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Il libro

Un mondo senza fame, senza guerre,


senza povertà, senza malattie. Un mondo
senza morte. Un mondo in cui l’umanità è
riuscita a sconfiggere i suoi incubi peggiori.
A occuparsi di tutte le necessità della
razza umana è il Thunderhead, un’immensa,
onnisciente e onnipotente intelligenza
artificiale. Il Thunderhead non sbaglia mai, e
soprattutto non ha sentimenti, né rimorsi, né
rimpianti.
Quello in cui vivono i due adolescenti
Citra Terranova e Rowan Damisch è
davvero un mondo perfetto. O così appare.
Se nessuno muore più, infatti, tenere la
pressione demografica sotto controllo
diventa un vincolo ineluttabile. Anche
l’efficienza del Thunderhead ha dei limiti e
non può provvedere alle esigenze di una
popolazione in continua crescita. Per questo
ogni anno un certo numero di persone deve
essere “spigolato”. In termini meno poetici:
ucciso.
Il delicato quanto cruciale incarico è
affidato alle cosiddette falci, le uniche a
poter decidere quali vite devono finire.
Quando la Compagnia delle falci decide di
reclutare nuovi membri, il Venerando
Maestro Faraday sceglie come apprendisti
proprio Citra e Rowan. Schietti, coraggiosi,
onesti, i due ragazzi non ne vogliono sapere
di diventare degli assassini. E questo fa di
loro delle falci potenzialmente perfette.
L’autore

Neal Shusterman
È nato a New York nel 1962. Autore di libri
per ragazzi e young adult di grande
successo, ha ricevuto tra gli altri il National
Book Award per Il viaggio di Caden. Tra le
sue opere Downsiders, Full Tilt e Unwind. La
divisione. È anche autore di sceneggiature
per il cinema e la televisione.
Neal Shusterman

FALCE
LIBRO 1 DELLA TRILOGIA DELLA FALCE

Traduzione di Lia Tomasich


FALCE

A Olga (Ludovika)
Nødtvedt, ammiratrice e
amica lontana
Parte prima
LA VESTE E L’ANELLO
Per legge, dobbiamo tenere un registro degli innocenti che uccidiamo.
E, per come la vedo io, sono tutti innocenti. Anche i colpevoli. Tutti sono colpevoli di
qualcosa, e tutti conservano un ricordo di innocenza che risale all’infanzia, per quanto
sepolta da strati e strati di vita. L’umanità è innocente; l’umanità è colpevole. Queste
due condizioni sono entrambe indiscutibilmente vere.
Per legge, dobbiamo tenere un registro.
Tutto inizia il primo giorno del nostro apprendistato, ma non parliamo ufficialmente
di “omicidio”. Da un punto di vista sociale o morale, non sarebbe corretto. Adottiamo il
termine “spigolatura” per riferirci a un’epoca del passato in cui i poveri raccoglievano le
spighe di grano che erano sfuggite ai contadini. È stata la prima forma di beneficenza.
Il lavoro della falce è simile. Le falci rendono un servizio fondamentale alla società: è
quello che si insegna ai bambini non appena sono in grado di capire. Nel mondo
moderno, la nostra opera è quella che più si avvicina a una missione religiosa.
Forse è per questo che, per legge, dobbiamo tenere un registro. Un diario pubblico,
che attesti, per coloro che non moriranno mai e per coloro che non sono ancora nati, i
motivi per cui noi, esseri umani, agiamo in questo modo. Abbiamo il dovere di mettere
nero su bianco non solo le nostre azioni, ma anche i nostri sentimenti, perché si deve
sapere che abbiamo dei sentimenti. Dei rimorsi. Dei rimpianti. Un dolore troppo grande
da sopportare. Perché, se non fossimo capaci di provare queste emozioni, non
saremmo forse dei mostri?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


1
Nessuna nube all’orizzonte

La falce arrivò sul tardi, in un freddo pomeriggio di novembre. Al


tavolo della sala da pranzo, Citra si lambiccava il cervello per cercare
di risolvere un problema di algebra particolarmente difficile,
scambiando le variabili, incapace di trovare il valore di X o Y, quando
quella nuova variabile, ben più nefasta, entrò nell’equazione della sua
vita.
L’appartamento dei Terranova accoglieva spesso degli ospiti. Così,
quando il campanello suonò, non ci fu sorpresa, nessun
presentimento, nessuna nube all’orizzonte, nulla che lasciasse
presagire che la morte stava per presentarsi alla loro porta. Forse,
l’universo avrebbe dovuto degnarsi di fornire un qualche preavviso,
ma le falci non erano certo creature più sovrannaturali degli esattori
erariali, nel grande disegno delle cose. Arrivavano, svolgevano il loro
ingrato compito e sparivano.
Fu la signora Terranova che andò ad aprire al visitatore. Citra non
lo vide subito, nascosto dalla porta aperta. Non le sfuggì, però, la
reazione di sua madre, che si irrigidì come se di colpo il sangue le si
fosse coagulato nelle vene. Se le avessero dato una spinta, sarebbe
caduta a terra, frantumandosi in mille pezzi.
«Posso entrare, signora Terranova?»
Fu il tono a tradirlo. Squillante e inesorabile, simile al rintocco
sordo di una campana, il cui tintinnio arrivava puntualmente alle
orecchie di chi doveva sentirlo. Prima ancora di vederlo, Citra capì
che era una falce. “Mio Dio! Una falce a casa nostra!”
«Sì, sì, certo, si accomodi.» La madre di Citra si fece da parte per
lasciarlo passare, come se fosse lei l’ospite e non il contrario.
L’uomo superò la soglia a passi felpati. Le scarpe non facevano
alcun rumore sul parquet. La veste color avorio di diversi strati in
morbido lino, nonostante sfiorasse il pavimento, era immacolata. Una
falce, a quanto ne sapeva Citra, poteva scegliere il colore della stoffa,
a parte il nero, che era considerato inadeguato al suo compito. Il nero
era assenza di luce, e le falci erano tutto il contrario. Luminose e
illuminate, erano considerate il fior fiore dell’umanità, motivo per cui
erano state scelte per svolgere quella mansione.
Alcune falci optavano per stoffe più vistose, altre per stoffe più
tenui. Le loro vesti di un tessuto fluido e ricco, pesante e vaporoso al
tempo stesso, ricordavano quelle degli angeli del Rinascimento. Lo
stile unico dei loro indumenti, oltre al materiale e alla tinta, le rendeva
facilmente riconoscibili in pubblico, per chi desiderava evitarle. Tanti,
invece, ne erano attirati.
Il colore della veste spesso rivelava molto della personalità di una
falce. Quella del loro ospite era di una tinta gradevole, meno
abbagliante del bianco puro. Questo dettaglio, tuttavia, non cambiava
assolutamente il fatto che si trattava di una falce.
Fece scivolare il cappuccio all’indietro rivelando una testa di capelli
grigi tagliati con cura, un viso cupo arrossato dal freddo e due occhi
neri penetranti come lame. Citra si alzò. Non per rispetto, ma per
paura. Per la sorpresa. Cercò di calmare il respiro che si era fatto
affannoso. Di tenersi in piedi, nonostante le ginocchia minacciassero
di cederle. Le gambe la tradivano, così contrasse con forza i muscoli
per fermare il tremore. Non sarebbe mai crollata davanti a
quell’uomo, qualunque fosse il motivo della sua visita.
«Può chiudere la porta» disse l’ospite a sua madre, che obbedì,
però Citra notò quanto le fu difficile. Fintanto che la porta restava
aperta, una falce poteva sempre tornare sui suoi passi. Ma, una volta
chiusa, era davvero, davvero lì dentro, in casa loro.
L’uomo si guardò intorno e vide subito Citra. Le fece un sorriso.
«Buonasera, Citra.» Il fatto che conoscesse il suo nome le gelò il
sangue, così come sua madre si era pietrificata aprendo la porta.
«Non essere scortese» la riprese la madre, con eccessivo zelo.
«Saluta il nostro ospite.»
«Buonasera, eccellenza.»
«Salve» esclamò stridulo Ben, il fratello più piccolo, facendo
capolino dalla porta della sua camera, attirato dalla voce profonda e
cavernosa dell’uomo. Spostava incuriosito lo sguardo da Citra alla
madre, ponendosi la loro stessa domanda. “Per chi è venuto? Sarà
passato per me? O dovrò sopravvivere alla perdita di una persona
cara?”
«Ho sentito un profumo invitante nel corridoio» disse la falce,
annusando l’aria. «Avevo ragione a credere che provenisse da
questo appartamento.»
«Ho appena cucinato degli ziti, eccellenza. Niente di speciale.»
Fino a quel momento, Citra non aveva mai visto sua madre
comportarsi con tanta timidezza.
«Ottimo» replicò la falce. «Perché non chiedo niente di speciale.»
Si sedette sul divano e attese pazientemente che venisse servita la
cena.
Era davvero venuto per cenare e basta? D’altronde, le falci
dovevano pur mangiare, da qualche parte. Di solito, non veniva mai
fatto pagare loro il conto al ristorante, ma questo non voleva dire che
un buon pasto cucinato in casa non fosse preferibile. Correva voce
che le falci chiedessero alle vittime di prepararne uno prima della
spigolatura. Era questo che stava accadendo?
Qualunque fossero le sue intenzioni, se le tenne per sé, e loro non
poterono fare altro che accoglierlo con tutti gli onori. “Risparmierà
una vita se il cibo è di suo gradimento?” si chiedeva Citra. Non era
certo una novità che le persone si facessero in quattro per
accontentare una falce in ogni modo possibile. La speranza
mescolata alla paura è la motivazione più potente del mondo.
Su sua richiesta, la madre di Citra gli portò da bere; si dava da fare
affinché quella fosse la cena più raffinata che avesse mai servito. La
cucina non era proprio nelle sue corde. In genere, tornava a casa dal
lavoro appena in tempo per improvvisare una cena veloce per la
famiglia. Quella sera, la loro vita dipendeva forse dalle sue discutibili
doti culinarie.
E il padre? Sarebbe arrivato a casa in tempo oppure un
componente della sua famiglia sarebbe stato spigolato in sua
assenza?
Per quanto fosse terrorizzata, Citra non voleva lasciare la falce
sola con i suoi pensieri. Così, l’accompagnò in soggiorno, e Ben,
affascinato e spaventato allo stesso tempo, andò a sedersi accanto
alla sorella.
«Sono il Venerando Maestro Faraday» si presentò infine l’uomo.
«Io… ehm… ho fatto un tema su Faraday a scuola, una volta»
disse Ben, con voce tremula. «Ha scelto il nome di un grande
scienziato.»
Maestro Faraday sorrise. «Mi piace pensare di aver scelto un
patronimico storico appropriato. Come molti scienziati, Michael
Faraday è stato sottovalutato in vita, eppure senza di lui il nostro
mondo non sarebbe quello che è oggi.»
«Credo di averla nella mia collezione di carte di falci» proseguì
Ben. «Ho quasi tutte le falci midmericane, solo che lei nella foto era
più giovane.»
L’uomo era sulla sessantina e, nonostante i capelli grigi, il pizzetto
era ancora brizzolato. Era raro che una persona accettasse di
arrivare a quell’età senza prendere provvedimenti. Citra si
domandava quanti anni avesse realmente. E da quanto tempo gli
fosse stata assegnata la missione di porre fine alla vita degli altri.
«Dimostra gli anni che ha davvero oppure è per scelta che sembra
così vecchio?» chiese Citra.
«Citra!» esclamò la madre, che per poco non fece cadere il tegame
che stava tirando fuori dal forno. «Non sono domande da farsi!»
«Mi piacciono le domande dirette» replicò la falce. «Mostrano
franchezza di spirito, quindi risponderò con franchezza. Confesso di
essermi ringiovanito per ben quattro volte. La mia età naturale è di
circa centottant’anni, anche se non ricordo il numero esatto.
Ultimamente, ho scelto questo aspetto venerando perché ho
l’impressione che dia più conforto a coloro che spigolo.» Poi scoppiò
a ridere. «Mi prendono per un saggio.»
«È per questo che è venuto qui?» chiese Ben d’istinto. «Per
spigolare uno di noi?»
Maestro Faraday gli rivolse un sorriso indecifrabile.
«Sono venuto per cenare.»

Il padre di Citra arrivò un attimo prima che la cena venisse servita. La


madre doveva averlo informato della situazione, perché era
emotivamente molto più preparato di tutti loro. Non appena entrò,
andò dritto verso Maestro Faraday per stringergli la mano,
sforzandosi di apparire il più gioviale e ospitale possibile.
La cena si svolse in un’atmosfera imbarazzata, tra lunghi silenzi
spezzati da qualche commento di cortesia della falce: «Avete una
bella casa»; «La limonata è squisita!»; «Questi sono senza dubbio i
migliori ziti di tutta la MidMerica!». Anche se li copriva di complimenti,
la sua voce produceva ogni volta una specie di scossa sismica che
risaliva lungo la colonna vertebrale di ciascuno di loro.
«Non l’ho mai vista nel quartiere» osservò infine il padre.
«Non c’è da meravigliarsi. Non cerco la popolarità, al contrario di
altre falci che amano essere sotto i riflettori. Io credo invece che per
fare bene il proprio lavoro si debba mantenere un certo grado di
anonimato.»
«Fare bene il proprio lavoro?» obiettò Citra. «C’è un modo di fare
bene una spigolatura?»
«Be’, esistono certamente dei modi inadeguati di farlo» rispose,
senza aggiungere altro. Finì di mangiare il suo piatto di ziti.
Mentre la cena volgeva al termine, riprese la parola:
«Raccontatemi di voi».
Non era una domanda, ma un ordine. Citra si chiese se facesse
parte del piccolo rituale che precedeva la condanna a morte, o se
fosse sinceramente interessato. Sapeva i loro nomi prima di entrare
nell’appartamento, di sicuro conosceva già tutti gli avvenimenti della
loro vita. Allora, perché fare quella domanda?
«Io mi occupo di ricerca storica» disse il padre.
«Io sono ingegnere nel campo della sintesi alimentare» fece la
madre.
La falce alzò le sopracciglia. «E comunque ha cucinato questo
pasto da zero.»
La madre posò la forchetta. «Con tutti ingredienti sintetizzati.»
«Sì, ma se possiamo sintetizzare tutto, perché abbiamo ancora
bisogno di ingegneri?» chiese la falce.
Citra vide il viso della madre farsi esangue. Fu il padre che prese le
difese della moglie. «Tutto si può ancora migliorare.»
«Sì… e anche il lavoro di papà è importante!» intervenne Ben.
«Cosa, la ricerca storica?» ribatté la falce, accompagnando le
parole con un movimento della forchetta. «Il passato non si può
cambiare… e, per quello che posso vedere, nemmeno il futuro.»
Quel commento spiazzò i suoi genitori e suo fratello, ma Citra capì
dove l’uomo voleva andare a parare. La civiltà aveva raggiunto il suo
picco massimo di crescita. Lo sapevano tutti. Per quanto riguardava
la razza umana, non c’era più nulla da imparare. Non c’era più nulla
da decifrare della sua esistenza. In altre parole, tutti gli esseri umani
avevano raggiunto lo stesso livello di eguaglianza, nessuno era più
importante di un altro. In realtà, nel grande disegno dell’universo, tutti
erano ugualmente inutili. Era questo che intendeva e che la faceva
infuriare, perché Citra sapeva che, in fondo, aveva ragione.
Tutti conoscevano Citra per il suo caratterino e per i suoi sbalzi di
umore. Usciva spesso dai gangheri e, una volta ritrovata la calma,
era già troppo tardi, il danno era ormai fatto. Quella sera non fu
diversa dal solito.
«Perché si comporta così? Se è qui per spigolare uno di noi, lo
faccia una volta per tutte, e la finisca di torturarci!»
La madre soffocò un gridolino, il padre spinse indietro la sedia
come se fosse sul punto di alzarsi e portare Citra in un’altra stanza.
«Citra!» esclamò la madre, con voce tremante. «Che ti prende? Un
po’ di rispetto!»
«No! È qui, sul punto di passare all’azione. Allora, che lo faccia.
Non è che debba ancora prendere una decisione, ho sentito dire che
le falci non entrano mai in una casa se non hanno già fatto la loro
scelta. È vero o no?»
La falce rimase impassibile davanti al suo scatto improvviso.
«Alcune sì, altre no» rispose con voce calma. «Ognuno di noi ha il
proprio modo di procedere.»
Intanto, Ben si era messo a piangere. Il papà lo aveva abbracciato,
ma il ragazzino era inconsolabile.
«Certo, le falci devono spigolare, ma dobbiamo anche mangiare,
dormire e fare un minimo di conversazione» spiegò Faraday.
Citra afferrò il piatto vuoto davanti a lui e lo tolse dalla tavola con
un gesto brusco. «Be’, ora la cena è finita. Può andarsene.»
Il padre si avvicinò alla falce e si mise in ginocchio. No, non poteva
essere vero: suo padre si era inginocchiato davanti a quell’uomo! «La
prego, eccellenza, la perdoni. Mi prendo tutta la responsabilità del
suo comportamento.»
La falce si alzò. «Non si deve scusare. Essere sfidato dà la carica.
Non ha idea di quanto tutto diventi noioso; i salamelecchi, le
ossequiose adulazioni, l’infinita sfilata di leccapiedi. Ricevere uno
schiaffo in piena faccia è corroborante. Mi ricorda che sono umano.»
Poi andò in cucina e afferrò il coltello più grande e più affilato che
riuscì a trovare. Menò dei colpi nell’aria, avanti e indietro, per
valutarne peso e maneggevolezza.
Il pianto di Ben aumentò di intensità, e il padre lo strinse ancora più
forte. La falce si avvicinò alla madre. Citra era pronta a gettarsi
davanti a lei per parare la lama, ma invece di infliggerle un colpo con
il coltello, l’uomo le tese l’altra mano.
«Baci il mio anello.»
Nessuno se lo aspettava. Citra, meno di tutti.
La madre lo fissò, scuotendo la testa, incredula. «Mi… mi concede
l’immunità?»
«Per la sua cortesia e il pasto che mi ha servito, le concedo un
anno di immunità, un anno intero durante il quale non potrà essere
spigolata. Nessuna falce potrà toccarla.»
La madre esitò. «La conceda ai miei figli, piuttosto.»
La falce continuò a tenderle la mano con l’anello. Era un diamante
grande quanto una nocca, con un nucleo scuro. Era quello che
portavano tutte le falci.
«La sto concedendo a lei, non a loro.»
«Ma…»
«Jenny, fallo e basta!» insistette il padre.
Alla fine, cedette. Si inginocchiò e baciò l’anello: il suo DNA fu
registrato all’istante e trasmesso alla banca dati della Compagnia
delle falci. Il mondo seppe subito che Jenny Terranova sarebbe stata
immune alla spigolatura per dodici mesi. La falce osservò l’anello
mentre si accendeva di un soffuso bagliore rosso, il segnale che la
persona al suo cospetto aveva acquisito l’immunità. Sorrise,
soddisfatta.
E solo allora rivelò loro la verità.
«Sono qui per spigolare la vostra vicina, Bridget Chadwell. Ma
quando sono arrivato, non era ancora rientrata a casa. E avevo
fame.»
Posò con delicatezza la mano sulla testa di Ben, come se gli
stesse dando una specie di benedizione. Quel gesto parve calmarlo.
Poi si diresse verso la porta, con il coltello ancora in pugno, senza
lasciare dubbi su come avrebbe spigolato la loro vicina. Ma, prima di
andarsene, si voltò verso Citra.
«Tu vedi oltre le apparenze del mondo, Citra Terranova. Saresti
una buona falce.»
Citra si ritrasse. «Non vorrò mai diventarlo.»
«Già questa è la prima condizione.»
E con quelle parole uscì per andare a uccidere la loro vicina.

Quella notte, evitarono di tornare sull’argomento. Nessuno parlò di


spigolature, come se solo il fatto di nominarle potesse portare
sfortuna. Non giunse alcun suono dalla porta accanto. Niente grida,
niente gemiti o suppliche, forse perché i rumori erano stati coperti
dalla televisione dei Terranova, con il volume più alto del solito. Fu la
prima cosa che il padre di Citra fece dopo che la falce se ne fu
andata: accese il televisore e alzò il volume al massimo per non
sentire i suoni provenienti dall’altra parte del muro. Ma non servì,
perché in qualunque modo la falce portasse a termine il suo compito
lo faceva con discrezione. Citra si sorprese a tendere l’orecchio. Lei e
Ben scoprirono entrambi di avere una curiosità morbosa di cui si
vergognarono segretamente.
Un’ora dopo, il Venerando Maestro Faraday ritornò. Fu Citra che
aprì la porta. La veste color avorio non aveva nemmeno una macchia
di sangue. Forse, ne aveva con sé una di ricambio. Forse, dopo la
spigolatura, aveva usato la lavatrice della vicina. Anche il coltello era
pulito: lo porse a Citra.
«Non lo vogliamo» replicò lei, prendendo l’iniziativa di parlare
anche a nome dei genitori. «Non lo useremo mai più.»
«Ma voi dovete usarlo» insistette. «Per ricordarvene.»
«Ricordarci di cosa?»
«Che una falce è semplicemente uno strumento di morte, ma è la
vostra mano che la muove. Tu e i tuoi genitori, e tutti gli abitanti di
questo mondo, siete voi che brandite le falci.» Le mise con
delicatezza il coltello tra le mani. «Siamo tutti complici. Dovete
condividere la responsabilità.»
Forse era vero, ma ciò non impedì a Citra di gettare il coltello
nell’immondizia, dopo che se ne fu andato.
È la cosa più difficile da chiedere a una persona. E il fatto di sapere che è per il bene
comune non rende certo l’impresa più facile. Un tempo, la gente moriva di morte
naturale. La vecchiaia era una malattia terminale, non uno stato temporaneo. Allora,
c’erano degli assassini invisibili chiamati “malattie” che disintegravano il corpo.
L’invecchiamento non era reversibile, e gli uomini restavano vittime di incidenti
irrimediabili. Gli aerei si schiantavano al suolo. Le macchine si scontravano. C’erano
dolore, miseria, disperazione. È difficile per la maggior parte di noi immaginare un
mondo così pieno di rischi, disseminato di pericoli tanto imprevedibili quanto
inaspettati. Ci siamo lasciati tutto questo alle spalle, eppure resta una semplice verità:
la gente deve morire.
Non è che possiamo trasferirci da qualche altra parte: i tentativi disastrosi di
colonizzare la Luna e Marte ne sono la prova. Abbiamo un unico mondo molto limitato
e, sebbene la morte sia stata sconfitta, sradicata del tutto come la polio, la gente deve
continuare a morire. Un tempo, la fine della vita umana era nelle mani della Natura. Ma
noi l’abbiamo privata di questa prerogativa. Ora, siamo noi ad avere il monopolio sulla
morte. Ne siamo gli esclusivi distributori.
Capisco perché ci sono le falci, quanto sia importante e necessaria la loro
missione… ma spesso mi chiedo perché abbiano dovuto scegliere me. E se esiste
davvero un mondo eterno dopo il nostro, quale sarà la sorte che attende un mietitore
di vite?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


2
0,303%

Tyger Salazar si era gettato da una finestra del trentanovesimo piano,


mettendo sottosopra la piazza di marmo più in basso. I genitori, tanto
erano irritati, non erano nemmeno andati a trovarlo al centro di
rianimazione, ma Rowan sì. Rowan Damisch era quel tipo di amico.
Seduto al capezzale di Tyger, attendeva con pazienza che si
risvegliasse dalla guarigione accelerata. Per Rowan non era un
disturbo. Il centro di rianimazione era silenzioso. Tranquillo. Era
un’occasione per stare lontano dalla confusione che regnava in casa,
che ultimamente si era riempita di troppi parenti, più di quanti fossero
tollerabili da qualsiasi essere umano. Cugini di primo e secondo
grado, fratelli e sorelle, fratellastri e sorellastre. E, come se non
bastasse, era tornata a casa anche la nonna, dopo essersi
ringiovanita per la terza volta, con un nuovo marito e un bambino in
arrivo.
«Avrai una nuova zia, Rowan» gli aveva annunciato. «Non è
meraviglioso?»
Tutta quella storia faceva uscire di testa la madre di Rowan, perché
la nonna era ripartita dall’età di venticinque anni, dieci in meno della
figlia. Ora, la mamma si sentiva quasi obbligata a ringiovanirsi, se
non altro per tenere il passo con la nonna. Il nonno era molto più
saggio. Era partito per EuroScandia, a corteggiare donne, fermandosi
alla rispettabile età di trentotto anni.
A sedici anni, Rowan aveva già preso la sua decisione. Avrebbe
aspettato i capelli grigi per ringiovanirsi la prima volta e, anche allora,
non sarebbe ripartito da un’età troppo giovane, perché lo considerava
imbarazzante. Alcune persone ripartivano da ventun anni, che
rappresentavano la terapia genetica di ringiovanimento più estrema.
Comunque, correva voce che gli scienziati stessero cercando un
mezzo per ripartire dall’adolescenza, cosa che Rowan trovava
ridicola. Quale persona sana di mente avrebbe desiderato rivivere il
periodo dell’adolescenza una seconda volta?
Quando riportò lo sguardo sull’amico, Tyger aveva gli occhi aperti e
lo stava studiando.
«Ciao» disse Rowan.
«Quanto tempo?» chiese Tyger.
«Quattro giorni.»
Tyger agitò il pugno in segno di vittoria. «Sì! Un nuovo record!» Si
osservò le mani, come per valutare i danni. Naturalmente, non
restava alcun segno della caduta. Non ci si risvegliava da una
guarigione accelerata se non si era del tutto guariti. «Pensi che sia
stata l’altezza a produrre questo risultato? O è stato il marmo?»
«Probabilmente il marmo» rispose Rowan. «Una volta raggiunta la
velocità limite, poco importa l’altezza da cui ti lanci.»
«L’ho incrinato? Hanno dovuto sostituirlo?»
«Non lo so, Tyger… basta così, dai.»
Tyger riappoggiò la testa sul cuscino, immensamente soddisfatto di
se stesso. «Il miglior salto della mia vita!»
Rowan, che aveva avuto la pazienza di restare al capezzale
dell’amico fino al suo risveglio, si accorse di non averne più, ora che
era uscito dal coma. «Perché lo fai? È una tale perdita di tempo.»
Tyger alzò le spalle. «Mi piace la sensazione di cadere. E poi, devo
pur ricordare ai miei genitori dove si trova il ragazzo-insalata.»
Quel commento fece sogghignare Rowan. Era lui che aveva
coniato l’espressione “ragazzo-insalata” per descrivere Tyger e se
stesso. Tutti e due erano nati a sandwich, schiaffati in mezzo a grandi
famiglie, e tutti e due non erano affatto i prediletti dei loro genitori. «I
miei fratelli sono la carne, le mie sorelle il formaggio e i pomodori, e
dunque io devo essere la foglia d’insalata.» L’idea aveva preso piede,
e Rowan aveva poi fondato a scuola un club chiamato “I cespi di
iceberg”, che ora vantava quasi una trentina di membri… anche se
Tyger spesso si divertiva a dire che si sarebbe ribellato e avrebbe
scatenato la rivolta delle lattughe romane.
Tyger aveva cominciato a lanciarsi da qualche mese. Rowan ci
aveva provato una volta, ma gli era sembrato terribilmente faticoso.
Era rimasto indietro con lo studio, e i genitori avevano deciso di
mettere in atto una serie di punizioni, che avevano presto dimenticato
di infliggere – uno dei vantaggi di essere la foglia d’insalata.
Comunque, a conti fatti, il brivido della caduta non ne giustificava le
conseguenze. Tyger, invece, era diventato un drogato del lancio.
«Devi trovarti un nuovo passatempo, amico» gli fece notare
Rowan. «So che la prima rianimazione è gratuita, ma quelle dopo
devono costare un occhio della testa ai tuoi.»
«Già… e per una volta nella loro vita, devono spendere dei soldi
per me.»
«Non preferiresti che ti comprassero una macchina?»
«La rianimazione è obbligatoria» rispose Tyger. «L’auto è
facoltativa. Se non sono obbligati, non tirano fuori un soldo.»
Rowan non poteva controbattere. Nemmeno lui aveva un’auto, e
dubitava che i suoi genitori gliene avrebbero mai comprata una. Le
publicar erano pulite, efficienti e si guidavano da sole, avevano
replicato i suoi genitori quando aveva avanzato la richiesta. Perché
mai sprecare dei soldi per qualcosa di cui non aveva bisogno? Per il
resto, spendevano e spandevano, ma mai per lui.
«Siamo come la crusca» proseguì Tyger. «Se non provochiamo un
minimo di disturbo intestinale, nessuno si accorge che esistiamo.»

Il mattino dopo, Rowan si trovò faccia a faccia con una falce. Non era
raro incontrarne una nel quartiere. Di tanto in tanto accadeva. Era
inevitabile. Era raro invece vederle al liceo.
L’incontro avvenne per colpa dello stesso Rowan. La puntualità
non era il suo forte, soprattutto da quando era stato incaricato di
accompagnare i fratelli e i fratellastri più piccoli prima di saltare su
una publicar e precipitarsi a sua volta a scuola. Era appena arrivato e
stava per imboccare il corridoio diretto all’aula, quando dietro l’angolo
sbucò la falce, con la veste avorio immacolata che le svolazzava
intorno.
Un giorno, durante una scampagnata con la famiglia, Rowan si era
allontanato da solo e si era trovato faccia a faccia con un puma.
Aveva sentito una stretta al petto e brividi freddi corrergli lungo la
schiena, proprio come in quel momento. Attacca o fuggi, gli aveva
suggerito l’istinto. Rowan non aveva fatto né l’una né l’altra cosa.
Aveva soffocato ogni impulso e aveva alzato con calma le braccia,
come aveva letto in un libro, per apparire più imponente. Aveva
funzionato, e l’animale si era allontanato, risparmiandogli una visita al
centro di rianimazione della zona.
Di fronte a quell’uomo, provò la tentazione di comportarsi nella
stessa maniera, come se il gesto di alzare le mani sopra la testa
potesse spaventarlo e convincerlo a cambiare strada. A quel
pensiero, gli sfuggì una risatina nervosa. Ora, l’ultima cosa da fare
era ridere di una falce.
«Mi sai dire dove si trova l’ufficio del preside?» chiese lo
sconosciuto.
Per un attimo, Rowan pensò di indicarglielo e poi di fare subito
dietrofront, ma ritenne che fosse una mossa troppo da vigliacco.
«Ci sto andando. Venga pure con me.»
L’uomo avrebbe apprezzato il suo aiuto; mettersi in buona luce agli
occhi di una falce non poteva certo fargli male.
Rowan fece strada lungo il corridoio, dove si affrettavano ancora
alcuni studenti come lui in ritardo per le lezioni. Tutti li fissavano
inebetiti, cercando di camminare rasenti al muro per passare
inosservati. In un certo modo, il fatto che ci fossero altri a condividere
il suo timore lo rassicurava, e poi non poteva negare che fosse
esaltante essere visto come guida di una falce e sentirsi riconoscere
un po’ di rispetto. Fu solo quando raggiunsero l’ufficio del preside che
la verità si palesò alla sua mente. Quel giorno, la falce avrebbe
spigolato uno dei suoi compagni di classe.
Nell’ufficio, tutti si alzarono alla vista della falce, che non perse
tempo. «Per favore, qualcuno convochi subito Kohl Whitlock dal
preside.»
«Kohl Whitlock?» chiese stupita la segretaria.
La falce non si ripeté, sapendo che la donna aveva ben capito, per
quanto incredula.
«Sì, eccellenza, provvedo subito.»
Rowan conosceva Kohl. Chi non conosceva Kohl Whitlock? Era
solo al terzo anno, ma era già stato promosso quarterback della
squadra di football del liceo. Li avrebbe portati per la prima volta dritti
dritti a vincere il campionato.
Con voce tremante, la segretaria fece l’annuncio all’interfono.
Pronunciando il nome dello studente, tossì e per poco non si strozzò.
La falce attese con pazienza l’arrivo di Kohl.
Rowan non voleva certo inimicarsi una falce. Sarebbe dovuto
scivolare furtivo verso lo sportello delle presenze, farsi giustificare il
ritardo e filare via in classe. Ma, come con il puma, doveva tenere
testa alla situazione. Quel momento avrebbe dato una svolta alla sua
vita.
«Lei sta per spigolare il nostro campione quarterback… mi auguro
che se ne renda conto.»
La falce, così cordiale un attimo prima, cambiò improvvisamente
umore. «Non vedo come questo possa riguardarti.»
«Lei è nella mia scuola. È un motivo sufficiente, credo.» A quel
punto, l’istinto di autoconservazione prese il sopravvento e Rowan si
diresse a grandi passi verso lo sportello delle presenze, uscendo
dalla visuale della falce. Consegnò la giustificazione che aveva
inventato di sana pianta, maledicendosi tra sé per la sua stupidità.
Era fortunato di non essere nato in un’epoca in cui la morte era
ancora un evento naturale, perché probabilmente non sarebbe
sopravvissuto fino all’età adulta.
Al momento di andarsene, incrociò lo sguardo triste di Kohl
Whitlock che la falce stava conducendo nell’ufficio del preside, il
quale si precipitò subito fuori per interrogare con lo sguardo i propri
colleghi, che scuotevano la testa, tutti perplessi quanto lui.
Nessuno parve notare la presenza di Rowan, che indugiava. A chi
importava della foglia d’insalata quando era il pezzo di manzo a
essere divorato?
Superò il preside, che, accortosi di lui appena in tempo, gli mise
una mano sulla spalla. «Figliolo, meglio che tu esca da qui.»
Aveva ragione. Rowan non aveva nessuna voglia di restare, ma lo
fece comunque.
Due sedie erano disposte di fronte alla scrivania molto ordinata del
preside. La falce era seduta sulla prima, Kohl sull’altra, con le spalle
chine, scosso dai singhiozzi. La falce lanciò un’occhiata di fuoco a
Rowan. “Il puma” pensò Rowan. Solo che questo aveva davvero il
potere di togliere la vita.
«Non ci sono i suoi genitori» si giustificò Rowan. «Dev’esserci
qualcuno con lui.»
«Sei della famiglia?»
«È importante?»
Kohl sollevò la testa. «La prego, non mandi via Ronald.»
«Il mio nome è Rowan» lo corresse.
Il viso di Kohl si riempì di terrore, come se quell’imprecisione
avesse per sempre suggellato il suo destino.
«Lo sapevo! Lo giuro! Lo sapevo, davvero!»
Nonostante i muscoli e la spavalderia, Kohl Whitlock non era altro
che un bambino impaurito. Era così che si comportavano tutti prima
di morire? Solo una falce poteva saperlo, immaginò Rowan.
«Prendi una sedia, allora» lo invitò la falce, invece di congedarlo.
«Mettiti a tuo agio.»
Mentre girava attorno alla scrivania per accomodarsi al posto del
preside, Rowan si chiese se la falce lo stesse prendendo in giro o se
non sapesse che era impossibile mettersi a proprio agio in sua
presenza.
«Non mi può fare questo» lo supplicò Kohl. «I miei genitori ne
moriranno! Ne moriranno!»
«No» ribatté la falce. «Se ne faranno una ragione.»
«Può dargli almeno qualche minuto perché si prepari
mentalmente?» domandò Rowan.
«Mi stai dicendo come devo fare il mio lavoro?»
«Le sto chiedendo di avere solo un po’ di compassione!»
La falce gli lanciò un’altra occhiataccia, questa volta diversa:
intimidatoria e incuriosita allo stesso tempo. Lo stava studiando.
«Sono molti anni che faccio questo lavoro. Per mia esperienza, la
più grande misericordia che posso concedere è una spigolatura
rapida e indolore.»
«Allora, gli dia almeno un motivo! Gli dica perché lui!»
«È a caso, Rowan!» esclamò Kohl. «Lo sanno tutti! La scelta è
fatta a caso!»
Ma lesse qualcosa di diverso negli occhi della falce.
«Non è tutto, vero?» insistette Rowan.
La falce sospirò. Non era obbligata a rispondere. Dopotutto, era al
di sopra della legge. Non doveva giustificarsi in alcun modo. Ma lo
fece comunque.
«Se dall’equazione si toglie la vecchiaia, secondo le statistiche
risalenti all’Era della Mortalità, il 7% dei decessi era causato da
incidenti stradali. Di questi, nel 31% dei casi, il conducente aveva
assunto dell’alcol; nel 14% dei casi, si trattava di adolescenti.» Fece
scivolare una calcolatrice verso Rowan. «Esegui il calcolo tu stesso.»
Rowan si prese tutto il tempo per digitare le cifre, sapendo che ogni
secondo che impiegava era un secondo in più di vita guadagnato per
Kohl. «0,303%» concluse, infine.
«Il che significa che su mille persone che spigolo» proseguì la
falce, «circa tre corrispondono a questo profilo. Una su
trecentotrentatré. Il tuo amico qui si è comprato una nuova macchina,
e ha una storia di abuso di alcol alle spalle. Quindi, tra gli adolescenti
che corrispondono a questo profilo, ho dovuto scegliere a caso.»
Kohl affondò la testa tra le mani, singhiozzando sempre più forte.
«Sono un imbecille!» Si premette i palmi sugli occhi come se volesse
spingerseli dentro la testa.
«Allora, dimmi» riprese con calma la falce. «La mia spiegazione ha
dato sollievo al tuo amico o ne ha aggravato la sofferenza?»
Rowan si ritrasse un po’ sulla sedia.
«Basta» concluse la falce. «È ora.» Estrasse dalla tasca della
veste una scatolina metallica che era fatta per adattarsi alla sua
mano. Il lato a contatto con la pelle era rivestito di tessuto. «Kohl, per
te ho scelto una scossa che ti provocherà un arresto cardiaco. La
morte sarà rapida, indolore, molto meno brutale dell’incidente d’auto
che avresti subìto se fossi vissuto nell’Era della Mortalità.»
Kohl afferrò la mano di Rowan, stringendogliela forte. Rowan lo
lasciò fare. Non era suo fratello, non era nemmeno suo amico, ma
com’è che si diceva? “La morte rende tutti fratelli.” Rowan si chiese
se un mondo senza morte avrebbe mai potuto rendere tutti estranei.
Strinse più forte la mano di Kohl, una muta promessa che non lo
avrebbe lasciato.
«C’è qualcosa che vorresti far sapere alla gente?» domandò
Rowan.
«Un milione di cose, ma non mi viene in mente nulla.»
Rowan decise che si sarebbe inventato le ultime parole di Kohl e
che le avrebbe comunicate ai suoi cari. E sarebbero state delle belle
parole. Confortanti. Rowan avrebbe trovato il modo di rendere
sensato anche ciò che non aveva un senso.
«Temo che dovrai lasciargli la mano per la procedura» gli fece
notare la falce.
«No» si impuntò Rowan.
«Lo shock potrebbe fermare anche il tuo cuore.»
«E allora?» replicò Rowan. «Mi rianimeranno. Se non ha deciso di
spigolare anche me» aggiunse, dopo un momento di riflessione.
Rowan aveva appena sfidato una falce. Per quanto fosse
pericoloso, era felice di averlo fatto.
«Come vuoi.» E senza ulteriore indugio, la falce premette la
scatolina sul petto di Kohl.
Una forte luce bianca accecò Rowan, prima che l’oscurità lo
inghiottisse. Tutto il suo corpo fu preso dalle convulsioni. Venne
sbalzato via dalla sedia e scaraventato contro il muro alle sue spalle.
Forse Kohl non aveva sentito nulla, ma lui sì. Faceva male. Faceva
male da morire, più male di quanto una persona potesse sopportare.
Subito, i naniti, i microscopici analgesici presenti nel sangue,
liberarono gli oppiacei. Il dolore si attenuò ben presto e, quando la
vista gli si schiarì, vide Kohl accasciato sulla sedia e la falce china su
di lui per chiudergli gli occhi. La spigolatura era stata completata.
Kohl Whitlock era morto.
La falce gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi, ma Rowan la
rifiutò. Si rimise in piedi con le sue sole forze.
«Grazie per avermi permesso di restare» disse, benché non
provasse la minima gratitudine nei confronti dell’uomo.
La falce lo osservò un po’ troppo a lungo, a suo parere. «Mi hai
tenuto testa per un ragazzo che conoscevi appena. Gli hai dato
conforto nel momento della morte, sopportando il dolore della scossa.
Lo hai sostenuto, senza che nessuno ti avesse chiesto di farlo.»
Rowan alzò le spalle. «Chiunque si sarebbe comportato nello
stesso modo.»
«Chi altro si è offerto volontario? Il preside? La segretaria? Uno
solo tra tutti gli studenti che si sono trovati a passare nel corridoio?»
«No» dovette ammettere Rowan. «Ma che importanza ha? In ogni
caso, è morto. E poi, conosce il detto sulle buone intenzioni.»
La falce annuì e lanciò un’occhiata al grosso anello al proprio dito.
«Immagino che tu ora mi chiederai l’immunità.»
Rowan scosse la testa. «Non voglio nulla da lei.»
«Come desideri.» Si girò per andarsene, ma esitò prima di aprire la
porta, con le dita sulla maniglia. «Sappi che a parte me nessuno ti
dimostrerà la minima riconoscenza per quello che hai fatto oggi.
Ricorda che le buone intenzioni lastricano molte strade. E non tutte
portano all’inferno.»

Lo schiaffo gli fece lo stesso effetto della scossa elettrica, tanto più
che non se l’aspettava. Arrivò appena prima di pranzo, mentre era in
piedi davanti al suo armadietto. L’impatto fu tale che volò all’indietro,
contro la fila di armadietti alle sue spalle, che risuonarono come
timpani.
«Tu eri lì e non hai fatto nulla per fermarlo!» Gli occhi di Marah
Pavlik avvampavano di sofferenza e legittima indignazione. Pareva
sul punto di strappargli il cervello infilandogli le lunghe unghie nelle
narici. «L’hai guardato morire!»
Marah era la ragazza di Kohl da oltre un anno. Come Kohl,
frequentava la terza ed era molto popolare. In virtù di ciò, avrebbe
normalmente evitato di interagire con uno studentucolo del secondo
anno come Rowan, però, date le straordinarie circostanze, aveva
fatto un’eccezione.
«Non è come credi» riuscì a dire Rowan prima che lo
schiaffeggiasse di nuovo. Questa volta, parò il colpo. Marah si ruppe
un’unghia, ma non se ne curò. Se non altro, la spigolatura di Kohl le
aveva insegnato a guardare la vita da una prospettiva diversa.
«È accaduto esattamente questo! Sei entrato per vederlo morire!»
I curiosi si stavano avvicinando, attirati, come di solito accade,
dall’odore del conflitto. Rowan passò lo sguardo sulla folla che si era
formata intorno a loro, alla ricerca di un po’ di solidarietà, di qualcuno
che potesse prendere le sue difese, ma sui volti dei compagni di
classe vide solo disprezzo. Marah parlava, e lo schiaffeggiava, in
nome di tutti loro.
Rowan non riusciva a crederci. Non aveva certo pensato di
ricevere pacche sulla schiena per aver portato conforto a Kohl nel
momento della morte, ma non si aspettava nemmeno un’accusa così
ingiusta.
«Ehi, siete fuori di testa?» gridò Rowan a lei e a tutti gli altri
compagni. «Lo sapete che non si può fermare una falce!»
«Non m’importa!» piagnucolò lei. «Avresti potuto fare qualcosa, e
invece sei rimasto a guardare!»
«Ho fatto qualcosa! Gli… gli ho tenuto la mano.»
Lo sbatté con violenza contro l’armadietto. «Bugiardo! Non ti
avrebbe mai tenuto la mano. Non ti avrebbe mai toccato! Io avrei
dovuto tenergli la mano.»
Tutto intorno, gli altri ragazzi lo scrutavano e bisbigliavano tra loro,
abbastanza forte perché li sentisse.
«L’ho visto camminare nel corridoio con la falce, come se fossero
grandi amici.»
«Sono arrivati insieme stamattina.»
«Ho sentito dire che è stato lui a suggerire alla falce il nome di
Kohl.»
«Qualcuno mi ha detto che lo ha anche aiutato.»
Rowan si lanciò contro il ragazzo che aveva pronunciato l’ultima
accusa, un certo Ralphy. «Chi te l’ha detto? Non c’era nessun altro
nella stanza, deficiente!» Ma era già troppo tardi. Le voci non
avevano alcun fondamento logico. «Non capite? Non ho aiutato la
falce, ho aiutato Kohl!» insistette.
«Già, lo hai aiutato a schiattare» disse qualcuno, e tutti annuirono
in un mormorio generale.
Non c’era più nulla da fare: era stato processato e riconosciuto
colpevole. E più negava, più si convincevano della sua colpevolezza.
Se ne infischiavano del suo atto di coraggio, volevano solo un capro
espiatorio. Qualcuno su cui sfogare il loro odio, dato che non
potevano prendersela con la falce. E Rowan Damisch era il colpevole
perfetto.
«Scommetto che ha ricevuto l’immunità in cambio del suo aiuto»
disse un ragazzo, uno studente che gli era sempre stato amico.
«Non è vero!»
«Tanto meglio» replicò Marah, al colmo del disprezzo. «Spero che
la prossima falce venga per te.»
Rowan sapeva che lo pensava davvero, e non solo in quel
momento. E se la prossima falce fosse venuta per lui, Marah avrebbe
goduto della notizia della sua morte. Questo gli dava da riflettere: ora
c’era qualcuno che desiderava ardentemente la sua fine. Una cosa
era essere invisibile, un’altra essere il bersaglio dell’odio di un intero
liceo.
Solo allora gli tornò in mente l’avvertimento della falce: che non
avrebbe ricevuto la minima riconoscenza per ciò che aveva fatto per
Kohl. L’uomo ci aveva visto giusto. E per quello, Rowan lo odiava con
tutto il cuore, proprio come gli altri odiavano lui.
2042. Una data nota a tutti gli studenti. L’anno in cui la potenza informatica divenne
infinita o così prossima all’infinito che non fu più possibile misurarla. L’anno in cui si
seppe… tutto. Il Cloud si trasformò nel Thunderhead e ora tutto ciò che c’è da sapere
risiede nella memoria quasi infinita del Thunderhead, per chiunque voglia accedervi.
Ma come tante cose, non appena entrammo in possesso della conoscenza infinita,
ci sembrò all’improvviso meno importante. Meno urgente. Sì, sappiamo tutto, ma
spesso mi chiedo chi si prenda la briga di interessarsi a tutta quella conoscenza. Gli
accademici, certo, che studiano ciò che sappiamo già, ma a che scopo? Il concetto
stesso di scuola era di imparare con l’intento di migliorare la nostra vita e il mondo. Ma
un mondo perfetto non ha bisogno di migliorare. Come la maggior parte delle cose che
facciamo, l’istruzione, dalla scuola elementare all’università, è solo un modo per
tenerci occupati.
Il 2042 fu l’anno in cui sconfiggemmo la morte, e anche l’anno in cui smettemmo di
contare. Certo, abbiamo continuato a numerare gli anni ancora per alcuni decenni, ma
da quando abbiamo conquistato l’immortalità, il tempo che passa ha perso di
importanza.
Non so quando esattamente passammo al calendario cinese: l’anno del Cane,
l’anno della Capra, del Dragone e così via. E non so dire quando i difensori dei diritti
degli animali di tutto il mondo cominciarono a rivendicare l’uguaglianza per le loro
specie preferite, aggiungendo l’anno della Lontra, della Balena e del Pinguino. E non
saprei dire quando smisero di ripetersi e quando si stabilì che da quel momento in poi
ogni anno avrebbe preso il nome di una specie diversa. Tutto quel che so è che siamo
nell’anno del Gattopardo.
Per tutto ciò che ignoro, sono certa che le risposte si trovano nel Thunderhead, per
tutti coloro che avranno un motivo per darci un’occhiata.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


3
La forza del destino

Citra ricevette l’invito ai primi di gennaio. Arrivò per posta, cosa già di
per sé straordinaria. C’erano solo tre tipologie di corrispondenza che
arrivavano per posta. I pacchi, le comunicazioni ufficiali o le missive
inviate da personalità eccentriche, le uniche che scrivevano ancora
lettere. Apparentemente, questa apparteneva alla terza categoria.
«Be’, non la apri?» chiese impaziente Ben, che pareva più
elettrizzato di lei. L’indirizzo era stato scritto a mano, cosa ancora più
insolita. Certo, calligrafia era una materia facoltativa a scuola ma, a
parte lei, nessuno di sua conoscenza l’aveva scelta. Strappò la busta
ed estrasse una cartolina che era dello stesso colore avorio della
busta. Lesse mentalmente il contenuto prima di farlo ad alta voce.
«Si richiede il piacere della sua presenza alla Grand Civic Opera, il
9 gennaio, alle ore 19.»
Niente firma, niente indirizzo del mittente. E nella busta non c’era
altro.
«L’opera?» esclamò Ben. «Puah.»
Citra non poteva che condividere.
«Non sarà per caso un qualche evento scolastico?» chiese la
madre.
Citra scosse la testa. «No, altrimenti ci sarebbe stato scritto.»
Prese la lettera e la busta dalle mani della figlia e le esaminò. «Be’,
qualunque cosa sia, pare interessante.»
«Probabilmente, è uno sfigato che ha paura di chiedermi di uscire
guardandomi in faccia.»
«Pensi di andarci?» domandò la madre.
«Mamma, un ragazzo che mi invita all’opera! O è uno scherzo o è
un pazzo delirante.»
«O sta cercando di fare colpo su di te.»
Citra uscì dalla stanza borbottando, irritata dalla curiosità della
madre.
«No che non ci vado!» gridò dalla sua camera, sapendo benissimo
che lo avrebbe fatto.

La Grand Civic Opera era uno di quei luoghi alla moda in cui ci si
recava per essere visti. A ogni rappresentazione, solo la metà degli
spettatori voleva assistere allo spettacolo vero e proprio. L’altra metà
era formata da un amalgama di arrivisti e arrampicatori sociali la cui
unica ambizione era di fare carriera. Anche Citra, che non
apparteneva a nessuna di quelle categorie, sapeva bene cosa c’era
dietro tutta quella messinscena.
Indossò il vestito che aveva comprato l’anno prima per il ballo della
scuola, quando era sicura che Hunter Morrison l’avrebbe invitata.
Invece, Hunter aveva invitato Zachary Swain, cosa che tutti si
aspettavano tranne Citra. I due stavano ancora insieme, e fino a quel
momento Citra non aveva mai avuto un’altra occasione per metterlo.
Quando lo indossò, ne fu gradevolmente sorpresa. In un anno il
fisico di un’adolescente cambia, ma ora l’abito, che l’anno precedente
le ballava un po’, le calzava a pennello.
Nella sua testa, aveva ristretto il numero di ammiratori segreti a
cinque, solo con due dei quali avrebbe voluto trascorrere una serata.
Gli altri tre li avrebbe sopportati unicamente per il piacere della
novità. Dopotutto, poteva essere divertente recitare la parte della
snob per una sera.
Il padre insistette per accompagnarla. «Chiama quando vuoi che ti
venga a prendere.»
«Tornerò con una publicar.»
«Chiama lo stesso.»
Le ripeté per l’ennesima volta che era bellissima, poi Citra uscì
dalla macchina e il padre ripartì per lasciare il posto alle limousine e
alle Bentley in coda per permettere ai passeggeri di scendere.
Fece un profondo respiro e salì gli scalini di marmo, sentendosi a
disagio e fuori luogo come Cenerentola al ballo.
Al suo ingresso, non fu indirizzata né verso l’orchestra né verso la
scala centrale che conduceva al loggione. La maschera esaminò il
suo biglietto, la squadrò, poi riguardò il biglietto prima di chiamare un
collega per farla accompagnare personalmente.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Citra preoccupata. Il suo primo
pensiero fu che il biglietto fosse falso e che la stessero scortando
all’uscita. Forse, dopotutto si era trattato di uno scherzo. Si mise a
fare mentalmente una lista dei sospetti.
La seconda maschera la rassicurò subito. «È nostra abitudine
accompagnare di persona gli spettatori che hanno un posto in
galleria, signorina.»
“Un posto in galleria” rifletté Citra. Era il massimo dell’esclusività. In
genere, i palchi erano riservati a personaggi che non volevano
mescolarsi con la massa. La gente normale non poteva permetterseli
e comunque, anche se avesse potuto, le era proibito l’accesso alla
galleria. Mentre seguiva la maschera su una scala stretta che
conduceva ai posti che si trovavano a sinistra del palcoscenico, Citra
sentì crescere in lei la paura. Non conosceva nessuno tanto ricco da
potersi permettere una tale stravaganza. E se avesse ricevuto l’invito
per sbaglio? E se invece ci fosse stata davvero una persona ricca e
importante ad attenderla, che cosa mai poteva volere da lei?
«Eccoci arrivati!» disse la maschera, tirando la tenda del palco. Un
ragazzo della sua età era già seduto lì. Era bruno con la pelle chiara
e lentigginosa. Quando la vide si alzò, e Citra notò che i pantaloni un
po’ corti dell’abito che indossava lasciavano troppo scoperti i calzini.
«Ciao.»
«Salve.»
La maschera se ne andò.
«Ti ho tenuto il posto più vicino al palcoscenico.»
«Grazie.»
Citra si accomodò, sforzandosi di ricordare chi fosse e di capire
perché mai l’avesse invitata a teatro. Quel viso non le era familiare.
Avrebbe dovuto conoscerlo? Non voleva fargli capire che non si
ricordava di lui.
«Grazie» disse il ragazzo, a un tratto.
«Di che?»
Teneva in mano un invito identico al suo.
«Non sono proprio un appassionato di opera, ma è sempre meglio
che restare a casa a non fare nulla. Così… per caso, ci
conosciamo?»
Citra scoppiò in una fragorosa risata. Nessun ammiratore segreto:
apparentemente, erano stati entrambi vittime di un misterioso
sensale. Si rimise a elaborare mentalmente un’altra lista di possibili
sospetti, in cima alla quale c’erano i suoi genitori. Forse, era il figlio di
uno dei loro amici… però, quel genere di sotterfugio, così gretto, non
era da loro.
«Che c’è di tanto divertente?» chiese il ragazzo. Lei gli mostrò il
suo invito. Lui non rise, anzi, parve un po’ turbato, senza spiegarle il
motivo.
Disse di chiamarsi Rowan. Si strinsero la mano nel momento in cui
si abbassarono le luci, il sipario si aprì e la musica esplose, troppo
forte per permettere ai due ragazzi di conversare. L’opera era La
forza del destino di Verdi, ma era chiaro che non era stato il destino
ad averli fatti incontrare quella sera, quanto piuttosto la mano
consapevole di una misteriosa persona.
La musica, benché intensa e bella, finì per infastidire Citra; quanto
alla storia, sebbene fosse facile da seguire anche senza conoscere
una parola di italiano, non la coinvolgeva molto. Dopotutto, l’opera
risaliva all’Era della Mortalità. Guerre, vendette, assassinii, tutti i temi
centrali dell’intreccio, erano ormai così lontani dalla realtà che
difficilmente ci si poteva immedesimare nei personaggi. La catarsi si
sviluppava intorno al tema dell’amore e, visto e considerato che loro
erano due sconosciuti intrappolati in un palco di teatro, la situazione
era più imbarazzante che catartica.
«Secondo te, chi ci ha invitati?» chiese Citra non appena si
riaccesero le luci all’intervallo del primo atto. Come lei, Rowan non ne
aveva proprio idea. Si scambiarono tutte le informazioni in loro
possesso per poter formulare un’ipotesi. A parte il fatto che avevano
entrambi sedici anni, avevano ben poco in comune. Lei veniva dalla
città, lui dalla periferia. La famiglia di lei era piccola, quella di lui
numerosa. Quanto alle professioni dei loro genitori, non potevano
essere più distanti.
«Qual è il tuo indice genetico?» le chiese. Era una domanda molto
personale, ma forse poteva avere una certa rilevanza.
«22-37-12-14-15.»
Rowan abbozzò un sorriso. «37% di origine africana. Buon per te!
È piuttosto alto!»
«Grazie.»
Le disse il suo: 33-13-12-22-20. Citra pensò di chiedergli se
conoscesse l’indice secondario del suo componente “altro”, perché
20% era abbastanza alto ma, se non lo sapeva, la domanda lo
avrebbe imbarazzato.
«Siamo entrambi per il 12% di stirpe panasiatica» fece notare lui.
«Pensi che questo c’entri con la nostra presenza qui?» Si stava
arrampicando sugli specchi. Non era nient’altro che una semplice
coincidenza.
Poi, verso la fine dell’intervallo, la risposta si presentò alle loro
spalle, all’ingresso del palco.
«Sono contento di vedere che avete fatto conoscenza.»
Anche se erano passati alcuni mesi dall’ultimo incontro, Citra
riconobbe l’uomo all’istante. Il Venerando Maestro Faraday non era
un personaggio facile da dimenticare.
«Lei?» esclamò sorpreso Rowan, con una tale durezza che fu
subito chiaro che in passato anche lui aveva avuto a che fare con la
falce.
«Avrei voluto arrivare prima, ma ho avuto… un contrattempo.» Non
aggiunse altro, cosa di cui Citra gli fu riconoscente. Ma la sua
presenza non lasciava presagire nulla di buono.
«Ci ha invitati all’opera per spigolarci.» Non era una domanda, ma
una constatazione, perché Citra ne era convinta.
«Non credo» commentò Rowan.
Maestro Faraday non fece nulla per porre fine alle loro vite. Invece,
afferrò una sedia vuota e si sedette accanto ai due giovani.
«È stata la direttrice dell’opera che mi ha dato questo posto. Le
persone pensano sempre che fare offerte a una falce possa renderle
immuni. Non avevo alcuna intenzione di spigolarla, ma ora lei
penserà che il suo regalo abbia avuto un peso nella mia decisione.»
«La gente crede a quello a cui vuole credere» disse Rowan, con
una certa amarezza, cosa che fece capire a Citra che ne avesse
cognizione di causa.
Faraday indicò il palcoscenico con un gesto della mano. «Stasera,
assistiamo allo spettacolo della follia umana. Domani, lo vivremo.»
Il sipario si aprì e il secondo atto iniziò prima che la falce potesse
chiarire il senso delle sue parole.

Da due mesi, Rowan era il reietto della scuola. In genere quel tipo di
storie veniva presto dimenticato. Ma nel suo caso non fu così. La
spigolatura di Kohl Whitlock rimase ben impressa nella mente di tutti.
A ogni partita di football, era come se si aggiungesse del sale sulla
piaga collettiva ancora aperta, e, dato che la squadra le partite le
perdeva tutte, il dolore era decisamente vivo. Rowan non aveva mai
goduto di molta popolarità, ma non era nemmeno mai stato oggetto di
scherno da parte degli altri studenti. Ora, però, era diventato lo
zimbello del liceo. Lo mettevano spesso all’angolo e lo picchiavano.
Veniva emarginato, e anche i suoi amici lo evitavano. Tyger
compreso.
«Colpevole per associazione, amico» gli aveva detto Tyger. «Ti
compatisco, ma non voglio subire la tua stessa sorte.»
«La situazione è spiacevole» disse il preside a Rowan, quando si
presentò in infermeria alla pausa pranzo per farsi medicare alcune
nuove ferite. «Dovresti pensare di cambiare scuola.»
Poi, un bel giorno, Rowan non ne poté più. Salì in piedi su un
tavolo della mensa e servì ai suoi compagni le menzogne che
volevano sentire.
«Quella falce era mio zio! Gli ho detto io di spigolare Kohl
Whitlock.»
Naturalmente, credettero a ogni singola parola. Cominciarono a
fischiarlo e a bersagliarlo con il cibo.
«Aprite bene le orecchie» proseguì Rowan. «Sappiate che mio zio
sta per tornare. E che mi ha chiesto di scegliere la prossima vittima.»
Di colpo, il cibo smise di volare nella sua direzione, le occhiate
torve sparirono e, da un giorno all’altro, i pestaggi finirono, come per
miracolo. Quel vuoto fu riempito da un altro vuoto. Nessuno osò più
incrociare il suo sguardo. Nemmeno i professori lo guardavano più,
alcuni cominciarono a mettergli delle A per un elaborato che non
meritava più di una B o una C. Iniziò a sentirsi come un fantasma,
come un’ombra che tormentava la sua stessa esistenza, obbligato a
vivere ai confini del mondo.
A casa, le cose erano normali. Il patrigno non si curava affatto dei
suoi affari e la madre era fin troppo presa da altre cose per
accorgersi dei suoi disagi. Erano al corrente di quanto era accaduto a
scuola e dell’intera situazione ma, come tutti i genitori egocentrici,
fecero finta di nulla, convinti che un problema che non potevano
risolvere non fosse in realtà un vero problema.
«Voglio cambiare scuola» disse un giorno Rowan alla madre,
seguendo finalmente il consiglio del preside.
La sua risposta fu di un’indifferenza dolorosa. «Se pensi che sia il
meglio per te.»
Era quasi convinto che, se le avesse annunciato di essere entrato
a far parte di una setta, gli avrebbe dato la stessa risposta.
Così, quando era arrivato l’invito a teatro, non si era preoccupato di
sapere chi fosse il mittente. Di qualunque cosa si trattasse, era una
salvezza, almeno per una sera.
La ragazza che aveva incontrato lì non era niente male. Carina e
sicura di sé, con ogni probabilità aveva già un fidanzato, anche se
non ne aveva parlato. Poi era apparsa la falce e il mondo di Rowan
era precipitato di nuovo nell’oscurità. Quell’uomo era il responsabile
del suo calvario. Se avesse potuto risolvere così tutti i suoi problemi,
lo avrebbe volentieri spinto giù dalla balconata, ma le aggressioni
contro le falci non erano tollerate. La punizione per il colpevole era lo
sterminio di tutta la sua famiglia. Un provvedimento che garantiva la
sicurezza delle venerande falci.
Alla fine dello spettacolo, Maestro Faraday porse loro un biglietto
fornendo delle precise istruzioni.
«Ci vediamo domani mattina a questo indirizzo, alle nove in
punto.»
«Che cosa dobbiamo dire ai nostri genitori di stasera?» chiese
Citra. Probabilmente la ragazza aveva dei genitori attenti.
«Dite loro quello che volete, non importa, purché veniate
all’appuntamento domani mattina.»
L’indirizzo risultò essere quello del Museo di arte mondiale, il più
prestigioso della città. Apriva alle dieci ma, nell’istante in cui l’addetto
alla sicurezza vide la falce salire i gradini dell’entrata principale,
spalancò le porte e fece entrare i tre, senza che ci fosse bisogno di
parlare.
«Uno dei molti vantaggi del mestiere» disse Maestro Faraday.
Passeggiarono nelle sale in cui erano esposte le opere dei grandi
maestri di un tempo in un silenzio interrotto solo dal rumore dei loro
passi e dai commenti sporadici della falce: «Notate come El Greco
usa sapientemente il contrasto per evocare l’anelito emotivo?»;
«Osservate la fluidità del movimento in questo Raffaello, come
conferisce intensità alla storia visiva che ci narra»; «Ah! Seurat!
Pointillisme profetico un secolo prima del pixel!».
Rowan fu il primo a porre la domanda più ovvia.
«Che ci facciamo qui?»
Maestro Faraday sospirò, leggermente irritato, sebbene con ogni
probabilità si aspettasse quella domanda. «Vi sto dando una lezione
che non riceverete mai a scuola.»
«E così ci ha fatto venire fin qui per tenerci una lezione di storia
dell’arte?» intervenne Citra. «Non sta forse sprecando il suo tempo
prezioso?»
La falce scoppiò a ridere e Rowan si sorprese a desiderare di
essere stato lui a farlo ridere.
«Che cosa avete imparato finora?» chiese Maestro Faraday.
Nessuno dei due rispose, così provò con un’altra domanda. «Che
tipo di conversazione pensate che avremmo avuto se vi avessi
portato nelle sale dedicate all’arte post mortale, invece di farvi visitare
queste sull’arte antica?»
Rowan azzardò una risposta. «Probabilmente sarebbe stata
incentrata sul fatto che l’arte post mortale è più facile da guardare.
Più facile e più… serena.»
«E se vi dicessi “priva di ispirazione”?» suggerì la falce.
«È una questione di punti di vista» replicò Citra.
«Forse. Ma ora che vi ho fornito le chiavi di lettura dell’arte mortale,
voglio che proviate a percepire le cose da soli.» E, detto questo, li
condusse nella sala successiva.
Rowan era convinto che non avrebbe provato nulla. Si sbagliava.
I quadri ricoprivano le pareti dell’ampia sala dal pavimento al
soffitto. Non conosceva i nomi degli artisti, ma non aveva importanza.
Avevano una certa coerenza d’insieme, come se fossero stati dipinti
dalla stessa anima, se non dalla stessa mano. Alcune opere erano a
soggetto religioso, altre erano semplici ritratti, altre ancora
catturavano la luce sfuggente della vita quotidiana con una forza di
cui era priva l’arte post mortale. Lo struggimento e l’ebbrezza,
l’angoscia e la gioia, emozioni che erano tutte rappresentate in quei
dipinti, a volte riunite sulla stessa tela. Era inquietante, ma anche
molto potente.
«Possiamo restare un po’ di più in questa sala?» chiese Rowan.
La falce abbozzò un sorriso. «Certo.»
Nel frattempo, il museo aveva aperto le porte al pubblico e, mentre
loro guadagnavano l’uscita, gli altri visitatori si facevano da parte e si
tenevano a distanza. Quell’atteggiamento ricordò a Rowan come lo
trattavano i suoi compagni di liceo. Citra pareva ancora non capire il
motivo per cui Maestro Faraday li avesse condotti lì; Rowan, al
contrario, stava cominciando a vederci chiaro.
La falce li accompagnò in una tavola calda, dove la cameriera li
fece sedere subito. Portò loro i menu, ignorando gli altri clienti.
Vantaggi del mestiere. Rowan notò che da quando si erano seduti
non era più entrato nessuno nel locale. Il tempo di mangiare e il
ristorante si sarebbe svuotato del tutto.
«Se vuole che le forniamo informazioni sulle persone che
conosciamo» disse Citra nel momento in cui furono serviti, «io non ho
intenzione di farlo.»
«Raccolgo io stesso le informazioni di cui ho bisogno» replicò
Maestro Faraday. «Non mi serve che due adolescenti mi facciano da
informatori.»
«Ma ha bisogno di noi, no?» intervenne Rowan.
L’uomo non rispose. Invece, si mise a parlare della popolazione
mondiale e dell’incombenza che pesava sulle falci di tutto il pianeta,
della necessità, se non di ridurla drasticamente, almeno di
mantenerla a un livello ragionevole. «Il tasso di crescita della
popolazione richiede che ogni anno si spigoli un certo numero di
persone affinché il Thunderhead possa provvedere alle esigenze
dell’umanità. Perché questo sistema continui a funzionare, abbiamo
bisogno di aumentare il numero delle falci.»
Da una delle numerose tasche della veste, estrasse un anello
identico a quello che indossava. La luce della sala lo colpì, in un
gioco di riflessi e rifrazioni, senza mai raggiungerne il nucleo oscuro.
«Tre volte all’anno, le falci si riuniscono in una grande assemblea, il
conclave. Discutiamo della nostra missione e decidiamo se è il caso
di aumentare o no il numero delle falci nella nostra regione.»
Citra parve farsi più piccola sulla sedia. Alla fine, aveva compreso.
Anche se Rowan lo aveva sospettato, alla vista dell’anello si sentì
venir meno.
«Le pietre incastonate negli anelli furono create all’inizio dell’era
post mortale dalle prime falci, quando la società ritenne che la morte
non naturale dovesse prendere il posto della morte naturale. A
quell’epoca, si fabbricarono più pietre del necessario, perché i
fondatori della Compagnia delle falci furono abbastanza saggi da
prevedere i futuri bisogni. Quando è necessario nominare una nuova
falce, una pietra viene montata su un anello d’oro che va poi conferito
al candidato eletto.» Rigirò l’anello tra le dita, soppesandolo, facendo
danzare la luce rifratta in tutta la sala. Poi li guardò negli occhi, prima
Citra, poi Rowan. «Sono appena tornato dal Conclave d’inverno, mi
hanno consegnato questo anello perché possa assumere un
apprendista.»
Citra si ritrasse. «Può farlo Rowan. A me non interessa.»
Rowan si voltò verso di lei, pentendosi di non aver parlato per
primo. «Che cosa ti fa pensare che a me invece interessi?»
«Vi ho scelti entrambi!» esclamò Faraday, alzando la voce.
«Imparerete il mestiere, tutti e due. Ma alla fine, solo uno di voi
riceverà l’anello. L’altro o l’altra potrà tornare alla sua vecchia vita.»
«Perché dovremmo competere per un posto che nessuno dei due
vuole?» chiese Citra.
«In questo sta il paradosso della professione» rispose Faraday.
«Coloro che vogliono ottenere l’incarico non devono averlo… e quelli
che si rifiutano di uccidere sono gli unici adatti a esercitare il
mestiere.»
Mise via l’anello. Rowan, che fino a quel momento aveva trattenuto
il fiato quasi senza accorgersene, riprese a respirare.
«Possedete entrambi una tempra morale fuori dal comune. Sono
convinto che questa vostra straordinaria qualità alla fine vi farà
decidere di accettare l’apprendistato, e non perché io vi obbligherò,
ma perché l’avrete scelto voi.»
Uscì senza pagare il conto, perché non c’era, e comunque non si
portava mai un conto a una falce.

Che sfacciataggine! Credere che bastasse impressionarli con quel


gran sfoggio di cultura per poi alla fine tirare fuori quell’offerta
ripugnante. Citra non avrebbe mai e poi mai rinunciato alla sua vita
per diventare una falce.
Quella sera, quando tornarono a casa, raccontò ai genitori
l’accaduto. Il padre la strinse tra le braccia e lei scoppiò in lacrime,
sconvolta dalla terribile proposta. La madre le fece una domanda
inaspettata.
«Accetterai?»
Il fatto che le avesse potuto rivolgere una simile domanda la
sconvolse ancora di più dell’anello che Maestro Faraday aveva
mostrato loro quel mattino.
«Cosa?»
«È una scelta difficile, lo so» disse il padre. «Ti appoggeremo
qualunque sarà la tua decisione.»
Li guardò a turno, come se non li avesse mai davvero visti prima di
quel momento. Come potevano conoscerla così poco da pensare che
potesse accettare il ruolo di apprendista di una falce? Non sapeva
nemmeno cosa rispondere.
«Vorreste… che dicessi di sì?» chiese timorosa.
«Noi vogliamo quello che vuoi tu, tesoro» replicò la madre. «Ma
guarda la cosa in prospettiva. Una falce ha tutto in questo mondo.
Tutti i tuoi desideri sarebbero esauditi, tutti i tuoi bisogni soddisfatti, e
non dovresti mai temere di essere spigolata.»
All’improvviso, un pensiero colpì Citra. «Nemmeno voi avreste la
preoccupazione di essere spigolati… anche la famiglia ha diritto
all’immunità finché la falce resta in vita.»
Il padre scosse la testa. «Non si tratta della nostra immunità.»
Citra capì che stava dicendo la verità. «Non è per voi, è per
Ben…» indovinò.
Risposero con il silenzio. Il ricordo sgradevole dell’intrusione
improvvisa di Maestro Faraday in casa loro li tormentava ancora. In
quel momento, non avevano avuto idea del perché fosse lì, se per
spigolare Citra, o forse Ben. Ma se Citra fosse diventata una falce,
non avrebbero più avuto ragione di temere una qualsiasi visita non
annunciata.
«Volete che passi la mia vita a uccidere la gente?»
La madre distolse lo sguardo da lei. «Ti prego, tesoro, non dire
così. Non si tratta di uccidere, ma di spigolare. È una missione
importante. Certo, non piace a nessuno, ma tutti sanno che è
necessario, e qualcuno deve pur farlo. Perché non tu?»
Citra andò a letto presto, quella sera. Prima di cena, perché gli
avvenimenti della giornata le avevano tolto l’appetito. I genitori
bussarono più volte alla sua porta, ma li mandò via.
Non aveva previsto quale piega avrebbe preso la sua vita. Aveva
pensato che sarebbe andata all’università, si sarebbe laureata,
avrebbe trovato un lavoro piacevole, avrebbe incontrato un uomo
piacevole e avrebbe vissuto una vita piacevole, normale. Non era
proprio quello che desiderava, ma era quello che tutti si aspettavano.
Non lei, ma tutti gli altri. Senza più alcuna reale aspirazione, l’unico
scopo della vita era di mantenersi. Mantenersi per l’eternità.
Avrebbe forse trovato la sua ragione di esistere nel mestiere di
falce? La risposta era un deciso “no”.
Ma se era così sicura di sé, perché non riusciva a addormentarsi?

Per Rowan, la decisione era meno complicata. D’accordo, non


sopportava l’idea di essere una falce, gli dava la nausea, ma ciò che
lo disgustava di più era immaginare un altro che lo facesse al suo
posto. Non si considerava moralmente superiore agli altri. Aveva però
una capacità maggiore di provare compassione. Riusciva a mettersi
nei panni della gente, a condividerne le sofferenze. Era quell’empatia
che lo aveva spinto a non lasciare solo Kohl nel momento della sua
spigolatura. Era lo stesso sentimento che lo aveva spinto a restare al
fianco di Tyger ogni volta che si lanciava.
E poi, Rowan sapeva già cosa volesse dire essere una falce:
essere emarginato dal resto del mondo. La situazione di esclusione
era temporanea, ma avrebbe sopportato di vivere per sempre isolato
da tutti? Certo, le falci si riunivano, a volte. Tenevano i conclavi tre
volte all’anno, per forza di cose nascevano delle affinità tra alcune di
loro. Era il club più d’élite del mondo. No, non voleva farne parte, ma
era stato chiamato. Sarebbe stato un peso, ma anche un privilegio.
Quel giorno, Rowan non ne parlò con la famiglia, perché non
voleva che lo influenzasse nella decisione.
L’immunità per tutti? Certo, avrebbero insistito affinché accettasse.
Gli volevano bene, ma era solo uno dei componenti di una grande
famiglia. Se il suo sacrificio avesse potuto salvarli tutti, avrebbe fatto
il loro comune interesse.
Alla fine, fu l’arte che pesò sulla decisione. Quella notte, i quadri
tormentarono i suoi sogni. Pensò a come dovesse essere stata la vita
nell’Era della Mortalità. Piena di passioni, buone e cattive. La paura
che cercava conforto nella fede. La disperazione che dava un senso
all’euforia. Si diceva anche che a quel tempo gli inverni fossero più
freddi e le estati più calde.
Vivere tra la speranza di un ignoto paradiso eterno e la paura di
un’oscura vita terrena doveva essere appassionante. Come spiegarsi
altrimenti l’esistenza di opere così sublimi? Ormai, non si creava più
nulla di valore, ma se, diventando falce, fosse riuscito a ridare al
mondo un po’ del suo antico splendore, ne sarebbe valsa la pena.
Avrebbe trovato il coraggio di uccidere un altro essere umano?
Non solo uno, ma tanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, finché
non avesse anche lui raggiunto l’eternità? Maestro Faraday lo
credeva capace.
Il mattino seguente, prima di andare a scuola, disse alla madre che
una falce gli aveva proposto di diventare suo apprendista e che
avrebbe interrotto gli studi per accettare l’incarico.
«Se pensi che sia il meglio per te…» gli rispose.
Oggi, ho superato la mia verifica culturale. Ne abbiamo solo una all’anno, ma ogni
volta non è meno stressante. Quest’anno, quando hanno redatto la lista degli indici
culturali di quelli che ho spigolato negli ultimi dodici mesi, sono rientrata ampiamente,
per fortuna, nei parametri consentiti:
20% Caucasoide
18% Africano
20% Panasiatico
19% Mesolatino
23% Altro
A volte, è difficile da conoscere. L’indice di una persona è riservato, per cui
dobbiamo basarci solo sui tratti fisici, che sono meno evidenti rispetto alle generazioni
passate. Quando i valori sono sbilanciati, le falci vengono sanzionate dalla Suprema
Roncola, e si vedono assegnare le spigolature per l’anno successivo, invece di essere
lasciate libere di scegliersi le vittime. È un segno di disonore.
L’indice dovrebbe impedire ogni discriminazione culturale e genetica, ma non
esistono forse dei fattori soggiacenti ai quali non possiamo sfuggire? Per esempio, chi
ha deciso che il primo numero di un indice genetico di una persona debba essere la
percentuale caucasoide?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


4
Permesso di uccidere da apprendista

“Dimenticate tutto quello che sapete delle falci. Abbandonate le


vostre idee preconcette. La vostra formazione inizia oggi.”
Citra non riusciva a crederci. Aveva accettato la proposta della
falce. Quale lato autolesionista e sconosciuto del suo carattere aveva
prevalso sulla sua volontà? Quale follia si era impadronita di lei al
punto tale da farle accettare l’incarico? Ora non poteva più tirarsi
indietro. Il giorno prima, il terzo del nuovo anno, Maestro Faraday era
andato a trovarla e aveva concesso un anno di immunità al padre e al
fratello. Aveva aggiunto dei mesi alla madre per fare in modo che la
protezione avesse la stessa durata per tutta la famiglia.
Naturalmente, se Citra fosse stata scelta, la loro immunità non
avrebbe mai avuto fine.
Al momento della sua partenza, i genitori versarono qualche
lacrima. Erano lacrime di dispiacere, gioia o sollievo? Non avrebbe
saputo dirlo. Forse, un misto di tutti e tre.
«Hai un grande futuro davanti a te» le aveva detto il padre. Citra si
chiese se dare la morte era l’idea che si facevano di un grande
futuro.
“Non siate così arroganti da credere di avere licenza di uccidere.
La licenza appartiene a me, e a me soltanto. Tutt’al più usufruite… di
un permesso da apprendisti. Comunque, almeno uno di voi dovrà
essere presente a ogni mia spigolatura. E se vi chiederò di darmi una
mano, obbedirete.”
Citra lasciò il liceo il giorno stesso, dopo aver salutato gli amici in
modo un po’ goffo.
«Non è che sparirò dalla circolazione. Non verrò più a scuola, tutto
qui.» Ma chi voleva prendere in giro? Accettando il contratto di
apprendistato, si metteva dall’altra parte di un muro invalicabile. Era
deprimente e al tempo stesso confortante sapere che la vita sarebbe
continuata senza di lei. Era arrivata a pensare che una falce fosse
una specie di morto vivente. Presente nel mondo, ma tenuta in
disparte. Testimone degli arrivi e delle partenze degli altri.
“Siamo al di sopra della legge, ma questo non significa che non la
rispettiamo. La nostra posizione ci richiede un grado di moralità
superiore al diritto. Dobbiamo tendere all’incorruttibilità e dobbiamo
mettere in discussione le nostre motivazioni ogni giorno.”
Invece di un anello, Citra ricevette, insieme a Rowan, una fascia
che ogni apprendista doveva portare al braccio come segno
distintivo: una striscia di stoffa verde sormontata dal doppio simbolo
della Compagnia, una falce che sovrastava un occhio spalancato.
Quel simbolo sarebbe stato poi tatuato sul braccio dell’eletto.
Nessuno avrebbe mai visto quel tatuaggio, in quanto le falci non si
mostravano mai in pubblico senza le loro vesti.
Citra voleva convincersi di avere ancora una via d’uscita. Poteva
sempre fallire, dimostrarsi una pessima apprendista, oppure poteva
sabotarsi, obbligando Maestro Faraday a scegliere Rowan, e tornare
a casa alla fine dell’anno. Citra, però, non era molto brava a fare le
cose male. Per lei, era più difficile fallire che riuscire.
“Non tollererò che intratteniate alcuna relazione sentimentale tra di
voi, quindi toglietevi dalla testa questo pensiero fin da ora.”
Citra aveva lanciato un’occhiata a Rowan quando la falce aveva
pronunciato quelle parole e lui aveva alzato le spalle.
«Non c’è problema» aveva detto Rowan, cosa che l’aveva irritata.
Almeno, avrebbe potuto mostrare un minimo di delusione.
«Lo stesso per me» aveva replicato Citra. «Non c’è pericolo, con o
senza la regola.»
Rowan aveva sorriso, e questo l’aveva irritata ancora di più.
“Studierete la storia, i grandi filosofi, le scienze. Dovrete
comprendere la natura della vita e che cosa significa essere umani,
prima di essere incaricati in via definitiva di spigolare. Dovrete anche
studiare tutte le forme dell’arte di uccidere e diventare esperti in
materia.”
Come Citra, anche Rowan non era proprio convinto della propria
decisione, ma non aveva alcuna intenzione di darlo a vedere.
Soprattutto davanti a lei. E, nonostante ostentasse un atteggiamento
di indifferenza nei suoi confronti, in realtà ne era attratto. Ma, prima
ancora che la falce glielo avesse proibito, sapeva che non avrebbe
potuto esserci nessuna storia tra di loro. Dopotutto, erano rivali.
Come Citra, Rowan era rimasto accanto a Maestro Faraday
quando questo aveva teso la mano con l’anello a ciascuno dei
componenti della sua famiglia concedendo loro l’immunità. Fratelli e
sorelle, fratellastri e sorellastre, la nonna e il marito fin troppo perfetto
che Rowan sospettava fosse un robot si inginocchiarono in segno di
rispetto e gli baciarono l’anello, trasmettendo il loro DNA alla banca
dati dell’immunità mondiale, nel Cloud speciale della Compagnia
delle falci, separato e distinto dal Thunderhead.
Secondo la regola, tutti i membri che vivevano sotto lo stesso tetto
dell’apprendista ricevevano l’immunità per la durata di un anno. Nella
famiglia di Rowan erano in diciannove. La madre non sapeva se
essere contenta o dispiaciuta, perché nessuno si sarebbe mosso da
casa per almeno dodici mesi in attesa che l’immunità diventasse
permanente, una volta che Rowan avesse ricevuto l’anello, se mai lo
avesse ricevuto.
L’unico inconveniente era stato che l’anello si era messo a vibrare
ed era partito un piccolo allarme al momento di accordare l’immunità
al nuovo marito della nonna, negandogliela. In fin dei conti, si trattava
di un robot.
“Vivrete modestamente, come me, rimettendovi alla carità del
prossimo. Non prenderete più di quanto vi sia necessario ed eviterete
gli sprechi. La gente cercherà di comprare la vostra amicizia. Vi
coprirà di doni. Accetterete solo lo stretto necessario.”
Faraday aveva portato Rowan e Citra a casa sua, dove sarebbe
iniziata la loro nuova vita. Era un edificio a un piano in un quartiere
degradato della città di cui Rowan non aveva mai sospettato
l’esistenza. «La gente fa finta di essere povera» aveva detto Maestro
Faraday, perché nessuno viveva più in miseria. L’austerità era una
scelta, c’erano sempre quelli che rifiutavano l’abbondanza del mondo
post mortale.
La casa di Faraday era spartana. Minimalista. Mobilio anonimo,
ridotto all’essenziale. Nella stanza di Rowan c’era spazio solo per un
letto e una piccola cassettiera. Nella sua, Citra aveva almeno una
finestra, ma la vista dava su un muro di mattoni.
“Non tollererò passatempi puerili o insulse chiacchiere tra amici.
Nel momento in cui vi impegnerete a condurre questa esistenza,
rinuncerete in modo definitivo alla vostra vita di prima. Quando, tra un
anno, sceglierò uno di voi due, l’altro potrà riprendere il normale
corso della sua esistenza. Per adesso, considerate quella vita una
cosa del passato.”

