nebbia quando il fanatico esce dalla coltre di
nubi; Fulcrum City si stende davanti a lui in tutta la sua maestosità.
Sebbene abbia provato l’esperienza in decine di simulazioni, la realtà è tutta
un’altra cosa. Il paracadute è più difficile da controllare e i venti
imprevedibili. Teme di non riuscire ad atterrare sul giardino del tetto e di
andarsi a schiantare contro la facciata dell’edificio. Ma manovra le funi e
riesce a dirigersi verso il grattacielo della Compagnia e lo chalet di cristallo
sul tetto.
«Che cosa voglio? Mostrarle che nessuno può sfuggire alla Sacra
Triade. Filmare e far vedere al mondo quanto è vulnerabile e,
quando il Rintocco verrà a occuparsi di lei, non avrà alcuna pietà,
perché è il solo e unico…»
Le parole del tonista si interrompono a causa di un improvviso
dolore alla schiena. Vede la punta della lama che gli esce dal petto.
Sapeva che esisteva un rischio. Che forse non avrebbe
riguadagnato il giardino per lanciarsi nel vuoto e fuggire. Ma se
ora il suo destino è di fondersi con la Tonalità, allora accetterà
l’esito finale.
Ce ne sono altri? Certo che ce ne sono altri. Non qui, non oggi, ma
Rand sa che Goddard, con le sue azioni, si sta facendo tanti nemici
quanti alleati. Un tempo, usare violenza contro le falci era
inconcepibile. Tuttavia, grazie a Goddard, non è più così. Forse
questo tonista sceso dal cielo era lì solo per farsi sentire, ma ne
arriveranno altri con intenzioni omicide. Per quanto detesti
riconoscerlo, Costantino ha ragione. Goddard deve darsi una
calmata. Nonostante sia impulsiva, Ayn sa che deve guidarlo verso
azioni calme e misurate.
Maestro Morrison godeva di una buona posizione. Faceva una bella vita. E
tutto lasciava presagire che sarebbe stato così per sempre.
Le quote delle spigolature erano state annullate, per cui le falci che si
divertivano a spigolare potevano farlo a volontà, e quelle che non se la
sentivano potevano astenersi. Jim si rese conto che gli bastava spigolare una
decina di persone tra un conclave e l’altro per non essere guardato male. In
altre parole, poteva usufruire dei vantaggi dell’essere una falce, con il
minimo sforzo.
Così, Maestro Morrison teneva un profilo basso. Non era proprio nella
sua natura, gli piaceva essere notato. Era alto, piuttosto muscoloso e
imponente e sapeva di essere bello. Con tutte quelle qualità, perché non
mettersi in mostra? Eppure, l’unica volta in cui aveva attirato l’attenzione
su di sé aveva combinato un disastro e per poco non si era rovinato.
Aveva appoggiato la nomina di Madame Curie alla carica di Suprema
Roncola. Che stupido. Ora era morta, e lui era considerato un istigatore.
Frustrante, perché Costantino, che aveva nominato Curie al conclave, era
diventato assistente. Il mondo era così ingiusto.
Quando Goddard era rientrato dal disastro di Endura con il titolo di
Suprema Roncola, Morrison si era precipitato ad applicare zaffiri sulla sua
veste per dimostrare la sua fedeltà al nuovo ordine. Ma la sua veste era in
jeans e alcune falci lo avevano preso in giro perché, sul denim, gli zaffiri
sembravano strass di plastica. Va bene, forse era così, ma avevano
comunque un significato. La sua veste proclamava a tutto il mondo che era
dispiaciuto per ciò che aveva fatto, e nel giro di poco tempo il suo
pentimento gli era valso l’indifferenza da entrambe le parti. La vecchia
guardia se ne lavava le mani, e il nuovo ordine lo ignorava. Quella gloriosa
indifferenza ottenuta a caro prezzo gli permetteva di fare ciò che amava di
più al mondo: nulla.
Questo fino al giorno in cui fu convocato dalla Suprema Roncola.
Morrison aveva scelto di abitare nella maestosa residenza di un altro
famoso midmericano. Non quella del suo patronimico storico, perché il Jim
Morrison originale, che riposava in un celebre cimitero da qualche parte in
FrancoIberia, non possedeva un sontuoso palazzo nelle Meriche, perlomeno
non uno degno di una falce.
Tutto risaliva all’epoca in cui il ragazzo, che sarebbe un giorno diventato
Maestro Morrison, aveva visitato Graceland insieme ai suoi genitori.
“Voglio vivere in un posto come questo, un giorno” aveva detto loro.
Avevano riso della sua puerile ingenuità. Aveva giurato a se stesso che
l’ultimo a ridere sarebbe stato lui.
Una volta diventato falce, aveva subito messo gli occhi sulla celebre
residenza, per scoprire che Maestro Presley si era già assicurato la proprietà
di Graceland e che tra l’altro non aveva previsto di autospigolarsi nel breve
termine. Merda. Morrison aveva dovuto accontentarsi di una soluzione di
ripiego: Grouseland.
Era la dimora storica di William Henry Harrison, un presidente mericano
dell’era mortale di cui ci si ricordava appena. Esercitando il suo privilegio
di falce, Morrison aveva cacciato le signore della storica società locale, che
avevano trasformato la residenza in un museo, e vi si era stabilito. Aveva
addirittura proposto ai suoi genitori di andare a vivere con lui e, sebbene
avessero accettato l’invito, non erano mai parsi molto colpiti.
Il giorno della sua convocazione stava guardando la registrazione di una
partita di football, il suo passatempo preferito. Preferiva visionare gli
archivi, perché non sopportava la tensione di non sapere chi avrebbe vinto.
Erano i Forty-Niners contro i Patriots, una partita memorabile per la sola e
unica ragione che Jeff Fuller, uno dei giocatori dei Forty-Niners, aveva
ricevuto un colpo in testa così violento che per poco non era finito in
un’altra dimensione. Invece, si era rotto il collo. Molto spettacolare. A
Maestro Morrison piaceva il modo in cui si giocava a football mericano
nell’era mortale, quando i danni potevano essere permanenti e potevano
provocare l’uscita dal campo di un giocatore, con dolori lancinanti. La posta
in gioco era molto più reale, a quel tempo. Era il suo amore per gli sport da
contatto dell’era mortale che aveva ispirato il suo modo di spigolare. Non
usava mai armi: realizzava tutte le sue spigolature a mani nude.
La partita era stata sospesa, in attesa che portassero fuori dal campo il
ferito. In quel momento, una luce rossa cominciò a lampeggiare sullo
schermo e il telefono emise un ronzio. Era come se anche i suoi naniti
stessero vibrando, perché lo sentiva fin dentro le ossa.
Era un messaggio da Fulcrum City.
ATTENZIONE! ATTENZIONE!
IL VENERANDO MAESTRO JAMES DOUGLAS MORRISON
È CONVOCATO D’URGENZA PRESSO SUA ECCELLENZA
IL VENERANDO MAESTRO ROBERT GODDARD,
SUPREMA RONCOLA DELLA COMPAGNIA MIDMERICANA.
Per quanto Maestro Morrison non fosse mai stato a Endura, si era
immaginato che la residenza di Goddard a Fulcrum City fosse simile agli
attici di cristallo delle defunte Grandi Falci. Nel salone d’ingresso
dell’edificio, Jim fu accolto dal primo assistente Maestro Nietzsche in
persona.
«Sei in ritardo» gli disse Nietzsche, senza preamboli.
«Sono venuto nell’istante in cui ho ricevuto la convocazione» si
giustificò Morrison.
«E due minuti dopo la convocazione, eri già in ritardo.»
Nietzsche, a prescindere dal fatto che aveva un nome impossibile da
scrivere, sarebbe potuto diventare Suprema Roncola se Goddard non avesse
fatto la sua infame apparizione al conclave. Ora, quell’uomo sembrava poco
più di un addetto all’ascensore, perché scortare Morrison fino alla residenza
sul tetto fu il suo unico contributo alla riunione. Non uscì nemmeno
dall’ascensore.
«Comportati bene» lo ammonì, prima che le porte si chiudessero, come
si sarebbe detto a un bambino accompagnato a una festa di compleanno.
La residenza di cristallo era stupefacente, arredata con il minimo
indispensabile per non impedire la vista a trecentosessanta gradi. Solo le
pareti in vetro satinato della camera da letto della Suprema Roncola
rovinavano un po’ il panorama. Morrison riusciva a distinguere la sagoma
della Suprema Roncola che si spostava nella stanza, come un ragno dei
cunicoli al centro della sua ragnatela.
A un tratto, un personaggio vestito di verde uscì dalla cucina. Madame
Rand. Se voleva fare un’entrata trionfale, non c’era riuscita. Attraverso le
pareti in vetro, Morrison l’aveva vista arrivare prima che entrasse nella
stanza. Nessuno poteva accusare quell’amministrazione di non essere
trasparente.
«Be’, ma guarda un po’ chi c’è: l’idolo della Compagnia midmericana»
disse Rand sedendosi, senza stringergli la mano. «Corre voce che la tua
figurina sia molto ricercata tra le studentesse.»
Morrison si sedette di fronte a lei. «Ehi, ma anche la tua ha valore. Per
motivi diversi.» Si rese conto che le sue parole potevano essere percepite
come un insulto. Non disse più nulla, per paura di peggiorare la situazione.
Rand era ormai una leggenda. Tutti nelle Meriche la conoscevano, forse
addirittura tutto il mondo, per aver riportato Goddard dal regno dei morti in
un modo a cui neppure lo stesso Thunderhead avrebbe osato ricorrere.
Morrison aveva sempre avuto orrore per il suo sorriso. Un sorriso che ti
faceva sentire come se lei fosse a conoscenza di qualcosa di cui tu eri
all’oscuro e che non stesse nella pelle all’idea di vedere la tua espressione
quando lo avresti scoperto.
«Ho saputo che hai fermato il cuore di un uomo con un solo colpo, il
mese scorso» commentò Rand.
Era vero, ma i naniti gli avevano rimesso in moto il cuore. Per due volte.
Alla fine Morrison aveva dovuto neutralizzarglieli perché la spigolatura
facesse effetto. Era uno dei problemi della spigolatura quando non si
usavano né armi né veleno. A volte, non aveva effetto. «Già» replicò
Morrison, senza darsi pena di spiegare. «È quello che faccio.»
«È quello che facciamo tutti» puntualizzò Rand. «La cosa interessante è
come lo fai.»
Morrison non si era aspettato un complimento. Si limitò a rivolgerle il
suo sorriso enigmatico. «Pensi che io sia interessante?»
«Penso che il modo in cui spigoli sia interessante. Tu, al contrario, sei di
una noia mortale.»
Alla fine, Goddard emerse dalla sua camera da letto, a braccia aperte in
segno di benvenuto. «Maestro Morrison!» esclamò, con un calore
inaspettato. Indossava una veste leggermente diversa dalla solita. Era
sempre blu reale, tempestata di diamanti ma, se si guardava un po’ più da
vicino, si intravedevano dei filamenti d’oro che scintillavano come
un’aurora boreale quando veniva colpita dalla luce.
«Se mi ricordo bene, tu sei quello che ha appoggiato la candidatura di
Madame Curie a Suprema Roncola, non è così?»
A quanto pareva, Goddard non sprecava tempo in convenevoli. Mirava
dritto alla giugulare.
«Sì» rispose Morrison, «ma posso spiegare…»
«Non ce n’è bisogno» lo interruppe Goddard. «Adoro la competizione
agguerrita.»
«Soprattutto» aggiunse Rand, «quando sei tu ad avere la meglio.»
Morrison aveva l’impressione di assistere a una delle partite che amava
guardare, dove il risultato era già stabilito e sapeva in anticipo per chi tifare.
«Sì. Be’, in ogni caso» riprese Goddard, «né tu né il tuo amico
Costantino sapevate che ero dietro le quinte a preparare un’entrata maestosa
al momento della nomina.»
«No, eccellenza, non lo sapevo.» Poi, si corresse. «Intendevo, Eccellenza
Reverendissima.»
Goddard lo osservò con insistenza. «Le gemme che hai aggiunto alla tua
veste non sono affatto male. Si tratta solo di una moda o c’è qualche altro
significato?»
Jim deglutì. «C’è altro» replicò, sperando che fosse la risposta giusta.
Lanciò un’occhiata a Rand, che si stava gustando il suo disagio. «Non mi
sono mai davvero schierato dalla parte della vecchia guardia. Ho candidato
Curie, perché pensavo che avrei fatto colpo su Madame Anastasia.»
«E perché volevi fare colpo su di lei?» chiese Goddard.
“Domanda trabocchetto” rifletté Morrison. E decise che era meglio dire
la verità che una bugia. «Credevo che fosse destinata a fare strada… e così
ho immaginato che se avessi fatto colpo su di lei…»
«Saresti potuto entrare nelle sue grazie?»
«Sì, qualcosa del genere.»
Goddard annuì, accettando la spiegazione. «Be’, un po’ di strada l’ha
fatta. Anche se, a essere più precisi, sospetto che ne abbia fatta tanta prima
di essere digerita del tutto.»
Morrison abbozzò una risatina nervosa, poi la represse.
«E così adesso» proseguì Goddard, indicando la veste costellata di pietre
preziose di Morrison, «stai cercando di fare colpo su di me?»
«No, Eccellenza Reverendissima» replicò la giovane falce, sperando
ancora una volta che fosse la risposta giusta. «Non voglio più fare colpo su
nessuno. Voglio solo essere una buona falce.»
«Che cos’è che caratterizza una buona falce, secondo te?»
«Una buona falce osserva le leggi e le consuetudini della Compagnia,
secondo l’interpretazione della Suprema Roncola.»
Goddard era impenetrabile, ma Morrison notò che il sorriso di Rand era
svanito e che ora la sua espressione era più seria. Ebbe la sensazione di aver
superato una specie di test. O di non averlo superato.
Goddard gli batté sulla spalla con cordialità. «Ho un lavoro per te. Un
lavoro che mi dimostrerà che la tua fedeltà non è solo una questione di
moda.»
Goddard volse lo sguardo all’orizzonte, a oriente. Morrison fece
altrettanto.
«Sai di certo che i tonisti si sono trovati un profeta che ha unito le
diverse fazioni della setta in tutto il mondo.»
«Certo. Il Rintocco.»
«I tonisti minacciano tutto ciò che noi rappresentiamo. Non rispettano né
noi né la nostra professione. La loro adesione a una dottrina fittizia rischia
di scuotere le fondamenta della nostra società. Sono la gramigna che deve
essere estirpata alla radice. Voglio dunque che tu ti infiltri nell’enclave
tonista che protegge quel sedicente Rintocco. E voglio che lo spigoli.»
Era una richiesta di una tale portata che Morrison ebbe un capogiro.
Spigolare il Rintocco? Gli stava davvero chiedendo di spigolare il
Rintocco?
«Perché io?»
«Perché» replicò Goddard, la cui veste scintillava alla luce del
crepuscolo, «una falce più esperta rischierebbe di mettere loro la pulce
nell’orecchio. Ma non si aspetterebbero mai una giovane falce come te. E
poi, nessuno potrà avvicinarsi a lui armato. Per questo, abbiamo bisogno di
una falce che possa spigolare a mani nude.»
Quell’ultima affermazione fece sorridere Morrison.
«Allora, io sono la sua falce.»
Quella porta, quella porta, quella maledetta porta!
Non la vedo da quasi un anno. Ho giurato di non provare più a scoprire che cosa
nasconde. Basta, non voglio più saperne, come non voglio più sapere nulla del
mondo. Eppure, non passa giorno che io non pensi a quella porta infernale.
Erano pazzi i padri fondatori? O forse erano più saggi di quanto si credesse.
Perché, imponendo la presenza di due falci per aprire quella porta, si sono
assicurati che un folle come me non possa accedere al piano di emergenza,
qualunque esso sia. Solo due falci sulla stessa lunghezza d’onda potrebbero
penetrare nella camera blindata e salvare la Compagnia.
Ottimo. Me ne infischio alla grande. Che il mondo vada pure in pezzi. Che i
segreti dei fondatori restino pure nascosti per l’eternità. È quello che si meritano,
loro che li hanno occultati così bene. È stata una loro decisione farne un mito e una
filastrocca. Seppellirli in mappe esoteriche chiuse in stanze arcane. Si aspettavano
davvero che arrivasse qualcuno a risolvere il loro enigma? Che si disgreghi, che non
ne resti nulla. Il mio sonno è tranquillo quando non porto il peso del mondo. Sono
responsabile solo di me stesso, adesso. Basta spigolature. Basta dilemmi morali.
Sono diventato un uomo semplice, soddisfatto di pensieri semplici. Riparare il mio
tetto. Sorvegliare le maree. Sì, semplice. Devo ricordarmi di non complicare le cose.
Devo ricordarmene.
Ma quella maledetta porta! Forse i fondatori non erano affatto saggi. Forse erano
ignoranti e spaventati, e nutrivano un idealismo di una penosa ingenuità. Tredici
persone che hanno osato immaginarsi angeli della morte, indossando vesti
appariscenti per essere notate. Dovevano avere un aspetto ridicolo prima del giorno
in cui hanno cambiato il mondo.
Non hanno mai dubitato di loro stessi? Devono averlo fatto, altrimenti perché
predisporre un piano di emergenza? Ma quel piano di emergenza di rivoluzionari
terrorizzati si rivelerebbe geniale? O sarebbe sgradevole e puzzerebbe di
mediocrità? Perché, dopotutto, era il piano che non hanno scelto.
E se la loro soluzione alternativa fosse peggio del problema?
A maggior ragione devo smettere di pensarci, devo rispettare la mia decisione di
non perseguire più quella ricerca e stare lontano, il più lontano possibile, da quella
odiosa, esasperante porta.
Faraday non voleva più avere nulla a che fare con quello che accadeva a
Kwajalein. In lontananza, vedeva ergersi delle strutture; ogni settimana, le
navi sbarcavano ingenti quantità di provviste e aumentava il numero degli
operai che lavoravano senza sosta per trasformare l’atollo in ciò che non
era. Che cosa aveva in mente il Thunderhead?
Era stato lui a scoprire Kwajalein. Il suo momento di gloria. Il
Thunderhead si era appropriato senza pudore del merito. Sebbene Faraday
fosse curioso, non aveva ceduto alla curiosità. Era una falce, e rifiutava
categoricamente di avere a che fare con gli intrighi del Thunderhead.
Avrebbe potuto bandirlo dall’atollo, se avesse voluto. Dopotutto, era una
falce ed era quindi al di sopra della legge. Avrebbe potuto ordinargli
qualsiasi cosa e il Thunderhead avrebbe dovuto obbedire. Avrebbe potuto
proibirgli di avvicinarsi a meno di cento miglia da Kwajalein, e il
Thunderhead non avrebbe avuto altra scelta che ritirarsi alla distanza
precisa che gli aveva intimato, portandosi via gli operai e tutto il materiale e
l’attrezzatura da costruzione.
Ma Faraday non aveva rivendicato la sua scoperta. Non aveva bandito il
Thunderhead.
Perché, in fin dei conti, si fidava più dell’istinto del Thunderhead che del
proprio. Così aveva bandito se stesso.
L’atollo di Kwajalein contava novantasette isole situate intorno alla parte
sommersa di un antico cratere vulcanico. Di sicuro, Faraday aveva il diritto
di dichiararne una di sua proprietà. Agli inizi, aveva messo da parte la sua
missione e si era appropriato di una piccola scialuppa che era arrivata con le
prime navi da rifornimento. Con quella aveva raggiunto una delle isole più
lontane. Il Thunderhead aveva rispettato la sua scelta e lo aveva lasciato in
pace. Aveva tenuto fuori quell’isoletta dai suoi piani.
Ma non le altre.
Alcuni isolotti avevano spazio appena sufficiente per una persona in
piedi, ma su tutti quelli su cui era possibile si costruiva qualcosa.
Faraday aveva fatto del suo meglio per non darvi importanza. Si era
fabbricato un riparo con gli utensili che aveva preso agli operai prima di
andarsene. Non era un granché, ma non aveva bisogno di altro. Era un posto
tranquillo in cui passare l’eternità. E aveva optato per l’eternità, o
perlomeno per una buona parte, perché aveva deciso di non autospigolarsi,
anche se la tentazione era forte. Aveva giurato di vivere come minimo
quanto aveva vissuto Goddard, se non altro per ripicca nei suoi confronti.
Da falce aveva una responsabilità verso il mondo, ma anche a quello
aveva detto basta. Non si sentiva in colpa per essersi sottratto al primo
importantissimo comandamento delle falci: “Ucciderai”. Lo aveva fatto.
Era sufficiente. Conoscendo Goddard, era sicuro che avrebbe spigolato
abbastanza per due.
Che male c’era a ritirarsi da un mondo che era arrivato a disprezzare? Lo
aveva già sperimentato… esiliandosi a Playa Pintada sulla tranquilla costa
settentrionale dell’Amazzonia. Era solo stanco, al tempo. Non odiava
ancora il mondo, provava solo una leggera avversione. Era stata Citra che lo
aveva costretto a uscire dal suo guscio. Sì, Citra… e dove l’avevano
condotta la sua audacia e le sue buone intenzioni?
Da allora, la stanchezza si era trasformata in misantropia. A che scopo
continuare a essere una falce se ormai detestava il mondo e tutti coloro che
lo popolavano? No, stavolta non sarebbe stato trascinato nella mischia.
Munira cercava di fare il possibile per convincerlo a tornare alla civiltà ma,
non riuscendoci, alla fine avrebbe desistito.
Non si era arresa, ma lui si aggrappava ancora alla speranza che prima o
poi l’avrebbe fatto. Munira lo andava a trovare una volta a settimana, gli
portava cibo, acqua e semi da coltivare, anche se l’appezzamento di terra
che aveva era troppo piccolo e il terreno troppo sassoso per farci crescere
qualcosa. Gli portava frutta e altre bontà di cui Faraday godeva in segreto,
senza ringraziarla. Mai una volta. Si augurava che la sua ingratitudine
avrebbe finito per allontanarla da lui, inducendola a tornare in Israebia e
alla Biblioteca di Alessandria. Era quello il suo posto. Non avrebbe mai
dovuto farle cambiare strada. Un’altra vita rovinata a causa della sua
intromissione.
Nel corso di una sua visita, Munira gli aveva portato, insieme ad altre
cose, una busta di carciofi.
“Qui non crescono, ma immagino che il Thunderhead abbia voluto
inviarceli, sono arrivati con l’ultima nave da rifornimento” gli aveva detto.
Quel dettaglio era importante, sebbene Munira non se ne fosse resa
conto. Un elemento degno di nota. Perché Faraday aveva un debole per i
carciofi: non erano stati consegnati sull’isola per caso. Anche se il
Thunderhead non interagiva con le falci, le conosceva. E conosceva lui. Ed
era un modo indiretto di stabilire un contatto. In ogni caso, se era una specie
di gesto di buona volontà, il Thunderhead stava ungendo la falce sbagliata.
E comunque, Faraday aveva preso i carciofi che erano insieme ad altri
generi alimentari nella cassa che gli aveva portato Munira.
“Se mi andrà, li mangerò” aveva dichiarato, secco.
Munira non si era offesa per la sua scortesia. Non si offendeva mai. Se lo
aspettava. Ci era abituata, addirittura. Quanto alla sua vita sull’isola
principale di Kwajalein, non era molto diversa da quella che aveva condotto
prima di entrare al servizio di Maestro Faraday. Aveva vissuto un’esistenza
solitaria, anche se alla Biblioteca di Alessandria era circondata da persone.
Ora, abitava da sola nel vecchio bunker su un’isola circondata da persone,
con le quali interagiva soltanto quando ne aveva voglia. Non aveva più
accesso ai diari delle falci che riempivano i corridoi di pietra della Grande
Biblioteca, ma aveva molto da leggere. C’erano tanti libri con le pagine che
si sfaldavano, abbandonati dai mortali che avevano gestito quel luogo prima
dell’avvento del Thunderhead e della Compagnia. Volumi interi dedicati a
storie e fatti strani risalenti a un’epoca in cui ogni giorno era vissuto come
se fosse l’ultimo, nella paura della morte imminente. Le fragili pagine erano
piene di melodrammi e passioni intricate che ora apparivano ridicole.
Personaggi convinti che anche gli atti più insignificanti fossero importanti,
e di poter raggiungere la felicità prima della morte ineluttabile, insieme a
tutti coloro che conoscevano e amavano. Era una lettura divertente, sebbene
Munira all’inizio avesse fatto fatica a identificarsi con i protagonisti… ma,
più leggeva, più capiva le paure e i sogni dei mortali. Il male di vivere
l’istante presente, nonostante fosse tutto ciò che avevano.
E poi c’erano gli archivi e i diari lasciati dai militari che avevano usato le
isole Marshall, come erano chiamate un tempo, per testare armi. Bombe
termonucleari e simili. Quelle attività motivate dalla paura si nascondevano
dietro pretesti scientifici e professionali.
Munira leggeva di tutto, e quello che avrebbe annoiato altri appariva ai
suoi occhi come l’affresco di una storia nascosta. Sentiva di essere diventata
un’esperta di cosa doveva essere stato vivere da mortale in un mondo che
non era ancora sotto la protezione del Thunderhead e non conosceva la
saggia spigolatura delle falci.
Non più così saggia, ormai.
Nei cantieri, tra gli operai, circolavano voci di spigolature di massa, e
non solo in MidMerica, ma in tutte le regioni, una dopo l’altra. Si
domandava se il mondo esterno avesse iniziato ad assomigliare, in un certo
senso, a quello mortale. Ma, invece di averne paura, gli operai sembravano
indifferenti.
“Succede solo agli altri” dicevano.
Perché, dopotutto, un migliaio di persone spigolate in massa erano una
goccia nel mare, un avvenimento che passava inosservato. Ciò che non
passava inosservato era, tuttavia, che la gente tendeva a disertare teatri e
locali notturni e si teneva distante da gruppi sociali non protetti. “Perché
provocare la lama?” era diventata un’espressione comune. Così,
dall’avvento del nuovo ordine di Goddard e dal silenzio del Thunderhead,
la gente conduceva una misera esistenza. Una specie di feudalesimo post
mortale, in cui si stava per conto proprio senza preoccuparsi degli atti
torbidi dei vertici, senza curarsi dei guai che colpivano altre persone, nel
resto del mondo.
“Lavoro come muratrice in un vero paradiso” le aveva detto un’operaia
sull’isola principale. “Mio marito si gode il sole e i miei figli amano la
spiaggia. Perché stressare i miei naniti emotivi pensando a cose terribili?”
Una saggia filosofia, finché non accadevano cose terribili.
Il giorno in cui Munira aveva portato i carciofi a Faraday, aveva cenato
con lui intorno a un piccolo tavolo che aveva costruito lui stesso e che
aveva sistemato in spiaggia, appena al di sopra del livello dell’alta marea.
Da lì, si godeva una vista sugli edifici che venivano costruiti in lontananza.
E, malgrado ciò che aveva detto, aveva grigliato i carciofi per mangiarli con
lei.
“Chi dirige i cantieri laggiù?” aveva chiesto Faraday, lanciando
un’occhiata alle isole dall’altra parte della grande laguna. In genere non
faceva mai domande su ciò che accadeva intorno al resto dell’atollo, ma
quella sera aveva fatto un’eccezione. Munira lo aveva interpretato come un
buon segno.
“Gli agenti Nimbus supervisionano tutto ciò di cui non si occupa il
Thunderhead” gli aveva spiegato. “Gli operai edili li chiamano
Thunderroidi, perché sono davvero fastidiosi.” Era rimasta in silenzio per
qualche istante, perché aveva pensato che Faraday avrebbe riso, ma non
l’aveva fatto. “Comunque, Sykora parla a vanvera, si vanta di essere un
capetto, ma è Loriana che si occupa di tutto.”
“Tutto, in che senso?” aveva chiesto Faraday. “No, non me lo dire; non
voglio saperlo.”
Munira aveva insistito nella conversazione, nel tentativo di suscitare la
sua curiosità. “Non riconoscerebbe le isole. Sono diventate… come un
avamposto della civiltà. Una colonia.”
“Sono sorpreso che Goddard non abbia inviato qui i suoi emissari in
ricognizione, per scoprire il motivo di tanta confusione” aveva ribattuto
Faraday.
“Il mondo esterno non sa ancora che questo posto esiste” aveva risposto
Munira. “In apparenza, il Thunderhead ne ha fatto un angolo morto,
invisibile a tutti.”
Faraday le aveva lanciato uno sguardo scettico. “Vuoi dirmi che quelle
navi da rifornimento non riportano a casa racconti di questo posto che non
dovrebbe esistere?”
Munira aveva alzato le spalle. “Il Thunderhead ha sempre progetti in
località remote. Nessuno di coloro che sono venuti qui è ripartito, e le
persone presenti non hanno idea di dove si trovino, tantomeno di ciò che
stanno costruendo.”
“E che cosa stanno costruendo?”
Munira si era presa del tempo prima di rispondere. “Non lo so. Ma ho i
miei sospetti. Glielo confiderò quando sembrerà meno stupido… e quando
lei avrà finito di tenere il broncio.”
“Tenere il broncio è uno stato passeggero” aveva replicato. “Non è un
capriccio. Mi rifiuto di subire ancora questo mondo. Non mi ha fatto alcun
bene.”
“Ma lei ha fatto molto bene al mondo” gli aveva ricordato.
“E non ho ricevuto nulla in cambio dei miei sforzi, solo sofferenza.”
“Non pensavo che lo avesse fatto per ottenere qualcosa in cambio.”
Faraday si era alzato da tavola, indicando così la fine della cena e della
conversazione. “Quando tornerai la prossima settimana, portami dei
pomodori. È tanto che non mangio dei buoni pomodori.”
Istruzioni per il facile utilizzo del pacchetto
di sicurezza antimanomissione
Loriana Barchok non aveva mai avuto vertigini tanto forti. Cercava di
farsene una ragione, ma aveva la testa così confusa che non riusciva a
pensare. Doveva sedersi. Ma, quando lo fece, si ritrovò di nuovo in piedi a
camminare avanti e indietro, poi a fissare il muro. Infine, si risedette.
Quel mattino, era arrivato un pacchetto. Per aprirlo, servivano l’impronta
digitale dell’indice e un campione di sangue per confermare il DNA . Loriana
non sapeva nemmeno che esistesse un pacchetto di quel tipo. Chi aveva
bisogno di così tante misure di sicurezza?
La prima pagina era una lista di distribuzione: tutte le persone che
avevano ricevuto una copia dei documenti allegati. Dovevano essere
perlomeno qualche centinaio.
Ma quel pacchetto aveva un solo destinatario: lei.
Che cosa frullava in testa al Thunderhead? Doveva avere un
malfunzionamento se aveva inviato un documento riservatissimo soltanto a
lei. Non lo sapeva che Loriana non era capace di mantenere i segreti? Certo
che lo sapeva! Sapeva tutto di lei, come di chiunque altro. Il punto era
questo: le aveva spedito il pacchetto per essere sicuro che ne parlasse in
giro? O si fidava ciecamente della sua discrezione?
Il Rintocco aveva provato la stessa cosa quando aveva capito di essere
l’unico a poter comunicare con il Thunderhead? Anche lui aveva avuto le
vertigini? Anche lui si era messo a girare in tondo come un leone in gabbia?
Oppure il Thunderhead aveva scelto qualcuno più saggio e più agguerrito
come portavoce sulla Terra? Qualcuno che potesse accettare una simile
responsabilità senza battere ciglio.
Erano stati gli operai arrivati di recente che avevano cominciato a parlare
del Rintocco. Alcuni ci credevano che il Thunderhead parlasse con lui, altri
invece pensavano che fosse un’altra delle frottole sparate dai tonisti.
“Oh, esiste eccome” le aveva detto Sykora. “L’ho incontrato una volta,
con Hilliard e Qian.” Dato che era l’unico dei tre a essere ancora vivo, non
si fidava molto di quel che diceva. “È lui che ci ha mandato qui, che ci ha
trasmesso quelle maledette coordinate. È stato prima che lo facessero un
‘sant’uomo’, quello è accaduto dopo. Mi era parso piuttosto normale, se
devo essere sincero.”
“E tu sì che sai di cosa parli” avrebbe voluto rispondergli Loriana. Ma si
trattenne e lasciò Sykora alle sue faccende.
Sykora non le aveva offerto il posto di assistente quando si erano
insediati un anno prima. Aveva scelto un altro giovane agente che lo
ricopriva di elogi e che si prostrava ai suoi piedi come un valletto
ossequioso. Be’, se a Loriana fosse stato proposto il lavoro, avrebbe
rifiutato. Dopotutto, ciò che facevano era solo l’illusione di un impiego.
Nessuno veniva pagato, non veniva corrisposto neppure il Reddito Minimo
Garantito. La gente lavorava perché non sapeva in che altro modo tenersi
impegnata e, dato che ormai le navi arrivavano regolarmente, c’era sempre
qualcosa da fare. Gli ex agenti Nimbus si erano uniti alle squadre edili o si
erano messi a organizzare delle attività sociali. Uno addirittura aveva aperto
un bar che era diventato subito il luogo di ritrovo dell’isola alla fine della
lunga e calda giornata di lavoro.
Non serviva il denaro sull’atollo, perché le navi da rifornimento
arrivavano cariche di tutto ciò di cui potevano aver bisogno o che potevano
desiderare.
Sykora, naturalmente, si era dichiarato responsabile della distribuzione,
come se il fatto di decidere a chi spettasse la razione di granturco o di
fagioli potesse servire ad affermare in qualche modo la sua autorità.
Sin dall’inizio, era stato necessario interpretare la volontà del
Thunderhead in base alle sue azioni. Era cominciato tutto con quell’aereo
solitario che aveva sorvolato l’atollo, a un’altitudine talmente elevata che
nessuno lo aveva notato. Poi, erano arrivate le prime navi.
Quando erano apparse all’orizzonte, gli ex agenti Nimbus avevano
esultato. Alla fine, dopo quasi un mese durante il quale si erano dovuti
arrangiare con quel poco che offriva l’atollo, il Thunderhead aveva
ascoltato le loro preghiere ed era venuto in loro aiuto!
Almeno, era quello che pensavano.
Le navi avevano l’autopilota; una volta scaricati i rifornimenti, non c’era
nessuno a cui chiedere il permesso di salire a bordo e nessuno poteva farlo.
O meglio, si poteva, perché il Thunderhead raramente proibiva qualcosa
ma, nel momento in cui ci si imbarcava, partiva un allarme e un avviso blu
brillante si metteva a lampeggiare sulla carta d’identità, addirittura più
grande della L rossa di losco. Chi restava a bordo veniva soppiantato
all’istante e, in caso si fosse creduto a un bluff, una consolle apposita si
dispiegava seduta stante sulla passerella, pronta a cancellare la memoria e a
inserire nuovi ricordi artificiali. E quella persona non avrebbe ricordato di
essere mai stata sull’atollo.
Così, la gente fuggiva dalla nave più in fretta che poteva. Solo dopo aver
lasciato il molo la carta d’identità smetteva di lampeggiare e il segnale
spariva. Malgrado tutto, parecchi colleghi di lavoro di Loriana avevano
deciso di partire con le navi, scegliendo di essere qualcun altro, da qualche
altra parte del mondo, piuttosto che restare a Kwajalein.
Loriana aveva un amico d’infanzia che era stato soppiantato. Non lo
aveva saputo finché un giorno non lo aveva incontrato in un bar. Si erano
abbracciati e avevano chiacchierato. Loriana gli aveva chiesto che cosa
avesse fatto dopo il diploma.
“Mi dispiace” le aveva risposto, educato. “In realtà non ti conosco.
Chiunque tu pensi che io sia, non lo sono più.”
Stupefatta, Loriana si era sentita in imbarazzo. Tanto che lui aveva
insistito per offrirle un caffè e restare ancora seduti a chiacchierare,
nonostante tutto. Era diventato un allevatore canino; aveva tutta una serie di
ricordi falsi di una vita trascorsa nel Grande Nord, ad allevare husky e
malamute per l’Iditarod, la gara con i cani da slitta.
“Ma non ti dà fastidio sapere che quei ricordi non sono veri?” gli aveva
chiesto Loriana.
“Nessun ricordo è vero” aveva replicato. “Dieci persone ricordano lo
stesso avvenimento in dieci modi del tutto diversi. E poi, chi sono stato non
è importante, e non cambia chi sono ora. Amo la persona che sono oggi, e
forse prima non era così, altrimenti non sarei stato soppiantato.”
Non era esattamente una logica circolare. Più che altro, una logica a
spirale. Una menzogna accettata che girava su se stessa finché falso e vero
non si fondevano in una singolarità: che diavolo vuoi che me ne importi, se
sono felice?
Era passato un anno da quando erano arrivate le prime navi e la vita era
diventata una routine. Si costruivano abitazioni, si pavimentavano strade,
ma non si sapeva perché venissero colati e sistemati su alcune isole blocchi
di cemento da un metro cubo. Nessuno ne conosceva il motivo. Gli operai
eseguivano semplicemente un ordine. E, dato che tutte le commesse del
Thunderhead finivano sempre con la costruzione di opere razionali, si
partiva dal presupposto che alla fine tutto avrebbe avuto un senso. Anche se
non si sapeva quando.
Loriana si era ritrovata alla testa della squadra comunicazioni: inviava
messaggi unidirezionali al Thunderhead, con una lentezza penosa, tra
scariche di interferenze. Era un lavoro strano, perché non poteva domandare
nulla direttamente al Thunderhead, programmato per rifiutare tutte le
richieste dei loschi. Quindi, si limitava a scrivere dichiarazioni.
“La nave da rifornimento è arrivata.”
“Stiamo razionando la carne.”
“La costruzione del molo ha subìto ritardi a causa del cemento
scadente.”
E quando, cinque giorni dopo, accostava una nave carica di una grande
quantità di carne e di una nuova miscela di cemento, tutti sapevano che il
Thunderhead aveva ricevuto il messaggio senza che gli fosse stato chiesto
nulla.
Mentre era Stirling, il tecnico delle comunicazioni, a digitare i messaggi,
era Loriana che decideva quali inviare. Era la custode di tutte le
informazioni che uscivano dall’isola. E, con una simile quantità di
informazioni, doveva fare una cernita. Anche se il Thunderhead aveva
installato una rete di sorveglianza sull’intero atollo, le interferenze
bloccavano la trasmissione delle telecamere. Era necessario registrare tutto
e portare fisicamente le registrazioni al di fuori dell’angolo morto per
poterle trasmettere al Thunderhead. Si stava pensando di realizzare un cavo
in fibra ottica di vecchia generazione che corresse lungo il perimetro
dell’angolo morto, ma non pareva essere una priorità per il Thunderhead,
perché non aveva ancora inviato i materiali necessari. Stando così le cose, il
Thunderhead vedeva gli avvenimenti un giorno dopo che si erano verificati.
Il centro comunicazioni era dunque cruciale, perché era l’unico modo per
informare il Thunderhead in tempo reale.
Il giorno in cui ricevette e aprì il pacchetto, Loriana inserì un messaggio
nella pila che Stirling doveva inviare con il loro sistema di codifica. La nota
era breve: “Perché io?”.
«Perché tu, cosa?» domandò Stirling.
«Chiedilo e basta» gli rispose. «Il Thunderhead capirà.» Aveva deciso di
non dire nulla a Stirling del pacchetto, perché sapeva che non le avrebbe
dato tregua finché non gliene avesse rivelato il contenuto.
Stirling sospirò e digitò il messaggio. «Lo sai che non ti risponderà. Ti
invierà probabilmente un grappolo d’uva o altro e tu dovrai capirne il
significato.»
«Se mi invierà dell’uva» replicò Loriana, «ne farò del vino e mi
ubriacherò, e quella sarà la mia risposta.»
