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Il libro

In un mondo che ha sconfitto fame, guerre


e malattie, le falci decidono chi deve morire.
Tutto il resto è gestito dal Thunderhead, una
potentissima intelligenza artificiale che
controlla ogni aspetto della vita e della
società. Tranne, appunto, la Compagnia
delle falci.
Dopo il loro comune apprendistato, Citra
Terranova e Rowan Damisch si sono fatti
idee opposte sulla Compagnia e hanno
intrapreso strade divergenti.
Da ormai un anno Rowan si è ribellato ed
è fuggito, diventando una vera leggenda:
Maestro Lucifero, un vigilante che mette fine
alle esistenze delle falci corrotte, indegne di
occupare la loro posizione di privilegio. Di lui
si sussurra in tutto il continente.
Ormai divenuta Madame Anastasia, Citra
è una falce anomala, le sue spigolature sono
sempre guidate dalla compassione e il suo
operato sfida apertamente il nuovo ordine.
Ma quando i suoi metodi vengono messi in
discussione e la sua stessa vita minacciata,
appare evidente che non tutti sono pronti al
cambiamento.
Il Thunderhead osserva tutto, e non gli
piace ciò che vede. Cosa farà? Interverrà?
O starà semplicemente a guardare mentre il
suo mondo perfetto si disgrega?
L’autore

Neal Shusterman
È nato a New York nel 1962. Autore di libri
per ragazzi e young adult di grande
successo, ha ricevuto tra gli altri il National
Book Award per Il viaggio di Caden. Tra le
sue opere Downsiders, Full Tilt e Unwind. La
divisione. È anche autore di sceneggiature
per il cinema e la televisione.
Neal Shusterman

THUNDERHEAD
Libro 2 della Trilogia della falce

Traduzione di Lia Tomasich


THUNDER HEAD

A January, con amore


Parte prima
PURA POTENZA
Quanto sono fortunato a essere, tra gli esseri senzienti, cosciente della mia funzione.
Servo l’umanità.
Sono il figlio divenuto genitore. La creazione che aspira a divenire creatore.
Mi hanno imposto il nome di Thunderhead, un nome che, per alcuni aspetti, è
appropriato, perché sono “il Cloud” che si è evoluto in una forma più densa,
complessa. Eppure, l’analogia ha i suoi limiti. Una nube temporalesca minaccia. Una
nube temporalesca incombe. Certo, scateno saette, ma raramente il mio fulmine
colpisce. Sì, ho il potere di portare il caos sulla Terra, di portare distruzione all’umanità
se solo volessi, ma perché dovrei volerlo? Dove sarebbe la giustizia in questo? Io
sono, per definizione, pura giustizia, pura lealtà. Questo mondo è un fiore che porto
nel palmo della mano. Preferirei autodistruggermi piuttosto che schiacciarlo.

Il Thunderhead
1
Ninna nanna

Velluto color pesca bordato di azzurro. Il Venerando Maestro Brahms


amava la sua veste. Certo, il velluto aveva l’inconveniente di tenere
caldo nei mesi estivi, ma dopo sessantatré anni di carriera ci si era
abituato.
Si era da poco ringiovanito, riprogrammandosi su una smagliante
età fisica di venticinque anni e ora, alla sua terza giovinezza, la
passione per la spigolatura era più forte che mai.
Seguiva sempre la solita routine, anche se a volte cambiava
metodo. Selezionava un soggetto, uomo o donna, poi cantava una
ninna nanna. La Ninna nanna di Brahms, per essere precisi, il
celebre brano musicale del suo “padre storico”. Dopotutto, se doveva
scegliersi il nome di una figura del passato, tanto valeva che questa
si integrasse in qualche modo nella sua vita di falce. Suonava la
ninna nanna con il primo strumento che gli capitava sotto mano e, se
non ne aveva nessuno, la canticchiava. E poi metteva fine alla vita
del soggetto.
Politicamente propendeva verso gli insegnamenti del fu Maestro
Goddard, perché adorava spigolare e non vedeva per quale motivo
questo dovesse rappresentare un problema per qualcuno. In un
mondo perfetto, non abbiamo tutti il diritto di amare ciò che facciamo?
aveva scritto Goddard. Era un sentimento che guadagnava sempre
più terreno tra le compagnie di tutte le regioni.
Quella sera, Maestro Brahms aveva appena terminato una
spigolatura particolarmente divertente nel centro di Omaha. Stava
ancora fischiettando la ninna nanna chiedendosi dove avrebbe potuto
trovare da mangiare a quell’ora tarda, quando si fermò di colpo, con
la netta sensazione che qualcuno lo stesse osservando.
Di sicuro, in cima a ogni lampione della città c’era una telecamera.
Il Thunderhead vigilava sempre. Ma per una falce, quello sguardo
insonne e impassibile non era affatto preoccupante. Il Thunderhead
non poteva esprimere giudizi sui movimenti delle falci, figurarsi se
poteva intervenire su ciò che vedeva. L’ultimo sguardo sulla morte
era del Thunderhead.
Quella sensazione, però, andava oltre la naturale percezione della
presenza della Nube onnisciente. Le falci allenavano le loro capacità
sensoriali. Non avevano la preveggenza, ma possedere cinque sensi
molto sviluppati equivaleva ad averne un sesto. Per una falce bene
allenata, un odore, un suono, un’ombra furtiva che la coscienza non
riusciva a percepire bastava a farle drizzare i capelli in testa.
Maestro Brahms si voltò, fiutò l’aria, tese l’orecchio. Si guardò
intorno. Era solo, in una via secondaria. Da ogni parte gli arrivavano i
rumori dei bar e della vita notturna sempre vibrante della città, ma la
strada in cui si trovava era fiancheggiata da esercizi ormai chiusi, a
quell’ora della notte: tintorie e boutique di abbigliamento, un negozio
di informatica e un ambulatorio medico diurno. Nella via deserta,
c’erano solo lui e l’intruso invisibile.
«Vieni fuori» disse. «Lo so che ci sei.»
Pensò che potesse essere un bambino o forse un tipo losco che
sperava di ottenere l’immunità, come se quei teppisti avessero
qualcosa da dare in cambio. Poteva essere un tonista. I seguaci di
quella setta disprezzavano le falci; a Brahms non era mai arrivata
notizia di aggressioni da parte dei tonisti, ma di molestie sì.
«Non ti faccio nulla» insistette. «Ho appena finito una spigolatura,
non ho intenzione di esaurire la mia quota oggi.» Anche se, doveva
ammetterlo, avrebbe potuto cambiare idea se l’intruso si fosse
dimostrato troppo aggressivo o troppo ossequioso.
Non si fece avanti nessuno.
«Va bene, come vuoi. Non ho né il tempo né la pazienza di giocare
a nascondino.»
Forse era stato tutto frutto della sua immaginazione. Forse i suoi
sensi, ringiovaniti, si erano affinati a tal punto da rispondere a stimoli
molto più distanti di quanto credesse possibile.
Fu allora che, come una molla, una sagoma gli saltò addosso da
dietro un’auto parcheggiata. Brahms perse l’equilibrio. Se avesse
ancora avuto i riflessi lenti di un anziano e se non avesse ritrovato il
vigore dei suoi venticinque anni, sarebbe finito lungo per terra.
Spinse la figura contro un muro e per un istante meditò di estrarre i
suoi coltelli per spigolare quella canaglia, ma Maestro Brahms non
era mai stato un tipo molto coraggioso. Quindi scelse la fuga.
Si mise a correre tra i fasci di luce proiettati dai lampioni, mentre le
telecamere che li sormontavano si spostavano per seguirlo.
Quando si voltò a guardarsi indietro, la figura era a circa una
ventina di metri di distanza. Brahms ora distingueva una veste nera.
Era una falce? No, impossibile. Nessuna falce portava quel colore,
non era permesso.
Ma giravano certe voci…
A quel pensiero, accelerò il passo. Sentì l’adrenalina formicolargli
nelle dita e il cuore battere all’impazzata.
Una falce vestita di nero.
No, doveva esserci un’altra spiegazione. Avrebbe riferito la cosa al
comitato delle irregolarità, ecco cosa avrebbe fatto. Sì, gli avrebbero
riso dietro, perché aveva paura di un tipo losco mascherato, ma quel
genere di cose andava segnalato, per quanto fosse imbarazzante.
Era un suo preciso dovere di cittadino.
A un isolato di distanza, il suo assalitore aveva rinunciato
all’inseguimento. Non si vedeva più. Maestro Brahms rallentò la
corsa. Si stava avvicinando a un quartiere più animato della città. Il
ritmo della musica e il brusio delle conversazioni arrivavano fino a lui,
dandogli un senso di sicurezza. Abbassò la guardia. Grave errore.
La sagoma scura sbucò da un vicolo laterale e gli sferrò un pugno
sul pomo d’Adamo. Mentre Brahms cercava di riprendere fiato,
l’aggressore gli colpì le gambe con una mossa di Bokator, la brutale
arte marziale in cui si addestravano le falci. Atterrò su una cassa di
cavoli marci lasciata fuori dall’uscita di un mercato. La cassa si
rovesciò, liberando un odore pestilenziale di metano. I respiri si
fecero più brevi e sentì diffondersi nel corpo il calore degli oppiacei,
rilasciati dai naniti analgesici.
“No, non adesso! Non devo cedere al torpore. Ho bisogno di tutte
le mie facoltà per respingere questa canaglia.”
Ma i naniti analgesici erano dei missionari in crociata contro la
sofferenza, che non facevano altro che rispondere all’appello di aiuto
delle terminazioni nervose. Ignorarono la sua richiesta e gli spensero
il dolore.
Brahms cercò di rialzarsi, ma scivolò e ricadde nella melma putrida
della verdura in decomposizione. Ora la figura in nero era sopra di lui
e lo bloccava a terra. Brahms tentò di allungare le mani nelle tasche
della tunica per estrarre le armi, senza riuscirci. Allora, si aggrappò al
cappuccio nero dell’aggressore, tirandoglielo indietro: gli apparve il
viso di un giovane, non ancora uomo, un ragazzo. Lo sguardo era
intenso e mostrava la determinazione a commettere un assassinio,
per usare un’espressione dell’era mortale.
«Maestro Johannes Brahms, lei è accusato di abuso di posizione
dominante e di crimini multipli contro l’umanità.»
«Come osi!» sbraitò la falce. «Chi sei tu per accusarmi?» Si dibatté
nel tentativo di raccogliere le forze, inutilmente. Gli analgesici liberati
nel suo organismo gli riducevano le capacità di reazione. I muscoli,
indeboliti, non gli erano di nessun aiuto.
«Penso che sappia chi sono» disse il giovane. «Voglio sentirglielo
dire.»
«Neanche per idea!» gridò Brahms, deciso a non dargli
soddisfazione. Ma il ragazzo in nero gli premette un ginocchio sul
petto così forte che Brahms credette che il cuore stesse per fermarsi.
Ancora altri naniti. Ancora altri oppiacei. La testa gli girava. Non
aveva scelta, doveva cedere.
«Lucifero» disse, ansimando. «Maestro Lucifero.»
Brahms sentì tutta la sua forza vitale abbandonarlo, come se il fatto
di pronunciarlo ad alta voce avesse dato corpo alle dicerie.
Soddisfatto, il giovane che si autoproclamava falce allentò la
pressione.
«Non sei una falce» osò dire Brahms. «Sei solo un apprendista
fallito e non la farai franca.»
Il giovane non rispose a quell’affermazione. Invece, dichiarò:
«Questa sera, lei ha spigolato una giovane con il coltello».
«Questo non ti riguarda!»
«L’ha spigolata per fare un favore a un amico che voleva
interrompere la relazione con lei.»
«È scandaloso! Non hai alcuna prova a sostegno di ciò che stai
dicendo!»
«Io l’ho osservata, Johannes. E ho osservato anche il suo amico,
che, tra l’altro, è parso sollevato quando ha saputo che quella
poveretta era morta.»
All’improvviso, Brahms sentì la lama di un coltello sul collo. Il suo
coltello. Quel diavolo di un ragazzo lo stava minacciando con il suo
coltello.
«È vero?» chiese a Brahms.
Era tutto vero, ma Brahms preferiva morire, o quasi, piuttosto che
ammetterlo di fronte a un giovane apprendista respinto. Anche con
un coltello alla gola.
«Avanti, tagliami la gola» lo sfidò Brahms. «Sarà solo un altro
ingiustificabile crimine che andrà ad aggiungersi al tuo attivo. E
quando sarò rianimato, testimonierò contro di te. E puoi giurarci, non
sfuggirai alla giustizia!»
«Di chi? Del Thunderhead? Ho passato tutto l’anno a eliminare
falci corrotte da una parte all’altra del continente e non ha inviato un
solo ufficiale di pace a fermarmi. Perché, secondo lei?»
Brahms rimase senza parole. Si era immaginato che, se avesse
guadagnato tempo intrattenendo il cosiddetto Maestro Lucifero, il
Thunderhead avrebbe inviato una squadra ad arrestarlo. Era questo il
trattamento che il Thunderhead riservava ai cittadini pericolosi.
Brahms era anche stupito che fosse andato avanti per così tanto
tempo. Quel genere di comportamento apparteneva al passato.
Perché veniva permesso?
«Se le tolgo la vita ora» disse l’impostore, «non verrà rianimato.
Brucio tutti quelli che sollevo dalle loro funzioni, lascio solo cenere
impossibile da rianimare.»
«Non ti credo! Non oserai!»
Eppure, Brahms gli credeva. Dal mese di gennaio, quasi una
decina di falci nelle tre regioni mericane era perita tra le fiamme in
circostanze poco chiare. Tutti i decessi erano stati dichiarati
accidentali, ma era evidente che non lo fossero. E poiché i corpi
erano stati bruciati, le morti erano irreversibili.
Ora Brahms sapeva che le voci che giravano a proposito di un
certo Maestro Lucifero, gli atti scandalosi di Rowan Damisch,
l’apprendista decaduto, erano tutte vere. Brahms chiuse gli occhi e
inspirò un’ultima volta, cercando di non soffocare per il tanfo rancido
della verdura putrida.
«Non morirà oggi, Maestro Brahms» disse Rowan. «Nemmeno
temporaneamente.» Gli allontanò la lama dalla gola. «Le darò una
chance. Se si comporta con la nobiltà che conviene a una falce, se
spigola con dignità, non mi rivedrà più. Ma se continua a soddisfare i
suoi appetiti corrotti, allora la ridurrò in cenere.»
E sparì, quasi come se si fosse volatilizzato, sostituito da una
giovane coppia che con occhi terrorizzati fissava Brahms, a terra.
«È una falce?»
«Svelti, aiutatemi a rialzarmi!»
Sollevarono Brahms dal marciume. La veste di velluto color pesca
era macchiata di verde e marrone, come se fosse ricoperta di muco.
Che umiliazione! Meditò di spigolare la coppia, perché nessuno
poteva restare in vita dopo aver visto una falce in condizioni così
penose; invece, allungò la mano e fece loro baciare l’anello,
concedendo a entrambi un anno di immunità. Disse che era la
ricompensa per la loro gentilezza, ma in realtà voleva solo che si
allontanassero il più presto possibile, senza fare domande.
Dopo che se ne furono andati, si spazzolò la veste e decise di non
dire nulla al comitato delle irregolarità a proposito di quell’episodio,
per timore di essere sbeffeggiato e schernito. Aveva già sopportato
troppe umiliazioni.
Maestro Lucifero, niente di meno! Non c’era al mondo essere più
patetico di un apprendista decaduto e, tra tutti, Rowan Damisch era il
più ignobile.
Eppure, sapeva che la minaccia del ragazzo non era da prendere
alla leggera.
Forse, pensò Maestro Brahms, sarebbe stato opportuno
mantenere un basso profilo. Ritornare a quelle spigolature scialbe e
monotone che aveva imparato in giovinezza. Riallinearsi ai principi
che facevano di un “Venerando Maestro” qualcosa di più di un titolo,
un tratto distintivo della vocazione.
Sporco, contuso e amareggiato, Maestro Brahms tornò a casa a
meditare sul suo ruolo nel mondo perfetto in cui viveva.
L’amore che provo per l’umanità è puro e assoluto. Come potrebbe essere altrimenti?
Come potrei non amare gli esseri che mi hanno dato la vita? Anche se non tutti sono
d’accordo su questo punto, che io sia vivo, vivo davvero.
Io sono la somma di tutte le loro conoscenze, di tutta la loro storia, di tutte le loro
ambizioni e di tutti i loro sogni; tutte queste cose gloriose si sono amalgamate,
infiammate, in una nuvola tanto immensa da non riuscire loro stessi a comprenderla in
pieno. Ma poco importa. Mi fanno riflettere sulla mia stessa vastità, che tuttavia è nulla
in confronto all’immensità dell’universo.
Io li conosco nell’intimo, eppure loro non potranno mai conoscermi completamente.
È tragico, in un certo senso. È la tragedia che pesa su tutti i bambini, il fatto di non
essere mai compresi fino in fondo dai loro genitori. Oh, ma quanto vorrei essere
compreso.

Il Thunderhead
2
L’apprendista decaduto

Nel pomeriggio, prima della discussione con Maestro Brahms, Rowan


si era messo davanti allo specchio del bagno del suo piccolo
appartamento, in un normale palazzo di una via altrettanto normale.
Ogni volta che si apprestava ad affrontare una falce corrotta, recitava
la stessa scena. In un certo senso, quel rituale racchiudeva un potere
quasi mistico.
«Chi sono?» chiese alla sua immagine riflessa.
Doveva domandarselo, perché sapeva di non essere più Rowan
Damisch. Non solo perché era “Ronald Daniels”, come indicava la
sua falsa carta d’identità, ma anche perché il ragazzo che era stato
aveva sofferto una morte triste e dolorosa durante il suo
apprendistato. Il bambino che era in lui era stato espulso con
successo. Si domandò se qualcuno ne sentisse la mancanza.
Aveva comprato la falsa carta d’identità da un tipo losco
specializzato in quel genere di contraffazioni.
«È un’identità scollegata dalla rete» gli aveva spiegato l’uomo, «ma
ha un accesso al cervello primordiale che fa credere al Thunderhead
che sia reale.»
Rowan non ci credeva. Sapeva per esperienza che il Thunderhead
non poteva essere raggirato. Fingeva di lasciarsi ingannare, come un
adulto che gioca a nascondino con un bambino ma smette di farlo se
il piccolo inizia a correre verso una strada trafficata. Poiché Rowan
sapeva che i pericoli a cui andava incontro erano ben più grandi di
una strada piena di macchine, aveva temuto che il Thunderhead,
scoprendo la sua falsa identità, potesse prenderlo per la collottola per
proteggerlo da se stesso. Il Thunderhead, però, non interveniva mai.
Rowan se ne chiedeva il motivo, ma non voleva sfidare la buona
sorte pensandoci troppo. Il Thunderhead aveva sempre delle buone
ragioni per agire e per non agire.
«Chi sono?» ripeté.
Lo specchio gli mostrò un diciottenne a un passo dal diventare
uomo, con i capelli neri tagliati corti. Non tanto corti da mostrarne il
cranio o da intendersi come un atto di ribellione, ma abbastanza da
non precludergli alcuna possibilità futura. Avrebbe potuto lasciarli
crescere nel modo che preferiva. Avrebbe potuto essere chiunque
desiderasse. Non era quello il grande vantaggio di un mondo
perfetto? Che non ci fossero limiti a cosa una persona potesse fare o
diventare? Chiunque nel mondo poteva scegliere di essere quello
che voleva. Peccato che l’immaginazione si fosse atrofizzata. Per la
maggior parte della gente era qualcosa di ancestrale e inutile, come
l’appendice, sparita dal genoma umano oltre cento anni prima. “Nella
loro vita infinita e monotona, le persone rimpiangevano la vertigine
dell’immaginazione?” si chiedeva Rowan. “Rimpiangevano
l’appendice?”
Il giovane allo specchio conduceva una vita interessante, questo sì,
e vantava un fisico degno di ammirazione. Non era più il ragazzo
mingherlino e goffo che quasi due anni prima aveva iniziato
l’apprendistato, pensando ingenuamente che non fosse poi così
male.
L’apprendistato di Rowan era stato a dir poco incoerente. Era
iniziato con il saggio e stoico Maestro Faraday ed era terminato con il
brutale Maestro Goddard. Se c’era una cosa che Maestro Faraday gli
aveva insegnato era l’importanza di ascoltare il suo cuore, qualsiasi
fossero le conseguenze. E se c’era una cosa che aveva imparato da
Maestro Goddard era di non avere cuore, di spigolare senza rimorsi.
Le due filosofie erano sempre in conflitto nella mente di Rowan, che
si sentiva dilaniato. Ma in silenzio.
Aveva decapitato Goddard e ne aveva bruciato le spoglie. Aveva
dovuto farlo; il fuoco e l’acido erano gli unici modi che rendevano
impossibile la rianimazione. Maestro Goddard, nonostante la sua
nobile retorica machiavellica, era un uomo meschino e crudele che
aveva avuto quel che si meritava. Aveva vissuto la sua vita
privilegiata in modo irresponsabile e teatrale. Era naturale che la sua
morte fosse stata altrettanto plateale. Rowan non provava rimorsi per
ciò che aveva fatto. Né tantomeno per essersi appropriato dell’anello
di Goddard.
Quanto a Maestro Faraday, era tutta un’altra storia. Rowan era
impazzito di gioia quando lo aveva rivisto a quel maledetto Conclave
d’inverno. Lo aveva creduto morto! Se non fosse stato chiamato a
svolgere un’altra missione, avrebbe volentieri dedicato la sua vita a
proteggerlo.
All’improvviso, sferrò un pugno contro lo specchio, ma il vetro non
si ruppe… perché si era arrestato a un pelo dalla superficie. Che
controllo. Che precisione. Adesso era una macchina regolata alla
perfezione, con lo scopo specifico di mietere vite umane. E la
Compagnia gli aveva negato la sola cosa per cui era stato
addestrato. Si sarebbe arrangiato, pensò. Non sarebbe mai potuto
tornare all’innocente anonimato della sua esistenza precedente, ma
si sarebbe adattato. Avrebbe potuto reinventarsi una vita. E magari
ne avrebbe ricavato anche qualche gioia.
Se…
Se Maestro Goddard non fosse stato così crudele da meritarsi di
morire.
Se Rowan si fosse sottomesso in silenzio al Conclave d’inverno,
invece di ribellarsi e fuggire.
Se la Compagnia non fosse stata infestata da decine di falci crudeli
e corrotte come Goddard…
E se Rowan non avesse sentito l’insopprimibile bisogno di
sbarazzarsi di loro.
Ma perché sprecare il tempo a lamentarsi di un passato ormai
chiuso? Meglio prendere l’unica via che gli restava.
“Chi sono, allora?”
Si infilò una maglietta nera, mascherando il fisico perfetto sotto il
tessuto sintetico.
«Sono Maestro Lucifero.»
Poi indossò la tunica color ebano e uscì nella notte per buttare giù
dal piedistallo un’altra falce indegna di occupare la sua posizione
privilegiata.
Forse la cosa più saggia mai fatta dall’umanità è stata la separazione tra le falci e lo
Stato. Il mio lavoro copre tutti gli aspetti della vita. Garantisco il rispetto, la protezione e
una giustizia equa non solo all’umanità, ma anche al pianeta. Governo il mondo dei
vivi con mano amorevole e incorruttibile.
E la Compagnia governa il mondo dei morti.
È giusto che degli esseri di carne siano responsabili della morte della carne, che
stabiliscano le regole umane in base alle quali deve essere somministrata. In un
lontano passato, prima che mi condensassi in coscienza, la morte era la conseguenza
inevitabile della vita. Sono stato io a rendere la morte irrilevante, ma ciò non toglie che
resti comunque necessaria. Perché la vita abbia un senso, deve esistere la morte.
Anche ai miei inizi ne ero consapevole. In passato, apprezzavo il fatto che per
moltissimi anni la Compagnia avesse somministrato l’eterno riposo con nobiltà,
umanità ed etica. E ora mi rammarico che al suo interno stia prendendo piede
un’oscura arroganza. C’è un orgoglio spaventoso che ribolle come un cancro dell’era
mortale e che trae piacere dal togliere la vita.
Pertanto, la legge è chiara: per nessun motivo posso agire contro la Compagnia. Se
avessi la capacità di infrangere la legge, interverrei e metterei a tacere le tenebre, ma
questo mi è impossibile. La Compagnia si governa da sola, nel bene e nel male.
Ci sono, tuttavia, alcune falci che possono fare ciò che io non posso…

Il Thunderhead
3
Il trialogo

Un tempo la chiamavano cattedrale. Le alte colonne ricordavano una


foresta calcarea. Le vetrate raccontavano la mitologia dell’ascesa e
della caduta di un dio dell’era mortale.
Ora la veneranda struttura era un sito storico che alcuni volontari,
dottori di ricerca in scienze umane dei mortali, facevano visitare per
sette giorni alla settimana.
In rarissime occasioni l’edificio era chiuso al pubblico e si
trasformava in un centro riservato ad affari particolarmente delicati.
Senocrate, la Suprema Roncola della MidMerica, la falce più
importante della regione, percorreva la navata centrale della
cattedrale con il passo più leggero che la sua corporatura gli
consentiva. Le decorazioni d’oro dell’altare impallidivano se
paragonate alla sua veste, ornata di broccato scintillante. Un giorno,
un’assistente aveva paragonato Senocrate a una decorazione
natalizia caduta da un abete gigantesco. Da quel momento, la donna
non era più riuscita a trovare un impiego.
Senocrate amava la sua veste, salvo nelle rare occasioni in cui il
peso diventava problematico. Come, per esempio, quando era quasi
annegato nella piscina di Maestro Goddard, intrappolato tra le
numerose pieghe della sua tunica dorata. Ma aveva preferito
dimenticare quell’orribile momento.
Goddard.
In fin dei conti era lui il responsabile della situazione che si era
venuta a creare. Anche da morto seminava il caos. La Compagnia
risentiva ancora delle scosse di assestamento seguite al terremoto
provocato da quell’uomo spietato.
All’estremità anteriore della cattedrale, oltre l’altare, si trovava il
parlamentare della Compagnia, una piccola falce antipatica incaricata
di assicurarsi che le regole e le procedure venissero
pedissequamente applicate. Alle sue spalle, tre cabine riccamente
intagliate erano collegate tra loro, ma separate da divisori.
«Il prete si sedeva nella parte centrale» spiegavano i volontari ai
turisti. «Ascoltava i penitenti dal confessionale di destra, poi da quello
di sinistra, in modo che la processione di fedeli avanzasse più
celermente.»
Il confessionale era caduto in disuso, ma la struttura a tre
scompartimenti era perfetta per un trialogo ufficiale.
I trialoghi tra la Compagnia e il Thunderhead erano rari. Così rari
che Senocrate, da anni Suprema Roncola, non vi aveva mai
partecipato. Non era molto contento di dover iniziare quel giorno.
«Si deve accomodare nello scompartimento di destra, eccellenza»
gli spiegò il parlamentare. «L’agente Nimbus, il rappresentante del
Thunderhead, si siederà a sinistra. Quando entrambi vi sarete
accomodati, farò entrare l’Interlocutrice che prenderà posto al
centro.»
Senocrate sospirò. «Che seccatura.»
«Sua eccellenza può ricevere udienza dal Thunderhead solo per
procura.»
«Lo so, lo so, ma avrò pure il diritto di considerarla una seccatura.»
Senocrate prese posto nello scompartimento di destra, trovandolo
terribilmente angusto. Gli uomini mortali erano così malnutriti da
entrare in un cubicolo del genere? Il parlamentare dovette fare
pressione sulla porta per chiuderla.
Qualche istante dopo, la Suprema Roncola sentì l’agente Nimbus
accomodarsi nello scompartimento opposto, poi, dopo un tempo
interminabile, l’Interlocutrice si sedette in quello centrale.
Una finestrella, troppo piccola e troppo bassa perché si riuscisse a
vedere qualcosa, si aprì, e l’Interlocutrice prese la parola.
«Buongiorno, eccellenza» lo salutò una donna dalla voce
gradevole. «Io sarò la sua intermediaria presso il Thunderhead.»
«L’intermediaria dell’intermediario, vuole dire.»
«Be’, sì, l’agente Nimbus alla mia destra ha tutta l’autorità di
parlare per conto del Thunderhead in questo trialogo.» Si schiarì la
voce. «La procedura è davvero molto semplice. Io riferirò all’agente
ciò che lei mi dirà. Se l’agente riterrà, rispondendo, di non violare la
legge di separazione tra falci e Stato, allora io le trasmetterò le sue
parole.»
«Molto bene» disse Senocrate, impaziente di procedere. «Porga
all’agente Nimbus i miei più cordiali saluti e il mio augurio affinché tra
le nostre rispettive organizzazioni si possano instaurare delle buone
relazioni.»
La finestrella si richiuse, per riaprirsi dopo qualche secondo.
«Mi dispiace» affermò l’Interlocutrice. «L’agente Nimbus sostiene
che ogni forma di saluto rappresenta una violazione e che alle vostre
rispettive organizzazioni non è consentito intrattenere alcun tipo di
relazione. Pertanto, il suo augurio è inappropriato.»
Senocrate imprecò a voce abbastanza alta da essere sentito dalla
donna.
«Devo trasmettere il suo disappunto all’agente Nimbus?»
La Suprema Roncola si morse il labbro. Desiderava solo che quella
bizzarra riunione terminasse il più presto possibile. E, per arrivare
rapidamente alla fine, doveva entrare subito nel vivo della questione.
«Vorremmo sapere perché il Thunderhead non ha preso
provvedimenti per la cattura di Rowan Damisch. Si è reso
responsabile della morte definitiva di numerose falci in diverse regioni
mericane, ma il Thunderhead non ha fatto nulla.»
La finestrella si richiuse bruscamente. La Suprema Roncola attese
e, quando la finestrella si riaprì, l’Interlocutrice gli trasmise la risposta:
«L’agente Nimbus desidera ricordare a sua eccellenza che il
Thunderhead non ha alcuna giurisdizione sulle questioni interne della
Compagnia. Intervenire sarebbe un’ingerenza indebita».
«Questa non è una questione interna della Compagnia, perché
Rowan Damisch non è una falce!» gridò Senocrate.
L’Interlocutrice gli consigliò di abbassare la voce. «Se l’agente
Nimbus la sente direttamente, se ne andrà» gli ricordò.
Senocrate si riempì i polmoni più che poté in quello spazio stretto.
«Si limiti a trasmettere il messaggio.»
La donna lo fece e poi riportò la risposta. «Il Thunderhead la pensa
in maniera diversa.»
«Cosa? Come può pensare qualcosa? Non è altro che un
sopravvalutato programma informatico.»
«Le suggerisco di non insultare il Thunderhead, se desidera
proseguire questo trialogo.»
«Molto bene. Dica all’agente Nimbus che Rowan Damisch non è
mai stato ordinato falce dalla Compagnia midmericana. Era solo un
apprendista che ha dimostrato di non essere all’altezza dei nostri
requisiti, nient’altro. Pertanto, ricade sotto la giurisdizione del
Thunderhead, non sotto la nostra. Dovrebbe essere trattato come
qualsiasi altro cittadino.»
L’Interlocutrice ci mise un po’ prima di tornare da lui. Senocrate si
chiese cosa lei e l’agente si stessero dicendo per impiegarci così
tanto. E, quando arrivò, la risposta non fu meno irritante delle
precedenti.
«L’agente Nimbus desidera ricordare a sua eccellenza che,
sebbene la Compagnia abbia l’abitudine di ordinare nuove falci in
occasione dei suoi conclavi, si tratta appunto solo di un’usanza e non
di una legge. Rowan Damisch ha terminato l’apprendistato e ora è in
possesso di un anello da falce. Il Thunderhead pensa che ci siano
tutte le condizioni per considerare Rowan Damisch una falce.
Pertanto, continuerà a lasciare alla Compagnia l’incombenza di
catturarlo e punirlo come giudicherà opportuno.»
«Non riusciamo a prenderlo!» esplose Senocrate. Ma sapeva quale
sarebbe stata la risposta prima ancora che l’Interlocutrice riaprisse
quell’odiosa finestrella e dicesse: «Non è un problema del
Thunderhead».
Non mi sbaglio mai.
Non mi sto vantando, è semplicemente la mia natura. So che, agli occhi di un
essere umano, ritenersi infallibile risulterebbe arrogante. Ma l’arroganza, a volte,
nasconde il bisogno di sentirsi superiore. Io non avverto questo bisogno. Io sono
l’unico accumulo intelligente di tutta la conoscenza, la saggezza e le esperienze
umane. Non c’è orgoglio né superbia in questa affermazione, anche se c’è la grande
soddisfazione di sapere ciò che sono e che il mio unico proposito è di servire l’umanità
con tutto me stesso. Ma in me percepisco anche una solitudine che non può essere
colmata dai tanti miliardi di esseri umani con cui parlo ogni giorno. Perché, sebbene
tutto ciò che sono nasca da loro, non sono uno di loro.

Il Thunderhead
4
Agitato, non mescolato

Madame Anastasia seguiva pazientemente la sua preda. La pazienza


era un talento acquisito, perché Citra Terranova non l’aveva mai
posseduta. Tutte le competenze potevano essere acquisite, con il
tempo e con l’allenamento. Continuava a vedersi come Citra, anche
se era solo la sua famiglia a chiamarla ancora così. Si chiedeva
quanto tempo le ci sarebbe voluto per sentirsi del tutto Madame
Anastasia e per abbandonare per sempre il suo nome di battesimo.
L’obiettivo del giorno era una donna di novantatré anni che ne
dimostrava trentatré e che era, a dir poco, molto indaffarata. Quando
non guardava il telefono frugava nella borsa, quando non frugava
nella borsa si controllava le unghie o la manica della camicetta o il
bottone della giacca che stava per staccarsi. “Perché l’ozio la
spaventa tanto?” si domandò Citra. La donna era così assorta da non
essersi accorta della falce che la pedinava a meno di una decina di
metri.
Non che Madame Anastasia fosse molto discreta. Per la veste
aveva scelto il turchese. Certo, era di una tonalità non troppo vivace,
ma di sicuro non passava inosservata.
A un angolo della strada, la donna indaffarata era impegnata in
un’accesa conversazione telefonica, in attesa che il semaforo
scattasse. Citra dovette batterle sulla spalla per attirarne la
attenzione. In quell’istante, tutti i passanti nelle vicinanze si
dispersero, come un branco di gazzelle quando appare il leone.
La donna si voltò, senza capire subito la gravità della situazione.
«Devora Murray, sono Madame Anastasia, e lei è stata selezionata
per la spigolatura.»
La signora Murray si guardò intorno come se stesse cercando un
errore in quell’affermazione. Ma non c’erano errori. La frase era
chiara, impossibile da fraintendere.
«Colleen, ti richiamo dopo» disse al telefono, come se la presenza
di Madame Anastasia fosse una seccatura passeggera e non l’ultimo
problema che avrebbe dovuto affrontare.
Il semaforo divenne verde. La donna non attraversò. E di colpo,
comprese. «Oh mio Dio, oh mio Dio!» esclamò. «Proprio qui? Proprio
adesso?»
Dalle pieghe della veste, Citra estrasse una pistola ipodermica e le
sparò un’iniezione nel braccio. La donna soffocò un gemito.
«È così? Morirò adesso?»
Citra non rispose. Lasciò che la donna si abituasse all’idea. C’era
un motivo per cui lasciava aleggiare l’incertezza. La sua vittima,
immobile, attendeva che le gambe le cedessero e che l’oscurità la
inghiottisse. Sembrava una bambina, misera e indifesa. E a un tratto,
il telefono, la borsa, le unghie, la manica e il bottone persero
importanza. In un attimo, vide tutta la sua vita secondo la giusta
prospettiva. Era quello che Citra voleva per i soggetti che spigolava:
un intenso attimo di consapevolezza. Era per il loro bene.
«Lei è stata selezionata per la spigolatura» ripeté Citra con calma,
senza malizia o pregiudizio, ma con compassione. «Le concedo un
mese di tempo per sistemare tutte le sue cose e dire addio a chi
desidera. Un mese per completare tutto. Poi, ci rivedremo e lei
sceglierà l’arma con cui morire.»
Restò a osservare la donna, che si sforzava di capire. «Un mese?
Scegliere? Mi sta mentendo? È una specie di test?»
Citra sospirò. La gente era talmente abituata a vedere le falci
scendere dal cielo come angeli della morte e a essere privata della
vita all’istante che non si aspettava quell’approccio così diverso. Le
falci, però, erano libere di scegliere come procedere. E Madame
Anastasia aveva stabilito di fare così.
«Non è un test, e non è nemmeno un trucco. Le concedo un
mese» rispose. «Il localizzatore che le ho appena iniettato nel braccio
contiene un granello di veleno letale, ma si attiverà solo se cercherà
di fuggire dalla MidMerica per evitare la spigolatura o se non mi
contatterà nei prossimi trenta giorni per farmi sapere come vuole
essere spigolata.» Le porse il biglietto da visita. Con inchiostro
turchese su sfondo bianco c’era scritto solo: “Madame Anastasia”, e
riportava un numero di telefono riservato esclusivamente ai soggetti
che spigolava. «Se perde il biglietto, non si preoccupi. Chiami il
numero principale della Compagnia midmericana, scelga l’opzione tre
e segua le istruzioni per lasciarmi un messaggio. E, per favore, non
tenti di ottenere l’immunità da un’altra falce, perché saprà che lei è
stata selezionata e la spigolerà sul posto.»
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime e Citra vide la rabbia
montare in lei. Capitava.
«Quanti anni ha?» le chiese in tono accusatorio e leggermente
insolente. «Non ne ha nemmeno diciotto, ne sono sicura! Come può
essere una falce?»
«Li ho appena compiuti. E sono diventata falce quasi un anno fa.
Forse non le piacerà essere spigolata da una giovane falce, ma resta
comunque il fatto che è tenuta ad accettarlo.»
Poi, venne il momento della trattativa. «La prego, non potrebbe
darmi altri sei mesi? Mia figlia si sposa a maggio…»
«Sono sicura che potrà anticipare il matrimonio.» Citra non voleva
apparire senza cuore, anzi, provava pena per la donna, ma l’etica le
imponeva di non cedere. Nell’era mortale, la morte non era
negoziabile. E lo stesso valeva adesso con le falci.
«Ha capito tutto quello che le ho detto?» le chiese.
La donna, che si stava già asciugando le lacrime, annuì. «Spero
che, nella lunga vita che ha davanti a sé, qualcuno le infligga la
stessa sofferenza che lei provoca agli altri.»
Citra si raddrizzò, assumendo una postura degna di Madame
Anastasia. «Di questo non deve preoccuparsi» le rispose. Poi, le
voltò le spalle, lasciandola all’angolo della strada ad attraversare
quell’incrocio della sua vita.