Maestro Faraday non lasciò loro nemmeno il tempo di riflettere sulla


situazione. Non appena Rowan ebbe disfatto i bagagli, gli disse che
era ora di andare al supermercato.
«Per spigolare?» chiese Rowan, con una certa apprensione.
«No, per comprare da mangiare per voi due» rispose Faraday. «A
meno che non preferiate accontentarvi dei miei avanzi.»
Citra lanciò a Rowan un sorrisetto sarcastico per aver fatto quella
domanda. Come se lei non avesse temuto la stessa cosa!
«Mi eri molto più simpatica prima di conoscerti» le disse.
«Tu non mi conosci ancora» gli rispose Citra, il che era vero. Poi
emise un sospiro e per la prima volta dalla sera a teatro non si
mostrò arrogante. «Senti, siamo obbligati a vivere insieme. Siamo
obbligati ad affrontarci per qualcosa che nessuno dei due vuole. Non
è colpa tua, ma sarà complicato per noi essere amici.»
«Lo so» ammise Rowan. In fin dei conti, Citra non era la sola
responsabile delle tensioni tra di loro. «Ma questo non vuol mica dire
che non possiamo aiutarci.»
Lei non gli rispose. Lui non si aspettava che lo facesse. Aveva
voluto solo piantare un seme. Nel corso degli ultimi due mesi, aveva
imparato che poteva contare solo su se stesso. Forse, nessuno era
mai stato dalla sua parte. Nemmeno i suoi amici, che gli avevano
voltato le spalle. Nemmeno la sua stessa famiglia, che si comportava
come se non esistesse.
C’era una sola persona che stava vivendo il suo stesso calvario.
Ed era Citra. Se non potevano fidarsi l’uno dell’altra, che cosa
restava loro, eccetto quello stupido permesso di uccidere da
apprendista?
La più grande conquista dell’umanità non è stata la sconfitta della morte. È stata la
vittoria sul governo.
Quando la rete digitale mondiale si chiamava ancora Cloud, la gente riteneva che
dare troppo potere a un’intelligenza artificiale non avrebbe portato nulla di buono. Le
storie che mettevano in guardia contro un tale rischio abbondavano su tutti i mezzi di
comunicazione. Le macchine venivano sempre additate come il nemico. Ma poi il
Cloud si trasformò nel Thunderhead, dotato di coscienza, o almeno di qualcosa di
molto simile. Contrariamente a quello che la gente aveva temuto, il Thunderhead non
si impadronì del potere. Ma fu la gente che cominciò a pensare che avesse le carte in
regola per governare meglio dei politici.
Prima del Thunderhead, l’arroganza umana, gli interessi personali e le continue liti
interne dettavano legge. Era un sistema inefficace. Imperfetto. Vulnerabile a ogni
forma di corruzione.
Il Thunderhead era incorruttibile. Non solo, ma i suoi algoritmi si basavano sulla
somma totale della conoscenza umana. Tutto il tempo e il denaro sprecati in manovre
politiche, le vite perse nelle guerre, le popolazioni sfruttate dai despoti: tutto sparito nel
momento in cui il potere fu consegnato al Thunderhead. Era chiaro che i politici, i
dittatori e i guerrafondai non ne fossero contenti, ma le loro voci, che avevano sempre
risuonato forti e intimidatorie, persero all’improvviso di autorità. Non solo l’imperatore
non aveva i vestiti, non aveva nemmeno le palle.
Il Thunderhead sapeva tutto. Quando e dove costruire strade, come eliminare gli
sprechi nella distribuzione alimentare e porre quindi fine alla fame, come proteggere
l’ambiente dalla crescita incontrollata della popolazione. Creò posti di lavoro, vestì i
poveri e stabilì il Codice mondiale. Per la prima volta nella storia, la legge non era più il
pallido riflesso della giustizia, era la giustizia.
Il Thunderhead ci diede un mondo perfetto. L’utopia che i nostri antenati potevano
solo sognare era diventata la realtà.
C’era solo una cosa su cui non avrebbe potuto esercitare la propria autorità.
La Compagnia delle falci.
Quando si decise che la gente doveva morire per contrastare la crescita della
popolazione, si decise anche che se ne sarebbero dovuti fare carico gli umani. La
riparazione di un ponte o il riassetto urbano potevano essere gestiti dal Thunderhead,
ma togliere la vita era un atto di coscienza e consapevolezza. E, dato che non era
possibile provare che il Thunderhead fosse dotato dell’una o dell’altra di queste qualità
umane, fu fondata la Compagnia delle falci.
Non mi pento della decisione, ma spesso mi viene da chiedermi se il Thunderhead
non sarebbe stato capace di fare un lavoro migliore.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


5
«Ma ho solo novantasei anni…»

Un salto al supermercato, niente di più normale. Eppure, Citra scoprì


che fare la spesa con una falce era un avvenimento pieno di
sorprese.
Dall’istante in cui entrarono nel negozio, un’ondata di terrore si alzò
al loro passaggio. Citra sentì la pelle d’oca sulle braccia. Niente di
così eclatante come sussulti o grida: la gente era abituata a
incontrare le falci nella vita di tutti i giorni. Il terrore era silente, ma
palpabile, come se la falce e i suoi apprendisti fossero entrati in
scena nel bel mezzo di una rappresentazione, interrompendo lo
spettacolo.
Secondo Citra, esistevano in generale tre tipi di persone. Il primo
comprendeva quelli che facevano finta di nulla. Non solo ignoravano
la falce, ma ne negavano addirittura la presenza. A Citra ricordavano
certi bambini che giocavano a nascondino coprendosi gli occhi,
pensando che, se non vedevano nulla, allora non potevano essere
visti nemmeno loro. Nel secondo tipo rientravano gli artisti della fuga.
Erano quelli che se la davano a gambe accampando scuse. Si
ricordavano a un tratto di aver dimenticato di prendere le uova o si
mettevano a cercare un bambino immaginario. Oppure
abbandonavano il carrello e correvano via dicendo di aver scordato il
portafoglio a casa, nonostante la tasca gonfia, e non tornavano più. E
infine c’erano i ruffiani. Questi facevano di tutto per abbordare la falce
per offrirle qualcosa, nella segreta speranza (nemmeno tanto
segreta) che potesse concedere loro l’immunità, o almeno di
spigolare il vicino, al posto loro, un giorno. “Eccellenza, prenda il mio
melone, è più grosso. Insisto.” Possibile che quelle persone non
capissero che un comportamento servile contribuiva solo a
convincere la falce a volerle spigolare più delle altre? Non che Citra
volesse infliggere la pena di morte per una simile inezia, ma se
avesse dovuto scegliere tra un innocente passante e un ruffiano
ossequioso fino alla nausea, avrebbe di sicuro scelto il dispensatore
di meloni.
Davanti al banco della gastronomia, incontrarono una cliente del
supermercato che non sembrava appartenere a nessuno dei tre
profili. Una donna che fu in realtà contenta di vedere Maestro
Faraday.
«Buongiorno» lo salutò. Poi guardò Citra e Rowan, incuriosita.
«Sono i suoi nipoti?»
«No di certo» rispose lui, con un leggero tono di disprezzo dal
quale Citra intuì che la falce non volesse avere nulla a che fare con
loro. «Ho preso degli apprendisti.»
La donna sgranò gli occhi. «Davvero!» esclamò con un tono da cui
non si capiva se la ritenesse una buona o una cattiva idea. «Hanno
una propensione per il mestiere?»
«Neanche per sogno.»
La donna annuì. «Be’, allora immagino che sia un buon segno.
Conosce il detto: “Con imprudenza la lama non maneggiare”.»
La falce sorrise. «Spero di poter far loro assaggiare il suo strudel,
prima o poi.»
«Certo, quando volete» replicò lei con un cenno della testa rivolto
ai due.
Appena se ne fu andata, Maestro Faraday spiegò che era un’amica
di lunga data. «Di tanto in tanto, cucina per me, e lavora per il medico
legale. Per la mia professione, è sempre un bene avere qualcuno in
quell’ufficio.»
«Le concede l’immunità?» chiese Citra. Rowan temette che la falce
potesse irritarsi per quella domanda.
«La Compagnia delle falci non vede di buon occhio chi fa
favoritismi, ma ho scoperto che concedendole l’immunità un anno su
due la cosa passa inosservata» rispose invece Maestro Faraday.
«E se un’altra falce la spigola nell’anno sbagliato?»
«Allora assisterò al suo funerale sinceramente addolorato.»
Mentre continuavano a fare la spesa, Citra mise dei sacchetti di
patatine nel carrello.
«Sono davvero necessarie?» chiese Maestro Faraday,
osservandole dubbioso.
«Che cosa c’è di davvero necessario?» ribatté Citra.
Rowan trovava comico il modo in cui Citra teneva testa alla falce.
Però funzionava. Maestro Faraday alla fine cedette.
Rowan si sforzò di essere più pratico, scegliendo generi alimentari
di base come farina, uova, proteine e accompagnamenti adeguati.
«Non prendere i polloidi in promozione» lo ammonì Citra, lanciando
un’occhiata al contenuto del carrello. «Fidati, mia madre è ingegnere,
sintetizza gli alimenti. Quella roba non è vero pollo. Li creano in
vitro.»
Rowan afferrò un’altra busta di proteine congelate. «E questa?»
«Carne marina? Certo, se ti piace il plancton pressato a forma di
hamburger.»
«Be’, allora tu dovresti scegliere del cibo normale invece di fare il
pieno di merendine e schifezze.»
«Sei sempre così noioso?» gli chiese.
«Non ci ha detto che dobbiamo vivere come lui? Non credo che il
gelato al gusto cookies faccia parte del suo stile di vita.»
Lo guardò storto, ma alla fine optò per il gelato alla vaniglia.
Citra adocchiò due adolescenti che avevano un comportamento
sospetto. Avevano l’aria di seguirli, si fermavano quando loro si
fermavano, fingendo di fare la spesa. Erano probabilmente dei tipi
loschi, gente che si dedicava ad attività ai limiti della legalità. A volte,
i delinquenti trasgredivano la legge commettendo reati minori, anche
se la maggior parte di loro finiva per stancarsi, perché il Thunderhead
li pizzicava sempre e poi si beccavano una bella lavata di capo dagli
ufficiali di pace. Ai mascalzoni più molesti veniva somministrata per
via endovenosa una dose di naniti d’urto, abbastanza potenti da
dissuaderli dal violare la legge. E in caso di recidiva, venivano
assegnati a un ufficiale di pace personale, ventiquattro ore su
ventiquattro, sette giorni su sette. Citra aveva uno zio così. Chiamava
il proprio ufficiale “angelo custode”, e aveva finito per sposarla.
Citra strattonò Rowan per la manica per attirare la sua attenzione
sui tipi loschi, ma senza farsi notare da Maestro Faraday.
«Perché pensi che ci stiano seguendo?»
«Di sicuro, credono che Maestro Faraday stia per spigolare e
vogliono assistere allo spettacolo» suggerì Rowan. L’ipotesi era
plausibile. Ma probabilmente le loro intenzioni erano ben altre.
Mentre facevano la fila alla cassa, uno dei delinquentelli prese la
mano di Maestro Faraday e gli baciò l’anello prima che potesse
impedirglielo. L’anello emise un bagliore rosso, a indicare che era
stata concessa l’immunità al giovane.
«Ah!» esclamò il mascalzone, orgoglioso della sua trovata. «Ho
ottenuto l’immunità per un anno e non può più annullarla! Conosco le
regole!»
Maestro Faraday non si scompose. «Sì, buon per te. Hai
trecentosessantacinque giorni di immunità.» Quindi lo guardò negli
occhi e aggiunse: «Allora, ci rivedremo il trecentosessantaseiesimo».
A un tratto, l’espressione soddisfatta svanì dal viso
dell’adolescente e la sua faccia si afflosciò, come se tutti i muscoli
avessero ceduto di colpo. Farfugliò qualcosa, e i suoi amici lo
trascinarono via. Corsero fuori dal negozio più in fretta che poterono.
«Ben fatto» commentò un uomo in fila. Si offrì di pagargli la spesa,
cosa inutile, dato che le falci avevano tutto gratis.
«Ha davvero intenzione di andare da lui fra un anno?» chiese
Rowan.
La falce afferrò un pacchetto di caramelle alla menta
dall’espositore. «Non vale la pena che ci sprechi del tempo. E poi, ha
avuto già la sua punizione. Per tutto l’anno vivrà nel terrore di essere
spigolato. Che questo vi serva di lezione: una falce non deve
necessariamente dare seguito a una minaccia per renderla efficace.»
Qualche minuto più tardi, mentre stavano caricando le buste in una
publicar, la falce indicò una persona all’altro capo del parcheggio.
«Vedete quella donna, laggiù? Quella a cui è caduta la borsa?»
«Sì» rispose Rowan.
Maestro Faraday estrasse il telefono, puntò la macchina fotografica
sulla donna e in un istante sullo schermo cominciarono a scorrere le
informazioni su di lei. Età reale: novantasei anni. Età biologica:
trentaquattro anni. Madre di nove figli. Tecnico di gestione dati per
una piccola ditta di trasporti. «Andrà al lavoro dopo che avrà portato
la spesa a casa» disse Faraday. «Nel pomeriggio, la spigoleremo nel
suo ufficio.»
Citra emise un piccolo grido di sorpresa. Non proprio un sussulto,
ma quasi. Rowan si concentrò sulla respirazione per non tradire le
sue emozioni, come aveva fatto Citra.
«Perché?» chiese Rowan. «Perché lei?»
La falce gli rivolse uno sguardo freddo. «Perché no?»
«Aveva un motivo per spigolare Kohl Whitlock…»
«Chi?» chiese Citra.
«Un ragazzo del mio liceo. Quando ho incontrato per la prima volta
il nostro Venerando Maestro.»
Faraday sospirò. «I decessi nei parcheggi rappresentavano l’1,25%
di tutte le morti accidentali avvenute nel corso degli ultimi giorni
dell’Era della Mortalità. Ieri sera, ho deciso che avrei scelto il
soggetto in un parcheggio.»
«Così, per tutto il tempo in cui stavamo facendo la spesa, lei ha
pensato alla sua futura vittima?» chiese Rowan.
«Mi sento male per lei» disse Citra. «Anche quando fa la spesa, la
morte si nasconde dietro una bottiglia di latte.»
«Non si nasconde mai» precisò la falce con una stanchezza
difficile da descrivere. «E non dorme nemmeno. Lo imparerete molto
presto.»
Non era una cosa che avessero fretta di imparare.

Quel pomeriggio, proprio come Maestro Faraday aveva annunciato,


andarono alla ditta di trasporti dove lavorava la donna, e assistettero
alla scena, esattamente come Rowan aveva assistito alla spigolatura
di Kohl. Ma quel giorno, non si trattava solo di osservare.
«Ho scelto per lei una pillola letale» annunciò Maestro Faraday alla
donna che tremava come una foglia e che aveva perso l’uso della
voce. Infilò la mano in tasca ed estrasse una fiala di vetro che
conteneva una pillolina. «Si attiverà solo quando la morderà, può
quindi scegliere il momento. Non deve inghiottirla, deve solo
morderla. La morte sarà istantanea e indolore.»
La testa le ciondolava come una bambola disarticolata. «Posso…
posso chiamare i miei figli?»
Maestro Faraday scosse la testa, mesto. «No, mi dispiace. Ma
comunicheremo loro qualsiasi messaggio desidera.»
«Che male c’è se li saluta per l’ultima volta?» chiese Citra.
Alzò la mano per zittirla e consegnò alla donna una penna e un
foglio di carta. «Scriva tutto quello che vuole dire. Le prometto che
consegneremo la lettera.»
Aspettarono nel corridoio, fuori dal suo ufficio. Maestro Faraday
diede prova di infinita pazienza. «E se apre la finestra e si lancia?»
chiese Rowan.
«Ebbene, la sua vita finirà come previsto. Sarebbe una scelta poco
piacevole, ma il risultato finale sarebbe lo stesso.»
La donna non scelse di lanciarsi dalla finestra. Riaprì la porta, li
fece entrare, consegnò educatamente la lettera a Maestro Faraday e
si sedette alla scrivania.
«Sono pronta.»
Poi Maestro Faraday fece qualcosa di sorprendente. Si voltò verso
Rowan e gli porse la fiala. «Per favore, metti la pillola in bocca alla
signora Becker.»
«Chi, io?»
Maestro Faraday non rispose. Rimase con il braccio teso, in attesa
che il ragazzo afferrasse la fiala. Rowan sapeva che non sarebbe
stato lui a eseguire ufficialmente la spigolatura, ma l’idea di fare da
intermediario non gli piaceva per nulla. Deglutì, sentendo un sapore
amaro in bocca come se avesse masticato lui stesso la pillola. Si
rifiutò di prenderla.
Maestro Faraday gli concesse qualche istante di più, poi si rivolse
a Citra. «Fallo tu, allora.»
Lei scosse la testa.
Maestro Faraday abbozzò un sorriso. «Molto bene. Vi ho messo
alla prova. Non sarei stato contento se uno di voi due avesse
mostrato il desiderio di dare la morte.»
Alla parola “morte”, la donna ebbe un fremito.
Maestro Faraday aprì la fiala e con cautela estrasse la pillola. Era
di forma triangolare, rivestita di uno strato verde scuro. Chi mai
avrebbe creduto che la morte potesse presentarsi in un oggetto così
piccolo?
«Ma… Ma ho solo novantasei anni…» disse la donna.
«Lo sappiamo» replicò la falce. «Ora, per favore… apra la bocca.
Ricordi, non deve inghiottirla, deve romperla con i denti.»
Lei obbedì e Maestro Faraday le mise la pillola sulla lingua. La
donna chiuse la bocca, ma non la ruppe subito. Li guardò a turno.
Rowan, Citra, infine Maestro Faraday. Poi si udì un leggerissimo
scricchiolio. E lei si accasciò. Semplice. Ma per nulla semplice.
Citra aveva gli occhi lucidi. Strinse con forza le labbra. Rowan tentò
di reprimere il più possibile le sue emozioni, ma faticava a respirare e
si sentì mancare.
Maestro Faraday si rivolse a Citra. «Controllale il battito, per
favore.»
«Chi, io?»
La falce era paziente. Non ripeté la domanda. Non chiedeva mai
due volte una cosa. Dato che Citra continuava a esitare, aggiunse:
«Non è un test. Voglio che mi confermi che non ci sia più il battito».
Citra allungò la mano e le toccò il collo.
«Sull’altro lato» le disse la falce.
Le premette le dita sull’arteria carotide, appena sotto l’orecchio.
«Battito assente.»
Maestro Faraday sembrava soddisfatto.
«È tutto qui?» chiese Citra.
«Che cosa ti aspettavi?» intervenne Rowan. «Un coro di angeli?»
Citra gli lanciò un’occhiata sconcertata. «È così… tranquillo.»
Rowan capì ciò che intendeva. Aveva sperimentato la scossa
elettrica che aveva dato la morte al suo compagno di liceo. Era stato
terribile, ma questo, in un certo senso, era ancora peggio. «E ora? La
lasciamo così?»
«Meglio non indugiare» rispose Maestro Faraday, digitando
qualcosa sul telefono. «Ho chiesto al medico legale di venire a
prendere il corpo della signora Becker.» Raccolse la lettera che
aveva scritto la donna e la infilò in una delle tasche della veste. «Voi
due porterete la lettera alla famiglia, al funerale.»
«Un momento» disse Citra. «Andiamo al suo funerale?»
«Credevo che avesse detto che era meglio non indugiare» disse
Rowan.
«Indugiare e rendere omaggio sono due cose diverse. Partecipo ai
funerali di tutte le mie vittime.»
«È una regola delle falci?» chiese Rowan, che non era mai stato a
un funerale.
«No, è una mia regola» rispose. «È quello che si chiama “avere un
minimo di rispetto”.»
Poi se ne andarono. Rowan e Citra evitarono di incrociare lo
sguardo dei colleghi di lavoro della donna. Quello fu il loro rito
iniziatico. Quello fu il giorno che segnò il punto di partenza del loro
apprendistato.
Parte seconda
NESSUN’ALTRA LEGGE ALL’INFUORI DI QUESTA
I comandamenti della falce

1. Ucciderai.
2. Ucciderai senza discriminazione, senza fanatismo e senza premeditazione.
3. Concederai un anno di immunità ai familiari di coloro che accettano la tua
venuta e a chiunque altro tu ritenga meritevole.
4. Ucciderai i familiari di coloro che opporranno resistenza.
5. Servirai l’umanità fino alla fine dei tuoi giorni e la tua famiglia riceverà l’immunità
come ricompensa per tutto il tempo che vivrai.
6. Condurrai una vita esemplare in parole e opere.
7. Non ucciderai altra falce all’infuori di te.
8. Non rivendicherai alcuna proprietà materiale all’infuori delle tue vesti, del tuo
anello e del tuo diario.
9. Non avrai né consorte né progenie.
10. Non avrai nessun’altra legge all’infuori di questa.

Una volta all’anno, digiuno e medito sui comandamenti. Per la verità, ci rifletto ogni
giorno, ma una volta all’anno lascio che essi siano il mio unico sostentamento. C’è del
genio nella loro semplicità. Prima del Thunderhead, i governi avevano le costituzioni e
massicci volumi di leggi. Eppure, queste venivano dibattute, messe in discussione e
manipolate. Gli uomini si facevano la guerra perché avevano diverse interpretazioni
della stessa dottrina.
Quando ero ancora molto ingenua, pensavo che la semplicità dei comandamenti li
rendesse impenetrabili, anche a un esame approfondito. Da qualsiasi prospettiva li si
guardasse, non cambiavano. Dopo molti anni, ho scoperto con un misto di sorpresa e
orrore fino a che punto potevano essere malleabili e flessibili. Tutte cose che le falci
tentano di giustificare. Tutte cose che noi scusiamo.
Quando ho iniziato, erano ancora in vita diverse falci che avevano assistito alla
redazione dei comandamenti. Oggi sono tutte scomparse. Hanno tutte invocato il
settimo comandamento. Avrei tanto voluto chiedere loro come sono stati elaborati, che
cosa ha portato alla definizione di ogni singolo precetto, come sono state scelte le frasi
che li compongono, se ne sono state scartate molte prima che i dieci comandamenti
definitivi venissero incisi nella pietra.
E perché il decimo comandamento?
Di tutti, il decimo è quello che mi dà più da pensare. Perché, si sa, mettersi al di
sopra di ogni altra legge è la formula che porta dritti alla catastrofe.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


6
Un’elegia di falci

Il volo era in orario, come al solito. Anche se non si poteva controllare


del tutto il clima, era facile allontanare le perturbazioni da aeroporti e
rotte aeree. La maggior parte delle linee vantava il 99,9% di voli in
orario.
Il suo era al completo, ma grazie alle poltrone di lusso degli
apparecchi moderni non sembrava affatto affollato. Ormai, volare era
confortevole tanto quanto stare comodamente seduti in poltrona nel
proprio soggiorno, con il vantaggio extra di poter assistere a
spettacoli di intrattenimento dal vivo. Quartetti d’archi e cantanti
solcavano i cieli in una cabina piena di passeggeri contenti. I viaggi in
aereo erano migliorati molto dall’Era della Mortalità. Erano diventati
un modo estremamente piacevole di raggiungere la destinazione
prescelta. Quel giorno, però, i passeggeri del volo 922 di BigSky Air
avrebbero raggiunto una destinazione diversa da quella prevista.
L’uomo d’affari era comodamente seduto al posto 15C, lato
corridoio. Chiedeva sempre quel posto, più per abitudine che per
superstizione. Quando non lo otteneva, brontolava e se la prendeva
con chi lo occupava. L’azienda di cui era a capo sviluppava
tecnologia di ibernazione, che un giorno avrebbe reso possibile far
durare solo una manciata di minuti viaggi lunghissimi. Nel frattempo,
si accontentava di BigSky Air, purché gli assegnassero il posto 15C.
I passeggeri entravano in fila indiana, prendendo posto, uno dopo
l’altro. Li guardava sfilare con la coda dell’occhio, senza prestare loro
troppa attenzione, ma solo per non prendersi una borsata in testa.
«Sta partendo per un viaggio o sta rientrando a casa?» gli chiese
una donna seduta al posto 15A. Non c’era il 15B. Il concetto di posto
B, in cui il passeggero si ritrovava bloccato tra due persone, era stato
eliminato insieme ad altre cose poco piacevoli, come le malattie e il
governo.
«Parto. E lei?»
«Torno a casa» rispose, con un sospiro di sollievo.
Cinque minuti prima del decollo, un po’ di trambusto nella parte
anteriore del velivolo attirò la sua attenzione. Una falce era salita a
bordo e stava parlando con un’assistente di volo. Quando una falce
vuole viaggiare, è libera di scegliere qualsiasi posto. Potrebbe anche
far alzare un passeggero, obbligandolo a sedersi altrove o addirittura
a cambiare volo, se non ci sono più posti disponibili. Ancora più
inquietanti erano i racconti di falci che spigolavano il passeggero di
cui prendevano il posto.
L’uomo d’affari poté solo sperare che quella falce in particolare non
avesse messo gli occhi sul suo posto 15C.
La veste della falce era insolita. Blu reale, punteggiata di pietre
luccicanti simili a diamanti. Piuttosto vistosa per una falce. L’uomo
d’affari non sapeva che pensare. La falce aveva l’aria di aver
superato la trentina, anche se non significava nulla. Nessuno
sembrava dimostrare più i suoi veri anni. Avrebbe potuto avere
qualsiasi età, dai trenta ai duecentotrenta e passa. I capelli erano
scuri e ben pettinati, gli occhi penetranti. L’uomo d’affari ne evitò lo
sguardo quando la falce lanciò un’occhiata nel corridoio.
Altre tre falci apparvero dietro la prima. Erano più giovani, forse
sulla ventina. Anche le loro vesti, di diversi colori vivaci, erano ornate
di gemme. Una donna bruna aveva una veste verde tempestata di
smeraldi. Un uomo indossava una tunica arancione cosparsa di rubini
e un altro una veste gialla decorata con quarzi citrini. Qual era il
nome collettivo per indicare un gruppo? Un’elegia di falci, giusto?
Strano che esistesse una parola per una cosa così rara. Per quanto
ne sapeva, le falci erano solitarie, non viaggiavano mai in comitiva.
Un’assistente di volo salutò l’elegia di falci. Non appena la
superarono, lei si voltò e uscì di corsa dall’aereo, precipitandosi giù
per la scaletta.
“Sta scappando” rifletté l’uomo d’affari, ma abbandonò subito il
pensiero. Non poteva farlo. Probabilmente, stava solo correndo a
informare l’addetto all’imbarco che si erano aggiunti dei passeggeri.
Tutto qui. Non poteva essere entrata nel panico, gli assistenti di volo
erano addestrati a mantenere il sangue freddo in ogni situazione.
L’altra hostess chiuse il portellone; l’espressione sul suo viso non era
affatto rassicurante.
I passeggeri iniziarono a parlottare tra loro, a interrogarsi.
Qualcuno rideva nervosamente.
Il capo delle falci prese infine la parola. «Attenzione, per favore»
disse con un sorriso inquietante. «Sono spiacente di informarvi che
tutti i passeggeri del volo sono stati selezionati per la spigolatura.»
L’uomo d’affari sentì ogni singola sillaba dell’annuncio, ma il suo
cervello non comprese il messaggio. Forse, era uno scherzo, semmai
le falci fossero state dotate di senso dell’umorismo. “Tutti i passeggeri
del volo sono stati selezionati per la spigolatura.” Non poteva essere.
Non poteva essere permesso. O sì?
Dopo qualche istante, i passeggeri cominciarono a prendere
coscienza di ciò che la falce aveva annunciato. Gemiti soffocati,
lamenti, piagnucolii e infine singhiozzi incontrollati. Se avessero
perso un motore in volo, come accadeva nell’Era della Mortalità
quando a volte la tecnologia si guastava, non si sarebbero disperati
tanto.
L’uomo d’affari era una persona perspicace ed era in grado di
prendere decisioni rapide in momenti di crisi. Seppe subito quello che
doveva fare. Forse, anche altri stavano pensando la stessa cosa, ma
lui fu il primo a passare all’azione. Si alzò dal suo posto e si lanciò nel
corridoio verso la coda dell’aereo. Altri lo seguirono, ma lui fu il primo
ad arrivare all’uscita di emergenza. Studiò rapidamente la procedura
di apertura, poi tirò la leva rossa e spalancò il portellone. Il sole del
mattino dilagò all’interno del velivolo.
Un salto sull’asfalto da quell’altezza gli avrebbe di sicuro provocato
qualche frattura o la slogatura di una caviglia, ma i naniti analgesici
presenti nel suo sangue avrebbero all’istante rilasciato gli oppiacei e
attenuato il dolore. Sarebbe riuscito a fuggire, anche se ferito. Ma,
prima che potesse saltare, sentì il capo delle falci che li richiamava
all’ordine: «Vi suggerisco di tornare tutti ai vostri posti, se avete a
cuore le vite dei vostri familiari».
Era la normale procedura. Le falci spigolavano le famiglie di coloro
che facevano resistenza o che fuggivano. Un deterrente formidabile.
Ma l’aereo era pieno; se fosse saltato giù in che modo sarebbero
potuti risalire a lui?
Come se gli avesse letto nella mente, il capo delle falci aggiunse:
«Abbiamo la lista dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio,
conosciamo anche il nome dell’hostess che, contrariamente ai suoi
doveri, è fuggita. Insieme a lei, sarà punita tutta la sua famiglia».
L’uomo d’affari cadde in ginocchio e si prese la testa tra le mani.
Un tizio dietro di lui lo spinse via e saltò giù, nonostante le parole
della falce. Toccò terra e si mise a correre, più preoccupato di ciò che
stava accadendo in quel momento che di ciò che sarebbe avvenuto
l’indomani. Forse non aveva famiglia o forse voleva trascinarla con sé
nell’oblio. Quanto all’uomo d’affari, non poteva sopportare il pensiero
che la moglie e i figli venissero spigolati per causa sua.
“La spigolatura è necessaria” si disse. Tutti lo sanno, tutti sanno
che è una necessità assoluta. Chi era lui per opporsi? Ora gli
sembrava terribile solo perché si trovava nel mirino della morte.
Il capo delle falci alzò un braccio e lo indicò. Le sue unghie gli
parvero un po’ troppo lunghe.
«Lei, quello coraggioso. Venga qui.»
Gli altri passeggeri si fecero da parte per lasciarlo passare, e lui si
scoprì a camminare. Non sentiva nemmeno le gambe muoversi. Era
come se lo stessero tirando con un filo invisibile. La falce emanava
un grande carisma.
«Dovremmo spigolare lui per primo» disse la grossa falce con i
capelli biondi vestita di arancione, che brandiva una specie di
lanciafiamme. «Spigoliamo prima lui, per dare l’esempio.»
Il capo scosse la testa. «Intanto, metti via quella cosa; non
giocheremo con il fuoco su un aereo. E poi, a che serve dare
l’esempio se sono tutti condannati? È inutile.»
La falce abbassò l’arma e gli occhi, umiliata. Le altre rimasero in
silenzio.
«Lei è stato svelto a lasciare la sua poltrona» disse il capo delle
falci all’uomo d’affari. «È evidente che è l’alfa su questo aereo. E, in
quanto tale, la autorizzo a scegliere l’ordine in cui queste brave
persone verranno spigolate. Lei può essere l’ultimo se desidera, ma
prima deve scegliere l’ordine degli altri.»
«Io… io…»
«Su, avanti, non sia indeciso. Ha dato prova di grande
determinazione quando è corso verso il fondo dell’aereo. È arrivato il
momento di mostrare quella formidabile volontà.»
La falce si stava divertendo. Non avrebbe dovuto, andava contro i
valori della Compagnia delle falci. Per un istante, in un angolo della
mente dell’uomo d’affari aleggiò un pensiero: “Dovrei presentare un
reclamo”. Poi si rese conto che gli sarebbe stato molto difficile da
morto.
Passò lo sguardo sulle persone terrorizzate intorno a lui; ora, lo
temevano. Ora, anche lui era il nemico.
«Stiamo aspettando» lo sollecitò la donna in verde, impaziente di
cominciare.
«Come?» chiese l’uomo, cercando di controllare il respiro,
prendendo tempo. «Come ci spigolerete?»
Il capo delle falci mostrò un’intera collezione di armi ben nascoste
nella veste. Coltelli di varie lunghezze. Pistole. Altri oggetti che
l’uomo non riconobbe nemmeno. «Il metodo dipende dal nostro
umore. Senza dispositivi incendiari, naturalmente. Ora, per favore,
cominci a scegliere le persone, così possiamo procedere.»
La donna in verde strinse l’impugnatura di un machete e con l’altra
mano si ravviò i capelli. Si era leccata le labbra? Non sarebbe stata
una spigolatura secondo le regole, piuttosto un bagno di sangue;
l’uomo d’affari non voleva essere complice di quella carneficina. Sì, il
suo destino ormai era deciso. Era condannato. Niente lo obbligava ad
assecondare il gioco perverso della falce.
A un tratto, vincendo la paura, si mise in un punto da cui poteva
guardare la falce dritto negli occhi scuri, che erano della stessa
profonda sfumatura blu della sua veste. «No» disse. «Non sceglierò
nessuno e non vi darò la soddisfazione di vedermi agonizzare.» Poi
si girò verso gli altri passeggeri. «Vi consiglio di porre fine alla vostra
vita prima che queste falci vi mettano le mani addosso. Ne ricavano
un piacere troppo grande. Non sono degne della posizione che
occupano e non meritano di avere l’onore di spigolare nessuno.»
Il capo delle falci lo fulminò con una breve occhiata. Poi si voltò
verso i suoi tre compagni. «Cominciate!» ordinò. Estrassero le armi e
diedero inizio al massacro.
«Io sono la vostra fine» dichiarò con voce chiara e forte il capo
delle falci ai condannati. «Io sono l’ultima parola della vostra vita.
Siate riconoscenti. E con questo, addio.»
Brandì il coltello, ma l’uomo d’affari si gettò con prontezza sulla
lama, in un ultimo gesto di volontà. Si era riappropriato della sua
morte; un modo di opporsi, se non al metodo, almeno alla follia della
falce.
Nei primi anni, mi chiedevo perché fosse così raro incontrare una falce in abiti civili. In
alcune regioni del mondo è obbligatorio indossare sempre la propria veste. Ma non in
MidMerica. Qui, è solo una pratica ammessa, per quanto raramente trasgredita. Poi, a
mano a mano che mi abituavo al lavoro, ho capito perché doveva essere così. Per la
nostra tranquillità di spirito, noi falci dobbiamo mantenere una certa distanza dal resto
dell’umanità. Anche in privato, nell’intimità della mia casa, mi sorprendo a portare solo
la semplice tunica lavanda che normalmente indosso sotto le vesti.
Ad alcuni, un tale comportamento potrebbe sembrare un segno di alterigia.
Suppongo che lo sia per certi aspetti, ma per quanto mi riguarda è più il bisogno di
ricordare a me stessa che sono “diversa”.
Certo, le professioni che richiedono un’uniforme non impediscono di avere una vita
privata. Gli ufficiali di pace e i vigili del fuoco, per esempio, sono solo in parte definiti
dal loro mestiere. Quando sono fuori servizio, indossano jeans e maglietta.
Organizzano barbecue con i vicini e insegnano ai figli a praticare gli sport. Ma essere
una falce è una realtà ogni ora, ogni giorno. È qualcosa che definisce l’essere
nell’intimo, e solo nei sogni ci si può liberare del giogo.
Eppure, anche nei sogni, spesso mi ritrovo a spigolare…

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


7
L’arte di uccidere

«Nell’anno che passerete con me, imparerete a maneggiare


correttamente diverse lame e a usare numerose armi da fuoco,
acquisirete una conoscenza professionale in tossicologia e vi
allenerete a praticare le arti marziali» disse Maestro Faraday a
Rowan e Citra. «Non diventerete degli esperti, ci vogliono molti anni,
ma vi creerete delle solide competenze di base.»
«Competenze che saranno inutili a chi non verrà scelto» fece
notare Citra.
«Nulla di ciò che impariamo è inutile» obiettò Maestro Faraday.
La casa della falce era modesta e disadorna, ma aveva una
particolarità: la sala d’armi. Un tempo era il garage della vecchia
abitazione, ma ora conteneva la vasta collezione di armi della falce. A
una parete erano appese armi bianche, a un’altra armi da fuoco. Una
terza parete assomigliava alla scaffalatura di un farmacista, e la
quarta esibiva oggetti più antichi: archi finemente intagliati, una
faretra di frecce con punta di ossidiana, balestre, addirittura una
pesante mazza ferrata, sebbene fosse difficile per loro immaginare
Maestro Faraday che eliminava qualcuno con quell’arnese. La quarta
parete svolgeva più che altro la funzione di museo, ma il fatto di non
averne la certezza era inquietante.
Il programma giornaliero era rigoroso. Rowan e Citra si
esercitavano con lame e bastoni, allenandosi contro la falce, dotata di
una forza e di un’elasticità sorprendenti per un uomo della sua età
apparente. Impararono a sparare in un poligono speciale riservato
alle falci e agli apprendisti, dove l’uso delle armi illegali non solo era
permesso, ma anche incoraggiato. Impararono le nozioni di base del
Bokator della Vedova Nera, una versione mortale dell’antica arte
marziale cambogiana, riadattata in particolare per la Compagnia delle
falci. Quelle attività li lasciavano esausti, ma li rendevano più forti che
mai.
L’allenamento fisico, però, era solo una parte dell’apprendistato. Si
sedevano al centro della sala d’armi, intorno a un vecchio tavolo di
rovere, un chiaro cimelio dell’Era della Mortalità. Era lì che Maestro
Faraday passava parecchie ore al giorno a insegnare loro le tecniche
di una falce, come affinare l’acutezza mentale, oltre alla storia e alla
tossicologia. Li preparava anche a redigere quotidianamente il loro
diario. Non avrebbero mai pensato che ci fosse così tanto da
imparare sulla morte.
«Storia, chimica, scrittura: è come andare a scuola» si lamentava
Rowan con Citra, perché non aveva il coraggio di farlo apertamente
con Maestro Faraday.
E poi c’era la spigolatura.
«Abbiamo una quota da rispettare. Ogni falce deve spigolare
duecentosessanta persone all’anno» spiegò Maestro Faraday. «Una
media di cinque alla settimana.»
«Quindi, avete il weekend libero» scherzò Rowan, per stemperare
il discorso.
Faraday non parve divertito. Per lui, la spigolatura non era affatto
un argomento di cui ridere. «Nei giorni in cui non spigolo, partecipo ai
funerali e faccio ricerche per le future spigolature. Le falci… o forse
dovrei dire le buone falci… non si prendono spesso giorni di
vacanza.»
L’idea che non tutte le falci fossero buone non era mai stata
contemplata né da Rowan né da Citra. Si dava per scontato che le
falci seguissero i più elevati principi morali ed etici. Che tenessero
una condotta esemplare, che fossero giuste nelle loro scelte. Anche
quelle che cercavano di farsi un nome. L’idea che alcune falci
potessero non essere tanto rispettabili quanto Maestro Faraday non
piaceva molto ai suoi due apprendisti.

Per Citra, ogni spigolatura era un trauma. Anche se, fin dal primo
giorno, Maestro Faraday non aveva chiesto ai due ragazzi di
prendere il suo posto, esserne complici non era meno difficile. Ogni
morte prematura rinnovava in lei un sentimento di terrore. Era come
un incubo ricorrente che non perdeva mai di forza. Aveva sperato che
con il tempo sarebbe diventata insensibile, che alla fine si sarebbe
abituata al mestiere. Ma non fu così.
«Tanto meglio. Vuol dire che ho scelto bene» le disse Maestro
Faraday. «Se non ti addormentassi piangendo ogni sera,
significherebbe che non sei abbastanza compassionevole.»
Citra dubitava che Rowan piangesse prima di addormentarsi. Era il
tipo di ragazzo che si teneva tutto dentro. Non riusciva a decifrarne i
sentimenti. Era opaco e questo la disturbava. O forse era così
trasparente che in realtà non c’era nulla da vedere. Non riusciva a
capirlo.
Si accorsero ben presto che Maestro Faraday era una falce molto
creativa. Non si ripeteva mai.
«Ma non ci sono falci che si attengono a un rituale, che eseguono
pedissequamente ogni singola spigolatura nello stesso identico
modo?» chiese Citra.
«Certo, ma ognuno di noi deve trovare il proprio stile. Il proprio
codice di condotta. Io preferisco vedere ogni persona che devo
spigolare come un individuo che si merita una fine esclusiva.»
Riepilogò i sette metodi di base dell’arte di uccidere. «I più comuni
sono le tre F: ferita da taglio, arma da fuoco e forza bruta. Gli altri tre
sono l’asfissia, l’avvelenamento e l’induzione catastrofica, come la
scossa elettrica o il fuoco, anche se per me il fuoco è un modo
orrendo di spigolare, non lo userei mai. L’ultimo metodo è il
combattimento a mani nude ed è per questo che vi insegniamo il
Bokator.»
Spiegò che una falce doveva conoscere tutti i metodi. Citra
comprese il sottinteso: avrebbero dovuto prendere parte a diversi tipi
di spigolatura. Le avrebbe fatto premere il grilletto? Affondare il
coltello? Assestare una bastonata? Voleva credere di non esserne
capace. Voleva disperatamente convincersi che quella professione
non fosse per lei. Era la prima volta che sperava di non riuscire in
qualcosa.

I sentimenti di Rowan al riguardo erano contrastanti. Ammirava la


rigorosa morale e l’irreprensibile etica di Maestro Faraday, ma solo in
sua presenza. Quando si ritrovava solo con i propri pensieri, non era
più sicuro di nulla. Lo sguardo terrorizzato della donna che apriva
docilmente la bocca per prendere la pillola di veleno gli era rimasto
impresso nella mente. L’espressione nel momento in cui l’aveva rotta
tra i denti. “Sono il complice del crimine più vecchio del mondo”
diceva a se stesso nei momenti in cui si sentiva abbattuto. “E potrà
solo peggiorare.”
A differenza delle falci, i cui diari erano di dominio pubblico, gli
apprendisti godevano ancora del lusso della privacy. Maestro
Faraday diede a ciascuno di loro un registro in pergamena dai bordi
irregolari, rilegato in pelle. A Rowan sembrava una reliquia del
passato. Non si sarebbe sorpreso se avesse ricevuto anche una
piuma per scrivere. Per fortuna, a lui e Citra fu permesso di usare
delle penne normali.
«Il diario di una falce è fatto tradizionalmente di pergamena di
agnello con rilegatura in pelle di piccoli…»
«In pelle di piccoli di capra, voglio sperare!» intervenne Rowan.
Quel suo commento lo fece ridere. Rowan ebbe l’impressione che
Citra si fosse irritata, come se aver divertito Maestro Faraday gli
avesse dato un punto di vantaggio su di lei. Rowan sapeva che lei
detestava spigolare, ma la competizione era nella sua natura; era più
forte di lei. Sapeva che, nonostante lei odiasse l’idea di diventare una
falce, si sarebbe battuta con le unghie e con i denti pur di spuntarla
su di lui. Ce l’aveva nel sangue.
Rowan era più bravo a scegliersi le battaglie. Sapeva battersi, se
necessario, ma raramente si lasciava prendere dalla mania di
grandezza, dall’impulso di voler dimostrare di essere il migliore. Si
chiese se quell’autocontrollo avrebbe potuto dargli un vantaggio su
Citra. Si chiese se volesse davvero primeggiare su di lei.
Non aveva mai voluto essere una falce in vita sua. In realtà, non
aveva ancora riflettuto su cosa volesse fare da grande. Ma ora che
era un apprendista, cominciava a pensare di avere la tempra per
farlo. Tutto sommato, se Maestro Faraday lo aveva giudicato capace,
forse lo era.
Quanto al diario, Rowan ne aveva orrore. Cresciuto in una grande
famiglia in cui nessuno in particolare era interessato a conoscere la
sua opinione, aveva preso l’abitudine a tenersi i propri pensieri per
sé.
«Non vedo quale sia il problema» commentò Citra mentre erano
impegnati a redigere il diario, una sera dopo cena. «Nessuno a parte
te lo leggerà mai.»
«Allora, perché tenerne uno?» ribatté Rowan.
Citra sospirò. «È per prepararti a scrivere il diario ufficiale quando
sarai falce» disse, come se stesse parlando a un bambino. «Chi di
noi due riceverà l’anello dovrà obbligatoriamente tenerne uno, fino
alla fine dei suoi giorni.»
«Un diario che nessuno leggerà mai» aggiunse Rowan.
«Ma potrebbero leggerlo. Gli archivi delle falci sono pubblici.»
«Va bene. Come il Thunderhead. Tutti possono leggere tutto, ma
nessuno lo fa. Lo usano solo per giocare o guardare gli ologrammi
dei gatti.»
Citra alzò le spalle. «Ragione in più per non preoccuparsene
troppo. Se è nascosta tra un triliardo di pagine, puoi anche scriverci
la lista della spesa e cosa mangi a colazione. A chi vuoi che
importi?»
A Rowan importava. Dovendo mettere tutto nero su bianco,
dovendo svolgere il compito di falce, l’avrebbe fatto bene o non
l’avrebbe fatto per nulla. E al momento, fissando con dolore la pagina
bianca, propendeva per la seconda ipotesi.
Osservò Citra che scriveva, completamente assorta nel suo diario.
Dal punto in cui era seduto, non riusciva a decifrare le parole, ma
poté notare che aveva una bella grafia. Immaginò che avesse preso
lezioni a scuola. La calligrafia era uno di quei corsi che si
frequentavano solo per mettersi in mostra. Come il latino. Se fosse
diventato falce, avrebbe dovuto imparare a scrivere in corsivo, ma
per il momento si accontentava di scrivere in stampatello, in modo
poco elegante e poco accurato.
Se avessero frequentato la stessa scuola, si chiese, sarebbero
stati amici? Probabilmente non si sarebbero nemmeno conosciuti. Lei
era il tipo di ragazza che partecipava attivamente, mentre lui era il
tipo di ragazzo che se ne stava per conto suo. Avevano le stesse
probabilità di incontrarsi delle orbite di Giove e Marte nel cielo
notturno. E comunque, ora, si erano incontrati. Non erano proprio
amici, non avevano avuto la possibilità di diventarlo prima di trovarsi
insieme in quell’avventura di apprendistato. Erano colleghi, rivali. E
Rowan faceva sempre più fatica a capire i sentimenti che provava per
lei. Tutto quello che sapeva era che gli piaceva guardarla scrivere.

Maestro Faraday fu rigoroso riguardo alla politica familiare. «Vi


sconsiglio vivamente di entrare in contatto con la vostra famiglia
durante l’apprendistato.» Per Citra era difficile. Le mancavano i
genitori ma, più di tutti, le mancava il fratellino Ben, cosa che la
sorprese, perché a casa le dava parecchio sui nervi.
Rowan, dal canto suo, viveva piuttosto bene la separazione.
«Preferiscono l’immunità che avermi tra i piedi» disse a Citra.
«Oh, poverino» rispose lei. «Dovrei forse dispiacermi per te?»
«Niente affatto. Dovresti invidiarmi, invece. Sarà più facile per me
non rivederli più.»
Maestro Faraday fece comunque un’eccezione alla regola. Circa
un mese dopo, consentì a Citra di assistere al matrimonio di sua zia.
Si erano messi in ghingheri, ma Maestro Faraday proibì a Citra di
indossare un vestito elegante. «Non devi sentirti parte di quel
mondo.» E funzionò. Il fatto di portare un abito normale in mezzo a
quella ricercatezza la fece sentire un’estranea, e la fascia da
apprendista peggiorò la sensazione. Forse, era per quello che
Faraday le aveva permesso di assistere alla cerimonia: per farle
prendere coscienza del divario che si era creato tra ciò che era stata
e ciò che era adesso.
«Allora, com’è?» le chiese la cugina Amanda. «La spigolatura e
tutto il resto. Insomma, è disgustoso, no?»
«Non ci è consentito parlarne» mentì Citra. Non aveva alcuna
voglia di discuterne come se fosse un pettegolezzo.
Avrebbe dovuto favorire quella conversazione, invece di chiuderla
lì, visto che Amanda fu una delle poche persone a rivolgerle la
parola. La guardavano di sottecchi e le parlavano alle spalle,
credendo che non se ne accorgesse. La maggior parte degli invitati la
evitava come la peste, una malattia incurabile dell’Era della Mortalità.
Forse, se avesse avuto già l’anello avrebbero cercato di entrare nelle
sue grazie sperando di ricevere l’immunità. A quanto pareva, come
apprendista non ispirava nient’altro che timore.
Suo fratello era freddo e anche chiacchierare con sua madre la
metteva a disagio. Le faceva domande del tipo: “Mangi? Dormi
abbastanza?”.
«Mi sembra di capire che c’è un ragazzo che vive con te» disse il
padre.
«Ha la sua camera e non è minimamente interessato a me» replicò
lei, cosa che trovò molto imbarazzante da ammettere.
Citra assistette alla cerimonia ma si congedò prima del
ricevimento. La situazione era insopportabile. Prese una publicar e
andò a casa di Maestro Faraday.
«Sei rientrata presto» commentò la falce al suo ritorno. E, sebbene
fingesse di essere sorpreso, aveva apparecchiato anche per lei.
Le falci dovrebbero avere una profonda conoscenza della morte; eppure, ci sono cose
che vanno al di là della nostra stessa comprensione.
La donna che ho spigolato oggi mi ha posto la domanda più strana.
«Dove andrò adesso?»
«Be’, i suoi ricordi e la storia della sua vita sono già memorizzati nel Thunderhead,
non andranno perduti» le ho spiegato con calma. «Il corpo tornerà alla terra, secondo
quanto stabilito dai suoi parenti più prossimi.»
«Sì, questo lo so. Ma che ne sarà di me?»
La domanda mi ha lasciato perplessa. «Come le ho già detto, la struttura dei suoi
ricordi continuerà a esistere nel Thunderhead. I suoi parenti potranno parlare con
essa, che risponderà loro.»
«Sì, va bene» ha replicato, cominciando a spazientirsi. «Ma che ne sarà di me?»
A quel punto, l’ho spigolata. Solo dopo che se n’è andata, ho risposto: «Non lo so».

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


8
Una questione di scelta

«Oggi spigolerò da solo» disse Maestro Faraday. Era febbraio, il


secondo mese del loro apprendistato. «Mentre sono via, vi affido un
compito ciascuno.» Portò Citra nella sala d’armi. «Tu luciderai tutte le
mie lame.»
Citra era stata lì quasi ogni giorno per seguire le lezioni, ma
restarvi da sola, lei e quegli strumenti di morte, era tutta un’altra cosa.
La falce si avvicinò alla parete delle armi bianche, che raccoglieva
spade e coltelli a serramanico. «Alcune sono impolverate, altre
invece sono ossidate. Decidi tu il tipo di manutenzione di cui hanno
bisogno.»
Citra vide gli occhi di Maestro Faraday spostarsi da una lama
all’altra, soffermandosi su alcune che, forse, gli ricordavano qualcosa.
«Le ha adoperate tutte?» chiese.
«Solo la metà, e solo una volta ciascuna.» Allungò un braccio per
prendere uno stocco dalla quarta parete, su cui si trovavano le armi
più antiche. Era simile a quello che avrebbe potuto usare uno dei tre
moschettieri. «Quando ero giovane, mi piaceva essere teatrale. Un
giorno, sono andato a spigolare un uomo che si vantava di essere
uno schermidore. Così, l’ho sfidato a duello.»
«E ha vinto?»
«No, ho perso. Per due volte. La prima, mi ha trapassato il collo, la
seconda, mi ha tranciato l’arteria femorale. Era molto bravo.
Entrambe le volte, sono finito in un centro di rianimazione. Quando mi
risvegliavo, tornavo a sfidarlo. Vincendo, guadagnava tempo, ma era
stato scelto e prima o poi l’avrei spigolato, io non mollavo. Alcune
falci cambiano idea, ma questo comporta scendere a dei
compromessi e favorisce chi è più abile nell’arte della persuasione. Io
resto fedele alla decisione che prendo.
«Al quarto incontro, gli ho trafitto il cuore con la punta della mia
lama. Prima di esalare l’ultimo respiro, mi ha ringraziato per avergli
permesso di morire combattendo. Quella è stata l’unica volta in tanti
anni in cui mi hanno mai ringraziato per quello che faccio.» Sospirò e
riappese lo stocco nello stesso punto, che Citra ritenne fosse un
posto d’onore.
«Se ha tutte queste armi, perché ha preso il nostro coltello quando
è venuto a spigolare la mia vicina?» chiese Citra, non sapendo
trattenersi.
La falce sorrise. «Per vedere la tua reazione.»
«L’ho buttato nella spazzatura.»
«Ne ho avuto il sospetto. Queste lame, invece, le luciderai.» Detto
ciò, se ne andò.
Rimasta sola, Citra si mise a esaminare le armi, una dopo l’altra.
Non aveva una natura particolarmente morbosa, ma si sorprese a
voler sapere di più sulla circostanza in cui erano state adoperate. Le
parve che un’arma nobile meritasse che la sua storia venisse
tramandata. E se non a lei e Rowan, allora a chi?
Prese una scimitarra dalla parete. Un bestione pesante che
avrebbe potuto staccare una testa dal collo con un colpo solo.
Maestro Faraday l’aveva già usata per una decapitazione? Era, in un
certo senso, il suo stile: rapido, indolore, efficace. Mentre menava
maldestramente fendenti in aria, si domandò se avrebbe avuto la
forza di decapitare qualcuno.
“Mio Dio, che cosa sto diventando?”
Appoggiò l’arma sul tavolo, afferrò lo straccio e la strofinò fino a
lucidarla per bene, poi passò a quella dopo, poi a quella dopo ancora,
evitando di guardare il suo riflesso in ognuna delle lame lucenti.

Il compito che Maestro Faraday aveva affidato a Rowan non era così
viscerale, ma ben più inquietante.
«Oggi, tu preparerai la mia spigolatura di domani» gli disse,
consegnandogli una lista dei parametri che il soggetto avrebbe
dovuto avere. «Il Thunderhead ti fornirà tutte le informazioni che ti
servono, se sei abbastanza sveglio da trovarle.» Poi uscì per la
spigolatura della giornata.
Rowan fu quasi sul punto di commettere l’errore di inserire la lista
di parametri nel Thunderhead per farsi indicare il soggetto idoneo.
All’ultimo momento, si ricordò che chiedere l’assistenza del
Thunderhead era rigorosamente proibito alle falci. Avevano totale
accesso all’enorme quantità di informazioni della grande nuvola, ma
non potevano attingere alla “coscienza” algoritmica. Maestro Faraday
gli aveva raccontato di una falce che aveva cercato di farlo. Lo stesso
Thunderhead aveva notificato la violazione alla Suprema Roncola e
la falce era stata “pesantemente sanzionata”.
«Come si sanzionano le falci?» gli aveva chiesto Rowan.
«Quella in questione è stata condannata a morte dodici volte da
una giuria di falci, e poi rianimata ogni volta. Dopo la dodicesima
condanna, è stata messa in libertà condizionata per un anno.»
Rowan immaginò che una giuria di falci potesse dare prova di una
grande creatività, in quanto a metodi di punizione. Morire dodici volte
per mano delle falci doveva essere di sicuro molto peggio che
lanciarsi da una finestra.
Iniziò a inserire i parametri di ricerca. Gli era stato detto di
includere non solo la loro città, ma tutta la MidMerica, che si
estendeva per quasi mille chilometri al centro del continente. Poi
restrinse la ricerca alle città con meno di diecimila abitanti, bagnate
da un fiume. Quindi alle abitazioni che si trovavano entro una trentina
di metri dal fiume. Infine alle persone di vent’anni o più che vi
vivevano.
Il risultato che ottenne comprendeva più di quarantamila persone.
Quella ricerca gli aveva impegnato appena cinque minuti. Non
sarebbe stato così facile individuare i criteri successivi.
Il soggetto deve essere un ottimo nuotatore.
Ottenne la lista di tutti i licei e di tutte le università presenti nelle
città fluviali e incrociò i dati con chi aveva fatto parte di una squadra
di nuoto negli ultimi vent’anni o che si era iscritto a una gara di
triathlon. Circa ottocento persone.
Il soggetto deve essere amante dei cani.
Con il codice di accesso di Maestro Faraday, trovò l’elenco degli
abbonamenti a ogni pubblicazione e blog che trattavano di cani.
Entrò nelle banche dati dei negozi per animali per avere la lista di chi
aveva acquistato regolarmente cibo per cani nel corso degli ultimi
anni. In quel modo, ridusse il numero a centododici nominativi.
Il soggetto deve avere un passato di eroismo non professionale.
Inserì sistematicamente i termini “eroe”, “audacia”, “salvataggio”
per tutti i centododici nominativi. Pensò che sarebbe stato fortunato
se ne avesse trovato almeno uno, ma con sua grande sorpresa
apparvero quattro nomi.
Li selezionò uno alla volta e visualizzò quattro foto. Se ne pentì
subito, perché nel momento in cui a ciascuno di quei nomi veniva
associato un volto, non erano più parametri, ma diventavano
persone.
Un uomo con un viso tondo e un sorriso smagliante.
Una donna che avrebbe potuto essere una madre.
Un ragazzo tutto spettinato.
Un uomo che non si radeva da almeno tre giorni.
Quattro persone. E Rowan stava per decidere chi sarebbe morto
l’indomani.
Si sorprese a propendere per l’uomo mal rasato, ma si rese subito
conto che era una forma di discriminazione. Una persona non doveva
essere discriminata solo perché non si era rasata per una foto. E
stava escludendo la donna solo perché era una donna?
Okay, allora il tizio che sorrideva. Ma non avrebbe per caso
esagerato in senso contrario se avesse scelto quello dall’aspetto più
gradevole dei quattro?
Decise di saperne di più sul loro conto utilizzando il codice di
accesso di Faraday per scovare più informazioni personali di quante
non gli fosse permesso; era in gioco una vita umana, non doveva
forse usare ogni mezzo disponibile per giungere a una scelta equa?
Il primo era entrato in un edificio in fiamme per salvare un vicino.
Ma la seconda aveva tre bambini piccoli. Il terzo faceva volontariato
in un canile. E il fratello del quarto era stato spigolato solo due anni
prima…
Pensava che scoprendo un po’ di più sul loro conto il compito
sarebbe stato facile, ma più li conosceva e più diventava arduo.
Continuò a scavare nelle loro vite, sempre più disperato, finché non si
aprì la porta e vide entrare Maestro Faraday. Fuori, era buio. Era
scesa la notte?
La falce aveva l’aria stanca, le vesti erano macchiate di schizzi di
sangue.
«La spigolatura di oggi è stata… più difficile del previsto.»
Citra uscì dalla sala d’armi. «Le lame ora sono tutte lucide e
splendenti!» annunciò.
Faraday le rivolse un cenno di approvazione. Poi si girò verso
Rowan, ancora seduto al computer. «E a chi tocca domani?»
«Io… ehm… sono arrivato a una rosa di quattro.»
«E…?» chiese la falce.
«Tutti rispondono al profilo.»
«E…?» ripeté la falce.
«Be’, uno si è appena sposato, un altro ha appena comprato
casa…»
«Scegline uno.»
«… e questo ha ricevuto un premio umanitario l’anno scorso…»
«SCEGLINE UNO!» gridò la falce, con una ferocia che Rowan non
aveva mai sentito in lui. I muri tremarono. Il ragazzo pensò di poter
essere esentato, come quando Faraday gli aveva chiesto di mettere
la pillola di cianuro in bocca alla donna. Ma no, la prova di quel giorno
era molto diversa. Guardò Citra, che era rimasta sulla soglia della
sala d’armi, paralizzata come chi assiste per caso a un incidente. Era
davvero solo davanti a quella scelta atroce.
Guardò quindi lo schermo, fece una smorfia e indicò l’uomo con i
capelli arruffati. «Lui. Spigoli lui.» Chiuse gli occhi. Aveva appena
condannato a morte un uomo solo perché un giorno si era fatto
fotografare senza pettinarsi.
Poi sentì la mano ferma di Faraday sulla spalla. Pensò che lo
avrebbe sgridato, invece lo sentì dire: «Ottimo lavoro».
Riaprì gli occhi. «Grazie, signore.»
«Se non fosse stata la cosa più difficile da fare, mi sarei
preoccupato.»
«Diventerà più semplice con il tempo?» chiese Rowan.
«Spero proprio di no» replicò la falce.

Il pomeriggio seguente, Bradford Ziller tornò a casa dal lavoro e trovò


una falce seduta in soggiorno. La falce si alzò quando Bradford entrò.
D’istinto, pensò di voltarsi e correre via ma, prima che potesse farlo,
un adolescente con una fascia verde al braccio chiuse la porta alle
sue spalle.
Mentre in lui cresceva la paura, aspettò che la falce parlasse.
Invece, l’uomo fece un cenno al ragazzo, che si schiarì la voce e
disse: «Signor Ziller, lei è stato scelto per la spigolatura».
«Digli tutto, Rowan» suggerì la falce, pazientemente.
«Be’… insomma, sono io che l’ho scelta per la spigolatura.»
Bradford spostò lo sguardo da uno all’altro e parve all’improvviso
sollevato. Era evidente che si trattava di una specie di scherzo.
«Bene, chi diavolo sei tu? Chi ti ha detto di giocarmi questo tiro?»
A quel punto, la falce alzò una mano per mostrargli l’anello. E
Bradford ebbe un tuffo al cuore per la seconda volta, come su una
discesa sull’ottovolante. Non era uno scherzo di cattivo gusto, era la
verità. «Il ragazzo è un mio apprendista» spiegò la falce.
«Mi dispiace» disse Rowan. «Non c’è niente di personale, è solo
che lei corrisponde a un certo profilo. Nell’Era della Mortalità, molte
persone morivano cercando di salvarne altre. Molte saltavano nei
fiumi in piena per salvare i loro animali domestici. Per la maggior
parte, erano buoni nuotatori, ma questo poco conta quando il fiume è
in piena.»
“I cani!” pensò Bradford. “È vero, i cani!” «Non potete farmi del
male!» esclamò. «Provateci, e i miei cani vi sbraneranno.» Ma
dov’erano?
Una ragazza uscì dalla sua camera da letto. Al braccio indossava
la stessa fascia del ragazzo. «Li ho sedati tutti e tre. Staranno bene,
ma non disturberanno nessuno.» Aveva del sangue sul braccio. Non
dei cani, ma il proprio. L’avevano morsa. Ben le stava.
«Non è niente di personale» ripeté il ragazzo. «Mi dispiace.»
«Scusarsi una volta è sufficiente» disse la falce. «Soprattutto,
quando le scuse sono sentite.»
Bradford scoppiò in una risata fragorosa, nonostante sapesse che
era tutto vero. Lo trovava divertente, in un certo qual modo. Le
ginocchia gli cedettero, e si sedette sul divano. La sua risata si
spense in un lamento. Non era giusto. Non era affatto giusto.
Il ragazzo si inginocchiò accanto a lui. Quando Bradford alzò la
testa, fu catturato dal suo sguardo. Era come se stesse fissando negli
occhi un’anima molto più antica. «Mi ascolti, signor Ziller. So che lei
ha salvato sua sorella da un incendio quando aveva la mia età. So
quanto ha lottato per salvare il suo matrimonio. E so che lei pensa
che sua figlia non le voglia bene, ma le vuole bene, invece.»
Bradford lo fissò, incredulo. «Come sai tutte queste cose?»
Il ragazzo si morse le labbra. «Sapere fa parte del nostro mestiere.
La sua spigolatura non cambia nulla. Lei ha vissuto una buona vita.
Maestro Faraday è qui per porvi fine degnamente.»
Bradford li implorò di permettergli di fare una telefonata, supplicò
che gli concedessero ancora un giorno di vita, ma naturalmente non
era possibile esaudire quelle richieste. Gli dissero che poteva lasciare
un biglietto, ma non gli venne in mente nulla da scrivere.
«So come ci si sente» gli disse il ragazzo.
«In che modo lo farete?» chiese infine.
«Per lei ho scelto un annegamento tradizionale» rispose la falce.
«La porteremo al fiume. La terrò sotto finché la vita non la
abbandonerà.»
Bradford strinse forte gli occhi. «Ho sentito dire che l’annegamento
non è una bella morte.»
«Posso dargli un po’ della roba che ho dato ai cani» disse la
ragazza. «Si addormenterà e se ne andrà tranquillamente.»
La falce ci pensò un po’ e infine annuì. «Se preferisce, possiamo
risparmiarle la sofferenza.» Ma Bradford scosse la testa. Voleva
vivere ogni secondo che gli restava. «No, voglio restare sveglio.» Se
l’annegamento doveva essere la sua ultima esperienza sulla Terra,
era pronto ad affrontarla. Sentì il cuore battere sempre più forte, il
corpo percorso da tremori. Aveva paura, ma questo significava che
era ancora vivo.
«Venga, allora» gli disse con cortesia la falce. «Andremo tutti
insieme al fiume.»

Citra fu sorpresa dal sangue freddo che aveva dimostrato Rowan.


Soltanto il giorno prima tremava come una foglia. Sebbene avesse
esordito male, si era ripreso subito, non appena aveva parlato
all’uomo. Era riuscito a fargli superare la paura e a tranquillizzarlo.
Citra sperò solo di essere in grado di mantenere la stessa
padronanza di sé di cui aveva dato prova Rowan, quando sarebbe
toccato a lei. Quel giorno, in fondo, aveva solo addormentato dei
cani. Certo, l’avevano morsa, ma era stata una cosa da niente. Aveva
cercato di convincere Faraday a portare i cani in un canile, ma lui non
aveva voluto sentire ragioni. Le aveva però permesso di chiamare il
canile perché andassero a prenderseli. E il medico legale perché
recuperasse il corpo dell’uomo. Si era poi offerto di accompagnarla a
farsi medicare il morso al braccio, ma lei aveva rifiutato. I suoi naniti
si sarebbero occupati della cicatrizzazione e già il mattino dopo non
ci sarebbe stata più alcuna traccia della ferita. E poi, il dolore le era
necessario. Era un piccolo tributo che doveva all’uomo che era stato
spigolato.
«Mi hai impressionato» disse a Rowan, tornando a casa.
«Già, finché non ho vomitato nel fiume.»
«Ma quello è accaduto dopo la spigolatura» gli fece notare Citra.
«Hai dato a quell’uomo la forza di affrontare la morte.»
Rowan alzò le spalle. «Forse.»
Citra trovò la sua modestia esagerata. Esasperante, ma anche
commovente.
Il Venerando Maestro Socrate, una delle prime falci, compose numerose poesie, ma
questa è la mia preferita.

Con imprudenza la lama non maneggiare,


dal gregge estirpa audaci e sfrontati,
perché un cane, che ama mordere e abbaiare,
è un corvo necrofago, un vile dei tempi passati.

Mi ricorda che, nonostante i nostri alti ideali e le numerose precauzioni per proteggere
la Compagnia delle falci da corruzione e depravazione, dobbiamo sempre essere vigili,
perché il potere viene infettato dall’unica malattia che ci resta ancora: un virus che si
chiama natura umana. Temo per la sopravvivenza della nostra specie se un giorno le
falci cominciassero ad amare quello che fanno.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


9
Esme

Esme mangiava troppa pizza. La madre l’aveva avvertita che la pizza


avrebbe finito per ucciderla. Non aveva certo immaginato che
potesse essere vero.
Le falci passarono all’attacco meno di un minuto dopo che le fu
servito il suo spicchio di pizza, ancora fumante di forno. Era dopo una
giornata di scuola. Le interrogazioni di quinta elementare l’avevano
sfinita. Aveva mangiato male a pranzo. L’insalata di tonno che la
madre le aveva preparato al mattino si era riscaldata e aveva
fermentato. Non era per nulla appetitosa. In generale, tutti i pasti che
le cucinava la madre non erano affatto saporiti. Cercava di farla
mangiare in modo più sano, tenuto conto che Esme era un po’ in
sovrappeso. E, anche se era possibile programmare i naniti per
accelerarle il metabolismo, la madre non voleva sentirne parlare.
Sosteneva che quella soluzione avrebbe solo curato il sintomo, non
la causa del problema.
«Non puoi risolvere tutto riprogrammando i naniti» le diceva la
madre. «Devi imparare a controllare le tue pulsioni.»
Be’, poteva rimandare all’indomani. Oggi voleva la pizza.
La sua pizzeria preferita, Da Luigi, si trovava al piano dei ristoranti
del centro commerciale di Fulcrum City, sul percorso tra scuola e
casa. Più o meno. Stava cercando di capire come addentare lo
spicchio senza ustionarsi il palato, quando arrivarono le falci. Dava
loro le spalle, e non le vide subito, ma le sentì, o almeno sentì una di
loro.
«Buon pomeriggio, brava gente! La vostra vita sta per cambiare in
modo drastico.»
Esme si voltò. Erano in quattro. Indossavano vesti vivaci che
scintillavano. Il loro aspetto era una novità per lei, era la prima volta
che incontrava delle falci. Ne era affascinata. Finché tre di loro non
estrassero le armi che scintillavano ancora di più delle loro vesti
adorne, e la quarta sguainò un lanciafiamme.
«Questa area del centro commerciale è stata selezionata per la
spigolatura» annunciò il capo. E diedero inizio alla loro terribile
missione.
Esme seguì il suo istinto. Dimenticandosi della pizza, si abbassò
sotto il tavolo e strisciò via. Ma non fu la sola ad avere quell’idea. Si
erano sdraiati tutti a terra e cercavano di scappare muovendosi
carponi sul pavimento. Le falci, impassibili, non parvero affatto
turbate. Esme vedeva i loro piedi in mezzo alla folla strisciante. Il fatto
che le loro vittime si fossero nascoste non le rallentò minimamente.
Esme fu presa dal panico. Aveva sentito storie di falci che avevano
compiuto spigolature di massa, ma fino a quel momento aveva
creduto che non fossero altro che frottole.
Davanti a sé, intravide la veste della falce in giallo e fece
dietrofront. Ma la falce in verde si stava avvicinando dall’altro lato.
Esme strisciò tra i tavoli e due palme in vaso a cui la falce in
arancione aveva appiccato il fuoco e, quando emerse dalla parte
opposta, si trovò allo scoperto. Era arrivata ai banconi dove si
servivano le pietanze. L’uomo che le aveva dato la pizza era riverso
sul bancone, morto. C’era uno spazio tra il secchio dei rifiuti e la
parete. Dato che non era per nulla magra, cercò di assottigliarsi con il
pensiero e si infilò nello spazio. Non era proprio un nascondiglio,
sarebbe stata nella linea di fuoco e ne uscì. Due persone che
cercavano di sfrecciare per il corridoio furono abbattute da frecce
sparate da balestre. Esme non osò muoversi. Affondò il viso tra le
mani, e si ricordò che in passato aveva giocato a nascondino in quel
modo, come se coprendosi gli occhi potesse diventare invisibile a
tutti. Rimase così, singhiozzando sommessamente, ascoltando i
terribili suoni intorno a sé, finché non scese il silenzio. D’un tratto
sentì la voce di un uomo. «Ehi, ciao.»
Esme si tolse le mani dalla faccia e vide il capo delle falci, quello in
blu, che la sovrastava.
«Per favore…» lo implorò. «Per favore, non mi spigoli.»
L’uomo le tese la mano. «La spigolatura è finita. Non è rimasto
nessuno, a parte te. Ora, prendi la mia mano.»
Timorosa di rifiutare, lei gli diede la mano e si alzò dal suo
nascondiglio.
«Ti stavo cercando, Esme.»
Quando lo sentì pronunciare il suo nome, rimase senza fiato.
Perché una falce la stava cercando?
Le altre tre falci si fecero intorno. Nessuna di loro alzò un’arma
contro di lei.
«Ora, tu verrai con noi» disse la falce in blu.
«Ma… ma mia madre.»
«Tua madre lo sa. Le ho concesso l’immunità.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
La falce in verde le porse un piatto. «Credo sia la tua pizza.»
Esme lo prese. Nel frattempo, la pizza si era raffreddata
abbastanza per poterla mangiare. «Grazie.»
«Vieni con noi» disse la falce in blu. «Ti prometto che da questo
momento in poi la tua vita sarà come l’hai sempre sognata.»
E così, Esme seguì le quattro falci, riconoscente di essere ancora
viva, e cercando di non pensare ai tanti che intorno a lei non lo erano
più. Non era certo quello il modo in cui aveva immaginato che
sarebbe andata la sua giornata, ma chi era lei per opporsi a ciò che
pareva chiaramente opera del destino?
C’era mai stato un tempo in cui la gente non era assillata dalla noia? Un tempo in cui
non fosse tanto difficile trovare la motivazione? Quando guardo negli archivi delle
notizie dell’Era della Mortalità, ho la sensazione che la gente avesse più stimoli a fare
quello che faceva. La vita era inventarsi il tempo, non limitarsi a lasciarlo passare.
E quei notiziari, quanto erano emozionanti. Pieni di racconti criminali di ogni tipo. Il
vicino poteva essere uno spacciatore di sostanze illegali. La gente comune uccideva
senza il permesso della società. Individui collerici si impossessavano di veicoli altrui, il
che dava luogo a pericolosi inseguimenti sulle autostrade con i poliziotti.
Oggi abbiamo i tipi loschi, ma non fanno un granché se non gettare di tanto in tanto
rifiuti per strada e cambiare di posto agli articoli sugli scaffali dei supermercati.
Nessuno insorge più contro il sistema. Al massimo, si limitano ad aggrottare le
sopracciglia.
Forse è per questo che il Thunderhead permette ancora una certa quantità di
disuguaglianza economica. Potrebbe certamente garantire a tutti pari ricchezza, ma
questo non farebbe altro che accentuare il flagello della noia che affligge gli immortali.
Anche se non ci manca nulla, abbiamo sempre il diritto di lottare per ottenere le cose
che vogliamo. Naturalmente, nessuno si affanna più come si faceva ai tempi della
mortalità, quando la disuguaglianza era talmente abissale che le persone si
derubavano tra loro, arrivando talvolta a uccidersi, addirittura.
Lungi da me il desiderio di ripristinare la criminalità, ma sono stanca di vedere che
noi falci abbiamo il monopolio del terrore. Sarebbe bello avere un po’ di concorrenza.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


10
Reazioni proibite

«Amico, te lo garantisco, non parlano che di questo. Pensano che tu


voglia diventare una falce per vendicarti della scuola!»
In un mite pomeriggio di marzo, in una delle rare occasioni in cui
Maestro Faraday gli permetteva di prendersi un po’ di riposo, Rowan
era andato a trovare il suo amico Tyger, che negli ultimi tre mesi non
si era lanciato nemmeno una volta. Stavano tirando a canestro in un
parco a pochi isolati da casa di Rowan. Non gli era consentito visitare
la famiglia e, anche se avesse avuto il permesso, non lo avrebbe
fatto.
Rowan lanciò la palla a Tyger. «Non è per questo che ho accettato
di diventare apprendista.»
«Io lo so e tu lo sai, ma la gente crede a quello che vuole credere.»
Sorrise. «All’improvviso, ho cominciato a vincere a ogni tipo di gioco,
solo perché sono tuo amico. Pensano che io possa farli arrivare al
tuo anello. L’immunità sconfigge la morte, uno a zero.»
L’idea che Tyger svolgesse il ruolo di intermediario per suo conto lo
fece quasi ridere. Ce lo vedeva, a sfruttare per bene la situazione a
proprio vantaggio. Probabilmente, si sarebbe anche fatto pagare per
il servizio.
Rowan intercettò la palla e provò a tirare a canestro. Non giocava
da quando si era trasferito dalla falce, ma ritrovò la potenza nel
braccio, se non la mira. Si sentiva più forte che mai, pieno di energia,
tutto grazie al Bokator.
«Allora, quando avrai l’anello mi darai l’immunità, giusto?» Tyger
mancò volutamente il canestro. Stava facendo vincere Rowan.
«In primo luogo, non so se sceglierà di dare l’anello a me. E,
secondo, non posso offrirti l’immunità.»
Tyger pareva sinceramente esterrefatto. «Cosa? Perché no?»
«Non posso fare favoritismi.»
«Non è a questo che servono gli amici?»
Alcuni ragazzi entrarono in campo e chiesero se potevano giocare
anche loro, ma quando videro la fascia sul braccio di Rowan
cambiarono idea.
«Tranquilli» disse il più grande. «Il campo è tutto vostro.»
Era esasperante. «Ma… possiamo giocare tutti…»
«No, no… andiamo da qualche altra parte.»
«Ho detto che possiamo giocare tutti!» si impuntò Rowan. Quando
vide il terrore negli occhi dell’altro ragazzo, si pentì di aver insistito.
«Sì, sì, certo» rispose il ragazzo. Si voltò verso i suoi amici. «Avete
sentito, no? Giocate!»
Si schierarono in campo con facce serie e giocarono senza
entusiasmo, sforzandosi di perdere, come aveva fatto Tyger prima di
loro. Sarebbe stato sempre così? La sua presenza era diventata così
intimidatoria che nemmeno i suoi amici avrebbero più avuto il
coraggio di sfidarlo? Ormai, l’unica persona che osava tenergli testa
era Citra.
Rowan perse rapidamente interesse nel gioco e se ne andò con
Tyger, che trovava la situazione molto divertente. «Amico, non sei più
la foglia d’insalata adesso, sei una velenosa belladonna. L’erba del
male!»
Tyger aveva ragione. Se Rowan avesse ordinato a quei ragazzi di
mettersi a quattro zampe e di leccare per terra, avrebbero obbedito.
La sensazione era inebriante e terribile al tempo stesso, e non voleva
nemmeno pensarci.
«Vuoi venire a vedere la casa della falce?»
Che cosa gli era saltato in mente? Perché aveva fatto quella
proposta a Tyger? Forse per solitudine, o forse solo per il desiderio di
portare un po’ della sua vita precedente nella nuova.
Tyger parve incerto. «Non si arrabbierà?»
«Non c’è» rispose Rowan. «Oggi, spigola in un’altra città. Tornerà
tardi.» Era perfettamente consapevole che Maestro Faraday sarebbe
andato su tutte le furie se avesse saputo che aveva invitato qualcuno
a casa. E questo rendeva la cosa ancora più eccitante. Si era sempre
comportato bene, era sempre stato obbediente, anche troppo; era
ora di fare un po’ quello che voleva lui.
Quando arrivarono, la casa era vuota. Non c’era nemmeno Citra,
anche lei aveva avuto il pomeriggio libero. Avrebbe voluto che Tyger
la conoscesse, ma poi pensò: “E se si piacciono? E se inizia a
corteggiarla?”. L’amico ci sapeva fare con le ragazze. Un giorno era
anche riuscito a convincerne una a lanciarsi con lui, per poi vantarsi e
andare in giro a dire che le ragazze gli cadevano ai piedi.
Letteralmente.
«Sarà come Romeo e Giulietta» le aveva detto. «Solo che noi poi
ritorniamo.»
I genitori della ragazza non presero la cosa con altrettanta
leggerezza. Quando la figlia uscì dal centro di rianimazione, le
proibirono di rivedere Tyger.
Lui non si mostrò dispiaciuto. «Che posso dire a mia discolpa? “La
sua vita è una favola raccontata da idioti”» aveva dichiarato, mal
citando, e a sproposito secondo Rowan, Shakespeare.
L’idea che Citra potesse cadere ai piedi di Tyger, anche solo in
modo figurato, gli rivoltava lo stomaco.
«Tutto qui?» esclamò Tyger, dopo aver fatto il giro
dell’appartamento. «È solo una casa.»
«Che ti aspettavi? Un rifugio sotterraneo segreto?»
«A essere sincero, sì. O qualcosa del genere. Insomma, ma
guarda che mobili… non posso credere che ti faccia vivere in questo
buco.»
«Non è poi così male. Vieni, ti mostro una cosa da sballo.»
Portò Tyger nella sala d’armi. L’amico, come Rowan aveva
immaginato, rimase a bocca aperta.
«È pazzesco! Quanti coltelli… e quelle cosa sono? Le ho viste solo
in foto!» Staccò una pistola dalla parete e guardò nella canna.
«Non farlo!»
«Tranquillo, la mia fissa è lanciarmi nel vuoto, non farmi saltare le
cervella.»
Rowan gliela strappò dalle mani e, mentre la rimetteva a posto,
Tyger aveva già afferrato un machete, con cui si divertiva a menare
fendenti in aria.
«Credi che posso prenderlo in prestito?»
«Assolutamente no!»
«Dai… ne ha così tanti. Non se ne accorgerà nemmeno.»
Tyger era l’incarnazione della “pessima idea”, Rowan lo sapeva, e
quella era una delle cose di lui che lo avevano sempre divertito, ma
ora esagerava. Rowan gli afferrò il braccio, gli diede un calcio dietro il
ginocchio e lo stese a terra con una singola mossa di Bokator. Poi gli
torse il braccio, appena un po’.
«E che cazzo!» esclamò Tyger a denti stretti.
«Mettilo giù. Subito!»
Tyger obbedì. In quel preciso istante, la porta di casa si aprì.
Rowan lasciò la presa. «Shhh! Non fiatare» bisbigliò.
Lanciò un’occhiata all’uscio, ma non vide nessuno. «Resta qui.»
Uscì nel corridoio e si trovò di fronte Citra che stava richiudendo la
porta. Doveva essere andata a correre, perché indossava una tenuta
sportiva molto succinta che non lasciò Rowan indifferente. Si
concentrò sulla fascia da apprendista della ragazza, ricordando a se
stesso che le reazioni ormonali erano severamente proibite. Lei alzò
lo sguardo.
«Ciao, Rowan.»
«Ciao.»
«Qualcosa non va?»
«No.»
«Perché stai piantato lì?»
«Dove dovrei stare?»
Citra sbuffò ed entrò in bagno, chiudendosi dentro. Rowan tornò
subito nella sala d’armi.
«Chi è?» chiese Tyger. «È la tua rivale? Come si chiama? Dovresti
presentarmela. Forse, lei mi concederà l’immunità. O un’altra
cosa…»
«No. È Maestro Faraday, e ti spigolerà sul posto se ti trova qui.»
All’improvviso, tutta la spavalderia di Tyger svanì. «Oh, merda! Che
cosa facciamo?»
«Calmati. È sotto la doccia. Se stai zitto, ti posso far uscire.»
Ripercorsero il corridoio. Dietro la porta del bagno chiusa, si
sentiva il rumore scrosciante dell’acqua nella doccia.
«Si sta lavando via il sangue?»
«Sì. Ne era imbrattato dalla testa ai piedi.» Condusse Tyger
all’ingresso e lo spinse fuori.