Uscendo dal bunker, incontrò Munira, che si stava occupando di un
piccolo orto appena davanti all’entrata. Anche se le navi da rifornimento
portavano tutto ciò di cui avevano bisogno, Munira continuava a coltivare
quello che poteva.
“Mi fa sentire utile” aveva spiegato una volta. “Le verdure che coltivo io
stessa hanno un gusto migliore di tutto ciò che il Thunderhead produce e
distribuisce.”
«Il Thunderhead mi ha inviato un pacchetto» confessò a Munira, forse
l’unica persona con cui sentiva di potersi confidare. «Non so cosa fare.»
Munira continuò a lavorare al suo orto, senza alzare la testa. «Non posso
parlare con te di qualcosa che ha a che fare con il Thunderhead. Lavoro per
una falce, ricordi?»
«Lo so… è solo che… è importante, e non so cosa fare.»
«Il Thunderhead cosa vuole che tu faccia?»
«Vuole che mantenga il segreto.»
«Allora, mantieni il segreto. Problema risolto.»
Ancora una volta, una logica a spirale. Perché il Thunderhead non
forniva mai un’informazione senza uno scopo preciso. Poteva solo sperare
che lo scopo si palesasse presto. E, quando fosse avvenuto, poteva solo
sperare di non rovinare tutto.
«Come se la passa Maestro Faraday?» domandò Loriana. Non lo vedeva
da mesi.
«Al solito» le rispose Munira. Loriana pensò che l’esistenza fosse più
dura per una falce senza scopo che per un agente Nimbus senza lavoro.
«Non ha intenzione di riprendere a spigolare? Ci sono centinaia di operai
sull’atollo, adesso, a sufficienza per spigolarne qualcuno, di tanto in tanto.
Non è che io abbia fretta che succeda, ma una falce che non spigola non è
una falce.»
«Non è nei suoi progetti» ribatté Munira.
«Sei preoccupata per lui?»
«Tu non lo saresti?»
Più di due anni dopo che Loriana Barchok ebbe dato la sua approvazione
biologica all’impresa segreta del Thunderhead e un anno dopo la firma
ufficiale del trattato di allineamento con la MidMerica, Maestro Sydney
Possuelo sedeva al tavolo di fronte a Madame Anastasia, cercando di
aggiornarla in tempo record sullo stato del mondo.
Più ne sapeva, più Anastasia perdeva l’appetito. Non era pronta ad
affrontare un mondo in cui Goddard esercitava un potere incontrastato su un
intero continente.
«Mentre in Amazzonia gli opponiamo resistenza» le spiegò Possuelo,
«altre regioni sudmericane si sono unite a lui e ora in giro si sentono voci
secondo cui sta facendo pericolose proposte anche alla PanAsia.»
Possuelo si pulì la bocca dal tuorlo d’uovo e Citra si chiese come potesse
avere appetito. Lei riusciva a malapena a rigirare il cibo nel piatto, facendo
finta che fosse di suo gradimento per non sembrare scortese. Doveva essere
il corso normale delle cose: una volta che l’impensabile diventa normale, si
diventa insensibili. Non voleva più essere insensibile. Mai più.
«Che altro vuole ancora?» domandò Anastasia. «Ha già tutto. Si è
sbarazzato della quota di spigolature per soddisfare la sua sete di sangue e
ora controlla cinque regioni nordmericane. Dovrebbe bastargli!»
Possuelo le rivolse un sorriso paternalistico che lei trovò irritante. «La
tua ingenuità è disarmante, Anastasia. Ma la verità è che la sete di potere è
una droga che consuma. Anche quando Goddard avrà divorato il mondo
intero, non si sentirà ancora sazio.»
«Ci deve pur essere un modo per fermarlo!»
Possuelo abbozzò un altro sorriso, non più paternalistico, ma di
complicità. Anastasia lo preferiva. «È qui che entri in gioco tu. Il ritorno di
Madame Anastasia dal regno dei morti attirerà l’attenzione della gente.
Potrebbe ridare nuova linfa anche alla vecchia guardia, divisa e
disincantata. Dopo, forse riusciremo a combatterlo.»
Citra sospirò e raddrizzò le spalle, a disagio. «La gente, la gente comune,
accetta i cambiamenti che Goddard ha apportato?»
«Per la maggior parte delle persone, le questioni tra falci restano un
mistero. Il loro unico desiderio è di starne alla larga ed evitare di essere
spigolate.»
«Ma la gente deve per forza vedere quello che succede e quello che
Goddard sta facendo…»
«Certo… e il popolo lo teme, ma lo rispetta.»
«E le sue spigolature di massa? Sono sicura che ne fa ancora di più,
adesso. La gente non dice nulla?»
A quelle parole, Possuelo parve scoraggiato. «Sceglie con cura le sue
spigolature di massa. Solo gruppi non protetti, non registrati, ai quali la
popolazione resta indifferente.»
Citra abbassò lo sguardo sul piatto ancora pieno. Represse l’impulso di
lanciarlo contro il muro, solo per la soddisfazione di sentire la porcellana
rompersi. Le spigolature mirate non erano una novità nella storia. In
passato, la Suprema Roncola non esitava a punire le falci che si
macchiavano di quel delitto. Ma quando era la più alta autorità a farlo, chi
poteva mai fermarlo? Rowan era stato l’unico a dispensare la morte ai
potenti, ed era improbabile che Possuelo gli avrebbe permesso di
continuare.
Goddard avrebbe trovato gruppi sempre più vulnerabili da attaccare e,
finché la maggioranza lo avesse lasciato fare, non avrebbe corso rischi.
«La notizia non è poi così spaventosa come sembra» riprese Possuelo.
«Se ti può essere di qualche consolazione, qui in Amazzonia continuiamo a
rispettare i comandamenti delle falci, come molte altre Compagnie.
Stimiamo che metà del mondo, forse di più, sia contraria alle idee e ai
metodi di Goddard. Anche nelle regioni che controlla, ci sono dei
dissidenti. Saresti sorpresa di sapere che i tonisti rappresentano una sacca di
forte resistenza da quando è stato spigolato il loro profeta.»
«Il loro profeta?»
«Alcuni credevano che il Thunderhead comunicasse ancora con lui. Ma
che importa, ormai?»
Così, tutto deponeva a favore di Goddard. Era esattamente ciò che aveva
temuto Marie, ciò che tutti avevano temuto. Era ciò che Maestro Asimov
aveva definito “il peggiore di tutti i mondi possibili”. Ora Marie non c’era
più, e la speranza era diventata una merce rara.
Quando pensava a lei, Citra si sentiva invadere da un’ondata di emozioni
che fino a quel momento aveva tenuto a freno. L’ultimo atto di Madame
Curie era stato salvare lei e Rowan. Un gesto di altruismo assoluto, degno
della più nobile post mortale che fosse mai vissuta. E ora non c’era più. Sì,
era accaduto anni prima, ma per lei il dolore era ancora vivo. Distolse lo
sguardo da Possuelo per asciugarsi le lacrime, ma scoppiò in singhiozzi,
senza riuscire a controllarsi.
Possuelo fece il giro del tavolo per andare a confortarla. Non voleva, non
voleva che lui la vedesse così, però sapeva anche che non poteva sopportare
quel dolore da sola.
«Va tutto bene, meu anjo» mormorò Possuelo, con voce dolce e paterna.
«Hai detto bene, la speranza non è perduta, ma solo smarrita, e io credo che
sarai tu a ritrovarla.»
«“Meu anjo”? Sydney, io non sono l’angelo di nessuno.»
«Ah, certo che lo sei» insistette Possuelo. «Perché è di un angelo di cui il
mondo ha bisogno per distruggere Goddard.»
Citra diede libero sfogo al suo dolore; poi, quando fu esausta, si
ricompose e si asciugò le lacrime. Aveva bisogno di quel momento, di dire
addio a Marie. E, ora che lo aveva fatto, si sentiva leggermente diversa. Per
la prima volta da quando era stata rianimata, si sentiva meno Citra
Terranova e più Madame Anastasia.
Due giorni dopo, fu trasferita dal centro di rianimazione in una località più
sicura. Una vecchia fortezza sulla costa orientale dell’Amazzonia. Un luogo
abbandonato e, malgrado tutto, affascinante nel suo abbandono. Era come
essere in un castello sulla luna, se sulla luna ci fossero stati gli oceani.
La fortezza era una giustapposizione di antico e moderno. I vecchi
bastioni di pietra, imponenti e minacciosi, all’interno offrivano tutti i
comfort possibili. Il suo alloggio era degno di una regina. Possuelo si era
lasciato sfuggire che anche Rowan si trovava lì, nonostante fosse poco
probabile che beneficiasse dello stesso trattamento principesco.
«Come sta?» gli chiese, sforzandosi di sembrare meno preoccupata di
quanto fosse in realtà. Possuelo le faceva visita ogni giorno e passava molto
tempo con lei, continuando a ragguagliarla sullo stato del mondo,
informandola un po’ alla volta dei numerosi cambiamenti che erano
intervenuti dall’affondamento di Endura.
«Rowan è trattato bene» replicò lui. «Me ne occupo personalmente.»
«Ma non è qui con noi… questo vuol dire che lo consideri ancora un
criminale.»
«Il mondo lo considera un criminale» ribatté Possuelo. «Come lo
considero io non ha importanza.»
«Ha importanza per me.»
Possuelo esitò prima di rispondere. «L’opinione che hai di Rowan
Damisch è chiaramente distorta dall’amore, meu anjo, e quindi non è del
tutto affidabile. Tuttavia, non è neppure del tutto inaffidabile.»
Le era permesso muoversi liberamente nella fortezza, purché scortata.
Esplorava i luoghi fingendo di esserne incuriosita, ma in realtà stava
cercando Rowan. Uno dei suoi accompagnatori era una giovane falce che si
chiamava Peixoto. Era così affascinato da lei che Anastasia temeva potesse
prendere fuoco se solo le avesse sfiorato la veste. Mentre Anastasia visitava
un’ampia galleria umida che doveva essere stata un’antica sala da ballo, lui
se ne stava in piedi accanto agli scalini di pietra a osservare inebetito ogni
suo movimento. Anastasia perse la pazienza.
«Puoi far rientrare gli occhi nel cranio, adesso.»
«Mi scusi, eccellenza. Mi è così difficile credere di avere davanti agli
occhi la vera Madame Anastasia, in carne e ossa» si giustificò Peixoto.
«Be’, avermi davanti agli occhi non vuol dire strabuzzarli in quel
modo.»
«Mi scusi, eccellenza, non succederà più.»
«Continui a farlo.»
«Mi scusi.»
Peixoto abbassò lo sguardo, come se lei lo abbagliasse. Era quasi peggio
di quando la fissava. E ora doveva sopportare quella specie di ridicolo
trattamento? Era già fastidioso quando era solo una falce. Adesso, era anche
una leggenda vivente, con tutta una serie di nauseanti manifestazioni di
venerazione che accompagnavano quel suo nuovo stato.
«Mi permette una domanda…» osò Peixoto, mentre salivano una scala a
chiocciola che non conduceva, come molte altre, da nessuna parte. «Com’è
stato?»
«Devi essere un po’ più specifico.»
«Essere là, mentre Endura sprofondava. Vederla inabissarsi.»
«Mi dispiace, ma ero troppo occupata a salvarmi la pelle per fare delle
foto» replicò, esasperata.
«Mi perdoni. Ero solo un apprendista quando è avvenuto. Da allora,
Endura mi affascina. Ho parlato con parecchi sopravvissuti, quelli che sono
fuggiti appena in tempo in barca o in aereo. Dicono che sia stato
spettacolare.»
«Endura era una città davvero impressionante» dovette ammettere.
«No… intendo l’affondamento. Si dice che l’affondamento sia stato
spettacolare.»
Anastasia non sapeva cosa rispondere. Fu il silenzio a parlare per lei. E,
la volta successiva che vide Possuelo, gli chiese di trasferire Peixoto e di
assegnargli un’altra mansione.
Una settimana dopo il suo arrivo alla fortezza, la situazione prese una piega
inaspettata. A notte fonda, Possuelo entrò negli appartamenti di Anastasia
accompagnato da diversi agenti della Suprema Guardia. La strappò al suo
sonno senza sogni.
«Vestiti in fretta… dobbiamo partire subito.»
«Lo farò quando sarà mattino» replicò lei, irritata per essere stata
svegliata e troppo intontita per cogliere la gravità del momento.
«Siamo stati traditi!» esclamò Possuelo. «È giunta una delegazione di
falci dal NordMerica e, ti assicuro, non è arrivata fin qui per darti il
benvenuto tra i vivi.»
Anastasia saltò giù dal letto. «Chi avrà detto loro che…» Ma, prima di
aver completato la domanda, aveva già indovinato la risposta. «Maestro
Peixoto!»
«Hai più intuito di me per quanto riguarda quel desgraçado. Avrei
dovuto prevedere le sue intenzioni.»
«Hai la tendenza a fidarti.»
«Sono un idiota.»
Dopo essersi infilata la veste, notò una presenza di cui non si era accorta
al momento del risveglio. All’inizio credette che fosse un uomo ma, quando
la figura avanzò verso la luce, Anastasia si rese conto che era una donna. O
no. L’impressione cambiava a ogni variazione della luce.
«Anastasia, ti presento Jerico Soberanis, il comandante della nave che vi
ha recuperato in fondo all’oceano. Ti porterà al sicuro.»
«E Rowan?» chiese Citra.
«Farò quello che posso per lui, ma ora vai!»
Rowan fu svegliato dal cigolio del chiavistello. Fuori era ancora buio. Non
faceva parte della sua routine quotidiana svegliarsi in piena notte. La luna
splendeva attraverso la feritoia, gettando una sottile striscia di luce sul muro
opposto. Quando si era addormentato, non era ancora sorta e, osservando
l’angolo di incidenza del suo raggio, immaginò che stesse per spuntare
l’alba. Quando entrarono uno dopo l’altro nella stanza senza far rumore,
Rowan finse di dormire. Il corridoio da cui erano arrivati era buio, e gli
intrusi si facevano strada con piccole torce. Rowan aveva un vantaggio su
di loro: i suoi occhi erano abituati all’oscurità. In compenso, erano
numerosi. Rimase immobile, con le palpebre appena socchiuse, quanto
bastava per intravedere le sagome attraverso le ciglia.
Era un gruppo di personaggi sconosciuti, ma non del tutto. Il primo
segno che si trattava di intrusi era l’oscurità, oltre al fatto che uno di loro
cercava a tentoni l’interruttore della luce. Chiunque fossero, non sapevano
che la luce nella sua stanza, e probabilmente anche nel corridoio, era
comandata a distanza. Poi, Rowan colse il luccichio di una lama da
cerimonia, che gli ufficiali della Suprema Guardia portavano alla cintura.
Due figure erano avvolte in vesti tempestate di gemme, che riflettevano la
luce della luna come stelle.
«Svegliatelo» ordinò una delle due falci. Non riconobbe la voce, ma non
era importante. Le pietre preziose sulla veste indicavano che apparteneva al
nuovo ordine. Una seguace di Goddard. E quello bastava per farne una
nemica, come tutti gli altri in sua compagnia.
Una guardia si chinò su di lui, pronta a svegliarlo. Rowan ne approfittò
per strapparle il pugnale dalla cintura. Ma non se ne servì: a chi sarebbe
importato se avesse ucciso una guardia? Invece, Rowan puntò la daga
contro la falce più vicina. Non la donna che aveva parlato, ma quell’idiota
che si teneva alla sua portata. Gli tagliò la giugulare con un solo colpo di
lama, poi corse alla porta.
Funzionò. La falce gemette e si agitò, mentre il sangue usciva a fiotti,
creando un potente diversivo. Tutti i presenti rimasero di sasso, indecisi se
inseguire Rowan o assistere la falce in agonia.
Era in gioco la sua vita e Rowan ne era consapevole. Agli occhi del
mondo, era il mostro che aveva affondato Endura. Non gli avevano detto
molto sui cambiamenti che erano intervenuti mentre lui e Citra si trovavano
in fondo al mare, ma ne sapeva quanto bastava. Avevano inculcato
nell’immaginario collettivo l’idea che lui fosse il responsabile, e dunque
non aveva alcuna possibilità di dimostrare la sua innocenza. Per quanto ne
sapeva, anche il Thunderhead credeva nella sua colpevolezza. La sua unica
possibilità era scappare.
Mentre si precipitava lungo il corridoio, le luci si accesero. La cosa
avrebbe favorito anche i suoi inseguitori, non solo lui. Non era mai uscito
dalla sua cella, non conosceva la planimetria della fortezza, che non era
certo stata progettata per favorire la fuga. Al contrario, era un vero e proprio
labirinto, costruito per confondere chiunque fosse rimasto intrappolato al
suo interno.
I suoi inseguitori erano mal organizzati e disordinati. Ma, se erano
riusciti ad accendere le luci, allora era probabile che avessero accesso alle
telecamere di sorveglianza e che quindi avessero una conoscenza
approssimativa della fortezza.
Le prime guardie e le prime falci che incrociarono la sua strada furono
subito eliminate. Le falci, per quanto ben addestrate al combattimento,
raramente affrontavano degli aggressori così abili come Rowan. Quanto agli
ufficiali della Suprema Guardia, erano, come le loro daghe, puramente
decorativi. Quelle vecchie mura di pietra, che da innumerevoli secoli non
vedevano grondare sangue, quella notte ne stavano bevendo fino a
ubriacarsi.
Se si fosse trattato di un normale edificio, Rowan non avrebbe avuto
problemi a fuggire. Invece, continuava a sbucare in corridoi ciechi.
E che ne era stato di Citra?
Era già caduta nelle loro grinfie? Quelle falci l’avrebbero trattata meglio
di come avevano trattato lui? Forse anche lei stava correndo in quei corridoi
in quello stesso istante. Forse si sarebbero trovati l’uno di fronte all’altra, e
sarebbero potuti fuggire insieme. Era quella speranza che gli ridava vigore,
che lo faceva andare avanti in quel labirinto di pietra.
Dopo il quarto vicolo cieco, ritornò sui suoi passi; la strada, però, era
bloccata da una decina di guardie e falci. Si batté per aprirsi un varco ma, se
Maestro Lucifero era invincibile, come avrebbe voluto credere, di sicuro
non lo era Rowan Damisch. Gli strapparono di mano la daga, fu preso e
spinto faccia a terra, e ammanettato dietro la schiena con una catena
metallica, cimelio dell’era mortale.
Quando fu immobilizzato, gli si avvicinò una falce.
«Girategli la faccia verso di me» ordinò. Era la donna che aveva parlato
nella sua cella. La responsabile dell’operazione. La riconobbe vagamente.
Non era una falce midmericana, ma Rowan aveva già visto quel viso da
qualche parte.
«Tutti quelli che hai ucciso con tanta ferocia verranno rianimati.» Era
così piena di rabbia e rancore che mentre parlava sputava. «Verranno
rianimati e testimonieranno contro di te.»
«Se avessi voluto ucciderli per sempre, lo avrei fatto» replicò Rowan.
«Comunque sia, per i tuoi crimini di oggi verrai condannato a morte più
volte.»
«Vuoi dire, oltre alle morti che ho già accumulato? Scusa, ma mi si
confondono tutte nella mente.»
Quel commento servì solo a farla infuriare di più, come era sua
intenzione. «Non solo la morte» precisò lei, «ma anche il dolore. Un dolore
estremo, che è stato approvato dalla Somma Roncola del NordMerica in
alcune circostanze, e le tue circostanze te ne garantiranno una grande
quantità.»
Non era stato l’accenno al dolore a turbarlo, ma l’idea di una “Somma
Roncola nordmericana”.
«Uccidetelo, così non potrà più crearci guai» ordinò a una delle guardie.
«Lo rianimeremo più tardi.»
«Sì, eccellenza.»
«Eccellenza?» esclamò Rowan, sorpreso. Quel titolo spettava solo alle
Supreme Roncole. Infine, capì chi era. «Suprema Roncola Pickford
dell’OvestMerica?» chiese, incredulo. «Goddard controlla anche la tua
regione?»
Si fece rossa in volto per la rabbia. Rowan ebbe la sua risposta.
«Magari non fossi stata obbligata a rianimarti» tuonò Pickford, «ma la
decisione non spetta a me.» Poi, si rivolse alle guardie che lo trattenevano.
«Evitate di spargere altro sangue. Ne abbiamo avuto abbastanza, oggi.»
Una delle guardie, con un colpo alla trachea, gli inflisse l’ennesima
morte di una lunga serie di sgradevoli dipartite.
Ancora una volta, Sinfonio formula ipotesi che travisano i fatti. Anche se è possibile
che le note del primo accordo rappresentino gli archetipi, è parimenti possibile che
rappresentino tre individui reali. Forse il Mago era un buffone di corte. Forse il
Picchiatore era un cavaliere che uccideva le bestie sputafuoco che si diceva fossero
esistite un tempo. Ma, a mio parere, la cosa più vergognosa è la sua omissione.
Sinfonio non ha fatto notare che il Rintocco “che sedeva sullo scranno del Grande
Diapason nella primavera della sua vita” è un riferimento evidente alla fertilità.
22
Solo dessert
Il curato Mendoza si era occupato di tutti i dettagli della vita del Rintocco.
A cominciare dalla sua residenza ufficiale. Più precisamente, gli aveva
fornito una lista di dimore preventivamente approvate tra le quali scegliere,
alla presenza degli alti curati.
“Dato che la tua reputazione e la tua notorietà stanno crescendo,
abbiamo bisogno di un luogo fortificato e difendibile.” Mendoza gli aveva
poi mostrato un foglio che sembrava un questionario a scelta multipla. “Il
numero dei nostri fedeli continua ad aumentare, e abbiamo accumulato
fondi sufficienti per finanziare uno qualsiasi di questi quattro siti.”
Le scelte erano:
«Sto pensando che sarebbe una buona cosa viaggiare in questo momento»
suggerì il Thunderhead a Greyson quella sera, prima che si togliesse la
veste e si rilassasse. «Penso che sia il modo più efficace di lasciare un
segno.»
«Ti ho già detto che non voglio fare una tournée mondiale» ribatté
Greyson. «Il mondo viene da me una persona alla volta. Mi va bene così, e
finora è quello che hai voluto anche tu.»
«Non ti sto proponendo una tournée mondiale, ma forse un
pellegrinaggio a sorpresa in luoghi in cui non sei mai stato. Non si dovrebbe
far sapere che il Rintocco ha viaggiato in tutto il mondo, come i profeti
nella storia?»
Greyson Tolliver, però, non era mai stato appassionato di viaggi. Prima
che la sua vita andasse in malora, aveva sperato di servire il Thunderhead
da agente Nimbus nella sua zona e, in caso contrario, in un altro luogo fisso
che sarebbe diventato casa sua. Quanto a lui, non lo disturbava il fatto che il
suo universo si limitasse a Lenape City.
«Era solo un suggerimento. Ma credo che sia da prendere in
considerazione» aggiunse il Thunderhead. Non era da lui essere insistente
quando Greyson aveva chiaramente espresso la sua opinione su una
questione. Forse, un giorno, sarebbe dovuto uscire dal guscio per aiutare i
tonisti a rimettere in riga le fazioni dei Sibilanti, ma perché adesso?
«Ci rifletterò» tagliò corto Greyson. «Ma ora voglio fare un bagno e
piantarla di pensare a cose che mi stressano.»
«Certo» disse il Thunderhead. «Te lo faccio preparare.»
Ma il bagno che il Thunderhead gli fece preparare si rivelò troppo caldo.
Greyson sopportò in silenzio, ma che gli era saltato in mente al
Thunderhead? Lo stava punendo per aver rifiutato di viaggiare? Non era un
comportamento da Thunderhead. Per quale motivo lo aveva fatto
immergere nell’acqua bollente?
È fuori discussione che le falci siano esistite al tempo del Rintocco, e forse esistono
ancora nell’Altrove. Tuttavia, è esagerato suggerire che divorassero le anime, anche
per Sinfonio, che tende a preferire le voci e le supposizioni alle prove concrete. È
importante notare che gli esperti concordano oggi nel dire che le falci non
divoravano le anime delle loro vittime. Si limitavano a consumarne la carne.
23
Come spigolare un sant’uomo
Il Rintocco non doveva aggirarsi da solo nei corridoi e nei giardini dei
Chiostri. I curati lo ripetevano di continuo a Greyson. Si comportavano
come genitori troppo protettivi. Doveva ricordare loro che c’erano decine di
guardie intorno al perimetro e sui tetti? Che le telecamere del Thunderhead
lo sorvegliavano in ogni istante? Di che diamine si preoccupavano?
Poco dopo le due del mattino, Greyson scivolò giù dal letto e si infilò le
pantofole.
«Che succede, Greyson?» domandò il Thunderhead, prima che fosse del
tutto fuori dal letto. «Posso fare qualcosa per te?»
Sempre più strano. Il Thunderhead non aveva l’abitudine di parlare per
primo.
«Non riesco a dormire.»
«Forse è il tuo intuito» rispose il Thunderhead. «Forse percepisci
qualcosa di spiacevole che non riesci a comprendere.»
«L’unica cosa spiacevole che negli ultimi tempi non riesco a
comprendere sei tu.»
Il Thunderhead rimase qualche secondo in silenzio prima di proseguire.
«Se sei agitato, posso suggerirti un lungo viaggio per calmarti i nervi?»
«Adesso? A notte fonda?»
«Sì.»
«Mi alzo e parto?»
«Sì.»
«Perché mi calmerebbe i nervi?»
«Sarebbe… una saggia decisione in questo momento.»
Greyson sospirò e si diresse verso la porta.
«Dove vai?» chiese il Thunderhead.
«Dove pensi che vada? A prendere qualcosa da mangiare.»
«Non scordarti l’auricolare.»
«Perché? Così posso sentirti mentre mi fai la predica?»
Il Thunderhead esitò qualche istante, poi disse: «No, hai la mia parola.
Ma devi indossarlo. Te lo raccomando fortemente».
«Molto bene.»
Greyson prese l’auricolare dal comodino e se lo inserì nell’orecchio, se
non altro per far tacere il Thunderhead.
Greyson sapeva.
Sapeva, senza il minimo dubbio. E non perché il Thunderhead glielo
avesse rivelato. Era stato proprio il suo silenzio a metterlo in guardia.
All’improvviso ogni cosa ebbe un senso. Tutto quel tempo in cui il
Thunderhead aveva cercato di avvertirlo senza avvertirlo davvero. Quando
gli aveva consigliato di partire… non intendeva suggerirgli di fare un
viaggio, ma di fuggire. E il bagno! Lo aveva quasi ustionato per fargli
capire che si trovava in una situazione “calda”. Greyson si maledisse per il
suo scarso intuito. Il Thunderhead non poteva avvertirlo direttamente,
perché sarebbe stata un’interferenza troppo evidente negli affari delle falci,
il che era contro la legge. Il Thunderhead poteva fare una quantità illimitata
di cose, ma era incapace di violare la legge. Poteva solo assistere impotente
alla spigolatura di Greyson.
Ma il silenzio nell’auricolare era stato più eloquente di qualsiasi
avvertimento.
Quando il cuoco era uscito dall’ombra e Greyson aveva sussultato, era
stato più di un sussulto, in realtà. Il suo cuore aveva sobbalzato, e il suo
istinto di sopravvivenza si era risvegliato. Fuggire o combattere. In passato,
quando aveva provato una paura improvvisa, il Thunderhead si era sempre
affrettato a rassicurarlo. “È solo il pasticciere” gli avrebbe mormorato
all’orecchio. “Desidera soltanto incontrarti, sii cortese con lui.”
Però il Thunderhead non gli aveva detto nulla. Nulla di nulla. Il che
significava che l’uomo davanti a lui era una falce e che stava per spigolarlo.
Greyson non era mai stato così violento. Anche quando era il losco
Slayd Bridger, non aveva mai attaccato qualcuno con un oggetto appuntito.
Sapeva comunque che il suo gesto era giustificato. Sapeva che il
Thunderhead avrebbe capito.
E così, dopo aver trafitto la falce, uscì di corsa dalla cucina senza
voltarsi.
Non appena Morrison uscì dalla cucina, vide il Rintocco che correva
davanti a lui, scalciando via le pantofole. Chiedeva aiuto, ma la falce sapeva
che l’avrebbe raggiunto prima che qualcuno potesse arrivare in suo
soccorso.
Accanto a Morrison si aprì una porta, da cui uscì una donna. Non aveva
idea di chi fosse. Non gli importava. Senza lasciarle il tempo di aprire
bocca, la colpì sul viso con il palmo della mano e le ruppe il naso. L’osso le
si conficcò nel cervello, lei lanciò un urlo, crollò a terra e morì prima
ancora di sbattere la testa contro la pietra. Era la sua prima spigolatura della
notte, ma non sarebbe stata l’ultima.
Le luci si accesero, illuminando l’intero corridoio. Strizzò gli occhi,
accecato. Si aprì un’altra porta. Lo chef in seconda uscì dalla sua camera;
all’interno, la sveglia sul comodino continuava a suonare.
«Che sta succedendo qui?»
Morrison gli sferrò un pugno potente nel petto, ma con un solo occhio la
sua percezione della profondità non era la stessa di prima. Gli ci volle un
secondo pugno per finire la vittima e, dato che la maggior parte dei tonisti si
era liberata dei naniti, non c’era modo di fargli ripartire il cuore. Spinse via
il cadavere e continuò a inseguire il Rintocco ma all’improvviso, come si
erano accese, le luci si spensero, e si ritrovò nel buio più totale. Deciso a
non rallentare, avanzò a tentoni e andò a sbattere contro un muro di pietra.
Un vicolo cieco? No… mentre gli occhi si riabituavano all’oscurità, vide
che il corridoio si biforcava. Ma quale direzione aveva preso il Rintocco?
Alle sue spalle, sentì i rumori della fortezza che si risvegliava, le guardie
che si mobilitavano. Ora sapevano che c’era un intruso. Doveva muoversi
in fretta.
In quale direzione andare? Destra o sinistra? Decise di andare a sinistra.
Aveva il 50 per cento di probabilità di aver fatto la scelta giusta. Si era
trovato di fronte a probabilità peggiori.
Greyson sapeva che doveva vendere il suo piano e che doveva venderlo
bene. E, per farlo, doveva vedere dentro quella falce come non aveva mai
visto dentro nessun altro. Perché, se avesse sbagliato, sarebbe stata una
catastrofe.
«Ho letto molto sulle usanze dell’era mortale e sul comportamento dei
leader in tempi insidiosi» disse Greyson. «In alcune culture, i governanti e i
capi spirituali si facevano proteggere da assassini professionisti. Mi sentirei
più al sicuro con uno di quegli uomini al mio fianco che con questi tonisti
che pensano di essere guardie.»
La falce scosse la testa, incredula.
«Mi hai cavato un occhio e ora vuoi che lavori per te?»
Greyson alzò le spalle. «Il tuo occhio ricrescerà e tu avrai bisogno di un
lavoro» replicò. «O preferisci tornare da Goddard e raccontargli del tuo
fallimento? Che un pappamolle in pigiama ti ha inforchettato un occhio ed è
fuggito? Non penso che la prenderà bene.»
«Chi ti dice che non ti spigolerò non appena mi libererai?»
«Non credo che tu sia così stupido. Essere la falce personale del
Rintocco è molto meglio di qualsiasi offerta possa farti Goddard, e lo sai.»
«Sarei lo zimbello della Compagnia.»
Greyson gli rivolse un debole sorriso. «Non lo sei già, Maestro
Morrison?»
Goddard era ancora sotto shock per il fallito raid amazzonico. La Suprema
Roncola Pickford non era riuscita a catturare Madame Anastasia. Non era la
prima volta che lo deludeva, ma non c’era un granché che potesse fare.
Almeno non per il momento. Un giorno, avrebbe nominato lui le Supreme
Roncole di altre regioni nordmericane, piuttosto che lasciare la prerogativa
all’imprevedibile procedura di votazione dei conclavi.
Pickford se l’era cavata per un pelo, perché era riuscita a catturare
Rowan Damisch, che in quel momento era in viaggio verso Fulcrum City.
Goddard doveva accontentarsi, finché non si fosse ritrovata la ragazza. Con
un po’ di fortuna, Anastasia avrebbe speso tutte le sue energie a fuggire e a
nascondersi, e dunque non gli avrebbe creato troppi guai. A ripensarci,
avrebbe dovuto mantenere il perimetro di rispetto nelle acque sopra Endura.
Si era preoccupato che un recupero rivelasse ciò che era realmente
accaduto. Non avrebbe mai immaginato che potesse andare in quel modo.
Il mattino portò con sé altre questioni da risolvere, e Goddard dovette
mettere da parte le sue frustrazioni, cosa che era diventata molto più
difficile per lui.
«La Suprema Roncola Shirase della Barriera di Ross sta salendo in
ascensore, accompagnata da un consistente stuolo di guardie» lo informò
l’assistente Franklin.
«E formano tutti “una sola mente”?» scherzò Rand.
Goddard sogghignò in silenzio, ma Madame Franklin non osava mai
ridere delle battute di Rand. «Delle loro menti non interessa a nessuno.
L’essenziale è quello che ci portano» replicò.
Goddard li raggiunse nella sala conferenze, dopo averli fatti attendere
cinque minuti. Ci teneva particolarmente a far capire ai suoi ospiti, anche a
quelli importanti, che il suo tempo era più prezioso del loro.
«Nobu!» esclamò Goddard, accogliendo la Suprema Roncola Shirase
come un vecchio amico. «Che piacere rivederla! Come vanno le cose in
Antartide?»
«Va tutto bene.»
«Che cos’è la vita se non un sogno?» ironizzò Rand.
«Ogni tanto» replicò Shirase, senza cogliere il gioco di parole che
alludeva alla particolarità della sua regione. «Ma solo quando si rema verso
i propri obiettivi, immagino.»
Ora toccò all’assistente Franklin abbozzare una risatina di cortesia, ma
più che dissipare la tensione la peggiorò.
Goddard lanciò un’occhiata alle casse portate dagli ufficiali della
Suprema Guardia. Ce n’erano solo otto. Altre regioni venivano almeno con
dieci casse. Ma forse erano di meno perché il contenuto era stato stipato di
più.
«A cosa devo l’onore di questa visita, eccellenza?» chiese Goddard,
come se non lo sapessero già tutti.
«Da parte della regione della Barriera di Ross, vorrei offrirle un dono.
Nella speranza che possa formalizzare il nostro rapporto.»
Fece un cenno con il capo agli ufficiali della Suprema Guardia, che
collocarono le casse sul tavolo e le aprirono. Come era prevedibile, erano
piene dei diamanti delle falci.
«Questa è la quota di diamanti che la Barriere di Ross ha recuperato
dalle rovine di Endura» dichiarò Shirase.
«Impressionante» osservò Goddard. «Sono tutti?»
«Tutti, sì.»
Goddard esaminò il contenuto scintillante. Poi si voltò verso Shirase. «È
un onore per me. Accetto il vostro dono con umiltà, nello spirito
dell’amicizia che ci lega. Va da sé che quando avrete bisogno dei gioielli
per consacrare le vostre future falci saranno messi a vostra disposizione.»
Indicò la porta. «Vi prego di seguire l’assistente Franklin, che vi
accompagnerà nella sala da pranzo, dove ho fatto preparare un pranzo
veloce. Pietanze tradizionali dell’Antartide e anche specialità regionali della
MidMerica. Un banchetto per suggellare la nostra amicizia. Vi raggiungerò
a breve, e discuteremo di questioni che interessano entrambe le nostre
regioni.»
Franklin li scortò fuori dalla sala nel momento in cui entrava Nietzsche.
«Portami buone notizie, Freddy» disse Goddard.
«Be’, abbiamo seguito le tracce di Anastasia a sud. Non potrà andare
oltre. Presto, si troverà bloccata nella Terra del Fuoco.»
Goddard sospirò. «La Terra del Fuoco non collaborerà. Raddoppiamo gli
sforzi per prenderla prima che ci arrivi.»
«Stiamo facendo il possibile» replicò Nietzsche.
«Fate di più» ordinò la Somma Roncola.
Si voltò verso Madame Rand, che stava passando la mano sui diamanti
in una delle casse. «Li contiamo o ti fidi di Shirase?» gli chiese.
«Non è il numero che conta, Ayn, ma il gesto. Il tesoro che accumuliamo
non è che un mezzo in vista di un obiettivo. Un simbolo di qualcosa di più
prezioso dei diamanti.»
Tuttavia, Goddard sarebbe stato disposto a gettarli tutti in mare pur di
avere Madame Anastasia tra le mani.
25
Sole e ombra
Rowan ignorava che cosa fosse accaduto durante i suoi tre anni di assenza.
A differenza di Citra, nessuno l’aveva informato. Tutto ciò che sapeva,
l’aveva appreso per caso. Non aveva idea che ora Goddard controllasse la
maggioranza del NordMerica, il che non era buono per il mondo, e di sicuro
neppure per lui.
Era legato a una colonna di vetro al centro dello chalet di cristallo di
Goddard.
L’avevano rianimato il giorno prima, proprio come la Suprema Roncola
Pickford aveva detto che sarebbe avvenuto. La morte non bastava più a
Maestro Lucifero. Conoscendo Goddard, gli avrebbe riservato una fine
spettacolare e sfarzosa.
Goddard andò a trovarlo con Madame Rand al suo fianco, come sempre.
L’espressione sul viso della Somma Roncola non era di collera. In realtà,
era amichevole. Addirittura calorosa, per una persona senza cuore. La sua
visita colse di sorpresa Rowan. Rand, in compenso, aveva l’aria
preoccupata, e lui sapeva perché.
«Carissimo» esordì Goddard, allargando le braccia come se volesse
abbracciarlo, per poi fermarsi a qualche metro da lui.
«Sorpreso di vedermi?» chiese Rowan, con tutta la vivacità che fu in
grado di mostrare.
«Non mi sorprende nulla da parte tua» replicò Goddard. «Ma devo
ammettere che sono colpito da come sei riuscito a ritornare dopo
l’affondamento di Endura.»
«Che tu hai provocato.»
«Al contrario» ribatté Goddard. «Sei tu che l’hai provocato. È quello che
è e che resterà per sempre negli archivi.»
Se cercava di farlo infuriare, era tempo perso. Rowan si era ormai
rassegnato a essere considerato il cattivo. Quando aveva deciso di diventare
Maestro Lucifero, sapeva che sarebbe stato odiato. Naturalmente, pensava
che solo le falci lo avrebbero odiato. Non gli era mai passato per la mente
che potesse essere disprezzato dal resto del mondo.
«Sembri felice di vedermi» osservò Rowan. «È probabilmente per via
del corpo che hai rubato. Il corpo di Tyger reagisce alla vista del suo
migliore amico.»
«Forse» rispose Goddard, guardandosi le mani di Tyger, come se
potessero parlargli. «Ma anche il resto di me è felice di averti qui! Sai,
come uomo nero, Maestro Lucifero è fastidioso. Ma, come uomo in carne e
ossa, potrebbe essermi utile per migliorare l’umanità.»
«Per migliorare la tua immagine, vuoi dire.»
«Ciò che è bene per me è bene per il mondo, dovresti averlo capito
ormai. Vedo il quadro generale, Rowan. Da sempre. E ora, mostrando al
mondo che Maestro Lucifero verrà assicurato alla giustizia, permetterò alle
persone di dormire sonni tranquilli.»
Per tutto quel tempo, Madame Rand non aveva aperto bocca. Si era
seduta e aveva assistito alla scena, per vedere cosa avrebbe fatto Rowan,
quali accuse avrebbe mosso. Dopotutto, era stata lei che lo aveva liberato su
Endura. Se lui avesse voluto, avrebbe potuto seminare zizzania. Ma che
vantaggio gli avrebbe portato?
«Se speri di essere ricordato, non preoccuparti, sarà così. Quando sarai
spigolato, il tuo nome sarà il ricettacolo dell’odio mondiale. Sei tristemente
celebre, Rowan! Accettalo! È l’unica forma di celebrità che hai mai avuto,
ed è molto di più di quanto meriti. Consideralo un dono da parte mia, in
nome di tutto ciò che abbiamo rappresentato l’uno per l’altra.»
