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Neal Shusterman
È nato a New York nel 1962. Autore di libri
per ragazzi e young adult di grande
successo, ha ricevuto tra gli altri il National
Book Award per Il viaggio di Caden. Tra le
sue opere Downsiders, Full Tilt e Unwind. La
divisione. È anche autore di sceneggiature
per il cinema e la televisione.
Neal Shusterman
FALCE
LIBRO 1 DELLA TRILOGIA DELLA FALCE
A Olga (Ludovika)
Nødtvedt, ammiratrice e
amica lontana
Parte prima
LA VESTE E L’ANELLO
Per legge, dobbiamo tenere un registro degli innocenti che uccidiamo.
E, per come la vedo io, sono tutti innocenti. Anche i colpevoli. Tutti sono colpevoli di
qualcosa, e tutti conservano un ricordo di innocenza che risale all’infanzia, per quanto
sepolta da strati e strati di vita. L’umanità è innocente; l’umanità è colpevole. Queste
due condizioni sono entrambe indiscutibilmente vere.
Per legge, dobbiamo tenere un registro.
Tutto inizia il primo giorno del nostro apprendistato, ma non parliamo ufficialmente
di “omicidio”. Da un punto di vista sociale o morale, non sarebbe corretto. Adottiamo il
termine “spigolatura” per riferirci a un’epoca del passato in cui i poveri raccoglievano le
spighe di grano che erano sfuggite ai contadini. È stata la prima forma di beneficenza.
Il lavoro della falce è simile. Le falci rendono un servizio fondamentale alla società: è
quello che si insegna ai bambini non appena sono in grado di capire. Nel mondo
moderno, la nostra opera è quella che più si avvicina a una missione religiosa.
Forse è per questo che, per legge, dobbiamo tenere un registro. Un diario pubblico,
che attesti, per coloro che non moriranno mai e per coloro che non sono ancora nati, i
motivi per cui noi, esseri umani, agiamo in questo modo. Abbiamo il dovere di mettere
nero su bianco non solo le nostre azioni, ma anche i nostri sentimenti, perché si deve
sapere che abbiamo dei sentimenti. Dei rimorsi. Dei rimpianti. Un dolore troppo grande
da sopportare. Perché, se non fossimo capaci di provare queste emozioni, non
saremmo forse dei mostri?
Il mattino dopo, Rowan si trovò faccia a faccia con una falce. Non era
raro incontrarne una nel quartiere. Di tanto in tanto accadeva. Era
inevitabile. Era raro invece vederle al liceo.
L’incontro avvenne per colpa dello stesso Rowan. La puntualità
non era il suo forte, soprattutto da quando era stato incaricato di
accompagnare i fratelli e i fratellastri più piccoli prima di saltare su
una publicar e precipitarsi a sua volta a scuola. Era appena arrivato e
stava per imboccare il corridoio diretto all’aula, quando dietro l’angolo
sbucò la falce, con la veste avorio immacolata che le svolazzava
intorno.
Un giorno, durante una scampagnata con la famiglia, Rowan si era
allontanato da solo e si era trovato faccia a faccia con un puma.
Aveva sentito una stretta al petto e brividi freddi corrergli lungo la
schiena, proprio come in quel momento. Attacca o fuggi, gli aveva
suggerito l’istinto. Rowan non aveva fatto né l’una né l’altra cosa.
Aveva soffocato ogni impulso e aveva alzato con calma le braccia,
come aveva letto in un libro, per apparire più imponente. Aveva
funzionato, e l’animale si era allontanato, risparmiandogli una visita al
centro di rianimazione della zona.
Di fronte a quell’uomo, provò la tentazione di comportarsi nella
stessa maniera, come se il gesto di alzare le mani sopra la testa
potesse spaventarlo e convincerlo a cambiare strada. A quel
pensiero, gli sfuggì una risatina nervosa. Ora, l’ultima cosa da fare
era ridere di una falce.
«Mi sai dire dove si trova l’ufficio del preside?» chiese lo
sconosciuto.
Per un attimo, Rowan pensò di indicarglielo e poi di fare subito
dietrofront, ma ritenne che fosse una mossa troppo da vigliacco.
«Ci sto andando. Venga pure con me.»
L’uomo avrebbe apprezzato il suo aiuto; mettersi in buona luce agli
occhi di una falce non poteva certo fargli male.
Rowan fece strada lungo il corridoio, dove si affrettavano ancora
alcuni studenti come lui in ritardo per le lezioni. Tutti li fissavano
inebetiti, cercando di camminare rasenti al muro per passare
inosservati. In un certo modo, il fatto che ci fossero altri a condividere
il suo timore lo rassicurava, e poi non poteva negare che fosse
esaltante essere visto come guida di una falce e sentirsi riconoscere
un po’ di rispetto. Fu solo quando raggiunsero l’ufficio del preside che
la verità si palesò alla sua mente. Quel giorno, la falce avrebbe
spigolato uno dei suoi compagni di classe.
Nell’ufficio, tutti si alzarono alla vista della falce, che non perse
tempo. «Per favore, qualcuno convochi subito Kohl Whitlock dal
preside.»
«Kohl Whitlock?» chiese stupita la segretaria.
La falce non si ripeté, sapendo che la donna aveva ben capito, per
quanto incredula.
«Sì, eccellenza, provvedo subito.»
Rowan conosceva Kohl. Chi non conosceva Kohl Whitlock? Era
solo al terzo anno, ma era già stato promosso quarterback della
squadra di football del liceo. Li avrebbe portati per la prima volta dritti
dritti a vincere il campionato.
Con voce tremante, la segretaria fece l’annuncio all’interfono.
Pronunciando il nome dello studente, tossì e per poco non si strozzò.
La falce attese con pazienza l’arrivo di Kohl.
Rowan non voleva certo inimicarsi una falce. Sarebbe dovuto
scivolare furtivo verso lo sportello delle presenze, farsi giustificare il
ritardo e filare via in classe. Ma, come con il puma, doveva tenere
testa alla situazione. Quel momento avrebbe dato una svolta alla sua
vita.
«Lei sta per spigolare il nostro campione quarterback… mi auguro
che se ne renda conto.»
La falce, così cordiale un attimo prima, cambiò improvvisamente
umore. «Non vedo come questo possa riguardarti.»
«Lei è nella mia scuola. È un motivo sufficiente, credo.» A quel
punto, l’istinto di autoconservazione prese il sopravvento e Rowan si
diresse a grandi passi verso lo sportello delle presenze, uscendo
dalla visuale della falce. Consegnò la giustificazione che aveva
inventato di sana pianta, maledicendosi tra sé per la sua stupidità.
Era fortunato di non essere nato in un’epoca in cui la morte era
ancora un evento naturale, perché probabilmente non sarebbe
sopravvissuto fino all’età adulta.
Al momento di andarsene, incrociò lo sguardo triste di Kohl
Whitlock che la falce stava conducendo nell’ufficio del preside, il
quale si precipitò subito fuori per interrogare con lo sguardo i propri
colleghi, che scuotevano la testa, tutti perplessi quanto lui.
Nessuno parve notare la presenza di Rowan, che indugiava. A chi
importava della foglia d’insalata quando era il pezzo di manzo a
essere divorato?
Superò il preside, che, accortosi di lui appena in tempo, gli mise
una mano sulla spalla. «Figliolo, meglio che tu esca da qui.»
Aveva ragione. Rowan non aveva nessuna voglia di restare, ma lo
fece comunque.
Due sedie erano disposte di fronte alla scrivania molto ordinata del
preside. La falce era seduta sulla prima, Kohl sull’altra, con le spalle
chine, scosso dai singhiozzi. La falce lanciò un’occhiata di fuoco a
Rowan. “Il puma” pensò Rowan. Solo che questo aveva davvero il
potere di togliere la vita.
«Non ci sono i suoi genitori» si giustificò Rowan. «Dev’esserci
qualcuno con lui.»
«Sei della famiglia?»
«È importante?»
Kohl sollevò la testa. «La prego, non mandi via Ronald.»
«Il mio nome è Rowan» lo corresse.
Il viso di Kohl si riempì di terrore, come se quell’imprecisione
avesse per sempre suggellato il suo destino.
«Lo sapevo! Lo giuro! Lo sapevo, davvero!»
Nonostante i muscoli e la spavalderia, Kohl Whitlock non era altro
che un bambino impaurito. Era così che si comportavano tutti prima
di morire? Solo una falce poteva saperlo, immaginò Rowan.
«Prendi una sedia, allora» lo invitò la falce, invece di congedarlo.
«Mettiti a tuo agio.»
Mentre girava attorno alla scrivania per accomodarsi al posto del
preside, Rowan si chiese se la falce lo stesse prendendo in giro o se
non sapesse che era impossibile mettersi a proprio agio in sua
presenza.
«Non mi può fare questo» lo supplicò Kohl. «I miei genitori ne
moriranno! Ne moriranno!»
«No» ribatté la falce. «Se ne faranno una ragione.»
«Può dargli almeno qualche minuto perché si prepari
mentalmente?» domandò Rowan.
«Mi stai dicendo come devo fare il mio lavoro?»
«Le sto chiedendo di avere solo un po’ di compassione!»
La falce gli lanciò un’altra occhiataccia, questa volta diversa:
intimidatoria e incuriosita allo stesso tempo. Lo stava studiando.
«Sono molti anni che faccio questo lavoro. Per mia esperienza, la
più grande misericordia che posso concedere è una spigolatura
rapida e indolore.»
«Allora, gli dia almeno un motivo! Gli dica perché lui!»
«È a caso, Rowan!» esclamò Kohl. «Lo sanno tutti! La scelta è
fatta a caso!»
Ma lesse qualcosa di diverso negli occhi della falce.
«Non è tutto, vero?» insistette Rowan.
La falce sospirò. Non era obbligata a rispondere. Dopotutto, era al
di sopra della legge. Non doveva giustificarsi in alcun modo. Ma lo
fece comunque.
«Se dall’equazione si toglie la vecchiaia, secondo le statistiche
risalenti all’Era della Mortalità, il 7% dei decessi era causato da
incidenti stradali. Di questi, nel 31% dei casi, il conducente aveva
assunto dell’alcol; nel 14% dei casi, si trattava di adolescenti.» Fece
scivolare una calcolatrice verso Rowan. «Esegui il calcolo tu stesso.»
Rowan si prese tutto il tempo per digitare le cifre, sapendo che ogni
secondo che impiegava era un secondo in più di vita guadagnato per
Kohl. «0,303%» concluse, infine.
«Il che significa che su mille persone che spigolo» proseguì la
falce, «circa tre corrispondono a questo profilo. Una su
trecentotrentatré. Il tuo amico qui si è comprato una nuova macchina,
e ha una storia di abuso di alcol alle spalle. Quindi, tra gli adolescenti
che corrispondono a questo profilo, ho dovuto scegliere a caso.»
Kohl affondò la testa tra le mani, singhiozzando sempre più forte.
«Sono un imbecille!» Si premette i palmi sugli occhi come se volesse
spingerseli dentro la testa.
«Allora, dimmi» riprese con calma la falce. «La mia spiegazione ha
dato sollievo al tuo amico o ne ha aggravato la sofferenza?»
Rowan si ritrasse un po’ sulla sedia.
«Basta» concluse la falce. «È ora.» Estrasse dalla tasca della
veste una scatolina metallica che era fatta per adattarsi alla sua
mano. Il lato a contatto con la pelle era rivestito di tessuto. «Kohl, per
te ho scelto una scossa che ti provocherà un arresto cardiaco. La
morte sarà rapida, indolore, molto meno brutale dell’incidente d’auto
che avresti subìto se fossi vissuto nell’Era della Mortalità.»
Kohl afferrò la mano di Rowan, stringendogliela forte. Rowan lo
lasciò fare. Non era suo fratello, non era nemmeno suo amico, ma
com’è che si diceva? “La morte rende tutti fratelli.” Rowan si chiese
se un mondo senza morte avrebbe mai potuto rendere tutti estranei.
Strinse più forte la mano di Kohl, una muta promessa che non lo
avrebbe lasciato.
«C’è qualcosa che vorresti far sapere alla gente?» domandò
Rowan.
«Un milione di cose, ma non mi viene in mente nulla.»
Rowan decise che si sarebbe inventato le ultime parole di Kohl e
che le avrebbe comunicate ai suoi cari. E sarebbero state delle belle
parole. Confortanti. Rowan avrebbe trovato il modo di rendere
sensato anche ciò che non aveva un senso.
«Temo che dovrai lasciargli la mano per la procedura» gli fece
notare la falce.
«No» si impuntò Rowan.
«Lo shock potrebbe fermare anche il tuo cuore.»
«E allora?» replicò Rowan. «Mi rianimeranno. Se non ha deciso di
spigolare anche me» aggiunse, dopo un momento di riflessione.
Rowan aveva appena sfidato una falce. Per quanto fosse
pericoloso, era felice di averlo fatto.
«Come vuoi.» E senza ulteriore indugio, la falce premette la
scatolina sul petto di Kohl.
Una forte luce bianca accecò Rowan, prima che l’oscurità lo
inghiottisse. Tutto il suo corpo fu preso dalle convulsioni. Venne
sbalzato via dalla sedia e scaraventato contro il muro alle sue spalle.
Forse Kohl non aveva sentito nulla, ma lui sì. Faceva male. Faceva
male da morire, più male di quanto una persona potesse sopportare.
Subito, i naniti, i microscopici analgesici presenti nel sangue,
liberarono gli oppiacei. Il dolore si attenuò ben presto e, quando la
vista gli si schiarì, vide Kohl accasciato sulla sedia e la falce china su
di lui per chiudergli gli occhi. La spigolatura era stata completata.
Kohl Whitlock era morto.
La falce gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Rowan la
rifiutò. Si rimise in piedi con le sue sole forze.
«Grazie per avermi permesso di restare» disse, benché non
provasse la minima gratitudine nei confronti dell’uomo.
La falce lo osservò un po’ troppo a lungo, a suo parere. «Mi hai
tenuto testa per un ragazzo che conoscevi appena. Gli hai dato
conforto nel momento della morte, sopportando il dolore della scossa.
Lo hai sostenuto, senza che nessuno ti avesse chiesto di farlo.»
Rowan alzò le spalle. «Chiunque si sarebbe comportato nello
stesso modo.»
«Chi altro si è offerto volontario? Il preside? La segretaria? Uno
solo tra tutti gli studenti che si sono trovati a passare nel corridoio?»
«No» dovette ammettere Rowan. «Ma che importanza ha? In ogni
caso, è morto. E poi, conosce il detto sulle buone intenzioni.»
La falce annuì e lanciò un’occhiata al grosso anello al proprio dito.
«Immagino che tu ora mi chiederai l’immunità.»
Rowan scosse la testa. «Non voglio nulla da lei.»
«Come desideri.» Si girò per andarsene, ma esitò prima di aprire la
porta, con le dita sulla maniglia. «Sappi che a parte me nessuno ti
dimostrerà la minima riconoscenza per quello che hai fatto oggi.
Ricorda che le buone intenzioni lastricano molte strade. E non tutte
portano all’inferno.»
Lo schiaffo gli fece lo stesso effetto della scossa elettrica, tanto più
che non se l’aspettava. Arrivò appena prima di pranzo, mentre era in
piedi davanti al suo armadietto. L’impatto fu tale che volò all’indietro,
contro la fila di armadietti alle sue spalle, che risuonarono come
timpani.
«Tu eri lì e non hai fatto nulla per fermarlo!» Gli occhi di Marah
Pavlik avvampavano di sofferenza e legittima indignazione. Pareva
sul punto di strappargli il cervello infilandogli le lunghe unghie nelle
narici. «L’hai guardato morire!»
Marah era la ragazza di Kohl da oltre un anno. Come Kohl,
frequentava la terza ed era molto popolare. In virtù di ciò, avrebbe
normalmente evitato di interagire con uno studentucolo del secondo
anno come Rowan, però, date le straordinarie circostanze, aveva
fatto un’eccezione.
«Non è come credi» riuscì a dire Rowan prima che lo
schiaffeggiasse di nuovo. Questa volta, parò il colpo. Marah si ruppe
un’unghia, ma non se ne curò. Se non altro, la spigolatura di Kohl le
aveva insegnato a guardare la vita da una prospettiva diversa.
«È accaduto esattamente questo! Sei entrato per vederlo morire!»
I curiosi si stavano avvicinando, attirati, come di solito accade,
dall’odore del conflitto. Rowan passò lo sguardo sulla folla che si era
formata intorno a loro, alla ricerca di un po’ di solidarietà, di qualcuno
che potesse prendere le sue difese, ma sui volti dei compagni di
classe vide solo disprezzo. Marah parlava, e lo schiaffeggiava, in
nome di tutti loro.
Rowan non riusciva a crederci. Non aveva certo pensato di
ricevere pacche sulla schiena per aver portato conforto a Kohl nel
momento della morte, ma non si aspettava nemmeno un’accusa così
ingiusta.
«Ehi, siete fuori di testa?» gridò Rowan a lei e a tutti gli altri
compagni. «Lo sapete che non si può fermare una falce!»
«Non m’importa!» piagnucolò lei. «Avresti potuto fare qualcosa, e
invece sei rimasto a guardare!»
«Ho fatto qualcosa! Gli… gli ho tenuto la mano.»
Lo sbatté con violenza contro l’armadietto. «Bugiardo! Non ti
avrebbe mai tenuto la mano. Non ti avrebbe mai toccato! Io avrei
dovuto tenergli la mano.»
Tutto intorno, gli altri ragazzi lo scrutavano e bisbigliavano tra loro,
abbastanza forte perché li sentisse.
«L’ho visto camminare nel corridoio con la falce, come se fossero
grandi amici.»
«Sono arrivati insieme stamattina.»
«Ho sentito dire che è stato lui a suggerire alla falce il nome di
Kohl.»
«Qualcuno mi ha detto che lo ha anche aiutato.»
Rowan si lanciò contro il ragazzo che aveva pronunciato l’ultima
accusa, un certo Ralphy. «Chi te l’ha detto? Non c’era nessun altro
nella stanza, deficiente!» Ma era già troppo tardi. Le voci non
avevano alcun fondamento logico. «Non capite? Non ho aiutato la
falce, ho aiutato Kohl!» insistette.
«Già, lo hai aiutato a schiattare» disse qualcuno, e tutti annuirono
in un mormorio generale.
Non c’era più nulla da fare: era stato processato e riconosciuto
colpevole. E più negava, più si convincevano della sua colpevolezza.
Se ne infischiavano del suo atto di coraggio, volevano solo un capro
espiatorio. Qualcuno su cui sfogare il loro odio, dato che non
potevano prendersela con la falce. E Rowan Damisch era il colpevole
perfetto.
«Scommetto che ha ricevuto l’immunità in cambio del suo aiuto»
disse un ragazzo, uno studente che gli era sempre stato amico.
«Non è vero!»
«Tanto meglio» replicò Marah, al colmo del disprezzo. «Spero che
la prossima falce venga per te.»
Rowan sapeva che lo pensava davvero, e non solo in quel
momento. E se la prossima falce fosse venuta per lui, Marah avrebbe
goduto della notizia della sua morte. Questo gli dava da riflettere: ora
c’era qualcuno che desiderava ardentemente la sua fine. Una cosa
era essere invisibile, un’altra essere il bersaglio dell’odio di un intero
liceo.