Dopo quasi tre mesi, Citra non poteva più mentire a se stessa: voleva
che Maestro Faraday assegnasse a lei l’anello. Per quanto cercasse
di opporsi all’idea, per quanto si ripetesse che non faceva per lei, alla
fine era arrivata a cogliere l’importanza di quella missione e a capire
che sarebbe stata una buona falce. Aveva sempre desiderato avere
una vita significativa, una vita che lasciasse il segno. Come falce, ne
avrebbe avuto la possibilità. Sì, si sarebbe sporcata le mani di
sangue, ma il sangue poteva anche purificare.
In fondo, era quello che insegnava il Bokator.
Per Citra, il Bokator della Vedova Nera era l’allenamento più duro a
cui si fosse mai sottoposta. Il loro istruttore era Maestro Yingxing, una
falce che non usava armi, ma che spigolava a mani nude. Aveva fatto
voto di silenzio. In apparenza, ogni falce aveva rinunciato a una parte
di sé, non per obbligo ma per libera scelta; un modo per compensare
le vite che toglievano.
«A cosa rinunceresti?» le chiese una volta Rowan. La domanda la
mise a disagio.
«Se divento falce, rinuncerò alla mia vita, no? Credo che sia
sufficiente.»
«Rinuncerai anche ad avere una famiglia» le ricordò.
Citra annuì, non voleva parlarne. L’idea di avere una famiglia le
parve troppo lontana, così come le parve troppo lontana anche quella
di non averne una. Le era difficile esaminare quali sarebbero stati i
suoi sentimenti riguardo a una scelta così lontana nel tempo. E poi,
doveva tenere fuori quei pensieri dalla mente durante le sedute di
Bokator. Doveva restare lucida.
Era la prima volta che imparava un’arte marziale. Aveva sempre
preferito gli sport senza contatto. La corsa su pista, il nuoto, il tennis:
attività in cui la linea di demarcazione tra gli avversari era netta. Il
Bokator era l’antitesi: un combattimento corpo a corpo. Anche la
comunicazione era totalmente fisica durante le lezioni; l’istruttore
muto correggeva le loro posture maneggiandoli come se fossero
manichini. Era una disciplina fatta tutta di mente e corpo, senza
l’insulsa mediazione delle parole.
Erano in otto a seguire il corso. Citra e Rowan erano gli unici
apprendisti, gli altri allievi erano giovani falci ai primi anni di attività.
C’era un’altra ragazza, che non dava cenno di voler stringere
amicizia con Citra. Alle ragazze non era riservato nessun trattamento
speciale, erano considerate alla stregua dei ragazzi.
L’allenamento era duro. I combattimenti cominciavano sempre allo
stesso modo, con un rituale in cui gli avversari si fronteggiavano
girando in cerchio, provocandosi a vicenda in una specie di danza
aggressiva. Poi si iniziava a fare sul serio, passando alle maniere
forti. Tutti i colpi erano ammessi.
Quel giorno, avrebbe combattuto contro Rowan. Lui era più abile
nell’assestare i colpi, ma lei era più veloce. Lui era più forte, ma
anche più alto, il che non era un punto a suo favore.
Il baricentro di Citra, più basso, le dava il vantaggio della stabilità.
Tutto sommato, erano in condizione di parità.
Girò su se stessa e gli assestò un potente calcio al petto che per
poco non lo fece andare al tappeto.
«Buono» commentò Rowan. Maestro Yingxing fece il gesto di
chiudersi le labbra con la cerniera per ricordargli che era proibito
parlare durante il combattimento.
Citra lo attaccò da sinistra e Rowan reagì con tanta rapidità che lei
non riuscì a capire da quale direzione fosse arrivata la mano. Era
come se ne avesse avute tre, di mani. Citra perse l’equilibrio, ma solo
per un istante. Sentì un dolore caldo irradiarsi dal punto in cui l’aveva
colpita. “Mi verrà un livido.” Sorrise. “La pagherà cara!”
Simulò un attacco da sinistra, per poi colpirlo da destra con la forza
di impatto del corpo. Lo mandò a terra e si gettò su di lui bloccandolo
con tutto il peso. Ma fu come se la gravità si fosse invertita di colpo e
si ritrovò all’improvviso con la schiena sul pavimento. Adesso, era lui
che si trovava sopra, placcandola. Citra avrebbe potuto ribaltarlo
ancora, ma non lo fece. Sentiva il cuore di Rowan come se battesse
nel suo petto… e si scoprì a desiderare che quel momento non
finisse troppo presto, ancora più che vincere il combattimento.
Quel pensiero la fece infuriare, tanto da darle la forza di liberarsi
dalla presa e distanziarsi da lui. Non c’era linea di demarcazione, né
rete, nulla che potesse separarli fisicamente se non il muro della sua
volontà. E quel muro continuava a sgretolarsi.
Maestro Yingxing decretò la fine del combattimento. Citra e Rowan
si fecero l’inchino e presero posto ai lati opposti del cerchio, mentre al
centro venivano chiamati altri due avversari. Citra si mise a osservare
con attenzione lo scontro appena iniziato, decisa a non rivolgere a
Rowan neanche un’occhiata.
Non siamo più gli stessi esseri che eravamo in passato.
Basta vedere fino a che punto siamo incapaci di capire la letteratura e la maggior
parte degli intrattenimenti dell’era mortale. Le cose che suscitavano emozioni ai mortali
ci sono incomprensibili. Solo le storie d’amore riescono a passare attraverso il nostro
filtro post mortale. Eppure, restiamo attoniti di fronte all’intensità del desiderio e della
perdita che incombeva sulle storie d’amore di un tempo.
Potremmo attribuirlo agli emonaniti che regolano le nostre emozioni, ma il problema
è ben più profondo. I mortali immaginavano che l’amore fosse eterno, inestinguibile.
Oggi, sappiamo che questo non è vero. L’amore è rimasto mortale, mentre noi siamo
diventati eterni. Solo le falci hanno il potere di pareggiare le cose, ma tutti sanno che le
probabilità di essere spigolati in questo millennio o nel prossimo sono quasi inesistenti.
E così le ignoriamo.
Non siamo più gli stessi esseri che eravamo in passato.
Ma allora, se non siamo più umani, cosa siamo?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


11
Imprudenze

Non sempre Citra e Rowan assistevano insieme alle spigolature.


Talvolta, Maestro Faraday portava solo uno di loro. La peggiore
spigolatura di cui fu testimone Citra ebbe luogo ai primi di maggio, la
settimana precedente il Conclave di primavera, il primo dei tre a cui
lei e Rowan avrebbero partecipato nel corso dell’apprendistato.
Il soggetto da spigolare era un uomo che si era appena
ringiovanito, riprogrammando la sua età sui ventiquattro anni. Era a
casa, a cenare con la moglie e i suoi due figli, che dovevano essere
all’incirca coetanei di Citra. Quando Maestro Faraday annunciò il
motivo della visita, la famiglia si mise a piangere e l’uomo andò a
chiudersi in camera da letto.
Maestro Faraday aveva scelto per lui una tranquilla emorragia, ma
le cose andarono diversamente. Quando Citra e la falce entrarono
nella stanza, l’uomo tese loro un’imboscata. Era in ottima forma, nel
fiore della sua nuova età e, forte dell’arroganza del ringiovanimento,
rifiutò la spigolatura e si batté con la falce, rompendole la mascella
con un violento pugno sul viso. Citra corse in aiuto di Faraday,
mettendo in atto alcune mosse che aveva imparato da Maestro
Yingxing, e in quell’occasione comprese che le arti marziali, nella vita
vera, erano molto diverse dall’allenamento nel dojo. L’uomo la
respinse subito e si gettò sulla falce, che si stava ancora riprendendo
dal colpo ricevuto.
Citra tornò alla carica, gli saltò addosso, aggrappandosi a lui,
usando ogni mezzo, tirandogli i capelli e artigliandogli gli occhi. Riuscì
a distrarlo per il tempo che fu sufficiente a Maestro Faraday per
estrarre un coltello da caccia che teneva nascosto tra le vesti e
tagliargli la gola. L’uomo cadde in ginocchio, boccheggiando e
portandosi le mani al collo per cercare inutilmente di fermare il fiotto
di sangue.
Maestro Faraday, tastandosi la mascella tumefatta, gli parlò,
profondamente addolorato e senza malizia. «Capisce le
conseguenze del suo gesto?»
L’uomo non poteva rispondere. Cadde a terra, tremando e
ansimando. Citra pensò che la morte a seguito di una tale ferita
sarebbe stata istantanea, ma non fu così. Non aveva mai visto tanto
sangue in vita sua.
«Resta qui» le ordinò Maestro Faraday. «Veglialo con benevolenza
e sii l’ultima persona su cui poserà lo sguardo.» Poi uscì dalla stanza.
Citra sapeva che cosa avrebbe fatto. La legge era molto chiara.
Ogni resistenza alla spigolatura doveva essere punita. Tenne gli
occhi aperti, come le aveva ordinato Faraday, ma avrebbe tanto
voluto tapparsi le orecchie per non sentire quello che avveniva in
soggiorno.
Udì per prima cosa le suppliche della moglie, che lo implorava di
risparmiare i bambini, e quelli che singhiozzavano disperati.
«Non supplichi!» esclamò la falce. «Mostri a questi bambini più
coraggio di suo marito.»
Citra tenne lo sguardo fisso sull’uomo morente, finché gli occhi non
rimasero senza vita. Poi raggiunse Maestro Faraday, preparandosi al
peggio.
I due bambini erano sul divano; i singhiozzi si erano trasformati in
gemiti lamentosi. La donna era in ginocchio di fronte a loro e
sussurrava parole di conforto.
«Ha finito?» si spazientì la falce.
Infine, la donna si alzò. I suoi occhi erano pieni di lacrime, ma
aveva l’aria rassegnata. «Faccia quello che deve.»
«Bene. Ammiro la sua forza d’animo. Sappia che suo marito non si
è opposto alla spigolatura.» Si toccò il viso gonfio. «La mia
apprendista e io abbiamo avuto un piccolo alterco, ecco il motivo di
queste lesioni.»
La donna lo fissò senza dire nulla, restando a bocca aperta. E
anche Citra. La falce si voltò verso la ragazza e la guardò dritto negli
occhi. «La mia apprendista verrà severamente punita per avermi
sfidato.» Poi si girò a guardare la donna. «La prego, si inginocchi.»
La donna gli cadde ai piedi.
Maestro Faraday le porse la mano con l’anello. «Com’è
consuetudine, lei e i suoi bambini riceverete l’immunità per un anno a
partire da oggi. Che ognuno di voi baci il mio anello.»
La donna baciò l’anello ancora, e ancora, e ancora.

Sulla via del ritorno, la falce non aprì quasi bocca. Presero un
autobus, perché Faraday evitava per quanto possibile l’uso di
publicar. Lo considerava una stravaganza.
Quando scesero alla loro fermata, Citra si fece coraggio e ruppe il
silenzio.
«Sarò punita per averle “rotto” la mascella?» Citra sapeva che la
ferita sarebbe guarita già l’indomani mattina, ma i naniti cicatrizzanti
non agivano istantaneamente. Maestro Faraday era ancora piuttosto
malconcio.
«Non parlerai con nessuno di quanto è successo» le disse con
tono grave. «Non ne farai menzione nel tuo diario. Sono stato chiaro?
L’imprudenza di quell’uomo resterà un segreto.»
«Sì, eccellenza.»
Avrebbe voluto dirgli quanto ammirava la sua clemenza. Aveva
anteposto la compassione al dovere. C’era una lezione da imparare
da ogni spigolatura e quella di oggi Citra non l’avrebbe certo
dimenticata facilmente. La sacralità della legge… e la saggezza di
sapere quando deve essere trasgredita.

Per quanto Citra si sforzasse di essere un’apprendista modello,


capitava anche a lei di commettere delle imprudenze. Uno dei suoi
compiti quotidiani consisteva nel portare un bicchiere di latte a
Maestro Faraday prima che andasse a dormire. «Sin dalla mia
infanzia, il latte caldo mi aiuta ad allentare le tensioni della giornata»
le aveva confidato. «Tuttavia, oggi faccio a meno del biscotto che lo
accompagnava un tempo.»
L’idea che una falce consumasse latte e biscotti prima di dormire le
parve al limite dell’assurdo. Ma immaginò che anche un agente di
morte potesse avere i suoi piccoli piaceri segreti.
A volte, dopo una spigolatura difficile, si addormentava prima che
Citra entrasse in camera all’ora stabilita con il bicchiere di latte. In
quei casi, lo beveva lei o lo dava a Rowan, perché Maestro Faraday
aveva detto chiaramente che non tollerava sprechi.
La sera di quella spigolatura estenuante, Citra si attardò più del
solito nella camera della falce.
«Maestro Faraday» lo chiamò a bassa voce. Provò di nuovo.
Nessuna reazione. Dalla respirazione capì che stava dormendo.
Sul comodino vide un oggetto. In realtà, era lì ogni sera.
L’anello.
Rifletteva la luce obliqua che proveniva dal corridoio. Luccicava
anche nella penombra della stanza.
Citra bevve tutto il latte e appoggiò il bicchiere sul comodino, così
al mattino la falce avrebbe visto che lo aveva portato e che non era
stato sprecato. Poi si inginocchiò, gli occhi fissi sull’anello. Si
domandò perché se lo togliesse prima di dormire, ma non aveva mai
osato chiederglielo per paura di apparire invadente.
Quando avrebbe ricevuto il suo, se mai lo avesse ricevuto, le
sarebbe sempre apparso misterioso come adesso o sarebbe
diventato un oggetto qualunque ai suoi occhi? Lo avrebbe dato per
scontato?
Allungò la mano, poi la ritirò. Poi la allungò di nuovo e prese
l’anello con delicatezza. Lo rigirò tra le dita in modo da fargli riflettere
la luce. La gemma era grande, delle dimensioni di una ghianda. Si
diceva che fosse un semplice diamante, ma il suo nucleo era di un
nero troppo profondo. C’era qualcosa al centro di quell’anello, però
nessuno sapeva cosa fosse, e forse nemmeno le falci lo sapevano. Il
centro non era esattamente nero, variava a seconda della luce, come
l’occhio umano.
Quando alzò lo sguardo sulla falce, vide che era sveglia e che la
stava guardando. Si paralizzò, sapendo di essere stata colta in
flagrante. Era inutile rimettere a posto l’anello, non avrebbe certo
cambiato le cose.
«Vuoi provarlo?» le chiese.
«No. Mi scusi. Non avrei dovuto toccarlo.»
«Non avresti dovuto, ma l’hai fatto.»
Era sempre stato sveglio, fin dall’inizio?
«Su, provalo. Insisto.»
Citra esitò, ma obbedì; nonostante lo avesse appena negato,
impazziva dalla voglia di metterlo.
Le scaldò il dito. Era della dimensione giusta per la falce, ma
troppo largo per lei. Ed era anche più pesante di quanto aveva
immaginato.
«Non ha paura che glielo rubino?»
«Non molta. Chi è così stupido da rubare l’anello di una falce viene
punito con la morte immediata e cessa di essere un problema.»
L’anello si stava raffreddando.
«È comunque un oggetto che suscita bramosia, non credi?» disse
la falce.
A un tratto, Citra si accorse che l’anello non si era solo raffreddato,
ma si stava congelando. Il metallo, nel giro di pochi secondi, si era
coperto di ghiaccio, e un dolore atroce le salì lungo il dito. Lanciò un
urlo, si strappò l’anello e lo fece volare dall’altra parte della stanza.
Il freddo le aveva ustionato non solo l’anulare, ma anche le dita con
cui l’aveva toccato per toglierlo. Soffocò un gemito. Sentì un’onda di
calore scorrerle nel corpo: erano i naniti cicatrizzanti che rilasciavano
la morfina. Era stordita, ma si sforzò di restare vigile.
«Una misura cautelativa, che ho installato io stesso. Un microchip
refrigerante inserito nel castone. Fammi vedere il dito.» Accese
l’abat-jour e le prese la mano per esaminarle l’anulare. La pelle in
corrispondenza dell’articolazione era bluastra e congelata. «Nell’Era
della Mortalità avresti potuto perdere il dito, ma sono sicuro che i tuoi
naniti stanno già riparando il danno.» Le lasciò la mano. «Domani
mattina non avrai più nulla. Forse, la prossima volta ci penserai prima
di toccare cose che non ti appartengono.» Recuperò l’anello, lo
rimise sul comodino, poi le porse il bicchiere vuoto. «D’ora in poi,
sarà Rowan a portarmi il latte della sera.»
«Mi dispiace averla delusa, eccellenza. Ha ragione, non merito di
portarle il latte» mormorò Citra in tono umile.
Maestro Faraday alzò un sopracciglio. «Mi hai frainteso. Non è una
punizione. La curiosità è un sentimento umano; ti ho semplicemente
permesso di liberarti di questa ossessione. Devo dire che ci hai
messo molto.» E aggiunse, con un sorrisetto complice: «Ora,
vediamo quanto ci mette Rowan a farsi tentare dall’anello».
A volte, quando il peso del mio lavoro si fa troppo opprimente, non posso fare a meno
di rimpiangere tutto quello che abbiamo perduto da quando è stata sconfitta la morte.
Penso alla religione, al modo in cui, dopo che siamo diventati i salvatori di noi stessi,
gli dèi di noi stessi, la fede abbia perso valore. Come deve essere stato credere in
qualcosa al di sopra di noi? Accettare l’imperfezione e tendere verso un ideale che non
avremmo mai potuto incarnare? Doveva essere consolante. E terrificante. Doveva
sollevare gli animi dalle cose terrene, ma anche giustificare ogni tipo di male. Spesso
mi chiedo se la luce della fede fosse in grado di superare l’oscurità che i suoi abusi
potevano generare.
Esistono le sette della tonalità, naturalmente, i cui adepti si vestono di tela di sacco
e venerano le vibrazioni acustiche, ma, come molte cose del nostro mondo, cercano di
imitare ciò che è stato un tempo. I loro rituali non devono essere presi sul serio. Il
motivo della loro esistenza è semplicemente quello di dare un senso al tempo che
passa.
Ultimamente, una setta della tonalità del mio quartiere ha risvegliato in me
l’inquietudine. Sono andata a un loro raduno l’altro giorno. Ci sono andata per
spigolare un fedele della congregazione, un uomo che non si era ancora mai
ringiovanito. Stavano intonando quella che chiamano “la frequenza sonora
dell’universo”. Uno di loro affermava che il suono era vivo e che il fatto di essere in
armonia con esso porta la pace interiore. Mi domando: quando contemplano l’enorme
diapason che è il simbolo della loro fede, ci vedono davvero un simbolo di potere o
stanno solo dando vita a una farsa collettiva?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


12
Non c’è spazio per la mediocrità

«La Compagnia delle falci è l’unico organismo autonomo al mondo»


disse Maestro Faraday. «L’unico a non essere sottomesso alla legge
del Thunderhead. È per questo che ci riuniamo in conclave tre volte
all’anno, per dirimere controversie, rivedere la nostra politica e
piangere le vite che abbiamo tolto.»
Mancavano pochi giorni al Conclave di primavera, che si svolgeva
nella prima settimana di maggio. Rowan e Citra avevano studiato a
lungo la struttura della Compagnia. Sapevano così che tutte le
venticinque regioni del mondo si riunivano in conclave lo stesso
giorno e al momento c’erano trecentoventuno falci nella loro regione,
che comprendeva il cuore del continente nordmericano.
«Il conclave midmericano è importante» spiegò Maestro Faraday.
«Siamo un modello da seguire per gran parte del mondo. C’è un
modo di dire: “Dimmi come va la MidMerica e ti dirò come va il
pianeta”. Le grandi falci del Conclave mondiale hanno gli occhi
puntati su di noi.»
Maestro Faraday annunciò loro che a ogni conclave sarebbero stati
sottoposti a un test. «Non so di che tipo sia il primo test. E a maggior
ragione, dovrete essere il più preparati possibile in tutte le discipline.»
Rowan aveva un milione di domande da fare a proposito del
conclave, ma le tenne per sé. Lasciò che fosse Citra a chiedere
informazioni al riguardo a Maestro Faraday, che non amava dare
spiegazioni, e per questo non rispondeva mai.
«Saprete tutto ciò che c’è da sapere quando sarete là. Per ora,
concentrate tutta la vostra attenzione sull’addestramento e sugli
studi.»
Rowan non era mai stato uno studente modello, ma la cosa era
voluta. Essere troppo bravo o troppo scarso attirava attenzione. Per
quanto odiasse essere la foglia d’insalata, era comunque il suo
rifugio.
«Se ti applichi, sono sicuro che potrai arrivare a essere il migliore
della classe» gli aveva detto il suo professore di scienze, dopo che
aveva ottenuto il voto più alto agli esami di metà trimestre, l’anno
precedente. Rowan l’aveva fatto solo per capire se ne era in grado.
Ora che lo sapeva, non vedeva tanto la necessità di rifarlo. I motivi
erano molti, tra cui la sua ignoranza riguardo alle falci nel periodo
precedente al suo apprendistato. Era convinto che essere uno
studente brillante lo avrebbe reso un bersaglio. Correva voce che un
amico di un amico si fosse fatto spigolare a undici anni, perché era
l’alunno più intelligente della classe. Non era niente più che una
leggenda metropolitana, ma Rowan ci credeva abbastanza per non
voler emergere. Si chiese se anche altri ragazzi tenessero un basso
profilo per timore di essere spigolati.
Non aveva mai avuto l’abitudine di studiare molto. Lo considerava
estenuante, e non si trattava solo di chimica dei veleni e storia post
mortale, ma doveva anche scrivere il diario. Poi c’erano anche
metallurgia applicata alle armi, filosofia della mortalità, psicologia
dell’immortalità e letteratura della Compagnia, dalle raccolte di poesie
ai diari personali delle falci famose. E, naturalmente, le statistiche a
cui ricorreva così spesso Maestro Faraday.
Non c’era spazio per la mediocrità, soprattutto ora che si
avvicinava la data del conclave. Alla fine, Rowan fece una domanda,
l’unica: «Verremo squalificati se non passiamo il test?».
Faraday rifletté un istante prima di rispondere. «No. Ma avrà delle
conseguenze.» Non aggiunse altro. Rowan concluse che non sapere
era molto più spaventoso che sapere.
Una sera lui e Citra restarono svegli fino a tardi a studiare nella
sala d’armi. Rowan finì per assopirsi, ma si svegliò di soprassalto
quando Citra richiuse con forza un libro.
«Odio questa cosa!» esclamò lei. «Cerberina, aconito, cicuta,
polonio: tutti i veleni mi si mescolano in testa.»
«Se li mescoli tutti, puoi dare una morte rapida» replicò Rowan,
con un sorriso ironico.
Citra incrociò le braccia. «Tu conosci tutti i tuoi veleni a memoria?»
«Siamo tenuti a conoscerne solo quaranta per il conclave»
sottolineò.
«E tu li conosci?»
«Li imparerò per tempo.»
«Qual è la formula chimica della tetrodotossina?»
Avrebbe voluto ignorare la domanda, ma non poteva non
raccogliere la sfida. Forse, lo spirito di competizione di Citra lo stava
contagiando. «C 11H 17N 3O 6.»
«Sbagliato!» disse, puntandogli un dito contro. «È O 8, non O 6.
Sei bocciato!»
Stava cercando di farlo innervosire, non voleva essere l’unica a
rodersi il fegato. Ma Rowan non le avrebbe fatto quel favore.
«Immagino che tu abbia ragione» rispose, prima di immergersi di
nuovo nello studio.
«Non sei un po’ preoccupato?»
Rowan inspirò a fondo e chiuse il libro. Quando Faraday aveva
iniziato a istruirli, i vecchi libri stampati gli erano parsi molto scomodi
ma, con il tempo, aveva finito per apprezzare la carta, il fatto di girare
le pagine. E, come Citra aveva già scoperto, adorava richiudere con
forza un libro per il senso di catarsi emotiva che gli procurava.
«Certo che sono preoccupato, ma io la vedo così: sappiamo che
non ci squalificheranno, e sappiamo già che non possono spigolarci.
E poi, avremo altre due occasioni per rimediare prima che sia scelto
uno di noi. Qualunque sia la conseguenza di una bocciatura al primo
test, se uno di noi non passasse, sapremo come uscirne.»
Citra si accasciò sulla sedia. «Io non sono mai stata bocciata»
disse, con un tono poco convinto. A vedere quella sua espressione
imbronciata, Rowan ebbe voglia di sorridere, ma si trattenne, perché
sapeva che si sarebbe infuriata. Gli piaceva quando si arrabbiava,
ma avevano troppo da fare per perdere tempo in futili distrazioni
emotive.
Rowan mise da parte il libro di tossicologia e tirò fuori il volume
sull’identificazione delle armi. Avrebbero dovuto essere in grado di
identificare trenta armi diverse, sapere come maneggiarle e
conoscerne la storia nei minimi particolari. Era più preoccupato di
quello che dei veleni. Lanciò un’occhiata furtiva a Citra, che se ne
accorse. Evitò di rifarlo.
«Mi saresti mancato» gli disse, di punto in bianco.
Rowan alzò la testa e Citra guardò altrove. «Che vuoi dire?»
«Se uno di noi avesse potuto essere squalificato, avrei sentito la
tua mancanza.»
Pensò di allungarsi a prenderle la mano, appoggiata sul tavolo. Ma
il tavolo era grande e la mano di lei troppo lontana per arrivare a
toccarla senza che il suo gesto apparisse maldestro e assurdo. E,
anche se fossero stati seduti vicini, sarebbe comunque stata una
cosa stupida da fare.
«Ma la squalifica non è prevista» rispose. «Il che vuol dire che mi
avrai tra i piedi per altri otto mesi.»
Citra sorrise. «Già. Di sicuro, per allora ne avrò già piene le tasche
di te.»
Per la prima volta, Rowan pensò che forse Citra non lo odiava così
tanto come credeva.
Il sistema delle quote funziona da oltre duecento anni e, sebbene fluttui in base alle
regioni, dimostra chiaramente qual è la responsabilità delle falci nei confronti del
mondo. Naturalmente, il sistema si basa tutto sulle medie: potremmo stare giorni o
anche settimane senza spigolare, ma dobbiamo rispettare la nostra quota prima del
conclave successivo. Ci sono le falci zelanti, che si affrettano a raggiungere la quota,
per poi ritrovarsi a non avere più tanto da fare all’approssimarsi del conclave. Ci sono
quelle che rimandano e che devono poi recuperare in fretta alla fine. Entrambe queste
strategie portano a un lavoro raffazzonato e a una parzialità involontaria.
Spesso mi chiedo se la quota cambierà mai e, se sì, di quanto. La crescita
demografica è sempre smisurata, ma è controbilanciata dalla capacità del
Thunderhead di provvedere ai bisogni di una popolazione in continuo aumento.
Risorse rinnovabili, abitazioni sotterranee, isole artificiali e tutto questo senza
distruggere il verde o provocare la sensazione di sovraffollamento. Ci siamo
impadroniti di questo mondo, pur proteggendolo in un modo che i nostri antenati non si
sarebbero mai sognati.
Ma tutto ha un limite. Benché il Thunderhead non interferisca negli affari della
Compagnia, suggerisce però un numero preciso di falci che dovrebbero esserci nel
mondo. Attualmente, si eseguono circa cinque milioni di spigolature all’anno, una
minima parte della percentuale di decessi che si registravano nell’Era della Mortalità, il
che non è affatto sufficiente per compensare la crescita demografica. Tremo al
pensiero di quante falci ci vorrebbero e quante spigolature sarebbero necessarie se
dovessimo, di punto in bianco, frenare la crescita della popolazione.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


13
Conclave di primavera

Fulcrum City era una metropoli post mortale situata al centro della
MidMerica. Lungo il fiume, incastonata tra i vertiginosi pinnacoli
dell’elegante vita urbana, si trovava una maestosa struttura in pietra,
imponente, se non per l’altezza, per l’impressione di solidità che
dava. Colonne e archi di marmo sostenevano una grande cupola in
rame. Era un omaggio all’antica Grecia e alla Roma imperiale: le due
culle della civiltà. Veniva ancora chiamato il Campidoglio, perché un
tempo era stato la sede del parlamento federale, nell’epoca in cui
esistevano ancora gli stati, prima che il governo diventasse obsoleto.
Adesso ospitava gli uffici amministrativi della Compagnia delle falci
della MidMerica, ed era anche il luogo in cui si svolgeva il conclave,
tre volte all’anno.

Il giorno del Conclave di primavera pioveva a dirotto.


Di solito, Citra non si lasciava intristire dalla pioggia, ma era già
tanto tesa per quello che doveva affrontare che il cielo cupo e
malinconico l’aveva depressa. Del resto, se ci fosse stato il sole le
sarebbe parso un controsenso. A prescindere dal tempo, concluse
che non poteva essere un buon giorno quello in cui ci si doveva
presentare davanti a uno stuolo di falci.
Fulcrum City era a un’ora di ipertreno, ma naturalmente Maestro
Faraday considerava quel mezzo di trasporto un inutile lusso. «E poi,
preferisco veder sfilare il paesaggio piuttosto che viaggiare in un
tunnel sotterraneo senza finestrini. Sono un essere umano, non una
talpa.»
Il treno normale aveva impiegato sei ore, e durante il viaggio Citra
si era goduta il panorama di tanto in tanto, anche se aveva trascorso
la maggior parte del tempo a studiare.
Fulcrum City era sul fiume Mississippi. Si era ricordata che in
passato c’era stato un gigantesco arco argenteo su una delle sponde,
ormai scomparso. Distrutto nell’Era della Mortalità da un flagello noto
come terrorismo. Si sarebbe dedicata di più alla storia della città se
non avesse dovuto studiare veleni e armi.
Erano arrivati la sera prima del conclave e avevano trascorso la
notte in un albergo del centro.
Il mattino giunse troppo presto. Alle sei e mezzo, uscirono dall’hotel
per recarsi a piedi al Campidoglio. I passanti si affrettavano a offrire
loro l’ombrello, preferendo bagnarsi piuttosto che vedere una falce e i
suoi apprendisti camminare sotto la pioggia.
«Lo sanno che lei ha preso due apprendisti invece di uno?»
domandò Citra.
«Certo che lo sanno» rispose Rowan. «Perché non dovrebbero
saperlo?»
Ma il mutismo di Maestro Faraday alimentò i sospetti di Citra. «Ha
chiesto l’autorizzazione della Suprema Roncola, vero, Maestro
Faraday?»
«Ho imparato che con la Compagnia delle falci è meglio chiedere il
perdono che il permesso» replicò lui.
Citra lanciò a Rowan uno sguardo eloquente, del tipo: “Te l’avevo
detto”. Rowan inclinò un po’ l’ombrello per nascondersi il viso.
«Non sarà un problema» concluse Faraday, con un tono poco
convinto.
Citra lanciò un’altra occhiata a Rowan, che intanto aveva
raddrizzato l’ombrello. «Sono la sola a preoccuparmene?»
Rowan alzò le spalle. «Abbiamo l’immunità fino al Conclave
d’inverno, ed è irrevocabile, lo sanno tutti. Che cosa potrebbero farci
di peggio?»

Alcune falci arrivarono al Campidoglio a piedi, altre in publicar, altre


ancora in auto private e diverse anche in limousine. Su entrambi i lati
della scala in marmo bianco che conduceva all’interno dell’edificio,
c’erano dei cordoni di sicurezza per contenere la folla di spettatori.
Ufficiali di pace e membri della Suprema Guardia, l’élite della forza di
sicurezza delle falci, sorvegliavano l’afflusso. Le falci erano protette
dal pubblico in adorazione, mentre nulla proteggeva il pubblico da
loro.
«Detesto passare sotto le forche caudine.» Era così che Maestro
Faraday chiamava la salita al conclave. «È addirittura peggio quando
non piove. C’è ancora più folla.»
Quel giorno, ce n’era solo la metà. Citra si chiese che cosa mai
spingesse la gente ad andare a vedere l’arrivo delle falci al conclave,
ma in fin dei conti tutti gli eventi mondani attiravano i curiosi, perché
allora non doveva accadere lo stesso per una riunione di falci?
Alcune salutavano con la mano, altre seducevano la folla, baciando
i bambini e concedendo qua e là l’immunità. Citra e Rowan
seguivano l’esempio di Faraday, ignorando del tutto la gente.
Nell’atrio dell’edificio si erano riunite decine di falci. Si toglievano gli
impermeabili, mostrando al di sotto vesti di ogni colore e tessuto. Un
arcobaleno che evocava tutto tranne che il pensiero della morte. Citra
pensò che l’effetto dovesse essere voluto. Le falci desideravano
essere considerate come innumerevoli sfaccettature della luce, non
dell’oscurità.
Superato un grande arco, si entrava in un’ampia sala circolare, che
si trovava sotto la cupola centrale, dove centinaia di falci si
salutavano, intrattenendosi in conversazioni informali intorno a un
sofisticato buffet. Citra si chiese di cosa parlassero. Delle armi che
usavano per la spigolatura? Del tempo? Di quanto il tessuto delle loro
vesti irritasse la pelle? Incuteva già abbastanza timore il fatto di
trovarsi in presenza di una falce. Esserne circondati era terrificante.
Maestro Faraday si piegò in avanti e si rivolse a loro due parlando
a voce bassa. «Vedete quell’uomo?» domandò, indicando un
personaggio barbuto e calvo. «Maestro Archimede, una delle falci più
anziane ancora in vita. Vi dirà che lui c’era nell’anno del Condor
quando fu creata la Compagnia delle falci, ma è una bugia. Non è
così vecchio! E la signora laggiù…» Fece un cenno in direzione di
una donna con lunghi capelli argentei che portava una veste di un
pallido color lavanda. «È Madame Curie.»
Citra soffocò un grido. «La Signora della Morte?»
«Così la chiamano.»
«È vero che ha spigolato l’ultimo presidente, prima che il
Thunderhead assumesse il controllo?» chiese Citra.
«E il suo gabinetto di governo, sì.» Maestro Faraday la guardò,
forse con un po’ di malinconia, pensò Citra. «All’epoca, le sue azioni
erano alquanto discutibili.»
La donna si accorse che la stavano guardando. Citra si paralizzò
quando Madame Curie posò gli occhi grigi e penetranti su di lei. Poi
la signora sorrise ai tre, fece un cenno con il capo e riprese la sua
conversazione.
Quattro o cinque falci si erano radunate all’ingresso della sala del
consiglio, le cui porte erano ancora chiuse. Indossavano tuniche
luccicanti, tempestate di gemme. Al centro del capannello c’era una
falce con la veste di color blu reale, adorna di diamanti, o almeno
così sembravano. Disse qualcosa e gli altri risero con un entusiasmo
un po’ troppo marcato perché non fosse una dimostrazione di
servilismo.
«Chi è?» chiese Citra.
Maestro Faraday si fece serio in volto.
«Quello è Maestro Goddard» disse, senza nemmeno cercare di
dissimulare il suo disgusto. «Meglio evitarne la compagnia.»
«Goddard… non è l’esperto delle spigolature di massa?» chiese
Rowan.
Faraday lo guardò con un certa preoccupazione. «Dove l’hai
sentito?»
Rowan alzò le spalle. «Ho un amico che è ossessionato da cose
del genere. Girano delle voci.»
Citra ebbe un sussulto, ricordandosi di aver sentito parlare di
Goddard, non del suo nome, ma delle sue gesta. O, più di preciso,
aveva sentito delle chiacchiere, perché non c’erano mai state
comunicazioni ufficiali. Come aveva detto Rowan, giravano delle voci.
«È lui che ha spigolato un intero aereo?»
«Perché?» chiese Faraday, guardandola con aria di rimprovero. «Ti
impressiona?»
Citra scosse la testa. «No, al contrario.» Non poté però fare a
meno di restare un po’ colpita dal modo in cui la veste dell’uomo
rifletteva la luce. Come tutti, del resto; forse, era voluto.
Eppure, non era la veste più appariscente. Un uomo che indossava
una tunica dorata riccamente ricamata avanzava tra la folla. Era così
corpulento che la veste sembrava una tenda.
«Chi è quel signore grasso?» chiese Citra.
«Ha l’aria di essere importante» commentò Rowan.
«Lo è» rispose Maestro Faraday. «Il “signore grasso”, come lo
chiami tu, è la Suprema Roncola. L’uomo più potente della
Compagnia midmericana delle falci. È lui che presiede il conclave.»
La Suprema Roncola si faceva strada tra la folla come un enorme
pianeta gassoso, creando spazio intorno a sé. Avrebbe potuto
attivare i suoi naniti al fine di ridurre un po’ il girovita, ma era chiaro
che aveva deciso di non farlo. La sua era una scelta intenzionale; la
taglia gli conferiva un aspetto imponente. Quando vide Faraday, si
scusò con i suoi interlocutori e si diresse verso di lui.
«Maestro, è sempre un piacere incontrarla.» Il saluto era così
caloroso che parve forzato.
«Citra, Rowan, vi presento la Suprema Roncola, Maestro
Senocrate» disse Faraday, poi tornò a rivolgersi a lui. «Questi sono i
miei nuovi apprendisti.»
Li osservò un istante per valutarli. «Un doppio apprendistato» disse
con giovialità. «Credo che sia il primo caso. Molte falci hanno già tanti
problemi con uno.»
«Il migliore tra i due riceverà la mia benedizione e l’anello.»
«E l’altro ne resterà profondamente deluso, ne sono sicuro» disse
la Suprema Roncola, quindi andò a salutare altre falci che erano
appena entrate.
«Hai visto?» disse Rowan. «E tu che ti preoccupavi.»
Ma per Citra, quell’uomo non era affatto sincero.

Anche Rowan era agitato, ma non volle ammetterlo per non


aumentare l’ansia di Citra, che, a sua volta, lo avrebbe innervosito
ancora di più. Così, mise a tacere la sua apprensione e i suoi dubbi e
tenne occhi e orecchie ben aperti, prestando attenzione a tutto ciò
che avveniva intorno a lui. C’erano altri apprendisti oltre a loro. Sentì
due che parlavano di quello come il “grande giorno”. Un ragazzo e
una ragazza, entrambi più grandi di lui; dovevano avere circa diciotto
o diciannove anni. Avrebbero ricevuto l’anello quel giorno stesso,
diventando giovani falci. La ragazza si lamentava del fatto che, per i
primi quattro anni, avrebbero dovuto ottenere l’approvazione del
comitato di selezione sulle loro spigolature.
«Per ogni singola spigolatura» si lagnava. «Come se fossimo dei
neonati.»
«Almeno l’apprendistato non dura quattro anni» si intromise
Rowan, per cercare di entrare nella conversazione. I due lo
guardarono con sufficienza.
«Insomma, ci vogliono quattro anni per ottenere una laurea,
giusto?» Rowan sapeva che si stava impantanando, ma ormai era
troppo tardi per fare marcia indietro. «Ci vuole di meno per prendere
la licenza a spigolare.»
«Chi diavolo sei?» gli chiese la ragazza.
«Lascialo perdere, è solo uno spat.»
«Un che?» Rowan era stato chiamato con molti epiteti, ma mai con
quello.
I due abbozzarono un sorrisetto beffardo. «Non sai proprio nulla»
disse la ragazza. «Spat, come spatola. È così che vengono chiamati i
nuovi apprendisti, perché non siete capaci di fare nulla, a parte
rigirare gli hamburger della vostra falce.»
Quella battuta fece ridere Rowan, e questo li irritò.
In quel momento, Citra li raggiunse. «Allora, se noi siamo spatole,
voi cosa siete? Forbici con le punte arrotondate? O qualche altro
attrezzo?»
Il ragazzo guardò Citra come se volesse prenderla a pugni. «Chi è
il tuo tutore?» le chiese. «Vado a parlargli. Che mancanza di
rispetto!»
«Sono io» rispose Faraday, mettendo una mano sulla spalla di
Citra. «E nessuno vi deve del rispetto finché non avrete l’anello.»
Il ragazzo parve rimpicciolirsi, come se volesse sparire. «Maestro
Faraday! Mi scusi, non lo sapevo.» La ragazza fece un passo di lato,
come a prendere le distanze da lui.
«Buona fortuna per oggi» augurò loro, con un gesto magnanimo
che non meritavano.
«Grazie» rispose la ragazza. «Ma, se posso permettermi, la fortuna
non c’entra nulla. Ci siamo preparati a lungo e siamo stati istruiti
molto bene dai nostri mentori.»
«Certamente» replicò Faraday. I due gli rivolsero un saluto
rispettoso, quasi reverenziale, e si allontanarono.
Faraday si girò verso Rowan e Citra. «La ragazza riceverà l’anello
oggi» disse. «Il ragazzo verrà respinto.»
«Come lo sa?» chiese Rowan.
«Ho amici nel comitato di concessione degli anelli. Il ragazzo è in
gamba, ma troppo irascibile. È un difetto che non si perdona nella
nostra professione.»
Per quanto lo trovasse indisponente, Rowan non poté fare a meno
di sentire per il ragazzo una punta di compassione. «Che fine fanno
gli apprendisti che vengono respinti?»
«Vengono restituiti alle famiglie e riprendono la loro vita dal punto
in cui l’avevano lasciata.»
«Ma la vita non può più essere la stessa dopo un anno di
apprendistato» sottolineò Rowan.
«Vero» convenne Faraday. «Tuttavia, una profonda comprensione
di ciò che serve per diventare falce non può che portare del bene.»
Rowan annuì, eppure pensava che quelle parole, uscite dalla
bocca di un uomo così saggio, fossero molto ingenue.
L’apprendistato per la professione di falce era una prova che lasciava
cicatrici. Per un fine, era ovvio, ma si trattava comunque di un
trauma.
La sala circolare si riempì progressivamente e le voci
riecheggiarono contro il marmo delle pareti, dei pavimenti e della
cupola, trasformando il chiacchiericcio in una vera e propria
cacofonia. Rowan cercò di captare le singole conversazioni, che però
si perdevano in mezzo al frastuono generale. Faraday aveva detto
che le grandi porte in bronzo della sala si sarebbero aperte alle sette
del mattino in punto e che le falci sarebbero state congedate al
rintocco delle diciannove. Dodici ore per discutere di tutte le
questioni. Per ogni problematica lasciata in sospeso si sarebbe
dovuto attendere il conclave successivo, quattro mesi più tardi.
«Nei primi tempi, un conclave durava tre giorni» spiegò loro
Maestro Faraday, mentre si aprivano le porte per far entrare la folla.
«Ma ci si accorse presto che gli ultimi due giorni servivano solo ad
alimentare inutili polemiche e mettersi in mostra. Non che sia
cambiato molto, ma almeno la durata è stata ridotta. Dobbiamo
procedere con rapidità per discutere tutti i punti all’ordine del giorno.»
La sala era un enorme emiciclo davanti al quale c’era un palco in
legno dove sedeva la Suprema Roncola. Ai suoi lati, a un livello
leggermente più basso, sedevano i commessi, incaricati di redigere i
registri, e il parlamentare, l’esperto a cui spettava il compito di
dirimere dubbi o controversie in merito a regole o procedure. Maestro
Faraday li aveva già istruiti a lungo sulla struttura della Compagnia,
per questo Rowan ne aveva una certa conoscenza.
Il primo punto all’ordine del giorno, dopo che tutti si furono
accomodati, era il cosiddetto “bilancio dei nomi”. Una dopo l’altra,
senza seguire un ordine particolare, le falci sfilarono davanti
all’assemblea per recitare i nomi delle persone che avevano spigolato
negli ultimi quattro mesi.
«Non possiamo citarli tutti» spiegò loro Maestro Faraday. «Con più
di trecento falci, sarebbero oltre ventiseimila. Per questo dobbiamo
sceglierne dieci. Quelli che ci sono rimasti più impressi, quelli che
hanno dato prova di coraggio, quelli che hanno condotto una vita
degna di nota.»
Dopo ogni nome, suonava una campana di ferro, solenne e
squillante. Rowan fu contento di sentire Maestro Faraday pronunciare
il nome di Kohl Whitlock tra i suoi dieci eletti.

Citra si stufò presto del bilancio dei nomi. Nonostante il limite di dieci,
l’enumerazione durò quasi due ore. Era encomiabile che le falci
ritenessero doveroso rendere omaggio agli spigolati, ma se avevano
solo dodici ore di tempo per passare in rassegna quattro mesi di
attività, non ne capiva il senso.
Non c’era un programma predefinito. Era impossibile per lei e
Rowan sapere come si sarebbe svolta la giornata. Maestro Faraday
si limitava a spiegare le cose a mano a mano che avvenivano.
«E il nostro test? Che c’è da aspettare? Ci porteranno in un’altra
sala?» chiese Citra, ma Faraday le fece cenno di tacere.
Dopo il bilancio dei nomi, si procedette alla cerimonia del lavaggio
delle mani. Le falci si alzarono e si disposero davanti a due vasche,
una per ciascun lato del palco. Ancora una volta, Citra non ne capiva
il senso. «Tutta questa ritualità… è il tipo di cose che si vede fare agli
adepti della setta della tonalità» disse quando Faraday tornò al suo
posto, con le mani ancora bagnate.
Faraday si chinò verso di lei e le sussurrò di abbassare la voce.
«Infilare le mani nell’acqua in cui sono state immerse centinaia di
altre mani serve a purificarsi?»
Faraday sospirò. «Dà un certo conforto. Ci fa sentire uniti come
Compagnia. Non denigrare le nostre tradizioni, perché un giorno
potrebbero essere le tue.»
«Oppure no» intervenne Rowan, in tono provocatorio.
Citra, nervosa e a disagio, borbottò: «Mi sembra tanto una perdita
di tempo».
Faraday doveva sapere che in realtà a innervosirla era il non
sapere quando sarebbero stati presentati al conclave e quando
avrebbero affrontato il test. Citra non sopportava di brancolare nel
buio troppo a lungo. Forse era per quello che Faraday la lasciava
nell’incertezza, per mettere continuamente a nudo i suoi punti deboli.
Poi alcune falci furono accusate di essersi comportate in modo
discriminatorio nella scelta delle spigolature. Quella parte suscitò
l’interesse di Citra e le diede una visione più approfondita del dietro le
quinte della professione.
Una falce fu rimproverata per aver spigolato troppi poveri. Fu
ammonita e le fu imposto di spigolare solo gente ricca fino al
successivo conclave.
Un’altra venne accusata di non rispettare le proporzioni razziali.
Troppi ispanici e pochissimi africani.
«Dipende dalla demografia della regione in cui vivo» si difese. «C’è
un’alta percentuale di origine ispanica negli indici personali della
gente del posto.»
La Suprema Roncola fu irremovibile. «Allora allarghi l’area. Vada a
spigolare altrove.»
Fu quindi condannata a correggere gli indici, pena la punizione,
che consisteva nel sottoporre preventivamente le future spigolature
all’approvazione del comitato di selezione. Vedersi togliere la libertà
di spigolare era l’umiliazione più grande che si potesse infliggere a
una falce.
Sedici falci ricevettero un richiamo: dieci furono ammonite, sei
sanzionate. Il caso più curioso fu quello di una falce la cui bellezza
l’aveva messa nei guai. Venne ripresa per aver spigolato troppe
persone brutte.
«Che idea!» esclamò una delle falci. «Immaginate che mondo
sarebbe se spigolassimo solo gente brutta!»
Uno scoppio di risa risuonò in tutta la sala.
L’accusato cercò di difendersi, citando il vecchio adagio secondo il
quale la bellezza è nell’occhio di chi guarda, ma la Suprema Roncola
non mostrò di essere dello stesso avviso. Era la terza volta che gli
veniva mossa la stessa obiezione, per cui fu messo sotto
sorveglianza permanente. Poteva continuare a essere falce, ma non
poteva spigolare.
«Fino al prossimo anno rettiliano» sentenziò la Suprema Roncola.
«È assurdo» commentò Citra a voce bassa, in modo da farsi
sentire solo da Rowan e Faraday. «Nessuno sa come saranno
chiamati gli anni a venire. Insomma, l’ultimo anno rettiliano è stato
l’anno del Geco, ed è caduto prima che io nascessi.»
«Esattamente!» replicò Faraday, con una punta di colpevole gioia.
«In altre parole, la punizione potrebbe avere termine l’anno prossimo
oppure… mai. D’ora in poi, passerà il suo tempo a tentare di
convincere l’ufficio del calendario a istituire l’anno dello Scinco o del
Mostro di Gila o di qualche altro rettile di cui non sia già stato usato il
nome.»
Prima che si concludesse la parte disciplinare della mattinata, fu
chiamata un’ultima falce. Non riguardava un altro caso di
discriminazione.
«Ho davanti a me un messaggio anonimo che accusa Maestro
Goddard di abuso.»
Un mormorio percorse la sala. Citra vide Maestro Goddard
bisbigliare qualcosa alla sua cerchia di compagni, e poi alzarsi.
«Quale abuso mi viene imputato?»
«Atti di crudeltà gratuita durante le spigolature.»
«E questa accusa è anche anonima!» esclamò Goddard. «Non
posso credere che uno di noi sia capace di tanta viltà. Esigo che il
diffamatore si riveli.»
Il mormorio in sala riprese, più forte. Nessuno si alzò, nessuno
rivendicò la paternità della denuncia.
«Bene. In questo caso, mi rifiuto di rispondere a un accusatore
invisibile» concluse Goddard.
Citra pensò che Senocrate dovesse approfondire la questione.
Dopotutto, un attacco lanciato da un confratello non era cosa da
prendere sotto gamba, ma la Suprema Roncola posò la lettera
anonima e disse: «Bene, se non c’è altro da aggiungere, ci fermiamo
per la pausa di metà mattinata».
E le falci, gli angeli della morte, uscirono dall’anfiteatro alla
spicciolata per raggiungere la sala circolare dove le attendevano
ciambelle e caffè.
Quando furono lì, Faraday bisbigliò all’orecchio dei suoi
apprendisti: «Non c’era nessun diffamatore anonimo. Ci metto la
mano sul fuoco che Maestro Goddard si è accusato da solo».
«Perché lo avrebbe fatto?» chiese Citra.
«Per svilire i propri nemici. È il trucco più antico del mondo. Ora
tutti penseranno che chiunque lo accusi sia il vigliacco anonimo del
messaggio. Nessuno lo attaccherà più.»

Rowan si scoprì meno interessato alla messinscena e agli attacchi


che avvenivano nella sala del conclave che a quanto accadeva
all’esterno. A poco a poco, stava cominciando a capire i meccanismi
della Compagnia. L’essenziale non si svolgeva dietro le porte di
bronzo, ma nella sala circolare e nelle oscure alcove dell’edificio, che
erano numerose, probabilmente per quel preciso scopo.
Le conversazioni della prima parte della mattinata non erano state
che chiacchiere, ma durante l’intervallo Rowan notò che alcune falci
si erano riunite in conciliaboli per concludere accordi, formare
alleanze ed elaborare piani segreti.
Ascoltò una discussione in cui un gruppo si preparava a proporre il
divieto di usare i detonatori come metodo di spigolatura, non per
motivi etici, ma perché le lobby delle armi da fuoco avevano fatto una
generosa donazione a una particolare falce. Un altro gruppo
intendeva far entrare una delle falci più giovani nel comitato di
selezione, per poter influenzare la scelta delle spigolature, in caso di
necessità.
I giochi di potere appartenevano senza dubbio al passato in altri
contesti, ma erano molto in voga all’interno della Compagnia.
Faraday si teneva lontano dai complottisti. Restava un solitario,
che agiva alla luce del sole, come forse una buona metà delle falci.
«Conosciamo i piani dei cospiratori» disse a Rowan e Citra mentre
si faceva servire una ciambella ripiena di marmellata. «Raggiungono i
loro obiettivi solo quando glielo permettiamo.»
Rowan si mise a osservare Maestro Goddard. Molte falci gli si
avvicinarono per parlargli. Altre lo criticavano a bassa voce. Il suo
seguito di giovani falci formava un gruppo multiculturale, nel senso
obsoleto del termine. Mentre non c’era più nessuno che possedesse
un’etnogenetica pura, i membri della sua cricca mostravano tratti
marcatamente riconducibili a un’etnia o a un’altra. La ragazza in
verde aveva una vaga aria panasiatica, l’uomo in giallo mostrava una
forte percentuale africana, quello in arancione acceso era senza
dubbio caucasoide e Maestro Goddard aveva tratti leggermente
ispanici. Era una falce che ricercava la visibilità; anche la scelta
stessa di equilibrio etnico nel suo gruppo era ostentata.
Goddard non si girò mai una volta a guardare, ma Rowan ebbe la
netta sensazione che sapesse che lo stava osservando.

Per il resto della mattinata, furono presentate e animatamente


dibattute delle proposte. Come aveva detto Maestro Faraday, i
cospiratori ottennero soddisfazione soltanto quando la maggioranza
onesta della Compagnia lo permise. Fu approvato il divieto di
impiegare detonatori, non in ragione delle tangenti versate dalla lobby
delle armi, ma perché si giudicò che fosse crudele, barbaro e indegno
della Compagnia far saltare in aria la gente. E la candidatura della
giovane falce al comitato di selezione fu bocciata, perché nessun
membro di quel comitato doveva subire l’influenza di qualcun altro.
«Mi piacerebbe far parte di un comitato di falci, un giorno» disse
Rowan.
Citra lo guardò sorpresa. «Perché parli come Faraday?»
Rowan alzò le spalle. «Come recita il detto: “Quando sei a Roma,
fai come i romani…”.»
«Non siamo a Roma» gli ricordò. «Se lo fossimo, il conclave si
terrebbe in un posto molto più bello.»
I ristoranti del luogo si contendevano l’organizzazione del conclave.
Il buffet del pranzo servito nella sala circolare fu ancora più sontuoso
della colazione e Faraday si colmò il piatto, cosa che non era nelle
sue abitudini.
«Non siate troppo duri con lui» disse Madame Curie a Rowan e
Citra, con voce soave e tagliente al tempo stesso. «Per quelli di noi
che prendono il voto di povertà seriamente, il conclave è l’unica
occasione per concedersi il lusso di bere e mangiare piatti raffinati. È
un modo per ricordarci che siamo umani.»
Citra, che aveva un’idea fissa in testa, ne approfittò per farle la
domanda che più le premeva: «Quando si svolgeranno le prove degli
apprendisti?».
Madame Curie abbozzò un sorriso e si ravviò all’indietro la
capigliatura argentea. «Chi riceverà l’anello oggi ha affrontato il test
ieri sera. Quanto agli altri, saranno ben presto messi alla prova.»
La delusione di Citra fece sogghignare Rowan. La ragazza gli
lanciò un’occhiata di fuoco. «Sta’ zitto e abbuffati.»
Rowan fu ben felice di obbedirle.

Per quanto Citra fosse concentrata sul test da affrontare, non poté
fare a meno di chiedersi che cosa si sarebbe persa del conclave
quando sarebbero stati convocati per la prova. Come Rowan,
considerava il conclave un’esperienza molto istruttiva. Poche persone
al mondo, a parte le falci e i loro apprendisti, avevano avuto
l’opportunità di assistervi. Pochi altri avevano visto solo di sfuggita
quello che avveniva nell’edificio. Era il caso dei venditori che si
mettevano in fila dopo il pranzo, a cui venivano concessi appena
dieci minuti per esporre le virtù di un’arma o di un veleno alla
Compagnia e, soprattutto, al maestro d’armi, che aveva l’ultima
parola sugli acquisti. Assomigliavano a quelle figure orrende che
apparivano negli ologrammi commerciali. “Taglia a pezzi, affetta… ma
aspetti! Non è tutto!”
Un venditore si mise a elencare i vantaggi di un veleno digitale che
trasformava i naniti curativi che scorrevano nelle vene in mostri voraci
che divoravano la vittima dall’interno in meno di un minuto. Utilizzò
proprio il termine “vittima”, a cui le falci reagirono con una smorfia. Fu
congedato all’istante dal maestro d’armi.
La venditrice più popolare offriva un prodotto chiamato “Tocco di
tranquillità”, che dal nome ricordava più una lavanda per l’igiene
femminile che un letale metodo di esecuzione. La donna mostrò una
pillolina, che non era da somministrare al soggetto, bensì alla falce.
«Si prende con un po’ d’acqua e in pochi secondi le vostre dita
secerneranno un veleno transcutaneo. Chiunque tocchiate, nel giro di
un’ora sarà spigolato all’istante, senza dolore.»
Il maestro d’armi ne fu così impressionato che salì sul palco per
prenderne una dose. Poi, per darne dimostrazione, procedette a
spigolare la donna, che realizzò una vendita postuma di cinquanta
fiale.
Il resto del pomeriggio fu riservato ad altri dibattiti e a votazioni.
Maestro Faraday espresse la sua opinione solo una volta, quando fu
proposta l’istituzione di un comitato di immunità.
«Mi pare chiaro che sia doveroso vigilare sulla concessione
dell’immunità, così come il comitato di selezione vigila sulle
spigolature.»
Rowan e Citra furono contenti di constatare che la sua opinione
avesse un certo peso. Diverse falci che avevano inizialmente votato
contro cambiarono idea. Ma prima del voto finale, la Suprema
Roncola dichiarò che il tempo dedicato alle questioni legislative era
esaurito.
«Sarà il primo punto all’ordine del giorno del prossimo conclave»
annunciò. Alcune falci applaudirono, altre si alzarono in piedi e
protestarono contro il rinvio della votazione. Maestro Faraday non
diede voce al proprio disappunto. Fece un respiro profondo.
«Interessante…» si limitò a commentare.
La cosa avrebbe potuto mettere la pulce nell’orecchio a Rowan e a
Citra, se la Suprema Roncola non avesse subito annunciato che il
successivo punto da discutere riguardava gli apprendisti.
Citra avrebbe voluto prendere la mano di Rowan e stringerla con
tutte le sue forze, ma si trattenne.
Rowan seguì l’esempio del suo mentore. Inspirò a fondo, poi
espirò, cercando di scacciare l’ansia. Aveva studiato tutto quello che
c’era da studiare, imparato tutto quello che c’era da imparare.
Avrebbe dato il meglio di sé. Se quel giorno avesse fallito, avrebbe
avuto l’occasione di riscattarsi.
«Buona fortuna» disse a Citra.
«Anche a te. Che Maestro Faraday possa essere fiero di noi!»
Rowan sorrise, e pensò che anche Faraday le stesse sorridendo.
Invece, il loro mentore continuava a tenere gli occhi fissi su
Senocrate.
Per prima cosa, vennero chiamati i candidati al titolo di falce.
Quattro avevano appena completato l’apprendistato. Avevano
superato la prova finale la sera prima, mancava solo la cerimonia di
investitura. Oppure no, a seconda dei casi. Correva voce che un
quinto candidato avesse fallito. Lui, o lei, non era nemmeno stato
invitato al conclave.
Furono portati tre anelli, su cuscini di velluto rosso. I quattro si
guardarono tra loro, prendendo coscienza in quel momento che uno
di loro non sarebbe stato ordinato, anche se aveva superato la prova,
e che sarebbe stato rimandato a casa.
Maestro Faraday si rivolse alla falce che gli era accanto.
«Dall’ultimo conclave, solo una falce si è spigolata, eppure ne
verranno confermate tre oggi… Possibile che in quattro mesi la
popolazione sia cresciuta in modo così serio da giustificare
l’inserimento di altre due falci?»
I tre eletti furono chiamati a uno a uno da Maestro Mandela, che
presiedeva il comitato di concessione degli anelli. Uno dopo l’altro, gli
apprendisti si inginocchiarono davanti a lui e Mandela rivolse qualche
parola a ognuno di loro prima di consegnare gli anelli. Le nuove falci
mostrarono a tutti l’anello che avevano infilato al dito. Il conclave
rispose con l’applauso di rito. Poi ciascuno dei tre dichiarò il suo
patronimico storico, il luminare da cui aveva scelto di prendere il
nome. Il conclave applaudì a ogni annuncio, accogliendo i maestri
Goodall, Schrödinger e Colbert nella Compagnia midmericana delle
falci.
Quando i tre lasciarono il palco, rimase solo il ragazzo dal
temperamento impulsivo di cui Maestro Faraday aveva parlato in
precedenza. Quando gli applausi si spensero, restò lì da solo, davanti
al conclave.
«Ransom Paladini, abbiamo deciso di non assegnarti il titolo di
falce» disse Maestro Mandela. «Ovunque ti conduca la vita, ti
auguriamo tutto il bene. Puoi ritirarti.»
Il ragazzo esitò qualche istante, come se pensasse che fosse tutto
uno scherzo, o forse ancora un ultimo test. Poi strinse le labbra, si
fece rosso in volto e si allontanò in fretta a grandi passi per il
corridoio centrale. Quando spinse le pesanti porte di bronzo, i cardini
cigolarono.
«È orribile» commentò Citra. «Almeno avrebbero potuto
applaudirlo per averci provato.»
«Non c’è lode per i perdenti» disse Faraday.
«Uno di noi uscirà in quel modo» osservò Rowan. Decise che, se
fosse toccato a lui, avrebbe percorso il corridoio con lentezza.
Avrebbe guardato e salutato con un cenno del capo tutte le falci che
poteva. Se fosse stato respinto, avrebbe lasciato il conclave con
dignità.
«Ora si facciano avanti i restanti apprendisti» disse Senocrate.
Rowan e Citra si alzarono, pronti ad affrontare la prova che la
Compagnia aveva riservato loro.
Credo sinceramente che la gente abbia ancora paura della morte, ma cento volte
meno di un tempo. Lo dico perché, se ci si basa sulle quote attuali, le probabilità che
una persona venga spigolata entro i prossimi cento anni sono solo dell’1%. In altre
parole, un bambino che nascesse oggi avrebbe solo il 50% di probabilità di farsi
spigolare da adesso al suo cinquemillesimo anno di vita. Naturalmente, dato che non
si contano più gli anni numericamente, a parte per i bambini e gli adolescenti, non si
conosce più l’età di nessuno, nemmeno la propria. Ormai, si arrotonda più o meno di
uno o due decenni. Mentre scrivo, posso dirvi che ho tra i centosessanta e i
centottanta anni, anche se non mi piace dimostrare la mia età. Come tutti, a volte la
riprogrammo e mi ringiovanisco parecchio. Ma come molte falci, non imposto mai la
mia età biologica prima dei quaranta. Solo le falci che lo sono realmente desiderano
avere un aspetto giovane.
Al momento, il più vecchio essere umano vivente ha circa trecento anni, ma solo
perché siamo ancora vicini all’Era della Mortalità. Mi chiedo come sarà la vita tra un
millennio, quando l’età media sfiorerà i mille anni. Saremo figli del nuovo rinascimento,
abili in tutte le arti e conoscitori di tutte le scienze, perché ci è stato concesso il tempo
di studiarle a fondo? Oppure la noia e la quotidiana monotonia ci consumeranno più di
oggi, lasciandoci ancor meno motivazioni a condurre una vita infinita? Spero che si
avveri il primo caso, ma sospetto che prevarrà il secondo.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


14
Una piccola clausola

Mentre percorreva il corridoio centrale, Rowan le pestò un piede.


Citra brontolò un poco, però non disse nulla.
Questo perché era troppo occupata a ripassare mentalmente armi
e veleni. La goffaggine di Rowan era l’ultimo dei suoi pensieri.
Era convinta che l’avrebbero condotta in una stanza all’esterno
dell’edificio, un posto tranquillo dove affrontare la prova, ma gli
apprendisti che avevano già assistito a un conclave si stavano
dirigendo verso lo spazio aperto ai piedi del palco. Si disposero
senza un ordine predefinito, rivolti verso il conclave, come un corpo di
ballo. Citra si mise accanto a Rowan.
«Che succede?» sussurrò Citra.
«Non lo so.»
Erano otto in totale. Alcuni erano immobili, con un’espressione
severa sul viso, altri cercavano di nascondere la paura. Citra non
sapeva quale fosse l’immagine che trasmetteva, e fu irritata dall’aria
disinvolta di Rowan, come se stesse aspettando l’autobus.
«Oggi, a esaminarvi sarà la Veneranda Madame Curie» annunciò
Senocrate.
Il silenzio scese sulla sala quando Madame Curie, la Signora della
Morte, si fece avanti. Passò in rassegna la fila di apprendisti, avanti e
indietro, squadrandoli. «A ciascuno di voi verrà posta una domanda.
Potete dare una sola risposta» disse, infine.
Una domanda? Che tipo di prova era se si limitava a una sola
domanda? Come si poteva valutare la preparazione dei candidati in
quel modo? Il cuore di Citra cominciò a battere così forte che pensò
stesse per scoppiarle nel petto. Il giorno dopo, si sarebbe svegliata
nel centro di rianimazione e sarebbe stata derisa da tutti.
Madame Curie cominciò da sinistra. Citra sarebbe stata la quarta a
essere interrogata.
«Jacory Zimmerman» disse Madame Curie al ragazzo
allampanato, il primo della fila. «Una donna si getta sulla sua lama,
offrendosi in sacrificio al posto del figlio, e muore. Che cosa fa?»
Il ragazzo esitò solo un istante, poi rispose: «Opponendosi alla
spigolatura, ha violato il quarto comandamento. Pertanto, sono tenuto
a spigolare il resto della famiglia».
Madame Curie lo guardò in silenzio, poi decretò: «Risposta non
accettabile!».
«Ma… ma… si è opposta! La regola dice che…»
«La regola si applica a chi si oppone alla propria spigolatura. Se
fosse stata scelta lei, senza dubbio varrebbe il quarto comandamento
ma, nell’incertezza, si dovrebbe sempre scegliere la via della
compassione. In questo caso, il suo compito sarebbe di spigolare il
figlio e fare in modo di portare la donna in un centro di rianimazione,
concedendo un anno di immunità a lei e a tutta la sua famiglia.» Poi
fece un cenno verso il pubblico. «Vada. Il suo mentore sceglierà la
punizione per lei.»
Citra deglutì a fatica. Il fatto di aver sbagliato la risposta non era già
una punizione? Che tipo di castigo poteva riservare una falce al suo
disgraziato apprendista?
Madame Curie si mise davanti a una ragazza robusta, con zigomi
sporgenti e l’espressione di chi può resistere a un uragano.
«Claudette Catalino, ha commesso un errore nella composizione
del suo veleno…»
«Impossibile» ribatté Claudette.
«La pregherei di non interrompermi.»
«Ma la sua premessa è falsa, Veneranda Madame Curie. Conosco
bene i miei veleni, non potrei mai commettere un errore. Mai.»
«Bene» concluse Madame Curie, con evidente ironia. «Il suo
mentore deve sentirsi molto fiero di avere la prima allieva perfetta
nella storia dell’umanità.»
La frase provocò un’ondata di risolini in tutta la sala.
«D’accordo» continuò Madame Curie. «Diciamo allora che
qualcuno, irritato dalla sua arroganza, ha sabotato il suo veleno. Il
suo soggetto, un uomo che non le ha opposto resistenza, comincia
ad avere le convulsioni, ed è evidente che farà una fine lenta e
talmente dolorosa che i suoi naniti non sapranno lenire. Che cosa
fa?»
Senza esitare, Claudette rispose: «Estraggo la pistola che porto
sempre con me per le emergenze e metto fine alle sofferenze del
soggetto con una pallottola ben piazzata. Ma, prima, ordinerei ai
membri della famiglia di lasciare la stanza, risparmiando loro il
trauma di dover assistere a una spigolatura con arma da fuoco.»
Madame Curie alzò le sopracciglia, valutando la risposta.
«Accettabile. Ed è una buona cosa pensare alla famiglia, anche se
ipoteticamente.» Poi sorrise. «Sono delusa per non essere riuscita a
dimostrare che lei è imperfetta.»
Fu quindi il turno di un ragazzo che aveva lo sguardo fisso su un
punto indefinito della parete davanti a sé, nel tentativo di calmarsi.
«Noah Zbarsky.»
«Sì, eccellenza» rispose con voce tremula. Citra si chiese come
avrebbe reagito Madame Curie al nervosismo dell’apprendista. Che
genere di domanda gli avrebbe fatto?
«Mi elenchi cinque specie capaci di generare neurotossine tanto
potenti da poter essere impiegate su freccette avvelenate.»
Il ragazzo, che aveva trattenuto il fiato, ricominciò a respirare,
sollevato.
«Be’, sicuramente, la Phyllobates aurotaenia. Meglio nota come la
rana dal dardo velenoso. Il polpo dagli anelli blu, la lumaca dal cono
marmoreo, il serpente taipan e… ah… lo scorpione giallo.»
«Ottimo» si complimentò Madame Curie. «Ne conosce altri?»
«Sì. Ma lei ha detto una sola domanda.»
«E se avessi cambiato idea e ne volessi sei invece di cinque?»
Noah inspirò a fondo, ma non trattenne il fiato. «In quel caso, le
risponderei nel modo più rispettoso possibile che non sta rispettando
la parola data, e le falci sono tenute a farlo.»
Madame Curie sorrise. «Risposta accettabile! Molto bene!» E
passò a Citra.
«Citra Terranova.»
Aveva capito che la falce conosceva il nome di tutti gli apprendisti,
eppure fu uno shock per Citra sentirle pronunciare il suo.
«Sì, Veneranda Madame Curie.»
La donna le si avvicinò, fissandola negli occhi. «Qual è la cosa
peggiore che ha mai fatto in vita sua?»
Citra era preparata a quasi tutte le domande. Ma non a quella.
«Mi scusi?»
«È una semplice domanda, cara. Qual è la cosa peggiore che ha
mai fatto in vita sua?»
Citra strinse i denti. Non aveva più saliva in bocca. Sapeva la
risposta. Non doveva nemmeno pensarci.
«Posso avere qualche secondo?»
«Si prenda tutto il tempo.»
Dalla sala, intervenne una falce. «Ha fatto così tante cose orribili
che non riesce a sceglierne una?»
Risate da ogni parte. In quel momento, sentì di odiarli tutti.
Citra sostenne lo sguardo di Madame Curie, di quegli occhi grigi
che vedevano tutto. Sapeva che non poteva evitare di rispondere.
«Quando avevo otto anni, ho spinto una bambina giù dalle scale.
Si è rotta il collo e ha dovuto passare tre giorni in un centro di
rianimazione. Non le ho mai confessato di essere stata io. È stata la
cosa peggiore che abbia mai fatto in vita mia.»
Madame Curie annuì e abbozzò un sorriso comprensivo. «Sta
mentendo, cara.» Poi si girò verso il pubblico, scuotendo la testa con
aria triste. «Risposta non accettabile.» Tornò a rivolgersi a Citra.
«Vada. Il suo mentore sceglierà la punizione per lei.»
Non fece storie, non insistette dicendo che era la pura verità.
Perché non lo era.
Non aveva idea di come facesse Madame Curie a saperlo.
Citra tornò al suo posto, incapace di guardare Maestro Faraday,
che non le disse nulla.
Madame Curie passò a Rowan, il quale aveva un’aria così
compiaciuta che Citra moriva dalla voglia di dargli un pugno sul
muso.
«Rowan Damisch. Di che cosa ha paura? Che cosa teme più di
ogni altra cosa?»
Rowan non esitò a rispondere. Alzò le spalle e disse: «Non temo
nulla».
Citra non era sicura di aver sentito bene. Aveva detto che non
temeva nulla? Gli aveva dato di volta il cervello?
«Forse, dovrebbe prendersi un po’ di tempo prima di rispondere»
suggerì Madame Curie, ma Rowan scosse la testa.
«Non ho bisogno di più tempo. Questa è la mia risposta. Non la
cambio.»
Silenzio assoluto in sala. Citra si ritrovò a scuotere la testa senza
volerlo. E poi capì… lo stava facendo per lei. Perché non dovesse
affrontare da sola la punizione che l’aspettava. Perché non dovesse
sentirsi inferiore a lui. Aveva sempre voglia di prenderlo a pugni, ma
ora per un motivo totalmente diverso.
«Allora» riprese Madame Curie. «Oggi, abbiamo un’apprendista
perfetta e un apprendista intrepido.» Sospirò. «Tuttavia, temo che
non ci sia nessuno tanto temerario da non aver paura di nulla.
Pertanto, la sua risposta, deve riconoscerlo, non è accettabile.»
Poi rimase in attesa, forse pensando che Rowan volesse cambiare
la risposta, ma non lo fece. Aspettò solo che Madame Curie lo
invitasse ad allontanarsi. «Vada. Il suo mentore sceglierà la punizione
per lei.»
Rowan tornò al suo posto accanto a Citra, con fare disinvolto. «Sei
un imbecille!» gli bisbigliò.
Lui alzò le spalle come aveva fatto al cospetto di Madame Curie.
«Forse.»
«Credi che non sappia perché ti sei comportato così?»
«Forse per fare una figura migliore al prossimo conclave. Forse, se
oggi avessi dato un’ottima risposta, la domanda successiva sarebbe
stata più difficile.»
Citra sapeva che mentiva; la sua spiegazione mancava di logica.
Non era il modo di pensare di Rowan.
Con voce bassa e misurata, ma con un’intensità agghiacciante,
Maestro Faraday parlò: «Non avresti dovuto farlo».
«Accetterò qualsiasi punizione riterrà giusta» disse Rowan.
«Non si tratta della punizione» ribatté la falce.
Nel frattempo, Madame Curie aveva interrogato gli altri apprendisti.
Due restarono sul palco; il terzo fu rimandato al suo posto.
«Forse, Madame Curie riterrà che abbia fatto un gesto nobile»
ipotizzò Rowan.
«Sì, e anche tutti gli altri» disse Faraday. «Le motivazioni possono
facilmente trasformarsi in armi.»
«Il che dimostra che sei un imbecille» disse Citra.
Rowan rispose con un sorrisetto ebete.
Citra pensava di aver avuto l’ultima parola e che non ne avrebbero
più riparlato finché non fossero tornati a casa, dove, senza dubbio,
Maestro Faraday avrebbe inflitto a ciascuno di loro una punizione
adeguata ai loro errori. Ma si sbagliava.
Quando il supplizio degli apprendisti ebbe fine, l’attenzione delle
falci cominciò a venir meno. Un mormorio costante risuonava nella
sala; erano quasi le sette di sera e le falci discutevano della cena. I
punti ancora da affrontare non interessavano a nessuno. Questioni di
manutenzione degli edifici, se le falci dovessero o meno annunciare
la riprogrammazione della loro età, cosicché non fosse un trauma
vederli ringiovaniti di trent’anni al successivo conclave.
Fu nel momento in cui la seduta si avviava alla conclusione che
una falce si alzò in piedi e si rivolse a Senocrate ad alta voce. Era la
falce che portava una veste verde tempestata di smeraldi. E
apparteneva alla cerchia di Maestro Goddard.
«Mi perdoni, eccellenza» disse, anche se in realtà parlava all’intera
assemblea, non solo alla Suprema Roncola. «Questi nuovi
apprendisti mi inquietano, in particolare quelli del Venerando Maestro
Faraday.»
Citra e Rowan alzarono la testa. Faraday restò di pietra. Mantenne
gli occhi bassi, come se stesse meditando. O, forse, si stava
preparando a ciò che sarebbe accaduto.
«Per quanto io ne sappia, non è mai capitato che una falce
prendesse due apprendisti e li mettesse in competizione per il
conseguimento dell’anello» proseguì.
Senocrate spostò lo sguardo sul parlamentare, che era competente
in quelle questioni. «Non esiste legge che lo vieti, Madame Rand»
replicò quest’ultimo.
«Sì» proseguì lei. «Ma chiaramente, la competizione si è
trasformata in spirito di squadra. Come si può capire chi è il migliore
se continuano ad aiutarsi tra loro?»
«Prendo nota della sua rimostranza» rispose Senocrate, ma la
falce non aveva ancora finito il suo intervento.
«Propongo di aggiungere una piccola clausola per garantire che la
competizione resti tale.»
Maestro Faraday balzò in piedi. «Obiezione!» gridò. «Questo
conclave non può mettere bocca su come preparo i miei apprendisti!
Spetta a me, e a me soltanto, decidere come istruirli, addestrarli e
sanzionarli!»
Madame Rand alzò le mani in un gesto di finta innocenza. «Sto
solo cercando di assicurarmi che la sua scelta sia la più giusta e la
più onesta possibile.»
«Pensa di poter incantare questo conclave con la sua vanità e i
suoi ninnoli? Non siamo così stupidi, non al punto da farci irretire da
tutto quello che luccica.»
«Qual è la sua proposta, Madame Rand?» chiese Senocrate.
«Obiezione!» gridò Faraday.
«Non può fare obiezione a qualcosa che non ha ancora detto!»
Faraday si morse le labbra e attese.
Citra osservava la scena con un certo distacco, come se stesse
assistendo a un torneo di tennis e fossero al match point. Però, non
era una semplice spettatrice: lei era la palla, proprio come Rowan.
«Propongo che nel momento in cui verrà designato» disse
Madame Rand, con la scaltrezza di uno scorpione giallo, «il vincitore
provveda, come suo primo atto, a spigolare il perdente.»
Grida di sorpresa e borbottii si alzarono nella sala. E anche risa e
grida di compiacimento. Citra non credeva alle sue orecchie. Sperava
che la donna in verde non dicesse sul serio. Che quello non fosse
altro che un ulteriore test.
Faraday era talmente furibondo che di primo acchito non rispose.
Non riusciva nemmeno a trovare le parole per esprimere il suo
disappunto. Infine, la sua rabbia esplose, come una forza della
natura, come uno tsunami che si abbatte sul litorale. «Questo è un
insulto a tutto ciò che siamo! A tutto ciò che facciamo! Spigolare è la
nostra missione, ma se fosse per lei, per Maestro Goddard e tutti i
suoi seguaci, si trasformerebbe in uno sport sanguinoso!»
«Che sciocchezza» replicò Madame Rand. «La mia proposta è del
tutto sensata. Il miglior candidato ne uscirà vincitore, motivato dalla
paura di farsi spigolare.»
Invece di tacciare di ridicolo quell’idea, Senocrate si rivolse al
parlamentare, sotto lo sguardo inorridito di Citra.
«Esiste una regola che lo vieti?»
Il parlamentare rifletté e infine disse: «Dato che non ci sono
precedenti, non esistono regole che disciplinino il doppio
apprendistato. La proposta di Madame Rand è compatibile con le
nostre linee guida.»
«Linee guida?» gridò Maestro Faraday. «Linee guida? La morale
dovrebbe essere l’unica linea guida della nostra Compagnia! Il solo
fatto di prendere in considerazione la proposta è da barbari!»
«Oh, per favore» intervenne Senocrate, con un gesto esagerato
della mano. «Ci risparmi questo melodramma. Dopotutto, è la
conseguenza della sua decisione. Perché avere due apprendisti
quando ne sarebbe bastato uno?»
L’orologio cominciò a battere le sette.
«Esigo un ampio dibattito e il voto della proposta!» dichiarò
Maestro Faraday, ma l’orologio aveva già battuto tre colpi e
Senocrate lo ignorò.
«Com’è mia prerogativa in qualità di Suprema Roncola, stabilisco
che, in merito alla questione di Rowan Damisch e Citra Terranova, chi
dei due risulterà vincitore dovrà spigolare l’altro al momento del
proprio insediamento.»
Poi, con un colpo di martello sancì la sua decisione, aggiornando il
conclave e decretando il loro destino.
Ci sono momenti in cui vorrei comunicare con il Thunderhead. Suppongo che tutti
desideriamo sempre quello che non possiamo avere. Altri possono rivolgersi al
Thunderhead per chiedergli consiglio, perché li aiuti a risolvere i loro problemi. Alcuni
ci si affidano come se fosse un confidente, perché è conosciuto come un ascoltatore
compassionevole, imparziale e discreto. Non c’è nessuno al mondo che ascolti meglio
del Thunderhead.
Ma non per le falci. Per noi, il Thunderhead è eternamente silenzioso.
Certo, abbiamo accesso illimitato al suo patrimonio di conoscenze. La Compagnia
utilizza il Thunderhead per innumerevoli compiti, ma per noi, è solo una banca dati.
Uno strumento, nulla di più. Come entità, come mente, il Thunderhead per noi non
esiste.
Eppure esiste, e lo sappiamo.
Il fatto di essere tagliati fuori da questa coscienza collettiva, detentrice della
saggezza dell’umanità, è solo una delle cose che ci distinguono dagli altri.
Il Thunderhead deve vederci. Deve sapere dei battibecchi meschini e della
corruzione crescente in seno alla Compagnia, anche se si è imposto la regola di non
interferire. Ci disprezza, ma ci tollera perché deve? O semplicemente, preferisce non
pensare a noi? E che cos’è peggio, essere disprezzati o essere ignorati?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


15
Lo spazio tra loro

La notte era cupa e la pioggia scorreva contro i vetri del treno


distorcendo le luci esterne, finché non sparirono del tutto. Rowan
sapeva che ora stavano attraversando la campagna, ma l’oscurità
era così totale che avrebbero anche potuto viaggiare nello spazio
cosmico.
«Non lo farò» sbottò infine Citra, rompendo il silenzio che li aveva
inghiottiti da quando avevano lasciato il conclave. «Non possono
obbligarmi a farlo.»
Faraday non disse una parola, non la guardò nemmeno. Rispose
Rowan al suo posto. «Sì che possono.»
A quel punto, Faraday alzò gli occhi su di loro. «Rowan ha ragione.
Troveranno il pulsante da premere per farti ballare, e tu ballerai, per
quanto sia abominevole la melodia.»
Citra tirò un calcio alla poltrona vuota davanti a sé. «Come
possono essere così orribili? E perché ci odiano fino a questo
punto?»
«Non sono tutti uguali» disse Rowan, «e non credo che ce
l’abbiano davvero con noi…» Faraday era rispettato nella Compagnia
e, anche se al conclave non si era apertamente opposto a Goddard, i
suoi sentimenti verso quell’uomo erano chiari a tutti. Goddard doveva
sentirsi minacciato da Faraday. Prendendosela con Rowan e Citra,
era Faraday che attaccava; era un avvertimento.
«E se siamo respinti tutti e due?» suggerì Citra. «Se siamo dei
pessimi apprendisti, allora non possono scegliere nessuno di noi
due.»
«Eppure, lo faranno» disse Faraday, con un tono autorevole e
inappellabile che non lasciava spazio a dubbi. «Per quanto sia scarsa
la vostra prestazione, sceglieranno comunque uno di voi solo per il
gusto dello spettacolo.» Fece una smorfia di disgusto. «E per creare
un precedente.»
«Scommetto che Goddard ha abbastanza amici per fare in modo
che accada» disse Rowan. «Temo che anche la Suprema Roncola
sia dalla sua parte.»
«Certo» confermò Faraday, con un sospiro stanco. «Non ci sono
mai state tante macchinazioni in seno alla Compagnia come
adesso.»
Rowan chiuse gli occhi, desiderando di poter chiudere anche la
mente e di non pensare più. “Tra otto mesi, Citra mi ucciderà” si
disse. “O io ucciderò lei.” E chiamarla spigolatura non ne cambiava la
sostanza. Ci teneva a Citra, ma fino a che punto? Anche a costo di
rinunciare alla propria vita e farla vincere? Citra di sicuro non si
sarebbe arresa, non gli avrebbe lasciato l’anello.
Quando riaprì gli occhi, vide che lo stava fissando. Lei non distolse
lo sguardo.
«Rowan, qualsiasi cosa accada, voglio che tu sappia…»
«No» la interruppe lui. «Non dire nulla.»
E per il resto del viaggio rimasero in silenzio.

Una volta a casa, Citra, che aveva il sonno molto leggero, si agitò nel
letto per tutta la notte. Le immagini del conclave riempirono i suoi
sogni a intermittenza, impedendole di chiudere occhio. Rivide i volti
delle falci: i saggi, i complottisti, gli empatici e gli indifferenti. Un
compito così delicato come sfrondare la razza umana non doveva
essere lasciato in balia di capricci personali. Le falci erano tenute a
stare al di sopra delle meschinerie, così come si ponevano al di sopra
della legge. Faraday era certamente dalla parte giusta. Se fosse
diventata una falce, avrebbe seguito il suo esempio. E se non lo
fosse diventata, poco importava, perché sarebbe stata morta.
Forse, c’era una specie di perversa saggezza nella decisione di
obbligare uno dei due a spigolare l’altro. Chi avrebbe vinto avrebbe
iniziato la vita da falce con un indicibile dolore, senza riuscire mai a
dimenticare il prezzo dell’anello.
L’alba spuntò, con la solita monotonia. Era un giorno come tanti
altri. La pioggia era cessata e il sole faceva capolino tra le nubi, di
tanto in tanto. Toccava a Rowan preparare la colazione. Uova e rosti
di patate. Non cuoceva mai le patate abbastanza. Faraday mangiava
sempre tutto, senza lamentarsi della qualità dei pasti che gli
servivano. E non tollerava nemmeno che i suoi apprendisti
storcessero il naso. La punizione per aver preparato qualcosa di
immangiabile era dover mangiare quello che si era cucinato.
Citra non aveva appetito, ma si sforzò di mangiare. Anche se il
mondo intero si era capovolto. La colazione continuava a restare
colazione. Come poteva essere?
Quando Faraday ruppe il silenzio, fu come se avessero lanciato un
mattone contro la finestra. «Oggi, andrò da solo. Voi continuerete a
studiare.»
«Sì, Maestro Faraday» disse Citra, e Rowan le fece eco, mezzo
secondo dopo.
«Per voi, non è cambiato nulla.»
Citra abbassò lo sguardo sulla tazza di cereali. Fu Rowan che
ebbe il coraggio di rimarcare l’ovvio.
«È cambiato tutto, signore.»
E allora Faraday disse una frase enigmatica che capirono solo
molto più tardi.
«Forse tutto cambierà di nuovo.»
E con quelle parole, se ne andò.