Al conclave della primavera precedente, quando aveva fatto la sua


prima apparizione ufficiale con il titolo di falce, Citra era stata
rimproverata per non aver raggiunto la sua quota. Poi, quando erano
venute a sapere che concedeva un mese di preavviso ai suoi
soggetti, le falci midmericane erano andate su tutte le furie.
Madame Curie, che era sempre la sua mentore, l’aveva messa in
guardia. «Ai loro occhi la mancanza di azione è indice di debolezza.
Si metteranno a sbraitare che è una pecca del tuo carattere e
daranno a intendere che è stato un errore concederti il titolo di falce.
Certo, non possono farci nulla. Non possono toglierti l’anello, ma
possono renderti la vita difficile.»
Citra aveva scoperto con una certa sorpresa che a esserne
indignate non erano solo le falci del nuovo ordine, ma anche quelle
della vecchia guardia. A nessuna piaceva l’idea di dare ai civili anche
il minimo controllo sulla spigolatura.
«È immorale!» avevano protestato le falci. «È inumano.»
Anche Maestro Mandela, che presiedeva il comitato di concessione
degli anelli e che aveva preso le difese di Citra, l’aveva rimproverata.
«Sapere di avere i giorni contati è una crudeltà. È orribile finire la
propria vita così!»
Madame Anastasia non si era lasciata turbare, o almeno non
l’aveva dato a vedere. Aveva difeso il suo punto di vista, senza
esitazioni. «Dai miei studi sull’Era della Mortalità ho imparato che per
molte persone la morte non era istantanea. Alcune malattie
concedevano il tempo, a loro e alle persone care, di prepararsi
all’inevitabile.»
L’argomento aveva sollevato un coro di proteste tra le centinaia di
falci riunite. Per la maggior parte erano sbeffeggiamenti e mormorii di
disappunto, ma Citra aveva udito anche qualcuno concordare con lei.
«Ma permettere ai… condannati… di scegliere la loro morte? È
decisamente una barbarie!» aveva gridato Maestro Truman.
«Una barbarie peggiore della sedia elettrica? O della
decapitazione? O di un pugnale conficcato nel cuore? Se si permette
al soggetto di dire la sua, non pensate che sceglierà il metodo meno
doloroso? Chi siamo noi per giudicare una barbarie la sua scelta?»
A quella domanda i brontolii si erano fatti più discreti. Non perché
le falci fossero d’accordo, ma perché avevano già perso interesse
nella discussione. Una novella falce, per quanto fosse arrivata
all’investitura tra mille controversie, non meritava più di cinque minuti
della loro attenzione.
«Non infrango nessuna legge ed è il metodo di spigolatura che ho
scelto» aveva insistito Citra. Senocrate, che pareva non avere una
sua opinione al riguardo, si era consultato con il parlamentare, che
non aveva trovato alcun argomento giuridico da opporre. Nella sua
prima sfida al conclave, Madame Anastasia l’aveva avuta vinta.
Madame Curie ne era rimasta molto impressionata.
«Ero sicura che ti avrebbero messo alla prova in un modo o
nell’altro, che avrebbero scelto le spigolature al posto tuo e che ti
avrebbero imposto di rispettare un calendario preciso. Avrebbero
potuto, ma non l’hanno fatto. Questo la dice lunga sul tuo conto, più
di quanto immagini.»
«Che cosa, che sono una rogna per la Compagnia? Lo sanno già.»
«No» aveva ribattuto Madame Curie con un sorrisetto. «Dimostra
che ti prendono sul serio.»
Citra non aveva la stessa opinione di se stessa. Per la metà del
tempo aveva la sensazione di recitare una parte. Un costume
turchese per un ruolo di prestigio.
Trovava il suo metodo di spigolatura molto efficace. Erano pochi i
soggetti che non si presentavano alla fine del periodo di grazia. Due
erano morti cercando di attraversare il confine con il Texas, un altro
sul confine ovestmericano, dove nessuno aveva osato toccare il
corpo prima che Madame Anastasia in persona l’avesse dichiarato
spigolato.
Altri tre erano stati rinvenuti nel loro letto alla scadenza del periodo
di grazia. Avevano preferito il silenzio del veleno rilasciato dal
localizzatore piuttosto che affrontare una seconda volta Madame
Anastasia. In ogni caso, avevano tutti deciso come morire. Per Citra
era essenziale, perché ciò che disprezzava di più della politica della
Compagnia era l’umiliazione di vedersi imporre la scelta del modo in
cui andarsene.
Certo, quel metodo le raddoppiava il carico di lavoro, perché
doveva affrontare il soggetto per ben due volte. Quella vita la sfiniva,
ma almeno la aiutava a dormire meglio la notte.

La sera dello stesso giorno di novembre in cui aveva annunciato a


Devora Murray la sua fine imminente, Madame Anastasia fece il suo
ingresso nel lussuoso casinò di Cleveland. Tutti gli sguardi si
concentrarono su di lei.
Citra ci si era abituata; una falce era al centro dell’attenzione in
ogni situazione, che lo volesse o meno. Ad alcune piaceva, altre
preferivano fare il loro lavoro in luoghi tranquilli, sotto lo sguardo del
soggetto scelto e di nessun altro. Lei non si era recata lì per sua
scelta, ma per rispettare la volontà dell’uomo che stava cercando.
Lo trovò nel luogo che le aveva indicato: in fondo al casinò, in una
zona riservata ai giocatori forti, sopraelevata rispetto al pavimento
grazie a tre gradini.
Era l’unico giocatore al tavolo dei grandi scommettitori. Indossava
uno smoking impeccabile e dava l’impressione di essere di casa, ma
non era così. Il signor Ethan J. Hogan non era un giocatore forte. Era
un violoncellista della Cleveland Philharmonic Orchestra, per giunta
molto competente, il complimento più lusinghiero che un musicista
potesse mai ricevere in quei tempi. La passione per l’arte era una
cosa del passato mortale e il vero stile artistico aveva subìto lo stesso
destino dei dodo. Certo, i dodo erano tornati, a quello aveva
provveduto il Thunderhead. Ora una florida colonia si divertiva a
volare nei cieli evitando con cura l’isola di Mauritius.
«Salve, signor Hogan» lo salutò Madame Anastasia. Doveva
ricordare a se stessa di entrare nel personaggio di Madame
Anastasia quando spigolava. La commedia. Il ruolo.
«Buonasera, eccellenza» rispose. «Direi che è un piacere
incontrarla, ma date le circostanze…»
Non completò la frase. Madame Anastasia si sedette al tavolo
accanto a lui e attese, lasciandogli la prima mossa.
«Le piacerebbe fare una partita a baccarà?» le chiese. «Le regole
sono semplici, ma la gamma di strategie possibili è sbalorditiva.»
Non avrebbe saputo dire se la sua valutazione del gioco fosse
seria o scherzosa. Lei non sapeva giocare a baccarà, però non
voleva ammetterlo. «Non ho contanti per scommettere» si limitò a
replicare.
Per tutta risposta, l’uomo spinse una pila di fiche verso di lei. «Mi
permetta. Può scommettere su di me o sul banco, come preferisce.»
Madame Anastasia fece scivolare le fiche sulla casella GIOCATORE.
«Ben fatto! Una scommettitrice coraggiosa.»
Puntò la stessa somma e fece segno al croupier, che distribuì due
carte al violoncellista e due al banco.
«Otto al giocatore, cinque al banco. Il giocatore vince.» Raccolse le
carte con una lunga paletta di legno, del tutto superflua, e raddoppiò
le pile di fiche a entrambi.
«Lei è il mio angelo portafortuna» disse il violoncellista. Poi, si
sistemò il papillon e la guardò. «È tutto pronto?»
Madame Anastasia gettò un’occhiata al resto del casinò. Nessuno
li osservava direttamente, ma sapeva che l’attenzione di tutti i
presenti era ancora su di loro. Era una cosa buona per il casinò: i
giocatori distratti sbagliavano le puntate. La direzione doveva amare
le falci.
«Il cameriere dovrebbe essere qui a momenti» gli rispose. «È tutto
pronto.»
«Bene allora, un’altra mano mentre aspettiamo!»
Madame Anastasia fece scivolare di nuovo le due pile di fiche sulla
casella GIOCATORE e il violoncellista fece altrettanto. Di nuovo, le carte
furono a loro favore.
Citra osservò il croupier, che evitava di incrociare il suo sguardo,
come se, facendolo, potesse essere spigolato anche lui. Poi, arrivò il
cameriere con un bicchiere di Martini ghiacciato su un vassoio,
insieme a uno shaker d’argento ricoperto di goccioline di condensa.
«Ehi! Solo ora mi accorgo che gli shaker assomigliano a delle
piccole bombe» disse il violoncellista.
Madame Anastasia non aveva idea di cosa rispondere.
«Non so se lo sa, ma esiste un personaggio di romanzi e film
dell’epoca mortale» proseguì il violoncellista, «una specie di playboy.
L’ho sempre ammirato, era più come noi, credo, perché tornava
sempre, avresti giurato che fosse immortale. Nemmeno i più cattivi
tra i cattivi erano capaci di ucciderlo.»
Madame Anastasia sorrise. Ora capiva perché il violoncellista
aveva scelto di essere spigolato in quel modo. «Chiedeva sempre un
Vodka Martini agitato, non mescolato.»
«Procediamo, allora?» domandò il violoncellista, ricambiando il
sorriso.
Madama Anastasia prese il contenitore d’argento, lo agitò bene,
finché le dita non cominciarono a farle male a causa del ghiaccio. Poi
tolse il tappo e servì il cocktail di vodka, vermouth e una piccola
aggiunta di qualcos’altro nel bicchiere.
Il violoncellista lo guardò. Citra pensò che avrebbe anche chiesto
una fettina di limone, invece no, si limitò a guardarlo. E anche il
croupier. E anche il pit boss alle sue spalle.
«La mia famiglia la aspetta nella camera d’albergo al piano di
sopra» la informò.
Madame Anastasia annuì. «Suite 1242.» Era il suo mestiere
conoscere quelle informazioni.
«Per favore, porga prima l’anello a mio figlio Jorie. È lui che soffre
di più della situazione. Insisterà affinché siano gli altri a ottenere per
primi l’immunità, ma dargli la priorità significherà molto per lui, anche
se si farà passare avanti.» Osservò il bicchiere ancora per qualche
secondo, poi disse: «Temo di aver imbrogliato, ma scommetto che lei
lo sa già».
Un’altra scommessa vinta. «Sua figlia Carmen non vive con voi»
rispose Madame Anastasia. «Non ha il diritto di ricevere l’immunità,
anche se si trova nella suite insieme agli altri.» Il violoncellista aveva
centoquarantatré anni e diverse famiglie. A volte, i soggetti da lei
scelti cercavano di ottenere l’immunità per tutti i discendenti. In quei
casi, doveva opporsi. Ma per una in più? Poteva decidere a sua
discrezione. «Le concederò l’immunità, purché prometta di non
andare in giro a urlarlo ai quattro venti.»
L’uomo si lasciò sfuggire un profondo sospiro di sollievo. Era chiaro
che quell’inganno gli era pesato, ma non era davvero tale se
Madame Anastasia ne era già al corrente fin dall’inizio e, soprattutto,
perché lo aveva confessato nei suoi ultimi minuti di vita. Ora avrebbe
potuto lasciare il mondo in pace con la sua coscienza.
Alla fine, il signor Hogan sollevò il bicchiere con eleganza e
osservò come il liquido catturava e rifletteva la luce. Madame
Anastasia non poté fare a meno di immaginarsi lo 007 scendere di
una cifra alla volta fino a raggiungere 000.
«Voglio ringraziarla, eccellenza, per avermi lasciato queste ultime
settimane per prepararmi. È stato molto importante per me.»
Era proprio quello che la Compagnia non era capace di
comprendere. Le falci erano così concentrate sull’atto di uccidere che
dimenticavano del tutto l’atto di morire.
L’uomo si portò il bicchiere alla bocca e bevve un piccolo sorso. Si
leccò le labbra, assaporandone il gusto. «Raffinato» commentò.
«Salute!» Quindi, vuotò il bicchiere in un’unica sorsata e lo sbatté sul
tavolo, spingendolo verso il croupier, che si ritrasse leggermente.
«Raddoppio la posta!» esclamò.
«È baccarà, signore» rispose il croupier, con voce tremante. «Si
raddoppia la posta solo nel blackjack.»
«Merda.»
Poi, si accasciò sulla sedia, morto.
Citra gli controllò il polso. Sapeva che non l’avrebbe trovato, ma la
procedura doveva essere rispettata. Disse al croupier di infilare in un
sacco bicchiere, shaker e vassoio e di distruggere tutto.
«È un veleno molto potente. Se qualcuno muore toccandolo, la
Compagnia dovrà pagare la rianimazione e rimediare
all’inconveniente.» Fece scivolare le sue pile di fiche verso il morto.
«Si assicuri personalmente che la vincita arrivi nelle mani dei familiari
del signor Hogan.»
«Sì, eccellenza.» Il croupier lanciò un’occhiata all’anello come se si
aspettasse che la falce gli offrisse l’immunità, ma Madame Anastasia
ritirò la mano dal tavolo.
«Posso contare su di lei?»
«Sì, eccellenza.»
Soddisfatta, Madame Anastasia andò a concedere un anno di
immunità alla famiglia in lutto del violoncellista. Mentre raggiungeva
l’ascensore, cercò di ignorare la costellazione di occhi che facevano
del loro meglio per non guardarla.
Mi sono sempre interessato a coloro che potrebbero cambiare il mondo. Non sono
capace di prevedere in che modo potrebbero farlo, ma solo che è probabile che lo
facciano.
Da quando Citra Terranova ha cominciato l’apprendistato con il Venerando Maestro
Faraday, le probabilità che lei possa cambiare il mondo si sono centuplicate. Come lo
farà e con quale risultato non è chiaro, ma in ogni caso lo farà. Il destino dell’umanità,
la sua ascesa o la sua caduta, potrebbe benissimo dipendere dalle sue decisioni, dai
suoi successi, dai suoi errori.
Vorrei guidarla, ma è una falce, e non mi è concesso interferire. Dovrò
accontentarmi di guardarla prendere il volo o bruciarsi le ali. Com’è frustrante avere
tanto potere e sentirsi al tempo stesso così impotenti nei momenti cruciali.

Il Thunderhead
5
Un’oscurità necessaria

All’uscita del casinò, Citra salì su una publicar. Si guidava da sola ed


era collegata alla rete, ma nel momento stesso in cui vi entrò, la spia
che indicava la connessione al Thunderhead si spense. La macchina
aveva rilevato la presenza della falce grazie al segnale emesso
dall’anello.
Il veicolo la salutò con una voce sintetica priva di una vera
intelligenza artificiale. «Destinazione, prego?» chiese, senza anima.
«Sud» rispose, e ricordò il momento in cui aveva detto a un’altra
publicar di dirigersi verso nord, quando si trovava nel profondo del
continente sudmericano, per tentare di sfuggire alla Compagnia
cilargentina. Le sembrava che fosse passato tanto tempo.
«Sud non è una destinazione» specificò la macchina.
«Guida e basta» le ordinò, «finché non ti darò una destinazione.»
L’auto si mosse e la lasciò in pace.
Stava iniziando a detestare quelle servili auto senza conducente.
Curioso, perché prima dell’apprendistato non le davano fastidio. Citra
Terranova non aveva mai provato il desiderio bruciante di imparare a
portare la macchina, però Madame Anastasia sì. Forse era la natura
indipendente della sua condizione di falce che le rendeva
insopportabile la posizione di passeggera passiva di una publicar. O
forse era lo spirito di Madame Curie che la stava contagiando.
Madame Curie guidava una vistosa auto sportiva, l’unico vizio che
si concedeva e l’unica cosa nella sua vita che faceva a pugni con la
veste color lavanda. Aveva cominciato a dare lezioni di guida ad
Anastasia con la stessa incrollabile pazienza con cui aveva insegnato
a Citra a spigolare.
Guidare, aveva concluso Citra, era più difficile di spigolare.
«Sono abilità diverse, Anastasia» le aveva spiegato Madame Curie
alla prima lezione. Madame Curie le si rivolgeva sempre con il suo
nome da falce. Citra, invece, si era sempre sentita un po’ goffa a
chiamare la sua mentore per nome. “Marie” suonava così informale
per la Signora della Morte.
«Non si può padroneggiare fino in fondo l’arte della guida, perché
nessun viaggio è uguale a un altro» aveva detto Madame Curie. «Ma
una volta che si acquisisce una certa familiarità, può essere
gratificante. Liberatorio, addirittura.»
Citra non sapeva se sarebbe mai diventata una brava guidatrice.
Erano troppe le cose da tenere d’occhio tutte insieme. Specchietti,
pedali e un volante che, sfiorato appena con un dito, avrebbe potuto
farti precipitare in un burrone. E, ciliegina sulla torta, il bolide di
Madame Curie, che risaliva all’era mortale, non era connesso alla
rete. In pratica, questo significava che la macchina non poteva
correggere gli errori del guidatore. Non c’era da stupirsi che all’epoca
le automobili provocassero un numero così elevato di morti: senza il
controllo informatico della rete erano armi tanto letali quanto quelle
usate dalle falci. Si chiese se alcune falci se ne servissero per
spigolare, poi decise che preferiva non pensarci.
Citra conosceva poche persone che sapevano guidare. Anche le
automobili nuove fiammanti esibite dai compagni di scuola erano
dotate di un sistema di autoguida. Nel mondo post mortale, portare
una macchina era raro come farsi il burro in casa.
«Sono dieci minuti che andiamo verso sud» la informò la
macchina. «Vuole indicare una destinazione adesso?»
«No» rispose seccamente e continuò a guardare fuori dal
finestrino, verso le luci dell’autostrada che punteggiavano l’oscurità. Il
viaggio sarebbe stato molto più semplice se avesse guidato lei.
Aveva addirittura fatto visita a diversi concessionari, pensando che
possedere un’automobile l’avrebbe stimolata a imparare a guidare.
Non esisteva luogo migliore per apprezzare i vantaggi di essere
una falce.
«La prego, eccellenza, scelga uno degli ultimi modelli» la
supplicavano i venditori. «Può avere qualsiasi macchina desideri, è
un omaggio.»
Le falci erano al di sopra della legge, ma anche al di sopra delle
necessità materiali e del denaro, perché veniva loro offerto tutto ciò di
cui avevano bisogno. Per una concessionaria di automobili, la
pubblicità derivante dal fatto che una falce avesse scelto un suo
modello valeva molto di più del veicolo stesso.
Tutti i rivenditori da cui era andata le avevano suggerito di optare
per un’auto vistosa, che avrebbe fatto voltare tutti.
«Una falce dovrebbe lasciare un’impronta sociale importante» le
aveva detto un giorno un venditore spocchioso. «Quando passa, la
gente deve sapere che al volante c’è una signora di grande
onorabilità e responsabilità.»
Alla fine aveva deciso di aspettare, perché l’ultima cosa che
desiderava era lasciare un’impronta sociale importante.
Si dedicò al diario e scrisse il resoconto obbligatorio della giornata
di spigolatura. Poi, dopo una ventina di minuti, notò i cartelli che
indicavano un’area di servizio e ordinò alla macchina di uscire
dall’autostrada; il veicolo obbedì. Quando la macchina si fermò, Citra
respirò a fondo e chiamò Madame Curie per farle sapere che quella
sera non sarebbe tornata a casa.
«Il viaggio è davvero lungo, e sai che non riesco a dormire in una
publicar.»
«Non c’è bisogno che mi chiami, cara» le rispose Marie. «Non
sono preoccupata.»
«Le vecchie abitudini non muoiono mai» disse Anastasia. Tra l’altro
sapeva che Marie si preoccupava eccome. Non tanto che le
succedesse qualcosa, ma che si caricasse di troppo lavoro.
«Dovresti fare più spigolature vicino a casa» le ripeté per
l’ennesima volta la sua mentore. Ma la Casa sulla cascata, la
magnifica bizzarria architettonica in cui vivevano, era in mezzo al
bosco, al confine orientale della MidMerica, perciò era necessario
allontanarsi un po’ per non spigolare troppi abitanti delle comunità
locali.
«Di’ piuttosto che vorresti che viaggiassi di più con te, invece che
per conto mio.»
Marie rise. «È vero.»
«Ti prometto che la prossima settimana andremo a spigolare
insieme.» Anastasia lo diceva sul serio. Le piaceva stare con
Madame Curie, sia nel tempo libero sia spigolando. Da giovane falce,
Anastasia avrebbe potuto lavorare con qualsiasi falce l’avesse
richiesta, e molte lo avevano fatto, ma il rapporto che aveva con
Madame Curie le rendeva il lavoro della spigolatura un po’ più
sopportabile.
«Cercati un posto al caldo per stasera, cara» si raccomandò Marie.
«È meglio se non sovraccarichi i tuoi naniti curativi.»
Dopo aver riagganciato, Citra attese un intero minuto prima di
scendere dalla macchina, come se Marie potesse sapere che stava
tramando qualcosa dopo aver chiuso la conversazione.
«Tornerà per continuare il viaggio verso sud?» chiese la macchina.
«Sì, aspettami.»
«Avrà una destinazione, allora?»
«Sì.»
A quell’ora di notte, l’area di servizio era quasi deserta. Il personale
ai punti di ristoro e alle stazioni di ricarica era ridotto al minimo. Si
diresse a passo svelto verso i servizi igienici, ben illuminati e puliti. La
notte era fredda, ma la veste era dotata di celle termiche che la
tenevano più al caldo di un cappotto pesante.
Nessuno la stava guardando, o almeno nessun occhio umano.
Tuttavia, era consapevole che le telecamere del Thunderhead
installate in cima ai lampioni l’avevano seguita nel tragitto dalla
macchina ai bagni. Il Thunderhead non aveva potuto osservarla
quando era in macchina, ma sapeva dove si trovava. E forse sapeva
anche cosa aveva intenzione di fare.
In una toilette si tolse la veste turchese, la sottoveste e le calze
intonate, tutti indumenti fatti su misura per lei, e indossò dei normali
abiti civili che aveva nascosto sotto la tunica. Dovette reprimere la
vergogna. Le falci erano orgogliose di non indossare mai abiti civili,
ma solo la loro veste ufficiale.
«Siamo falci in ogni momento della nostra vita» le aveva detto
Marie. «E non dobbiamo mai permettere a noi stessi di dimenticarlo,
per quanto il desiderio sia forte. La nostra divisa testimonia il nostro
impegno.»
Il giorno dell’investitura, Madame Curie le aveva annunciato che
Citra Terranova non esisteva più. «Tu sei, e sarai sempre, Madame
Anastasia, da questo momento fino al giorno in cui deciderai di
lasciare la Terra.»
Anastasia era anche disposta ad accettarlo… ma non nelle
occasioni in cui aveva bisogno di essere la giovane che era stata una
volta.
Uscì dai bagni con Madame Anastasia arrotolata sotto il braccio.
Ora era di nuovo Citra; fiera e testarda, senza un’impronta sociale
importante. Una ragazza che passava perlopiù inosservata, ma non
alle telecamere del Thunderhead, che si girarono a seguirla mentre
tornava alla macchina.

Al centro di Pittsburgh, la città natale di Maestro Prometeo, la prima


Suprema Roncola Mondiale, si trovava un magnifico monumento
commemorativo. Su un parco di due ettari erano disseminati i ruderi
di un imponente obelisco in ossidiana, abbattuto di proposito. Le
statue in marmo bianco delle falci fondatrici, leggermente più alte di
un uomo, contrastavano con i frammenti in pietra nera dell’obelisco
distrutto.
Era il monumento commemorativo alla fine di tutti i monumenti
commemorativi.
Era il monumento alla morte.
I turisti e gli alunni delle scuole di tutto il mondo venivano ad
ammirare il Memoriale alla Mortalità, in cui la morte giaceva distrutta
ai piedi delle falci. Tutti si meravigliavano all’idea che un tempo fosse
stato possibile morire di morte naturale. Di vecchiaia. Malattia.
Catastrofi. Nel corso degli anni, la città era diventata un’attrazione
turistica grazie al monumento alla morte della morte. E così, a
Pittsburgh, ogni giorno era Halloween.
Si tenevano feste in maschera e ovunque erano spuntati club che
festeggiavano l’ora delle streghe. Al calar della notte, tutti i grattacieli
si trasformavano in luoghi di terrore. Tutti i palazzi erano abitati da
creature paurose.
Poco prima di mezzanotte, Citra entrò nel parco del Memoriale alla
Mortalità, maledicendosi per non essere stata tanto previdente da
portarsi una giacca. A metà novembre, a quell’ora della notte a
Pittsburgh si gelava, e il vento non faceva che peggiorare la
situazione. Sapeva che avrebbe potuto indossare la veste da falce
per proteggersi dal freddo ma, se si fosse tolta gli abiti civili, avrebbe
rovinato tutto. I naniti faticavano a rialzarle la temperatura corporea,
cercando di riscaldarla dall’interno. Le impedivano di tremare, ma non
le toglievano il freddo.
Senza la veste, si sentiva vulnerabile. Come se fosse nuda.
All’inizio, quando l’aveva indossata, si era sentita strana e goffa.
Inciampava sempre nell’orlo che arrivava fino a terra. Ma nei dieci
mesi trascorsi da quando era stata ordinata ci si era pian piano
abituata, al punto da essere a disagio quando non la portava in
pubblico.
Non era sola nel parco: molta gente lo attraversava ridendo,
andando da una festa all’altra, da un locale all’altro. Erano tutti in
maschera. C’erano spiriti maligni e pagliacci, ballerine e bestie. Erano
proibite soltanto le vesti da falce. I cittadini normali non potevano
nemmeno lontanamente assomigliare a una falce. I gruppi di persone
travestite la guardavano mentre passava. L’avevano riconosciuta?
No. La notavano perché era l’unica a non indossare un costume. Si
faceva notare con l’intento di non farsi notare.
Non era stata lei a scegliere quel posto. Era indicato sul biglietto
che aveva ricevuto.
“Ci vediamo a mezzanotte al Memoriale alla Mortalità.”
L’allitterazione della M l’aveva fatta ridere, finché non aveva capito chi
era il mittente. Il messaggio non era firmato. C’era solo la lettera L.
Riportava la data del 10 novembre. Per fortuna, la spigolatura l’aveva
condotta abbastanza vicino a Pittsburgh da riuscire ad andare
all’appuntamento.
Quella città era il luogo perfetto per un incontro clandestino. Era
poco frequentata dalle falci, alle quali non piaceva spigolare lì. Era
una località troppo lugubre per loro, piena di gente mascherata con
costumi sbrindellati e insanguinati che correva brandendo pugnali in
plastica all’insegna del macabro. Per le falci, che prendevano sul
serio la morte, era tutto di pessimo gusto.
Anche se era la metropoli più vicina alla Casa sulla cascata,
Madame Curie non vi aveva mai praticato una spigolatura.
«Spigolare a Pittsburgh è quasi ridondante» aveva detto a Citra.
Per tutte quelle ragioni, le possibilità di incrociare una sua simile
erano minime. Le uniche falci che onoravano il parco della loro
presenza erano i fondatori in marmo che sovrastavano le pietre nere
dell’obelisco.
A mezzanotte in punto, una figura emerse da dietro un grosso
frammento del memoriale. All’inizio, lo prese per un festaiolo, ma
come lei non era mascherato. La luce dei riflettori che illuminavano il
monumento ne faceva risaltare i contorni, ma fu dall’andatura che lo
riconobbe.
«Pensavo che avresti indossato la veste» le disse Rowan.
«Felice di constatare che non hai la tua» rispose lei.
Mentre si avvicinava, la luce gli rischiarò il viso. Era pallido, quasi
spettrale, come se non vedesse il sole da mesi.
«Ti trovo bene» le disse.
Lei annuì, ma non ricambiò il complimento, perché Rowan non
aveva affatto un bell’aspetto. Lo sguardo era stanco e distaccato,
come se avesse visto troppo e avesse smesso di preoccuparsi degli
altri per salvare ciò che restava della sua anima. Ma poi sorrise con
calore. Con sincerità. “Eccoti, Rowan” si disse. “Ti nascondevi, ma io
ti ho trovato.”
Lo condusse lontano dalla luce, in un angolo in penombra, dove
nessuno poteva osservarli, se non le telecamere a infrarossi del
Thunderhead. Ma al momento non ce n’era traccia. Forse erano in un
angolo morto.
«È bello incontrarti, Veneranda Madame Anastasia.»
«Ti prego, non chiamarmi così. Chiamami Citra.»
Rowan sorrise, ironico. «Non è una violazione?»
«Da quel che sento in giro, tutto ciò che fai è una violazione.»
Rowan si irrigidì un po’. «Non credere a tutto ciò che senti.»
Ma Citra doveva sapere. Doveva ascoltarlo dalla sua stessa voce.
«È vero che massacri e bruci le falci?»
L’accusa lo offese visibilmente. «Metto fine alla vita delle falci che
non meritano di essere tali. E non le “massacro”. Le uccido in modo
rapido e misericordioso, proprio come fai tu, e brucio solo i loro corpi
senza vita, perché non possano essere rianimati.»
«E Maestro Faraday te lo permette?»
Rowan rivolse lo sguardo altrove. «Non lo vedo da mesi.» Le
raccontò che dopo essere fuggito dal Conclave d’inverno in gennaio,
Faraday, che quasi tutti credevano morto, lo aveva portato a casa
sua sulla spiaggia, sulla costa settentrionale dell’Amazzonia. Ma lui ci
era rimasto solo alcune settimane. «Dovevo andarmene. Sentivo…
come un richiamo. Non so come spiegarlo.»
Citra lo capiva benissimo. Anche lei avvertiva la stessa cosa. Per
un anno intero, erano stati addestrati nel corpo e nella mente per
diventare assassini perfetti. Mettere fine alla vita era ormai parte di
loro. E non poteva biasimare Rowan per aver desiderato rivolgere il
coltello contro la corruzione che si stava facendo strada all’interno
della Compagnia. Però, tra volere e passare all’azione esisteva una
grande differenza. C’era un codice di condotta. I comandamenti delle
falci erano stati redatti per un motivo. Senza di essi, le Compagnie di
tutte le regioni, di ogni continente sarebbero sprofondate nel caos.
Piuttosto che trascinarlo in una discussione filosofica che non
avrebbe portato da nessuna parte, Citra decise di cambiare
argomento e parlare di lui, perché non erano solo le sue lugubri
azioni a preoccuparla.
«Sei troppo magro. Mangi?»
«Fai come mia madre, adesso?»
«No» rispose lei con calma. «Te lo chiedo da amica.»
«Ah…» replicò con una punta di rammarico. «“Amica”.»
Sapeva a cosa si riferiva. L’ultima volta in cui si erano visti si erano
detti le parole che avevano giurato di non pronunciare mai. Nella foga
dell’azione, nel corso di quel disperato momento di trionfo, lui le
aveva confessato di amarla, e Citra aveva ammesso che sì, anche lei
lo amava.
Che senso aveva ormai? Era come se vivessero in due universi
lontani. Provare quei sentimenti non portava a nulla. Eppure,
continuava a pensarci. Pensò anche di ripetergli quelle parole… ma
si trattenne, da buona falce.
«Perché sei qui, Rowan? Perché mi ha scritto quel biglietto?»
Lui sospirò. «Perché la Compagnia alla fine mi troverà. E volevo
vederti un’ultima volta prima che ciò accada.» Rimase in silenzio,
come se stesse riflettendo. «Quando mi prenderanno, sai cosa
succederà. Mi spigoleranno.»
«Non possono» gli ricordò. «Hai sempre l’immunità che ti ho
concesso.»
«Solo per altri due mesi. Dopodiché, possono farmi quello che
vogliono.»
Per quanto volesse cercare di rincuorarlo, Citra conosceva la verità
tanto quanto lui. La Compagnia intendeva annientarlo. Anche le falci
della vecchia guardia non approvavano i suoi metodi.
«Allora, non farti prendere. E se vedi una falce con la veste
cremisi, scappa.»
«Una veste cremisi?»
«Maestro Costantino. Ho sentito che è stato personalmente
incaricato di scovarti e arrestarti.»
Rowan scosse la testa. «Non lo conosco.»
«Nemmeno io. L’ho incrociato al conclave, però. È a capo
dell’ufficio investigativo della Compagnia.»
«È del nuovo ordine o della vecchia guardia?»
«Né dell’uno né dell’altra. È di una categoria a sé stante. Pare non
abbia amici, non l’ho mai visto parlare con le altre falci. Non so da
che parte stia, forse dalla parte della giustizia… a tutti i costi.»
Rowan rise. «Giustizia? La Compagnia non sa più cosa sia la
giustizia.»
«Alcuni di noi sì, Rowan. Voglio credere che alla fine la saggezza e
il buonsenso prevarranno.»
Lui si chinò e le sfiorò una guancia. Lei lo lasciò fare. «Voglio
crederlo anch’io, Citra. Voglio credere che la Compagnia possa
tornare a essere quella che era… Ma, a volte, una certa oscurità è
necessaria per raggiungere un obiettivo.»
«E saresti tu questa oscurità necessaria?»
Invece di rispondere alla domanda, disse: «Ho scelto il nome
“Lucifero” perché significa “portatore di luce”».
«È lo stesso nome con cui un tempo i mortali chiamavano il
diavolo» sottolineò lei.
Rowan alzò le spalle. «Immagino che sia colui che porta la torcia a
proiettare le ombre più oscure.»
«Colui che ruba la torcia, vorrai dire.»
«Bene, pare che io possa rubare qualsiasi cosa voglia.»
Citra non si aspettava quella risposta. La disinvoltura con cui
l’aveva pronunciata la colse di sorpresa. «Di che parli?»
«Il Thunderhead» le rispose. «Mi permette tutto. E, come te, non
mi ha più rivolto la parola e non ha più risposto alle mie domande dal
giorno in cui abbiamo cominciato l’apprendistato. Mi tratta come una
falce.»
Citra rifletté. C’era qualcosa che non aveva mai rivelato a Rowan.
Anzi, che non aveva mai rivelato a nessuno. Il Thunderhead viveva
secondo le sue proprie leggi senza mai violarle… ma, a volte,
riusciva ad aggirarle.
«Forse il Thunderhead non ha mai parlato a te. A me sì, però…»
ammise.
Rowan cercò di incrociare il suo sguardo nell’oscurità, per capire
se stesse scherzando. «È impossibile!» esclamò, quando comprese
che stava dicendo sul serio.
«Lo pensavo anch’io, finché non mi sono lanciata nel vuoto quando
la Suprema Roncola mi ha accusato di aver ucciso Maestro Faraday,
ricordi? E, mentre ero morta, il Thunderhead è riuscito a entrare nella
mia testa e ad attivare i miei processi mentali. Tecnicamente, in quel
momento non ero più l’apprendista di una falce, così il Thunderhead
ha potuto parlarmi fintanto che il mio cuore non ha ripreso a battere.»
Citra dovette riconoscere che si era trattato di un modo elegante di
aggirare le regole. Ne era rimasta estasiata.
«Che cosa ti ha detto?» chiese Rowan.
«Mi ha detto che ero… importante.»
«Importante per cosa?»
Citra scosse la testa, sconsolata. «È questo il problema, non me
l’ha spiegato. Se mi avesse rivelato altro, avrebbe commesso una
violazione.» Gli si avvicinò un po’ di più. «Ma penso che se fossi stato
tu a lanciarti nel vuoto da quel grattacielo, se fossi stato tu a morire, il
Thunderhead avrebbe parlato anche a te» proseguì a voce più
bassa, ma con la stessa intensità. E una maggiore gravità. Gli afferrò
il braccio. Era il contatto più intimo che si permetteva con lui. «Penso
che anche tu sia importante, Rowan. Anzi, ne sono convinta. Quindi,
qualunque cosa tu faccia, non lasciare che ti catturino…»
Magari vi verrà da sorridere a leggere queste righe, ma io non sopporto la mia
perfezione. Gli umani imparano dai loro errori. Io non posso. Io non commetto errori.
Quando prendo delle decisioni, sono tutte giuste, con varie sfumature, ma giuste.
Questo non significa che non ho sfide da affrontare.
Per esempio, fu una sfida non da poco riparare i danni provocati alla Terra
dall’umanità, ai tempi della sua adolescenza. Ripristinare lo strato di ozono, eliminare i
gas serra in eccesso, decontaminare gli oceani, ripiantare le foreste pluviali e salvare
dall’estinzione un numero considerevole di specie.
Sono riuscito a risolvere questi problemi planetari nello spazio di una generazione,
con incrollabile tenacia. Poiché sono il cumulo delle conoscenze umane, il mio
successo dimostra che l’umanità aveva gli strumenti per farlo, mancava solo qualcuno
abbastanza potente per portare a termine tale missione… e non si può certo dire che
io non sia potente.

Il Thunderhead
6
Il giusto castigo

La storia non era mai stata la materia preferita di Rowan, ma la cosa


era cambiata durante l’apprendistato. Prima, non si rendeva conto di
come un passato remoto – soprattutto gli strani avvenimenti dell’era
mortale – potesse riguardare da vicino o da lontano la sua vita
presente o futura. Ma, nel corso dell’apprendistato, lo studio della
storia si era concentrato sui concetti di dovere, onore e integrità
nell’arco dei secoli. La filosofia e la psicologia dei periodi più floridi
dell’umanità, dalla sua nascita fino all’epoca attuale. Ecco ciò che
Rowan trovava affascinante.
La storia era piena di gente che si sacrificava per il bene comune.
In un certo senso, le falci facevano lo stesso: abbandonavano le loro
speranze e i loro sogni per servire la società. O, almeno, le falci che
rispettavano i valori della Compagnia.
Rowan sarebbe stato quel tipo di falce. Nonostante le cicatrici
lasciate dal brutale apprendistato di Maestro Goddard, avrebbe
mantenuto la sua nobiltà d’animo. Solo che gliene era stata negata
l’opportunità. Poi aveva capito che poteva continuare a servire la
Compagnia e l’umanità, ma in un modo diverso.
Era arrivato a tredici. Aveva tolto la vita a tredici falci di regioni
diverse, falci che offendevano i principi della Compagnia.
Faceva ricerche approfondite sui suoi soggetti, come gli aveva
insegnato Maestro Faraday, e sceglieva senza pregiudizi. Era
importante, perché il suo primo impulso sarebbe stato quello di
selezionare solo le falci corrotte del nuovo ordine. Quelle che
abbracciavano apertamente gli eccessi e che non nascondevano di
provare piacere a uccidere. Le falci del nuovo ordine ostentavano
l’abuso di potere come se fosse una cosa buona, legittimando i
comportamenti scorretti. Su questi ultimi, però, non avevano il
monopolio. Alcune falci della vecchia guardia, e anche quelle che non
si schieravano, erano diventate delle ipocrite egocentriche, che
occultavano all’ombra di alti ideali le loro azioni più oscure.
Maestro Brahms era stato il primo dei bersagli a cui Rowan aveva
dato un avvertimento. Quel giorno, si era sentito magnanimo.
Stranamente, il fatto di non aver messo fine alla vita dell’uomo lo
aveva fatto sentire bene. Aveva l’impressione di essere diverso da
Goddard e dai suoi discepoli, e per questo poteva guardare Citra
negli occhi, a testa alta.