Solo allora gli tornò in mente l’avvertimento della falce: che non
avrebbe ricevuto la minima riconoscenza per ciò che aveva fatto per
Kohl. L’uomo ci aveva visto giusto. E per quello, Rowan lo odiava con
tutto il cuore, proprio come gli altri odiavano lui.
2042. Una data nota a tutti gli studenti. L’anno in cui la potenza informatica divenne
infinita o così prossima all’infinito che non fu più possibile misurarla. L’anno in cui si
seppe… tutto. Il Cloud si trasformò nel Thunderhead e ora tutto ciò che c’è da sapere
risiede nella memoria quasi infinita del Thunderhead, per chiunque voglia accedervi.
Ma come tante cose, non appena entrammo in possesso della conoscenza infinita,
ci sembrò all’improvviso meno importante. Meno urgente. Sì, sappiamo tutto, ma
spesso mi chiedo chi si prenda la briga di interessarsi a tutta quella conoscenza. Gli
accademici, certo, che studiano ciò che sappiamo già, ma a che scopo? Il concetto
stesso di scuola era di imparare con l’intento di migliorare la nostra vita e il mondo. Ma
un mondo perfetto non ha bisogno di migliorare. Come la maggior parte delle cose che
facciamo, l’istruzione, dalla scuola elementare all’università, è solo un modo per
tenerci occupati.
Il 2042 fu l’anno in cui sconfiggemmo la morte, e anche l’anno in cui smettemmo di
contare. Certo, abbiamo continuato a numerare gli anni ancora per alcuni decenni, ma
da quando abbiamo conquistato l’immortalità, il tempo che passa ha perso di
importanza.
Non so quando esattamente passammo al calendario cinese: l’anno del Cane,
l’anno della Capra, del Dragone e così via. E non so dire quando i difensori dei diritti
degli animali di tutto il mondo cominciarono a rivendicare l’uguaglianza per le loro
specie preferite, aggiungendo l’anno della Lontra, della Balena e del Pinguino. E non
saprei dire quando smisero di ripetersi e quando si stabilì che da quel momento in poi
ogni anno avrebbe preso il nome di una specie diversa. Tutto quel che so è che siamo
nell’anno del Gattopardo.
Per tutto ciò che ignoro, sono certa che le risposte si trovano nel Thunderhead, per
tutti coloro che avranno un motivo per darci un’occhiata.
Citra ricevette l’invito ai primi di gennaio. Arrivò per posta, cosa già di
per sé straordinaria. C’erano solo tre tipologie di corrispondenza che
arrivavano per posta. I pacchi, le comunicazioni ufficiali o le missive
inviate da personalità eccentriche, le uniche che scrivevano ancora
lettere. Apparentemente, questa apparteneva alla terza categoria.
«Be’, non la apri?» chiese impaziente Ben, che pareva più
elettrizzato di lei. L’indirizzo era stato scritto a mano, cosa ancora più
insolita. Certo, calligrafia era una materia facoltativa a scuola ma, a
parte lei, nessuno di sua conoscenza l’aveva scelta. Strappò la busta
ed estrasse una cartolina che era dello stesso colore avorio della
busta. Lesse mentalmente il contenuto prima di farlo ad alta voce.
«Si richiede il piacere della sua presenza alla Grand Civic Opera, il
9 gennaio, alle ore 19.»
Niente firma, niente indirizzo del mittente. E nella busta non c’era
altro.
«L’opera?» esclamò Ben. «Puah.»
Citra non poteva che condividere.
«Non sarà per caso un qualche evento scolastico?» chiese la
madre.
Citra scosse la testa. «No, altrimenti ci sarebbe stato scritto.»
Prese la lettera e la busta dalle mani della figlia e le esaminò. «Be’,
qualunque cosa sia, pare interessante.»
«Probabilmente, è uno sfigato che ha paura di chiedermi di uscire
guardandomi in faccia.»
«Pensi di andarci?» domandò la madre.
«Mamma, un ragazzo che mi invita all’opera! O è uno scherzo o è
un pazzo delirante.»
«O sta cercando di fare colpo su di te.»
Citra uscì dalla stanza borbottando, irritata dalla curiosità della
madre.
«No che non ci vado!» gridò dalla sua camera, sapendo benissimo
che lo avrebbe fatto.
La Grand Civic Opera era uno di quei luoghi alla moda in cui ci si
recava per essere visti. A ogni rappresentazione, solo la metà degli
spettatori voleva assistere allo spettacolo vero e proprio. L’altra metà
era formata da un amalgama di arrivisti e arrampicatori sociali la cui
unica ambizione era di fare carriera. Anche Citra, che non
apparteneva a nessuna di quelle categorie, sapeva bene cosa c’era
dietro tutta quella messinscena.
Indossò il vestito che aveva comprato l’anno prima per il ballo della
scuola, quando era sicura che Hunter Morrison l’avrebbe invitata.
Invece, Hunter aveva invitato Zachary Swain, cosa che tutti si
aspettavano tranne Citra. I due stavano ancora insieme, e fino a quel
momento Citra non aveva mai avuto un’altra occasione per metterlo.
Quando lo indossò, ne fu gradevolmente sorpresa. In un anno il
fisico di un’adolescente cambia, ma ora l’abito, che l’anno precedente
le ballava un po’, le calzava a pennello.
Nella sua testa, aveva ristretto il numero di ammiratori segreti a
cinque, solo con due dei quali avrebbe voluto trascorrere una serata.
Gli altri tre li avrebbe sopportati unicamente per il piacere della
novità. Dopotutto, poteva essere divertente recitare la parte della
snob per una sera.
Il padre insistette per accompagnarla. «Chiama quando vuoi che ti
venga a prendere.»
«Tornerò con una publicar.»
«Chiama lo stesso.»
Le ripeté per l’ennesima volta che era bellissima, poi Citra uscì
dalla macchina e il padre ripartì per lasciare il posto alle limousine e
alle Bentley in coda per permettere ai passeggeri di scendere.
Fece un profondo respiro e salì gli scalini di marmo, sentendosi a
disagio e fuori luogo come Cenerentola al ballo.
Al suo ingresso, non fu indirizzata né verso l’orchestra né verso la
scala centrale che conduceva al loggione. La maschera esaminò il
suo biglietto, la squadrò, poi riguardò il biglietto prima di chiamare un
collega per farla accompagnare personalmente.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Citra preoccupata. Il suo primo
pensiero fu che il biglietto fosse falso e che la stessero scortando
all’uscita. Forse, dopotutto si era trattato di uno scherzo. Si mise a
fare mentalmente una lista dei sospetti.
La seconda maschera la rassicurò subito. «È nostra abitudine
accompagnare di persona gli spettatori che hanno un posto in
galleria, signorina.»
“Un posto in galleria” rifletté Citra. Era il massimo dell’esclusività. In
genere, i palchi erano riservati a personaggi che non volevano
mescolarsi con la massa. La gente normale non poteva permetterseli
e comunque, anche se avesse potuto, le era proibito l’accesso alla
galleria. Mentre seguiva la maschera su una scala stretta che
conduceva ai posti che si trovavano a sinistra del palcoscenico, Citra
sentì crescere in lei la paura. Non conosceva nessuno tanto ricco da
potersi permettere una tale stravaganza. E se avesse ricevuto l’invito
per sbaglio? E se invece ci fosse stata davvero una persona ricca e
importante ad attenderla, che cosa mai poteva volere da lei?
«Eccoci arrivati!» disse la maschera, tirando la tenda del palco. Un
ragazzo della sua età era già seduto lì. Era bruno con la pelle chiara
e lentigginosa. Quando la vide si alzò, e Citra notò che i pantaloni un
po’ corti dell’abito che indossava lasciavano troppo scoperti i calzini.
«Ciao.»
«Salve.»
La maschera se ne andò.
«Ti ho tenuto il posto più vicino al palcoscenico.»
«Grazie.»
Citra si accomodò, sforzandosi di ricordare chi fosse e di capire
perché mai l’avesse invitata a teatro. Quel viso non le era familiare.
Avrebbe dovuto conoscerlo? Non voleva fargli capire che non si
ricordava di lui.
«Grazie» disse il ragazzo, a un tratto.
«Di che?»
Teneva in mano un invito identico al suo.
«Non sono proprio un appassionato di opera, ma è sempre meglio
che restare a casa a non fare nulla. Così… per caso, ci
conosciamo?»
Citra scoppiò in una fragorosa risata. Nessun ammiratore segreto:
apparentemente, erano stati entrambi vittime di un misterioso
sensale. Si rimise a elaborare mentalmente un’altra lista di possibili
sospetti, in cima alla quale c’erano i suoi genitori. Forse, era il figlio di
uno dei loro amici… però, quel genere di sotterfugio, così gretto, non
era da loro.
«Che c’è di tanto divertente?» chiese il ragazzo. Lei gli mostrò il
suo invito. Lui non rise, anzi, parve un po’ turbato, senza spiegarle il
motivo.
Disse di chiamarsi Rowan. Si strinsero la mano nel momento in cui
si abbassarono le luci, il sipario si aprì e la musica esplose, troppo
forte per permettere ai due ragazzi di conversare. L’opera era La
forza del destino di Verdi, ma era chiaro che non era stato il destino
ad averli fatti incontrare quella sera, quanto piuttosto la mano
consapevole di una misteriosa persona.
La musica, benché intensa e bella, finì per infastidire Citra; quanto
alla storia, sebbene fosse facile da seguire anche senza conoscere
una parola di italiano, non la coinvolgeva molto. Dopotutto, l’opera
risaliva all’Era della Mortalità. Guerre, vendette, assassinii, tutti i temi
centrali dell’intreccio, erano ormai così lontani dalla realtà che
difficilmente ci si poteva immedesimare nei personaggi. La catarsi si
sviluppava intorno al tema dell’amore e, visto e considerato che loro
erano due sconosciuti intrappolati in un palco di teatro, la situazione
era più imbarazzante che catartica.
«Secondo te, chi ci ha invitati?» chiese Citra non appena si
riaccesero le luci all’intervallo del primo atto. Come lei, Rowan non ne
aveva proprio idea. Si scambiarono tutte le informazioni in loro
possesso per poter formulare un’ipotesi. A parte il fatto che avevano
entrambi sedici anni, avevano ben poco in comune. Lei veniva dalla
città, lui dalla periferia. La famiglia di lei era piccola, quella di lui
numerosa. Quanto alle professioni dei loro genitori, non potevano
essere più distanti.
«Qual è il tuo indice genetico?» le chiese. Era una domanda molto
personale, ma forse poteva avere una certa rilevanza.
«22-37-12-14-15.»
Rowan abbozzò un sorriso. «37% di origine africana. Buon per te!
È piuttosto alto!»
«Grazie.»
Le disse il suo: 33-13-12-22-20. Citra pensò di chiedergli se
conoscesse l’indice secondario del suo componente “altro”, perché
20% era abbastanza alto ma, se non lo sapeva, la domanda lo
avrebbe imbarazzato.
«Siamo entrambi per il 12% di stirpe panasiatica» fece notare lui.
«Pensi che questo c’entri con la nostra presenza qui?» Si stava
arrampicando sugli specchi. Non era nient’altro che una semplice
coincidenza.
Poi, verso la fine dell’intervallo, la risposta si presentò alle loro
spalle, all’ingresso del palco.
«Sono contento di vedere che avete fatto conoscenza.»
Anche se erano passati alcuni mesi dall’ultimo incontro, Citra
riconobbe l’uomo all’istante. Il Venerando Maestro Faraday non era
un personaggio facile da dimenticare.
«Lei?» esclamò sorpreso Rowan, con una tale durezza che fu
subito chiaro che in passato anche lui aveva avuto a che fare con la
falce.
«Avrei voluto arrivare prima, ma ho avuto… un contrattempo.» Non
aggiunse altro, cosa di cui Citra gli fu riconoscente. Ma la sua
presenza non lasciava presagire nulla di buono.
«Ci ha invitati all’opera per spigolarci.» Non era una domanda, ma
una constatazione, perché Citra ne era convinta.
«Non credo» commentò Rowan.
Maestro Faraday non fece nulla per porre fine alle loro vite. Invece,
afferrò una sedia vuota e si sedette accanto ai due giovani.
«È stata la direttrice dell’opera che mi ha dato questo posto. Le
persone pensano sempre che fare offerte a una falce possa renderle
immuni. Non avevo alcuna intenzione di spigolarla, ma ora lei
penserà che il suo regalo abbia avuto un peso nella mia decisione.»
«La gente crede a quello a cui vuole credere» disse Rowan, con
una certa amarezza, cosa che fece capire a Citra che ne avesse
cognizione di causa.
Faraday indicò il palcoscenico con un gesto della mano. «Stasera,
assistiamo allo spettacolo della follia umana. Domani, lo vivremo.»
Il sipario si aprì e il secondo atto iniziò prima che la falce potesse
chiarire il senso delle sue parole.
Da due mesi, Rowan era il reietto della scuola. In genere quel tipo di
storie veniva presto dimenticato. Ma nel suo caso non fu così. La
spigolatura di Kohl Whitlock rimase ben impressa nella mente di tutti.
A ogni partita di football, era come se si aggiungesse del sale sulla
piaga collettiva ancora aperta, e, dato che la squadra le partite le
perdeva tutte, il dolore era decisamente vivo. Rowan non aveva mai
goduto di molta popolarità, ma non era nemmeno mai stato oggetto di
scherno da parte degli altri studenti. Ora, però, era diventato lo
zimbello del liceo. Lo mettevano spesso all’angolo e lo picchiavano.
Veniva emarginato, e anche i suoi amici lo evitavano. Tyger
compreso.
«Colpevole per associazione, amico» gli aveva detto Tyger. «Ti
compatisco, ma non voglio subire la tua stessa sorte.»
«La situazione è spiacevole» disse il preside a Rowan, quando si
presentò in infermeria alla pausa pranzo per farsi medicare alcune
nuove ferite. «Dovresti pensare di cambiare scuola.»
Poi, un bel giorno, Rowan non ne poté più. Salì in piedi su un
tavolo della mensa e servì ai suoi compagni le menzogne che
volevano sentire.
«Quella falce era mio zio! Gli ho detto io di spigolare Kohl
Whitlock.»
Naturalmente, credettero a ogni singola parola. Cominciarono a
fischiarlo e a bersagliarlo con il cibo.
«Aprite bene le orecchie» proseguì Rowan. «Sappiate che mio zio
sta per tornare. E che mi ha chiesto di scegliere la prossima vittima.»
Di colpo, il cibo smise di volare nella sua direzione, le occhiate
torve sparirono e, da un giorno all’altro, i pestaggi finirono, come per
miracolo. Quel vuoto fu riempito da un altro vuoto. Nessuno osò più
incrociare il suo sguardo. Nemmeno i professori lo guardavano più,
alcuni cominciarono a mettergli delle A per un elaborato che non
meritava più di una B o una C. Iniziò a sentirsi come un fantasma,
come un’ombra che tormentava la sua stessa esistenza, obbligato a
vivere ai confini del mondo.
A casa, le cose erano normali. Il patrigno non si curava affatto dei
suoi affari e la madre era fin troppo presa da altre cose per
accorgersi dei suoi disagi. Erano al corrente di quanto era accaduto a
scuola e dell’intera situazione ma, come tutti i genitori egocentrici,
fecero finta di nulla, convinti che un problema che non potevano
risolvere non fosse in realtà un vero problema.
«Voglio cambiare scuola» disse un giorno Rowan alla madre,
seguendo finalmente il consiglio del preside.
La sua risposta fu di un’indifferenza dolorosa. «Se pensi che sia il
meglio per te.»
Era quasi convinto che, se le avesse annunciato di essere entrato
a far parte di una setta, gli avrebbe dato la stessa risposta.
Così, quando era arrivato l’invito a teatro, non si era preoccupato di
sapere chi fosse il mittente. Di qualunque cosa si trattasse, era una
salvezza, almeno per una sera.
La ragazza che aveva incontrato lì non era niente male. Carina e
sicura di sé, con ogni probabilità aveva già un fidanzato, anche se
non ne aveva parlato. Poi era apparsa la falce e il mondo di Rowan
era precipitato di nuovo nell’oscurità. Quell’uomo era il responsabile
del suo calvario. Se avesse potuto risolvere così tutti i suoi problemi,
lo avrebbe volentieri spinto giù dalla balconata, ma le aggressioni
contro le falci non erano tollerate. La punizione per il colpevole era lo
sterminio di tutta la sua famiglia. Un provvedimento che garantiva la
sicurezza delle venerande falci.
Alla fine dello spettacolo, Maestro Faraday porse loro un biglietto
fornendo delle precise istruzioni.
«Ci vediamo domani mattina a questo indirizzo, alle nove in
punto.»
«Che cosa dobbiamo dire ai nostri genitori di stasera?» chiese
Citra. Probabilmente la ragazza aveva dei genitori attenti.
«Dite loro quello che volete, non importa, purché veniate
all’appuntamento domani mattina.»
L’indirizzo risultò essere quello del Museo di arte mondiale, il più
prestigioso della città. Apriva alle dieci ma, nell’istante in cui l’addetto
alla sicurezza vide la falce salire i gradini dell’entrata principale,
spalancò le porte e fece entrare i tre, senza che ci fosse bisogno di
parlare.
«Uno dei molti vantaggi del mestiere» disse Maestro Faraday.
Passeggiarono nelle sale in cui erano esposte le opere dei grandi
maestri di un tempo in un silenzio interrotto solo dal rumore dei loro
passi e dai commenti sporadici della falce: «Notate come El Greco
usa sapientemente il contrasto per evocare l’anelito emotivo?»;
«Osservate la fluidità del movimento in questo Raffaello, come
conferisce intensità alla storia visiva che ci narra»; «Ah! Seurat!
Pointillisme profetico un secolo prima del pixel!».
Rowan fu il primo a porre la domanda più ovvia.
«Che ci facciamo qui?»
Maestro Faraday sospirò, leggermente irritato, sebbene con ogni
probabilità si aspettasse quella domanda. «Vi sto dando una lezione
che non riceverete mai a scuola.»
«E così ci ha fatto venire fin qui per tenerci una lezione di storia
dell’arte?» intervenne Citra. «Non sta forse sprecando il suo tempo
prezioso?»
La falce scoppiò a ridere e Rowan si sorprese a desiderare di
essere stato lui a farlo ridere.
«Che cosa avete imparato finora?» chiese Maestro Faraday.
Nessuno dei due rispose, così provò con un’altra domanda. «Che
tipo di conversazione pensate che avremmo avuto se vi avessi
portato nelle sale dedicate all’arte post mortale, invece di farvi visitare
queste sull’arte antica?»
Rowan azzardò una risposta. «Probabilmente sarebbe stata
incentrata sul fatto che l’arte post mortale è più facile da guardare.
Più facile e più… serena.»
«E se vi dicessi “priva di ispirazione”?» suggerì la falce.
«È una questione di punti di vista» replicò Citra.