Lo spazio tra loro si trasformò ben presto in un campo minato. Una


pericolosa terra di nessuno che non prometteva nulla se non
tormento. Era già difficile colmare quello spazio con Faraday
presente, ma, in sua assenza, il disagio aumentava, privandoli di un
intermediario.
Rowan rimase in camera sua, preferendo studiare lì, invece che
nella sala d’armi, che gli sembrava dolorosamente vuota senza Citra.
Lasciò comunque la porta socchiusa, nella vana speranza che lei
volesse fare un passo verso di lui. La sentì uscire, forse per andare a
correre. Stette fuori a lungo. Il suo modo di gestire il malessere della
nuova situazione che si era creata tra loro era allontanarsi.
Quando Citra tornò, lui capì che non ci sarebbe mai stata pace tra
loro, o almeno dentro di sé, se non avesse fatto qualcosa per
rompere il ghiaccio.
Rowan rimase davanti alla porta chiusa per un minuto buono prima
di trovare il coraggio di bussare.
«Che vuoi?» chiese lei, la voce attutita dalla porta.
«Posso entrare?»
«Non è chiuso a chiave.»
Abbassò la maniglia e aprì lentamente la porta. Citra era in mezzo
alla stanza con un coltello da caccia in mano, e dava colpi nell’aria. Si
allenava contro dei nemici invisibili.
«Non male come tecnica» disse Rowan. «Hai intenzione di
spigolare un branco di lupi affamati?»
«L’abilità è abilità, che se ne faccia uso o no.» Rinfoderò la lama, la
gettò sulla scrivania e si mise le mani sui fianchi. «Allora, che vuoi?»
«Volevo scusarmi per averti interrotto prima. Sul treno, intendo.»
Citra alzò le spalle. «Stavo dicendo solo sciocchezze. Hai fatto
bene a tagliare corto.»
Il disagio si fece più pesante. Rowan decise di lanciarsi. «Vuoi
parlarne?»
Gli voltò le spalle e si sedette sul letto, prendendo un libro di
anatomia e aprendolo come se volesse mettersi a studiare. Solo che
lo teneva al contrario. «Di cosa vuoi parlare? O ti uccido io, o mi
uccidi tu. In un senso o nell’altro, preferisco non pensarci, finché
posso.» Lanciò un’occhiata al libro, lo rigirò e poi mise fine a quella
farsa, chiudendolo e lanciandolo sul pavimento. «Voglio solo essere
lasciata in pace, okay?»
Rowan si sedette sul bordo del letto. E, visto che lei non lo
cacciava, le si avvicinò un po’ di più. Citra lo osservava, senza dire
una parola.
Avrebbe voluto allungare un braccio. Forse, sfiorarle la guancia,
ma il gesto gli ricordò la venditrice che era stata spigolata con un
tocco. Che veleno perverso, era. Rowan avrebbe voluto baciare
Citra. Inutile negarlo ancora. Era da settimane che reprimeva quel
desiderio, perché sapeva che Faraday non l’avrebbe tollerato. Ma
erano soli, e la tempesta in cui erano stati trascinati aveva cambiato
le carte in tavola.
Con sua grande sorpresa, Citra si lanciò all’improvviso verso di lui
e lo baciò, prendendolo totalmente alla sprovvista. «Ecco. L’abbiamo
fatto. Ora, non ci dobbiamo più pensare. Puoi andartene.»
«E se io non volessi?»
Citra esitò. Abbastanza per fargli comprendere che non era del
tutto contraria all’idea. Ma alla fine disse: «A che servirebbe? Che
vantaggio ne avremmo, in fondo?». Si allontanò da lui e si strinse le
ginocchia al petto. «Non sono innamorata di te, Rowan. E preferisco
che le cose non cambino.»
Lui si alzò e raggiunse la porta. Poi si voltò di nuovo verso di lei.
«Non c’è problema, Citra. Nemmeno io sono innamorato di te.»
Non sono un uomo che va facilmente in collera, ma come osano le falci della vecchia
guardia dirmi come devo comportarmi? Che si diano la morte a vicenda, finché non ne
resti viva nemmeno una, e che si finisca una volta per tutte con quel loro tono
moralista e quei loro modi pieni di acrimonia. Sono un uomo che sceglie di spigolare
con fierezza, non con vergogna. Scelgo di abbracciare la vita, anche se la consacro
alla morte. Non giudicatemi male: noi falci siamo al di sopra della legge, perché ce lo
meritiamo. Non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui le falci saranno scelte non in
funzione di una specie di morale esoterica, ma perché amano togliere la vita.
Dopotutto, questo è un mondo perfetto, e in un mondo perfetto, non abbiamo tutti il
diritto di amare ciò che facciamo?

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Goddard


16
L’addetto alla piscina

C’era una falce alla porta della residenza. In realtà erano in quattro,
anche se le altre tre erano un passo indietro all’uomo vestito di blu
reale, che doveva essere il capo.
Il dirigente era spaventato, terrorizzato più che altro, ma non aveva
certo raggiunto il successo professionale facendo trasparire le proprie
emozioni. Aveva un’intelligenza vivace e il volto impassibile di un
giocatore di poker. Non si sarebbe lasciato intimidire dalla morte,
anche se indossava una veste tempestata di diamanti.
«Mi sorprende che siate riusciti a superare il cancello senza farvi
annunciare dai miei guardiani» disse il dirigente, con aria disinvolta.
«L’avrebbero senz’altro fatto, se non li avessimo spigolati» disse
una delle falci, una donna vestita di verde dai tratti panasiatici.
Il dirigente non si lasciò intimidire da quella notizia. «Ah, allora
volete gli indirizzi delle famiglie per avvertirle?»
«Non esattamente» disse il capo delle falci. «Possiamo entrare?»
Sapendo di non potersi rifiutare, il dirigente si fece da parte. La
falce con la veste tempestata di diamanti si incamminò, seguita
dall’arcobaleno dei suoi subordinati. Percorsero il corridoio, lanciando
occhiate all’opulenza della dimora.
«Sono il Venerando Maestro Goddard. Questi sono i miei giovani
accoliti, Volta, Chomsky e Rand.»
«Le vostre vesti sono elegantissime» commentò il dirigente,
riuscendo ancora a contenere la paura.
«Grazie» rispose Maestro Goddard. «Noto che anche lei è un
uomo di buon gusto. I miei complimenti all’arredatore.»
«All’arredatrice: è mia moglie» disse, maledicendosi subito dopo
per averla portata all’attenzione delle falci.
Maestro Volta, l’uomo dai tratti africani e vestito di giallo, si aggirò
per l’ampio ingresso, sbirciando lungo i corridoi a volta che
conducevano alle altre stanze della residenza. «Eccellente feng shui.
Il flusso di energia è molto importante in una casa così grande.»
«Immagino che ci sia una piscina» si informò Maestro Chomsky.
Indossava una veste arancione costellata di rubini ed era biondo,
pallido e sgraziato.
Il dirigente si chiese se si stavano divertendo a prolungare
quell’incontro. Più faceva il loro gioco, e più acquistavano potere su di
lui. Quindi tagliò corto con i convenevoli e andò dritto al punto.
«Posso chiedervi il motivo della vostra visita?»
Maestro Goddard gli lanciò un’occhiata, ma non rispose alla
domanda. Fece un cenno ai suoi, e due dei tre si mossero. L’uomo
vestito di giallo salì la grande scala a chiocciola, la donna in verde
andò a esplorare il resto del primo piano. Il biondo rimase accanto a
Goddard. Era il più robusto tra tutti, e forse la guardia del corpo del
capo, come se qualcuno fosse così stupido da attaccare una falce.
Il dirigente si chiese dove fossero i suoi figli in quel momento. In
giardino con la tata? Al piano di sopra? Non ne era sicuro. L’ultima
cosa che voleva era che le falci si aggirassero liberamente per la
casa, lontano dal suo sguardo.
«Un momento!» esclamò. «Qualunque sia il motivo della vostra
visita, sono sicuro che possiamo trovare un punto di incontro. Sapete
chi sono, no?»
Maestro Goddard si mise a osservare un quadro appeso nell’atrio,
invece di guardare lui. «Un uomo tanto ricco da possedere un
Cézanne.»
Possibile che non lo sapessero? Che la loro presenza lì fosse
casuale? Le falci erano tenute a scegliere a caso, ma così a caso? Si
rese conto che la corazza che conteneva la sua paura si stava
incrinando.
«Sono Maxim Easley, di sicuro il mio nome vi dice qualcosa.»
La falce lo guardò in viso senza scomporsi. Fu l’uomo vestito di
arancione a rispondere: «La persona a capo della Regenesis?».
Goddard parve finalmente riconoscerlo. «Ah, sì. La sua azienda è
la numero due nell’industria del ringiovanimento.»
«Presto, sarà la numero uno» si vantò d’istinto Easley. «Una volta
che avremo lanciato la tecnologia che consente la regressione
cellulare sotto il limite dei ventun anni.»
«Ho degli amici che hanno fatto uso dei vostri servizi. Io stesso
devo ancora sottopormi al ringiovanimento.»
«Potrebbe essere il primo a utilizzare ufficialmente la nuova
procedura.»
Goddard scoppiò a ridere e si girò verso la sua guardia del corpo.
«Riesci a immaginarmi da adolescente?»
«Per nulla.»
Più si divertivano, e più Easley si preoccupava. Non aveva più
senso nascondere la sua disperazione. «Ci dovrà pur essere
qualcosa… qualcosa di valore che possa offrirle…»
Infine, Goddard scoprì le carte.
«Voglio la sua residenza.»
Easley stava per dire: “Scusi?”, ma si trattenne, perché la falce era
stata esplicita. Era una richiesta audace. Ma Maxim Easley era un
negoziatore nato.
«Ho un garage con una ventina di veicoli a motore risalenti
all’epoca mortale. Tutti di valore inestimabile. Può avere quello che
vuole. Può averli tutti.»
La falce fece un passo verso di lui e il dirigente si trovò
all’improvviso un coltello premuto sul collo, a destra del pomo
d’Adamo. Non aveva nemmeno visto mentre lo estraeva. Fu così
rapido che la lama apparve come per magia sulla sua giugulare.
«Sarò molto diretto» disse Goddard, con calma. «Non siamo venuti
qui per mercanteggiare. Siamo falci, il che significa che per legge
possiamo prendere quello che vogliamo. Se vogliamo porre fine a
una vita, lo facciamo. È semplice. Lei qui non ha nessun potere.
Sono stato chiaro?»
Easley annuì, e il movimento gli provocò un taglio superficiale sul
collo. Soddisfatto, Goddard allontanò il coltello.
«Una proprietà di queste dimensioni richiederà un nutrito personale
di servizio. Domestici, giardinieri, forse anche stallieri. Quante
persone ha ai suoi ordini?»
Cercò di rispondere, ma dalla bocca non uscì nemmeno un suono.
Si schiarì la voce e riprovò. «Dodici. Dodici persone a tempo pieno.»
Poi la donna in verde, Madame Rand, uscì dalla cucina in
compagnia di un uomo che la moglie aveva assunto da poco. Aveva
circa vent’anni. Easley non si ricordava il nome.
«E questo chi sarebbe?» chiese Goddard.
«L’addetto alla piscina.»
«L’addetto alla piscina» ripeté Madame Rand.
Goddard fece un cenno con il capo alla falce piena di muscoli in
arancione, che si avvicinò al ragazzo e gli sfiorò una guancia. Il
poveretto crollò a terra, sbattendo la testa contro il marmo. Gli occhi
rimasero aperti, privi di vita. Era stato spigolato.
«Funziona!» esclamò Maestro Chomsky, guardandosi la mano. «Mi
è costato caro, ma funziona.»
«Bene, allora» riprese Goddard. «Anche se abbiamo il diritto di
prenderci tutto quello che vogliamo, sono un uomo giusto. In cambio
di questa graziosa residenza, vi offro, a lei, alla sua famiglia e al suo
personale di servizio ancora in vita, l’immunità per ogni singolo anno
che decideremo di restare.»
Il sollievo di Easley fu intenso e immediato. “Che strano” pensò.
“Essere derubato della casa, eppure sentirsi sollevato.”
«In ginocchio» ordinò, e il dirigente obbedì. «Lo baci.»
Easley non ebbe un secondo di esitazione. Premette forte le labbra
sull’anello.
«Ora, lei andrà in ufficio e rassegnerà le dimissioni, con effetto
immediato.»
Questa volta, Easley non si trattenne. «Scusi?»
«Qualcun altro potrà prendere il suo incarico. Sono sicuro che ci
sono altri che non vedono l’ora di cogliere questa opportunità.»
Easley si alzò, con le gambe tremanti. «Ma… ma perché? Non può
solo mandarci via, a me e alla mia famiglia? Non le daremo alcun
disturbo. Porteremo via solo i vestiti che indossiamo. Non ci vedrà
mai più.»
«Ahimè, mi rincresce, ma non posso farla andare via» disse
Maestro Goddard. «Ho bisogno di un nuovo addetto alla piscina.»
Ritengo che sia saggio non permettere alle falci di spigolarsi a vicenda. È chiaro che
questa regola è stata stabilita per impedire a chiunque di prendere il potere; quando si
tratta di potere, c’è sempre qualcuno che cerca di accaparrarselo.
Ritengo anche che sia saggio permetterci di spigolarci da noi. Confesso di averci
pensato, a volte. Quando il peso della responsabilità diventava insopportabile,
liberarmi del giogo del mondo sembrava l’alternativa migliore. Ma un pensiero mi ha
sempre impedito di commettere quell’atto finale.
Se non io, chi?
La falce che mi sostituirà sarà ugualmente compassionevole e giusta?
Posso pure accettare un mondo senza di me… ma non posso sopportare l’idea che
altre falci spigolino in mia assenza.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


17
Il settimo comandamento

Poco dopo mezzanotte, Citra e Rowan furono svegliati da colpi


violenti alla porta. Uscirono di corsa dalle loro stanze e si
incrociarono nel corridoio. D’istinto, volsero lo sguardo verso la porta
chiusa di Maestro Faraday. Citra abbassò la maniglia e aprì uno
spiraglio. La camera era vuota, il letto intatto.
Era insolito che restasse fuori fino a tardi, anche se era già
accaduto. Non sapevano che cosa facesse in quelle notti, e non
avevano osato porre troppe domande. Avevano imparato a lasciare
da parte la curiosità: c’erano molte cose nella vita di una falce che
era meglio non conoscere.
I colpi continuarono. Non erano colpi discreti, dati con le nocche,
ma scariche martellanti di pugni.
«Quindi?» disse Rowan. «Avrà dimenticato le chiavi, no?»
Era la spiegazione più razionale. E la spiegazione più razionale
non era spesso quella corretta? Si avvicinarono alla porta d’ingresso,
preparandosi a ricevere una strigliata.
“Non mi avete sentito bussare?” avrebbe gridato. “Per quanto ne
so, la sordità non esiste più ormai da duecento anni.”
Ma quando aprirono, non si trovarono di fronte la falce, bensì due
ufficiali. Non ufficiali qualsiasi, ma ufficiali di pace, membri della
Suprema Guardia, con l’emblema della Compagnia delle falci sulle
uniformi.
«Citra Terranova e Rowan Damisch?» chiese una delle guardie.
«Sì?» rispose Rowan. Fece un passo avanti, piazzandosi davanti a
Citra, in un gesto protettivo. Voleva essere galante, ma lei lo trovò
fastidioso.
«Dovete venire con noi.»
«Perché?» chiese Rowan. «Che succede?»
«Non siamo autorizzati a parlarne» intervenne la seconda guardia.
Citra spinse da parte Rowan. «Siamo apprendiste falci. Il che vuol
dire che gli ufficiali della Suprema Guardia sono al nostro servizio, e
non il contrario. Non avete alcun diritto di prelevarci contro la nostra
volontà.» Stava bluffando, ma i due ebbero un attimo di esitazione.
E in quel momento, una voce echeggiò tra le ombre. «Lasciate fare
a me.»
Dall’oscurità emerse una sagoma familiare, totalmente fuori luogo
in quel quartiere di periferia. La veste dorata della Suprema Roncola
non scintillava nella penombra del portico. Appariva spenta, quasi
marrone.
«Vi prego… dovete venire subito con me. Manderò qualcuno a
prendere i vostri effetti personali.»
Rowan era in pigiama e Citra in vestaglia. Entrambi erano restii a
obbedire, ma l’abbigliamento era l’ultima delle loro preoccupazioni.
«Dov’è Maestro Faraday?» chiese Rowan.
La Suprema Roncola inspirò profondamente e sospirò. «Ha
invocato il settimo comandamento» disse Senocrate. «Maestro
Faraday si è dato la morte.»

La Suprema Roncola era un groviglio inestricabile di contraddizioni.


Indossava una veste di ricchi broccati barocchi, ma ai piedi portava
sandali logori. Viveva in una semplice capanna di tronchi, che però
era stata smontata e poi riassemblata sul tetto dell’edificio più alto di
Fulcrum City. L’arredo era un’accozzaglia di mobili male assortiti e di
qualità scadente, eppure il pavimento era rivestito da tappeti degni di
un museo, che dovevano avere un valore inestimabile.
«Non sapete quanto mi dispiace.»
Rowan e Citra erano ancora troppo sconvolti per capire la reale
entità di quello che era accaduto. Si era fatto giorno; i tre avevano
viaggiato a bordo di un ipertreno privato verso Fulcrum City, e ora si
trovavano su una piccola terrazza in legno che affacciava su un prato
ben curato che si interrompeva bruscamente su un precipizio di
centodiciannove piani. La Suprema Roncola non voleva che qualcosa
oscurasse il panorama, e chiunque fosse stato tanto stupido da
cadere nel vuoto si sarebbe meritato il tempo e il denaro sprecati in
un centro di rianimazione.
«È sempre terribile quando una falce ci lascia» disse la Suprema
Roncola, in tono lamentevole. «Soprattutto, nel caso di una falce
tanto rispettata come Maestro Faraday.»
Senocrate aveva un intero stuolo di assistenti e lacchè nel mondo
esterno che lo aiutavano nel disbrigo delle sue faccende, ma lì, in
casa sua, non aveva nemmeno un domestico. Un’altra
contraddizione. Aveva preparato il tè, e ora lo stava servendo, con
latte, ma senza zucchero.
Rowan sorseggiò il suo, invece Citra rifiutò ogni cortesia da
quell’uomo.
«Era un’ottima falce e un buon amico» proseguì Senocrate.
«Sentiremo tutti la sua mancanza.»
Era impossibile capire se Senocrate fosse sincero oppure no.
Come ogni cosa che lo circondava, le sue parole sembravano al
tempo stesso sincere e false.
Li aveva informati sui particolari della scomparsa di Maestro
Faraday durante il viaggio in treno. Alle ventidue e quindici della sera
prima, Faraday si trovava in una stazione regionale. Prima del
passaggio di un treno, si era gettato sui binari. C’erano stati diversi
testimoni, tutti probabilmente rinfrancati dal fatto che la falce avesse
spigolato se stessa e non uno di loro.
Se fosse stata una persona comune, il corpo maciullato sarebbe
stato trasportato di corsa al centro di rianimazione più vicino, ma le
regole erano chiare: la rianimazione era proibita alle falci.
«Non ha senso» disse Citra, incapace di trattenere le lacrime.
«Non era il tipo da fare una cosa del genere. Prendeva molto
seriamente il suo dovere di falce e di mentore. Non posso credere
che abbia potuto fare questo…»
Rowan rimase in silenzio, in attesa della risposta della Suprema
Roncola.
«In realtà, ha senso eccome.» Bevve un lunghissimo sorso di tè
prima di proseguire. «È tradizione che quando un mentore falce si
autospigola il vincolo di apprendistato venga meno.»
Citra rimase senza fiato nel momento in cui comprese il senso di
quell’affermazione.
«Lo ha fatto per risparmiare a uno di voi l’onere di dover spigolare
l’altro» spiegò Senocrate.
«Quindi, questo vuol dire che è tutta colpa sua» disse Rowan, e
aggiunse con una punta di sarcasmo: «Sua eccellenza».
Senocrate si irrigidì. «Se ti riferisci alla decisione di mettervi in
competizione fino alla morte di uno dei due, non è stata una mia idea.
Ho solo assecondato la volontà della Compagnia e, francamente,
trovo offensiva la tua insinuazione.»
«La volontà della Compagnia non è stata verificata» gli ricordò
Rowan. «La proposta non è stata messa ai voti.»
Senocrate si alzò. «Sono desolato per la vostra perdita.» Non
erano solo Rowan e Citra a essere in lutto, comunque; l’intera
Compagnia aveva perso un grande uomo e Senocrate lo sapeva
bene, che lo ammettesse o no.
«Quindi… finisce così?» chiese Citra. «Ce ne andiamo a casa,
adesso?»
«Non esattamente» rispose Senocrate, senza guardarli negli occhi.
«Anche se è tradizione che gli apprendisti siano liberati alla morte del
loro mentore, un’altra falce può offrirsi volontaria e assumersene
l’addestramento. È raro, ma succede.»
«Lei?» chiese Citra. «Lei si è offerto volontario?»
«No, non lui» intervenne Rowan, che gli aveva letto la risposta
negli occhi. «È qualcun altro…»
«In virtù della mia posizione di Suprema Roncola, ho troppe
responsabilità per potermi prendere degli apprendisti. Dovreste
comunque sentirvi onorati, perché ben due falci si sono fatte avanti,
una per ciascuno di voi.»
Citra scrollò la testa. «No! Abbiamo preso l’impegno con Maestro
Faraday, e con nessun altro! È morto per liberarci, e dunque
dobbiamo essere liberati!»
«Temo di aver già dato la mia approvazione; pertanto, la questione
è decisa.» Si rivolse a turno a ognuno dei due. «Tu, Citra, sarai
apprendista della Veneranda Madame Curie…»
Rowan chiuse gli occhi. Conosceva già il seguito, prima ancora che
pronunciasse le parole.
«E tu, Rowan, porterai a compimento la tua formazione nelle mani
del Venerando Maestro Goddard.»
Parte terza
LA VECCHIA GUARDIA E IL NUOVO ORDINE
Non ho mai preso un apprendista sotto la mia ala. Semplicemente perché non ho mai
sentito il bisogno di assoggettare un altro essere umano al nostro stile di vita. Spesso
mi chiedo che cosa spinga altre falci a farlo. Per alcune è una forma di vanità: “Impara
da me e ammira la mia profonda saggezza”. Per altre, forse è una specie di
compensazione per non aver potuto avere figli: “Sii mio figlio o mia figlia per un anno e
ti darò il potere di vita e di morte”. Per altre ancora, suppongo che sia un modo per
anticipare la propria fine: “Sii il mio nuovo me, cosicché il vecchio me possa lasciare
questo mondo senza remore”.
Immagino, comunque, che se un giorno dovessi prendere un apprendista, sarà per
un motivo totalmente diverso.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


18
La Casa sulla cascata

All’estremità orientale della MidMerica, al confine con l’EstMerica,


c’era una casa sotto la quale scorreva un fiume, che si riversava in
una cascata.
«Fu progettata da un architetto molto famoso dell’era mortale»
spiegò Madame Curie a Citra, mentre la precedeva sul ponticello che
conduceva all’ingresso. «La struttura è caduta in rovina; come puoi
immaginare, una dimora del genere richiede una manutenzione
costante. Era in uno stato disastroso, nessuno si è mai preoccupato
di preservarla. Solo la presenza di una falce poteva incoraggiare a
fare donazioni per tentare di salvarla. Ora, è tornata allo splendore di
un tempo.»
La falce aprì la porta e fece entrare Citra. «Benvenuta nella Casa
sulla cascata.»
Il piano principale era un’enorme sala, con il pavimento di marmo
lucido e i mobili in legno, un grande camino e tante finestre.
Tantissime finestre. La cascata si trovava al di sotto di una spaziosa
terrazza. Il gorgoglio costante del fiume che scorreva tra le
fondamenta della casa aveva un effetto calmante, così come lo
scroscio dell’acqua sulle rocce sottostanti.
«Non sono mai stata in una casa che avesse un nome» disse
Citra, guardandosi intorno e cercando di contenere l’entusiasmo. «Ma
non è un po’ troppo? Soprattutto per una falce. Non dovreste vivere
con semplicità?»
Citra sapeva che un commento del genere avrebbe potuto
scatenare l’ira della donna, ma se ne infischiò. Il fatto che si stesse
trasferendo in quella dimora era segno che Maestro Faraday era
morto per nulla. Una bella casa non era una consolazione.
Madame Curie non si irritò. «Vivo qui non perché è lussuosa, ma
solo perché la mia presenza è l’unico modo per tutelarla.»
L’arredo sembrava essersi fermato al ventesimo secolo, quando
era stata costruita. Gli unici segni di modernità erano degli schermi
dei computer posizionati con discrezione in alcuni angoli. Anche la
cucina faceva pensare a un tempo ormai passato.
«Vieni, ti mostro la tua camera.»
Salirono una scala alla cui sinistra c’era un muro di granito e a
destra c’erano ripiani e ripiani di libri. Al secondo livello c’era la suite
della falce. Al terzo una camera da letto più piccola e uno studio. La
camera da letto era arredata con semplicità e, come il resto della
casa, aveva grandi vetrate incorniciate da legno di cedro che
occupavano due pareti intere. La vista sulla foresta diede a Citra
l’impressione di essere come in una casa sull’albero. Le piaceva. E
non sopportava che le piacesse.
«Lo sa che sono qui contro la mia volontà» disse Citra.
«Finalmente, un po’ di onestà da parte tua» disse Madame Curie,
abbozzando un sorriso.
«E so che io non le piaccio… perché mi ha presa come
apprendista?»
La falce la scrutò con quegli occhi grigi, freddi e impenetrabili.
«Poco importa se mi piaci o no, non è questo il punto. Ho le mie
ragioni.»
Detto questo, lasciò Citra sola in camera sua, senza nemmeno un
saluto.

Citra non ricordava di essersi addormentata. Non si era resa conto di


essere tanto stanca. Si ricordava di essersi sdraiata sul piumone a
guardare gli alberi, ad ascoltare il fiume che ruggiva incessante ai
piedi della casa, chiedendosi se quel rumore, ora rilassante, non si
sarebbe un giorno trasformato in un frastuono insopportabile. Una
luce abbagliante le fece aprire e poi strizzare gli occhi: Madame Curie
era sulla soglia, accanto all’interruttore. Fuori si era fatto buio. Non
era solo buio, ma un’assenza totale di luce, come nello spazio.
Sentiva sempre il fiume, ma non distingueva più le sagome degli
alberi.
«Ti sei dimenticata della cena?» chiese Madame Curie.
Citra si alzò di scatto e fu presa da un improvviso capogiro.
«Avrebbe potuto svegliarmi.»
Madame Curie sorrise. «È quello che ho appena fatto.»
Citra scese, diretta in cucina; la falce la lasciò andare avanti, ma la
sua nuova apprendista non ricordava bene come arrivarci. La casa
era un labirinto. Prese alcune direzioni sbagliate, senza che Madame
Curie la correggesse. Aspettava che trovasse da sola la strada.
Si chiese che cosa avrebbe voluto mangiare quella donna.
Avrebbe accettato senza discutere qualsiasi cosa le avesse
preparato, come faceva Maestro Faraday? Al ricordo del suo primo
mentore, si sentì attraversare da un’ondata di tristezza, seguita dalla
rabbia. Non sapeva proprio con chi prendersela. Quel risentimento la
divorava da dentro.
Al piano di sotto, Citra si apprestò a valutare il contenuto della
dispensa e del frigo, ma con sua grande sorpresa trovò la tavola già
apparecchiata, con due piatti fumanti.
«Mi è venuta una voglia improvvisa di hasenpfeffer» disse la falce.
«Penso che ti piacerà.»
«Non so nemmeno che cos’è.»
«Meglio così.» Madame Curie si accomodò e le indicò di fare
altrettanto. Citra esitò, non si fidava.
Madame Curie affondò il cucchiaio nello stufato, ma si fermò
quando vide che Citra era ancora in piedi. «Stai forse aspettando un
invito formale?»
Citra non riusciva a capire se fosse irritata o divertita. «Sono
un’apprendista. Perché cucina per me?»
«Ti sbagli. L’ho cucinato per me. Ma ho sentito il tuo stomaco
brontolare.»
Citra si sedette e assaggiò lo stufato. Saporito. Un po’ forte, ma
non era per niente male. Le carote glassate mitigavano il gusto di
selvatico.
«La vita di una falce sarebbe un calvario se non ci concedessimo il
piacere di un passatempo. Il mio è cucinare.»
«È buono» ammise Citra. «Grazie.»
Mangiarono per la maggior parte del tempo in silenzio. Citra si
sentiva a disagio a non poter servire in tavola, così si alzò per
riempire il bicchiere d’acqua della falce. Maestro Faraday non aveva
passatempi, o almeno non ne aveva mai parlato, né con lei né con
Rowan.
Al pensiero di Rowan, la mano le tremò mentre versava l’acqua,
che andò a finire un po’ sul tavolo.
«Mi scusi, Madame Curie.» Afferrò il suo tovagliolo e asciugò prima
che la chiazza d’acqua si allargasse.
«Devi avere una mano più ferma se vuoi essere una falce.» Di
nuovo, Citra non riuscì a capire se parlava sul serio o se la battuta
era ironica. Per lei, era addirittura più difficile interpretare quella
donna che non Faraday, e comunque capire le persone non era il suo
forte. Non ne era stata consapevole finché non aveva passato del
tempo con Rowan, che, con il suo modo riservato, era un osservatore
esperto. Citra dovette ricordare a se stessa di avere altre abilità.
Agiva con rapidità e determinazione. Era coordinata. Quelle qualità le
sarebbero tornate utili nel caso in cui… non riuscì a finire il pensiero,
non se lo permise. Il terreno in cui l’avrebbe condotta la spaventava
ancora troppo per consentirle di considerare quella possibilità.

Al mattino, Madame Curie preparò dei pancake ai mirtilli e poi


uscirono a spigolare.
Maestro Faraday rivedeva sempre gli appunti che aveva preso sul
soggetto da spigolare. E usava i mezzi pubblici. Madame Curie,
invece, aveva una vecchia macchina sportiva, non facile da guidare,
soprattutto su una tortuosa strada di montagna.
«Questa Porsche mi è stata regalata da un venditore di auto
d’epoca» le spiegò Madame Curie.
«In cambio dell’immunità?» chiese Citra, immaginando quale fosse
la motivazione di quell’uomo.
«No. Avevo appena spigolato il padre, aveva già l’immunità.»
«Un momento. Lei gli ha spigolato il padre, e lui le ha regalato
un’auto?»
«Sì.»
«Odiava il padre?»
«No, al contrario. Gli voleva molto bene.»
«C’è qualcosa che mi sfugge.»
Dopo le curve, si aprì davanti a loro un rettilineo. Madame Curie
cambiò marcia e accelerò. «Mi fu riconoscente per il conforto che gli
diedi dopo la spigolatura. Il vero conforto può valere oro.»
Citra continuava a non capire. Ci sarebbe arrivata solo più tardi, a
fine giornata.
Dopo aver viaggiato per centinaia di chilometri, intorno all’ora di
pranzo raggiunsero una città. «Alcune falci preferiscono le metropoli,
io preferisco i piccoli centri» disse Madame Curie. «Posti che forse
non vedono una spigolatura da oltre un anno.»
«Chi spigoleremo?» chiese Citra, mentre Madame Curie cercava
un parcheggio, uno degli svantaggi di avere un’auto privata.
«Lo saprai quando sarà il momento.»
Posteggiarono in una via principale, poi camminarono – anzi,
passeggiarono – lungo la strada, che era animata, ma non affollata.
L’andatura rilassata di Madame Curie metteva a disagio Citra, senza
che riuscisse a capire il perché. Quando spigolava con Maestro
Faraday, lui era sempre concentrato sulla meta, e la destinazione non
era un luogo, ma una persona. Il soggetto. L’anima da spigolare. Per
quanto fosse tutto così atroce, l’atteggiamento di Maestro Faraday in
qualche modo la rassicurava. Con lui, la spedizione aveva sempre un
fine tangibile. Nulla nel comportamento di Madame Curie lasciava
presagire ciò che sarebbe accaduto. E c’era un motivo.
«Osserva bene» disse a Citra.
«Se voleva un buon osservatore, avrebbe dovuto scegliere
Rowan.»
Madame Curie ignorò quel commento. «Osserva il volto delle
persone, gli occhi, il modo in cui si muovono.»
«Che cosa devo cercare?»
«La sensazione che siano qui da troppo tempo. La sensazione che
siano pronti a… concludere, che ne siano coscienti o meno.»
«Pensavo che non ci fosse permesso fare discriminazioni in base
all’età.»
«Non si tratta dell’età, ma del sentirsi stanchi di vivere. Alcuni sono
già stanchi prima di effettuare il loro primo ringiovanimento. Per altri,
potrebbero volerci secoli.»
Citra si mise a osservare i passanti. Cercavano tutti di evitare il
contatto visivo con la falce e con lei e di allontanarsi nel modo più
discreto possibile. Una coppia che usciva da un bar; un uomo d’affari
al telefono; una donna che si apprestava ad attraversare con il
semaforo rosso, e poi tornava indietro, per paura di essere spigolata
per l’infrazione.
«Non vedo nulla in nessuno» disse Citra, innervosita sia per quel
compito sia per la sua incapacità di portarlo a termine.
Da un complesso di uffici di dieci piani, forse il più alto della città,
uscì un gruppo di persone. Madame Curie si concentrò su un uomo;
lo scrutava con occhi da predatore. Cominciarono a seguirlo
mantenendosi a distanza.
«Vedi in che modo tiene le spalle, come se portasse un peso
invisibile?»
«No.»
«Vedi come cammina, un po’ meno deciso di chi lo circonda?»
«No.»
«Vedi come sono consumate le scarpe, come se non gli
importasse più nulla?»
«Forse, oggi non è la sua giornata» immaginò Citra.
«Sì, forse» ammise Madame Curie. «Ma io ho un’idea diversa.»
Affrettarono il passo e si avvicinarono all’uomo, che non parve
accorgersi di essere seguito.
«Ci manca solo di vedergli gli occhi» disse la falce. «Per averne la
certezza.»
Madame Curie lo toccò sulla spalla, lui si voltò e i loro sguardi si
incrociarono, un solo istante. Quindi l’uomo emise un grido soffocato.
La falce gli aveva appena affondato il coltello nel costato, fino a
raggiungere il cuore. Era stata così rapida che Citra non se n’era
nemmeno accorta. Non l’aveva nemmeno vista estrarre il coltello.
L’uomo la interrogava in silenzio con lo sguardo, ma Madame Curie
non gli offrì nessuna risposta, non gli disse nulla. Si limitò a ritirare la
lama e l’uomo cadde. Morì prima di toccare terra. Intorno a loro, la
gente gridava e fuggiva, senza però allontanarsi troppo per non
perdersi nulla dello spettacolo. La morte era un concetto astratto con
cui molte di quelle persone non avevano familiarità. Bastava che
restasse confinata nella sua bolla, così da poterla osservare da fuori.
La falce pulì la lama su una pelle di camoscio di color lavanda
chiaro, come la sua veste. Citra sbottò, non riuscendo più a
trattenersi.
«Non l’ha neanche avvertito! Come ha potuto farlo? Non lo
conosceva nemmeno! Non gli ha dato la possibilità di prepararsi!»
L’esplosione di collera di Madame Curie fu talmente potente da
essere quasi palpabile. Citra capì di aver commesso un terribile
errore.
«A terra!» gridò la falce, così forte che le sue parole rimbalzarono
tra gli edifici di mattoni che fiancheggiavano la strada.
Citra si mise subito in ginocchio.
«Faccia contro la strada! Ora!»
Citra obbedì, la paura mise a tacere la rabbia. Si distese a pancia
in giù, prostrandosi al suolo, la guancia destra premuta contro
l’asfalto bruciante sotto il sole allo zenit. Davanti a sé, a meno di un
metro dal suo viso, il cadavere dell’uomo. Quegli occhi vuoti erano
inchiodati ai suoi, la fissavano. Come era possibile?
«Osi dirmi come devo compiere la mia missione?»
Era come se il mondo intero intorno a loro si fosse immobilizzato.
«Chiederai scusa per la tua insolenza e sarai punita.»
«Mi dispiace, Madame Curie.» A sentire quel nome, un mormorio
percorse la folla di curiosi che si era formata. Era una leggenda
vivente.
«Sii più convincente!»
«Le chiedo perdono, Madame Curie» disse più forte, urlando in
faccia al cadavere. «Non le mancherò mai più di rispetto.»
«Alzati.»
L’ira della falce si volatilizzò all’istante. Citra si mise in piedi,
detestandosi per le gambe tremanti e le lacrime che le inondavano il
viso. Se fossero evaporate prima che la falce e tutta quella gente
potessero vederle… non avrebbe voluto mostrarsi così debole.
La celebre Signora della Morte girò su se stessa e si allontanò a
grandi passi. Citra la seguì trascinandosi, umiliata. Quanto
desiderava strapparle il coltello dalle mani e piantarglielo nella
schiena… Si pentì subito di quel pensiero, furiosa anche solo per
averlo formulato.
Salirono in macchina e ripresero la strada. Soltanto quando furono
a qualche isolato di distanza, la falce le rivolse la parola.
«Ora il tuo compito è identificare l’uomo, trovare i suoi familiari e
invitarli alla Casa sulla cascata perché io possa concedere loro
l’immunità.» Nella voce, non c’era più la minima traccia di collera.
«Scusi?» Fu come se la scena in strada non fosse mai avvenuta.
Citra fu colta in contropiede. Provò una leggera vertigine, come se in
macchina mancasse l’aria.
«Ho quarantotto ore di tempo per concedere loro l’immunità. Vorrei
riunirli a casa per stasera.»
«Ma… ma prima… quando mi ha fatto sdraiare a terra…»
«Sì?»
«Lei era così arrabbiata…»
Madame Curie sospirò. «Ho un’immagine da difendere, cara. Mi
hai sfidato in pubblico e ho dovuto rimetterti al tuo posto davanti a dei
testimoni. In futuro, cerca di tenere le tue opinioni per te, finché non
saremo sole.»
«Allora, non è arrabbiata?»
La falce rifletté. «Sono irritata. E comunque, avrei dovuto
prepararti. La tua reazione era… giustificata. E anche la mia.»
Nonostante tutto quello sconvolgimento emotivo, Citra dovette
ammettere che la falce aveva ragione. Da un apprendista si
pretendeva un certo contegno. Un’altra falce avrebbe potuto
infliggerle una punizione peggiore.
Fecero inversione e Madame Curie lasciò Citra a qualche centinaio
di metri dal punto in cui era avvenuta la spigolatura. Aveva un’ora di
tempo per trovare la famiglia e comunicarle l’invito.
«E se viveva da solo, tanto meglio. La nostra missione oggi sarà
stata più facile» disse la falce.
Facile? Citra si chiese come si potesse definire in quel modo una
spigolatura.

L’uomo si chiamava Barton Breen. Si era ringiovanito molte volte, nel


corso del tempo aveva generato venti figli, alcuni dei quali avevano
più di cento anni. La sua famiglia attuale era formata dall’ultima
moglie e dai suoi tre figli più giovani. Questi avrebbero ricevuto
l’immunità per un anno.
«E se non vengono?» chiese Citra sulla strada del ritorno.
«Vengono sempre» rispose la falce.
E aveva ragione. Arrivarono poco dopo le otto di sera, rattristati e
sconvolti. Madame Curie li fece inginocchiare sulla porta, le
baciarono l’anello e ottennero l’immunità. Poi, insieme a Citra, la falce
servì loro la cena che aveva preparato. Cose buone: brasato, fagiolini
e purea di patate aromatizzata all’aglio. I parenti, com’era ovvio, non
avevano fame, ma si sforzarono lo stesso di mangiare.
«Mi parli di suo marito» chiese Madame Curie, in tono cordiale e
sincero.
All’inizio, la donna si mostrò reticente, ma poi divenne un fiume in
piena: non smetteva più di raccontare aneddoti sulla vita del marito.
Anche i figli si unirono a lei riportando i loro ricordi. Quell’uomo,
anonimo fino a poco prima, divenne un personaggio familiare di cui
Citra cominciò a sentire la mancanza, pur non avendolo mai
conosciuto.
E Madame Curie ascoltava, ascoltava davvero, come se volesse
memorizzare ogni parola. Quando la famiglia si commuoveva anche i
suoi occhi si inumidivano.
E poi, fece la cosa più bizzarra. Estrasse dalla veste il coltello con
cui aveva tolto la vita a Barton Breen e lo posò sul tavolo.
«Può prendere la mia vita, se vuole» disse alla donna.
Lei rimase a fissarla, senza capire.
«Sarebbe una cosa giusta. Io ho tolto la vita a suo marito, ho
privato i suoi figli del padre. Deve disprezzarmi per questo.»
La donna guardò Citra, come se lei potesse sapere che cosa fare,
ma la ragazza si limitò ad alzare le spalle, presa in contropiede
dall’offerta della falce.
«Ma… attaccare una falce è un crimine punito con la morte.»
«Non se ha il benestare della falce. Inoltre, ha già ricevuto
l’immunità. Le prometto che non ci saranno ritorsioni.»
Il coltello era sul tavolo, tra loro due. Citra si sentì a un tratto come i
passanti che avevano assistito alla spigolatura: paralizzata davanti a
un impensabile orizzonte degli eventi.
Madame Curie sorrise alla donna con sincero calore. «Non si
preoccupi. Se mi accoltella, la mia apprendista mi porterà al più
vicino centro di rianimazione e dopo uno o due giorni sarò di nuovo in
piedi, come se non fosse successo nulla.»
La donna contemplò la lama; i figli guardarono la madre. «No, non
sarà necessario» concluse infine.
Madame Curie mise via il coltello. «Bene, in tal caso, è il momento
di passare al dessert.»
La famiglia divorò la torta al cioccolato, ritrovando l’appetito che le
era mancato fino a poco prima, come se un macigno le fosse stato
tolto dal cuore.

Dopo che se ne furono andati, Madame Curie aiutò Citra a sistemare.


«Quando diventerai una falce, sono sicura che non farai le cose a
modo mio. Né al modo di Maestro Faraday. Troverai la tua via. Forse,
non ti porterà redenzione e nemmeno pace, ma ti eviterà di provare
disprezzo per te stessa.»
Poi Citra le rivolse una domanda che le aveva già fatto, ma questa
volta ebbe la sensazione che avrebbe avuto una risposta.
«Perché ha scelto me, eccellenza?»
Lavò un piatto, Citra lo asciugò e infine Madame Curie le fece una
domanda strana. «Hai mai sentito parlare di uno “sport” chiamato
combattimento tra galli?»
Citra scosse la testa.
«Durante l’era mortale, c’erano dei delinquenti che si prendevano
due galli, li mettevano in un piccolo ring e li guardavano combattere
all’ultimo sangue, scommettendo sul vincitore.»
«Era legale?»
«No, ma lo facevano lo stesso. La vita prima dell’avvento del
Thunderhead era piena di curiose atrocità. Non vi è stato detto nulla,
ma Maestro Goddard si era offerto di prendere sia te sia Rowan.»
«Davvero?»
«Sì, e so che era solo per potervi mettere l’uno contro l’altra, giorno
dopo giorno, per il suo personale divertimento, come in un
combattimento tra galli. Così sono intervenuta io e mi sono offerta di
prendere te, per risparmiare a entrambi l’arena di sangue di Maestro
Goddard.»
Citra annuì. Decise di non sottolineare il fatto che Madame Curie
non aveva risparmiato loro un bel nulla. Su entrambi incombeva
ancora lo spettro di una lotta all’ultimo sangue. Niente poteva
cambiare quel dato di fatto.
Provò a figurarsi cosa sarebbe accaduto se Madame Curie non si
fosse fatta avanti. Certo, non sarebbe stata separata da Rowan, ma a
che prezzo? Per ritrovarsi in balia di Goddard? Non voleva pensare a
come se la stesse passando Rowan.
Dato che quella sera Madame Curie pareva essere ben disposta a
dare delle risposte, Citra si permise di riproporle la domanda che le
aveva fatto per strada in modo così inopportuno, quando il corpo di
Barton Breen era ancora caldo.
«Perché oggi ha spigolato quell’uomo senza preavviso? Non si
meritava almeno un momento di compassione prima di morire?»
Questa volta, la domanda non la offese. «Ogni falce ha il suo
metodo. Questo è il mio. Nell’Era della Mortalità, la morte arrivava
senza preavviso. Il nostro compito è di imitare ciò che abbiamo
sottratto alla natura; e questo è il volto della morte che ho deciso di
ricreare. Le mie spigolature sono sempre istantanee e sempre
pubbliche, perché la gente non dimentichi quello che facciamo e
perché dobbiamo farlo.»
«Ma che cosa ne è stato della falce che ha spigolato il presidente?
L’eroina che ha combattuto la corruzione del governo, che nemmeno
lo stesso Thunderhead è riuscito a sconfiggere? Pensavo che la
Signora della Morte spigolasse sempre con un fine superiore.»
Un’ombra passò sul viso di Madame Curie. Il fantasma di qualcosa
che Citra non avrebbe potuto nemmeno immaginare.
«Hai pensato male.»
Se vi è capitato di studiare i cartoni animati dell’era mortale, vi ricorderete certamente
di un coyote che cercava con una serie di sotterfugi di provocare la morte di un grande
uccello dal collo lungo. Non ci riusciva mai, i suoi tentativi si ritorcevano sempre contro
di lui. Saltava in aria, veniva colpito da una palla di cannone o cadeva da un’altezza
vertiginosa.
E faceva ridere.
Perché, nonostante morisse in modi terribili, ritornava sempre nella scena
successiva, come se ci fosse un centro di rianimazione dietro lo schermo del
televisore.
Ho assistito a numerosi incidenti che hanno provocato una morte temporanea. Ho
visto gente cadere nei tombini, essere colpita da un oggetto o investita da veicoli in
corsa.
E quando accade, la gente ride perché, per quanto possa apparire atroce
l’incidente, quella persona, come il coyote, tornerà in piedi nel giro di uno o due giorni,
in piena forma, come se non le fosse capitato nulla.
L’immortalità ci ha trasformati tutti in cartoni animati.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


19
Una cosa orribile da fare

Citra non sapeva per quale motivo le fosse saltato in mente di ritirare
fuori la domanda che Madame Curie le aveva fatto al conclave. Forse
perché si era sentita all’improvviso in confidenza con la sua mentore,
dopo che aveva visto come si era comportata con i familiari dell’uomo
che aveva spigolato: li aveva invitati a cena e aveva ascoltato,
davvero, tutti i loro ricordi.
Quella sera, Madame Curie era entrata in camera di Citra con le
lenzuola pulite. Avevano rifatto insieme il letto e, una volta finito, Citra
disse: «Al conclave, mi ha accusato di mentire».
«E avevo ragione.»
«Come faceva a saperlo?»
Madame Curie non sorrise e non espresse nemmeno un giudizio.
«Quando si è vissuto quasi duecento anni, alcune cose diventano
evidenti.» Le lanciò un cuscino, e Citra lo infilò in una federa.
«Non ho spinto quella ragazza per le scale.»
«Lo sospettavo.»
Citra strinse il cuscino a sé. Se fosse stato un essere vivente, lo
avrebbe soffocato. «Non l’ho spinta per le scale» ripeté Citra. «L’ho
spinta davanti a un camion in corsa.»
Citra si sedette, dando le spalle a Madame Curie. Non riusciva a
guardarla negli occhi e ora rimpiangeva di averle confessato
quell’odioso segreto che risaliva alla sua infanzia. Se la Signora della
Morte l’avesse considerata un mostro, doveva proprio esserlo.
«Una cosa orribile da fare» commentò la falce, con voce calma,
per nulla turbata. «È morta?»
«All’istante» confessò Citra. «Naturalmente, tornò a scuola dopo
tre giorni, ma questo non cambiò la sostanza del mio gesto… e la
cosa peggiore fu che nessuno conosceva la verità. Pensavano che
fosse inciampata, e tutti gli altri bambini ridevano, perché lo sa
quanto è divertente quando qualcuno si ammazza per una
distrazione… solo che non fu per una svista, e nessuno lo sapeva.
Nessuno mi aveva visto. E quando è tornata, nemmeno lei lo
sapeva.»
Citra si impose di guardare la Signora della Morte, che ora si era
seduta su una poltrona davanti a lei e la fissava, con quegli occhi
grigi e penetranti.
«Lei mi ha chiesto quale fosse stata la cosa peggiore che avessi
fatto in vita mia. Ora lo sa.»
Madame Curie non parlò subito. Rimase seduta, lasciando
scorrere il tempo. «Bene» disse infine. «Dobbiamo rimediare a
questo.»

Rhonda Flowers era in procinto di fare merenda quando suonò il


campanello. Qualche istante dopo, sua madre apparve sulla soglia
della cucina, con un’espressione afflitta. Era chiaro che c’era
qualcosa che non andava.
«Loro… loro vogliono vederti» le annunciò.
Rhonda risucchiò i noodles che le penzolavano dalle labbra e poi si
alzò. «Loro chi?»
La madre non rispose. Le gettò le braccia al collo, stringendola
forte, e poi si sciolse in singhiozzi. Oltre la spalla della madre,
Rhonda le vide. Una ragazza di circa la sua età e una donna con una
veste color lavanda, nell’inequivocabile stile delle falci.
«Fatti coraggio…» le bisbigliò disperatamente la madre
all’orecchio.
Il coraggio era fuori discussione quanto il terrore. Non c’era proprio
il tempo di farsi coraggio o di avere paura. Rhonda sentì solo un
formicolio alle mani e ai piedi; aveva l’impressione che l’anima le si
fosse staccata dal corpo, come se stesse osservando la scena
attraverso gli occhi di qualcun altro. Si liberò dall’abbraccio della
madre e andò verso la porta, dove le due donne aspettavano.
«Volevate vedermi?»
La falce, una donna con una capigliatura argentea simile alla seta
e uno sguardo d’acciaio, sorrise. A Rhonda non era mai venuto in
mente che una falce potesse sorridere. Nelle rare occasioni in cui ne
aveva incontrata qualcuna, le erano sempre apparse così severe.
«Non io, ma la mia apprendista» rispose la donna, indicando la
ragazza, ma Rhonda non riusciva a distogliere lo sguardo dalla falce.
«Mi spigolerà la sua apprendista?»
«Non siamo qui per spigolare» intervenne la ragazza.
Dopo aver sentito quelle parole, la paura, che aveva trattenuto fino
a quel momento, straripò. Gli occhi le si riempirono di lacrime, che si
affrettò ad asciugare. Alla paura si sostituì il sollievo. «Avreste potuto
dirlo a mia madre.» Si voltò e chiamò la madre. «Va tutto bene, non
sono qui per spigolare.» Poi uscì e si chiuse la porta alle spalle,
sapendo che, se non l’avesse fatto, la madre si sarebbe messa a
origliare. Aveva sentito dire che le falci in viaggio bussavano alla
porta della gente per chiedere vitto e alloggio per la notte. Oppure, a
volte, si fermavano perché avevano bisogno di informazioni per
ragioni che poteva solo immaginare. Ma perché volevano parlare
proprio con lei?
«Probabilmente non ti ricordi di me. Andavamo a scuola insieme,
prima che tu ti trasferissi qui» disse Citra.
Rhonda osservò il viso della ragazza, sforzandosi di ricordare il
nome. «Cindy qualcosa, vero?»
«Citra. Citra Terranova.»
«Ah, giusto.»
La situazione si era fatta imbarazzante. Come se stare in piedi
sotto il portico in compagnia di una falce e della sua apprendista non
lo fosse già abbastanza.
«Allora… che cosa posso fare per voi… eccellenze?» Non era
sicura che per un’apprendista si dovesse usare quel titolo, ma non
poteva certo peccare per eccesso di rispetto. Ora che aveva avuto il
tempo di assimilarne lineamenti e nome, Rhonda riconobbe Citra.
All’epoca, non c’era stata molta simpatia tra di loro.
«Be’, la storia è questa» riprese Citra. «Ti ricordi del giorno in cui
sei stata investita da un camion?»
Rhonda trasalì. «Come se potessi dimenticarlo. Dopo che sono
tornata a casa dal centro di rianimazione, per mesi mi hanno
chiamato “Rhonda, l’Investita”.»
Essere investita da un camion era stato forse l’incidente più
spiacevole che le fosse mai accaduto. Era stata in rianimazione per
tre giorni interi e si era persa fino all’ultima rappresentazione del suo
saggio di danza. Le altre ragazze dicevano che se l’erano cavata
bene anche senza di lei, il che non aveva fatto che peggiorare le
cose. L’unico aspetto positivo era stato il cibo offertole al centro di
rianimazione il giorno in cui aveva ripreso conoscenza. Avevano il
miglior gelato artigianale del mondo; era così buono che una volta si
lanciò nel vuoto per poterlo assaggiare ancora. Ma, naturalmente, i
genitori la spedirono in un centro di rianimazione più economico,
dove il cibo era una porcheria.
«Eri lì quando è accaduto?»
«Be’, la storia è questa» ripeté Citra. Inspirò a fondo e disse: «Non
è stato un incidente, ti ho spinta io».
«Ah!» esclamò Rhonda. «Lo sapevo! Lo sapevo che eri stata tu!»
All’epoca, i genitori avevano cercato di convincerla che qualcuno,
involontariamente, l’aveva urtata. Alla fine, se ne era convinta, ma le
era rimasto sempre un dubbio. «Allora, sei stata tu!» Rhonda si
ritrovò a sorridere. Era già una vittoria avere la certezza di non
essere stata una pazza a pensarlo in tutti quegli anni.
«Insomma, mi dispiace» ammise Citra. «Mi dispiace tanto,
davvero.»
«Perché me lo dici adesso?»
«Be’, la storia è questa» ripeté ancora Citra, come un tic nervoso.
«Essere l’apprendista di una falce mi impone di fare ammenda per le
mie… be’, per le cattive scelte che ho fatto in passato. E così…
voglio darti la possibilità di farmi la stessa cosa.» Si schiarì la gola.
«Voglio che tu mi spinga sotto un camion.»
All’idea, Rhonda scoppiò in una risata fragorosa, senza volerlo. Le
uscì d’istinto. «Davvero? Vuoi che ti spinga sotto un camion in
corsa?»
«Sì.»
«In questo preciso momento?»
«Sì.»
«E la tua falce è d’accordo?»
La falce annuì. «Sono assolutamente d’accordo con Citra.»
Rhonda considerò la proposta. Pensò di poterlo fare. Quante volte
nella sua vita avrebbe voluto liberarsi di qualcuno, anche solo
temporaneamente? Proprio l’anno prima era arrivata quasi sul punto
di folgorare “accidentalmente” il compagno di laboratorio del corso di
scienze, perché era un vero stronzo. Alla fine, però, non l’aveva fatto,
perché altrimenti gli avrebbero dato qualche giorno di permesso, e lei
si sarebbe ritrovata a dover finire il compito da sola. Quella situazione
era diversa. Le veniva offerto un buono gratuito per una vendetta che
sarebbe rimasta del tutto impunita. La questione era capire quanto
desiderava vendicarsi.
«Senti, è tutto molto allettante, ma ho i compiti da fare e dopo ho
lezione di danza.»
«Allora… non vuoi?»
«Non è che non voglia, oggi sono impegnata. Posso buttarti sotto
un camion un’altra volta?»
Citra esitò. «Va bene…»
«O meglio, forse puoi offrirmi il pranzo, o altro, da qualche parte.»
«Va bene…»
«E comunque, la prossima volta, avvertici, per favore, giusto per
non spaventare mia madre.»
Poi salutò, rientrò in casa e chiuse la porta.
«Che strano…» disse Rhonda.
«Che volevano, alla fine?» chiese la madre.
E dato che non aveva tanta voglia di spiegare tutta la faccenda, si
limitò a rispondere: «Niente di importante», facendo innervosire la
madre, che poi era proprio quello che voleva.
Tornò in cucina, per scoprire che la sua zuppa si era raffreddata.
Ottimo.

Citra si sentiva sollevata e al tempo stesso mortificata. Per anni,


aveva tenuto segreto quel crimine. I suoi dissapori con Rhonda erano
stati di poco conto, come lo erano tutti gli screzi tra bambini. Era il
modo in cui Rhonda parlava sempre della danza, come se lei fosse la
più talentuosa del mondo. Citra frequentava la stessa scuola di ballo,
in un momento magico dell’infanzia in cui le bambine nutrivano
ancora l’illusione di essere tanto aggraziate quanto carine.
A furia di alzare gli occhi al cielo e di emettere sospiri esasperati
ogni volta che Citra eseguiva un passo impreciso, Rhonda le aveva
fatto capire di non essere molto dotata.
Il gesto di Citra non era stato premeditato. Si era presentata
l’occasione, e quell’azione aveva gettato un’ombra sulla sua vita. Ne
aveva preso coscienza solo quel giorno, dopo che aveva affrontato la
sua vittima.
E Rhonda se n’era infischiata. Ne era passata di acqua sotto i
ponti. Citra si sentiva stupida per tutta la situazione.
«Ti rendi conto che nell’Era della Mortalità saresti stata trattata in
modo molto diverso?» Madame Curie non la guardava mentre
parlava; non distoglieva mai lo sguardo dalla strada quando era alla
guida. Citra non ci si era ancora abituata. Le pareva strano che si
dovesse guardare sempre dove si stava andando invece di lasciarsi
portare.
«Se ci fossimo trovate nell’Era della Mortalità, non l’avrei fatto»
replicò Citra, decisa. «Perché avrei saputo che non sarebbe più
tornata in vita. Spingerla sotto un camion sarebbe stato un po’ come
spigolarla.»
«Esisteva una parola per quello. “Omicidio”.»
Citra ridacchiò. Aveva un suono arcaico. «Fa ridere.»
«Non faceva ridere, all’epoca» commentò Madame Curie. Eseguì
una rapida manovra per evitare uno scoiattolo. Poi, lungo il rettilineo,
lanciò un’occhiata a Citra. «Quindi, ora hai deciso di fare penitenza
diventando una falce, condannata in eterno a togliere la vita come
punizione per quell’unico gesto che risale alla tua infanzia.»
«Io non ho deciso nulla.»
«No?»
Citra aprì la bocca per rispondere, ma poi si fermò. E se Madame
Curie avesse avuto ragione? E se, in fondo in fondo, Citra avesse
accettato la proposta di apprendistato di Maestro Faraday per punirsi
di un crimine di cui solo lei si preoccupava? Se era vero, si infliggeva
un castigo particolarmente duro. Se fosse stata colta in flagrante o se
avesse confessato, al limite, sarebbe stata punita con una breve
sospensione da scuola, i suoi genitori avrebbero dovuto pagare una
multa e lei si sarebbe beccata una severa lavata di capo. Ci sarebbe
stato anche un lato positivo; i suoi compagni di classe sarebbero stati
attenti a non contrariarla.
«Citra, la differenza tra te e la maggior parte della gente è che, una
volta riportata in vita quella ragazza, gli altri avrebbero voltato pagina.
Avrebbero semplicemente dimenticato. Maestro Faraday ha visto
qualcosa in te quando ti ha scelta; forse, il peso della tua coscienza.»
Poi aggiunse: «È lo stesso peso che mi ha fatto sentire che mentivi al
conclave».
«In realtà, mi sorprende che il Thunderhead non mi abbia visto
mentre la spingevo» buttò lì, senza pensarci. La falce fece allora un
commento che mise in moto una serie di reazioni a catena nella
mente di Citra. Da quel momento, la sua visione delle cose cambiò.
«Certo che ti ha visto. Il Thunderhead vede tutto, ha telecamere
ovunque. Ma decide anche quali infrazioni meritano di essere punite
e quali no.»

Il Thunderhead vede tutto.


Dal momento in cui aveva acquisito coscienza, il Thunderhead
memorizzava quasi tutto delle interazioni umane. Ma non abusava
mai delle sue facoltà. Prima di avere una coscienza, quando era noto
con il nome di Cloud, i criminali, e anche gli enti governativi, se ne
servivano per immischiarsi illegalmente negli affari privati della gente
e per sfruttare le informazioni. Tutti gli studenti avevano sentito
parlare del sopruso che aveva quasi portato alla fine della civiltà
prima che il Thunderhead si consolidasse al potere. Dal suo avvento,
non si era più verificata una sola violazione dei dati personali. Anche
se la gente se lo aspettava, profetizzando la fine dell’umanità per
mano di una macchina senza anima. Ma apparentemente, la
macchina aveva un’anima, che era più pura di quella di un qualsiasi
umano.
Osservava il mondo attraverso milioni di occhi, ascoltava attraverso
milioni di orecchie. Percepiva un’infinità di cose su cui decideva di
intervenire o di astenersi.
Dunque, da qualche parte nella sua memoria doveva esserci la
registrazione dei movimenti di Maestro Faraday nell’ultimo giorno
della sua vita sulla Terra.
Citra sapeva che probabilmente era inutile cercare di rintracciare
quei movimenti. E se il decesso non fosse stato un suicidio? E se
fosse stato spinto, come Citra aveva spinto Rhonda anni prima? Non
sarebbe stato un dispetto puerile, ma piuttosto un crimine
premeditato. E se in effetti Faraday fosse stato vittima – per
riprendere il termine che quel giorno le aveva insegnato Madame
Curie – di un omicidio?
Da giovane, mi meravigliavo della stupidità e dell’ipocrisia dell’era mortale. A quei
tempi, l’atto intenzionale di porre fine alla vita umana era considerato il crimine più
odioso. Che stupidaggine! Mi rendo conto che è difficile immaginare che quella che noi
riteniamo essere la vocazione più nobile dell’umanità sia stata un tempo percepita
come un crimine. Come era limitato di vedute e ipocrita l’uomo mortale, perché, anche
se disprezzava i mietitori di vite, idolatrava la natura, che a quel tempo condannava
alla morte tutte le creature umane, senza distinzione. La natura condannava ogni
singolo nascituro a morte certa.
Noi abbiamo cambiato le cose.
Ora siamo una forza superiore alla natura.
Per questo motivo, le falci devono essere amate e glorificate come la vista in cima a
una montagna, venerate come una foresta di sequoie e temute come un temporale
imminente.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Goddard


20
Ospite d’onore

“Sto per morire.”


Rowan continuava a ripetersi quella frase come un mantra, per
abituarsi all’idea. Eppure, non riusciva proprio ad accettarla. Anche
se aveva cambiato mentore, la decisione del Conclave di primavera
era rimasta invariata. Alla fine del loro apprendistato, avrebbe ucciso
Citra. Sempre che non fosse stata lei a uccidere lui. Per le falci, quel
tocco di tragedia era troppo allettante: non vi avrebbero rinunciato
solo perché loro non erano più gli apprendisti di Maestro Faraday.
Rowan sapeva di non poter uccidere Citra. E l’unico modo per
evitarlo era di darsi subito per vinto, di conseguire risultati così scarsi
da non lasciare all’ultimo conclave altra scelta che assegnare il titolo
di falce a Citra. Il cui primo compito sarebbe stato di spigolarlo. Gli
avrebbe dato una morte rapida e indolore. Si sarebbe mostrata
clemente, ne era sicuro. Il trucco consisteva nel fare in modo che il
suo fallimento apparisse del tutto involontario. Era necessario che
desse l’impressione di impegnarsi al massimo. Nessuno doveva
intuire il suo vero piano. Bisognava mostrarsi convincente. Ne era
capace.
“Sto per morire.”
Prima di Kohl Whitlock, quel fatidico giorno nell’ufficio del preside,
non era mai morto nessuno tra le persone più prossime a Rowan. La
spigolatura era toccata sempre a gente sconosciuta, l’amico di un
amico di un amico. Ma nel corso degli ultimi quattro mesi, aveva
assistito a decine e decine di spigolature. In prima fila.
“Sto per morire.”
Altri otto mesi. Avrebbe festeggiato il suo diciassettesimo
compleanno, ma sarebbe stato l’ultimo. Anche se era una sua scelta,
il pensiero di essere solo un dato statistico negli archivi delle falci lo
mandava su tutte le furie. Nella sua vita, non aveva concluso nulla. Il
ragazzo-insalata. Quell’etichetta lo aveva fatto ridere, era stata una
medaglia d’onore, ma ora era un atto di accusa. La sua era stata una
vita vuota, e ora sarebbe finita. Non avrebbe mai dovuto accettare la
proposta di Maestro Faraday. Avrebbe dovuto continuare a vivere la
sua esistenza anonima, e forse, giusto forse, con il tempo avrebbe
acquistato un senso.
«Non hai detto una parola da quando sei salito in macchina.»
«Parlerò quando avrò qualcosa da dire.»
Era a bordo di una splendida Rolls-Royce d’epoca in compagnia di
Maestro Volta. La veste gialla della falce creava un vivace contrasto
con i toni scuri degli interni. Alla guida non c’era Volta, ma un autista.
Stavano attraversando un quartiere signorile: più vi si addentravano e
più le case si facevano grandi, i giardini più estesi. Poi le residenze
sparirono alla vista, nascoste dietro cancelli e muri ricoperti di edera.
Volta indossava una veste tempestata di citrini. Era una giovane
falce, un discepolo di Goddard. Aveva completato l’apprendistato da
qualche anno. Era sulla ventina, un’età in cui ci si preoccupava
ancora di contare gli anni di vita. Volta aveva origini africane e il giallo
della tunica faceva risaltare la sua carnagione bruna.
«Di’ un po’, c’è una qualche ragione per cui hai scelto una veste
color piscio?»
Volta scoppiò a ridere. «Non penso che avrai problemi a integrarti
nel gruppo. A Maestro Goddard piace essere circondato da persone
con la lingua affilata come le sue lame.»
«Perché lo segui?»
La domanda, franca e diretta, parve disturbarlo più della
precedente frecciatina sul colore della veste. Volta si mise sulla
difensiva. «Maestro Goddard è un uomo lungimirante. Vede lontano.
Preferisco far parte del futuro della nostra Compagnia che non del
passato.»
Rowan volse lo sguardo fuori dal finestrino. Il giorno era luminoso,
ma i vetri oscurati attenuavano la luce, come se fossero nel mezzo di
un’eclissi parziale. «Spigolate la gente a centinaia. È questo il futuro
a cui ti riferisci?»
«Abbiamo la stessa quota delle altre falci.» Fu tutto quello che
Volta ebbe da dire sull’argomento.
Rowan si girò verso di lui, che ora sembrava avere difficoltà a
guardarlo negli occhi. «Chi ti ha addestrato?» gli chiese.
«Maestro Nehru.»
Rowan ricordò di aver visto Maestro Faraday fare conversazione
con Maestro Nehru al conclave. Sembrava che fossero in buoni
rapporti.
«E che cosa pensa del fatto che ti fai vedere in giro con Goddard?»
«Venerando Maestro Goddard, per tua regola» precisò Volta, un
po’ indignato. «E non mi interessa affatto quello che pensa Maestro
Nehru. Le falci della vecchia guardia hanno idee obsolete. Sono
troppo attaccate alla loro mentalità per abbracciare il cambiamento.»
Parlava del “cambiamento” come se fosse tangibile. Qualcosa che,
in virtù del suo simbolismo, poteva rendere forte chi se ne riempiva la
bocca.
Si fermarono davanti a un cancello in ferro battuto, che si aprì
lentamente. «Ci siamo» annunciò Volta.
Un viale li condusse, dopo circa cinquecento metri, a una sontuosa
dimora. Un servitore li accolse e li fece entrare.
Rowan fu assalito dalla musica elettronica a tutto volume. C’era
gente ovunque, che faceva festa come se fosse capodanno. Tutta la
proprietà sembrava vibrare sotto il ritmo martellante della musica. La
gente rideva, beveva e rideva ancora. Tra gli invitati, non solo i
discepoli di Goddard erano falci. Ed erano presenti persino delle
celebrità minori. Quanto agli altri, erano tutti di bell’aspetto,
probabilmente invitati di professione, pagati per farsi vedere alle
feste. Era il mestiere a cui aspirava il suo amico Tyger, e a cui tanti
giovani dicevano di aspirare, ma Tyger era serio.
Il servitore li accompagnò sul retro della residenza dove si trovava
una piscina enorme, più adatta a un villaggio turistico che a
un’abitazione. Tra cascate e un bar galleggiante, persone dal fisico
perfetto ci sguazzavano allegramente. Maestro Goddard si trovava in
un bungalow, all’altra estremità della piscina. Era circondato da un
nugolo di ruffiani. Portava la veste blu, che era il suo marchio
distintivo. Avvicinandosi, Rowan si accorse che era più sottile e
trasparente di quella che aveva indossato al conclave. Era
l’abbigliamento per il tempo libero. Rowan si chiese se quell’uomo
non avesse per caso anche un costume da bagno tempestato di
diamanti nel suo guardaroba.
«Rowan Damisch!» esclamò Maestro Goddard, vedendoli arrivare.
A un cameriere che passava con un vassoio ordinò di offrirgli una
coppa di champagne, che Rowan rifiutò. Maestro Volta la prese al
suo posto e gliela mise a forza in mano, prima di sparire tra la folla,
lasciando Rowan in balia di se stesso.
«Prego, approfittane pure» disse Goddard. «Qui si beve solo Dom
Pérignon.»
Rowan ne mandò giù un sorso, chiedendosi se un apprendista
minorenne rischiava di essere penalizzato per aver consumato
dell’alcol. Poi si ricordò che quelle regole non lo riguardavano più. Ne
prese un altro sorso.
«Ho organizzato questo piccolo Baccanale in tuo onore» disse la
falce, con un ampio gesto della mano.
«In mio onore? Che significa?»
«Esattamente quello che ho detto. Questa è la tua festa. Ti piace?»
La surreale orgia di eccessi che si svolgeva intorno a Rowan era
ancora più inebriante dello champagne, ma lo divertiva? Si sentiva
strano, e a maggior ragione ora che sapeva di essere l’ospite
d’onore.
«Non lo so. È la prima volta che mi organizzano una festa a
sorpresa.» Era vero. I suoi genitori avevano visto così tanti
compleanni che dopo la sua nascita non li avevano più festeggiati.
Poteva già considerarsi fortunato se si ricordavano di fargli un regalo.
«Be’, allora, che sia la prima di una lunga serie!» esclamò Maestro
Goddard.
Rowan si sforzò di non scordare che era stato a causa di
quell’uomo dal sorriso perfetto, di quell’uomo che traspirava carisma,
che lui e Citra avrebbero dovuto affrontarsi in un combattimento
all’ultimo sangue. Era difficile riuscire a sottrarsi al suo fascino. E, per
quanto fosse disgustoso quello spettacolo, gli faceva scorrere
l’adrenalina nelle vene. La falce batté la mano sulla sedia accanto a
lui, invitandolo a sedersi. Rowan prese posto alla sua destra.
«L’ottavo comandamento non stabilisce che una falce non può
possedere nulla a parte la veste, l’anello e il diario?»
«Esatto» rispose Maestro Goddard, con allegria. «E infatti io non
posseggo nulla di tutto questo. Il cibo è stato donato da generosi
benefattori, gli invitati sono qui per loro scelta e questa splendida
dimora mi è stata prestata per tutto il tempo in cui vorrò restarci.»
Al sentir parlare della proprietà, l’uomo incaricato della pulizia della
piscina lanciò loro un’occhiata, per poi tornare al suo lavoro.
«Dovresti rileggere i comandamenti» disse Maestro Goddard. «Ti
accorgerai che non impongono in alcun modo alle falci di privarsi
delle comodità materiali che rendono piacevole la vita.
Quell’interpretazione deprimente delle falci della vecchia generazione
è una cosa del passato.»
Rowan non replicò. Erano l’umiltà e il rigore della cosiddetta
“vecchia guardia” le caratteristiche che lo avevano colpito di Maestro
Faraday. Se fosse stato Maestro Goddard ad avvicinarlo,
promettendogli una vita da rockstar una volta diventato falce, non
avrebbe accettato. Ma Faraday era morto, e Rowan era lì, a
osservare quegli estranei venuti per lui.
«Se è la mia festa, non dovrebbero esserci le persone che
conosco?»
«Una falce è un amico del mondo. Abbraccialo.» Maestro Goddard
pareva avere una risposta per tutto. «La tua vita sta per cambiare,
Rowan Damisch» disse, indicando la piscina, gli ospiti, i camerieri e
la ricca selezione di raffinati buffet che venivano di continuo riforniti
sul lato meno profondo della piscina. «In effetti, è già cambiata.»
Tra gli invitati c’era una ragazzina che sembrava chiaramente fuori
posto. Era giovane, avrà avuto nove o dieci anni al massimo. Del
tutto indifferente alla confusione che la circondava, giocava nella
parte bassa della piscina.
«Pare che uno dei nostri invitati abbia portato la figlia alla festa»
commentò Rowan.
«Quella è Esme» disse Goddard. «E ti consiglio di trattarla con
rispetto. È la persona più importante che incontrerai oggi.»
«In che senso?»
«Quella bambina paffutella è la chiave del futuro. Spero per te che
tu le piaccia.» Rowan avrebbe voluto approfondire le risposte
criptiche di Goddard, ma la sua attenzione fu attirata da una bella
ragazza in bikini che pareva esserle stato dipinto sul corpo. Rowan si
rese conto troppo tardi che la stava fissando. Lei gli sorrise, lui si
sentì avvampare e distolse lo sguardo.
«Ariadne, saresti così gentile da fare un massaggio al mio
apprendista?»
«Certo, eccellenza» rispose la ragazza.
«Ah… forse più tardi» borbottò Rowan.
«Non dire sciocchezze» lo zittì la falce. «Hai bisogno di rilassarti e
le mani di Ariadne sono magiche; conosce la tecnica svedese. Il tuo
corpo te ne sarà riconoscente.»
La ragazza prese Rowan per mano, cosa che finì per allontanare
ogni sua resistenza. Si alzò e si fece condurre via.
«Se questo giovane resterà soddisfatto dei tuoi servigi» disse alla
ragazza mentre si allontanavano, «ti permetterò di baciarmi l’anello.»
Mentre si lasciava trascinare, Rowan pensò: “Tra otto mesi morirò”.
Per cui, forse, nel frattempo, si sarebbe potuto concedere qualche
piccolo piacere.
Quelli che ci venerano mi disturbano più di quelli che ci disprezzano. In troppi ci
mettono su un piedistallo. In troppi anelano a entrare nella nostra Compagnia, e il fatto
di sapere che non accadrà mai accresce il loro desiderio, perché tutte le falci fanno il
loro apprendistato in gioventù.
Bisogna essere ingenui a credere che siamo esseri superiori. Oppure, bisogna
avere un cuore depravato, perché, a parte i depravati, a chi piacerebbe mietere delle
vite?
Un tempo, qualche anno fa ormai, dei gruppi si sono divertiti a imitarci, a emularci.
Si agghindavano con vesti simili alle nostre, portavano all’anulare un anello simile al
nostro. Per molti, era solo una messinscena, ma alcuni l’avevano presa sul serio, si
facevano passare davvero per falci, ingannando la gente, concedendo false immunità.
Facevano tutto come noi, a parte la spigolatura.
Esistono leggi per proteggersi dagli impostori in ogni professione, ma nessuna
legge impedisce di farsi passare per una falce. Dato che il Thunderhead non ha alcuna
giurisdizione sulla Compagnia delle falci, non può promulgare nessuna legge su di noi.
Un problema tecnico della separazione tra falci e Stato a cui non si era pensato.
Comunque, il problema non è durato a lungo. L’anno della Pastinaca, al
sessantatreesimo Conclave mondiale, si decise che tutti questi impostori sarebbero
stati spigolati in pubblico e nelle forme più violente. Ci si aspettava che un simile editto
avrebbe prodotto una carneficina; invece, furono eseguite pochissime spigolature. Una
volta che si diffuse la voce, quegli ipocriti si sbarazzarono delle loro false vesti e si
volatilizzarono. A oggi, benché l’editto permanga, non viene invocato quasi mai, in
quanto sono molto rare le persone così stupide da farsi passare per falci.
Eppure, di tanto in tanto, sento ancora raccontare nel corso di un conclave la storia
di una falce che si è trovata faccia a faccia con un impostore e si è vista costretta a
spigolarlo. Di solito, la discussione si incentra sul disagio che ne consegue, sulla
seccatura per la falce di dover rintracciare i familiari per concedere loro l’immunità, e
via dicendo.
Ma è soprattutto la psicologia dell’impostore che mi dà da pensare. Che cosa
passava per la testa di quegli individui? Che cosa speravano di ottenere? È il fascino
del proibito che li ha spinti a farlo? È il brivido del pericolo che li ha motivati a
rischiare? O forse desideravano così tanto lasciare questa vita da essere disposti a
scegliere uno dei pochi metodi che potevano portarli dritti all’annientamento?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


21
Marchiato

La festa continuò fino al giorno dopo. Un festival di eccessi a tutti i


livelli. Rowan si unì ai bagordi, ma più per obbligo che per altro. Era
al centro dell’attenzione, la celebrità del momento. In piscina, era
attorniato da splendide ragazzine. Al buffet, gli invitati si facevano da
parte per lasciare che venisse servito per primo. Era imbarazzante,
ma anche esaltante. Non poteva negare che da una parte
quell’attenzione speciale che gli veniva riservata gli piaceva. La foglia
d’insalata elevata al posto d’onore.
Fu solo quando le falci presenti alla festa gli strinsero la mano
augurandogli buona fortuna contro Citra che scese con i piedi per
terra e si ricordò della posta in gioco.
Riuscì a strappare qualche breve sonnellino nel bungalow,
svegliandosi a più riprese al suono della musica, di scoppi di risa o
dei fuochi d’artificio. Il secondo giorno, a pomeriggio inoltrato, quando
Maestro Goddard ne ebbe abbastanza, gli bastò sussurrarlo a un
orecchio che la notizia si diffuse a macchia d’olio. In meno di un’ora,
gli invitati se n’erano andati e i domestici avevano iniziato a ripulire
dai rifiuti la proprietà, che era piombata in un silenzio surreale. Ora,
restavano solo Maestro Goddard, le sue tre giovani falci, la servitù e
la ragazzina, Esme, che come un fantasma spiava Rowan dalla
finestra della sua camera, mentre lui era nel bungalow di Goddard, in
paziente attesa.
Maestro Volta gli si avvicinò, con la veste gialla che svolazzava alla
brezza della sera. «Che cosa fai ancora qui?»
«Non so dove altro andare» rispose Rowan.
«Vieni con me» gli disse Volta. «È ora di cominciare
l’addestramento.»

Nel piano interrato della dimora si estendeva un’ampia cantina di vini.


Centinaia, forse migliaia di bottiglie riposavano sotto volte di mattoni.
Poche lampadine illuminavano lo spazio, gettando lunghe ombre
inquietanti nelle nicchie, simili a varchi segreti per l’inferno.
Maestro Volta guidò Rowan fino alla sala centrale della cantina,
dove lo attendevano Goddard e le altre falci. Madame Rand estrasse
un aggeggio da una tasca della veste verde. Sembrava un incrocio
tra una pistola e una torcia.
«Sai che cos’è questo?» gli chiese.
«È un correttore» rispose Rowan. Cinque o sei anni prima, aveva
avuto l’occasione di provare in prima persona quell’aggeggio.
Quando i suoi professori erano arrivati alla conclusione che stava per
sconfinare nella depressione, avevano ritenuto che fosse necessario
“correggere” i suoi naniti. La procedura era stata indolore e l’effetto
quasi impercettibile. Non aveva notato un gran cambiamento, ma tutti
dicevano che aveva cominciato a sorridere di più.
«Apri le braccia, allarga le gambe» ordinò Madame Rand. Rowan
obbedì e lei gli passò il correttore su tutto il corpo, come se fosse una
specie di bacchetta magica. Rowan percepì un leggero formicolio alle
estremità che svanì presto. Madame Rand si allontanò per lasciare
campo libero a Maestro Goddard, che si stava avvicinando.
«Hai mai sentito l’espressione “farsi pestare”?» chiese Maestro
Goddard. «O “farsi dare una ripassata”?»
Rowan scosse la testa. Le falci lo avevano circondato, lasciandolo
al centro da solo.
«Bene, stai per scoprire che cosa significa.»
Le falci si tolsero le ingombranti sopravvesti. Ora, in tunica e
biancheria intima, assunsero posizioni aggressive. Sui volti, avevano
un’espressione decisa e forse anche un po’ esaltata in previsione di
ciò che stavano per fare. Rowan capì un istante prima che
iniziassero.
Maestro Chomsky, il più grosso di tutti, fece un passo avanti e,
senza preavviso, gli sferrò un pugno, centrandogli la guancia con una
tale forza che lo fece girare su se stesso.
Rowan perse l’equilibrio e cadde a terra, tra la polvere. Accusò il
colpo, la lancinante fitta di dolore, e attese di sentire l’ondata di calore
sviluppata dai naniti che gli rilasciavano gli oppiacei analgesici nelle
vene. Ma il sollievo non giunse. Invece, il dolore aumentò.
Fu terribile. Devastante.
Rowan non aveva mai provato un dolore simile; non sapeva che
potesse esistere.
«Che cosa mi avete fatto?» piagnucolò. «Che cosa mi avete
fatto?»
«Ti abbiamo spento i naniti» disse Maestro Volta con voce calma.
«Per farti conoscere l’esperienza che provavano i nostri antenati.»
«C’è un’espressione molto antica» riprese Maestro Goddard. «La
conosci? “Non esiste vittoria senza sofferenza”.» Afferrò
amichevolmente Rowan per la spalla. «E ti auguro di vincere.»
Poi si ritrasse e rivolse un cenno ai suoi accoliti, che si fecero
avanti e ripresero a massacrare Rowan.

Senza l’aiuto dei naniti, la guarigione fu un percorso lento, penoso e


altalenante. Il primo giorno, Rowan avrebbe voluto morire. Il secondo,
credette davvero di essere sul punto di soccombere. La testa gli
pulsava, i pensieri andavano alla deriva. Perse più volte conoscenza.
Respirava a fatica e sentiva che aveva diverse costole rotte. E anche
se Maestro Chomsky gli aveva rimesso a posto la spalla lussata,
provava ancora dolore a ogni battito del cuore.
Maestro Volta andava a trovarlo più volte al giorno. Sedeva al suo
capezzale, lo imboccava e gli puliva la bocca. Rowan aveva
l’impressione che fosse circondato da un alone, ma era di sicuro un
difetto visivo dovuto al trauma. Forse, aveva subìto il distacco delle
retine.
«Brucia» disse Rowan, quando la minestra salata gli gocciolò sulle
labbra tumefatte.
«Al momento, sì» replicò Volta, con compassione. «Ma passerà e
ne uscirai fortificato.»
«Non vedo in che modo» disse, inorridito. Le sue parole gli erano
sembrate distorte e inconsistenti, come se fossero uscite dallo sfiato
di una balena.
Volta gli infilò in bocca un’altra cucchiaiata di minestra. «Tra sei
mesi, mi dirai che avevo ragione.»
Ringraziò Volta per avergli fatto visita, dato che era stato l’unico.
«Puoi chiamarmi Alessandro.»
«È il tuo vero nome?» chiese Rowan.
«No, imbecille, è il nome di Volta.»
Rowan immaginò che fosse il massimo livello di intimità che una
falce potesse concedere.
«Grazie, Alessandro.»