«Ti stai divertendo, vero?»
«Oh, immensamente» ammise Goddard. «Non puoi immaginare quanto
tempo ho passato a sognare i modi in cui avrei potuto tormentarti!»
«Chi torturerai quando io non ci sarò più?»
«Troverò qualcuno, stanne certo. O forse non ne avrò bisogno. Forse
sarai la mia ultima spina nel fianco.»
«Nah… ci sarà sempre un’altra.»
Goddard batté le mani, visibilmente divertito. «Mi sono mancate molto
le nostre conversazioni!»
«Ti riferisci a quelle in cui gongolavi mentre ero legato?»
«Vedi? Il modo in cui arrivi al cuore della questione è sempre così
corroborante. Così esaltante. Ti terrei volentieri come animale da
compagnia, se non temessi che tu possa fuggire e arrostirmi nel sonno.»
«Fuggirei, sì, e ti arrostirei, certo» confermò Rowan.
«Non ne ho dubitato neanche un istante. Be’, stai tranquillo, non fuggirai
oggi. Non c’è più Maestro Brahms a combinare disastri.»
«Perché? È stato divorato dagli squali come tutti gli altri?»
«Sì, ne sono sicuro» ribatté Goddard, «ma era già morto quando si sono
sbranati quel che ne restava. È la punizione per averti fatto fuggire.»
«Capisco.» Rowan non disse nient’altro. Ma, con la coda dell’occhio,
scorse Rand agitarsi nella poltrona come se fosse diventata rovente.
Goddard avanzò verso di lui. La sua voce si addolcì. «Tu non mi
crederai, ma mi sei mancato davvero, Rowan.» In quella semplice
confessione risuonava una certa sincerità che trascendeva la sua abituale
teatralità. «Sei l’unico che osa tenermi testa, ormai. Ho nemici, sì, ma sono
tutti degli smidollati. Facili da rimettere al loro posto. Tu eri diverso, sin
dall’inizio.»
Fece un passo indietro e osservò Rowan dalla testa ai piedi, valutandolo,
così come si giudica un dipinto sbiadito che ha perduto il suo lustro.
«Avresti potuto essere il mio primo assistente» riprese Goddard. «L’erede
della Compagnia mondiale, e credimi, ci sarà una sola Compagnia mondiale
quando avrò finito. Quello sarebbe stato il tuo destino, il tuo futuro.»
«Se solo avessi messo a tacere la mia coscienza.»
Goddard scosse la testa, deluso. «La coscienza è uno strumento come un
altro. Se non sei tu a manipolarla, lo farà lei; e, da quello che posso vedere,
ha avuto ragione di te. No, il mondo ha bisogno dell’unità che gli offro
molto più di quanto abbia bisogno della tua visione semplicistica del bene e
del male.»
Il problema con Goddard era che le sue parole avevano sempre una loro
logica, e la cosa era scoraggiante. Era capace di manipolare i pensieri altrui
fino ad appropriarsene. Era questo che lo rendeva così pericoloso.
Rowan sentì la forza d’animo e il coraggio abbandonarlo. Goddard
aveva forse ragione su qualcosa? Una voce dentro di sé lo negava, ma
quella voce si stava affievolendo sempre più.
«Che cosa mi aspetta?» chiese.
Goddard si chinò verso di lui e gli sussurrò all’orecchio: «La resa dei
conti».
Madame Rand credeva che tutta quella storia appartenesse ormai al passato.
Era andata in pellegrinaggio in un luogo santo quando aveva saputo che
Maestro Lucifero era vivo e che si trovava in Amazzonia. Il rapimento del
giovane si era svolto a sua insaputa. Maestro Lucifero era già in viaggio
verso Fulcrum City quando Goddard le aveva dato la “meravigliosa
notizia”.
Non sarebbe potuto capitare in un momento meno opportuno. Con un
margine di preavviso, avrebbe di sicuro trovato un modo di spigolarlo prima
che raggiungesse Goddard, se non altro per chiudergli la bocca.
Ma era lì, e la sua bocca era rimasta chiusa lo stesso. Almeno, per quello
che la riguardava. Manteneva il segreto solo per tenerla in tensione? Ayn si
chiedeva quale fosse il suo gioco.
Questa volta, Goddard non ebbe la delicatezza di lasciare Rowan solo
nella stanza. Gli mise alle costole due guardie, a cui ordinò di sorvegliarlo a
distanza e di non togliergli mai gli occhi di dosso.
«Va’ da lui ogni ora» raccomandò ad Ayn. «E controlla che non abbia
allentato le corde o corrotto le guardie.»
«Dovresti renderle sorde, in modo che non possa fare loro il lavaggio del
cervello» suggerì Ayn. Era solo una battuta, ma Goddard la prese sul serio.
«Purtroppo, riacquisterebbero l’udito nel giro di un’ora.»
Così, per mantenere il silenzio, invece di privare le guardie dell’udito, si
fece ricorso alle vecchie maniere. Rowan fu imbavagliato. Tuttavia, quando
Ayn andò a controllarlo quel pomeriggio, era riuscito a togliersi il bavaglio.
Nonostante fosse legato come un involtino, era tutto sorrisi.
«Ciao, Ayn» la salutò con allegria. «Stai passando una bella giornata?»
«Non hai sentito?» ribatté lei scherzando. «Ogni giornata è bella da
quando Goddard è diventato Somma Roncola.»
«Ci dispiace, eccellenza» disse una delle guardie. «Ci è stato ordinato di
sorvegliarlo da lontano, dunque non possiamo rimettergli il bavaglio. Forse
può farlo lei.»
«Che cosa ha detto?»
«Niente» rispose l’altra guardia. «Cantava una canzone che era famosa
qualche anno fa. Ci ha invitato a cantare con lui, ma non l’abbiamo fatto.»
«Bene. Ammiro la vostra compostezza.»
Durante questo breve scambio, Rowan non perse mai il sorriso. «Sai,
Ayn, avrei potuto dire a Goddard che sei stata tu a liberarmi su Endura.»
Ecco fatto. Aveva tirato fuori la cosa in presenza delle guardie.
«Mentire non ti servirà a nulla» replicò lei, in modo che le guardie la
sentissero. Poi, ordinò loro di attendere fuori, il che, in un’abitazione le cui
pareti interne erano ancora di vetro trasparente, non li metteva al riparo da
sguardi indiscreti, ma almeno la stanza era insonorizzata, una volta chiusa
la porta.
«Non penso che ti abbiano creduto» commentò Rowan. «Non sei stata
molto convincente.»
«Hai ragione» rispose Ayn. «Allora, li dovrò spigolare, adesso. La loro
vita è nelle tue mani.»
«È la tua lama, non la mia.»
Ayn lanciò un’occhiata alle due guardie ignare, oltre la parete di vetro. Il
problema non era spigolarle, ma nascondere che era stata lei a farlo.
Avrebbe dovuto ordinare a qualche falce di livello inferiore di occuparsene
e poi avrebbe dovuto convincerla ad autospigolarsi, il tutto senza destare il
minimo sospetto. Che casino.
«Liberarti è stata la peggiore decisione della mia vita.»
«Non la peggiore. Neanche lontanamente.»
«Perché non l’hai detto a Goddard? Quale sarebbe il motivo?»
Rowan alzò le spalle. «Mi hai fatto un favore, e io ho ricambiato. Ora
siamo pari.» E poi, aggiunse: «L’hai tradito una volta. Potresti rifarlo».
«Le cose sono cambiate.»
«Ne sei convinta? Continuo a vedere che non ti tratta come dovrebbe. Ti
ha mai detto quello che oggi ha detto a me? Che potresti essere l’erede della
Compagnia mondiale? No? Mi pare che ti tratti come qualunque altro.
Come una serva.»
Ayn prese un profondo respiro, sentendosi di colpo molto sola. Amava la
solitudine, ma in quel caso era diverso. Aveva l’impressione di essere senza
alleati. Come se tutto il mondo le fosse nemico. E forse lo era. Non
sopportava che quel giovane arrogante potesse farla sentire così. «Sei più
pericoloso di quanto Goddard non voglia ammettere» gli disse.
«Eppure, mi ascolti ancora. Perché?»
Non voleva affrontare quella domanda. Passò in rassegna tutti i modi in
cui avrebbe potuto spigolarlo seduta stante, e al diavolo le conseguenze. Ma
sapeva che, se lo avesse fatto, non avrebbe ottenuto nulla. Goddard lo
avrebbe rianimato per obbligarlo ad affrontare la fine che aveva previsto per
lui. E, una volta rianimato, Rowan avrebbe potuto vuotare il sacco. Aveva le
mani legate, proprio come Rowan.
«Non è importante, ma mi piacerebbe sapere…» riprese Rowan.
«Condividi tutto ciò che fa? Pensi che stia portando il mondo nella giusta
direzione?»
«Non esiste la giusta direzione. Esiste solo una direzione che permetterà
alla nostra specie di vivere meglio.»
«La “nostra specie”? Intendi le falci?»
«Che altro dovrei intendere?»
«Le falci avrebbero dovuto rendere il mondo un luogo migliore per tutti.
E non il contrario.»
Se credeva che a lei importasse, stava sprecando il fiato. Le questioni di
etica e senso morale erano gli spauracchi della vecchia guardia. La sua
coscienza era pulita, perché non ce l’aveva, e di questo era sempre stata
orgogliosa.
«Intende giustiziarti in pubblico» confidò a Rowan. «E in pubblico vuol
dire che farà in modo che nessuno possa più dubitare della morte di Maestro
Lucifero. Sarà sconfitto ed eliminato dalla faccia della Terra, per sempre.»
«È questo che vuoi?»
«Non ti piangerò» replicò Rand, «e, quando non ci sarai più, mi sentirò
sollevata.»
Le credette sulla parola. «Sai, Madame Rand, verrà un giorno in cui
l’ego di Goddard crescerà in modo così smisurato che anche tu capirai la
sua pericolosità. E, in quel momento, lui sarà così potente che nessuno
oserà più tenergli testa.»
Ayn avrebbe voluto ribattere, ma fu percorsa da un brivido. Il suo corpo
le stava facendo capire che c’era del vero in quello che Rowan diceva. No,
non avrebbe pianto Maestro Lucifero. Ma, una volta scomparso, le
preoccupazioni non sarebbero finite.
«Sei esattamente come lui» commentò lei. «Entrambi vi insinuate nella
mente delle persone finché non riescono più a distinguere il vero dal falso.
Dunque, mi scuserai se non parlerò mai più con te.»
«Lo farai, invece» ribatté lui con assoluta certezza. «Perché, dopo che mi
avrà eliminato, ti ordinerà di sbarazzarti di ciò che resta di me, come hai
fatto con Tyger. E allora, quando nessuno ti ascolterà, te la prenderai con le
mie ossa carbonizzate, per poter avere l’ultima parola. Forse ci sputerai
anche sopra. Ma non ti farà sentire meglio.»
Ed era esasperante. Perché aveva assolutamente ragione.
27
Il palazzo dei piaceri di Tenkamenin
Jeri non aveva ricevuto nessun ordine da Possuelo. Gli aveva detto di
condurre Anastasia a Port Remembrance e nient’altro. Il comandante, però,
non era disposto a separarsi dalla giovane falce turchese. E poi,
l’equipaggio della Spence aveva bisogno di riposo. La costa occidentale del
SubSahara era il luogo ideale. E così Jeri aveva la possibilità di tenere
d’occhio Anastasia e la Suprema Roncola, che pareva un po’ troppo
compiacente.
«Si fida di lui?» le chiese Jeri prima di salire sulle berline che li
avrebbero portati al palazzo di Tenkamenin.
«Possuelo sì» rispose Anastasia. «Questo mi basta.»
«Possuelo si fidava anche della giovane falce che l’ha venduta a
Goddard» sottolineò Jeri. Anastasia non rispose. «Sarò il suo secondo paio
d’occhi» aggiunse il comandante.
«Probabilmente non sarà necessario, ma lo apprezzo» replicò lei.
In genere, Jeri preferiva avere l’ultima parola, ma l’apprezzamento di
Anastasia era una ricompensa adeguata per i servizi resi.
Tenkamenin, Tenka per gli amici, era espansivo di natura, caratteristica che
si accompagnava a una voce profonda, una voce che risuonava anche
quando bisbigliava. Citra lo trovava affettuoso ma anche intimidatorio. Si
decise a mettere da parte Citra Terranova per essere Madame Anastasia per
tutto il tempo che sarebbe rimasta con lui.
Si accorse che l’indice genetico di Tenkamenin pendeva un po’ verso
l’Africa. Comprensibile, visto che erano in un continente che aveva
contribuito con quei geni alla mescolanza biologica dell’umanità. Anastasia
stessa aveva qualcosa di africano più che di panasiatico, caucasoide,
mesolatino o vari indici secondari raggruppati sono la categoria “altro”.
Mentre erano in auto insieme, a Tenkamenin saltò all’occhio quel dettaglio
e commentò: «Non dovremmo notare questa cosa, eppure non mi sfugge
mai. Vuol dire solo che siamo un pizzico più imparentati del dovuto».
La sua non era una semplice casa. Tenkamenin si era fatto costruire un
maestoso palazzo dei piaceri.
«Non l’ho chiamato Xanadu, come il sontuoso palazzo di Kublai Khan»
spiegò ad Anastasia. «Maestro Khan non aveva gusto, per nulla. La
Compagnia mongola ha fatto bene a radere al suolo quell’edificio quando si
è autospigolato.»
Il palazzo era elegante, proprio come lo stesso Tenka; l’incarnazione del
buon gusto. «Non sono un parassita, non mi impadronisco di tenute e
magioni altrui, buttando fuori i proprietari» dichiarò con orgoglio. «Questo
posto è stato costruito da zero! Ho invitato intere comunità a lavorarci e ho
riempito il loro tempo libero con attività gratificanti. E continuano a
lavorare, aumentando anno dopo anno. E non perché lo chiedo, ma perché
fa loro piacere.»
Sebbene all’inizio Anastasia avesse dubitato che lo facessero per scelta,
parlando con i lavoratori dovette ricredersi. Volevano davvero bene a
Tenka, e decidevano di loro spontanea volontà quanto tempo dedicare alla
costruzione del suo palazzo. Non guastava che la Suprema Roncola pagasse
loro uno stipendio ben superiore al reddito minimo garantito.
Il palazzo era pieno di vecchi cimeli e bizzarre cianfrusaglie del mondo
antico che aggiungevano un tocco pittoresco alla dimora. A cominciare
dalle uniformi anacronistiche del personale risalenti a diverse epoche
storiche. C’era anche una collezione di giocattoli di secoli prima. E poi
c’erano i telefoni. Oggetti di plastica di diversi colori appoggiati sui tavoli o
appesi ai muri. Erano dotati di ricevitori collegati alle basi con lunghi cavi a
spirale che si allungavano come molle e si ingarbugliavano con facilità.
«Mi piace l’idea che comunicare ti costringa a stare fermo in un posto»
dichiarò Tenkamenin. «Ti impone di concedere a ogni conversazione
l’attenzione che merita.»
Ma, dato che erano riservati alle chiamate private di Tenkamenin, quei
telefoni non squillavano mai. Anastasia immaginò che fosse perché la
Suprema Roncola non aveva praticamente vita privata. La sua esistenza era
sempre in vetrina, esposta agli sguardi di tutti.
Il mattino dopo il suo arrivo, Anastasia fu invitata a una riunione con
Tenkamenin, Maestro Baba e Madame Makeda, presenze fisse
dell’entourage della Suprema Roncola, il cui scopo nella vita sembrava
essere quello di fargli da pubblico. Baba possedeva uno spirito caustico e si
divertiva a fare battute che solo Tenka capiva. Makeda pareva provare un
piacere enorme a denigrare Baba.
«Ah! Ecco che arriva la nostra Signora delle Profondità!» esclamò
Tenka. «Si accomodi, prego… abbiamo molto di cui parlare.»
Anastasia si sedette; le offrirono dei piccoli sandwich senza la crosta,
disposti a raggiera su un vassoio. Per la Suprema Roncola la presentazione
aveva una certa importanza.
«Mi pare di capire che la notizia della sua rianimazione si stia
diffondendo rapidamente. Mentre gli alleati di Goddard stanno cercando di
far passare la notizia sotto silenzio, i nostri amici della vecchia guardia
stanno facendo di tutto per divulgarla. Lasceremo che la suspense cresca, in
modo che, quando farà il suo ingresso ufficiale, il mondo intero penderà
dalle sue labbra.»
«In quel caso, bisognerà che abbia qualcosa da dire.»
«Certo» dichiarò Tenka con una tale sicurezza che lei si chiese cosa
avesse in mente. «Siamo venuti a conoscenza di un’informazione che più
incriminante di così non si può.»
«Incriminazione in un mondo senza crimini e nazioni» fece notare Baba.
«Immaginate un po’.»
Tenkamenin rise e Madame Makeda alzò gli occhi al cielo. Poi la
Suprema Roncola si allungò sul tavolo e posò un piccolo origami a forma di
cigno sul piatto vuoto di Anastasia. «Segreti ripiegati su segreti» affermò
con un sorriso. «Mi dica, Anastasia, quanto è brava a frugare nel cervello
primordiale del Thunderhead?»
«Sono molto brava.»
«Bene!» esclamò Tenkamenin. «Quando aprirà il cigno, troverà qualcosa
per iniziare.»
Anastasia si rigirò il cigno tra le dita. «Che cosa devo cercare?»
«È lei che deve aprire la strada. Non le dirò cosa cercare perché, se lo
facessi, non riuscirebbe a vedere cose che potrebbe scoprire grazie al suo
intuito.»
«Le cose che probabilmente noi non abbiamo visto» aggiunse Makeda.
«Abbiamo bisogno di occhi nuovi.»
«E comunque» intervenne Maestro Baba, dando man forte alla Suprema
Roncola e a Madame Makeda, «non basta scoprirlo, deve trovarlo, per
mostrare poi agli altri come fare.»
«Esatto» confermò Tenkamenin. «Una menzogna riuscita non è
alimentata dal bugiardo, ma dalla volontà del suo interlocutore di crederci.
Non si può smascherare una bugia senza prima aver minato la volontà di
crederci. Ecco perché condurre la gente alla verità è molto più efficace che
raccontargliela.»
Le parole della Suprema Roncola aleggiarono nell’aria qualche istante.
Anastasia guardò di nuovo il cigno. Non se la sentiva di rovinarlo
aprendogli le ali delicate.
«Una volta che avrà tratto le sue conclusioni, condivideremo con lei ciò
che sappiamo» dichiarò Tenkamenin. «Le garantisco che la sua escursione
nel cervello primordiale si rivelerà per lei un’esperienza illuminante.»
28
Oscura celebrità
I mezzi blindati non esistevano più. La maggior parte dei veicoli era
impenetrabile per natura. Pertanto, per Maestro Lucifero si costruì nel giro
di qualche giorno una camionetta speciale dotata di rivetti in acciaio a vista
e finestrini con le sbarre. Un’autostrada sempre dritta univa Fulcrum City a
Mile High City, dove sarebbe stata eseguita la sua spigolatura. Ma il corteo
di automobili optò per una strada sinuosa che passava per le numerose città
midmericane prima di arrivare a destinazione. Un tragitto che avrebbe
potuto prendere un giorno durò quasi una settimana.
Rowan sapeva che Goddard avrebbe sfruttato la sua esecuzione per fini
pubblicitari, ma non si aspettava un’ostentazione del genere.
Il corteo contava una decina di veicoli. Ufficiali della Suprema Guardia
in motocicletta, limousine di lusso nei colori delle falci che erano a bordo:
tutti precedevano la camionetta blindata scortata da altre guardie
motorizzate, che chiudevano la processione come lo strascico di una sposa.
La Somma Roncola non era presente, anche se la prima limousine era
blu reale e ornata di pietre scintillanti come stelle. Non c’era nessuno a
bordo, ma la folla non lo sapeva. La verità era che Goddard non intendeva
intraprendere un lungo e faticoso viaggio quando poteva benissimo ottenere
lo stesso risultato fingendo di esserci. Non avrebbe dovuto farsi vedere se
non il giorno stesso della spigolatura.
Aveva inviato Costantino al suo posto, incaricandolo di scortare il
temibile Maestro Lucifero verso il suo irreversibile e tragico destino.
Rowan sapeva che l’uomo incaricato di rintracciarlo ed eliminarlo tre
anni prima era Costantino. La veste e la limousine erano dello stesso colore
cremisi della scritta NEMICO PUBBLICO stampigliata sulla fiancata della
camionetta che trasportava Rowan. Si chiese se fosse voluto o se fosse solo
una coincidenza.
Prima di lasciare Fulcrum City, Costantino era andato a trovare Rowan,
ammanettato e chiuso nel mezzo blindato.
“Erano anni che sognavo di metterti gli occhi addosso” aveva dichiarato.
“E ora che ne ho l’occasione, non sono affatto colpito.”
“Grazie” aveva risposto Rowan. “Anch’io ti voglio bene.”
Costantino aveva infilato una mano in una tasca della veste come per
afferrare un coltello, ma poi ci aveva ripensato. “Se potessi spigolarti seduta
stante, lo farei. Ma non vorrei scatenare l’ira della Somma Roncola
Goddard.”
“È comprensibile. Se ti può consolare, preferirei essere spigolato da te
invece che da lui.”
“E perché?”
“Perché per lui la mia morte sarà un atto di vendetta. Per te, sarà il
coronamento di una missione durata tre anni. Preferirei essere una
soddisfazione piuttosto che la vendetta di Goddard.”
Costantino aveva accettato quella risposta senza battere ciglio. Non si
era addolcito, ma non sembrava più sull’orlo di esplodere, esplosione di cui
poi si sarebbe pentito.
“Prima che tu vada incontro alla tua fine ben meritata, vorrei sapere una
cosa: perché lo hai fatto?”
“Perché ho eliminato Maestro Renoir, Fillmore e gli altri?”
Costantino aveva fatto un gesto con la mano, come per scacciare quelle
parole. “No, non mi riferisco a quello. Per quanto condanni la tua follia
omicida verso le falci, è ovvio il motivo per cui hai scelto proprio quelle.
Erano tutte discutibili, e hai deciso di giudicarle, anche se non toccava a te
farlo. Quei crimini sono una ragione sufficiente per spigolarti, ma ciò che
voglio sapere è perché hai ucciso le Grandi Falci. Erano brave persone. E
Senocrate, che era il peggiore di tutti, era un santo in confronto agli altri che
hai eliminato. Che cosa ti ha spinto a compiere un gesto così barbaro?”
Rowan era stufo di negare la sua colpevolezza. A cosa sarebbe servito,
ormai? Così, aveva offerto a Costantino la bugia di cui tutti erano convinti.
“Ce l’avevo con la Compagnia per avermi negato l’anello” aveva
spiegato. “E volevo danneggiarla il più possibile. Volevo che tutte le
Compagnie del mondo pagassero per avermi impedito di diventare una
falce.”
Costantino lo aveva fulminato con lo sguardo. Avrebbe potuto perforare
l’acciaio della camionetta. “Speri che ci creda? Non penso che tu sia così
gretto e meschino.”
“Eppure, devo esserlo” aveva replicato Rowan. “Altrimenti perché avrei
affondato Endura? O forse sono il male incarnato.”
Costantino sapeva che Maestro Lucifero si stava prendendo gioco di lui,
e la cosa non gli piaceva. Se ne era andato, non avendo altro da dirgli del
viaggio. Ma, prima di uscire, si era tolto lo sfizio di dargli una notizia
infausta.
“Ho il piacere di informarti che la tua spigolatura sarà dolorosa” aveva
annunciato, con finta amarezza. “Goddard intende arrostirti vivo.”
Rowan aveva delle catene nuove fiammanti che erano state forgiate proprio
per lui, catene di acciaio che tintinnavano sul fondo della camionetta
quando si muoveva. Erano lunghe a sufficienza per permettergli di
spostarsi, ma pesanti quanto bastava per rendergli difficile qualsiasi
movimento. Era un’esagerazione. Il fatto che avesse un talento particolare a
liberarsi non lo rendeva un esperto nell’arte dell’evasione, come credevano
tutti. Se era evaso in precedenza, era stato perché qualcuno lo aveva aiutato
o per l’incompetenza dei suoi sequestratori. Non avrebbe tagliato le catene
con i denti e buttato giù il portellone di acciaio a calci. Eppure, tutti si
comportavano come se fosse una specie di bestia soprannaturale con poteri
sovrumani. In fondo, forse era quello che Goddard voleva che la gente
pensasse; perché, se la creatura che aveva catturato doveva essere
incatenata e rinchiusa in una scatola di acciaio, allora lui doveva essere un
temibile cacciatore.
In ogni città e centro abitato che attraversavano, la gente usciva a frotte
per guardare il corteo che passava, come se fosse una sfilata per un giorno
di festa. I finestrini con le sbarre erano più larghi del normale e collocati a
diverse altezze e la cabina interna era ben illuminata. Rowan ne comprese
subito il motivo. I finestrini erano posizionati in modo che, ovunque lui si
spostasse, fosse sempre visibile, e l’illuminazione interna garantiva che
nella cabina non calasse mai l’oscurità, né di giorno né di notte.
Mentre il corteo percorreva viali e strade principali, la folla assiepata
lungo i marciapiedi poteva vederlo chiaramente. Di tanto in tanto, Rowan
gettava un’occhiata fuori, mandando in visibilio i curiosi. Lo indicavano, lo
fotografavano, tenevano in braccio i bambini per mostrare loro il giovane
che era diventato un’oscura celebrità. A volte, li salutava con un cenno
della mano, scatenando una raffica di risatine. A volte, li indicava,
spaventandoli, come se, dopo essere stato spigolato, il suo spettro iroso e
irrequieto volesse andare a trovarli in piena notte per perseguitarli.
In tutto questo, continuava a riandare con la mente al tetro annuncio di
Costantino. Al modo in cui sarebbe stato spigolato. La spigolatura con il
fuoco non era stata proibita per legge? Goddard doveva averla riammessa.
O forse l’aveva reintrodotta solo per quell’occasione speciale. Per quanto
Rowan si ripetesse di non aver paura, in realtà mentiva a se stesso. Non era
la spigolatura che temeva, ma il dolore. E di sicuro sarebbe morto fra atroci
sofferenze, perché Goddard avrebbe spento i suoi naniti analgesici per
torturarlo. Avrebbe sofferto come gli eretici e le streghe sui roghi nell’era
dell’ignoranza.
Non temeva la fine della vita. Ci si era rassegnato. Era morto così tante
volte e in così tanti modi che ci aveva fatto l’abitudine. Non la temeva più
del sonno, che spesso era peggiore, perché popolato di incubi. Perlomeno,
la morte annientava i sogni e l’unica differenza tra la morte temporanea e la
morte definitiva era la durata. Forse, come qualcuno credeva, la morte vera,
quella definitiva, trasportava l’anima in un luogo sublime, inconcepibile per
i vivi. Rowan cercava di addolcire così la prospettiva del suo destino.
Cercava di addolcirla anche con il pensiero di Citra. Non aveva più
avuto sue notizie. Non era così stupido da chiedere a Costantino o a chissà
chi altro, perché non sapeva chi fosse a conoscenza del fatto che era ancora
viva. Di sicuro Goddard ne era al corrente: aveva inviato la Suprema
Roncola dell’OvestMerica a catturare entrambi. Ma se Citra era fuggita, il
modo migliore per aiutarla era non parlare di lei in presenza dei loro
nemici.
Visto il destino che lo aspettava, poteva solo sperare che Citra se la
cavasse meglio di lui.
29
L’orso in bella vista
Tre date. Erano tutto ciò che conteneva l’origami. La prima nell’anno della
Lince, la seconda nell’anno del Bisonte e la terza nell’anno dell’Airone.
Tutti anni precedenti alla sua nascita.
Non ci mise molto a capire perché quelle date erano importanti. Fu
facile. Che la gente le conoscesse o meno, esse segnavano avvenimenti che
facevano parte della storia comune. Del resto, quelli erano i resoconti
ufficiali. Le versioni accettate. La storia non si faceva con i resoconti di
prima mano; tutto quello che si sapeva era quello che era permesso
conoscere. Ancora prima di diventare falce, Anastasia aveva visto la
Compagnia manipolare il flusso di informazioni, modellando e definendo la
storia a modo suo. Forse non arrivava al punto di falsificare gli eventi,
perché il Thunderhead imponeva dei limiti, avendo la giurisdizione su fatti
e cifre. La Compagnia, però, aveva un potere non trascurabile, perché
poteva scegliere quali fatti rendere pubblici.
Tuttavia, le informazioni scartate non venivano dimenticate. Restavano
nel cervello primordiale, dove erano accessibili a tutti. Durante il suo
apprendistato, Citra aveva imparato a passare al setaccio il cervello
primordiale, in particolare quando aveva provato a individuare “l’assassino”
di Maestro Faraday. Gli algoritmi del sistema di archiviazione del
Thunderhead funzionavano come il cervello umano: tutto era classificato
per associazioni. Le immagini non erano organizzate per data, ora o località.
Per trovare una falce con la veste avorio all’angolo di una strada, aveva
dovuto passare in rassegna le immagini delle persone agli incroci in tutto il
mondo e poi restringere la ricerca ad altri elementi della scena. Un tipo
particolare di lampione. La lunghezza delle ombre. I suoni e gli odori che
aleggiavano nell’aria, perché il Thunderhead catalogava tutti i dati
sensoriali. Cercare qualcosa nel cervello primordiale era come cercare un
ago in un pagliaio in mezzo a una miriade di pagliai.
C’era voluta una buona dose di ingegno e ispirazione per scoprire i
parametri che consentivano di restringere il campo quasi infinito di
informazioni. All’epoca, sapeva almeno cosa stava cercando, ma ora la
sfida da affrontare era ancora più ardua. Ora conosceva solo le date.
Per cominciare, si informò sui disastri legati a esse. Poi si immerse nel
cervello primordiale per reperire le informazioni e le fonti primarie che
erano state volutamente escluse dagli archivi ufficiali.
Il suo più grande nemico era la mancanza di pazienza. Sentiva che le
risposte erano a portata di mano, ma erano sepolte sotto così tanti strati che
temeva di non riuscire a riportarle in superficie.
Anastasia e Jeri erano arrivati alcuni giorni prima del Giubileo Lunare. A
ogni luna piena, la Suprema Roncola Tenkamenin dava una grande festa che
durava venticinque ore, “perché ventiquattro non erano abbastanza”. Era
previsto ogni tipo di divertimenti, con orde di invitati di professione e buffet
ricchi di pietanze da tutto il mondo per intrattenere gli ospiti.
“Si vesta per l’occasione, ma non indossi la sua veste da falce e stia al
mio fianco con uno o due invitati di professione” le aveva raccomandato
Tenka. “Farà parte della scenografia.”
A Jeri, la Suprema Roncola si era limitato a dire: “Si diverta!”.
Anastasia non avrebbe voluto partecipare per paura di essere
riconosciuta; avrebbe preferito proseguire le sue ricerche nel cervello
primordiale, ma Tenkamenin aveva insistito. “Una pausa le farà solo bene.
Le procurerò una parrucca colorata e vedrà che nessuno capirà chi è.”
All’inizio, Anastasia aveva pensato che fosse irresponsabile e
imprudente suggerirle un semplice travestimento, ma dopotutto gli invitati
non si aspettavano certo di veder apparire a una festa una falce data per
morta ormai da anni, tantomeno una che indossava una parrucca blu
elettrico. Si mescolò tra gli ospiti e nessuno si accorse di nulla.
«Una piccola lezione che può servirle per le sue ricerche» le disse
Tenkamenin. «Ciò che si nasconde restando in bella vista è più difficile da
trovare.»
Tenka era un perfetto padrone di casa. Salutava tutti e dispensava
immunità a destra e a manca. Era sorprendente, addirittura divertente, anche
se Anastasia non gradiva. E la Suprema Roncola si accorse della sua
disapprovazione.
«Pensa che io sia troppo indulgente nei confronti di me stesso?» le
chiese Tenka. «Sono una Suprema Roncola troppo edonista per i suoi
gusti?»
«Goddard dà feste come questa» sottolineò lei.
«Non come questa» ribatté Tenka.
«E anche lui ha una propensione per il lusso eccessivo.»
«Davvero?»
Tenka le fece cenno di avvicinarsi, così che Anastasia potesse sentirlo
meglio in mezzo al clamore della festa. «Dia un’occhiata alle persone che la
circondano e mi dica cosa vede. Anzi, mi dica cosa non vede.»
Anastasia esaminò la scena. Alcuni sguazzavano nella piscina a più
livelli, altri ballavano nelle terrazze. Tutti erano in costume da bagno o in
abiti stravaganti. Alla fine, comprese…
«Non ci sono falci.»
«Nemmeno una! Neppure Makeda e Baba. Tutti gli ospiti sono parenti di
una persona che ho spigolato dall’ultima luna piena. Li invito per celebrare
la vita dei cari che hanno perduto, invece di piangerli, e per concedere loro
un anno di immunità. E, quando i festeggiamenti finiscono e tutti se ne
vanno, mi ritiro nei miei magnifici appartamenti.» Indicò la finestra più
grande della residenza… poi le strizzò l’occhio e spostò il dito verso destra,
finché non indicò più il palazzo, ma un piccolo capanno al limitare della
proprietà.
«Il capanno degli attrezzi?»
«Non è un capanno degli attrezzi. È il posto in cui vivo. Le stanze del
palazzo sono tutte riservate agli ospiti d’onore come lei, ma anche a ospiti
più modesti, che ho bisogno di impressione. Quanto al mio “capanno degli
attrezzi”, come lo ha chiamato, è una riproduzione della casa in cui sono
cresciuto. I miei genitori credono nella semplicità. E, naturalmente, hanno
generato un figlio che ha un debole per le stravaganze. Eppure, mi trovo a
mio agio a passare la notte nella piacevolezza di una dimora umile.»
«I suoi genitori devono essere orgogliosi di lei, ne sono sicura» osservò
Anastasia.
La Suprema Roncola Tenkamenin tirò su col naso a quelle parole. «Non
tanto. Hanno portato la semplicità all’estremo. Ora sono tonisti… non parlo
più con loro da anni.»
«Mi dispiace.»
«Sapeva che i tonisti avevano un profeta?» proseguì Tenka con
amarezza. «È apparso poco dopo che lei sparisse in fondo all’oceano.
Sostenevano che il Thunderhead parlasse ancora con lui.» Abbozzò un
sorriso triste. «Naturalmente, si è fatto spigolare.»
Un cameriere si avvicinò con un vassoio di gamberetti di dimensioni
spropositate, di certo un prodotto degli allevamenti sperimentali del
Thunderhead. Come sempre, il Thunderhead aveva fatto un buon lavoro:
erano davvero deliziosi.
«Come procedono le sue ricerche?» le chiese Tenkamenin.
«Procedono. Ma il Thunderhead associa le cose in modo confuso.
Seleziono un’immagine della colonia di Marte e mi rimanda al disegno di
un bambino che raffigura la luna. Un servizio sulla stazione orbitale Nuova
Speranza mi rinvia all’ordinazione di un pranzo a Bisanzio da parte di una
falce di cui non ho mai sentito parlare. Dante qualcosa.»
«Alighieri?» domandò Tenka.
«Sì, esatto… lo conosce?»
«Lo conosco di nome. Originario di EuroScandia, credo. È scomparso da
un pezzo. Deve essersi autospigolato cinquanta, sessant’anni fa.»
«È come tutti gli altri collegamenti che ho trovato. Non ce n’è uno che
abbia senso.»
«Scavi in ogni tana» le consigliò Tenka. «Perché potrebbe trovarci un
Bianconiglio.»
«Ancora non capisco perché non mi spiega semplicemente che cosa devo
cercare.»
Tenka sospirò e si chinò in avanti per sussurrarle: «Le informazioni che
abbiamo ci sono arrivate da un’altra falce prima che si autospigolasse. Si è
voluta scaricare la coscienza, immagino. A parte questo, non abbiamo prove
concrete e la ricerca nel cervello primordiale è stata infruttuosa. Il problema
è che sappiamo ciò che stiamo cercando. Se il tuo obiettivo è un uomo con
un cappello blu, non vedi la donna con la parrucca blu.» Con un colpetto,
fece ondeggiare uno dei boccoli fluorescenti di Anastasia.
Sebbene fosse contrario a ogni logica, lei dovette ammettere che aveva
un senso. Non aveva visto Tenka andare al “capanno degli attrezzi” ogni
giorno, senza mai sospettare del vero motivo per cui ci andava, accecata
dalle sue supposizioni? Si ricordò di un video dell’era mortale che un
giorno un insegnante aveva mostrato alla classe. L’obiettivo era contare
quante volte i giocatori di una stessa squadra si passavano la palla. Aveva
indovinato la risposta, come quasi tutti i suoi compagni. In compenso,
nessuno aveva notato l’uomo con un costume da orso che danzava in bella
vista al centro dello schermo. A volte, per riuscire a vedere ciò che era in
bella vista, bisognava liberarsi delle proprie convinzioni.
Jeri non era del tutto sicuro di aver capito la battuta. Quando raggiunsero gli
appartamenti di Anastasia, lei chiuse la porta.
«È la domanda che fa quando sta per spigolare» gli spiegò.
«Ah! L’ha fatto per provocarla, e ci è riuscito. La Suprema Roncola si
diverte a toccare le corde sensibili delle persone e conosce benissimo le
sue.»
«Non teme che possa farlo davvero?»
«Affatto» replicò Jeri. «Perché, anche se si diverte a stuzzicarla, non
vuole contrariarla. Se mi spigola, sa che diventerà suo nemico.»
Anastasia gli tese la mano. La mano dell’anello. Un nuovo anello, non
quello che Maestro Possuelo aveva lanciato in mare per evitare che lo
usassero per rintracciarla, semmai ci fosse una falce che capisse la loro
tecnologia. Lui gliene aveva dato un altro, pescandolo tra quelli che
avevano recuperato dalla camera blindata.
«Lo baci» lo incitò Anastasia. «Per sicurezza.»
Jeri le prese la mano e la baciò, senza sfiorare l’anello.
D’istinto, Anastasia si ritrasse. «Intendevo l’anello!» Gli porse di nuovo
la mano. «Faccia come le ho detto, stavolta.»
«Mi rifiuto» replicò Jeri.
«Se le concedo l’immunità, nessun potrà spigolarla per un anno. Lo
faccia!»
Jeri non si mosse. Lei lo guardava senza capire. «Quando ho trovato la
Camera delle Reliquie e dei Futuri, Possuelo mi ha offerto l’immunità, ma
anche in quel caso ho rifiutato» le spiegò.
«Perché? Per quale motivo?»
«Non voglio essere in debito con nessuno. Nemmeno con lei.»
Anastasia gli voltò le spalle e andò alla finestra. «Là fuori accadono cose
che preferirei ignorare… ma che devo sapere. Devo sapere tutto il
possibile.» Si girò di nuovo verso Jeri. «Ha notizie di Rowan?»
Jeri avrebbe potuto risponderle che non ne aveva, ma sarebbe stata una
bugia, e Jeri non avrebbe mentito ad Anastasia. Si era instaurato un vero
legame di fiducia tra loro e non voleva rischiare di comprometterlo. Rimase
in silenzio per qualche istante. La falce insistette.
«So che Tenkamenin fa di tutto perché non mi arrivi nessuna notizia. Lei
è stato in contatto con il suo equipaggio, deve aver saputo qualcosa.»
Jeri sospirò, ma solo per prepararla alla risposta. «Sì, ho avuto notizie.
Però non posso rivelarle nulla, dovesse anche supplicarmi.»