«Forse. Ma ora che vi ho fornito le chiavi di lettura dell’arte mortale,
voglio che proviate a percepire le cose da soli.» E, detto questo, li
condusse nella sala successiva.
Rowan era convinto che non avrebbe provato nulla. Si sbagliava.
I quadri ricoprivano le pareti dell’ampia sala dal pavimento al
soffitto. Non conosceva i nomi degli artisti, ma non aveva importanza.
Avevano una certa coerenza d’insieme, come se fossero stati dipinti
dalla stessa anima, se non dalla stessa mano. Alcune opere erano a
soggetto religioso, altre erano semplici ritratti, altre ancora
catturavano la luce sfuggente della vita quotidiana con una forza di
cui era priva l’arte post mortale. Lo struggimento e l’ebbrezza,
l’angoscia e la gioia, emozioni che erano tutte rappresentate in quei
dipinti, a volte riunite sulla stessa tela. Era inquietante, ma anche
molto potente.
«Possiamo restare un po’ di più in questa sala?» chiese Rowan.
La falce abbozzò un sorriso. «Certo.»
Nel frattempo, il museo aveva aperto le porte al pubblico e, mentre
loro guadagnavano l’uscita, gli altri visitatori si facevano da parte e si
tenevano a distanza. Quell’atteggiamento ricordò a Rowan come lo
trattavano i suoi compagni di liceo. Citra pareva ancora non capire il
motivo per cui Maestro Faraday li avesse condotti lì; Rowan, al
contrario, stava cominciando a vederci chiaro.
La falce li accompagnò in una tavola calda, dove la cameriera li
fece sedere subito. Portò loro i menu, ignorando gli altri clienti.
Vantaggi del mestiere. Rowan notò che da quando si erano seduti
non era più entrato nessuno nel locale. Il tempo di mangiare e il
ristorante si sarebbe svuotato del tutto.
«Se vuole che le forniamo informazioni sulle persone che
conosciamo» disse Citra nel momento in cui furono serviti, «io non ho
intenzione di farlo.»
«Raccolgo io stesso le informazioni di cui ho bisogno» replicò
Maestro Faraday. «Non mi serve che due adolescenti mi facciano da
informatori.»
«Ma ha bisogno di noi, no?» intervenne Rowan.
L’uomo non rispose. Invece, si mise a parlare della popolazione
mondiale e dell’incombenza che pesava sulle falci di tutto il pianeta,
della necessità, se non di ridurla drasticamente, almeno di
mantenerla a un livello ragionevole. «Il tasso di crescita della
popolazione richiede che ogni anno si spigoli un certo numero di
persone affinché il Thunderhead possa provvedere alle esigenze
dell’umanità. Perché questo sistema continui a funzionare, abbiamo
bisogno di aumentare il numero delle falci.»
Da una delle numerose tasche della veste, estrasse un anello
identico a quello che indossava. La luce della sala lo colpì, in un
gioco di riflessi e rifrazioni, senza mai raggiungerne il nucleo oscuro.
«Tre volte all’anno, le falci si riuniscono in una grande assemblea, il
conclave. Discutiamo della nostra missione e decidiamo se è il caso
di aumentare o no il numero delle falci nella nostra regione.»
Citra parve farsi più piccola sulla sedia. Alla fine, aveva compreso.
Anche se Rowan lo aveva sospettato, alla vista dell’anello si sentì
venir meno.
«Le pietre incastonate negli anelli furono create all’inizio dell’era
post mortale dalle prime falci, quando la società ritenne che la morte
non naturale dovesse prendere il posto della morte naturale. A
quell’epoca, si fabbricarono più pietre del necessario, perché i
fondatori della Compagnia delle falci furono abbastanza saggi da
prevedere i futuri bisogni. Quando è necessario nominare una nuova
falce, una pietra viene montata su un anello d’oro che va poi conferito
al candidato eletto.» Rigirò l’anello tra le dita, soppesandolo, facendo
danzare la luce rifratta in tutta la sala. Poi li guardò negli occhi, prima
Citra, poi Rowan. «Sono appena tornato dal Conclave d’inverno, mi
hanno consegnato questo anello perché possa assumere un
apprendista.»
Citra si ritrasse. «Può farlo Rowan. A me non interessa.»
Rowan si voltò verso di lei, pentendosi di non aver parlato per
primo. «Che cosa ti fa pensare che a me invece interessi?»
«Vi ho scelti entrambi!» esclamò Faraday, alzando la voce.
«Imparerete il mestiere, tutti e due. Ma alla fine, solo uno di voi
riceverà l’anello. L’altro o l’altra potrà tornare alla sua vecchia vita.»
«Perché dovremmo competere per un posto che nessuno dei due
vuole?» chiese Citra.
«In questo sta il paradosso della professione» rispose Faraday.
«Coloro che vogliono ottenere l’incarico non devono averlo… e quelli
che si rifiutano di uccidere sono gli unici adatti a esercitare il
mestiere.»
Mise via l’anello. Rowan, che fino a quel momento aveva trattenuto
il fiato quasi senza accorgersene, riprese a respirare.
«Possedete entrambi una tempra morale fuori dal comune. Sono
convinto che questa vostra straordinaria qualità alla fine vi farà
decidere di accettare l’apprendistato, e non perché io vi obbligherò,
ma perché l’avrete scelto voi.»
Uscì senza pagare il conto, perché non c’era, e comunque non si
portava mai un conto a una falce.
1. Ucciderai.
2. Ucciderai senza discriminazione, senza fanatismo e senza premeditazione.
3. Concederai un anno di immunità ai familiari di coloro che accettano la tua
venuta e a chiunque altro tu ritenga meritevole.
4. Ucciderai i familiari di coloro che opporranno resistenza.
5. Servirai l’umanità fino alla fine dei tuoi giorni e la tua famiglia riceverà l’immunità
come ricompensa per tutto il tempo che vivrai.
6. Condurrai una vita esemplare in parole e opere.
7. Non ucciderai altra falce all’infuori di te.
8. Non rivendicherai alcuna proprietà materiale all’infuori delle tue vesti, del tuo
anello e del tuo diario.
9. Non avrai né consorte né progenie.
10. Non avrai nessun’altra legge all’infuori di questa.
Una volta all’anno, digiuno e medito sui comandamenti. Per la verità, ci rifletto ogni
giorno, ma una volta all’anno lascio che essi siano il mio unico sostentamento. C’è del
genio nella loro semplicità. Prima del Thunderhead, i governi avevano le costituzioni e
massicci volumi di leggi. Eppure, queste venivano dibattute, messe in discussione e
manipolate. Gli uomini si facevano la guerra perché avevano diverse interpretazioni
della stessa dottrina.
Quando ero ancora molto ingenua, pensavo che la semplicità dei comandamenti li
rendesse impenetrabili, anche a un esame approfondito. Da qualsiasi prospettiva li si
guardasse, non cambiavano. Dopo molti anni, ho scoperto con un misto di sorpresa e
orrore fino a che punto potevano essere malleabili e flessibili. Tutte cose che le falci
tentano di giustificare. Tutte cose che noi scusiamo.
Quando ho iniziato, erano ancora in vita diverse falci che avevano assistito alla
redazione dei comandamenti. Oggi sono tutte scomparse. Hanno tutte invocato il
settimo comandamento. Avrei tanto voluto chiedere loro come sono stati elaborati, che
cosa ha portato alla definizione di ogni singolo precetto, come sono state scelte le frasi
che li compongono, se ne sono state scartate molte prima che i dieci comandamenti
definitivi venissero incisi nella pietra.
E perché il decimo comandamento?
Di tutti, il decimo è quello che mi dà più da pensare. Perché, si sa, mettersi al di
sopra di ogni altra legge è la formula che porta dritti alla catastrofe.
Per Citra, ogni spigolatura era un trauma. Anche se, fin dal primo
giorno, Maestro Faraday non aveva chiesto ai due ragazzi di
prendere il suo posto, esserne complici non era meno difficile. Ogni
morte prematura rinnovava in lei un sentimento di terrore. Era come
un incubo ricorrente che non perdeva mai di forza. Aveva sperato che
con il tempo sarebbe diventata insensibile, che alla fine si sarebbe
abituata al mestiere. Ma non fu così.
«Tanto meglio. Vuol dire che ho scelto bene» le disse Maestro
Faraday. «Se non ti addormentassi piangendo ogni sera,
significherebbe che non sei abbastanza compassionevole.»
Citra dubitava che Rowan piangesse prima di addormentarsi. Era il
tipo di ragazzo che si teneva tutto dentro. Non riusciva a decifrarne i
sentimenti. Era opaco e questo la disturbava. O forse era così
trasparente che in realtà non c’era nulla da vedere. Non riusciva a
capirlo.
Si accorsero ben presto che Maestro Faraday era una falce molto
creativa. Non si ripeteva mai.
«Ma non ci sono falci che si attengono a un rituale, che eseguono
pedissequamente ogni singola spigolatura nello stesso identico
modo?» chiese Citra.
«Certo, ma ognuno di noi deve trovare il proprio stile. Il proprio
codice di condotta. Io preferisco vedere ogni persona che devo
spigolare come un individuo che si merita una fine esclusiva.»
Riepilogò i sette metodi di base dell’arte di uccidere. «I più comuni
sono le tre F: ferita da taglio, arma da fuoco e forza bruta. Gli altri tre
sono l’asfissia, l’avvelenamento e l’induzione catastrofica, come la
scossa elettrica o il fuoco, anche se per me il fuoco è un modo
orrendo di spigolare, non lo userei mai. L’ultimo metodo è il
combattimento a mani nude ed è per questo che vi insegniamo il
Bokator.»
Spiegò che una falce doveva conoscere tutti i metodi. Citra
comprese il sottinteso: avrebbero dovuto prendere parte a diversi tipi
di spigolatura. Le avrebbe fatto premere il grilletto? Affondare il
coltello? Assestare una bastonata? Voleva credere di non esserne
capace. Voleva disperatamente convincersi che quella professione
non fosse per lei. Era la prima volta che sperava di non riuscire in
qualcosa.
Il compito che Maestro Faraday aveva affidato a Rowan non era così
viscerale, ma ben più inquietante.
«Oggi, tu preparerai la mia spigolatura di domani» gli disse,
consegnandogli una lista dei parametri che il soggetto avrebbe
dovuto avere. «Il Thunderhead ti fornirà tutte le informazioni che ti
servono, se sei abbastanza sveglio da trovarle.» Poi uscì per la
spigolatura della giornata.
Rowan fu quasi sul punto di commettere l’errore di inserire la lista
di parametri nel Thunderhead per farsi indicare il soggetto idoneo.
All’ultimo momento, si ricordò che chiedere l’assistenza del
Thunderhead era rigorosamente proibito alle falci. Avevano totale
accesso all’enorme quantità di informazioni della grande nuvola, ma
non potevano attingere alla “coscienza” algoritmica. Maestro Faraday
gli aveva raccontato di una falce che aveva cercato di farlo. Lo stesso
Thunderhead aveva notificato la violazione alla Suprema Roncola e
la falce era stata “pesantemente sanzionata”.
«Come si sanzionano le falci?» gli aveva chiesto Rowan.
«Quella in questione è stata condannata a morte dodici volte da
una giuria di falci, e poi rianimata ogni volta. Dopo la dodicesima
condanna, è stata messa in libertà condizionata per un anno.»
Rowan immaginò che una giuria di falci potesse dare prova di una
grande creatività, in quanto a metodi di punizione. Morire dodici volte
per mano delle falci doveva essere di sicuro molto peggio che
lanciarsi da una finestra.
Iniziò a inserire i parametri di ricerca. Gli era stato detto di
includere non solo la loro città, ma tutta la MidMerica, che si
estendeva per quasi mille chilometri al centro del continente. Poi
restrinse la ricerca alle città con meno di diecimila abitanti, bagnate
da un fiume. Quindi alle abitazioni che si trovavano entro una trentina
di metri dal fiume. Infine alle persone di vent’anni o più che vi
vivevano.
Il risultato che ottenne comprendeva più di quarantamila persone.
Quella ricerca gli aveva impegnato appena cinque minuti. Non
sarebbe stato così facile individuare i criteri successivi.
Il soggetto deve essere un ottimo nuotatore.
Ottenne la lista di tutti i licei e di tutte le università presenti nelle
città fluviali e incrociò i dati con chi aveva fatto parte di una squadra
di nuoto negli ultimi vent’anni o che si era iscritto a una gara di
triathlon. Circa ottocento persone.
Il soggetto deve essere amante dei cani.
Con il codice di accesso di Maestro Faraday, trovò l’elenco degli
abbonamenti a ogni pubblicazione e blog che trattavano di cani.
Entrò nelle banche dati dei negozi per animali per avere la lista di chi
aveva acquistato regolarmente cibo per cani nel corso degli ultimi
anni. In quel modo, ridusse il numero a centododici nominativi.
Il soggetto deve avere un passato di eroismo non professionale.
Inserì sistematicamente i termini “eroe”, “audacia”, “salvataggio”
per tutti i centododici nominativi. Pensò che sarebbe stato fortunato
se ne avesse trovato almeno uno, ma con sua grande sorpresa
apparvero quattro nomi.
Li selezionò uno alla volta e visualizzò quattro foto. Se ne pentì
subito, perché nel momento in cui a ciascuno di quei nomi veniva
associato un volto, non erano più parametri, ma diventavano
persone.
Un uomo con un viso tondo e un sorriso smagliante.
Una donna che avrebbe potuto essere una madre.
Un ragazzo tutto spettinato.
Un uomo che non si radeva da almeno tre giorni.
Quattro persone. E Rowan stava per decidere chi sarebbe morto
l’indomani.
Si sorprese a propendere per l’uomo mal rasato, ma si rese subito
conto che era una forma di discriminazione. Una persona non doveva
essere discriminata solo perché non si era rasata per una foto. E
stava escludendo la donna solo perché era una donna?
Okay, allora il tizio che sorrideva. Ma non avrebbe per caso
esagerato in senso contrario se avesse scelto quello dall’aspetto più
gradevole dei quattro?
Decise di saperne di più sul loro conto utilizzando il codice di
accesso di Faraday per scovare più informazioni personali di quante
non gli fosse permesso; era in gioco una vita umana, non doveva
forse usare ogni mezzo disponibile per giungere a una scelta equa?
Il primo era entrato in un edificio in fiamme per salvare un vicino.
Ma la seconda aveva tre bambini piccoli. Il terzo faceva volontariato
in un canile. E il fratello del quarto era stato spigolato solo due anni
prima…
Pensava che scoprendo un po’ di più sul loro conto il compito
sarebbe stato facile, ma più li conosceva e più diventava arduo.
Continuò a scavare nelle loro vite, sempre più disperato, finché non si
aprì la porta e vide entrare Maestro Faraday. Fuori, era buio. Era
scesa la notte?
La falce aveva l’aria stanca, le vesti erano macchiate di schizzi di
sangue.
«La spigolatura di oggi è stata… più difficile del previsto.»
Citra uscì dalla sala d’armi. «Le lame ora sono tutte lucide e
splendenti!» annunciò.
Faraday le rivolse un cenno di approvazione. Poi si girò verso
Rowan, ancora seduto al computer. «E a chi tocca domani?»
«Io… ehm… sono arrivato a una rosa di quattro.»
«E…?» chiese la falce.
«Tutti rispondono al profilo.»
«E…?» ripeté la falce.
«Be’, uno si è appena sposato, un altro ha appena comprato
casa…»
«Scegline uno.»
«… e questo ha ricevuto un premio umanitario l’anno scorso…»
«SCEGLINE UNO!» gridò la falce, con una ferocia che Rowan non
aveva mai sentito in lui. I muri tremarono. Il ragazzo pensò di poter
essere esentato, come quando Faraday gli aveva chiesto di mettere
la pillola di cianuro in bocca alla donna. Ma no, la prova di quel giorno
era molto diversa. Guardò Citra, che era rimasta sulla soglia della
sala d’armi, paralizzata come chi assiste per caso a un incidente. Era
davvero solo davanti a quella scelta atroce.
Guardò quindi lo schermo, fece una smorfia e indicò l’uomo con i
capelli arruffati. «Lui. Spigoli lui.» Chiuse gli occhi. Aveva appena
condannato a morte un uomo solo perché un giorno si era fatto
fotografare senza pettinarsi.
Poi sentì la mano ferma di Faraday sulla spalla. Pensò che lo
avrebbe sgridato, invece lo sentì dire: «Ottimo lavoro».
Riaprì gli occhi. «Grazie, signore.»
«Se non fosse stata la cosa più difficile da fare, mi sarei
preoccupato.»
«Diventerà più semplice con il tempo?» chiese Rowan.
«Spero proprio di no» replicò la falce.
Mi ricorda che, nonostante i nostri alti ideali e le numerose precauzioni per proteggere
la Compagnia delle falci da corruzione e depravazione, dobbiamo sempre essere vigili,
perché il potere viene infettato dall’unica malattia che ci resta ancora: un virus che si
chiama natura umana. Temo per la sopravvivenza della nostra specie se un giorno le
falci cominciassero ad amare quello che fanno.
Dopo quasi tre mesi, Citra non poteva più mentire a se stessa: voleva
che Maestro Faraday assegnasse a lei l’anello. Per quanto cercasse
di opporsi all’idea, per quanto si ripetesse che non faceva per lei, alla
fine era arrivata a cogliere l’importanza di quella missione e a capire
che sarebbe stata una buona falce. Aveva sempre desiderato avere
una vita significativa, una vita che lasciasse il segno. Come falce, ne
avrebbe avuto la possibilità. Sì, si sarebbe sporcata le mani di
sangue, ma il sangue poteva anche purificare.
In fondo, era quello che insegnava il Bokator.
Per Citra, il Bokator della Vedova Nera era l’allenamento più duro a
cui si fosse mai sottoposta. Il loro istruttore era Maestro Yingxing, una
falce che non usava armi, ma che spigolava a mani nude. Aveva fatto
voto di silenzio. In apparenza, ogni falce aveva rinunciato a una parte
di sé, non per obbligo ma per libera scelta; un modo per compensare
le vite che toglievano.
«A cosa rinunceresti?» le chiese una volta Rowan. La domanda la
mise a disagio.
«Se divento falce, rinuncerò alla mia vita, no? Credo che sia
sufficiente.»
«Rinuncerai anche ad avere una famiglia» le ricordò.
Citra annuì, non voleva parlarne. L’idea di avere una famiglia le
parve troppo lontana, così come le parve troppo lontana anche quella
di non averne una. Le era difficile esaminare quali sarebbero stati i
suoi sentimenti riguardo a una scelta così lontana nel tempo. E poi,
doveva tenere fuori quei pensieri dalla mente durante le sedute di
Bokator. Doveva restare lucida.
Era la prima volta che imparava un’arte marziale. Aveva sempre
preferito gli sport senza contatto. La corsa su pista, il nuoto, il tennis:
attività in cui la linea di demarcazione tra gli avversari era netta. Il
Bokator era l’antitesi: un combattimento corpo a corpo. Anche la
comunicazione era totalmente fisica durante le lezioni; l’istruttore
muto correggeva le loro posture maneggiandoli come se fossero
manichini. Era una disciplina fatta tutta di mente e corpo, senza
l’insulsa mediazione delle parole.