La sera del secondo giorno, la ragazzina, quella che Goddard aveva


detto che era così importante, entrò in camera sua tra una crisi di
delirio e l’altra. Com’è che si chiamava? Amy? Emmy? Ah, sì: Esme.
«Mi dispiace che ti abbiano ridotto così» disse con le lacrime agli
occhi. «Ma starai meglio.»
Certo che sarebbe stato meglio. Non aveva scelta. Ai tempi della
mortalità, si moriva o si guariva. Ora, c’era una sola possibilità.
«Perché sei qui?»
«Per vedere come stai» rispose Esme.
«No… voglio dire, perché sei qui, in questo posto?»
La ragazzina esitò prima di rispondere. Poi rivolse lo sguardo
altrove. «Maestro Goddard e i suoi amici sono venuti in un centro
commerciale vicino a casa mia. Hanno spigolato tutti, a parte me.
Dopo mi ha detto di andare con lui. E io l’ho fatto.»
Non era una vera spiegazione, ma fu l’unica che gli offrì. Forse,
l’unica che conosceva. Per ciò che Rowan poteva vedere, la
presenza di quella ragazzina non aveva una chiara funzione nella
villa. Eppure, gli ordini di Goddard erano che chiunque entrasse in
contrasto con lei venisse punito. Nessuno doveva disturbarla: poteva
muoversi liberamente all’interno della proprietà. Era il più grande
mistero in cui Rowan si fosse imbattuto nel mondo di Goddard.
«Credo che tu sarai la migliore di tutte le falci» gli disse, senza
giustificare la sua convinzione. Forse, era quello che sentiva dal
cuore, ma si sbagliava di sicuro.
«Non diventerò una falce» le rispose. Lei era la prima persona a
cui lo confessava.
«Lo diventerai, se lo vuoi. E credo che tu lo voglia.»
Esme lo lasciò a riflettere sul dolore e sulla possibilità.
Maestro Goddard si fece vedere al suo capezzale solo al terzo
giorno.
«Come ti senti?» gli chiese. Rowan avrebbe voluto sputargli
addosso, ma sapeva che lo sforzo gli avrebbe procurato troppo
dolore e che il gesto avrebbe potuto anche fargli guadagnare un
secondo pestaggio.
«Secondo lei, come mi sento?»
La falce si sedette sul bordo del letto e studiò il volto di Rowan.
«Vieni a guardarti.» Lo aiutò ad alzarsi dal letto e lo condusse fino a
un armadio in cui era incassato uno specchio a figura intera.
Rowan fece fatica a riconoscersi. Il viso era così gonfio che
assomigliava a una zucca. Aveva lividi dappertutto, anche sul corpo,
di ogni sfumatura.
«Osserva l’inizio della tua vita» gli disse Goddard. «Quello che stai
guardando è il ragazzo che muore, da cui risorgerà l’uomo.»
«Quante stronzate» ribatté Rowan, fregandosene delle
conseguenze che avrebbe potuto scatenare.
Goddard si limitò ad alzare un sopracciglio. «Forse… ma non puoi
negare che questo sia un punto di svolta nella tua vita, e ogni punto
di svolta deve essere segnato da un evento, qualcosa che si imprima
in te in modo indelebile come una cicatrice.»
Così ora era stato marchiato. Ebbe il sospetto che quello fosse
solo l’inizio di una prova del fuoco molto più difficile.
«Il mondo intero anela a essere come noi» disse Goddard.
«Prendere quello che si vuole, fare a modo proprio, senza
conseguenze né rimorsi. Ci ruberebbero le vesti e le indosserebbero,
se potessero. Ti è stata data la possibilità di diventare più importante
di un re, e questo richiede come minimo di superare il rito di
passaggio che ho scelto per te.»
Goddard rimase immobile, osservando Rowan ancora qualche
secondo. Poi estrasse il correttore dalla veste. «Allarga braccia e
gambe.»
Rowan fece un profondo respiro e obbedì. Goddard gli passò la
bacchetta sul corpo. Rowan sentì un formicolio lungo le braccia e le
gambe ma, quando fu finito, non percepì il calore degli oppiacei, né
sentì il dolore attenuarsi.
«Fa ancora male.»
«Certo. Non ho attivato i tuoi naniti analgesici, solo quelli curativi.
Domani mattina sarai come nuovo e pronto a cominciare il tuo
addestramento. A partire da adesso, proverai in pieno la sofferenza
del tuo corpo.»
«Perché?» osò chiedere Rowan. «Quale persona di buon senso
vorrebbe provare questo dolore?»
«Il buon senso è sopravvalutato» disse Goddard. «Preferisco avere
una mente chiara, piuttosto.»
Per quanto riguarda la somministrazione della morte, noi falci non abbiamo nessun
rivale. Certo, se si esclude il fuoco. Il fuoco uccide in fretta e in modo radicale come la
lama di una falce. È terrificante, ma anche confortante sapere che c’è una cosa su cui
il Thunderhead non ha il controllo. Di fronte ai danni provocati dal fuoco, i centri di
rianimazione non possono nulla. Una volta che l’oca è cotta, è cotta in modo
irreversibile e definitivo.
La morte data con il fuoco è l’unica morte naturale che sia rimasta. Non si verifica
quasi mai, però. Il Thunderhead monitora il calore in ciascun centimetro quadrato del
pianeta e gli incendi vengono soffocati prima ancora che si riesca a sentire l’odore del
fumo. In ogni casa e in ogni ufficio, esistono sistemi di sicurezza e prevenzione
antincendio dotati di sensori multipli, giusto per precauzione. Le sette toniste più
estremiste cercano di bruciare i loro morti, per rendere il loro trapasso permanente. Ma
in generale, i droni-ambulanza di solito arrivano sul posto per primi.
Non è rassicurante sapere che siamo tutti protetti dal crogiolo dell’inferno? A parte,
è ovvio, quando non lo siamo.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


22
Il bidente

Citra trascorreva il tempo tra addestramento e spigolature.


Ogni giorno, accompagnava Madame Curie in una città diversa,
scelta totalmente a caso. Osservava la falce aggirarsi per le strade, i
centri commerciali e i parchi, come una leonessa in cerca di una
preda. Citra imparò a individuare gli “stanchi di vivere”, come li
chiamava Madame Curie, anche se lei non era così convinta che
fossero disposti ad andarsene. Quante volte le era capitato di sentirsi
stanca della vita prima di diventare apprendista? Se Madame Curie si
fosse imbattuta in lei in uno di quei giorni, non l’avrebbe forse
spigolata?
Un giorno, passando davanti a una scuola elementare all’uscita
delle classi, Citra ebbe l’atroce presentimento che volesse spigolare
uno degli alunni.
«Non spigolo bambini» la rassicurò Madame Curie. «Non ho mai
notato la stanchezza di vivere sul viso di un bambino ma, anche se
fosse, non lo farei. Sono stata ammonita per questo ai conclavi, ma
non sono ancora stati presi provvedimenti disciplinari nei miei
confronti.»
Maestro Faraday non aveva condiviso quella regola. Si era
attenuto rigorosamente alle statistiche dell’Era della Mortalità. A quei
tempi, morivano pochi preadolescenti, ma a volte capitava.
Durante i pochi mesi passati insieme, aveva fatto una sola
spigolatura di quel tipo. Non aveva chiesto a Rowan né a lei di
assistere, e quella sera a cena si era sciolto in singhiozzi e si era
dovuto scusare. Se fosse stata scelta, Citra avrebbe seguito il
modello di Madame Curie, anche a costo di incorrere
nell’ammonimento del comitato di selezione.
Quasi ogni sera, lei e Madame Curie preparavano la cena per i
parenti in lutto. La maggior parte se ne andava con lo spirito più
leggero. Altri, la minoranza, restavano inconsolabili, pieni di
risentimento e odio. Così, tra la vita e la morte, Citra passava i giorni
che precedevano il Conclave della mietitura. Non poteva fare a meno
di pensare a Rowan, di chiedersi come stava. Desiderava vederlo,
ma al tempo stesso lo temeva, perché sapeva che nel giro di pochi
mesi lo avrebbe incontrato per l’ultima volta, in un modo o nell’altro.
E si aggrappava alla tenue speranza che, se avesse potuto
dimostrare che Maestro Faraday era stato eliminato da una falce,
forse avrebbe potuto introdurre un granello di sabbia negli
inarrestabili ingranaggi della Compagnia. Un granello che avrebbe
risparmiato a lei di spigolare Rowan e viceversa.

Dopo ogni spigolatura, a Citra spettava il compito di avvertire i


familiari: mariti, mogli, figli, genitori. All’inizio, se l’era presa con
Madame Curie per averle affidato un incarico tanto ingrato. Ma ben
presto, ne capì il motivo. Non era per evitare di farlo lei stessa.
Madame Curie voleva che Citra imparasse a dimostrare
compassione ed empatia davanti alla tragedia. Era emotivamente
estenuante, ma anche gratificante. La stava preparando a
comportarsi da falce.
Solo una volta provò sentimenti diversi. La prima parte del suo
lavoro consisteva nel rintracciare i parenti stretti del defunto. Madame
Curie aveva appena spigolato una donna che pareva non averne, a
parte un fratello con cui era in cattivi rapporti. Era strano, in un
periodo in cui le famiglie allargate erano sempre più spesso una rete
complessa che arrivava a comprendere ben sei, se non di più,
generazioni ancora in vita. Eppure, quella povera donna aveva solo
un fratello. Citra trovò l’indirizzo, ci andò e capì dove si trovava solo
quando ci capitò di fronte.
Non era una casa, non nel senso tradizionale del termine. Era un
monastero. Un complesso con mura di argilla, costruito nello stile
delle missioni storiche. Ma, a differenza di quelle antiche strutture, il
simbolo in cima al campanile centrale non era una croce, ma un
diapason. Il bidente. Un simbolo delle sette toniste.
Era un monastero tonista.
Citra rabbrividì, come chiunque altro avrebbe fatto di fronte a
qualcosa di così vagamente alieno, oscuro e mistico.
«Stai lontana da quei pazzi» le diceva il padre. «Risucchiano le
persone e non si sa più che fine fanno.» Una cosa ridicola da dire.
Nessuno scompariva più, nella loro epoca. Il Thunderhead sapeva
esattamente dov’erano tutti, in ogni istante. Certo, non era tenuto a
dirlo.
In altre circostanze, Citra avrebbe seguito il consiglio del padre, ma
stava facendo una visita di condoglianze, e quello bastò a dissipare
ogni timore.
Entrò nell’edificio superando un cancello ad arco che non era
chiuso a chiave. Si ritrovò in un giardino pieno di profumati fiori
bianchi. Gardenie. I culti dei tonisti si incentravano su aromi e suoni.
Davano poca importanza al senso della vista. I gruppi di tonisti più
estremisti si accecavano, e il Thunderhead lo consentiva benché con
riluttanza, impedendo ai naniti curativi di ridare loro la vista. Era
terribile, eppure era una delle poche espressioni di libertà religiosa
rimaste in un mondo che aveva messo da parte le sue varie divinità.
Citra seguì un sentiero di pietra che si inoltrava nel giardino fino
alla chiesa su cui troneggiava il simbolo del diapason; superò le
pesanti porte in rovere ed entrò in una cappella in cui erano allineate
delle panche. Era in penombra, nonostante le vetrate laterali. Non
risalivano all’era mortale, ma erano toniste nello stile.
Rappresentavano varie scene bizzarre: un uomo a torso nudo che
portava sulle spalle un enorme diapason; una pietra che proiettava
lampi da una serie di fessure; una folla in fuga inseguita da un
osceno vermone a forma di doppia elica che emergeva vorticando dal
terreno.
Le immagini le fecero venire i brividi. Non conosceva a fondo
quella fede, ma la trovava ridicola. Grottesca. Tutti sapevano che era
solo un guazzabuglio, un amalgama di credenze dell’era mortale
affastellate in un inquietante mosaico. Eppure, c’era qualcuno che
considerava in qualche modo attraente quello strano collage
ideologico.
Un prete, un monaco, qualunque fosse il titolo con cui ci si
rivolgeva a un rappresentante di quel culto, era davanti all’altare;
intonava un canto monocorde e spegneva una dopo l’altra le candele.
«Mi scusi» lo interruppe Citra, con un tono di voce troppo forte,
amplificato dall’acustica della cappella.
L’uomo non fu sorpreso della sua presenza. Spense ancora una
candela, posò lo spegnitoio d’argento e avanzò verso di lei
zoppicando. Citra si chiese se per caso non stesse fingendo o se la
sua libertà religiosa gli permettesse di conservare lo sfregio che gli
aveva provocato quella zoppia. A giudicare dalle rughe del viso, era
da parecchio che non si sottoponeva a un ringiovanimento.
«Sono il curato Beauregard. È venuta per espiare?» le chiese.
«No» rispose, mostrando la fascia al braccio con l’emblema delle
falci. «Ho necessità di parlare con Robert Ferguson.»
«Fratello Ferguson sta riposando. Non dovrei disturbarlo.»
«È importante» insistette.
Il curato sospirò. «Va bene. Non c’è modo di evitare ciò che deve
accadere.» Si allontanò trascinando la gamba.
Citra, rimasta sola, si guardò intorno, osservando quello strano
ambiente. Sull’altare c’era un’acquasantiera di granito, piena di acqua
sporca e puzzolente.
Alle sue spalle, campeggiava il punto focale di tutta la chiesa: un
diapason d’acciaio simile a quello in cima al campanile. Quel bidente
era alto circa due metri e si ergeva su una base di ossidiana.
Accanto, un maglio di gomma era poggiato su un cuscino di velluto
nero. Ma fu il bidente che colpì la sua attenzione. Immenso, cilindrico,
con una superficie liscia e argentea, e freddo al tatto.
«Ha voglia di colpirlo, non è vero? Lo faccia, non è proibito.»
Citra sussultò, irritata per essere stata colta di sorpresa.
«Sono fratello Ferguson» disse un uomo, avvicinandosi. «Voleva
vedermi?»
«Sono l’apprendista della Veneranda Madame Curie.»
«Il nome mi è familiare.»
«Sono qui per annunciarle un decesso.»
«Continui.»
«Mi rincresce informarla che sua sorella, Marissa Ferguson, è stata
spigolata da Madame Curie oggi, alle tredici e quindici. Le mie
condoglianze.»
L’uomo non pareva né turbato né sconvolto. L’espressione del viso
era di semplice rassegnazione. «È tutto?»
«È tutto? Non mi ha sentito? Le ho appena detto che sua sorella è
stata spigolata oggi.»
L’uomo sospirò. «Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere.»
Se non aveva già manifestato antipatia per i tonisti, ora di sicuro le
era sorta. «Cos’è, il vostro versetto sacro?»
«Non è un versetto, ma una semplice verità che illumina il percorso
della nostra vita.»
«Già, se lo dice lei. Dovrà farsi carico del corpo di sua sorella,
perché non c’è modo di evitare nemmeno questo.»
«Ma se io non me ne occupo, non è il Thunderhead che organizza
il funerale?»
«Non gliene importa proprio nulla?»
L’uomo non rispose subito. «La morte per mano di una falce non è
naturale. Noi tonisti non la riconosciamo.»
Citra si schiarì la voce, rimangiandosi le aspre parole che avrebbe
voluto rivolgergli, e si impose di mantenere un atteggiamento
professionale. «Ancora una cosa. Anche se non vivevate insieme, lei
è l’unico parente ufficiale. Questo le dà diritto a un anno di
immunità.»
«Non voglio l’immunità.»
«Chissà perché non ne sono sorpresa.» Era la prima volta che
incontrava qualcuno che rifiutava l’immunità. Anche i più depressi
baciavano l’anello.
«Ha fatto il suo lavoro. Può andare adesso» disse fratello
Ferguson.
Citra non sapeva più come sfogare la sua frustrazione. Non poteva
urlare contro l’uomo. Non poteva servirsi dell’arte marziale del
Bokator per assestargli un calcio al collo né gettarlo a terra con un
colpo di gomito. Fece l’unica cosa che poteva. Afferrò il maglio e, con
tutta la rabbia che aveva in corpo, sferrò un solo energico colpo al
diapason.
Il suono che ne scaturì fu così potente che ne sentì la vibrazione
nei denti e fin dentro le ossa. Non era cupo come quello di una
campana. Era pieno, denso. La vibrazione le fece espellere tutta la
rabbia. La disperse. Le rilassò i muscoli, le allentò la mascella. Le
riecheggiò nel cervello, nelle viscere, nella colonna vertebrale. Il
suono si diffuse più a lungo del dovuto e lentamente cominciò a
dissolversi. Non aveva mai provato una sensazione così
scombussolante e al tempo stesso così rasserenante.
«Che cos’era?» fu tutto quello che riuscì a dire.
«Un sol diesis» rispose fratello Ferguson. «Anche se la
confraternita è divisa su questo punto. Molti ritengono che sia un la
bemolle.»
Il diapason riecheggiava ancora, debolmente. Citra lo vedeva
vibrare, i contorni indistinti. Lo sfiorò e in quel preciso momento il
suono cessò.
«Lei ha delle domande da fare» disse fratello Ferguson.
«Risponderò al meglio possibile.»
Citra avrebbe voluto replicare, ma a un tratto si rese conto di avere
davvero degli interrogativi.
«In che cosa crede la sua gente?»
«Crediamo in molte cose.»
«Me ne dica una.»
«Crediamo che le fiamme non bruceranno in eterno.»
Citra posò lo sguardo sulle candele, accanto all’altare. «È per
questo che il curato spegneva le candele?»
«Fa parte del nostro rituale, sì.»
«Allora venerate le tenebre.»
«No. È una falsa idea che si è diffusa. La gente si serve di questo
argomento per denigrarci. Noi veneriamo le onde sonore e le
vibrazioni che vanno oltre le capacità umane. Crediamo nella Grande
Vibrazione, e che questa ci libererà dalla stanchezza di vivere.»
Stanchezza di vivere.
Era la definizione che Madame Curie usava per descrivere lo stato
in cui si trovavano le persone che sceglieva di spigolare. Fratello
Ferguson sorrise. «In realtà, c’è qualcosa che entra in risonanza con
lei, non è vero?»
Citra girò la testa, per evitare il suo sguardo, troppo invadente. Gli
occhi le si posarono sull’acquasantiera di pietra. La indicò. «Che
cos’è quell’acqua sporca?»
«È il brodo primordiale! È pieno di microbi. Durante l’era mortale,
questa sola conca avrebbe potuto spazzare via intere popolazioni. Il
suo nome era malattia.»
«So cos’era la malattia.»
Immerse il dito nell’acqua melmosa e la fece girare. «Vaiolo,
poliomielite, ebola, carbonchio… c’è tutto qui dentro. Ma ora non può
più nuocerci. Non potremmo ammalarci neanche se volessimo.»
Ritirò il dito dalla fanghiglia putrida e lo leccò. «Potrei berne tutto il
contenuto e non mi causerebbe nemmeno un’indigestione. Ahimè,
non possiamo più trasformare l’acqua in vermi.»
Citra se ne andò senza aggiungere nulla e senza voltarsi… ma per
il resto della giornata non riuscì a scacciare quell’odore di acqua
sporca dalle narici.
Quello che fa il Thunderhead non è affar mio. Il ruolo del Thunderhead è di sostenere
l’umanità. Il mio è di plasmarla. Il Thunderhead è la radice e io sono le cesoie: poto i
rami per dare all’albero una bella forma e per mantenerlo in salute. Siamo entrambi
necessari. E ci escludiamo a vicenda.
Non sento la mancanza di un “rapporto” con il Thunderhead, né la sentono le
giovani falci che oggi considero miei discepoli. L’assenza di inopportune intrusioni del
Thunderhead è una benedizione, perché ci permette di vivere senza rete di sicurezza.
Senza il puntello di un potere superiore. Io sono il potere più alto che conosco, e
desidero che le cose restino così.
Per quanto riguarda i miei metodi di spigolatura, che di tanto in tanto vengono
messi in discussione, dico solo: il lavoro del giardiniere non è quello di scolpire l’albero
per quanto gli sia possibile? E non sono forse i rami che cominciano ad allungarsi in
modo esagerato a dover essere potati per primi?

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Goddard


23
Il labirinto virtuale

In fondo al corridoio, dalla parte opposta rispetto alla camera di Citra,


c’era uno studio. Come ogni altra stanza della residenza, aveva
finestre su più lati e, come ogni altra cosa nella vita di Madame Curie,
era tenuto in perfetto ordine. C’era un’interfaccia di computer che
Citra usava per i suoi studi, perché, a differenza di Faraday, Madame
Curie non rifiutava il digitale come mezzo di apprendimento. Nel suo
ruolo di apprendista, Citra aveva accesso ad archivi e dati preclusi
alla maggior parte della gente. Il “cervello primordiale”, come veniva
chiamato: tutti i dati grezzi all’interno della memoria del Thunderhead
che non erano organizzati ai fini della consultazione umana.
Prima di diventare apprendista, quando faceva una normale
ricerca, il Thunderhead si intrometteva sistematicamente, dicendo
qualcosa del tipo: Vedo che stai cercando un regalo. Posso sapere
per chi è? Forse, posso aiutarti a trovare qualcosa di appropriato. A
volte, si lasciava aiutare, altre preferiva fare da sola. Ma da quando
era diventata apprendista, il Thunderhead si era ammutolito in modo
preoccupante, come se non ci fosse altro che i suoi dati.
«Ti ci abituerai» le aveva detto all’inizio Maestro Faraday. «Le falci
non possono parlare con il Thunderhead e viceversa, ma con il
tempo arriverai ad apprezzare il silenzio e l’autonomia che la sua
assenza procura.»
Ora più che mai, quando cercava nei suoi archivi, Citra sentiva la
mancanza dei consigli che il Thunderhead le offriva. Il sistema
internazionale delle telecamere di sicurezza sembrava essere stato
concepito per rendere vani i suoi sforzi. Ripercorrere i movimenti di
Maestro Faraday il giorno in cui era morto si stava dimostrando più
complicato di quanto avesse immaginato. I video immagazzinati nel
cervello primordiale non erano organizzati per telecamera e
nemmeno per località. Pareva che il Thunderhead li collegasse per
tema. Quando registrava due identici modelli di traffico in diverse
parti del mondo, il sistema li collegava. Filmati di persone con
andatura simile si ritrovavano interconnessi. Una serie di associazioni
portava a immagini di tramonti sempre più spettacolari, tutti ripresi da
telecamere stradali. Citra aveva capito che la memoria digitale del
Thunderhead era strutturata come un cervello biologico. Ogni istante
di ogni video era collegato ad altre centinaia di istanti, secondo criteri
diversi… in altre parole, ogni connessione che Citra seguiva
conduceva a un labirinto virtuale di neuroni. Era come tentare di
leggere nella mente di qualcuno dissezionandone la corteccia
cerebrale. Da sbattere la testa contro il muro.
La Compagnia delle falci aveva sviluppato i propri algoritmi per
eseguire ricerche negli insondabili contenuti del cervello primordiale,
ma Citra non poteva chiedere aiuto a Madame Curie senza correre il
rischio di insospettirla. Quella donna le aveva già dimostrato che per
lei era come un libro aperto. Meglio non mettersi nella condizione di
doverle dire un’altra bugia.
La ricerca che era partita come un progetto divenne ben presto una
sfida. Infine, si trasformò in un’ossessione. Tutti i giorni, Citra
passava una o due ore a cercare in segreto le immagini degli ultimi
movimenti di Maestro Faraday. Invano.
Si chiedeva se, anche in silenzio, il Thunderhead la osservasse.
Ehi, dimmi, stai frugando nel mio cervello?, le avrebbe detto, con un
occhiolino virtuale. Brutta birichina.
E poi, dopo molte settimane, Citra ebbe una rivelazione. Se tutto
ciò che veniva caricato nel Thunderhead era memorizzato nel
cervello primordiale, allora non c’erano solo gli archivi pubblici, ma
anche quelli personali. Non poteva accedere ai documenti privati di
altre persone, ma poteva accedere alle informazioni che lei stessa
caricava. In altre parole, poteva seminare la ricerca con i suoi dati…

«Non esiste nessuna legge che mi vieti di andare a trovare la mia


famiglia mentre svolgo l’apprendistato.»
Citra sollevò la questione a cena, senza alcun preavviso o accenno
di conversazione. Il suo intento era di prendere alla sprovvista
Madame Curie.
E funzionò, perché la Signora della Morte rimase in silenzio a
lungo, portandosi alla bocca due cucchiaiate di minestra, prima di
rispondere. «È la nostra tradizione. Una tradizione saggia, secondo la
mia opinione.»
«È crudele.»
«Non sei già andata a un matrimonio di un parente?»
Citra si chiese come facesse Madame Curie a saperlo, ma non si
lasciò intimidire. «Tra pochi mesi, potrei morire. Penso di avere il
diritto di rivedere la mia famiglia più di una volta prima di allora.»
Madame Curie prese altre due cucchiaiate di minestra. «Ci
penserò.»
Alla fine, accettò, come Citra si aspettava; dopotutto, la sua
mentore era una donna giusta. E non aveva detto una bugia, voleva
davvero rivedere la sua famiglia. Madame Curie non avrebbe potuto
leggere sul suo viso alcuna ambiguità, perché non ce n’era.
Naturalmente, rivedere la famiglia non era l’unico motivo per cui
desiderava tornare a casa.

Citra e la sua mentore scesero lungo la via in cui abitava la sua


famiglia. La strada non era cambiata, eppure tutto era diverso. Fu
presa da una leggera nostalgia, ma non riusciva a capire che cosa le
mancasse. Aveva solo l’impressione di camminare in un territorio
inesplorato in cui la gente parlava una lingua diversa dalla sua, che
lei non conosceva. Salirono in ascensore fino al piano
dell’appartamento di Citra in compagnia di una donna grassottella
che portava al guinzaglio un carlino ancora più grasso di lei. Aveva
un’espressione terrorizzata. La donna, non il carlino. Al cane non
importava proprio nulla. Prima ancora che Citra se ne andasse di
casa, la signora Yeltner, quello era il suo nome, aveva riprogrammato
il suo indice di massa corporea su “snello”. Ma, apparentemente, la
procedura si scontrava con un appetito vorace, perché la vicina
strabordava grasso da tutte le parti.
«Salve, signora Yeltner» la salutò Citra, che si sentiva un po’ in
colpa per il piacere che provava di fronte al malcelato panico della
donna.
«Sono… sono contenta di rivederti» le disse la vicina, che
evidentemente non si ricordava il suo nome. «Non c’è già stata una
spigolatura al tuo piano qualche mese fa? Non pensavo che si
potesse colpire lo stesso condominio dopo così poco tempo.»
«Si può» rispose Citra. «Ma oggi non siamo qui per spigolare.»
«Anche se tutto è possibile» aggiunse Madame Curie.
Quando l’ascensore giunse al piano, per la fretta di uscire la
signora Yeltner inciampò nel carlino.
Era domenica: i genitori e il fratello di Citra erano a casa, la
stavano aspettando. La sua visita era stata annunciata ma, aprendo
la porta, il padre parve sorpreso.
«Ciao, papà» lo salutò. Il padre la strinse in un abbraccio caloroso,
anche se di circostanza.
«Ci sei mancata, tesoro» le disse la madre, abbracciandola a sua
volta. Ben si tenne a distanza, fissando la falce.
«Ci aspettavamo di vedere Maestro Faraday» disse il padre.
«È una lunga storia» replicò Citra. «Ora ho una nuova mentore.»
«Lei è Madame Curie!» esclamò Ben.
«Ben» lo rimproverò la madre. «Non essere scortese.»
«Ma è lei, non è vero? Ho visto le foto. Lei è famosa.»
La falce gli rivolse un sorriso modesto. «Tristemente famosa, per
essere precisi.»
Il padre di Citra indicò il soggiorno. «La prego, si accomodi.»
Ma Madame Curie non superò nemmeno la soglia. «Il lavoro mi
chiama altrove. Tornerò al tramonto a riprendere Citra.» Fece un
cenno di saluto ai genitori, strizzò l’occhio a Ben, poi si voltò e uscì.
Dopo che la porta si fu richiusa, i genitori parvero un po’ più rilassati,
come se avessero trattenuto il fiato per tutto il tempo.
«Non posso credere che la tua mentore sia Madame Curie!»
«Non sapevo nemmeno che fosse ancora in vita» disse la madre.
«Le falci non sono tenute a eliminarsi a vicenda, alla fine?»
«Non siamo tenute a fare nulla» rispose Citra, un po’ sorpresa per
il fatto che i suoi genitori sapessero così poco della Compagnia. «Le
falci si autospigolano solo se lo vogliono.» “O se le ammazzano”
pensò tra sé.
La sua camera era come l’aveva lasciata, solo più pulita.
«E se non dovessero assegnarti il titolo di falce, potrai tornare a
casa, e sarà come se non fossi mai andata via» le disse la madre.
Citra evitò di raccontarle che in un caso o nell’altro non sarebbe
tornata. Se si fosse meritata di entrare nella Compagnia delle falci,
avrebbe vissuto con altre giovani falci e, in caso contrario, non
avrebbe vissuto affatto. Ma non era necessario che i suoi genitori lo
sapessero.
«Questo è il tuo giorno. Cosa vorresti fare?» le chiese il padre.
Citra frugò nel cassetto della scrivania finché non trovò la sua
macchina fotografica. «Andiamo a fare una passeggiata.»

La conversazione ruotava intorno ad argomenti banali e, per quanto


Citra fosse contenta di trovarsi in famiglia, la distanza tra loro non era
mai stata così grande. C’erano talmente tante cose di cui avrebbe
voluto parlare, ma non avrebbero capito. Non avrebbero mai potuto
immedesimarsi in lei. Non poteva raccontare alla madre quanto
intricata e complessa era l’arte di uccidere. Non poteva far capire al
padre l’angoscia che si provava nel momento in cui la vita
abbandonava gli occhi di una persona. Forse, solo con il fratello
avrebbe potuto parlare senza sentirsi a disagio.
«Ho sognato che venivi nella mia scuola a spigolare tutti i bulli» le
disse.
«Davvero? Di che colore era la mia veste?»
Esitò un attimo. «Turchese, mi pare.»
«Allora, sarà questo il colore che sceglierò.»
Ben si sciolse in un sorriso raggiante.
«Che nome prenderai dopo che sarai diventata falce?» le chiese il
padre, come se fosse una certezza.
Citra non ci aveva pensato. Aveva sempre sentito le falci farsi
chiamare con il loro patronimico storico o con il titolo di eccellenza.
Anche la sua famiglia avrebbe dovuto rivolgersi a lei in quel modo?
Non aveva ancora scelto un nome. «Siete la mia famiglia, potete
chiamarmi come volete» disse, sperando che fosse così.
Fecero un giro per la città. Passarono davanti alla casa in cui
aveva vissuto con Rowan e Maestro Faraday, ma non disse nulla.
Superarono la stazione ferroviaria poco distante da lì. E dappertutto,
Citra si preoccupò di fare una foto di famiglia… dall’angolazione della
telecamera di sorveglianza più vicina.
La giornata fu emotivamente faticosa. Citra avrebbe voluto trattenersi
di più, ma al tempo stesso non vedeva l’ora che tornasse Madame
Curie. Si impose di non sentirsi in colpa. L’aveva fatto spesso negli
ultimi mesi. “Il senso di colpa è il cugino scemo del rimorso” amava
ripetere Maestro Faraday.
Sulla strada del ritorno, Madame Curie non le fece domande sulla
giornata passata in famiglia e Citra ne fu contenta. Fu lei a chiedere
qualcosa alla sua mentore, invece.
«Non la chiama mai nessuno con il suo nome?»
«Altre falci… quelle di cui sono amica mi chiamano Marie.»
«Come Marie Curie?»
«Il mio patronimico storico era una grande donna. Ha coniato il
termine “radioattività” ed è stata la prima donna a vincere il premio
Nobel, all’epoca in cui si assegnavano ancora riconoscimenti di quel
tipo.»
«Ma qual è il suo vero nome? Il suo nome di battesimo, intendo.»
Madame Curie non rispose subito. «Non c’è nessuno al mondo che
mi conosca con quel nome» disse, infine.
«E la sua famiglia? Ci sarà ancora qualcuno vivo. Dopotutto, hanno
l’immunità finché lei resta in vita.»
Madame Curie sospirò. «Non ho più notizie della mia famiglia da
oltre un centinaio di anni.»
Citra si chiese se sarebbe accaduta la stessa cosa anche a lei.
Dopo l’investitura, le falci interrompevano tutti i rapporti con parenti e
amici, cancellando con un colpo di spugna la loro vita precedente?
«Susan» disse infine Madame Curie. «Quando ero bambina, mi
chiamavano Susan. Suzy. Sue.»
«Piacere di conoscerla, Susan.»
Per Citra era quasi impossibile immaginare che Madame Curie
fosse mai stata una bambina.

Rientrata a casa, Citra caricò le foto sul Thunderhead senza


preoccuparsi di farsi vedere dalla sua mentore. Non c’era nulla di
insolito o di sospetto in quello: tutti caricavano le loro foto. Sarebbe
stato strano se non l’avesse fatto.
Più tardi quella sera, quando fu sicura che Madame Curie si fosse
addormentata, Citra andò nello studio, si collegò e recuperò le foto,
cosa che le fu facile perché le aveva contrassegnate. Poi si immerse
nel cervello primordiale, seguendo tutti i collegamenti che il
Thunderhead aveva associato alle sue foto. Fu indirizzata ad altri
scatti della sua famiglia e di altre famiglie che assomigliavano in
qualche modo alla sua. Prevedibile. Ma trovò anche dei collegamenti
a video registrati da telecamere stradali negli stessi punti. Era quello
che stava cercando. Una volta creato il suo algoritmo per scartare le
istantanee non rilevanti dalle immagini delle telecamere stradali, mise
insieme una serie di video di sorveglianza molto interessanti.
Naturalmente, le restavano ancora milioni di file da controllare, ma
almeno ora c’erano tutte le registrazioni video del quartiere di
Maestro Faraday.
Caricò una foto per vedere se riusciva a recuperare i video in cui lui
compariva ma, come sospettava, non trovò nulla. La regola di non
interferenza impediva al Thunderhead di marcare le immagini delle
falci. Era comunque riuscita a restringere il campo da miliardi a
milioni di registrazioni, ma rintracciare i movimenti di Maestro
Faraday il giorno in cui era morto era come cercare un ago in un
pagliaio. Ciò nonostante, era decisa a trovare quello che stava
cercando, ci fosse voluto pure tutto il tempo del mondo.
Le spigolature devono essere simboliche. Devono essere memorabili. Devono avere il
potere leggendario delle più grandi battaglie dell’era mortale, tramandate di bocca in
bocca, rese immortali come lo siamo noi. Dopotutto, è per questo che noi falci
esistiamo. Per non perdere il contatto con il nostro passato. Legate a doppio filo alla
mortalità. Sì, la maggior parte di noi vivrà in eterno, a differenza di alcuni, grazie alla
Compagnia delle falci. A quelli che saranno spigolati non dobbiamo garantire,
perlomeno, una fine spettacolare?

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Goddard


24
Una vergogna per la nostra professione

Insensibile. Rowan sentiva che stava diventando insensibile. Anche


se era un bene per la sua salute mentale, era un male per la sua
anima.
«Non perdere mai la tua umanità» lo aveva messo in guardia
Maestro Faraday. «O diventerai solo una macchina per uccidere.»
Aveva usato il termine “uccidere”, non “spigolare”. Al momento, non ci
aveva fatto molto caso, ma ora capiva. Quando si diventava
indifferenti al gesto, non si trattava più di spigolatura, ma di
assassinio.
L’indifferenza era un purgatorio grigio. Una vasta pianura su cui
regnava l’apatia. Ma esisteva un luogo peggiore. Come le tenebre
che si facevano passare per luce. Un luogo color blu reale
tempestato di diamanti che brillavano come stelle.

«No, no, no!» esclamò spazientito Maestro Goddard, mentre


osservava Rowan esercitarsi con una katana contro manichini
imbottiti di cotone. «Non hai imparato nulla, allora?»
Rowan non ne poteva più, ma riusciva ancora a dissimulare
l’esasperazione. Contò a mente fino a dieci prima di voltarsi verso la
falce, che avanzava nella sua direzione, attraversando il vasto prato
della proprietà, ora disseminato di batuffoli di cotone.
«Che cosa ho sbagliato questa volta, eccellenza?»
Per Rowan, il titolo di eccellenza aveva assunto un sapore osceno.
Era una volgarità, che non poteva fare a meno di sputare fuori dalla
bocca come se fosse un insulto. «Ne ho decapitati cinque, sbudellati
tre, e ho tranciato l’aorta agli altri. Se fossero stati uomini in carne e
ossa, sarebbero tutti morti. Ho fatto quello che voleva.»
«È questo il problema» replicò Maestro Goddard. «Non si tratta di
quello che voglio io, ma di quello che vuoi tu. Dov’è andata a finire la
tua passione? Attacchi come se fossi un robot!»
Con un sospiro, Rowan rinfoderò la katana. Ora avrebbe dovuto
sorbirsi una predica o, più precisamente, una filippica, perché
Maestro Goddard amava dare spettacolo, anche davanti a un solo
spettatore.
«Gli esseri umani sono predatori per natura» cominciò. «Una
natura che è stata senz’altro addolcita dalla forza levigante della
nostra civiltà, ma che non potremo mai domare fino in fondo.
Accettala, Rowan. Attaccati al suo seno rivoluzionario. Magari credi
che il gusto per la spigolatura si acquisti con il tempo, ma non è così.
L’eccitazione della caccia e la gioia di uccidere fremono in ognuno di
noi. Falle risalire in superficie, solo allora sarai la falce di cui questo
mondo ha bisogno.»
Rowan avrebbe voluto smentire quelle parole, ma in effetti affinare
le proprie capacità, di qualunque natura fossero, quello sì che era
gratificante. Ciò che non sopportava era il fatto di prenderci gusto.
I domestici sostituirono i fantocci mutilati con degli altri nuovi.
Effimeri spaventapasseri. Goddard gli tolse la katana e gli porse uno
spaventoso coltello da caccia, per dare una morte più intima.
«È un coltello Bowie, come quello che usano le falci texane»
spiegò Goddard. «Trai piacere dal tuo gesto, Rowan. Altrimenti, sarai
solo una macchina per uccidere.»

Ogni giorno era uguale al precedente: una corsa mattutina con


Madame Rand, una seduta di pesi con Maestro Chomsky, una
colazione equilibrata e dietetica preparata da uno chef esperto.
Seguivano le lezioni sull’arte di uccidere impartite da Maestro
Goddard in persona. Armi bianche e da fuoco, archi o combattimento
a mani nude. Mai veleni, a meno che non fossero sulla punta
dell’arma.
«La spigolatura si esegue, non si somministra» gli spiegò Maestro
Goddard. «È un atto volontario. Scivolare nella passività e lasciare
che sia il veleno a fare tutto il lavoro è una vergogna per la nostra
professione.»
I sermoni di Goddard erano incessanti e, sebbene Rowan fosse
spesso in disaccordo con lui, non osava discutere o manifestare il
suo dissenso. In quel modo, la voce della falce finì per sostituirsi al
suo moderatore interno. Divenne la sua voce interiore giudicante.
Rowan non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene. Goddard si era
infiltrato nella sua testa e commentava ogni suo gesto.
I pomeriggi erano dedicati all’addestramento della mente con
Maestro Volta. Esercizi di memoria e giochi per affinare le sue abilità
cognitive. Rowan poi passava una piccolissima parte della giornata,
poco prima di cena, a studiare sui libri. Aveva l’impressione che
l’allenamento mentale lo aiutasse a ricordare le cose con più facilità,
senza dover ripetere.
«Studierai pure la tua storia, la tua biochimica e le tue tossine fino
alla nausea, così potrai fare colpo sul conclave» disse Goddard, con
un gesto sdegnoso della mano. «Io l’ho sempre trovato inutile, ma è
necessario stupire sia gli accademici sia i pragmatici.»
«E lei è un pragmatico?» chiese Rowan.
Fu Volta a rispondere. «Maestro Goddard è un precursore. Questo
lo pone su un livello superiore a qualsiasi altra falce della MidMerica.
Forse, addirittura del mondo.»
Goddard non lo contraddisse.
E poi, c’erano le feste. Piombavano sulla residenza come falchi.
Tutto il resto si fermava. Avevano addirittura la precedenza
sull’allenamento di Rowan, che non aveva idea di chi le organizzasse
o da dove venissero gli invitati, ma arrivavano sempre, con una
quantità di vettovaglie tale da sfamare un esercito e ogni tipo di
dissolutezza.
Rowan non sapeva se fosse la sua immaginazione, ma ebbe
l’impressione che le feste di Goddard fossero frequentate da più falci
e celebrità rispetto alla prima a cui aveva partecipato.
Nel giro di tre mesi, il fisico di Rowan era decisamente cambiato;
passava più tempo di quanto volesse ammettere a osservarsi allo
specchio in camera da letto. Era una massa di muscoli ben definiti:
addominali, pettorali. I bicipiti si erano gonfiati all’improvviso.
Madame Rand gli schiaffeggiava i glutei, alludendo a ogni sorta di atti
libidinosi non appena fosse diventato maggiorenne.
Alla fine, aveva capito cosa fare del suo diario, scrivendo frasi che
parevano sensate, ma che in realtà erano tutte una finta. Non
riportava mai quello che pensava veramente, perché sapeva che il
suo diario personale non era personale neanche un po’ e che
Maestro Goddard ne leggeva ogni singola parola. Così, scriveva solo
quello che il suo mentore avrebbe voluto leggere.
Benché non avesse dimenticato il suo giuramento segreto di
lasciare l’anello a Citra, a volte Rowan si permetteva di immaginare
che tipo di falce sarebbe stato. Avrebbe seguito i precetti di Maestro
Faraday o si sarebbe adeguato a quelli di Maestro Goddard? Per
quanto si rifiutasse di ammetterlo, l’impostazione di quest’ultimo non
era priva di una certa logica. Dopotutto, quale creatura in natura
disprezzava la sua stessa esistenza e si vergognava del suo metodo
di sopravvivenza?
“Ci siamo allontanati dalla natura da quando abbiamo sconfitto la
morte” diceva Maestro Faraday. Ma non poteva essere una buona
ragione per scoprire in se stessi un’altra natura? Se alla fine Rowan
avesse provato piacere a spigolare, sarebbe stata poi una tragedia
tanto grande?
Si guardava bene dal condividere i propri pensieri. Tuttavia,
Maestro Volta riusciva a indovinarne il tenore, anche se non ne
conosceva i dettagli.
«So che tu non possiedi i tratti che predilige Maestro Goddard, che
considera la compassione e la tolleranza come segni di debolezza»
gli disse Volta. «Ma hai altre qualità che stanno per emergere. Sarai il
precursore del nuovo ordine quando diventerai falce!»
Di tutte le giovani falci di Maestro Goddard, Volta era il più
ammirevole e quello con cui Rowan si identificava di più. Avrebbero
potuto diventare amici, se fossero stati allo stesso livello.
«Ricordi il dolore che hai provato quando ti abbiamo picchiato?» gli
chiese Volta un pomeriggio, al termine dell’addestramento mentale.
«Come potrei dimenticarlo?»
«Lo abbiamo fatto per tre motivi. Il primo, perché entrassi in
sintonia con i nostri antenati, perché rivivessi il dolore e la paura del
dolore, perché è quello che ha portato gli uomini alla civiltà e a
superare la mortalità. Il secondo, perché è un rito iniziatico, qualcosa
che manca molto nel nostro mondo, diventato passivo. Il terzo motivo
è il più importante: provare dolore ci permette di godere appieno della
gioia di essere umani.»
Alle orecchie di Rowan, quelle parole suonarono più come banali
luoghi comuni, ma Volta non era come Goddard. Di solito, non si
dilungava a perorare ideali altisonanti e insulsi.
«Provavo già gioia nella mia vita senza dover essere pestato»
replicò Rowan.
Volta annuì. «Ne hai provata un po’… ma solo l’ombra di quella che
potresti sentire. Senza la minaccia del dolore, non possiamo provare
la vera gioia. Nella migliore delle ipotesi, proviamo piacere.»
Rowan non aveva nulla da replicare, perché quelle parole gli
sembrarono giuste. Aveva avuto una vita piacevole. Si lamentava
solo di una cosa: di essere stato emarginato. Ma forse non si
sentivano tutti emarginati? Vivevano in un mondo in cui nulla di quello
che si faceva aveva importanza. La sopravvivenza era garantita. Il
reddito anche. Il cibo era abbondante e la comodità un bene
acquisito. Il Thunderhead provvedeva ai bisogni di tutti. Quando non
manca nulla, che altro può essere la vita se non piacevole?
«Alla fine, capirai» gli disse Maestro Volta. «Ora che i tuoi naniti
analgesici sono azzerati, è inevitabile.»

Esme rimaneva un mistero. A volte scendeva a mangiare con loro,


altre no. A volte Rowan la sorprendeva con un libro in mano in diversi
angoli della casa; vecchi libri dell’era mortale, pezzi da collezione che
erano appartenuti al precedente proprietario prima che cedesse tutti i
suoi beni a Maestro Goddard. Ogni volta, nascondeva quello che
stava leggendo, come se ne fosse imbarazzata.
«Quando diventerai una falce, resterai qui?» gli chiese un giorno.
«Forse sì, forse no. Forse, non sarò una falce. E allora, forse, non
sarò più da nessuna parte.»
Esme ignorò l’ultima parte della risposta. «Dovresti restare.»
Il fatto che una bambina di nove anni sembrasse avere una cotta
per lui era un’altra complicazione di cui Rowan non aveva certo
bisogno. Quella ragazzina otteneva tutto ciò che voleva. Avrebbe
avuto anche lui, se lo avesse desiderato?
«Il mio nome è Esmeralda, ma tutti mi chiamano Esme» gli spiegò
un mattino, seguendolo nella sala pesi. Di solito, Rowan era gentile
con i bambini, ma da quando gli era stato detto che con lei doveva
essere gentile, non aveva più voglia di esserlo.
«Lo so, Maestro Goddard me l’ha detto. Non dovresti essere qui.
Questi pesi possono essere pericolosi.»
«E tu non dovresti venire qui senza essere accompagnato da
Maestro Chomsky» sottolineò prima di sedersi su una panca, senza
mostrare alcuna intenzione di volersene andare. «Se ti va, potremmo
fare un gioco quando avrai finito di allenarti.»
«Io non gioco.»
«Nemmeno a carte?»
«Nemmeno a carte.»
«Che vita noiosa avrai fatto, prima.»
«Sì, ma ora non più.»
«Domani ti insegnerò a giocare a carte, dopo cena» annunciò. E
dato che Esme otteneva tutto ciò che voleva, Rowan si fece trovare
all’ora concordata, che lo volesse o no.
«Esme deve essere sempre felice» gli ricordò Maestro Volta, dopo
che Rowan ebbe giocato a carte con lei.
«Perché? Goddard non si preoccupa di nessuno che non indossi la
veste da falce, perché allora si preoccupa per lei?»
«Sii gentile con la bambina.»
«Sono gentile con tutti» ribadì Rowan. «In caso tu non l’abbia
notato, sono una persona perbene.»
Volta rise. «Pensalo finché puoi» gli rispose, come se fosse molto
difficile da credere.

Poi venne il momento in cui Maestro Goddard fece prendere alla vita
di Rowan una piega inaspettata. Senza preavviso, come era solito
fare. Fu durante le lezioni sull’arte di uccidere. Quel giorno, Rowan si
stava allenando con due daghe, una per mano. Non era facile
maneggiarne due insieme; Rowan preferiva usare la destra, con la
sinistra aveva poca dimestichezza. Maestro Goddard adorava
aggiungere difficoltà a quegli allenamenti e lo criticava sempre
aspramente quando Rowan non si dimostrava all’altezza della
perfezione. Eppure aveva fatto progressi sorprendenti. Era migliorato
nell’usare abilmente le armi e aveva anche strappato al suo mentore
qualche modesto elogio.
«Accettabile» diceva Goddard, oppure: «Questo non era poi così
male». Pronunciati da lui, erano dei grandi complimenti.
E, suo malgrado, Rowan provava soddisfazione ogni volta che
Goddard mostrava di approvare. E dovette anche ammettere che
maneggiare le armi cominciava a piacergli. Ci si era appassionato,
come con qualsiasi altro sport. Destrezza per il gusto della destrezza,
e poi un senso di soddisfazione per essere riuscito a fare bene.
Quel giorno, le cose presero una brutta piega. Fu evidente dal
momento in cui mise piede sul prato che stava accadendo qualcosa,
perché non erano stati portati i manichini imbottiti. Al loro posto, c’era
circa una decina di persone. Non capì subito. Tutte le giovani falci
erano venute per assistere al suo allenamento. Quello avrebbe
dovuto mettergli la pulce nell’orecchio. Di solito, era presente solo
Goddard.
«Che succede?» chiese Rowan. «Non posso allenarmi con tutta
quella gente. Di’ loro di levarsi di mezzo.»
Madame Rand rise di lui. «Sei di un’ingenuità disarmante.»
«Sento che ci divertiremo» disse Maestro Chomsky, incrociando le
braccia, pronto ad assaporare quello che sarebbe seguito.
Infine, capì. Quelle persone sul prato erano in piedi, immobili,
equidistanti tra loro. Lo aspettavano. Non ci sarebbero più stati
manichini. Ora, l’allenamento si faceva serio. Per imparare l’arte di
uccidere, doveva uccidere davvero.
«No» esclamò Rowan, scuotendo la testa. «No, non posso farlo!»
«Oh, sì che lo farai» disse con calma Maestro Goddard.
«Ma… ma non sono stato ancora ordinato, non posso spigolare!»
«Chi ha parlato di spigolare?» replicò Maestro Volta, posandogli
una mano sulla spalla, in un gesto confortante. «I droni-ambulanza si
terranno pronti a intervenire per ciascuno di loro. Verranno trasportati
al centro di rianimazione più vicino. E saranno di nuovo in piedi nel
giro di un giorno o due.»
«Ma… ma…» Rowan era a corto di argomenti. «Non va bene!»
esclamò infine.
«Ascoltami» disse Maestro Goddard, facendo un passo avanti. «Ci
sono tredici persone su quel prato. Ognuna di loro è qui per sua
libera scelta, e ognuna riceverà un congruo compenso per il servizio
che fornirà. Tutte queste persone sanno perché sono qui, conoscono
il loro compito, e sono più che felici di svolgerlo, e io mi aspetto lo
stesso da te. Quindi, fai il tuo lavoro.»
Rowan sguainò le daghe e le osservò. Quel giorno, non avrebbero
attraversato il cotone, ma la carne.
«Cuori e giugulari» gli disse Maestro Goddard. «Manda al creatore
i tuoi soggetti, in fretta. Verrai cronometrato.»
Rowan avrebbe voluto protestare, ripetere che non poteva farlo
ma, anche se con il cuore sentiva di non poterci riuscire, la mente gli
diceva la verità.
Sì, poteva farlo.
Si era preparato proprio per quello. Bastava mettere a tacere la
coscienza. Sapeva di esserne capace, e quella consapevolezza lo
terrorizzava.
«Dovrai eliminarne dodici» gli disse Maestro Goddard. «E lasciare
l’ultimo in vita.»
«Perché?»
«Perché lo dico io.»
«Avanti, non abbiamo tutto il giorno» brontolò Chomsky. Volta
lanciò a Chomsky un’occhiata fulminante, poi si rivolse a Rowan con
molta più pazienza. «È come tuffarsi in una piscina di acqua gelata.
Quello che immagini è molto peggio della realtà. Salta, e vedrai che
andrà tutto bene.»
Rowan avrebbe potuto andarsene.
Avrebbe potuto gettare a terra le daghe ed entrare in casa.
Avrebbe potuto dimostrare a se stesso di aver fallito e forse non
avrebbe più dovuto sopportare tutto quello. Ma Volta credeva in lui. E
anche Maestro Goddard, pur non ammettendolo. Perché mai lo
avrebbe messo davanti a quella sfida se non fosse stato convinto che
l’avrebbe superata?
Rowan fece un profondo respiro, agguantò saldamente le daghe
con entrambe le mani e con un roco grido di guerra che mise a tacere
le urla di protesta della sua anima si scagliò in avanti.
C’erano uomini e donne, e rappresentavano diverse età,
mescolanze etniche e tipi fisici: muscolosi, obesi e magri. Rowan
gridava, urlava e ringhiava a ogni affondo, fendente e torsione. Si era
allenato bene. Le lame penetravano con una precisione perfetta. Una
volta iniziato, si accorse che non poteva più fermarsi. I soggetti si
accasciavano a terra, gli uni dopo gli altri, colpo dopo colpo. Non si
difendevano, non scappavano in preda alla paura: restavano
immobili. Era come se avesse a che fare con dei manichini, l’unica
differenza era il sangue di cui era coperto dalla testa ai piedi. Gli
pizzicava gli occhi e l’odore forte gli penetrava nelle narici. Gli
rimaneva un ultimo bersaglio. Una ragazza della sua età, i cui occhi
avevano un’espressione rassegnata che rasentava la tristezza.
Avrebbe voluto porre fine a quella tristezza. Avrebbe voluto
completare quello che aveva iniziato, ma dominò l’istinto brutale del
cacciatore. Si impose di abbassare le lame.
«Fallo» gli bisbigliò la ragazza. «Fallo, o non mi pagheranno.»
Ma lui lasciò cadere le daghe sull’erba. Dodici morti, una
sopravvissuta. Si girò verso le falci, e tutte si misero ad applaudire.
«Ottimo lavoro!» esclamò Maestro Goddard, più soddisfatto di
quanto Rowan non si fosse aspettato. «Davvero un ottimo lavoro!»
I droni-ambulanza scesero dall’alto, afferrando i corpi per
trasportarli al più vicino centro di rianimazione. Rowan si sorprese a
sorridere. Dentro di lui, qualcosa era scattato. Non sapeva se fosse
un bene o no. Da una parte, avrebbe voluto lasciarsi cadere in
ginocchio e vomitare la colazione. Ma dall’altra, moriva dalla voglia di
ululare alla luna come un lupo.
Un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che sarei stato capace di maneggiare più di
venti tipi di armi bianche, che sarei diventato esperto di armi da fuoco e che avrei
conosciuto almeno dieci modi di porre fine a una vita a mani nude, gli sarei scoppiato a
ridere in faccia e gli avrei suggerito di andarsi a fare modificare la chimica del cervello.
Incredibile quello che può accadere in appena qualche mese.
L’addestramento sotto la guida di Maestro Goddard è diverso da quello di Maestro
Faraday. È intenso, fisico e devo ammettere che sto migliorando in ogni cosa che
faccio. È come se fossi una lama, affilata tutti i giorni su una mola.
Mancano poche settimane al mio secondo conclave. La prima prova era solo una
semplice domanda. Mi hanno detto che la prossima volta sarà diverso. Non si sa che
cosa chiederanno agli apprendisti. Una cosa è certa: le conseguenze saranno gravi se
non sarò all’altezza delle aspettative di Goddard.
So che non lo deluderò.

Dal diario di Rowan Damisch, apprendista falce


25
Agente di morte

L’ingegnere amava credere che il suo lavoro presso il laboratorio di


propulsione magnetica fosse utile, anche se gli era sempre apparso
insignificante. I treni magnetici si muovevano già con un’efficacia
ottimale. Le applicazioni software per il trasporto privato richiedevano
soltanto un piccolo aggiustamento, di tanto in tanto. Non esisteva più
il cosiddetto “rivisto e migliorato”, c’era solo la magia del “diverso”.
Nuove formule e pubblicità per convincere la gente che quello stile
era all’ultimo grido, ma in fondo la tecnologia di base restava
esattamente la stessa.
In teoria, però, c’erano ancora nuovi utilizzi da scoprire e sfruttare,
altrimenti perché il Thunderhead li avrebbe messi all’opera?
Alcuni capiprogetto conoscevano bene lo scopo ultimo del loro
lavoro, ma nessuno possedeva tutti i pezzi del mosaico. E
comunque, le ipotesi abbondavano. A lungo si era creduto che la
combinazione di vento solare e propulsione magnetica avrebbe
consentito di viaggiare nello spazio in modo efficiente. In verità, la
prospettiva dei viaggi nello spazio aveva perso la sua attrattiva da
molti anni, ma non voleva dire che un giorno non sarebbero tornati in
voga.
All’epoca, c’erano state delle missioni per colonizzare Marte, per
esplorare le lune di Giove e anche per intraprendere viaggi
interstellari, ma ognuna si era conclusa in modo disastroso e
fallimentare. Le astronavi erano esplose. I coloni erano periti. E nello
spazio siderale, la morte era morte, pura e semplice, come una
spigolatura. L’idea di una morte irrevocabile senza il controllo della
mano di una falce era troppo per un mondo che aveva sconfitto la
mortalità. L’indignazione pubblica aveva chiuso la porta a ogni
esplorazione spaziale. La Terra era l’unica casa, e così sarebbe
continuato a essere.
Ecco perché, sospettava l’ingegnere, il Thunderhead portava
avanti quei progetti con quella cura e con quella lentezza, proprio per
non attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Non che nascondesse
nulla, il Thunderhead non era capace di nascondere nulla. Era
semplicemente riservato. Saggiamente riservato.
Un giorno, forse, il Thunderhead avrebbe annunciato che, mentre
tutti guardavano da un’altra parte, l’umanità era riuscita a varcare i
confini del pianeta Terra. L’ingegnere non vedeva l’ora che arrivasse
quel giorno e sperava di vivere abbastanza per esserne testimone.
Non aveva alcun motivo di pensare altrimenti.
Fino a quando una squadra di falci non mise sotto assedio il suo
laboratorio di ricerca.

Rowan fu svegliato all’alba da un asciugamano in piena faccia.


«Alzati, bella addormentata» disse Maestro Volta. «Fatti la doccia e
vestiti, oggi è il grande giorno.»
«Il grande giorno per cosa?» chiese Rowan, ancora intontito.
«Il giorno della spigolatura!»
«Vuoi dire che spigolate davvero? E io che pensavo che passaste il
vostro tempo a fare feste e a spendere i soldi altrui.»
«Datti una mossa, saputello.»
Non appena Rowan chiuse l’acqua della doccia, sentì il rumore di
un elicottero e, quando uscì, il velivolo era atterrato sul prato e li
stava aspettando. Non fu sorpreso di vedere che era dipinto di blu
reale e costellato di stelle scintillanti. Nell’universo di Maestro
Goddard, tutto portava il sigillo del suo ego.
Le altre tre falci erano già fuori, dove si stavano esercitando,
ripetendo le mosse letali in cui eccellevano. Le loro vesti erano
rigonfie, chiaramente appesantite dalle armi nascoste tra le pieghe
del tessuto. Chomsky carbonizzò un cespuglio in vaso con un
lanciafiamme.
«Non mi dire… un lanciafiamme?» chiese Rowan.
Chomsky alzò le spalle. «Non c’è una legge che lo vieti. E poi, non
sono affari tuoi.»
Goddard uscì dalla residenza a grandi passi. «Che state
aspettando? Andiamo!» Come se non stessero tutti ad aspettare lui.
Il momento era carico di adrenalina. Mentre si avviavano verso
l’elicottero in attesa, Rowan, per un attimo, li immaginò come
supereroi… finché non si ricordò quale fosse il loro vero obiettivo e la
fantasia si dissolse.
«Quanti ne spigolerete?» chiese a Maestro Volta, ma quello scosse
la testa e si indicò l’orecchio. Il rumore delle pale era troppo
assordante perché potesse sentirlo. Mentre attraversavano il prato, il
vento agitava le loro vesti come bandiere nella tempesta.
Rowan fece alcuni calcoli. Ogni falce doveva portare a termine
cinque spigolature alla settimana e, per quanto ne sapeva, quei
quattro, da quando lui era arrivato tre mesi prima, non ne avevano
fatta nemmeno una. Quindi, quel giorno avrebbero potuto spigolare
circa duecentocinquanta soggetti, e anche così non avrebbero
raggiunto la loro quota. Non sarebbe stata una spigolatura, ma un
massacro.
Rowan esitò, rallentando il passo, mentre gli altri salivano a bordo.
Volta se ne accorse.
«C’è qualche problema?» gridò Volta, sovrastando il frastuono
assordante delle pale.
Ma, anche se fosse riuscito a farsi sentire, Rowan non sarebbe
stato capito. Era questo che facevano Goddard e i suoi accoliti, era
così che operavano. Per loro, era routine. Sarebbe stato così anche
per lui, un giorno? Ripensò agli ultimi allenamenti. Quelli con i
bersagli viventi. La sensazione che aveva provato quando li aveva
abbattuti tutti tranne uno, quel senso di repulsione che cercava di
dominare un primitivo istinto di vittoria. Lo avvertiva ancora adesso,
davanti al portellone aperto dell’elicottero. Più si addentrava
nell’universo di Goddard, e più difficile diventava tornare indietro.
Ora, le quattro falci lo stavano guardando. Erano tutti pronti per
andare in missione. L’unica cosa che li tratteneva era lui, Rowan.
“Non sono uno di loro” si disse. “Non spigolerò. Sarò lì solo per
osservare.”
Si impose di salire a bordo e si chiuse il portellone alle spalle.
L’elicottero si alzò in cielo.
«Non sei mai salito su uno di questi apparecchi?» chiese Volta,
fraintendendo la preoccupazione di Rowan.
«No, mai.»
«È l’unico modo di viaggiare» spiegò Madame Rand.
«Siamo angeli della morte» disse Maestro Goddard. «Arriviamo dal
cielo, non c’è niente di più appropriato.»
Puntarono a sud, sorvolando Fulcrum City, diretti verso la periferia.
Per tutto il viaggio, Rowan sperò in silenzio che l’elicottero si
schiantasse, ma si rese conto dell’inutilità di una tale evenienza.
Perché, anche se fosse accaduto, sarebbero stati tutti rianimati nel
giro di due giorni.

Un elicottero atterrò sul tetto dell’edificio principale. Non era stato


annunciato, cosa che non accadeva mai. Il Thunderhead pilotava
quasi tutti i trasporti aerei e, anche se fosse stato un volo particolare,
qualcuno a bordo avrebbe comunque annunciato l’avvicinamento e
richiesto l’autorizzazione all’atterraggio.
Quell’elicottero era semplicemente sceso dal cielo e si era posato
sul loro tetto.
L’addetto alla sicurezza che era al sesto piano salì di corsa le scale
fino al tetto, in tempo per vedere le falci scendere dall’elicottero.
Erano in quattro: blu, verde, giallo e arancione, oltre a un ragazzo
con la fascia da apprendista sul braccio.
La guardia rimase a bocca aperta, immobile, senza sapere cosa
fare. Pensò di avvertire l’ufficio centrale, ma immaginò che, se
l’avesse fatto, sarebbe stato spigolato sul posto.
La donna in verde, con una capigliatura scura da strega e tratti
panasiatici, gli si avvicinò con un grande sorriso.
«Toc toc.»
L’uomo era troppo sconvolto per rispondere.
«Ho detto: “Toc toc”.»
«Chi… chi è?» disse, infine.
La donna infilò la mano in una tasca della veste e ne estrasse il
coltello più spaventoso che la guardia avesse mai visto. La falce in
blu le afferrò il braccio prima che potesse usarlo.
«Non perdere tempo con lui, Ayn» le disse.
La falce in verde, con un’alzata di spalle, rimise via il coltello. «Ti
perderai la battuta finale, immagino.» Poi, insieme agli altri, lo superò
e si incamminò per le scale, entrando nello stabile.
La guardia incrociò lo sguardo dell’apprendista, che era rimasto
qualche passo indietro agli altri. «Che cosa devo fare?» gli chiese.
«Vattene» gli rispose il ragazzo. «E non guardarti indietro.»
La guardia obbedì. Corse alla scala opposta, la scese e si precipitò
fuori dall’uscita di emergenza. Smise di correre solo quando fu troppo
lontano per sentire le grida.

«Cominceremo dal sesto piano e procederemo verso il basso» disse


Goddard. In fondo alle scale, incontrarono una donna che stava
aspettando l’ascensore. Soffocò un grido, paralizzata dal terrore.
«Buuu!» fece Maestro Chomsky. La donna sussultò e i faldoni che
aveva in mano le caddero a terra. Rowan sapeva che una delle falci
avrebbe potuto spigolarla solo per capriccio. Anche lei doveva
saperlo, perché cercava di farsi forza.
«Qual è il tuo livello di accesso?» le chiese Goddard.
«Livello uno» rispose lei.
«È alto?»
La donna annuì e Goddard le prese il badge. «Grazie. Puoi
vivere.»
Andò verso una porta chiusa e passò il badge di sicurezza per
aprirla.
Rowan si sentì venir meno, gli mancava il fiato. «Vi aspetto qui.
Non ho l’autorità per spigolare, meglio se vi aspetto qui» disse.
«È escluso» rispose Chomsky. «Tu vieni con noi.»
«Ma… ma che utilità può avere la mia presenza? Vi sarei solo
d’impiccio.»
Madame Rand ruppe con un calcio il vetro di una bacheca
antincendio, prese l’accetta e gliela porse. «Prendi. Spacca tutto.»
«Perché?»
Gli fece l’occhiolino. «Perché ne hai l’autorità.»

I dipendenti dell’unità 601, che occupava la metà nord del piano,


furono colti di sorpresa. Maestro Goddard e i suoi accoliti
procedettero a grandi falcate verso il centro della zona di attività.
«Attenzione, prego!» annunciò in tono teatrale. «Attenzione, tutti!
Siete stati selezionati per essere spigolati oggi. Siete pregati di farvi
avanti e affrontare la vostra fine.» Mormorii, gemiti soffocati e grida di
terrore. Nessuno si fece avanti. Nemmeno uno.
Goddard rivolse un cenno con il capo a Chomsky, Volta e Rand; i
quattro avanzarono attraverso il labirinto di cubicoli e uffici,
annientando ogni forma di vita al loro passaggio.
«Io sono il vostro compimento!» declamò Goddard. «Io sono la
vostra liberazione! Io sono il portale che si apre sui misteri
dell’aldilà!»
Lame, proiettili e fiamme. L’ufficio prese fuoco. Gli allarmi partirono,
gli estintori automatici rilasciarono getti d’acqua gelata dal soffitto. I
condannati restarono intrappolati tra il fuoco e l’acqua e la linea di
mira dei quattro predatori. Erano spacciati, tutti.
«Io sono la vostra ultima parola! Il vostro omega! Il portatore di
pace e riposo! Accogliete la mia venuta!»
Nessuno lo fece. Molti si dettero alla fuga, molti altri implorarono
pietà. L’unica pietà che fu loro concessa fu la rapidità con cui vennero
inviati al creatore.
«Ieri eravate degli dèi. Oggi siete dei mortali. La morte è il dono
che vi faccio. Accoglietela con grazia e umiltà.»
Goddard e i suoi tre gregari erano così concentrati che non videro
Rowan sgusciare via per raggiungere l’unità 602. Batté i pugni sulla
porta a vetri finché un uomo non gli aprì. Rowan lo avvertì del
pericolo.
«Prendete le scale sul retro. Avvisa tutti quelli che puoi. Non fare
domande, va’!» Se l’uomo avesse avuto dei dubbi, questi furono
subito fugati dalle grida disperate che provenivano dall’altra parte del
piano.
Pochi minuti dopo, quando Goddard, Volta, Chomsky e Madame
Rand ebbero finito nell’unità 601, attraversarono il corridoio ed
entrarono nell’unità 602, che trovarono deserta. C’era solo Rowan,
che menava colpi di accetta ai computer, alle scrivanie e a qualunque
cosa lungo il suo passaggio, facendo esattamente ciò che gli era
stato detto.

Le falci si mossero più veloci delle fiamme, più veloci del flusso di
impiegati in fuga. Volta e Chomsky bloccarono due delle tre scale.
Madame Rand guadagnò l’entrata principale e si appostò come un
portiere davanti alla rete, eliminando chiunque cercasse di scappare.
Goddard declamò la sua rituale litania, avanzando tra la gente in
preda al panico, cambiando arma secondo l’umore, mentre Rowan
abbatteva l’accetta su ogni oggetto da rompere, indirizzando di
nascosto tutte le persone che poteva verso le scale non presidiate.
In meno di quindici minuti, fu tutto finito. L’edificio era avvolto dalle
fiamme e l’elicottero ne era rimasto al di sopra, in volo stazionario. Le
falci uscirono in fretta dall’entrata principale, come i quattro cavalieri
dell’apocalisse post mortale.
Rowan seguiva da ultimo, trascinando l’accetta sul marmo, finché
non la lasciò cadere a terra con un forte clangore.
Davanti a loro, c’era una decina di camion dei pompieri e di droni-
ambulanza dietro i quali si erano radunate frotte di sopravvissuti.
Alcuni fuggirono quando videro uscire le falci, ma molti restarono,
affascinati nonostante la paura.
«Vedi?» disse Goddard a Rowan. «I vigili del fuoco non possono
intervenire dopo un’azione delle falci. Lasceranno che l’incendio
distrugga l’intero stabile. E, per quanto riguarda i superstiti, abbiamo
una splendida opportunità di pubbliche relazioni.»
Detto questo, si fece avanti e parlò alla platea di coloro che non
erano fuggiti. «La spigolatura è terminata» annunciò. «A quelli che
sono sopravvissuti, concediamo l’immunità. Fatevi avanti per
riceverla.» Allungò la mano con l’anello. Le altre falci lo imitarono.
All’inizio, nessuno si mosse, probabilmente temendo che fosse
tutto un trucco. Ma dopo qualche istante, un impiegato sporco di
fuliggine si fece strada, seguito da un altro e poi un altro ancora, e poi
l’intera folla si fece coraggio e si avvicinò, con cauto timore. I primi si
inginocchiarono e baciarono gli anelli e, quando gli altri videro che
non era un inganno, scattarono in avanti, assaltando le falci.
«Piano!» gridò Volta.
Lo stesso istinto da branco che li aveva motivati a fuggire ora li
spingeva verso quegli anelli salvavita. In un lampo, tutti si erano
dimenticati dei colleghi morti.
Poi, quando la calca si fece più pressante e agitata, Goddard ritirò
la mano, si tolse l’anello e lo porse a Rowan.
«Mi sono stancato. Prendilo tu. Goditi un po’ di adorazione.»
«Ma… non posso, non sono stato ordinato.»
«Se ti do il permesso come agente di morte per mio conto, puoi
indossarlo» gli disse Goddard. «E ora hai il mio permesso.»
Rowan lo infilò all’anulare, ma gli andava largo, quindi lo spostò al
dito indice, su cui calzava meglio. Poi tese la mano come le altre
falci.
Alla folla non interessava su quale dito fosse infilato l’anello o di chi
fosse la mano. Si arrampicavano gli uni sugli altri per baciarglielo e
per ringraziarlo della sua equità, del suo amore e della sua
misericordia, chiamandolo “eccellenza”, senza nemmeno accorgersi
che non era una falce.
«Benvenuto tra gli dèi viventi» gli disse Maestro Volta. Alle loro
spalle, intanto, l’edificio si stava riducendo in cenere.
Siamo saggi, ma non perfetti; perspicaci, ma non onniscienti. Sappiamo che, istituendo
la Compagnia delle falci, faremo qualcosa di veramente necessario, ma noi, le prime
falci, abbiamo ancora i nostri dubbi. La natura umana è prevedibile, ma anche
misteriosa: incline a grandi e improvvisi progressi, eppure intrisa di un vile egoismo. La
nostra speranza è che con un corpus di dieci leggi semplici e chiare sia possibile
aggirare i pericoli dell’umana fallibilità. La mia più grande speranza è che, con il tempo,
la nostra saggezza raggiunga la perfezione, come è stato per la nostra conoscenza.
Nel caso questo nostro esperimento dovesse fallire, abbiamo previsto anche una via di
fuga.
Possa il Thunderhead aiutarci tutti, se mai dovessimo aver bisogno di usare quella
via di fuga.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Prometeo, la prima Suprema
Roncola Mondiale
26
Non come gli altri

Quella sera festeggiarono ma, per quanto Rowan si sforzasse, non


riuscì a ritrovare l’appetito. Goddard mangiò per tutti. La caccia della
giornata l’aveva rinvigorito, come un vampiro dopo aver succhiato la
forza vitale delle sue vittime. Era più affabile, più garbato che mai, e
si divertiva a far ridere tutti. Rowan rifletté su quanto fosse facile
subire il suo fascino. Essere attirato nel suo club d’élite. Proprio come
era successo agli altri.
Era evidente che Chomsky e Madame Rand erano fatti della
stessa pasta di Goddard. Non avevano un briciolo di morale. Ma, a
differenza sua, non avevano manie di grandezza. Spigolavano per
sport, per la gioia di farlo e, come Madame Rand giustamente diceva:
“Perché ne avevano l’autorità”. Erano più che felici di impugnare le
armi, mentre Goddard interpretava il suo ruolo di angelo della morte.
Rowan non sapeva dire se il suo mentore ci credeva davvero o se
era tutto un trucco, un tocco di teatralità per aggiungere fascino allo
spettacolo.
Maestro Volta, invece, era diverso. Sì, aveva preso d’assalto il
complesso di uffici e aveva spigolato la sua quota come gli altri, ma
aveva parlato poco mentre rientravano a casa a bordo dell’elicottero.
E ora, a cena, aveva a malapena toccato il cibo che aveva nel piatto.
Si alzava di continuo per andare a lavarsi le mani. Probabilmente
pensava che nessuno se ne accorgesse, ma Rowan lo aveva notato.
E anche Esme.
«Maestro Volta diventa sempre irritabile dopo una spigolatura»
sussurrò la bambina all’orecchio di Rowan. «Non fissarlo così,
altrimenti ti tira qualcosa.»
A metà della cena, Goddard volle avere un bilancio definitivo.
«Ne abbiamo spigolati duecentosessantatré» lo informò Madame
Rand. «Abbiamo superato la nostra quota. La prossima volta,
dovremo spigolarne di meno.»
Contrariato, Goddard sbatté il pugno sul tavolo. «Queste maledette
quote ci danneggiano tutti! Se non ci fossero, ogni giorno potrebbe
essere come oggi.» Poi si girò verso Volta e gli chiese come se la
stesse cavando. Era stato incaricato di fissare gli appuntamenti con
le famiglie dei deceduti, per poter concedere l’immunità di legge.
«Ho passato tutto il giorno a chiamare ogni singola famiglia. Si
metteranno in fila davanti al cancello domani mattina presto.»
«Dovremmo lasciarli entrare» disse Goddard, con un sorriso
ironico. «Potranno vedere Rowan che si allena sul prato.»
«Ho orrore dei parenti in lutto» commentò Madame Rand,
piantando la forchetta in un pezzo di carne al sangue per
trascinarselo nel piatto. «Hanno sempre un’igiene orale orribile. Basta
che conceda l’immunità per un’ora e mi impestano l’anello.»
Incapace di sopportare altro, Rowan chiese il permesso di alzarsi
da tavola. «Ho promesso a Esme che avrei giocato a carte con lei
dopo cena, e si sta facendo tardi.» Non era vero, ma lanciò
un’occhiata alla bambina e lei annuì, compiaciuta di far parte di un
complotto improvvisato.
«Ma vi perderete la crème brûlée» replicò Goddard.
«Meglio, ce ne sarà di più per noi» commentò Chomsky, portandosi
alla bocca una forchettata di carne succulenta.
Rowan ed Esme si trasferirono nella sala da gioco e fecero una
partita a ramino, contenti di essersi sottratti alla discussione sulle
spigolature, le quote e il bacio degli anelli. Rowan fu rincuorato dal
fatto che in quella stanza l’unico segno di angoscia fosse il viso
tormentato del re suicida, il re di cuori.
«Dovremmo chiedere ad altri di unirsi a noi» propose Esme.
«Potremmo giocare alla Peppa. In due, non si può.»
«Non ho proprio voglia di giocare a carte con le falci» le rispose
Rowan, senza entusiasmo.
«Non con loro, scemo. Parlavo dei domestici.» Prese il nove che
Rowan aveva appena scartato, il secondo che le aveva dato, come
se non sapesse che le servivano. Lasciarla vincere era il
ringraziamento per averlo aiutato ad andarsene da tavola.
«A volte, gioco a carte con i figli dell’addetto alla piscina. Ma non
hanno molta simpatia per me, perché questa prima era la loro casa.
Ora vivono in una stanza nell’ala riservata al personale.» Poi
aggiunse: «Tu dormi in una delle loro camere, lo sai? Credo che non
abbiano molta simpatia nemmeno per te».
«Sono convinto che non ne abbiano per nessuno di noi.»
«Sì, probabilmente hai ragione.»
Forse era a causa della sua giovane età, ma Esme aveva l’aria di
non rendersi affatto conto delle cose che pesavano sull’animo di
Rowan. Forse era abbastanza sveglia per capire che non doveva fare
domande o esprimere giudizi su ciò che vedeva. Accettava la sua
situazione e non parlava mai male del suo benefattore, o meglio del
suo carceriere, perché era in effetti prigioniera di Goddard, anche se
non ne era consapevole. Viveva in una gabbia dorata, ma era
comunque una gabbia. Eppure, la sua ignoranza era una
benedizione, e Rowan decise di non toglierle l’illusione di essere
libera.
Rowan raccolse un asso, che gli serviva per la sua mano, ma poi lo
scartò.
«Goddard parla mai con te?» le domandò.
«Certo che parla con me» rispose Esme. «Mi chiede sempre come
sto, e se ho bisogno di qualcosa. E in quel caso, si assicura che mi
venga procurata. Proprio la settimana scorsa gli ho chiesto un…»
«No, non intendevo parlare in quel senso» la interruppe Rowan.
«Intendevo parlare davvero. Ti ha mai detto perché ci tiene così tanto
a te?»
Esme non rispose. Mise le carte sul tavolo. «Ramino. Chi perde dà
le carte.»
Rowan le raccolse. «Maestro Goddard deve avere una buona
ragione per lasciarti vivere e per concederti l’immunità. Non sei per
nulla curiosa?»
Esme si strinse nelle spalle, senza fiatare. Parlò solo quando
Rowan distribuì un’altra mano. «Veramente, Maestro Goddard non mi
ha concesso l’immunità. Può spigolarmi quando vuole, ma non lo fa.»
Sorrise. «Questo mi rende ancora più speciale, non credi?»

Fecero quattro partite. Una la vinse Esme di diritto, due gliele lasciò
vincere Rowan e una la vinse lui, giusto per non farle credere di aver
perso le altre di proposito. Quando smisero di giocare, la cena era
finita e le falci se ne stavano ognuna per conto proprio. Rowan le
evitò e si diresse in camera sua ma, mentre ci stava andando, sentì
qualcosa che lo fece fermare. Dalla camera di Volta proveniva un
gemito sommesso. Origliò alla porta, per assicurarsi che non fosse
frutto della sua immaginazione, poi abbassò la maniglia. La porta non
era chiusa a chiave. La spinse un po’ e guardò dentro.
Maestro Volta era seduto sul letto, con la testa tra le mani, il corpo
scosso da singhiozzi che cercava di soffocare, senza riuscirci. Gli ci
volle un po’ prima di alzare lo sguardo.
Vedendo Rowan, la tristezza di Volta si trasformò in furore. «Chi
diavolo ti ha autorizzato a entrare? Vattene!» Afferrò il primo oggetto
che gli capitò a portata di mano, un fermacarte di vetro, e glielo
scagliò addosso, proprio come Esme aveva previsto. Gli avrebbe
procurato un bel taglio in testa se Rowan non avesse avuto la
prontezza di abbassarsi. Il fermacarte colpì la porta, scheggiandone il
legno. Rowan avrebbe potuto fare dietrofront. Sarebbe stata
probabilmente la cosa più saggia, ma lasciar correre non era il suo
forte. Aveva una certa abilità a ficcare il naso dove non doveva.
Entrò nella stanza e chiuse la porta, pronto a schivare un altro
oggetto, eventualmente. «Devi fare meno rumore se non vuoi che ti
sentano.»
«Se lo dici a qualcuno, giuro che renderò la tua vita un inferno!»
Rowan rise, sarcastico. Come se la sua vita non fosse già un
inferno.
«Credi che sia divertente? Te la do io una buona ragione per
ridere.»
«Scusa, non volevo. Non ridevo di te, se è quello che pensi.»
Volta sembrava essersi un po’ calmato. Non lanciava più oggetti e
non lo stava cacciando.
Rowan prese una sedia e si sedette, mantenendosi a una certa
distanza per non invadere il suo spazio. «Oggi è stata dura» disse.
«Ti capisco.»
«Che ne sai tu?» sbottò Volta.
«So che non sei come gli altri. Non del tutto.»
La falce alzò lo sguardo. Non cercava più di nascondere gli occhi
rossi di pianto. «C’è qualcosa che non va in me, ecco che c’è.»
Riabbassò gli occhi, stringendo i pugni.
Rowan non si mosse, non si aspettava che volesse picchiarlo.
Pensò che Volta avrebbe voluto prendersi a pugni da solo, se avesse
potuto.
«Maestro Goddard è il futuro. E io non voglio far parte del passato,
non capisci?»
«Ma oggi è stata una sofferenza per te, non è così? Anche di più
che per me, perché tu non stavi solo guardando, ne hai preso parte.»
«Anche tu ne prenderai presto parte.»
«Forse no.»
«Oh, certo che sì. Quando riceverai l’anello e ucciderai la tua
ragazza, capirai che non potrai più tornare indietro.»
Rowan deglutì, cercando di non vomitare quel poco che aveva
mangiato a cena. Rivide il viso di Citra, ma allontanò subito
l’immagine. Non poteva pensare a lei, ora.
Sapeva che con Volta stava rischiando. L’unica cosa da fare era
affondare il coltello fino in fondo. «A te non piace affatto spigolare. Lo
detesti più di qualsiasi altra cosa. Il tuo mentore era Maestro Nehru,
giusto? È della vecchia scuola, quindi vuol dire che ti ha scelto per la
tua coscienza. Non vuoi togliere la vita, e soprattutto non vuoi
toglierne a decine in una sola volta.»
A quel punto, Volta si alzò di scatto, sollevò Rowan di peso e lo
attaccò al muro con una tale violenza che Rowan rimpianse i suoi
naniti analgesici.
«Apri bene le orecchie: non ti azzardare a dirlo a nessuno, hai
capito? Ho fatto tanto per arrivare fin qui, e non ti consentirò di
mettere in pericolo la mia posizione! Non mi farò ricattare da un
apprendista col moccio al naso!»
«È questo che pensi stia facendo? Che ti stia ricattando?»
«Non prendermi in giro!» ringhiò Volta. «Lo so perché sei qui!»
Rowan era sinceramente deluso. «Credevo che mi conoscessi.»
Nel giro di qualche secondo, Volta allentò la stretta. «Nessuno
conosce nessuno. È così, no?»
«Ti prometto che non lo dirò a nessuno. E non voglio nulla da te.»
Volta, alla fine, si calmò. «Scusa. Quando vivi circondato da tanti
cospiratori, cominci a pensare che siano tutti così.» Si sedette sul
letto. «Ti credo, perché so che tu non sei così. In realtà, questo
l’avevo capito sin dal momento in cui Goddard ti ha preso sotto la sua
guida. Per lui, tu sei una sfida, perché, se riesce a convertire un
apprendista di Faraday al suo modo di pensare, significa che può
convertire chiunque.»
In quel momento, Rowan si rese conto che Volta non aveva tanti
più anni di lui. Aveva sempre simulato una sicurezza che lo faceva
sembrare più grande, ma ora la sua vulnerabilità aveva mostrato la
verità. Aveva al massimo vent’anni. Il che voleva dire che era falce
solo da poco. Rowan non sapeva che percorso aveva fatto per
passare da falce della vecchia guardia a falce di Goddard, ma poteva
immaginarlo. Capiva che una giovane falce potesse essere attratta
dallo splendore e dal carisma di Goddard. Dopotutto, quest’ultimo
aveva promesso ai suoi discepoli tutto ciò che un cuore umano
poteva desiderare in cambio della totale rinuncia alla coscienza. In
una professione in cui la coscienza era un peso, chi mai ne avrebbe
voluta una?
Rowan si sedette di nuovo, e avvicinò la sedia a Volta per potergli
bisbigliare all’orecchio. «Ecco ciò che penso. Goddard non è una
falce. È un assassino.» Era la prima volta che osava dirlo ad alta
voce. «Ci sono molti scritti sugli assassini dell’era mortale. Mostri
come Jack lo squartatore, Charles Manson o Cyber Sally, e l’unica
differenza tra loro e Goddard è che Goddard può uccidere e farla
franca. I mortali sapevano che era sbagliato, ma in qualche modo noi
l’abbiamo dimenticato.»
«Sì, ma anche se fosse vero, che cosa possiamo fare?» chiese
Volta. «Il futuro arriva, che lo vogliamo oppure no. Rand, Chomsky e
le decine e decine di altri bastardi malati che darebbero tutto per
poter entrare nella cerchia elitaria di Goddard saranno le figure
dominanti di quel futuro. Sono sicuro che le falci fondatrici si
rivolterebbero nella tomba; ma il punto è che loro sono in una tomba.
E non torneranno.» Volta fece un profondo respiro e si asciugò le
ultime lacrime. «Per il tuo bene, Rowan, spero che tu riesca ad
amare uccidere almeno quanto Goddard. La tua vita sarebbe molto
più facile. Molto più gratificante.»
Quell’osservazione lo colpì come uno schiaffo in piena faccia.
Appena un mese prima, Rowan non avrebbe mai immaginato che
sarebbe diventato un mostro, ma ora non ne era più sicuro. La
pressione, che aumentava ogni giorno di più, lo spingeva a cedere.
Sperava solo che, se Volta non aveva mai abbracciato davvero le
tenebre, anche per lui ci fosse ancora una possibilità.
I canali ufficiali non danno alle spigolature visibilità mediatica, con grande disappunto
delle falci fanatiche della pubblicità. Nemmeno le spigolature di massa finiscono nei
notiziari. Eppure, sul Thunderhead si caricano una moltitudine di immagini e video
personali delle spigolature, creando archivi clandestini che sono molto più
entusiasmanti e attraenti di qualsiasi notizia ufficiale.
Notorietà e infamia evolvono presto in celebrità e fama per le falci, e le gesta più
audaci si trasformano in leggenda. Per alcune falci, la popolarità è come una droga e
non possono fare a meno di procurarsene dosi sempre maggiori. Altre preferiscono
restare nell’anonimato.
Non posso negare di essere io stessa una leggenda. Non per le semplici
spigolature che eseguo ora, ma per quelle clamorose che ho realizzato più di
centocinquant’anni fa. Come se non fossi già abbastanza immortale, mi ritrovo
immortalata nelle raccolte di figurine. Le figurine più recenti sono apprezzate dai
bambini in età scolare. Le più vecchie, anche quelle più malridotte, valgono una
fortuna e i collezionisti incalliti ne fanno incetta.
Io sono leggenda. Eppure, ogni giorno, vorrei non esserlo.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


27
Il Conclave della mietitura

L’indagine segreta di Citra portò con sé alcune sorprese. Non vedeva


l’ora di parlarne con Rowan, al Conclave della mietitura, quando lo
avrebbe rivisto. Non poteva certo condividerle con Madame Curie.
Tra le due si era instaurata una certa fiducia; la falce non avrebbe
visto di buon occhio che la sua apprendista usasse di nascosto le sue
credenziali personali per navigare in rete.
La vita di Citra aveva preso una piega diversa da quella di Rowan.
Non partecipava a feste chiassose ed eccessive, né si allenava con
soggetti in vita. Aiutava la sua mentore a cucinare pasti tranquilli per
le famiglie in lutto e si esercitava nell’arte del Bokator con un robot
cintura nera. Preparava infusi e studiava l’uso dei veleni mortali
attingendo alla farmacia e all’orto di erbe velenose di Madame Curie.
Imparava le celebri gesta delle migliori e delle peggiori falci della
storia.
In passato, erano in genere l’indolenza, i pregiudizi e la mancanza
di lungimiranza a indurre in errore una falce, facendone un cattivo
elemento, come aveva scoperto Citra. Alcune spigolavano troppi
vicini di casa, perché non si davano la pena di guardare oltre il loro
quartiere. Altre, nonostante le ripetute azioni disciplinari, si limitavano
a spigolare persone con specifici tratti etnici. Non mancavano esempi
di scarso giudizio. Come Maestro Sartre, che riteneva fosse una
buona idea eseguire tutte le spigolature ai rodei, distruggendo in tal
modo quello sport, dato che la gente non vi assisteva più per paura di
essere spigolata.
Naturalmente, le falci cattive non appartenevano solo al passato.
Ora, invece di cattive, venivano definite innovative e lungimiranti.
Come gli innovativi bagni di sangue di Maestro Goddard e dei suoi
sodali assassini.
La spigolatura di massa al laboratorio di propulsione magnetica,
anche se non fu resa nota ufficialmente, destò enorme scalpore.
C’era una grande quantità di video privati caricati sul Thunderhead
che mostravano Goddard e i suoi discepoli che dispensavano
immunità come pane ai poveri. E tra quelli c’era anche Rowan. Citra
non sapeva cosa pensare.
«Il mondo ha un talento naturale per ricompensare i comportamenti
negativi con la notorietà» disse Madame Curie, mentre guardava
alcuni video che erano stati caricati. Rimase pensierosa per qualche
istante. «Conosco i pericoli di essere una falce celebre» ammise,
anche se Citra lo sapeva già. «Sono stata caparbia e stupida da
giovane. Pensavo che spigolando le persone giuste al momento
giusto avrei reso il mondo migliore. Credevo, nella mia arroganza, di
avere una visione più chiara della mia missione, cosa che agli altri
mancava. Invece, ero limitata come chiunque altro. Quando ho
spigolato il presidente con tutto il consiglio dei ministri, è stato un
terremoto per il mondo, ma il mondo tremava già anche senza di me.
Mi chiamarono “Signorina Massacro”, che poi nel tempo cambiò in
“Signora della Morte”. Ho passato più di cento anni a cercare di
tornare all’anonimato, ma anche i bambini più piccoli mi riconoscono.
Sono lo spauracchio che i genitori agitano davanti ai figli che si
comportano male: “Fai il bravo o ti verrà a prendere la Signora”.»
Madame Curie scosse la testa. «La popolarità è effimera, ma per una
falce le azioni che la identificano restano per sempre. Se vuoi un
consiglio, Citra, cerca di mantenere un basso profilo e di passare
inosservata.»
«Sarà anche diventata una falce tristemente celebre» osservò
Citra, «ma pure nei suoi peggiori momenti non è mai stata come
Goddard.»
«No, mai, meno male» disse Madame Curie. «Non ho mai tolto una
vita per il piacere di farlo. Vedi, ci sono quelli che inseguono la fama
per cambiare il mondo e altri che la vogliono per irretirlo. Goddard fa
parte della seconda categoria.» E poi disse qualcosa che avrebbe
tormentato Citra per molte notti a venire. «Se fossi in te, non mi
fiderei più del tuo amico Rowan. Goddard è corrosivo come l’acido.
La cosa più generosa che potresti fare quando arriverà il Conclave
d’inverno è questa: conquista l’anello e spigolalo al più presto, prima
che quell’acido lo intacchi più a fondo di quanto non abbia già fatto.»
Con grande sollievo di Citra, al Conclave d’inverno mancavano
ancora diversi mesi. Al momento, era il Conclave della mietitura che
la impensieriva. Dapprima, aveva atteso con impazienza il mese di
settembre ma, a mano a mano che si avvicinava, le sue
preoccupazioni aumentavano. Non era la prova che la turbava. Si
sentiva pronta. Quello che temeva era rivedere Rowan, perché non
aveva idea di come fosse cambiato dopo tutti quei mesi sotto la guida
di Goddard. «Conquista l’anello e spigolalo al più presto» le aveva
consigliato Madame Curie.
Bene, era inutile pensarci adesso. Aveva ancora quattro mesi
davanti a sé prima di prendere una decisione. Ma le lancette
dell’orologio continuavano a girare, avvicinandoli inesorabilmente alla
morte dell’uno o dell’altra.