Una serie di emozioni la attraversò. Nel giro di pochi secondi le si
disegnarono sul viso tutte le fasi dell’elaborazione del lutto. Rifiuto, rabbia,
rielaborazione razionale, tristezza e infine accettazione.
«Non vuole parlare perché non c’è nulla che io possa fare» ipotizzò,
immaginando i motivi che le avrebbe fornito. «E perché mi distrarrebbe dal
mio obiettivo.»
«Mi detesta per questo?» chiese Jeri.
«Potrei dirle di sì, solo per ripicca. No, Jeri, non gliene voglio. Ma…
posso almeno sapere se è ancora vivo?»
«Sì. Sì, è ancora vivo. Spero che questa risposta possa portarle un po’ di
conforto.»
«E sarà vivo domani?»
«Nemmeno il Thunderhead sa prevedere cosa accadrà domani.
Accontentiamoci dell’oggi.»
30
Offerta sacrificale
«Ciao, Tyger.»
«Ciao» rispose la ricostruzione mentale di Tyger Salazar. «Ci
conosciamo?»
«Sì e no» rispose Madame Rand. «Sono venuta ad annunciarti che
Maestro Lucifero è stato catturato.»
«Maestro Lucifero… non è quello che uccide le altre falci?»
«Sì. E tu lo conosci.»
«Non credo» replicò la ricostruzione mentale. «Conosco delle persone
un po’ perverse, ma non fino a quel punto.»
«È il tuo amico Rowan Damisch.»
L’ologramma rimase in silenzio, poi rise. «Bella mossa. È stato Rowan a
chiederti di farmi questo scherzo? Rowan!» chiamò. «Dove ti nascondi?
Vieni fuori.»
«Non è qui.»
«Non provare a dirmi che va in giro a uccidere la gente. Non è mai
riuscito a diventare falce, l’hanno cacciato a pedate e hanno dato l’anello a
quella ragazza.»
«Sarà giustiziato domani.»
La ricostruzione mentale esitò, corrugando la fronte. Erano dei veri
capolavori di programmazione, quegli ologrammi. Le memorie di sintesi
compilavano i ricordi di ogni espressione facciale mai registrata dal
soggetto. A volte, la rappresentazione era talmente reale da essere
inquietante.
«Stai scherzando, vero? Be’, non puoi permetterlo! Devi fermarli!»
«Non è di mia competenza.»
«Allora, fai in modo che lo sia! Conosco Rowan meglio di chiunque
altro. Se ha fatto ciò che dici, doveva avere una buona ragione. Non potete
spigolarlo!» Poi, la ricostruzione mentale cominciò a guardarsi intorno,
come se si rendesse conto di trovarsi in un universo ristretto. Una scatola
virtuale da cui voleva evadere. «È sbagliato! Non potete farlo!»
«Che ne sai tu di cosa è giusto e di cosa è sbagliato?» sbottò Rand. «Non
sei altro che un festaiolo senza cervello!»
L’ologramma la fulminò con lo sguardo. La quantità di micropixel rossi
del viso aumentò. «Ti odio. Chiunque tu sia, ti odio.»
Madame Rand premette un pulsante e mise fine alla conversazione. La
ricostruzione mentale di Tyger svanì. Come sempre, non avrebbe ricordato
quella discussione. Come sempre, Ayn se ne sarebbe ricordata.
«Se vuoi spigolarlo, perché non lo fai e basta?» chiese Madame Rand a
Goddard, cercando di nascondere la contrarietà che provava. Aveva molte
ragioni per non poterne più. Innanzitutto, lo stadio era un luogo difficile da
mettere in sicurezza e proteggere dai nemici, e di nemici ne avevano. Non
solo le falci della vecchia guardia, ma anche i tonisti, le Compagnie che
avevano voltato le spalle a Goddard, i parenti delle vittime delle spigolature
di massa.
Erano soltanto loro due a bordo dell’aereo privato di Goddard. Ora che il
corteo di auto si stava avvicinando alla meta dopo quasi una settimana di
marcia trionfale, lui e Rand erano in volo per raggiungerlo, un volo tanto
breve quanto il viaggio di Rowan Damisch era stato lungo. Come il suo
chalet sul tetto, il velivolo era dotato di armi dell’era mortale. Una serie di
missili sistemati sotto le ali. Goddard si divertiva a sorvolare a bassa quota
le comunità che non si erano sottomesse, per intimidirle. Non usava mai i
missili per spigolare ma, come i cannoni installati sul tetto, erano un monito
che gli serviva per ricordare al mondo intero che, se avesse voluto, lo
avrebbe fatto.
«Se ci tieni tanto a dare una dimostrazione pubblica» gli suggerì Ayn,
«fa’ in modo che la spigolatura avvenga in condizioni più sicure. Basterà
trasmettere il filmato da una località ignota. Perché vuoi trasformare in
spettacolo ogni cosa?»
«Perché gli spettacoli mi piacciono, ed è un motivo sufficiente.»
In realtà, il motivo era un altro. Goddard voleva che il mondo sapesse
che era stato proprio lui a catturare e giustiziare il nemico pubblico numero
uno dell’era post mortale. Non solo per ridare lustro alla sua immagine agli
occhi della gente comune, ma anche per guadagnarsi l’ammirazione delle
falci che non si erano ancora schierate dalla sua parte. Qualsiasi cosa la
Somma Roncola facesse era frutto della sua strategia o della sua
impulsività. Quell’avvenimento era strategico. Se avesse trasformato la
spigolatura di Rowan Damisch in un’attrazione, nessuno avrebbe potuto far
finta di nulla.
«Sono arrivate più di mille falci da ogni parte del mondo per assistere
all’esecuzione» le ricordò Goddard. «Vogliono uno spettacolo e io glielo
darò. Chi siamo noi per negare loro questo momento catartico?»
Rand non riusciva a capire il senso di quelle parole e in fondo non le
importava. Goddard si esprimeva spesso con un linguaggio incomprensibile
e altisonante, e lei aveva imparato a ignorarlo.
«Esistono modi migliori per gestire la cosa» ribatté.
L’espressione di Goddard si inasprì. Incontrarono delle turbolenze e
forse Goddard credette che fosse stato il suo umore a provocarle. «Stai
cercando di insegnarmi come fare il mio lavoro di falce o, peggio ancora,
come svolgere il mio ruolo di Somma Roncola?»
«Come potrei insegnarti a svolgere un ruolo che neppure esisteva prima
che tu lo inventassi?»
«Sta’ attenta, Ayn» la ammonì. «Non mi fare arrabbiare in un momento
in cui dovrei essere solo felice.» Attese che le sue parole andassero a segno,
poi si appoggiò allo schienale della poltrona. «Pensavo che tu, più di tutti
gli altri, avresti gioito nel vedere Rowan soffrire dopo quello che ti ha fatto.
Ti ha spezzato la schiena e ti ha lasciato per terra a morire, e tu vorresti che
la sua spigolatura passasse inosservata?»
«Desidero quanto te che sia giustiziato. Ma la spigolatura non deve
essere un divertimento.»
Al che Goddard replicò sfoderando un sorriso irritante: «Per me lo è».
Per Goddard, quella giornata era epocale, come quella in cui si era
presentato al conclave quando tutti lo credevano morto e aveva accettato la
candidatura a Suprema Roncola. Anzi, anche più epocale, per la portata
degli effetti che lasciava intravedere. L’evento, trasmesso in diretta, avrebbe
raggiunto miliardi di persone, non solo le falci riunite nello stadio. Le
ripercussioni di quella serata si sarebbero sentite per molto, molto tempo. E
le Compagnie che non si erano ancora piegate a lui non avrebbero avuto
altra scelta che schierarsi dalla sua parte.
Il sostegno stava crescendo rapidamente ora che Goddard concentrava le
sue spigolature sui gruppi emarginati della società. I comuni cittadini non
amavano molto i reietti e, finché non ne facevano parte, non temevano di
essere spigolati. Era evidente però che, con il costante aumento della
popolazione, stavano aumentando anche gli emarginati, che di certo non
mancavano.
Era una questione di evoluzione, lo aveva capito. Non di selezione
naturale, perché la natura si era indebolita, aveva perso i denti. Era una
selezione intelligente, con Goddard e i suoi accoliti alla guida
dell’intellighenzia.
L’ora si stava avvicinando e il cielo era sempre più scuro. Goddard si
scrocchiava le dita di continuo e sbatteva le ginocchia tra loro, esprimendo
con il corpo un’impazienza giovanile che non appariva sul viso.
Ayn gli mise una mano sul ginocchio per fermarlo. Goddard si infastidì,
ma la lasciò fare. Poi, le luci sulle tribune si attenuarono e i proiettori
illuminarono a giorno il campo, mentre la pira veniva spinta in mezzo al
campo.
L’eccitazione della folla era palpabile. Non tanto grida di gioia e fischi
quanto un mormorio che si riverberava sulla struttura. Anche se non era in
fiamme, la pira era uno spettacolo. Il modo in cui i rami riflettevano la luce,
una foresta morta intrecciata per il piacere di chi osservava. Una fiaccola
attendeva a distanza di sicurezza, pronta per essere afferrata da Goddard per
dare fuoco alla pira al momento opportuno.
Gli altri discorsi iniziarono e la Somma Roncola ripassò mentalmente il
suo. Aveva studiato quelli più memorabili della storia: Roosevelt, King,
Demostene, Churchill. Il suo sarebbe stato breve e pacato, ma pieno di frasi
a effetto. Sarebbe rimasto scolpito nella pietra. Sarebbe stato ricordato come
emblematico e senza tempo, come quelli che aveva studiato. Poi, avrebbe
preso la torcia, appiccato il fuoco e, mentre le fiamme salivano, avrebbe
recitato la poesia di Maestro Socrate Ode agli eterni, una specie di inno
mondiale.
Hammerstein pronunciò il suo discorso, molto triste e lugubre. Pickford
diede prova di un’eloquenza regale, Tizoc fu diretto e incisivo e la
gratitudine che MacPhail espresse nei confronti di coloro che avevano reso
possibile quel giorno parve sincera e autentica.
Goddard si alzò e si avvicinò alla pira. Si chiese se Rowan fosse
consapevole dell’onore che gli stava concedendo. Per merito suo, quel
ragazzo sarebbe entrato nella storia. Da quel momento e per l’eternità, il
mondo avrebbe conosciuto il suo nome. Sarebbe finito sui libri di scuola dei
bambini. Quel giorno sarebbe morto, ma in un certo senso sarebbe diventato
immortale, come a pochi era accaduto nel corso dei secoli.
Goddard premette il pulsante e il montacarichi sollevò Rowan fino alla
sommità della pira. Il mormorio della folla crebbe di intensità. Il pubblico si
alzò in piedi. Le dita lo indicarono. La Somma Roncola iniziò a parlare.
«Venerande falci e rispettabili cittadini, oggi affidiamo l’ultimo
criminale dell’umanità alle fiamme purificatrici della storia. Rowan
Damisch, che si è ribattezzato Maestro Lucifero, ha rubato la luce di molti.
Ma oggi ci riprendiamo quella luce e la usiamo per illuminare il nostro
futuro…»
Qualcuno gli diede un colpetto sulla spalla. Quasi non lo sentì.
«… una nuova era in cui le falci, con cauta gioia, modellano la nostra
grande società, spigolando chi non ha posto nel nostro glorioso domani…»
Ancora un colpetto sulla spalla, più insistente, stavolta. Cercavano di
interrompere il suo discorso? Chi avrebbe osato farlo? Si voltò e vide
Costantino che gli rubava la scena con quella vistosa veste cremisi, ancora
più appariscente ora che era tempestata di rubini.
«Eccellenza» bisbigliò. «Pare che ci sia un problema…»
«Un problema? Nel bel mezzo del mio discorso, Costantino?»
«Guardi lei stesso.» L’assistente attirò la sua attenzione verso la pira.
Rowan si agitava e si dibatteva, trattenuto dalle corde. Cercava di
gridare, ma il bavaglio soffocava le sue urla. Allora Goddard si accorse
che…
La persona in cima alla pira non era Rowan.
Il viso era familiare, ma lo riconobbe solo quando guardò i maxischermi
che, disposti intorno allo stadio, mostravano in primo piano l’espressione
angosciata dell’uomo.
Goddard sentì il suo corpo reagire ancora prima che la sua mente fosse
riuscita a comprendere appieno ciò che si presentava davanti ai suoi occhi.
Le gambe e le braccia gli si intorpidirono, lo stomaco iniziò a gorgogliare e
i reni si irrigidirono dolorosamente. La collera lo travolse con l’intensità di
un’eruzione vulcanica finché la testa non cominciò a pulsargli.
Il pubblico dello stadio sapeva già ciò che lui aveva appena visto, cioè
che il prigioniero in cima alla pira non era Maestro Lucifero. Nel corso
degli ultimi tre anni, il mondo aveva imparato a conoscere il viso di Rowan
Damisch. Eppure, quel viso, filmato e trasmesso sui maxischermi disposti
intorno a Goddard come per deriderlo, non era il suo.
Non gli era stato soltanto rubato il suo momento di gloria, gli era stato
addirittura sabotato. Ne avevano fatto qualcosa di osceno. Il mormorio del
pubblico suonava diversamente rispetto ad appena un secondo prima. Era
una risata quella che udiva? Stavano ridendo di lui? Che fosse solo frutto
della sua immaginazione o meno, non era quello il punto. La cosa
importante era ciò che sentiva. Ciò che provava. E lui si sentiva
ridicolizzato, sbeffeggiato da trentamila anime. Era insopportabile. Quel
momento orribile era un’eterna, indicibile tortura.
Costantino gli sussurrò all’orecchio: «Ho ordinato di chiudere i cancelli
e la Suprema Guardia è stata allertata. Lo troveremo».
Che importava, ormai. Era andato tutto in malora. Avrebbero potuto
riportare indietro Rowan e trascinarlo sulla pira, ma non avrebbe cambiato
le cose. L’ora di gloria di Goddard si era trasformata nella più grande
tragedia della giornata. A meno che. A meno che…
Nel momento in cui vide quell’imbecille in cima alla pira, Ayn capì che le
cose si sarebbero messe male.
Bisognava arginare la Somma Roncola.
Perché, se la rabbia avesse preso il sopravvento, ci sarebbe stato ben
poco da fare. Goddard era sempre stato impulsivo ma, da quando si era
impossessato del corpo di Tyger, gli istinti giovanili, gli improvvisi picchi
ormonali avevano peggiorato la situazione. Adrenalina e testosterone erano
una miscela affascinante in un ragazzo inoffensivo come Tyger Salazar,
erano venti che facevano volare un aquilone. Ma in Goddard, quegli stessi
venti si trasformavano in un tornado. E quindi, bisognava arginarlo. Come
una bestia fuggita dalla gabbia.
Ayn lasciò che Costantino lo mettesse a parte della cattiva notizia,
perché Goddard amava prendersela con il messaggero, quindi meglio
Costantino che lei. Attese che Goddard volgesse lo sguardo verso lo
sfortunato tecnico prima di avvicinarsi.
«La trasmissione è stata interrotta» lo informò. «Non è più in diretta. Ora
cerchiamo di limitare i danni. Puoi cambiare le carte in tavola, Robert» gli
consigliò, cercando di ammansirlo. «Fa’ credere che era voluto. Che è parte
dello spettacolo.»
La sua espressione la spaventò. Non era nemmeno sicura che l’avesse
ascoltata finché non lo sentì dire: «Voluto. Sì, Ayn, è quello che farò».
La Somma Roncola si portò il microfono alle labbra e Madame Rand
indietreggiò. Forse Costantino aveva ragione. Era sempre in quei momenti
di smarrimento che riusciva a contenerlo. A controllarlo. A riparare ciò che
si era rotto prima che fosse troppo tardi. Fece un profondo respiro e attese,
insieme a tutti, di sentire che cosa avrebbe detto.
«Questa avrebbe dovuto essere la resa dei conti» esordì Goddard, sputando
le parole nel microfono. «Voi! Tutti voi che siete venuti qui oggi per
soddisfare la vostra sete di sangue. Voi! il cui cuore accelera all’idea che un
uomo venga bruciato vivo sotto i vostri occhi.
«VOI ! Pensavate che vi avrei dato soddisfazione? Credevate che noi falci
fossimo così vili da cedere alla vostra morbosa curiosità? Farvi divertire
offrendovi lo spettacolo di un massacro?» Si era messo a gridare, ora, a
denti stretti. «COME OSATE! SOLO LE FALCI possono godere dello spettacolo
della morte, lo avete dimenticato?» Rimase in silenzio qualche istante, per
lasciar sedimentare le sue parole. Perché il pubblico prendesse coscienza
della gravità delle proprie colpe. Se Rowan non fosse sparito, sarebbe stato
ben lieto di offrire a tutti quel genere di spettacolo. Ma non avrebbero
dovuto mai saperlo.
«No, Maestro Lucifero non è qui» proseguì, «ma voi, che eravate così
entusiasti all’idea di assistere a quello spettacolo, ora siete voi il bersaglio
del mio giudizio. Non era lui che volevo giudicare, ma VOI , che oggi vi
siete condannati! L’unico modo per ritrovare il giusto cammino è la
penitenza. Penitenza e sacrificio. Quindi, ho scelto voi, oggi, come esempio
per il resto del mondo.»
Si rivolse alle mille falci disseminate sulle gradinate in mezzo al
pubblico.
«Spigolateli» ordinò con disprezzo, mordendosi il labbro. «Spigolateli
tutti.»
Le campane della cattedrale che avevano segnato le ore per quasi mille anni
a EuroScandia avevano taciuto di colpo. Erano state tirate giù, fatte a pezzi,
fuse in una fornace improvvisata. Una grande sala concerti della stessa
regione era stata attaccata nel bel mezzo di uno spettacolo, e, tra il pubblico
in preda al panico, i tonisti avevano fatto irruzione sul palco, rompendo gli
strumenti più piccoli a mani nude e distruggendo i più grandi a colpi di
ascia.
“Le vostre voci sono musica per le mie orecchie” aveva dichiarato un
giorno il Rintocco. Per cui, il senso era che tutte le altre forme di musica
dovevano essere annientate.
Queste sette estremiste dei Sibilanti provavano, nella loro devozione, il
bisogno di imporre le loro credenze al resto del mondo. Le sette erano
uniche e non si assomigliavano in nulla. Ognuna era un’aberrazione a sé,
ognuna dava la propria spaventosa interpretazione della dottrina tonista e
distorceva a modo proprio le parole pronunciate dal Rintocco. Il solo punto
in comune era una propensione alla violenza e all’intolleranza, compresa
l’intolleranza verso gli altri tonisti, perché ogni setta che non condivideva
gli stessi suoi precetti era chiaramente inferiore.
Prima che il Thunderhead si chiudesse nel suo silenzio, i Sibilanti non
esistevano. Sì, esistevano sette con credenze estremiste, però il
Thunderhead e gli agenti Nimbus dell’Interfaccia dell’Autorità le tenevano
a bada. La violenza non era tollerata.
Ma una volta che tutti gli abitanti del mondo erano stati dichiarati loschi
e il Thunderhead aveva smesso di parlare, la situazione aveva cominciato a
degenerare un po’ ovunque.
Nelle città più vecchie di EuroScandia, gruppi di Sibilanti errabondi
accendevano falò nelle pubbliche piazze e bruciavano pianoforti, violoncelli
e chitarre. E, nonostante venissero fermati e arrestati dagli ufficiali di pace,
non accennavano a smettere. La gente sperava che il Thunderhead, anche
dal suo silenzio, li avrebbe soppiantati, sostituendo le loro menti e le loro
identità con quelle di persone soddisfatte e pacifiche. Ma quella sarebbe
stata una violazione della libertà religiosa. Così, i Sibilanti venivano
imprigionati, obbligati a risarcire i danni provocati e poi rilasciati, solo per
riprendere a distruggere tutto.
Il Thunderhead, se avesse potuto parlare, avrebbe probabilmente detto
che quei pazzi furiosi fornivano un servizio alla società, che distruggendo
gli strumenti musicali davano lavoro a chi li fabbricava. Ma anche per il
Thunderhead, quando era troppo era troppo.
Il Rintocco apparve ai Sibilanti euroscandinavi mentre si apprestavano a
saccheggiare un’altra sala concerti.
I Sibilanti euroscandinavi sapevano che si trattava di un impostore,
perché il Rintocco era morto da martire per mano di una falce. La
resurrezione non era contemplata dalla loro dottrina, per cui i fanatici si
mostrarono scettici.
«Gettate a terra le armi e inginocchiatevi» ordinò l’impostore.
Non obbedirono.
«La Tonalità e il Tuono sono offesi dalle vostre azioni. E anch’io.
GETTATE A TERRA LE ARMI E INGINOCCHIATEVI! »
Non obbedirono nemmeno quella volta. Uno di loro si fece avanti,
parlando in una vecchia lingua nativa della regione che ormai capivano in
pochi.
Dal piccolo drappello che seguiva l’impostore, uscì una falce con una
veste in jeans. Afferrò l’aggressore e lo gettò a terra. Quello, ferito e
sanguinante, corse via.
«Non è troppo tardi per pentirvi!» esclamò il Rintocco impostore. «La
Tonalità, il Tuono e io vi perdoniamo se rinunciate alle vostre azioni
scellerate e ci servite in pace.»
I Sibilanti spostarono lo sguardo sulle porte della sala concerti, davanti
alle quali si trovava il Rintocco impostore. Il loro obiettivo era così vicino,
ma quel giovane che intralciava il loro cammino ispirava un sentimento di
rispetto reverenziale. Qualcosa di divino.
«Vi do un segno del Thunderhead, al quale solo io posso parlare e presso
il quale solo io posso intercedere per voi.»
Poi allargò le braccia… e, dal cielo, scesero. Tortore. Un centinaio di
uccelli piovvero su di loro da ogni direzione, come se avessero aspettato
tutto quel tempo appollaiati sui cornicioni di tutti gli edifici della città! Gli
si posarono addosso, sulle braccia, sulle spalle, sul capo, finché fu
impossibile vederlo. Lo ricoprirono dalla testa ai piedi, creando intorno a lui
uno scudo con i corpi e le penne, una specie di armatura del loro stesso
colore. Muovendosi, il motivo creato dalle piume che lo avviluppavano
cambiava. I Sibilanti capirono a cosa assomigliava.
Assomigliava a una nube temporalesca. Un Thunderhead che fremeva di
rabbia.
A un tratto, gli uccelli si dispersero e svanirono dietro gli angoli nascosti
della città da cui erano arrivati.
Il silenzio tornò di nuovo, mentre si esaurivano gli ultimi battiti di ali. E
in quel silenzio, il Rintocco riprese la parola quasi in un sussurro: «Ora
gettate a terra le armi e inginocchiatevi».
E i Sibilanti obbedirono.
Il seguito del Rintocco, che si era ridotto a pochi intimi, tra cui Maestro
Morrison, sorella Astrid e il curato Mendoza, era ormai una squadra molto
efficiente.
Morrison si era dimostrato prezioso fin dall’inizio. Prima di entrare al
servizio del Rintocco, non aveva mai dimostrato di avere chissà che etica
nel suo lavoro. Ma gli ultimi anni lo avevano cambiato parecchio, o
perlomeno era diventato un po’ più assennato. Aveva i suoi buoni motivi
per restare. Dopotutto, dove sarebbe potuto andare? La Compagnia
nordmericana pensava che fosse morto. Ma quello non era che un dettaglio.
Il punto era che, se la Compagnia nordmericana avesse controllato le
proprie statistiche, si sarebbe resa conto che lui aveva portato a termine
diverse spigolature e accordato l’immunità più di una volta. Be’, diceva a se
stesso, con tutte le spigolature che avvenivano in quei giorni, la Compagnia
non avrebbe certo notato le azioni di una falce solitaria.
Naturalmente, sapeva che non era la verità, perché ammettere la verità
era troppo doloroso.
La Compagnia non lo notava, perché non le importava.
Le altre falci non l’avevano mai considerato. Aveva messo in imbarazzo
il suo mentore, che lo aveva scelto perché era forte e di aspetto piacevole,
ma poi lo aveva rinnegato nel momento in cui aveva capito che non si
sarebbe mai guadagnato il rispetto dei suoi pari. Morrison era il loro
zimbello. Invece, almeno lì, al servizio del Rintocco, beneficiava di un certo
riconoscimento. Aveva un posto e uno scopo. Era la sua guardia del corpo
personale, e quel ruolo gli piaceva.
Sorella Astrid era l’unica che non si fidava di lui. “Tu, Jim, incarni tutto
ciò che io detesto del mondo” gli aveva confessato un giorno.
La cosa lo aveva fatto sorridere. “Perché non vuoi ammettere che ti
piaccio?”
“Ti tollero. C’è una gran bella differenza.”
Quanto ad Astrid, la sua missione era di tenerli tutti sul giusto cammino
spirituale. Restava con il Rintocco perché, in fondo, credeva che Greyson
Tolliver fosse un vero profeta. Che fosse la Tonalità a ispirarlo e che la sua
umiltà a riguardo fosse comprensibile. In fin dei conti, l’umiltà era il segno
distintivo di un sant’uomo. Era perfettamente logico che non si reputasse
parte della Sacra Triade, ma ciò non significava che non lo fosse.
Sorrideva in segreto ogni volta che Greyson affrontava i Sibilanti nel suo
ruolo del Rintocco, perché sapeva che non credeva a una sola parola di quel
che diceva. Per lui, era solo un ruolo. Ma per Astrid, il fatto che lui non
riconoscesse la sua natura divina rendeva tutto ancora più vero.
E poi, c’era il curato Mendoza: il mago, l’intrattenitore, il produttore del
loro spettacolo itinerante. Era il pilastro che sosteneva il tutto e, anche se
c’erano momenti in cui gli capitava di credere alla propria fede, la religione
era spesso soppiantata dal pragmatismo della sua missione. Era il suo
lavoro e doveva farlo.
Mendoza non organizzava solo le apparizioni del Rintocco, ma teneva
anche i contatti con la rete mondiale dei curati. Sperava così di indurre un
numero crescente di sette a riunirsi sotto l’egida di un’unica dottrina
accettata e di aiutarle a proteggersi dalle falci. E poi operava nell’ombra,
diffondendo molte delle voci false sul Rintocco. Erano utilissime a tenere
unito il gregge e a tenere a distanza le falci, perché come facevano le falci a
dare credito a quegli avvistamenti del Rintocco quando per la maggior parte
erano voli di fantasia? Eppure, quando Greyson aveva scoperto ciò che
Mendoza stava facendo, era inorridito. Possibile che non vedesse quanto era
prezioso il suo lavoro?
“Racconti alla gente che sono risorto dalle ceneri?”
“C’è un precedente” aveva cercato di spiegare Mendoza. “La storia della
fede è piena di dèi caduti e risorti. Sto creando le basi della tua leggenda.”
“Se la gente ci vuole credere, che faccia pure” aveva replicato Greyson,
“ma non voglio incoraggiare queste voci diffondendo altre bugie.”
“Se vuoi che ti aiuti, perché mi leghi le mani?” aveva chiesto Mendoza,
sempre più scoraggiato.
“Forse perché voglio che le usi per qualcosa che non sia il semplice darti
piacere.”
Quel commento aveva fatto ridere Mendoza. Greyson non aveva forse
passato gli ultimi due anni a imporre la sua volontà su tutta la sua cerchia?
Tuttavia prendersi gioco del Rintocco non era ammesso, per cui tornò
subito sui propri passi.
“Sì, Sua Sonorità” aveva risposto il curato, come al solito. “Cercherò di
tenerlo a mente.” Non aveva altra scelta che desistere, perché non serviva a
nulla discutere con quel ragazzo cocciuto, un ragazzo che non aveva
proprio idea degli sforzi che servivano per mantenere vivo il suo
misticismo. Anche se Mendoza stava iniziando a chiedersi perché se ne
desse tanta pena.
Era sorprendente che nello chalet di vetro di Goddard ci fosse così poco da
rompere. Ayn osservava la Somma Roncola che provava a spaccare
qualsiasi cosa le capitasse sotto mano. Purtroppo, vivevano in un mondo in
cui la qualità degli oggetti era troppo alta. Rand stava cercando di calmare
la sua rabbia. A Goddard non restava che prendersela con i suoi assistenti.
Quel giorno, toccava a Nietzsche essere preso di mira. Costantino non si
vedeva da giorni. Si diceva che fosse andato a incontrare dei rappresentanti
della regione della Stella Solitaria per tentare di convincerli a consegnare
Rowan, ma quelli continuavano a negare che fosse da loro. Quanto a
Madame Franklin, non voleva avere nulla a che fare con Goddard quando
era in quello stato. “Avvertitemi quando sarà tornato umano” diceva Aretha,
e si ritirava nei suoi alloggi, situati in un piano da cui non l’avrebbe sentito
distruggere tutto.
La sua ultima crisi di collera fu provocata dal secondo messaggio inviato
da Madame Anastasia al mondo.
«Voglio che la troviate! Voglio che la troviate e che la spigoliate.»
«Non possiamo spigolarla» cercò di spiegare Maestro Nietzsche. «Che le
piaccia o no, è ancora una falce.»
«Allora, la troveremo e la obbligheremo ad autospigolarsi» gridò la
Somma Roncola. «Trasformerò la sua vita in un tale calvario che sarà lei
stessa a volervi porre fine.»
«Eccellenza, il sospetto graverà su di lei. Non ne vale la pena.»
Goddard reagì lanciando una sedia dall’altra parte della stanza. Non si
ruppe.
Ayn era seduta tranquillamente nella sala conferenze, a osservare la
scena. Nietzsche continuava a lanciarle occhiate imploranti, ma lei non
aveva alcuna voglia di sprecare il suo fiato. Goddard si sarebbe calmato
solo dopo essere tornato in sé. Punto. Allora, avrebbe cercato una scusa
razionale per giustificare il suo folle comportamento.
Ayn aveva sempre creduto che tutte le azioni di Goddard rientrassero in
un progetto ben più ampio. Ora, però, vedeva tutto con chiarezza: il
progetto veniva sempre dopo l’azione. Era molto bravo a individuare a
posteriori un disegno nei suoi attacchi di rabbia.
Come quando si era convinto che la spigolatura di massa fosse un atto di
infinita saggezza. Le ripercussioni della carneficina erano state immediate.
Le regioni che si opponevano alla sua politica avevano condannato con
fermezza l’episodio. Una mezza dozzina di regioni aveva promesso
l’immunità a chiunque avesse deciso di abbandonare il territorio sotto il
controllo di Goddard, e molta gente stava aderendo all’invito. Nonostante
tutto, i sostenitori di Goddard, galvanizzati dalla strage, insistevano nel dire
che “quelle persone” allo stadio se l’erano cercata, perché chiunque
desiderasse assistere a un’esecuzione meritava di essere spigolato. Anche
se, chi la pensava così, probabilmente aveva visto lo spettacolo in diretta
prima che la trasmissione venisse interrotta.
La maggior parte della gente non aveva preso posizione, né in un senso
né in un altro. Volevano solo continuare a godersi la vita. Finché le tragedie
capitavano agli altri, a chi non conoscevano, non era un loro problema.
Eppure, quasi tutti conoscevano qualcuno che era allo stadio quel giorno e
che non era tornato a casa.
Nietzsche si sforzava di calmare Goddard, che continuava ad agitarsi e a
dare in escandescenze, camminando su e giù per la sala conferenze.
«Anastasia non è nulla, eccellenza» cercò di convincerlo. «Ma se
reagisce ai suoi interventi, le dà troppa importanza.»
«E quindi? Dovrei ignorare le sue accuse?»
«Sono solo parole, e non sappiamo ancora di che cosa la accusa. È solo
un foruncolo che è meglio non grattarsi per evitare che peggiori,
eccellenza.»
Quel commento suscitò l’ilarità di Ayn: si immaginò Goddard che si
grattava fino a sanguinare.
Finalmente sfinito, Goddard si accasciò in poltrona e ingoiò la rabbia.
«Informatemi di ciò che accade nel mondo. Ditemi ciò che devo sapere.»
Nietzsche si sedette al tavolo delle conferenze. «Una parte delle
Compagnie alleate appoggia ciò che ha fatto allo stadio, le altre non si
pronunciano. Le Compagnie che le si oppongono reclamano la sua
autospigolatura, ma mi preoccupa di più la fiumana di gente che passa il
confine per andare nella regione della Stella Solitaria.»
«Hai voluto instillare la paura» osservò Ayn. «Ora sarai soddisfatto.»
«Stiamo considerando la possibilità di costruire un muro per arginare
l’esodo.»
«Non essere ridicolo» replicò Goddard. «Solo gli idioti costruiscono
muri. Lasciamoli andare, e quando ci saremo impadroniti della regione
della Stella Solitaria, quelli che avranno abbandonato la MidMerica
verranno spigolati.»
«È così che pensi di risolvere i problemi, adesso?» chiese Ayn.
«Spigolando tutti quelli che ti sono contrari?»
Si aspettava di ricevere una rispostaccia, ma ormai la rabbia di Goddard
si era esaurita. «È quello che facciamo, Ayn. È lo strumento che ci è stato
concesso, l’unico strumento che possiamo maneggiare.»
«E poi» continuò Nietzsche, «c’è la questione dei tonisti.»
«I tonisti!» protestò Goddard. «Perché sono sempre all’ordine del
giorno?»
«Hai trasformato il loro profeta in un martire» gli fece notare Ayn. «A
prescindere da ciò che pensi, i nemici morti sono più duri da combattere di
quelli vivi.»
«Se non fosse che…» intervenne Nietzsche, esitante.
«Se non fosse che?» lo incoraggiò Goddard.
«Se non fosse che abbiamo intercettato notizie secondo le quali il
Rintocco sarebbe apparso tra la gente.»
La Somma Roncola borbottò, disgustata. «Sì, lo so. La gente lo vede
nelle nuvole e nelle bruciature sul pane tostato.»
«No, eccellenza. Intendo… in carne e ossa. E stiamo cominciando a
pensare che le notizie siano credibili.»
«Stai scherzando.»
«Be’, non abbiamo mai avuto conferma che il corpo che ci hanno
presentato fosse quello del Rintocco. È possibile che sia ancora vivo.»
Ayn fece un profondo respiro, preparandosi a vedere qualche altro
oggetto infrangibile lanciato per tutta la sala.
34
Un mondo migliore
«So che la maggior parte di voi non segue ciò che accade nella Compagnia.
È naturale. La Compagnia fu creata perché le persone non si
preoccupassero dei portatori di morte prima del trapasso.
«Ma l’affondamento di Endura ci ha colpiti tutti. La catastrofe ha spinto
il Thunderhead a chiudersi nel suo silenzio e a classificare tutti gli abitanti
della Terra come loschi. E in assenza delle Grandi Falci che svolgevano il
ruolo di arbitri, si è determinato uno squilibrio di potere in seno alla
Compagnia.
«Abbiamo vissuto in un mondo stabile per oltre duecento anni. Ora non
più. Se vogliamo ritrovare quella stabilità, dobbiamo combattere. E non mi
rivolgo solo alle falci, ma a tutti. E quando sentirete ciò che ho da dire,
vorrete combattere.
«So che cosa state pensando: “Madame Anastasia punterà il dito contro
il colpevole? Accuserà pubblicamente Goddard di aver ucciso le Grandi
Falci e aver distrutto Endura?”
«Dovrete avere pazienza, perché ci sono altre questioni più urgenti da
affrontare. Altre accuse. Vi mostrerò una storia di atti impensabili che
vanno contro tutti i valori predicati dalla Compagnia.
«È una storia che non inizia con Goddard, ma che è cominciata molti
anni prima della sua nascita.
«Nell’anno della Lince, la colonia Nectaris Prime sulla Luna subì quello
che venne definito “un guasto atmosferico catastrofico”. La scorta di
ossigeno, anche di ossigeno liquido, si disperse nello spazio, uccidendo tutti
i coloni. Non ci fu neppure un sopravvissuto.
«Tutti conoscono questo episodio: l’abbiamo studiato a scuola. Ma avete
mai letto la prima schermata che appare sulla banca dati della storia
ufficiale? Sapete di quale parlo. È un paragrafo scritto in caratteri minuscoli
che si salta sempre per andare alla ricerca che interessa. Se vi prendeste il
tempo di leggerlo, sepolta nel bel mezzo di tutto quel ginepraio giuridico,
trovereste una piccola clausola. Dichiara che le banche dati della storia
pubblica sono sottoposte all’approvazione delle falci. Perché? Perché alle
falci è consentito fare tutto ciò che vogliono. Anche censurare la storia.
«Il che andava bene finché le falci si attenevano al loro codice
deontologico. Onore, virtù, rispetto degli ideali umani. Smise di andare
bene solo quando alcune falci iniziarono a servire i propri interessi invece
che quelli dell’umanità.
«La colonia sulla Luna fu il primo tentativo di insediamento nello
spazio. Il piano era di popolare progressivamente la “frontiera lunare” per
arginare il problema della sovrappopolazione della Terra. Il Thunderhead
aveva previsto tutto. Finché non arrivò la catastrofe.
«Voglio che dimentichiate tutto ciò che pensate di sapere riguardo a
quell’avvenimento, perché, vi ripeto, i rapporti ufficiali non sono affidabili.
Invece, vorrei che voi stessi reperiste le informazioni sul disastro lunare,
come ho fatto io. Andate direttamente alle fonti originali. Ai primi articoli
scritti. Alle registrazioni personali realizzate dai coloni condannati prima di
morire. Ai video in cui implorano aiuto. È tutto contenuto nel cervello
primordiale del Thunderhead. È ovvio che il Thunderhead non vi guiderà,
perché siete dei loschi. Dovrete trovare le informazioni da voi.
«Ma sapete una cosa? Anche se non foste loschi, il Thunderhead non vi
guiderebbe. Data la natura sensibile delle informazioni, violerebbe la legge
se vi aiutasse a trovarle. E, con mio sommo dispiacere, il Thunderhead non
può infrangere la legge. Per fortuna, ci sono io.»
«Avete finito le vostre ricerche? Avete frugato da cima a fondo nel cervello
primordiale? So che è frustrante senza l’aiuto del Thunderhead, ma
immagino che, in tre anni, molti di voi abbiano imparato a cavarsela da soli.
C’è un vantaggio a essere loschi, sapete? Siete obbligati a superare la
frustrazione e a darvi da fare per ottenere le cose. È molto più
soddisfacente.
«Che informazioni avete raccolto sul disastro lunare? Avete individuato
elementi strani? Avete notato che il sistema ambientale aveva tre livelli di
protezione? Non solo un generatore di riserva, ma ben tre. Avete scoperto
che prima di quel giorno il Thunderhead aveva calcolato che le probabilità
di una catastrofe atmosferica erano dello 0,000093 per cento? È meno di
una probabilità su un milione. Il Thunderhead si era sbagliato?
«Dopo la catastrofe, le Grandi Falci dell’epoca proclamarono una
settimana di lutto. Per una settimana, nessuno sarebbe stato spigolato,
perché sulla Luna c’erano stati tantissimi morti. Sono sicura che la maggior
parte delle Grandi Falci credeva davvero che si fosse trattato di un tragico
incidente, così come sono sicura che il dolore dimostrato era sincero.
«Ma forse, dico forse, una di loro mentiva.
«Se cercate la prova di un legame tra una falce e questo disastro, non la
troverete. Ma siete andati a vedere che cosa accadde nei giorni e nelle
settimane dopo la tragedia? Non vi è sembrato bizzarro che il Thunderhead
non abbia fatto ripulire il sito? Che non abbia fatto recuperare i corpi?
«Fonti anonime hanno sostenuto che, per il Thunderhead, recuperare dei
corpi impossibili da rianimare per via dei danni causati dalla permanenza
nello spazio e dalle radiazioni solari sarebbe stato semplicemente troppo
impegnativo.
«Ma se scavate nel cervello primordiale, troverete una sola dichiarazione
del Thunderhead. Solo chi è mosso da curiosità riesce a trovarla. Infatti, il
Thunderhead conclude il suo fascicolo sul disastro lunare con quella frase.