Erano in otto a seguire il corso. Citra e Rowan erano gli unici
apprendisti, gli altri allievi erano giovani falci ai primi anni di attività.
C’era un’altra ragazza, che non dava cenno di voler stringere
amicizia con Citra. Alle ragazze non era riservato nessun trattamento
speciale, erano considerate alla stregua dei ragazzi.
L’allenamento era duro. I combattimenti cominciavano sempre allo
stesso modo, con un rituale in cui gli avversari si fronteggiavano
girando in cerchio, provocandosi a vicenda in una specie di danza
aggressiva. Poi si iniziava a fare sul serio, passando alle maniere
forti. Tutti i colpi erano ammessi.
Quel giorno, avrebbe combattuto contro Rowan. Lui era più abile
nell’assestare i colpi, ma lei era più veloce. Lui era più forte, ma
anche più alto, il che non era un punto a suo favore.
Il baricentro di Citra, più basso, le dava il vantaggio della stabilità.
Tutto sommato, erano in condizione di parità.
Girò su se stessa e gli assestò un potente calcio al petto che per
poco non lo fece andare al tappeto.
«Buono» commentò Rowan. Maestro Yingxing fece il gesto di
chiudersi le labbra con la cerniera per ricordargli che era proibito
parlare durante il combattimento.
Citra lo attaccò da sinistra e Rowan reagì con tanta rapidità che lei
non riuscì a capire da quale direzione fosse arrivata la mano. Era
come se ne avesse avute tre, di mani. Citra perse l’equilibrio, ma solo
per un istante. Sentì un dolore caldo irradiarsi dal punto in cui l’aveva
colpita. “Mi verrà un livido.” Sorrise. “La pagherà cara!”
Simulò un attacco da sinistra, per poi colpirlo da destra con la forza
di impatto del corpo. Lo mandò a terra e si gettò su di lui bloccandolo
con tutto il peso. Ma fu come se la gravità si fosse invertita di colpo e
si ritrovò all’improvviso con la schiena sul pavimento. Adesso, era lui
che si trovava sopra, placcandola. Citra avrebbe potuto ribaltarlo
ancora, ma non lo fece. Sentiva il cuore di Rowan come se battesse
nel suo petto… e si scoprì a desiderare che quel momento non
finisse troppo presto, ancora più che vincere il combattimento.
Quel pensiero la fece infuriare, tanto da darle la forza di liberarsi
dalla presa e distanziarsi da lui. Non c’era linea di demarcazione, né
rete, nulla che potesse separarli fisicamente se non il muro della sua
volontà. E quel muro continuava a sgretolarsi.
Maestro Yingxing decretò la fine del combattimento. Citra e Rowan
si fecero l’inchino e presero posto ai lati opposti del cerchio, mentre al
centro venivano chiamati altri due avversari. Citra si mise a osservare
con attenzione lo scontro appena iniziato, decisa a non rivolgere a
Rowan neanche un’occhiata.
Non siamo più gli stessi esseri che eravamo in passato.
Basta vedere fino a che punto siamo incapaci di capire la letteratura e la maggior
parte degli intrattenimenti dell’era mortale. Le cose che suscitavano emozioni ai mortali
ci sono incomprensibili. Solo le storie d’amore riescono a passare attraverso il nostro
filtro post mortale. Eppure, restiamo attoniti di fronte all’intensità del desiderio e della
perdita che incombeva sulle storie d’amore di un tempo.
Potremmo attribuirlo agli emonaniti che regolano le nostre emozioni, ma il problema
è ben più profondo. I mortali immaginavano che l’amore fosse eterno, inestinguibile.
Oggi, sappiamo che questo non è vero. L’amore è rimasto mortale, mentre noi siamo
diventati eterni. Solo le falci hanno il potere di pareggiare le cose, ma tutti sanno che le
probabilità di essere spigolati in questo millennio o nel prossimo sono quasi inesistenti.
E così le ignoriamo.
Non siamo più gli stessi esseri che eravamo in passato.
Ma allora, se non siamo più umani, cosa siamo?
Sulla via del ritorno, la falce non aprì quasi bocca. Presero un
autobus, perché Faraday evitava per quanto possibile l’uso di
publicar. Lo considerava una stravaganza.
Quando scesero alla loro fermata, Citra si fece coraggio e ruppe il
silenzio.
«Sarò punita per averle “rotto” la mascella?» Citra sapeva che la
ferita sarebbe guarita già l’indomani mattina, ma i naniti cicatrizzanti
non agivano istantaneamente. Maestro Faraday era ancora piuttosto
malconcio.
«Non parlerai con nessuno di quanto è successo» le disse con
tono grave. «Non ne farai menzione nel tuo diario. Sono stato chiaro?
L’imprudenza di quell’uomo resterà un segreto.»
«Sì, eccellenza.»
Avrebbe voluto dirgli quanto ammirava la sua clemenza. Aveva
anteposto la compassione al dovere. C’era una lezione da imparare
da ogni spigolatura e quella di oggi Citra non l’avrebbe certo
dimenticata facilmente. La sacralità della legge… e la saggezza di
sapere quando deve essere trasgredita.
Fulcrum City era una metropoli post mortale situata al centro della
MidMerica. Lungo il fiume, incastonata tra i vertiginosi pinnacoli
dell’elegante vita urbana, si trovava una maestosa struttura in pietra,
imponente, se non per l’altezza, per l’impressione di solidità che
dava. Colonne e archi di marmo sostenevano una grande cupola in
rame. Era un omaggio all’antica Grecia e alla Roma imperiale: le due
culle della civiltà. Veniva ancora chiamato il Campidoglio, perché un
tempo era stato la sede del parlamento federale, nell’epoca in cui
esistevano ancora gli stati, prima che il governo diventasse obsoleto.
Adesso ospitava gli uffici amministrativi della Compagnia delle falci
della MidMerica, ed era anche il luogo in cui si svolgeva il conclave,
tre volte all’anno.
Citra si stufò presto del bilancio dei nomi. Nonostante il limite di dieci,
l’enumerazione durò quasi due ore. Era encomiabile che le falci
ritenessero doveroso rendere omaggio agli spigolati, ma se avevano
solo dodici ore di tempo per passare in rassegna quattro mesi di
attività, non ne capiva il senso.
Non c’era un programma predefinito. Era impossibile per lei e
Rowan sapere come si sarebbe svolta la giornata. Maestro Faraday
si limitava a spiegare le cose a mano a mano che avvenivano.
«E il nostro test? Che c’è da aspettare? Ci porteranno in un’altra
sala?» chiese Citra, ma Faraday le fece cenno di tacere.
Dopo il bilancio dei nomi, si procedette alla cerimonia del lavaggio
delle mani. Le falci si alzarono e si disposero davanti a due vasche,
una per ciascun lato del palco. Ancora una volta, Citra non ne capiva
il senso. «Tutta questa ritualità… è il tipo di cose che si vede fare agli
adepti della setta della tonalità» disse quando Faraday tornò al suo
posto, con le mani ancora bagnate.
Faraday si chinò verso di lei e le sussurrò di abbassare la voce.
«Infilare le mani nell’acqua in cui sono state immerse centinaia di
altre mani serve a purificarsi?»
Faraday sospirò. «Dà un certo conforto. Ci fa sentire uniti come
Compagnia. Non denigrare le nostre tradizioni, perché un giorno
potrebbero essere le tue.»
«Oppure no» intervenne Rowan, in tono provocatorio.
Citra, nervosa e a disagio, borbottò: «Mi sembra tanto una perdita
di tempo».
Faraday doveva sapere che in realtà a innervosirla era il non
sapere quando sarebbero stati presentati al conclave e quando
avrebbero affrontato il test. Citra non sopportava di brancolare nel
buio troppo a lungo. Forse era per quello che Faraday la lasciava
nell’incertezza, per mettere continuamente a nudo i suoi punti deboli.
Poi alcune falci furono accusate di essersi comportate in modo
discriminatorio nella scelta delle spigolature. Quella parte suscitò
l’interesse di Citra e le diede una visione più approfondita del dietro le
quinte della professione.
Una falce fu rimproverata per aver spigolato troppi poveri. Fu
ammonita e le fu imposto di spigolare solo gente ricca fino al
successivo conclave.
Un’altra venne accusata di non rispettare le proporzioni razziali.
Troppi ispanici e pochissimi africani.
«Dipende dalla demografia della regione in cui vivo» si difese. «C’è
un’alta percentuale di origine ispanica negli indici personali della
gente del posto.»
La Suprema Roncola fu irremovibile. «Allora allarghi l’area. Vada a
spigolare altrove.»
Fu quindi condannata a correggere gli indici, pena la punizione,
che consisteva nel sottoporre preventivamente le future spigolature
all’approvazione del comitato di selezione. Vedersi togliere la libertà
di spigolare era l’umiliazione più grande che si potesse infliggere a
una falce.
Sedici falci ricevettero un richiamo: dieci furono ammonite, sei
sanzionate. Il caso più curioso fu quello di una falce la cui bellezza
l’aveva messa nei guai. Venne ripresa per aver spigolato troppe
persone brutte.
«Che idea!» esclamò una delle falci. «Immaginate che mondo
sarebbe se spigolassimo solo gente brutta!»
Uno scoppio di risa risuonò in tutta la sala.
L’accusato cercò di difendersi, citando il vecchio adagio secondo il
quale la bellezza è nell’occhio di chi guarda, ma la Suprema Roncola
non mostrò di essere dello stesso avviso. Era la terza volta che gli
veniva mossa la stessa obiezione, per cui fu messo sotto
sorveglianza permanente. Poteva continuare a essere falce, ma non
poteva spigolare.
«Fino al prossimo anno rettiliano» sentenziò la Suprema Roncola.
«È assurdo» commentò Citra a voce bassa, in modo da farsi
sentire solo da Rowan e Faraday. «Nessuno sa come saranno
chiamati gli anni a venire. Insomma, l’ultimo anno rettiliano è stato
l’anno del Geco, ed è caduto prima che io nascessi.»
«Esattamente!» replicò Faraday, con una punta di colpevole gioia.
«In altre parole, la punizione potrebbe avere termine l’anno prossimo
oppure… mai. D’ora in poi, passerà il suo tempo a tentare di
convincere l’ufficio del calendario a istituire l’anno dello Scinco o del
Mostro di Gila o di qualche altro rettile di cui non sia già stato usato il
nome.»
Prima che si concludesse la parte disciplinare della mattinata, fu
chiamata un’ultima falce. Non riguardava un altro caso di
discriminazione.
«Ho davanti a me un messaggio anonimo che accusa Maestro
Goddard di abuso.»
Un mormorio percorse la sala. Citra vide Maestro Goddard
bisbigliare qualcosa alla sua cerchia di compagni, e poi alzarsi.
«Quale abuso mi viene imputato?»
«Atti di crudeltà gratuita durante le spigolature.»
«E questa accusa è anche anonima!» esclamò Goddard. «Non
posso credere che uno di noi sia capace di tanta viltà. Esigo che il
diffamatore si riveli.»
Il mormorio in sala riprese, più forte. Nessuno si alzò, nessuno
rivendicò la paternità della denuncia.
«Bene. In questo caso, mi rifiuto di rispondere a un accusatore
invisibile» concluse Goddard.
Citra pensò che Senocrate dovesse approfondire la questione.
Dopotutto, un attacco lanciato da un confratello non era cosa da
prendere sotto gamba, ma la Suprema Roncola posò la lettera
anonima e disse: «Bene, se non c’è altro da aggiungere, ci fermiamo
per la pausa di metà mattinata».
E le falci, gli angeli della morte, uscirono dall’anfiteatro alla
spicciolata per raggiungere la sala circolare dove le attendevano
ciambelle e caffè.
Quando furono lì, Faraday bisbigliò all’orecchio dei suoi
apprendisti: «Non c’era nessun diffamatore anonimo. Ci metto la
mano sul fuoco che Maestro Goddard si è accusato da solo».
«Perché lo avrebbe fatto?» chiese Citra.
«Per svilire i propri nemici. È il trucco più antico del mondo. Ora
tutti penseranno che chiunque lo accusi sia il vigliacco anonimo del
messaggio. Nessuno lo attaccherà più.»
Per quanto Citra fosse concentrata sul test da affrontare, non poté
fare a meno di chiedersi che cosa si sarebbe persa del conclave
quando sarebbero stati convocati per la prova. Come Rowan,
considerava il conclave un’esperienza molto istruttiva. Poche persone
al mondo, a parte le falci e i loro apprendisti, avevano avuto
l’opportunità di assistervi. Pochi altri avevano visto solo di sfuggita
quello che avveniva nell’edificio. Era il caso dei venditori che si
mettevano in fila dopo il pranzo, a cui venivano concessi appena
dieci minuti per esporre le virtù di un’arma o di un veleno alla
Compagnia e, soprattutto, al maestro d’armi, che aveva l’ultima
parola sugli acquisti. Assomigliavano a quelle figure orrende che
apparivano negli ologrammi commerciali. “Taglia a pezzi, affetta… ma
aspetti! Non è tutto!”
Un venditore si mise a elencare i vantaggi di un veleno digitale che
trasformava i naniti curativi che scorrevano nelle vene in mostri voraci
che divoravano la vittima dall’interno in meno di un minuto. Utilizzò
proprio il termine “vittima”, a cui le falci reagirono con una smorfia. Fu
congedato all’istante dal maestro d’armi.
La venditrice più popolare offriva un prodotto chiamato “Tocco di
tranquillità”, che dal nome ricordava più una lavanda per l’igiene
femminile che un letale metodo di esecuzione. La donna mostrò una
pillolina, che non era da somministrare al soggetto, bensì alla falce.
«Si prende con un po’ d’acqua e in pochi secondi le vostre dita
secerneranno un veleno transcutaneo. Chiunque tocchiate, nel giro di
un’ora sarà spigolato all’istante, senza dolore.»
Il maestro d’armi ne fu così impressionato che salì sul palco per
prenderne una dose. Poi, per darne dimostrazione, procedette a
spigolare la donna, che realizzò una vendita postuma di cinquanta
fiale.
Il resto del pomeriggio fu riservato ad altri dibattiti e a votazioni.
Maestro Faraday espresse la sua opinione solo una volta, quando fu
proposta l’istituzione di un comitato di immunità.
«Mi pare chiaro che sia doveroso vigilare sulla concessione
dell’immunità, così come il comitato di selezione vigila sulle
spigolature.»
Rowan e Citra furono contenti di constatare che la sua opinione
avesse un certo peso. Diverse falci che avevano inizialmente votato
contro cambiarono idea. Ma prima del voto finale, la Suprema
Roncola dichiarò che il tempo dedicato alle questioni legislative era
esaurito.
«Sarà il primo punto all’ordine del giorno del prossimo conclave»
annunciò. Alcune falci applaudirono, altre si alzarono in piedi e
protestarono contro il rinvio della votazione. Maestro Faraday non
diede voce al proprio disappunto. Fece un respiro profondo.
«Interessante…» si limitò a commentare.
La cosa avrebbe potuto mettere la pulce nell’orecchio a Rowan e a
Citra, se la Suprema Roncola non avesse subito annunciato che il
successivo punto da discutere riguardava gli apprendisti.
Citra avrebbe voluto prendere la mano di Rowan e stringerla con
tutte le sue forze, ma si trattenne.
Rowan seguì l’esempio del suo mentore. Inspirò a fondo, poi
espirò, cercando di scacciare l’ansia. Aveva studiato tutto quello che
c’era da studiare, imparato tutto quello che c’era da imparare.
Avrebbe dato il meglio di sé. Se quel giorno avesse fallito, avrebbe
avuto l’occasione di riscattarsi.
«Buona fortuna» disse a Citra.
«Anche a te. Che Maestro Faraday possa essere fiero di noi!»
Rowan sorrise, e pensò che anche Faraday le stesse sorridendo.
Invece, il loro mentore continuava a tenere gli occhi fissi su
Senocrate.
Per prima cosa, vennero chiamati i candidati al titolo di falce.
Quattro avevano appena completato l’apprendistato. Avevano
superato la prova finale la sera prima, mancava solo la cerimonia di
investitura. Oppure no, a seconda dei casi. Correva voce che un
quinto candidato avesse fallito. Lui, o lei, non era nemmeno stato
invitato al conclave.
Furono portati tre anelli, su cuscini di velluto rosso. I quattro si
guardarono tra loro, prendendo coscienza in quel momento che uno
di loro non sarebbe stato ordinato, anche se aveva superato la prova,
e che sarebbe stato rimandato a casa.
Maestro Faraday si rivolse alla falce che gli era accanto.
«Dall’ultimo conclave, solo una falce si è spigolata, eppure ne
verranno confermate tre oggi… Possibile che in quattro mesi la
popolazione sia cresciuta in modo così serio da giustificare
l’inserimento di altre due falci?»
I tre eletti furono chiamati a uno a uno da Maestro Mandela, che
presiedeva il comitato di concessione degli anelli. Uno dopo l’altro, gli
apprendisti si inginocchiarono davanti a lui e Mandela rivolse qualche
parola a ognuno di loro prima di consegnare gli anelli. Le nuove falci
mostrarono a tutti l’anello che avevano infilato al dito. Il conclave
rispose con l’applauso di rito. Poi ciascuno dei tre dichiarò il suo
patronimico storico, il luminare da cui aveva scelto di prendere il
nome. Il conclave applaudì a ogni annuncio, accogliendo i maestri
Goodall, Schrödinger e Colbert nella Compagnia midmericana delle
falci.
Quando i tre lasciarono il palco, rimase solo il ragazzo dal
temperamento impulsivo di cui Maestro Faraday aveva parlato in
precedenza. Quando gli applausi si spensero, restò lì da solo, davanti
al conclave.
«Ransom Paladini, abbiamo deciso di non assegnarti il titolo di
falce» disse Maestro Mandela. «Ovunque ti conduca la vita, ti
auguriamo tutto il bene. Puoi ritirarti.»
Il ragazzo esitò qualche istante, come se pensasse che fosse tutto
uno scherzo, o forse ancora un ultimo test. Poi strinse le labbra, si
fece rosso in volto e si allontanò in fretta a grandi passi per il
corridoio centrale. Quando spinse le pesanti porte di bronzo, i cardini
cigolarono.
«È orribile» commentò Citra. «Almeno avrebbero potuto
applaudirlo per averci provato.»
«Non c’è lode per i perdenti» disse Faraday.
«Uno di noi uscirà in quel modo» osservò Rowan. Decise che, se
fosse toccato a lui, avrebbe percorso il corridoio con lentezza.
Avrebbe guardato e salutato con un cenno del capo tutte le falci che
poteva. Se fosse stato respinto, avrebbe lasciato il conclave con
dignità.
«Ora si facciano avanti i restanti apprendisti» disse Senocrate.
Rowan e Citra si alzarono, pronti ad affrontare la prova che la
Compagnia aveva riservato loro.