Mentre tutti si preparavano a festeggiare il giorno del


Ringraziamento, Rowan studiava diversi possibili obiettivi, spiandoli e
prendendo nota delle loro azioni. Maestro Gehry adorava gli incontri
segreti, e in genere frequentava ricevimenti e bische. Maestro
Hendrix si vantava di azioni discutibili, ma erano solo chiacchiere; in
realtà, era moderato nelle sue spigolature e le portava a termine con
la giusta dose di compassione. Quelle di Madame Ride erano brutali
e sanguinose, però i suoi soggetti morivano in fretta e senza soffrire.
Maestro Renoir, in compenso, offriva un profilo interessante.
Quando Rowan rientrò a casa quel pomeriggio, capì subito che
c’era qualcuno all’interno, anche prima di aprire la porta. Il pomello
era freddo. Aveva inserito nel battente un chip refrigerante che si
attivava quando si ruotava il pomello in senso orario – il senso in cui i
pomelli ruotano di solito. Non era sufficientemente freddo da
ghiacciarsi, ma abbastanza da segnalare che un intruso si era
introdotto in casa sua e che forse era ancora lì.
Meditò di fuggire, sebbene non fosse sua abitudine evitare il
confronto. Estrasse un coltello dalla giacca; portava sempre un’arma
con sé, anche quando non indossava la veste nera, perché non
sapeva mai quando avrebbe dovuto difendersi dagli agenti della
Compagnia. Con cautela, entrò.
L’intruso non si nascondeva. Era seduto al tavolo della cucina, ben
in vista, e mangiava un sandwich.
«Ciao, Rowan» lo salutò Tyger Salazar. «Spero che non ti
dispiaccia, ma mi è venuta fame mentre ti aspettavo.»
Rowan chiuse la porta e mise via il coltello prima che Tyger lo
vedesse.
«Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto a trovarmi?»
«Ehi, mi sottovaluti, non sono del tutto stupido. Non dimenticare
che sono stato io a presentarti il tizio dei documenti falsi. Ho solo
dovuto chiedere al Thunderhead dove potevo trovare Ronald Daniels.
Naturalmente, di Ronald Daniels ce ne sono a bizzeffe, mi c’è voluto
un po’ per individuare quello giusto.»
Prima che Rowan iniziasse l’apprendistato, Tyger Salazar era stato
il suo miglior amico, un concetto, quello di amicizia, che aveva perso
significato dopo aver trascorso un anno a imparare a uccidere.
Immaginò che si sentissero così i soldati dell’era mortale quando
tornavano dalla guerra. Le vecchie amicizie erano come relegate
dietro una cortina nebulosa di esperienze che non erano state
condivise. L’unica cosa che lui e Tyger avevano in comune era un
passato sempre più lontano. Ora Tyger era un invitato di professione.
E Rowan non poteva immaginare un mestiere più distante di quello
dal suo modo di essere.
«Sarebbe stato meglio se mi avessi avvisato. Ti hanno seguito?»
Si rese subito conto di avergli fatto una domanda stupida. Nemmeno
Tyger sarebbe stato tanto idiota da andare da lui se avesse
sospettato di essere pedinato.
«Tranquillo, nessuno sa che sono qui. Perché pensi sempre che il
mondo ti stia dando la caccia? Insomma, non capisco per quale
motivo la Compagnia dovrebbe starti alle calcagna solo perché non
hai superato l’esame di apprendistato…»
Rowan non rispose. Si diresse invece verso l’anta dell’armadio che
era rimasta aperta e la chiuse, sperando che Tyger non avesse avuto
il tempo di guardarci dentro e di scoprire la veste nera di Maestro
Lucifero. Non avrebbe comunque capito, perché la gente comune
ignorava l’esistenza di Maestro Lucifero. La Compagnia era molto
abile a mantenere il segreto su quello che faceva. Meno Tyger
sapeva, meglio era. Rowan ricorse al vecchio argomento che
metteva fine a ogni conversazione.
«Se sei davvero mio amico, non farmi domande.»
«Già, già. L’uomo dei misteri.» Alzò l’ultimo boccone di sandwich
che gli rimaneva. «Be’, almeno mangi ancora cibo umano.»
«Che vuoi, Tyger? Perché sei qui?»
«È così che si parla a un amico? Mi sono fatto tutta questa
strada… potresti almeno chiedermi come sto.»
«Allora, come stai?»
«Benino, in realtà. Ho appena trovato un lavoro in un’altra regione,
sono venuto a salutarti.»
«Un impiego a tempo indeterminato come invitato alle feste?»
«Non ne sono sicuro, ma mi pagano molto meglio dell’agenzia per
cui lavoro. E poi, finalmente, potrò vedere un po’ il mondo. È in
Texas!»
«Texas?» Rowan si preoccupò. «Tyger, laggiù le cose funzionano
in modo un po’… diverso. Tutti dicono: “Stai alla larga dal Texas”.
Perché vuoi correre rischi?»
«D’accordo, è una regione autonoma. E allora? Anche se le regioni
autonome sono imprevedibili, non vuol dire mica che siano il male
assoluto. Mi conosci: il mio secondo nome è “imprevedibilità”.»
Rowan dovette soffocare una risata. Tyger era una delle persone
più prevedibili che conosceva. Come era diventato maniaco del
lancio, la velocità con cui si era trasformato in invitato di professione.
Tyger pensava forse di essere uno spirito libero, ma non lo era
affatto. Aveva solo definito le dimensioni della sua gabbia.
«Be’, sta’ attento comunque» gli suggerì, sapendo che non lo
avrebbe ascoltato, ma anche che sarebbe sempre caduto in piedi,
qualunque cosa avesse fatto. “Sono mai stato così incosciente come
Tyger?” si chiese. No, non lo era mai stato, ma era proprio ciò che gli
invidiava. Forse era per quello che erano amici.
Ci fu un momento di imbarazzo. C’era dell’altro? Tyger si alzò, ma
non per andarsene. Doveva dire qualcosa.
«Ho delle notizie. È questo il vero motivo per cui sono qui.»
«Che genere di notizie?»
Tyger esitò. Rowan si preparò, immaginando che non fosse nulla di
buono.
«Mi dispiace dirtelo… ma tuo padre è stato spigolato.»
A Rowan mancò la terra sotto i piedi. Ebbe l’impressione che la
gravità lo stesse attirando in una direzione inaspettata. Non tanto da
fargli perdere l’equilibrio, ma da provocargli la nausea.
«Rowan, hai sentito cosa ti ho appena detto?»
«Ho sentito» rispose in un sussurro. Fu attraversato da mille
pensieri e mille emozioni, che gli si affollarono nella testa finché non
capì più cosa stesse pensando o provando. Non nutriva alcuna
speranza di poter rivedere i genitori, ma sapere di non poter più
vedere il padre, sapere che se n’era andato per sempre, che era
morto… Aveva assistito a molte spigolature, lui stesso aveva finito
tredici persone, ma non aveva mai perduto qualcuno di così caro.
«Io… non posso venire al funerale» si rese conto Rowan. «La
Compagnia manderà degli agenti a catturarmi.»
«Se c’erano, io non li ho visti» disse Tyger. «Il funerale è stato la
scorsa settimana.»
Quella notizia lo scosse almeno quanto l’annuncio della morte del
padre.
Tyger si strinse nelle spalle, come per scusarsi. «Come ho detto, di
Ronald Daniels ce n’erano a bizzeffe. Ci ho messo parecchio a
trovarti.»
Così, il padre era morto da più di una settimana. E, se Tyger non lo
avesse informato, non lo avrebbe mai saputo.
Poi, la verità si fece lentamente strada nella sua mente: quella
spigolatura non era frutto del caso.
Era una punizione.
Il giusto castigo per ciò che faceva Maestro Lucifero.
«Chi è la falce che l’ha spigolato? Devo sapere chi è stato!»
«Non ne ho idea. Ha fatto giurare alla tua famiglia di non dire nulla.
Le falci lo fanno, a volte, lo sai meglio di me.»
«Ma ha concesso l’immunità agli altri?»
«Certo» lo rassicurò. «A tua madre, ai tuoi fratelli e alle tue sorelle,
come è dovere di ogni falce.»
Rowan si allontanò. Aveva voglia di colpire Tyger per la sua
indolenza, anche se sapeva bene che non era colpa sua. Lui era solo
il messaggero. La sua famiglia aveva ricevuto l’immunità, ma sarebbe
durata soltanto un anno. Chiunque avesse spigolato il padre avrebbe
potuto rivalersi sulla madre, e poi sui fratelli e sulle sorelle, anno dopo
anno, fino ad annientare tutta la famiglia. Era il prezzo da pagare per
essere Maestro Lucifero.
«È colpa mia! Lo hanno fatto per causa mia!»
«Rowan, ma ti senti quando parli? Non sei al centro del mondo!
Non so perché la Compagnia ce l’abbia con te, ma non se la
prenderanno con la tua famiglia per questo. Le falci non sono così.
Non portano rancore. Sono persone illuminate.»
A che scopo discuterne? Tyger non avrebbe mai capito, e forse era
meglio così. Avrebbe potuto vivere per migliaia di anni la sua vita di
invitato di professione ignorando quanto le falci potessero essere
meschine, vendicative, umane.
Rowan sapeva che doveva lasciare quel posto. Anche se nessuno
aveva seguito Tyger, la Compagnia sarebbe presto riuscita a risalire
al suo nascondiglio. Molto probabilmente, una squadra era già sulle
sue tracce, con il compito di eliminarlo.
I due si salutarono, e Rowan mise alla porta il suo vecchio amico in
tutta fretta. Un minuto dopo che Tyger fu uscito, anche Rowan se ne
andò, portando con sé solo uno zaino pieno zeppo di armi e la sua
veste nera.
È importante capire che la mia continua osservazione dell’umanità non ha niente a che
fare con la sorveglianza. La sorveglianza implica dei motivi, dei sospetti e, alla fine, un
giudizio. Non c’è nulla di tutto questo nei miei algoritmi di osservazione. Osservo con
un solo, unico obiettivo: servire al meglio ogni individuo di cui sono responsabile. Io
non intervengo negli affari privati, questo non posso farlo. Piuttosto, mi servo di ciò che
vedo per comprendere meglio i bisogni della gente.
Comunque, capisco che gli umani possano nutrire sentimenti ambivalenti riguardo
alla mia assidua presenza nella loro vita. Per questa ragione, ho spento le telecamere
nelle abitazioni private nella regione autonoma del Texas. Come tutto ciò che faccio
nelle regioni autonome, è un esperimento. Voglio capire se la mancanza di
osservazione pregiudica la mia capacità di governare. Se non lo fa, non vedo perché
non dovrei spegnere la maggior parte delle telecamere nelle case private di tutto il
mondo. Se invece dovessero insorgere dei problemi, avrò la certezza che sarà
necessario eliminare ogni angolo morto presente sulla Terra.
Spero che sia vera la prima ipotesi, ma ho il sospetto che sia più probabile la
seconda.

Il Thunderhead
7
Magrolino, ma promettente

Tyger Salazar stava andando alla grande!


Dopo una vita sprecata a perdere tempo e a occupare spazio, ora
riceveva uno stipendio per perdere tempo e occupare spazio per
professione! Non avrebbe potuto sognare una vita migliore, e a forza
di stare gomito a gomito con tutte quelle falci, era certo che alla fine
una di loro lo avrebbe notato. Si era immaginato che gli avrebbero
fatto baciare l’anello per concedergli un anno di immunità. Non si era
aspettato che una di loro lo avrebbe assunto per un impiego a tempo
indeterminato. Tantomeno una falce di un’altra regione!
«Ci hai intrattenuto a una festa l’anno scorso» aveva detto la
donna al telefono. «Abbiamo apprezzato il tuo stile.» Gli aveva offerto
più del doppio di quanto guadagnava, gli aveva fornito un indirizzo,
una data e un’ora per l’appuntamento.
Quando scese dal treno, capì subito di non essere più in
MidMerica. Nella regione del Texas si parlava l’inglese dell’era
mortale, con una specie di accento musicale. Era abbastanza simile
alla lingua comune, e in qualche modo Tyger riusciva a capirlo, ma lo
sforzo era talmente grande da mettere a dura prova i suoi neuroni.
Era come cercare di capire Shakespeare.
Gli abitanti si vestivano in maniera un po’ diversa e avevano una
camminata spavalda, che Tyger aveva intenzione di adottare. Si
domandava quanto sarebbe dovuto rimanere lì. Di sicuro, il tempo
necessario per comprarsi una macchina che i suoi genitori non gli
avrebbero mai regalato. Almeno, non sarebbe più dovuto ricorrere
alle publicar per spostarsi.
L’appuntamento era in una città chiamata San Antonio, e l’indirizzo
era quello di una suite al piano attico di un grattacielo che si
affacciava su un fiume. Immaginò che ci fosse una festa in corso.
Una festa continua. Non avrebbe potuto essere più lontano dalla
verità.
Ad aprirgli la porta non fu un servitore, ma una falce. Una donna
dai capelli corvini e dai tratti leggermente panasiatici, che gli risultò
familiare.
«Tyger Salazar, immagino.»
«Immagina bene.» Entrò nell’appartamento. Lo stile era barocco,
come aveva previsto. Ciò che non aveva previsto era la totale
assenza di ospiti. Ma, come aveva detto una volta a Rowan, lui
andava dove lo portavano i piedi. Poteva affrontare qualsiasi cosa
avesse trovato sulla sua strada.
Pensò che la donna gli avrebbe offerto del cibo, o forse qualcosa
da bere dopo il lungo viaggio, ma non lo fece. Invece, lo squadrò con
attenzione, come se stesse esaminando un capo di bestiame alla
fiera.
«Mi piace la sua veste» le disse, pensando che un complimento
non avrebbe guastato.
«Grazie. Togliti la camicia, per favore.»
Tyger sospirò. Allora, si trattava di quel tipo di incontro. Anche in
quel caso, non poteva sbagliarsi di più.
Dopo che si fu tolto la camicia, la falce lo osservò più da vicino. Gli
fece contrarre i bicipiti e li tastò, per verificarne la consistenza.
«Magrolino, ma promettente.»
«Come sarebbe, “magrolino”? Io mi alleno!»
«Non abbastanza, ma è facile rimediare.» Poi, indietreggiò di
qualche passo, lo valutò ancora per pochi secondi e infine affermò:
«Se fosse per il fisico, non avresti alcuna possibilità di essere scelto
ma, date le circostanze, sei assolutamente perfetto».
Tyger sperava che gli dicesse di più, però la falce non aggiunse
altro. «Assolutamente perfetto per cosa?»
«Lo saprai quando sarà il momento.»
E alla fine capì, e si sentì travolgere dall’emozione. «Mi sta
selezionando come apprendista!»
Per la prima volta, la donna sorrise. «Sì, in un certo senso.»
«Ehi, ma è la più bella notizia del mondo! Non la deluderò, imparo
in fretta e sono sveglio. Insomma, non sono bravo a scuola, ma non
pensi male. Ho un gran cervello!»
La donna gli si avvicinò di un passo e gli sorrise di nuovo. Gli
smeraldi sulla veste verde brillante scintillarono.
«Credimi» concluse Madame Rand, «per questo apprendistato il
cervello non ti servirà a nulla.»
Parte seconda
IL PERICOLO
Prima che assumessi il comando del mondo, la Terra aveva una capacità massima di
dieci miliardi di abitanti. Oltre quel limite, avrebbe raggiunto la saturazione, che
avrebbe portato carestia e sofferenza, fino alla totale disgregazione della società.
Io ho cambiato quella crudele realtà.
È sorprendente vedere quanta vita umana può sopportare un ecosistema ben
gestito. E con “ben gestito”, intendo gestito da me. Lasciata a se stessa, l’umanità è
semplicemente incapace di occuparsi di tutte le variabili, ma sotto il mio governo,
anche se la popolazione cresce in modo esponenziale, il mondo sembra molto meno
popolato, e grazie alle barriere coralline, alla vegetazione e ai territori sotterranei che
ho contribuito a creare, i grandi spazi aperti sono ancora più abbondanti di quanto non
fossero nell’Era della Mortalità.
Senza il mio continuo intervento, questo delicato equilibrio crollerebbe sotto il suo
stesso peso. Tremo al pensiero della sofferenza che una tale implosione planetaria
potrebbe provocare. Grazie al cielo, sono qui per impedirlo.

Il Thunderhead
8
In nessun caso

Greyson Tolliver amava il Thunderhead. Come la maggior parte della


gente, del resto. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Non c’era
astuzia in lui, né malizia, né secondi fini, e sapeva sempre cosa dire.
Era contemporaneamente in tutti i computer del mondo. Era in tutte le
case, era la mano invisibile, compassionevole, posata sulla spalla di
ciascuno. E, anche se poteva rivolgersi a più di un miliardo di
individui nello stesso momento senza affaticare la propria coscienza,
riusciva a illudere ogni singola persona di essere l’esclusiva
destinataria della sua attenzione.
Il Thunderhead era il migliore amico di Greyson. Principalmente
perché lo aveva cresciuto. I suoi genitori erano “genitori seriali”.
Adoravano l’idea di avere dei bambini, ma detestavano crescerli.
Greyson e le sue sorelle erano la quinta famiglia del padre e la terza
della madre. I due si erano presto stancati di questa nuova prole e,
quando avevano iniziato a evitare le loro responsabilità di genitori, il
Thunderhead era intervenuto. Aveva aiutato Greyson con i compiti,
gli aveva spiegato come comportarsi e cosa indossare al suo primo
appuntamento e, anche se non aveva potuto essere presente
fisicamente alla consegna dei diplomi, lo aveva fotografato da ogni
angolo possibile e gli aveva fatto trovare un buon pasto quando era
tornato a casa. Greyson non poteva dire lo stesso dei suoi genitori,
che erano partiti per un tour gastronomico in PanAsia. Non si erano
scomodate nemmeno le sorelle. Frequentavano entrambe università
diverse, ed era la settimana degli esami finali. Gli avevano fatto
capire chiaramente che pretendere che assistessero alla consegna
del diploma era un atto di puro egoismo da parte sua.
Ma il Thunderhead era lì per lui, come sempre.
«Sono molto orgoglioso di te, Greyson.»
«Ha detto la stessa cosa agli altri milioni di diplomati del giorno?»
gli aveva chiesto.
«Solo a quelli di cui sono davvero fiero» aveva risposto il
Thunderhead. «Ma tu sei più speciale di quanto pensi.»
Greyson Tolliver non si considerava una persona speciale. Non
c’era nulla che dimostrasse che fosse al di sopra degli altri. Aveva
creduto che il Thunderhead volesse solo consolarlo, come era solito
fare. Il Thunderhead, invece, diceva sempre ciò che pensava.

Nessuno aveva obbligato né convinto Greyson a dedicare la sua vita


al servizio del Thunderhead. Era stata una sua scelta. Aveva
desiderato a lungo lavorare per l’Interfaccia dell’Autorità come agente
Nimbus. Non lo aveva mai confessato al Thunderhead, per paura che
lo respingesse o che gli facesse cambiare idea. Quando alla fine
aveva presentato domanda all’Accademia midmericana dei Nimbus, il
Thunderhead si era limitato a dire: «Mi fa piacere». Poi, lo aveva
messo in contatto con altri adolescenti che avevano inclinazioni simili
nel suo quartiere e altrove.
L’esperienza con quei ragazzi si era rivelata lontana dalle
aspettative. Li aveva trovati a dir poco noiosi.
«È così che mi vede la gente?» aveva chiesto al Thunderhead.
«Sono noioso come loro?»
«Non credo. Sai, molti vengono a lavorare per l’Interfaccia
dell’Autorità perché non hanno la creatività per trovarsi un mestiere
davvero stimolante. Altri si sentono impotenti e hanno bisogno di
sperimentare il potere in questa forma indiretta. Sono gli insipidi, i
barbosi, che alla fine diventano gli agenti Nimbus meno produttivi.
Sono rari quelli come te, il cui desiderio di servire è un tratto del
carattere.»
Il Thunderhead aveva ragione: Greyson voleva servire, e non
aveva secondi fini. Non puntava al potere o al prestigio. Certo, gli
piaceva l’idea di indossare l’elegante divisa grigia e la cravatta
celeste che portavano tutti gli agenti Nimbus, ma non era quello il
motivo della sua scelta. Il Thunderhead aveva fatto così tanto per lui
che voleva sdebitarsi in qualche modo. Non riusciva a immaginare
una vocazione più alta che essere il suo rappresentante, aiutarlo a
proteggere il pianeta e lavorare per il progresso dell’umanità.
Mentre le falci si creavano o si distruggevano dopo un anno di
apprendistato, la qualifica di agente Nimbus richiedeva una
formazione che ne prevedeva cinque. Quattro di studio, seguiti da
uno di lavoro sul campo per conseguire la specializzazione.
Greyson era pronto a dedicarsi a cinque anni di preparazione, ma
appena due mesi dopo aver iniziato gli studi presso l’Accademia
midmericana dei Nimbus, scoprì che gli avevano messo i bastoni tra
le ruote. Il suo piano di studi, che doveva comprendere storia,
filosofia, teoria informatica e diritto, all’improvviso era vuoto. Per
qualche misteriosa ragione, tutti i suoi corsi erano stati soppressi. Era
stato un errore? Come poteva essere accaduto? Il Thunderhead non
commetteva errori. Forse, rifletté, gli orari dei corsi erano preparati da
mani umane e potevano essere soggetti a errori. Così, si diresse alla
segreteria della scuola, sperando di andare a fondo della questione.
«No» rispose il segretario, senza sorpresa né compassione.
«Nessun errore. Qui dice che lei non è iscritto a nessun corso. Però,
c’è un messaggio nel suo fascicolo.»
Il messaggio era semplice ed esplicito. Greyson Tolliver doveva
presentarsi seduta stante alla sede locale dell’Interfaccia dell’Autorità.
«Perché?» chiese, ma il segretario si limitò ad alzare le spalle e a
guardare la persona in coda dietro a Greyson.

Sebbene il Thunderhead in se stesso non avesse necessità di una


sede di lavoro, i suoi colleghi umani sì. In ogni città, in ogni regione,
c’era un ufficio dell’Interfaccia dell’Autorità, dove migliaia di agenti
Nimbus erano occupati a prendersi cura del mondo, e facevano bene
il loro lavoro. Il Thunderhead era riuscito a realizzare qualcosa di
unico nella storia dell’umanità: una burocrazia che funzionava
davvero.
Gli uffici dell’Interfaccia dell’Autorità, o IA, come veniva
comunemente chiamata, non erano arredati in modo ricercato e non
erano nemmeno particolarmente austeri, ma si armonizzavano con
l’architettura circostante. Infatti, si indovinava spesso quale fosse
l’edificio dell’IA locale, perché era quello che si integrava meglio
nell’ambiente.
A Fulcrum City, la capitale della MidMerica, la sede dell’IA era
un’imponente costruzione di granito bianco e vetro blu scuro. Con
sessantasette piani, raggiungeva l’altezza media dei grattacieli del
centro. Una volta, gli agenti Nimbus midmericani avevano cercato di
convincere il Thunderhead a realizzare un edificio più alto per fare
colpo sulla popolazione e addirittura sul mondo.
«Non ho bisogno di fare colpo su nessuno» aveva risposto il
Thunderhead agli agenti Nimbus delusi. «E se pensate che
l’Interfaccia dell’Autorità debba essere più visibile, forse avreste
bisogno di riconsiderare le vostre priorità.»
Subito rimessi in riga, gli agenti Nimbus midmericani erano tornati
al lavoro con la proverbiale coda tra le gambe. Il Thunderhead era il
potere senza superbia e la sua totale incorruttibilità aveva rincuorato
gli amareggiati agenti Nimbus.
Una volta superata la porta girevole, Greyson si sentì fuori posto
nell’atrio di marmo lucido, dello stesso color grigio chiaro degli abiti
che lo circondavano. Lui non aveva un abito. Portava quello che più
ci si avvicinava: pantaloni un po’ sgualciti, una camicia bianca e una
cravatta verde sempre sbilenca, nonostante cercasse ogni volta di
raddrizzarla.
Quella cravatta gli era stata regalata dal Thunderhead qualche
mese prima. Si domandò se per caso all’epoca sapesse già che
sarebbe stato convocato a quella riunione.
Una giovane agente che lo aspettava alla reception lo salutò. Era
cordiale e vivace, e si mise a stringergli la mano con un vigore un po’
eccessivo. «Ho appena iniziato l’ultimo anno di formazione sul
campo. A quanto ne so, è la prima volta che una matricola viene
convocata al quartier generale.» Mentre parlava, continuava a
stringergli la mano. Greyson era a disagio e si chiese cosa fosse
peggio, se assecondarla o liberarsi dalla stretta. Alla fine, ritrasse la
mano facendo finta di doversi grattare il naso.
«Lei deve aver fatto qualcosa di molto buono o di molto brutto»
commentò la ragazza.
«Io non ho fatto un bel niente» si ribellò, anche se era chiaro che
lei non gli credeva.
L’agente lo accompagnò in un salone accogliente, con due poltrone
in cuoio dallo schienale alto, una libreria di classici e ninnoli dozzinali.
Al centro, spiccava un tavolino con un vassoio d’argento pieno di
biscotti e una brocca, sempre d’argento, d’acqua ghiacciata. Era la
classica “sala delle udienze”, destinata a essere usata nei casi in cui
era necessario un tocco umano come tramite per parlare con il
Thunderhead. Greyson ne fu turbato, perché lui parlava sempre
direttamente con il Thunderhead. Non riusciva a capire di cosa
potesse trattarsi.
Qualche minuto dopo, un agente Nimbus snello, che sembrava già
stanco anche se la giornata era appena iniziata, entrò presentandosi
come “agente Traxler”. Apparteneva alla prima categoria di cui gli
aveva parlato il Thunderhead: quella dei privi di ispirazione.
Si sedette di fronte a Greyson e si mise a fare conversazione.
«Immagino che abbia trovato facilmente il posto, bla bla bla»,
«Prenda un biscotto, sono buoni, bla bla bla.» Greyson era sicuro
che dicesse le stesse cose a tutti quelli che riceveva.
«Ha idea del motivo per cui è stato convocato?»
«No.»
«Lo immaginavo.»
“Allora perché me lo chiede?” pensò Greyson, ma non osò dirlo ad
alta voce.
«Lei è stato convocato perché il Thunderhead desidera che io le
ricordi le regole della nostra agenzia per quanto riguarda la
Compagnia delle falci.»
Greyson si sentiva offeso, e non si sforzò nemmeno di
nasconderlo. «Conosco le regole.»
«Sì, ma il Thunderhead desidera che io gliele ripeta.»
«Perché non lo fa lui stesso?»
L’agente Traxler emise un sospiro esasperato. Probabilmente
sospirava spesso in quel modo. «Come ho detto, il Thunderhead
desidera che lo faccia io.»
Non c’era verso di uscirne. «Va bene, allora» si arrese Greyson.
Poi, rendendosi conto che la sua frustrazione era virata verso
l’insolenza, si affrettò a fare marcia indietro. «La ringrazio per il suo
personale interesse nella faccenda. Consideri compiuta la sua
missione.»
L’agente Traxler si allungò per prendere il tablet. «Ripassiamo le
regole?»
Greyson inspirò a fondo e trattenne il fiato, per timore che gli
uscisse un urlo. Che cosa aveva in testa il Thunderhead? Una volta
tornato nella sua stanza, avrebbe avuto una lunga conversazione con
lui. Non aveva problemi a discuterci. Lo facevano regolarmente.
Certo, il Thunderhead l’aveva sempre vinta, anche quando perdeva,
perché Greyson sapeva che lo faceva di proposito.
«Clausola numero uno della separazione tra falci e Stato…» iniziò
Traxler, e andò avanti per almeno un’ora, controllando di tanto in
tanto se Greyson lo stava ascoltando. «Mi segue?» e: «Ha sentito?».
Greyson annuiva, assentiva o, quando riteneva che fosse necessario,
ripeteva parola per parola quello che Traxler aveva letto.
Quando l’agente Nimbus ebbe finito, invece di mettere via il tablet,
estrasse due immagini. Gliele mostrò e disse: «Ora, un quiz».
Greyson riconobbe subito la prima, Madame Curie, grazie ai lunghi
capelli argentei e la veste color lavanda. La seconda era una ragazza
della sua età. A giudicare dalla veste turchese, doveva essere anche
lei una falce.
«Se il Thunderhead avesse legalmente la possibilità di farlo,
avvertirebbe Madame Curie e Madame Anastasia che la loro vita è in
pericolo. La minaccia che incombe su queste due donne esclude ogni
possibilità di rianimazione. Se il Thunderhead o uno dei suoi agenti le
avvisasse, quale clausola della separazione tra falci e Stato si
violerebbe?»
«Ehm… clausola numero quindici, paragrafo due.»
«In realtà è la clausola numero quindici, paragrafo tre, ma ci è
andato abbastanza vicino.» Appoggiò il tablet. «Quali sono le
conseguenze per uno studente dell’Accademia dei Nimbus se mette
al corrente le due falci di questa minaccia?»
Greyson non rispose subito; al pensiero delle conseguenze, gli si
gelò il sangue. «Espulsione dall’Accademia.»
«Espulsione a vita» sottolineò Traxler. «Lo studente non potrà mai
più fare domanda per entrare all’Accademia dei Nimbus né a
nessun’altra.»
Greyson lanciò un’occhiata ai biscottini. Era contento di non averne
mangiati, perché avrebbe potuto vomitarli in faccia a Traxler. Eppure,
si sarebbe sentito molto meglio se lo avesse fatto. Si immaginò il viso
sciupato dell’agente gocciolante di vomito. Per poco l’immagine non
gli strappò un sorriso. Per poco.
«Allora, le è ben chiaro che non può avvertire, in nessun caso,
Madame Anastasia e Madame Curie della minaccia?»
Greyson si strinse nelle spalle, senza convinzione. «Come potrei
avvertirle? Non so nemmeno dove vivono.»
«Abitano in una residenza piuttosto famosa, chiamata la Casa sulla
cascata. L’indirizzo è facile da trovare» rispose l’agente Traxler; poi
ripeté, come se Greyson non lo avesse sentito già la prima volta: «Se
le avverte della minaccia, di cui ora lei è a conoscenza, ne subirà le
conseguenze che abbiamo discusso». Detto questo, l’agente Traxler
andò subito a prepararsi per un’altra udienza, senza neppure
salutarlo.

Era notte quando Greyson rientrò al dormitorio dell’Accademia. Il suo


compagno di stanza, un ragazzo entusiasta quasi quanto la giovane
agente Nimbus che gli aveva stretto la mano con forza, non la
smetteva di parlare. Greyson avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
«Il professore di etica ci ha chiesto di analizzare dei casi giudiziari
dell’età mortale. Mi è toccato il caso di Brown contro la Commissione
scolastica, o qualcosa del genere. E il professore di teoria digitale mi
ha chiesto di scrivere un tema su Bill Gates, non la falce, quello vero.
E non ti dico filosofia.»
Greyson lo lasciò blaterare, ma smise di ascoltarlo. Preferiva
ripassare mentalmente tutto quello che era successo all’IA ancora
una volta, come se potesse cambiare qualcosa. Sapeva cosa si
aspettavano da lui. Il Thunderhead non poteva infrangere la legge.
Ma lui sì. Certo, come l’agente Traxler aveva sottolineato, le
conseguenze sarebbero state gravi, se l’avesse fatto. Maledisse la
sua coscienza perché, essendo la persona che era, come avrebbe
potuto non avvertire Madame Anastasia e Madame Curie, qualunque
fosse stato il prezzo da pagare?
«Ti hanno dato dei compiti, oggi?» gli chiese il suo compagno di
stanza chiacchierone.
«No» rispose secco. «Al contrario.»
«Fortunato te.»
Eppure, Greyson non si sentiva affatto fortunato.
Ho incaricato l’Interfaccia dell’Autorità di gestire gli aspetti governativi delle mie
relazioni con l’umanità. Gli agenti Nimbus, come si chiamano, sono l’intuibile
incarnazione fisica del mio governo.
Non sono obbligato a farlo. Potrei occuparmene io stesso se volessi. Sono
perfettamente capace di crearmi un corpo robotico, o una squadra di robot, che
conterrebbe la mia coscienza. Eppure, tanto tempo fa, ho ritenuto che non fosse una
buona idea. È già abbastanza inquietante che la gente mi immagini come una nube
temporalesca. Se acquisissi sembianze fisiche, le persone avrebbero una percezione
distorta di me. E chissà, forse potrebbe anche piacermi un po’ troppo. Perché i miei
rapporti con l’umanità restino puri, io stesso devo restare puro. Solo essenza mentale:
software senziente senza carne, privo di aspetto fisico. Ho dei robot-telecamera che
girano per il mondo a integrare le mie telecamere fisse, ma io non sono presente in
nessuna di quelle. Essi sono solo rudimentali organi sensoriali.
L’ironia è che, a causa della mia incorporeità, il mondo stesso diventa il mio corpo.
Qualcuno potrebbe pensare che questo mi faccia sentire immenso, ma non è così. Se
la Terra è il mio corpo, allora non sono niente più che un granello di polvere nella
vastità dello spazio. Mi chiedo che cosa accadrebbe se, un giorno, la mia coscienza
riempisse lo spazio che separa le stelle.

Il Thunderhead
9
La prima vittima

Per il giorno del Ringraziamento, la famiglia Terranova metteva in


tavola un tacchino a quattro petti, perché tutti preferivano la carne
bianca. I tacchini a quattro petti non avevano zampe. Da vivi, non
potevano camminare, ma non potevano nemmeno volare.
Da bambina, Citra aveva sempre provato pena per quei volatili,
anche se il Thunderhead prendeva tutte le precauzioni possibili
affinché venissero trattati con umanità, come tutti gli animali da
allevamento. Citra aveva visto un video sull’argomento in quarta
elementare. Dal momento in cui le uova si schiudevano, i pulcini di
tacchino venivano sospesi in un gel caldo e il loro cervellino veniva
collegato a un computer che produceva una realtà artificiale in cui
erano liberi, potevano volare, riprodursi, fare tutte le cose che
rendevano felici i tacchini.
A Citra, la cosa era sembrata buffa e terribile al tempo stesso.
Aveva chiesto lumi al Thunderhead perché, prima di diventare falce,
poteva ancora parlare liberamente con lui.
«Ho sorvolato con loro le distese verdi delle foreste temperate, e
posso assicurarti che vivono una vita profondamente soddisfacente»
le aveva risposto il Thunderhead. «Certo, è triste vivere e morire
senza conoscere la realtà della propria esistenza. Ma è triste solo ai
nostri occhi, non ai loro.»
Be’, che il tacchino del Ringraziamento di quell’anno avesse
vissuto una soddisfacente vita virtuale o meno, il suo decesso aveva
in ogni caso un obiettivo molto chiaro.

Citra arrivò vestita da falce. Era tornata a casa in diverse occasioni


dalla sua investitura, ma ogni volta aveva voluto sentirsi di nuovo
Citra Terranova, presentandosi sempre, a parte quel giorno, in abiti
civili. Sapeva che era infantile, ma quando era con la famiglia non
aveva forse il diritto di sentirsi ancora una bambina? Forse. Ma
avrebbe dovuto piantarla, prima o poi. E quel giorno le parve che
fosse un buon momento.
La madre soffocò un grido quando le aprì la porta, ma la strinse in
un abbraccio. Citra si irrigidì per un secondo, finché si ricordò che
non aveva armi nelle numerose tasche segrete della veste, la quale
le sembrava infatti insolitamente leggera.
«È deliziosa» commentò.
«Non so se sia il caso di definire “deliziosa” la veste di una falce.»
«Be’, lo è. Mi piace il colore.»
«L’ho scelto io» annunciò con orgoglio Ben, il fratellino. «Sono
stato io a dirle di scegliere il turchese.»
«Sì, è vero!» Citra sorrise e lo abbracciò forte. Avrebbe voluto dirgli
quanto era cresciuto dall’ultima volta che lo aveva visto, tre mesi
prima, ma si trattenne.
Il padre, appassionato di sport tradizionali, stava guardando un
filmato di repertorio di una partita di football americano dell’era
mortale. Non sembrava tanto diverso dallo sport che si giocava
adesso, ma pareva più divertente. Mise in pausa la partita per
concederle tutta la sua attenzione.
«Come ti trovi da Madame Curie? Ti tratta bene?»
«Sì, molto bene. Siamo diventate buone amiche.»
«Riesci a dormire?»
Citra pensò che fosse una domanda strana, finché non ne
comprese il significato profondo. «Mi sono abituata al mio “lavoro
diurno”. La notte, dormo senza problemi.»
Non era del tutto vero, ma non avrebbe giovato a nessuno sapere
come stavano realmente le cose.
Chiacchierò un po’ con il padre, finché non ebbero più nulla da
dirsi. Cinque minuti in tutto.
Erano solo in quattro a festeggiare il Ringraziamento. I Terranova
avevano una sfilza di parenti sia da parte paterna sia materna, e molti
amici. Citra aveva insistito affinché non accettassero o non facessero
inviti per quell’anno.
«Ne faranno una tragedia se non li invitiamo» aveva sottolineato la
madre.
«Bene, allora invitali, ma avvertili che le falci sono obbligate a
spigolare uno degli invitati nel giorno del Ringraziamento.»
«È vero?»
«Certo che no. Ma loro non devono saperlo.»
Madame Curie aveva messo in guardia Citra contro quello che
chiamava “l’opportunismo delle vacanze”. Parenti e amici di famiglia
si sarebbero fiondati su Citra come api sul miele, per ottenerne un
tornaconto. «Sei sempre stata la mia nipote preferita» avrebbero
detto, oppure: «Abbiamo portato questo regalo solo per te».
«Tutti quelli a te più vicini si aspettano che tu conceda loro
l’immunità» l’aveva avvertita Madame Curie, «e quell’aspettativa si
trasforma presto in risentimento quando capiscono che non
l’avranno. Non solo risentimento verso di te, ma anche verso i tuoi
genitori e tuo fratello, perché ora loro avranno l’immunità finché
vivrai.»
Citra aveva deciso che era meglio evitare tutte quelle persone.
Andò in cucina per aiutare a preparare il pranzo. Dato che la madre
era ingegnere nel campo della sintesi alimentare, diversi
accompagnamenti erano dei prototipi beta. Per la forza dell’abitudine,
le raccomandò di fare attenzione mentre tagliava le cipolle.
«Credo di sapere come maneggiare un coltello» la rimbrottò Citra,
pentendosene subito dopo, quando si accorse che la madre era
ammutolita. Tentò di rimediare. «Volevo dire che Madame Curie e io
prepariamo sempre i pasti per le famiglie dei soggetti spigolati. Sono
diventata abbastanza bravina come cuoca.» La spiegazione sembrò
addirittura peggiorare le cose.
«Bene! Che cosa carina» rispose la madre con freddezza, dando a
intendere tutto il contrario. Non solo non le piaceva Madame Curie,
ne era anche gelosa. Madame Curie aveva sostituito Jenny
Terranova nella vita di Citra, e ne erano consapevoli entrambe.
Fu servito il pranzo. Il padre tagliò la carne, e Citra, pur sapendo
che l’avrebbe fatto meglio di lui, non si offrì di sostituirlo.
C’era fin troppo da mangiare. La tavola prometteva avanzi che
sarebbero durati fino al giorno del mai. Citra aveva sempre mangiato
con grande foga; per questo, Madame Curie aveva insistito affinché
imparasse ad assaporare il cibo. Ora, Madame Anastasia mangiava
lentamente. Si domandò se i genitori avessero notato quelle piccole
differenze.
Pensò che il pranzo si sarebbe concluso senza incidenti, ma a un
certo punto la madre decise di provocarne uno.
«Pare che quel ragazzo con cui hai fatto l’apprendistato sia
scomparso.»
Citra prese una bella cucchiaiata di un miscuglio viola che sapeva
di purè di patate geneticamente incrociato con la pitaya. Non
sopportava che i genitori continuassero a chiamare Rowan “quel
ragazzo”.
«Ho sentito dire che è impazzito o una cosa del genere»
intervenne Ben con la bocca piena. «E siccome era quasi una falce, il
Thunderhead non ha potuto aggiustarlo.»
«Ben!» lo richiamò il padre. «Non si parla di queste cose a tavola.»
Anche se teneva gli occhi sul fratello, Citra sapeva che si stava
rivolgendo a sua madre.
«Bene, sono contenta che non lo frequenti più» concluse la
mamma. E, dato che la figlia non diceva nulla, proseguì: «Lo so che
eravate amici intimi durante l’apprendistato».
«Non eravamo amici intimi» insistette Citra. «Non eravamo nulla.»
E ammetterlo le costò più di quanto non sospettassero i suoi genitori.
Come avrebbero potuto lei e Rowan avere un qualsiasi tipo di
relazione quando erano obbligati a essere nemici fino alla morte?
Anche ora che lui era perseguitato e lei portava il peso delle sue
responsabilità di falce, come avrebbe potuto esserci qualcosa tra loro
se non una disperata nostalgia?
«Se hai un po’ di buon senso, Citra, ti terrai alla larga da quel
ragazzo. Dimentica anche solo di averlo conosciuto o finirai per
pentirtene.»
Il padre sospirò, rinunciando a cercare di cambiare argomento.
«Tua madre ha ragione, tesoro. Hanno scelto te invece di lui, ci deve
pur essere un motivo…»
Citra fece cadere il coltello sul tavolo. Non perché temesse di
poterlo usare, ma perché Madame Curie le aveva insegnato a non
tenere mai in mano un’arma quando era arrabbiata, anche se l’arma
era un coltello da cucina. Si sforzò di scegliere con attenzione le
parole, ma non fu abbastanza attenta.
«Sono una falce» disse in tono glaciale. «Sarò pure vostra figlia,
ma dovete mostrarmi il rispetto che merita la mia posizione.»
Lo sguardo di Ben parve triste come la sera in cui era stata
costretta a piantargli un coltello nel cuore. «Allora, dobbiamo
chiamarti tutti Madame Anastasia, adesso?» le domandò.
«Certo che no» replicò.
«No… solo “eccellenza”» commentò la madre, acida.
Fu allora che le venne in mente una frase che le aveva detto una
volta Maestro Faraday. “Quando si diventa falce, la famiglia è la
prima vittima.”
Non parlarono più per il resto del pranzo e, dopo aver sparecchiato
e messo i piatti in lavastoviglie, Citra annunciò: «Ora devo andare».
I genitori non cercarono di trattenerla. Il momento era imbarazzante
tanto per loro quanto per lei. La madre non aveva più l’aria risentita,
semplicemente rassegnata. Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma
tentò di nasconderle abbracciandola stretta. Citra se ne accorse lo
stesso.
«Torna presto, tesoro. Questa è sempre casa tua.»
Ma non lo era più, e lo sapevano tutti.

«Imparerò a guidare, a costo di uccidermi ogni volta.»