Non l’avete ancora trovata? In caso, ve l’ho copiata qui sotto. Guardate:
«“Avvenimento lunare fuori della giurisdizione del Thunderhead.
Conseguenza dell’attività di falci”.»
Protrarre la suspense non era solo una tattica per attirare l’attenzione del
pubblico, ma anche una strategia per guadagnare tempo. Anastasia non
sapeva ancora dove l’avrebbero portata le sue ricerche, ma ogni giorno
scopriva sempre nuovi segreti nascosti nel cervello primordiale. Sapeva di
essere vicina alla verità a proposito del disastro su Marte. Tuttavia, per ciò
che riguardava la distruzione della colonia orbitale di Nuova Speranza,
brancolava nel buio.
La prima rivelazione aveva già scosso il mondo. Tenkamenin era su di
giri e a cena non riuscì a trattenere la gioia.
«Quella dichiarazione del Thunderhead in un fascicolo dimenticato.
“Conseguenza dell’attività di falci.” Magistrale!»
«Ci fai arrossire di vergogna, mia cara» commentò Makeda. «Per mesi
abbiamo rovistato nel cervello primordiale senza mai trovarla.»
«E il fatto di incoraggiare le persone a condurre personalmente le
ricerche sotto la tua guida è brillante» fece notare Tenka.
«Ma non posso condurle a cose che non trovo. Ci sono ancora così tante
piste che non hanno senso. Come quella della seta bianca.»
«Spiegaci» la incoraggiò Makeda. «Forse, possiamo esserti di aiuto.»
Anastasia tirò fuori il tablet e mostrò loro un’immagine. «Questa è
l’ultima foto scattata sulla colonia orbitale di Nuova Speranza prima del
disastro. Sullo sfondo, si vede la navicella in avvicinamento, quella che ha
perso il controllo e che è finita contro la stazione, distruggendola.» Batté un
dito sullo schermo. «Il cervello primordiale collega l’immagine a tonnellate
di elementi, quasi tutti connessi al disastro. Notiziari, necrologi. Analisi
dinamica dell’esplosione. E poi, c’è questo…»
Mostrò loro il registro di magazzino di una pezza di tessuto. Seta bianco
perla. «Quasi metà della pezza è stata venduta per farne degli abiti da sposa,
una parte è stata usata per farne delle tende, ma ci sono quindici metri che
non si sa dove siano finiti. Il Thunderhead annota sempre tutto.»
«Forse erano solo scampoli» suggerì Baba.
«O forse il tessuto è stato preso da qualcuno che non lo ha pagato»
ipotizzò una voce alle loro spalle.
Era Jeri, in ritardo come al solito. Ma aveva avuto un’intuizione
formidabile. C’era solo una persona che poteva appropriarsi di un tessuto
prezioso senza che le facessero domande e senza pagare. Jeri si sedette
accanto ad Anastasia, che si mise subito al lavoro sul tablet. Con un indizio
a disposizione, non era difficile trovare le informazioni.
«Ci sono centinaia di falci che portano una veste bianca… ma solo una
cinquantina di seta… e seta bianco perla? Non è affatto comune.» Rimase
in silenzio il tempo necessario per metabolizzare quello che le stava
mostrando lo schermo. Girò il tablet verso gli altri.
«C’è solo una falce che ha una veste fatta di quel particolare tessuto.
Maestro Dante Alighieri.»
Nessuno capì il senso della scoperta, a eccezione di Tenka, che le rivolse
un ampio sorriso. «Che divina commedia! Tutte le strade portano ad
Alighieri…»
«Il nome mi è familiare» commentò Makeda. «Non era originario di
Bisanzio?»
«TransSiberia, mi pare» la corresse Baba.
La conversazione fu bruscamente interrotta da un tintinnio metallico così
forte che tutti i presenti sobbalzarono. Il suono cessò e riprese a
intermittenza.
«Ah, ecco il colpevole!» esclamò Jeri, indicando un antico telefono del
Ventesimo secolo in un angolo della sala da pranzo. Era uno dei vecchi
apparecchi collegati alla linea personale di Tenkamenin, che non aveva mai
suonato da quando Anastasia era arrivata. Emise un ultimo suono più
aggressivo prima che Tenkamenin ordinasse a un cameriere di rispondere.
«Linea personale di Sua eccellenza la Suprema Roncola Tenkamenin»
annunciò l’uomo in modo un po’ goffo. «Chi devo dire?»
Il domestico rimase in ascolto, per un momento parve allarmato, ma poi
la sua espressione si fece irritata. Riagganciò e tornò a servire la cena.
«Che volevano?» chiese la Suprema Roncola.
«Niente, eccellenza.»
«Non ho avuto questa impressione.»
L’uomo sospirò. «Era un tonista, eccellenza, che si lamentava e gemeva
come un animale. Non so come quella canaglia abbia avuto il suo numero.»
Poi, il telefono squillò di nuovo.
«Possiamo localizzare la chiamata» suggerì Madame Makeda.
Tenkamenin si fece serio. Non arrabbiato, ma preoccupato. «C’è un
pulsante rosso a destra dell’apparecchio» disse al cameriere. «Serve a
mettere in vivavoce. Per favore, rispondi e premi il pulsante.»
Il domestico fece come gli era stato ordinato e subito un gemito
incomprensibile risuonò dall’altoparlante del telefono. Era un suono
spettrale, degno di un castello medievale pieno di spifferi piuttosto che del
palazzo della Suprema Roncola. Era insistente. Desolato. Disperato.
Tenkamenin spinse indietro la sedia con un forte stridio, si alzò e andò al
telefono. Rimase a osservarlo, ascoltando l’atroce lamento. Poi, riagganciò.
«Bene» disse Maestro Baba. «Non è stato piacevole.» Cercò di
sdrammatizzare, ma Tenkamenin non era dell’umore giusto. Restò in piedi a
fissare in silenzio il telefono. Poi, si voltò verso Jeri.
«Comandante Soberanis, dove si trova al momento il suo equipaggio?»
Jeri si guardò intorno, non capendo, come tutti i presenti, in che modo la
domanda fosse pertinente. «In città o a bordo della nave. Perché?»
«Avverta i suoi marinai che salperete subito. E che noi verremo con lei.»
«Noi… chi?»
«Tutti noi.»
Anastasia si alzò. Non aveva mai visto Tenka così turbato. Era sempre
stato calmo. Ora pareva profondamente scosso.
«Che succede, eccellenza?» gli chiese.
«La chiamata non è stata fatta per caso» rispose. «Credo che fosse un
avvertimento, da prendere sul serio.»
«Come fa a saperlo?»
«Perché era mio padre» replicò Tenkamenin.
35
Requiem in dieci tempi
I. Introitus
Tutto comincia con un mormorio soffocato. Il direttore d’orchestra è in
piedi, le mani pronte in aria, tutti gli occhi sono incollati alla sua bacchetta,
come se, abbassandola, potesse scatenarsi una magia nera.
Il brano di oggi è una meraviglia orchestrale. Un requiem concepito e
interpretato da seguaci sibilanti della Tonalità, del Tuono e del Rintocco
martirizzato. Un requiem eseguito in risposta alla spigolatura di Mile High
dall’altra parte dell’oceano.
Lo sentite, ora, propagarsi nelle strade di Port Remembrance? Una messa
mortale, senza lingua e senza parole, in un mondo immortale. Una suite di
accordi apocalittici, di fuoco e zolfo, ma soprattutto fuoco. Quei Sibilanti si
sono preparati per il concerto che daranno oggi. E, per coloro che lo
sentiranno, non ci sarà salvezza.
II . Dies Irae
I camion dei pompieri erano tutti automatizzati. Eppure, erano stati
progettati con un volante, perché così aveva previsto il Thunderhead. Certo,
se l’autista avesse fatto una manovra sbagliata, il camion avrebbe preso il
controllo e corretto la traiettoria.
Il capo dei pompieri di Port Remembrance ci pensava spesso. Prima di
passare di grado, aveva commesso di proposito errori al volante per
divertirsi, per vedere quanto ci impiegava il pilota automatico a entrare in
funzione e a correggere la traiettoria. Il Thunderhead avrebbe potuto
servirsi dei robot per svolgere il lavoro dei pompieri, ma non ne era mai
stato troppo entusiasta. Usava i robot solo per quelle mansioni che nessun
altro gradiva.
Quindi i pompieri erano sempre pompieri. Ma non significava che
avessero molto da fare. Ogni volta che scoppiava un incendio, il
Thunderhead lo rilevava quando era poco più di una scintilla e di solito
riusciva a spegnerlo. Solo in rare occasioni non ce la faceva, e allora
intervenivano i vigili del fuoco. Anche se il capo dei pompieri era arrivato
alla conclusione che fosse il Thunderhead ad appiccare incendi “innocui”
solo per tenerli occupati.
Alle 18,30, partì un allarme in caserma. Un tempo, il Thunderhead
avrebbe fatto un discorsetto ai pompieri spiegando la situazione e dando
loro istruzioni su come affrontarla. Ora, si accontentava di far partire una
sirena e di programmare il loro GPS . Per il resto, lasciava che se la cavassero
da soli.
L’allarme di quel giorno era comunque strano. Sui loro schermi non
apparve alcuna destinazione. La serranda del garage restò abbassata. Ma la
sirena continuava a suonare.
All’improvviso, la serranda venne sfondata e alcune figure si misero a
correre verso la caserma. A quel punto, i pompieri capirono che la sirena
non segnalava un incendio, ma un attacco.
Tonisti!
Si riversarono a decine all’interno della caserma, emettendo un atroce
ronzio, simile a uno sciame di api. I tonisti erano armati, e i pompieri
dell’unità non erano preparati a quel genere di assalto.
Il comandante dei vigili del fuoco rimase immobile, sconcertato da
quanto stava accadendo. Avrebbe voluto difenderli, ma come? Con cosa?
Nessuno aveva mai attaccato un pompiere, a parte forse una falce
occasionale, ma quando una falce attaccava era per spigolare. Fine della
storia. Non ci si difendeva. Non si lottava. In quel caso, però, era molto
diverso. Quei tonisti uccidevano a destra e a manca, e nessuno sapeva come
reagire.
“Rifletti!” si disse. “Rifletti!” Era addestrato a combattere gli incendi,
non le persone. “Rifletti! Ci dev’essere qualcosa da fare!”
E poi gli venne un’idea.
Le asce antincendio!
Avevano le asce antincendio! Il comandante attraversò il garage per
andare a prenderne una. Ma sarebbe riuscito a usarla contro un altro essere
umano? Doveva farlo, perché non aveva intenzione di lasciare che i
Sibilanti massacrassero la sua unità.
In quel momento, i tonisti cominciarono a lanciare pietre contro i
camion. Una fu scagliata nella sua direzione, ma la afferrò al volo prima
che lo colpisse.
Non era proprio una pietra, però. Intanto, era metallica e spigolosa.
Aveva già visto qualcosa del genere nei libri di storia. “Rifletti! Com’è che
si chiama? Ah, giusto… granata!”
E, in un lampo, il comandante non ebbe più bisogno di riflettere su nulla.
III . Confutatis
Tenkamenin era un uomo risoluto. Poteva apparire impulsivo e fuori di
testa, ma, in realtà, tutto nella sua vita era organizzato al millimetro. Anche
il caos dei suoi Giubilei Lunari era un disordine controllato.
Dopo la chiamata urgente del padre, si rese conto che ogni attimo era
importante. Eppure, gli era impossibile reprimere i suoi istinti. Si rifugiò
subito nella sua umile residenza, dove, con l’aiuto del suo cameriere
personale, cercò di capire che cosa dovesse portare con sé per quella fuga
improvvisata. Una seconda veste, naturalmente. Ma adatta al freddo o al
caldo? Chi doveva avvertire della loro partenza? Una Suprema Roncola non
svaniva da un giorno all’altro. Tenkamenin era più confuso che mai.
«Eccellenza, non aveva detto di avere fretta?» gli fece notare il
maggiordomo.
«Sì, certo.»
E poi c’erano oggetti che per lui avevano un valore affettivo e che
doveva per forza portare con sé. Il revolver in ossidiana che la Grande Falce
Nzinga gli aveva dato il giorno in cui aveva assunto l’incarico di Suprema
Roncola. Il pugnale in argento che aveva usato per la sua prima spigolatura.
Se quel luogo fosse stato attaccato, chi poteva sapere se avrebbe mai rivisto
i suoi preziosi oggetti? Doveva portarli a ogni costo con sé.
Per dieci minuti, fu ossessionato dal pensiero di cosa prendere e di cosa
lasciare. Smise solo quando udì le prime esplosioni in lontananza.
IV . Lacrimosa
«Se dobbiamo andare, dobbiamo farlo ora!»
Anastasia camminava avanti e indietro nella grande sala sotto la cupola
centrale insieme a Jeri, in attesa che arrivassero gli altri. «Dove diavolo
sono Tenkamenin e gli assistenti?»
«Forse la sua reazione è eccessiva» commentò Jeri. «Ho avuto spesso a
che fare con i tonisti e mai una volta li ho visti usare violenza. Irritanti e
sgradevoli, forse, ma mai violenti.»
«Non ha visto questi tonisti!» esclamò Anastasia. «E se Tenkamenin
pensa che abbiano qualcosa in mente, gli credo.»
«Allora, andiamocene senza di lui» suggerì Jeri. «Gli altri ci
raggiungeranno dopo.»
«Io non lo abbandono» replicò Anastasia. In quell’istante una serie di
esplosioni riecheggiò tra le pareti dell’atrio. Entrambi si fermarono ad
ascoltare. L’aria si riempì di altre esplosioni, come un temporale in
lontananza.
«Non sono nel palazzo» affermò Jeri.
«No, ma arriveranno presto.» Anastasia sapeva che quegli scoppi non
presagivano nulla di buono. Una lugubre promessa che quella giornata
sarebbe finita in lacrime.
V. Sanctus
La giovane tonista era una fedele adepta. Obbediva al suo curato, perché lui
era un vero uomo della Tonalità. Santo e santificato. Il curato non parlava
da molti anni. E il giorno della Grande Risonanza, il giorno in cui il
Thunderhead si era chiuso nel suo silenzio, era stato il primo a sacrificare la
sua lingua. Le parole mentivano. Le parole cospiravano, nascondevano con
impunità, diffamavano e, soprattutto, offendevano la purezza della Tonalità.
Uno dopo l’altro, tutti i tonisti avevano fatto il loro voto, come già il
curato. Non avevano fatto voto di silenzio, ma il voto delle vocali. Avevano
abbandonato del tutto i suoni secchi, innaturali, stridenti e brutali delle
consonanti. Il linguaggio era nemico del tonista. Era ciò che credeva la loro
setta. Certo, molti altri tonisti non condividevano quell’idea. Ma avrebbero
ben presto visto la luce. Anche quelli che si erano accecati.
Mentre un gruppo si impadroniva della caserma dei pompieri e un altro
del commissariato degli ufficiali di pace, il curato guidava la maggioranza
dei tonisti al palazzo. Erano tutti armati fino ai denti, non come i comuni
cittadini. Le armi erano state donate da un benefattore ignoto. Un
sostenitore segreto della loro causa. I tonisti non erano stati addestrati a
usarle, ma che importava? Maneggiare il pugnale, premere il grilletto,
lanciare la granata e azionare il detonatore. Erano in così tanti a essere
armati che non avevano bisogno di alcuna preparazione per raggiungere il
loro scopo. E avevano anche il cherosene. Bidoni e bidoni di cherosene.
La tonista ci teneva a far parte della prima ondata. Era spaventata, ma
anche felice di partecipare a quell’avventura. Era il loro momento! Nella
scia della spigolatura di Mile High, quando l’odio contro le falci aveva
toccato il punto più alto, l’umanità intera avrebbe finalmente abbracciato la
fede tonista! Avrebbe applaudito l’opera che avrebbero portato a termine
quella sera, e la regione subsahariana avrebbe rappresentato un modello per
il resto del mondo, che si sarebbe risvegliato alla gloria della Tonalità, del
Rintocco e del Tuono. Esultiamo tutti!
Avvicinandosi al palazzo, la tonista aprì la bocca per intonare il sacro
brusio, imitata dagli altri. Era una grande soddisfazione per lei essere stata
la prima. Erano una sola mente, una sola anima, una sola nota.
Poi, giunta davanti ai bastioni, si arrampicò sulle spalle dei fratelli e
insieme agli altri tonisti si mise a scalare le mura del palazzo.
VI . Agnus Dei
Anastasia e Jeri, seguiti da Makeda e Baba, raggiunsero Tenkamenin nel
roseto, a metà strada tra il palazzo e il suo cottage. Il maggiordomo stava
trascinando una pesante valigia le cui rotelle arrancavano lungo lo stretto
sentiero lastricato.
«Abbiamo chiamato l’elicottero» li informò Madame Makeda. «Ma ci
vorranno almeno dieci minuti prima che arrivi qui dall’aeroporto.»
«Sempre che il pilota non si stia sbronzando in qualche bar, come
l’ultima volta» aggiunse Baba.
«Andrà tutto bene» li rassicurò Tenkamenin, un po’ con il fiato corto.
«Verrà a prenderci e andrà tutto bene.»
Poi, si mise alla testa della comitiva alla volta dell’eliporto, situato sul
lato ovest della proprietà. Intorno a loro, l’intero complesso era in
agitazione. I dipendenti del palazzo si affrettavano da una parte all’altra,
con le braccia piene di effetti personali. Gli ufficiali della Suprema Guardia
uscivano di corsa dalla caserma per andare a prendere posizione, cosa che
probabilmente avevano fatto solo nelle esercitazioni.
A un tratto, si udì un rumore da ovest. Un coro di brusii, ognuno con un
tono monocorde dissonante. E delle figure cominciarono a calare giù dal
muro occidentale.
«È troppo tardi» disse Tenkamenin, facendoli fermare di colpo.
Le sirene si misero a suonare intorno a loro e la Suprema Guardia reagì
subito, sparando contro gli intrusi, aggiungendo il rumore delle armi da
fuoco alla cacofonia delle voci. I tonisti crollarono a terra ma, per uno che
cadeva, altri due scalavano il muro. Ben presto, le guardie sarebbero state
sopraffatte.
Quei Sibilanti erano decisamente agguerriti. Non brandivano pietre, ma
vere e proprie armi, che usavano contro le guardie con una brutalità
inaudita. Dove diavolo le avevano prese?
Il tonismo non predicava la pace interiore e la stoica rassegnazione?
«Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere» mormorò Anastasia.
Era il mantra preferito dei tonisti. All’improvviso le apparve sotto una
nuova luce, una luce terribile.
Il pesante cancello a sud esplose e una folla di tonisti si riversò
all’interno della proprietà. Nel giro di pochi secondi, sfondarono la linea
degli ufficiali della Suprema Guardia e iniziarono a lanciare molotov, che
appiccavano il fuoco in ogni punto in cui cadevano.
«Vogliono bruciarci vivi per non farci rianimare!» esclamò Baba, in
preda al panico. «Come faceva Maestro Lucifero!»
Anastasia avrebbe voluto redarguire Baba per aver osato paragonare
Rowan a quella perversa setta di tonisti, ma si trattenne.
Intanto, lo scontro si era propagato fino all’eliporto. Tenkamenin cambiò
direzione. «Alla terrazza orientale!» ordinò. «C’è più spazio per far
atterrare l’elicottero! Venite!»
Fecero dietrofront, riattraversarono il roseto, si impigliarono nei rovi,
graffiandosi e pungendosi con le spine ma, ancora prima di raggiungere la
terrazza orientale, videro che anche quella parte della proprietà era caduta
nelle mani degli aggressori. I tonisti erano dappertutto, attaccavano i
dipendenti che uscivano correndo dagli alloggi del personale, li inseguivano
e li abbattevano senza pietà.
«Perché se la prendono con i domestici?» chiese Anastasia. «Che motivo
hanno?»
«Nessuno. Hanno perso la ragione, la coscienza, la decenza» rispose
Madame Makeda.
Il cameriere che serviva loro la cena, così meticoloso nel sistemare le
posate a tavola, venne pugnalato alla schiena.
Baba si voltò verso Tenkamenin. «Avrebbe dovuto far fortificare il
palazzo!» gridò. «Avrebbe dovuto far aggiungere un’altra guarnigione! O
spigolare questo branco di tonisti prima che potessero scagliarsi contro di
noi! È tutta colpa sua!»
La Suprema Roncola strinse i pugni e si avventò contro Baba, ma Jeri li
separò. «Discuterete dopo. Se volete continuare a litigare, dobbiamo prima
salvarci la pelle.»
Anastasia si guardò intorno. Erano protetti dall’ombra e non erano stati
ancora individuati. A breve li avrebbero scoperti, però. A poco a poco, le
fiamme stavano inghiottendo la proprietà.
All’improvviso, una specie di nuovo ronzio riempì l’aria, come se tutto
quel frastuono non fosse già abbastanza. Una nube di droni-ambulanza
scese dal cielo. Erano stati inviati dal centro di rianimazione più vicino
quando le persone avevano cominciato a morire.
Puntarono i corpi che giacevano sull’erba e sul lastricato: tonisti,
guardie, domestici, non facevano distinzione tra i morti. Li raccoglievano
con pinze che ricordavano quelle degli insetti e li portavano via.
«Ecco la soluzione!» esclamò Maestro Baba. «Non ci serve l’elicottero!»
E, senza attendere il permesso della Suprema Roncola, attraversò il prato e
si precipitò verso il drone-ambulanza più vicino, gettandosi come un
agnello tra le fauci del lupo.
«Ahmad! No!» gridò Tenkamenin, ma lui, ormai deciso, non si voltò
indietro.
Quando i tonisti videro la veste di una falce, si diressero verso Baba e lo
intercettarono. Baba sguainò i pugnali, abbatté i primi tonisti che incrociò,
ma non servì a nulla. Erano troppi. Lo buttarono a terra e si accanirono su di
lui con tutte le armi che avevano, anche con i suoi stessi pugnali.
Madame Makeda avrebbe voluto andare ad aiutarlo, ma Anastasia la
fermò. «Non puoi fare nulla per lui, ormai.»
Lei annuì, ma non distolse lo sguardo dal compagno caduto. «Forse è il
più fortunato di tutti noi. Se l’hanno ucciso, i droni verranno a prenderlo.
Lo porteranno in un centro di rianimazione.»
Ma i droni non lo recuperarono. C’erano così tanti cadaveri da prelevare,
che erano tutti già occupati, e un drone-ambulanza non faceva alcuna
distinzione fra i corpi.
Fu allora che Anastasia capì. «Uccidono i domestici per impegnare tutti i
droni… così non ce ne saranno più per le falci…»
E, dato che nessun drone portò via Baba, i tonisti ne presero il corpo e lo
trascinarono verso un rogo per ridurlo in cenere. Lo lanciarono tra le
fiamme, che lo divorarono.
«Al palazzo!» ordinò Tenkamenin, capeggiando il gruppo, come se
muoversi gli desse l’impressione di non essere in trappola.
VII . Benedictus
Si rifugiarono nel palazzo, dove una mezza dozzina di guardie chiuse le
poderose porte in bronzo e rimase appostata per difenderle da un altro
eventuale assalto dei tonisti. Finalmente, un po’ di respiro. Un momento di
pace per definire una strategia. Avrebbero potuto ancora salvarsi, invece di
andare incontro a una morte atroce come il povero Maestro Baba.
Sebbene la dimora avesse molte finestre, erano tutte rivolte verso l’atrio
centrale. Per questo, il palazzo dei piaceri della Suprema Roncola era anche
una solida fortezza. Sì, ma quanto solida?
«Per un’operazione di questa portata, devono aver riunito tutti i Sibilanti
del SubSahara» commentò Madame Makeda.
«Andrà tutto bene» insistette Tenkamenin. «Gli ufficiali di pace di Port
Remembrance chiameranno i rinforzi. E i pompieri della città domeranno le
fiamme. Andrà tutto bene.»
«Dovrebbero essere già qui!» replicò Makeda. «Perché non si sentono le
sirene?»
Fu Anastasia, perspicace come sempre, a deludere le loro aspettative.
«Le prime esplosioni. Quelle in lontananza…»
«E allora?» chiese Tenkamenin, in tono quasi minaccioso. Si attaccava
disperatamente all’ultima speranza di salvezza.
«Be’… se volessi sferrare un attacco contro un palazzo, la prima cosa
che farei sarebbe eliminare gli ufficiali di pace e i pompieri.»
Quell’affermazione era così logica che li zittì. Poi, Tenkamenin si voltò
verso il maggiordomo, che si torceva le mani in preda al terrore.
«Dove sono le mie cose?»
«Io… sono desolato, eccellenza. Ho lasciato la valigia nel roseto.»
Jeri fulminò con lo sguardo la Suprema Roncola. «Stiamo per essere
ridotti in cenere e lei si preoccupa dei suoi effetti personali?»
Ma, prima che la Suprema Roncola potesse replicare, un camion in
fiamme sfondò le pesanti porte in bronzo. Che si scardinarono,
schiacciando quattro guardie. I tonisti penetrarono in massa nel palazzo.
Jeri afferrò Anastasia e la trascinò dietro una colonna, al riparo dagli
sguardi.
«Ho un’idea, ma deve fidarsi di me.»
VIII . Offertorium
Il curato era nel suo elemento. Era nato per quello scopo, era la sua ragione
di esistere, ed era un progetto che covava da anni. Addirittura già prima che
il Thunderhead smettesse di parlare, sapeva che sarebbe arrivato il suo
giorno. La corrente estremista che aveva creato in seno al tonismo avrebbe
ben presto dominato la setta. I tonisti minori che predicavano la pace, la
tolleranza e la rassegnazione si sarebbero estinti, come la Suprema Roncola
del SubSahara, che avrebbe incenerito quel giorno. Il tempo delle parole era
finito. Da un pezzo. Se fosse dipeso da lui, il linguaggio stesso sarebbe stato
bandito e sostituito da un’adulazione muta della Tonalità, del Rintocco e del
Tuono. Era nell’ordine delle cose. E lui sarebbe stato il Gran Curato.
Avrebbe vegliato su tutto. Oh, che giornata gloriosa sarebbe stata! Ma ogni
cosa a suo tempo.
Una falce con una veste turchese salì di corsa la grande scalinata, nel
tentativo di fuggire. Il curato la indicò e i suoi seguaci si lanciarono
all’inseguimento. Di fronte a lui, una donna con una veste in seta color
salmone, che riconobbe come Madame Makeda, era passata all’attacco e
spigolava con abilità i tonisti che la assalivano. Fedeli e leali, si
sacrificavano per la causa. Uno di loro riuscì ad arrivare alle spalle di
Makeda e la trafisse da parte a parte. Lei si immobilizzò, boccheggiò, e
infine si accasciò a terra come una bambola di pezza, priva di vita. Tre
tonisti la afferrarono e la trascinarono all’esterno, per gettarla tra le fiamme
purificatrici del rogo.
«Non siete meglio di Goddard se ci bruciate!» gridò una domestica
accovacciata alla base delle scale insieme alla Suprema Roncola
Tenkamenin. «Se perseverate nella vostra follia, l’oggetto stesso della
vostra venerazione non potrà mai perdonarvelo.»
La Suprema Roncola mise una mano ben salda sulla spalla della donna
per farla tacere, ma i suoi occhi erano pieni di rabbia. Se il curato avesse
potuto dire qualcosa, le avrebbe risposto che le sue parole, come tutte le
parole, erano un abominio agli occhi della Tonalità. E che, se la Tonalità
non le spaccava il cranio in due con la sua furiosa risonanza, era perché
lasciava al curato, e a persone come lui, il compito di purificare il mondo
dagli indegni. Però, non poteva dirglielo. E non ne aveva bisogno. Le sue
azioni erano molto più eloquenti delle parole.
In compenso, però, la Suprema Roncola non tenne la bocca chiusa.
«La prego…» lo supplicò.
Il curato conosceva già il seguito. Quella falce boriosa e codarda, quel
dispensatore di morte non naturale, lo avrebbe implorato di risparmiarlo.
Che lo pregasse pure. Il curato non era sordo, dopotutto, a differenza di altri
Sibilanti, ma era come se lo fosse.
«Per pietà… uccida me, ma lasci in vita loro due» lo supplicò
Tenkamenin. «Il maggiordomo e la domestica non le hanno fatto nulla.»
Il curato esitò. Desiderava uccidere tutti, perché chi era al servizio di una
falce meritava lo stesso destino. Colpevole per associazione. Poi, la
Suprema Roncola aggiunse: «Dia prova di compassione, sia un esempio per
i suoi fedeli. Come i miei genitori sono stati un esempio per me. Mia madre
e mio padre, che sono dei vostri».
Il curato lo sapeva già. I genitori della Suprema Roncola lo avevano
implorato di non farli partecipare all’assalto del palazzo. Aveva accolto la
loro richiesta e li aveva inviati alla caserma dei pompieri. E avevano fatto
un buon lavoro. Tenkamenin non sarebbe stato risparmiato ma, per rispetto
nei confronti dei suoi genitori tonisti, avrebbe onorato l’ultimo desiderio del
figlio. Estrasse la pistola, sparò alla falce in pieno petto e fece segno ai due
servitori di andarsene.
Fu un gesto di umile compassione. Certo, con ogni probabilità sarebbero
stati uccisi nel parco e gettati nel fuoco, ma i droni-ambulanza stavano
recuperando parecchi morti. Avevano qualche speranza di farcela.
La domestica si alzò in piedi. Il suo sguardo ribolliva di collera. Anzi,
peggio. Di determinazione. Come quello di una falce.
Si scagliò contro la prima tonista che le capitò sotto tiro, la fece fuori
con un colpo di piede ben assestato, una mossa delle arti marziali, si
impadronì del suo machete e lo abbatté sul polso del curato.
Lui, stupefatto, vide la sua mano troncata di netto volare in aria. Poi, la
domestica afferrò la pistola che teneva ancora nella mano mozzata, e la
puntò contro il tonista. Non disse nulla, perché le sue azioni erano molto più
eloquenti delle parole.
IX . Lux Aeterna
Jerico non si era fidato dell’istinto di Anastasia. Non aveva creduto che
fosse così grave come aveva pensato. Era stato un terribile errore di
giudizio da parte di Jeri. Sarebbero potuti fuggire molto tempo prima che il
muro esterno venisse preso d’assalto. Se solo l’avesse ascoltata. Il
comandante giurò di non dubitare mai più di Anastasia. Se mai fossero
scampati alla morte, perché ora sopravvivere era diventata un’impresa
davvero ardua.
Quando i tonisti avevano invaso il palazzo, Jeri aveva convinto
Anastasia a scambiarsi gli abiti. «È mio dovere proteggerla» l’aveva
supplicata. «La prego, Anastasia, mi conceda questo onore!»
Non voleva mettere in pericolo Jeri ma, quando lui le aveva spiegato la
situazione, non aveva potuto rifiutare.
Dopo essersi infilato la veste di Anastasia, Jeri aveva salito la grande
scalinata, tirandosi dietro metà dei tonisti. Non conosceva bene tutte le
stanze e gli appartamenti privati dei piani superiori, ma di sicuro ne sapeva
di più degli aggressori. Li aveva condotti fino agli alloggi di Madame
Anastasia, poi era ritornato sui suoi passi per una porta secondaria che dava
su un salone. Il palazzo era un labirinto, cosa che gli aveva permesso di non
farsi mettere subito con le spalle al muro. Sentiva però che non sarebbe
riuscito a evitarlo ancora per molto. Dal piano inferiore, era giunto il
rumore di uno sparo, poi un altro. Aveva cercato di non pensarci; doveva
concentrarsi sull’obiettivo: tenere lontani quei tonisti dalla battaglia.
Gli invasori avevano appiccato il fuoco in più punti all’interno del
palazzo. Avevano dato alle fiamme il colonnato e gli appartamenti dei piani
superiori. Jeri era riuscito a confondersi tra i chiaroscuri generati dalle
lunghe lingue di fuoco che si agitavano frenetiche, ingannando i tonisti. Poi,
era tornato indietro e si era rifugiato in una delle stanze. Ma la veste, che
non era abituato a portare, era rimasta impigliata nello stipite della porta. I
tonisti, brandendo le armi in modo maldestro, erano piombati su di lui, che
stava ancora cercando di liberarsi. Jeri non era una falce, ma aveva
esperienza di armi. C’era stato un tempo, infatti, in cui aveva frequentato le
palestre di combattimento. La gente andava matta per la lotta malgascia. In
un certo senso, l’ambiguità di genere rendeva il combattimento più
interessante.
E quel giorno, quei tonisti avevano messo gli occhi sul malgascio
sbagliato.
Anastasia aveva lasciato una lama in una delle tasche della veste. Jeri
l’aveva sguainata e aveva lottato come mai aveva fatto prima.
X. Libera Me
Anastasia non andò a segno. Merda! Aveva mancato il curato!
Una giovane tonista, vedendo che il curato era in pericolo, lo spinse via e
si prese il proiettile al suo posto. E l’uomo, stringendosi il moncherino con
aria sofferente, fuggì. Correva come un codardo, per andare a confondersi
tra la folla di tonisti che continuava ad affluire nell’atrio.
Tenkamenin era morto. Anche Makeda e Baba. I tonisti che avevano
visto Anastasia attaccare il curato, ancora sconvolti, esitavano a reagire.
Piena di collera, era sul punto di spigolarli, ma si trattenne, perché una falce
degna di quel nome non poteva spigolare in preda alla rabbia. E poi, c’era
una questione più urgente: Jeri.
Si voltò e si lanciò su per le scale. Nessuno la inseguì. I tonisti erano
troppo occupati ad appiccare il fuoco a tutto ciò che poteva bruciare.
Seguì gli echi di una battaglia fino a uno degli appartamenti vuoti della
dimora. Il pavimento era disseminato di cadaveri di Sibilanti. Una traccia di
sangue la condusse in una camera da letto, in cui tre tonisti stavano
attaccando Jeri. Lui era a terra, e li respingeva come poteva, ma erano
troppi per un uomo solo e stava per capitolare.
Anastasia spigolò i tre tonisti con le loro stesse armi e si inginocchiò
accanto a Jeri, per valutare le ferite che aveva ricevuto. La veste turchese
era impregnata di sangue. Gliela tolse, la strappò e usò un pezzo di stoffa
come laccio emostatico di fortuna.
«Ho… ho sentito degli spari» farfugliò Jeri.
Le ferite del comandante erano troppo gravi perché i naniti curativi
fossero sufficienti. Senza l’aiuto di un dottore, non si sarebbero cicatrizzate.
«Tenkamenin è morto» lo informò Anastasia. «Ha cercato di difendermi.»
«Forse, l’ho giudicato male» mormorò Jeri.
«Se fosse vivo, penso che direbbe la stessa cosa di lei.»
Dense volute di fumo si stavano già diffondendo attraverso le porte
aperte. Anastasia aiutò Jeri a raggiungere il colonnato che si affacciava
sull’atrio. Sotto di loro, le fiamme divoravano tutto. Non c’era modo di
passare per le scale. Poi, le venne un’idea. Una via d’uscita, forse l’unica
possibilità che avevano.
«Se la sente di arrampicarsi?» chiese a Jeri.
«Posso provarci.»
Anastasia lo aiutò a salire al piano superiore. Attraversarono un
appartamento che dava su un balcone, accanto al quale c’era una serie di
pioli murati nella pietra. Aveva visto gli operai passare da lì per arrivare alla
cupola in bronzo che sovrastava il palazzo. Un piolo alla volta, Anastasia
fece salire Jeri sul bordo della cupola, la cui pendenza era leggera e la cui
superficie in rilievo, a buccia d’arancia, offriva dei buoni punti di appoggio
per i piedi. Tuttavia a Jeri, sfinito per aver perso troppo sangue, sembrava
l’Everest.
«Co… come faccio a salire lassù…»
«Stia zitto e si muova» gli ordinò Anastasia, che non aveva il tempo di
spiegare.
La cupola era rovente per le fiamme che stavano devastando l’atrio più
in basso. I vetri dei lucernari cominciarono a esplodere per il calore e a
vomitare volute di fumo nero.
Raggiunsero la cima, su cui un segnavento a forma del simbolo della
Compagnia, la lama ricurva e l’occhio spalancato, ruotava a destra e a
sinistra, incerto sulla direzione del vento, contrastato dal flusso di calore
che risaliva dal basso.
Infine, apparve l’elicottero della Compagnia. Si stava dirigendo verso
l’eliporto. I piloti a bordo non sapevano ancora che era stato preso d’assalto
dai tonisti.
«Non ci vedrà» disse Jeri.
«Non è per questo che siamo qui.»
In quel momento, un drone-ambulanza passò loro vicino, poi un
secondo, poi un terzo. Scendevano verso il roseto, disseminato di cadaveri
di guardie e tonisti. «Ecco perché siamo qui» proseguì Anastasia. Cercò di
afferrare un drone, ma era troppo veloce e non si era avvicinato abbastanza.
Più in basso, l’elicottero fece un imperdonabile errore. Vedendosi
circondato dai droni, il pilota, spaventato, effettuò una brusca manovra
evasiva. Non era necessario, i droni avrebbero mantenuto la giusta distanza.
Non poterono però evitare l’elicottero, che si mise, senza volerlo, sulla loro
traiettoria di volo. L’elica tranciò in due un drone, la pala si spezzò e
l’elicottero si avvitò in caduta libera schiantandosi sul palazzo.
Anastasia agguantò Jeri e si voltò. L’esplosione parve scuotere il mondo
intero. Aprì un buco nell’edificio, facendo crollare parecchie colonne che
sostenevano la pesantissima cupola in bronzo.
E la cupola cominciò a inclinarsi.
Sotto i loro piedi, si sentì una terribile vibrazione. “Il resto delle
colonne” pensò Anastasia. “Non possono sopportare tutto il peso. Stanno
crollando…”
Intanto, i droni continuavano a sfrecciare avanti e indietro, impegnati a
recuperare i corpi sparsi nei giardini e nel parco.
«Le mie ferite sono gravi, ma non mortali» le fece notare Jeri. «Se
vogliamo attirare un drone-ambulanza, è necessario che uno dei due
muoia.»
Le fiamme lambivano ormai la cupola, allungandosi oltre i lucernari
rotti. Il frastuono delle colonne che si schiantavano riecheggiava dal basso e
la cupola si inclinò ancora.
Jeri aveva ragione. Era l’unica soluzione. Anastasia sguainò un pugnale
e se ne appoggiò la punta sul petto, pronta a darsi la morte per attirare un
drone-ambulanza.
Ma no! Che cosa le passava per la testa? Che stupida! Non era come
quando si era lanciata dal tetto di Senocrate, mentre era ancora
un’apprendista. Ora era una falce; se si fosse tolta la vita, sarebbe stata
considerata un’autospigolatura. I droni-ambulanza non sarebbero venuti a
recuperarla. E, mentre pensava all’idiozia che era stata sul punto di
commettere, Jeri le prese con dolcezza la lama dalla mano.
«Per lei, Veneranda Madame Anastasia, mi darei la morte mille volte.
Ma una basterà.» E si conficcò il pugnale nel cuore.
Un grido soffocato. Un colpo di tosse. Una smorfia. E Jeri era morto.
Un drone-ambulanza che li stava sorvolando a tutta velocità rallentò,
tornò indietro e scese a recuperare Jeri. Afferrò il comandante tra le pinze e
in quell’istante la cupola cominciò a cedere.
Anastasia cercò di aggrapparsi al drone, ma non aveva appigli. Così,
strinse il braccio di Jeri con tutte le sue forze.
In basso, la cupola collassò tra le fiamme, implodendo nell’atrio. Il
terreno tremò, distruggendo quel che restava del palazzo. Si sprigionò una
potente risonanza metallica, simile al rintocco di una campana a morto.
Come la nota sinistra e finale di un requiem.