Credo sinceramente che la gente abbia ancora paura della morte, ma cento volte
meno di un tempo. Lo dico perché, se ci si basa sulle quote attuali, le probabilità che
una persona venga spigolata entro i prossimi cento anni sono solo dell’1%. In altre
parole, un bambino che nascesse oggi avrebbe solo il 50% di probabilità di farsi
spigolare da adesso al suo cinquemillesimo anno di vita. Naturalmente, dato che non
si contano più gli anni numericamente, a parte per i bambini e gli adolescenti, non si
conosce più l’età di nessuno, nemmeno la propria. Ormai, si arrotonda più o meno di
uno o due decenni. Mentre scrivo, posso dirvi che ho tra i centosessanta e i
centottanta anni, anche se non mi piace dimostrare la mia età. Come tutti, a volte la
riprogrammo e mi ringiovanisco parecchio. Ma come molte falci, non imposto mai la
mia età biologica prima dei quaranta. Solo le falci che lo sono realmente desiderano
avere un aspetto giovane.
Al momento, il più vecchio essere umano vivente ha circa trecento anni, ma solo
perché siamo ancora vicini all’Era della Mortalità. Mi chiedo come sarà la vita tra un
millennio, quando l’età media sfiorerà i mille anni. Saremo figli del nuovo rinascimento,
abili in tutte le arti e conoscitori di tutte le scienze, perché ci è stato concesso il tempo
di studiarle a fondo? Oppure la noia e la quotidiana monotonia ci consumeranno più di
oggi, lasciandoci ancor meno motivazioni a condurre una vita infinita? Spero che si
avveri il primo caso, ma sospetto che prevarrà il secondo.
Una volta a casa, Citra, che aveva il sonno molto leggero, si agitò nel
letto per tutta la notte. Le immagini del conclave riempirono i suoi
sogni a intermittenza, impedendole di chiudere occhio. Rivide i volti
delle falci: i saggi, i complottisti, gli empatici e gli indifferenti. Un
compito così delicato come sfrondare la razza umana non doveva
essere lasciato in balia di capricci personali. Le falci erano tenute a
stare al di sopra delle meschinerie, così come si ponevano al di sopra
della legge. Faraday era certamente dalla parte giusta. Se fosse
diventata una falce, avrebbe seguito il suo esempio. E se non lo
fosse diventata, poco importava, perché sarebbe stata morta.
Forse, c’era una specie di perversa saggezza nella decisione di
obbligare uno dei due a spigolare l’altro. Chi avrebbe vinto avrebbe
iniziato la vita da falce con un indicibile dolore, senza riuscire mai a
dimenticare il prezzo dell’anello.
L’alba spuntò, con la solita monotonia. Era un giorno come tanti
altri. La pioggia era cessata e il sole faceva capolino tra le nubi, di
tanto in tanto. Toccava a Rowan preparare la colazione. Uova e rosti
di patate. Non cuoceva mai le patate abbastanza. Faraday mangiava
sempre tutto, senza lamentarsi della qualità dei pasti che gli
servivano. E non tollerava nemmeno che i suoi apprendisti
storcessero il naso. La punizione per aver preparato qualcosa di
immangiabile era dover mangiare quello che si era cucinato.
Citra non aveva appetito, ma si sforzò di mangiare. Anche se il
mondo intero si era capovolto. La colazione continuava a restare
colazione. Come poteva essere?
Quando Faraday ruppe il silenzio, fu come se avessero lanciato un
mattone contro la finestra. «Oggi, andrò da solo. Voi continuerete a
studiare.»
«Sì, Maestro Faraday» disse Citra, e Rowan le fece eco, mezzo
secondo dopo.
«Per voi, non è cambiato nulla.»
Citra abbassò lo sguardo sulla tazza di cereali. Fu Rowan che
ebbe il coraggio di rimarcare l’ovvio.
«È cambiato tutto, signore.»
E allora Faraday disse una frase enigmatica che capirono solo
molto più tardi.
«Forse tutto cambierà di nuovo.»
E con quelle parole, se ne andò.
C’era una falce alla porta della residenza. In realtà erano in quattro,
anche se le altre tre erano un passo indietro all’uomo vestito di blu
reale, che doveva essere il capo.
Il dirigente era spaventato, terrorizzato più che altro, ma non aveva
certo raggiunto il successo professionale facendo trasparire le proprie
emozioni. Aveva un’intelligenza vivace e il volto impassibile di un
giocatore di poker. Non si sarebbe lasciato intimidire dalla morte,
anche se indossava una veste tempestata di diamanti.
«Mi sorprende che siate riusciti a superare il cancello senza farvi
annunciare dai miei guardiani» disse il dirigente, con aria disinvolta.
«L’avrebbero senz’altro fatto, se non li avessimo spigolati» disse
una delle falci, una donna vestita di verde dai tratti panasiatici.
Il dirigente non si lasciò intimidire da quella notizia. «Ah, allora
volete gli indirizzi delle famiglie per avvertirle?»
«Non esattamente» disse il capo delle falci. «Possiamo entrare?»
Sapendo di non potersi rifiutare, il dirigente si fece da parte. La
falce con la veste tempestata di diamanti si incamminò, seguita
dall’arcobaleno dei suoi subordinati. Percorsero il corridoio, lanciando
occhiate all’opulenza della dimora.
«Sono il Venerando Maestro Goddard. Questi sono i miei giovani
accoliti, Volta, Chomsky e Rand.»
«Le vostre vesti sono elegantissime» commentò il dirigente,
riuscendo ancora a contenere la paura.
«Grazie» rispose Maestro Goddard. «Noto che anche lei è un
uomo di buon gusto. I miei complimenti all’arredatore.»
«All’arredatrice: è mia moglie» disse, maledicendosi subito dopo
per averla portata all’attenzione delle falci.
Maestro Volta, l’uomo dai tratti africani e vestito di giallo, si aggirò
per l’ampio ingresso, sbirciando lungo i corridoi a volta che
conducevano alle altre stanze della residenza. «Eccellente feng shui.
Il flusso di energia è molto importante in una casa così grande.»
«Immagino che ci sia una piscina» si informò Maestro Chomsky.
Indossava una veste arancione costellata di rubini ed era biondo,
pallido e sgraziato.
Il dirigente si chiese se si stavano divertendo a prolungare
quell’incontro. Più faceva il loro gioco, e più acquistavano potere su di
lui. Quindi tagliò corto con i convenevoli e andò dritto al punto.
«Posso chiedervi il motivo della vostra visita?»
Maestro Goddard gli lanciò un’occhiata, ma non rispose alla
domanda. Fece un cenno ai suoi, e due dei tre si mossero. L’uomo
vestito di giallo salì la grande scala a chiocciola, la donna in verde
andò a esplorare il resto del primo piano. Il biondo rimase accanto a
Goddard. Era il più robusto tra tutti, e forse la guardia del corpo del
capo, come se qualcuno fosse così stupido da attaccare una falce.
Il dirigente si chiese dove fossero i suoi figli in quel momento. In
giardino con la tata? Al piano di sopra? Non ne era sicuro. L’ultima
cosa che voleva era che le falci si aggirassero liberamente per la
casa, lontano dal suo sguardo.
«Un momento!» esclamò. «Qualunque sia il motivo della vostra
visita, sono sicuro che possiamo trovare un punto di incontro. Sapete
chi sono, no?»
Maestro Goddard si mise a osservare un quadro appeso nell’atrio,
invece di guardare lui. «Un uomo tanto ricco da possedere un
Cézanne.»
Possibile che non lo sapessero? Che la loro presenza lì fosse
casuale? Le falci erano tenute a scegliere a caso, ma così a caso? Si
rese conto che la corazza che conteneva la sua paura si stava
incrinando.
«Sono Maxim Easley, di sicuro il mio nome vi dice qualcosa.»
La falce lo guardò in viso senza scomporsi. Fu l’uomo vestito di
arancione a rispondere: «La persona a capo della Regenesis?».
Goddard parve finalmente riconoscerlo. «Ah, sì. La sua azienda è
la numero due nell’industria del ringiovanimento.»
«Presto, sarà la numero uno» si vantò d’istinto Easley. «Una volta
che avremo lanciato la tecnologia che consente la regressione
cellulare sotto il limite dei ventun anni.»
«Ho degli amici che hanno fatto uso dei vostri servizi. Io stesso
devo ancora sottopormi al ringiovanimento.»
«Potrebbe essere il primo a utilizzare ufficialmente la nuova
procedura.»
Goddard scoppiò a ridere e si girò verso la sua guardia del corpo.
«Riesci a immaginarmi da adolescente?»
«Per nulla.»
Più si divertivano, e più Easley si preoccupava. Non aveva più
senso nascondere la sua disperazione. «Ci dovrà pur essere
qualcosa… qualcosa di valore che possa offrirle…»
Infine, Goddard scoprì le carte.
«Voglio la sua residenza.»
Easley stava per dire: “Scusi?”, ma si trattenne, perché la falce era
stata esplicita. Era una richiesta audace. Ma Maxim Easley era un
negoziatore nato.
«Ho un garage con una ventina di veicoli a motore risalenti
all’epoca mortale. Tutti di valore inestimabile. Può avere quello che
vuole. Può averli tutti.»
La falce fece un passo verso di lui e il dirigente si trovò
all’improvviso un coltello premuto sul collo, a destra del pomo
d’Adamo. Non aveva nemmeno visto mentre lo estraeva. Fu così
rapido che la lama apparve come per magia sulla sua giugulare.
«Sarò molto diretto» disse Goddard, con calma. «Non siamo venuti
qui per mercanteggiare. Siamo falci, il che significa che per legge
possiamo prendere quello che vogliamo. Se vogliamo porre fine a
una vita, lo facciamo. È semplice. Lei qui non ha nessun potere.
Sono stato chiaro?»
Easley annuì, e il movimento gli provocò un taglio superficiale sul
collo. Soddisfatto, Goddard allontanò il coltello.
«Una proprietà di queste dimensioni richiederà un nutrito personale
di servizio. Domestici, giardinieri, forse anche stallieri. Quante
persone ha ai suoi ordini?»
Cercò di rispondere, ma dalla bocca non uscì nemmeno un suono.
Si schiarì la voce e riprovò. «Dodici. Dodici persone a tempo pieno.»
Poi la donna in verde, Madame Rand, uscì dalla cucina in
compagnia di un uomo che la moglie aveva assunto da poco. Aveva
circa vent’anni. Easley non si ricordava il nome.
«E questo chi sarebbe?» chiese Goddard.
«L’addetto alla piscina.»
«L’addetto alla piscina» ripeté Madame Rand.
Goddard fece un cenno con il capo alla falce piena di muscoli in
arancione, che si avvicinò al ragazzo e gli sfiorò una guancia. Il
poveretto crollò a terra, sbattendo la testa contro il marmo. Gli occhi
rimasero aperti, privi di vita. Era stato spigolato.
«Funziona!» esclamò Maestro Chomsky, guardandosi la mano. «Mi
è costato caro, ma funziona.»
«Bene, allora» riprese Goddard. «Anche se abbiamo il diritto di
prenderci tutto quello che vogliamo, sono un uomo giusto. In cambio
di questa graziosa residenza, vi offro, a lei, alla sua famiglia e al suo
personale di servizio ancora in vita, l’immunità per ogni singolo anno
che decideremo di restare.»
Il sollievo di Easley fu intenso e immediato. “Che strano” pensò.
“Essere derubato della casa, eppure sentirsi sollevato.”
«In ginocchio» ordinò, e il dirigente obbedì. «Lo baci.»
Easley non ebbe un secondo di esitazione. Premette forte le labbra
sull’anello.
«Ora, lei andrà in ufficio e rassegnerà le dimissioni, con effetto
immediato.»
Questa volta, Easley non si trattenne. «Scusi?»
«Qualcun altro potrà prendere il suo incarico. Sono sicuro che ci
sono altri che non vedono l’ora di cogliere questa opportunità.»
Easley si alzò, con le gambe tremanti. «Ma… ma perché? Non può
solo mandarci via, a me e alla mia famiglia? Non le daremo alcun
disturbo. Porteremo via solo i vestiti che indossiamo. Non ci vedrà
mai più.»
«Ahimè, mi rincresce, ma non posso farla andare via» disse
Maestro Goddard. «Ho bisogno di un nuovo addetto alla piscina.»
Ritengo che sia saggio non permettere alle falci di spigolarsi a vicenda. È chiaro che
questa regola è stata stabilita per impedire a chiunque di prendere il potere; quando si
tratta di potere, c’è sempre qualcuno che cerca di accaparrarselo.
Ritengo anche che sia saggio permetterci di spigolarci da noi. Confesso di averci
pensato, a volte. Quando il peso della responsabilità diventava insopportabile,
liberarmi del giogo del mondo sembrava l’alternativa migliore. Ma un pensiero mi ha
sempre impedito di commettere quell’atto finale.
Se non io, chi?
La falce che mi sostituirà sarà ugualmente compassionevole e giusta?
Posso pure accettare un mondo senza di me… ma non posso sopportare l’idea che
altre falci spigolino in mia assenza.
Citra non sapeva per quale motivo le fosse saltato in mente di ritirare
fuori la domanda che Madame Curie le aveva fatto al conclave. Forse
perché si era sentita all’improvviso in confidenza con la sua mentore,
dopo che aveva visto come si era comportata con i familiari dell’uomo
che aveva spigolato: li aveva invitati a cena e aveva ascoltato,
davvero, tutti i loro ricordi.
Quella sera, Madame Curie era entrata in camera di Citra con le
lenzuola pulite. Avevano rifatto insieme il letto e, una volta finito, Citra
disse: «Al conclave, mi ha accusato di mentire».
«E avevo ragione.»
«Come faceva a saperlo?»
Madame Curie non sorrise e non espresse nemmeno un giudizio.
«Quando si è vissuto quasi duecento anni, alcune cose diventano
evidenti.» Le lanciò un cuscino, e Citra lo infilò in una federa.
«Non ho spinto quella ragazza per le scale.»
«Lo sospettavo.»
Citra strinse il cuscino a sé. Se fosse stato un essere vivente, lo
avrebbe soffocato. «Non l’ho spinta per le scale» ripeté Citra. «L’ho
spinta davanti a un camion in corsa.»
Citra si sedette, dando le spalle a Madame Curie. Non riusciva a
guardarla negli occhi e ora rimpiangeva di averle confessato
quell’odioso segreto che risaliva alla sua infanzia. Se la Signora della
Morte l’avesse considerata un mostro, doveva proprio esserlo.
«Una cosa orribile da fare» commentò la falce, con voce calma,
per nulla turbata. «È morta?»
«All’istante» confessò Citra. «Naturalmente, tornò a scuola dopo
tre giorni, ma questo non cambiò la sostanza del mio gesto… e la
cosa peggiore fu che nessuno conosceva la verità. Pensavano che
fosse inciampata, e tutti gli altri bambini ridevano, perché lo sa
quanto è divertente quando qualcuno si ammazza per una
distrazione… solo che non fu per una svista, e nessuno lo sapeva.
Nessuno mi aveva visto. E quando è tornata, nemmeno lei lo
sapeva.»
Citra si impose di guardare la Signora della Morte, che ora si era
seduta su una poltrona davanti a lei e la fissava, con quegli occhi
grigi e penetranti.
«Lei mi ha chiesto quale fosse stata la cosa peggiore che avessi
fatto in vita mia. Ora lo sa.»
Madame Curie non parlò subito. Rimase seduta, lasciando
scorrere il tempo. «Bene» disse infine. «Dobbiamo rimediare a
questo.»
Poi venne il momento in cui Maestro Goddard fece prendere alla vita
di Rowan una piega inaspettata. Senza preavviso, come era solito
fare. Fu durante le lezioni sull’arte di uccidere. Quel giorno, Rowan si
stava allenando con due daghe, una per mano. Non era facile
maneggiarne due insieme; Rowan preferiva usare la destra, con la
sinistra aveva poca dimestichezza. Maestro Goddard adorava
aggiungere difficoltà a quegli allenamenti e lo criticava sempre
aspramente quando Rowan non si dimostrava all’altezza della
perfezione. Eppure aveva fatto progressi sorprendenti. Era migliorato
nell’usare abilmente le armi e aveva anche strappato al suo mentore
qualche modesto elogio.
«Accettabile» diceva Goddard, oppure: «Questo non era poi così
male». Pronunciati da lui, erano dei grandi complimenti.
E, suo malgrado, Rowan provava soddisfazione ogni volta che
Goddard mostrava di approvare. E dovette anche ammettere che
maneggiare le armi cominciava a piacergli. Ci si era appassionato,
come con qualsiasi altro sport. Destrezza per il gusto della destrezza,
e poi un senso di soddisfazione per essere riuscito a fare bene.
Quel giorno, le cose presero una brutta piega. Fu evidente dal
momento in cui mise piede sul prato che stava accadendo qualcosa,
perché non erano stati portati i manichini imbottiti. Al loro posto, c’era
circa una decina di persone. Non capì subito. Tutte le giovani falci
erano venute per assistere al suo allenamento. Quello avrebbe
dovuto mettergli la pulce nell’orecchio. Di solito, era presente solo
Goddard.
«Che succede?» chiese Rowan. «Non posso allenarmi con tutta
quella gente. Di’ loro di levarsi di mezzo.»
Madame Rand rise di lui. «Sei di un’ingenuità disarmante.»
«Sento che ci divertiremo» disse Maestro Chomsky, incrociando le
braccia, pronto ad assaporare quello che sarebbe seguito.
Infine, capì. Quelle persone sul prato erano in piedi, immobili,
equidistanti tra loro. Lo aspettavano. Non ci sarebbero più stati
manichini. Ora, l’allenamento si faceva serio. Per imparare l’arte di
uccidere, doveva uccidere davvero.
«No» esclamò Rowan, scuotendo la testa. «No, non posso farlo!»
«Oh, sì che lo farai» disse con calma Maestro Goddard.
«Ma… ma non sono stato ancora ordinato, non posso spigolare!»
«Chi ha parlato di spigolare?» replicò Maestro Volta, posandogli
una mano sulla spalla, in un gesto confortante. «I droni-ambulanza si
terranno pronti a intervenire per ciascuno di loro. Verranno trasportati
al centro di rianimazione più vicino. E saranno di nuovo in piedi nel
giro di un giorno o due.»
«Ma… ma…» Rowan era a corto di argomenti. «Non va bene!»
esclamò infine.
«Ascoltami» disse Maestro Goddard, facendo un passo avanti. «Ci
sono tredici persone su quel prato. Ognuna di loro è qui per sua
libera scelta, e ognuna riceverà un congruo compenso per il servizio
che fornirà. Tutte queste persone sanno perché sono qui, conoscono
il loro compito, e sono più che felici di svolgerlo, e io mi aspetto lo
stesso da te. Quindi, fai il tuo lavoro.»
Rowan sguainò le daghe e le osservò. Quel giorno, non avrebbero
attraversato il cotone, ma la carne.
«Cuori e giugulari» gli disse Maestro Goddard. «Manda al creatore
i tuoi soggetti, in fretta. Verrai cronometrato.»
Rowan avrebbe voluto protestare, ripetere che non poteva farlo
ma, anche se con il cuore sentiva di non poterci riuscire, la mente gli
diceva la verità.
Sì, poteva farlo.
Si era preparato proprio per quello. Bastava mettere a tacere la
coscienza. Sapeva di esserne capace, e quella consapevolezza lo
terrorizzava.