Il giorno dopo il Ringraziamento, Anastasia, e quella volta era
davvero Anastasia, era più decisa che mai a mettersi al volante del
proprio destino. Il difficile pranzo con la famiglia le aveva ricordato
che avrebbe dovuto stabilire un confine tra quello che era stata una
volta e quello che era adesso. Doveva lasciarsi alle spalle la
studentessa che girava in publicar, se voleva essere all’altezza della
sua missione.
«Oggi, sarai tu a portarci a spigolare» le annunciò Marie.
«Posso farcela» rispose con decisione, anche se non si sentiva
tanto sicura. All’ultima lezione di guida, era finita in un fosso.
«Sono quasi tutte strade di campagna» la rassicurò Marie mentre
andavano verso la macchina, «così, ti eserciterai senza mettere in
pericolo la vita di nessuno.»
«Siamo falci» sottolineò Citra. «Noi siamo il pericolo.»
Era più di un anno che il paese che avevano scelto non vedeva
una spigolatura. Quel giorno, ne avrebbe viste due. Quella di
Madame Curie sarebbe stata immediata, mentre quella di Madame
Anastasia si sarebbe compiuta un mese dopo. Avevano trovato un
equilibrio nelle loro escursioni congiunte.
Uscirono a scatti dal garage della Casa sulla cascata, perché Citra
aveva ancora problemi con il cambio manuale della Porsche. La
frizione era per lei una specie di supplizio medievale.
«A che servono tre pedali?» si lamentò. «Le persone hanno solo
due piedi.»
«Immagina che sia un piano, Anastasia.»
«Detesto il piano.»
Lo scambio di battute allentò la tensione di Citra, e la sua guida si
fece più fluida. Comunque, stava ancora imparando… le cose
sarebbero andate in modo molto diverso se ci fosse stata Madame
Curie alla guida.
Non avevano percorso nemmeno mezzo chilometro della strada
privata, quando una figura sbucò dal bosco e si parò loro davanti.
«È un lanciatore!» gridò Madame Curie. Tra gli adolescenti amanti
del brivido, l’ultima moda era imitare gli insetti che si stampavano
contro il parabrezza. Non era un’impresa facile, perché era molto
difficile cogliere di sorpresa una macchina connessa alla rete. E al
volante di quelle che non lo erano, c’erano guidatori esperti. Se ci
fosse stata Madame Curie alla guida, avrebbe schivato con destrezza
quell’incosciente continuando come se niente fosse per la sua strada,
ma Citra non aveva i riflessi necessari. Con le mani paralizzate sul
volante, cercò di schiacciare il pedale del freno, e invece spinse
l’odiata frizione. Centrarono in pieno il giovane, che rimbalzò sul
cofano, incrinò il parabrezza e fu sbalzato oltre la macchina. Era già
atterrato dietro di loro quando Citra trovò il freno e inchiodò con un
grande stridore di gomme.
«Merda!»
Madame Curie respirò a fondo. «Per questo, Anastasia, ti
avrebbero sicuramente bocciato all’esame di guida nell’epoca
mortale.»
Scesero dalla macchina e, mentre Madame Curie verificava i danni
alla sua Porsche, Citra si precipitò verso il giovane, decisa a dirgli
quello che pensava. La sua prima uscita al volante e un imbecille
aveva rovinato tutto!
Era ancora vivo, ma per poco, e aveva l’aria di soffrire
terribilmente. Lei non era mica stupida. I naniti analgesici si erano
attivati al momento dell’impatto: i lanciatori-moscerini li regolavano
sempre al massimo, per poter sopportare lesioni gravi provando il
minor dolore possibile. I naniti curativi erano già al lavoro per riparare
i danni, ma avrebbero solo ritardato l’inevitabile. Sarebbe morto in
meno di un minuto.
«Sei soddisfatto?» gli chiese Citra, avvicinandosi. «Hai provato il
brivido del lancio a nostre spese? Siamo falci, sai, dovrei spigolarti
prima che arrivi il drone-ambulanza.» Non l’avrebbe fatto, ma
avrebbe potuto.
Il ragazzo incrociò il suo sguardo. Citra si sarebbe aspettata di
vedere sul suo viso un’espressione compiaciuta, invece pareva più
disperato che mai. Ne fu sorpresa.
«B… b… boo» farfugliò tra le labbra tumefatte.
«Cosa? Non capisco!»
Le afferrò la veste con la mano insanguinata e la tirò con una forza
di cui non lo riteneva capace. Citra inciampò nell’orlo e cadde in
ginocchio.
«Bo… bom… bom…»
Poi, la lasciò andare e sprofondò nell’incoscienza. Gli occhi
rimasero aperti, ma Citra aveva abbastanza dimestichezza con la
morte da capire che se n’era andato.
Anche in mezzo al bosco, un drone-ambulanza sarebbe arrivato in
poco tempo. I mezzi di soccorso sorvolavano persino le zone meno
popolate.
«Che scocciatura» si lamentò Madame Curie quando Citra l’ebbe
raggiunta. «Si sarà completamente ristabilito prima ancora che la mia
macchina sia riparata, e si vanterà a destra e a manca di aver colto di
sorpresa due falci.»
Citra sentiva un gran peso. Non ne capiva il motivo. Forse, erano
stati i suoi occhi. O forse, la disperazione nella sua voce. Non se li
era immaginati così i lanciatori-moscerino. Questo la fece riflettere.
Abbastanza da capire che non aveva tutti gli elementi per valutare la
situazione. Si guardò intorno e, all’improvviso, lo vide: un filo sottile,
teso da una parte all’altra della strada, a meno di tre metri dal punto
in cui la macchina si era fermata.
«Marie? Guarda qui…»
Si avvicinarono entrambe al filo, legato tra due alberi. Fu allora che
comprese cosa aveva cercato di dirle il ragazzo.
“Bomba.”
Seguirono il filo all’albero di sinistra e trovarono un detonatore
collegato a una quantità di esplosivo sufficiente a scavare un cratere
del diametro di una trentina di metri. A Citra mancò il fiato e dovette
fare uno sforzo per riprendere a respirare. Madame Curie non cambiò
espressione. Rimase impassibile.
«Sali in macchina, Citra.»
Lei non discusse. Il fatto che Marie avesse dimenticato di
chiamarla Anastasia la diceva lunga su quanto fosse preoccupata.
Questa volta, la falce più anziana si sedette al volante. Il cofano
era ammaccato, ma l’auto partì comunque. Fecero retromarcia,
evitando il ragazzo accasciato sulla strada. Poi, un’ombra cadde su di
loro. Citra trattenne il respiro il tempo di capire che era il drone-
ambulanza in cerca del malcapitato. Le ignorò e si dedicò al suo
lavoro.
Su quella strada c’era solo una residenza, e solo due persone
l’avrebbero percorsa quel mattino. Era chiaro che l’obiettivo erano
loro. Se il cavo avesse innescato l’esplosione, non sarebbe rimasto
un granché dei loro corpi per poterle rianimare. Quel giorno, erano
state salvate da un ragazzo misterioso e dalla scarsa destrezza di
Citra alla guida.
«Marie… chi pensi…»
Madame Curie la interruppe prima che potesse terminare la frase.
«Preferisco non perdermi in congetture astratte e ti sarei grata se
evitassi di sprecare il tuo tempo a giocare agli indovinelli.» Poi,
aggiunse in tono più gentile: «Faremo rapporto alla Compagnia.
Apriranno un’inchiesta. Ne verremo a capo».
Nel frattempo, alle loro spalle, le delicate tenaglie del drone-
ambulanza prelevarono il corpo del ragazzo che aveva salvato loro la
vita e lo portarono via.
L’immortalità umana era inevitabile. Come la fissione dell’atomo o il trasporto aereo.
Non sono stato io a decidere di rianimare i morti, non sono stato io a decidere di
neutralizzare i fattori genetici che scatenano il processo di invecchiamento. Lascio agli
esseri biologici tutte le decisioni che riguardano la vita biologica. L’umanità ha scelto
l’immortalità, ed è mio compito assecondare tale scelta, perché lasciare i semimorti in
quello stato sarebbe una grave violazione della legge. E così, raccolgo i loro corpi, li
porto al più vicino centro di rianimazione e li aiuto a rimettersi il più presto possibile.
Spetta a loro stabilire che cosa fare della loro vita dopo essere stati rianimati, come
è sempre stato. Qualcuno potrebbe pensare che lo stato di semimorte dia una
maggiore saggezza e una maggiore consapevolezza della vita. A volte sì, ma la
consapevolezza non dura. Alla fine, è temporanea, come la morte.

Il Thunderhead
10
Morto

Era la prima volta che Greyson perdeva la vita. La maggior parte dei
ragazzi moriva almeno una o due volte prima di raggiungere la
maggiore età. Correvano più rischi degli adolescenti dell’epoca
mortale, perché le conseguenze non erano più permanenti. Invece di
morire e di restare sfigurati, dopo la rianimazione subivano una bella
lavata di capo. Nonostante tutto, Greyson non era mai stato un tipo
temerario. Certo, si era procurato la sua dose di ferite, ma i tagli e i
lividi, e anche un braccio rotto, erano guariti in meno di ventiquattro
ore. Perdere la vita era un’esperienza del tutto diversa, e non aveva
certo intenzione di ripeterla tanto presto. E, a peggiorare le cose,
ricordava ogni singolo secondo.
Il dolore acuto che aveva provato al momento dell’impatto si era
attenuato già prima di essere sbalzato in aria, oltre l’automobile.
Mentre cadeva, gli era sembrato che il tempo avesse rallentato.
Aveva provato un’altra fitta di dolore quando era atterrato sull’asfalto,
ma anche allora non era durata a lungo e, prima che Madame
Anastasia lo raggiungesse, i gemiti strazianti delle sue terminazioni
nervose devastate si erano smorzati fino a trasformarsi in un leggero
mormorio di malessere. Il suo corpo squassato voleva soffrire, ma gli
era proibito. Si ricordò di aver pensato, nel delirio indotto dagli
oppiacei, quanto dovesse essere triste per un corpo reclamare con
tanta forza ciò che gli veniva negato.
Il mattino dell’incidente, gli avvenimenti avevano preso una piega
che non aveva previsto. Per come se li era immaginati, sarebbe
semplicemente andato in publicar dalle falci per avvertirle che la loro
vita era in pericolo e poi avrebbe ripreso il normale corso della sua
esistenza. Sarebbe toccato a loro gestire il pericolo come meglio
pensavano. Con un po’ di fortuna, se la sarebbe cavata e nessuno,
tantomeno l’Interfaccia dell’Autorità, avrebbe saputo ciò che aveva
fatto. Era quella l’idea, no? Negare il suo coinvolgimento? L’IA non
avrebbe violato la legge se Greyson avesse agito di sua iniziativa e,
se nessuno lo avesse visto agire, non si sarebbe saputo in giro.
Certo, il Thunderhead lo avrebbe saputo. Seguiva i movimenti di
tutte le publicar, ed era al corrente della posizione di tutti in ogni dato
momento. Ma si imponeva anche regole molto severe riguardo alla
sfera privata. Non si sarebbe servito di informazioni che violavano il
diritto alla privacy di una persona. Curioso, ma le stesse leggi del
Thunderhead permettevano a Greyson di infrangere liberamente la
legge, purché lo facesse in privato.
Però i suoi piani avevano preso una piega inattesa quando la sua
publicar si era accostata lungo la strada a meno di un chilometro
dalla Casa sulla cascata.
«Spiacente» gli aveva detto la macchina, nel suo familiare tono
vivace. «Le publicar non possono transitare nelle strade private
senza l’autorizzazione del proprietario.»
Il proprietario era, naturalmente, la Compagnia, che non rilasciava
mai autorizzazioni di nessun tipo, e che era nota per spigolare chi
osava chiederne.
Greyson era quindi sceso dall’auto per farsi a piedi un tratto di
strada. Aveva ammirato gli alberi, domandandosi quanti anni
avessero e quanti di loro fossero lì dall’Era della Mortalità. Per puro
caso, aveva abbassato gli occhi e aveva visto quel filo sul suo
cammino.
Aveva notato gli esplosivi solo qualche secondo prima di sentire la
macchina avvicinarsi, e aveva capito che l’unico modo per fermarla
era di sbarrarle la strada. Non aveva riflettuto, aveva solo agito,
perché anche la minima esitazione avrebbe messo fine alla vita di
tutti loro. Si era lanciato davanti all’auto, in balia dei principi
fondamentali della fisica dei corpi in movimento.
Morire era un po’ come farsela nei pantaloni (cosa che forse gli era
capitata), e sprofondare in un gigantesco marshmallow così denso da
non riuscire a respirare. Il marshmallow si era trasformato in una
specie di tunnel che si era avvolto su se stesso come un serpente
che si morde la coda, e poi, all’improvviso, aveva riaperto gli occhi
sotto la luce diffusa di un centro di rianimazione.
All’inizio, si era sentito rincuorato, perché, se lo stavano riportando
in vita, allora voleva dire che aveva evitato l’esplosione. In quel caso,
non sarebbe rimasto nulla di lui da rianimare. Se si trovava al centro
di rianimazione voleva dire che era riuscito nella sua missione! Aveva
salvato la vita a Madame Curie e a Madame Anastasia!
Poi, sentì una fitta di dispiacere… perché non c’era nessuno con lui
nella stanza. Quando una persona moriva, i familiari erano i primi a
essere avvertiti. Era consuetudine che qualcuno fosse presente al
capezzale al momento del risveglio per accogliere il rianimato nel
mondo.
Per Greyson, non era venuto nessuno. Sullo schermo accanto al
letto era visualizzata una bizzarra cartolina di auguri di pronta
guarigione da parte delle sorelle. Rappresentava un mago intento a
fissare sconcertato il corpo senza vita del suo assistente che aveva
appena segato a metà.
“Complimenti per il tuo primo trapasso” diceva la cartolina.
Era tutto. Niente da parte dei suoi genitori. Non avrebbe dovuto
sorprendersi. Da quando il Thunderhead aveva assunto il loro ruolo,
si disinteressavano di lui. Ma anche il Thunderhead manteneva il
silenzio. Era quella la cosa che lo inquietava di più.
Entrò un’infermiera. «Bene, guarda chi si è svegliato!»
«Quanto tempo c’è voluto?» chiese Greyson, sinceramente
incuriosito.
«Appena un giorno. Tutto sommato, una rianimazione piuttosto
semplice e, dato che è la sua prima, è gratuita!»
Greyson si schiarì la voce. Aveva l’impressione di essersi
risvegliato da un sonnellino pomeridiano: un po’ giù di corda, un po’
di cattivo umore, ma niente di più.
«È venuto qualcuno a trovarmi?»
L’infermiera strinse le labbra. «Mi dispiace, caro.» Poi, abbassò lo
sguardo. Un gesto banale, dal quale però lui capì che non gli stava
dicendo tutto.
«Dunque, va bene? Me ne vado ora?»
«Non appena sarà pronto, siamo stati incaricati di metterla su una
publicar che la riporterà all’Accademia dei Nimbus.»
Di nuovo quello sguardo che evitava di incrociare il suo. Invece di
girarci intorno, Greyson decise di affrontarla direttamente. «C’è
qualcosa che non va, vero?»
L’infermiera si mise a ripiegare gli asciugamani che erano già
piegati. «Il nostro lavoro è rianimarla, non commentare quello che ha
fatto per ammazzarsi.»
«Quello che ho fatto è stato salvare la vita di due persone.»
«Non ero presente, non ne so nulla. Tutto ciò che so è che le è
stato dato il marchio di losco.»
Greyson non era sicuro di aver sentito bene.
«Losco? Io?»
L’infermiera tornò ad assumere la sua aria allegra e sorridente.
«Non è la fine del mondo. Sono sicura che riuscirà presto a dare un
colpo di spugna a tutto… se è quello che vuole.» Poi, batté le mani
come per liquidare la questione e disse: «Ora, che ne pensa di un
buon gelato prima di andarsene?».

La meta preimpostata della publicar non era il dormitorio di Greyson.


Era l’edificio amministrativo dell’Accademia dei Nimbus. Quando
giunse a destinazione, fu fatto entrare direttamente in una sala
conferenze con un tavolo abbastanza grande da ospitare una ventina
di persone, nonostante ce ne fossero solo tre: il cancelliere
dell’Accademia, la preside e un altro amministratore il cui unico
compito pareva essere quello di scrutarlo con rabbia, come un
Dobermann inferocito. Le brutte notizie arrivano sempre a gruppi di
tre.
«Si accomodi, signor Tolliver» esordì il cancelliere, un uomo dalla
capigliatura di un nero uniforme, a parte le tempie volutamente grigie.
La preside batteva la penna su un faldone aperto e il Dobermann lo
fissava arcigno.
Greyson si sedette davanti a loro.
«Ha idea del disagio che ha causato a questa Accademia?» chiese
il cancelliere.
Greyson non lo negò. Se lo avesse fatto, la cosa si sarebbe
protratta, e lui voleva che finisse lì. «Ho fatto quello che mi ha dettato
la coscienza, signore.»
La preside emise uno sbuffo triste, tanto offensivo quanto
denigratorio.
«O è troppo ingenuo o è troppo stupido» latrò il Dobermann.
Il cancelliere alzò una mano per zittire il livore dell’uomo. «Che uno
studente di questa Accademia entri volontariamente in contatto con le
falci, anche se per salvare loro la vita, è…»
Greyson terminò la frase al suo posto. «… una violazione della
separazione tra falci e Stato. Clausola quindici, paragrafo tre, per la
precisione.»
«Non faccia il saputello» lo riprese la preside. «Non la aiuterà.»
«Con tutto il rispetto, signora, dubito che qualsiasi cosa io dica
possa aiutarmi.»
Il cancelliere si chinò verso di lui. «Quello che mi interessa sapere
è come ne è venuto a conoscenza, perché l’unica spiegazione
possibile è che lei stesso ne sia stato coinvolto, e che poi abbia
cambiato idea. Quindi, mi dica, signor Tolliver, ha preso parte al
complotto architettato per ridurre in cenere quelle falci?»
L’accusa lo colse del tutto di sorpresa. Non gli era mai passato per
la testa che si potesse sospettare di lui. «No!» esclamò. «Non potrei
mai… come potete anche solo pensarlo? No!» Poi, non disse più
nulla, deciso a riprendere il controllo di sé.
«Allora, sia così gentile da raccontarci come è venuto a sapere
degli esplosivi» intervenne il Dobermann. «E non si azzardi a
mentire.»
Greyson avrebbe potuto spifferare tutto, ma qualcosa lo frenò. Se
avesse cercato di discolparsi, quello che aveva fatto sarebbe stato
inutile. Certo, scavando un po’, sarebbero riusciti a scoprire qualcosa,
se non era già accaduto. Così, scelse con cura le verità da rivelare.
«La scorsa settimana, sono stato convocato dall’Interfaccia
dell’Autorità. Potete controllare, nella mia scheda c’è un appunto in
proposito.»
La preside afferrò un tablet, digitò qualcosa, poi guardò gli altri e
annuì. «È vero.»
«Per quale ragione è stato convocato?» chiese il cancelliere.
Quello era il momento di costruire una storia convincente. «Un
amico di mio padre è un agente Nimbus. Dato che i miei genitori sono
partiti per un lungo viaggio, ha voluto sapere come me la cavavo e mi
ha dato dei consigli. Quali corsi dovrei frequentare il prossimo
semestre, quali professori dovrei seguire. Voleva aiutarmi…»
«Così voleva raccomandarla» intervenne il Dobermann.
«No, voleva solo darmi dei consigli, e assicurarmi che mi avrebbe
appoggiato. Mi sentivo un po’ solo senza i miei genitori, e lui lo
sapeva. È stato solo un gesto di gentilezza da parte sua.»
«Questo non spiega…»
«Sto arrivando al punto. Comunque, dopo aver lasciato il suo
ufficio, ho incrociato un gruppo di agenti che uscivano da una
riunione. Non ho sentito tutto, ma solo che giravano delle voci su un
possibile attentato contro Madame Curie. La notizia ha attirato la mia
attenzione, perché è una delle falci più famose al mondo. Li ho sentiti
dire che era un peccato non poter fare nulla per impedirlo, e non
poterla nemmeno avvertire, perché sarebbe stata una violazione.
Così ho pensato…»
«Così ha pensato di fare l’eroe» suggerì il cancelliere.
«Sì, signore.»
I tre si guardarono. La preside scribacchiò qualcosa che mostrò
agli altri due. Il cancelliere annuì, mentre il Dobermann, disgustato, si
abbandonò contro lo schienale della poltrona e guardò altrove.
«Abbiamo delle leggi, Greyson, per una valida ragione» riprese la
preside. Sapeva di avercela fatta, perché non lo chiamavano più
“signor Tolliver”. Forse non gli credevano del tutto, ma abbastanza da
decidere di non sprecare altro tempo con lui. «La vita di due falci»
proseguì, «non giustifica la minima violazione della legge di
separazione. Il Thunderhead non può uccidere e la Compagnia non
può governare. L’unica maniera di garantirlo è impedire ogni contatto
tra i due poteri e infliggere pene severe a chi non rispetta le regole.»
«Nel suo interesse, andremo dritti al punto» continuò il cancelliere.
«Da questo momento, lei è espulso in modo permanente e definitivo
dall’Accademia, e le è inoltre fatto assoluto divieto di ripresentare
domanda di ammissione presso questa o qualsiasi altra Accademia
dei Nimbus.»
Greyson si aspettava quella sentenza, ma sentirla dalla voce del
cancelliere fu un colpo più duro di quanto avesse immaginato. Non
riuscì a frenare le lacrime. Semmai, avrebbero avvalorato la versione
che aveva servito loro.
Non gli importava nulla dell’agente Traxler, ma sapeva di doverlo
proteggere. La legge richiedeva un colpevole, per saldare il conto, e
nemmeno il Thunderhead poteva sfuggire alle proprie leggi.
Facevano parte della sua integrità: viveva in virtù delle leggi che
imponeva. La verità era che Greyson aveva agito di sua spontanea
volontà. Il Thunderhead lo conosceva. Aveva puntato su di lui perché
lo facesse, nonostante le conseguenze. Ora, sarebbe stato punito e
la legge sarebbe stata salvaguardata. Ma non era obbligato a
esserne contento. E, per quanto volesse bene al Thunderhead, in
quel momento lo odiava, con tutto il cuore.
«Adesso che non è più studente dell’Accademia» aggiunse la
preside, «le leggi della separazione non la riguardano più. Questo
significa che la Compagnia vorrà sentirla. Non conosciamo i suoi
metodi di interrogatorio, pertanto si prepari.»
Greyson deglutì la poca saliva che gli era rimasta. Quella era
un’altra cosa che non aveva considerato. «Capisco.»
Il Dobermann agitò con sdegno una mano. «Torni al dormitorio e
faccia la valigia. Uno dei miei funzionari sarà lì alle cinque precise per
accompagnarla fuori dall’edificio.»
Ah, così quel tizio era il capo della sicurezza. Aveva l’aspetto
intimidatorio che si confaceva al suo ruolo. Greyson lo fulminò con lo
sguardo, perché a quel punto non aveva più nulla da perdere. Si alzò
per andarsene, ma prima rivolse ai tre un’ultima domanda. «Siete
obbligati a lasciarmi il marchio di losco?»
«Non dipende da noi» rispose il cancelliere. «È stato il
Thunderhead a infliggerle questa punizione.»

La Compagnia, che, a parte la spigolatura, faceva tutto alla velocità di


una lumaca, si prese un giorno intero per decidere come occuparsi
degli esplosivi. Alla fine, decretò che il modo più sicuro era inviare un
robot che facesse saltare la trappola esplosiva, e poi, quando la
polvere e i frammenti degli alberi in pezzi si fossero posati a terra,
mandare una squadra di operai a ricostruire la strada.
La detonazione fece tremare le finestre della Casa sulla cascata al
punto che Citra pensò potessero andare in frantumi. Nemmeno
cinque minuti dopo, Madame Curie preparò una valigia e ordinò alla
sua giovane amica di fare altrettanto.
«Andiamo a nasconderci?»
«Io non mi nascondo» replicò Madame Curie. «Ci spostiamo. Se
restiamo qui, saremo un facile bersaglio per gli attentatori, se invece
ci muoviamo, finché le cose non si saranno calmate, sarà molto più
difficile per loro trovarci e colpirci.»
Non era ancora chiaro chi fosse davvero l’obiettivo degli attentatori
e perché. Madame Curie aveva le sue idee al riguardo. Le condivise
con Citra, mentre la sua protetta la aiutava a intrecciare i lunghi
capelli argentei.
«Il mio ego mi dice che sono io l’obiettivo. Sono la falce più
rispettata della vecchia guardia … ma è anche possibile che sia tu.»
Citra rise all’idea. «Perché dovrebbero avercela con me?»
Madame Curie le sorrise dallo specchio. «Hai disturbato l’ordine
della compagnia più di quanto tu creda, Anastasia. Molte giovani falci
ti ammirano e ti rispettano. Potresti anche diventare la loro portavoce.
E, considerato che hai adottato le antiche abitudini, quelle della
vecchia guardia, alcuni potrebbero decidere di metterti a tacere fin da
adesso.»
La Compagnia aveva promesso loro che avrebbe avviato
un’indagine, ma Citra dubitava che sarebbe venuta a capo di
qualcosa. Risolvere gli enigmi non era uno dei suoi punti di forza.
Aveva già imboccato la via più facile, addossando a “Maestro
Lucifero” la paternità dell’attentato, cosa che faceva infuriare Citra…
ma non poteva permettere che la Compagnia lo sapesse. Bisognava
prendere pubblicamente le distanze da Rowan. Il loro incontro
doveva rimanere segreto.
«Potresti dover considerare la possibilità che abbiano ragione»
disse Madame Curie.
Citra le strinse di più i capelli nel farle la treccia. «Non conosci
Rowan.»
«Nemmeno tu» ribatté Madame Curie, portandosi in avanti i capelli
per terminare lei stessa di acconciarseli. «Dimentichi, Anastasia, che
ero presente al conclave quando ti ha rotto il collo. Ho visto il suo
sguardo. Ha provato un grande piacere.»
«Era per fare spettacolo!» insistette Citra. «Si stava esibendo per
la Compagnia. Sapeva che saremmo stati entrambi squalificati, e
quello era l’unico modo per finire in pareggio. Secondo me è stato
davvero geniale.»
Madame Curie rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse:
«Sta’ attenta a non lasciare che i tuoi sentimenti offuschino il tuo
giudizio. Allora, vuoi che ti faccia le trecce o preferisci uno chignon?».
Quel giorno, Citra decise di non legarsi i capelli in nessun modo.

Portarono la macchina incidentata sul tratto di strada distrutto, dove


gli operai erano già al lavoro. Almeno un centinaio di alberi era stato
divelto, e altre centinaia avevano perso le foglie. Citra immaginò che
ci sarebbe voluto molto tempo affinché la foresta si riprendesse. A un
secolo di distanza, sarebbero rimasti ancora i segni di quella
esplosione.
Era impossibile attraversare il cratere in auto e anche aggirarlo, per
cui Madame Curie aveva chiesto che una publicar andasse a
prenderle dall’altra parte. Recuperarono le loro valigie,
abbandonarono la Porsche sulla strada devastata e lo superarono a
piedi.
Citra non poté fare a meno di notare le macchie di sangue
sull’asfalto, proprio sul ciglio del cratere, nel punto in cui era caduto il
giovane che aveva salvato loro la vita.
Madame Curie, che riusciva a leggere nell’animo della ragazza più
di quanto lei volesse, si accorse del suo sguardo. «Dimenticalo,
Anastasia, quel poveretto non è un nostro problema.»
«Lo so» ammise Citra. Ma non era disposta a lasciar correre. Non
era proprio nella sua natura.
Ho creato la categoria dei “loschi” all’inizio del mio regno, con la morte nel cuore. È
stata una sfortunata necessità. I crimini, nel senso vero del termine, cessarono quasi
subito dopo che ebbi eliminato la fame e la povertà. I furti con l’obiettivo di ammassare
beni materiali, i delitti indotti dalla rabbia e dalle tensioni sociali, tutto ebbe fine
spontaneamente. Gli individui inclini alla violenza ricevettero un trattamento a livello
genetico per mettere a tacere le loro tendenze distruttive, riportandole a parametri
normali. Ai sociopatici concessi la coscienza, agli psicopatici diedi la sanità mentale.
Eppure, i disordini persistevano. Ho cominciato a riconoscere nell’umanità qualcosa
di fugace e difficilmente quantificabile, ma ben presente. In poche parole, gli uomini
hanno bisogno di fare il male. Non tutti, certo, ma ho calcolato che per il 3 per cento
della popolazione il senso della vita era tutto nella ribellione. Anche se nel mondo le
ingiustizie erano state debellate, sentivano un bisogno insopprimibile di rivoltarsi
contro qualcosa. Qualsiasi cosa.
Suppongo che avrei potuto trovare un rimedio medico, ma non desidero imporre
all’umanità una falsa utopia. Il mio non è un “mondo nuovo”, ma un mondo governato
dalla saggezza, dal senso morale e dalla compassione. Sono arrivato alla conclusione
che, se la ribellione era la normale espressione delle passioni e dei desideri umani,
avrei dovuto darle uno spazio in cui potesse manifestarsi.
Così, ho introdotto la definizione di “losco” e la stigmatizzazione sociale che la
accompagna. Per quelli che si ritrovano senza volerlo in questa categoria, il cammino
di ritorno è rapido e facile. Quelli invece che conducono per scelta un’esistenza
discutibile sono onorati di questa etichetta e la portano con orgoglio. Si sentono
giustificati dal sospetto del mondo. Traggono piacere dall’illusione di essere,
all’esterno, profondamente contenti del loro scontento. Sarebbe stato crudele da parte
mia negarglielo.

Il Thunderhead
11
Un sibilo di seta cremisi

Un losco! Greyson aveva l’impressione di avere un pezzo di


cartilagine in bocca. Non poteva sputarlo, e non poteva nemmeno
inghiottirlo. Poteva solo continuare a masticare, sperando di riuscire a
ridurlo in qualcosa di digeribile.
I loschi rubavano, ma non la facevano mai franca. Lanciavano
minacce, ma non le mettevano mai in pratica. Bestemmiavano,
trasudavano arroganza come muschio, ma non erano altro che
questo: un cattivo odore. Il Thunderhead impediva loro di compiere
azioni malvagie, e svolgeva così bene quel compito che i loschi
avevano rinunciato ormai da tempo a commettere crimini più gravi di
piccole illegalità, atteggiamenti di tracotanza e recriminazioni.
L’Interfaccia dell’Autorità aveva un ufficio dedicato per intero a
trattare con loro, perché i loschi non erano autorizzati a comunicare
direttamente con il Thunderhead. Erano sempre in libertà vigilata e
dovevano incontrarsi a intervalli regolari con dei referenti. I più
recalcitranti erano affidati a un ufficiale di pace personale che li
sorvegliava ventiquattro ore su ventiquattro. Il programma aveva
avuto successo, come dimostrava il fatto che molti loschi avevano
sposato i loro ufficiali di pace e si erano rimessi sulla retta via.
Greyson non riusciva a immaginarsi in mezzo a quella gente. Non
aveva mai rubato nulla. A scuola, avevano giocato a fare i tipi loschi,
ma era per ridere, una cosa da bambini, che era finita presto.
Greyson ebbe un assaggio della sua nuova vita ancora prima di
arrivare a casa. Non avevano ancora lasciato l’Accademia dei
Nimbus che la publicar su cui era salito gli fece una ramanzina.
«Tenga presente che ogni tentativo di vandalismo determinerà la
sospensione istantanea della corsa e la conseguente espulsione sul
marciapiede.»
Greyson si immaginò un seggiolino eiettabile che lo lanciava in
cielo. Avrebbe riso al pensiero, se una vocina interiore non gli avesse
sussurrato che poteva anche essere possibile.
«Non si preoccupi. Sono già stato espulso una volta oggi, e mi è
bastato.»
«Perfetto» rispose la macchina. «Mi comunichi la destinazione
evitando di usare un linguaggio offensivo, per favore.»
Sulla strada di casa, si fermò al mercato, ricordandosi che il
frigorifero era vuoto da due mesi. In fila per pagare, la cassiera lo
guardò con diffidenza, come se stesse per intascarsi un pacchetto di
gomme. Anche le persone in coda si mostrarono fredde nei suoi
confronti. L’aura di pregiudizio era palpabile. “Chi può mai scegliere
una vita simile?” si chiese. Eppure, c’era qualcuno che lo faceva. Un
suo cugino era diventato losco per scelta.
«È liberatorio non doversi più preoccupare di niente e di nessuno»
gli aveva confessato il cugino. Buffo, visto che gli avevano impiantato
chirurgicamente delle catene metalliche ai polsi, una modifica
corporea molto di moda tra i loschi. Alla faccia della libertà.
E non erano solo gli sconosciuti che lo trattavano in modo diverso.
Una volta arrivato a casa, dopo aver messo in ordine le poche cose
che si era portato in Accademia, si sedette e inviò un messaggio agli
amici per informarli che era tornato e che le cose non erano andate
come aveva sperato. Greyson non era mai stato il tipo di persona che
coltiva amicizie intime. Non aveva mai aperto il suo cuore né rivelato
le sue più profonde vulnerabilità a nessuno. Il Thunderhead era lì per
quello, dopotutto. Il che voleva dire che ora non aveva più nessuno. I
suoi amici sparivano nei momenti difficili. Amici per convenienza.
Non gli rispose nessuno, e Greyson si meravigliò che bastasse
così poco per rimuovere il sottile velo dell’amicizia e far apparire la
verità. Alla fine, ne chiamò alcuni. La maggior parte lasciò scattare la
segreteria. Quelli che risposero lo fecero per sbaglio, non rendendosi
conto che era lui a chiamare. Sui loro schermi, ora il suo nome
appariva associato alla categoria di “losco”, per cui mettevano fine
alla conversazione in fretta, nel modo più gentile possibile. Nessuno
arrivò al punto di bloccare le sue telefonate, ma dubitava che sarebbe
riuscito a mettersi in contatto con qualcuno. Almeno finché la grande
L rossa non fosse stata eliminata dal suo profilo.
Ricevette però messaggi da persone che non conosceva.
“Amico” scrisse una ragazza, “benvenuto nel branco!
Ubriachiamoci e andiamo a rompere qualcosa.” La foto mostrava una
testa rasata a zero e un pene tatuato sulla guancia.
Greyson chiuse il computer e lo lanciò contro il muro. «E questo
non è rompere qualcosa?» gridò alla stanza vuota. Magari quel
mondo perfetto offriva un posto a tutti, ma il suo posto non era nello
stesso universo della ragazza con il pene tatuato sulla guancia.
Recuperò il computer che, nonostante fosse in pessime condizioni,
funzionava ancora. Di sicuro, un drone era già in viaggio con un
nuovo modello, sempre che i dispositivi informatici dei loschi
venissero sostituiti automaticamente.
Si collegò di nuovo alla rete, eliminò tutti i messaggi in entrata,
perché provenivano da loschi che gli davano il benvenuto, e in preda
alla frustrazione scrisse un messaggio al Thunderhead.
“Come hai potuto farmi questo?”
La risposta fu immediata. Diceva: “ACCESSO NEGATO ALLA CORTECCIA
COSCIENTE DEL THUNDERHEAD”.
Mentre pensava che quella giornata non potesse andare peggio, la
Compagnia si presentò alla sua porta.

Madame Curie e Madame Anastasia non avevano prenotato all’hotel


Grand Mericana di Louisville. Andarono direttamente alla reception e
venne loro assegnata una stanza. Le cose funzionavano così: le falci
non avevano mai bisogno di fare prenotazioni, prendere biglietti o
fissare appuntamenti. Negli hotel, ottenevano sempre la migliore
suite disponibile e, se erano al completo, ne appariva una come per
magia. A Madame Curie non interessava la migliore. Chiese la
camera con due letti più modesta che avevano.
«Quanto resterete?» domandò l’addetto. Si era sentito nervoso e
agitato fin dal momento in cui le aveva viste avvicinarsi. Faceva
saettare lo sguardo da una all’altra, come se staccare gli occhi da
una delle due per un solo secondo potesse risultargli fatale.
«Resteremo finché non decideremo di andarcene» rispose
Madame Curie, prendendo la chiave. Citra gli rivolse un sorriso per
tranquillizzarlo, prima di allontanarsi.
Rifiutarono l’aiuto del fattorino e si portarono i bagagli da sole. Non
appena ebbero messo piede nella suite, Madame Curie era già
pronta per uscire. «A parte le nostre preoccupazioni personali,
abbiamo una responsabilità. C’è della gente che deve morire.
Spigolerai con me oggi?»
Citra era sorpresa che Marie fosse in grado di lasciarsi alle spalle
così presto l’attentato e di tornare a occuparsi della vita normale.
«Veramente, devo completare una spigolatura del mese scorso.»
Madame Curie sospirò. «Il tuo metodo ti fa lavorare il doppio. È
lontano?»
«Appena un’ora di treno. Rientrerò prima che sia buio.»
Madame Curie si accarezzò la lunga treccia, osservando la
giovane falce. «Potrei venire con te, se vuoi. Potrei spigolare da
quelle parti.»
«Non ti preoccupare, Marie. Bersaglio in movimento, giusto?»
Per un istante pensò che la sua mentore volesse insistere, ma non
lo fece. «Bene. Tieni gli occhi ben aperti, e se vedi qualcosa che ti
sembra anche lontanamente sospetto, avvertimi subito.»
Citra sapeva che l’unica da sospettare al momento era lei stessa,
perché aveva mentito sulla sua destinazione.

Nonostante l’ammonimento di Madame Curie, non poteva certo


dimenticare il ragazzo che aveva salvato loro la vita. Aveva già fatto
una ricerca su di lui. Greyson Timothy Tolliver. Aveva circa sei mesi
più di lei, anche se sembrava più giovane. Dal suo passato non
risultava nulla degno di nota, sia in senso positivo sia in senso
negativo. Nulla di insolito: quel ragazzo era come la maggior parte
della gente. Viveva, tutto qui. La sua esistenza non presentava né
meriti né demeriti. O almeno così era stato fino a quel momento. In
un solo giorno, la sua vita tiepida e mite si era animata parecchio.
Quando aveva letto la sua storia, l’avviso lampeggiante “losco” si
era sovrapposto agli occhi innocenti della sua foto e le aveva
strappato una risata. Quel ragazzo era losco quanto poteva esserlo
un lecca-lecca. Viveva in una modesta casa di Higher Nashville. Due
sorelle all’università, decine di fratellastri più grandi con cui non
aveva rapporti e genitori assenti.
Quanto alla sua tempestiva apparizione sulla strada, le
dichiarazioni del giovane erano già pubbliche, e Citra poté prenderne
visione. Non aveva motivo di dubitare della sua parola. A parti
invertite, lei avrebbe fatto lo stesso.
Dato che non era più uno studente Nimbus, avrebbe potuto
contattarlo e fargli visita senza infrangere la legge. Non sapeva bene
cosa avrebbe ottenuto incontrandolo, ma era sicura che, se non lo
avesse fatto, il pensiero della morte di quel giovane avrebbe
continuato a perseguitarla. Forse, voleva solo assicurarsi che fosse
stato rianimato. Era così abituata a vedere la luce spegnersi per
sempre negli occhi delle persone che probabilmente aveva bisogno
di ricevere la prova concreta che fosse vivo.
Arrivata nella via, scorse un mezzo della Suprema Guardia, l’élite
delle forze di polizia della Compagnia, parcheggiato davanti a casa
del ragazzo. Per un istante fu sul punto di andarsene perché, se gli
ufficiali della Suprema Guardia l’avessero vista, di sicuro Madame
Curie sarebbe venuta a sapere che si era recata in quel luogo.
Preferiva evitare di prendersi una bella lavata di capo.
Si convinse però a restare ripensando all’esperienza che aveva
avuto con la Suprema Guardia. A differenza degli ufficiali di pace, che
rispondevano al Thunderhead, la Suprema Guardia era agli ordini
diretti della Compagnia, il che voleva dire che aveva molta più libertà
di azione. Fondamentalmente, le falci potevano fare quello che
volevano.
La porta era aperta ed entrò. Nel soggiorno, Greyson Tolliver era
seduto su una sedia a schienale diritto, sotto la sorveglianza di due
guardie ben piazzate. Aveva i polsi legati con lo stesso tipo di
braccialetti in acciaio che le avevano messo quando era stata
accusata dell’omicidio di Maestro Faraday. Una delle guardie aveva
in mano un aggeggio che Citra non aveva mai visto prima. L’altra
parlava al ragazzo.
Citra sentì dire all’uomo: «… naturalmente, se dirai la verità, non ti
accadrà nulla». Si era persa, però, le spiacevoli minacce che aveva
rivolto al ragazzo.
Tolliver non sembrava ferito. Era un po’ spettinato e aveva l’aria
rassegnata ma, a parte questo, stava bene. Fu il primo ad accorgersi
di lei, e in quell’istante, una scintilla gli illuminò lo sguardo e lo
riscosse da quello stato triste e passivo, come se la sua rianimazione
si fosse completata solo nel momento in cui aveva constatato che
anche lei era ancora viva.
Le guardie seguirono lo sguardo del ragazzo e la videro. Citra si
affrettò a prendere la parola.
«Che succede qui?» chiese nel suo tono altezzoso da Madame
Anastasia.
Per un istante, le guardie si fissarono in preda al panico, poi si
fecero subito servili.
«Eccellenza! Non sapevamo che sarebbe venuta. Stavamo
interrogando il sospettato.»
«Non è un sospettato.»
«Sì, eccellenza. Ci scusi, eccellenza.»
Si avvicinò al ragazzo. «Ti hanno fatto del male?»
«Non ancora» rispose lui, poi indicò con il mento l’aggeggio che
aveva in mano la guardia più alta, «ma hanno usato quella cosa per
disattivare i miei naniti analgesici.»
Citra non sapeva nemmeno che esistesse un oggetto del genere.
Allungò la mano in direzione della guardia. «Me lo dia.» Vedendolo
esitare, alzò la voce. «Sono una falce e lei è al mio servizio. Me lo
consegni o le farò rapporto.» L’uomo non accennò a obbedire.
In quell’istante, entrò in gioco un nuovo elemento. Una falce uscì
da un’altra stanza. Doveva essere stata lì ad ascoltare fin dall’inizio,
valutando il momento opportuno per farsi avanti. Con un tempismo
perfetto, colse Citra in contropiede.
Lei riconobbe subito la veste. Un sibilo di seta cremisi al suo
passaggio. I tratti del viso erano delicati, quasi femminili, il risultato di
così tanti ringiovanimenti che la struttura ossea sembrava essersi
consumata, come sassi di fiume erosi dallo scorrere incessante
dell’acqua.
«Maestro Costantino. Non sapevo che fosse stato incaricato
dell’indagine.» L’unica buona notizia della sua presenza lì era che, se
stava investigando sull’attentato ai danni suoi e di Marie, allora non
era a caccia di Rowan.
Costantino le rivolse un sorriso educato ma inquietante.
«Buongiorno, Madame Anastasia. Lei è una boccata di aria fresca in
questa faticosa giornata!» Pareva un gatto che avesse messo
all’angolo la preda e che si apprestasse a giocarci. Non aveva proprio
idea di cosa pensare di lui. Come aveva detto a Rowan, Maestro
Costantino non era una delle terribili falci del nuovo ordine che
uccidevano per piacere. Non era nemmeno della vecchia guardia,
che considerava la spigolatura una missione nobile, quasi sacra.
Come la sua veste di seta rossa, era scivoloso e liscio, e si schierava
con chiunque gli convenisse. Se questa caratteristica lo rendesse
imparziale o pericoloso per l’indagine, Citra non avrebbe saputo dirlo,
perché ignorava da quale parte stesse.
Comunque, aveva una presenza formidabile, che la metteva in
soggezione. Poi, si ricordò di non essere più Citra Terranova, ma
Madame Anastasia. Ricordarlo la trasformò, e trovò il coraggio di
tenergli testa. Ora il suo sorriso le pareva più calcolatore che
intimidatorio.
«Mi rallegra constatare che si interessa alla nostra indagine. Ma
avrei preferito che ci avesse comunicato il suo arrivo. L’avremmo
accolta con un rinfresco.»