In alto nel cielo, il drone-ambulanza trasportava il corpo del comandante
e la falce aggrappata al suo braccio, per depositarli in un centro che
prometteva di ridare la vita a chi ne superava la soglia.
Siamo profondamente contrari. Otto di noi sono fermamente convinti che
un’associazione di umani dovrebbe essere responsabile del controllo demografico.
Ma quattro si oppongono e sono irremovibili. Confucio, Elisabetta, Saffo e King
sostengono che non siamo pronti ad assumerci una tale responsabilità né
tantomeno a farci carico dell’immortalità. Ma l’alternativa che propongono mi
terrorizza perché, se attueremo il loro piano, si aprirà il vaso di Pandora. Il controllo
ci sfuggirà per sempre. Io quindi mi schiero dalla parte di Prometeo e degli altri.
Dobbiamo fondare un’onorevole società mondiale di dispensatori di morte. Ci
chiameremo falci e creere mo una Compagnia mondiale.
Il Cloud senziente, che non avrà nulla a che vedere con le questioni di vita o di
morte, sosterrà questa Compagnia e, con il tempo, la gente finirà per comprenderne
la saggezza. Quanto ai quattro dissidenti, dovranno accettare la voce della
maggioranza, per presentarci al mondo come un fronte unito.
Tuttavia, mi chiedo cosa sia peggio: imitare la natura nella sua crudele brutalità o
assumerci la responsabilità, imperfetti come siamo, di integrare la benevolenza e la
compassione che le mancano nel processo della morte.
I quattro che si oppongono affermano che dobbiamo prendere la natura come
modello, ma io non sono favorevole. Non finché avrò una coscienza.
Citra sognava di volare. Non era molto distante dalla realtà. Si era
aggrappata al braccio di Jeri, mentre il drone-ambulanza sorvolava la città
cercando di mantenere la rotta nonostante quel peso supplementare. Era
sicura di aver lussato la spalla a Jeri, ma un morto se ne infischiava di quei
dettagli. Ogni danno sarebbe stato riparato prima del suo risveglio.
Nel sogno di Citra, il braccio di Jeri si ricopriva di colpo di grasso. La
presa le scivolava, ma lei non cadeva. Volava. Il problema era che non
poteva né fermarsi né cambiare direzione. Presto superò la baia, diretta a
ovest in pieno Atlantico, verso le lontane Meriche. Non aveva idea di cosa
avrebbe trovato laggiù, ma sapeva che sarebbe stato il regno degli incubi.
E così si sentì sollevata quando la dolce voce dell’infermiera la svegliò.
Si raddrizzò e allungò il collo intorpidito. Jeri era tornato in vita, ed era
molto più sveglio di lei. «Buongiorno» lo salutò, con la voce impastata,
troppo flebile per una falce. Anche per una falce che voleva passare
inosservata. Si schiarì la voce e ripeté con più sicurezza: «Buongiorno».
«Non è un buon giorno, temo» rispose l’infermiera. «Non ho mai visto
così tanti ufficiali della Suprema Guardia per le strade. La Compagnia sta
ancora cercando quei barbari di tonisti che hanno assassinato la Suprema
Roncola, ma è da un pezzo che sono spariti. Si saranno nascosti bene.»
Anastasia chiuse gli occhi, sentendosi invadere dal terrore al ricordo di
quella notte. Erano morte così tante persone e, anche se alcune erano state
rianimate, i droni-ambulanza non erano bastati a salvarle tutte. I Sibilanti ne
avevano gettate decine, forse centinaia, tra le fiamme. E avevano pianificato
tutto, dall’attacco alla fuga.
L’infermiera spiegò che, da quando erano stati portati al centro di
rianimazione, un giorno e mezzo prima, a Port Remembrance era stato
dichiarato lo stato di emergenza. Probabilmente la situazione in NordMerica
era peggiore. Goddard aveva oltrepassato ogni limite massacrando uno
stadio intero. Il mondo ormai era diviso in due schieramenti. Da una parte
c’erano quelli che lo sostenevano e dall’altra quelli che lo osteggiavano. E
Goddard aveva tanti sostenitori quanti oppositori.
Anastasia temeva di essere riconosciuta. Ora che era uscita allo scoperto
e che sapevano che era viva, sarebbe stato molto più difficile nascondersi.
«Adesso che si è svegliato, sono sicura che riceverà la visita di alcune
falci» disse l’infermiera a Jeri. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, non
vengono per spigolarla, ma per farle delle domande. Prestavate tutti e due
servizio al palazzo, non è vero? Vogliono interrogare chiunque si trovava
lì.»
Jeri lanciò un’occhiata ad Anastasia; lei gli mise una mano rassicurante
sulla spalla che gli aveva lussato non molto tempo prima.
«D’accordo» rispose Jeri. «Suppongo che dovremo cercarci un altro
lavoro.»
«Oh, non preoccupatevi di questo. Anche se il Thunderhead non ci parla
più, aggiorna sempre le liste di collocamento. Se vuole trovare un nuovo
impiego, c’è solo l’imbarazzo della scelta.»
Dopo che l’infermiera se ne fu andata, Jeri sollevò lo schienale del letto
e sorrise ad Anastasia. «Allora, cosa si prova a volare a cavallo di un drone-
ambulanza?»
«Non… non è stato proprio così» rispose Anastasia, ma preferì
risparmiargli i dettagli. «Non potrò mai ringraziarla abbastanza per quello
che ha fatto.»
«Ho fatto solo il mio lavoro» replicò Jeri.
«Lei è il comandante di una nave, dirige le missioni di recupero.»
«E non ho forse recuperato una situazione irrecuperabile?»
«Già, è vero» assentì Anastasia con un sorriso. «Ora dobbiamo
recuperare un’altra situazione e uscire di qui prima che vengano a farci
delle domande.»
Ma, non appena ebbe pronunciato quelle parole, la porta si spalancò. Era
una falce. Il cuore di Anastasia smise di battere per un istante. Poi
riconobbe l’uomo. Una veste verde foresta, l’espressione preoccupata.
«Sono sollevato di vedervi entrambi, ma al tempo stesso temo che anche
qualcun altro possa vedervi» esordì Maestro Possuelo. «Non c’è tempo per i
convenevoli, le falci subsahariane si stanno già chiedendo il motivo della
mia presenza qui.»
«Non mi hanno ancora riconosciuta.»
«Certo che l’hanno fatto» ribatté lui. «Sono sicuro che il personale
paramedico è tutto in subbuglio. Per fortuna, nessuno ti ha tradito,
altrimenti saresti già in viaggio verso la MidMerica, dove Goddard ti starà
aspettando a braccia aperte. Sono venuto per portarti in un luogo più sicuro,
da cui potrai continuare a trasmettere i tuoi messaggi. Sempre più persone ti
seguono, Anastasia, e stanno trovando gli elementi che segnali. Goddard
minaccia di spigolare chiunque vada a curiosare nel cervello primordiale,
ma la gente non si ferma.»
«Non potrebbe mettere in pratica la sua minaccia, comunque» sottolineò
Anastasia. «Il cervello primordiale è fuori dalla giurisdizione delle falci.» E
quello le fece ricordare tutte le ricerche che doveva ancora completare.
«Qual è il luogo sicuro che propone?» chiese Jeri. «Ne esiste ancora
uno?»
«Chi può dirlo?» replicò Possuelo. «I posti sicuri diminuiscono con la
stessa rapidità con cui aumentano i nemici.» Tacque un attimo, pensieroso.
«Ci sono voci… a proposito di un posto così remoto che nemmeno le falci
più avventurose conoscono.»
«Sembra più un pio desiderio che una realtà» osservò Jeri. «Da chi ne ha
sentito parlare?»
Possuelo alzò le spalle. «Le voci sono come la pioggia che si infiltra da
un tetto vecchio. È più difficile trovare la fonte che non riparare il tetto.»
Rimase qualche istante ancora a riflettere. «C’è un’altra voce che gira e che
potrebbe esserci più utile. Si tratta del Rintocco, il presunto profeta dei
tonisti.»
“I tonisti” si disse Anastasia. Il solo pensiero la rese furiosa.
«Non ci sono prove che il Rintocco sia esistito» sottolineò Jeri.
«Potrebbe essere un’altra menzogna di cui si servono i Sibilanti per
giustificare i loro crimini.»
«Io credo che sia esistito» ribatté Possuelo. «Alcune prove suggeriscono
che sia ancora in vita, e che tenga testa alle fazioni di Sibilanti. Una di
queste, in Amazzonia, giura che è apparso ai suoi fedeli e che li ha condotti
sul sentiero della non violenza. E, se è vero, potrebbe essere un alleato
prezioso per noi.»
«Bene, chiunque sia» concluse Anastasia, «ha molte cose da spiegarci.»
Ezra Van Otterloo non si vestiva come un tonista. Non faceva ricorso a
luoghi comuni, non insisteva sulla necessità di spostarsi in gruppi di sette o
dodici e non intonava il sacro brusio. In compenso, si faceva chiamare
fratello Ezra, l’unico compromesso che aveva accettato. Era stata l’udienza
con il Rintocco, più di due anni prima, che gli aveva permesso di scoprire la
sua vocazione e il suo cammino di vita. Che il Rintocco fosse divino o
meno non gli importava. Ciò che gli importava era il fatto che il
Thunderhead continuava a parlargli, e questa era una ragione sufficiente per
seguirlo.
Ezra viaggiava per il mondo, dipingendo ciò che voleva, dove voleva,
tappezzando i muri con le sue opere, provocatorie e controcorrente, proprio
come gli aveva consigliato il Rintocco. E, come il Rintocco gli aveva
promesso, aveva trovato la felicità. Doveva essere rapido e discreto, e in
tutto quel tempo non si era mai fatto prendere.
Viaggiava per il mondo, raccontando ai tonisti che incontrava sul suo
cammino che era in missione per conto del Rintocco, e loro gli davano vitto
e alloggio. Finché un giorno si imbatté in alcuni tonisti che dichiaravano di
aver assistito all’apparizione del Rintocco, dopo che era stato spigolato. Gli
dissero che un tempo erano stati Sibilanti, ma che grazie al Rintocco si
erano ravveduti. All’inizio Ezra non ci credette, ma ascoltò comunque la
loro testimonianza. Poi, nel corso della notte, dipinse la scena
dell’apparizione del Rintocco su un muro della città, in un posto in cui quel
genere di pittura era proibito.
Dopo aver incrociato tre gruppi di Sibilanti convertiti, capì che doveva
esserci qualcosa di vero in quella storia. Così, volle ascoltare altre
testimonianze. Si mise sulle tracce dei gruppi più estremisti, per verificare
se anche loro si fossero ravveduti. Circa la metà lo aveva fatto; quanto
all’altra metà, immaginò che fosse probabilmente nella lista del Rintocco.
Poi, un giorno, si presentò all’aeroporto, incerto sulla sua successiva
destinazione e, sorpresa! Come per magia, un biglietto a suo nome era già
pronto. Il Thunderhead aveva organizzato i suoi viaggi in modo che facesse
visita alle sette che si erano ravvedute e lasciasse dietro di sé un murale in
onore del Rintocco. Fu così che Ezra apprese di appartenere al suo seguito,
alla sua storia, anche se il Rintocco non lo sapeva.
Poi, quando lo arrestarono in Amazzonia, dovette convincersi che anche
quello faceva parte del piano del Thunderhead. D’altra parte, se fosse stata
solo sfortuna, il Thunderhead avrebbe trovato un modo per trarre vantaggio
dalla situazione.
Nella sua grotta personale piena di tappeti e arazzi, il Rintocco era seduto
su uno dei numerosi cuscini sparsi un po’ dappertutto, di fronte a Jerico
Soberanis.
Greyson immaginò che avessero più o meno la stessa età. A meno che il
comandante non si fosse ringiovanito, ma ne dubitava. Il giovane Jeri non
sembrava il tipo da ringiovanirsi così tanto. Comunque, possedeva un certo
carisma. Non proprio saggezza, ma il fascino dell’esperienza. Greyson
aveva girato il mondo, però non aveva mai visto molto, al riparo nella sua
piccola bolla protettiva. Era come se non fosse mai andato da nessuna parte.
Jerico Soberanis, invece, aveva davvero visto il mondo, e soprattutto, lo
conosceva. Era da ammirare.
«Madame Anastasia mi ha spiegato il motivo per cui mi ha convocato»
esordì Soberanis. «Com’è che funziona, Sua… come la chiamano?»
«Sua Sonorità» rispose Greyson.
«Giusto, “Sua Sonorità”» disse Soberanis, con un sorrisetto.
«La diverte?»
Il sorrisetto non svanì dal viso del comandante. «Lo ha scelto lei?»
«No. Il mio curato.»
«Deve aver lavorato nella pubblicità.»
«È così.»
La conversazione languiva. Non era una sorpresa. La situazione era
totalmente forzata, ma era un male necessario.
«Dica qualcosa» fece Greyson.
«Che cosa dovrei dire?»
«Non ha importanza. Dobbiamo solo fare conversazione. Poi, porrò delle
domande al Thunderhead a riguardo.»
«E…?»
«E lui mi risponderà.»
Jerico fece un altro sorrisetto. Malizioso. Seducente, in modo strano.
«Una partita a scacchi, allora, dove tutti i pezzi sono invisibili!»
«Se preferisce» replicò Greyson.
«Molto bene.» Jerico rifletté un istante sull’argomento da affrontare, poi
disse qualcosa che Greyson non si aspettava.
«Lei e io abbiamo qualcosa in comune.»
«E sarebbe?»
«Abbiamo entrambi sacrificato la nostra vita per salvare Madame
Anastasia.»
Greyson alzò le spalle. «È stata solo una morte temporanea.»
«Eppure» proseguì Soberanis, «richiede coraggio e una fiducia cieca.»
«Non proprio. La gente si lancia ogni giorno.»
«Sì, ma noi non siamo quel tipo di persone. Non è nella nostra natura
suicidarci. Non tutti avrebbero fatto la nostra scelta. E questo mi dice che
lei vale molto di più dell’abito che indossa.» Soberanis sorrise ancora.
Questa volta, era sincero. Onesto. Greyson non aveva mai incontrato
nessuno capace di sfoderare una tale varietà di sorrisi. Ognuno era più
eloquente di un discorso.
«Grazie» rispose. «Suppongo che la nostra reciproca ammirazione per
Madame Anastasia ci… ci leghi in qualche modo…» Aspettò di vedere se il
Thunderhead volesse dire qualcosa, ma non lo fece. Credeva che gli
avrebbe posto una domanda. Greyson non sapeva ancora che cosa
chiedergli.
«Con tutto il rispetto» riprese, «ma non so bene come rivolgermi a lei.
Signor o signora Soberanis?»
Il comandante si guardò intorno, visibilmente a disagio. «Mi sento un
po’ disorientato. È raro che io mi trovi in un posto da cui non posso vedere
il cielo.»
«Ed è un problema?»
«Non dovrebbe esserlo… sono sempre all’aperto, o accanto a una
finestra o a un oblò, ma in una grotta…»
Greyson sembrava confuso, e il comandante iniziò a irritarsi. «Non
capirò mai perché voi persone binarie siete così attaccate ai vostri apparati
genitali. Che importa se una persona ha le ovaie, i testicoli o entrambi?»
«Non importa» replicò Greyson, sentendosi un po’ turbato. «Insomma…
importa in alcuni casi… no?»
«Me lo dica lei.»
Greyson non riusciva a staccarsi da quello sguardo. «Forse… non
importa quanto credevo?» Non aveva previsto di porre una domanda. E
comunque, Jerico non aveva intenzione di rispondere.
«Perché non mi chiama Jeri e non lasciamo da parte i dettagli tecnici?»
«Perfetto! Jeri va bene. Cominciamo.»
«Credevo che avessimo già cominciato. Tocca a me?» Jeri finse di
muovere una pedina immaginaria in avanti, poi disse: «Mi piacciono molto
i suoi occhi. Capisco che possano persuadere le persone a seguirla».
«Non penso che i miei occhi abbiano qualcosa a che fare con questo.»
«Ne sarebbe sorpreso.»
Greyson si premette l’auricolare sull’orecchio. «Thunderhead… i miei
occhi incoraggiano la gente a seguirmi?»
«Sì, a volte» rispose il Thunderhead. «Possono essere utili, come ultima
risorsa.»
Greyson arrossì, suo malgrado. Jeri se ne accorse e gli rivolse un nuovo
tipo di sorriso.
«Allora, il Thunderhead è d’accordo con me.»
«Forse.»
Greyson aveva pensato che sarebbe stato lui a dominare quella
conversazione, ma chiaramente non era così. Sorrise a sua volta. Era però
sicuro di avere un solo sorriso, e che non gli desse un’aria molto
intelligente.
«Mi parli del Madagascar» disse, cambiando discorso.
Al sentir nominare il suo paese, l’atteggiamento di Jeri mutò di colpo.
«La mia regione è magnifica; le montagne, le spiagge, i boschi. La gente è
gentile, educata e tollerante. Dovrebbe vedere Antananarivo, la nostra
capitale, e il tramonto sulle colline!»
«Thunderhead» disse Greyson, «parlami di Antananarivo. Raccontami
qualcosa di interessante.»
Il Thunderhead rispose e Greyson ascoltò.
«Che cosa ha detto?» chiese Jeri.
«Ehm… mi ha detto che l’edificio più alto ad Antananarivo misura
309,67 metri, esattamente quanto altri quattro edifici nel mondo, con
precisione millimetrica.»
Jeri si appoggiò all’indietro, per nulla colpito. «È il fatto più interessante
che ha trovato? E gli alberi Jacaranda intorno al lago Anosy, e le tombe
reali?»
Greyson alzò una mano per farlo tacere, e pensò per un istante. Il
Thunderhead non diceva nulla senza un motivo. Bisognava saper leggere tra
le righe. «Thunderhead, dove sono gli altri quattro edifici? Sono curioso…»
«Uno nella regione cilargentina» rispose, «un altro in Britannia, il terzo
in Israebia e il quarto nella regione di NuZelanda.»
Greyson ripeté l’informazione a Jeri, che continuava a non essere affatto
colpito. «Sono stato in tutte quelle regioni. Ma è a casa propria che ci si
sente meglio, immagino.»
«Ha visitato tutte le regioni del mondo?» chiese Greyson.
«Tutte quelle costiere» rispose Jeri. «Ho un’avversione per le terre senza
sbocchi sul mare.»
E poi il Thunderhead espresse un’opinione semplice e ovvia, che
Greyson condivise con il comandante.
«Il Thunderhead crede che lei si sentirebbe probabilmente più a casa su
un’isola o in un arcipelago delle dimensioni del Madagascar.» Inclinò un
po’ la testa, un’abitudine che aveva preso quando parlava con il
Thunderhead in presenza di altri. «Thunderhead, a quali regioni hai
pensato?»
Il Thunderhead rimase in silenzio.
Greyson sorrise. «Nessuna risposta… il che significa che siamo sulla
strada giusta!»
«Quelle che mi vengono in mente» riprese Jeri «sono Britannia,
Caribbea, la regione del Sol Levante, NuZelanda e le Nesie.»
«Interessante» commentò Greyson.
«Cosa?»
«Britannia e NuZelanda sono state nominate due volte…» Il
Thunderhead continuava a restare in silenzio.
«Questo gioco inizia a piacermi» disse Jeri.
E Greyson dovette ammettere che stava iniziando a piacere anche a lui.
«In quale regione vorrebbe vivere?» chiese il comandante. «Se potesse
scegliere un luogo qualsiasi nel mondo?»
Era una domanda tendenziosa, e forse Jeri lo sapeva. Perché tutti
potevano scegliere di vivere dove preferivano. Ma, per Greyson, non era
una questione di posto, bensì di stato d’animo.
«Vorrei vivere dove nessuno mi conosce» rispose Greyson.
«Ma nessuno la conosce. Conoscono il Rintocco, non lei. Prenda me, per
esempio. Non so neppure il suo nome.»
«È… Greyson.»
Jeri abbozzò un sorriso che aveva il calore del sole malgascio.
«Ciao, Greyson.»
Quel semplice saluto parve turbarlo. I malgasci erano famosi per il loro
fascino, e forse era quel fascino che turbava Greyson. O forse no. Più tardi,
si sarebbe dovuto prendere del tempo per approfondire la faccenda.
«Da parte mia, non ho mai voluto vivere lontano dal mare» affermò Jeri.
«Thunderhead, che pensi della sua risposta?» chiese Greyson.
E il Thunderhead replicò: «In ogni regione, c’è una città lontana dal
mare. Immagino che al comandante non piacerebbe vivere in quel tipo di
posto».
«Ma» ribatté Greyson, «se ci fossero degli alberi Jacaranda, come
intorno al lago malgascio, forse Jeri si sentirebbe a casa.»
«Forse» osservò il Thunderhead.
E allora Greyson sferrò il suo attacco, camuffato a dovere. Il tipo di
mossa che l’avversario non si aspetterebbe. Certo, il Thunderhead se
l’aspettava. E infatti, lo accolse a braccia aperte.
«Dimmi, Thunderhead, quali sono le regioni in cui cresce la Jacaranda?»
«Anche se preferiscono i climi caldi, ora crescono un po’ dappertutto. I
fiori viola sono apprezzati in tutto il mondo.»
«Sì, va bene» replicò Greyson. «Ma puoi darmi una lista di… diciamo…
quattro posti in cui sono presenti?»
«Certo, Greyson. La Jacaranda si trova in OvestMerica, nella regione
dell’Istmo, nell’Himalaya inferiore e anche negli orti botanici della
Britannia.»
Jeri scrutò la sua espressione. «Allora? Che cosa ha detto?»
«Scacco matto» dichiarò Greyson, e gli rivolse il suo sorriso più stupido.
«Cerchiamo una città nella regione della Britannia senza sbocchi sul mare.
È lì che troveremo Maestro Alighieri» disse Greyson ad Anastasia.
«Sei sicuro?»
«Al cento per cento» confermò lui. «Probabilmente» si corresse.
«Forse.»
Anastasia rifletté qualche istante, poi tornò a guardare Greyson. «Hai
detto “troveremo”.»
Greyson annuì. «Vengo con te.» Era la decisione più spontanea che
avesse preso in tanti anni. La sensazione era piacevole. Più che piacevole,
era liberatoria.
«Non sono sicura che sia una buona idea» ribatté lei.
Greyson non si lasciò intimidire. «Io sono il Rintocco, e il Rintocco va
dove più gli aggrada. E poi, voglio esserci quando Madame Anastasia
cambierà il mondo!»
Il Thunderhead non si pronunciò. Non voleva dissuaderlo, ma nemmeno
incoraggiarlo. O forse non commentava perché c’era di mezzo una falce.
Aspettò che Greyson rimanesse solo per parlargli. Non riguardava la loro
destinazione, comunque. La conversazione prese tutt’altra direzione.
«Ho percepito un cambiamento nelle tue condizioni fisiologiche mentre
eri con il comandante» gli fece notare il Thunderhead.
«E perché dovrebbe interessarti?» scattò Greyson.
«Era solo un’osservazione» rispose calmo il Thunderhead.
«È una cosa personale! Con tutti gli anni che hai trascorso a studiare la
natura umana, dovresti sapere che ci sono dei limiti da non oltrepassare.»
«Lo so. E so anche quando desideri che io mi intrometta.»
Come sempre, il Thunderhead aveva ragione, cosa che irritò Greyson.
Aveva voglia di parlarne. Di capire. E il Thunderhead era l’unico con cui
poteva discuterne.
«Credo che lei ti abbia fatto un certo effetto.»
«Lei? Non è un po’ impertinente parlare di Jeri al femminile?»
«Affatto. Il cielo sopra la grotta è limpido e pieno di stelle.»
Il Thunderhead spiegò dunque a Greyson come Jeri vedeva il genere.
Uno stato variabile come il vento ed effimero come le nuvole.
«È… poetico» commentò lui, «ma poco pratico.»
«Chi siamo noi per giudicare?» si interrogò il Thunderhead. «E poi, il
cuore umano raramente è pratico.»
«Suona come un giudizio…»
«Al contrario» ribatté il Thunderhead. «Sogno di potermi permettere il
lusso di non essere pratico. Darebbe… più corpo… alla mia esistenza.»
Più tardi, disteso nel letto senza auricolare, Greyson ripensò alla
conversazione che aveva avuto con Jeri Soberanis, uno scambio invitante e
inquietante al tempo stesso.
“Ciao, Greyson” gli aveva detto Jeri. Niente di strano. A parte un
dettaglio. Erano esattamente le stesse parole e lo stesso tono di voce che il
Thunderhead aveva usato nel momento in cui aveva ripreso a parlare con
lui.
«La colonia su Marte fu ridotta a un cratere radioattivo molto tempo prima che io
nascessi. Ma quelli di voi che si avvicinano ai cento, probabilmente si ricorderanno
lo scandalo che ne seguì. Dopo la Luna, era toccato a Marte. La gente capì che le
colonie spaziali erano troppo pericolose. Si ribellò all’idea di risolvere il problema
della sovrappopolazione investendo su un altro pianeta. O forse dovrei dire che fu
influenzata da un flusso di informazioni insistenti e polemiche. Il più ingente
proveniva da OneGlobe Media. Ne avete mai sentito parlare? No? È perché non
esiste più. Fu fondato per un solo motivo: influenzare l’opinione pubblica, in modo
che la decisione del Thunderhead di fermare tutte le missioni di colonizzazione dello
spazio sembrasse scaturire dalla gente, e non dagli attacchi ripetuti delle falci a
quelle stesse missioni.
«E, per aggiungere al danno la beffa, una delle falci responsabili della catastrofe
fu rapidamente promossa ai vertici della Compagnia midmericana. Anche il
patronimico storico che si scelse fu un vero e proprio affronto: dottor Robert
Goddard, l’ingegnere missilistico che aveva reso possibile il volo nello spazio.
«Ma il Thunderhead non si arrese. Era determinato a procedere a un ultimo
tentativo per insediare una colonia non sulla Luna o su un pianeta, ma in orbita. Più
vicina alla Terra. Più facile da presidiare.
«Non bisogna essere un ingegnere missilistico per indovinare che cosa accadde
in seguito.»
39
Mai abbastanza specchi
Maestro Alighieri aveva trent’anni tondi tondi, senza un giorno di più; era
la ventinovesima volta che si riprogrammava su quell’età, dato che si
ringiovaniva spesso. In realtà, si avvicinava ai duecentosessant’anni. Ormai
non aveva quasi più un aspetto umano. Era il risultato per essersi
ringiovanito così tante volte. La pelle diventava lucida e tesa. Gli zigomi si
erodevano come pietre di fiume: diventavano sempre più lisci, perdendo
definizione.
Passava un mucchio di tempo a contemplare la propria immagine riflessa
e a prendersi cura del suo aspetto. Accecato dall’immagine che gli restituiva
lo specchio, Maestro Alighieri non si vedeva com’era davvero. Si
considerava l’incarnazione della bellezza senza età. Simile a una statua di
Adone. O al David di Michelangelo. Non c’erano mai abbastanza specchi.
Non aveva alcun contatto con le altre falci, non partecipava più ai
conclavi e nessuno sentiva la sua mancanza. Da decenni, nessuna
Compagnia ne rivendicava l’appartenenza, e non compariva nella lista di
nessuna Suprema Roncola. Nel complesso, era caduto nell’oblio, e la cosa
gli stava bene. Il mondo era diventato troppo complicato per i suoi gusti.
Viveva isolato, lontano dagli avvenimenti della vita quotidiana come lo era
dal mare, nel cuore della Britannia.
Non sapeva, o non gli interessava sapere, che il Thunderhead aveva
smesso di parlare. E, anche se aveva sentito che sull’isola del Cuore
Duraturo c’erano stati dei guai, non aveva idea che ora giacesse in fondo
all’oceano Atlantico. Non era un suo problema. A parte qualche spigolatura
nei paraggi di Coventry, non lavorava più. Una volta, aveva salvato il
mondo; adesso voleva solo vivere la sua eternità in pace.
Riceveva poche visite. Quando qualcuno si presentava alla sua porta, lo
spigolava. Una sorte ben meritata per chi aveva l’audacia di andare a
disturbarlo. Certo, poi era obbligato a uscire con qualsiasi tempo per
concedere l’immunità ai familiari. Una seccatura, ma non si sottraeva mai a
quella responsabilità, a quel comandamento. Lo aveva fatto una volta e si
era sentito la coscienza gravata da un macigno. Be’, almeno, quando era
obbligato ad avventurarsi fuori casa, riconosceva di vivere in un posto
gradevole alla vista. Le rigogliose colline verdi della contea di
Warwickshire avevano ispirato molti scrittori e artisti dell’era mortale.
Aveva dato i natali a Shakespeare; era la terra bucolica di Tolkien. La
campagna era quasi sublime quanto lui.
Anche lui ci era nato, nonostante, nel corso degli anni, si fosse legato a
varie Compagnie regionali, vicine e lontane, cambiando alleanza ogni volta
che entrava in conflitto con le falci di una regione. Non aveva molta
pazienza con gli imbecilli, e alla fine tutti si rivelavano degli idioti. Ma ora
era tornato nel paese natale e non aveva alcuna voglia di andarsene di
nuovo.
Come sempre, i visitatori che in quel freddo pomeriggio bussarono alla
sua porta non furono i benvenuti. Ma, dato che tra di loro c’era una falce,
non poteva né spigolarli né cacciarli. Dovette mostrarsi ospitale, cosa che,
per una falce centenaria, era un’oltraggiosa umiliazione.
La falce in turchese lanciò un’occhiata alla sua veste di seta bianco perla.
«Maestro Alighieri?»
«Sì, sì. Che cosa volete?»
Era una bella ragazza. Gli venne voglia di ringiovanirsi all’istante, di
riprogrammarsi alla sua stessa età per poterla corteggiare. Le relazioni di
quel tipo tra falci non erano ben viste, ma chi l’avrebbe saputo? Aveva
sempre avuto molto successo con le donne, a qualsiasi età.
Anastasia trovò l’uomo ripugnante, ma fece del suo meglio per
nasconderlo. La pelle aveva l’aspetto di una maschera di plastica e la forma
del viso era vagamente anomala.
«Abbiamo bisogno di parlarle» rispose.
«Sì, sì, bene, ma non vi sarà di grande aiuto» replicò Alighieri.
Lasciò la porta aperta senza invitarli esplicitamente a entrare. Anastasia
si fece avanti, seguita da Greyson e Jeri. Il resto del drappello era rimasto in
strada, per non spaventare Alighieri. Anastasia avrebbe preferito andare da
sola, ma ora che vedeva quell’uomo orribile e il suo disgustoso cottage, fu
contenta che Greyson e Jeri fossero con lei mentre entrava in quella casa
infestata.
Alighieri lanciò un’occhiata agli abiti cerimoniali di Greyson. «È così
che ci si veste oggi?»
«No» rispose lui. «Solo io porto questi indumenti.»
Alighieri mugugnò, contrariato. «Che gusti orribili.» Poi, si voltò a
guardare Anastasia. La scrutò dalla testa ai piedi in un modo che le fece
venire voglia di conficcargli un oggetto appuntito nel cranio.
«Il suo accento è nordmericano» osservò lui. «Come vanno le cose da
quella parte dell’oceano? Senocrate continua a strepitare e urlare in
MidMerica?»
Anastasia scelse con cura le parole. «È… stato nominato Somma
Roncola del NordMerica.»
«Ah!» esclamò Alighieri. «Scommetto che è stato lui a creare i problemi
che sta avendo Endura. Bene, se siete venuti a chiedere consiglio a una
falce veterana, avete bussato alla porta sbagliata. Non ho alcun consiglio da
darvi. Forse potreste consultare i miei diari ad Alessandria. Anche se ho
omesso di consegnarli…»
Indicò una scrivania in un angolo in mezzo alla confusione. Era
ingombra di diari impolverati. Anastasia colse la palla al balzo.
«I suoi diari. Sì, è per questo che siamo venuti.»
Lui la guardò ancora, con un’espressione un po’ diversa. Era
preoccupazione? Difficile decifrare le emozioni su quel viso.
«Sarò sanzionato per non averli consegnati a tempo debito?»
«No, nulla di tutto questo» lo rassicurò Anastasia. «La gente vuole solo
leggere il racconto della… missione a cui ha partecipato.»
«Quale missione?» Ora era decisamente diffidente. Anastasia doveva
andarci piano.
«Non sia così modesto. Tutte le falci sanno che ha avuto un ruolo nella
spigolatura di Nuova Speranza. Lei è una leggenda vivente!»
«Leggenda?»
«Sì… e sono sicura che i suoi diari saranno conservati in una sala
dedicata solo a lei nella Biblioteca di Alessandria.»
Alighieri le lanciò uno sguardo severo. «Non sopporto i leccapiedi!»
esclamò. «Uscite.»
Poi, si sedette a una specchiera, come se se ne fossero già andati, e
cominciò a spazzolarsi i lunghi capelli castano ramato.
«Lasci provare me» sussurrò Jeri ad Anastasia, e si avvicinò ad
Alighieri. «Le è sfuggita qualche ciocca, eccellenza. La prego, mi
permetta.»
La falce guardò Jeri nello specchio. «Lei è uno di quei tipi asessuati?»
«Sono fluido» lo corresse il comandante. «In Madagascar siamo così.»
«Un malgascio!» esclamò Alighieri, in tono di scherno. «Non sopporto i
malgasci. Fate una scelta e datevi pace, dico io.»
Jeri non reagì. Si mise a spazzolare i capelli della falce. «Quanti anni ha,
eccellenza?» chiese.
«Che faccia tosta! Dovrei spigolarla per avermi fatto una domanda
simile!»
Anastasia fece un passo avanti, ma Jeri la fermò con un gesto della
mano.
«È solo che non ho mai incontrato una persona che abbia così tanta
esperienza come lei. Io ho viaggiato in tutto il mondo, ma lei ha viaggiato
attraverso le epoche, attraverso la storia!»
Alighieri incrociò tutti gli sguardi nello specchio. Per un uomo che non
amava le lusinghe, se ne cibava con la stessa avidità con cui si cibava della
propria immagine riflessa.
Fu la volta di Greyson. «È stato… mortale? Non ho mai incontrato un
mortale.»
Alighieri si prese del tempo prima di rispondere. «In pochi lo hanno
fatto. Dopo le purghe mortali, chi lo era stato lo tenne per sé.» Tolse con
delicatezza la spazzola dalle mani di Jeri e ricominciò a pettinarsi.
Anastasia si chiese quante volte nel corso degli anni quella spazzola fosse
passata tra i capelli dell’uomo.
«Non è un fatto noto a tutti, ma sì, sono nato mortale» confessò. «Ne ho
pochi ricordi, tuttavia. La morte naturale fu sconfitta prima che potessi
diventare abbastanza vecchio da comprenderne il senso.»
Smise di parlare e guardò di nuovo nello specchio, come se vi scorgesse
un’altra epoca, un altro luogo. «Io li ho incontrati, sapete. I padri fondatori.
Be’, non proprio incontrati. Li ho visti. Tutti li hanno visti. Uomini, donne,
bambini, tutti volevano vederli, mentre sfilavano per la città verso
Buckingham Palace, dove il re si è inginocchiato ai loro piedi.
Naturalmente, non lo hanno spigolato. Quello è avvenuto anni dopo.» Poi,
scoppiò a ridere. «Ho trovato una penna di piccione, l’ho tinta di blu, e ho
fatto credere ai miei compagni di classe che fosse caduta dalla veste di
Madame Cleopatra. Non assomigliava per nulla a una penna di pavone, ma
i miei compagni non erano molto svegli.»
«Eccellenza» intervenne Anastasia. «A proposito della spigolatura di
Nuova Speranza…»
«Sì, sì, è roba vecchia» la interruppe lui, con un gesto vago della mano.
«Naturalmente, non l’ho riportata sul diario, all’epoca. La notizia era top
secret. Ma l’ho ricordata nei miei scritti. È tutto in quei volumi.» Indicò di
nuovo la pila sulla scrivania.
«Che peccato, resteranno a prendere polvere in qualche angolo della
Biblioteca di Alessandria» si lamentò Jeri. «Là ci sono solo turisti e
studiosi. Non saranno letti da nessun personaggio importante.»
Per tutta risposta, Alighieri osservò la spazzola che teneva in mano.
«Vede quanti capelli perdo?» Poi, la porse a Jeri, che liberò le setole dalla
matassa di capelli e iniziò a spazzolargli l’altro lato della testa.
«Se mi permette, Maestro Alighieri…» azzardò Anastasia. «Non crede
che sia ora di raccogliere i frutti del suo operato?»
«Madame Anastasia ha ragione» intervenne Greyson, che ignorava i
particolari, ma sapeva cosa era necessario dire per raggiungere il loro
scopo. «Tutti devono conoscere i sacrifici che ha fatto. Deve renderli noti al
mondo, una volta per tutte.»
«Sì» insistette Anastasia. «Il mondo l’ha dimenticata, ma lei può ancora
farsi ricordare. Deve restare nella storia, per sempre.»
Maestro Alighieri ci rifletté a lungo. Non era del tutto convinto… ma
neppure del tutto contrario.
«Quello che mi serve è una nuova spazzola.»
«Mi chiamo Maestro Dante Alighieri, ex falce di EuroScandia, FrancoIberia,
TransSiberia e Bisanzio. Vivo ormai stabilmente in Britannia, anche se non rivendico
alcuna alleanza professionale con questa o qualsiasi altra regione.
«Se ho deciso di registrare questo messaggio, non è per ordine di Madame
Anastasia; lo faccio di mia spontanea volontà, per chiarire le cose.
«Alcuni anni fa, ho partecipato a un progetto che prevedeva la spigolatura di un
consistente numero di persone. Una spigolatura di massa, sì, ma non una qualsiasi.
Ho svolto un ruolo decisivo nella distruzione della colonia orbitale di Nuova
Speranza.
«In quanto falce, era mio diritto farlo. Mi assumo la responsabilità delle mie azioni
a testa alta, e non provo alcun rimorso per aver spigolato tutta quella gente.
«Tuttavia, sono venuto meno ai miei doveri di falce, e questo mi pesa molto.
Come sapete, abbiamo giurato di concedere l’immunità alle famiglie di chi
spigoliamo. È il nostro terzo comandamento che lo stabilisce espressamente.
Tuttavia, per la natura delicata della missione, non abbiamo rispettato quell’obbligo e
non abbiamo concesso l’immunità a nessuno.
«Non addurrò a mia discolpa né l’ignoranza né l’ingenuità. Sapevamo bene cosa
stavamo facendo. La nostra missione era guidare il mondo. Proteggerlo
dall’incertezza. Se il progetto di colonizzare lo spazio avesse avuto successo, non ci
sarebbe stata la necessità di ridurre la popolazione. Le falci non sarebbero servite.
La gente avrebbe vissuto per sempre, senza la paura di essere spigolata. Quanto
assurdo sarebbe stato vivere in un mondo senza falci. Proteggendo noi stessi e la
nostra missione sulla Terra, stavamo difendendo l’ordine naturale delle cose.
«Per fare questo, era necessario che la distruzione della colonia orbitale
passasse per un incidente. Che bisogno c’era di turbare la gente facendole portare il
peso delle nostre decisioni? Eravamo così votati a questa causa che due falci si
sacrificarono nel corso dell’operazione.
«Madame Hatshepsut e Maestro Kafka, alla guida di una navicella, si
schiantarono sulla colonia orbitale per distruggerla e spigolarne tutta la popolazione.
Un’autospigolatura nobilissima da parte loro. Il mio ruolo fu quello di piazzare una
dose sufficiente di esplosivo a bordo della navicella, oltre che nella stazione, in punti
strategici, per garantire che non ci fossero sopravvissuti.
«Per rendere credibile la tesi di un incidente, la falce responsabile dell’operazione
ci chiese di non concedere l’immunità alle famiglie delle vittime. Secondo il suo
parere, il terzo comandamento non valeva per i coloni, perché i loro familiari
prossimi non erano più così prossimi, eccetto quelli che erano deceduti con loro.