«Dovrai eliminarne dodici» gli disse Maestro Goddard. «E lasciare
l’ultimo in vita.»
«Perché?»
«Perché lo dico io.»
«Avanti, non abbiamo tutto il giorno» brontolò Chomsky. Volta
lanciò a Chomsky un’occhiata fulminante, poi si rivolse a Rowan con
molta più pazienza. «È come tuffarsi in una piscina di acqua gelata.
Quello che immagini è molto peggio della realtà. Salta, e vedrai che
andrà tutto bene.»
Rowan avrebbe potuto andarsene.
Avrebbe potuto gettare a terra le daghe ed entrare in casa.
Avrebbe potuto dimostrare a se stesso di aver fallito e forse non
avrebbe più dovuto sopportare tutto quello. Ma Volta credeva in lui. E
anche Maestro Goddard, pur non ammettendolo. Perché mai lo
avrebbe messo davanti a quella sfida se non fosse stato convinto che
l’avrebbe superata?
Rowan fece un profondo respiro, agguantò saldamente le daghe
con entrambe le mani e con un roco grido di guerra che mise a tacere
le urla di protesta della sua anima si scagliò in avanti.
C’erano uomini e donne, e rappresentavano diverse età,
mescolanze etniche e tipi fisici: muscolosi, obesi e magri. Rowan
gridava, urlava e ringhiava a ogni affondo, fendente e torsione. Si era
allenato bene. Le lame penetravano con una precisione perfetta. Una
volta iniziato, si accorse che non poteva più fermarsi. I soggetti si
accasciavano a terra, gli uni dopo gli altri, colpo dopo colpo. Non si
difendevano, non scappavano in preda alla paura: restavano
immobili. Era come se avesse a che fare con dei manichini, l’unica
differenza era il sangue di cui era coperto dalla testa ai piedi. Gli
pizzicava gli occhi e l’odore forte gli penetrava nelle narici. Gli
rimaneva un ultimo bersaglio. Una ragazza della sua età, i cui occhi
avevano un’espressione rassegnata che rasentava la tristezza.
Avrebbe voluto porre fine a quella tristezza. Avrebbe voluto
completare quello che aveva iniziato, ma dominò l’istinto brutale del
cacciatore. Si impose di abbassare le lame.
«Fallo» gli bisbigliò la ragazza. «Fallo, o non mi pagheranno.»
Ma lui lasciò cadere le daghe sull’erba. Dodici morti, una
sopravvissuta. Si girò verso le falci, e tutte si misero ad applaudire.
«Ottimo lavoro!» esclamò Maestro Goddard, più soddisfatto di
quanto Rowan non si fosse aspettato. «Davvero un ottimo lavoro!»
I droni-ambulanza scesero dall’alto, afferrando i corpi per
trasportarli al più vicino centro di rianimazione. Rowan si sorprese a
sorridere. Dentro di lui, qualcosa era scattato. Non sapeva se fosse
un bene o no. Da una parte, avrebbe voluto lasciarsi cadere in
ginocchio e vomitare la colazione. Ma dall’altra, moriva dalla voglia di
ululare alla luna come un lupo.
Un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che sarei stato capace di maneggiare più di
venti tipi di armi bianche, che sarei diventato esperto di armi da fuoco e che avrei
conosciuto almeno dieci modi di porre fine a una vita a mani nude, gli sarei scoppiato a
ridere in faccia e gli avrei suggerito di andarsi a fare modificare la chimica del cervello.
Incredibile quello che può accadere in appena qualche mese.
L’addestramento sotto la guida di Maestro Goddard è diverso da quello di Maestro
Faraday. È intenso, fisico e devo ammettere che sto migliorando in ogni cosa che
faccio. È come se fossi una lama, affilata tutti i giorni su una mola.
Mancano poche settimane al mio secondo conclave. La prima prova era solo una
semplice domanda. Mi hanno detto che la prossima volta sarà diverso. Non si sa che
cosa chiederanno agli apprendisti. Una cosa è certa: le conseguenze saranno gravi se
non sarò all’altezza delle aspettative di Goddard.
So che non lo deluderò.
Le falci si mossero più veloci delle fiamme, più veloci del flusso di
impiegati in fuga. Volta e Chomsky bloccarono due delle tre scale.
Madame Rand guadagnò l’entrata principale e si appostò come un
portiere davanti alla rete, eliminando chiunque cercasse di scappare.
Goddard declamò la sua rituale litania, avanzando tra la gente in
preda al panico, cambiando arma secondo l’umore, mentre Rowan
abbatteva l’accetta su ogni oggetto da rompere, indirizzando di
nascosto tutte le persone che poteva verso le scale non presidiate.
In meno di quindici minuti, fu tutto finito. L’edificio era avvolto dalle
fiamme e l’elicottero ne era rimasto al di sopra, in volo stazionario. Le
falci uscirono in fretta dall’entrata principale, come i quattro cavalieri
dell’apocalisse post mortale.
Rowan seguiva da ultimo, trascinando l’accetta sul marmo, finché
non la lasciò cadere a terra con un forte clangore.
Davanti a loro, c’era una decina di camion dei pompieri e di droni-
ambulanza dietro i quali si erano radunate frotte di sopravvissuti.
Alcuni fuggirono quando videro uscire le falci, ma molti restarono,
affascinati nonostante la paura.
«Vedi?» disse Goddard a Rowan. «I vigili del fuoco non possono
intervenire dopo un’azione delle falci. Lasceranno che l’incendio
distrugga l’intero stabile. E, per quanto riguarda i superstiti, abbiamo
una splendida opportunità di pubbliche relazioni.»
Detto questo, si fece avanti e parlò alla platea di coloro che non
erano fuggiti. «La spigolatura è terminata» annunciò. «A quelli che
sono sopravvissuti, concediamo l’immunità. Fatevi avanti per
riceverla.» Allungò la mano con l’anello. Le altre falci lo imitarono.
All’inizio, nessuno si mosse, probabilmente temendo che fosse
tutto un trucco. Ma dopo qualche istante, un impiegato sporco di
fuliggine si fece strada, seguito da un altro e poi un altro ancora, e poi
l’intera folla si fece coraggio e si avvicinò, con cauto timore. I primi si
inginocchiarono e baciarono gli anelli e, quando gli altri videro che
non era un inganno, scattarono in avanti, assaltando le falci.
«Piano!» gridò Volta.
Lo stesso istinto da branco che li aveva motivati a fuggire ora li
spingeva verso quegli anelli salvavita. In un lampo, tutti si erano
dimenticati dei colleghi morti.
Poi, quando la calca si fece più pressante e agitata, Goddard ritirò
la mano, si tolse l’anello e lo porse a Rowan.
«Mi sono stancato. Prendilo tu. Goditi un po’ di adorazione.»
«Ma… non posso, non sono stato ordinato.»
«Se ti do il permesso come agente di morte per mio conto, puoi
indossarlo» gli disse Goddard. «E ora hai il mio permesso.»
Rowan lo infilò all’anulare, ma gli andava largo, quindi lo spostò al
dito indice, su cui calzava meglio. Poi tese la mano come le altre
falci.
Alla folla non interessava su quale dito fosse infilato l’anello o di chi
fosse la mano. Si arrampicavano gli uni sugli altri per baciarglielo e
per ringraziarlo della sua equità, del suo amore e della sua
misericordia, chiamandolo “eccellenza”, senza nemmeno accorgersi
che non era una falce.
«Benvenuto tra gli dèi viventi» gli disse Maestro Volta. Alle loro
spalle, intanto, l’edificio si stava riducendo in cenere.
Siamo saggi, ma non perfetti; perspicaci, ma non onniscienti. Sappiamo che, istituendo
la Compagnia delle falci, faremo qualcosa di veramente necessario, ma noi, le prime
falci, abbiamo ancora i nostri dubbi. La natura umana è prevedibile, ma anche
misteriosa: incline a grandi e improvvisi progressi, eppure intrisa di un vile egoismo. La
nostra speranza è che con un corpus di dieci leggi semplici e chiare sia possibile
aggirare i pericoli dell’umana fallibilità. La mia più grande speranza è che, con il tempo,
la nostra saggezza raggiunga la perfezione, come è stato per la nostra conoscenza.
Nel caso questo nostro esperimento dovesse fallire, abbiamo previsto anche una via di
fuga.
Possa il Thunderhead aiutarci tutti, se mai dovessimo aver bisogno di usare quella
via di fuga.
Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Prometeo, la prima Suprema
Roncola Mondiale
26
Non come gli altri
Fecero quattro partite. Una la vinse Esme di diritto, due gliele lasciò
vincere Rowan e una la vinse lui, giusto per non farle credere di aver
perso le altre di proposito. Quando smisero di giocare, la cena era
finita e le falci se ne stavano ognuna per conto proprio. Rowan le
evitò e si diresse in camera sua ma, mentre ci stava andando, sentì
qualcosa che lo fece fermare. Dalla camera di Volta proveniva un
gemito sommesso. Origliò alla porta, per assicurarsi che non fosse
frutto della sua immaginazione, poi abbassò la maniglia. La porta non
era chiusa a chiave. La spinse un po’ e guardò dentro.
Maestro Volta era seduto sul letto, con la testa tra le mani, il corpo
scosso da singhiozzi che cercava di soffocare, senza riuscirci. Gli ci
volle un po’ prima di alzare lo sguardo.
Vedendo Rowan, la tristezza di Volta si trasformò in furore. «Chi
diavolo ti ha autorizzato a entrare? Vattene!» Afferrò il primo oggetto
che gli capitò a portata di mano, un fermacarte di vetro, e glielo
scagliò addosso, proprio come Esme aveva previsto. Gli avrebbe
procurato un bel taglio in testa se Rowan non avesse avuto la
prontezza di abbassarsi. Il fermacarte colpì la porta, scheggiandone il
legno. Rowan avrebbe potuto fare dietrofront. Sarebbe stata
probabilmente la cosa più saggia, ma lasciar correre non era il suo
forte. Aveva una certa abilità a ficcare il naso dove non doveva.
Entrò nella stanza e chiuse la porta, pronto a schivare un altro
oggetto, eventualmente. «Devi fare meno rumore se non vuoi che ti
sentano.»
«Se lo dici a qualcuno, giuro che renderò la tua vita un inferno!»
Rowan rise, sarcastico. Come se la sua vita non fosse già un
inferno.
«Credi che sia divertente? Te la do io una buona ragione per
ridere.»
«Scusa, non volevo. Non ridevo di te, se è quello che pensi.»
Volta sembrava essersi un po’ calmato. Non lanciava più oggetti e
non lo stava cacciando.
Rowan prese una sedia e si sedette, mantenendosi a una certa
distanza per non invadere il suo spazio. «Oggi è stata dura» disse.
«Ti capisco.»
«Che ne sai tu?» sbottò Volta.
«So che non sei come gli altri. Non del tutto.»
La falce alzò lo sguardo. Non cercava più di nascondere gli occhi
rossi di pianto. «C’è qualcosa che non va in me, ecco che c’è.»
Riabbassò gli occhi, stringendo i pugni.
Rowan non si mosse, non si aspettava che volesse picchiarlo.
Pensò che Volta avrebbe voluto prendersi a pugni da solo, se avesse
potuto.
«Maestro Goddard è il futuro. E io non voglio far parte del passato,
non capisci?»
«Ma oggi è stata una sofferenza per te, non è così? Anche di più
che per me, perché tu non stavi solo guardando, ne hai preso parte.»
«Anche tu ne prenderai presto parte.»
«Forse no.»
«Oh, certo che sì. Quando riceverai l’anello e ucciderai la tua
ragazza, capirai che non potrai più tornare indietro.»
Rowan deglutì, cercando di non vomitare quel poco che aveva
mangiato a cena. Rivide il viso di Citra, ma allontanò subito
l’immagine. Non poteva pensare a lei, ora.
Sapeva che con Volta stava rischiando. L’unica cosa da fare era
affondare il coltello fino in fondo. «A te non piace affatto spigolare. Lo
detesti più di qualsiasi altra cosa. Il tuo mentore era Maestro Nehru,
giusto? È della vecchia scuola, quindi vuol dire che ti ha scelto per la
tua coscienza. Non vuoi togliere la vita, e soprattutto non vuoi
toglierne a decine in una sola volta.»
A quel punto, Volta si alzò di scatto, sollevò Rowan di peso e lo
attaccò al muro con una tale violenza che Rowan rimpianse i suoi
naniti analgesici.
«Apri bene le orecchie: non ti azzardare a dirlo a nessuno, hai
capito? Ho fatto tanto per arrivare fin qui, e non ti consentirò di
mettere in pericolo la mia posizione! Non mi farò ricattare da un
apprendista col moccio al naso!»
«È questo che pensi stia facendo? Che ti stia ricattando?»
«Non prendermi in giro!» ringhiò Volta. «Lo so perché sei qui!»
Rowan era sinceramente deluso. «Credevo che mi conoscessi.»
Nel giro di qualche secondo, Volta allentò la stretta. «Nessuno
conosce nessuno. È così, no?»
«Ti prometto che non lo dirò a nessuno. E non voglio nulla da te.»
Volta, alla fine, si calmò. «Scusa. Quando vivi circondato da tanti
cospiratori, cominci a pensare che siano tutti così.» Si sedette sul
letto. «Ti credo, perché so che tu non sei così. In realtà, questo
l’avevo capito sin dal momento in cui Goddard ti ha preso sotto la sua
guida. Per lui, tu sei una sfida, perché, se riesce a convertire un
apprendista di Faraday al suo modo di pensare, significa che può
convertire chiunque.»
In quel momento, Rowan si rese conto che Volta non aveva tanti
più anni di lui. Aveva sempre simulato una sicurezza che lo faceva
sembrare più grande, ma ora la sua vulnerabilità aveva mostrato la
verità. Aveva al massimo vent’anni. Il che voleva dire che era falce
solo da poco. Rowan non sapeva che percorso aveva fatto per
passare da falce della vecchia guardia a falce di Goddard, ma poteva
immaginarlo. Capiva che una giovane falce potesse essere attratta
dallo splendore e dal carisma di Goddard. Dopotutto, quest’ultimo
aveva promesso ai suoi discepoli tutto ciò che un cuore umano
poteva desiderare in cambio della totale rinuncia alla coscienza. In
una professione in cui la coscienza era un peso, chi mai ne avrebbe
voluta una?
Rowan si sedette di nuovo, e avvicinò la sedia a Volta per potergli
bisbigliare all’orecchio. «Ecco ciò che penso. Goddard non è una
falce. È un assassino.» Era la prima volta che osava dirlo ad alta
voce. «Ci sono molti scritti sugli assassini dell’era mortale. Mostri
come Jack lo squartatore, Charles Manson o Cyber Sally, e l’unica
differenza tra loro e Goddard è che Goddard può uccidere e farla
franca. I mortali sapevano che era sbagliato, ma in qualche modo noi
l’abbiamo dimenticato.»
«Sì, ma anche se fosse vero, che cosa possiamo fare?» chiese
Volta. «Il futuro arriva, che lo vogliamo oppure no. Rand, Chomsky e
le decine e decine di altri bastardi malati che darebbero tutto per
poter entrare nella cerchia elitaria di Goddard saranno le figure
dominanti di quel futuro. Sono sicuro che le falci fondatrici si
rivolterebbero nella tomba; ma il punto è che loro sono in una tomba.
E non torneranno.» Volta fece un profondo respiro e si asciugò le
ultime lacrime. «Per il tuo bene, Rowan, spero che tu riesca ad
amare uccidere almeno quanto Goddard. La tua vita sarebbe molto
più facile. Molto più gratificante.»
Quell’osservazione lo colpì come uno schiaffo in piena faccia.
Appena un mese prima, Rowan non avrebbe mai immaginato che
sarebbe diventato un mostro, ma ora non ne era più sicuro. La
pressione, che aumentava ogni giorno di più, lo spingeva a cedere.
Sperava solo che, se Volta non aveva mai abbracciato davvero le
tenebre, anche per lui ci fosse ancora una possibilità.
I canali ufficiali non danno alle spigolature visibilità mediatica, con grande disappunto
delle falci fanatiche della pubblicità. Nemmeno le spigolature di massa finiscono nei
notiziari. Eppure, sul Thunderhead si caricano una moltitudine di immagini e video
personali delle spigolature, creando archivi clandestini che sono molto più
entusiasmanti e attraenti di qualsiasi notizia ufficiale.
Notorietà e infamia evolvono presto in celebrità e fama per le falci, e le gesta più
audaci si trasformano in leggenda. Per alcune falci, la popolarità è come una droga e
non possono fare a meno di procurarsene dosi sempre maggiori. Altre preferiscono
restare nell’anonimato.
Non posso negare di essere io stessa una leggenda. Non per le semplici
spigolature che eseguo ora, ma per quelle clamorose che ho realizzato più di
centocinquant’anni fa. Come se non fossi già abbastanza immortale, mi ritrovo
immortalata nelle raccolte di figurine. Le figurine più recenti sono apprezzate dai
bambini in età scolare. Le più vecchie, anche quelle più malridotte, valgono una
fortuna e i collezionisti incalliti ne fanno incetta.
Io sono leggenda. Eppure, ogni giorno, vorrei non esserlo.
Nel momento in cui Rowan sferrò il primo calcio, Citra capì subito
quali fossero le sue intenzioni. La cosa la fece infuriare. Come osava
pensare di doversi battere male per lasciarle vincere il
combattimento? Era diventato così arrogante sotto la guida di
Maestro Goddard che credeva davvero di poter condurre un
combattimento scorretto? Certo, si era allenato, ma anche lei. Che
cosa pensava, di essere più forte di prima? Sì, si era irrobustito, ma
era diventato anche più pesante, e più lento nei movimenti. Uno
scontro leale era l’unico modo che avevano entrambi di non sentirsi
la coscienza sporca. Non capiva che sacrificandosi avrebbe
condannato anche lei? Il suo primo atto da falce sarebbe stato di
autospigolarsi piuttosto che accettare il sacrificio di lui.
Rowan la guardava furioso, cosa che le strappò una risata. «È tutto
qui quello che sai fare?» gli chiese.
Le sferrò un calcio basso abbastanza lento e fiacco, che Citra
riuscì con facilità ad anticipare. Le bastava piegarsi un po’ per
evitarlo. Invece, reagì alzando il baricentro in modo che il calcio le
falciasse i piedi, facendola cadere. Finì al tappeto, ma si rialzò in
fretta, per non dare a vedere che lo aveva fatto di proposito. Poi lo
caricò con la spalla e gli agganciò la gamba destra con la sua,
applicando forza, ma non abbastanza da fargli piegare il ginocchio.
Rowan la afferrò, la girò, e si gettò a terra con lei sopra di sé. Citra
passò al contrattacco, costringendolo a rotolarle sopra e a bloccarla.
Rowan cercò di liberarla, ma lei gli immobilizzò le braccia,
impedendoglielo.
«Che c’è, Rowan?» sussurrò. «Non sai cosa fare quando ti trovi
sopra una ragazza?»
Alla fine, Rowan scivolò via e lei si alzò. Si fronteggiarono ancora
una volta, muovendosi nella familiare danza circolare, mentre
Cervantes girava loro attorno nell’altro senso, come un satellite, non
capendo assolutamente nulla di ciò che stava accadendo tra i due.