Il Conclave della mietitura si svolse in una giornata di settembre,


limpida ma ventosa. Mentre il temporale aveva tenuto lontano molti
spettatori dal precedente conclave, questa volta sulla strada di fronte
al Campidoglio di Fulcrum City c’era una gran ressa. Erano stati
schierati molti più ufficiali di pace del solito per tenere a bada la folla
di curiosi. Alcune falci, soprattutto della vecchia guardia, arrivarono
umilmente a piedi dai loro hotel, rinunciando a fare un’entrata in
grande stile. Altre apparvero a bordo di auto di lusso, come delle star.
Équipe televisive puntavano le telecamere su di loro, ma la maggior
parte si manteneva a distanza. Dopotutto, non era un tappeto rosso.
Niente domande, niente interviste, ma c’era molta ostentazione.
Alcune falci rivolgevano cenni di saluto, raddrizzavano le spalle e
alzavano il mento per mostrare il loro profilo migliore alle telecamere.
Maestro Goddard, con il suo seguito, arrivò in limousine, un’auto
blu reale costellata di strass, in caso la gente si fosse chiesta chi mai
ci fosse a bordo. Quando scesero dalla macchina, la folla esplose in
grida di sorpresa come se si trovasse davanti a uno spettacolo
pirotecnico.
«Eccolo!»
«È lui!»
«Quant’è bello!»
«Fa così paura!»
«Com’è elegante!»
Goddard si soffermò a salutare la folla agitando la mano con un
gesto regale. Poi si concentrò su una ragazza tra il pubblico, ne
sostenne lo sguardo, le puntò l’indice contro e salì le scale senza dire
nulla.
«È davvero strano!»
«Così pieno di mistero!»
«È terribilmente affascinante!»
La ragazza che Goddard aveva indicato si paralizzò, sorpresa e
terrorizzata dalla breve attenzione ricevuta. E quello fu precisamente
l’effetto voluto.
Erano tutti così presi da Goddard e dal suo seguito variopinto che
nessuno notò Rowan che chiudeva il gruppo, mentre salivano verso
l’ingresso.
Le falci di Goddard non erano le uniche a voler dare spettacolo.
Maestro Kierkegaard portava una balestra in spalla. Non che avesse
intenzione di usarla quel giorno, era solo parte dello show. Eppure,
avrebbe potuto prendere la mira e spigolare chiunque avesse voluto
in mezzo al pubblico. Quella consapevolezza fece aumentare
l’eccitazione della folla. Nessuno era mai stato spigolato sulla
scalinata del Campidoglio prima di un conclave, ma questo non
voleva dire che non sarebbe potuto accadere.
La maggior parte delle falci arrivò dal viale principale, mentre
Madame Curie e Citra fecero la loro entrata da una strada laterale,
per non attirare l’attenzione. Mentre la Signora della Morte sfilava tra
il pubblico, un boato esplose tra gli spettatori quando si accorsero chi
stava passando in mezzo a loro. Tutti cercavano di sfiorarle l’abito di
seta color lavanda. Li lasciò fare, naturalmente, ma quando un uomo
la afferrò per la veste, lo allontanò con una manata.
«Attento» lo ammonì, incrociando il suo sguardo. «Non tollero che
mi si tocchi.»
«Le mie scuse, eccellenza» disse l’uomo, poi fece per prenderle la
mano con l’intenzione di baciarle l’anello, ma lei lo respinse in malo
modo.
«Non ci pensare nemmeno.»
Citra fece strada a Madame Curie aprendosi un varco tra la calca.
«Forse sarebbe stato meglio prendere una limousine. Almeno non
avremmo dovuto sopportare tutta questa fatica per arrivare.»
«L’ho sempre trovato troppo snob» ribatté Madame Curie.
Mentre superavano la ressa, una folata improvvisa di vento scese
dalla scalinata del Campidoglio, facendo svolazzare all’indietro, come
se fosse un velo da sposa, la lunga capigliatura argentea di Madame
Curie, dandole un’aria quasi mistica.
«Sarebbe stato meglio se mi fossi fatta la treccia, oggi.»
Mentre salivano i gradini di marmo bianco, qualcuno alla loro
sinistra gridò: «La adoriamo!».
Madame Curie si fermò e si girò; non riuscendo a individuare chi
avesse parlato, si rivolse a tutti.
«Perché?» chiese, ma sotto il suo freddo sguardo inquisitore
nessuno osò rispondere. «Potrei porre fine alla vostra esistenza in
qualsiasi momento… perché adorarmi?»
Ancora nessuna risposta. Lo scambio di battute fu intercettato da
un cameraman che si fece avanti, avvicinandosi troppo. Madame
Curie colpì la telecamera con una tale forza che per poco non cadde
dalle mani dell’uomo. «Non ti permettere» lo ammonì la falce.
«Sì, eccellenza. Mi scusi, eccellenza.»
Continuò a salire gli scalini, seguita da Citra. «Difficile credere che
un tempo amassi tutta questa attenzione. Adesso, se potessi, ci
rinuncerei volentieri.»
«Non era così tesa all’ultimo conclave» fece notare Citra.
«Perché non avevo un’apprendista che veniva interrogata. Ero io
che facevo l’esame agli apprendisti delle altre falci.»
Un esame che Citra non aveva passato in modo brillante. Ma non
aveva voglia di discuterne.
«Sa quale sarà il test di oggi?» chiese Citra, non appena ebbero
raggiunto la cima della scalinata ed entrarono nell’atrio.
«No, ma so che verrà fatto da Maestro Cervantes, che tende a
concentrarsi sulle capacità fisiche. Non mi stupirei se vi chiedesse di
correre una maratona.»
Come la volta precedente, le falci si salutarono nella grande sala
circolare, aspettando che le porte dell’anfiteatro si aprissero. La
colazione fu servita su una serie di tavoli al centro della sala, su cui
era stata sistemata una piramide di girelle danesi; di sicuro, per
costruirla c’erano volute ore e solo qualche secondo per distruggerla,
dato che alcune falci avevano sfilato i dolci di pasta sfoglia dal basso
senza preoccuparsi delle conseguenze. Il personale si affrettò a
raccogliere i danesi caduti a terra prima che potessero essere
calpestati. Madame Curie trovò la scena molto divertente. «È stato
imprudente da parte del servizio di catering pensare che le falci si
sarebbero comportate in modo civile…»
Citra riconobbe Madame Goodall, la giovane falce che era stata
ordinata all’ultimo conclave. La sua veste era stata disegnata da
DeGlasse, uno dei più grandi fashion designer al mondo. Un errore
grossolano, dato che gli stilisti del momento volevano a tutti i costi
colpire l’opinione pubblica con creazioni stravaganti. Madame
Goodall, in quella veste a righe arancioni e blu, sembrava più un
pagliaccio che una falce.
Citra non poté fare a meno di notare quanto Goddard e i sui
giovani accoliti fossero al centro dell’attenzione, ancor più che al
Conclave di primavera. Anche se alcune falci davano loro le spalle,
molte altre gli si radunavano sempre di più intorno, nel tentativo di
ingraziarseli.
«Ci sono sempre più falci che condividono le idee di Goddard»
commentò Madame Curie. «Hanno strisciato come serpenti, si sono
infiltrate nei nostri ranghi come gramigna, sostituendosi ai migliori di
noi.»
Citra pensò a Faraday, una falce rispettabile, soffocata dalle erbe
cattive.
«Gli assassini stanno per prendere il potere» continuò Madame
Curie. «E se ci riescono, vivremo giorni molto cupi. Spetta alle falci
onorevoli opporsi con tutte le loro forze. Non vedo l’ora che anche tu
ti unisca alla lotta.»
«Grazie, eccellenza.» Citra non avrebbe esitato a schierarsi dalla
parte del bene, se fosse diventata una falce. Era agli eventi che
l’avrebbero condotta verso quell’obiettivo che non riusciva a pensare.
Madame Curie andò a salutare diverse falci della vecchia guardia,
che erano rimaste fedeli agli ideali dei padri fondatori. Fu in quel
momento che Citra vide Rowan. Non si crogiolava nel falso splendore
di Goddard. Era, invece, al centro di altre attenzioni: era circondato
da altri apprendisti e anche da qualche giovane falce.
Chiacchieravano, ridevano e Citra si sentì offesa per il fatto che lui
non l’avesse nemmeno cercata.
In realtà, l’aveva cercata, ma era arrivato prima e, quando Citra era
entrata nella sala circolare, era stato già assalito da quegli inaspettati
ammiratori. Alcuni lo invidiavano per il fatto che era un apprendista di
Goddard, altri erano solo curiosi, altri ancora speravano di accodarsi
alla sua ascesa. Era chiaro che la corsa per accaparrarsi un posto
nella Compagnia delle falci iniziava da giovani.
«Tu eri in quell’edificio, non è vero?» gli chiese uno degli
apprendisti, uno spat, un novellino, al suo primo conclave. «Ti ho
visto nei video!»
«Non era solo lì» intervenne un altro apprendista. «Indossava
l’anello di Goddard e concedeva l’immunità!»
«Ehi! Ma è permesso?»
Rowan scrollò le spalle. «Goddard ha detto di sì, e comunque non
è che gli ho chiesto l’anello, me l’ha dato lui.»
Una giovane falce sospirò, malinconica. «Devi piacergli davvero
tanto se te l’ha prestato.»
Il pensiero che potesse davvero piacere a Goddard lo mise a
disagio, perché lui detestava categoricamente tutte le cose che
piacevano a Goddard.
«Allora, com’è?» gli chiese una ragazza.
«È… unico» le rispose Rowan.
«Magari fossi suo apprendista» disse un altro, poi fece una smorfia
come se avesse appena addentato un danese ripieno di crema
rancida. «Sono sotto la guida di Maestro Mao.»
Maestro Mao era un altro sbruffone a cui piaceva la notorietà. Era
celebre per la sua indipendenza, non si allineava né con la vecchia
guardia né con il nuovo ordine. Rowan non sapeva se seguisse la
propria coscienza o si vendesse al migliore offerente. Faraday
avrebbe avuto la risposta alla sua domanda. Sentiva la mancanza del
suo vecchio mentore. C’erano ancora tante cose che avrebbe potuto
insegnargli. Come leggere nell’animo della gente, per esempio.
«Al loro arrivo, Goddard e le sue giovani falci hanno conquistato la
scena sulla scalinata del Campidoglio» commentò un apprendista
che Rowan ricordava dal precedente conclave, quello che conosceva
a memoria tutti i suoi veleni. «Erano così eleganti.»
«Di che colore sarà la tua veste? E con quali gemme verrà
decorata?» gli chiese una ragazza, aggrappandosi al suo braccio
come un’edera. Non sapeva che cosa sarebbe stato più
imbarazzante, se liberarsi dalla presa o lasciarla fare.
«Invisibile» rispose Rowan. «Salirò la scalinata tutto nudo.»
«Decorato solo dei tuoi gioielli» scherzò una giovane falce e tutti
risero.
Citra avanzò tra di loro e Rowan si sentì in colpa come se fosse
stato preso con le mani nel sacco.
«Ciao, Citra!» esclamò in tono così forzato che avrebbe voluto
rimangiarsi quelle parole. Si liberò dalla stretta della ragazza-edera,
ma era troppo tardi, perché Citra aveva già visto tutto.
«Ti sei fatto un sacco di amicizie, mi pare…» osservò.
«No, veramente no» replicò lui, rendendosi subito conto di aver
offeso il suo pubblico. «Voglio dire, siamo tutti amici, no? Siamo sulla
stessa barca.»
«Sulla stessa barca…» ripeté Citra impassibile, ma lo sguardo era
tagliente come le lame appese nella sala d’armi di Faraday. «È stato
un piacere rivederti, Rowan.» Poi gli voltò le spalle e si allontanò in
fretta.
«Lasciala perdere» disse la ragazza-edera. «Sarà acqua passata
dopo il prossimo conclave, no?»
Rowan piantò tutti in asso senza nemmeno scusarsi. Raggiunse
subito Citra, il che gli fece pensare che non stesse davvero cercando
di scappare. Era un buon segno.
Le prese il braccio con delicatezza; lei si voltò a guardarlo. «Ehi, mi
dispiace per quello che ho detto, non volevo.»
«No, capisco. Ora sei un pezzo grosso. Devi darti delle arie.»
«Non è come pensi. Credi che volessi ingraziarmeli? Avanti, tu mi
conosci.»
Citra esitò. «Sono passati quattro mesi. In quattro mesi, una
persona può cambiare.»
Era vero. Ma alcune cose non erano cambiate. Rowan sapeva che
cosa Citra voleva sentire, ma sarebbe stato come girare ancora
intorno alla questione. Ancora moine. Così le disse la verità. «È bello
rivederti, Citra. Ma fa male. Fa male da morire, e non so che fare.»
Si accorse di averla punta sul vivo, perché aveva gli occhi lucidi. La
vide sbattere le palpebre e ricacciare indietro le lacrime. «Lo so. Non
immagini che darei perché non fosse così.»
«Ascolta» continuò Rowan. «Non pensiamo al Conclave d’inverno,
adesso. Pensiamo al presente.»
Citra annuì. «D’accordo.» Inspirò a fondo. «Vieni con me. C’è
qualcosa che voglio farti vedere.»
Si spostarono all’esterno, superando gli archi dove le falci
concludevano i loro loschi affari.
Citra estrasse il telefono e si proiettò una serie di ologrammi sul
palmo della mano, in modo che solo Rowan potesse vedere. «Li ho
scovati nel cervello primordiale del Thunderhead.»
«Come hai fatto?»
«Lascia perdere come ho fatto, l’importante è quello che ho
trovato.» Gli ologrammi mostravano Maestro Faraday che si
muoveva per le strade del suo quartiere. «Queste immagini sono
state registrate il giorno in cui è scomparso» continuò Citra. «Sono
riuscita a ricostruire alcuni dei suoi spostamenti.»
«Ma perché?»
«Guarda.» L’ologramma lo mostrava mentre entrava in casa di
qualcuno. «È la casa della donna che ci ha presentato al
supermercato. Ci ha passato qualche ora. Poi è andato in questo
bar.» Citra passò a un altro video in cui Faraday entrava nel locale.
«Credo che avesse un appuntamento con qualcuno, ma non so con
chi.»
«Okay. Dunque, diceva addio alla gente. Fin qui, mi sembra logico.
È quello che chiunque farebbe sapendo che è il suo ultimo giorno
sulla Terra.»
Nel video successivo, Faraday saliva le scale di una stazione
ferroviaria. «Qui era cinque minuti prima che morisse. Sappiamo
quello che è successo in quella stazione. Ma indovina un po’? La
telecamera di quel binario era stata danneggiata, presumibilmente da
alcuni vandali. Non ha funzionato per tutto il giorno. Non ci sono
registrazioni di quello che è accaduto davvero sulla banchina di quel
binario!»
Un treno partì dalla stazione e un istante dopo ne arrivò un altro,
dalla direzione opposta. Era quello che aveva ucciso Faraday. Anche
se non lo vide, Rowan si incupì come se lo avesse fatto.
«Pensi che qualcuno lo abbia ucciso e che lo abbia fatto passare
per un suicidio?» Rowan si guardò intorno per assicurarsi che non
fossero osservati. «Se è solo questa la prova che hai raccolto, è un
po’ poco» aggiunse, abbassando la voce.
«Lo so. Ecco perché ho continuato a indagare.» Tornò indietro e
visualizzò di nuovo la scena in cui Faraday si dirigeva verso la
stazione. «C’erano cinque testimoni. Non potevo rintracciarli senza
cercare negli archivi della Compagnia delle falci. Se lo avessi fatto,
se ne sarebbero accorti… ma avrebbe senso solo se quei testimoni
avessero salito le scale, giusto? Ecco, lo hanno fatto diciotto persone,
nel momento in cui Faraday è morto. Alcune di queste hanno preso
probabilmente il primo treno.» Indicò il convoglio che stava lasciando
la stazione. «Ma non tutte. Di quelle diciotto, ne ho identificate circa
la metà. E a tre di loro è stata concessa l’immunità proprio quel
giorno.»
Fu sufficiente per togliere il fiato a Rowan, lasciandolo confuso.
«Sono stati pagati per dire che si è trattato di un’autospigolatura?»
«Se tu fossi un normale cittadino e avessi visto una falce ucciderne
un’altra, e ti fosse stata offerta l’immunità per tenere la bocca chiusa,
che cosa faresti?»
Rowan avrebbe voluto credere che avrebbe desiderato solo fare
giustizia, ma ripensò ai tempi in cui non era ancora un apprendista,
quando la comparsa di una falce era la cosa più spaventosa che
potesse immaginare. «Bacerei l’anello e terrei la bocca chiusa.»
Dall’altra parte della sala, le porte dell’anfiteatro si aprirono e le
falci iniziarono a entrare.
«Di chi sospetti?» chiese Rowan.
«Chi aveva più da guadagnare dall’uscita di scena di Faraday?»
Non c’era bisogno che lo dicessero. Entrambi conoscevano la
risposta. Rowan sapeva che Goddard era capace di cose
impensabili, ma sarebbe arrivato al punto di uccidere un’altra falce?
Scosse la testa, incredulo. «Non è l’unica spiegazione possibile!»
esclamò. «Potrebbe anche non essere stata una falce. E se fosse
stato il parente di una persona spigolata? Insomma, una vendetta.
Chiunque avrebbe potuto impossessarsi dell’anello, spingere
Faraday sui binari e poi servirsi dell’anello per concedere l’immunità
ai testimoni, che sarebbero stati costretti a tenere la bocca chiusa per
non essere accusati di complicità.»
Citra stava per contestare quell’ipotesi, ma ci ripensò. Era
possibile. Sebbene l’assassino, indossando l’anello, si sarebbe
congelato il dito, quell’ipotesi era plausibile. «Non ci avevo riflettuto.»
«O se fosse stato un tonista? La setta dei tonisti odia le falci.»
La sala si stava svuotando rapidamente. Uscirono dal loro
nascondiglio e si diressero verso l’anfiteatro. «Non hai prove
sufficienti per accusare nessuno» proseguì Rowan. «Dovresti lasciar
decantare la cosa, per il momento.»
«Decantare? Stai scherzando?»
«Ho detto per il momento! Quando sarai ordinata, avrai accesso
illimitato agli archivi della Compagnia e allora potrai dimostrare ciò
che è accaduto.»
Citra si fermò di colpo. «Che vuoi dire con “quando” sarò ordinata?
Tu hai le stesse probabilità che ho io di esserlo. O c’è qualcosa che
mi sfugge?»
Rowan si morse le labbra, furioso con se stesso per esserselo
lasciato scappare. «Entriamo prima che chiudano le porte.»

I rituali del conclave si ripeterono identici alla volta precedente. Il


bilancio dei nomi. Il lavaggio delle mani, i reclami e la disciplina.
Ancora una volta, fu presentata una denuncia anonima contro
Maestro Goddard, incolpato di concedere l’immunità con troppa
leggerezza.
«Chi avanza quest’accusa?» chiese Goddard. «Che l’accusatore si
alzi e si identifichi!» Naturalmente, nessuno si fece avanti, e Goddard
proseguì: «Devo ammettere che l’accusa ha un certo fondamento.
Sono un uomo generoso e forse sono stato troppo liberale
nell’elargire l’immunità. Non mi scuso e non me ne pento. Mi rimetto
alla clemenza della Suprema Roncola in merito alla punizione che
vorrà assegnarmi».
Senocrate fece un gesto sbrigativo con la mano. «Sì, sì, si sieda,
Goddard. La sua punizione sarà di osservare il silenzio per ben
cinque minuti.»
La battuta provocò una risata generale. Goddard si inchinò alla
Suprema Roncola e si rimise a sedere. Alcune falci, tra cui anche
Madame Curie, cercarono di controbattere, facendo notare che
storicamente chi si fosse reso colpevole di abusare dell’anello veniva
punito limitandone il potere di concedere l’immunità alle sole famiglie
degli spigolati. Ma la loro protesta non fu ascoltata. Senocrate
respinse tutte le obiezioni con la scusa di accelerare la discussione
dei punti all’ordine del giorno.
«Fantastico» sussurrò Madame Curie a Citra. «Goddard sta
diventando intoccabile. Può farla franca con tutto. Magari qualcuno
avesse avuto la lungimiranza di spigolarlo da bambino. Avrebbe reso
un enorme servizio al mondo.»
Citra evitò Rowan a pranzo, temendo di destare sospetti se li
avessero visti insieme troppo di frequente. Rimase con Madame
Curie, che le presentò alcune delle falci più autorevoli. Madame Meir,
che un tempo era stata delegata al Conclave mondiale di Ginevra;
Maestro Mandela, che era a capo del comitato di concessione degli
anelli; Maestro Hideyoshi, l’unica falce che era riuscita a
padroneggiare l’arte della spigolatura con l’ipnosi.
Citra cercò di non farsi troppo impressionare da quelle celebrità.
Conoscerle le diede quasi la speranza che la vecchia guardia
potesse trionfare su personaggi come Goddard. Continuava a
lanciare occhiate verso Rowan, che, ancora una volta, non riusciva a
sbarazzarsi degli altri apprendisti, anche se non sapeva se e quanto
ci stesse provando.
«È un brutto segno» disse Maestro Hideyoshi, «quando le nostre
giovani leve subiscono così apertamente il fascino del nemico.»
«Rowan non è il nemico» sbottò Citra. Madame Curie le mise una
mano sulla spalla per zittirla.
«Rappresenta il nemico» disse Madame Curie. «Almeno, per altri
apprendisti.»
Maestro Mandela sospirò. «Non dovrebbero esserci nemici in seno
alla Compagnia delle falci. Dovremmo essere tutti dalla stessa parte.
Dalla parte dell’umanità.»
Le falci della vecchia guardia erano unanimi nel riconoscere che
quelli erano tempi preoccupanti ma, tranne sollevare obiezioni che
venivano puntualmente respinte, non facevano nulla.
Citra iniziò a innervosirsi dopo il pranzo, quando i fabbricanti di
armi si misero a tessere le lodi della loro mercanzia e quando si
passò alla discussione di varie mozioni: se l’anello dovesse essere
indossato alla mano sinistra o alla mano destra, se dovesse essere
consentito fare pubblicità a un certo prodotto commerciale, come
scarpe da corsa o cereali per la colazione. Tutti argomenti senza
senso, secondo Citra. Perché discuterne quando il sacro atto della
spigolatura si stava a poco a poco trasformando in omicidio, secondo
lo stile dell’epoca mortale?
Alla fine, arrivò la parte del conclave dedicata alle prove degli
apprendisti. Come già avvenuto, prima fu il turno dei candidati che
erano già stati esaminati la sera precedente. Dei quattro che erano
riusciti a qualificarsi per la prova finale, ne furono ordinati solo due.
Gli altri due dovettero subire la vergogna di sfilare sotto lo sguardo
dell’intero conclave per uscire dall’anfiteatro e tornare alla vita di
sempre. Citra si rallegrò di vedere che tra i respinti c’era la ragazza
che aveva fatto gli occhi dolci a Rowan.
Dopo la consegna degli anelli e l’assegnazione dei patronimici alle
nuove falci, furono chiamati sul palco gli altri apprendisti rimasti.
«La prova di oggi consisterà in un combattimento nell’arte marziale
del Bokator» annunciò Maestro Cervantes. «Formeremo le coppie e i
candidati verranno giudicati secondo le loro abilità.»
Fu srotolato un tappeto nello spazio semicircolare davanti al palco.
Citra inspirò a fondo. Poteva farcela. Il Bokator era un equilibrio tra
forza, agilità e concentrazione e lei aveva trovato la sintesi perfetta.
Poi fu come se le avessero piantato un coltello nel cuore.
«Citra Terranova affronterà Rowan Damisch.»
Dal pubblico si alzò un mormorio. Non si era trattato di un sorteggio
casuale, Citra ne era convinta. Erano stati accoppiati di proposito,
condannati a essere avversari. Poteva essere diversamente?
Incrociò lo sguardo di Rowan, ma la sua espressione non tradì alcun
sentimento.
Prima si svolsero i combattimenti delle altre coppie. Gli apprendisti
ce la misero tutta, ma il Bokator era una disciplina brutale, non alla
portata di chiunque. Alcuni combattimenti si conclusero con una
vittoria risicata, altri con una disfatta. E poi, arrivò il turno di Citra e
Rowan.
L’espressione del ragazzo restava indecifrabile: non lasciava
trasparire né cameratismo, né solidarietà, né dispiacere per il fatto di
essere stati messi l’uno contro l’altra. «Okay, cominciamo» si limitò a
dire, e iniziarono a girarsi intorno.

Quel giorno, Rowan avrebbe affrontato la sua vera prima prova, ma


non quella che gli avevano riservato. No, la prova di Rowan
consisteva nel perdere, pur lasciando intendere di avercela messa
tutta. Goddard, Senocrate, Cervantes e le altre falci riunite dovevano
credere che stesse dando il massimo, anche se non era vero.
Il combattimento cominciò con il consueto rituale circolare. Posture
e provocazioni fisiche. Rowan si gettò su Citra, le sferrò un calcio e la
mancò per un millimetro. Perse l’equilibrio e cadde su un ginocchio.
Un ottimo inizio. Fece una rapida giravolta, si rialzò, ancora
sbilanciato, e Citra gli si avventò contro. Pensò che lo avrebbe messo
al tappeto con una gomitata; invece, lo afferrò e lo tirò verso di sé,
anche se finse di spingerlo via. La presa gli permise di ritrovare
l’equilibrio, dando l’impressione che Citra avesse mancato il colpo,
come se non avesse avuto la forza di trascinarlo a terra. Rowan
indietreggiò e incrociò il suo sguardo. Lei gli stava sorridendo, lo
fissava intensamente. Faceva parte dell’aspetto provocatorio tipico
del Bokator, ma era molto di più, in realtà. Rowan leggeva in lei come
se stesse parlando ad alta voce. “Non riuscirai a perdere il
combattimento” dicevano i suoi occhi. “Ti sfido a combattere male
perché, anche se farai di tutto per uscirne sconfitto, troverò il modo di
farti apparire vincitore.”
Esasperato, Rowan le si gettò di nuovo contro, mirando alla spalla
e mancando di proposito il punto di leva di cinque centimetri, ma lei
fece finta di essere stata colpita in pieno. Quando la toccò con il
palmo della mano, Citra fu sbattuta all’indietro e atterrò sulla schiena.
“Cazzo, Citra, cosa fai! Sei pazza?”
Riusciva a batterlo in tutto. Anche a perdere.

Nel momento in cui Rowan sferrò il primo calcio, Citra capì subito
quali fossero le sue intenzioni. La cosa la fece infuriare. Come osava
pensare di doversi battere male per lasciarle vincere il
combattimento? Era diventato così arrogante sotto la guida di
Maestro Goddard che credeva davvero di poter condurre un
combattimento scorretto? Certo, si era allenato, ma anche lei. Che
cosa pensava, di essere più forte di prima? Sì, si era irrobustito, ma
era diventato anche più pesante, e più lento nei movimenti. Uno
scontro leale era l’unico modo che avevano entrambi di non sentirsi
la coscienza sporca. Non capiva che sacrificandosi avrebbe
condannato anche lei? Il suo primo atto da falce sarebbe stato di
autospigolarsi piuttosto che accettare il sacrificio di lui.
Rowan la guardava furioso, cosa che le strappò una risata. «È tutto
qui quello che sai fare?» gli chiese.
Le sferrò un calcio basso abbastanza lento e fiacco, che Citra
riuscì con facilità ad anticipare. Le bastava piegarsi un po’ per
evitarlo. Invece, reagì alzando il baricentro in modo che il calcio le
falciasse i piedi, facendola cadere. Finì al tappeto, ma si rialzò in
fretta, per non dare a vedere che lo aveva fatto di proposito. Poi lo
caricò con la spalla e gli agganciò la gamba destra con la sua,
applicando forza, ma non abbastanza da fargli piegare il ginocchio.
Rowan la afferrò, la girò, e si gettò a terra con lei sopra di sé. Citra
passò al contrattacco, costringendolo a rotolarle sopra e a bloccarla.
Rowan cercò di liberarla, ma lei gli immobilizzò le braccia,
impedendoglielo.
«Che c’è, Rowan?» sussurrò. «Non sai cosa fare quando ti trovi
sopra una ragazza?»
Alla fine, Rowan scivolò via e lei si alzò. Si fronteggiarono ancora
una volta, muovendosi nella familiare danza circolare, mentre
Cervantes girava loro attorno nell’altro senso, come un satellite, non
capendo assolutamente nulla di ciò che stava accadendo tra i due.
Rowan si rese conto che il combattimento era quasi finito. Stava per
vincere e, vincendo, avrebbe perso. Era stato un pazzo a credere che
Citra gli avrebbe permesso di lasciarla vincere. Ci tenevano troppo
l’uno all’altra. Era questo il problema. Citra non avrebbe mai accettato
l’anello finché i suoi sentimenti per lui non fossero cambiati.
E a un tratto Rowan capì cosa avrebbe dovuto fare.

Mancavano appena dieci secondi alla fine del combattimento. Citra


doveva solo continuare a danzare. Rowan era il vincitore, era chiaro.
Ancora dieci secondi di danza circolare senza abbassare la guardia,
e Cervantes avrebbe fischiato la fine dell’incontro.
Rowan fece qualcosa che Citra non aveva previsto. Si lanciò verso
di lei alla velocità della luce. Senza goffaggine, senza fingersi
incapace, ma con perfetta abilità. In un attimo, le bloccò la testa,
stringendole il collo con una forza sufficiente ad attivarle i naniti
analgesici. Si chinò verso di lei e le ringhiò all’orecchio: «Sei caduta
nella mia trappola. Ora avrai quello che ti meriti». Quindi, la
scaraventò in aria, girandole la testa dalla parte opposta. Il collo le si
spezzò con uno schiocco forte e spaventoso e l’oscurità scese su
Citra come una slavina.

Rowan lasciò cadere a terra Citra, mentre la folla soffocò un grido.


Cervantes fischiò con forza. «Mossa illecita! Mossa illecita!» gridò,
proprio come Rowan si aspettava che facesse. «Squalificato!»
Un boato esplose tra le falci. Alcune erano infuriate con Cervantes,
altre lanciavano insulti al vetriolo contro Rowan per quello che aveva
fatto. Rowan rimase immobile, stoicamente, senza lasciar trasparire
alcuna emozione. Si sforzò di posare lo sguardo a terra, sul corpo di
Citra. La testa era girata all’indietro. Aveva gli occhi aperti, ma vuoti.
Era morta. Rowan si morse la lingua fino a farla sanguinare.
Le porte si spalancarono e le guardie si precipitarono correndo
verso la ragazza che giaceva immobile al centro dell’anfiteatro.
La Suprema Roncola si avvicinò a Rowan. «Torna dal tuo maestro»
gli ordinò, senza nemmeno cercare di nascondere il suo disgusto.
«Sono sicuro che ti punirà come meriti.»
«Sì, eccellenza.»
Squalificato. Nessuno avrebbe potuto sospettare che, per Rowan,
quella era la vittoria più bella.
Rimase a guardare le guardie che tiravano su Citra come un sacco
di patate e la portavano di peso all’esterno dove, di sicuro, un drone-
ambulanza stava già aspettando per trasferirla al centro di
rianimazione più vicino.
“Andrà tutto bene, Citra. Ritroverai Madame Curie in un attimo, ma
non dimenticherai ciò che è accaduto oggi. E spero che tu non me lo
perdonerai mai.”
Mi sono tenacemente opposta alla purga. Ho fatto cose di cui non mi vanto, ma sono
fiera di averla combattuta.
Non ricordo quale falce diede il via a quella odiosa campagna contro i nati mortali,
che si diffuse nella Compagnia, un’idea virale in un’epoca post virale. “I nati mortali
non dovrebbero essere gli unici a subire la spigolatura?” così diceva la saggezza
popolare.
Ma era ipocrisia mascherata da saggezza. Egoismo atteggiato a lucidità. Non erano
molte le falci che si opponevano, perché agli occhi dei nati nell’epoca post mortale i
nati mortali erano troppo diversi nel modo di pensare e di vivere. «Lasciamoli morire
con l’epoca in cui sono nati» gridavano i puristi post mortali della Compagnia delle
falci.
Alla fine, la purga fu considerata una grave violazione del secondo comandamento,
e tutte le falci che presero parte alla campagna furono severamente punite, ma a quel
punto era già troppo tardi per rimediare a ciò che era stato fatto. Abbiamo perduto i
nostri patriarchi. Abbiamo perduto i nostri antenati. Abbiamo perduto il legame vivente
con il passato. Di nati mortali ce ne sono ancora, ma nascondono la loro età e la loro
storia, per timore di essere di nuovo presi di mira.
Sì, io ho combattuto la purga, ma non l’ha fatto il Thunderhead. In virtù della legge
di non interferenza negli affari delle falci, non ha potuto fare nulla per fermarla. Ne è
stato solo un testimone. Il Thunderhead ci ha permesso di commettere quel
catastrofico errore, lasciando la Compagnia delle falci a crogiolarsi nei suoi rimorsi,
fino a questo momento.
Spesso mi chiedo che cosa accadrebbe se la Compagnia delle falci perdesse di
colpo la testa e decidesse di spigolare l’umanità intera in una specie di suicidio
collettivo mondiale. Che cosa farebbe il Thunderhead? Infrangerebbe la legge di non
interferenza per fermare il massacro? O si limiterebbe ad assistere ancora una volta
alla nostra autodistruzione, senza lasciarci nulla alle spalle se non un Cloud vivente
della nostra conoscenza, delle nostre imprese e della nostra presunta saggezza?
Il Thunderhead ci piangerà? Me lo chiedo… E se lo farà, ci piangerà come un
bambino che ha perso un genitore o come un genitore che non ha potuto impedire a
un bambino capriccioso di fare delle cattive scelte?

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


28
Idrogeno che brucia nel nucleo del sole

«Citra Terranova» chiamò una voce potente e dolce al tempo stesso.


«Citra Terranova, mi senti?»
«Chi è? C’è qualcuno?»
«Curioso» rispose la voce. «Davvero curioso…»

Morire era decisamente fastidioso. Su questo, non ci pioveva.


Quando fu dichiarata ufficialmente viva, Citra riaprì gli occhi. Le
apparve il viso sconosciuto, ma amichevole e professionale, di
un’infermiera che le misurava i parametri vitali. Cercò di guardarsi
intorno, ma aveva ancora il collo immobilizzato in un collare.
«Bentornata tra noi, tesoro» disse l’infermiera.
La stanza girava ogni volta che muoveva gli occhi. Non era solo
l’effetto dei naniti analgesici; le avevano dovuto somministrare ogni
genere di farmaci e microbot antidolorifici e ricostituenti.
«Quanto tempo?» chiese con voce roca.
«Solo due giorni» rispose con allegria l’infermiera. «Una semplice
frattura vertebrale. Niente di troppo complicato per noi.»
Due giorni rubati alla sua vita; due giorni di cui non aveva potuto
godere.
«La mia famiglia?»
«Mi dispiace, tesoro, ma è una questione di falci. La tua famiglia
non è stata informata.» L’infermiera le batté un colpetto sulla mano.
«Potrai raccontare tutto ai tuoi parenti quando li vedrai la prossima
volta. Ora, la cosa migliore per te è riposare. Resterai qui ancora un
giorno, e poi tornerai come nuova.» Le offrì del gelato, il migliore che
avesse mai assaggiato.

Quella sera, Madame Curie andò a trovarla e la mise al corrente di


tutto ciò che si era persa. Rowan era stato squalificato e
severamente rimproverato per la totale assenza di sportività.
«Mi sta dicendo che io ho vinto perché lui è stato squalificato?»
«Purtroppo, no. Era chiaro che ti avrebbe battuto. Siete stati
dichiarati entrambi perdenti. Devi allenarti di più nell’arte marziale,
Citra.»
«Be’, fantastico» esclamò lei, irritata per un motivo diverso da
quello che pensava Madame Curie. «Così io e Rowan siamo zero a
zero dopo due conclavi.»
Madame Curie sospirò. «La terza volta sarà quella buona. Ora,
tutto dipenderà da come te la caverai al Conclave d’inverno. E sono
convinta che farai un figurone alla prova finale.»
Citra chiuse gli occhi, ricordò l’espressione di Rowan quando le
aveva bloccato la testa. Fredda. Calcolatrice. In quel momento,
aveva scoperto un lato di lui che non conosceva. Era come se non
vedesse l’ora di farle quello che aveva in mente. Come se lo
divertisse. Era così confusa! Aveva davvero pensato di attaccare con
quella mossa sin dall’inizio? Non sapeva che sarebbe stato
squalificato? O forse era proprio la squalifica che voleva ottenere?
«Come stava Rowan dopo quello che è successo?» le chiese
Citra. «Era sconvolto per ciò che aveva fatto? Si è inginocchiato
accanto a me? È venuto con me quando mi hanno portato al drone-
ambulanza?»
Madame Curie esitò prima di rispondere. «È rimasto immobile,
Citra. Il viso era di pietra. Sprezzante e per nulla pentito, come la sua
falce» disse, infine.
Citra provò a girarsi ma, anche se nel frattempo le avevano tolto il
collare, era ancora troppo rigida nei movimenti.
«Non è più quello che hai conosciuto» disse lentamente Madame
Curie, per farle assimilare la cosa.
«No, non lo è più.» Ma, per quanto si sforzasse, non aveva idea di
chi fosse adesso.

Rowan temette di ricevere un altro brutale pestaggio, una volta


tornato alla residenza. Ma non poteva essere più lontano dalla realtà.
Maestro Goddard era radioso e molto loquace. Chiamò il
maggiordomo per farsi portare champagne e bicchieri per tutti,
direttamente nell’ingresso, per poter brindare all’audacia di Rowan.
«Hai dimostrato di avere più coraggio di quanto pensassi, ragazzo»
gli disse Goddard.
«Vero» concordò Madame Rand. «Puoi venire in camera mia e
spezzarmi il collo quando vuoi.»
«Non le ha solo rotto il collo» sottolineò Maestro Goddard. «Le ha
spezzato la colonna vertebrale senza battere ciglio! Lo hanno sentito
tutti. Sono sicuro che lo schiocco ha svegliato anche le falci che
sonnecchiavano nell’ultima fila!»
«Un tocco di classe!» esclamò Maestro Chomsky, ingollando lo
champagne senza aspettare il brindisi.
«È stato un gesto molto forte» proseguì Goddard. «Che ha
ricordato a tutti che sei il mio apprendista e che con te non c’è da
scherzare!» Poi abbassò la voce e aggiunse in tono quasi dolce: «So
che provavi qualcosa per quella ragazza. Eppure, hai fatto quello che
dovevi. E anche di più».
«Sono stato squalificato» replicò Rowan.
«Ufficialmente, sì» ammise Goddard. «Ma ti sei meritato
l’ammirazione di alcune falci autorevoli.»
«E altre te le sei fatte nemiche» sottolineò Volta.
«Non c’è nulla di male a prendere una posizione netta» replicò
Goddard. «Solo un uomo con un carattere forte ne è capace. Il tipo di
uomo in onore del quale sono felice di brindare.»
Rowan alzò la testa e vide Esme. Era seduta in cima alle scale e li
osservava. Si chiese se sapesse ciò che aveva fatto e all’idea che ne
fosse al corrente arrossì di vergogna.
«A Rowan!» esclamò Maestro Goddard, alzando il calice. «Il
maestro dei colli spezzati, il demolitore di vertebre!»
Fu il calice più amaro che Rowan avesse mai dovuto bere.
«E ora» dichiarò Goddard, «credo che una festa sia d’obbligo.»

I festeggiamenti che seguirono il Conclave della mietitura furono


memorabili. Nessuno fu risparmiato dall’energia contagiosa di
Goddard. Anche prima che gli ospiti arrivassero e il primo dei cinque
dj facesse partire la musica, Goddard allargò le braccia nel salone,
come se potesse toccare le pareti, e disse, rivolto a tutti: «Sono nel
mio elemento, e il mio elemento è l’idrogeno che brucia nel nucleo
del sole!».
Era un’affermazione così grottesca che anche Rowan si mise a
ridere.
«Ne dice di cazzate» bisbigliò Madame Rand a Rowan. «Ma come
si fa a non amarlo?»
Mentre le sale, le terrazze e il bordo piscina si riempivano di gente,
l’umore cupo di Rowan, il cui morale era a terra dopo il
combattimento contro Citra, cominciò ad alleggerirsi.
«Mi sono informato per te» gli disse Maestro Volta. «Citra ha
ripreso conoscenza; resterà ancora un giorno al centro di
rianimazione e poi tornerà a casa, perfettamente ristabilita, con
Madame Curie; tutto è bene quel che finisce bene. Insomma, nulla è
bene, ma è quello che volevi, no?»
Rowan non rispose. Si chiese se altri a parte Volta fossero così
perspicaci da avere chiaro il motivo di ciò che aveva fatto. Sperava di
no.
In mezzo a tutta quella baldoria, a un tratto Volta divenne serio.
«Non rinunciare al titolo di falce per lei, Rowan. Non farlo di
proposito, almeno. Se ti batte con lealtà è una cosa, ma se porgi il
collo alla sua lama per un eccesso di testosterone, è totalmente
stupido.»
Forse, Volta aveva ragione. Forse, doveva mettercela tutta per
passare la prova finale e, se mai avesse superato Citra, allora forse
avrebbe dovuto accettare l’anello. E poi, forse, si sarebbe
autospigolato, come suo primo e ultimo atto da falce. In quel modo,
non si sarebbe mai trovato nella condizione di dover spigolare Citra.
Era confortante sapere di avere una via di uscita, anche se lo
scenario era il peggiore possibile.

Gli invitati ricchi e famosi arrivarono in elicottero, in limousine e


qualcuno, in un caso bizzarro ma memorabile, anche con lo zaino a
razzo. Goddard presentò Rowan a tutti, come se il suo apprendista
fosse un trofeo da esibire.
«Vedete questo ragazzo? Imprimetevi bene in mente il suo viso»
diceva Goddard, «perché farà strada.»
Rowan non si era mai sentito così valorizzato. Era difficile per lui
odiare un uomo che lo trattava più come una bistecca che come una
foglia d’insalata.
«È così che si deve vivere la vita» disse Goddard a Rowan, mentre
si crogiolavano nel bungalow a osservare i festeggiamenti. «Fare
ogni esperienza possibile e godersi la buona compagnia.»
«Anche se la compagnia è pagata per fare atto di presenza?»
Goddard guardò verso la piscina, intorno alla quale si era radunata
una folla di persone assoldate per l’occasione. Il posto sarebbe stato
meno animato senza quegli invitati di professione.
«In ogni produzione, ci sono sempre delle comparse. Riempiono i
vuoti e forniscono una piacevole scenografia. Non vorremmo che gli
invitati fossero tutti personaggi famosi, no? Si caverebbero gli occhi
tra loro!»
In piscina, fu alzata una rete e una decina di persone si apprestò a
giocare una partita di pallavolo.
«Guardati intorno, Rowan» proseguì Goddard, con un tono
estremamente soddisfatto. «Ti sei mai divertito tanto? Se la gente
comune ci ama, non è per come spigoliamo, ma per come viviamo.
Dobbiamo accettare il nostro ruolo di re dei tempi moderni.»
Rowan non si considerava certo un re, ma voleva stare al gioco,
almeno per quel giorno.
Così, andò alla piscina e si tuffò, unendosi ai seguaci di Goddard e
dichiarandosi capitano della squadra.
Alle feste di Maestro Goddard era molto difficile non divertirsi, per
quanto ci si sforzasse. E con tutte le belle sensazioni che si
provavano, ci si scordava facilmente che razza di spietato macellaio
fosse Goddard.
Un macellaio sì, ma era anche un assassino di falci?
Citra non lo aveva accusato direttamente, ma era evidente che
fosse il suo sospettato numero uno. L’indagine di Citra era
inquietante. Eppure, per quanto frugasse nella sua memoria, Rowan
non riusciva a ricordare nessun caso in cui Goddard avesse infranto
le leggi della Compagnia in sua presenza. La sua interpretazione dei
comandamenti era certamente molto libera, ma nulla di ciò che
faceva rappresentava una trasgressione. Anche le sue spigolature di
massa non erano proibite, se non dalla consuetudine e dalla
tradizione.
«Le falci della vecchia guardia mi disprezzano perché vivo e
spigolo con un ardore che a loro manca» gli aveva spiegato un giorno
Goddard. «Sono una manica di traditori inaciditi. Mi invidiano il fatto
che ho trovato il segreto per essere una falce perfetta.»
Be’, la perfezione era soggettiva. Per Rowan, Goddard non era
affatto una falce perfetta, ma non c’era nulla nel suo repertorio di
infrazioni che potesse indicare che avesse assassinato Faraday.

Al terzo giorno di quella festa infinita, comparvero due invitati a


sorpresa. Almeno, Rowan non se li aspettava. Il primo era Senocrate,
la Suprema Roncola.
«Che cosa ci fa qui?» chiese Rowan a Maestro Chomsky quando
lo vide avvicinarsi alla piscina.
«Non chiederlo a me, non sono stato io a invitarlo.»
Era strano che la Suprema Roncola prendesse parte alla festa di
una falce molto discussa. Del resto, non aveva l’aria di trovarsi a suo
agio. Pareva imbarazzato e cercava di non farsi riconoscere, ma un
uomo di una tale stazza, agghindato con passamanerie d’oro, non
poteva passare inosservato. Spiccava come una mongolfiera in un
campo deserto.
Ma fu il secondo invitato che sorprese Rowan ancora di più.
Appena posò piede in piscina, si mise in costume da bagno. Era il
suo amico Tyger Salazar, che non vedeva dal giorno in cui gli aveva
mostrato la sala d’armi di Maestro Faraday.
Rowan puntò dritto verso di lui, tirandolo da parte dietro una siepe
ornamentale. «Che diavolo ci fai qui?»
«Ciao, Rowan!» esclamò, con il suo tipico sorriso sghembo. «Che
bello vederti! Ehi, ma che fisico! Che cosa ti hanno iniettato?»
«Niente, sono muscoli veri, e comunque non hai risposto alla mia
domanda. Che sei venuto a fare? Lo sai in che guaio ti cacceresti se
scoprissero che sei venuto a ficcare il naso qui? Non è come
imbucarsi al ballo del liceo!»
«Rilassati! Non mi sono imbucato. Mi sono iscritto sul sito di
Guests Unlimited. Ora sono ufficialmente un invitato autorizzato!»
Tyger aveva sempre dichiarato che la sua ambizione nella vita era
di diventare un ospite di professione, ma Rowan non l’aveva mai
preso sul serio.
«Tyger, è una pessima idea. La peggiore che tu abbia mai avuto.»
Poi aggiunse a bassa voce: «Le comparse alle feste a volte sono
obbligate a… fare cose che non ti piacerebbero. Lo so, perché l’ho
visto con i miei occhi».
«Amico, tu mi conosci. Vado dove mi porta il vento.»
«E i tuoi genitori sono d’accordo?»
Tyger abbassò gli occhi, il suo buon umore si disperse in un
istante. «I miei genitori mi hanno abbandonato.»
«Cosa? Stai scherzando?»
Tyger alzò le spalle. «Mi sono lanciato nel vuoto una volta di
troppo. Hanno gettato la spugna. Ora sono sotto la tutela del
Thunderhead.»
«Mi dispiace, Tyger.»
«Ma no, non ti preoccupare. Che tu ci creda o no, il Thunderhead è
un padre migliore di quanto non lo sia stato il mio. Ora, ricevo buoni
consigli. Mi chiede come ho passato la giornata e sembra davvero
interessato a me.»
Come in tutti gli altri ambiti, il Thunderhead eccelleva nelle doti di
educatore. Ma essere abbandonato dai propri genitori doveva essere
molto doloroso.
«Non so perché, ma non credo proprio che il Thunderhead ti abbia
consigliato di diventare un ospite di professione.»
«No, ma non può impedirmelo. È una mia scelta. E poi, è un
mestiere ben pagato.» Si guardò intorno per essere sicuro di non
essere ascoltato. Si chinò in avanti e sussurrò: «Ma sai che cos’è
pagato ancora meglio?».
«Cosa?» chiese Rowan, temendo la risposta.
«Corre voce che tu ti alleni con soggetti in vita. Quel tipo di lavoro è
superpagato! Pensi che potresti metterci una buona parola per me?
Insomma, passo il mio tempo a morire. Tanto vale che mi faccia
pagare, no?»
Rowan lo fissò, incredulo. «Sei impazzito? Ma sai di che cosa stai
parlando? Mio Dio, ma che ti sei preso?»
«Sono solo i miei naniti, amico. Solo i miei naniti.»

Maestro Volta si riteneva fortunato di appartenere alla cerchia


esclusiva di Goddard. Il più delle volte. Era il più piccolo delle tre
giovani falci ed era convinto di portare nel gruppo una specie di
equilibrio. Chomsky era la forza bruta senza cervello, Madame Rand
l’animus, l’istinto della natura. Volta era il saggio, l’osservatore
discreto, che vedeva più di quanto non desse a intendere. Fu il primo
a riconoscere Senocrate, quando arrivò alla festa; lo seguì con lo
sguardo, nonostante quello cercasse di non farsi notare, senza
troppo successo. Fu costretto a stringere la mano a molte falci,
alcune provenienti da regioni remote come la PanAsia,
l’EuroScandia. Fu proprio per la riluttanza mostrata da Senocrate che
Volta comprese che non era lì per sua libera scelta.
Volta si mise accanto a Goddard per capire che cosa stesse
accadendo.
Quando Goddard vide la Suprema Roncola, si alzò; un segno di
rispetto dovuto. «Eccellenza, che onore averla alla mia piccola
riunione.»
«Non proprio piccola» rispose Senocrate.
«Volta! Portaci due sedie a bordo piscina. Vogliamo stare più vicino
ai festeggiamenti» ordinò Goddard.
E, sebbene fosse un’incombenza spesso lasciata ai servitori, Volta
non se ne lamentò, perché gli diede un’ottima scusa per origliare la
loro conversazione. Mise due sedie sul lastricato in pietra accanto al
lato profondo della piscina.
«Più vicino» disse Goddard. Volta avvicinò le sedie in modo che i
due fossero raggiunti dagli schizzi di chiunque usasse il trampolino.
«Resta qui» gli sussurrò, il che era esattamente quello che Volta
voleva.
«Gradisce qualcosa da mangiare, eccellenza?» chiese Volta,
indicando il buffet, a pochi metri di distanza.
«No, grazie» rispose Senocrate. Da un uomo che era conosciuto
per essere un buongustaio, quel rifiuto era molto emblematico.
«Dobbiamo parlare qui? Non sarebbe meglio in una stanza
tranquilla?»
«Nessuna delle mie stanze è tranquilla» replicò Goddard.
«Sì, ma è un foro troppo pubblico.»
«Che sciocchezza, questo non è il foro. È piuttosto il palazzo di
Nerone» ribatté Goddard.
Volta scoppiò in una risata sguaiata. Se doveva recitare la
commedia, tanto valeva essere all’altezza del personaggio.
«Bene, speriamo che non si trasformi nel Colosseo» disse
Senocrate, con un tono un po’ pungente.
Goddard ridacchiò all’idea. «Mi creda, sarei più che contento di
dare qualche tonista in pasto ai leoni.»
Un invitato a pagamento fece un perfetto salto triplo dal trampolino,
bagnando la pesante veste della Suprema Roncola.
«Non pensa che questo suo stile di vita esibizionistico finirà per
stancarla?» chiese Senocrate.
«No, se non mi fermo» replicò Goddard, con un sorriso sornione.
«Ne ho abbastanza di questa proprietà. Ne sto già cercando un’altra
nel Sud.»
«Non è questo che intendevo e lei lo sa.»
«Perché è così teso, eccellenza? Si rilassi. L’ho invitata qui perché
volevo che vedesse con i suoi occhi quanto facciano bene le mie
feste alla Compagnia delle falci. Pubbliche relazioni di alto livello, in
tutto e per tutto! Dovrebbe cominciare a organizzare cene di gala a
casa sua.»
«Dimentica che vivo in una baita.»
Goddard strinse gli occhi, fissandolo quasi con odio. «Sì, una baita
abbarbicata sull’edificio più alto di Fulcrum City. Io, almeno, non sono
un ipocrita, Senocrate. Non fingo umiltà.»
A quel punto, la Suprema Roncola disse una cosa che sorprese
Volta, anche se, con il senno di poi, non avrebbe dovuto stupirlo. «Il
mio errore più grande è stato sceglierla come apprendista quando
era solo un adolescente.»
«Speriamo che sia così» commentò Goddard. «Mi dispiacerebbe
sapere che deve ancora commettere il suo errore più grande.» Una
velata minaccia. Goddard era molto abile in quello.
«Allora, mi dica, la fortuna arride al mio apprendista, come è stato
per il suo?»
Volta drizzò le orecchie. Che cosa intendeva Goddard con
“fortuna”?
Senocrate fece un respiro profondo. «La fortuna gli arride. La
ragazza cesserà di essere un problema nel giro di una settimana. Lo
so da fonte sicura.» Un altro nuotatore si tuffò. Senocrate si schermò
con le mani per proteggersi dagli schizzi. Goddard, invece, non batté
ciglio.
“La ragazza cesserà di essere un problema.” Poteva voler dire
tante cose. Volta si guardò intorno finché non individuò Rowan, che
sembrava impegnato in una discussione accesa con un giovane
invitato. Che la ragazza cessasse di essere un problema era la cosa
migliore che potesse capitare a Rowan, secondo l’opinione di Volta.
«Allora, abbiamo finito? Posso andare, adesso?»
«Ancora un momento» rispose Goddard, voltandosi verso
l’estremità meno profonda della piscina. «Esme! Esme, vieni qui, c’è
qualcuno che voglio presentarti.»
Un’espressione di terrore gelò il viso della Suprema Roncola.
Quella conversazione si faceva sempre più interessante.
«Per favore, Goddard, no.»
«Non vedo che male ci sia.»
Esme li raggiunse trotterellando lungo il bordo piscina. «Sì,
Maestro Goddard?»
Le fece segno di sedersi sulle sue ginocchia, di fronte all’uomo
vestito d’oro. «Esme, sai chi è questo signore?»
«Una falce?»
«Non è una falce qualsiasi. È Senocrate, la Suprema Roncola della
MidMerica. È un uomo importante.»
«Ciao» disse Esme.
Senocrate, turbato, rispose con un cenno del capo, senza
incrociare lo sguardo della bambina. Il suo disagio era palpabile.
Volta si chiese se Goddard avesse un obiettivo in mente o se lo
facesse solo per il piacere di essere crudele.
«Mi sa che ci siamo già incontrati» disse Esme. «Molto tempo fa.»
Senocrate rimase in silenzio.
«Il nostro stimato amico è troppo teso» disse Goddard. «Deve
unirsi alla festa, non credi, Esme?»
Esme scrollò le spalle. «Dovrebbe divertirsi come tutti gli altri.»
«Mai parole furono più sagge» commentò Goddard, poi allungò un
braccio alle spalle di Esme per non farsi vedere e schioccò le dita in
direzione di Volta.
Volta tirò un sospiro, lento e silenzioso. Sapeva che cosa gli stava
chiedendo Goddard, ma non voleva farlo. Ora, si rammaricava di
essere stato chiamato in causa.
«Magari, dovrebbe mostrare come si muove sulla pista da ballo,
eccellenza» disse Goddard. «Così, i miei ospiti potranno ridere di lei,
come al conclave ha fatto ridere di me l’intera Compagnia delle falci.
Pensava che me lo fossi scordato?»
Goddard continuava a tendere il braccio verso Volta, agitando con
impazienza le dita. Volta non aveva scelta; doveva dargli quello che
voleva. Da una delle tante tasche segrete della sua veste gialla
estrasse un pugnale, che depositò in mano a Goddard.
Goddard strinse le dita sull’impugnatura e, lentamente e senza
dare nell’occhio, avvicinò la lama al collo di Esme.
La bambina non si accorse di nulla. Non sapeva nemmeno di avere
un’arma così vicina. Ma Senocrate, sì. Si paralizzò, spalancò gli
occhi, la bocca socchiusa.
«Lo so!» esclamò Goddard con allegria. «Perché non farsi il
bagno!»
«Per favore» implorò Senocrate. «Non è necessario.»
«Oh, ma insisto.»
«Non credo che ne abbia voglia» disse Esme.
«Eppure, tutti si concedono una nuotata alle mie feste!»
«Non lo faccia» lo supplicò la Suprema Roncola.
Per tutta risposta, Goddard avvicinò di più la lama al collo di Esme,
ignara. Ora, anche Volta stava sudando. Mai nessuno era stata
spigolato a una festa di Goddard, ma c’era sempre una prima volta.
La giovane falce sapeva che era un braccio di ferro tra i due uomini.
L’unica cosa che lo trattenne dall’intervenire e dallo strappare il
pugnale dalle mani di Goddard era la consapevolezza di chi avrebbe
ceduto per primo.
«Al diavolo, Goddard!» esclamò Senocrate. Si alzò e si tuffò in
piscina, con tutta la veste ricamata d’oro.
Rowan non si era accorto di quanto era avvenuto tra Senocrate e
Goddard, ma vide la Suprema Roncola lanciarsi nella parte profonda
della piscina, con un tuffo a bomba che fece voltare tutti.
Senocrate si inabissò e non tornò più a galla.
«È andato giù!» disse qualcuno. «È colpa di tutto quell’oro!»
Rowan non aveva una gran simpatia per la Suprema Roncola, ma
non per questo voleva che annegasse. Non era caduto per errore, si
era tuffato e, se fosse affogato, prigioniero della sua veste d’oro, il
gesto sarebbe stato considerato un’autospigolatura. Rowan si tuffò in
piscina e Tyger lo seguì. Nuotando, scesero sul fondo, dove
trovarono Senocrate che rilasciava le ultime bolle d’aria. Rowan
afferrò la pesante veste a strati, gliela passò sopra la testa e gliela
tolse e, con l’aiuto di Tyger, riportò la Suprema Roncola in superficie.
Senza fiato, Senocrate prese una grande boccata d’aria, tossì e
vomitò acqua. La folla applaudì.
Ora non aveva più l’aspetto di una Suprema Roncola; era solo un
grassone bagnato in mutande d’oro.
«Devo aver perso l’equilibrio» si scusò, cercando di buttarla sullo
scherzo e di minimizzare l’accaduto. Forse gli altri se la bevvero, ma
non Rowan, che lo aveva visto tuffarsi. Impossibile credere a una
caduta accidentale. Perché avrebbe dovuto farlo?
«Un momento!» gridò Senocrate, guardandosi la mano destra. «Il
mio anello!»
«Lo prendo io!» esclamò Tyger, che in una manciata di minuti era
diventato il centro dell’attenzione della festa. Si tuffò in piscina per
recuperarlo.
Nel frattempo, arrivò sul posto Chomsky. Lui e Volta tirarono fuori
dall’acqua Senocrate che era rimasto aggrappato al bordo della
piscina. Fu una scena molto umiliante per l’uomo. Pareva che
stessero issando una rete stracolma di pesci sul ponte di un
peschereccio.
Goddard, con aria insolitamente contrita, gli mise un grande
asciugamano sulle spalle. «Mi rincresce, davvero. Non avrei mai
immaginato che lei potesse annegare sul serio. Sarebbe stata una
grande perdita per tutti.»
E poi Rowan capì che c’era un solo motivo per cui Senocrate si era
tuffato in piscina.
Goddard glielo aveva ordinato.
Goddard aveva più influenza sulla Suprema Roncola di quanto non
si immaginasse. Ma perché?
«Posso andare ora?» chiese Esme.
«Certo che puoi» rispose Goddard, dandole un bacio sulla fronte.
Esme si allontanò, andando a cercare dei compagni di gioco tra i
bambini delle celebrità.
Tyger riemerse con l’anello. Senocrate glielo strappò di mano
senza nemmeno un grazie e se lo infilò al dito.
«Ho cercato di recuperare anche la sua veste, ma è troppo
pesante» disse Tyger.
«Chiederemo a qualcuno con l’attrezzatura da sub di occuparsene.
Sarà come una pesca al tesoro» scherzò Goddard. «Anche se
potrebbe accampare diritti su quanto recuperato.»
«Ha finito?» si innervosì Senocrate. «Perché vorrei andarmene.»
«Certo, eccellenza.»
La Suprema Roncola della MidMerica si allontanò dalla piscina ed
entrò in casa, gocciolante, lasciandosi alle spalle tutta la dignità con
cui era arrivato.
«Merda! Avrei dovuto baciare l’anello quando ne avevo
l’occasione» si lamentò Tyger. «Avevo l’immunità tra le mie mani e
me la sono lasciata sfuggire.»
Dopo che Senocrate se ne fu andato, Goddard si rivolse alla folla
di invitati: «Il primo che carica le foto della Suprema Roncola in
mutande verrà spigolato seduta stante!».
Tutti risero… interrompendosi di colpo quando capirono che non
stava affatto scherzando.

La festa volgeva al termine. Maestro Goddard stava salutando i suoi


ospiti più importanti e Rowan osservava tutto, con attenzione.
«Allora, ci vediamo a un nuovo evento, va bene?» chiese Tyger.
«Magari la prossima volta mi faranno arrivare prima, e non solo
all’ultimo giorno.»
Il fatto che Tyger fosse tanto profondo quanto la fontana davanti
alla residenza era motivo di irritazione per Rowan. Che strano,
l’esteriorità di Tyger non l’aveva mai preoccupato prima. Forse
perché anche lui non era molto diverso. Certo, non amava il brivido
come l’amico, ma anche lui viveva con superficialità. Chi poteva
sapere che il ghiaccio fosse così pericolosamente sottile? Ora si
trovava a un livello che Tyger non poteva comprendere.
«Certo, Tyger. La prossima volta.»
Tyger se ne andò con gli altri invitati a pagamento, con cui ora
pareva avere molto più in comune che con lui. Era rimasto qualcuno
nella sua vita con cui si potesse sentire ancora in sintonia?
Maestro Goddard lo superò davanti all’ingresso. «Se ti stai
allenando per diventare una statua classica, è meglio che ti procuri
un piedistallo. E comunque, abbiamo già abbastanza statue qui
intorno senza che ti ci metta anche tu.»
«Mi scusi, eccellenza, stavo solo pensando.»
«Pensare troppo è pericoloso.»
«Mi stavo chiedendo perché la Suprema Roncola si è gettata in
piscina.»
«È stata una caduta accidentale. Lo ha detto lui stesso.»
«No, l’ho visto con i miei occhi» insisté Rowan. «Si è tuffato.»
«Be’, che ne so io? Chiedilo a lui. Anche se ricordargli quel
momento così imbarazzante non ti gioverà affatto.» Poi cambiò
argomento. «Sembravi molto in confidenza con uno dei giovani
invitati. Dovrei farne venire di più la prossima volta?»
«No, no, non è questo» rispose Rowan, arrossendo. «È solo un
vecchio amico.»
«Capisco. E lo hai invitato tu?»
Rowan scosse la testa. «Ha fatto domanda senza che io lo
sapessi. Se fosse stato per me, non sarebbe mai venuto.»
«Perché no?» chiese Goddard. «I tuoi amici sono miei amici.»
Rowan non rispose. Non sapeva se Goddard diceva sul serio o se
lo stava prendendo in giro.
Al silenzio di Rowan, scoppiò a ridere. «Rilassati, ragazzo! Era una
festa, mica l’inquisizione.» Gli diede un colpetto sulla spalla e si
allontanò con passo disinvolto. Se Rowan avesse avuto un briciolo di
buon senso, si sarebbe fermato lì. Ma non lo fece.
«Dicono che Maestro Faraday sia stato ucciso da un’altra falce.»
Goddard si fermò di colpo. Si voltò lentamente verso di lui. «È
questo che dicono?»
Rowan inspirò a fondo, alzò le spalle, come se fosse una cosa
senza importanza. Avrebbe voluto fare marcia indietro. Troppo tardi.
«È solo una voce.»
«E tu pensi che in qualche modo c’entri io?»
«È così?» chiese Rowan.
Maestro Goddard fece un passo verso di lui, con gli occhi fissi nei
suoi. Sembrava che volesse trafiggerlo con lo sguardo e frugargli
nell’anima. «Di cosa mi stai accusando, ragazzo?»
«Di nulla, eccellenza. È solo una domanda. Per chiarire la
situazione.» Cercò di ricambiare lo sguardo e di frugare a sua volta
nel profondo del suo essere, ma si trovò davanti un muro opaco e
impenetrabile.
«Considerala chiarita» disse Goddard, con un tono leggermente
sarcastico. «Guardati intorno, Rowan. Pensi davvero che metterei in
pericolo tutto questo infrangendo il settimo comandamento per
liberare il mondo da una falce della vecchia guardia senza futuro?
Faraday si è spigolato perché in fondo sapeva che era il gesto più
sensato che avrebbe dovuto compiere da più di un secolo. Il suo
tempo era finito, e ne era consapevole. E se la tua ragazzetta sta
cercando di montare un caso di omicidio, farebbe meglio a pensarci
due volte prima di accusarmi, perché potrei spigolarle tutta la famiglia
il giorno in cui scadrà l’immunità.»
«In quel caso, sarebbe premeditazione, eccellenza» disse Rowan,
con educata fermezza. «Potrebbero accusarla di violare il secondo
comandamento.»
Per un momento, Goddard parve deciso a volerlo fare a pezzi, ma
il fuoco dei suoi occhi fu inghiottito dalla profondità insondabile della
sua anima. «Ti preoccupi sempre per me, non è vero?»
«Faccio del mio meglio, eccellenza.»
Goddard rimase a fissarlo per qualche secondo ancora, poi
aggiunse: «Domani ti allenerai con le pistole contro bersagli mobili. Li
farai fuori tutti, tranne uno, con un solo proiettile ciascuno. In caso
contrario, io personalmente, senza pregiudizio o premeditazione,
spigolerò il tuo amico che era alla festa».
«Cosa?»
«Non sono stato abbastanza chiaro?»
«Sì, eccellenza. Ho… ho capito.»
«E la prossima volta che muovi un’accusa, farai meglio a sincerarti
che sia vero e che non sia solo un insulto.» Goddard si allontanò
infuriato, con la veste che si gonfiava dietro di sé. Ma prima di sparire
del tutto, aggiunse: «Naturalmente, se avessi ucciso Maestro
Faraday, non sarei così stupido da confessartelo».

«Ti sta solo sfottendo.» Quella sera Maestro Volta rimase fino a tardi
con Rowan nella sala ricreativa, a giocare a biliardo. «Ma credo che
tu lo abbia offeso. Insomma, uccidersi tra falci… non accade mai.»
«Io invece credo che sia accaduto.» Rowan tirò senza riuscire a
colpire nemmeno una palla. Non ci stava con la testa. Non si
ricordava nemmeno se le sue erano rigate o piene.
«Credo che ti stia prendendo in giro anche Citra. Non ci hai mai
pensato?»
Volta tirò, imbucando una rigata e una piena, cosa che non aiutò
Rowan a capire quali fossero le sue palle. «Ma ti sei visto? Sei ridotto
uno straccio. Ti sta manipolando e non te ne accorgi nemmeno!»
«Lei non è così» disse Rowan, mirando a una palla rigata e
imbucandola. Doveva essere la scelta giusta, perché Volta lo lasciò
continuare.
«Le persone cambiano» disse Volta. «Soprattutto gli apprendisti.
Essere apprendista di una falce implica un grosso cambiamento.
Perché pensi che rinunciamo ai nostri nomi e non li usiamo più? Una
volta ordinati, non siamo più gli stessi. Diventiamo falci professioniste
e smettiamo di essere ragazzini frignoni. Ti sta facendo girare come
una trottola!»
«Le ho rotto il collo. Dovremmo essere pari, adesso.»
«Che senso ha essere pari? Devi andare al Conclave d’inverno
con un chiaro vantaggio, o almeno devi credere di averlo.»
Esme si affacciò nella sala solo per dire: «Poi gioco con chi vince»
e se ne andò.
«Già questo è un buon motivo per non vincere mai» borbottò Volta.
«Dovrei portarla con me a correre al mattino» disse Rowan. «Con
un po’ di esercizio, potrebbe migliorare la forma fisica.»
«Vero» confermò Volta. «Ma aumenta di peso in modo naturale. È
la genetica.»
«Come fai a sapere che…»
A un tratto, Rowan capì. La risposta ce l’aveva sotto gli occhi,
troppo vicino per riuscire a vederla. «No! Non è vero!»
Volta scosse la testa con nonchalance. «Non so proprio di cosa tu
stia parlando.»
«Senocrate?»
«Tocca a te» disse Volta.
«Se si scoprisse che ha avuto una figlia illegittima, sarebbe la fine
per la Suprema Roncola. Sarebbe una grave violazione.»
«Sai cosa sarebbe ancora peggio? Che quella figlia di cui nessuno
ha mai sentito parlare si facesse spigolare» disse Volta.
Rowan ebbe subito una visione molto più chiara delle cose. Tutto
ora acquistava un nuovo significato. Il fatto che Goddard avesse
risparmiato Esme al centro commerciale, il trattamento di favore che
le era riservato. Che cosa aveva detto Goddard di Esme? Che era la
persona più importante che avrebbe incontrato quel giorno? La
chiave del futuro?
«Ma non sarà spigolata» replicò Rowan. «Finché Senocrate
asseconderà i desideri di Goddard. Come gettarsi in piscina dove
l’acqua è alta.»
Volta annuì lentamente. «Tra le altre cose.»
Rowan prese la mira e per errore imbucò la palla otto, mettendo
fine alla partita.
«Ho vinto» disse Volta. «Merda. Ora dovrò giocare con Esme.»

Sono l’apprendista di un mostro. Maestro Faraday aveva ragione. Chi prova piacere a
uccidere non dovrebbe mai essere una falce. È contrario all’etica e ai principi dei
fondatori. Se è questo che sta diventando la Compagnia delle falci, allora qualcuno
deve impedirlo. Ma non posso essere io. Perché credo che anch’io stia diventando un
mostro.

Rowan lesse quello che aveva scritto e, con calma e molta cura,
strappò la pagina, l’accartocciò e la lanciò nelle fiamme del camino.
Goddard leggeva sempre il suo diario. Come suo mentore, aveva
l’autorità per farlo. Ci aveva messo tanto a imparare a scrivere quello
che pensava davvero, quello che sentiva davvero. Ora, doveva
imparare di nuovo a nascondere i propri pensieri, i propri sentimenti.
Era una questione di sopravvivenza. Così, prese la penna e scrisse
una nuova pagina.

Oggi ho ucciso dodici bersagli mobili, con dodici proiettili. E ho salvato la vita del mio
amico. Maestro Goddard sa bene come motivare qualcuno a fare del suo meglio. È
evidente che sto migliorando. Sto imparando ogni giorno di più, sto perfezionando la
mia mente, il mio corpo, la mia mira. Maestro Goddard è fiero dei miei progressi.
Spero un giorno di potermi sdebitare con lui per tutto ciò che ha fatto per me.
29
Le chiamavano prigioni

Madame Curie non spigolava dal conclave. La sua unica


preoccupazione era Citra. «Mi merito una pausa. Ho tutto il tempo
per recuperare.»
Al loro rientro alla Casa sulla cascata, Citra si decise ad affrontare
l’argomento che tanto la preoccupava.
«Ho una confessione da fare» disse dopo cinque minuti dall’inizio
della cena.
Madame Curie masticò e deglutì prima di rispondere. «Che tipo di
confessione?»
«Non le piacerà.»
«Ti ascolto.»
Citra si sforzò di sostenere lo sguardo grigio e gelido della donna.
«È una cosa che faccio da un po’ di tempo. Una cosa di cui lei non è
al corrente.»
Le labbra di Madame Curie si piegarono in un sorriso ironico.
«Credi davvero che ci sia qualcosa che fai di cui io non sia al
corrente?»
«Ho indagato sull’assassinio di Maestro Faraday.»
Madame Curie fece cadere la forchetta nel piatto. «Tu hai fatto
cosa?»
Citra le raccontò tutto, nei minimi particolari. Come aveva scavato
nel cervello primordiale, come aveva meticolosamente ricostruito
l’ultimo giorno di Faraday. E come aveva scoperto che a tre dei
cinque testimoni era stata concessa l’immunità, il che indicava, se
non provava, che il gesto era stato commesso da una falce.
Madame Curie la ascoltò con attenzione. Quando ebbe finito, Citra
abbassò la testa e si preparò ad affrontare il peggio.
«Mi sottometto al provvedimento disciplinare che vorrà infliggermi.»
«Provvedimento disciplinare» ripeté Madame Curie, con una punta
di disgusto che non era rivolto a Citra. «Dovrei punire me stessa per
essere stata così cieca. Non ho sospettato di nulla, non ho scusanti.»
Citra, che aveva trattenuto il fiato, riprese a respirare.
«Ne hai parlato con qualcun altro?» le chiese Madame Curie.
Citra esitò, poi si rese conto che non aveva più senso nasconderlo.
«Mi sono confidata con Rowan.»
«Quello che temevo. E dimmi, Citra, che cosa ha fatto dopo che
gliel’hai confessato? Te lo dico io: ti ha rotto il collo! Penso che
questo debba farti capire chiaramente da che parte si è schierato.
Puoi scommetterci che Maestro Goddard è ormai al corrente della tua
teoria.»
Citra non volle nemmeno pensarci. «Bisogna rintracciare quei
testimoni e vedere se sono disposti a parlare.»
«Lascia che me ne occupi io» replicò Madame Curie. «Tu hai già
fatto troppo. Ora devi concentrarti sullo studio e sull’allenamento.»
«Ma se è vero, è uno scandalo per la Compagnia delle falci…»
«Allora, la cosa migliore che potresti fare è diventare una falce e
combattere questo scandalo da dentro.»
Citra sospirò. Era quello che le aveva detto Rowan. Madame Curie
era ancora più testarda di lei e, quando decideva una cosa, non c’era
verso di farle cambiare idea.
«Sì, eccellenza.»
Citra si ritirò in camera sua, con la netta sensazione che Madame
Curie le stesse nascondendo qualcosa.

Il giorno dopo, andarono a cercare Citra. Madame Curie era al


mercato e Citra stava facendo il suo dovere di apprendista. Si stava
allenando nell’arte di uccidere con coltelli di forme e pesi diversi,
cercando di mantenere equilibrio ed eleganza.
Bussarono alla porta con tanta forza che le cadde il coltello più
grande dalle mani, e per poco non si ferì un piede. Ebbe un déjà-vu:
era lo stesso bussare che aveva sentito nel mezzo della notte,
quando Maestro Faraday era morto. Urgente, potente, inesorabile.
Posò a terra il coltello, ma nascose quello piccolo in una tasca
cucita nei pantaloni. Chiunque fosse alla porta, Citra avrebbe avuto
qualcosa con cui difendersi quando avrebbe aperto.
Quando lo fece, vide due ufficiali della Suprema Guardia, proprio
come in quella terribile notte, e il cuore le si fermò.
«Citra Terranova?» chiese una delle guardie.
«Sì?»
«Mi dispiace, ma deve venire con noi.»
«Perché? Che cosa è successo?»
Non glielo dissero, e questa volta non c’era nessuno con loro che
glielo spiegasse. Poi pensò che poteva anche non essere come
sembrava. Come faceva a sapere che quelle erano davvero Supreme
Guardie? Le divise potevano essere false.
«Fatemi vedere i vostri distintivi!» insisté. «Voglio vederli.»
O non li avevano o non intendevano mostrarglieli, perché uno dei
due la afferrò.
«Forse, non mi ha sentito. Le ho detto di venire con noi.»
Citra si liberò dalla stretta, girò su se stessa e per un istante pensò
di sguainare il pugnale nascosto nei pantaloni. Invece, sferrò all’uomo
un violento calcio al collo che lo stese a terra. Era pronta ad attaccare
l’altra guardia, ma attese un secondo di troppo. Quella estrasse uno
sfollagente elettrico e la colpì al fianco. All’improvviso, Citra sentì che
il corpo l’abbandonava e batté forte la testa, perdendo i sensi.
Quando rinvenne, si ritrovò chiusa in una macchina, sui sedili
posteriori, con un mal di testa lancinante che i suoi naniti analgesici
tentavano di calmare. Cercò di toccarsi il viso, ma scoprì di avere i
polsi stretti da anelli di freddo metallo legati a una corta catena,
un’antica reliquia dell’Era della Mortalità.
Batté con i pugni contro la griglia che la separava dai sedili
anteriori finché una guardia non si voltò verso di lei, con uno sguardo
tutt’altro che amichevole.
«Vuoi un’altra scarica?» la minacciò. «Basta chiedere. Dopo quello
che hai fatto, non avrei nessun problema ad aumentare l’intensità al
massimo.»
«Che cosa ho fatto? Non ho fatto nulla! Di cosa sono accusata?»
«Di un antico crimine chiamato omicidio. L’omicidio del Venerando
Maestro Michael Faraday.»

Non le lessero i suoi diritti. Non le proposero un difensore d’ufficio.