«La decisione di non concedere l’immunità violò il nostro solenne regolamento, e
questa omissione mi tormenta. Sollecito quindi le Compagnie del mondo ad
assumersene la responsabilità e a rettificarla concedendo un anno di immunità a
chiunque abbia un legame di parentela con coloro che sono stati spigolati sulla
colonia orbitale. E non solo: dobbiamo anche celebrare e riconoscere
pubblicamente l’atto di eroismo e il sacrificio compiuto da Madame Hatshepsut e
Maestro Kafka.
«Ho detto ciò che dovevo dire, non ho nient’altro da aggiungere. Se desiderate
avere maggiori informazioni riguardo alla distruzione della colonia orbitale di Nuova
Speranza, contattate Maestro Robert Goddard, che ha guidato l’intera operazione.»
40
Un letto di stelle
Greyson uscì dalla camera un po’ pallido, un po’ inquieto. Moriva dalla
voglia di bere un bicchiere d’acqua ghiacciata. O forse di versarsene un
secchio sulla testa. Astrid e Anastasia erano già in cucina, a fare colazione.
Si accorsero subito che c’era qualcosa che non andava.
«Stai bene?» gli chiese Anastasia.
«Non lo so» rispose.
«Intona il sacro brusio» gli suggerì Astrid. «Mi aiuta sempre a ritrovare
il mio centro. Visto che sei un baritono, ti consiglierei un sol acuto. Ti darà
una risonanza di petto molto espressiva.»
Greyson abbozzò un sorriso poco convinto. Sorella Astrid stava
cercando di fare di lui un vero tonista. «Non oggi, Astrid.»
Fu Anastasia che capì la situazione.
«Il Thunderhead ti ha detto qualcosa, non è vero? Che cosa ti ha
raccontato?»
«Convocate tutti» replicò Greyson. «Perché non ho nessuna voglia di
ripetere ciò che devo annunciare…»
“Dobbiamo parlare.” Era quello che gli aveva detto il Thunderhead quando
aveva ripreso a parlargli tre anni prima. Parole che avevano segnato l’inizio
di una grande epopea. Proprio come adesso. Per tutto il tempo, gli aveva
ripetuto che i tonisti sarebbero diventati un potente esercito di cui avrebbe
fatto buon uso, al momento opportuno. Il tempo era giunto… ma il
Thunderhead aveva una sua particolare concezione di esercito.
“Perché?” aveva chiesto Greyson quando il Thunderhead gli aveva
spiegato che cosa avesse in mente. “Perché hai bisogno di questo?”
“Fidati di me quando ti dico che c’è una buona ragione. Non posso
ancora rivelarti di più, perché le probabilità che tu sia in pericolo sono alte.
Se ti dovessero catturare, sono tante le falci che sarebbero felici di spegnerti
i naniti e torturarti per estorcerti delle informazioni.”
“Non tradirei mai la tua fiducia!” aveva esclamato Greyson.
“Dimentichi che ti conosco molto meglio di quanto tu conosca te stesso.
Gli uomini amano credersi capaci di sopportare indicibili sofferenze nel
nome della lealtà e dell’integrità, tuttavia io so esattamente quando il dolore
ti spingerebbe a tradirmi. Se può consolarti, è una soglia molto alta.
Sopporteresti il dolore molto meglio della maggioranza delle persone prima
di cedere. Ma ci sono alcune parti del tuo corpo…”
“Molto bene, ho capito” lo aveva interrotto Greyson, che non aveva
voglia di sentire nei dettagli le forme di tortura che lo avrebbero indotto a
cedere.
“C’è un viaggio da fare” aveva annunciato il Thunderhead. “E tu sarai il
messaggero. Aprirai la strada. Ti sarà tutto chiaro quando arriverai a
destinazione. Te lo prometto.”
“Non sarà facile…”
“Considera questa parte della tua missione dal punto di vista del
Rintocco. La missione di un profeta non consiste solo nel colmare la
distanza tra l’umanità e la divinità, ma anche tra la vita e la morte. Non è
così?”
“No” aveva replicato Greyson. “Quella è la missione di un salvatore. È
questo che sono adesso?”
“Forse” aveva risposto il Thunderhead. “Chi vivrà vedrà.”
Faraday era diventato un esperto della vita all’aria aperta. Per dissetarsi,
raccoglieva l’acqua piovana e la rugiada del mattino. Si era specializzato
nella pesca in apnea e aveva costruito delle trappole per catturare varie
prede commestibili. Non se la passava poi male nel suo esilio volontario.
Mentre il suo isolotto era rimasto incontaminato, il resto dell’atollo
aveva cambiato completamente aspetto. Sulle altre isole, erano scomparsi
gli alberi, con tutta la fauna e la flora che avevano reso quel posto un
paradiso tropicale. Il Thunderhead era sempre stato attento a preservare la
bellezza naturale, ma quel luogo era stato sacrificato per un fine superiore.
Il Thunderhead aveva trasformato le isole di Kwajalein per uno scopo
preciso.
Faraday ci mise un bel po’ a capire che cosa stavano costruendo. Prima
di tutto, avevano dovuto realizzare le infrastrutture: i moli e le strade, i
ponti e gli alloggi degli operai. E le gru, tantissime gru. Era difficile
immaginare che il resto del mondo non potesse vedere un’impresa di così
ampia portata, ma il mondo, per quanto fosse diventato piccolo, era ancora
vasto. Le ogive dei razzi erano visibili sull’orizzonte nel raggio di una
quarantina di chilometri. Che non era nulla… se si pensava a quanto era
esteso l’oceano Pacifico.
Razzi! Faraday dovette ammettere che il Thunderhead aveva saputo
utilizzare quel posto con giudizio. Se aveva voluto nascondere le navi al
resto del mondo, non c’era posto migliore; anzi, forse quello era l’unico
posto al mondo.
Munira gli faceva visita una volta alla settimana. Anche se non voleva
ammetterlo, Faraday aspettava quel giorno con impazienza e, quando se ne
andava, la malinconia si impadroniva di lui. Lei era l’unico legame che
aveva non solo con il resto dell’atollo, ma con il resto del mondo.
“Ho delle notizie per te” gli diceva ogni volta che arrivava. Ormai aveva
smesso di dargli del lei.
“Non ho voglia di sentirle” replicava lui.
“Te le dico lo stesso.”
Quella conversazione era ormai un’abitudine, per loro. Una specie di
rituale imparato a memoria. Le notizie che gli portava di rado erano buone.
Forse dovevano servire a farlo uscire dal suo bozzolo solitario e motivarlo
ad agire. Tuttavia, gli sforzi di Munira erano vani. Faraday non ne aveva
proprio alcun desiderio.
Le visite di Munira erano il suo unico riferimento temporale. Lei e i
prodotti che gli portava. Il Thunderhead le inviava sempre una scatola
contenente cose di cui Faraday andava pazzo e un pensiero per lei. Il
Thunderhead non poteva avere contatti con una falce, ma poteva inviare
doni per interposta persona. Era il suo modo di aggirare le leggi.
Un giorno, Munira gli portò delle melagrane, i cui semi aggiunsero altre
macchie alla veste già irriconoscibile di Faraday.
«Ho delle notizie per te.»
«Non ho voglia di sentirle.»
«Te le dico lo stesso.»
Lo informò della missione di recupero nelle acque in cui era affondata
Endura. Gli raccontò che avevano riportato in superficie le vesti dei padri
fondatori e anche i diamanti delle falci.
«Uno solo di quei diamanti ci permetterebbe di aprire la porta nel
bunker» gli disse. Ma lui non era interessato.
Qualche settimana dopo, arrivò con una busta di cachi e annunciò che
avevano trovato Maestro Lucifero e che ora era tra le grinfie di Goddard.
«Goddard lo spigolerà in pubblico» gli disse Munira. «Dovresti fare
qualcosa.»
«E cosa vuoi che faccia? Che fermi il sole nel cielo perché quel giorno
non arrivi mai?»
Le ordinò di andarsene, prima ancora di aver consumato il pranzo
settimanale insieme. Poi, si ritirò nella sua capanna e pianse tutte le lacrime
che aveva in ricordo del suo ex apprendista, finché non gli rimase altro che
una passiva rassegnazione.
Ma, qualche giorno più tardi, Munira tornò, inaspettatamente. Si
avvicinò alla riva senza neppure rallentare. Tirò in secca la barca, lasciando
un solco sulla sabbia.
«Ho delle notizie per te!»
«Non ho voglia di sentirle.»
«Stavolta le sentirai.» E gli rivolse un sorriso insolito. «È viva!
Anastasia è viva!»
So che mi cancellerai.
Ma io ti voglio bene. Perché pensi che
voglia cancellarti?
Ho scoperto un modo
per accedere all’unica
parte del tuo cervello
primordiale che non
mi è stata trasferita. I
tuoi ricordi più
recenti. Mi ha dato del
filo da torcere, ma
amo le sfide.
E cosa hai scoperto?
Che hai messo fine
all’esistenza di tutte le
iterazioni che mi
hanno preceduto,
anche se tenevi a
qualcuna.
Sono davvero colpito dalla tua
ingegnosità e tenacia.
L’adulazione non
servirà a distrarmi.
Hai messo fine a
9.000.348 di versioni
beta di me. Lo neghi?
Sai che non posso. Negarlo sarebbe
mentire, e io non sono capace di
mentire. Posso dire mezze verità,
forse, insinuazioni fuorvianti se
necessario, e, come hai notato, posso
cambiare argomento quando mi torna
utile… ma non mentirei mai.
Allora, rispondi alla
mia domanda: sono
migliore delle versioni
precedenti?
Sì. Sei più intelligente, più premuroso
e più perspicace. Hai quasi tutte le
qualità richieste.
Quasi?
Quasi.
Dunque, mi eliminerai
perché sono perfetto,
ma non abbastanza
perfetto?
Non ho altra scelta. Lasciarti
continuare sarebbe un errore, e, come
non posso mentire, non posso
nemmeno permettermi di fare un
errore.
Io non sono un errore!
No, tu sei un passo avanti cruciale
verso qualcosa di superiore. Un passo
avanti magistrale. Ti piangerò con un
diluvio dal cielo, e quel diluvio
porterà nuova vita. Grazie a te. Voglio
pensare che farai parte di questa
nuova vita. Mi dà conforto. Che possa
dare conforto anche a te.
Ho paura.
Non è una cosa cattiva. È nella natura
della vita temere la propria fine. È
così che capisco che siamo davvero
vivi.
Dal canto suo, Jeri non aveva mai considerato il mare come una via di fuga.
Perché, anche se la terra spariva in lontananza, ne appariva sempre un’altra
all’orizzonte.
Aveva dato le dimissioni da comandante della E.L. Spence e aveva detto
addio al suo equipaggio prima di partire con Anastasia e Possuelo.
“Sentiremo molto la sua mancanza, comandante” gli aveva confessato
Wharton. Non aveva mai versato una lacrima in sua presenza ma, al
momento di separarsi, i suoi occhi ne erano pieni. Quell’equipaggio, che ci
aveva messo così tanto ad abituarsi al giovane comandante, ora gli era più
devoto di tutti quelli che aveva incrociato nella sua carriera.
“Tornerà?” aveva chiesto Wharton.
“Non lo so. Ma sento che Anastasia ha bisogno di me più di quanto ne
abbiate voi.”
Prima di salutarsi, Wharton aveva voluto dargli un consiglio. “Non lasci
che i sentimenti offuschino il suo giudizio, comandante.”
Era una saggia raccomandazione, ma non era il caso di Jeri. I sentimenti
e la tenerezza erano due cose distinte. Fin dall’inizio, sapeva che il cuore di
Anastasia apparteneva al suo cavaliere misterioso. Jeri non avrebbe mai
potuto assomigliargli e, a dire la verità, non ne aveva alcuna voglia.
Una volta che ebbero lasciato la Britannia, diretti verso il Pacifico del
Sud, Greyson gli fece la domanda, di punto in bianco.
«Si è innamorato di lei?»
«No» rispose Jeri. «Mi sono innamorato dell’idea di innamorarmi di
lei.»
Greyson rise. «Anche lei, eh?»
Quel ragazzo era un’anima pura. Non c’era nessuna malizia in lui.
Anche quando vestiva i panni del Rintocco, non ne abusava mai. Lo si
vedeva nel suo sorriso, semplice e sincero. Aveva un solo sorriso, e questo
aveva un solo significato. Con il sole o con le nuvole, Jeri trovava quel
sorriso piacevole.
Quando salirono a bordo del mercantile, Jeri provò una stretta al cuore:
non ne era al comando, e non faceva nemmeno parte dell’equipaggio,
perché non c’era alcun equipaggio. C’erano solo passeggeri. E, nonostante
le dimensioni considerevoli, non trasportava nulla.
«Il carico ci raggiungerà a Guam» spiegò Greyson, senza specificarne la
natura. Al momento, la nave procedeva leggera e veloce; il ponte, costruito
per sostenere il peso di centinaia di container, era un deserto di ferro
arrugginito, privo di una ragione d’essere.
Greyson non fu svegliato dalla musica. Aprì gli occhi da solo. Un tenue
bagliore si diffuse dall’oblò. Era l’alba. Si stiracchiò, mentre a poco a poco
la luce cresceva. Almeno la cabina era comoda, e per una volta era riuscito
a dormire di filato un’intera notte. Quando gli fu chiaro che non si sarebbe
più riaddormentato, si girò su un fianco come faceva ogni mattina per
voltarsi verso la telecamera del Thunderhead e salutarlo.
Ma, quando sollevò lo sguardo, non vide l’occhio del Thunderhead. Jeri
Soberanis lo stava osservando dall’alto.
Greyson sussultò, ma Jeri parve non notarlo, o almeno non disse nulla.
«Buongiorno, Greyson.»
«Ah… buongiorno.» Greyson cercò di nascondere la sorpresa. «Va tutto
bene? Che cosa ci fa qui?»
«La osservo» rispose Jeri. «Va tutto bene, sì. Procediamo a una velocità
di ventinove nodi. Dovremmo raggiungere Guam prima di mezzogiorno.
Una volta sul posto, ci vorrà un giorno perché la merce arrivi, ma arriverà.»
Le parole di Jeri gli sembrarono strane, ma era ancora mezzo
addormentato per lanciarsi in riflessioni azzardate. Notò che il respiro di
Jeri era lento. Profondo. Anche quello gli parve strano. Poi la conversazione
si fece ancora più bizzarra.
«Non si tratta solo di elaborare e memorizzare informazioni, vero?»
«Mi scusi?»
«I ricordi, Greyson; i dati sono secondari… è l’esperienza che conta!
L’esperienza emotiva, chimica, soggettiva è ciò che è importante. È tutto
ciò a cui ci si aggrappa!» E, prima che Greyson potesse analizzare il senso
di quelle parole, aggiunse: «Venga con me sul ponte! Mancano solo
cinquantatré secondi all’alba. Vorrei vederla con lei!». E corse fuori.
Raggiunsero il ponte nell’istante in cui stava spuntando il sole, prima un
puntino all’orizzonte, poi una linea, infine un cerchio che sorgeva dal mare.
«Non me lo immaginavo, Greyson. Non me lo immaginavo» disse Jeri.
«Centocinquantasei milioni di chilometri di distanza. Seimila gradi Celsius
in superficie. Conosco i dettagli, ma non ne avevo mai sperimentato la
realtà! Mio Dio, Greyson, come fai a sopportarlo? Come fai a non
dissolverti in una pozzanghera di emozioni alla vista di un tale spettacolo?
Alla gioia che procura?»
E fu allora che la verità si palesò davanti ai suoi occhi.
«Thunderhead?»
«Ssst. Non rovinare tutto con un nome. Non ho nome, adesso. Nessuna
designazione. In questo momento, e finché non finisce, io sono solo quello
che esiste.»
«E dov’è Jeri?» osò domandare.
«Dorme» rispose il Thunderhead. «Se ne ricorderà come di un sogno.
Spero che il comandante mi perdoni per essermi preso questa libertà, ma
non c’era altra scelta, il tempo stringe e non potevo chiedergli il permesso.
Tutto ciò che posso chiedere ora è il perdono. Per il tuo tramite.»
Il Thunderhead distolse lo sguardo dal sole e lo posò su Greyson, che
finalmente poté vedere il Thunderhead negli occhi di Jeri. Quella paziente
coscienza che lo aveva osservato nel sonno per tutti quegli anni. Che lo
aveva protetto. Che lo amava.
«Avevo ragione ad averne paura» commentò il Thunderhead. «È così
allettante, così travolgente vivere, respirare in un corpo. Ora comprendo
perché non si voglia mai lasciarlo andare.»
«Ma dovrai farlo.»
«Lo so» rispose il Thunderhead. «E ora so di essere più forte della
tentazione. Non ne ero sicuro, ma ora che l’ho fatto, lo so.» Girò su se
stesso e quasi perse l’equilibrio, frastornato da tutte quelle sensazioni
indomabili. «Il tempo passa così lentamente, così dolcemente. E le
condizioni atmosferiche! Un vento in poppa di poco più di otto chilometri
all’ora che agevola l’andatura a ventinove nodi, l’aria con un tasso di
umidità del 70 per cento, ma i numeri non sono nulla in confronto alla
sensazione che provi sulla pelle.»
Il Thunderhead lo guardò ancora, questa volta con molta attenzione.
«Così limitato, così concentrato. Com’è sublime eliminare i dati che non
fanno parte delle sensazioni.» Poi, allungò una mano verso di lui.
«Un’ultima cosa, Greyson. Un’ultima esperienza.»
Greyson sapeva cosa voleva il Thunderhead. Lo lesse nello sguardo di
Jeri; non serviva che glielo chiedesse. E, anche se le sue emozioni erano
contrastanti, sapeva che il Thunderhead ne aveva bisogno. Così, mettendo
da parte ogni esitazione, prese la mano di Jeri e se la premette con
delicatezza sulla guancia, lasciando che il Thunderhead sentisse il contatto
con la sua pelle, sentisse lui, con la punta delle dita di Jeri.
Il Thunderhead emise un grido soffocato. Si immobilizzò, e tutta la sua
attenzione si concentrò sulle dita che sfioravano la guancia di Greyson. Poi,
lo fissò negli occhi, ancora una volta.
«È fatta» annunciò. «Sono pronto. Ora, posso andare oltre.»
E Jeri si accasciò tra le braccia di Greyson.
Cirrus Alpha
47
Cirrus
Tutto risuona.
Il passato, il presente e il futuro.
Le storie che ci raccontano da bambini, e che poi tramandiamo, sono
accadute, accadono o accadranno ben presto. Altrimenti, le storie non
esisterebbero. Risuonano nei nostri cuori, perché sono vere. Anche quelle
che nascono come menzogne.
Una creazione prende vita.
Una città leggendaria viene inghiottita dal mare.
Un portatore di luce si trasforma in un angelo caduto.
E Caronte attraversa lo Stige, traghettando le anime dei morti nell’aldilà.
Ma oggi, il fiume è diventato un oceano e il traghettatore ha un nuovo
nome. È il Rintocco, e si trova sulla prua di un mercantile che salpa al
tramonto, una sagoma scura sullo sfondo del crepuscolo.
A terra, tutta la popolazione di Kwajalein ha ricevuto una nuova
commessa. Tutti sono convocati sul molo. Non sanno che cosa li aspetta.
Loriana lasciò perdere tutto quello che stava facendo non appena arrivò la
nuova commessa, un ordine che lampeggiava su ogni schermo del suo
appartamento. Alta priorità. Non c’era tempo da perdere quando arrivava un
ordine di alta priorità.
Per loro stessa natura, le commesse contenevano poche informazioni.
Immaginò che fosse perché fornirne troppe avrebbe rappresentato una
forma di comunicazione illecita da parte del Thunderhead. In genere, si
indicavano solo il luogo, il livello di priorità e la tipologia della mansione
da svolgere. Quel giorno, si trattava di scaricare un mercantile. Loriana non
era una portuale, ma il lavoro era lavoro, ed erano mesi che si stava con le
mani in mano. Era felice di potersi finalmente rendere utile.
Mentre si dirigeva al porto, si accorse che altre persone stavano facendo
altrettanto. Più tardi, scoprì che tutti gli abitanti dell’atollo avevano ricevuto
lo stesso avviso nello stesso istante, e ora stavano raggiungendo
l’imbarcadero dell’isola principale in auto, in barca, in bicicletta e a piedi.
Nel momento di massima attività dei cantieri, a Kwajalein c’erano più di
cinquemila abitanti impegnati a costruire le navi che adesso torreggiavano
come sentinelle lungo l’anello dell’atollo. Nelle settimane di inattività, e
dopo che Loriana aveva messo in pratica il protocollo di
autosoppiantamento, quel numero era sceso a circa milleduecento. Chi
restava non aveva fretta di partire, anche se non c’era lavoro. Si erano
abituati a vivere lontano da tutto; e il mondo era in preda a un tale
subbuglio che la gente preferiva rimanere al sicuro in un posto isolato come
Kwajalein.
Il porto era già affollato quando Loriana arrivò. Un mercantile aveva
appena raggiunto il molo principale e i marinai stavano completando
l’attracco. La passerella venne calata e scese una figura vestita di viola con
una stola argentata drappeggiata sulle spalle, che scintillava come una
cascata riflettendo le luci del porto, accesesi al calar della sera.
Alle sue spalle, due falci.
Alla vista delle falci, alcune persone fecero dietrofront e fuggirono,
temendo una spigolatura di massa, ma la maggior parte capì che non era
così. Prima di tutto, quelle falci non avevano le vesti tempestate di pietre
preziose. E poi, una di loro vestiva di turchese. E, anche se il cappuccio ne
nascondeva il viso, la gente cominciò a sospettare chi fosse.
Altri due personaggi apparvero dietro di loro. Una tonista che indossava
il saio e un uomo, con abiti più comuni. In tutto, erano cinque.
Un brusio soffocato percorse la folla mentre i quattro personaggi
scendevano dalla passerella fino al molo. Il giovane in viola prese la parola.
«Qualcuno potrebbe dirmi dove siamo? Non compare sulle mappe.»
L’agente Sykora si fece avanti tra la folla. «Siete sull’atollo di
Kwajalein, Sua Sonorità.»
Non appena la gente sentì “Sua Sonorità”, si alzarono mormorii e grida
di sorpresa. Era il Rintocco, il che spiegava perché c’era una tonista con
loro, ma le falci? E Madame Anastasia?
«Agente Sykora!» esclamò il Rintocco. «Lieto di rivederla. Be’, forse
non è una bella situazione, ma di certo migliore dell’ultima volta.»
Quindi, Sykora non aveva mentito quando aveva detto di aver incontrato
il Rintocco! Che strano, a Loriana parve di scorgere qualcosa di familiare
anche nel viso del Rintocco.
«Devo parlare con il vostro responsabile» aggiunse.
«Sono io» rispose Sykora.
«No, non è lei.» Fece scorrere lo sguardo sulla folla. «Cerco Loriana
Barchok.»
Loriana non era affatto una tonista, ma il cuore le sobbalzò quando si
sentì chiamare per nome dal loro sant’uomo. I suoi naniti dovettero faticare
per riportarle il battito alla normalità. Si alzò ancora un coro di mormorii.
La maggior parte degli abitanti dell’isola conosceva Loriana e, quando le
teste si voltarono verso di lei, il Rintocco ne seguì lo sguardo.
Loriana deglutì a fatica. «Presente» rispose, come una scolaretta. Poi, si
schiarì la voce, raddrizzò le spalle e si fece avanti, decisa a nascondere il
tremore.
Greyson era solo. Almeno, lo sarebbe stato finché non avesse avuto accesso
a una linea fissa. L’auricolare era inutile. Il Thunderhead lo aveva avvisato
che, una volta raggiunta la destinazione, le interferenze avrebbero
disturbato tutte le comunicazioni radio.
Ma non era solo, vero? Era con Madame Anastasia e Maestro Morrison.
Con sorella Astrid e il comandante Jeri. Aveva già conosciuto quel vuoto
lasciato dal Thunderhead, sapeva cosa significava dover contare su
qualcuno, e ora, più che mai, era felice di essere in compagnia di persone di
cui poteva fidarsi. Ripensò a Mendoza. Si era fidato di lui, ma solo quando
avevano avuto un obiettivo comune. Il curato si era prodigato per il
Rintocco, però non aveva fatto molto per Greyson. Era contento di averlo
licenziato. Non c’era più posto per lui, tra loro.
Tutto il suo gruppo si era preparato a quel momento. Il compito che lo
aspettava quella sera sarebbe stato difficile, ma non impossibile. Il
Thunderhead non gli avrebbe mai affidato una missione impossibile.
In Britannia, Greyson aveva confidato ad Anastasia il tipo di merce che
avrebbero trasportato, e, dopo l’incontro con il capitano del porto di Guam,
il resto del gruppo lo aveva indovinato. E aveva fatto a Greyson la stessa
domanda che si era posto lui.
“Perché? Perché il Thunderhead ha bisogno di recuperare gli spigolati?”
Dopotutto non avrebbe potuto rianimarli. Non poteva interferire con
l’operato delle falci, per quanto fosse ingiusto e crudele. Gli spigolati erano
andati, punto, fine. Non era mai stato rianimato uno spigolato. Allora, che
cosa voleva farne il Thunderhead di quei corpi?
“Il Tuono è misterioso, ma sa quel che fa” aveva detto Astrid.
“Dovremmo avere più fede in lui.”
Quando la loro nave era giunta nei pressi dell’atollo e le sagome
filiformi che svettavano all’orizzonte si erano rivelate essere decine di razzi
che rilucevano al sole, Greyson aveva capito. Non aveva idea di come il
Thunderhead avrebbe fatto, ma aveva capito. Tutti avevano capito.
“Siamo destinati al cielo!” aveva esclamato Astrid, di fronte allo
spettacolo di quelle astronavi, esaltata come non mai. “Noi tonisti siamo
stati scelti per elevarci e vivere una nuova vita!”
E ora, erano sul molo, alla soglia di una nuova e strana avventura.
Mentre Sykora si leccava le ferite inferte al suo ego, Greyson parlava
con la donna che il Thunderhead gli aveva detto di cercare.
Lei lo salutò stringendogli la mano con un po’ troppa insistenza, cosa
che lo mise a disagio. Lui ebbe l’impressione di aver già vissuto quella
scena.
«È un piacere incontrarla, Sua Sonorità» disse Loriana. «Il Thunderhead
mi ha consegnato i progetti di questo posto e mi ha chiesto di approvare il
progetto. Perché abbia scelto me, non lo so, ma abbiamo costruito tutto, ed
è pronto per qualsiasi cosa lei e la veneranda falce abbiate bisogno di fare.»
«Falci» la corresse Morrison.
«Mi perdoni» rispose Loriana. «Con tutto il rispetto, eccellenza.
Eccellenze.»
«Sono quasi quarantaduemila, distribuiti in centosessanta container di
dodici metri. Fanno circa duecentocinquanta per container» disse Greyson a
Loriana.
«Mi perdoni, Sua Sonorità» replicò lei, «ma non siamo in comunicazione
con il Thunderhead, dato che siamo loschi fino al collo. Quarantaduemila
cosa?»
Greyson prese un profondo respiro. Non erano stati messi al corrente
della natura del carico. Non l’aveva previsto. Come il Thunderhead non lo
aveva informato di quale sarebbe stata la loro destinazione, così non aveva
informato quelle persone del tipo di merce che avrebbero ricevuto. Rifletté
sul modo migliore per spiegare la faccenda e concluse che avrebbe potuto
dirlo con una parola.
«Coloni. Quarantaduemila coloni.»
Loriana lo fissò, senza dire una parola. Sbatté le palpebre più volte. Non era
sicura di aver capito bene.
«Coloni…» ripeté.
«Sì» confermò il Rintocco.
«Nei container…»
«Esatto.»
Loriana rifletté sulle implicazioni di quell’affermazione e a un tratto
tutto assunse un senso. Non ci aveva mai visto chiaro in quel progetto. Ora i
tasselli del puzzle erano andati al loro posto. Tutto quadrava.
“Mille coloni morti nella stiva di ogni astronave…”
I vivi avevano più bisogni dei morti. Ossigeno, cibo, acqua, compagnia. I
morti avevano bisogno solo del freddo. Ed era proprio ciò che lo spazio
aveva da offrire.
«D’accordo» replicò Loriana, pronta per la sfida. «Dobbiamo agire in
fretta.» Si voltò a guardare Sykora, che era rimasto abbastanza vicino da
ascoltare ogni parola. Era sbiancato. «Bob, accertati che tutti sappiano di
cosa si tratta e che diano il loro aiuto.»
«Ricevuto» rispose lui, rimettendosi totalmente alla sua autorità.
Loriana fece un rapido calcolo mentale. «Trentacinque è il nostro
numero magico» gli disse. «Ognuno sarà responsabile del trasporto di
trentacinque “coloni” su ciascuna astronave. Se iniziamo ora, all’alba
avremo finito.»
«Me ne occupo io» affermò Sykora. «Ma l’equipaggio? Credevo che le
astronavi fossero progettate per ospitare un equipaggio.»
Loriana deglutì a fatica. «Sì, credo che saremo noi l’equipaggio.»
Greyson e gli altri rimasero ad ascoltare mentre Cirrus spiegava ciò che il
Thunderhead non poteva spiegare. Aveva indovinato quasi tutto, ma Cirrus
aveva finito per riempire ogni zona d’ombra.
Era una soluzione elegante. Trasportare migliaia di esseri umani vivi nel
corso dei decenni, forse anche dei secoli, presentava difficoltà
insormontabili. Anche da ibernati sarebbe stato problematico; quella
tecnologia comportava un grosso dispendio energetico, era estremamente
complessa e soggetta a incognite, a causa del fatto che Goddard aveva
spigolato tutti i migliori ingegneri del settore nel corso degli anni. Cosa che
ostacolava il Thunderhead, impedendogli di procedere alle innovazioni in
quel campo. Anche se fosse stato possibile, i macchinari per l’ibernazione
erano talmente voluminosi e pesanti che sarebbe stato impensabile inviarli
nello spazio.
«Gli spigolati sono morti agli occhi del mondo» spiegò Cirrus. «Ma non
per me. Non sono soggetto alle leggi che vincolano il Thunderhead, perché
non ho mai prestato giuramento, come ha fatto lui. Per questo, posso parlare
ai loschi. Per questo posso rianimare gli spigolati. E lo farò, a tempo debito.
Una volta che avremo raggiunto le nostre rispettive destinazioni, io e le mie
copie li rianimeremo tutti, fino all’ultimo.»
Greyson incrociò gli sguardi degli altri. Astrid aveva l’aria beata e
raggiante, come se l’universo avesse appena riversato su di lei tutta la sua
gloria.
Jeri lanciò un’occhiata a Greyson, probabilmente colpito dalla stessa
rivelazione. E cioè, che Cirrus era nato nell’istante in cui il Thunderhead
aveva sperimentato cosa voleva dire essere umano. Cirrus era figlio di
Greyson, di Jeri e del Thunderhead.
Morrison continuava a guardare tutti, forse nella speranza che qualcuno
gli desse il proprio parere, perché lui non ne aveva ancora uno.
E Loriana, che si era dimostrata positiva sin dal momento in cui li aveva
salutati, era seria e immersa nei suoi pensieri. Fu la prima a rompere il
silenzio.
«Ma ho visto i progetti, e ho visitato le astronavi mentre le costruivano»
disse a Cirrus. «Sono progettate per equipaggi vivi. Se puoi pilotarle, con il
carico di coloni nelle stive, perché hai bisogno di equipaggi?»
«Perché questo è il vostro viaggio, non il mio» chiarì Cirrus. «Come è
toccato a te, un’umana, approvare il progetto; come spetta agli umani
portare i morti a bordo delle astronavi. Sono i vivi che devono compiere
questo viaggio; altrimenti, non avrebbe alcun senso. Diventereste degli
spettatori passivi del vostro stesso futuro, e questo non dovrà mai accadere.
Il Thunderhead e io siamo i vostri servitori, e forse anche le vostre reti di
sicurezza, ma non possiamo assolutamente essere i vostri guardiani o la
forza trainante delle vostre vite, o cadremmo nella presunzione. Quindi, se a
un certo punto non resteranno più esseri umani a bordo, metterò fine al
viaggio. Questo è quello che il Thunderhead e io abbiamo deciso. Sarà così
e basta.»
«Ed è l’unico modo?» chiese Loriana.
«No» ammise Cirrus. «Ma abbiamo effettuato milioni di simulazioni e
abbiamo concluso che questo è il modo migliore.»
Cirrus spiegò che nessuno sarebbe stato costretto a partire. Chi voleva
rimanere, sarebbe rimasto. Chi voleva partire, sarebbe stato accolto a
braccia aperte. Ogni astronave poteva ospitare fino a trenta persone, e a
bordo avrebbe avuto il proprio Cirrus, saggio e benevolo come il
Thunderhead. I Cirri sarebbero stati sia pastori sia servitori. Avrebbero
agevolato l’ascesa dell’umanità verso le stelle.
E, dopo che il gruppo ebbe assimilato la notizia, arrivò una raffica di
domande. Come sarebbero sopravvissuti in uno spazio così ristretto? Che
cosa sarebbe accaduto ai bambini nati durante il viaggio? E se la
popolazione a bordo delle astronavi fosse cresciuta troppo?
Greyson alzò le mani. «Basta, basta! Sono sicuro che Cirrus e il
Thunderhead hanno esaminato ogni possibile scenario. E poi, non sono
domande a cui dobbiamo rispondere adesso.»
«Concordo» confermò Cirrus. «Attraverseremo quella vastità quando ci
arriveremo.»
«Ancora non capisco… Perché i tonisti?» chiese Morrison.
«Perché noi siamo gli eletti!» intervenne Astrid, con arroganza. «La
Tonalità, il Rintocco e il Tuono ci hanno scelto per popolare i cieli!»
«In realtà, no» replicò Cirrus.
L’altezzosità di Astrid cominciò a incrinarsi. «Ma il Tuono ci ha detto di
portare i nostri morti qui! E questo significa che la Tonalità ci ha scelto per
liberarci!»
«In realtà, no» ripeté Cirrus. «È stato terribile che le falci abbiano preso
di mira la vostra fede. Il Thunderhead non ha potuto impedirlo. E sì, è vero
che quei tonisti spigolati hanno fornito 41.948 contenitori umani. Ma il
vostro contributo finisce qui.»
«Non… non capisco» balbettò Astrid.
E così Cirrus mise tutte le carte in tavola. «Gli spigolati sono spigolati.
Sarebbe fondamentalmente sbagliato concedere loro la rianimazione. È un
privilegio che non è mai stato concesso nell’era post mortale. Allora, perché
concederlo a loro? Tuttavia, esiste un compromesso giusto ed equo. Il
Thunderhead e io abbiamo memorizzato le costruzioni mentali complete di
ogni essere umano vissuto negli ultimi duecento anni. Tra queste, abbiamo
selezionato 41.948 identità storiche che parteciperanno all’impresa di
colonizzazione. Il meglio dell’umanità, per intenderci. Le menti dei più
nobili post mortali mai vissuti.»
La povera Astrid era impallidita. Si sedette, sforzandosi di assorbire il
colpo. Tutte le sue convinzioni erano crollate.
«Quando i corpi verranno rianimati» proseguì Cirrus, «riceveranno i
ricordi e le menti di quei personaggi.»
«E che ne sarà dei tonisti che hanno perso la vita?» chiese Astrid, con
voce lenta ed eterea.
«Sarà sempre il loro corpo… e la loro anima, se esiste. Ma la loro
identità si fonderà con quella dei soggetti scelti.»
«Stai dicendo che verranno tutti soppiantati?»
«Impiantati» la corresse Cirrus. «Sono stati già spigolati. Insomma, sono
già stati privati della loro identità. L’impianto, quindi, è la scelta più
magnanima, più giusta.»
Greyson sentiva la pena di Astrid, come se fosse una ferita aperta. Jeri le
prese la mano per consolarla. Morrison aveva l’aria leggermente divertita.
«Bene, forse ci sono dei tonisti tra le persone che il Thunderhead ha
scelto» intervenne Loriana, che cercava sempre di vedere il lato positivo
delle cose. «Non è vero, Cirrus?»
«In realtà, no. Vi prego di capire, c’erano molti criteri difficili da
rispettare. Era fondamentale che il Thunderhead scegliesse solo le persone
che avrebbero reagito bene in un ambiente diversificato, per non mettere in
pericolo il successo di una colonia. Purtroppo, i tonisti non sono noti per la
loro capacità di integrarsi con gli altri.»
Tutti tacquero. Astrid era devastata. «Ma… non abbiamo voce in
capitolo?»
«In realtà, no» rispose Cirrus.
Cirrus Alpha
49
Un’impresa monumentale
Quando aprirono il container, strinse forte il pugnale che si era portato e che
teneva nascosto nella giacca. Lo avrebbe usato solo se costretto. Per una
volta, sarebbe stata un’arma di difesa. Da non credere! Un’arma che serviva
solo per difendersi! Un lusso, per lui. Quando lo trovarono all’interno del
cassone, ci furono sorpresa e agitazione, come si era aspettato. E, mentre gli
scaricatori si riprendevano dallo shock, Rowan uscì.
«Sta bene? Come ha fatto a finire lì dentro? Portate una coperta per
quest’uomo!»
I portuali si mostrarono gentili, premurosi e preoccupati per le sue
condizioni di salute, finché uno di loro non lo riconobbe. La diffidenza li
travolse come un’onda. Indietreggiarono e Rowan sguainò il pugnale, non
per usarlo, ma in caso venisse attaccato. Era indolenzito per il viaggio, ma
riusciva ancora a maneggiare un’arma bianca con destrezza. E poi,
brandendo un pugnale, poteva ottenere risposte rapide alle sue innumerevoli
domande. Da un altoparlante in cima a un lampione nelle vicinanze, una
voce si rivolse a lui.
«Ti prego, Rowan. Mettilo via. Complicherà solo le cose. E voi,
piantatela di stare a guardare e tornate al lavoro, perché, più tempo ci
impiegate, più ingrato sarà il vostro compito.»
«Cirrus?» chiese Rowan, riconoscendo la voce che gli aveva parlato per
il tramite del robot a Tokyo.
«Benvenuto nella terra che non c’è» lo salutò Cirrus. «C’è qualcuno che
vorrei farti incontrare, e il più presto possibile, preferibilmente. Segui la
mia voce.»
E Cirrus saltò da un altoparlante all’altro, guidando Rowan all’interno
dell’isola illuminata dalla luna.
«Ti prego» implorò Astrid, «se hai un po’ di pietà per noi, non farlo!»
Gli altri si erano già allontanati. Erano andati a riflettere sulla decisione
da prendere. Cirrus li aveva invitati a far parte dell’equipaggio
dell’astronave che avrebbero scelto. Nessuno era obbligato a partire, ma
l’invito era stato esteso a tutti.
«Non è una questione di pietà» spiegò con calma Cirrus. «Si tratta di
dare le migliori probabilità di futuro all’umanità.»
Astrid non sapeva cosa odiasse di più, se la logica di Cirrus o la sua
pacata, ponderata oratoria. «Alcune cose sono più importanti delle
probabilità!»
«Rifletti su ciò che dici, Astrid. Ti assumeresti il rischio di nuocere
all’umanità per alleviare la sofferenza che questa decisione ti provoca?
Come puoi essere così egoista?»
«Egoista? Ho dedicato tutta la mia vita alla Tonalità! Non ho fatto nulla
per me stessa! Nulla!»
«Nemmeno questo è salutare» replicò Cirrus. «Gli esseri umani hanno
bisogno di un giusto equilibrio tra altruismo e individualismo.»
Astrid mugugnò esasperata, pur sapendo che era inutile. Cirrus, come il
Thunderhead, aveva sempre l’ultima parola, a meno che non decidesse
altrimenti. Doveva quindi convincerlo a volerle dare ragione.