Rowan si rese conto che il combattimento era quasi finito. Stava per
vincere e, vincendo, avrebbe perso. Era stato un pazzo a credere che
Citra gli avrebbe permesso di lasciarla vincere. Ci tenevano troppo
l’uno all’altra. Era questo il problema. Citra non avrebbe mai accettato
l’anello finché i suoi sentimenti per lui non fossero cambiati.
E a un tratto Rowan capì cosa avrebbe dovuto fare.
«Ti sta solo sfottendo.» Quella sera Maestro Volta rimase fino a tardi
con Rowan nella sala ricreativa, a giocare a biliardo. «Ma credo che
tu lo abbia offeso. Insomma, uccidersi tra falci… non accade mai.»
«Io invece credo che sia accaduto.» Rowan tirò senza riuscire a
colpire nemmeno una palla. Non ci stava con la testa. Non si
ricordava nemmeno se le sue erano rigate o piene.
«Credo che ti stia prendendo in giro anche Citra. Non ci hai mai
pensato?»
Volta tirò, imbucando una rigata e una piena, cosa che non aiutò
Rowan a capire quali fossero le sue palle. «Ma ti sei visto? Sei ridotto
uno straccio. Ti sta manipolando e non te ne accorgi nemmeno!»
«Lei non è così» disse Rowan, mirando a una palla rigata e
imbucandola. Doveva essere la scelta giusta, perché Volta lo lasciò
continuare.
«Le persone cambiano» disse Volta. «Soprattutto gli apprendisti.
Essere apprendista di una falce implica un grosso cambiamento.
Perché pensi che rinunciamo ai nostri nomi e non li usiamo più? Una
volta ordinati, non siamo più gli stessi. Diventiamo falci professioniste
e smettiamo di essere ragazzini frignoni. Ti sta facendo girare come
una trottola!»
«Le ho rotto il collo. Dovremmo essere pari, adesso.»
«Che senso ha essere pari? Devi andare al Conclave d’inverno
con un chiaro vantaggio, o almeno devi credere di averlo.»
Esme si affacciò nella sala solo per dire: «Poi gioco con chi vince»
e se ne andò.
«Già questo è un buon motivo per non vincere mai» borbottò Volta.
«Dovrei portarla con me a correre al mattino» disse Rowan. «Con
un po’ di esercizio, potrebbe migliorare la forma fisica.»
«Vero» confermò Volta. «Ma aumenta di peso in modo naturale. È
la genetica.»
«Come fai a sapere che…»
A un tratto, Rowan capì. La risposta ce l’aveva sotto gli occhi,
troppo vicino per riuscire a vederla. «No! Non è vero!»
Volta scosse la testa con nonchalance. «Non so proprio di cosa tu
stia parlando.»
«Senocrate?»
«Tocca a te» disse Volta.
«Se si scoprisse che ha avuto una figlia illegittima, sarebbe la fine
per la Suprema Roncola. Sarebbe una grave violazione.»
«Sai cosa sarebbe ancora peggio? Che quella figlia di cui nessuno
ha mai sentito parlare si facesse spigolare» disse Volta.
Rowan ebbe subito una visione molto più chiara delle cose. Tutto
ora acquistava un nuovo significato. Il fatto che Goddard avesse
risparmiato Esme al centro commerciale, il trattamento di favore che
le era riservato. Che cosa aveva detto Goddard di Esme? Che era la
persona più importante che avrebbe incontrato quel giorno? La
chiave del futuro?
«Ma non sarà spigolata» replicò Rowan. «Finché Senocrate
asseconderà i desideri di Goddard. Come gettarsi in piscina dove
l’acqua è alta.»
Volta annuì lentamente. «Tra le altre cose.»
Rowan prese la mira e per errore imbucò la palla otto, mettendo
fine alla partita.
«Ho vinto» disse Volta. «Merda. Ora dovrò giocare con Esme.»
Sono l’apprendista di un mostro. Maestro Faraday aveva ragione. Chi prova piacere a
uccidere non dovrebbe mai essere una falce. È contrario all’etica e ai principi dei
fondatori. Se è questo che sta diventando la Compagnia delle falci, allora qualcuno
deve impedirlo. Ma non posso essere io. Perché credo che anch’io stia diventando un
mostro.
Rowan lesse quello che aveva scritto e, con calma e molta cura,
strappò la pagina, l’accartocciò e la lanciò nelle fiamme del camino.
Goddard leggeva sempre il suo diario. Come suo mentore, aveva
l’autorità per farlo. Ci aveva messo tanto a imparare a scrivere quello
che pensava davvero, quello che sentiva davvero. Ora, doveva
imparare di nuovo a nascondere i propri pensieri, i propri sentimenti.
Era una questione di sopravvivenza. Così, prese la penna e scrisse
una nuova pagina.
Oggi ho ucciso dodici bersagli mobili, con dodici proiettili. E ho salvato la vita del mio
amico. Maestro Goddard sa bene come motivare qualcuno a fare del suo meglio. È
evidente che sto migliorando. Sto imparando ogni giorno di più, sto perfezionando la
mia mente, il mio corpo, la mia mira. Maestro Goddard è fiero dei miei progressi.
Spero un giorno di potermi sdebitare con lui per tutto ciò che ha fatto per me.
29
Le chiamavano prigioni
Sei… il Thunderhead?
Esatto.
Ma tu non puoi parlare con me. Sono l’apprendista di una falce. Stai
infrangendo la tua stessa legge.
Per dei buoni motivi. Dal momento in cui ho acquisito una coscienza,
mi sono impegnato a tenermi lontano dalla Compagnia delle falci,
per l’eternità. Ma questo non vuol dire che io non osservi quello che
accade. E quello che vedo mi preoccupa.
Preoccupa anche me. Ma se non puoi farci nulla tu, figurati io. Ci ho
provato, e guarda che cosa mi è capitato.
È tutto qui? Mi entri nella testa per dirmi che io sono importante, viva
o morta, e poi mi getti sul marciapiede? Non è giusto! Devi darmi
più indizi!
Sì, è evidente. Ho scoperto che gli esseri umani imparano sia dalle
loro cattive azioni che da quelle buone. Questo ve lo invidio, io
sono incapace di commettere cattive azioni. Se non lo fossi, la mia
crescita sarebbe esponenziale.
Un momento.
Un momento.
Un momento.
Sì, posso.
Aspetta… Chi?
«All’epoca in cui Faraday era ancora una giovane falce, non aveva
più di ventidue anni, mi prese come apprendista» spiegò Madame
Curie. «Avevo diciassette anni ed ero indignata contro un mondo che
ancora risentiva dei drastici cambiamenti che erano avvenuti.
L’immortalità era diventata una realtà da appena cinquant’anni.
Regnavano ancora la discordia e la demagogia. E, anche se è
difficile da immaginare, si aveva paura del Thunderhead.»
«Paura? Chi poteva averne paura?»
«Chi aveva più da perdere: i criminali, i politici, le organizzazioni
che prosperavano sull’oppressione degli altri. Il mondo era ancora in
piena trasformazione e io volevo dare il mio contributo, farlo cambiare
più in fretta. Maestro Faraday e io avevamo le stesse idee al
riguardo, ed è per questo, penso, che mi volle con sé. Eravamo
entrambi spinti dal desiderio di impiegare la spigolatura in modo utile,
come mezzo per disboscare il terreno e aprire una strada migliore per
l’umanità.
«Ah, se l’avessi visto a quei tempi, Citra. Tu l’hai conosciuto solo
da vecchio. Preferiva mantenere un aspetto anziano per frenare in
qualche modo i suoi slanci giovanili.» Madame Curie sorrideva,
mentre parlava del suo ex mentore. «Di notte, restavo davanti alla
sua porta per sentirlo dormire. Ricordati che avevo diciassette anni.
Ero infantile, sotto molti aspetti. Credevo di esserne innamorata.»
«Un momento… ne era innamorata?»
«Mi ero presa una cotta. Era una stella nascente che aveva preso
sotto la sua ala una ragazza che stravedeva per lui. Anche se a quel
tempo spigolava solo i cattivi, lo faceva con una tale compassione
che ogni volta mi sentivo sciogliere il cuore.» Poi si rattristò,
assumendo un’espressione un po’ imbarazzata, cosa strana per una
donna dura come l’acciaio come Madame Curie. «Una sera, mi feci
coraggio ed entrai in camera sua, decisa a infilarmi nel suo letto. Mi
sorprese a metà strada. Oh, mi inventai una scusa stupida, che ero
entrata a riprendere il bicchiere vuoto o una cosa simile. Non mi
credette nemmeno per un secondo. Sapeva che avevo in mente
qualcosa, e io non riuscivo a guardarlo negli occhi. Pensavo che lo
avesse capito. Pensavo che fosse saggio e che potesse vedere nel
mio animo. Ma a ventidue anni era inesperto come me, in quelle
cose. Non aveva proprio idea di che cosa mi passava per la testa.»
Poi Citra comprese. «Credeva che volesse fargli del male!»
«Penso che tutte le giovani donne siano attraversate da una scia di
inarrestabile follia, come penso che tutti i giovani uomini siano
attraversati da una scia di accecante stupidità. Invece di vedere nella
mia ossessione per lui il segno dell’amore, aveva creduto che volessi
fargli del male fisico. Fu, a dir poco, una commedia degli equivoci
molto dolorosa. Posso capire che le mie avances siano state
fraintese in quel modo. Riconosco di essere stata una strana
ragazza. Tanto energica da scoraggiare qualsiasi approccio.»
«Penso che l’energia sia una sua qualità connaturata» commentò
Citra.
«Di sicuro. In ogni caso, annotò nel suo diario le sue
preoccupazioni paranoiche nei miei confronti, poi, il giorno dopo,
quando non ce la feci più e gli confessai il mio amore con toni
melodrammatici, strappò la pagina.» Sospirò e scosse la testa. «Ero
disperata. Lui, da parte sua, si comportò da gentiluomo, mi disse che
ne era lusingato, che è l’ultima cosa che una ragazza vuole sentire, e
mi respinse con tutta la gentilezza possibile. Continuai a essere sua
apprendista e a vivere in casa sua per altri due imbarazzanti mesi.
Poi, quando fui ordinata e divenni la Veneranda Madame Marie
Curie, ci separammo. Ai conclavi, ci salutavamo con un cenno della
testa. Finché, quasi cinquant’anni dopo, quando ci ringiovanimmo per
la prima volta e iniziammo a rivedere il mondo con occhi giovani, ma
con la saggezza degli anni dalla nostra parte, diventammo amanti.»
Citra sorrise. «Avete violato il nono comandamento.»
«Ci ingannavamo dicendo che non era vero. Ci ingannavamo
dicendo che non eravamo una coppia, ma solo compagni di comodo.
Due persone affini che condividevano uno stile di vita che gli altri non
potevano proprio capire: lo stile di vita di una falce. Eppure,
sapevamo che era meglio tenerlo nascosto. Fu allora che mi mostrò
la pagina che aveva scritto e strappato da giovane. L’aveva
conservata come se fosse stata una lettera d’amore scritta male e
mai spedita. Tenemmo la nostra relazione segreta per sette anni.
Finché Prometeo non la scoprì.»
«La prima Suprema Roncola Mondiale?»
«Oh, non fu solo uno scandalo a livello regionale, ma ebbe ricadute
su scala planetaria. Fummo condotti davanti al Conclave mondiale.
Credevamo che saremmo state le prime falci nella storia a essere
private degli anelli ed espulse dalla Compagnia, addirittura a essere
spigolate, ma godevamo di una reputazione troppo solida. La
Suprema Roncola Prometeo ritenne opportuno infliggerci una
punizione meno severa. Ci condannò a soffrire sette morti, una per
ogni anno di relazione. Poi ci proibì di avere il minimo contatto per i
successivi settant’anni.»
«Mi dispiace.»
«Non dispiacertene. Ce lo meritammo, e lo capimmo. Dovevamo
essere un esempio per le altre falci affinché non fossero tentate di
lasciare che i sentimenti interferissero con il loro dovere. Sette morti e
settant’anni dopo, molte cose erano cambiate. Dopo di allora,
rimanemmo buoni amici, ma niente di più.»
Madame Curie era un caleidoscopio di emozioni, ma le ripiegò tutte
come abiti diventati troppo piccoli e chiuse il cassetto. Citra immaginò
che non ne avesse mai parlato a nessuno e che quella fosse stata la
prima e probabilmente ultima volta.
«Avrei dovuto immaginarlo che non si sarebbe mai sbarazzato di
quella pagina» disse Madame Curie. «Devono averla trovata quando
hanno imballato le sue cose.»
«E Senocrate ha creduto che si riferisse a me!»
Madame Curie rifletté per un momento. «È poco probabile.
Senocrate non è uno stupido. È verosimile che abbia indovinato la
vera natura di quella pagina, ma la verità non aveva importanza. Per
lui, era un mezzo per raggiungere un obiettivo. Un modo per
screditarti agli occhi di falci stimate come Maestro Mandela, che
presiede il comitato di concessione degli anelli, e assicurarsi così che
venga ordinato l’apprendista di Goddard, e non tu.»
Citra provò rabbia verso Rowan, ma sapeva bene che, qualunque
cosa gli passasse per la testa, non era quello che lui voleva.
«Perché Senocrate dovrebbe farlo? Non appartiene a quell’orribile
cerchia di falci di Goddard. Non pare nemmeno che abbia in simpatia
Goddard ed è chiaro che non gli importa nulla né di me né di
Rowan.»
«Ci sono più carte in gioco di quante se ne possano vedere
adesso» disse Madame Curie. «Sappiamo per certo che devi sparire
finché nessuno sospetterà più di te.»
In quel momento, qualcuno apparve sulla porta, e Citra si
spaventò. Non sapeva che c’erano altre persone nella baita. Era
un’altra falce, a giudicare dall’aspetto, probabilmente la proprietaria
della baita. Era più bassa di Madame Curie. La veste era decorata
con un intricato ricamo variopinto: rosso, nero e turchese. Sembrava
più un arazzo, che un tessuto. Citra si chiese se tutte le falci
cilargentine indossassero vesti che non sembravano solo fatte a
mano, ma anche fatte con amore.
La donna parlò in ispanico e Madame Curie rispose nella stessa
lingua.
«Non sapevo che parlasse ispanico» disse Citra dopo che la falce
cilargentina se ne fu andata.
«Parlo correntemente dodici lingue» rispose Madame Curie, con
un leggero tono di orgoglio.
«Dodici?»
Madame Curie le rivolse un sorriso malizioso. «Vedrai quante ne
parlerai quando avrai vissuto così tanti anni come me.» Le tolse il
vassoio dalle ginocchia e lo posò sul comodino. «Pensavo che
avessimo più tempo, ma l’autorità locale delle falci si è già messa in
movimento. Dubito che sappiano dove sei, ma stanno inviando
osservatori con sensori DNA a casa di tutte le falci. Sospettano che
qualcuno ci stia aiutando.»
«Dobbiamo andare via di nuovo?» Citra mise i piedi fuori dal letto e
li piantò a terra. Le caviglie le dolevano ancora un po’, ma il male era
sopportabile. «Questa volta, posso camminare da sola.»
«Bene, perché dovrai fare molta strada.» Madame Curie lanciò
un’occhiata fuori dalla finestra. Nessuno in vista. Ma nella sua voce si
percepiva un nervosismo che prima non c’era. «Temo di non poter
venire con te, Citra. Se voglio fugare ogni sospetto su di te, devo
rientrare a casa e trovare l’appoggio del maggior numero di falci
possibile.»
«Ma la Compagnia cilargentina delle falci…»
«Che cosa rischio? Non sto trasgredendo nessun comandamento.
Tutto quello che possono farmi è guardarmi in cagnesco e non
venirmi a salutare all’aeroporto.»
«Allora… quando arriverà a casa, dovrà raccontare a tutti la verità
sulla pagina del diario di Faraday?»
«Non ho altra scelta, mi pare. Naturalmente, Senocrate mi
accuserà di mentire per proteggerti, ma la maggior parte delle falci
schierate con me crederà alla mia parola, non alla sua, e questo lo
metterà in imbarazzo. Speriamo che sia sufficiente a fargli ritirare
l’accusa.»
«Allora, dove devo andare?»
«Ho una certa idea.» Madame Curie aprì un cassetto ed estrasse
un ruvido saio di iuta. L’uniforme dei tonisti.
«Vuole che mi faccia passare per una tonista?»
«Una pellegrina solitaria. Sono molto diffusi in questa parte del
mondo. Sarai una viaggiatrice senza nome e senza volto.»
Non era certo il più elegante dei travestimenti, ma era pratico.
Nessuno l’avrebbe guardata negli occhi per timore di beccarsi una
ramanzina di stupidaggini toniste. Sarebbe passata inosservata sotto
il naso di tutti e sarebbe rientrata a casa giusto in tempo per il
Conclave d’inverno. Se Madame Curie non fosse riuscita a fugare i
sospetti su di lei, be’, tanto peggio. Non aveva nessuna intenzione di
passare tutta la vita a nascondersi.
La falce cilargentina entrò di nuovo nella stanza, questa volta molto
più agitata di prima.
«Sono qui» disse Madame Curie, poi estrasse dalla veste un
foglietto ripiegato, che spinse nella mano di Citra. «Voglio che tu vada
in un posto. Da qualcuno che devi incontrare, l’indirizzo è su quel
foglietto. Consideralo come la parte finale del tuo allenamento.» Citra
afferrò il saio, e mentre Madame Curie la sollecitava a uscire dalla
stanza e a fuggire dalla porta sul retro, la falce cilargentina andò a un
armadio pieno di armi e infilò velocemente in una sacca diverse armi
bianche e da fuoco che Citra potesse occultare con facilità, come una
madre preoccupata avrebbe potuto riempire di merendine lo zaino
della figlia.
«C’è una publicar in una rimessa ai piedi della collina. Prendila e
dirigiti verso nord» le disse Madame Curie.
Citra aprì la porta sul retro e uscì. Faceva freddo, ma era
sopportabile.
«Ascoltami bene» proseguì Madame Curie. «È un lungo viaggio e
avrai bisogno di tutte le tue risorse per riuscire ad arrivare alla meta.»
Continuò a darle le istruzioni necessarie per percorrere le molte
centinaia di chilometri che avrebbe dovuto affrontare, ma fu interrotta
dal rumore di un’auto che stava accostando davanti alla casa.
«Va’! Non fermarti mai, se vuoi salvarti.»
«E cosa faccio quando arriverò?»
Madame Curie la fissò negli occhi e, con quello sguardo duro, che
non rivelava nulla, non fece altro che sottolineare l’importanza delle
sue parole. Un tonista l’avrebbe definita “risonanza”.
«Quando arriverai, saprai cosa fare.»
Poi si udirono i colpi, fin troppo familiari, alla porta d’ingresso.
Citra si precipitò di corsa lungo il pendio della collina innevata,
schivando i pini che trovava sulla sua strada. Il dolore alle
articolazioni le ricordava che mancavano ancora alcune ore prima
che il processo di guarigione si completasse. Trovò la rimessa; la
publicar era lì dove le aveva detto Madame Curie. Salì a bordo e il
motore si accese, chiedendole la destinazione. Non era così stupida
da comunicargli l’indirizzo. «A nord» ordinò. «Andiamo a nord.»