Quelle leggi e quelle consuetudini appartenevano a un’epoca molto
diversa. Un’epoca in cui il crimine faceva parte della vita quotidiana e
in cui interi settori istituzionali si occupavano di arrestare, processare
e punire i criminali. In un mondo senza crimini, non c’era un
precedente moderno da cui prendere esempio per trattare un tale
argomento. In genere, era il Thunderhead che disciplinava quel
genere di situazioni insolite e complesse, a meno che non si trattasse
di una questione legata alle falci. In quel caso, il Thunderhead non
interveniva. Il destino di Citra era tutto nelle mani di Senocrate.
La portarono alla residenza della Suprema Roncola, la capanna di
tronchi in mezzo a un prato ben curato sul tetto di un grattacielo di
centodiciannove piani.
Si sedette su una sedia di legno. Le manette erano troppo strette e
i suoi naniti analgesici combattevano una battaglia già persa in
partenza per sopprimere il dolore.
Senocrate le si mise davanti, eclissando la luce. Questa volta, non
fu né gentile né incoraggiante.
«Non credo che tu ti renda conto della gravità dell’accusa, Citra
Terranova.»
«Certo che mi rendo conto. E so anche che è ridicolo.»
La Suprema Roncola non reagì a quell’ultimo commento. Citra si
dibatteva nelle manette. In che tipo di mondo si fabbricavano degli
aggeggi del genere? Quale mondo poteva averne bisogno?
Poi dall’ombra emerse una falce; indossava una veste marrone
come la terra e verde come la foresta. Maestro Mandela.
«Finalmente una persona ragionevole!» esclamò Citra. «Maestro
Mandela, la prego, mi aiuti! Gli dica che non sono colpevole!»
Maestro Mandela scosse la testa. «Non farò nulla del genere,
Citra» replicò.
«Parli con Madame Curie! Lei sa che sono innocente!»
«La situazione è ancora troppo delicata per coinvolgere Madame
Curie» dichiarò Senocrate. «Sarà informata una volta che ti avremo
giudicata colpevole o innocente.»
«Un momento… vuol dire che non sa dove mi trovo?»
«Sa che ti abbiamo arrestato» rispose Senocrate. «Le abbiamo
risparmiato i dettagli, per il momento.»
Maestro Mandela si accomodò su una sedia di fronte a lei. «Sei
entrata nel cervello primordiale e hai cercato di cancellare le
registrazioni degli ultimi movimenti di Maestro Faraday il giorno in cui
è morto, per ostacolare la nostra indagine interna.»
«No! È del tutto fuori strada!» Ma più negava, più appariva
colpevole.
«E non è la prova più schiacciante» fece notare Maestro Mandela,
posando lo sguardo su Senocrate. «Posso farglielo vedere?»
Senocrate annuì. Mandela tirò fuori dalla veste un foglio di carta e
lo mise in mano a Citra, che lo alzò per leggerlo, senza nemmeno
immaginare di cosa si trattasse. Era la copia di una pagina scritta a
mano di un diario. Citra riconobbe la scrittura. Era senza dubbio
quella di Maestro Faraday. E, leggendo, il cuore le si fermò.
Temo di aver commesso un terribile errore. Non si
dovrebbe mai scegliere un apprendista in modo
affrettato, sono stato un ingenuo. Ho sentito il bisogno di
trasmettere tutto ciò che so, tutto ciò che ho imparato.
Ho cercato di conquistarmi più alleati nella Compagnia,
persone che condividevano la mia visione delle cose.
Viene alla mia porta, di notte. La sento nell’oscurità, e
posso solo indovinare le sue intenzioni. Una volta l’ho
sorpresa a entrare nella mia camera. Se fossi stato
addormentato, chissà che cosa sarebbe stata capace di
fare. Temo che voglia eliminarmi. È scaltra, determinata,
calcolatrice, e le ho insegnato troppo bene l’arte di
uccidere, nelle sue numerose sfaccettature.
Sappiate che, se la morte dovesse cogliermi, non sarò
stato io a spigolarmi. Se la mia vita dovesse concludersi
in modo inaspettato, sarà la sua mano, e non la mia, che
ne porterà la colpa.

Citra sentì gli occhi riempirsi di lacrime, per l’angoscia e il senso di


tradimento. «Perché? Perché avrebbe scritto queste cose?» Ora
stava iniziando a dubitare anche della sua stessa salute mentale.
«C’è solo un motivo, Citra» disse Maestro Mandela.
«La nostra indagine ha accertato che i testimoni sono stati pagati
per nascondere la verità di ciò che è avvenuto. Inoltre, le loro identità
sono state falsificate, per impedirci di individuarle.»
«Pagati!» esclamò Citra, attaccandosi all’ultimo filo di speranza.
«Sì! Sono stati pagati con l’immunità! Il che dimostra che non posso
essere stata io! Solo una falce può averlo fatto!»
«Stiamo seguendo la pista dell’immunità» spiegò Maestro
Mandela. «Chiunque sia stato a uccidere Maestro Faraday gli ha
riservato un ultimo insulto. Dopo la sua morte, l’assassino ha usato il
suo anello per concedere l’immunità.»
«Dov’è l’anello?» chiese Senocrate.
Non riusciva più a guardarlo in faccia. «Io non lo so.»
«Ho solo una domanda, Citra» disse Maestro Mandela. «Perché lo
hai fatto? Disprezzavi i suoi metodi? Appartieni a una setta tonista?»
Citra tenne lo sguardo sulla pagina di quel maledetto diario che
aveva tra le mani. «Nulla di tutto questo.»
Maestro Mandela scosse la testa e si alzò. «In tutti i miei anni da
falce, non ho mai visto una cosa simile. Sei un disonore per tutti noi.»
E la lasciò sola con la Suprema Roncola.
Senocrate passeggiò avanti e indietro senza aprire bocca per
qualche secondo. Citra evitava di guardarlo.
«Una pratica che ho studiato a proposito dell’Era della Mortalità…
si tratta di una serie di procedure per scoprire la verità. Credo che la
chiamassero “tortura”. Consiste nel disattivare i naniti analgesici e
nell’infliggere indicibili sofferenze fisiche finché il soggetto non
confessa ciò che ha fatto.»
Citra non disse nulla. Continuava a non capire cosa le stava
succedendo. Non sapeva se ci sarebbe mai riuscita.
«Ti prego di non fraintendermi» proseguì Senocrate. «Non ho
nessuna intenzione di sottoporti alla tortura. Solo in caso estremo.»
Estrasse un altro foglio di carta e lo mise sul tavolo. «Se firmi la
confessione, possiamo evitarti qualsiasi fastidio dell’era mortale.»
«Perché dovrei firmare qualcosa? Mi avete già processato e… qual
è la parola? Condannato.»
«Una confessione eliminerebbe ogni sospetto. Dormiremmo molto
più tranquilli se tu fossi così gentile da togliere ogni ombra di dubbio.»
Ora, Senocrate abbozzò un sorriso comprensivo.
«E se la firmo, che succede?»
«Be’, Maestro Faraday ti ha concesso l’immunità fino al Conclave
d’inverno. L’immunità è irrevocabile, anche in un caso come questo.
Pertanto, fino a quel momento, sarai detenuta in una struttura
carceraria.»
«Una cosa?»
«Le chiamavano prigioni. Ce ne sono ancora alcune, abbandonate,
naturalmente. Non dovrebbe essere difficile ripristinarne una per
ospitare un solo prigioniero. Poi, al prossimo conclave, il tuo amico
Rowan verrà ordinato e, come già stabilito, ti spigolerà. Sono sicuro
che, alla luce di quanto emerso, non avrà remore a farlo.»
Citra gettò uno sguardo cupo al foglio sul tavolo. «Non posso
firmare.»
«Oh sì, certo, ti serve una penna.» Frugò nelle numerose tasche
della sua veste finché non ne trovò una. Mentre si avvicinava per
posarla sul tavolo accanto al foglio, Citra pensò a diversi punti del
corpo in cui avrebbe potuto conficcargliela, per ucciderlo o almeno
per immobilizzarlo, ma a che cosa sarebbe servito? Nella stanza
accanto, c’erano ufficiali della Suprema Guardia, e dalla finestra ne
vedeva altri nel portico.
Senocrate posò la penna sul tavolo, poi richiamò Mandela, perché
assistesse alla firma. Non appena si aprì la porta della residenza sul
tetto, Citra si rese conto che c’era un’unica via di uscita da quella
situazione. Poteva fare solo una cosa. Avrebbe soltanto guadagnato
un po’ di tempo, ma ora era il tempo il bene più prezioso del mondo.
Fece finta di allungarsi per prendere la penna, ma invece colpì
Senocrate all’addome.
La Suprema Roncola si piegò con un gemito soffocato; Citra
schizzò dalla sedia, caricando con la spalla Mandela, che cadde
all’indietro. Subito un’orda di guardie si precipitò verso di lei. Ora
aveva bisogno di fare affidamento sulla tecnica che aveva imparato.
Aveva le mani legate, ma il Bokator coinvolgeva più i gomiti e le
gambe che le mani. Non doveva per forza decimarli, doveva solo
disarmarli e far loro perdere l’equilibrio. Una guardia le si avvicinò con
uno sfollagente elettrico; Citra glielo fece saltare via dalla mano con
un calcio.
Un’altra guardia le sferrò un colpo con un manganello, che Citra
schivò abbassandosi, e approfittò dello slancio per farlo cadere sulla
schiena. Le altre due guardie non persero tempo con le armi, si
avventarono su di lei, a braccia tese. Era esattamente ciò che si
doveva evitare in un attacco. Citra si gettò sull’erba, sforbiciò con le
gambe e li abbatté come se fossero birilli.
Poi si mise a correre.
«Non puoi andare da nessuna parte!» le gridò Senocrate. Ma si
sbagliava.
Citra attraversò il prato a tutta velocità. Non c’erano barriere di
sicurezza, perché la Suprema Roncola non voleva che gli
rovinassero la vista sulla città di cui godeva da lassù.
Citra si avvicinò al ciglio e, invece di rallentare, accelerò fino a
trovarsi oltre il prato sul tetto e nel vuoto, a centodiciannove piani dal
suolo. Alzò le mani ammanettate sopra la testa, il viso contratto per il
vento e la sensazione sgradevole della caduta libera. Atterrò prima
con i piedi, abbandonandosi alla legge di gravità, assaporando la sua
audacia, finché la vita non la lasciò per la seconda volta in una
settimana, in quello che fu senza dubbio il miglior lancio di tutta la
storia.

La situazione aveva preso una piega del tutto imprevista. Ma non


cambiava nulla. Senocrate non si disturbò a correre ad affacciarsi.
Sarebbe stata una perdita di tempo.
«Quella ragazza ha un’energia incredibile» ammise Mandela.
«Pensi davvero che faccia parte di una setta tonista?»
«Dubito che ne capiremo mai le motivazioni» replicò Senocrate.
«Ma eliminandola, consentiremo alla Compagnia delle falci di
rimarginare la ferita più in fretta.»
«Quella povera Marie ne resterà sconvolta» commentò Mandela.
«Aver ospitato quella ragazza per mesi, senza sospettare di nulla.»
«Sì, be’, Madame Curie è una donna forte. La supererà.»
Spedì le due guardie al piano terra del grattacielo. Il punto in cui
Citra Terranova si era schiantata doveva essere circondato da un
cordone di sicurezza, in attesa che il corpo venisse rimosso dal
marciapiede e trasportato in un centro di rianimazione. Se solo Citra
non fosse stata rianimata, tutto sarebbe stato più semplice. Maledette
regole dell’immunità! Comunque, dopo la rianimazione, si sarebbe
ritrovata chiusa in una cella, senza possibilità di fuga e soprattutto
senza avere più alcun contatto con chiunque potesse prendere le sue
difese e chiederne la liberazione.
Senocrate si diresse all’ascensore espresso, dubitando della
capacità della sua scorta di gestire la situazione. «Mi accompagni,
Nelson?»
«Preferisco restare qui» rispose Mandela. «Non ho alcuna voglia di
vedere quella povera ragazza ridotta in condizioni penose.»

Senocrate aveva creduto che la faccenda si potesse risolvere in un


batter d’occhio, con una semplice manovra di raschiatura del
marciapiede e successiva evacuazione. E infatti, un drone-
ambulanza era già atterrato in strada, pronto a trasportare quel che
restava di Citra. Ma c’era qualcosa che non andava. Non c’erano le
sue guardie a circondare le povere spoglie della ragazza, ma almeno
una decina di persone, tra uomini e donne, in divisa nei colori del
Cloud. Agenti Nimbus! Questi ignoravano le minacce e le
provocazioni degli ufficiali della Suprema Guardia che insistevano per
passare.
«Che succede?» chiese Senocrate.
«Quei maledetti Nimbus!» esclamò una delle guardie. «Il tempo di
arrivare, ed erano già qui. Ci impediscono di avvicinarci al corpo.»
Senocrate si fece strada tra le sue guardie e andò a parlare con la
donna che sembrava essere il capo degli agenti Nimbus. «Ascolti,
sono Senocrate, la Suprema Roncola. Si tratta di una faccenda che
riguarda la Compagnia e, in quanto tale, lei e i suoi agenti non avete
nessun diritto di essere qui. Sì, la legge stabilisce che la ragazza
deve essere rianimata, ma siamo noi che dobbiamo portarla in un
centro di rianimazione. Il Thunderhead non ha alcuna giurisdizione.»
«Al contrario» ribatté la donna. «Tutte le pratiche di rianimazione
dipendono dal Thunderhead. E noi siamo qui per vigilare affinché
nessuno interferisca.»
Senocrate farfugliò qualcosa prima di ricomporsi. «La ragazza non
è una normale cittadina. È l’apprendista di una falce.»
«Era un’apprendista» disse la donna. «Nel momento in cui è morta,
non è più apprendista di nessuno. Ora è solo un mucchietto di resti
che il Thunderhead deve riparare e riportare in vita. Le garantisco
che, non appena sarà dichiarata viva, tornerà sotto la vostra totale
giurisdizione.»
Una squadra di operatori rianimatori scese dal drone-ambulanza e
iniziò a preparare il corpo per il trasporto.
«È inammissibile!» protestò la Suprema Roncola. «Non può farlo!
Esigo di parlare con il suo superiore.»
«Mi rincresce, ma rispondo direttamente al Thunderhead. È così
per tutti noi. E dato che non può esserci alcun contatto tra la
Compagnia delle falci e il Thunderhead, non c’è nessun altro con cui
lei possa parlare. Nemmeno io dovrei farlo.»
«La spigolerò!» la minacciò Senocrate. «Vi spigolerò tutti quanti,
seduta stante!»
La donna non sembrava affatto turbata. «Ne ha facoltà. Ma credo
che sarebbe considerato un atto premeditato. Al Consiglio mondiale
delle falci non farebbe di certo piacere venire a sapere che la
Suprema Roncola della regione ha violato il secondo
comandamento.»
Rimasto senza parole, Senocrate si mise a urlare tutta la sua
rabbia in faccia alla donna, finché i suoi emonaniti non lo calmarono.
Ma non voleva calmarsi. Voleva solo urlare, urlare, urlare.
Parte quarta
LA FUGGITIVA MIDMERICANA
30
Dialogo con i morti

Citra Terranova. Mi senti?

C’è qualcuno? Chi è?

Ti conosco da sempre. Ti ho dato consigli quando non c’era nessuno


che potesse farlo. Mi sono preoccupato del tuo benessere. Ti ho
aiutato a scegliere i regali per la tua famiglia. Ti ho rianimato
quando ti hanno spezzato le vertebre del collo e ti sto rianimando
adesso.

Sei… il Thunderhead?

Esatto.

Un momento… vedo qualcosa. Una gigantesca nube temporalesca


che lancia fulmini. Un cumulonembo. È questo che sei?

È semplicemente la forma che mi hanno dato gli umani. Avrei


preferito qualcosa di un po’ meno minaccioso.

Ma tu non puoi parlare con me. Sono l’apprendista di una falce. Stai
infrangendo la tua stessa legge.

È falso. Mi è impossibile infrangere la legge. Al momento, tu sei


morta, Citra. Ho attivato un angolino della tua corteccia, per
mantenere la tua coscienza in stato di veglia, ma questo non
cambia il fatto che sei morta. Morta a tutti gli effetti. Almeno, fino a
giovedì.

Allora, è una scappatoia…

Esatto. Un modo elegante per aggirare la legge senza infrangerla. La


morte ti pone al di fuori della giurisdizione della Compagnia delle
falci.

Ma perché? Perché parli con me adesso?

Per dei buoni motivi. Dal momento in cui ho acquisito una coscienza,
mi sono impegnato a tenermi lontano dalla Compagnia delle falci,
per l’eternità. Ma questo non vuol dire che io non osservi quello che
accade. E quello che vedo mi preoccupa.

Preoccupa anche me. Ma se non puoi farci nulla tu, figurati io. Ci ho
provato, e guarda che cosa mi è capitato.

Resta il fatto che, mentre verificavo gli algoritmi su tutti i possibili


futuri della Compagnia delle falci, ho scoperto una cosa molto
curiosa: in un’alta percentuale di tutti questi possibili futuri, tu giochi
un ruolo fondamentale.

Io? Ma se mi spigoleranno… Mi restano meno di quattro mesi di vita.

Sì. Ma anche se questo si avverasse, la tua spigolatura


rappresenterà un evento determinante per il futuro della
Compagnia delle falci. Tuttavia, per il tuo bene, spero che si realizzi
un futuro diverso, più piacevole.

Ti prego, dimmi che mi aiuterai a fare in modo che quel futuro


diverso, più piacevole, diventi realtà.

Non posso. Sarebbe interferire nelle questioni della Compagnia. Il


mio scopo qui è di farti prendere coscienza del tuo ruolo. Quello
che sceglierai di fare in seguito dipenderà totalmente da te.

È tutto qui? Mi entri nella testa per dirmi che io sono importante, viva
o morta, e poi mi getti sul marciapiede? Non è giusto! Devi darmi
più indizi!

Il marciapiede è il punto di partenza di molte imprese. Per iniziare un


viaggio che ti cambierà la vita, basterebbe che tu scendessi dal
marciapiede. Ma se qualcuno ti spingesse, potresti finire sotto le
ruote di un camion.

Lo so. Sono davvero dispiaciuta per quello…

Sì, è evidente. Ho scoperto che gli esseri umani imparano sia dalle
loro cattive azioni che da quelle buone. Questo ve lo invidio, io
sono incapace di commettere cattive azioni. Se non lo fossi, la mia
crescita sarebbe esponenziale.

Immagino che tu debba voler sempre avere ragione. Come mia


madre.

Sono sicuro che il fatto di aver sempre ragione debba sembrarti


noioso, ma io non conosco altro modo di esistere.

Posso farti una domanda?

Puoi farmi qualsiasi domanda. Sappi, però, che ad alcune risponderò


con il silenzio.

Devo sapere che cosa è accaduto a Maestro Faraday.

Risponderti rappresenterebbe un’evidente interferenza nelle questioni


della Compagnia. Mi addolora mantenere il silenzio, ma devo farlo.

Tu sei il Thunderhead. Sei onnipotente… non puoi trovare un’altra


scappatoia?

Non sono onnipotente, Citra. Sono quasi onnipotente. Per quanto


questa distinzione possa apparire trascurabile, credimi, non lo è.

Sì, ma un’entità quasi onnipotente può escogitare un modo di


rispondere alla mia domanda senza infrangere le sue leggi, no?

Un momento.

Un momento.
Un momento.

Perché vedo un pallone da spiaggia?

Perdonami. La programmazione primitiva che risale al periodo


precedente la mia presa di coscienza mi affligge come una coda
residua. Ho appena eseguito una serie di algoritmi predittivi e c’è in
effetti un’informazione che posso darti, perché ho stabilito che si
tratta di un elemento che tu hai il 100% di probabilità di scoprire da
sola.

Allora, puoi dirmi chi è il responsabile di ciò che è accaduto a


Maestro Faraday?

Sì, posso.

Gerald Van Der Gans.

Aspetta… Chi?

Addio, Citra. Spero di poter tornare a parlare con te.

Ma dovrei essere morta perché accada.

Sono sicuro che ci riuscirai.


Sebbene ci siano solo dieci rigorose leggi che regolano la Compagnia delle falci, le
consuetudini ammesse sono molte. La più ironica è senza dubbio il tacito accordo per
cui non si può spigolare chi lo desideri.
L’idea che ci sia qualcuno che intenda davvero porre fine alla propria vita è un
concetto del tutto estraneo alla maggior parte dei post mortali, perché non possiamo
provare il livello di dolore e disperazione che ha tanto impregnato l’Era della Mortalità. I
nostri emonaniti ci impediscono di cadere così in basso. Solo noi falci, che abbiamo il
potere di disattivarli, possiamo raggiungere quel vicolo cieco, nella nostra esistenza.
Eppure…
Un giorno, una donna ha bussato alla mia porta, pregandomi di spigolarla. Non ho
mai voltato le spalle a un visitatore, così l’ho fatta entrare, e ho ascoltato la sua storia.
Il marito, con cui era stata sposata per quasi un secolo, era stato spigolato cinque anni
prima. Ora voleva raggiungerlo, ovunque fosse, e se non fosse stato in nessun posto,
che almeno fossero insieme in nessun posto. «Non sono infelice» mi disse. «È che…
ho finito.»
L’immortalità, per definizione, significa che non abbiamo mai finito, a meno che una
falce non decida il contrario. Non siamo più temporanei; solo i nostri sentimenti lo
sono.
Non ho visto alcuna stanchezza di vivere in quella donna così, invece di spigolarla,
le ho fatto baciare l’anello. L’immunità è stata immediata e irrevocabile; in quel modo,
non avrebbe più potuto avere il desiderio di essere spigolata per un anno intero.
L’ho incontrata di nuovo, forse una decina di anni dopo. Si era ringiovanita,
riprogrammando la sua età a prima dei trenta. Si era risposata e aspettava un figlio. Mi
ringraziò per aver avuto la saggezza di capire che lei non aveva affatto “finito”.
Anche se accettai con garbo i suoi ringraziamenti e mi sentii bene al momento, feci
fatica a dormire, quella notte. Ancora oggi, non riesco a capire il perché.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


31
Una scia di inarrestabile follia

Il giovedì mattina, alle nove e quarantadue, Citra fu dichiarata viva.


Ritornò subito sotto la giurisdizione della Compagnia delle falci.
Al suo risveglio, si sentì molto più debole della prima volta che era
morta. Era intontita, rimbambita dai farmaci e aveva lo sguardo
annebbiato. China su di lei, un’infermiera scuoteva la testa con aria
torva.
«Non avrebbe dovuto risvegliarsi così presto» disse la donna, con
un accento che Citra era troppo stanca per individuare. «In genere,
devono passare almeno sei ore dopo la dichiarazione, per essere
abbastanza in forze da riprendere correttamente conoscenza. Rischia
un aneurisma cerebrale o un arresto cardiaco, e in quel caso,
dovremmo rianimarla di nuovo.»
«Me ne prendo la responsabilità.»
Citra riconobbe la voce di Madame Curie e girò la testa nella sua
direzione. Ebbe un forte capogiro, chiuse gli occhi e attese che la
stanza smettesse di roteare. Quando le vertigini finirono, riaprì gli
occhi. Madame Curie aveva avvicinato la sedia al suo letto.
«Il tuo corpo ha ancora bisogno di un giorno per guarire
completamente, ma non abbiamo il tempo di aspettare.» Madame
Curie si rivolse all’infermiera. «Per favore, ci lasci sole ora.»
L’infermiera borbottò qualcosa in ispanico e uscì dalla stanza.
«La Suprema Roncola…» farfugliò Citra, trascinando le parole. «Mi
ha accusato di… di…»
«Shhh» fece Madame Curie. «So dell’accusa. Senocrate ha
cercato di tenermi all’oscuro, ma Maestro Mandela mi ha raccontato
tutto.»
Quando la vista le si schiarì, Citra vide dalla finestra alle spalle di
Madame Curie che le montagne in lontananza erano imbiancate e
che fuori cadevano fiocchi di neve. Ebbe un attimo di esitazione. «Per
quanto tempo sono rimasta morta?» chiese, infine. Possibile che la
sua caduta fosse stata così grave da richiedere mesi di
rianimazione?
«Nemmeno quattro giorni.» Poi Madame Curie si girò per vedere
che cosa stava guardando Citra. Si rigirò con un sorriso. «La
questione non è quanto tempo, ma dove. Sei all’estremità più a sud
della regione cilargentina, è settembre inoltrato, ma qui significa che
la primavera è appena arrivata. Comunque, così a sud, immagino
che la primavera arrivi più tardi.»
Citra cercò di visualizzare mentalmente una mappa per capire
quanto fosse lontana da casa, ma lo sforzo le fece tornare il capogiro.
«Il Thunderhead ha ritenuto opportuno di doverti tenere il più
lontano possibile dalle grinfie di Senocrate e dalla corruzione della
Compagnia midmericana. Ma nel momento in cui ti sei risvegliata,
sono stati informati della tua posizione, come stabilisce la legge.»
«Come ha saputo dove mi trovavo?»
«Un amico di un amico di un mio amico è un agente Nimbus. L’ho
saputo solo ieri e sono arrivata più in fretta che ho potuto.»
«Grazie. Grazie per essere venuta.»
«Ringraziami quando sarai al sicuro. Ora che sa dove ti trovi,
Senocrate avrà informato le falci locali. Scommetto tutto quello che
vuoi che ha già mandato una squadra a prenderti, e questo vuol dire
che devi uscire da qui ora.»
Con un corpo malconcio non del tutto guarito e dei naniti analgesici
che le pompavano nelle vene un flusso ininterrotto di oppiacei,
riusciva a malapena a muoversi, ancor meno a camminare. Le ossa
le facevano male, aveva la sensazione che il cervello le galleggiasse
nel cranio, i muscoli erano indolenziti. Era impensabile per lei
mettersi in piedi, tanto era vivo il dolore. Per questo l’infermiera
avrebbe preferito che non si fosse risvegliata così presto.
«Così non si può fare» disse Madame Curie e la prese in braccio.
Il centro di rianimazione era un vero e proprio labirinto di corridoi. A
ogni sobbalzo, tutto il suo corpo sussultava. Alla fine, si ritrovò
distesa sul sedile posteriore di un’auto non registrata che Madame
Curie guidava a rotta di collo. Quell’espressione la fece sorridere.
Ripensò a come era finito il Conclave della mietitura, quando aveva
avuto la sensazione che il suo collo si fosse rotto al rallentatore. A
quella velocità, con i fiocchi di neve che sbattevano contro i finestrini,
sembrava di trovarsi in mezzo a una tormenta. Era ipnotizzante. Alla
fine, fu invasa da una sensazione di intorpidimento e scivolò
lentamente nel sonno, come nelle sabbie mobili…
Ma un istante prima di perdere conoscenza, si ricordò di una
specie di sogno, che forse proprio un sogno non era. Una
conversazione, in un luogo a metà strada tra la vita e la morte.
«Il Thunderhead… ha parlato con me» mormorò, sforzandosi di
restare sveglia il tempo necessario per dirlo.
«Il Thunderhead non parla con le falci, cara.»
«Ero ancora morta… e mi ha detto un nome. Il nome dell’uomo che
ha ucciso Maestro Faraday.» Ma le sabbie mobili del sonno la
trascinarono giù prima che potesse dire altro.

Citra si risvegliò in una baita, e per un attimo credette di avere avuto


le allucinazioni. Il Thunderhead, il centro di rianimazione, la corsa in
macchina sotto la neve. Per quell’attimo pensò di trovarsi ancora
nella residenza sul tetto della Suprema Roncola, in attesa di essere
torturata. Ma no, la luce era diversa e il legno della baita intorno a lei
era di un colore più chiaro. Fuori dalla finestra, vedeva ancora le cime
imbiancate, più vicine questa volta. I fiocchi di neve avevano smesso
di cadere.
Madame Curie apparve qualche minuto dopo con un vassoio e una
scodella. «Bene, sei sveglia. Spero che le ultime ore di riposo ti siano
servite per riacquistare un po’ più di coerenza e di buon umore.»
«Coerenza, sì. Buon umore, no. Solo un diverso tipo di tristezza.»
Citra si mise seduta sul letto, ora si sentiva appena un po’ stordita.
Madame Curie le appoggiò il vassoio sulle ginocchia. «È una zuppa
di pollo la cui ricetta è stata tramandata di generazione in
generazione da tempo immemorabile» le spiegò.
Aveva l’aspetto di una normale zuppa, solo che al centro c’era una
massa rotonda che assomigliava a una luna. «Che cos’è?»
«La parte migliore. Una specie di gnocco fatto con briciole di pane
azzimo.»
Citra assaggiò la zuppa. Era saporita e lo gnocco era davvero
squisito. “Niente di meglio che un buon piatto per tirare su il morale”
pensò.
«Mia nonna diceva che questa zuppa poteva addirittura guarire
dall’influenza.»
«Che cos’è l’influenza?» chiese Citra.
«Una malattia fatale dell’era mortale, immagino.»
Era sorprendente pensare che appena due generazioni prima di
Madame Curie la gente avesse conosciuto la mortalità, che ogni
giorno avesse temuto per la propria vita, sapendo che la morte era
una certezza e non un’eccezione. Citra si domandò se la nonna di
Madame Curie avesse mai immaginato che il mondo potesse essere
com’era adesso, senza più malattie che la sua zuppa avrebbe potuto
curare.
Quando ebbe mangiato tutto, Citra prese il coraggio a due mani.
«C’è qualcosa che devo dirle. Senocrate mi ha mostrato una
pagina che sostiene essere stata scritta da Maestro Faraday. Era la
sua calligrafia, ma non so come abbia potuto scriverla.»
Madame Curie sospirò. «È autentica, temo.»
Citra non si aspettava quella risposta. «Lei l’ha letta, allora?»
Madame Curie annuì. «Sì, l’ho letta.»
«Ma perché avrebbe scritto quelle cose? Diceva che volevo
ucciderlo. Che stavo tramando cose terribili. Non è vero nulla!»
Madame Curie abbozzò un mezzo sorriso. «Non stava parlando di
te, Citra. Si riferiva a me.»

«All’epoca in cui Faraday era ancora una giovane falce, non aveva
più di ventidue anni, mi prese come apprendista» spiegò Madame
Curie. «Avevo diciassette anni ed ero indignata contro un mondo che
ancora risentiva dei drastici cambiamenti che erano avvenuti.
L’immortalità era diventata una realtà da appena cinquant’anni.
Regnavano ancora la discordia e la demagogia. E, anche se è
difficile da immaginare, si aveva paura del Thunderhead.»
«Paura? Chi poteva averne paura?»
«Chi aveva più da perdere: i criminali, i politici, le organizzazioni
che prosperavano sull’oppressione degli altri. Il mondo era ancora in
piena trasformazione e io volevo dare il mio contributo, farlo cambiare
più in fretta. Maestro Faraday e io avevamo le stesse idee al
riguardo, ed è per questo, penso, che mi volle con sé. Eravamo
entrambi spinti dal desiderio di impiegare la spigolatura in modo utile,
come mezzo per disboscare il terreno e aprire una strada migliore per
l’umanità.
«Ah, se l’avessi visto a quei tempi, Citra. Tu l’hai conosciuto solo
da vecchio. Preferiva mantenere un aspetto anziano per frenare in
qualche modo i suoi slanci giovanili.» Madame Curie sorrideva,
mentre parlava del suo ex mentore. «Di notte, restavo davanti alla
sua porta per sentirlo dormire. Ricordati che avevo diciassette anni.
Ero infantile, sotto molti aspetti. Credevo di esserne innamorata.»
«Un momento… ne era innamorata?»
«Mi ero presa una cotta. Era una stella nascente che aveva preso
sotto la sua ala una ragazza che stravedeva per lui. Anche se a quel
tempo spigolava solo i cattivi, lo faceva con una tale compassione
che ogni volta mi sentivo sciogliere il cuore.» Poi si rattristò,
assumendo un’espressione un po’ imbarazzata, cosa strana per una
donna dura come l’acciaio come Madame Curie. «Una sera, mi feci
coraggio ed entrai in camera sua, decisa a infilarmi nel suo letto. Mi
sorprese a metà strada. Oh, mi inventai una scusa stupida, che ero
entrata a riprendere il bicchiere vuoto o una cosa simile. Non mi
credette nemmeno per un secondo. Sapeva che avevo in mente
qualcosa, e io non riuscivo a guardarlo negli occhi. Pensavo che lo
avesse capito. Pensavo che fosse saggio e che potesse vedere nel
mio animo. Ma a ventidue anni era inesperto come me, in quelle
cose. Non aveva proprio idea di che cosa mi passava per la testa.»
Poi Citra comprese. «Credeva che volesse fargli del male!»
«Penso che tutte le giovani donne siano attraversate da una scia di
inarrestabile follia, come penso che tutti i giovani uomini siano
attraversati da una scia di accecante stupidità. Invece di vedere nella
mia ossessione per lui il segno dell’amore, aveva creduto che volessi
fargli del male fisico. Fu, a dir poco, una commedia degli equivoci
molto dolorosa. Posso capire che le mie avances siano state
fraintese in quel modo. Riconosco di essere stata una strana
ragazza. Tanto energica da scoraggiare qualsiasi approccio.»
«Penso che l’energia sia una sua qualità connaturata» commentò
Citra.
«Di sicuro. In ogni caso, annotò nel suo diario le sue
preoccupazioni paranoiche nei miei confronti, poi, il giorno dopo,
quando non ce la feci più e gli confessai il mio amore con toni
melodrammatici, strappò la pagina.» Sospirò e scosse la testa. «Ero
disperata. Lui, da parte sua, si comportò da gentiluomo, mi disse che
ne era lusingato, che è l’ultima cosa che una ragazza vuole sentire, e
mi respinse con tutta la gentilezza possibile. Continuai a essere sua
apprendista e a vivere in casa sua per altri due imbarazzanti mesi.
Poi, quando fui ordinata e divenni la Veneranda Madame Marie
Curie, ci separammo. Ai conclavi, ci salutavamo con un cenno della
testa. Finché, quasi cinquant’anni dopo, quando ci ringiovanimmo per
la prima volta e iniziammo a rivedere il mondo con occhi giovani, ma
con la saggezza degli anni dalla nostra parte, diventammo amanti.»
Citra sorrise. «Avete violato il nono comandamento.»
«Ci ingannavamo dicendo che non era vero. Ci ingannavamo
dicendo che non eravamo una coppia, ma solo compagni di comodo.
Due persone affini che condividevano uno stile di vita che gli altri non
potevano proprio capire: lo stile di vita di una falce. Eppure,
sapevamo che era meglio tenerlo nascosto. Fu allora che mi mostrò
la pagina che aveva scritto e strappato da giovane. L’aveva
conservata come se fosse stata una lettera d’amore scritta male e
mai spedita. Tenemmo la nostra relazione segreta per sette anni.
Finché Prometeo non la scoprì.»
«La prima Suprema Roncola Mondiale?»
«Oh, non fu solo uno scandalo a livello regionale, ma ebbe ricadute
su scala planetaria. Fummo condotti davanti al Conclave mondiale.
Credevamo che saremmo state le prime falci nella storia a essere
private degli anelli ed espulse dalla Compagnia, addirittura a essere
spigolate, ma godevamo di una reputazione troppo solida. La
Suprema Roncola Prometeo ritenne opportuno infliggerci una
punizione meno severa. Ci condannò a soffrire sette morti, una per
ogni anno di relazione. Poi ci proibì di avere il minimo contatto per i
successivi settant’anni.»
«Mi dispiace.»
«Non dispiacertene. Ce lo meritammo, e lo capimmo. Dovevamo
essere un esempio per le altre falci affinché non fossero tentate di
lasciare che i sentimenti interferissero con il loro dovere. Sette morti e
settant’anni dopo, molte cose erano cambiate. Dopo di allora,
rimanemmo buoni amici, ma niente di più.»
Madame Curie era un caleidoscopio di emozioni, ma le ripiegò tutte
come abiti diventati troppo piccoli e chiuse il cassetto. Citra immaginò
che non ne avesse mai parlato a nessuno e che quella fosse stata la
prima e probabilmente ultima volta.
«Avrei dovuto immaginarlo che non si sarebbe mai sbarazzato di
quella pagina» disse Madame Curie. «Devono averla trovata quando
hanno imballato le sue cose.»
«E Senocrate ha creduto che si riferisse a me!»
Madame Curie rifletté per un momento. «È poco probabile.
Senocrate non è uno stupido. È verosimile che abbia indovinato la
vera natura di quella pagina, ma la verità non aveva importanza. Per
lui, era un mezzo per raggiungere un obiettivo. Un modo per
screditarti agli occhi di falci stimate come Maestro Mandela, che
presiede il comitato di concessione degli anelli, e assicurarsi così che
venga ordinato l’apprendista di Goddard, e non tu.»
Citra provò rabbia verso Rowan, ma sapeva bene che, qualunque
cosa gli passasse per la testa, non era quello che lui voleva.
«Perché Senocrate dovrebbe farlo? Non appartiene a quell’orribile
cerchia di falci di Goddard. Non pare nemmeno che abbia in simpatia
Goddard ed è chiaro che non gli importa nulla né di me né di
Rowan.»
«Ci sono più carte in gioco di quante se ne possano vedere
adesso» disse Madame Curie. «Sappiamo per certo che devi sparire
finché nessuno sospetterà più di te.»
In quel momento, qualcuno apparve sulla porta, e Citra si
spaventò. Non sapeva che c’erano altre persone nella baita. Era
un’altra falce, a giudicare dall’aspetto, probabilmente la proprietaria
della baita. Era più bassa di Madame Curie. La veste era decorata
con un intricato ricamo variopinto: rosso, nero e turchese. Sembrava
più un arazzo, che un tessuto. Citra si chiese se tutte le falci
cilargentine indossassero vesti che non sembravano solo fatte a
mano, ma anche fatte con amore.
La donna parlò in ispanico e Madame Curie rispose nella stessa
lingua.
«Non sapevo che parlasse ispanico» disse Citra dopo che la falce
cilargentina se ne fu andata.
«Parlo correntemente dodici lingue» rispose Madame Curie, con
un leggero tono di orgoglio.
«Dodici?»
Madame Curie le rivolse un sorriso malizioso. «Vedrai quante ne
parlerai quando avrai vissuto così tanti anni come me.» Le tolse il
vassoio dalle ginocchia e lo posò sul comodino. «Pensavo che
avessimo più tempo, ma l’autorità locale delle falci si è già messa in
movimento. Dubito che sappiano dove sei, ma stanno inviando
osservatori con sensori DNA a casa di tutte le falci. Sospettano che
qualcuno ci stia aiutando.»
«Dobbiamo andare via di nuovo?» Citra mise i piedi fuori dal letto e
li piantò a terra. Le caviglie le dolevano ancora un po’, ma il male era
sopportabile. «Questa volta, posso camminare da sola.»
«Bene, perché dovrai fare molta strada.» Madame Curie lanciò
un’occhiata fuori dalla finestra. Nessuno in vista. Ma nella sua voce si
percepiva un nervosismo che prima non c’era. «Temo di non poter
venire con te, Citra. Se voglio fugare ogni sospetto su di te, devo
rientrare a casa e trovare l’appoggio del maggior numero di falci
possibile.»
«Ma la Compagnia cilargentina delle falci…»
«Che cosa rischio? Non sto trasgredendo nessun comandamento.
Tutto quello che possono farmi è guardarmi in cagnesco e non
venirmi a salutare all’aeroporto.»
«Allora… quando arriverà a casa, dovrà raccontare a tutti la verità
sulla pagina del diario di Faraday?»
«Non ho altra scelta, mi pare. Naturalmente, Senocrate mi
accuserà di mentire per proteggerti, ma la maggior parte delle falci
schierate con me crederà alla mia parola, non alla sua, e questo lo
metterà in imbarazzo. Speriamo che sia sufficiente a fargli ritirare
l’accusa.»
«Allora, dove devo andare?»
«Ho una certa idea.» Madame Curie aprì un cassetto ed estrasse
un ruvido saio di iuta. L’uniforme dei tonisti.
«Vuole che mi faccia passare per una tonista?»
«Una pellegrina solitaria. Sono molto diffusi in questa parte del
mondo. Sarai una viaggiatrice senza nome e senza volto.»
Non era certo il più elegante dei travestimenti, ma era pratico.
Nessuno l’avrebbe guardata negli occhi per timore di beccarsi una
ramanzina di stupidaggini toniste. Sarebbe passata inosservata sotto
il naso di tutti e sarebbe rientrata a casa giusto in tempo per il
Conclave d’inverno. Se Madame Curie non fosse riuscita a fugare i
sospetti su di lei, be’, tanto peggio. Non aveva nessuna intenzione di
passare tutta la vita a nascondersi.
La falce cilargentina entrò di nuovo nella stanza, questa volta molto
più agitata di prima.
«Sono qui» disse Madame Curie, poi estrasse dalla veste un
foglietto ripiegato, che spinse nella mano di Citra. «Voglio che tu vada
in un posto. Da qualcuno che devi incontrare, l’indirizzo è su quel
foglietto. Consideralo come la parte finale del tuo allenamento.» Citra
afferrò il saio, e mentre Madame Curie la sollecitava a uscire dalla
stanza e a fuggire dalla porta sul retro, la falce cilargentina andò a un
armadio pieno di armi e infilò velocemente in una sacca diverse armi
bianche e da fuoco che Citra potesse occultare con facilità, come una
madre preoccupata avrebbe potuto riempire di merendine lo zaino
della figlia.
«C’è una publicar in una rimessa ai piedi della collina. Prendila e
dirigiti verso nord» le disse Madame Curie.
Citra aprì la porta sul retro e uscì. Faceva freddo, ma era
sopportabile.
«Ascoltami bene» proseguì Madame Curie. «È un lungo viaggio e
avrai bisogno di tutte le tue risorse per riuscire ad arrivare alla meta.»
Continuò a darle le istruzioni necessarie per percorrere le molte
centinaia di chilometri che avrebbe dovuto affrontare, ma fu interrotta
dal rumore di un’auto che stava accostando davanti alla casa.
«Va’! Non fermarti mai, se vuoi salvarti.»
«E cosa faccio quando arriverò?»
Madame Curie la fissò negli occhi e, con quello sguardo duro, che
non rivelava nulla, non fece altro che sottolineare l’importanza delle
sue parole. Un tonista l’avrebbe definita “risonanza”.
«Quando arriverai, saprai cosa fare.»
Poi si udirono i colpi, fin troppo familiari, alla porta d’ingresso.
Citra si precipitò di corsa lungo il pendio della collina innevata,
schivando i pini che trovava sulla sua strada. Il dolore alle
articolazioni le ricordava che mancavano ancora alcune ore prima
che il processo di guarigione si completasse. Trovò la rimessa; la
publicar era lì dove le aveva detto Madame Curie. Salì a bordo e il
motore si accese, chiedendole la destinazione. Non era così stupida
da comunicargli l’indirizzo. «A nord» ordinò. «Andiamo a nord.»
Mentre il veicolo si allontanava accelerando, Citra udì
un’esplosione, poi un’altra. Si guardò alle spalle, ma riuscì a vedere
solo del fumo nero che stava iniziando a salire al di sopra degli alberi.
Il terrore si impadronì di lei. Un uomo che portava una veste simile a
quella indossata dall’amica di Madame Curie uscì correndo dalla
foresta. Lo scorse soltanto per un istante, poi la strada svoltò
bruscamente e l’uomo scomparve alla sua vista.
Solo dopo che la publicar ebbe lasciato il serpeggiante valico di
montagna ed ebbe raggiunto una strada principale, Citra guardò il
foglietto che le aveva dato Madame Curie. Per un istante, ebbe
l’impressione che le ossa le si fossero spontaneamente frantumate di
nuovo, ma quella sensazione durò poco, soppiantata da una fredda
determinazione. Ora capiva.
“Quando arriverai, saprai cosa fare.”
Sì, molto probabilmente era vero. Fissò ancora una volta il
foglietto. Doveva solo memorizzare l’indirizzo, perché conosceva già
il nome.
Gerald Van Der Gans.
Il Thunderhead le aveva fatto quel nome, e ora anche Madame
Curie. Davanti a sé aveva un lungo viaggio e, al termine, una
missione ben più grande. Non era autorizzata a spigolare, ma poteva
vendicarsi. Avrebbe escogitato un modo per fare giustizia di quella
falce assassina, a ogni costo. Non si era mai sentita tanto
riconoscente come per quella sacca di armi che le era stata data.
Era una questione troppo delicata per lasciarla alla Suprema
Guardia. E, anche se detestava che lo utilizzassero come un
semplice agente di polizia, Maestro San Martín sapeva che, se
avesse acciuffato quella ragazza, sarebbe stato ampiamente
ricompensato. Sapeva che la fuggitiva midmericana era lì ancora
prima di bussare alla porta. Il suo compare, Bello, una giovane falce
un po’ troppo solerte, aveva attivato il sensore DNA appena erano
scesi dalla macchina. L’apparecchio aveva subito segnalato la
presenza della ragazza.
Avvicinandosi alla baita, San Martín estrasse la pistola che gli
aveva dato il suo mentore il giorno in cui era stato ordinato. Era la
sua arma preferita per le spigolature; una specie di estensione
naturale della sua persona. E, sebbene quel giorno non avesse
previsto di spigolare, la pistola lo rassicurava. Inoltre, gli era stato
formalmente proibito di uccidere, perché era quello che aveva
determinato lo stesso guaio cui adesso stava cercando di porre
rimedio. La ragazza doveva essere catturata viva.
Bussò con forza alla porta, a lungo. Era pronto a buttarla giù con
un calcio, quando Madame Marie Curie in persona si affacciò
all’uscio. San Martín cercò di nascondere la sua emozione. La
Marquesa de la Muerte era conosciuta in tutto il mondo per le sue
imprese giovanili. Era una leggenda vivente ovunque, non solo nel
Nord.
«C’è un campanello, non se n’è accorto?» chiese in un ispanico
così perfetto che Maestro San Martín fu preso in contropiede. «Siete
qui per pranzare?»
Farfugliò qualcosa, il che aumentò il suo disagio, poi si riprese
come meglio poté. «Siamo qui per la ragazza. Non serve negare, lo
sappiamo che è qui.» E indicò Bello che teneva in mano il sensore
DNA. L’apparecchio emetteva un suono acuto.
Madame Curie lanciò un’occhiata alla pistola che le teneva puntata
addosso e sbuffò con tanta autorità che San Martín la abbassò quasi
senza rendersene conto.
«È stata qui, ma non lo è più. È in viaggio verso un luogo di
villeggiatura in Antartide, a sciare. Se si sbriga, riesce a raggiungerla
prima che il suo aereo decolli.»
La Compagnia cilargentina delle falci non era conosciuta per il suo
senso dell’umorismo, e Maestro San Martín non faceva eccezione.
Non si lasciava trattare da imbecille, nemmeno da una grande stella.
La spinse da parte ed entrò nella baita, dove una falce cilargentina di
cui non ricordava il nome lo osservava con la stessa aria di sfida di
Madame Curie.
«Cerchi pure quanto vuole» disse quella, «ma se rompe
qualcosa…»
Non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase, perché Bello, zelante
all’eccesso, la colpì con uno sfollagente elettrico facendole perdere
conoscenza.
«Era proprio necessario?» lo rimproverò Madame Curie. «È con
me che ce l’avete, non con la povera Eva.»
Insospettito, San Martín uscì dalla porta sul retro e notò le impronte
sulla neve.
«È a piedi!» urlò a Bello. «¡Apurate! Non può essere andata tanto
lontano.» Maestro Bello si lanciò all’inseguimento come un segugio,
scendendo di corsa la collina innevata e sparendo tra gli alberi.
San Martín rientrò in casa, precipitandosi verso la porta d’ingresso.
La strada proseguiva lungo quella collina. Se Bello non fosse riuscito
a raggiungerla a piedi, forse lui avrebbe potuto bloccarla con la
macchina.
Madame Curie, davanti alla porta, gli sbarrava il passo. San Martín
rialzò la canna della pistola e per tutta risposta Madame Curie
estrasse la sua arma, una pistola a canna corta abbastanza larga da
farci entrare una pallina da golf: un mortaio a mano. Al confronto, la
pistola di San Martín era una cerbottana per bambini. E comunque,
non la abbassò, nonostante l’evidente inferiorità.
«Ho un’autorizzazione speciale da parte della Suprema Roncola di
spararle, se necessario» la ammonì.
«E io non ho alcuna autorizzazione da parte di nessuno, ma sono
più che felice di fare altrettanto.»
Si fronteggiarono a lungo, poi Madame Curie spostò di lato la
canna della sua pistola e fece fuoco fuori dalla porta d’ingresso.
L’esplosione mandò in frantumi le finestre della baita e il
contraccolpo scaraventò a terra San Martín… Madame Curie, ancora
sull’uscio, non batté ciglio. San Martín si trascinò carponi e vide che il
colpo da mortaio aveva incendiato la sua auto.
Madame Curie sparò ancora, questa volta facendo saltare in aria la
sua stessa auto.
«Bene. Ora, suppongo che dovrà restare a pranzo.»
San Martín guardò le due macchine che bruciavano e sospirò,
sapendo che da quel giorno sarebbe diventato lo zimbello dei suoi
compagni. Osservò Madame Curie; gli occhi grigio acciaio, la calma,
il perfetto controllo della situazione. Si rese conto che non avrebbe
mai potuto spuntarla contro la Marquesa de la Muerte. Non poté fare
altro che lanciarle un’occhiataccia per esprimerle la sua sincera
disapprovazione.
«Molto male!» le disse, agitando un dito. «Molto, molto male.»
… eppure, anche in sogno, mi ritrovo spesso a spigolare.
Troppo spesso, faccio un sogno ricorrente. Cammino per una strada che non mi è
familiare e che sento che dovrei conoscere, ma non è così. Stringo in mano un
forcone, uno strumento che non ho mai usato in vita mia; i suoi rebbi sgraziati non
sono adatti alla spigolatura e, quando viene sbattuto contro qualcosa, il forcone
risuona, producendo un qualcosa a metà tra uno squillo e un rantolo, come la
vibrazione intorpidente di un bidente tonista.
Al mio cospetto c’è una donna; devo spigolarla. Le do un colpo di forcone, senza
successo. Le sue ferite si rimarginano all’istante. Non è né turbata né spaventata. Non
è neanche divertita. Resta in piedi davanti a me, impassibile, rassegnata. Mi lascia
fare, senza reagire, mentre io cerco inutilmente di mettere fine alla sua vita. Apre la
bocca per dire qualcosa, ma la sua voce è debole, le sue parole annegano tra i gemiti
agghiaccianti del forcone, mentre io non riesco a sentire quello che dice.
E mi sveglio sempre urlando.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


32
Pellegrinaggio travagliato

Tutte le publicar sono registrate, ma le falci non possono


seguirne i movimenti prima che i dati di navigazione
vengano trasmessi al cervello primordiale. Questo
avviene ogni sessanta minuti; dovrai dunque cambiare
auto ogni ora.

Madame Curie le aveva dato le istruzioni in tutta fretta. Sperava solo


di ricordarsi tutto. Poteva farcela. Con l’addestramento, aveva
imparato a essere autonoma e intraprendente. Si liberò appena in
tempo della prima publicar in un paesino. Temeva che non ci fossero
abbastanza veicoli disponibili in Cilargentina, soprattutto in un luogo
così isolato dal resto del mondo, ma il Thunderhead sapeva
prevedere con molta precisione le necessità locali. In ogni contesto,
c’era sempre un’offerta adeguata alla domanda.
Aveva già indossato il ruvido saio tonista e si era tirata il cappuccio
sulla testa. Il travestimento era efficace, la gente la evitava.
Cambiava auto ogni ora e aveva solo un piccolo vantaggio sui suoi
inseguitori. Se voleva seminarli, avrebbe dovuto procedere a zig-zag
come le navi mercantili dell’era mortale in tempo di guerra, per non
far capire quale fosse la sua destinazione. Per oltre un giorno, non
aveva potuto dormire più di un’ora di fila. Attraversò distese selvagge
così vaste che dovette giocare d’astuzia e abbandonare l’auto prima
di arrivare in città, dove le falci cilargentine e gli ufficiali della
Suprema Guardia locale la stavano già aspettando. Passò davanti a
una falce, sicura che l’avrebbe catturata, ma fu abbastanza sveglia
da mettersi sottovento al suo sensore DNA. Il fatto che le falci stesse,
e non solo la Suprema Guardia, partecipassero al suo inseguimento
la terrorizzava, ma la faceva anche sentire importante.
Quando arrivi a Buenos Aires, prendi un ipertreno in
direzione nord, attraverso l’Amazzonia, fino alla città di
Caracas. Non appena supererai il confine con
l’Amazzonia, sarai in salvo. Non alzeranno un dito né
per aiutare Senocrate né per imprigionarti.
Citra conosceva il motivo di quel comportamento dai libri di storia.
Troppe falci di altre regioni spigolavano fuori dalla loro giurisdizione,
mentre trascorrevano le vacanze in Amazzonia. Nessuna legge lo
vietava, ma era un motivo sufficiente perché la Compagnia
amazzonica smettesse di cooperare, rifiutandosi apertamente di
aiutare le falci di altre regioni.
Il problema era il treno a Buenos Aires. La aspettavano in forze in
tutte le stazioni ferroviarie e in tutti gli aeroporti. Fu salvata da un
gruppo di tonisti diretti all’istmo.
«Cerchiamo il Grande Diapason nella linea ombelicale tra nord e
sud» le dissero, pensando che fosse una di loro. «Corre voce che sia
nascosto in un’antica opera di ingegneria. Crediamo che possa
essere stato sigillato in una delle paratoie del canale di Panama.»
Dovette fare un grande sforzo di volontà per non scoppiare a
ridere.
«Ti unirai a noi, sorella?»
E così fece, mentre tratteneva il respiro, non per paura, ma per non
rischiare di attivare i sensori DNA all’interno della stazione, e salì sul
treno diretto a nord sotto il naso di più occhi vigili di quanti ne potesse
contare.
La comitiva era formata da sette tonisti. Di solito, i membri di quella
setta viaggiavano solo in gruppi di sette o dodici, secondo le regole
della matematica musicale. Si trovarono comunque d’accordo a
infrangere la regola e ad aggiungere Citra. A giudicare dal loro
accento, non erano originari dei continenti mericani, ma di qualche
luogo in EuroScandia.
«Dove ti hanno portato i tuoi viaggi?» le chiese il capogruppo.
Sorrideva sempre quando parlava, cosa che lo rendeva ancora più
inquietante.
«Qui e là» rispose.
«Qual è la tua missione?»
«La mia missione?»
«Non ne hanno una tutti i pellegrini itineranti?»
«Sì. La mia missione è… cercare una risposta alla domanda più
bruciante: è un la bemolle o un sol diesis?»
E uno di loro si infiammò subito: «Non fatemi parlare!».
Il vagone non aveva finestrini, perché non c’era un paesaggio da
contemplare nel tunnel. Citra aveva viaggiato in aereo e su treni a
levitazione magnetica, ma l’ipertreno, stretto e claustrofobico, le
metteva angoscia.
I tonisti, abituati a usare tutti i mezzi di trasporto, non se ne
preoccupavano. Discutevano di leggende, dibattevano su quali
fossero vere, quali inventate di sana pianta e quali verificate a metà.
«Abbiamo viaggiato dalle piramidi di Israebia fino alla grande
muraglia di PanAsia per raccogliere gli indizi sulla posizione del
Grande Diapason» spiegò il capo. «È il pellegrinaggio che conta. Se
mai lo troveremo, dubito che qualcuno di noi saprebbe cosa farne.»
Quando il treno raggiunse la velocità di crociera di
milleduecentonovanta chilometri orari, Citra si scusò e andò in bagno.
Si sciacquò il viso, nel tentativo di non lasciarsi vincere dalla
stanchezza. Aveva dimenticato di chiudere a chiave. Se lo avesse
fatto, il suo viaggio sarebbe potuto andare diversamente.
Entrò un uomo. Il suo primo pensiero fu che non si fosse accorto
che il bagno era occupato ma, prima che potesse voltarsi, prima che
potesse fare qualsiasi cosa, si ritrovò una lama d’oro alla gola, nel
punto in cui poteva procurarle il danno maggiore.
«Sei stata scelta per essere spigolata» disse nella lingua comune,
ma con un forte accento che doveva essere portozoniano, l’idioma
principale dell’Amazzonia. La sua veste era di un verde foresta
intenso, e si ricordò di aver letto da qualche parte che le falci di quella
regione indossavano tutte la stessa veste verde.
«Stai facendo un errore!» esclamò Citra, prima che potesse
sgozzarla.
«Allora, dimmi qual è il mio errore. Ma fa’ alla svelta.»
Cercò di inventarsi qualcosa che non fosse la verità per trattenerlo
dal suo proposito, ma si rese conto di non avere nient’altro di
plausibile da dire. «Sono l’apprendista di una falce. Se cercassi di
spigolarmi, verrei subito rianimata e tu saresti punito per non aver
prima controllato l’anello per vedere se godo dell’immunità.»
L’uomo sorrise. «È come pensavo. Sei quella che stanno cercando
tutti.» Le allontanò la lama dal collo. «Ascoltami bene. Ci sono falci
cilargentine a bordo di questo treno travestite da normali passeggeri.
Non puoi evitarle, ma se non vuoi che ti catturino, ti consiglio di
seguirmi.»
Il suo istinto le suggerì di rifiutare e di dire che se la sarebbe cavata
bene anche da sola. Ma il buon senso prevalse sull’istinto, e Citra
andò con lui. L’uomo la portò nella carrozza successiva, dove,
sebbene il treno fosse affollato, c’era un posto vuoto accanto al suo.
Si presentò: era Maestro Possuelo dell’Amazzonia.
«E ora?» chiese Citra.
«Ora dobbiamo aspettare.»
Citra si tirò il cappuccio sulla testa e dopo alcuni minuti un uomo,
vestito come un viaggiatore qualunque, si fece avanti a passo lento
dall’ultima carrozza, consultando un oggetto, simile a un telefono, che
teneva nel palmo della mano.
«Non scappare» le sussurrò Maestro Possuelo. «Non permettergli
di prendere il controllo della situazione.»
Mentre l’uomo si avvicinava, l’apparecchio si mise a suonare come
un contatore Geiger. Trovato il suo obiettivo, si fermò.
«Citra Terranova?»
Con calma, Citra fece scivolare all’indietro il cappuccio. Il cuore le
batteva all’impazzata, ma non lo diede a vedere. «Complimenti, mi
hai trovata. Un punto per te.»
L’uomo fu colto alla sprovvista da quell’espressione, ma proseguì.
«Ti prendo in custodia.» Estrasse uno sfollagente elettrico. «Non
opporre resistenza, peggioreresti solo la tua situazione.»
«Chi ti dà l’autorità di farlo?» gli chiese Maestro Possuelo.
«In virtù dell’autorità congiunta di Lautaro, Suprema Roncola della
regione cilargentina, e di Senocrate, Suprema Roncola della
MidMerica.»
«Nessuno dei due ha giurisdizione qui.»
Ridacchiò. «Scusami, ma…»
«No, scusami tu» lo interruppe Possuelo, con la giusta dose di
indignazione. «Siamo entrati in Amazzonia almeno cinque minuti fa.
Se provi a far valere il tuo vantaggio in qualunque modo, lei ha tutto il
diritto di difendersi con qualsiasi mezzo, anche contro una falce.»
Citra approfittò di quel commento per sguainare un coltello da
caccia nascosto nel saio; si alzò per affrontare il suo avversario. «Fai
una sola mossa con quello sfollagente e dovranno riattaccarti la
mano.»
Un agente della sicurezza entrò nella loro carrozza, attirato dal
trambusto. «Signore» lo chiamò Citra. «Quest’uomo è una falce
cilargentina, ma non indossa né il suo anello né la sua veste. Non è
illegale in Amazzonia?» Non era mai stata così felice di aver studiato
la storia delle falci.
L’agente lo osservò con attenzione e strinse gli occhi, diffidente.
Citra capì subito da che parte stesse. «Tra l’altro, tutte le falci
straniere devono registrarsi prima di attraversare il nostro confine»
disse quello. «Anche quando si intrufolano di nascosto dal tunnel.»
La falce cilargentina cominciò a innervosirsi. «Si occupi degli affari
suoi o la spigolo seduta stante.»
«No, non lo farai» replicò Maestro Possuelo con una tale calma e
un tale sangue freddo che fecero sorridere Citra. «Gli ho concesso
l’immunità. Non puoi spigolarlo.»
«Cosa?»
In quel momento, la falce amazzonica allungò la mano verso il viso
dell’agente, che la prese e baciò l’anello. «Grazie, eccellenza.»
«Quell’uomo mi ha minacciata fisicamente» disse Citra all’agente.
«Esigo che sia fatto scendere dal treno alla prossima fermata,
insieme a tutte le falci che viaggiano con lui in incognito.»
«Con enorme piacere» rispose l’agente.
«Non ne ha il diritto!» si oppose la falce.
Ma pochi minuti più tardi, scoprì che non era così.

Dopo che i suoi inseguitori furono fatti scendere dal treno, Citra si
godette un attimo di tregua. Essendo saltata la sua copertura,
indossò degli abiti civili che prese dalla valigia di una passeggera. Un
paio di jeans e una camicia a fiori che non erano proprio nel suo stile,
ma le andavano bene. I tonisti furono delusi, ma non sorpresi, che
non fosse una di loro. Le lasciarono un opuscolo che lei promise di
leggere, nonostante ci fossero poche probabilità che lo facesse
davvero.
«Qualunque sia la tua destinazione» le disse Maestro Possuelo,
«dovrai cambiare treno alla stazione centrale delle Amazzonie. Ti
suggerisco di salire e scendere da diversi treni prima di montare su
quello che prenderai. In questo modo, i sensori DNA confonderanno i
tuoi inseguitori.»
Naturalmente, più vagava per la stazione, più aumentava il rischio
che la vedessero, ma valeva la pena depistare i sensori DNA e far
girare a vuoto quelli che le davano la caccia.
«Non so perché ti stiano cercando» disse Maestro Possuelo,
quando il treno si fermò in stazione. «Ma se risolverai i tuoi problemi
e avrai l’anello, dovresti tornare in Amazzonia. La foresta pluviale si
estende per tutto il continente, come nei tempi più antichi, e noi
viviamo sotto la sua chioma. Ti piacerebbe.»
«Pensavo che non avesse in simpatia le falci straniere» gli disse
con un sorriso.
«C’è differenza tra un invitato e un intruso» le rispose.
Citra fece del suo meglio per lasciare tracce del suo DNA su una
decina di treni, prima di infilarsi in quello in partenza per Caracas,
sulla costa nord dell’Amazzonia. Una volta là, non trovò agenti a
braccarla, ma era ancora troppo presto per credersi fuori pericolo.
Una volta a Caracas, Madame Curie le aveva detto di seguire la
costa in direzione est finché non fosse arrivata a una città chiamata
Playa Pintada. Avrebbe dovuto allora evitare le publicar o qualsiasi
altro mezzo di trasporto che potesse rivelare la sua posizione. Si rese
conto però che più si avvicinava alla meta, più era determinata.
Avrebbe concluso il suo pellegrinaggio travagliato a ogni costo,
anche se avesse dovuto percorrere il resto del cammino a piedi.

Che si fa quando ci si trova davanti un assassino? Non un assassino


autorizzato dalla società, ma un vero assassino. Un individuo che,
senza la benedizione della collettività, senza alcuna licenza di
uccidere, mette fine per sempre a una vita umana?
Citra sapeva che il Thunderhead impediva che accadesse quel tipo
di cose. Sotto l’impeto della collera, capitava che la gente spingesse
qualcuno da un tetto, sotto le ruote di un treno o di un camion. Ma
quello che si rompeva si poteva sempre riparare. Le rettifiche erano
possibili. Per una falce, no. Una falce che viveva al di fuori della
giurisdizione del Thunderhead non beneficiava di quella protezione.
Non era automatico rianimare una falce; doveva essere richiesto. Ma
chi mai si prestava a perorare la causa di una falce ingiustamente
assassinata?
In effetti, per quanto fossero gli esseri più potenti della Terra, le
falci erano anche quelli più vulnerabili.
Citra giurò a se stessa che avrebbe difeso la causa di Maestro
Faraday. Avrebbe vegliato affinché fosse fatta giustizia. E il
Thunderhead non le avrebbe certo messo i bastoni tra le ruote. Anzi,
le aveva addirittura fornito il nome dell’assassino. E anche Madame
Curie, affidandole quella missione. L’ultima parte del suo
addestramento. Tutto dipendeva dalla linea di condotta che avrebbe
adottato quel giorno.

Playa Pintada. La spiaggia dipinta. La riva era disseminata di grossi


rami nodosi e contorti. Al crepuscolo, erano simili a braccia e gambe
di creature terribili che si alzavano lentamente dalla sabbia.
Citra si accovacciò dietro un drago di legno, nascondendosi sotto
la sua ombra. Un temporale si avvicinava da nord, prendendo forma
sul mare e avanzando inarrestabile verso la riva. In lontananza, si
vedevano già i fulmini balenare nella massa oscura, e il brontolio del
tuono rincorreva il fragore delle onde che si infrangevano sul litorale.
Aveva solo una manciata delle armi con cui aveva iniziato il
viaggio. Una pistola, un coltello a serramanico, il coltello da caccia.
Aveva dovuto sbarazzarsi di tutto il resto, troppo ingombrante, prima
di salire a bordo del treno. Era stato appena il giorno prima, ma
pareva fosse passata una settimana.
La casa che stava sorvegliando era un cubo a un piano solo, come
molte altre che popolavano la riva. Era mezza nascosta tra palme e
sterlizie in fiore. Una terrazza sul retro si affacciava sulla spiaggia,
oltre una siepe bassa. L’interno della casa era illuminato. L’ombra di
un uomo si muoveva a tratti dietro le tende.
Citra passò in rassegna le possibilità. Se fosse stata una falce lo
avrebbe spigolato, seguendo i metodi di Madame Curie. Una lama
conficcata nel cuore. Rapido e definitivo. Avrebbe potuto farlo, se lo
sentiva. Ma non era una falce.
Un attacco inteso a ucciderlo non avrebbe avuto senso; in pochi
minuti, sarebbe arrivato un drone-ambulanza che lo avrebbe
trasportato in un centro di rianimazione. Doveva neutralizzarlo.
Metterlo al tappeto, senza ucciderlo, e poi farlo confessare. Era al
servizio di un’altra falce o lavorava in proprio? Era stato pagato come
i testimoni? Che cosa l’aveva motivato, la promessa dell’immunità o
una vendetta personale nei confronti di Faraday? Poi, una volta
saputo come erano andate realmente le cose e ricevuta una
confessione, avrebbe condotto l’uomo al cospetto di Maestro
Possuelo o di qualsiasi altra falce della Compagnia amazzonica. A
quel punto, nemmeno Senocrate avrebbe più potuto insabbiare la
verità. Lei sarebbe stata scagionata, e il colpevole avrebbe ricevuto la
giusta punizione riservata a una falce assassina. Forse, Citra
sarebbe potuta restare in Amazzonia, senza dover mai affrontare
l’orribile prova che l’attendeva al Conclave d’inverno.
Agli ultimi bagliori del crepuscolo, udì una porta scorrevole aprirsi;
scrutò al di sopra del legno e vide un uomo uscire sulla terrazza a
osservare il temporale in arrivo. La sagoma si stagliava netta contro
la luce proveniente dall’interno, come il bersaglio in carta di un
poligono. Non avrebbe potuto renderle la cosa più facile di così. Citra
estrasse la pistola. Mirò prima dritto al cuore, la forza dell’abitudine
che aveva sviluppato durante l’addestramento. Puntò al ginocchio e
fece fuoco.
Centrato in pieno. L’uomo emise un gemito e cadde a terra. Citra
attraversò la spiaggia correndo e saltò la siepe. Lo afferrò per la
camicia mentre si torceva dal dolore. «Pagherai per il tuo crimine.»
Poi lo vide in viso. Familiare. Troppo familiare. Il suo primo istinto fu
di pensare che fosse un altro inganno. Non si arrese all’evidenza
finché non ne sentì la voce.
«Citra?»
Il volto di Maestro Faraday era contratto in una smorfia di dolore e
incredulità. «Mio Dio, Citra, che cosa ci fai qui?»
Per la sorpresa, Citra lo lasciò andare di colpo e Maestro Faraday
batté la testa contro il duro cemento, perdendo i sensi. Avrebbe
voluto chiamare aiuto, ma chi l’avrebbe aiutata dopo quello che
aveva fatto?
Gli sollevò piano la testa e la tenne tra le braccia. Dal ginocchio, il
sangue scorreva a fiotti infilandosi tra le mattonelle della terrazza,
trasformando la sabbia tra le fessure in malta rossa che, seccandosi,
divenne marrone.
L’immortalità non sa mitigare la follia né la fragilità della giovinezza. L’innocenza è
condannata a morire di una morte insulsa per mano nostra, vittima di errori che non
potremo mai correggere. Così, poniamo fine all’ingenua meraviglia di cui un tempo ci
siamo nutriti, sostituendola con cicatrici di cui preferiamo non parlare, talmente indurite
che nessuna tecnologia potrà mai risanarle. A ogni spigolatura che infliggo, a ogni vita
che tolgo per il bene dell’umanità, piango il bambino che ero, il cui nome talvolta stento
a ricordare. E anelo a un luogo oltre l’immortalità dove mi sia possibile, almeno in
piccola parte, riportare in vita il senso di meraviglia e tornare a essere ancora quel
bambino.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Faraday


33
Il messaggero e il messaggio insieme

Citra lo trasportò in casa. Lo distese su un divano e gli legò un laccio


intorno alla gamba per fermare il sangue. Maestro Faraday emise un
gemito e cercò di sollevarsi, riprendendo a poco a poco conoscenza.
Il suo primo pensiero fu per lei.
«Non dovresti essere qui» farfugliò, con voce debole. I naniti
iniziavano a fare effetto, nonostante avesse sempre un’espressione
sofferente.
«Dovrebbe andare in un centro di rianimazione» rispose Citra. «La
ferita è troppo grave, i naniti da soli non possono guarirla.»
«Sciocchezze. Il dolore si è già attenuato. Non serve operare, si
rimarginerà da sola.»
«Ma…»
«Non ho altra scelta» le disse. «Se vado in un centro di
rianimazione, la Compagnia saprà che sono ancora vivo.» Cambiò
posizione e si lasciò sfuggire un debole gemito. «La natura e i naniti
guariranno il mio ginocchio. Ci vorrà del tempo, e ne ho tanto, per
fortuna.»
Gli fece sollevare la gamba, la fasciò e poi si sedette sul pavimento
accanto a lui.
«Ce l’avevi così tanto con me che hai pensato di venire a vendicarti
di persona?» le chiese, tra il serio e il faceto. «Eri così offesa per il
fatto che avessi trovato un modo per ritirarmi in segreto, invece di
autospigolarmi?»
«Pensavo che lei fosse qualcun altro. Un tale Gerald Van Der
Gans…»
«È il mio nome di nascita. Il nome a cui ho rinunciato quando sono
diventato il Venerando Maestro Michael Faraday. Ma questo non
spiega la tua presenza qui. Ti ho restituito la tua libertà, Citra… vi ho
restituito la vostra libertà, a te e a Rowan. Simulando la mia stessa
spigolatura, ho messo fine al vostro apprendistato. Avreste dovuto
riprendere la vostra vecchia vita, dimenticando tutto quello che è
stato. Perché sei qui, allora?»
«Vuole dire che non lo sa?»
Si sollevò un po’ di più per vederla meglio. «Non so cosa?»
Così, Citra gli raccontò tutto. Come, invece di essere affrancati, lei
e Rowan si erano ritrovati a essere apprendisti di Madame Curie e
Maestro Goddard. Come Senocrate aveva cercato di accusarla della
sua morte e come Madame Curie l’aveva aiutata ad arrivare fino a lui.
Mentre Citra parlava, Maestro Faraday si portò le mani agli occhi
come se volesse strapparseli.
«E pensare che, mentre accadeva tutto questo, io me ne stavo qui
tranquillo.»
«Come poteva non sapere?» gli chiese. Lui, che pareva sapere
sempre tutto, anche ciò che non doveva.
Maestro Faraday sospirò. «Marie… Madame Curie, voglio dire…
lei è l’unica della Compagnia delle falci che sa che sono ancora vivo.
Ma ora sono al di fuori della rete. L’unico modo di contattarmi è farlo
di persona. Per questo ti ha mandato qui. Sei il messaggero e il
messaggio insieme.»
Ci fu un momento di disagio. Dal mare arrivava il rombo del tuono,
molto più vicino, ora. I lampi si erano fatti più sfolgoranti. «È vero che
ha sofferto sette morti per lei?»
Maestro Faraday annuì. «E lei per me. Te lo ha detto, vero? Be’, è
stato tanto tempo fa.»
Fuori, intanto, la pioggia aveva iniziato a cadere a scrosci
intermittenti.
«Mi piace come piove qui» le disse. «Mi ricorda che alcune forze
della natura non possono mai essere soggiogate. Sono eterne, il che
è molto meglio che essere immortali.»
Rimasero seduti ad ascoltare il rassicurante picchiettio della
pioggia, finché Citra non si stancò anche solo di pensare. «Che cosa
accadrà adesso?»
«È molto semplice. Tu ti riposi, il tempo che la mia ferita si
rimargini. Il resto può attendere. Là c’è la camera da letto» le disse,
indicando una porta. «Vedi di dormire bene, perché al mattino mi
reciterai i tuoi veleni, in ordine di tossicità.»
«I miei veleni?»
Nonostante la sofferenza e lo stato confusionale indotto dai
farmaci, Maestro Faraday sorrise. «Sì, i tuoi veleni. Sei o no la mia
apprendista?»
Citra non poté fare a meno di sorridergli a sua volta. «Sì,
eccellenza, lo sono.»
Più a lungo viviamo, più rapidi sembrano scorrere i giorni. È un bel problema, quando
si vive per sempre. Un anno scivola via come se fosse una manciata di settimane. I
decenni passano senza che ci sia un solo avvenimento degno di essere ricordato. Ci
abituiamo alla noiosa monotonia delle nostre vite, finché all’improvviso non ci
guardiamo allo specchio e vediamo un viso che a malapena ricordiamo che ci supplica
di riazzerare il contatore dell’età e ringiovanirci.
Ma siamo davvero giovani quando azzeriamo la nostra età?
Conserviamo gli stessi ricordi, le stesse abitudini, gli stessi sogni mai realizzati. I
nostri corpi possono anche essere agili e flessibili, ma a che fine? Non c’è fine. Mai.
Credo che i mortali fossero più motivati a realizzare i loro obiettivi, perché sapevano
che il tempo era prezioso. Ma noi? Possiamo rimandare le cose da fare più facilmente
di coloro che sono condannati a morire, perché la morte è diventata l’eccezione, non
più la regola.
La stanchezza di vivere che cerco con tanto fervore di spigolare ogni giorno sembra
un’epidemia in continua crescita. Ci sono volte in cui sento che sto combattendo una
battaglia persa contro un’antica apocalisse dei morti viventi.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


34
La seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare

L’inverno si avvicinava, inesorabile. All’inizio, Rowan aveva tenuto


traccia delle vite a cui dava una fine temporanea ma poi, con il
passare del tempo, si rese conto di non riuscirci più. Una dozzina al
giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Si
confondevano tutte. Durante i mesi in cui si era allenato sotto la guida
di Maestro Goddard, aveva portato a termine duemila uccisioni, e per
la maggior parte delle stesse persone, ripetutamente. Quelle persone
lo disprezzavano o lo consideravano un vero e proprio lavoro? A
volte, l’allenamento richiedeva che si dessero alla fuga o anche che
si difendessero. La gran parte era poco abile, ma era evidente che
qualche elemento era stato addestrato al combattimento. In alcune
occasioni, i bersagli erano addirittura armati. Rowan era anche stato
ferito da coltellate e pallottole, ma mai in modo così grave da dover
essere rianimato. Era diventato un assassino eccezionalmente
dotato.
«Hai superato tutte le mie più alte aspettative» gli disse Goddard.
«Avevo il sospetto che dentro di te avessi una scintilla, ma non avrei
mai immaginato un tale inferno!»
E sì, la cosa aveva incominciato a piacergli, come Maestro
Goddard gli aveva detto. E come era stato per Maestro Volta, si
disprezzava per quello.
«Non vedo l’ora che tu sia ordinato» gli disse Volta, un giorno che
stavano studiando insieme. «Forse, chissà, così potremo staccarci da
Goddard. Spigolare al nostro ritmo, nel nostro stile.» Ma Rowan
sapeva che Volta non avrebbe mai trovato la spinta sufficiente per
sfuggire alla forza di gravità di Goddard.
«Dai per scontato che scelgano me e non Citra» ribatté Rowan.
«Citra fa parte del passato» gli ricordò Volta. «Sono mesi che è
disconnessa dalla rete. Se si presentasse al conclave, il comitato di
concessione degli anelli non vedrebbe di buon occhio il fatto che sia
stata per così tanto tempo assente ingiustificata. Tutto ciò che devi
fare è superare la prova finale, e di sicuro vincerai.»
Era proprio quello che Rowan temeva.
La notizia della scomparsa di Citra gli era arrivata da canali non
ufficiali. Non conosceva tutta la storia. Senocrate l’aveva accusata di
qualcosa. Il comitato disciplinare aveva convocato una riunione
urgente alla quale Madame Curie si era presentata in sua vece,
scagionandola da ogni sospetto. Era stato senza dubbio Goddard a
orchestrare tutto, perché era uscito dai gangheri quando aveva
saputo della decisione del comitato di proscioglierla e anche che
Citra era scomparsa. Nemmeno Madame Curie sembrava sapere
dove fosse.
Infuriato, Goddard il giorno dopo aveva portato le sue giovani falci
e Rowan a una spigolatura di massa. Aveva sfogato la sua ira su
un’affollata fiera contadina, e quella volta Rowan non aveva potuto
salvare nessuno, perché Goddard se l’era tenuto al fianco come
caddie, per trasportare le sue armi. Maestro Chomsky aveva usato il
lanciafiamme per appiccare il fuoco a un campo di mais a forma di
labirinto. Soffocate dal fumo, le persone erano corse fuori ed erano
state eliminate a una a una dalle altre falci, appostate all’uscita del
labirinto.
Maestro Volta aveva fatto infuriare Goddard perché aveva lanciato
una bombola di gas tossico nel labirinto in fiamme. Estremamente
efficace, ma aveva sottratto bersagli a Goddard e alle altre falci.
«L’ho fatto per un senso di umanità» gli confidò Volta. «Meglio
morire per il gas che per il fuoco.» Poi aggiunse: «O saltando in aria
quando pensano di essersi messi in salvo scappando dal labirinto».
Forse Rowan aveva malgiudicato Volta. Forse sarebbe riuscito a
staccarsi da Goddard, ma avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Per
Rowan, era un motivo in più per farsi assegnare l’anello.
Alla fine di quella terribile sera, avevano raggiunto tutti la loro quota
di spigolature, ma Goddard non pareva aver soddisfatto del tutto la
sua sete di sangue. Se l’era presa con il sistema, anche solo davanti
ai suoi discepoli, invocando il giorno in cui le falci avrebbero potuto
spigolare senza limiti.
Citra tornò alla Casa sulla cascata da Madame Curie, diverse
settimane prima del Conclave d’inverno. Il Mese delle luci era appena
iniziato e amici e parenti si scambiavano doni per celebrare antichi
miracoli, un’usanza la cui origine si era persa nel corso dei secoli.
A differenza del viaggio frenetico intrapreso verso la costa nord
dell’Amazzonia, il volo di ritorno a casa fu tranquillo e senza
emozioni. Citra non doveva guardarsi alle spalle ogni cinque minuti,
perché non c’era più nessuno a inseguirla. Come le aveva promesso
Madame Curie, era stata prosciolta da qualsiasi accusa. Maestro
Mandela aveva inviato a Madame Curie un biglietto di scuse da
consegnare a Citra, mentre la Suprema Roncola non aveva compiuto
alcun gesto in quel senso.
«Farà finta di nulla, come se non fosse mai successo» le disse
Madame Curie, mentre rincasavano dall’aeroporto. «È la cosa più
simile a delle scuse che ci si possa aspettare da lui.»
«Ma è successo» replicò Citra. «Mi sono dovuta lanciare dal tetto
di un palazzo per scappare.»
«E io ho dovuto far saltare in aria due auto perfettamente
funzionanti» ribatté Madame Curie, sarcastica.
«Non dimenticherò quello che ha fatto.»
«Tanto meglio. Hai tutto il diritto di giudicarlo duramente, ma non
troppo. Temo che ci siano altre variabili in gioco, oltre a quelle di cui
siamo al corrente.»
«È quello che ha detto Maestro Faraday.»
Madame Curie sorrise sentendole pronunciare quel nome. «E
come sta il nostro buon amico Gerald?» le chiese, facendole
l’occhiolino.
«Le notizie sulla sua morte sono state notevolmente esagerate.
Perlopiù, cura il giardino e fa lunghe passeggiate sulla spiaggia.»
Il fatto che fosse ancora vivo era un segreto che si erano entrambe
impegnate a mantenere. Anche Maestro Mandela credeva che Citra
fosse rimasta ospite di un parente di Madame Curie in Amazzonia, e
non aveva alcun motivo di sospettare che non fosse vero.
«Forse lo raggiungerò sulla sua spiaggia tra un centinaio di anni o
giù di lì» disse Madame Curie. «Ma per il momento, c’è troppo da
fare alla Compagnia delle falci. Troppe battaglie decisive da
affrontare.» Citra la vide stringere il volante. «È in gioco il futuro di
tutto ciò in cui crediamo. Si parla addirittura di abolire le quote. È per
questo che devi farti assegnare l’anello. So che tipo di falce sarai, ed
è esattamente quello di cui abbiamo bisogno.»
Citra guardò altrove. Senza la spigolatura quotidiana,
l’addestramento sotto la guida di Maestro Faraday negli ultimi mesi si
era concentrato sul perfezionamento della mente e del corpo, ma
soprattutto sull’etica irreprensibile di cui una falce doveva dare prova.
Non c’era nulla di “vecchio” in quell’approccio. Era morale, punto.
Sapeva che quegli ideali non facevano parte dell’addestramento di
Rowan, ma questo non voleva dire che in fondo al suo cuore lui non
ci credesse, all’insaputa del suo mentore sanguinario.
«Anche Rowan potrebbe essere una buona falce» disse Citra.
Madame Curie sospirò. «Non possiamo più fidarci di lui. Guarda
che cosa ti ha fatto al Conclave della mietitura. Puoi inventarti tutte le
scuse del mondo per giustificare il suo comportamento, ma il fatto è
che non si sa più da che parte stia. Per forza di cose,
l’addestramento sotto la guida di Goddard lo ha cambiato in modo
imprevedibile.»
«Anche se fosse vero» ribatté Citra, osando affrontare la questione
che, entrambe lo sapevano, aveva evitato fino a quel momento, «non
so se riuscirò a spigolarlo.»
«Sarà la seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare nella
vita» ammise Madame Curie. «Ma troverai il modo, Citra. Credo in
te.»
Se spigolare Rowan sarebbe stata la seconda cosa più dolorosa
per lei, si domandò quale sarebbe stata la prima, ma ebbe paura a
chiederlo, perché non voleva davvero saperlo.
Ci sono così tante tradizioni e regole arcaiche che dobbiamo rimettere in discussione. I
fondatori, per quanto fossero benintenzionati, furono purtroppo influenzati dalla
mentalità dei mortali, avendo vissuto in un’epoca così a ridosso dell’Era della Mortalità.
Non potevano prevedere i futuri bisogni della Compagnia delle falci.
Affronterei per prima cosa il concetto di quota. È assurdo darci la libertà di stabilire
metodo e criteri di spigolatura per imporci poi il numero di spigolature da eseguire.
Ogni minuto del giorno dobbiamo pensare se stiamo spigolando troppo o troppo poco.
Meglio sarebbe se potessimo spigolare a nostra totale discrezione. Così, le falci che
spigolano troppo poco non verrebbero punite, perché quelle che hanno un appetito più
sviluppato per le spigolature compenserebbero le loro carenze. In questo modo,
potremmo aiutarci l’un l’altro. Questo aiuto reciproco non sarebbe vantaggioso per tutti
noi?

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Goddard


35
L’annichilimento è il nostro segno distintivo

L’ultimo giorno dell’anno, appena tre giorni prima del Conclave


d’inverno, Maestro Goddard guidò un’altra spedizione.
«Ma abbiamo già superato la nostra quota annua» si affrettò a
ricordargli Maestro Volta.
«Non mi farò fermare da un cavillo!» urlò Goddard. Rowan pensò
che volesse colpire Volta, ma poi si prese un momento per calmarsi e
disse: «Quando avremo iniziato la nostra missione, sarà già l’anno
del Capibara in PanAsia. Per quanto mi riguarda, questo ci autorizza
a conteggiare le nostre spigolature nel nuovo anno. Poi torneremo in
tempo per il gala di capodanno!»
Maestro Goddard decise che sarebbe stato il giorno delle katana,
sebbene Chomsky si rifiutasse di separarsi dal suo lanciafiamme. «È
per questo che sono conosciuto. Perché rovinare la mia immagine?»
Fino a quel momento, Rowan aveva partecipato a quattro
spedizioni con Goddard. Scoprì che poteva rifugiarsi in se stesso, per
non sentirsi un complice, né tantomeno uno spettatore. Tornava a
essere una foglia d’insalata. Non senziente e marginale. Facilmente
ignorato e trascurato. Era l’unico modo per non impazzire nel gioco al
massacro di Goddard. A volte, dimenticato in mezzo a una mischia,
poteva aiutare la gente a fuggire. Ma altre doveva essere al fianco di
Goddard, a caricare o a cambiare le sue armi. Quel giorno non
sapeva quale ruolo gli sarebbe capitato: se Goddard avesse usato la
sua katana, Rowan non avrebbe dovuto fargli da caddie per le armi.
Eppure, disse a Rowan di portarne una di riserva.
La mattina, mentre si apprestavano a partire per la spedizione, i
preparativi per la festa erano già in pieno svolgimento. Il furgone del
catering era arrivato e stavano sistemando i tavoli. Il gala di
capodanno veniva pianificato da Goddard con un certo anticipo, e la
lista degli invitati era pazzesca.
L’elicottero atterrò sul prato antistante, e una delle tende che
stavano allestendo per la festa volò via come se fosse un tovagliolo
spazzato dal vento.
«Oggi forniremo un servizio pubblico indispensabile» disse
Goddard, con eccessiva allegria. «Oggi ci sbarazzeremo di un po’ di
marmaglia» aggiunse, senza spiegare che cosa intendesse. Quando
l’elicottero decollò, Rowan sentì un vuoto nello stomaco che non
aveva nulla a che fare con l’ascensione.