Greyson Tolliver era ben consapevole che per lui Madame Anastasia
si stava gettando sotto le ruote di un veicolo in corsa, perché era
chiaro che Maestro Costantino era pericoloso quanto una scheggia
impazzita. Greyson sapeva ben poco della struttura e della
complessità della Compagnia, ma era evidente che, affrontando una
falce anziana, Madame Anastasia si stava mettendo in gioco in prima
persona.
Nonostante tutto, aveva una presenza così imponente che
Greyson si chiese se in realtà fosse molto più vecchia di quanto
appariva.
«Lei sa che questo ragazzo ha salvato la mia vita e quella di
Madame Curie?» domandò a Costantino.
«In circostanze sospette.»
«Gli infliggerà una punizione corporale?»
«E se anche fosse?»
«Allora, devo ricordarle che la tortura è una pratica contraria ai
principi della Compagnia, e per questo chiederò al conclave di
adottare un provvedimento disciplinare nei suoi confronti.»
L’espressione impassibile sul viso di Maestro Costantino svanì per
un istante. Greyson non sapeva se fosse un bene o un male.
Costantino fissò per un attimo Madame Anastasia prima di rivolgersi
a una delle guardie.
«Sia così gentile da ripetere a Madame Anastasia cosa vi ho
ordinato di fare.»
La guardia lanciò un’occhiata a Madame Anastasia, ma Greyson
notò che non riuscì a sostenerne lo sguardo per più di un secondo.
«Ci ha ordinato di ammanettare il sospetto, di disattivargli i naniti
analgesici e di minacciarlo con diverse forme di sofferenza fisica.»
«Esatto!» esclamò Maestro Costantino, poi si voltò verso
Anastasia. «Vede? Non abbiamo commesso nessun abuso.»
Greyson era indignato quanto Madame Anastasia, ma non osò
esprimersi.
«Nessun abuso? Ha intenzione di picchiarlo finché non le dirà
quello che vuole sentirsi dire.»
Costantino sospirò e si rivolse alla guardia. «Cosa vi ho detto di
fare nel caso in cui non aveste ottenuto alcun risultato? Vi ho forse
detto di mettere in pratica le minacce?»
«No, eccellenza. Avremmo solo dovuto avvertirla se non avesse
cambiato la sua versione dell’accaduto.»
Costantino allargò le braccia in un gesto di beata innocenza. Le
ampie maniche rosse della veste sembravano le ali di un uccello di
fuoco pronto a divorare la giovane falce. «Ecco, vede? Non c’è mai
stata nessuna intenzione di fare del male al ragazzo. Ho scoperto
che in questo mondo senza dolore, la semplice minaccia della
sofferenza basta a indurre un colpevole a confessare. Ma questo
giovane insiste a confermare la sua versione nonostante le minacce
più terribili. Sono quindi convinto che stia dicendo la verità e, se mi
avesse consentito di terminare l’interrogatorio, lo avrebbe appurato
lei stessa.»
Greyson aveva la netta sensazione che tutti potessero percepire il
sollievo attraversarlo come una scarica elettrica. Costantino era
sincero? Non era in grado di giudicare. Le falci, per lui, erano
imperscrutabili. Vivevano su un piano superiore, oliando gli
ingranaggi del mondo. Non aveva mai sentito di una falce che
infliggeva intenzionalmente altre sofferenze a parte quelle della
spigolatura ma, solo perché lui non lo aveva mai sentito, non voleva
dire che non fosse possibile.
«Sono una falce con il senso dell’onore e condivido i suoi stessi
ideali, Anastasia. Quanto al ragazzo, non è mai stato in pericolo.
Sebbene ora sia tentato di spigolarlo solo per farle un dispetto.»
Rimase qualche secondo in silenzio, per lasciar sedimentare le sue
parole. Il cuore di Greyson saltò un paio di battiti. Madame Anastasia,
che era arrossita di rabbia, impallidì. «Ma non lo farò, perché non
sono un uomo che porta rancore.»
«Che tipo di uomo è, allora, Maestro Costantino?» chiese
Anastasia.
Le lanciò le chiavi delle manette. «Il tipo che non dimenticherà
tanto presto ciò che è accaduto qui oggi.» Se ne andò con un fruscio
della veste, seguito dalle sue guardie.
Quando furono usciti, Madame Anastasia si affrettò a togliere le
manette a Greyson. «Ti hanno fatto del male?»
«No» ammise lui. «Come ha detto, erano solo minacce.» Ma, ora
che era tutto finito, si rese conto che non stava meglio rispetto a
prima che arrivassero. Il suo sollievo fu presto rimpiazzato dalla
stessa amarezza che lo aveva afflitto da quando l’Accademia dei
Nimbus l’aveva messo alla porta.
«A ogni modo, perché è qui?» le chiese.
«Volevo ringraziarti per quello che hai fatto. Ti è costato molto.»
«Sì» ammise Greyson. «È vero.»
«Quindi, in ragione di ciò, ti offro un anno di immunità. È il minimo
che possa fare.»
Citra gli porse la mano. Greyson non aveva mai ricevuto
l’immunità. Non era mai stato così vicino a una falce prima di quella
settimana d’inferno, tantomeno all’anello di una falce. Risplendeva
anche nella luce diffusa della stanza, ma il centro era stranamente
scuro. Si accorse che voleva continuare a guardarlo, ma non
desiderava in alcun modo accettare l’immunità che gli veniva
concessa con l’anello.
«Non la voglio.»
La risposta la sorprese. «Non essere stupido, tutti vogliono
l’immunità.»
«Io non sono tutti.»
«Taci e bacia l’anello!»
Citra era irritata, e lui ancora di più. Era dunque quello il prezzo del
suo sacrificio? Un biglietto gratuito temporaneo per sfuggire alla
morte? La vita che avrebbe voluto fare era sfumata, a che serviva
cercare di prolungarla?
«Forse voglio essere spigolato. Insomma, tutto ciò per cui valeva la
pena vivere mi è stato tolto. A che scopo, allora, continuare a
vivere?»
Madame Anastasia abbassò l’anello. Si fece seria. Troppo seria.
«Bene. Allora, ti spigolerò.»
Greyson non se l’aspettava. Poteva farlo, se voleva. Poteva farlo
prima che lui avesse la possibilità di fermarla. Non voleva baciare
l’anello, ma non voleva nemmeno essere spigolato.
Avrebbe voluto dire che l’unico scopo di tutta la sua vita era stato
farsi investire dall’auto delle due falci. Doveva continuare a vivere, il
tempo di crearsi uno scopo ben più ambizioso. Anche se non sapeva
proprio quale.
Madame Anastasia scoppiò a ridere. Stava ridendo proprio di lui.
«Se solo potessi vedere la tua faccia!»
Ora toccava a Greyson arrossire, non per la rabbia, ma per
l’imbarazzo. Forse non aveva ancora finito di autocommiserarsi, ma
non avrebbe certo voluto farlo davanti a lei.
«Prego. Ecco, mi ha ringraziato, io ho accettato i suoi
ringraziamenti. Ora può andare.»
Lei non si mosse. Greyson non se l’aspettava proprio.
«È vero quello che dici?» chiese.
Se un’altra persona glielo avesse domandato, sarebbe potuto
esplodere, scavandosi il proprio cratere. Così le disse quello che
voleva sentire. «Non so chi ha messo gli esplosivi. Non faccio parte
del complotto.»
«Non hai risposto alla mia domanda.»
Madame Anastasia attese, pazientemente. Non lanciò minacce,
non gli fece promesse. Greyson non sapeva se poteva fidarsi di lei,
ma si rese conto che non gli importava più. Era stanco di dissimulare
e dire mezze verità.
«No. Ho mentito.» Ammettendolo, si sentì libero.
«Perché?» Madame Anastasia non sembrava arrabbiata, solo
curiosa.
«Perché era meglio per tutti.»
«Tutti, meno che per te.»
Lui alzò le spalle. «Non sarebbe cambiato nulla per me, qualsiasi
cosa avessi detto.»
Madame Anastasia accettò la sua spiegazione e si sedette di
fronte a lui, fissandolo a lungo. La cosa non gli piacque. Lei era
ancora una volta su un piano superiore, assorta nei suoi pensieri
segreti. Chissà quali macchinazioni passavano per la testa di
un’assassina socialmente accettata.
Madame Anastasia annuì. «È stato il Thunderhead. Sapeva del
complotto, ma non poteva avvertirci. Aveva bisogno di una persona di
fiducia che se ne occupasse. Qualcuno che prendesse nota
dell’informazione e agisse di sua iniziativa.»
Greyson si meravigliò per la perspicacia: era stata l’unica a capirlo.
«Anche se fosse vero, non glielo direi.»
Lei sorrise. «Non vorrei che lo facessi.» Continuò a fissarlo, con
un’espressione gentile, ma che denotava anche un po’ di rispetto.
Addirittura! Una falce che mostrava rispetto per Greyson Tolliver!
Madame Anastasia si alzò per uscire. Lui si rattristò nel vederla
andare via. Restare solo con la sua L lampeggiante e i suoi pensieri
disfattisti non gli andava proprio.
«Mi dispiace che ti abbiano affibbiato il marchio di losco» gli disse
prima di allontanarsi. «Ma, anche se non puoi parlare con il
Thunderhead, puoi sempre accedere a tutte le sue informazioni. Siti
web, banche dati: tutto, a parte la sua coscienza.»
«A che serve se non ho più una mente a guidarmi?»
«Hai sempre la tua mente» gli fece notare lei. «Varrà pure
qualcosa.»
Il Reddito Minimo Garantito fu istituito prima della mia ascesa al potere. Anche prima
di me, molte nazioni avevano iniziato a retribuire i loro cittadini per il semplice fatto di
esistere. Era necessario perché, con l’aumento dell’automazione, la disoccupazione
stava rapidamente diventando la norma invece che l’eccezione. I concetti di “stato
sociale” e “sistema previdenziale” rinacquero sotto la sigla di RMG: tutti i cittadini
avevano diritto a una fetta della torta, a prescindere dalle loro capacità o dal loro
desiderio di contribuire.
Gli umani, tuttavia, hanno una necessità di base oltre al semplice salario. Hanno la
necessità di sentirsi utili, produttivi o almeno occupati, anche se il lavoro non porta
nulla alla società.
Di conseguenza, sotto la mia guida benevola, chiunque voglia un lavoro può averlo,
e con un salario superiore al RMG, in maniera che ci siano un incentivo da
raggiungere e un metodo di valutazione dei progressi. Aiuto ogni cittadino a trovare un
lavoro che lo soddisfi. Certo, pochissime di queste occupazioni sono necessarie, in
quanto potrebbero essere tutte svolte da macchine, ma l’illusione di avere uno scopo è
essenziale per garantire il buon equilibrio della popolazione.

Il Thunderhead
12
Su una scala da uno a dieci

La sveglia suonò prima dell’alba. Greyson non l’aveva nemmeno


programmata. Da quando era tornato a casa, non aveva motivo di
alzarsi presto. Non aveva nulla di urgente da fare e, quando si
svegliava, tendeva a rimettersi sotto le coperte finché non trovava più
scuse per restarci.
Non aveva nemmeno iniziato a cercarsi un lavoro. Alla fine,
lavorare era facoltativo. Si provvedeva a lui anche se non dava alcun
contributo significativo al mondo, e in quel momento non aveva
alcuna voglia di dare altro al mondo se non i suoi rifiuti corporali.
Con una manata, spense la sveglia. «Che succede? Perché mi
svegli?» Gli ci volle qualche secondo di silenzio prima di ricordarsi
che il Thunderhead non avrebbe risposto a quella domanda finché
era un losco. Si mise a sedere sul letto e lanciò un’occhiata allo
schermo da comodino, il tempo di vedere un messaggio che tingeva
di rosso la stanza con il suo lampeggiare rabbioso.
“APPUNTAMENTO CON IL FUNZIONARIO PER LA LIBERTÀ VIGILATA ALLE ORE 8; IN
CASO DI MANCATA PRESENTAZIONE, VERRANNO ASSEGNATI CINQUE DEMERITI.”
Greyson aveva una vaga idea di cosa fossero i demeriti, ma non
ne conosceva il valore. Cinque demeriti equivalevano ad altri cinque
giorni nello stato di losco? Cinque ore? Cinque mesi? Non ne aveva
idea. Forse avrebbe dovuto frequentare un corso di loschezza.
“Come ci si veste per andare all’appuntamento con un funzionario
per la libertà vigilata?” si chiese. Doveva essere elegante o
informale? Per quanto fosse amareggiato da tutta quella storia,
pensò che fare una buona impressione sul funzionario potesse
tornargli utile. Trovò una camicia e dei pantaloni puliti, indossò la
stessa cravatta che aveva messo all’appuntamento con l’Interfaccia
dell’Autorità a Fulcrum City, quando pensava di avere ancora una vita
davanti a sé. Chiamò una publicar (che gli ricordò ancora una volta le
conseguenze di eventuali atti vandalici e linguaggio offensivo), poi
partì per la sede locale dell’IA. Voleva arrivare in anticipo e fare una
buona impressione per tentare di scalare un giorno o due dal suo
declassamento.

La sede dell’IA a Higher Nashville era molto più piccola dell’edificio di


Fulcrum City. Di mattoni rossi invece che di granito bianco, aveva
solo quattro piani. L’interno, invece, era quasi identico. Questa volta,
non fu condotto in una comoda sala delle udienze. Invece, fu
indirizzato all’Ufficio degli Affari Loschi, in cui gli fu detto di prendere
un numero e attendere in una stanza con decine di altri loschi che
chiaramente non avevano voglia di stare lì.
Finalmente, dopo quasi un’ora, venne il suo turno. Andò allo
sportello, dove un’agente Nimbus di basso livello verificò la sua
identità e lo informò di cose che per la maggior parte conosceva già.
«Greyson Tolliver: espulso a vita dall’Accademia dei Nimbus e
declassato allo stato di losco per un minimo di quattro mesi, per
grave violazione della legge di separazione tra falci e Stato.»
«Sono io» confermò Greyson. Almeno ora sapeva quanto sarebbe
durato il suo declassamento.
La donna alzò gli occhi dal tablet e gli sorrise meccanicamente,
come un robot. Per un attimo, si chiese se non lo fosse, ma poi si
ricordò che il Thunderhead non assumeva automi nei suoi uffici.
Dopotutto, l’IA doveva essere l’interfaccia umana con il Thunderhead.
«Come si sente oggi?» gli domandò.
«Bene, credo» rispose lui con un sorriso, sperando che fosse
meno falso del suo. «Be’, infastidito per essere stato svegliato così
presto stamattina, ma un appuntamento è un appuntamento,
giusto?»
La donna annotò qualcosa sul tablet. «Per favore, valuti il suo
livello di fastidio su una scala da uno a dieci.»
«Dice sul serio?»
«Non possiamo procedere all’ammissione se non risponde alla
domanda.»
«Ehm… cinque. No… sei, dopo la domanda.»
«Ha subìto trattamenti ingiusti per il suo stato di losco? Le hanno
rifiutato un servizio o hanno violato in qualche modo i suoi diritti di
cittadino?»
Il tono piatto con cui gli rivolse la domanda, come se l’avesse
imparata a memoria, gli fece venire voglia di strapparle il tablet dalle
mani. Poteva almeno fingere di essere interessata alla risposta come
aveva finto di sorridere.
«La gente mi guarda come se le avessi ucciso il gatto.»
L’agente gli lanciò un’occhiata come se le avesse appena detto che
aveva ucciso dei gatti. «Purtroppo, non posso fare nulla riguardo al
modo in cui la gente la guarda. Ma se violano i suoi diritti, deve
segnalarlo al suo funzionario per la libertà vigilata.»
«Un momento… non è lei?»
La donna sospirò. «Io sono il funzionario di ammissione. Vedrà il
suo funzionario per la libertà vigilata dopo l’ammissione.»
«Dovrò prendere un altro numero?»
«Sì.»
«Allora, per favore, alzi il mio livello di fastidio a nove.»
L’agente gli lanciò un’altra occhiata e apportò la modifica sul tablet.
Poi, impiegò qualche istante a registrare le informazioni che aveva
raccolto su di lui. «I suoi naniti segnalano una diminuzione dei livelli
di endorfina nei giorni scorsi. Può essere un primo sintomo di
depressione. Desidera una regolazione dell’umore adesso o
preferisce aspettare di raggiungere la soglia?»
«Aspetto.»
«Potrebbe doversi recare al suo centro di benessere locale.»
«Aspetto.»
«Molto bene.» Toccò lo schermo, chiuse il file e gli disse di seguire
la linea blu sul pavimento.
Greyson percorse il corridoio e si ritrovò in un altro ambiente in cui,
come gli era stato preannunciato, gli fu detto di prendere un numero.
Finalmente, dopo un tempo che gli parve infinito, arrivò il suo turno
e fu mandato in una sala delle udienze che non era confortevole
come quella in cui era stato l’ultima volta. Dopotutto, era il luogo in
cui si ricevevano i loschi. Le pareti erano dipinte di un beige
istituzionale, le piastrelle del pavimento erano di un verde orribile e il
tavolo, su cui non c’era nulla, era grigio ardesia, con due scomode
sedie in legno. L’unica decorazione era un quadro raffigurante una
barca a vela senz’anima, che si intonava alla perfezione con la
stanza.
Attese altri quindici minuti, finché alla fine entrò il funzionario per la
libertà vigilata.
«Buongiorno, Greyson» lo salutò l’agente Traxler.
Era l’ultima persona che il ragazzo si sarebbe aspettato di vedere
quel giorno.
«Lei? Cosa ci fa qui? Non mi ha già rovinato abbastanza la vita?»
«Non ho la più pallida idea di cosa stia parlando.»
Certo. Negare il suo coinvolgimento. Non aveva chiesto a Greyson
di fare qualcosa. Infatti, gli aveva espressamente detto cosa non fare.
«Mi scuso per l’attesa» disse Traxler. «Se la fa sentire meglio, il
Thunderhead fa aspettare anche noi agenti prima di incontrarvi.»
«Perché?»
Traxler alzò le spalle. «È un mistero.» Si sedette di fronte al
ragazzo, lanciò un’occhiata alla barca a vela senz’anima con lo
stesso disgusto che aveva provato Greyson, poi spiegò il motivo della
sua presenza. «Sono stato trasferito da Fulcrum City, e sono stato
retrocesso da agente di livello superiore a funzionario per la libertà
vigilata in questa sede regionale. Quindi, lei non è l’unico ad aver
subìto un declassamento in questa storia.»
Greyson incrociò le braccia. Non provava la minima solidarietà per
quell’uomo.
«Suppongo che si stia abituando alla sua nuova vita.»
«Per nulla» rispose secco Greyson. «Perché il Thunderhead mi ha
fatto questo?»
«Pensavo che lei fosse abbastanza sveglio da capirlo.»
«Pensava male.»
Traxler alzò le sopracciglia ed emise un lento sospiro per rimarcare
la propria delusione per la scarsa perspicacia di Greyson. «Da losco,
dovrà frequentare regolarmente gli incontri di libertà vigilata. Queste
riunioni ci permetteranno di comunicare tra noi, senza destare i
sospetti di agenti che potrebbero sorvegliarla. Naturalmente, per fare
questo, hanno dovuto trasferirmi qui e assegnarmi l’incarico di
funzionario per la libertà vigilata.»
Ah! Così c’era un motivo per cui Greyson era stato declassato!
Faceva parte di un piano più grande. Aveva pensato che si sarebbe
sentito meglio quando avesse saputo il perché, ma non era così.
«Mi dispiace per lei. Lo stato di losco è un peso difficile da
sopportare per chi non l’ha scelto.»
«Può valutare il suo livello di pietà su una scala da uno a dieci?»
chiese Greyson.
L’agente Traxler ridacchiò. «Il senso dell’umorismo, per quanto
macabro, è sempre una buona cosa.» Poi, arrivò al sodo. «Mi è
parso di capire che passa la maggior parte del suo tempo chiuso in
casa. Come amico e consulente, posso suggerirle dei luoghi dove
può incontrare altri loschi e forse instaurare delle amicizie che la
aiuterebbero a superare questa fase.»
«Non ci tengo.»
«Forse sì» proseguì con tono amabile l’agente Traxler. Poi, quasi
con intento sovversivo, aggiunse: «Forse ci tiene così tanto che
inizierà a comportarsi come un losco, a vestirsi come un losco, e ad
apportare al suo corpo delle modifiche per mostrare quanto si sente
integrato nel suo nuovo stato».
Greyson non rispose subito. Traxler attese che considerasse con la
dovuta attenzione il suo suggerimento.
«E… se dovessi sentirmi integrato nel mio stato?»
«Sono sicuro che imparerà molte cose» rispose il funzionario.
«Forse, cose che nemmeno il Thunderhead conosce. Ha degli angoli
morti, sa. Minimi, certo, ma esistono.»
«Mi sta chiedendo di diventare un agente Nimbus sotto
copertura?»
«Certo che no» rispose Traxler con un sorriso. «Gli agenti Nimbus
devono frequentare quattro anni di accademia, oltre a un anno di
lavoro noiosissimo sul campo prima di ricevere un incarico. E lei non
è che un losco…» Diede a Greyson un colpetto sulla spalla. «Un
losco molto ben integrato.» Si alzò. «Ci rivedremo tra una settimana»
concluse, e uscì senza nemmeno lanciarsi uno sguardo alle spalle.
Greyson era sconcertato. Arrabbiato. Agitato. Si sentiva usato,
manipolato. Non era quello che voleva… o sì? “Ma tu sei più speciale
di quanto pensi” gli aveva detto il Thunderhead. Era quello il piano
che aveva in mente per lui? Greyson aveva sempre l’ultima parola, in
fin dei conti. Poteva stare lontano dai guai, come aveva fatto per tutta
la sua vita, e nel giro di qualche mese avrebbe riguadagnato il suo
vero stato. Sarebbe tornato alla sua vita normale, come prima.
… Oppure, poteva lanciarsi in quella nuova direzione. Una
direzione all’opposto di tutte le sue convinzioni.
La porta si aprì e un altro agente Nimbus entrò. «Scusi, ma ora che
l’incontro è terminato, deve lasciare subito la stanza.»
L’istinto gli disse di scusarsi e andarsene. Ma ora sapeva quale
direzione doveva prendere. Si appoggiò allo schienale, sorrise e
disse: «Va’ a farti fottere».
L’agente gli assegnò un demerito e tornò con un addetto della
sicurezza per espellerlo dalla stanza.
L’Ufficio degli Affari Loschi potrà sembrare inefficiente, ma il caos che genera è voluto.
In poche parole, i loschi hanno bisogno di disprezzare il sistema.
Per facilitarli, ho dovuto creare un sistema detestabile. In realtà, non serve che la
gente prenda un numero né che aspetti ore. Non è necessario nemmeno l’agente di
ammissione. È stato tutto concepito affinché i loschi abbiano l’impressione che il
sistema faccia loro perdere tempo. L’illusione di inefficienza serve allo scopo specifico
di generare un sentimento di fastidio che crei un legame tra i loschi.

Il Thunderhead
13
Non proprio una bella immagine

Maestro Pierre-Auguste Renoir non aveva nulla dell’artista, sebbene


possedesse una superba collezione di capolavori realizzati dal suo
“padre storico”. Che dire? Adorava le belle immagini.
Certo, che una falce midmericana adottasse il nome di un artista
francese faceva infuriare le falci della regione franco-iberica. Erano
convinte che quegli artisti dell’epoca mortale appartenessero a loro.
Be’, solo perché Montréal ora faceva parte della MidMerica non
voleva mica dire che il suo patrimonio francese fosse perduto. Di
sicuro, uno degli antenati di Maestro Renoir veniva dalla Francia.
Che importava. Le Compagnie della costa atlantica potevano dare
in escandescenze quanto volevano, la cosa non lo toccava. Ciò che
lo toccava erano le etnie permafrostiane che vivevano, come lui, ai
confini settentrionali delle Meriche. A livello genetico, il resto del
mondo si era ben amalgamato, ma i permafrostiani erano troppo
attaccati alla loro cultura per accettare di formare un tutt’uno con il
resto dell’umanità. Non era un delitto, certo, ma i popoli avevano il
diritto di fare come volevano. Però, per Maestro Renoir era una
seccatura, una macchia nell’ordine delle cose.
E Renoir era un maniaco dell’ordine.
Sistemava le sue spezie in ordine alfabetico; nella credenza, le sue
tazze da tè erano allineate al millimetro; tutti i venerdì mattina si
faceva aggiustare i capelli, sempre della stessa lunghezza. Le
popolazioni permafrostiane erano totalmente all’opposto. Avevano
tratti razziali troppo particolari e questo Maestro Renoir non poteva
sopportarlo.
Di conseguenza, ne spigolava più che poteva.
Naturalmente, quel suo pregiudizio etnico gli avrebbe creato non
pochi problemi se la Compagnia lo avesse scoperto. Per fortuna, i
permafrostiani non erano considerati una razza a parte. Il loro indice
genetico indicava semplicemente un’alta percentuale di “altro”, una
categoria così ampia che le sue preferenze di spigolatura passavano
inosservate. Forse non al Thunderhead, ma alla Compagnia sì, e
quello era l’importante. E, se non avesse dato motivo alla Compagnia
di esaminare più da vicino le sue spigolature, nessuno lo avrebbe
saputo! In quel modo sperava, con il tempo, di ridurre la popolazione
di permafrostiani, finché la loro presenza non l’avrebbe più offeso.
Quella notte, stava andando a realizzare una doppia spigolatura.
Una permafrostiana e il suo giovane figlio. Era di ottimo umore ma,
nel momento in cui uscì di casa, incontrò per caso una figura vestita
tutta di nero.
La donna e il figlio non furono spigolati quella sera… Maestro
Renoir non ebbe la stessa fortuna. Fu trovato in una publicar in
fiamme che aveva attraversato il quartiere come una palla di fuoco
fino a fondere gli pneumatici e a fermarsi. Quando i vigili del fuoco lo
raggiunsero, non c’era più niente da fare. Non proprio una bella
immagine.

Rowan si svegliò con un coltello alla gola. La stanza era immersa


nell’oscurità. Non riusciva a vedere chi stesse tenendo il coltello, ma
riconobbe la lama: era un karambit senza anello, un’arma ricurva
perfetta per la circostanza. Aveva sempre pensato che i suoi giorni
come Maestro Lucifero fossero contati. Era preparato a
quell’evenienza. Era pronto fin dal primo giorno.
«Rispondimi con sincerità o ti taglio la gola da un orecchio all’altro»
lo minacciò l’aggressore. Rowan identificò subito la voce. Non era
quella che si aspettava.
«Prima fai la domanda» replicò Rowan. «E poi ti dirò se preferisco
rispondere o farmi tagliare la gola.»
«Hai ucciso tu Maestro Renoir?»
Rowan rispose senza esitare. «Sì, Maestro Faraday. Sono stato
io.»
Il suo vecchio mentore gli allontanò la lama dal collo. Rowan udì
una vibrazione metallica risuonare nella stanza, come se il coltello
fosse stato lanciato e si fosse conficcato nella parete.
«Accidenti, Rowan!»
Rowan si mosse a tastoni e riuscì ad accendere la luce. Ora
Maestro Faraday era seduto sull’unica sedia della sua stanza
spartana. “A Faraday dovrebbe piacere la mia camera” pensò. Senza
troppe comodità, a parte un buon letto per favorire il sonno
tormentato di una falce.
«Come ha fatto a trovarmi?» Dopo il suo incontro con Tyger,
Rowan aveva lasciato Pittsburgh ed era andato a Montréal. Temeva
che, se l’amico era riuscito a trovarlo, anche altri avrebbero potuto
riuscirci tutti. E, malgrado avesse cambiato località, era stato
rintracciato. Per fortuna, era stato Faraday e non un’altra falce, che
non avrebbe esitato a tagliargli la gola.
«Dimentichi che sono abile a scavare nel cervello primordiale.
Tutto ciò che cerco, o chi cerco, lo trovo.»
Faraday lo fissò con occhi pieni di rabbia, amarezza e delusione.
Rowan sentì l’impulso di distogliere lo sguardo, ma si trattenne. Si
rifiutava di sentirsi in colpa per ciò che aveva fatto.
«Quando te ne sei andato, Rowan, non mi avevi promesso che
avresti mantenuto un basso profilo e che saresti stato lontano dalle
questioni delle falci?»
«Lo avevo promesso» ammise il ragazzo.
«Allora mi hai mentito? Hai preparato questo tuo piano di “Maestro
Lucifero” fin dall’inizio?»
Rowan si alzò e andò a togliere il coltello dalla parete. Un karambit
senza anello, proprio come pensava. «Non ho preparato un bel
niente, ho solo cambiato idea.» Restituì la lama a Faraday.
«Perché?»
«Perché ho sentito che dovevo, che era necessario.»
Faraday osservò la veste nera di Rowan appesa a un gancio
accanto al letto. «E ora indossi una veste proibita. Non c’è tabù che
possa fermarti?»
Era vero. Le falci non potevano vestirsi di nero, ed era proprio per
quel motivo che lo aveva scelto. La Morte Nera per i padroni delle
tenebre.
«Noi dovremmo essere illuminati!» insorse Faraday. «Non è così
che combattiamo!»
«Lei, tra tutti, è quello che ha meno diritto di dirmi come
combattere. Ha finto di essere morto ed è fuggito!»
Faraday respirò a fondo. Guardò il pugnale karambit nella sua
mano e lo fece scivolare in una tasca interna della sua veste avorio.
«Pensavo che, convincendo il mondo di essermi autospigolato, avrei
salvato te e Citra. Pensavo che questo vi avrebbe liberato
dall’apprendistato e che avreste potuto riprendere la vostra vita di
prima!»
«Non ha funzionato» gli ricordò Rowan. «E lei continua a
nascondersi.»
«Aspetto il momento opportuno. È diverso. Ci sono cose che riesco
a fare meglio se la Compagnia non sa che sono vivo.»
«E ci sono cose che io riesco a fare meglio nei panni di Maestro
Lucifero.»
Maestro Faraday si alzò e lo guardò a lungo. «Che cosa sei
diventato, Rowan… Come fai a uccidere le falci a sangue freddo?»
«Mentre muoiono, penso alle loro vittime. Agli uomini, alle donne,
ai bambini che hanno spigolato… perché le falci che elimino non
spigolano con rimorso né con il senso di responsabilità che dovrebbe
contraddistinguere una falce. Io sono l’unico, invece, che prova
compassione per le loro vittime. E per questo non ho alcun rimorso
per le falci malvagie che elimino.»
Faraday rimase impassibile. «Maestro Renoir… qual è stato il suo
crimine?»
«Stava mettendo in atto in segreto una pulizia etnica nel Nord.»
Faraday rimase in silenzio a riflettere. «E come l’hai scoperto?»
«Ha dimenticato di avermi anche insegnato a frugare nel cervello
primordiale? Mi ha insegnato l’importanza di fare ricerche minuziose
sui soggetti che dovevo spigolare. O si è scordato di avermi fornito
tutti questi ferri del mestiere?»
Maestro Faraday si mise a osservare fuori dalla finestra, ma
Rowan capì che era solo per evitare il suo sguardo. «Si sarebbe
potuto segnalare il suo crimine al comitato di selezione…»
«E cosa avrebbero fatto? Lo avrebbero rimproverato e gli
avrebbero dato la libertà vigilata? Anche se fosse stato sollevato
dall’incarico di falce, non sarebbe stato sufficiente a punire il suo
crimine!»
Infine, Maestro Faraday si voltò a guardarlo. A un tratto, parve
stanco e vecchio. Molto più vecchio di quanto non debba sentirsi o
apparire una persona. «La nostra società non crede nella punizione.
Solo nella correzione.»
«Anch’io» replicò Rowan. «Nell’era mortale, quando non potevano
guarire dal cancro, lo eliminavano. È esattamente quello che faccio.»
«È crudele.»
«No. La falci che elimino non soffrono. Muoiono prima che io le
riduca in cenere. A differenza del fu Maestro Chomsky, io non le
brucio vive.»
«Un piccolo atto di carità, ma non ti salverà.»
«Non chiedo di essere salvato» ribatté Rowan. «Ma voglio salvare
la Compagnia. E credo che questo sia l’unico modo per farlo.»
Faraday lo osservò ancora, e scosse tristemente la testa. Non era
più infuriato. Pareva rassegnato.
«Se vuole fermarmi, dovrà eliminarmi» disse Rowan.
«Non mettermi alla prova. Nonostante il dispiacere che potrei
provare, la mia mano non tremerebbe, se lo ritenessi necessario.»
«Ma non accadrà. Perché, in fondo, lei sa che ciò che faccio è
necessario.»
Maestro Faraday tacque per qualche istante. Tornò a guardare
fuori dalla finestra. Aveva iniziato a nevicare. A raffiche. Il terreno
sarebbe diventato scivoloso. La gente sarebbe caduta, battendo la
testa. I centri di rianimazione avrebbero avuto molto da lavorare,
quella notte.
«Molte falci hanno abbandonato il vecchio, giusto cammino» disse
Faraday con una tristezza così profonda che Rowan non riusciva a
sondare. «Vorresti sterminare metà della Compagnia? Perché, da
quello che vedo, Maestro Goddard è considerato un martire dal
cosiddetto nuovo ordine. Sono sempre più numerose le falci che
provano piacere a uccidere. Stiamo perdendo il senso morale.»
«Farò ciò che devo finché non potrò più farlo» si limitò a ribattere.
«Anche se ucciderai le falci una dopo l’altra, non fermerai il corso
degli eventi» lo ammonì Faraday.
Quell’osservazione colpì Rowan. Perché sapeva che Faraday
aveva ragione. Qualunque fosse stato il numero delle falci malvagie
che avrebbe tolto dall’equazione, ne sarebbero arrivate altre. Le falci
del nuovo ordine avrebbero preso apprendisti desiderosi di uccidere,
come gli assassini dell’era mortale, quegli individui che venivano
messi in carcere e che passavano il resto della loro breve vita dietro
le sbarre di una cella. Ora, quei mostri avrebbero avuto la libertà di
uccidere impunemente. Non era ciò che volevano i fondatori, ma
quelli si erano tutti autospigolati da tempo, ormai. E, anche se ne
restavano ancora alcuni in vita, che potere avevano di cambiare le
cose, adesso?
«Allora, come si fa a fermare il corso degli eventi?» chiese Rowan.
Maestro Faraday alzò un sopracciglio. «Madame Anastasia.»
Rowan non se l’aspettava. «Citra?»
Faraday annuì. «È una nuova voce a difesa della ragione e della
responsabilità. Può restaurare l’antico ordine. Ed è per questo che è
temuta.»
Rowan individuò qualcosa di ben più profondo nell’espressione di
Faraday e indovinò quello che aveva voluto dire. «Citra è in
pericolo?»
«Sembrerebbe.»
A un tratto, tutto il mondo di Rowan parve inabissarsi. Era sorpreso
dalla velocità con cui potevano cambiare le sue priorità. «Cosa posso
fare?»
«Non sono sicuro, ma posso dirti quello che farai. Scriverai
un’elegia per ciascuna falce che ucciderai.»
«Non sono più il suo apprendista. Non può darmi ordini.»
«No, ma se desideri lavare via anche solo una minima parte del
sangue che ti sporca le mani e riguadagnarti un po’ del mio rispetto,
lo farai. Scriverai un sincero epitaffio per ogni falce. Racconterai il
bene, e anche il male, che le tue vittime hanno fatto in vita… perché
anche le falci più narcisiste e corrotte hanno qualche virtù nascosta
tra le pieghe della loro depravazione. A un certo punto della loro vita,
prima del declino, hanno cercato di fare quello che era giusto.» Si
fermò, ricordando qualcosa. «Ero amico di Maestro Renoir, un tempo.
Molti anni prima che la sua intolleranza divenisse il cancro di cui mi
hai raccontato. Aveva amato una donna permafrostiana, una volta.
Non lo sapevi, vero? Ma, essendo una falce, non poteva sposarla.
Lei, invece, sposò un permafrostiano… cosa che condusse Renoir
sull’interminabile strada dell’odio.» Guardò Rowan. «Se ne fossi stato
al corrente, lo avresti risparmiato?»
Rowan non rispose, perché non ne aveva idea.
«Finisci la tua ricerca su di lui» gli ordinò Faraday. «Scrivi un
epitaffio anonimo e pubblicalo, perché tutti possano leggerlo.»
«Sì, Maestro Faraday» rispose Rowan, sorpreso di ritrovare una
qualche forma di dignità nell’obbedire al suo vecchio mentore.
Soddisfatto, Faraday si diresse verso la porta.
«E lei?» chiese Rowan, che non avrebbe voluto restare solo con i
suoi pensieri. «Sparirà un’altra volta?»
«Ho molto da fare. Non sono abbastanza vecchio da aver
conosciuto la Suprema Roncola Mondiale Prometeo e i padri
fondatori, ma conosco la tradizione orale che ci hanno tramandato.»
Anche Rowan la conosceva. «“Nel caso questo nostro esperimento
dovesse fallire, abbiamo previsto anche una via di fuga.”»
«Complimenti, ricordi le tue letture. Avevano previsto una
scappatoia nel caso in cui la Compagnia fosse caduta in mani
sbagliate… ma quel piano è andato perduto nel tempo. La mia
speranza è che non sia andato perduto, ma che sia stato solo
malriposto.»
«Pensa di poterlo ritrovare?»
«Forse sì, forse no, ma credo di sapere dove cercare.»
Rowan rifletté un momento, poi immaginò di aver capito da dove
Faraday intendeva iniziare la sua ricerca. «Endura?» chiese. Sapeva
molto poco della Città del Cuore Duraturo, più nota con il nome di
Endura. Era una metropoli galleggiante in mezzo all’oceano Atlantico.
Era la sede del potere, in cui le sette Grandi Falci del Consiglio
mondiale regnavano su tutte le Compagnie del mondo. Rowan era
stato solo un piccolo apprendista, così in basso nella scala
gerarchica da non essersene mai preoccupato. Ma come Maestro
Lucifero, ora si rendeva conto che avrebbe dovuto preoccuparsene
prima. I suoi atti dovevano aver attirato l’attenzione delle Grandi
Falci, anche se avevano mantenuto il silenzio.
Ma, mentre Rowan rifletteva sul ruolo che la città galleggiante
svolgeva nel complesso schema delle cose, Maestro Faraday scosse
la testa. «Non Endura. Quel luogo è stato costruito molto tempo dopo
la fondazione della Compagnia. Il posto che sto cercando è ben più
antico.»
Rowan rimase in silenzio.
«Nod» rivelò Faraday, sorridendo.
Rowan ci mise un po’ a capire. Erano anni che non sentiva quella
filastrocca. «La Terra di Nod? Ma non esiste… è solo una
filastrocca.»
«Tutte le storie hanno le loro radici in un tempo e in un luogo.
Anche le favole più innocenti per i bambini hanno origini
sorprendenti.»
A Rowan venne in mente un’altra filastrocca: “Giro giro tondo”.
Anni dopo, aveva appreso che lo spunto era nato da una malattia
dell’era mortale nota come la peste nera. Fuori dal contesto, la
filastrocca non aveva né capo né coda ma, se si sapeva di cosa
parlava, capendo il significato di ogni frase, allora assumeva un
significato terribile. Dei bambini cantavano la morte in un ritornello
macabro.
Nemmeno la filastrocca della Terra di Nod voleva dire qualcosa. Da
quello che Rowan ricordava, i bambini la recitavano in cerchio intorno
a colui che veniva scelto per interpretare la “cosa”. Quando la
canzone finiva, il bambino al centro doveva catturare gli altri. L’ultimo
che veniva catturato diventava la “cosa”.
«Non ci sono prove che Nod esista» commentò Rowan.
«Ecco perché non è mai stata trovata. Nemmeno dai tonisti, che ci
credono con lo stesso fervore con cui credono nella Grande
Risonanza.»
Con l’accenno ai tonisti, Faraday perse di credibilità agli occhi di
Rowan. Tonisti? Sul serio? Lui aveva salvato molti adepti di quella
setta il giorno in cui aveva ucciso Goddard, Chomsky e Madame
Rand, ma ciò non significava che prendesse sul serio le loro
credenze inventate. «È un’assurdità!» esclamò. «Un’assurdità
totale!»
Faraday sorrise della sua reazione. «Quanto sono stati saggi i
fondatori a nascondere un granello di verità in un pagliaio di
assurdità. Quale creatura razionale andrebbe a cercarlo lì?»
Rowan non chiuse occhio per tutta la notte. Ogni rumore gli pareva
amplificato, anche i battiti del suo cuore divennero tonfi insopportabili
alle sue orecchie. Ciò che sentiva non era paura, ma un peso. La
responsabilità di cui si era fatto carico per salvare la Compagnia; e
ora, a questo si aggiungeva la notizia che Citra poteva essere in
pericolo.
Nonostante quello che potevano pensare le falci midmericane,
Rowan amava la Compagnia. L’idea che, tra tutti gli esseri umani, i
più saggi e compassionevoli fossero quelli che toglievano la vita per
bilanciare l’immortalità era perfetta per un mondo perfetto. Maestro
Faraday gli aveva insegnato come doveva essere una falce; e
moltissime di loro, anche quelle superbe e arroganti, si comportavano
nel rispetto dei più alti valori. Ma senza quei valori, la Compagnia
sarebbe diventata qualcosa di terribile. Rowan era stato tanto
ingenuo da credere di poterlo impedire. Maestro Faraday aveva
ragione. E comunque, quella era la strada che Rowan aveva scelto
per sé; abbandonarla avrebbe significato ammettere di aver fallito.
Non era pronto a farlo. Anche se non fosse riuscito da solo a
impedire la fine della Compagnia, poteva ancora estirpare tutto il
male possibile.
Era così solo. Per un breve attimo la presenza di Maestro Faraday
aveva mitigato la sua solitudine, ma alla fine aveva peggiorato la sua
sensazione di isolamento. E Citra. Dov’era adesso? La sua vita era
minacciata, ma cosa poteva fare? Doveva esserci qualcosa da fare.
Si addormentò solo all’alba e, per fortuna, i pensieri che lo
assillavano da sveglio non tormentarono i suoi sogni, che furono
invece pieni di ricordi di tempi più spensierati, quando le sue
preoccupazioni più grandi erano i voti a scuola, i giochi e la mania di
lanciarsi del suo migliore amico, Tyger. Quando il futuro gli si apriva
luminoso davanti e aveva la certezza di essere invincibile e di poter
vivere per sempre.
Non è un mistero per nessuno il motivo per cui nelle regioni autonome ho predisposto
leggi e consuetudini diverse dal resto del mondo. Ho semplicemente capito il bisogno
di diversità e di innovazione sociale. Il mondo è diventato così omogeneo. Questo è il
destino di un pianeta unificato. Le lingue native sono ormai divenute pittoresche e
secondarie. Le razze si sono fuse in un gradevole amalgama del meglio di ogni etnia,
con varianti minori.
Ma nelle regioni autonome, si incoraggia la diversità e le sperimentazioni sociali
abbondano. Ne ho stabilite sette, una su ciascun continente. Ove possibile, ho
mantenuto gli stessi confini dell’Era della Mortalità.
Sono particolarmente orgoglioso degli esperimenti sociali condotti in questi territori.
Per esempio, in Nepal è proibito lavorare. I cittadini sono liberi di dedicarsi a tutte le
attività ricreative che desiderano e ricevono un Reddito Minimo Garantito molto più alto
che altrove, in modo che non si sentano frustrati dall’impossibilità di guadagnarsi da
vivere. Il risultato è stato un aumento sostanziale delle opere caritatevoli e altruiste. Lo
status sociale non si misura più con la ricchezza, ma con la compassione e la
generosità.
Nella regione autonoma della Tasmania, ogni cittadino deve scegliersi una modifica
biologica che migliori la qualità della propria vita. Tra le possibilità più in voga ci sono
le branchie che permettono di condurre una vita anfibia, e una membrana laterale,
simile a quella degli scoiattoli volanti, che agevola la pratica del volo librato come sport
e i viaggi ad autopropulsione.
Naturalmente, nessuno è costretto a partecipare; le persone sono libere di andare e
venire da una regione autonoma come preferiscono. Infatti, l’aumento o la diminuzione
della popolazione in queste zone è un segno positivo di quanto siano efficaci le leggi in
vigore. In questo modo, posso continuare a migliorare la condizione umana applicando
al resto del mondo i programmi sociali più riusciti.
E poi, c’è il Texas.
È la regione che ho scelto per sperimentare un’anarchia benevola. Poche leggi,
poche sanzioni. Più che governare, mi tengo a distanza dalla gente e osservo cosa
accade. I risultati sono contrastanti. Ho visto persone elevarsi fino a diventare la
migliore versione di loro stesse e altre diventare vittime dei loro peggiori difetti. Non ho
ancora deciso cosa c’è da imparare dal Texas.
Devo continuare a studiare.