Mentre il veicolo si allontanava accelerando, Citra udì
un’esplosione, poi un’altra. Si guardò alle spalle, ma riuscì a vedere
solo del fumo nero che stava iniziando a salire al di sopra degli alberi.
Il terrore si impadronì di lei. Un uomo che portava una veste simile a
quella indossata dall’amica di Madame Curie uscì correndo dalla
foresta. Lo scorse soltanto per un istante, poi la strada svoltò
bruscamente e l’uomo scomparve alla sua vista.
Solo dopo che la publicar ebbe lasciato il serpeggiante valico di
montagna ed ebbe raggiunto una strada principale, Citra guardò il
foglietto che le aveva dato Madame Curie. Per un istante, ebbe
l’impressione che le ossa le si fossero spontaneamente frantumate di
nuovo, ma quella sensazione durò poco, soppiantata da una fredda
determinazione. Ora capiva.
“Quando arriverai, saprai cosa fare.”
Sì, molto probabilmente era vero. Fissò ancora una volta il
foglietto. Doveva solo memorizzare l’indirizzo, perché conosceva già
il nome.
Gerald Van Der Gans.
Il Thunderhead le aveva fatto quel nome, e ora anche Madame
Curie. Davanti a sé aveva un lungo viaggio e, al termine, una
missione ben più grande. Non era autorizzata a spigolare, ma poteva
vendicarsi. Avrebbe escogitato un modo per fare giustizia di quella
falce assassina, a ogni costo. Non si era mai sentita tanto
riconoscente come per quella sacca di armi che le era stata data.
Era una questione troppo delicata per lasciarla alla Suprema
Guardia. E, anche se detestava che lo utilizzassero come un
semplice agente di polizia, Maestro San Martín sapeva che, se
avesse acciuffato quella ragazza, sarebbe stato ampiamente
ricompensato. Sapeva che la fuggitiva midmericana era lì ancora
prima di bussare alla porta. Il suo compare, Bello, una giovane falce
un po’ troppo solerte, aveva attivato il sensore DNA appena erano
scesi dalla macchina. L’apparecchio aveva subito segnalato la
presenza della ragazza.
Avvicinandosi alla baita, San Martín estrasse la pistola che gli
aveva dato il suo mentore il giorno in cui era stato ordinato. Era la
sua arma preferita per le spigolature; una specie di estensione
naturale della sua persona. E, sebbene quel giorno non avesse
previsto di spigolare, la pistola lo rassicurava. Inoltre, gli era stato
formalmente proibito di uccidere, perché era quello che aveva
determinato lo stesso guaio cui adesso stava cercando di porre
rimedio. La ragazza doveva essere catturata viva.
Bussò con forza alla porta, a lungo. Era pronto a buttarla giù con
un calcio, quando Madame Marie Curie in persona si affacciò
all’uscio. San Martín cercò di nascondere la sua emozione. La
Marquesa de la Muerte era conosciuta in tutto il mondo per le sue
imprese giovanili. Era una leggenda vivente ovunque, non solo nel
Nord.
«C’è un campanello, non se n’è accorto?» chiese in un ispanico
così perfetto che Maestro San Martín fu preso in contropiede. «Siete
qui per pranzare?»
Farfugliò qualcosa, il che aumentò il suo disagio, poi si riprese
come meglio poté. «Siamo qui per la ragazza. Non serve negare, lo
sappiamo che è qui.» E indicò Bello che teneva in mano il sensore
DNA. L’apparecchio emetteva un suono acuto.
Madame Curie lanciò un’occhiata alla pistola che le teneva puntata
addosso e sbuffò con tanta autorità che San Martín la abbassò quasi
senza rendersene conto.
«È stata qui, ma non lo è più. È in viaggio verso un luogo di
villeggiatura in Antartide, a sciare. Se si sbriga, riesce a raggiungerla
prima che il suo aereo decolli.»
La Compagnia cilargentina delle falci non era conosciuta per il suo
senso dell’umorismo, e Maestro San Martín non faceva eccezione.
Non si lasciava trattare da imbecille, nemmeno da una grande stella.
La spinse da parte ed entrò nella baita, dove una falce cilargentina di
cui non ricordava il nome lo osservava con la stessa aria di sfida di
Madame Curie.
«Cerchi pure quanto vuole» disse quella, «ma se rompe
qualcosa…»
Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase, perché Bello, zelante
all’eccesso, la colpì con uno sfollagente elettrico facendole perdere
conoscenza.
«Era proprio necessario?» lo rimproverò Madame Curie. «È con
me che ce l’avete, non con la povera Eva.»
Insospettito, San Martín uscì dalla porta sul retro e notò le impronte
sulla neve.
«È a piedi!» urlò a Bello. «¡Apurate! Non può essere andata tanto
lontano.» Maestro Bello si lanciò all’inseguimento come un segugio,
scendendo di corsa la collina innevata e sparendo tra gli alberi.
San Martín rientrò in casa, precipitandosi verso la porta d’ingresso.
La strada proseguiva lungo quella collina. Se Bello non fosse riuscito
a raggiungerla a piedi, forse lui avrebbe potuto bloccarla con la
macchina.
Madame Curie, davanti alla porta, gli sbarrava il passo. San Martín
rialzò la canna della pistola e per tutta risposta Madame Curie
estrasse la sua arma, una pistola a canna corta abbastanza larga da
farci entrare una pallina da golf: un mortaio a mano. Al confronto, la
pistola di San Martín era una cerbottana per bambini. E comunque,
non la abbassò, nonostante l’evidente inferiorità.
«Ho un’autorizzazione speciale da parte della Suprema Roncola di
spararle, se necessario» la ammonì.
«E io non ho alcuna autorizzazione da parte di nessuno, ma sono
più che felice di fare altrettanto.»
Si fronteggiarono a lungo, poi Madame Curie spostò di lato la
canna della sua pistola e fece fuoco fuori dalla porta d’ingresso.
L’esplosione mandò in frantumi le finestre della baita e il
contraccolpo scaraventò a terra San Martín… Madame Curie, ancora
sull’uscio, non batté ciglio. San Martín si trascinò carponi e vide che il
colpo da mortaio aveva incendiato la sua auto.
Madame Curie sparò ancora, questa volta facendo saltare in aria la
sua stessa auto.
«Bene. Ora, suppongo che dovrà restare a pranzo.»
San Martín guardò le due macchine che bruciavano e sospirò,
sapendo che da quel giorno sarebbe diventato lo zimbello dei suoi
compagni. Osservò Madame Curie; gli occhi grigio acciaio, la calma,
il perfetto controllo della situazione. Si rese conto che non avrebbe
mai potuto spuntarla contro la Marquesa de la Muerte. Non poté fare
altro che lanciarle un’occhiataccia per esprimerle la sua sincera
disapprovazione.
«Molto male!» le disse, agitando un dito. «Molto, molto male.»
… eppure, anche in sogno, mi ritrovo spesso a spigolare.
Troppo spesso, faccio un sogno ricorrente. Cammino per una strada che non mi è
familiare e che sento che dovrei conoscere, ma non è così. Stringo in mano un
forcone, uno strumento che non ho mai usato in vita mia; i suoi rebbi sgraziati non
sono adatti alla spigolatura e, quando viene sbattuto contro qualcosa, il forcone
risuona, producendo un qualcosa a metà tra uno squillo e un rantolo, come la
vibrazione intorpidente di un bidente tonista.
Al mio cospetto c’è una donna; devo spigolarla. Le do un colpo di forcone, senza
successo. Le sue ferite si rimarginano all’istante. Non è né turbata né spaventata. Non
è neanche divertita. Resta in piedi davanti a me, impassibile, rassegnata. Mi lascia
fare, senza reagire, mentre io cerco inutilmente di mettere fine alla sua vita. Apre la
bocca per dire qualcosa, ma la sua voce è debole, le sue parole annegano tra i gemiti
agghiaccianti del forcone, mentre io non riesco a sentire quello che dice.
E mi sveglio sempre urlando.
Dopo che i suoi inseguitori furono fatti scendere dal treno, Citra si
godette un attimo di tregua. Essendo saltata la sua copertura,
indossò degli abiti civili che prese dalla valigia di una passeggera. Un
paio di jeans e una camicia a fiori che non erano proprio nel suo stile,
ma le andavano bene. I tonisti furono delusi, ma non sorpresi, che
non fosse una di loro. Le lasciarono un opuscolo che lei promise di
leggere, nonostante ci fossero poche probabilità che lo facesse
davvero.
«Qualunque sia la tua destinazione» le disse Maestro Possuelo,
«dovrai cambiare treno alla stazione centrale delle Amazzonie. Ti
suggerisco di salire e scendere da diversi treni prima di montare su
quello che prenderai. In questo modo, i sensori DNA confonderanno i
tuoi inseguitori.»
Naturalmente, più vagava per la stazione, più aumentava il rischio
che la vedessero, ma valeva la pena depistare i sensori DNA e far
girare a vuoto quelli che le davano la caccia.
«Non so perché ti stiano cercando» disse Maestro Possuelo,
quando il treno si fermò in stazione. «Ma se risolverai i tuoi problemi
e avrai l’anello, dovresti tornare in Amazzonia. La foresta pluviale si
estende per tutto il continente, come nei tempi più antichi, e noi
viviamo sotto la sua chioma. Ti piacerebbe.»
«Pensavo che non avesse in simpatia le falci straniere» gli disse
con un sorriso.
«C’è differenza tra un invitato e un intruso» le rispose.
Citra fece del suo meglio per lasciare tracce del suo DNA su una
decina di treni, prima di infilarsi in quello in partenza per Caracas,
sulla costa nord dell’Amazzonia. Una volta là, non trovò agenti a
braccarla, ma era ancora troppo presto per credersi fuori pericolo.
Una volta a Caracas, Madame Curie le aveva detto di seguire la
costa in direzione est finché non fosse arrivata a una città chiamata
Playa Pintada. Avrebbe dovuto allora evitare le publicar o qualsiasi
altro mezzo di trasporto che potesse rivelare la sua posizione. Si rese
conto però che più si avvicinava alla meta, più era determinata.
Avrebbe concluso il suo pellegrinaggio travagliato a ogni costo,
anche se avesse dovuto percorrere il resto del cammino a piedi.
Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Prometeo, la prima Suprema
Roncola Mondiale
38
La prova finale
Era uno spettacolo per gli occhi. Prese tre coltelli dal vassoio e riuscì
a maneggiarli insieme con un’abilità da giocoliere. Madame
Anastasia non fece nulla per fermarlo ma, anche se lo avesse fatto,
non sarebbe servito a niente. Era troppo veloce. Rowan si lanciò nel
corridoio centrale. Le falci che si trovavano più vicine al suo
passaggio cercarono di bloccarlo, ma lui sferrò calci, schivò, abbatté
colpi e volteggiò. Agli occhi di Madame Anastasia, parve come una
forza distruttrice della natura. Tra le falci che si misero sul suo
cammino, le più fortunate ebbero le vesti ridotte in brandelli. Le meno
fortunate si ritrovarono delle ferite che non avevano nemmeno avuto
il tempo di vedersi infliggere. Le sembrò anche che Maestro Emerson
avesse avuto bisogno di essere trasportato in un centro di
rianimazione.
E Rowan scomparve, lasciando dietro di sé il caos.
Mentre la Suprema Roncola cercava di ristabilire l’ordine, Madame
Anastasia si guardò la mano e fece una cosa molto strana per una
falce. Si baciò l’anello, per bagnarsi le labbra con una goccia del
sangue di Rowan. Per poter ricordare quel momento per sempre.
L’auto era in attesa, proprio come gli aveva detto Citra. Aveva
immaginato che sarebbe stata una publicar. Aveva immaginato che
sarebbe stato solo. Niente affatto.
Mentre saliva a bordo, vide un fantasma al posto di guida. Dopo
tutto ciò che aveva passato quel giorno, in quell’attimo il cuore quasi
gli si fermò.
«Buonasera, Rowan» lo salutò Maestro Faraday. «Chiudi lo
sportello, fuori fa decisamente freddo.»
«Cosa?» esclamò Rowan, cercando a fatica di comprendere. «Ma
come, non era morto?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, ma il tempo è prezioso. Ora, per
favore, chiudi lo sportello.»
Rowan obbedì e partirono a tutta velocità nella notte gelida di
Fulcrum City.
Abbiamo mai avuto un nemico peggiore di noi stessi? Nell’Era della Mortalità, ci siamo
fatti la guerra incessantemente, e anche quando non c’era nessuna guerra da
combattere, ci siamo picchiati nelle strade, nelle scuole, nelle case, finché non è
apparsa un’altra guerra che ci ha fatto rivolgere di nuovo lo sguardo all’esterno,
spostando il nemico a una distanza più rassicurante.
Ma questo tipo di conflitti appartiene ormai al passato. C’è pace in terra, e buona
volontà tra gli uomini.
Ma…
È così: c’è sempre un’eccezione. Non sono falce da molto, ma posso già vedere
che la Compagnia rischia di diventare un’eccezione. Non solo qui in MidMerica, ma in
tutto il mondo.
Le prime falci erano persone illuminate, capivano che la cosa più saggia era
continuare a coltivare la saggezza. Capivano che dovevano mantenersi pure d’animo.
Prive di cattiveria, avidità e orgoglio, ma piene di coscienza. Il marciume, però, cresce
anche sulle fondamenta più robuste.
Se la coscienza delle falci viene meno, sostituita dall’avidità del privilegio,
potremmo diventare di nuovo i nostri peggiori nemici. E a complicare le cose, ogni
giorno compaiono nuove crepe nel tessuto della Compagnia. Come, per esempio, le
voci recenti che, nei mesi successivi alla mia investitura, si sono diffuse tra la
popolazione mondiale, travalicando la Compagnia.
Secondo quelle voci, c’è qualcuno che è in cerca di falci corrotte, malevole… e che
pone fine alla loro esistenza con il fuoco. Una cosa è certa: non è una falce. Tuttavia,
la gente ha cominciato a chiamarlo Maestro Lucifero.
Mi terrorizza il fatto che possa essere vero, ma mi terrorizza ancora di più il fatto
che io possa desiderare che lo sia.
Non ho mai voluto essere una falce. Suppongo che già questo possa fare di me
una buona falce. Non lo so ancora, perché è tutto così nuovo, e ho ancora così tanto
da imparare. Per adesso, devo soprattutto essere attenta a spigolare con
compassione e coscienza, con la speranza che questo contribuisca a mantenere
perfetto il nostro mondo così perfetto.
E se mai dovessi incontrare Maestro Lucifero sulla mia strada, spero che mi
consideri una falce buona. Come ha già fatto una volta.
Falce
di Neal Shusterman
© 2016 by Neal
Shusterman
Titolo originale dell’opera:
Scythe
Excerpt from
Thunderhead © 2018 by
Neal Shusterman
© 2020 Mondadori Libri
S.p.A., Milano
Questo libro è un’opera di
fantasia. Personaggi e
luoghi citati sono
invenzioni dell’autore e
hanno lo scopo di
conferire veridicità alla
narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o
scomparse, è
assolutamente casuale.
Ebook ISBN
9788835701156
COPERTINA || COVER
DESIGN: BARBARA DI
LANDRO | PROGETTO
GRAFICO ORIGINALE DI
CHLOË FOGLIA |
ILLUSTRAZIONE ©
KEVIN TONG
Sommario
1.Copertina
1.L’immagine
2.Il libro
3.L’autore
2.Frontespizio
3.FALCE
4.Parte prima. LA VESTE E L’ANELLO
1.1. Nessuna nube all’orizzonte
2.2. 0,303%
3.3. La forza del destino
4.4. Permesso di uccidere da apprendista
5.5. «Ma ho solo novantasei anni…»
5.Parte seconda. NESSUN’ALTRA LEGGE ALL’INFUORI DI QUESTA
1.6. Un’elegia di falci
2.7. L’arte di uccidere
3.8. Una questione di scelta
4.9. Esme
5.10. Reazioni proibite
6.11. Imprudenze
7.12. Non c’è spazio per la mediocrità
8.13. Conclave di primavera
9.14. Una piccola clausola
10.15. Lo spazio tra loro
11.16. L’addetto alla piscina
12.17. Il settimo comandamento
6.Parte terza. LA VECCHIA GUARDIA E IL NUOVO ORDINE
1.18. La Casa sulla cascata
2.19. Una cosa orribile da fare
3.20. Ospite d’onore
4.21. Marchiato
5.22. Il bidente
6.23. Il labirinto virtuale
7.24. Una vergogna per la nostra professione
8.25. Agente di morte
9.26. Non come gli altri
10.27. Il Conclave della mietitura
11.28. Idrogeno che brucia nel nucleo del sole
12.29. Le chiamavano prigioni
7.Parte quarta. LA FUGGITIVA MIDMERICANA
1.30. Dialogo con i morti
2.31. Una scia di inarrestabile follia
3.32. Pellegrinaggio travagliato
4.33. Il messaggero e il messaggio insieme
5.34. La seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare
6.35. L’annichilimento è il nostro segno distintivo
7.36. La tredicesima vittima
8.Parte quinta. ESSERE UNA FALCE
1.37. Scuotere l’albero
2.38. La prova finale
3.39. Il Conclave d’inverno
4.40. Gli ordinati
9.RINGRAZIAMENTI
10.Copyright
1.Copertina
2.Frontespizio
3.FALCE
4.Inizio del libro
5.Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
FALCE
Parte prima. LA VESTE E L’ANELLO
1. Nessuna nube all’orizzonte
2. 0,303%
3. La forza del destino
4. Permesso di uccidere da apprendista
5. «Ma ho solo novantasei anni…»
Parte seconda. NESSUN’ALTRA LEGGE ALL’INFUORI DI QUESTA
6. Un’elegia di falci
7. L’arte di uccidere
8. Una questione di scelta
9. Esme
10. Reazioni proibite
11. Imprudenze
12. Non c’è spazio per la mediocrità
13. Conclave di primavera
14. Una piccola clausola
15. Lo spazio tra loro
16. L’addetto alla piscina
17. Il settimo comandamento
Parte terza. LA VECCHIA GUARDIA E IL NUOVO ORDINE
18. La Casa sulla cascata
19. Una cosa orribile da fare
20. Ospite d’onore
21. Marchiato
22. Il bidente
23. Il labirinto virtuale
24. Una vergogna per la nostra professione
25. Agente di morte
26. Non come gli altri
27. Il Conclave della mietitura
28. Idrogeno che brucia nel nucleo del sole
29. Le chiamavano prigioni
Parte quarta. LA FUGGITIVA MIDMERICANA
30. Dialogo con i morti
31. Una scia di inarrestabile follia
32. Pellegrinaggio travagliato
33. Il messaggero e il messaggio insieme
34. La seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare
35. L’annichilimento è il nostro segno distintivo
36. La tredicesima vittima
Parte quinta. ESSERE UNA FALCE
37. Scuotere l’albero
38. La prova finale
39. Il Conclave d’inverno
40. Gli ordinati
RINGRAZIAMENTI
Copyright