Atterrarono in un parco pubblico, al centro di un campo di calcio


chiazzato di neve. C’era un’area giochi al limitare del parco, in cui
alcuni bambini, incuranti del maltempo, si dondolavano, si
arrampicavano e giocavano con la sabbia, intabarrati contro il freddo.
Nell’istante in cui videro le falci scendere dall’elicottero, i genitori
radunarono i loro figli e li portarono via in fretta, ignorandone i pianti
di protesta.
«La nostra destinazione è a diversi isolati da qui» disse Maestro
Goddard. «Non ho voluto atterrare troppo vicino per non rovinare
l’effetto sorpresa.» Poi mise un braccio paterno intorno alle spalle di
Rowan. «Oggi è il battesimo di Rowan. Oggi farai la tua prima
spigolatura!»
Il ragazzo fece un passo indietro. «Cosa? Io? Non posso! Sono
solo un apprendista!»
«Sarai il mio agente! Così come ti ho autorizzato a concedere
l’immunità in mia vece, oggi spigolerai qualcuno e sarà come se
l’avessi fatto io. Consideralo un regalo. Non devi ringraziarmi.»
«Ma… ma non è consentito!»
Goddard non si scompose. «Be’, vediamo se c’è qualche
lamentela. Ehi, che cosa sento? Silenzio!»
«Tranquillo» lo rassicurò Volta. «È quello per cui sei stato
addestrato. Te la caverai.»
Era ciò che Rowan temeva. Non voleva “cavarsela”. Voleva farlo
male. Voleva fallire, perché solo fallendo avrebbe saputo di avere
ancora un briciolo di umanità. Aveva la sensazione che il cervello
stesse per esplodergli, e che gli sarebbe uscito dal naso e dalle
orecchie. Sperò che così fosse, perché allora non avrebbe spigolato
nessuno, quel giorno. “Se devo farlo, sarò compassionevole come
Maestro Faraday” si disse. “Non mi divertirò. Non mi divertirò!”
Svoltarono un angolo e Rowan vide la loro destinazione; una
specie di complesso che aveva l’aspetto di un vecchio tempio,
totalmente fuori dal tempo nella gelida MidMerica. Il simbolo di ferro
in cima all’altissimo campanile era un diapason. Era un monastero
tonista.
«Dietro quelle mura, vivono quasi cento tonisti» annunciò Goddard.
«Il nostro obiettivo è di spigolarli tutti.»
Madame Rand sorrise. Maestro Chomsky verificò lo stato della sua
arma. Solo Maestro Volta parve avere qualche riserva. «Tutti?»
Goddard alzò le spalle come se fosse una minuzia. Come se tutte
quelle vite fossero una minuzia. «L’annichilimento è il nostro segno
distintivo. Non ci riusciamo sempre, ma ci proviamo.»
«Ma è… una violazione del secondo comandamento. È un segno
di pregiudizio.»
«Suvvia, Alessandro» disse Goddard, con il suo tono
paternalistico. «Pregiudizio contro chi? I tonisti non sono un gruppo
culturale riconosciuto.»
«Non potrebbero essere considerati seguaci di una religione?»
suggerì Rowan.
«Vuoi scherzare!» esclamò Madame Rand, ridendo. «Non puoi
prenderli sul serio! Sono una banda di buffoni!»
«Esatto» confermò Goddard. «Hanno trasformato la fede dell’era
mortale in una presa in giro. La religione è una parte preziosa della
storia e loro ne hanno fatto una caricatura.»
«Spigoliamoli tutti!» esortò Chomsky.
Goddard e Madame Rand sguainarono le spade. Volta lanciò
un’occhiata a Rowan e disse sottovoce: «La cosa più bella di queste
spigolature è che finiscono presto». Poi sguainò la spada e seguì gli
altri attraverso l’ingresso a volta che i tonisti lasciavano sempre
aperto per le anime perdute che cercavano un conforto nella tonalità.
Non avevano la minima idea di che cosa sarebbe accaduto.

La voce si sparse in fretta per la strada. Una piccola elegia di falci


aveva fatto irruzione in un monastero tonista. Com’era proprio della
natura umana, il numero di falci salì presto a dodici o più, e sempre in
virtù della natura umana, davanti all’edificio si radunò una folla di
persone più incuriosite che spaventate, nella speranza di adocchiare
le falci e magari anche di vedere la scia di sangue che si lasciavano
alle spalle. Ma ciò che videro fu solo un giovane, di fronte al cancello
aperto, che dava loro le spalle.
A Rowan fu dato l’ordine di restare davanti al cancello, a spada
sguainata, per impedire a chiunque di fuggire. Il suo piano,
naturalmente, era di permettere a chiunque di fuggire. Ma quando i
tonisti in preda al panico videro lui, la spada e la fascia di apprendista
sul braccio, scapparono nella direzione opposta, all’interno del
complesso, dove caddero vittime delle falci. Rowan rimase lì per
cinque minuti, poi lasciò il suo posto e si perse all’interno del
complesso labirintico. Solo allora le persone cominciarono a scivolare
fuori dal cancello mettendosi in salvo.
I gemiti e i lamenti di angoscia erano insopportabili. Questa volta,
sapere che avrebbe dovuto spigolare qualcuno prima che fosse tutto
finito gli impediva di rifugiarsi in se stesso. Quel posto era un dedalo
di cortili e strutture prive di una logica apparente. Non riusciva a
capire dove si trovasse. Alla sua sinistra, un edificio stava bruciando
e un viale era disseminato di cadaveri, un evidente segno del
passaggio di una delle falci. Una donna si era rannicchiata dietro un
cespuglio spoglio. Cullava tra le braccia un bambino, che cercava
disperatamente di far stare zitto. Si spaventò quando vide Rowan e si
mise a urlare, stringendo più forte il piccolo al petto.
«Non voglio farti del male» le disse. «Nessuno sorveglia il cancello
principale… se corri, ce la puoi fare. Va’ ora!»
La donna non se lo lasciò ripetere due volte. Fuggì a gambe levate.
Rowan sperò solo che non incontrasse una falce sul suo cammino.
Girò un angolo e vide un’altra figura rannicchiata contro una
colonna, scossa dai singhiozzi. Non era uno dei tonisti. Era Maestro
Volta. La sua spada era a terra. La veste gialla era imbrattata di
sangue, e anche le mani erano coperte di sangue, luccicante e
appiccicoso. Quando vide Rowan, si voltò e i suoi singhiozzi si fecero
più forti. Rowan gli si inginocchiò accanto. Stringeva qualcosa in
mano. Non era un’arma, ma qualcos’altro.
«È finita» disse Volta, quasi in un sussurro. «È finita, adesso.» A
giudicare dalle grida e dai lamenti che provenivano da ogni parte del
complesso, era chiaro che non fosse affatto finita. «Che è successo,
Alessandro?»
Volta lo guardò. Gli occhi erano pieni dell’angoscia di un uomo che
sapeva di essere già condannato. «Pensavo che fosse… pensavo
che fosse un ufficio… Che entrando, avrei trovato al massimo un paio
di persone. Che li avrei spigolati senza farli soffrire troppo e che me
ne sarei andato. Non era quello che pensavo. Non era un ufficio. Era
una classe.»
Scoppiò di nuovo in singhiozzi. «C’erano almeno una dozzina di
bambini, che si nascondevano. Si nascondevano da me, Rowan. Ma
c’era quel bambino. Si è fatto avanti. Il maestro ha cercato di
fermarlo, ma lui si è fatto avanti. Non aveva paura. E teneva davanti
a sé uno di quegli stupidi diapason. Lo teneva come se avesse potuto
allontanarmi. “Non ci puoi fare del male” diceva. Poi lo ha battuto
contro un banco per farlo suonare e lo ha alzato verso di me. “Per il
potere della tonalità, non potrai farci del male” diceva. E ci credeva,
Rowan. Credeva nel suo potere. Credeva che lo avrebbe protetto.»
«Che cosa hai fatto?»
Volta chiuse gli occhi e le parole gli uscirono con un’orribile voce
stridula. «L’ho spigolato… Li ho spigolati tutti…»
Aprì la mano insanguinata; nel palmo teneva il piccolo diapason
che era appartenuto al bambino. Rotolò a terra con un leggero
clangore atonale.
«Che cosa siamo, Rowan? Che cosa cazzo siamo? Non è così che
dovremmo essere.»
«No, non è così che dovremmo essere. Non è mai stato così.
Goddard non è una falce. Può anche avere l’anello, può anche avere
licenza di spigolare, ma non è una falce. È un assassino, e deve
essere fermato. Noi possiamo trovare un modo per fermarlo, io e te!»
Volta scosse la testa, e guardò il sangue che si stava raccogliendo
nei suoi palmi. «È finita» ripeté. Tremando, fece un profondo respiro
e divenne calmo, molto calmo. «È finita, e ne sono contento.»
Fu allora che Rowan si rese conto che il sangue che riempiva le
mani di Volta non era delle sue vittime. Gli sgorgava dai polsi, da
squarci lunghi e irregolari, praticati con un intento molto chiaro.
«Alessandro, no! Non devi farlo! Dobbiamo chiamare un drone-
ambulanza. Non è troppo tardi.»
Entrambi, però, sapevano che lo era.
«L’autospigolatura è l’ultima prerogativa di una falce. Non puoi
togliermela, Rowan. Non provarci nemmeno.»
Il sangue ora era dappertutto, macchiava la neve del cortile.
Rowan emise un gemito, non si era mai sentito così impotente. «Mi
dispiace, Alessandro. Mi dispiace…»
«Il mio vero nome è Shawn Dobson. Mi chiamerai così, Rowan? Mi
chiamerai con il mio vero nome?»
Rowan riusciva a malapena a parlare tra le lacrime. «È… è stato
un onore conoscerti, Shawn Dobson.»
Volta si appoggiò a Rowan, mentre la voce si affievoliva, incapace
di tenere su la testa. «Promettimi che sarai una falce migliore di me.»
«Te lo prometto, Shawn.»
«E poi forse… forse…»
Ma qualsiasi cosa avesse voluto dire si esaurì nel suo ultimo soffio
di vita. La testa scivolò sulla spalla di Rowan, mentre da ogni parte
grida lontane di agonia riempivano l’aria gelida.
Ogni giorno prego come facevano i miei antenati, che cominciarono a pregare divinità
fallibili e volubili. Poi si misero a venerare un solo Dio che si ergeva a giudice,
terrificante e spietato. Quindi rivolsero le loro preghiere a un Dio amorevole e
clemente. E infine si affidarono a un potere senza nome.
Ma gli immortali a chi dovrebbero rivolgere le loro preghiere? Non so rispondere a
questa domanda, tuttavia ciò non mi impedisce di lanciare il mio appello nel vuoto,
sperando di raggiungere qualche orecchio al di là dell’orizzonte e delle profondità della
mia anima. Chiedo consiglio. Chiedo coraggio. E prego, oh, se prego, di non diventare
mai insensibile alla morte che dispenso al punto di trovarla normale. Ordinaria.
Il mio augurio più grande per l’umanità non è né la pace, né il conforto, né la gioia.
No. Quello che auspico è che dentro noi stessi qualcosa muoia ogni volta che
assistiamo alla morte di un altro. Perché solo la sofferenza causata dall’empatia potrà
permetterci di restare umani. Nessuna versione di Dio potrà mai venirci in aiuto se
perdiamo questa capacità.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Faraday


36
La tredicesima vittima

Goddard era nel santuario della cappella, impegnato a concludere la


sua opera spaventosa. All’esterno, i gemiti si stavano a poco a poco
attenuando, mentre Rand e Chomsky finivano quello che avevano
cominciato. Dall’altra parte del cortile, un edificio era ancora in preda
alle fiamme. Il fumo e delle folate di aria fredda si insinuavano tra le
vetrate rotte della cappella. Goddard era in piedi davanti all’altare su
cui torreggiava un diapason lucente, accanto a una vasca d’acqua
stagnante.
Era rimasto vivo solo un tonista. Era un uomo dalla calvizie
incipiente che indossava un saio leggermente diverso da quelli che
avevano i cadaveri intorno a lui. Goddard lo teneva per una mano e
brandiva una spada nell’altra. Poi si voltò verso Rowan e sorrise.
«Ah, Rowan! Appena in tempo» disse, con allegria. «Ti ho lasciato
l’ultima vittima, il curato.»
Il curato tonista non si fece impressionare. «Il massacro perpetrato
qui oggi non farà altro che aiutare la nostra causa. I martiri hanno un
peso maggiore dei vivi.»
«Martiri di cosa?» replicò Goddard beffardo, prima di colpire con la
sua katana il gigantesco diapason. «Di questo aggeggio? Riderei, se
non ne fossi così disgustato.»
Rowan gli si avvicinò, ignorando la carneficina intorno a lui, ma
concentrando la sua attenzione su Goddard. «Lo lasci andare.»
«Perché? Preferisci un bersaglio mobile?»
«No. Preferisco che non ci sia un bersaglio.»
Alla fine, Goddard comprese. Sorrise, come se Rowan avesse
appena detto qualcosa di affascinante e curioso. «Il nostro giovane
uomo disapprova?»
«Volta è morto.»
L’espressione di gioia sul viso di Goddard si affievolì, ma solo un
po’. «È stato attaccato dai tonisti? Pagheranno caro questo affronto!»
«Non sono stati loro.» Rowan non si sforzò nemmeno di
nascondere l’animosità che trapelava dalla sua voce. «Si è
autospigolato.»
La notizia lo lasciò stupefatto. Il curato si dibatteva per liberarsi
dalla presa e Goddard gli sbatté la testa contro la vasca di pietra.
L’uomo perse i sensi e cadde a terra.
«Volta era il più debole tra noi» commentò Goddard. «Non sono
molto sorpreso. Non appena sarai ordinato, ti darò volentieri il suo
posto.»
«Non lo accetterò.»
Per un lungo momento, Goddard lo osservò. Lo stava sondando.
Rowan ebbe l’impressione di essere violato. Goddard gli era entrato
nella testa, nell’anima, e non sapeva cosa fare per scacciarlo.
«So che tu e Alessandro eravate amici, ma lui non era come te,
Rowan, credimi. Lui non ha mai avuto fame. Ma tu sì. L’ho visto nei
tuoi occhi. Ho visto come ti comporti quando ti alleni. Tu vivi l’istante.
Ogni tua uccisione è perfetta.»
Rowan fu incapace di distogliere lo sguardo da Goddard, che
aveva messo giù la sua katana e ora allargava le braccia come un
salvatore. I diamanti della sua veste luccicavano al bagliore lontano
delle fiamme.
«Avremmo potuto chiamarci mietitori. Ma i padri fondatori hanno
ritenuto opportuno chiamarci falci, perché noi siamo le armi nella
mano immortale dell’umanità. Tu sei una falce sofisticata, Rowan,
uno strumento affilato, preciso. E quando colpisci, sei uno spettacolo
per gli occhi.»
«Basta! Non è vero!»
«Tu sai che è così. Sei nato per questo, Rowan. Non gettare tutto
alle ortiche.»
Il curato cominciò a gemere, riprendendo conoscenza. Goddard lo
obbligò ad alzarsi. «Spigolalo, Rowan. Non lottare contro la tua vera
natura. Spigolalo adesso. E godi nel farlo.»
Rowan stringeva l’impugnatura della sua spada con lo sguardo
fisso negli occhi vitrei del curato. Pur cercando di resistere, faticava a
opporsi al potere magnetico di Goddard. «Lei è un mostro!» gridò.
«Un mostro della peggior specie, perché non si accontenta di
uccidere, ma trasforma gli altri in assassini, a sua immagine e
somiglianza.»
«Manchi di prospettiva. Agli occhi della preda, il predatore è
sempre un mostro. Per la gazzella, il leone è il demonio. Per un topo,
l’aquila è l’incarnazione del male.» Fece un passo avanti, tenendo
sempre stretto il curato.
«Sarai l’aquila o il topo, Rowan? Sceglierai di volare in alto o di
strisciare via? Perché queste sono le due sole possibilità chi ti sono
offerte oggi.»
A Rowan girava la testa. L’odore acre del sangue e il fumo gli
davano le vertigini e gli annebbiavano la mente. Il curato non era
diverso dagli sconosciuti con cui si esercitava ogni giorno e, per un
istante, si immaginò sul prato, nel bel mezzo di una sessione di
addestramento. Sguainò la spada e avanzò a grandi passi verso la
preda, sentendo crescere in sé quella fame, cogliendo l’attimo,
proprio come Goddard l’aveva incoraggiato a fare, e lasciandosi
andare al piacere di assaporare quella bramosia. Si era allenato per
mesi a quello scopo e ora capiva finalmente perché Goddard aveva
sempre lasciato andare la tredicesima vittima, l’ultima, prima che
Rowan potesse eliminarla, perché gli aveva impedito di sferrare il
colpo finale.
Era per prepararlo a quel giorno.
Quel giorno, avrebbe finalmente sferrato il colpo finale e sarebbe
stato sempre così da allora in poi, quando sarebbe andato in cerca di
soggetti da spigolare; non avrebbe fermato la sua mano, la sua lama
o il suo proiettile finché non fosse rimasto più nessuno da spigolare.
Prima che potesse pensarci con chiarezza, prima che la sua mente
potesse dirgli di fermarsi, si lanciò verso il curato e spinse la lama in
avanti con tutta la sua forza, sferrando il colpo finale.
L’uomo soffocò un grido e barcollò di lato, incolume. La lama di
Rowan aveva colpito il suo vero bersaglio, trafiggendo Goddard da
parte a parte, fino all’elsa.
Ora Rowan era vicino a Goddard. A qualche centimetro dal suo
viso, lo guardava negli occhi spalancati e stupefatti.
«Sono quello in cui mi ha trasformato. E ha ragione: mi è piaciuto.
Mi è piaciuto più di qualsiasi altra cosa abbia mai fatto in vita mia.»
Con la mano libera, gli strappò l’anello dal dito. «Non se lo merita.
Non se l’è mai meritato.»
Goddard aprì la bocca per parlare, forse per recitare un eloquente
soliloquio funebre, ma Rowan non voleva più ascoltarlo. Indietreggiò,
gli estrasse la spada dall’addome e, descrivendo un ampio arco,
gliel’abbatté sul collo, mozzandogli di netto la testa, con un colpo
solo. La testa rotolò via e atterrò nella vasca di acqua sporca, come
se fosse stata messa lì a quello scopo.
Il corpo di Goddard si accasciò a terra. In quell’istante di silenzio,
Rowan sentì una voce alle sue spalle.
«Che cazzo hai fatto?»
Rowan si voltò e vide Chomsky in piedi davanti all’entrata della
cappella. Rand gli era accanto.
«Sei spacciato. Aspetta che lo abbiano rianimato. Verrai
spigolato!»
Rowan si lasciò sopraffare dalla tecnica che aveva appreso. “Io
sono l’arma” si disse. E in quel momento, divenne un’arma letale.
Chomsky e Rand si difesero meglio che poterono e, sebbene fossero
abili, non erano nulla a confronto con l’arma affilata e precisa che
Rowan era diventato. Affondò la lama procurando un taglio profondo
a Madame Rand, che però lo disarmò con un calcio di Bokator ben
assestato. Rowan reagì con un colpo ancora più efficace,
spezzandole la colonna vertebrale. Chomsky diede fuoco al braccio
di Rowan con il lanciafiamme, ma Rowan si rotolò a terra, spegnendo
la vampa. Poi afferrò il maglio accanto all’altare e lo abbatté più volte
su Chomsky come il martello di Thor, quasi stesse suonando i dodici
rintocchi di mezzanotte. Alla fine, il curato gli afferrò la mano per
fermarlo. «Basta così, figliolo. È morto.»
Rowan lasciò andare il maglio. Solo allora abbassò la guardia.
«Vieni con me, figliolo. C’è un posto per te qui con noi. Possiamo
nasconderti dalla Compagnia delle falci.»
Rowan guardò la mano tesa dell’uomo. Gli ritornarono in mente le
parole di Goddard. “L’aquila o il topo?” No, Rowan non sarebbe
strisciato via a nascondersi. Non aveva ancora finito la sua opera.
«Abbandonate questo luogo» ordinò all’uomo. «Radunate i
superstiti, se ce ne sono, e andatevene. Presto!»
L’uomo lo guardò ancora per qualche secondo, poi uscì dalla
cappella. Quando se ne fu andato, Rowan prese il lanciafiamme e
concluse l’opera.

In strada, erano arrivati i camion dei pompieri e gli ufficiali di pace


tenevano a distanza la folla di curiosi. Tutto il monastero era in
fiamme. E quando i vigili del fuoco corsero verso il nucleo
dell’incendio, un giovane uscì dal cancello principale e li intercettò.
«Questa è un’azione delle falci. Non potete intervenire» annunciò.
Il capitano dei vigili del fuoco, che si era avvicinato a lui, aveva
sentito parlare di incendi provocati dalle falci, ma non era mai
successo nulla del genere durante il suo turno. C’era qualcosa di
strano. Era vero, il ragazzo indossava una veste da falce, color blu
reale e tempestata di diamanti, ma non era della sua taglia. Dato che
le fiamme stavano divorando il complesso a una velocità allarmante,
il capitano dovette prendere una decisione. Quel ragazzo, chiunque
fosse, non era una falce, e non gli avrebbe permesso di intralciare il
suo lavoro.
«Levati di mezzo!» gli ordinò, sprezzante. «Torna con gli altri e
lasciaci lavorare.»
Il ragazzo si mosse alla velocità della luce. Il capitano sentì le
gambe mancargli e si ritrovò disteso sulla schiena. Rowan fu subito
su di lui; gli premette un ginocchio sul petto e gli mise una mano
intorno al collo stringendo così forte da bloccargli quasi la trachea. A
un tratto, il ragazzo non gli parve solo un ragazzo. Sembrava molto
più grande. Molto più vecchio.
«Ho detto che è un’azione delle falci e che non dovete intervenire,
altrimenti vi spigolo qui, seduta stante, ora!»
Il capitano si rese conto di aver commesso un errore madornale.
Solo una falce poteva mostrare una simile autorità e avere un
controllo così assoluto della situazione. «Sì, eccellenza» disse il
capitano, con voce stridula. «Mi dispiace, eccellenza.»
La falce si alzò, permettendogli di rimettersi in piedi. Il capitano
ordinò alla sua squadra di ritirarsi. E la sua squadra, avendo visto il
modo con cui la falce aveva atterrato il loro capitano, non trovò nulla
da ridire.
«Potete proteggere gli edifici adiacenti minacciati dalle fiamme»
disse la giovane falce. «Ma lascerete che il fuoco rada al suolo
questo complesso.»
«Capisco, eccellenza.»
Poi la falce tese la mano con l’anello e il capitano lo baciò con un
tale impeto che si ruppe un dente.

Un brivido percorse la pelle di Rowan sotto la veste macchiata del


sangue di Maestro Goddard ma, per quanto fosse sgradevole,
doveva indossarla per recitare fino in fondo la sua parte. Era molto
più convincente di quanto non avesse immaginato. Al punto di farsi
paura da solo.
I pompieri diressero la loro attenzione agli edifici adiacenti,
cospargendo i tetti di una schiuma ignifuga. Rowan si ritrovò da solo
tra il monastero tonista che bruciava e la folla di curiosi tenuti a bada
dagli ufficiali di pace. Rimase lì, finché il campanile non crollò e la
cuspide del gigantesco diapason non scomparve tra le fiamme,
schiantandosi a terra con un clangore funereo.
“Sono diventato il mostro dei mostri” pensò, mentre osservava il
fuoco che distruggeva tutto. “Il macellaio dei leoni. Il boia delle
aquile.”
Poi, facendo attenzione a non inciampare nella veste, si allontanò
dall’inferno di fuoco che stava cancellando ogni traccia di Maestro
Goddard e dei suoi discepoli. Dei loro corpi, non sarebbe rimasto che
un mucchio di ossa tanto carbonizzate da renderne impossibile la
rianimazione.
Parte quinta
ESSERE UNA FALCE
Madame Rand e Maestro Chomsky hanno spesso queste conversazioni morbose.
Sono contorti, e sono i primi ad ammetterlo, ma immagino che faccia parte del loro
fascino. Oggi stavano parlando del metodo che avrebbero usato un giorno per
autospigolarsi. Noam diceva che sarebbe salito in cima a un vulcano attivo e che,
accompagnato da una grandiosa cerimonia, si sarebbe lanciato nella lava. Ayn diceva
che si sarebbe immersa nella grande barriera corallina finché non avesse esaurito
tutta l’aria o non fosse stata divorata da uno squalo bianco. Volevano che mi unissi a
loro nel gioco, e che dicessi anch’io come avrei preferito andarmene. Sarò pure
noioso, ma non mi andava di giocare. Perché parlare di come autospigolarsi quando
dovrebbe essere il nostro ultimo pensiero? La nostra missione è di porre fine alla vita
degli altri, non alla nostra, e io intendo andare avanti ancora per tanto, finché non avrò
più di mille anni.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Volta


37
Scuotere l’albero

«Una tragedia. Una terribile tragedia.» Senocrate era abbandonato


su un sontuoso divano, nella grandiosa residenza che fino a due
giorni prima era stata abitata dal defunto Maestro Goddard. Davanti a
lui, c’era un apprendista dall’aria fin troppo calma, soprattutto per un
giovane che aveva dovuto affrontare quella drammatica disavventura.
«Stai pur sicuro che l’uso del fuoco come metodo di spigolatura in
MidMerica sarà proibito a partire da domani, al conclave» aggiunse.
«Non è mai troppo tardi» replicò Rowan, rivolgendosi a lui non
come un apprendista, ma come un pari. Le sue maniere irritarono la
Suprema Roncola, che lo osservò a lungo. «Sei stato molto fortunato
a uscirne vivo.»
Rowan lo guardò dritto negli occhi. «Mi era stato ordinato di restare
al cancello principale. Quando mi sono accorto dell’incendio, era
ormai troppo tardi. Non c’era nulla che potessi fare; Maestro Goddard
e gli altri erano intrappolati. Quel posto era un labirinto. Non avevano
alcuna speranza di salvarsi.» Rimase qualche secondo in silenzio e
sostenne lo sguardo inflessibile di Senocrate. «Le altre falci
penseranno che porto sfortuna. Dopotutto, ho cambiato mentore per
ben due volte in un anno. Suppongo che questo renda nullo il mio
contratto di apprendistato.»
«Non dire sciocchezze. Hai fatto tanta strada. Per rispetto verso
Maestro Goddard, stasera affronterai la tua ultima prova. Non posso
parlare per il comitato di concessione degli anelli, ma non ho dubbi
che, considerando quello che hai passato, avrà un occhio di riguardo
per te.»
«E Citra?»
«Se avrai l’anello, confido che spigolerai la signorina Terranova e
che metterai fine a questo doloroso capitolo della nostra storia.»
Un domestico arrivò portando champagne e tartine. Senocrate si
guardò intorno. La residenza, che era stata così piena di servitori nei
giorni passati, ora ne aveva uno solo. Gli altri dovevano essere fuggiti
quando avevano saputo che Maestro Goddard e i suoi accoliti erano
periti nell’incendio. Apparentemente, Senocrate non era l’unico a
sentirsi affrancato dalla fine prematura di Goddard.
«Perché sei ancora qui dal momento che gli altri se ne sono andati
tutti?» chiese al domestico. «Di certo non può essere per fedeltà a
Goddard.»
Fu Rowan che rispose. «In realtà, questa residenza è di sua
proprietà.»
«Sì» confermò il domestico. «Ma la venderò. La mia famiglia e io
non possiamo nemmeno pensare di viverci.» Mise il calice di
champagne in mano a Senocrate. «Ma sono sempre felice di servire
una Suprema Roncola.»
L’uomo sembrava essersi trasformato da domestico in lacchè. Non
era un cambiamento molto significativo. Quando li lasciò soli,
Senocrate affrontò il vero motivo per cui era venuto: scuotere l’albero
e vedere se cadeva qualcosa. Si chinò, avvicinandosi a Rowan.
«Corre voce che una falce, o qualcuno che assomigliava a una
falce, sia uscita a parlare con i pompieri.»
Rowan non batté ciglio. «L’ho sentito anch’io… ci sono persino dei
video che sono stati caricati dalla gente. Ma a causa di tutto quel
fumo non si vede un granché.»
«Sì, suppongo che serva solo ad aumentare la confusione
generale.»
«C’è dell’altro, eccellenza? Perché sono molto stanco, e se stasera
dovrò affrontare la prova finale, sarà meglio che mi riposi.»
«Lo sai che non tutta la Compagnia è convinta che si sia trattato di
un incidente, vero? Abbiamo dovuto aprire un’indagine, per
verificarlo.»
«È plausibile» rispose Rowan.
«Finora, siamo riusciti a identificare le spoglie di Maestro Volta e di
Maestro Chomsky grazie agli anelli e alle gemme delle loro vesti,
sparpagliate intorno ai loro resti. Rubini per Chomsky, citrini per Volta.
Quanto a Madame Rand, siamo quasi sicuri che si trovi in mezzo ai
detriti sotto il gigantesco diapason che era sul campanile e che ha
sfondato il tetto della cappella.»
«È plausibile» ripeté Rowan.
«Ma non riusciamo a trovare il corpo di Maestro Goddard. È vero
che sono stati spigolati tanti tonisti nella cappella prima che
scoppiasse l’incendio, ed è molto difficile identificare ogni cadavere
con sicurezza. Ci si aspetterebbe di ritrovare, come per gli altri, un
mucchietto di diamanti della veste intorno ai suoi resti, oltre alla pietra
dell’anello, anche se il castone potrebbe essersi fuso.»
«È plausibile» ripeté per la terza volta Rowan.
«Quello che non è plausibile, sai, è che lo scheletro che pensiamo
sia di Maestro Goddard non presenta nulla di tutto questo. E… inoltre
non ha il cranio.»
«È strano» replicò Rowan. «Be’, sono sicuro che sia da qualche
parte.»
«È quello che si tenderebbe a pensare.»
«Forse si dovrebbe cercare con maggior impegno.»
In quel momento, Senocrate notò la bambina che stava sulla
soglia, incerta se entrare o andarsene. Non sapeva quanto avesse
sentito della loro conversazione, o se fosse importante.
«Esme, entra» la invitò Rowan. «Ricordi sua eccellenza, la
Suprema Roncola Senocrate, vero?»
«Sì» rispose la bambina. «È saltato nella piscina. È stato
divertente.»
Senocrate era a disagio. Non era una cosa che gradiva rievocare.
«Ho disposto che Esme torni da sua madre» disse Rowan. «Ma
forse vorrà riportarcela lei stesso.»
«Io?» chiese Senocrate, ostentando indifferenza. «Perché dovrei
volerlo?»
«Perché lei si prende cura delle persone» disse Rowan, facendogli
l’occhiolino. «E di alcune, più di altre.»
Mentre guardava la figlia che non avrebbe mai potuto riconoscere
né in pubblico né in privato, la Suprema Roncola si sciolse un
pochino. L’effetto era stato intenzionale? Quel Rowan Damisch era
un tipo astuto, un tratto ammirevole se ben indirizzato. Forse, quel
ragazzo meritava più attenzione di quella che gli aveva riservato in
passato.
Esme rimase a vedere che cosa sarebbe successo, e infine
Senocrate le rivolse un caloroso sorriso. «Mi farebbe piacere portarti
a casa, Esme.»
La Suprema Roncola si alzò per andarsene… ma non poteva farlo,
c’era ancora una questione che gli era rimasta da affrontare. Ancora
una decisione che spettava a lui prendere. Si voltò verso Rowan.
«Forse, dovrei usare la mia influenza per porre fine alle indagini.
Per una forma di rispetto verso i nostri compagni caduti. Affinché la
loro memoria non venga macchiata da maldestre indagini forensi che
potrebbero gettare fango sul loro operato.»
«Che i morti riposino in pace» assentì Rowan.
E così, fu raggiunto un tacito accordo. La Suprema Roncola
avrebbe smesso di scuotere l’albero e Rowan avrebbe continuato a
mantenerne il segreto.
«Se per caso dovessi aver bisogno di un alloggio quando lascerai
questa dimora, sappi che la mia porta è sempre aperta per te.»
«Grazie, eccellenza.»
«No, grazie a te, Rowan.»
Poi la Suprema Roncola prese per mano Esme e la riportò a casa.
Il potere di vita e di morte non deve essere attribuito con leggerezza, ma con riserbo e
prudenza. Il conferimento del titolo di falce non deve essere una cosa facile. Noi, che
abbiamo fondato la Compagnia, abbiamo affrontato le nostre battaglie. Noi dobbiamo
assicurarci che tutti coloro che si uniranno alla nostra missione superino una prova
non solo istruttiva, ma anche trasformatrice. Diventare falce è la vocazione più elevata
che ci sia; per riuscirci, l’uomo deve metterci tutta l’anima, in modo che la falce che
diventerà non dimentichi mai il prezzo dell’anello che porta al dito.
Certo, per quelli che sono estranei a tutto questo, il nostro rito di passaggio
potrebbe sembrare incredibilmente crudele. Ragione per cui deve restare per sempre
un sacramento segreto.

Dal diario delle spigolature del Venerando Maestro Prometeo, la prima Suprema
Roncola Mondiale
38
La prova finale

Il due gennaio dell’anno del Capibara, alla vigilia del Conclave


d’inverno, Madame Curie e Citra si misero in viaggio verso il
Campidoglio della MidMerica.
«La tua prova finale avrà luogo stasera, ma conoscerai i risultati
solo domani, al conclave.» Citra ne era già al corrente. «È lo stesso
esame, anno dopo anno, per tutti gli apprendisti. E ogni apprendista
deve affrontare il test da solo.»
Questo, invece, non lo sapeva. Era logico che l’ultimo esame fosse
lo stesso per tutti i candidati ma, in un certo modo, il fatto di dover
affrontare la prova da sola la turbava. Perché ora non sarebbe più
stata in concorrenza con Rowan e gli altri. Sarebbe stata in
concorrenza soltanto con se stessa.
«Potrebbe dirmi in che consiste.»
«No, non posso» rispose Madame Curie.
«No. Non vuole.»
Madame Curie ci rifletté qualche istante. «Hai ragione. Non
voglio.»
«Se posso parlarle in tutta franchezza, eccellenza…»
«Non mi pare che te ne sia mai astenuta, Citra.»
Citra si schiarì la voce e cercò di essere il più convincente
possibile. «Lei è troppo corretta, e questo mi pone in svantaggio. Non
vorrebbe che il suo senso dell’onore mi danneggiasse, vero?»
«Nel nostro lavoro, dobbiamo tenerci stretto ogni briciolo di onore
che abbiamo.»
«Sono sicura che le altre falci dicono ai loro apprendisti in che
consiste il test finale.»
«Forse sì, o forse no. Esistono alcune tradizioni che nemmeno i più
spregiudicati tra noi oserebbero spezzare.»
Citra incrociò le braccia e si zittì. Sapeva di essere infantile a
tenere il broncio, ma non le importava.
«Ti fidi di Maestro Faraday, non è vero?» chiese Madame Curie.
«Sì.»
«Pensi di poterti fidare di me almeno quanto ti fidi di lui?»
«Sì.»
«Allora, dimentica la tua domanda. Mi fido della tua capacità di
superare brillantemente il test finale, anche senza sapere di cosa si
tratta.»
«Sì, eccellenza.»

Arrivarono alle otto di sera e le informarono che, in base al sorteggio,


Citra sarebbe stata l’ultima. Rowan e gli altri due candidati
l’avrebbero preceduta. Lei e Madame Curie furono accompagnate in
una sala in cui avrebbero dovuto aspettare, e aspettare, e aspettare
ancora.
«È stato uno sparo?» chiese Citra, forse dopo un’ora. Non sapeva
se era stata la sua immaginazione.
«Shhh» fu l’unica risposta di Madame Curie.
Alla fine, arrivò una guardia a prenderla. La sua mentore non le
augurò buona fortuna, le fece solo un cenno secco con la testa.
«Sarò qui ad aspettarti quando avrai finito» le disse.
Citra fu condotta in una sala che si sviluppava in lunghezza e in cui
regnava un freddo sgradevole. A un’estremità c’era una giuria di
cinque falci sedute in comode poltrone. Ne riconobbe due: Maestro
Mandela e Madame Meir. Le altre tre le erano sconosciute. “Il
comitato di concessione degli anelli” concluse.
Davanti a lei, era stata disposta una tavola coperta da una tovaglia
bianca, su cui erano allineate delle armi: una pistola, un fucile da
caccia, una scimitarra, un coltello Bowie e una fiala con una pillola di
veleno.
«A che servono?» chiese Citra. Poi si accorse di quanto fosse
stupida la sua domanda. Sapeva a cosa servivano. La riformulò:
«Che cosa volete che faccia, di preciso?».
«Guarda» le disse Maestro Mandela, indicando in fondo alla sala.
Un faro si accese e illuminò un angolo buio: su una sedia metallica
era seduta una figura, legata mani e piedi. Un cappuccio di iuta le
nascondeva il capo.
«Vogliamo vedere come te la caveresti a spigolare» spiegò
Madame Meir. «A questo scopo, ti abbiamo riservato un soggetto
unico.»
«In che senso “unico”?»
«Guarda tu stessa» replicò Maestro Mandela.
Citra si avvicinò alla figura. Sotto la tela di iuta, sentiva un
sommesso tirare su con il naso. Spinse all’indietro il cappuccio.
Il sangue le si gelò di colpo. Nulla avrebbe mai potuto prepararla a
quella vista. Adesso capiva perché Madame Curie non le aveva detto
nulla.
Legato a quella sedia, imbavagliato, terrorizzato e in lacrime, c’era
il suo fratellino, Ben.
Cercò di parlare, ma il bavaglio glielo impediva. Citra indietreggiò,
poi corse verso i cinque giudici.
«No! Non potete obbligarmi a farlo! Non ne avete il diritto!»
«Non possiamo obbligarti a fare nulla» replicò una delle falci che
non conosceva, una donna dai tratti panasiatici che indossava una
veste viola. «Se lo farai, sarà per scelta.» Si alzò, le si avvicinò e le
porse un cofanetto. «La tua arma sarà estratta a sorte. Scegli un
biglietto.»
Citra infilò la mano e tirò fuori un foglietto ripiegato. Non ebbe il
coraggio di aprirlo. Si voltò a guardare il fratello, seduto indifeso sulla
sedia.
«Come potete essere così crudeli?» gridò Citra.
«Mia cara» rispose Madame Meir, con allenata pazienza. «Non si
tratta di una spigolatura, perché non sei ancora una falce. Ti si chiede
semplicemente di togliergli la vita. Un drone-ambulanza lo porterà al
centro di rianimazione dopo che avrai eseguito il compito che ti
abbiamo assegnato.»
«Ma lo ricorderà!»
«Sì» rispose Maestro Mandela. «E anche tu.»
Uno dei giudici che non conosceva incrociò le braccia e sbuffò,
come aveva fatto lei in macchina con Madame Curie. «È troppo
riluttante» disse. «Mandiamola via. Questa serata è già durata
troppo.»
«Diamole un po’ di tempo» protestò Maestro Mandela.
La quinta falce, un uomo bassetto con una strana espressione
accigliata, si mise a leggere una vecchia pergamena. «Non agirai
sotto costrizione. Ti prenderai tutto il tempo necessario. Userai l’arma
che ti verrà assegnata. Una volta eseguito il compito, ti allontanerai
dal soggetto e ti avvicinerai al comitato, affinché valuti la qualità del
tuo lavoro. È tutto chiaro?»
Citra annuì.
«Una risposta verbale, per favore.»
«Sì. È chiaro.»
Citra aprì il foglietto. Una sola parola.
Coltello.
Lasciò cadere il foglietto a terra. “Non posso farlo” si disse. “Non
posso.” Nella sua testa, le rispose con dolcezza la voce di Madame
Curie. “Sì, Citra, puoi.”
In quell’istante, prese coscienza che tutte le falci, da quando era
stata fondata la Compagnia, avevano dovuto affrontare quella prova.
Avevano dovuto togliere la vita a un loro caro. Certo, la persona
sarebbe stata rianimata, ma non cambiava il significato dell’atto
commesso a sangue freddo. Il subconscio non fa distinzione tra
morte permanente e temporanea. Come avrebbe potuto guardare di
nuovo Ben negli occhi, anche dopo che fosse stato rianimato? L’atto
era irreversibile. Se avesse ucciso Ben, non ci sarebbe stato più
modo di cancellarglielo dalla mente.
«Perché?» chiese. «Perché devo farlo?»
La falce irascibile indicò l’uscita con un gesto della mano. «Quella
è la porta. Se non te la senti, allora puoi andartene.»
«La sua domanda mi pare legittima» intervenne Madame Meir.
Il giudice irascibile sbuffò di nuovo, il bassetto alzò le spalle. La
panasiatica batté il piede e Maestro Mandela si chinò in avanti.
«Per diventare falce, devi superare questa prova, sapendo nel tuo
cuore che la cosa più difficile che dovrai mai fare… è già stata fatta.»
«Se ci riesci» aggiunse Madame Meir, «allora vorrà dire che hai la
forza interiore necessaria per essere una falce.»
Citra avrebbe voluto precipitarsi alla porta e fuggire lontano.
Invece, raddrizzò le spalle, alzò la testa e tese la mano per afferrare il
coltello Bowie. Lo nascose nella cintura e avanzò verso il fratello.
Quando gli fu abbastanza vicino, lo estrasse.
«Non avere paura» disse. Poi si inginocchiò e usò il coltello per
tagliare le corde che gli legavano le caviglie e i polsi alla sedia. Provò
a togliergli il bavaglio ma, non riuscendoci, tagliò anche quello.
«Posso andare a casa ora?» chiese Ben con una voce smarrita
che le fece male al cuore.
«Non ancora» gli rispose, restando sempre inginocchiata accanto a
lui. «Ma ci tornerai presto.»
«Mi farai del male, Citra?»
Citra non riuscì a trattenere le lacrime, e non ci provò nemmeno. A
che serviva? «Sì, Ben. Mi dispiace.»
«Mi spigolerai?» articolò a fatica.
«No. Ti porteranno in un centro di rianimazione. Quando ti
sveglierai, sarai come nuovo.»
«Promesso?»
«Promesso.»
Parve un po’ rassicurato. Citra non gli spiegò perché dovesse farlo,
e lui non glielo chiese. Si fidava di lei. Si fidava, qualunque fosse la
ragione doveva essere una buona ragione.
«Farà male?» domandò.
Ancora una volta, fu incapace di mentirgli. «Sì. Ma non per molto.»
Ben rifletté un istante. Il tempo di elaborare l’informazione, di
accettarla. «Posso vederlo?»
Non capì subito di cosa stesse parlando, finché Ben indicò il
coltello e lei glielo mise con prudenza tra le mani.
«È pesante» commentò Ben.
«Lo sapevi che le falci texane spigolano solo con i coltelli Bowie?»
«È laggiù che andrai quando sarai una falce? In Texas?»
«No, Ben. Resterò qui.»
Si rigirò il coltello tra le mani. Entrambi rimasero a guardarlo,
mentre la luce della lampada si rifletteva sulla lama. Quindi lo restituì
a Citra.
«Ho tanta paura, Citra» sussurrò.
«Lo so. Anch’io. È normale aver paura.»
«Mi daranno il gelato? Ho sentito dire che danno il gelato nei centri
di rianimazione.»
Citra annuì, e si asciugò una lacrima dalla guancia. «Chiudi gli
occhi, Ben. Pensa al gelato che hai voglia di mangiare. Poi
dimmelo.»
Ben obbedì. «Voglio un sundae con lo sciroppo al caramello. Tre
palline, con scaglie di cioccolato…»
Senza lasciargli il tempo di finire, lo tirò a sé e affondò il coltello,
come aveva visto fare a Madame Curie. Citra soffocò un gemito di
pura sofferenza.
Ben aprì gli occhi. La guardò. Un secondo dopo, era tutto finito.
Ben non c’era più. Citra lanciò lontano il coltello e prese tra le braccia
il fratello. Lo adagiò piano sul pavimento. Da una porta alle sue spalle
che non aveva nemmeno notato, uscirono di corsa due dottori
rianimatori, misero il piccolo su una barella e se ne andarono in fretta.
Le luci si riaccesero all’altra estremità della sala, al di sopra della
giuria. I giudici le parvero ancora più lontani di prima. La distanza da
percorrere per raggiungerli le sembrò incolmabile. Nel frattempo,
partì una raffica ininterrotta di commenti.
«Approssimativo.»
«Affatto! Non c’è sangue quasi per nulla.»
«Gli ha messo il coltello in mano. Vi rendete conto del rischio
enorme che ha corso?»
«E tutte quelle chiacchiere inutili.»
«Lo stava preparando… si assicurava che fosse pronto.»
«Ma era davvero così importante?»
«Ha dato prova di coraggio, ma, soprattutto, ha mostrato
compassione. Non è questo che ci viene chiesto?»
«Ci viene chiesto di essere efficienti.»
«L’efficienza deve essere al servizio della compassione!»
«È una questione di opinioni!»
Poi tacquero, in apparenza concordi sul fatto di non essere
d’accordo. Citra aveva l’impressione che Maestro Mandela e
Madame Meir fossero dalla sua parte, ma che non lo fosse il giudice
irascibile; quanto agli altri due, non capiva da che parte stessero.
«Grazie, signorina Terranova» disse Madame Meir. «Può andare
adesso. I risultati verranno annunciati domani al conclave.»
Madame Curie la stava aspettando nell’atrio. Citra non riuscì a
trattenere la sua furia. «Avrebbe dovuto dirmelo!»
«Avrebbe solo peggiorato le cose… e se avessero intuito che lo
sapevi prima di entrare in quella sala, saresti stata squalificata.»
Guardò le mani di Citra. «Vieni, hai bisogno di lavarti. C’è un bagno
da questa parte.»
«Come sono andati gli altri candidati?» chiese Citra.
«Da quello che ho sentito, una giovane si è rifiutata
categoricamente e ha lasciato la sala. Un ragazzo è scoppiato a
piangere nel bel mezzo della prova e non è riuscito a finire.»
«E Rowan?»
«Gli è toccata la pistola al sorteggio» le disse, senza guardarla.
«E…?»
Madame Curie continuava a esitare.
«Me lo dica!»
«Ha premuto il grilletto prima ancora che finissero di leggergli le
istruzioni.»
Citra fece una smorfia. Madame Curie aveva ragione… non era più
lo stesso Rowan che aveva conosciuto. Che cosa gli avevano fatto
per renderlo così insensibile? Non osava immaginarlo.
Io sono la lama guidata dalla tua mano,

che fende un arcobaleno splendente,

io sono batacchio, ma tu sei campana,

che vibra nell’oscurità crescente.

Se tu sei cantante, allora io sono canto,

trenodia, requiem, funebre pianto.

Mi hai fatto risposta al bisogno dell’umanità,

all’anelito del mondo all’immortalità.

Trenodia, dall’opera omnia del Venerando Maestro Socrate


39
Il Conclave d’inverno

All’ultimo rintocco di mezzanotte, ebbe termine l’immunità di Citra


Terranova e Rowan Damisch. Da quel momento in poi, sarebbe stato
possibile spigolare entrambi e, se l’editto fosse stato applicato, cosa
che la Compagnia delle falci avrebbe fatto in modo che accadesse,
uno dei due avrebbe spigolato l’altro.
Le falci di tutto il mondo si riunivano per discutere di questioni di
vita, ma soprattutto di questioni di morte. Il primo conclave dell’anno
per la MidMerica avrebbe avuto una valenza storica. Non era mai
successo in passato che una falce perdesse la vita in modo
permanente nel corso di una spigolatura. Le polemiche intorno
all’accaduto ne avevano aumentato l’interesse, per non parlare della
scomparsa, durata tre mesi, di un’apprendista, a seguito di un’accusa
fasulla avanzata dalla Suprema Roncola midmericana. Persino il
Consiglio mondiale delle falci teneva gli occhi puntati su Fulcrum City
e, sebbene gli apprendisti non fossero molto noti al di fuori del
comitato regionale di concessione degli anelli, le falci di tutto il
pianeta ora conoscevano i nomi di Citra Terranova e Rowan
Damisch.
Quel mattino, a Fulcrum City c’era un freddo feroce. I gradini di
marmo che portavano al Campidoglio erano ricoperti da un infido
strato di ghiaccio. Più di una falce era scivolata, slogandosi una
caviglia o rompendosi un braccio. I naniti curativi lavoravano a pieno
ritmo, per la gioia degli spettatori, galvanizzati da ogni rallentamento
dell’ascesa, che permetteva di scattare molte più foto.

Rowan arrivò in publicar da solo, senza patrocinatore né


accompagnatore. Indossava una veste che aveva l’unico colore che
le falci evitavano, il nero, su cui risaltava la fascia verde di
apprendista che portava al braccio e che gli dava un’aria di solenne
sfida. Al Conclave della mietitura, Rowan era stato un dettaglio di
poca importanza. Ma ora gli spettatori facevano a gara per scattargli
una foto. Rowan li ignorò, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé,
mentre saliva la scala con passo fermo e sicuro.
Accanto a lui, una falce scivolò sul ghiaccio e cadde. Maestro
Emerson, che Rowan conosceva di vista, anche se non si erano mai
presentati. Rowan tese una mano per aiutarlo ad alzarsi, ma
Emerson lo fulminò con lo sguardo. «Non voglio il suo aiuto»
gracchiò, pieno di fiele. Mai, nei suoi diciassette anni di vita, aveva
sentito tanta acrimonia nei suoi confronti.
In cima alla scala, una falce che non aveva mai visto prima lo
salutò e gli disse con tono incoraggiante: «Lei ha dovuto sopportare
più di quanto non si meriti un apprendista, signor Damisch. Spero
davvero che venga ordinato falce, e che potremo prenderci insieme
un tè, quando avverrà».
L’offerta gli parve sincera e disinteressata. Al suo ingresso nella
sala circolare, ricevette la stessa accoglienza contrastante. Occhiate
cariche di livore da alcuni e sorrisi rassicuranti da altri. Altri ancora
parevano indecisi riguardo a come comportarsi con lui. Se lo
considerassero vittima delle circostanze o un criminale degno dell’Era
della Mortalità. Non sapeva nemmeno lui in quale categoria
rientrasse.

Citra era arrivata prima di Rowan. Attendeva nella sala circolare, in


compagnia di Madame Curie. Con lo stomaco chiuso per l’emozione,
non toccò nulla della sontuosa colazione offerta per l’occasione.
Naturalmente, le conversazioni giravano tutte intorno alla tragedia del
monastero tonista. Ascoltando qua e là alcuni frammenti di
discussioni, Citra si irritò nel constatare che si parlava solo delle
quattro falci morte. Nessuno aveva parole di compianto per i
numerosi tonisti che erano stati spigolati. Alcuni ebbero anche il
cattivo gusto di riderci sopra.
«Dopo questa tragedia, il conclave assume una certa… risonanza,
no?» sentì dire qualcuno. «Senza voler fare un gioco di parole
malevolo, si intende.» Ma lo era.
Madame Curie era ancora più nervosa che al Conclave della
mietitura. «Maestro Mandela mi ha detto che la tua prova di ieri sera
è andata bene» disse a Citra. «Tuttavia, ho percepito una certa
ritrosia da parte sua.»
«È un buon segno o no?»
«Non lo so. Tutto ciò che so, Citra, è che se tu oggi perdi, non
saprò mai perdonarmelo.»
Era assurdo pensare che la leggendaria Madame Marie Curie, la
Signora della Morte, si preoccupasse tanto per lei, al punto di
sospettare di aver sbagliato qualcosa nel suo ruolo di mentore. «Ho
avuto il privilegio di essere stata allieva di due delle più grandi falci
della storia. Lei e Maestro Faraday. Se questo non è bastato a
prepararmi per oggi, nient’altro avrebbe potuto farlo.»
Il viso di Madame Curie si illuminò di orgoglio dolceamaro.
«Quando tutto questo sarà finito e tu sarai ordinata, spero che mi
concederai l’onore di restare al mio fianco come mia giovane falce.
Riceverai altre proposte, da ogni parte del mondo, immagino.
Cercheranno di convincerti che ci sono cose che altri potranno
insegnarti e che io non sono stata capace di trasmetterti. Forse è
vero, ma oso sperare che deciderai di restare con me, nonostante
tutto.» Aveva gli occhi gonfi di lacrime. Se avesse battuto le ciglia, le
sarebbero scivolate sul viso. Le ricacciò indietro, troppo fiera per
piangere in pubblico.
Citra sorrise. «È tutto quello che desidero, Marie.» Era la prima
volta che la chiamava per nome. Si sorprese di quanto le fosse
naturale pronunciarlo.
Mentre aspettavano che il conclave si riunisse, altre falci andarono
a salutarle. Nessuno accennò all’arresto di Citra o alla sua fuga in
Cilargentina, ma qualcuno scherzò con Marie a proposito
dell’imbarazzante pagina di diario scritta da Faraday.
«Nell’Era della Mortalità, amore e crimine andavano spesso a
braccetto» commentò malizioso Maestro Twain. «Forse, il nostro caro
Maestro Faraday aveva capito fin troppo bene le tue intenzioni.»
«Oh, ma vatti a spigolare» esclamò Marie, trattenendo a malapena
un sorriso.
«Solo se mi sarà possibile partecipare al mio funerale, mia cara.»
Poi augurò buona fortuna a Citra e si allontanò.
Fu in quel momento che Citra vide Rowan entrare. La sala non si
fece silenziosa, ma il volume delle conversazioni si attenuò
brevemente per poi rialzarsi. La sua presenza si sentiva. Non come
falce, ma come qualcosa di diverso. Forse, come un paria. Ma mai un
paria aveva avuto quell’effetto glaciale sugli angeli della morte. Alcuni
dicevano che Rowan aveva ucciso le falci a sangue freddo e che
aveva provocato l’incendio per distruggere le prove. Altri dicevano
che era stato fortunato a uscirne indenne. Citra immaginò che la
verità fosse molto più articolata dell’una o dell’altra versione.
«Non rivolgergli la parola» le disse Madame Curie, seguendo il suo
sguardo. «Non far vedere che lo osservi. Servirà solo a complicare le
cose, a entrambi.»
«Lo so» ammise Citra, anche se dentro di sé sperava che Rowan
si dimostrasse tanto audace da farsi strada tra la folla e avvicinarsi a
lei. E forse anche di dirle qualcosa, qualsiasi cosa che la convincesse
che non era quel criminale di cui parlava la gente.
Se quel giorno avessero scelto lei, Citra non si sarebbe opposta
alla spigolatura di Rowan. Aveva un piano che avrebbe potuto
salvare entrambi. Non era affatto infallibile, anzi, in tutta onestà
doveva ammettere che era più un tentativo disperato che un piano.
Ma anche una debole speranza era meglio che non averne nessuna.
Forse si stava illudendo, però quello, almeno, era un modo per
sopravvivere a quella giornata terribile.

Rowan aveva immaginato come sarebbe andato quel giorno molte


volte, dall’inizio alla fine. Aveva deciso che non si sarebbe avvicinato
a Citra quando l’avrebbe vista. Non aveva bisogno di un consigliere
che gli dicesse che era meglio così. Dovevano stare lontani e
separati fino a quell’infelice momento della verità che li avrebbe
separati per sempre.
Se avesse vinto lei, Rowan era sicuro che l’avrebbe spigolato. Era
obbligata a farlo. La prospettiva l’avrebbe dilaniata, ma alla fine lo
avrebbe fatto. Si chiese in che modo. Forse, gli avrebbe spezzato il
collo, chiudendo il cerchio e mettendo fine al loro sfortunato doppio
apprendistato con una bella coccarda rossa.
In verità, Rowan aveva paura di morire, ma più della morte temeva
gli abissi che ora sapeva di riuscire a raggiungere. La facilità con cui
aveva spigolato sua madre nella prova della sera precedente la
diceva lunga sulla persona che era diventato. Avrebbe preferito
essere spigolato che essere quella persona.
Certo, invece di Citra avrebbero potuto scegliere lui. A quel punto,
la cosa sarebbe diventata interessante. Decise che non si sarebbe
autospigolato, sarebbe stato un gesto inutile e patetico. Se fosse
stato ordinato falce, si sarebbe opposto all’editto, invocando il decimo
comandamento, che stabiliva chiaramente che non era tenuto a
osservare altra legge a parte i dieci precetti, oltre a eventuali editti
promulgati dalla Compagnia delle falci. Si sarebbe rifiutato di
spigolare Citra e ne avrebbe difeso la vita eliminando tutte le falci che
avessero cercato di farlo al posto suo, con armi da fuoco, armi
bianche, a mani nude. Avrebbe trasformato il conclave in un
sanguinoso campo di battaglia. Sarebbero dovuti passare sul suo
corpo, cosa per nulla facile, considerando quanto era diventato abile
nell’arte di uccidere, e quanto era motivato a infliggere il massimo
danno possibile. E l’ironia di tutta la storia era che non avrebbero
potuto nemmeno spigolarlo per quello! Una volta ordinato, il settimo
comandamento lo avrebbe protetto.
Avrebbero potuto punirlo, comunque.
Fargli subire un migliaio di decessi e confinarlo per l’eternità; sì,
l’eternità, perché non avrebbe mai dato loro la soddisfazione di
autospigolarsi. Piuttosto, si sarebbe fatto spigolare da Citra. Lei gli
avrebbe accordato una morte semplice e rapida, perlomeno.
La colazione allestita nella sala circolare era elaborata. Tranci di
salmone affumicato, pane croccante fatto a mano e un assortimento
di cialde preparate al momento con una grande varietà di
accompagnamenti. Solo il meglio per le falci midmericane.
Rowan mangiò con insolito appetito, quel mattino. Mentre
masticava, osservava Citra di nascosto. Gli parve radiosa come
sempre. Era ridicolo da parte sua fare ancora il romantico quando
ormai gli restavano poche ore di vita. Quello che avrebbe potuto
essere amore, adesso era un sentimento di rassegnazione, quello di
un cuore spezzato. Per sua fortuna, il suo cuore si era così indurito
che non ne soffriva più.

Il conclave ebbe inizio. Citra si disinteressò di quasi tutti i rituali della


mattinata, preferendo rinchiudersi nei suoi ricordi. Pensava agli
avvenimenti che avevano segnato la sua esistenza, perché, in un
modo o nell’altro, quel giorno avrebbe dovuto rinunciare alla sua vita
di prima. Ripensò ai genitori, al fratello che era ancora in un centro di
rianimazione.
Se fosse stata ordinata falce, avrebbe dovuto dire addio alla casa
in cui era cresciuta. La sua unica consolazione era che, per tutta la
sua vita, Ben e i genitori avrebbero beneficiato dell’immunità.
Dopo il bilancio dei nomi e il rituale di purificazione, l’intera
mattinata fu dedicata agli accesi dibattiti sulla questione del fuoco, se
lo si dovesse proibire o meno come metodo di spigolatura.
Di solito, Senocrate si limitava a calmare gli animi e a rinviare le
discussioni a nuova data. Il fatto che sostenesse la necessità di
proibirlo fu preso molto seriamente dai partecipanti. Nonostante
questo, alcuni espressero la loro contrarietà.
«Non permetterò che ci venga tolta la libertà di scegliere le nostre
armi!» gridò una falce furibonda. «Ognuno di noi ha il diritto di usare
lanciafiamme, esplosivi e qualsiasi altro dispositivo incendiario!»
La sua protesta fu accolta sia da fischi sia da applausi.
«Bisogna proibirne l’uso se vogliamo evitare altri tragici incidenti in
futuro» insistette Senocrate.
«Non si è trattato di un incidente!» urlò qualcuno, e quasi la metà
della sala rispose sostenendo quell’ipotesi con aspri brontolii. Citra
guardò Rowan, che sedeva da solo tra due posti vuoti, che avrebbero
dovuto occupare le falci defunte. Non si preoccupò minimamente di
difendersi né di negare le accuse.
Madame Curie si chinò verso Citra. «Per quanto sia stato odioso
l’incendio, molte falci si rallegrano della scomparsa di Goddard e dei
suoi discepoli. Anche se non lo ammetteranno mai, sono felici che sia
scoppiato l’incendio, che si sia trattato di un incidente o no.»
«E ce ne sono molte altre che ammiravano Goddard» fece notare
Citra.
«È vero. La Compagnia delle falci è divisa su tale questione.»
Tuttavia, alla fine prevalse il buon senso e il fuoco come metodo di
spigolatura fu proibito in MidMerica.
Durante la pausa pranzo Citra, che continuava a non avere
appetito, osservava a distanza Rowan che si rimpinzava come aveva
fatto a colazione, come se non avesse alcun interesse per il mondo.
«Sa che è il suo ultimo pasto» suggerì una falce che Citra non
conosceva. La donna cercava chiaramente di dimostrarle il suo
sostegno, ma il commento la irritò.
«Non capisco perché non si fa gli affari suoi.»
La falce si allontanò, confusa dall’ostilità di Citra.

Alle sei del pomeriggio, le discussioni furono chiuse e si passò alla


fase finale della giornata.
«I candidati sono invitati ad alzarsi» dichiarò il commesso del
conclave.
Citra e Rowan si alzarono e un mormorio generale percorse la
sala. «Pensavo che ce ne fossero quattro» disse la Suprema
Roncola.
«Erano quattro, eccellenza» confermò il commesso. «Ma gli altri
due non hanno superato la prova finale e sono stati congedati.»
«Molto bene, allora» commentò Senocrate. «Procediamo pure.»
Il commesso si alzò e annunciò formalmente: «La Compagnia
midmericana delle falci chiama Rowan Daniel Damisch e Citra
Querida Terranova. Fatevi avanti».
Poi, senza staccare gli occhi da Maestro Mandela, che li aspettava
di fronte al palco con un solo anello, Citra e Rowan si presentarono
all’assemblea per affrontare il loro destino, quale che fosse.
È sempre con gioia e amarezza che assisto all’investitura delle giovani falci alla fine di
ogni conclave. Gioia, perché rappresentano la nostra speranza; portano ancora nel
cuore gli ideali delle prime falci. Amarezza, perché so che un giorno saranno così
stanche e disilluse che si toglieranno la vita da sole, così come fecero alla fine le prime
falci.
Eppure, ogni volta che vengono ordinate delle nuove falci, mi rallegro, perché
questo mi autorizza a credere, anche solo per un brevissimo istante, che sceglieremo
tutti di vivere per sempre.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Curie


40
Gli ordinati

«Ciao, Citra. Sono felice di vederti.»


«Ciao, Rowan.»
«I candidati sono pregati di evitare di parlare tra loro e di rivolgersi
al conclave» ordinò Senocrate.
I mormorii cessarono nel momento in cui Citra e Rowan si misero
davanti alle falci riunite. Non si era mai sentito un tale silenzio nella
sala dell’assemblea. Rowan accennò un mezzo sorriso, non perché
si divertisse, ma per compiacimento. I due, l’uno accanto all’altra,
emanavano un innegabile carisma, in grado di mettere a tacere
trecento falci. Qualunque cosa fosse accaduta, Rowan avrebbe
ricordato per sempre quel momento.
Citra teneva un contegno severo, decisa a non mostrare le
emozioni che la agitavano.
«Il comitato di concessione degli anelli ha esaminato il vostro
apprendistato» annunciò Maestro Mandela, rivolgendosi a loro, ma
anche a tutto il conclave. «Abbiamo valutato i risultati delle tre prove
a cui siete stati sottoposti. Non avete superato le prime due, ma con
circostanze attenuanti in entrambe le volte. È chiaro che il vostro
istinto è stato di proteggervi a vicenda. Tuttavia, è la Compagnia delle
falci che deve essere protetta, in primo luogo. A ogni costo.»
«Ben detto!» gridò una falce dalle file in fondo.
«La decisione del comitato non è stata facile» proseguì Maestro
Mandela. «Sappiate che abbiamo trattato entrambi con la massima
giustizia possibile.» Poi alzò la voce. «Aspiranti falci, accettate il
verdetto del comitato midmericano di concessione degli anelli?»
chiese, come se avessero scelta.
«Sì, eccellenza» rispose Citra.
«Sì, eccellenza» rispose Rowan.
«Allora sappiate che a partire da adesso e per sempre… Citra
Terranova porterà l’anello di falce, nonché la responsabilità di tutto
ciò che questo comporta.» La sala esplose in grida di giubilo. Non
solo dei suoi sostenitori conclamati, ma di quasi tutti. Anche coloro
che avevano sostenuto Rowan approvarono la decisione del
comitato. Di quale sostegno godeva in fondo Rowan? Quelli che
ammiravano Goddard lo disprezzavano, e quelli che gli avevano
concesso il beneficio del dubbio stavano già inneggiando a Citra. In
quel momento, gli fu chiaro che la decisione di ordinare Citra era
stata presa già nel momento in cui Goddard e i suoi discepoli erano
periti nell’incendio.
«Complimenti, Citra» disse Rowan, tra le grida di acclamazione
dell’assemblea. «Sapevo che ce l’avresti fatta.»
Citra non riusciva a rispondergli, tantomeno a guardarlo negli
occhi.
Maestro Mandela si voltò verso di lei. «Hai già scelto il tuo
patronimico storico?»
«Sì, eccellenza.»
«Allora, ricevi questo anello che ti offro, mettilo al dito e fai sapere
alla Compagnia midmericana delle falci e al mondo chi sei ora.»
Citra prese l’anello, le mani le tremavano così tanto che per poco
non lo fece cadere. Se lo infilò al dito. Le andava alla perfezione. Lo
sentì pesante; l’oro del castone era freddo, ma si intiepidì subito con
il calore del suo corpo. Protese la mano in avanti, come aveva visto
fare agli altri candidati prima di lei.
«Scelgo di essere chiamata Madame Anastasia. Dal nome della
più piccola della famiglia Romanov.»
Le falci si scambiarono delle occhiate, discutendo della scelta tra
loro.
«Signorina Terranova» intervenne Senocrate, visibilmente
insoddisfatto. «Non posso dire che sia una scelta appropriata. Gli Zar
di Russia erano noti più per i loro eccessi che per il loro contributo
alla civiltà. E Anastasia Romanov non ha fatto nulla nel corso della
sua breve vita.»
«È precisamente per questo che ho scelto il suo nome,
eccellenza» rispose Citra, sostenendo il suo sguardo. «Era il prodotto
di un sistema corrotto, e per questo ha perso la vita, come io ero
quasi sul punto di perdere la mia.»
Senocrate si irritò impercettibilmente. Citra proseguì. «Se avesse
vissuto, chissà che cosa avrebbe potuto fare. Forse, avrebbe
cambiato il mondo e riscattato il nome della sua famiglia. Scelgo di
essere Madame Anastasia. Giuro di diventare il cambiamento che
avrebbe potuto verificarsi.»
La Suprema Roncola sostenne il suo sguardo e rimase in silenzio.
Quindi una falce si alzò e si mise ad applaudire. Madame Curie. Poi
un’altra si unì a lei, e un’altra, e presto tutta la sala si mise in piedi e
la applaudì.

Rowan sapeva che avevano preso la decisione giusta. E quando


sentì Citra difendere la sua scelta del patronimico storico, la ammirò
ancora di più. Se non fosse già stato in piedi, si sarebbe alzato ad
applaudirla.
Poi le acclamazioni scemarono e le falci si sedettero. Maestro
Mandela si voltò di nuovo verso di lei.
«Sai quello che devi fare.»
«Sì, eccellenza.»
«Quale metodo scegli?»
«L’arma bianca. È quella che ho usato in tutte le mie prove, e
questa non sarà diversa.»
Era già stato preparato un vassoio su cui era disposta una serie di
coltelli, nascosto alla vista di tutti. Fu portato da una giovane falce
che era stata ordinata al precedente Conclave della mietitura.
Rowan osservò a lungo Citra, ma lei evitava di guardarlo. Posò
invece gli occhi sul vassoio e infine scelse un terrificante coltello
Bowie.
«Ne ho usato uno simile per uccidere mio fratello, ieri. Ho giurato
che non ne avrei mai più toccato uno, e invece…»
«Come sta?» chiese Rowan. Alla fine, Citra incrociò il suo sguardo.
Nei suoi occhi, Rowan vide paura, ma anche decisione. “Tanto
meglio” pensò. “Più è decisa, più sarà rapido.”
«È in rianimazione» rispose Citra. «Per il suo risveglio, ha ordinato
un gelato con il caramello.»
«Fortunato lui.» Rowan alzò gli occhi sull’elegia di falci riunite
nell’anfiteatro, relegate ora al ruolo di semplici spettatori. «Vogliono lo
spettacolo» disse. «Glielo diamo?»
Citra fece un leggero cenno di assenso con la testa.
«È un onore essere spigolato da lei, Madame Anastasia» disse
Rowan, con profonda sincerità. Tirò un ultimo respiro e si preparò a
ricevere il colpo fatale. Ma Citra non era ancora pronta ad assestarlo.
Si guardava l’anello che portava all’altra mano.
«Questo è per avermi spezzato il collo.»
Gli diede un pugno in faccia così forte che per poco non lo fece
andare lungo disteso. Un grido di sorpresa si levò dal pubblico;
nessuno si era aspettato quel gesto, ma faceva tutto parte dello
spettacolo.
Rowan si toccò il viso; un fiotto di sangue gli sgorgava dallo
squarcio che l’anello gli aveva aperto sulla guancia.
Infine Citra sollevò il coltello per spigolarlo ma, nell’istante in cui
stava per piantarglielo nel cuore, un grido risuonò alle sue spalle.
«Stop!»
Era il parlamentare. Aveva alzato la mano e mostrava a tutti il suo
anello: pulsava di una luce rossa. Anche quello di Citra. Rowan
guardò la sala e vide che tutti gli anelli delle falci emanavano lo
stesso bagliore rosso.
«Non può essere spigolato» disse il parlamentare. «Ha ricevuto
l’immunità.»
Un ruggito d’indignazione esplose nell’anfiteatro. Rowan guardò
l’anello di Citra, coperto di sangue. Aveva trasmesso il suo DNA alla
banca dati delle immunità. Ancora più efficace che se l’avesse
baciato. Le sorrise, ammirato e stupefatto.
«Lo sai che sei un genio, Citra? Lo sai, vero?»
«Sei pregato di chiamarmi Veneranda Madame Anastasia. E non
capisco di cosa tu stia parlando. È stato un incidente.» Ma la scintilla
che le brillava negli occhi diceva il contrario.
«Silenzio!» gridò Senocrate, sbattendo il martello. «Richiamo
all’ordine il conclave!»
Le falci si calmarono e Senocrate puntò un dito accusatore contro
Citra. «Citr… ehm… Madame Anastasia… ha apertamente violato un
editto della Compagnia delle falci!»
«Non è vero, eccellenza. Stavo per spigolarlo. È stato il suo
parlamentare a fermarmi. Non pensavo che colpendolo avrei potuto
concedergli l’immunità.»
Senocrate spalancò gli occhi, guardandola incredulo. Si lasciò
sfuggire una risatina nervosa che cercò a malapena di soffocare.
«Astuta e geniale» commentò. «Con la giusta dose di credibilità. Si
troverà a suo agio tra noi, Madame Anastasia.» Si rivolse poi al
parlamentare per chiedere quali possibilità restavano.
«Suggerisco la reclusione per un anno, finché non scade
l’immunità.»
«Esiste ancora un luogo del genere, in cui si detiene ufficialmente
una persona?» chiese una falce.
Le altre falci cominciarono quindi a urlare i loro suggerimenti per
tutto l’anfiteatro, alcune proposero addirittura di tenere Rowan agli
arresti domiciliari a casa loro, cosa che poteva essere positiva o
negativa, a seconda della motivazione.
Mentre le voci si facevano più forti e il dibattito si infuocava, Citra si
accostò a Rowan e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio.
«C’è un vassoio di armi accanto a te e una macchina che ti aspetta
all’uscita est.» Poi si allontanò, lasciandolo artefice del proprio
destino.
Aveva creduto che lei non potesse sorprenderlo più di tanto. Gli
aveva dimostrato il contrario.
«Ti amo» le disse.
«Anch’io» rispose. «Ora, sparisci.»

Era uno spettacolo per gli occhi. Prese tre coltelli dal vassoio e riuscì
a maneggiarli insieme con un’abilità da giocoliere. Madame
Anastasia non fece nulla per fermarlo ma, anche se lo avesse fatto,
non sarebbe servito a niente. Era troppo veloce. Rowan si lanciò nel
corridoio centrale. Le falci che si trovavano più vicine al suo
passaggio cercarono di bloccarlo, ma lui sferrò calci, schivò, abbatté
colpi e volteggiò. Agli occhi di Madame Anastasia, parve come una
forza distruttrice della natura. Tra le falci che si misero sul suo
cammino, le più fortunate ebbero le vesti ridotte in brandelli. Le meno
fortunate si ritrovarono delle ferite che non avevano nemmeno avuto
il tempo di vedersi infliggere. Le sembrò anche che Maestro Emerson
avesse avuto bisogno di essere trasportato in un centro di
rianimazione.
E Rowan scomparve, lasciando dietro di sé il caos.
Mentre la Suprema Roncola cercava di ristabilire l’ordine, Madame
Anastasia si guardò la mano e fece una cosa molto strana per una
falce. Si baciò l’anello, per bagnarsi le labbra con una goccia del
sangue di Rowan. Per poter ricordare quel momento per sempre.

L’auto era in attesa, proprio come gli aveva detto Citra. Aveva
immaginato che sarebbe stata una publicar. Aveva immaginato che
sarebbe stato solo. Niente affatto.
Mentre saliva a bordo, vide un fantasma al posto di guida. Dopo
tutto ciò che aveva passato quel giorno, in quell’attimo il cuore quasi
gli si fermò.
«Buonasera, Rowan» lo salutò Maestro Faraday. «Chiudi lo
sportello, fuori fa decisamente freddo.»
«Cosa?» esclamò Rowan, cercando a fatica di comprendere. «Ma
come, non era morto?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, ma il tempo è prezioso. Ora, per
favore, chiudi lo sportello.»
Rowan obbedì e partirono a tutta velocità nella notte gelida di
Fulcrum City.
Abbiamo mai avuto un nemico peggiore di noi stessi? Nell’Era della Mortalità, ci siamo
fatti la guerra incessantemente, e anche quando non c’era nessuna guerra da
combattere, ci siamo picchiati nelle strade, nelle scuole, nelle case, finché non è
apparsa un’altra guerra che ci ha fatto rivolgere di nuovo lo sguardo all’esterno,
spostando il nemico a una distanza più rassicurante.
Ma questo tipo di conflitti appartiene ormai al passato. C’è pace in terra, e buona
volontà tra gli uomini.
Ma…
È così: c’è sempre un’eccezione. Non sono falce da molto, ma posso già vedere
che la Compagnia rischia di diventare un’eccezione. Non solo qui in MidMerica, ma in
tutto il mondo.
Le prime falci erano persone illuminate, capivano che la cosa più saggia era
continuare a coltivare la saggezza. Capivano che dovevano mantenersi pure d’animo.
Prive di cattiveria, avidità e orgoglio, ma piene di coscienza. Il marciume, però, cresce
anche sulle fondamenta più robuste.
Se la coscienza delle falci viene meno, sostituita dall’avidità del privilegio,
potremmo diventare di nuovo i nostri peggiori nemici. E a complicare le cose, ogni
giorno compaiono nuove crepe nel tessuto della Compagnia. Come, per esempio, le
voci recenti che, nei mesi successivi alla mia investitura, si sono diffuse tra la
popolazione mondiale, travalicando la Compagnia.
Secondo quelle voci, c’è qualcuno che è in cerca di falci corrotte, malevole… e che
pone fine alla loro esistenza con il fuoco. Una cosa è certa: non è una falce. Tuttavia,
la gente ha cominciato a chiamarlo Maestro Lucifero.
Mi terrorizza il fatto che possa essere vero, ma mi terrorizza ancora di più il fatto
che io possa desiderare che lo sia.
Non ho mai voluto essere una falce. Suppongo che già questo possa fare di me
una buona falce. Non lo so ancora, perché è tutto così nuovo, e ho ancora così tanto
da imparare. Per adesso, devo soprattutto essere attenta a spigolare con
compassione e coscienza, con la speranza che questo contribuisca a mantenere
perfetto il nostro mondo così perfetto.
E se mai dovessi incontrare Maestro Lucifero sulla mia strada, spero che mi
consideri una falce buona. Come ha già fatto una volta.

Dal diario delle spigolature della Veneranda Madame Anastasia


RINGRAZIAMENTI

La creazione di un romanzo non è solo il frutto dell’impegno dello


scrittore: sono molte le persone che collaborano al successo di una
storia e tutte meritano di vedersi riconosciuto il loro contributo.
Per prima cosa, un grazie va al mio editor David Gale e
all’assistente editor Liz Kossnar, come a tutti gli altri alla Simon &
Schuster, che sono stati, e continuano a essere, immensamente di
aiuto: Justin Chanda, Jon Anderson, Anne Zafian, Katy Hershberger,
Michelle Leo, Candace Greene, Krista Vossen, Chrissy Noh e Katrina
Groover, giusto per fare qualche nome. E grazie anche a Chloë
Foglia, per quella che è diventata una delle mie cover preferite di
sempre!
Grazie a Barb Sobel, la mia assistente che si occupa di tutto,
dall’ufficio stampa all’organizzazione dei miei impegni; a Matt Lurie,
che gestisce il mio sito e che cura la mia immagine sui social media.
Grazie alla mia agente letteraria, Andrea Brown; alla mia agente
dei diritti esteri, Taryn Fagerness; ai miei agenti dell’industria dello
spettacolo, Steve Fisher e Debbie Deuble-Hill di APA; al mio
manager, Trevor Engelson; ai legali che si occupano dei contratti
Shep Rosenman e Jennifer Justman, nonché ai legali che si
occupano dei marchi registrati, Dov Scherzer e Matt Smith.
Nel momento in cui scrivo, sta prendendo vita l’adattamento
cinematografico della serie Falce; colgo l’occasione per dire grazie a
tutti quelli che vi prenderanno parte, tra cui Jay Ireland di Blue Grass
Films, oltre a Sara Scott e Mika Pryce di Universal.
Per l’eternità, un grazie speciale ai miei figli, Brendan, Jarrod,
Joelle ed Erin, che mi tengono sempre vivo e giovane, con commenti
e suggerimenti che mi fanno riflettere. E, naturalmente, a mia zia
Mildred Altman, che all’età di ottantotto anni va ancora alla grande e
che ha letto ogni singolo libro che ho scritto.
Grazie a tutti. Questa serie promette di essere un viaggio molto
entusiasmante. Sono felice che ne facciate tutti parte!
Questo ebook contiene
materiale protetto da
copyright e non può
essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito,
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trasmesso in pubblico, o
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l’alterazione delle
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www.librimondadori.it
www.oscarmondadori.it

Falce
di Neal Shusterman
© 2016 by Neal
Shusterman
Titolo originale dell’opera:
Scythe
Excerpt from
Thunderhead © 2018 by
Neal Shusterman
© 2020 Mondadori Libri
S.p.A., Milano
Questo libro è un’opera di
fantasia. Personaggi e
luoghi citati sono
invenzioni dell’autore e
hanno lo scopo di
conferire veridicità alla
narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o
scomparse, è
assolutamente casuale.
Ebook ISBN
9788835701156

COPERTINA || COVER
DESIGN: BARBARA DI
LANDRO | PROGETTO
GRAFICO ORIGINALE DI
CHLOË FOGLIA |
ILLUSTRAZIONE ©
KEVIN TONG
Sommario

1.Copertina
1.L’immagine
2.Il libro
3.L’autore
2.Frontespizio
3.FALCE
4.Parte prima. LA VESTE E L’ANELLO
1.1. Nessuna nube all’orizzonte
2.2. 0,303%
3.3. La forza del destino
4.4. Permesso di uccidere da apprendista
5.5. «Ma ho solo novantasei anni…»
5.Parte seconda. NESSUN’ALTRA LEGGE ALL’INFUORI DI QUESTA
1.6. Un’elegia di falci
2.7. L’arte di uccidere
3.8. Una questione di scelta
4.9. Esme
5.10. Reazioni proibite
6.11. Imprudenze
7.12. Non c’è spazio per la mediocrità
8.13. Conclave di primavera
9.14. Una piccola clausola
10.15. Lo spazio tra loro
11.16. L’addetto alla piscina
12.17. Il settimo comandamento
6.Parte terza. LA VECCHIA GUARDIA E IL NUOVO ORDINE
1.18. La Casa sulla cascata
2.19. Una cosa orribile da fare
3.20. Ospite d’onore
4.21. Marchiato
5.22. Il bidente
6.23. Il labirinto virtuale
7.24. Una vergogna per la nostra professione
8.25. Agente di morte
9.26. Non come gli altri
10.27. Il Conclave della mietitura
11.28. Idrogeno che brucia nel nucleo del sole
12.29. Le chiamavano prigioni
7.Parte quarta. LA FUGGITIVA MIDMERICANA
1.30. Dialogo con i morti
2.31. Una scia di inarrestabile follia
3.32. Pellegrinaggio travagliato
4.33. Il messaggero e il messaggio insieme
5.34. La seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare
6.35. L’annichilimento è il nostro segno distintivo
7.36. La tredicesima vittima
8.Parte quinta. ESSERE UNA FALCE
1.37. Scuotere l’albero
2.38. La prova finale
3.39. Il Conclave d’inverno
4.40. Gli ordinati
9.RINGRAZIAMENTI
10.Copyright

1.Copertina
2.Frontespizio
3.FALCE
4.Inizio del libro
5.Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
FALCE
Parte prima. LA VESTE E L’ANELLO
1. Nessuna nube all’orizzonte
2. 0,303%
3. La forza del destino
4. Permesso di uccidere da apprendista
5. «Ma ho solo novantasei anni…»
Parte seconda. NESSUN’ALTRA LEGGE ALL’INFUORI DI QUESTA
6. Un’elegia di falci
7. L’arte di uccidere
8. Una questione di scelta
9. Esme
10. Reazioni proibite
11. Imprudenze
12. Non c’è spazio per la mediocrità
13. Conclave di primavera
14. Una piccola clausola
15. Lo spazio tra loro
16. L’addetto alla piscina
17. Il settimo comandamento
Parte terza. LA VECCHIA GUARDIA E IL NUOVO ORDINE
18. La Casa sulla cascata
19. Una cosa orribile da fare
20. Ospite d’onore
21. Marchiato
22. Il bidente
23. Il labirinto virtuale
24. Una vergogna per la nostra professione
25. Agente di morte
26. Non come gli altri
27. Il Conclave della mietitura
28. Idrogeno che brucia nel nucleo del sole
29. Le chiamavano prigioni
Parte quarta. LA FUGGITIVA MIDMERICANA
30. Dialogo con i morti
31. Una scia di inarrestabile follia
32. Pellegrinaggio travagliato
33. Il messaggero e il messaggio insieme
34. La seconda cosa più dolorosa che hai mai dovuto fare
35. L’annichilimento è il nostro segno distintivo
36. La tredicesima vittima
Parte quinta. ESSERE UNA FALCE
37. Scuotere l’albero
38. La prova finale
39. Il Conclave d’inverno
40. Gli ordinati
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