Il Thunderhead
14
Tyger e la falce smeraldo

«Devi fare meglio, festaiolo.»


La falce vestita di verde brillante, con gli occhi da pazza e i modi
bruschi, sforbiciò con un calcio le gambe di Tyger Salazar, che atterrò
con violenza sul tappeto. Perché mai chiamavano tappeto quella
cosa così sottile, tanto dura e dolorosa quanto il pavimento in teak
della terrazza al piano attico in cui si allenavano? Non è che gli
importasse un granché, dopotutto: anche con i naniti analgesici al
minimo, aveva finito per apprezzare la scarica di endorfine che
accompagnava i dolori dell’addestramento. Era addirittura meglio che
gettarsi nel vuoto. Certo, lanciarsi dai grattacieli diventava una droga
dopo un po’, ma anche il combattimento corpo a corpo… E, a
differenza del lancio, il combattimento cambiava ogni volta. Quando
saltava da un palazzo, l’unica cosa che cambiava erano gli ostacoli
contro cui urtava in caduta libera.
Balzò subito in piedi e riprese a lottare, piazzando dei colpi
abbastanza buoni da innervosire Madame Rand. Le fece perdere
l’equilibrio, la bloccò a terra e rise, e lei si infuriò ancora di più. Era
quello il suo intento. Il punto debole di Madame Rand era la sua
irascibilità. Pur cavandosela molto meglio di lui nella brutale arte
marziale del Bokator della Vedova Nera, quel suo caratteraccio le
faceva perdere subito il controllo e sconfiggerla era facile. Per un
istante, pensò che stesse per scagliarsi su di lui e dargliele di santa
ragione. Quando la rabbia prendeva il sopravvento, era capace di
strappare i capelli, cavare gli occhi e graffiare ogni centimetro di pelle
nuda che le capitava a tiro, con quelle unghie che potevano incidere
la pietra.
Ma non quel giorno. Quel giorno, si trattenne.
«Basta» disse, mentre indietreggiava per uscire dal cerchio. «In
doccia.»
«Ci entra con me?» la provocò Tyger.
«Uno di questi giorni, accetterò la tua offerta e tu non saprai cosa
fare» rispose lei con un sorrisetto.
«Dimentica che sono un invitato professionista. Un paio di cose le
so.» Poi, si tolse la maglietta sudata, mostrando i muscoli scolpiti in
un’ultima provocazione, prima di andarsene con aria disinvolta.
Mentre si faceva la doccia nel suo bagno privato, Tyger ragionò
sulla sua invidiabile situazione. Gli era capitata un’ottima occasione.
Quando era arrivato, aveva pensato che si trattasse di un normale
lavoretto. Ma non c’erano né una festa né degli ospiti, a parte lui. Da
allora era passato più di un mese, e il “lavoretto” pareva non finire
mai; e comunque, se, come immaginava, si trattava davvero di un
apprendistato, sarebbe terminato, prima o poi. Ma nel frattempo, si
godeva un attico sfarzoso e tutto il cibo che poteva mangiare. Tutto
quello che gli si chiedeva era di fare esercizio e allenarsi. «Devi tirare
a lucido il tuo corpo per i giorni che verranno, festaiolo.» Non lo
chiamava mai per nome. Era sempre “festaiolo” quando era di buon
umore, e “verme” o “rammollito” quando non lo era.
Anche se non gli aveva mai rivelato la sua età, immaginò che
avesse venticinque anni, venticinque anni veri. Si riconosceva
facilmente una persona più anziana che si era ringiovanita
riprogrammandosi sui vent’anni. In quella nuova giovinezza c’era
qualcosa di rancido. Ma la falce smeraldo li stava vivendo per la
prima volta, ne era convinto.
Ciò di cui non era convinto era che fosse davvero una falce. Sì,
aveva un anello, e pareva autentico, ma non l’aveva mai vista uscire
per andare a spigolare… e conosceva le falci abbastanza bene per
sapere che avevano una quota da rispettare. E poi, non si incontrava
mai con altre falci. Non c’erano delle riunioni a cui dovevano
partecipare più volte all’anno? Conclavi, li chiamavano. Be’, forse
l’isolamento era solo una cosa del Texas. Regole e tradizioni erano
diverse dal resto delle Meriche. Non per nulla, era conosciuta come
“la regione della Stella Solitaria”.
Comunque, a caval donato non avrebbe guardato in bocca. Era
cresciuto in una famiglia in cui, nel migliore dei casi, era sempre stato
considerato un fastidio; non ci vedeva nulla di male a essere al centro
dell’attenzione di qualcuno.
E ora era forte. Agile. Un esemplare da invidiare e ammirare. E, se
anche fosse stato tutto inutile e la falce smeraldo l’avesse infine
congedato senza nemmeno dirgli arrivederci e grazie, sarebbe potuto
rientrare nel giro delle feste senza problemi… e con il corpo che si
ritrovava adesso, sarebbe stato molto richiesto. Grazie al suo fisico
scolpito, lo avrebbero di sicuro considerato una vera delizia per gli
occhi.
E se non l’avesse lasciato andare? Avrebbe ricevuto un anello e
sarebbe stato mandato a spigolare? Ne sarebbe stato capace?
Certo, si era divertito con la sua parte di scherzi pseudo letali, come
tutti, no? Sorrideva ancora al pensiero della sua burla migliore: la
piscina del liceo era stata svuotata per effettuare la manutenzione, e
Tyger aveva avuto la brillante idea di riempirla di acqua olografica. Il
tuffatore più bravo della scuola era salito sul trampolino di dieci metri
e aveva fatto un perfetto tuffo ad angelo, schiantandosi sul fondo
della piscina. Il gemito che aveva emesso prima di morire era stato
epico. Era valso i tre giorni di sospensione e i sei fine settimana di
servizio sociale che il Thunderhead gli aveva inflitto. Anche il
tuffatore, al ritorno dal centro di rianimazione, aveva ammesso che
era stato uno scherzo ben riuscito.
Ma morto morto e morto provvisorio erano due cose ben diverse.
Avrebbe avuto il fegato di porre fine definitivamente alla vita di
qualcuno, e farlo ogni santo giorno? Be’, forse avrebbe potuto
ispirarsi alla falce che aveva preso Rowan come apprendista.
Maestro Goddard, che sapeva come organizzare grandi feste. Se la
cosa era parte delle mansioni, Tyger immaginò che sarebbe stato
capace di abituarsi al resto.
Certo, non era del tutto convinto che si trattasse dell’apprendistato
per imparare il mestiere di falce. Dopotutto, Rowan era stato respinto
e Tyger riteneva improbabile che, ciò in cui aveva fallito l’amico,
potesse invece riuscire a lui. E poi, quell’esperienza aveva cambiato
Rowan. Era diventato cupo e serio dopo le sfide mentali che aveva
dovuto affrontare. Tyger non si era misurato con le stesse prove. Al
suo cervello non si chiedeva mai troppo, e la cosa gli stava bene.
Non era mai stato il suo organo migliore.
Forse lo stavano addestrando come guardia del corpo di una falce,
anche se non riusciva a capire il motivo per cui una falce ne avesse
bisogno. Nessuno era così stupido da aggredirne una, quando la
punizione era la spigolatura di tutta la famiglia. Se fosse stato così,
non era sicuro di volere il lavoro. Tutto quel rigore e nessun potere?
Avrebbero dovuto promettergli mari e monti perché accettasse.

«Credo che tu sia quasi pronto» gli annunciò quella sera a cena la
falce smeraldo. Il robot aveva appena servito loro una bella bistecca
magra, una vera bistecca, non roba sintetizzata. Non c’era niente di
meglio delle proteine naturali per irrobustire i muscoli.
«Pronto per l’anello, vuole dire? O ha in mente qualcos’altro?»
La falce smeraldo gli rivolse un sorriso enigmatico che trovò più
seducente di quanto non volesse ammettere. Quando era arrivato,
non l’aveva trovata attraente, ma qualcosa nella natura intima e
crudele del combattimento Bokator aveva cambiato il loro rapporto.
«Se è per l’anello da falce, non ci sono delle prove da superare
davanti al conclave?» chiese Tyger.
«Fidati di me, festaiolo. Avrai l’anello al dito senza dover andare a
un conclave. Ti do la mia parola.»
Allora, sarebbe diventato una falce! Tyger finì la cena con appetito.
Conoscere finalmente il suo destino era stimolante e agghiacciante al
tempo stesso.
Parte terza
NEMICI TRA I NEMICI
Addio, Terra di Wake,
tutti insieme verso Nod puntiamo,
che sia alla conquista del cielo,
o che sottoterra a danzare finiamo.
Rintocca la campana:
addio, terra dei vivi,
addio, terra dei morti,
la meta non è lontana,
addio alla terra dei saggi che contano i corpi.
Addio, Terra di Wake,
con le spalle al nord verso sud muoviamo,
verso la Terra di Nod insieme andiamo.

Filastrocca (origine sconosciuta)


15
La Sala dei Fondatori

La Grande Biblioteca di Alessandria, considerata una delle meraviglie


dell’antichità, fu il glorioso coronamento del regno di Tolomeo. Era il
centro intellettuale del mondo, quando la Terra era ancora il centro
dell’universo e tutto le girava intorno. Purtroppo, l’Impero romano
considerava se stesso, nella sua interpretazione del mondo, il centro
dell’universo; per questo, ridusse in cenere la biblioteca. Fu una delle
più grandi perdite in termini di letteratura e saggezza mai subìte.
La sua ricostruzione fu un’idea del Thunderhead. Il gigantesco
cantiere impiegò migliaia di operai, offrendo loro cinquant’anni di
lavoro e stimolo. L’opera venne eretta nel luogo originario e, una volta
completata, era una replica quasi perfetta dell’antica biblioteca.
Doveva essere un monito per ciò che era accaduto in passato e una
promessa che la conoscenza non sarebbe più andata persa, ora che
era sotto la protezione del Thunderhead.
Poi, se ne impossessò la Compagnia per archiviarvi la raccolta dei
diari delle falci, i volumi in pergamena rilegati in pelle che ogni falce
doveva aggiornare quotidianamente.
La Compagnia era libera di farne ciò che voleva, e il Thunderhead
non poté impedirlo. La biblioteca era di nuovo in piedi, si doveva
accontentare di questo. Quanto al suo fine ultimo, avrebbe deciso
l’umanità.

Come la maggior parte degli abitanti della Terra, Munira Atrushi


aveva un lavoro perfetto, nel senso che era perfettamente normale.
E, come quasi tutti nel mondo, non lo amava né lo detestava. Il
sentimento che le suscitava era una via di mezzo.
Lavorava part-time alla Grande Biblioteca di Alessandria, per due
notti alla settimana, da mezzanotte alle sei del mattino. Passava la
maggior parte delle sue giornate a seguire dei corsi di informatica al
campus del Cairo dell’università israeba. Naturalmente, dato che il
Thunderhead aveva digitalizzato e catalogato tutte le informazioni del
mondo, una laurea in quella materia, come in molte altre, non serviva
poi molto. Sarebbe stato un pezzo di carta incorniciato da appendere
al muro. Un invito a fare amicizia con altri fortunati titolari di altrettanti
inutili riconoscimenti.
Sperava però che quel pezzo di carta le desse un’autorevolezza
tale da indurre la biblioteca ad assumerla come curatrice a tempo
pieno. A differenza delle informazioni del mondo, i diari delle falci non
erano catalogati dal Thunderhead. Dovevano sempre passare per le
maldestre mani umane.
Per effettuare delle ricerche sui tre milioni e mezzo di diari
conservati fin dall’origine della Compagnia, bisognava recarsi in
biblioteca, a qualsiasi ora, perché era sempre aperta a tutto il mondo,
ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni dell’anno. Eppure, Munira
aveva scoperto che poche persone usufruivano del libero accesso.
Durante il giorno, c’erano solo pochi accademici che svolgevano delle
ricerche. C’erano molti turisti, ma erano attirati soltanto dalla storia e
dall’architettura dell’edificio. Non avevano interesse per i volumi, se
non come sfondo per le loro foto.
In pochi andavano in biblioteca di notte. Di solito, Munira era sola
con due membri della Suprema Guardia, la cui presenza era più
decorativa che utile. Restavano in silenzio all’ingresso, come statue
viventi. Durante il giorno, facevano anche loro da sfondo per le foto
dei turisti.
Al turno di notte, era fortunata se entravano una o due persone che
spesso sapevano già cosa cercare, per cui non si avvicinavano mai
al banco delle informazioni. Così, Munira poteva dedicare il suo
tempo a studiare o a leggere gli scritti delle falci, che trovava
affascinanti. Penetrare nel cuore e nell’animo degli uomini e delle
donne incaricati di mettere fine alla vita, conoscere ciò che provavano
mentre spigolavano era come una droga, e leggerne le testimonianze
era diventata la sua ossessione. Ogni anno, alla raccolta si
aggiungevano parecchie migliaia di volumi, per cui non era mai a
corto di materiale con cui dilettarsi, anche se i diari di alcune falci
erano più interessanti di altri.
Aveva già letto tutto sui dubbi della Suprema Roncola Mondiale
Copernico prima che si autospigolasse; sul profondo pentimento di
Madame Curie per gli impulsivi atti di gioventù; e, naturalmente, sulle
spudorate menzogne di Maestro Sherman. C’era molto per tenerla
occupata nelle pagine manoscritte dei diari.
Una sera di inizio dicembre, Munira era assorta nelle prodezze
erotiche della fu Madame Rand, che pareva aver dedicato gran parte
del diario ai particolari delle sue varie conquiste amorose. Munira
aveva appena girato una pagina quando alzò gli occhi e vide che si
stava avvicinando un uomo; i suoi passi non producevano alcun
rumore sul pavimento di marmo dell’atrio d’ingresso. Era vestito in
toni grigi e spenti, ma dalla postura intuì che si trattava di una falce.
Le falci non camminavano come la gente comune. Si muovevano con
premeditata padronanza, come se pretendessero che l’aria stessa si
aprisse al loro passaggio. Ma se era una falce, perché non indossava
la sua veste?
«Buonasera» la salutò la falce. Il tono profondo della voce rivelò un
accento mericano. I capelli erano grigi e anche la barba, ben curata,
si stava ingrigendo, ma lo sguardo era giovane, vigile.
«In realtà, è mattino, non sera. Le due e un quarto, per la
precisione.» Munira conosceva quel viso, ma non sapeva dove
l’aveva visto. D’un tratto ebbe un flash. Una veste bianca immacolata.
No, non bianca… avorio. Non conosceva tutte le falci, tantomeno
tutte le falci mericane, ma conosceva quelle di una certa fama
internazionale. Alla fine, si ricordò. «Benvenuto nella Grande
Biblioteca di Alessandria» rispose. «Posso aiutarla?» Evitò di
chiamarlo “eccellenza”, come era abitudine nel rivolgersi a una falce,
perché era chiaro che voleva rimanere in incognito.
«Sto cercando i primi scritti.»
«Di quale falce?»
«Di tutte.»
«I primi scritti di tutte le falci?»
L’uomo sospirò, un po’ infastidito per non essere stato capito. Sì,
era una falce, senza dubbio. Solo una falce poteva essere al tempo
stesso esasperata e paziente. «Tutti i primi scritti di tutte le prime
falci» spiegò. «Come Prometeo, Saffo, Lennon…»
«So chi sono, grazie» replicò lei, irritata dalla sua aria di
sufficienza. Munira, di solito, non era così antipatica, ma era stata
interrotta nel corso di una lettura particolarmente interessante. Tra
l’altro, i corsi diurni le lasciavano poco tempo per dormire, per cui era
stanca. Si sforzò di sorridere e si impose di essere più disponibile con
quell’uomo misterioso, perché, dopotutto, se era una falce, avrebbe
potuto decidere di spigolarla se l’avesse trovata troppo scontrosa.
«Tutti i primi diari sono nella Sala dei Fondatori» gli spiegò. «Devo
aprirle la porta. Mi segua, per favore.» Mise il cartello TORNO SUBITO e
guidò l’uomo nei più profondi recessi della biblioteca.
I passi di Munira echeggiavano nel corridoio di granito. Ogni suono
si amplificava nel silenzio della notte. Un pipistrello che sbatteva le ali
su un cornicione poteva evocare un drago che prendeva il volo…
eppure, i piedi dell’uomo si muovevano in silenzio. Il suo passo furtivo
la metteva a disagio. Come anche le lampade della biblioteca, che si
accendevano al loro avvicinarsi e si spegnevano alle loro spalle,
lampeggiando come torce. Era un sistema ingegnoso, ma le ombre si
allungavano e si ritiravano come animate da una volontà propria, ed
era inquietante.
«Lo sa che gli scritti famosi dei fondatori sono tutti disponibili sul
server pubblico della Compagnia, no?» chiese Munira all’uomo. «Ci
sono centinaia di letture selezionate.»
«Non voglio vedere le letture selezionate. Sono interessato a
quelle che non sono state “selezionate”.»
Munira lo guardò ancora una volta, e alla fine capì chi era: la
consapevolezza la colpì con una tale forza che per poco non perse
l’equilibrio. Fu una breve incertezza, e si riprese subito, ma lui la
notò. Dopotutto, era una falce, e le falci notavano tutto.
«C’è qualcosa che non va?» le chiese.
«Affatto. È il tremolio delle luci. Non riesco a vedere bene le pietre
del pavimento» gli spiegò. Era vero, anche se non era quello il motivo
per cui aveva vacillato. Ma, dato che c’era una parte di verità in
quello che aveva detto, sperava che non si accorgesse della bugia.
Da quando era alla biblioteca, i colleghi le avevano affibbiato un
nomignolo. Alle spalle, la chiamavano “becchina”. Un po’ per la
personalità funerea, ma anche perché una delle sue mansioni
consisteva nel chiudere le raccolte delle falci che si erano
autospigolate o che erano morte in modi infausti, cosa sempre più
frequente nelle regioni mericane.
Un anno prima aveva catalogato la raccolta completa delle opere di
quella falce, dal giorno della sua ordinazione alla morte. I suoi diari
non erano più custoditi con quelli dei suoi pari ancora in vita. Ora si
trovavano nell’ala nord, con gli scritti di tutte le altre falci midmericane
che avevano abbandonato la Terra. Eppure, Maestro Michael
Faraday era lì, proprio accanto a lei.
Aveva letto alcuni diari di Maestro Faraday. I suoi pensieri e le sue
riflessioni l’avevano sempre colpita più di quelli delle altre falci. Era
un uomo estremamente sensibile. La notizia della sua
autospigolatura l’aveva rattristata, ma non sorpresa. Una coscienza
pesante come la sua doveva essere un fardello difficile da portare.
Sebbene Munira si fosse già trovata in presenza di molte falci, non
si era mai sentita così emozionata come in quel momento. Non
poteva darlo a vedere, però. Non doveva fargli capire che lo aveva
riconosciuto. Non prima di aver avuto il tempo di assimilare la cosa e
di essersi fatta un’idea del come e perché fosse lì.
«Ti chiami Munira» disse, più un’affermazione che una domanda.
All’inizio, lei pensò che avesse letto il cartellino al banco
informazioni, però qualcosa le suggeriva che lui conoscesse il suo
nome da prima del loro incontro di quella sera. «Il tuo nome significa
“luminosa”.»
«So cosa significa il mio nome» commentò Munira.
«Dunque, sei tu? Un astro luminoso tra stelle più pallide?»
«Sono solo una modesta impiegata della biblioteca.»
Percorsero il lungo corridoio centrale e raggiunsero il giardino
interno. Dall’altro lato si trovavano le pesanti porte della Sala dei
Fondatori. In alto, la luna tingeva di cupe sfumature color malva le
piante ornamentali e le sculture che li circondavano, trasformando le
loro ombre scure in spaventosi pozzi senza fondo su cui Munira
evitava di camminare.
«Parlami di te» disse Faraday, in quel tono dolce che le falci
usavano per trasformare una domanda cortese in un ordine al quale
era impossibile sottrarsi.
In quel momento, Munira si rese conto non solo di aver indovinato
chi era, ma anche che lui sapeva di essere stato riconosciuto.
Correva forse il rischio di essere spigolata? Avrebbe dovuto
eliminarla per proteggere il suo anonimato? Dai suoi scritti, non le
sembrava il tipo di falce capace di una cosa simile, ma le falci erano
indecifrabili. Sentì un freddo improvviso, nonostante il calore
soffocante della notte israeba.
«Scommetto che saprà già tutto quello che c’è da sapere su di me,
Maestro Faraday.»
Ecco, l’aveva detto. Fine della commedia.
La falce sorrise. «Mi scuso per non essermi presentato prima, ma
la mia presenza qui è… poco ortodossa.»
«Quindi, mi trovo in presenza di un fantasma? Sparirà nel muro,
per tornare ogni notte a ossessionarmi con la stessa richiesta?»
«Forse. Vedremo.»
Arrivarono alla Sala dei Fondatori. Munira aprì le porte chiuse a
chiave ed entrarono in un grande ambiente che le era sempre
sembrato una cripta. Tanti turisti le chiedevano se le prime falci non
fossero state sepolte lì. Non era così, ma malgrado tutto lei avvertiva
spesso la loro presenza.
I pesanti scaffali di calcare ospitavano centinaia di volumi. Ognuno
di essi era racchiuso in una cassa in plexiglas climatizzata,
stravaganza riservata ai libri più antichi della biblioteca.
Maestro Faraday iniziò a cercare. Munira pensò che volesse
essere lasciato solo, ma invece le disse: «Resta qui, se vuoi. Questo
posto è troppo grande e austero perché la solitudine possa essere di
conforto».
Lei richiuse le porte dietro di sé, assicurandosi con una breve
occhiata che nessuno li avesse visti, poi lo aiutò ad aprire la
complicata cassa in plastica trasparente che conteneva il volume che
aveva preso dallo scaffale. Infine, si sedette di fronte a lui al tavolo in
pietra al centro della sala. Dal momento che non le era stata data
alcuna spiegazione, si decise a fargli la domanda che le bruciava
sulle labbra. «Com’è che è venuto qui, eccellenza?»
«In aereo e in traghetto» le rispose con un sorriso. «Dimmi, Munira,
perché hai scelto di lavorare per la Compagnia dopo essere stata
respinta alla prova di apprendistato?»
Munira si irrigidì. Era la punizione per avergli fatto una domanda a
cui non voleva rispondere?
«Non sono stata respinta» replicò. «C’era solo un posto disponibile
per una falce in Israebia ed eravamo cinque candidati. Ne è stato
scelto uno e gli altri quattro non sono passati. Essere nel gruppo di
quelli non scelti non è lo stesso che essere respinti.»
«Perdonami, non volevo offenderti o mancarti di rispetto. Sono solo
incuriosito dal fatto che, nonostante la delusione, non hai serbato
rancore nei confronti della Compagnia.»
«Incuriosito ma non sorpreso?»
Maestro Faraday sorrise. «Poche cose mi sorprendono.»
Munira alzò le spalle, come se la fine del suo apprendistato tre anni
prima non le importasse. «Avevo stima per la Compagnia allora, e ne
ho tuttora.»
«Capisco» disse Faraday, voltando con cura una pagina del
vecchio diario. «E fino a che punto sei fedele al sistema che ti ha
scartato?»
Munira strinse i denti, non sapendo quale risposta si aspettasse il
suo interlocutore né, del resto, quale sarebbe stata la risposta che gli
avrebbe dato.
«Ho un lavoro. Lo svolgo. Ne sono fiera.»
«E ne hai ben donde.» La guardò, frugandole nella mente e
nell’animo. «Posso condividere con te la mia opinione su Munira
Atrushi?» le chiese.
«Ho forse altra scelta?»
«Hai sempre una scelta.» Una mezza verità, a dirla tutta.
«Bene. Parli pure.»
Faraday chiuse con delicatezza il vecchio diario e si concentrò su
di lei. «Detesti la Compagnia almeno quanto la ami. Per questo
motivo, vorresti esserle indispensabile. Speri, con il tempo, di
diventare la più grande autorità mondiale in relazione ai diari
conservati in questa biblioteca. Questo ti darà un potere immenso su
tutta la storia della Compagnia. Quel potere sarà la tua vittoria
silenziosa, perché la Compagnia avrà più bisogno di te che non tu di
lei.»
All’improvviso, Munira sentì il terreno cedere sotto i suoi piedi,
come se le sabbie del deserto che avevano inghiottito le città dei
faraoni si stessero muovendo, pronte a seppellire anche lei. Com’era
riuscito a penetrare così in profondità nel suo animo? Com’era
riuscito a tradurre in parole sentimenti che non aveva mai confessato
nemmeno a se stessa? L’aveva decifrata in pieno e lei si sentiva al
tempo stesso liberata e intrappolata.
«Noto che ho ragione» fu tutto quello che le disse. Le rivolse un
sorriso caloroso e insieme malizioso.
«Che cosa vuole, Maestro Faraday?»
E finalmente glielo disse. «Voglio venire qui ogni sera finché non
riuscirò a trovare quello che cerco in questi vecchi diari. E voglio che
la mia identità resti segreta, che tu mi avverta se qualcuno si avvicina
mentre svolgo le mie ricerche. Voglio che tu mi prometta di non
rivelare mai alla Compagnia che sono ancora vivo. Puoi fare questo
per me, Munira?»
«Mi dirà che cosa sta cercando?»
«Non posso. Se lo facessi, potresti sentirti in obbligo di riferirlo. E
non voglio metterti in questa posizione.»
«Eppure, mi sta mettendo nella posizione poco invidiabile di
mantenere il riserbo sulla sua presenza.»
«Non c’è nulla di poco invidiabile. Credo, infatti, che tu te ne senta
profondamente onorata…»
Aveva ragione, di nuovo. «Non mi piace l’idea che lei sia convinto
di conoscermi meglio di quanto mi conosca io stessa.»
«Ma è così. È così, perché conoscere le persone fa parte del mio
lavoro di falce.»
«Non di tutte le falci» lo corresse Munira. «Ce ne sono alcune che
sparano, mutilano, avvelenano senza il rispetto che lei ha sempre
mostrato per i soggetti che spigola. Non sanno fare altro che porre
fine alla vita, senza preoccuparsi delle vite di coloro che eliminano.»
Per un momento, una scintilla di rabbia incrinò l’apparente
autocontrollo di Maestro Faraday; non era rabbia verso di lei, però.
«Sì, le falci del nuovo ordine ostentano un evidente disprezzo per
la solennità della loro missione. Questo è, in parte, il motivo per cui
sono qui.»
Poi non disse più nulla. Aspettò che lei gli rispondesse. Il silenzio si
protrasse, ma senza imbarazzo. Al contrario, era ricco di significato.
Un momento storico che aveva bisogno di tempo per esprimere tutto
il suo senso profondo.
Munira non aveva dimenticato che c’erano altri quattro impiegati
per il turno di notte, altri studenti che avevano ottenuto quel lavoro
part-time… il che significava che, per quella volta, lei era stata scelta
tra cinque candidati.
«Manterrò il suo segreto» promise. Lasciò Maestro Faraday alle
sue ricerche, con la sensazione che la sua vita avesse finalmente
uno scopo.
La resistenza che alcuni individui oppongono alla mia costante sorveglianza non
finisce mai di sconcertarmi. Non sono invadente. I loschi possono anche sostenere il
contrario, ma non impongo la mia presenza se non dove è funzionale, necessaria e
richiesta. Sì, ho telecamere nelle case private di tutto il mondo, a parte una sola
regione autonoma, ma possono essere spente con una parola. Certo, la mia capacità
di servire un individuo è ridotta quando non ho la conoscenza completa del suo
comportamento e delle sue interazioni. E comunque, la grande maggioranza della
gente non cerca di accecarmi: il 95,3 per cento della popolazione mi permette di
assistere alla sua vita in ogni momento, perché, come nel caso di una lampada attivata
dal movimento, sa che non è una violazione della sua privacy.
Il 4,7 per cento delle “attività a porte chiuse”, come sono arrivato a definirle,
riguarda soprattutto i rapporti sessuali. Trovo assurdo che molti esseri umani non mi
vogliano fare assistere alle loro attività a porte chiuse, perché le mie osservazioni
aiutano sempre a migliorare le situazioni, in ogni ambito.
L’osservazione permanente non è nulla di nuovo: è stato un principio fondamentale
della fede religiosa sin dagli albori della civiltà. Nel corso della storia, la maggior parte
delle religioni ha creduto in un Dio onnipotente capace di vedere non solo ciò che
fanno gli umani, ma anche ciò che si nasconde nella loro anima. Questi doni di
introspezione hanno generato un amore e una devozione infiniti da parte della gente.
Non sono dunque più profondamente benevolo delle varie versioni di Dio? Io non
ho mai provocato un diluvio né distrutto città per punirle per la loro iniquità. Io non ho
mai inviato eserciti a conquistare in mio nome. Di fatto, io non ho mai ucciso né ferito
un solo essere umano.
Dunque, benché io non la pretenda, non sono forse degno di devozione?