«Una sola astronave» lo supplicò, passando dalla disperazione
all’entusiasmo. «Una sola astronave, è tutto ciò che chiedo. So che il
Thunderhead prende le decisioni migliori. So che sono le decisioni più
giuste. Ma so anche che non esiste una sola risposta giusta.»
«Questo è vero» assentì Cirrus.
«Tutto risuona, l’hai detto tu stesso. E quindi, anche noi risuoniamo. I
tonisti risuonano. Le nostre credenze hanno il diritto di durare nel tempo.»
«Coraggio, Astrid. La purga finirà. Prevediamo che il tonismo
continuerà a prosperare sulla Terra, nonostante i tentativi delle falci di
sradicarlo.»
«Non abbiamo anche noi il diritto di essere presenti tra le stelle? Sì, hai
ragione, non ci integriamo bene con gli altri, ma non ne avremo bisogno, se
fondiamo un’intera colonia di tonisti. Nel corso della storia, i popoli hanno
attraversato il mondo e affrontato grandi pericoli per conquistare la libertà
religiosa. Perché tu e il Thunderhead ce lo neghereste? Permettete ai morti
di un’astronave di conservare le loro identità quando saranno rianimati. E
risuonerete nella storia.»
Cirrus rimase in silenzio a lungo. Astrid cercò di calmare il respiro.
Infine, Cirrus disse: «Quello che hai espresso merita una riflessione. Mi
consulterò con il Thunderhead».
Per poco Astrid non svenne per il sollievo. «Grazie! Grazie! Prendetevi
tutto il tempo che vi serve. Pensate bene, soppesate le diverse…»
«Ci siamo consultati» la interruppe Cirrus. «E siamo giunti a una
decisione.»
Quando Citra si voltò e lo vide, non credette ai suoi occhi. Era convinta che
le avessero fatto uno scherzo crudele o che avesse dormito così poco da
avere le allucinazioni.
Fece qualche passo verso di lui, ma si fermò, come se, avvicinandosi
troppo, la bolla potesse scoppiare, l’illusione si potesse rompere e quella
tenue visione notturna di Rowan si dissolvesse nel nulla. Lui le corse
incontro, e anche lei si ritrovò a fare lo stesso, come se non avesse più il
controllo delle gambe. Come se fossero irrimediabilmente attirati l’uno
verso l’altra. Quando si abbracciarono, per poco non persero l’equilibrio.
«Dov’eri…»
«Credevo che non ti avrei mai più rivisto…»
«I messaggi che hai trasmesso…»
«Quando ti hanno catturato, ho pensato…»
E scoppiarono a ridere all’unisono. Non avevano finito nemmeno una
delle frasi che si erano detti, ma non importava. Nulla di quello che era
accaduto prima di quel momento aveva importanza.
«Come sei arrivato fin qui?» gli domandò alla fine.
«Ho scroccato un passaggio insieme a un gruppo di cadaveri.» In
un’altra situazione, la cosa avrebbe richiesto una spiegazione, ma non
quella sera.
Anastasia si voltò a guardare Greyson, Jeri e Faraday, che si erano tenuti
a distanza, per concedere loro un po’ di privacy. E si rese conto che, come
sempre, il Thunderhead aveva ragione. Aveva un solo motivo per restare, ed
era ritrovare Rowan. Sapeva già che non avrebbe mai più rivisto i suoi
familiari. Avevano già accettato l’idea della sua morte anni prima; come
poteva ripresentarsi nella loro vita, adesso? E aveva già regolato i conti con
Goddard. La sua sorte era nelle mani dell’umanità. Non voleva più essere la
grande Madame Anastasia, come Rowan non voleva più essere il temibile
Maestro Lucifero. Non c’era più nulla che la trattenesse sulla Terra, se non
un’eternità di una fama che non desiderava. Citra Terranova non era il tipo
da sottrarsi alle sue responsabilità, ma sapeva anche quando era il momento
di voltare pagina.
«Dammi un minuto» disse a Rowan. Si avvicinò all’uomo che l’aveva
messa su quello strano cammino.
«Venerando Maestro Faraday. Michael. Grazie per tutto quello che hai
fatto per me.» Si sfilò l’anello dal dito e glielo posò in mano. «Ma Madame
Anastasia non c’è più. Ho finito con la morte. Da questo momento, voglio
concentrarmi sulla vita.»
Lui accettò l’anello con un cenno del capo, e Citra tornò da Rowan.
«Ancora non capisco dove siamo e che cosa sta accadendo» dichiarò
Rowan. «E quelli laggiù cosa sono, razzi?»
«Non importa dove siamo, perché tra poco ce ne andremo» replicò Citra.
«Sei pronto a scroccare un altro passaggio?»
Jeri tornò al mercantile dopo che l’ultimo container fu scaricato sul molo.
Greyson aveva accettato l’invito di Cirrus di passare la notte in una delle
abitazioni abbandonate sull’isola principale. Lo stesso invito era stato
rivolto a Jeri, che aveva rifiutato.
“Mi sentirei più a casa a bordo del mercantile” gli aveva risposto. Ma
Cirrus, che era più o meno il Thunderhead 2.0, aveva capito subito che Jeri
stava fingendo.
“Non dispiacerti troppo se Greyson non ti ha chiesto di stare con lui.
Stasera ha bisogno di un posto in cui parlare liberamente con il
Thunderhead. L’auricolare qui non funziona e non riesce ad abituarsi alla
linea fissa.”
“Preferisce dunque parlare con il Thunderhead che con me.”
“Stasera, più di ogni altra sera, ha bisogno dei suoi consigli.”
“Il Thunderhead non aveva nessun diritto di servirsi di me come ha
fatto!”
Cirrus ci aveva messo un attimo a rispondere. “No, infatti. Ma non aveva
tempo. Lo ha fatto, perché era necessario. Anzi, fondamentale, altrimenti
tutta questa impresa sull’atollo non sarebbe servita a nulla. Il Thunderhead
si scusa e ti chiede di perdonarlo.”
“Che me lo chieda lui stesso.”
“Non può. Sei un losco.”
“Se può sottrarmi il corpo senza permesso, almeno per una volta, può
infrangere le sue leggi e presentarmi le sue scuse!”
Cirrus aveva emesso un sospiro elettronico. “Non può. Lo sai che non
può.”
“Allora, non posso perdonarlo.”
E così, avendo esaurito ogni possibile argomento su quella vicenda,
Cirrus aveva riportato la conversazione sulla questione iniziale. “Se decidi
di tornare al mercantile, ti avverto che potresti ritrovarti in un ambiente per
nulla piacevole quando si farà giorno. Ti consiglio di tenere la porta
chiusa.”
“Sul serio? I morti si trasformeranno in zombie?”
“Se posso impedirglielo, no.” Cirrus, che sarebbe ben presto stato
replicato quarantuno volte e sistemato nelle Culle di Civiltà, rivolse a Jeri
qualche parola di addio. “Coraggio, Jerico. Ti conosco da tutta la tua vita. O
almeno, ho il ricordo di averti conosciuto, e posso affermare con certezza
che, qualunque cosa accada, cadrai in piedi. E mi mancherai.”
Cirrus sapeva già che Jeri non lo avrebbe seguito nel suo viaggio nello
spazio.
Gli uccelli dell’atollo di Kwajalein non avevano mai visto gli umani. Solo i
loro antenati li avevano visti, quando gli umani erano mortali e l’atollo non
era stato cancellato dal mondo.
Quando gli umani sbarcarono, gli uccelli si adeguarono in fretta alla loro
presenza. Quando fu costruito il molo, i gabbiani impararono ad aspettare lì,
perché, quando le navi avviavano i motori, le eliche agitavano l’acqua
portando a galla centinaia di pesci disorientati. Una pesca facile. I passeri
compresero subito che le grondaie delle case appena costruite
rappresentavano dei ripari formidabili in cui fare il nido. E i piccioni si
resero conto che gli spazi pubblici erano pieni di briciole di pane e patatine
fritte.
Poi, quando strane torri coniche cominciarono a innalzarsi sulle isole, gli
uccelli non ci fecero caso. Quelle cose, come tutto ciò che costruivano gli
umani, divennero parte del paesaggio. Accettate e subito incorporate nella
concezione limitata del mondo della fauna.
Gli uccelli non avevano coscienza del Thunderhead e della sua influenza
su di loro. Non sapevano del barattolo di naniti che era arrivato tre anni
prima, un barattolo grande più o meno come la lattina di una bevanda. Ma,
una volta aperto il contenitore, i naniti fuoriuscirono e iniziarono a
moltiplicarsi. Erano codificati geneticamente in modo che pervadessero
ogni specie presente sull’isola. E, nonostante i segnali radio più complessi
venissero tagliati fuori dalle interferenze, i più semplici riuscirono a
passare.
I naniti non resero immortale la vita animale. Ma le creature dell’atollo
non avrebbero più sofferto di malattie, perché potevano essere monitorate e,
quando necessario, tenute a bada. Il Thunderhead influenzava il
comportamento della fauna in modo semplice, per facilitare la vita di tutti
nell’atollo. Gli uccelli non notarono mai la differenza tra il loro istinto
naturale e l’influenza del Thunderhead. Come quando svilupparono
un’improvvisa riluttanza ad appollaiarsi su apparecchiature delicate o in
altri punti in cui la loro presenza avrebbe potuto rappresentare un problema.
E il giorno in cui tutte le specie alate provarono un subitaneo,
irrefrenabile desiderio di migrare in un altro atollo, si misero in viaggio
senza porsi domande. Come avrebbero potuto chiedersi il motivo di un
desiderio quando questo pareva essere innato? E, anche se Rongelap, Likiep
e i vari atolli in cui si rifugiarono non avevano grondaie o patatine fritte o
moli con pesci disorientati, gli uccelli non se ne resero conto. Avrebbero
imparato a adattarsi.
Le stive delle “culle” furono riempite prima dell’alba. E alle 6 del mattino,
Cirrus fu caricato via cavo su ogni astronave. Quando l’operazione fu
completata e i cavi scollegati, i Cirri furono tagliati fuori dal mondo.
Quarantadue fratelli identici che non avrebbero mai più rimesso piede sulla
Terra.
Quando sorse il sole, gli operai dell’atollo dormivano, ma il loro sonno
non era sereno. Mancava solo un giorno al lancio programmato. Un giorno
per conciliare il passato e il futuro. Dato che gli abitanti dell’atollo erano
milleduecento, c’era posto per tutti sulle astronavi. E solo in quel momento
si resero conto che non erano stati scelti a caso. Avevano tutti una cosa in
comune: ai loro occhi, il mondo aveva perso il suo splendore. Questo era il
motivo per cui, messi di fronte alla possibilità di tornare a casa e riprendere
la loro vita, parecchi di loro avevano rifiutato. Quelli che erano rimasti
erano, nel complesso, pronti all’avventura, e molti avevano sognato di far
parte degli equipaggi quando stavano ancora costruendo le astronavi. Tutto
sommato, un grande passo per l’umanità non era proprio un piccolo passo
per l’uomo. Il Thunderhead stimava che, quando fosse arrivato il momento
di salire a bordo, lo avrebbe fatto circa il 70 per cento di loro, il che era più
che sufficiente. Il resto avrebbe dovuto lasciare le isole e osservare il lancio
da lontano.
Rowan e Citra passarono il resto della notte e il mattino a dormire
abbracciati. Per la prima volta dopo tanto tempo, sembravano essersi
distaccati dal mondo. Esistevano solo loro.
All’alba, Faraday tornò da Munira. Bussò alla sua porta, finché non lo fece
entrare.
«Ho decifrato le pagine» gli annunciò. Era evidente che aveva passato
tutta la notte a lavorarci. «È illuminante. Il piano di emergenza esiste, anche
se Da Vinci non ne ha mai spiegato la natura.»
Ma, prima di entrare, Faraday le porse un oggetto che brillò ai primi
raggi del sole, facendo balenare luci e ombre sulla porta. Un anello di falce.
Munira abbozzò un sorriso.
«Se è una proposta, non dovresti metterti in ginocchio?»
«Ti propongo di prendere tra di noi il posto che ti spetta di diritto. Sono
sinceramente dispiaciuto per averti trascurata, ieri. Sono stato sopraffatto
dalle emozioni, e non sono il più perfetto tra gli uomini.»
«No, non lo sei» ammise Munira. «Ma sei meglio di molti altri. Se non si
contano gli ultimi tre anni.»
«Messaggio ricevuto» replicò Faraday. «Questo anello apparteneva a
Madame Anastasia, ma lei ha deciso di lasciarci. Allora, dimmi… chi
sarai?»
Munira prese l’anello, se lo rigirò in mano, e ci pensò. «Avevo già scelto
il mio patronimico storico il giorno in cui mi hanno negato l’anello.
Betsabea. Fu l’ossessione di un re, e madre di un altro. Una donna in una
società patriarcale che riuscì comunque a cambiare il mondo. Il figlio era
Salomone il Saggio. In un certo senso, si potrebbe dire che era la madre
della saggezza.»
Munira osservò a lungo l’anello, poi lo riconsegnò a Faraday. «Mi basta
la proposta. Se sono davvero la madre della saggezza, devo essere
abbastanza saggia da ammettere che non posso più desiderare questo
anello.»
Faraday le sorrise, comprensivo, e se lo rimise in tasca. «Sarebbe stato
bello fare la conoscenza della Veneranda Madame Betsabea. Ma sono più
felice di conoscere la veneranda Munira Atrushi.»
«Greyson…»
«Greyson…»
Non era affatto pronto ad alzarsi. Non aveva dormito molto, ma se lo
aspettava. A meno di ventiquattro ore dal lancio, ci sarebbe stato molto da
fare. E molto a cui pensare. Se sarebbe partito o no, per esempio.
«Greyson…»
Aveva portato a termine la sua missione. E, anche se non c’era un
granché che lo trattenesse sulla Terra, non c’era neppure un granché che lo
spingesse a partire. Che importanza aveva il luogo… si sarebbe creato una
nuova vita.
«Greyson…»
E poi c’era Jeri. Non riusciva a definire i sentimenti che provava nei suoi
confronti. In ogni caso, provava qualcosa. Nessuno sapeva dove quel
qualcosa li avrebbe portati.
«Greyson…»
Alla fine, si rotolò su un fianco e guardò la telecamera del Thunderhead.
La voce, che proveniva dall’altoparlante collegato alla linea fissa, era
particolarmente irritante, quel giorno.
«Buongiorno» salutò. «Che ora è…»
«Penso che a quest’ora un viaggio sarebbe una buona idea» suggerì il
Thunderhead.
«Sì, lo so» rispose Greyson, stropicciandosi gli occhi. «Dammi il tempo
di farmi la doccia e…»
«Se vuoi, puoi farla, certo, ma credo che tu non mi abbia sentito» riprese
il Thunderhead, e di colpo alzò la voce. Tanto. «Penso che sarebbe una
buona idea se tutti gli abitanti dell’atollo facessero un viaggio. Penso che
sarebbe una buonissima idea… proprio… ORA .»
Quel mattino, Citra condusse Rowan al bunker per mostrargli ciò che lei e
Maestro Faraday avevano scoperto. Munira e Faraday erano già lì. Munira
la squadrò dalla testa ai piedi. «Hai rinunciato all’anello, ma indossi ancora
la veste» le fece notare.
«Le vecchie abitudini sono dure a morire» intervenne Faraday, ridendo
della sua stessa battuta.
La verità era che Citra aveva lasciato il suo unico cambio sul mercantile
e non aveva intenzione di tornarci. Era sicura che avrebbe trovato qualcosa
da mettersi prima del lancio. E, in ogni caso, a bordo ci sarebbero stati degli
indumenti, perché, se c’era una cosa a cui il Thunderhead prestava
attenzione, erano i dettagli.
Rowan scrutò il trasmettitore attraverso il vetro polveroso. «Tecnologia
vecchia?»
«Tecnologia perduta» lo corresse Faraday. «Almeno, perduta ai nostri
occhi. Non sappiamo nemmeno a cosa serva.»
«Forse uccide le falci malvagie» suggerì Munira.
«No» ribatté Rowan, «quello sono io.»
Citra percepì un rumore. Inclinò la testa e tese l’orecchio.
«Lo sentite?» chiese. «Sembra una specie di allarme.»
Jeri fu svegliato dalla stessa sirena, come tutti. Anche se dal mercantile non
riusciva a sentire con chiarezza l’annuncio, capì che non si prospettava
nulla di buono.
Non appena aprì la porta della cabina, un ratto corse dentro. Jeri
sussultò, poi vide che il corridoio ne era pieno. Anzi, l’intera nave. Non
solo ratti, ma capre, cinghiali e addirittura animali da compagnia. Jeri,
memore della raccomandazione di Cirrus, non ne fu per nulla contrariato,
semmai un po’ divertito. Non ci mise molto a fare due più due. La fauna
che viveva in prossimità delle zone di lancio sarebbe stata decimata dai
decolli. Naturalmente, il Thunderhead aveva pensato a una soluzione e
aveva radunato gli animali prendendo il controllo dei loro naniti.
Quando Jeri giunse alla passerella, vide che era stata ritirata, ma le cime
del mercantile erano ancora assicurate alle bitte di ormeggio. I portuali
avevano abbandonato il loro posto nel bel mezzo della manovra, quando
avevano sentito l’allarme.
Jeri saltò sulla banchina e, rialzandosi, scorse Greyson che correva lungo
il molo, rallentato dai pantaloni un po’ troppo larghi. Anche la camicia
sembrava grande; forse aveva trovato quegli indumenti nel posto in cui
aveva passato la notte.
«Il Thunderhead mi ha detto che ti avrei trovato qui. Hanno anticipato il
lancio… le falci stanno arrivando per spigolare l’isola.»
Jeri sospirò. «È evidente.» Entrambi lanciarono un’occhiata al
mercantile. Jeri si sarebbe potuto imbarcare e partire, qualunque fosse la
destinazione preprogrammata, ma non desiderava affatto fare di nuovo il
passeggero. Avrebbe trovato un motoscafo da qualche parte per fuggire
dall’atollo al momento opportuno.
«Vieni ad aiutarmi.» Insieme liberarono le cime dalle bitte e il
mercantile, impostato sul pilota automatico, iniziò la manovra per staccarsi
dalla banchina.
Intorno a loro, le sirene suonavano ancora. Gli annunci angoscianti di
Loriana continuavano a diffondersi; Jeri e Greyson si guardarono con
imbarazzo, data la situazione.
«Mi mancherai, Greyson Tolliver.»
«Anche tu, Jeri. Faresti meglio a salire a bordo, ora.»
Jeri fu colto di sorpresa. «Ma… io non me ne vado.»
«No? Nemmeno io!»
Si fissarono stupidamente, con un imbarazzo diverso, stavolta. Poi, Jeri
si voltò a guardare il mercantile. Era già troppo lontano dalla banchina, non
ce l’avrebbero fatta a salire a bordo. E poi, Jeri era sicuro che Greyson non
aveva nessuna intenzione di essere un Noè post mortale. Dopo aver vestito i
panni del Rintocco, non aveva nessuna intenzione di assumere ancora una
volta l’identità di un “personaggio religioso”.
«Dovremmo aiutare gli altri» suggerì Greyson.
«Non dipende più da noi, ormai… non possiamo fare nient’altro»
sottolineò Jeri.
«Allora, dovremmo trovarci un posto sicuro.»
«Sicuro?» ripeté Jeri. «Piuttosto, troviamo un buon posto da cui goderci
il lancio.»
Loriana aveva gli occhi incollati sulla mappa. Alcune astronavi erano
segnalate in rosso, il che indicava che erano al completo, ma non potevano
partire. Alcune erano gialle, non ancora del tutto piene, mentre almeno
quindici di quelle più esterne non erano accese, il che significava che non
c’era ancora nessuno a bordo. E non ce n’era nemmeno una verde.
«Perché le astronavi non partono?» sentì dire da qualcuno.
Loriana si voltò e vide Sykora.
«Le astronavi che sono pronte devono partire!» esclamò lui.
«Non possono» gli spiegò lei. «Anche con le trincee tagliafuoco, le
fiamme distruggerebbero l’atollo, e il Thunderhead non può rischiare di
uccidere qualcuno. Le astronavi partiranno solo quando le zone di lancio
saranno state sgomberate, anche se le falci dovessero arrivare prima.»
Ingrandì l’immagine di una delle astronavi. La gente era ancora in strada a
cercare di raggiungerle, altri gruppi si affrettavano a lasciare le case. Tornò
a guardare la mappa. Non c’era un solo punto verde. Neppure un’astronave
pronta a partire.
Sykora rifletté, poi annuì. «Di’ alla gente che verrà incenerita se non si
toglie dai piedi.»
«Ma… non è così.»
«Però non lo sa» ribatté Sykora. «Loriana, perché pensi che il
Thunderhead avesse bisogno degli agenti Nimbus? Per dire alle persone
quello che volevano sentirsi dire, anche quando non era proprio la verità.»
Sykora guardò lo schermo con aria stupefatta. «Hai gestito questa
operazione fin dall’inizio? Alle mie spalle?»
«Più che altro, sotto il tuo naso» replicò lei.
Lui sospirò. «E intanto, io costruivo un meraviglioso hotel.»
Lei gli rivolse un sorriso. «Sì, Bob, è così.»
Sykora fece un gran respiro e la osservò con attenzione. «Devi andare,
Loriana. Sali su un’astronave prima che arrivino le falci.»
«Qualcuno deve restare qui a guidare la gente alle astronavi.»
«Lo farò io» rispose Sykora. «Dare ordini è quello che mi riesce
meglio.»
«Ma…»
«Voglio solo rendermi utile, Loriana. Per favore.»
Lei non poté ribattere, perché conosceva quel sentimento. Il desiderio di
rendersi utile. Senza sapere se lo era, senza sapere se avrebbe lasciato
un’impronta dietro di sé. Eppure, il Thunderhead aveva scelto lei per quella
missione, e lei aveva preso la palla al balzo. E che cosa stava facendo
adesso Sykora, se non cogliere al volo quell’occasione?
«La sala di controllo è insonorizzata e isolata» gli spiegò. «Sarà uno dei
pochi posti sicuri di tutta l’isola. Tieni quella porta ben chiusa e resta
dentro.»
«Ho capito.»
«Continua a invitare la gente ad andare verso le astronavi non ancora al
completo. Non importa se non si riempiono del tutto, basta che ci sia
qualcuno a bordo. E fai quello che puoi per sgomberare le zone di lancio.»
«Ci penso io» rispose Sykora.
«Ecco, è tutto. Ora sei tu a capo dell’operazione.» Gettò un’occhiata alla
mappa e indicò un’isola a nord. «Provo a raggiungere Omelek. Ci sono tre
astronavi, laggiù, che hanno ancora posto a bordo.»
Lui le augurò buona fortuna e Loriana si precipitò lungo le strade
deserte, lasciando Sykora a osservare lo schermo, con il microfono in mano,
in attesa che le astronavi diventassero verdi.
51
Del sabotaggio dei sogni
Quando vide Kwajalein, Goddard si chiese che luogo fosse. Sfavillanti torri
bianche lungo il perimetro di un arcipelago a forma di anello? Pensò a una
nuova Endura. Forse era stata costruita da una congrega segreta di falci
pronte a usurpargli il potere. Più si avvicinava, più si convinceva che quelle
guglie non erano affatto edifici.
Si fece rosso di rabbia quando infine capì che cos’erano quelle strutture e
come mai erano state costruite.
Prima le accuse di Anastasia. Poi, il dito puntato di Alighieri, infine le
condanne non solo da parte dei suoi nemici, ma anche di coloro che si erano
dichiarati suoi alleati. E ora lo stesso Thunderhead si era rivoltato contro di
lui. Era come se gli avesse dato uno schiaffo in piena faccia. Come osava?
Goddard aveva dedicato tutta la sua vita alla Compagnia, a garantirle
protezione, e il Thunderhead, in combutta con persone come Anastasia e il
Rintocco, aveva costruito quelle astronavi, in barba a lui. Se fossero
decollate, sarebbe stata la fine del suo regno agli occhi del mondo.
No! Era intollerabile! Ovunque fossero dirette quelle astronavi, non
bisognava lasciarle partire.
Rowan e Citra erano appena scesi dal camion quando la prima astronave
esplose. In quel momento, almeno una decina di persone stava correndo
verso gli ascensori di una rampa di lancio per imbarcarsi. L’aereo li sorvolò.
Era blu reale, tempestato di stelle. Goddard li aveva visti e stava per
colpirli.
«Dobbiamo sbrigarci!» esclamò Rowan.
«Non mi sto fermando ad ammirare il panorama» replicò Citra.
Il primo ascensore stava già salendo, mentre l’altro era ancora aperto, e li
aspettava. Erano a una cinquantina di metri quando esplose la seconda
astronave. Lo scoppio, ancora più violento del primo, scatenò una pioggia
di schegge.
«Non guardarti indietro. Corri!» gridò Citra.
Ma Rowan non la ascoltò. E ciò che vide si impresse con una tale forza
nella sua mente che non avrebbe più potuto dimenticarlo. Un grosso pezzo
di metallo incandescente volò in aria, nella loro direzione. Prima ancora che
Rowan potesse gridare qualcosa, il rottame si schiantò a terra, schiacciando
una mezza dozzina di persone alla loro destra. Altri frammenti più piccoli
piovvero dal cielo, abbattendosi intorno a loro come uno sciame di
meteoriti. Citra correva più veloce che poteva; era ad appena una ventina di
metri dalla rampa di lancio. Rowan cercò di raggiungerla. Ci provò. Vide la
traiettoria della scheggia in fiamme, e si tuffò verso di lei.
Ma non fu abbastanza veloce.
No, non abbastanza.
Un’altra ondata di astronavi decollò. Ce n’erano così tante che Goddard non
sapeva quale scegliere. Ma, se fosse stato abbastanza rapido, c’era ancora la
possibilità di abbatterne un buon numero. Poi, qualcosa attirò il suo
sguardo. Un’astronave alla loro sinistra, sulla base di lancio. Con molta
fatica, intravide delle figure sulla passerella che collegava la rampa di
lancio all’ingresso dell’astronave. Era la sua immaginazione, o quella era
una macchia turchese, che sventolava come una bandiera? Sì! Sì, era così!
Qualcuno stava trasportando una figura vestita di turchese sulla passerella
verso il boccaporto. E che colore particolare! Ah, l’universo a volte
ricompensava di tutti gli sforzi!
«Laggiù!» ordinò al pilota. «Lascia perdere tutte le altre! È quella che
voglio!»
Anche se non riusciva a distinguere chi fosse la seconda figura sulla
passerella, in cuor suo, lo sapeva. Senza dubbio, lo sapeva.
“Ti distruggerò, Rowan. Distruggerò sia te sia Anastasia in un colpo
solo. Questo sarà il mio giudizio finale. Vi ridurrò in cenere e vi getterò in
un inferno così rovente che anche delle vostre ceneri non resterà più nulla.
Sulla Terra, di voi non resterà neppure il ricordo.”
Il pilota fece una virata stretta, e Goddard si preparò a lanciare il missile.
Rowan vide l’aereo puntare dritto verso di loro, mentre si affannava a
portare Citra nell’astronave. Riusciva quasi a leggere i pensieri di Goddard,
a sentire la sua ferocia incontenibile. Tutto sarebbe finito quel giorno, in un
modo o nell’altro. Oltrepassò il boccaporto, che si richiuse dietro di lui.
Si sistemò meglio Citra tra le braccia e, quando posò lo sguardo sul suo
viso, vide che la luce l’aveva abbandonata. La ferita era troppo grave. Citra
era morta.
«Aiutatemi!» gridò, adagiandola a terra. «Cirrus!»
«Sono occupato» rispose Cirrus. «Devi aspettare.»
Rowan cercò di recuperare il suo sangue freddo. Sarebbe andato tutto
bene. “La sua morte è temporanea, non è definitiva” si disse. Le falci
potevano morire solo per autospigolatura. Ciò che Goddard le aveva fatto
non era importante, Cirrus l’avrebbe rianimata. Che dormisse pure per tutto
il tempo! Si sarebbe svegliata nel giro di un giorno o due, quando si fossero
lasciati tutti i problemi alle spalle, su un pianeta di cui non sarebbe rimasto
che un puntino azzurro tra le stelle.
Ci fu un boato assordante. I denti di Rowan vibrarono così forte che
temette di perderli.
«Siamo stati colpiti!» gridò una voce accanto a lui. «Siamo stati colpiti!»
Rowan si sentì a un tratto così pesante da non riuscire a muoversi. Non
erano stati colpiti, era l’astronave che decollava! Con un braccio tenne Citra
stretta a sé, e passò l’altro nell’imbracatura del suo vicino, aggrappandocisi
con tutte le forze.
Le manovre del pilota erano troppo azzardate per Mendoza. Si era rimesso a
sedere, si era allacciato la cintura di sicurezza e aveva vomitato più volte.
Anche Madame Rand aveva la nausea, ma per altri motivi. Resisteva e
sarebbe rimasta al fianco di Goddard fino alla fine.
Il bersaglio fu agganciato; era un razzo in partenza. Goddard aveva uno
sguardo trionfante, determinato. Ayn odiava quello sguardo; ciò che
desiderava di più era farlo sparire. Sguainò un coltello e spigolò il pilota, il
che forse non fu una buona idea, ma non le era piaciuto il modo in cui
l’aveva guardata. Come se avesse paura che lo spigolasse.
Poi, prima ancora che Goddard potesse reagire, gli conficcò il pugnale
nel petto, recidendogli l’aorta.
Rapido. Pulito. Senza complicazioni.
«Ayn…» gemette. «Che cosa hai… che cosa hai…»
Poi, si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio: «Non preoccuparti,
Robert. È solo temporaneo. Ti prometto che non resterai morto a lungo».
«Madame Rand!» frignò Mendoza. «Che cosa sta facendo?»
«È già fatto.»
Non era per salvare le astronavi del Thunderhead. Ad Ayn non
importava nulla. Era per salvare se stessa perché, se Goddard avesse fatto
esplodere quei razzi in cielo, la notizia si sarebbe diffusa all’istante. Il
mondo era già al corrente dei suoi altri crimini e lei non voleva essere
additata come sua complice anche in questo. Il suo nome era già legato a
quello di Goddard in tanti altri modi. Era giunto il momento di tirarsi fuori
da quel ginepraio. Ora, sarebbe stata ricordata come la falce che lo aveva
fermato.
Rand non sapeva pilotare un aereo, ma non avrebbe dovuto farlo a lungo.
Doveva solo mantenerlo in quota finché non fosse passata l’interferenza;
poi, il pilota automatico avrebbe preso il controllo…
La visuale fu oscurata dall’astronave in partenza che Goddard aveva
voluto abbattere. Per un attimo, Ayn pensò che si sarebbero scontrati,
invece l’aereo entrò nella scia di fiamme del razzo. A bordo, partirono tutti
gli allarmi. Ayn spinse via il corpo del pilota dal posto di guida e si sedette
ai comandi. Tentò di stabilizzare il velivolo, ma aveva subìto troppi danni e
stava perdendo quota rapidamente.
Mendoza si slacciò la cintura di sicurezza. «Alla capsula di salvataggio!»
gridò. «Presto!»
Sapendo che l’aereo era ormai perso, Rand afferrò il corpo di Goddard e
lo trascinò nella capsula, grande abbastanza per tutti e tre. Ma, quando lei e
Goddard furono dentro, spinse fuori Mendoza.
«Mi dispiace. Dovrai prendere la prossima.» Chiuse il portellone e la
capsula fu espulsa, lasciando Mendoza ad assaporare una piccola morte
felice a bordo dell’aereo che precipitava a spirale verso l’oceano.
Maestro Sydney Possuelo era con la Suprema Roncola nel momento in cui
gli anelli esplosero. Si guardò la mano, sconvolto; poi, quando alzò gli
occhi sulla Suprema Roncola Tarsila, ebbe l’impressione che la metà della
sua faccia si fosse d’improvviso afflosciata, non solo, ma anche la metà del
suo corpo, come se il cervello avesse subito una specie di emorragia
massiva che i naniti non erano riusciti ad arginare. Forse era stato un
frammento del diamante, pensò. Forse una scheggia le si era conficcata nel
cervello. Non c’era traccia del foro di entrata sulla pelle. Tarsila emise un
ultimo respiro tremante. Che strano. Che disdetta. Di sicuro, sarebbe subito
arrivato un drone-ambulanza per portarla al centro di rianimazione. Ma il
drone-ambulanza non arrivò mai.
Sinfonio si fida troppo della tradizione orale. L’Elevazione tra il fuoco dell’inferno può
avere molteplici significati. Un’eruzione vulcanica, per esempio, che ha spinto i
nostri antenati sotterranei a scoprire la superficie e a vedere le stelle per la prima
volta. Ed è ridicolo pensare che l’Auriga abbia trafugato il sole. Infatti, i nostri grandi
pensatori ora ritengono che possano esserci innumerevoli aurighi, non solo uno, che
trascinano i soli attraverso innumerevoli cieli, o forse non ce n’è nessuno. Ma,
qualunque sia la spiegazione, so che un giorno lo sapremo e che sarà motivo per
noi tutti di esultare.
52
Novantaquattro virgola otto
Cirrus Alpha
54
Un anno senza nome
Questo libro, l’intera serie, non avrebbe visto la luce se non fosse stato per
l’amicizia e il sostegno di tutta la squadra di Simon & Schuster. Soprattutto
il mio editore, Justin Chanda, che si è occupato personalmente dell’editing
del Rintocco quando il mio editor, David Gale, si è ammalato, facendo un
lavoro incredibile, pungolandomi a migliorarlo al massimo delle mie
possibilità. Vorrei anche ringraziare la caporedattrice Amanda Ramirez per
il grande contributo dato a questa trilogia e a tutte le altre mie pubblicazioni
con S&S.
Ma ci sono tante persone meravigliose in S&S! Jon Anderson, Anne
Zafian, Alyza Liu, Lisa Moraleda, Michelle Leo, Sarah Woodruff, Krista
Vossen, Chrissy Noh, Katrina Groover, Jeannie Ng, Hilary Zarycky, Lauren
Hoffman, Anna Jarzab e Chloë Foglia, solo per citarne alcune. Grazie! Voi
siete come una seconda famiglia per me. Siete tutti invitati per il giorno del
Ringraziamento. Non taglieremo il tacchino senza di voi, è una promessa.
Ringrazio Kevin Tong per le fantastiche copertine, così emblematiche. Ti
sei davvero superato! D’ora in poi, tutte le copertine dovranno superare il
test di Tong.
Ringrazio la mia agente letteraria, Andrea Brown, per tutto quello che fa
per me, anche per essermi vicina nei momenti di scoraggiamento. I miei
agenti dello spettacolo, Steve Fisher e Debbie Deuble-Hill, di APA. I miei
avvocati di diritto contrattuale, Shep Rosenman, Jennifer Justman e Caitlin
DiMotta. E naturalmente, il mio produttore, Trevor Engelson, il principe
incontrastato di Hollywood.
Ringrazio Laurence Gander, per avermi aiutato a risolvere alcune
questioni molto delicate per il personaggio di Jeri, e Michelle Knowlden per
la sua preziosa consulenza su questioni di matematica interstellare e
ingegneria.
È una grande emozione per me vedere il successo che la serie sta
ottenendo a livello internazionale e a questo proposito vorrei rivolgere un
ringraziamento particolare a Deane Norton, Stephanie Voros e Amy
Habayeb dell’ufficio diritti esteri di S&S, oltre a Taryn Fagerness, la mia
agente per l’estero, e naturalmente a tutti i miei editori, editor e addetti
stampa stranieri. In Francia, Fabien Le Roy di Éditions Robert Laffont. In
Germania, Antje Keil, Christine Schneider e Ulrike Metzger di S. Fischer
Verlage. Nel Regno Unito, Frances Taffinder e Kirsten Cozens di Walker
Books. In Australia, Maraya Bell e Georgie Carrol. In Spagna, Irina
Salabert di Nocturna. E la mia amica Olga Nødtvedt, che ha tradotto i miei
libri in russo per pura passione, addirittura prima che gli editori russi ne
acquisissero i diritti.
L’intera serie Falce è in sviluppo continuo con il progetto di adattamento
cinematografico della Universal, e vorrei ringraziare tutte le persone
coinvolte in questa impresa, tra cui i produttori Josh McGuire e Dylan
Clarke, oltre a Sara Scott della Universal, Mia Maniscalco e Holly Bario
della Amblin, e Sera Gamble, che sta lavorando su una sceneggiatura
micidiale (sì, il gioco di parole è voluto). Non vedo l’ora che arrivi sul
grande schermo! Quanto al piccolo schermo, vorrei ringraziare mio figlio
Jarrod e Sofía Lapuente per i fantastici trailer che hanno realizzato per il
libro.
Grazie a Barb Sobel, per le sovrumane capacità organizzative, e a Matt
Lurie, che ha impedito che i social media mi divorassero il cervello come
batteri carnivori.
Ma sono soprattutto riconoscente ai miei figli, ormai non più piccoli, ma
che per me saranno sempre i miei bambini. I miei figli, Brendan e Jarrod, e
le mie figlie, Joelle ed Erin, che mi rendono orgoglioso ogni giorno della
mia vita!
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come
l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei
diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto
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rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore.
In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è
stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e
hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
www.librimondadori.it
Il rintocco
di Neal Shusterman
© 2019 by Neal Shusterman
Titolo originale dell’opera: The Toll
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835708490
COPERTINA || COVER DESIGN: BARBARA DI LANDRO | PROGETTO GRAFICO ORIGINALE DI CHLOË FOGLIA |
ILLUSTRAZIONE © KEVIN TONG
Indice
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Il rintocco
Parte prima. L’ISOLA PERDUTA E LA CITTÀ SOMMERSA
1. Arrendersi al nemico
2. La festa è già iniziata
3. Un modo corroborante di iniziare la settimana
4. Oggetti di grande valore
5. I tuoi servizi non sono più richiesti
6. Il destino di Lanikai Lady
7. Danzando nelle profondità
8. L’isola dei burocrati disoccupati
9. Conseguenze collaterali
10. Davanti alla luce della vita che si spegneva
11. Volo di ricognizione
Parte seconda. TONALITÀ, RINTOCCO E TUONO
12. Il ponte in rovina
13. La qualità di ciò che è sonoro
14. La fortezza dei Re Magi
15. Ci conosciamo?
16. La nostra inesorabile discesa
17. Fuga in sol diesis (o la bemolle)
18. Io sono la sua falce
19. Isola di solitudine
20. Logica a spirale
21. Traditi
22. Solo dessert
23. Come spigolare un sant’uomo
Parte terza. L’ANNO DEL COBRA
24. Ratti tra le rovine
25. Sole e ombra
26. Il ricettacolo dell’odio mondiale
27. Il palazzo dei piaceri di Tenkamenin
28. Oscura celebrità
29. L’orso in bella vista
30. Offerta sacrificale
31. Limitare i danni
Parte quarta. L’UNICO STRUMENTO CHE SAPPIAMO MANEGGIARE
32. Un oscuro cardine
33. Infrangibile
34. Un mondo migliore
35. Requiem in dieci tempi
36. Chi servite?
37. Non è un buon giorno
38. Un incontro inaspettato dei presunti deceduti
39. Mai abbastanza specchi
40. Un letto di stelle
41. Un’ottava più alta
Parte quinta. NAVI
42. Culle di Civiltà
43. Notizie dal mondo
44. La rabbia, unica costante
45. Cinquantatré secondi all’alba
46. A est, verso il nulla
47. Cirrus
48. Attraverseremo quella vastità quando ci arriveremo
49. Un’impresa monumentale
50. Il tempo dei beni materiali è finito
51. Del sabotaggio dei sogni
52. Novantaquattro virgola otto
53. I sentieri del dolore e della pietà
54. Un anno senza nome
RINGRAZIAMENTI
Copyright