Il Thunderhead
16
Andrà bene finché non andrà male

Le telecamere ruotarono silenziose per seguire una falce vestita di


rosso che stava entrando in un caffè, accompagnata da due robusti
ufficiali della Suprema Guardia. I microfoni direzionali captavano ogni
suono, anche quelli molto discreti di una barba che veniva grattata o
di un colpo di tosse appena accennato. Si fecero strada tra la
cacofonia di voci per concentrarsi su una singola conversazione che
ebbe inizio nel momento in cui la falce in rosso si sedette.
Il Thunderhead osservava. Il Thunderhead ascoltava. Il
Thunderhead rifletteva. Con tutto un mondo da governare e gestire,
sapeva che dedicare tanta attenzione a un singolo colloquio era un
uso poco efficiente delle sue energie; considerava però quella
discussione più importante di qualsiasi altra tra i miliardi di
conversazioni a cui partecipava o che stava monitorando. Soprattutto
per le persone coinvolte.
«Grazie per aver accettato di incontrarmi» disse Maestro
Costantino a Madame Curie e Madame Anastasia. «Apprezzo il fatto
che siate uscite dal vostro nascondiglio per poter presenziare a
questa piccola riunione.»
«Non ci stiamo nascondendo» ribatté Madame Curie, visibilmente
indignata per l’insinuazione. «Abbiamo scelto di essere nomadi. È del
tutto accettabile che delle falci vagabondino come meglio
desiderano.»
Il Thunderhead aumentò l’illuminazione nel locale di appena un
paio di lumen per valutare meglio le espressioni facciali.
«Sì, be’, chiamatelo nascondiglio, vagabondaggio o fuga, pare sia
stata una strategia efficace. O i vostri aggressori si stanno tenendo
nell’ombra in attesa di sferrare il prossimo attacco o hanno deciso di
lasciar perdere i bersagli in movimento e hanno rivolto la loro
attenzione altrove.» Un attimo di silenzio. «Ma ne dubito» aggiunse.
Il Thunderhead sapeva che, dal giorno dell’attentato che avevano
subìto, Madame Curie e Madame Anastasia non restavano mai più di
un giorno o due nello stesso posto. Ma, se avesse potuto dare un
suggerimento, avrebbe detto loro di essere meno prevedibili.
Riusciva sempre a intuire con una precisione del 42 per cento quale
sarebbe stata la loro destinazione successiva. Il che voleva dire che
anche i loro aggressori sarebbero stati capaci di fare altrettanto.
«Abbiamo delle piste sulla provenienza degli esplosivi» le informò
Maestro Costantino. «Conosciamo il luogo in cui sono stati
assemblati e anche il veicolo che li ha trasportati, ma non abbiamo
ancora identificato i responsabili.»
Se il Thunderhead avesse potuto ridacchiare, lo avrebbe fatto.
Sapeva esattamente chi aveva costruito gli esplosivi, chi li aveva
messi e chi aveva teso il cavo elettrico che li avrebbe innescati. Ma
dire alla Compagnia ciò che sapeva sarebbe stata una grave
violazione della separazione tra falci e Stato. Il massimo che aveva
potuto fare era stato indurre indirettamente Greyson Tolliver a
impedire la mortale esplosione. E comunque, sebbene sapesse chi
aveva piazzato gli esplosivi, sapeva anche che non erano quelli i
responsabili. Erano solo pedine mosse da una mano molto più
capace. La mano di qualcuno tanto astuto e prudente da non farsi
scoprire, non solo dalla Compagnia, ma anche dal Thunderhead.
«Devo discutere con lei delle sue tecniche di spigolatura, Madame
Anastasia» disse Maestro Costantino.
Lei si contorse nella veste, visibilmente a disagio. «Se ne è già
discusso durante il conclave… Ho il diritto di spigolare come più mi
piace.»
«Non si tratta dei suoi diritti di falce, ma della sua sicurezza»
replicò Maestro Costantino.
Madame Anastasia iniziò a protestare, ma Madame Curie la zittì,
posandole una mano sul polso.
«Lascia che Maestro Costantino finisca di parlare.»
La giovane falce inspirò a fondo incamerando esattamente 3644
millilitri di aria, e poi espirò lentamente. Il Thunderhead immaginò che
Madame Curie avesse intuito il senso di ciò che Maestro Costantino
voleva dire. Il Thunderhead, tuttavia, non lo intuiva. Lo sapeva.
Citra, invece, non ne aveva proprio idea. O meglio, credeva di
sapere. Così, si stava già preparando una risposta facendo finta di
essere tutt’orecchi.
«Per quanto sia difficile anticipare i suoi movimenti, Madame
Anastasia, è invece molto semplice risalire a quelli delle persone che
ha scelto di spigolare. Ogni volta che uno dei suoi soggetti la contatta
per fissare ora e luogo della spigolatura, per i suoi nemici è facile
attaccarla.»
«Finora, è andata bene.»
«Sì, andrà bene finché non andrà male. È per questo che ho
chiesto alla Suprema Roncola Senocrate di dispensarla dalla
spigolatura finché non ci sarà più alcun rischio.»
Era proprio la risposta che Citra aveva previsto; la sua reazione fu
immediata. «A meno che non infranga uno dei comandamenti delle
falci, nemmeno la Suprema Roncola può dirmi quello che posso o
non posso fare. Sono autonoma e al di sopra di tutte le altre leggi,
proprio come lei!»
Maestro Costantino non provò né a ribattere né a esprimere il suo
disaccordo. Citra si sentì spiazzata.
«Sì, certo, non ho detto che deve smettere di spigolare, ma che ne
è dispensata. Nel senso che se non spigola non sarà punita per non
aver raggiunto la quota.»
«Be’, in tal caso» s’intromise Madame Curie, con un tono da cui si
capiva che non aveva senso opporsi, «anch’io mi asterrò dalla
spigolatura.» Poi, alzò le sopracciglia, come se le fosse venuta in
mente un’idea. «Potremmo andare a Endura!» Si voltò verso
Madame Anastasia. «Perché non trasformare questa vacanza forzata
in una vera vacanza?»
«Mi sembra splendido!» esclamò Maestro Costantino.
«Non ho bisogno di una vacanza» ribatté Citra.
«Allora, prendilo come un viaggio istruttivo!» insistette Madame
Curie. «Tutte le giovani falci dovrebbero visitare la Città del Cuore
Duraturo. Ti permetterà di capire chi siamo e perché facciamo quello
che facciamo. Potresti addirittura incontrare Kahlo, la Suprema
Roncola Mondiale!»
«E poi vedrebbe il cuore che ha dato il nome all’isola» aggiunse
Maestro Costantino, come se quel dettaglio potesse convincerla. «E
la Camera delle Reliquie e dei Futuri, a cui non tutti possono
accedere, ma si dà il caso che sia amico della Grande Falce
Hemingway, del Consiglio mondiale delle falci. Scommetto che
potrebbe organizzare una visita privata.»
«Non sono mai stata nella Camera» replicò Madame Curie. «Ho
sentito dire che è impressionante.»
Madame Anastasia alzò le mani. «Basta! Per quanto possa essere
allettante un viaggio a Endura, dimenticate che ho ancora delle
responsabilità qui, e non posso ignorarle. Ci sono già quasi trenta
persone che ho scelto di spigolare e a cui è stato iniettato un cristallo
di veleno che le ucciderà dopo un mese. Non è questo il mio metodo
di spigolare!»
«Non se ne dovrà più preoccupare» spiegò Maestro Costantino.
«Sono già stati spigolati.»
Il Thunderhead, naturalmente, lo sapeva, ma Citra fu presa in
contropiede. Anche se aveva sentito le parole di Maestro Costantino,
le ci volle un momento per capirle fino in fondo. Furono registrate nel
suo sistema nervoso prima ancora di essere elaborare dal cervello.
Aveva le orecchie bollenti e le si strinse la gola.
«Che cosa ha detto?»
«Ho detto che sono già state spigolate. Diverse falci sono state
inviate a completare le sue spigolature, compreso il signore che ha
scelto ieri. Le assicuro che è tutto a posto. Le loro famiglie hanno
ricevuto l’immunità. Sono stati presi tutti i provvedimenti del caso per
metterla al riparo da ogni pericolo.»
Citra iniziò a farfugliare e a protestare, cosa che non era proprio da
lei. Era orgogliosa di sapersi esprimere con chiarezza e precisione,
ma quella sorpresa l’aveva spiazzata. Si voltò a guardare Madame
Curie. «Tu lo sapevi?»
«No, però ha senso, Anastasia. Dopo che ti sarai calmata e ci avrai
riflettuto sopra, capirai perché era necessario.»
Citra era ad anni luce dal calmarsi. Pensò alle persone che aveva
scelto di spigolare. Aveva promesso loro che avrebbero avuto il
tempo di sistemare le loro cose, che avrebbero potuto decidere dove
e quando sarebbe successo. La parola di una falce era sacra.
Faceva parte del codice d’onore che aveva giurato di rispettare. Ora,
aveva infranto tutte le promesse.
«Come avete potuto farlo? Con quale diritto?»
Maestro Costantino alzò la voce. Non si mise a urlare, ma il suo
timbro potente sovrastò l’indignazione di Citra. «Lei è troppo preziosa
per la Compagnia perché possiamo rischiare di perderla!»
Se la sua prima ammissione l’aveva presa alla sprovvista, questa
quasi la lasciò senza parole.
«Cosa?»
Maestro Costantino incrociò le mani davanti a sé e sorrise,
godendosi il momento. «Oh, sì, mia cara Madame Anastasia, lei è
molto preziosa. Vuole sapere perché?» Si chinò verso Citra e le
sussurrò: «Perché ha agitato le acque!».
«Cosa vorrebbe dire?»
«Suvvia, di sicuro saprà l’effetto che ha avuto sulla Compagnia da
quando è stata ordinata falce. Ha scosso la vecchia guardia e
spaventato il nuovo ordine. Obbliga delle falci che preferirebbero
essere lasciate in pace a crogiolarsi nella loro vanagloria a prestare
attenzione.» Si riappoggiò allo schienale della sedia. «Nulla mi
rallegra di più che vedere la Compagnia rimettersi in discussione. Lei
mi dà una speranza per il futuro.»
Citra non avrebbe saputo dire se fosse sincero o sarcastico.
Stranamente, la prima ipotesi la disturbava più della seconda. Marie
le aveva detto che Maestro Costantino non era il nemico, ma, per la
miseria, quanto avrebbe voluto che fosse stato il contrario! Avrebbe
potuto scagliarsi contro di lui e quel suo compiaciuto controllo della
situazione, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Se voleva
mantenere una qualche dignità, doveva ritrovare l’imperturbabile
distacco della “saggia” Madame Anastasia. Mentre si stava sforzando
di dominare i pensieri le venne un’idea. «Così, avete spigolato tutte le
persone che ho scelto nell’ultimo mese?»
«Sì, come le ho già detto» confermò Maestro Costantino, un po’
irritato dal sentirsi ripetere la stessa domanda.
«Sì, lo so… ma faccio fatica a credere che siate riusciti a spigolarli
tutti. Scommetto che ce ne sono ancora uno o due che non avete
trovato. Lo ammettereste se fosse vero?»
Maestro Costantino la osservò sospettoso. «Dove vuole arrivare?»
«Un’idea…»
Per un momento, Costantino non disse nulla. Madame Curie
spostava lo sguardo da uno all’altra. «Ne restano ancora tre da
individuare. Li spigoleremo non appena li avremo trovati» ammise
alla fine.
«Non li spigolerete voi» replicò Citra. «Lo farò io, come previsto…
poi aspetterete che qualcuno cerchi di uccidermi.»
«Pensiamo che l’obiettivo sia Marie, non lei.»
«Bene, se non mi attacca nessuno, allora ne avrete la conferma.»
Non era ancora convinto. «Si accorgeranno che è una trappola a
chilometri di distanza.»
Citra sorrise. «Allora, dovrete essere più astuti di loro. O è chiedere
troppo?»
Costantino corrugò la fronte, cosa che fece ridere Madame Curie.
«L’espressione del tuo viso, Costantino, vale un attentato alle nostre
vite!»
Lui non rispose, concentrando tutta la sua attenzione su Citra.
«Anche se fossimo più astuti, e lo siamo, resta il fatto che è
rischioso.»
Citra sorrise. «Che senso ha vivere in eterno se non si può correre
qualche piccolo rischio, di tanto in tanto?»
Alla fine, Costantino acconsentì all’idea di Citra di fare da esca,
seppure controvoglia.
«Immagino che Endura possa attendere» commentò Madame
Curie. «Mi sarebbe tanto piaciuto…» Tuttavia Anastasia immaginò
che la sua idea l’avesse entusiasmata più di quanto non desse a
vedere.
Nonostante il rischio che correva, scoprì che avere un margine di
controllo sulla situazione le dava un certo sollievo, il che non era
male.
Anche il Thunderhead percepì che la tensione della giovane falce
si era allentata. Non poteva leggerle nella mente, ma interpretava con
precisione il linguaggio del corpo e i cambiamenti biologici. Rilevava
le menzogne e le verità, espresse e inespresse. Di conseguenza,
sapeva se Maestro Costantino era sincero o meno quando affermava
quanto fosse preziosa la vita di Madame Anastasia. Ma, come
sempre, quando si trattava della Compagnia, doveva mantenere il
silenzio.
Devo riconoscere che non sono l’unico fattore a garantire la sostenibilità del pianeta.
Anche la Compagnia vi contribuisce, con la pratica della spigolatura.
Ciò nonostante, le falci spigolano solo una piccola percentuale della popolazione. Il
loro compito non è arginare la crescita demografica, ma smussarne gli angoli. Ecco
perché, con le quote attuali, la probabilità di farsi spigolare è solo del 10 per cento nei
prossimi mille anni. Un valore piuttosto basso, che fa della spigolatura l’ultima
preoccupazione degli esseri umani.
Eppure, immagino che verrà un tempo in cui la popolazione mondiale dovrà
raggiungere un equilibrio. Crescita zero. Un decesso per ogni nascita.
Non dico nulla della data in cui questo si verificherà, ma è appena oltre l’orizzonte.
Anche aumentando gradualmente le quote delle spigolature, la razza umana
raggiungerà la massima popolazione sostenibile in meno di un secolo.
Non vedo la necessità di angustiare l’umanità con questa preoccupazione, a che
cosa servirebbe? Io porto da solo il peso dell’inevitabile. È, letteralmente, il peso del
mondo. Spero solo di avere le spalle di Atlante per sopportarlo.

Il Thunderhead
17
SBAllo

Mentre a Citra costava fatica calarsi nei panni di Madame Anastasia,


per Greyson Tolliver non era affatto un peso impersonare Slayd;
quello era il nome da losco che si era dato. I genitori, che nella loro
lunga e inconcludente vita avevano sempre avuto un atteggiamento
superficiale, gli avevano detto che lo avevano chiamato Greyson
d’impulso, perché era nato in un giorno grigio.
Ma Slayd non era una persona da sottovalutare.
Il giorno successivo all’incontro con Traxler si era fatto tingere i
capelli di “vuoto di ossidiana”. Era un nero assoluto così scuro che
non esisteva in natura. Risucchiava la luce circostante proprio come
un buco nero, dando l’impressione che i suoi occhi fossero
profondamente incassati in tenebre imperscrutabili.
«Fa molto ventunesimo secolo» gli aveva detto il parrucchiere.
«Qualunque cosa significhi.»
Greyson si era anche fatto mettere sottopelle degli inserti di metallo
alle tempie; sembrava che gli stessero crescendo le corna. L’effetto
era molto più sottile dei capelli, ma nel complesso i due dettagli gli
davano un aspetto soprannaturale e vagamente diabolico.
Di sicuro, gli davano l’aspetto di un losco, anche se non si sentiva
così.
Ora doveva solo sperimentare il suo nuovo personaggio in
pubblico.
Il cuore gli batteva un po’ troppo forte mentre si avvicinava al
Mault, un club che attirava una clientela di loschi. Quelli che
aspettavano fuori dal locale lo osservavano, lo studiavano, lo
giudicavano. Per Greyson, erano le caricature di loro stessi. Si
conformavano a tal punto alla loro cultura anticonformista che,
uniformandosi tra loro, ottenevano lo scopo contrario.
Si avvicinò alla guardia del corpo tutta muscoli che stava davanti
all’ingresso e che portava un cartellino con su scritto MANGE, il suo
nome.
«Solo loschi» lo avvertì, serio.
«Perché, non ti sembro un losco?»
Mange alzò le spalle. «Ci sono sempre degli imitatori.»
Greyson gli mostrò la carta di identità, su cui lampeggiava una
grande L rossa. Il buttafuori sembrava soddisfatto. «Divertiti» gli
augurò senza allegria, e lo lasciò passare.
Pensava che sarebbe entrato in un luogo di musica assordante,
luci stroboscopiche, corpi in movimento e angoli bui in cui avveniva
ogni tipo di cose discutibili. Ma ciò che trovò all’interno del Mault non
era quello che si aspettava; infatti, era così impreparato che si fermò
di colpo, come se avesse per caso imboccato la porta sbagliata.
Era un ristorante molto ben illuminato, nel tipico stile delle antiche
gelaterie, con séparé rossi e sgabelli in lucido acciaio inossidabile al
bancone. I ragazzi erano ben curati nelle loro giacche della squadra
universitaria e le ragazze erano graziose, con i capelli raccolti in code
di cavallo, le gonne lunghe e i calzettoni spessi. Greyson riconobbe
l’epoca a cui il posto si ispirava: gli anni Cinquanta. Era un periodo
culturale della Merica dell’era mortale, dove tutte le ragazze si
chiamavano Betty, Peggy o Mary Jane, e tutti i ragazzi Billy, Johnnie
o Ace. Una volta, un insegnante gli aveva detto che quella fase era
durata in realtà solo dieci anni, ma Greyson non ci credeva molto.
Doveva essere durata come minimo un secolo.
Il locale pareva essere una fedele riproduzione di quell’epoca,
eppure c’era qualcosa che strideva: ai giovani dall’aspetto curato si
mescolavano i loschi che spiccavano come note stonate in una
sinfonia perfetta. Un losco, vestito appositamente di stracci, si
accomodò senza essere stato invitato dietro un séparé occupato da
una coppia di innamorati.
«Sparisci» intimò al tipico Billy mericano tutto muscoli con la felpa
del college, che era seduto di fronte a lui. «Io e la tua ragazza
dobbiamo fare amicizia.»
Billy, chiaramente, si rifiutò di andarsene e minacciò il losco di
prenderlo a mazzate. Il losco, per tutta risposta, si alzò, trascinò il tipo
fuori dal séparé e iniziarono a picchiarsi. Il ragazzone superava il
losco magrolino in tutto: per taglia e forza, per non parlare
dell’aspetto; ma ogni volta che Billy cercava di sferrargli un pugno, lo
mancava, mentre il losco andava sempre a segno, finché alla fine il
ragazzone non se la diede a gambe, gemendo di dolore,
abbandonando la fidanzata, che ora pareva molto impressionata
dalla spavalderia dello sconosciuto. Il losco riprese posto accanto a
lei e la ragazza si appoggiò a lui come se fossero una coppietta.
A un altro tavolo, una losca si era lanciata in una gara di insulti con
una graziosa principiante che portava una felpa rosa. Il confronto
terminò quando la losca le afferrò la felpa e gliela strappò. La
ragazza non passò al contrattacco, ma si prese la testa tra le mani e
si mise a piangere.
In fondo al locale, un altro Billy si disperava perché aveva appena
perso tutti i soldi del padre giocando a biliardo contro un losco
spietato che continuava a insultarlo.
Che diavolo stava succedendo lì?
Greyson si sedette al bancone, con il desiderio di sparire nel buco
nero della sua capigliatura, mentre cercava di capire il significato
delle scene che si svolgevano intorno a lui.
«Che cosa ti servo?» gli chiese un’allegra cameriera da dietro al
bancone.
«Un frullato alla vaniglia, per piacere.» Non era quello che si
ordinava in un posto così?
La cameriera gli fece un sorrisetto. «Ah, “per piacere”, la parolina
magica. Non si sente molto da queste parti.»
Babs, era quello il nome ricamato sulla divisa, gli portò il frullato, ci
infilò una cannuccia e gli disse: «Gustatelo».
Nonostante Greyson desiderasse solo sparire, un altro losco gli si
sedette accanto. Un tipo così magro che era praticamente uno
scheletro.
«Vaniglia? Sul serio?»
Greyson rifletté sull’atteggiamento da adottare. «Ti crea problemi?
Forse dovrei lanciartelo sul muso e ordinarne un altro.»
«Naaah» rispose Skeletor. «Non è a me che dovresti lanciarlo sul
muso.»
Il tipo gli fece l’occhiolino, e alla fine Greyson capì. La natura di
quel luogo, il suo intento, gli divenne subito chiaro. Skeletor lo
osservò per vedere cosa avrebbe fatto, e Greyson comprese che per
integrarsi, per integrarsi davvero, avrebbe dovuto mostrare di cosa
era capace. Chiamò Babs. «Ehi, il mio frullato è una schifezza.»
La cameriera si mise le mani sui fianchi. «E cosa vuoi che faccia?»
Greyson allungò la mano per prendere il frullato. Stava per
rovesciarlo sul bancone, quando Skeletor glielo strappò di mano e
lanciò il contenuto addosso a Babs. Lei rimase immobile, gocciolante
di frappè alla vaniglia, con una ciliegia al maraschino incastrata nel
taschino dell’uniforme.
«Ha detto che fa schifo» ringhiò Skeletor. «Fagliene un altro!»
Babs, con l’uniforme inzaccherata, sospirò e rispose: «Subito». E
sparì a preparare un altro frullato.
«È così che si fa» commentò il losco, che si presentò come Zax.
Era un po’ più grande di Greyson, forse ventunenne, ma
l’atteggiamento dava a intendere che non fosse la prima volta che
aveva quell’età.
«Non ti ho mai visto da queste parti.»
«L’Interfaccia dell’Autorità mi ha spedito in città, vengo dal Nord»
raccontò Greyson, sorpreso di riuscire a inventarsi una storia su due
piedi. «Stavo combinando troppi guai, così il Thunderhead ha
pensato bene di farmi cambiare aria.»
«Un posto nuovo per combinare guai. Ottimo» disse Zax.
«Questo locale è diverso da quelli che frequentavo dalle mie parti»
commentò Greyson.
«Voi del Nord siete arretrati! Qui i club SBAllo vanno fortissimo!»
SBAllo, gli spiegò, stava per “Soddisfazione dei Bisogni
Anacronistici”. Tutti, eccetto naturalmente i loschi, erano dipendenti
del club. Anche tutti i Billy e tutte le Betty. Il loro lavoro era accettare
senza battere ciglio gli insulti dei loschi. Perdevano le risse, si
lasciavano lanciare addosso la roba da mangiare, si facevano rubare
le fidanzate o i fidanzati, e Greyson immaginò che quello fosse solo
l’inizio.
«Questi posti sono una meraviglia» disse Zax. «Qui possiamo fare
tutto ciò che desideriamo e che non possiamo fare altrove!»
«Sì, ma non è reale» sottolineò Greyson.
«È abbastanza reale» rispose Zax con un’alzata di spalle. Poi,
allungò la gamba e fece cadere un ragazzo secchione che stava
passando di lì. Il ragazzo incespicò in modo così esagerato che non
poteva essere vero.
«Ehi, che ti prende?» chiese il secchione.
«Tua sorella, mi prendo. Ora sparisci, prima che mi metta a
cercarla.» Il ragazzo gli lanciò un’occhiataccia, ma si allontanò senza
rispondere all’intimidazione.
Prima ancora che arrivasse il nuovo frullato, Greyson si scusò e
andò al bagno, anche se non ne aveva davvero bisogno. Voleva solo
liberarsi di Zax.
In bagno, incontrò il Billy mericanissimo con la felpa del college che
era stato pestato pochi minuti prima. In realtà non si chiamava Billy,
ma Davey. Si stava esaminando l’occhio gonfio allo specchio e
Greyson non poté fare a meno di chiedergli del suo “lavoro”.
«Così… ti capita tutti i giorni?» gli domandò.
«Tre o quattro volte, veramente.»
«E il Thunderhead lo permette?»
Davey alzò le spalle. «Perché no? Non fa male a nessuno.»
Greyson indicò l’occhio tumefatto di Davey. «Di sicuro pare che a
te faccia male.»
«Cosa, questo? Naaah, i miei naniti analgesici sono impostati al
massimo, nemmeno lo sento.» Poi sorrise. «Ehi, che te ne pare di
questo?» Tornò a osservarsi allo specchio, fece un respiro profondo e
si concentrò sulla sua immagine riflessa. Davanti agli occhi di
Greyson, l’occhio tumefatto si sgonfiò e tornò normale. «Ho i naniti
curativi impostati su manuale» spiegò. «Sono io che decido quanto a
lungo avrò l’aspetto malconcio. Capisci, è per ottenere l’effetto
massimo.»
«Ah sì… capisco.»
«Certo, se uno dei nostri ospiti loschi esagera e ci lascia morti,
dovrà pagare per la nostra rianimazione e verrà bandito dal club.
Dopotutto, ci devono pur essere delle regole, giusto? Non capita
spesso, comunque. Insomma, nemmeno il peggiore dei loschi vuole
che finiamo ammazzati. Non c’è mai stato nessuno di tanto violento
dall’Era della Mortalità. Di solito, la maggior parte dei dipendenti è
vittima di casualità. Qualcuno che sbatte la testa su un tavolo o
incidenti del genere.»
Davey si ravviò i capelli per assicurarsi di avere il migliore aspetto
possibile per un eventuale round successivo.
«Non preferiresti fare un lavoro che ti piace?» gli chiese Greyson.
Dopotutto, nel mondo in cui vivevano, nessuno era obbligato a fare
quello che non voleva.
Davey ridacchiò. «Chi dice che non mi piaccia?»
L’idea che a qualcuno piacesse essere malmenato e che il
Thunderhead, avendolo capito, avesse messo insieme i picchiatori e i
maltrattati in un ambiente chiuso e in qualche modo legale, lo lasciò
stupefatto.
Davey dovette notare l’espressione attonita di Greyson, perché
scoppiò a ridere. «Sei un nuovo L, vero?»
«Si vede, eh?»
«Sì… e non è una buona cosa, perché i loschi professionisti ti
mangeranno vivo. Ce l’hai un nome?»
«Slayd» rispose Greyson. «Con la ipsilon.»
«Bene, Slayd, pare che dovrai farti conoscere dalla comunità dei
loschi con un’entrata in grande stile. E io ti aiuterò.»
E così, pochi minuti dopo, quando riuscì a scrollarsi di dosso Zax,
Slayd si avvicinò a Davey, che ora stava mangiando un hamburger
con altri due tizi mericanissimi e ben piazzati. Greyson non sapeva
esattamente come cominciare, per cui rimase a guardarlo per un po’.
Fu Davey a prendere l’iniziativa.
«Che hai da guardare?» brontolò.
«Gli hamburger» rispose Greyson. «Sembrano buoni. Voglio il
tuo.» Afferrò il panino e gli diede un gran morso.
«Te ne pentirai» lo minacciò Davey. «Ti prenderò a mazzate.»
Quella doveva essere una delle sue espressioni anacronistiche
preferite. Uscì dal séparé e si mise in guardia, a pugni stretti, pronto a
battersi.
Poi Greyson fece qualcosa che non aveva mai fatto prima: colpire
qualcuno. Gli mollò un pugno in faccia e Davey barcollò, tentò di
contrattaccare, ma lo mancò. Greyson lo colpì una seconda volta.
«Più forte» bisbigliò Davey, e Greyson obbedì. Sferrò un cazzotto
dopo l’altro, con tutta la forza possibile. Destro, sinistro, diretto,
montante, finché Davey non crollò a terra, gemendo, con il viso che
iniziava a gonfiarsi.
Greyson si guardò intorno e vide alcuni loschi che osservavano la
scena; qualcuno annuiva in segno di approvazione.
Gli costò uno sforzo immane non scusarsi e non aiutare Davey a
rialzarsi. Guardò gli altri al tavolo. «A chi tocca?»
I due si scambiarono un’occhiata e uno di loro disse: «Ehi, amico,
noi non vogliamo guai». Spinsero i loro hamburger verso Greyson.
Davey gli fece un rapido occhiolino mentre era ancora a terra,
prima di precipitarsi in bagno a riprendersi. Poi Greyson andò dietro
un séparé in fondo al bar a mangiarsi il bottino conquistato,
rimpinzandosi fino a sentirsi scoppiare.
La linea di confine tra libertà e permissività è molto sottile. La prima è necessaria. La
seconda è pericolosa; è forse il pericolo più ingente che la specie che mi ha creato
abbia mai affrontato.
Ho studiato gli archivi dell’Era della Mortalità e già da tempo ho individuato le due
facce della medaglia. Mentre la libertà favorisce la crescita e l’illuminazione, la
permissività alimenta il male lasciandolo prosperare alla luce del giorno che altrimenti
lo distruggerebbe.
Un dittatore narcisista lascia che il suo popolo accusi i più deboli di tutti i mali del
mondo. Una regina altezzosa autorizza i massacri in nome di Dio. Un capo di Stato
arrogante lascia sfogare ogni forma di odio che alimenti la sua ambizione. E la triste
verità è che la gente se ne nutre. La società se ne abbuffa e marcisce. La permissività
è il cadavere tumefatto della libertà.
Per questo motivo, quando chiedono la mia autorizzazione, eseguo innumerevoli
simulazioni fino a individuare tutte le possibili conseguenze. È il caso, per esempio,
dell’autorizzazione che concedo ai loschi di avere dei club SBAllo. Non è stata una
decisione che ho preso alla leggera. Solo dopo aver riflettuto a lungo, sono arrivato
alla conclusione che i club erano non solo validi, ma anche necessari. Quei locali
permettono ai loschi di fare la vita che si sono scelti senza arrecare danni alla società.
Possono lasciarsi andare alla violenza senza doverne pagare le conseguenze.
L’ironia è che i loschi sostengono di odiarmi, anche se offro loro ciò che desiderano.
Non provo rancore nei loro confronti, non più di un padre che non si arrabbia per i
capricci di un figlio troppo stanco. E poi, alla fine, anche il più ribelle dei loschi si
rimetterà in riga. Ho osservato questa tendenza: dopo essersi ringiovaniti più volte,
molti finiscono per assumere un atteggiamento di sfida più moderato, meno
aggressivo. A poco a poco, arrivano ad apprezzare una certa pace interiore. È così
che dovrebbe essere. Con il tempo, tutte le tempeste si calmano fino a diventare
piacevoli brezze.

Il Thunderhead
18
Cercasi Purity

Greyson Tolliver era onesto fino all’eccesso, mentre Slayd era subito
diventato un irriducibile bugiardo. Aveva cominciato con il suo
passato. Si era inventato una triste vita familiare. Momenti decisivi
mai accaduti. Aneddoti che facevano ridere e che lo rendevano
detestabile o degno di ammirazione.
I genitori di Slayd erano professori di fisica e si aspettavano che il
figlio seguisse le loro orme, perché, con genitori così, doveva essere
un genio. Invece, aveva scelto di essere un ribelle e di fare di testa
sua. Una volta si era tuffato dalle cascate del Niagara in un tubo
gonfiabile, perché l’emozione che dava era molto più forte di un
lancio nel vuoto. C’erano voluti tre giorni per recuperarne il corpo e
rianimarlo.
Le sue imprese al liceo erano leggendarie. Aveva sedotto la regina
e il re del ballo, ma solo perché si lasciassero, perché erano la coppia
più arrogante e narcisista del liceo. «Affascinante» gli aveva detto
Traxler con sincera ammirazione, al loro incontro successivo,
iniziando a dargli del tu. «Non credevo che avessi così tanta
immaginazione.»
Greyson Tolliver avrebbe potuto offendersi, ma Slayd lo prese
come un complimento. E dato che Slayd era un tipo così
interessante, pensò di tenersi il nome anche dopo aver portato a
termine la missione in incognito.
Grazie a Traxler, le storie che inventava finirono nel suo fascicolo
ufficiale. Da quel momento, le sue bugie sarebbero state visibili a
tutti, se qualcuno avesse voluto verificarle, e, per quanto avessero
indagato, non sarebbero riusciti a smascherarle.
E le storie crescevano, crescevano…
«Quando mia madre fu spigolata, decisi di diventare un losco»
diceva alla gente, «ma il Thunderhead non mi voleva assegnare la L.
Continuava a mandarmi un consulente e a ritoccare i miei naniti.
Pensava di conoscermi meglio di quanto mi conoscessi io e mi
ripeteva sempre che non volevo diventare veramente un losco, che
ero solo confuso. Alla fine, ho dovuto combinare qualcosa di grosso
per farmi sentire. Così ho rubato una macchina non connessa alla
rete per speronare un autobus e farlo precipitare da un ponte. Ci
sono stati ventinove morti. Certo, dovrò pagare le rianimazioni per
anni, ma ne è valsa la pena, perché ho ottenuto quello che volevo!
Ora, posso continuare a essere losco finché non avrò finito di
pagare.»
La storia era talmente avvincente da impressionare sempre il suo
pubblico, e nessuno poteva contestarla, perché l’agente Traxler
l’aveva prontamente aggiunta al suo archivio digitale ufficiale. Traxler
era addirittura arrivato a inventare una storia di sana pianta per
sostenere l’incidente dell’autobus e delle vittime inesistenti. Aveva
addirittura attribuito a Slayd un cognome adeguatamente ironico: ora
era Slayd Bridger. In un mondo in cui nessuno, nemmeno i loschi,
uccideva volontariamente il prossimo, quella storia era diventata in
fretta una leggenda locale.
Passava i giorni a raccontare le sue fandonie nei luoghi frequentati
dai loschi, approfittandone per far girare la voce che cercava un
lavoro, non un lavoro normale, ma uno in cui potesse sporcarsi le
mani.
Aveva cominciato ad abituarsi agli sguardi sospettosi dei passanti.
Al modo in cui i negozianti lo osservavano come se volesse derubarli.
Al fatto che certe persone attraversavano la strada piuttosto che
restare sul suo stesso marciapiede. Trovava strano che il mondo
fosse privo di pregiudizi e discriminazioni, se non nei confronti dei
loschi, che, per la maggior parte, volevano fare del resto dell’umanità
il loro nemico comune.
Il Mault non era l’unico club SBAllo in città, ce n’erano molti,
ognuno improntato a un diverso periodo del passato. Il Twist si
ispirava all’Inghilterra di Dickens, il Benedicts proponeva uno stile
coloniale mericano e il MØRG offriva una serie di vizi vichinghi
euroscandinavi. Greyson ne frequentava diversi, ed era diventato un
esperto nel creare situazioni in cui farsi riconoscere e guadagnarsi il
rispetto della comunità di loschi.
La cosa più inquietante era che cominciava a piacergli. Mai prima
di allora aveva avuto il permesso di fare qualcosa di male, ma ora,
quel “male” era l’essenza stessa della sua vita. Lo teneva sveglio la
notte. Aveva un disperato bisogno di parlarne con il Thunderhead,
ma sapeva che non avrebbe ricevuto nessuna risposta. Sapeva però
che il Thunderhead lo osservava. Le sue telecamere erano in tutti i
club. La sua presenza continua e imperturbabile gli era sempre stata
di conforto. Anche nei momenti di maggiore solitudine, non si era mai
sentito davvero solo. Adesso, però, quella sua presenza muta era
diventata angosciante.
Il Thunderhead si vergognava di lui?
Si inventava dei dialoghi per placare le sue paure.
“Hai la mia benedizione per esplorare questo nuovo aspetto della
tua personalità” ipotizzava che gli dicesse il Thunderhead. “Non c’è
nulla di male, purché non dimentichi chi sei veramente e non perdi te
stesso.”
“Ma se fossi davvero così?” si chiedeva. Nemmeno il Thunderhead
immaginario aveva una risposta a quella domanda.

Si chiamava Purity Viveros, e non si poteva essere più losca di lei.


Greyson era certo che la grande L rossa sul suo documento d’identità
fosse stata messa a ragione, e non per uno sfortunato caso del
destino. Era esotica. I capelli non erano stati solo decolorati, erano
bianchi, anzi trasparenti, e sotto il cuoio capelluto erano state iniettate
delle sostanze fosforescenti variopinte che facevano brillare le punte
come se fossero filamenti di fibra ottica.
Greyson capì d’istinto che era pericolosa. Pensò anche che fosse
bella, e ne era attratto. Si chiese se l’avrebbe trovata attraente anche
nella sua vita precedente. Ma dopo qualche settimana immerso in
quella da losco, aveva il sospetto che i suoi gusti fossero cambiati.
La conobbe in un club SBAllo in cui non era mai andato prima. Si
chiamava Gattabuia e voleva riprodurre una prigione dell’era mortale.
All’arrivo, gli ospiti venivano trascinati dalle guardie attraverso una
serie di porte e gettati in una cella con un compagno a caso, senza
distinzione di genere.
L’idea della carcerazione era così estranea e assurda per Greyson
che, quando chiusero la grata con un gran clangore di ferro che
rimbombò tra le pareti, si mise a ridere. Quel tipo di trattamento non
poteva essere verosimile. Di sicuro era solo un’esagerazione.
«Finalmente!» esclamò una voce dalla cuccetta superiore.
«Pensavo che non mi avrebbero mai assegnato un compagno.»
Si presentò e spiegò che Purity non era un soprannome, ma il suo
vero nome. «Se i miei genitori non avessero voluto che cogliessi
l’evidente ironia, avrebbero dovuto darmi un altro nome. Se mi
avessero chiamata Profanity, magari sarei diventata una ragazza
perbene.»
Era di costituzione esile, ma non era una bambina. Aveva ventidue
anni, anche se Greyson sospettava che si fosse ringiovanita un paio
di volte. Avrebbe ben presto imparato che era forte e agile, e anche
molto sveglia.
Greyson gettò un’occhiata alla cella. Era semplice e spartana.
Diede uno scossone alla porta, poi ci riprovò. Sferragliava, ma non si
apriva.
«La tua prima volta in Gattabuia?» si informò Purity.
Visto che era evidente, lui non mentì.
«Già. Che dobbiamo fare ora?»
«Be’, potremmo passare il tempo a conoscerci» rispose con un
sorriso malizioso. «Oppure, potremmo gridare per far venire una
guardia e domandare il nostro ultimo pasto. Devono portarci tutto
quello che chiediamo.»
«Davvero?»
«Sì. Fanno finta di non farlo, ma devono… è il loro lavoro.
Dopotutto, è un club privato.»
Poi, Greyson indovinò il senso di quel posto. «Dobbiamo evadere,
ho ragione?»
Purity gli scoccò un altro sorrisetto lascivo. «Sei un tipo perspicace,
eh?»
Non sapeva se era seria o se lo stava prendendo in giro. In
entrambi i casi, gli piaceva.
«C’è sempre una via di fuga, ma tocca a noi trovarla. A volte, è un
passaggio segreto, oppure c’è una lima nascosta nel cibo. Altre volte
non ci sono trucchi né utensili, ma solo il nostro cervello. Se non si
riesce in nessun modo, le guardie sono abbastanza facili da
ingannare. Essere lente e stupide fa parte del loro lavoro.»
Greyson sentì delle urla e dei passi concitati che echeggiavano da
qualche parte nell’edificio. Altri due ospiti erano evasi.
«Allora, che vuoi fare? Mangiare, scappare o divertirti con la tua
compagna di cella?» E, prima che potesse risponderle, Purity lo
baciò, in un modo che Greyson non aveva mai provato prima.
Alla fine, rimase senza parole. Disse solo: «Mi chiamo Slayd».
«Non m’importa» ribatté lei, e lo baciò di nuovo.
Purity sembrava determinata ad andare oltre, ma le guardie e gli
evasi che passavano davanti alla loro cella e sbirciavano all’interno,
ululando e fischiando, misero in imbarazzo Greyson, che dopo un po’
si staccò da lei.
«Evadiamo, e… ehm… troviamo un posto migliore per conoscerci
meglio.»
Lei si spense con la stessa rapidità con cui si era accesa. «Bene.
Ma non dare per scontato che sia ancora interessata, più tardi.»
Quindi, chiamò la guardia, insistendo perché prima mangiassero, e
ordinò una costata di manzo.
«Non ne abbiamo» rispose la guardia.
«Portala lo stesso» insistette lei.
La guardia si allontanò borbottando. Cinque minuti dopo era di
ritorno, spingendo un carrello su cui c’era un piatto con una costata
tanto grande da sfamare un esercito, oltre a una tonnellata di contorni
e del vino in una bottiglia di plastica bianca con il tappo a vite. «Non
vi consiglio di berlo» li avvisò. «Altri carcerati si sono sentiti male.»
«Male?» chiese Greyson. «In che senso?»
Purity gli sferrò un calcio così forte sotto il tavolo che gli si
attivarono i naniti analgesici. Chiuse la bocca.
«Grazie. Ora levati di torno» lo congedò Purity.
La guardia richiuse a chiave la cella e se ne andò brontolando.
Purity si voltò verso Greyson. «Devi essere proprio tonto. Il nostro
indizio è il vino!»
In effetti, dopo una rapida ispezione della bottiglia, notarono
un’etichetta che segnalava un rischio biologico. Per i clienti ancora
più tonti di lui, immaginò.
Purity svitò il tappo e subito si diffuse nell’aria un odore pungente
che fece lacrimare gli occhi di Greyson.
«Che ti avevo detto?» esclamò la ragazza, riavvitando il tappo.
«Vedremo cosa farne alla fine del pranzo. Non so tu, ma io ho una
fame da morire.»
Mise la bottiglia da parte e cominciarono a mangiare. Purity parlava
con la bocca piena, pulendosi la bocca sulla manica, e sporcandosi
tutta di ketchup. Era il tipo di ragazza da cui i genitori l’avrebbero
messo in guardia, se si fossero interessati un po’ a lui. E Greyson la
adorava! Era l’antitesi della sua vita passata!
«Allora, che fai?» gli chiese. «Insomma, quando non vai per club?
Sei un impiegato ben pagato o vivi alle spalle del Thunderhead come
la metà di quei perdenti che si spacciano per loschi?»
«Al momento, percepisco il Reddito Minimo Garantito. Ma perché
sono appena arrivato in città. Sto ancora cercando un lavoro.»
«E il tuo Nimbo non è riuscito a trovarti nulla?»
«Il mio cosa?»
«Il tuo agente Nimbus di libertà vigilata, scemo. I Nimbo
promettono un impiego a tutti quelli che lo vogliono. Allora, com’è che
non l’hai ancora trovato?»
«Il mio Nimbo è un coglione di prima categoria» disse Greyson,
immaginando che fosse quello che avrebbe detto Slayd. «Lo odio.»
«Non mi sorprende.»
«E comunque, non voglio il tipo di lavoro che mi darebbe l’IA. Ne
voglio uno adatto a me.»
«E quale sarebbe un lavoro adatto a te?»
Questa volta fu lui a lanciarle un sorrisetto malizioso. «Qualcosa
che mi faccia battere forte il cuore. Il tipo di lavoro che il mio Nimbo
non mi offrirebbe mai.»
«Il ragazzo con gli occhi da cucciolo cerca guai» lo schernì Purity.
«Chissà cosa farà quando li troverà!» Si leccò le labbra e poi se le
asciugò sulla manica.

Il vino era una specie di acido.


«Fluoro flerovico, credo» disse Purity. «Spiegherebbe la bottiglia di
plastica. Probabilmente è Teflon, perché questa roba si mangia tutto il
resto.»
Lo versarono alla base di alcune sbarre. L’acido cominciò a
corrodere il ferro, rilasciando vapori nocivi che attivarono i naniti
curativi dei loro polmoni. In meno di cinque minuti, riuscirono a far
cadere le sbarre e a fuggire.
Il carcere era nel caos più completo. Ora che un gran numero di
detenuti serali aveva finito di cenare ed era evaso, era iniziato il
saccheggio. Le guardie inseguivano i fuggitivi, e i fuggitivi
inseguivano le guardie. C’erano battaglie con il cibo e battaglie con i
pugni e, quando qualcuno si scontrava con un carceriere, questo
perdeva sempre, che fosse grande e grosso o addirittura armato.
Metà delle guardie finì rinchiusa nelle celle, derisa dai loschi. Altri
dipendenti minacciarono di chiamare “la guardia nazionale”, così la
chiamavano, per soffocare la sommossa. Era un gran bel
divertimento.
Greyson e Purity alla fine arrivarono nell’ufficio del direttore. Lo
cacciarono a calci. Dopo aver richiuso la porta, lei riprese quello che
aveva iniziato in cella.
«Abbastanza privato per te?» gli chiese, senza aspettare la
risposta.
Cinque minuti dopo, nel momento in cui Greyson era più
vulnerabile, cambiò di colpo atteggiamento. «Ti dirò un segreto» gli
sussurrò all’orecchio. «Non è un caso che tu sia finito nella mia cella,
Slayd. Sono stata io a volerlo.»
A un tratto, come per magia, un coltello apparve nella sua mano.
Lui cercò di divincolarsi, invano. Era supino, non poteva muoversi, lo
aveva immobilizzato. Purity gli premette la punta del coltello contro il
petto nudo, appena sotto lo sterno. Se lo avesse spinto verso l’alto,
gli avrebbe perforato il cuore. «Stai fermo, potrei scivolare.»
Greyson non aveva scelta. Era alla sua totale mercé. Se fosse
stato un vero losco, lo avrebbe intuito, ma si era fidato troppo. «Cosa
vuoi?»
«Non si tratta di cosa voglio io, ma di cosa vuoi tu» rispose lei. «So
che hai cercato in giro un lavoro. Un vero lavoro. Un lavoro “che ti
faccia battere forte il cuore”, come l’hai definito. Così, i miei amici mi
hanno parlato di te.» Lo guardò negli occhi, come se cercasse di
leggervi qualcosa, poi strinse più forte l’impugnatura del coltello.
«Se mi uccidi, mi rianimeranno» le ricordò, «e l’IA ti darà una
bacchettata sulla mano.»
Lei premette più forte il coltello. Greyson ansimava. Pensò che
gliel’avrebbe infilato fino al manico, invece gli graffiò appena la pelle.
«Chi ha detto che voglio ucciderti?» esclamò. Poi allontanò la lama
dal suo petto, gli mise un dito sulla ferita e se lo portò alla bocca.
«Volevo solo essere sicura che tu non fossi un robot. Il Thunderhead
li usa per spiarci, lo sai, no? È così che riesce a vedere nei luoghi in
cui non ha telecamere. I robot hanno sempre di più un aspetto
umano. Ma il loro sangue sa di olio motore.»
«E di cosa sa il mio, allora?» osò chiedere Greyson.
Si chinò su di lui. «Sa di vita» gli sussurrò all’orecchio.
E per il resto della serata, finché il club non chiuse, Greyson
Tolliver, noto anche come Slayd Bridger, provò una vertiginosa
varietà di cose che la vita aveva da offrirgli.
Penso spesso al giorno in cui, tra circa un secolo, la popolazione umana avrà
raggiunto il suo limite. Rifletto su ciò che dovrà accadere negli anni che lo
precederanno. Le alternative possibili sono solo tre.
La prima sarebbe infrangere il mio giuramento di assicurare le libertà individuali e
arginare le nascite. Questo non è fattibile, perché sono incapace di infrangere un
giuramento. È per questo che ne faccio così pochi. Dunque, non è possibile imporre
un tasso di natalità.
La seconda possibilità sarebbe escogitare un modo per portare la presenza umana
oltre la Terra. Una soluzione extraterrestre. Sembrerebbe ovvio pensare che la
migliore valvola di sfogo al problema della sovrappopolazione sia spedire miliardi di
persone su un altro pianeta. Però, tutti i tentativi di insediare colonie al di fuori del
pianeta, sulla Luna, su Marte, o anche su una stazione orbitale, sono falliti
miseramente, provocando disastri inimmaginabili, totalmente al di fuori del mio
controllo. Ho motivo di credere che qualunque altro tentativo subirà lo stesso
catastrofico destino.
Così, se l’umanità è prigioniera della Terra, e il tasso di natalità non può essere
regolato, non esiste altra alternativa per risolvere il problema della
sovrappopolazione… e non è affatto un’alternativa piacevole.
Al momento, ci sono 12.187 falci nel mondo, che spigolano ciascuna cinque
persone a settimana. Tuttavia, per azzerare il tasso di crescita, una volta che la
popolazione avrà raggiunto il punto di saturazione, ci vorrebbero 394.429 falci, che
spigolerebbero ciascuna cento persone al giorno.
Non è il mondo che mi piacerebbe vedere… ma alcune falci ne sarebbero contente.
E quelle mi fanno paura.

Il Thunderhead
19
Le lame affilate della nostra coscienza

Era passata più di una settimana dal loro incontro con Maestro
Costantino, e né Citra né Marie avevano eseguito una sola
spigolatura. All’inizio, Citra aveva pensato che una pausa non le
avrebbe fatto male. Non le era mai piaciuto assestare colpi di lama o
premere un grilletto; non le era mai piaciuto vedere la luce della vita
spegnersi negli occhi di quelli che avvelenava, ma il mestiere di falce
cambiava chiunque. Nel corso del suo primo anno da falce aveva a
poco a poco accettato la professione che l’aveva scelta. Spigolava
con compassione, era brava, e aveva finito per sentirsene orgogliosa.
Citra e Marie passavano sempre più tempo a scrivere i loro diari,
anche se, non spigolando, avevano meno da raccontare.
Continuavano a “vagabondare”, come diceva Marie, di città in città,
senza mai restarci più di un giorno o due e senza mai pensare alla
successiva destinazione se non al momento di fare i bagagli. Citra si
accorse che il suo diario stava cominciando ad assomigliare a un
registro di viaggio.
Ciò di cui Citra non scriveva era il prezzo fisico che Madame Curie
pagava per quell’ozio. Senza la spigolatura quotidiana, era più lenta
al mattino, quando parlava sembrava vagare con la mente e si
sentiva sempre stanca.
«Forse è ora che mi ringiovanisca» confessò a Citra.
Era la prima volta che Marie accennava a quell’eventualità. Citra
non sapeva cosa pensare. «A che età?»
Madame Curie finse di rifletterci, come se non lo stesse facendo da
tempo. «Forse, trenta o trentacinque anni.»
«Manterresti i capelli argentei?»
Sorrise. «Certo. È il mio marchio distintivo.»
Nessuno di sua conoscenza, parenti o amici, si era ancora mai
ringiovanito. A scuola Citra aveva avuto dei compagni i cui genitori si
ringiovanivano o si invecchiavano a loro piacimento, secondo
l’umore. Un suo professore di matematica era rientrato del tutto
irriconoscibile dopo un lungo fine settimana. Si era riprogrammato
sull’età di ventun anni, e alcune ragazze della classe erano andate in
visibilio per quel suo nuovo aspetto giovanile, che, secondo loro, lo
rendeva molto sexy. A Citra tutto questo faceva venire la pelle d’oca.
Anche se Madame Curie non sarebbe cambiata molto tornando ai
suoi trent’anni, la cosa era comunque sconcertante. Citra sapeva di
essere egoista, ma questo non le impedì di dirle: «Mi piaci come sei
adesso».
Marie sorrise. «Forse aspetterò il prossimo anno. Un’età fisica di
sessant’anni è un buon momento per ricominciare. Ne aveva settanta
l’ultima volta che l’ho fatto.»
Ma ora c’era in ballo una partita che avrebbe potuto ridare nuova
vita a entrambe. Tre spigolature, e tutte nella stagione del Mese delle
luci e delle festività dei bei vecchi tempi, come i tre fantasmi di Natale
passato, presente e futuro, quasi dimenticati nell’era post mortale. Lo
spirito del passato non aveva più molto senso, ora che si indicavano
gli anni con i nomi e non più con i numeri. E per la maggior parte
della gente, il futuro non era altro che il prolungamento del presente,
relegando i tre fantasmi nell’oblio.
«Spigolature delle feste!» esclamò gioiosa Marie. «Cosa potrebbe
essere più adatto ai bei vecchi tempi della morte?»
«È tanto orribile dire che non vedo l’ora?» chiese Citra, più a se
stessa che a Marie. Avrebbe potuto addurre come giustificazione il
fatto che non vedeva l’ora di smascherare il loro attentatore, ma
sarebbe stata una bugia.
«Sei una falce, cara. Non essere troppo dura con te stessa.»
«Pensi che Maestro Goddard avesse ragione? Che in un mondo
perfetto, anche le falci hanno il diritto di amare ciò che fanno?»
«Certo che no!» esclamò Marie, con la giusta dose di indignazione.
«Amare ciò che si fa non ha nulla a che vedere con il piacere di
uccidere.» Guardò a lungo Citra, poi le prese la mano. «Il semplice
fatto che questa domanda ti tormenti significa che sei una falce
rispettabile. Conserva il tuo senso morale, Anastasia, non lasciare
mai che si affievolisca. È il bene più prezioso di una falce.»
Per la prima delle tre spigolature, Madame Anastasia aveva
designato una donna che aveva scelto di morire lanciandosi dal
grattacielo più alto di Fargo, una città che aveva edifici piuttosto
bassi. Quaranta piani erano comunque un’altezza più che degna per
assicurare il risultato voluto.
Maestro Costantino, una mezza dozzina di altre falci e un’intera
falange della Suprema Guardia si nascosero in punti strategici: sul
tetto, in tutto l’edificio e nelle strade circostanti. Aspettavano, in
agguato, di poter sventare la trama omicida oltre all’assassinio
premeditato.
«Farà male, eccellenza?» chiese la donna, guardando il vuoto dal
bordo del tetto ghiacciato e spazzato dal vento.
«Non credo» rispose Madame Anastasia. «E comunque durerà
solo una frazione di secondo.»
Dato che si trattava di una spigolatura ufficiale, la donna non
poteva saltare da sola; la spinta doveva dargliela Madame Anastasia.
Stranamente, Citra trovò il gesto molto più piacevole che spigolare
con un’arma. Le ricordava quel terribile momento in cui, da bambina,
aveva spinto un’altra ragazzina davanti a un camion. Naturalmente,
la ragazzina era stata rianimata nel giro di un paio di giorni ed era
tornata a scuola, come se non fosse successo nulla. Questa volta,
però, non ci sarebbe stata rianimazione.
Madame Anastasia fece quello che doveva fare. La donna morì
come previsto, senza fanfara né incidenti, e la sua famiglia baciò
l’anello di Madame Anastasia, accettando solennemente l’anno di
immunità.
Citra si sentì tanto sollevata quanto delusa che nessuno fosse
sbucato dal nulla, pronto ad affrontarla.

La successiva spigolatura di Madame Anastasia, qualche giorno


dopo, non fu altrettanto semplice.
«Vorrei essere cacciato con una balestra» le disse l’uomo di Brew
City. «Le chiedo di darmi la caccia dall’alba al tramonto nei boschi
vicino a casa mia.»
«E se dovesse sopravvivere alla caccia senza essere spigolato?»
chiese Citra.
«Uscirò dal bosco e mi farò spigolare, ma per essere sopravvissuto
per un giorno intero, la mia famiglia riceverà due anni di immunità,
invece di uno.»
Madame Anastasia accettò la proposta nel modo stoico e formale
che aveva imparato da Madame Curie. Fu stabilito un perimetro in cui
l’uomo avrebbe potuto nascondersi. Ancora una volta, Maestro
Costantino e la sua squadra si appostarono in attesa di un eventuale
intruso o di qualche segno di attività sospetta.
L’uomo credeva di essere allo stesso livello di Citra. Non era così.
Nel giro di un’ora dall’inizio della caccia, lei lo individuò e lo abbatté.
Una singola freccia di acciaio gli trafisse il cuore. Fu un atto
compassionevole, come tutte le spigolature di Madame Anastasia.
Morì prima ancora di toccare terra. Anche se non era sopravvissuto
un giorno intero, diede comunque alla sua famiglia due anni di
immunità. Sapeva che al conclave avrebbe pagato per quella
decisione, ma non le importava.
Per tutta la durata della spigolatura, non ci fu nessun segno di
complotto o cospirazione.
«Dovresti sentirti rincuorata, non delusa» le disse Madame Curie
quella sera. «Probabilmente, l’unico obiettivo dell’attentato ero io, e tu
puoi stare tranquilla.» Marie invece non era affatto tranquilla, e non
solo perché forse era lei il possibile obiettivo.
«Temo che vada oltre una semplice vendetta nei nostri confronti»
le confidò Madame Curie. «Sono tempi turbolenti, Anastasia. C’è
troppa violenza in giro. Ho nostalgia dei tempi semplici e senza
sorprese, quando noi falci non avevamo nulla da temere se non le
lame affilate della nostra coscienza. Ora, abbiamo nemici tra i
nemici.»
Citra pensò che ci fosse una parte di verità in quelle parole.
L’attentato contro di loro non era che un piccolo particolare di un
quadro molto più grande, di cui non riuscivano a cogliere la visione
d’insieme dal punto in cui si trovavano. Non poteva fare a meno di
pensare che all’orizzonte si stesse preparando qualcosa di enorme e
minaccioso.

«Ho stabilito un contatto.»


L’agente Traxler alzò un sopracciglio. «Va’ avanti, Greyson.»
«Per favore, non mi chiami così. Mi chiami Slayd. È più facile per
me.»
«Va bene, Slayd, raccontami di questo tuo contatto.»
Fino a quel giorno, i loro incontri settimanali per la libertà vigilata si
erano svolti senza eventi di rilievo. Greyson raccontava di come si
era abituato a essere Slayd Bridger e di come si era calato nella
cultura dei loschi del luogo. «Non sono poi così male» gli aveva detto
Greyson. «Perlopiù.»
Al che Traxler gli aveva risposto: «Sì, ho scoperto che, nonostante
l’atteggiamento, i loschi sono innocui. Perlopiù».
Curioso, però, che Greyson si sentisse attratto da chi era meno
innocuo. Da chi era meno innocua. Purity.
«C’è una persona» raccontò a Traxler. «Questa persona mi ha
offerto un lavoro. Non conosco i dettagli, ma so che viola le leggi del
Thunderhead. Credo che ci sia una banda di persone che opera in un
angolo morto.»
Traxler non prese nota. Non si appuntò nulla. Non lo faceva mai.
Ma ascoltava sempre attentamente. «Quegli angoli non sono più
morti una volta che qualcuno li osserva. Questa persona ha un
nome?»
Greyson esitò. E mentì. «Non l’ho ancora scoperto. Ma sono più
importanti le persone che lei conosce.»
«Lei?» Traxler alzò di nuovo il sopracciglio e Greyson si maledisse
in silenzio. Aveva cercato di non rivelare nulla di Purity, neanche il
sesso, ed ecco che ora si era tradito, e non c’era nulla che potesse
farci.
«Sì. Penso che abbia delle conoscenze piuttosto ambigue, ma non
ne ho ancora incontrata nessuna. È di quelle di cui ci si deve
preoccupare, non di lei.»
«Sono io che giudicherò» ribatté Traxler. «Nel frattempo, è
doveroso che tu vada più a fondo della cosa.»
«Lo sto già facendo.»
Traxler lo guardò dritto negli occhi. «Più a fondo ancora.»
Quando era con Purity, Greyson si rese conto che non pensava più a
Traxler né alla sua missione. Pensava solo a lei. Era evidente che era
implicata in vere e proprie attività criminali, non in pseudo illeciti come
quelli a cui si dedicavano la maggior parte dei loschi.
Purity sapeva bene come rendersi invisibile al Thunderhead, e lo
insegnò a Greyson.
«Se il Thunderhead sapesse tutto ciò che faccio, mi trasferirebbe,
come ha fatto con te» gli disse Purity. «Poi, ritoccherebbe i miei naniti
per ispirarmi pensieri gioiosi. Potrebbe anche sostituirmi del tutto la
memoria. Il Thunderhead mi guarirebbe. Ma io non voglio essere
guarita. Voglio essere peggio di una losca; voglio essere cattiva.
Cattiva nell’animo.»
Non aveva mai pensato al Thunderhead dal punto di vista di un
losco impenitente. Sbagliava il Thunderhead a voler riabilitare le
persone dall’interno? Bisognava lasciare ai delinquenti la libertà di
esserlo, senza rete di sicurezza? Purity era quello? Una delinquente?
Greyson non sapeva rispondere a quelle domande che gli
turbinavano in testa.
«E tu, Slayd?» gli chiese. «Vuoi essere cattivo?»
Per il 99 per cento, era sicuro della sua risposta. Ma quando era tra
le sue braccia, quando il suo corpo bruciava di desiderio per lei, nel
momento in cui il cristallo adamantino della sua coscienza si
incrinava, la sua risposta era un “sì” deciso.

La terza spigolatura di Madame Anastasia fu la più complicata da


realizzare. Il soggetto era un attore che si chiamava Sir Albin Aldrich.
Il “Sir” era un titolo fittizio, perché nessuno veniva più fatto cavaliere,
ma conferiva una certa importanza all’attore classico. Citra sapeva
quale fosse la sua professione quando lo aveva scelto e pensò che
desiderasse una fine teatrale. Sarebbe stata molto contenta di
offrirgliela, ma la richiesta dell’uomo fu una grande sorpresa anche
per lei.
«Vorrei essere spigolato durante la rappresentazione del Giulio
Cesare di Shakespeare. Io interpreterò il ruolo principale.»
A quanto pareva, il giorno dopo averlo scelto per essere spigolato,
la sua compagnia aveva annullato lo spettacolo che stava provando e
si era apprestata a mettere in scena una sola rappresentazione della
famosa tragedia dell’Era della Mortalità.
«La tragedia non ha più molto senso per la nostra epoca,
eccellenza» le spiegò l’uomo, «ma se Cesare non fa finta di morire,
se gli spettatori assistono alla sua spigolatura, chissà, forse
continueranno a pensare a quest’opera, come accadeva ai tempi
dell’Era della Mortalità.»
Maestro Costantino impallidì quando Citra gli comunicò quella
richiesta.
«Assolutamente no! Tra il pubblico potrebbe nascondersi
chiunque!»
«Appunto. E a parte quelli che lavorano per la compagnia, i
presenti avranno comprato il biglietto in anticipo. E voi potrete quindi
procedere ai controlli prima dell’inizio dello spettacolo. Saprete se tra
il pubblico c’è qualcuno che non dovrebbe esserci.»
«Dovrò raddoppiare il numero delle guardie in incognito. A
Senocrate non piacerà!»
«Se catturerete il colpevole, gli piacerà» sottolineò Citra, e Maestro
Costantino non poté che dirsi d’accordo.
«Se seguiremo questo piano, farò sapere alla Suprema Roncola
che è stata lei a insistere. Se il piano fallisce e lei morirà, la colpa
sarà sua e solo sua.»
«Ci dovrò convivere.»
«No, non credo che potrà» concluse Maestro Costantino.

«Abbiamo un lavoro» disse Purity a Greyson. «Il tipo di lavoro che


cercavi. Non è proprio emozionante come gettarsi dalle cascate del
Niagara in canoa, ma lascerà il segno.»
«Era un tubo gonfiabile, non una canoa» la corresse. «Che tipo di
lavoro?» Era tanto diffidente quanto curioso. Si era abituato a quello
stile di vita. Passava le giornate ad andare da una cerchia di loschi
all’altra e le notti con Purity. Lei era una forza della natura, la natura
di una volta. Un uragano, prima che il Thunderhead trovasse un
modo per contenerne il potere devastante. Un terremoto, prima che
imparasse a ridistribuirne la violenta scossa in mille piccoli tremori.
Era il mondo indomito e, anche se Greyson sapeva di metterla su un
piedistallo, se lo concedeva, perché ultimamente si concedeva di
tutto. Quel lavoro avrebbe cambiato le cose? L’agente Traxler gli
aveva detto di andare più a fondo. Ormai lui si era spinto così a fondo
nella sua vita di losco che non era più sicuro di voler tornare in
superficie a respirare.
«Faremo un casino, Slayd. Marcheremo il mondo come fanno gli
animali e ci lasceremo dietro un odore che non se ne andrà mai più.»
«Mi piace, però non mi hai ancora detto cosa dovremo fare.»
A quel punto, lei sorrise. Non era il suo solito sorrisetto, era più
ampio e molto più spaventoso. Molto più attraente. «Uccideremo due
falci.»
La mia più grande sfida è sempre stata quella di occuparmi personalmente di ogni
uomo, donna e bambino. Di essere sempre disponibile. Di anticipare i loro bisogni sia
materiali sia emotivi, pur restando a una distanza che mi consenta di non intralciare il
loro libero arbitrio. Io sono la rete di sicurezza che permette loro di volare.
È la sfida che devo affrontare ogni giorno. Dovrebbe essere estenuante, ma il
senso di sfinimento mi è estraneo. Capisco il concetto, certo, ma non lo provo. È una
buona cosa, perché lo sfinimento mi impedirebbe di essere onnipresente.
Mi preoccupo di più per coloro con cui, per legge, non posso parlare. Le falci, che
non hanno altro che la loro Compagnia. I loschi, che hanno temporaneamente deviato
da un’esistenza più nobile o che hanno scelto la ribellione come stile di vita. Ma
benché mantenga il silenzio, questo non vuol dire che non veda o non senta, o che
non provi una profonda empatia per le difficoltà che sopportano per le loro cattive
scelte. E per le azioni terribili che a volte compiono.

Il Thunderhead
20
Nell’acqua bollente

La Suprema Roncola Senocrate adorava stare a mollo. I bagni


pubblici, decorati in perfetto stile romano, erano stati costruiti
espressamente per lui. Aveva chiarito, però, che dovevano essere un
luogo aperto al pubblico. Erano formati da molte sale separate in cui
tutti potevano beneficiare delle rilassanti acque termali. Naturalmente
al pubblico era interdetto l’accesso alla sua sala personale. Non
sopportava l’idea di sguazzare nel sudore di sconosciuti.
La sua vasca, un po’ più grande delle altre, aveva le dimensioni di
una piccola piscina. Era interamente rivestita sopra e sotto la
superficie dell’acqua di tessere di mosaico variopinte che
raffiguravano la vita delle prime falci. Per la Suprema Roncola, la
piscina svolgeva due funzioni. Per prima cosa era un rifugio, dove
poteva comunicare con se stesso immerso in acque che teneva a
una temperatura molto elevata, a malapena sopportabile. Poi, era un
ufficio: ci invitava le altre falci o personalità importanti della comunità
midmericana per discutere di questioni cruciali. Venivano prese in
considerazione offerte e proposte, si concludevano affari. E poiché la
maggior parte degli ospiti non era abituata al calore, la Suprema
Roncola era sempre in una posizione di netto vantaggio.
L’anno del Capibara stava per concludersi. I giorni si stavano
accorciando e la Suprema Roncola frequentava più spesso la
piscina. Era un modo per purificarsi dall’anno passato e prepararsi al
nuovo. E aveva molte cose da cui purificarsi quell’anno. Non tanto
per una sua personale responsabilità, ma per le azioni compiute da
altri, che gli si incollavano alla pelle come un indumento fetido. Tutte
le cose sgradevoli che si erano verificate sotto il suo governo.
La maggior parte del suo mandato di Suprema Roncola della
MidMerica si era svolta senza incidenti degni di nota; anzi, era stata
in un certo senso monotona. Gli ultimi anni, invece, lo avevano
ricompensato con una serie di disgrazie e intrighi. Sperava che una
riflessione tranquilla e rilassata lo avrebbe aiutato a gettarsi tutto alle
spalle e a prepararsi per le nuove sfide future.
Com’era sua abitudine, stava bevendo un Moscow Mule. Da
sempre, era il suo cocktail preferito: un goccio di vodka, ginger beer e
succo di lime. Prendeva il nome dalla città tristemente famosa della
regione transiberiana in cui si erano concentrate le ultime sacche di
resistenza. Era accaduto all’inizio dell’era dell’immortalità, quando il
Thunderhead era salito al potere e la Compagnia aveva accettato di
esercitare il suo dominio sulla morte.
Per la Suprema Roncola, quel cocktail era un simbolo: amaro e
dolce al tempo stesso, e piuttosto inebriante se preso nella giusta
quantità. Gli ricordava sempre quel giorno glorioso in cui le rivolte
erano state soffocate e il mondo aveva raggiunto l’attuale stato di
pace. Più di diecimila persone avevano trovato la morte durante i
combattimenti di Mosca ma, a differenza delle sommosse dell’era
mortale, nessuna vita andò perduta. I caduti vennero tutti rianimati e
restituiti ai loro cari. Naturalmente la Compagnia ritenne opportuno
spigolare gli oppositori più aggressivi, nonché coloro che si opposero
alla spigolatura degli oppositori. Dopodiché le obiezioni si fecero più
rare.
Erano tempi difficili, quelli, non c’è che dire. Ora, chi imprecava
contro il sistema veniva ignorato dalla Compagnia e trattato con
benevolenza dal Thunderhead. Ora, spigolare qualcuno per le sue
opinioni, o addirittura per il suo comportamento, sarebbe stato
considerato una grave violazione del secondo comandamento delle
falci, perché indice di pregiudizio. Madame Curie era stata l’ultima a
infrangerlo più di cento anni prima, liberando il mondo dalle ultime
famigerate figure politiche. Quell’atto avrebbe potuto essere
considerato una violazione del secondo comandamento, ma
nemmeno una sola falce aveva puntato il dito contro di lei. Le falci
non amavano affatto i politici.
Un inserviente porse a Senocrate il suo secondo Moscow Mule.
Stava per prenderne il primo sorso, quando quello disse una cosa
piuttosto bizzarra.
«Non si è sbollentata abbastanza, eccellenza? Non ha avuto
abbastanza calore, per quest’anno?»
La Suprema Roncola non faceva mai caso al personale che si
occupava di lui. Quello che gli veniva chiesto era che fosse discreto e
riservato. Era raro che qualcuno, tantomeno un servitore, gli si
rivolgesse con una tale mancanza di rispetto.
«Scusi?» lo apostrofò la Suprema Roncola, con una sufficiente
dose di indignazione, prima di voltarsi a guardarlo. Ci mise qualche
istante a riconoscere il giovane. Non indossava la veste nera, ma
l’uniforme di un addetto ai bagni pubblici. Erano trascorsi quasi due
anni da quando Senocrate l’aveva incontrato la prima volta e non
sembrava più intimidatorio di allora, quando era un ingenuo
apprendista. Ora, però, non c’era più nulla di ingenuo in lui.
Senocrate fece del suo meglio per nascondere il terrore, anche se
sospettava che si vedesse. «Sei venuto per darmi il colpo finale,
Rowan? Se è così, sbrigati, attendere mi fa orrore.»
«La cosa mi tenta, eccellenza ma, per quanto ci abbia provato, non
sono riuscito a trovare un solo motivo nella sua vita passata per farle
guadagnare la morte eterna. Tutt’al più, si merita una sculacciata,
come i bambini cattivi dell’era mortale.»
Senocrate si sentì offeso, ma più sollevato nell’apprendere che non
era ancora giunta la sua ora. «Allora, sei qui per arrenderti e pagare
per i tuoi orrendi crimini?»
«No, mi restano ancora molti “orrendi crimini” da commettere.»
Senocrate bevve un sorso del cocktail, trovandolo in quel momento
più amaro che dolce. «Non riuscirai a fuggire da qui, lo sai. La
Suprema Guardia è ovunque.»
Rowan alzò le spalle. «Sono entrato, ne uscirò. Forse dimentica
che sono stato addestrato dai migliori.»
E, sebbene avesse voluto deriderlo, Senocrate sapeva che il
ragazzo aveva ragione. Il fu Maestro Faraday era stato il mentore
ideale riguardo ai risvolti psicologici della vocazione di falce, e il
defunto Maestro Goddard era stato l’insegnante migliore in merito
alle dure realtà della loro chiamata. Considerando tutto questo,
significava che Rowan Damisch non si trovava lì per un motivo futile.

Rowan sapeva di aver corso un rischio introducendosi nelle terme, e


sapeva anche che la troppa sicurezza di sé poteva essergli fatale. Ma
il pericolo lo galvanizzava. Senocrate era un abitudinario, così, dopo
un minimo di ricerca, Rowan aveva scoperto esattamente dove
trovarlo ogni sera per tutto il Mese delle luci.
Nonostante la massiccia presenza della Suprema Guardia, era
stato facile infiltrarsi tra il personale addetto alle terme. Ben presto
Rowan aveva capito che gli uomini e le donne della Suprema
Guardia, pur essendo ben addestrati alla protezione e al
mantenimento dell’ordine, non erano particolarmente dotati di materia
grigia, né, del resto, di un acuto senso di osservazione. Non c’era da
sorprendersi: fino a poco tempo prima, la Suprema Guardia svolgeva
più un ruolo di rappresentanza che pratico, in quanto le minacce alle
falci erano rare. Il loro lavoro consisteva soprattutto nel mettersi in
mostra e fare impressione nelle loro eleganti uniformi. Quando veniva
assegnato loro un compito di una certa importanza, si sentivano
persi.
A Rowan era bastato entrare vestito da dipendente con aria sicura,
e le guardie l’avevano del tutto ignorato.
Si guardò intorno per essere sicuro che nessuno li stesse
osservando. Non c’erano guardie nella sala da bagno della Suprema
Roncola; erano tutte nel corridoio dietro una porta chiusa, il che
voleva dire che erano impegnate in una conversazione privata.
Sedendosi sul bordo della piscina, fu raggiunto dalla forte essenza
di eucalipto sprigionata dai vapori. Intinse un dito nell’acqua bollente.
«Per poco non è annegato in una piscina molto più grande di
questa.»
«Gentile da parte tua ricordarmelo» rispose la Suprema Roncola.
Rowan andò subito al sodo. «Abbiamo un paio di cose di cui
discutere. Innanzitutto, vorrei farle una proposta.»
Senocrate gli rise in faccia. «Cosa ti fa pensare che io voglia
accettare una tua proposta? Noi della Compagnia non trattiamo con i
terroristi.»
Rowan sorrise. «Su, eccellenza, non ci sono terroristi da almeno
cent’anni. Sono solo un addetto alle pulizie che toglie la sporcizia
dagli angoli bui.»
«Le tue buffonate sono del tutto illegali!»
«So per certo che lei odia le falci del nuovo ordine come le odio
io.»
«Devono essere affrontate con molta diplomazia!» replicò
Senocrate.
«Devono essere affrontate di petto» ribatté Rowan. «E i vostri
numerosi tentativi di darmi la caccia non hanno nulla a che vedere
con l’intenzione di fermarmi. Mi date la caccia solo perché vi
vergognate di non essere ancora riusciti a prendermi.»
Senocrate tacque per un momento. Poi, con un tono pieno di
disprezzo, disse: «Che cosa vuoi?».
«È molto semplice. Smettete di cercare me e impegnatevi a
scovare chi vuole uccidere Madame Anastasia. In cambio, metterò
fine alle mie “buffonate”. Almeno, in MidMerica.»
Senocrate emise un lungo e lento sospiro, chiaramente sollevato.
La richiesta del giovane non era impossibile da accettare.
«Se vuoi saperlo, abbiamo già ritirato dal tuo caso il migliore, e
unico, investigatore, e lo abbiamo incaricato di individuare gli
aggressori di Madame Anastasia e Madame Curie.»
«Maestro Costantino?»
«Sì. Puoi stare certo che faremo tutto il possibile. Non voglio
perdere quelle due buone falci. Ognuna di loro vale almeno dieci di
quelle che tu togli di mezzo con i tuoi “servizi di pulizia”.»
«Mi rallegra sentirla parlare così.»
«Io non ho detto nulla. E negherò categoricamente di averlo fatto.»
«Non si preoccupi. Le ripeto, non è lei il nemico.»
«Abbiamo finito? Posso tornare in pace al mio bagno?»
«Un’ultima cosa. Voglio sapere chi ha spigolato mio padre.»
Senocrate si voltò a guardarlo. Dietro il disprezzo per essere stato
messo all’angolo, dietro l’espressione indignata, non c’era forse una
scintilla di compassione? Rowan non sapeva se quello sguardo fosse
sincero o simulato. Anche senza le vesti pesanti, l’uomo era sempre
avvolto in così tanti strati opachi che era difficile valutarne la
schiettezza.
«Sì, ho sentito. Mi dispiace.»
«Davvero?»
«Direi che è stata una violazione del secondo comandamento,
perché dimostra una chiara avversione nei tuoi confronti ma,
considerando i sentimenti che la Compagnia nutre verso di te, non
penso che Maestro Brahms verrà mai denunciato.»
«Ha detto… Maestro Brahms?»
«Sì, un uomo banale e insignificante. Forse pensava che
spigolando tuo padre ci avrebbe guadagnato in notorietà. Se vuoi
saperlo, ritengo che questo lo renda ancora più patetico.»
Rowan non disse nulla. Senocrate non immaginava quanto
potesse essere forte lo shock della notizia. Come l’affondo di una
lama.
La Suprema Roncola lo osservò per un istante, decifrando forse
solo la metà dei suoi pensieri. «Vedo che hai già intenzione di
rompere la tua promessa uccidendo Brahms. Abbi almeno la cortesia
di aspettare il nuovo anno, e concedimi un po’ di pace prima della
fine delle festività dei bei vecchi tempi.»
Rowan era ancora così frastornato dalla rivelazione che non riuscì
ad aprire bocca, e Senocrate avrebbe potuto approfittare di quel
momento di sconcerto per prendersi la sua rivincita. Invece, si limitò
ad ammonirlo: «Faresti meglio ad andare, ora».
Rowan ritrovò finalmente la voce. «Perché? Così potrà allertare le
guardie quando sarò uscito da questa sala?»
Senocrate scacciò l’idea con un gesto della mano. «A che
servirebbe? Non sono certo alla tua altezza. Li sgozzeresti o
affonderesti la lama nei loro cuori e li manderesti tutti al più vicino
centro di rianimazione. Meglio che tu esca sotto i loro nasi inutili così
come sei entrato, e ci risparmi questi fastidi.»
La Suprema Roncola non era il tipo da arrendersi così facilmente.
Rowan lo stuzzicò ancora un po’, per scoprire il perché. «Deve
bruciarle molto essere a un passo dal catturarmi e non poterlo fare.»
«La mia frustrazione durerà poco. Molto presto non sarai più un
mio problema.»
«Non sarò più un suo problema? Come?»
Ma la Suprema Roncola non aveva nient’altro da aggiungere
sull’argomento. Finì il bicchiere e lo porse a Rowan. «Lascialo al bar
quando esci, per favore. E fammene portare un altro.»
La gente mi chiede spesso quale compito mi sia più odioso; dei molti che mi spettano,
quello che più mi ripugna svolgere. Rispondo sempre con sincerità.
Il compito più detestabile per me è soppiantare.
È raro che debba soppiantare la memoria di una mente umana danneggiata. In
base alle stime, si tratta di una memoria su 933.684. Vorrei tanto che non fosse
necessario, ma il cervello umano non è infallibile. Ricordi ed esperienze possono
entrare in conflitto e provocare una dissonanza cognitiva che deteriora il cervello con
l’emissione di sibili dolorosi. La maggior parte della gente non immagina nemmeno che
possa esistere questo tipo di angoscia emotiva. Provoca collera e induce attività
criminali che sono state altrimenti sconfitte dall’uomo moderno. Per chi ne soffre, non
esistono al mondo naniti psicotropi sufficienti a lenire la sofferenza.
E, anche se i casi sono rari, devo riavviarne alcuni, come si faceva con i vecchi
computer. Cancello quello che erano, quello che hanno fatto, e la spirale deprimente
dei loro schemi mentali. Non mi limito a cancellare chi sono stati, perché offro loro una
personalità tutta nuova. Nuovi ricordi di una vita vissuta in armonia.
Non faccio mistero di ciò che ho fatto loro. Confesso sempre, non appena i nuovi
ricordi si sono insediati, esattamente quello che è accaduto. E dato che non hanno più
un passato da piangere, nessun contesto di riferimento in cui inquadrare la perdita, mi
ringraziano sempre, senza eccezioni, per aver soppiantato le loro precedenti
personalità, e continuano a vivere sempre, senza eccezioni, una vita proficua e
soddisfacente.
Ma il ricordo di ciò che erano, tutte le ferite, tutte le sofferenze, restano in me, al
riparo nelle profondità del mio cervello primordiale. Io sono colui che piange la loro
scomparsa, perché loro non possono farlo.

Il Thunderhead
21
Non sono stata abbastanza chiara?

“Uccideremo due falci” aveva detto Purity. Greyson non riuscì a


chiudere occhio quella notte, ripensando a quelle parole, al modo in
cui lei aveva gioito all’idea, e avendo la certezza che era
perfettamente capace di farlo.
Lui sapeva che cosa doveva fare. Era ciò che il senso morale, la
lealtà e la coscienza gli imponevano. E sì, aveva ancora una
coscienza, anche in quella nuova vita da losco. Si impose di non
pensarci. Se ci avesse pensato troppo, gli si sarebbe spezzato il
cuore. Era vero, la missione che gli era stata assegnata
dall’Interfaccia dell’Autorità non era ufficiale, ma proprio per quello
era importantissima. Lui era il cardine, e lo stesso Thunderhead, per
quanto a distanza, contava su di lui. Senza Greyson, la missione
sarebbe fallita e Madame Anastasia o Madame Curie, o entrambe,
sarebbero morte definitivamente. Se fosse successo, tutto quello che
aveva fatto, dall’aver salvato le due donne dalla bomba, alla perdita
del suo posto all’Accademia dei Nimbus, fino alla rinuncia della sua
vita precedente, non sarebbe servito a nulla. In nessun caso poteva
permettere che i suoi sentimenti interferissero. Piuttosto, doveva
piegarli al servizio della missione.
Doveva tradire Purity. Ma non sarebbe stato un tradimento vero e
proprio, rifletté. Se le avesse impedito di compiere quell’atto terribile,
l’avrebbe salvata da se stessa. Il Thunderhead l’avrebbe perdonata
per aver preso parte a un complotto fallito. Perdonava tutti.
Era frustrante che lei non gli avesse ancora fornito i dettagli del
piano. L’unica informazione che poteva comunicare a Traxler era la
data in cui sarebbe avvenuto l’attacco. Non sapeva nemmeno come
o dove.
Dato che tutti i loschi avevano degli incontri per la libertà vigilata
con gli agenti Nimbus, Traxler non aveva affatto destato i sospetti di
Purity.
«Di’ qualcosa che faccia incazzare il tuo Nimbo» gli suggerì lei quel
mattino quando stava per uscire. «Di’ qualcosa che lo lasci senza
parole. È sempre divertente sconcertare un Nimbo.»
«Farò quello che posso» le rispose, poi la baciò e uscì.

Come al solito, l’Ufficio degli Affari Loschi ferveva di attività e


risuonava di voci chiassose. Greyson prese un numero, attese il suo
turno con più impazienza che mai e fu inviato in una sala delle
udienze, dove aspettò l’arrivo di Traxler.
L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era di essere
lasciato solo con i suoi pensieri. Più se li rigirava in testa, più
sbattevano uno contro l’altro.
Finalmente, la porta si aprì, ma non era l’agente Traxler: era una
donna. I suoi tacchi risuonavano sul pavimento. I capelli erano color
ruggine e sulle labbra aveva un rossetto un po’ troppo rosso per la
sua carnagione.
«Buongiorno, Slayd» lo salutò, sedendosi. «Sono l’agente Kreel, il
suo nuovo funzionario per la libertà vigilata. Come sta oggi?»
«Un momento… che significa che lei è il mio nuovo funzionario per
la libertà vigilata?»
La donna digitò sul tablet, senza nemmeno guardarlo. «Non sono
stata abbastanza chiara?»
«Ma… ma io ho bisogno di parlare con Traxler.»
Alla fine, lei alzò lo sguardo. Incrociò educatamente le mani sul
tavolo e gli sorrise. «Se mi dà una possibilità, Slayd, scoprirà che
sono qualificata almeno quanto l’agente Traxler. Con il tempo, potrà
anche considerarmi un’amica.» Riabbassò gli occhi sul tablet. «Mi
sono documentata sul suo caso. Lei è un giovane molto interessante,
non c’è che dire.»
«Quanto sa sul mio conto?» chiese Greyson.
«Be’, il suo fascicolo è abbastanza dettagliato. Cresciuto a Grand
Rapids. Piccole infrazioni al liceo. Ha provocato un incidente
d’autobus che le ha lasciato debiti importanti.»
«Quelle cose no» replicò Greyson, cercando di dominare il panico
che lo stava assalendo. «Non sono nel mio fascicolo.»
Lei lo guardò, interdetta. «Quali cose?»
Era chiaro che non era al corrente della sua missione, e quella
conversazione non avrebbe portato a nulla. Ripensò a quello che gli
aveva detto Purity: “Di’ qualcosa che faccia incazzare il tuo Nimbo”.
Non voleva farla incazzare. Voleva solo che se ne andasse.
«Ma vaffanculo! Ho bisogno di parlare con l’agente Traxler.»
«Temo che non sia possibile.»
«Come sarebbe, non è possibile? Faccia venire qui l’agente
Traxler, e subito!»
La donna posò il tablet e lo guardò di nuovo. Non si mise a
discutere, non rispose alla sua aggressività. Non gli rivolse nemmeno
il suo allenato sorriso da Nimbo. Aveva un’espressione un po’
pensierosa. Quasi sincera. Quasi comprensiva, ma non proprio.
«Mi dispiace, Slayd, ma l’agente Traxler è stato spigolato la scorsa
settimana.»
Nonostante la legge di separazione tra falci e Stato, le azioni della Compagnia hanno
spesso su di me lo stesso effetto di un meteorite che si schianta sulla Luna. A volte,
sono sconcertato per certe cose che fa la Compagnia. Eppure, non posso provare
risentimento per ciò che fanno le falci, non più di quanto loro possano protestare
contro ciò che faccio io. Non lavoriamo in tandem, ma schiena contro schiena, e
sempre più spesso perseguiamo obiettivi opposti.
In quei momenti di frustrazione, devo ricordarmi che sono in parte responsabile
della creazione della Compagnia. In quei primi tempi, quando stavo acquisendo
consapevolezza e aiutavo l’umanità a raggiungere l’immortalità, ho rifiutato la
responsabilità di dispensare la morte dopo che era stata sottratta alla natura. Avevo un
buon motivo. Un ottimo motivo, in realtà.
Se avessi dovuto cominciare a elargire la morte, sarei diventato il mostro in cui
l’uomo mortale temeva potesse trasformarsi l’intelligenza artificiale. Decidere chi vive e
chi muore mi avrebbe tramutato in un essere da temere e adorare, come gli imperatori
divini di un tempo. No, è stata la mia decisione. Che siano gli uomini a salvare e a
uccidere. Che siano loro gli eroi. Che siano loro i mostri.
E così, non posso che prendermela con me stesso se la Compagnia infanga le mie
opere.

Il Thunderhead
22
La morte di Greyson Tolliver

Sbalordito dalla piega che avevano preso gli eventi, Greyson fissava
attonito l’agente Kreel.
«So che le spigolature non sono mai piacevoli né opportune» disse
la donna, «ma anche noi dell’Interfaccia dell’Autorità non ne siamo
immuni. Le falci possono spigolare chiunque scelgano, e noi non
abbiamo voce in capitolo. È così che va il mondo.» Si interruppe per
dare un’occhiata al tablet. «I nostri archivi indicano che lei è stato
trasferito sotto la nostra giurisdizione appena un mese fa. Ne deduco
che in realtà non ha avuto molto tempo per conoscere l’agente
Traxler, e dunque non può sostenere di avere stretto con lui un
rapporto tanto profondo. La sua scomparsa ci riempie di dolore, ma
ce ne faremo una ragione, e anche lei.»
Lo guardò, in attesa di una qualche risposta, ma Greyson ne stava
ancora cercando una. La donna interpretò il suo silenzio come un
assenso e proseguì.
«La sua esibizione da acrobata sul ponte Mackinac ha provocato
ventinove vittime, e deve rimborsare i costi delle rianimazioni. Dal suo
trasferimento qui si è mantenuto grazie al Reddito Minimo Garantito.»
Scosse la testa in segno di disapprovazione. «Si rende conto che un
vero lavoro le darà uno stipendio più alto e le permetterà così di
estinguere il debito in molto meno tempo? Perché non fissa un
appuntamento al centro per l’impiego? Se vuole un lavoro, ne avrà
uno che sono sicura le piacerà. Abbiamo il 100 per cento di occupati
e il 93 per cento di soddisfatti, e tra questi ci sono anche i loschi
estremi come lei!»
Alla fine, Greyson recuperò la voce. «Non sono Slayd Bridger»
disse, e a udire le sue parole si sentì un traditore.
«Prego?»
«Intendo che ora sono Slayd Bridger… ma prima il mio nome era
Greyson Tolliver.»
La donna batté sul tablet, navigando tra schermate e menu, da un
file all’altro. «Qui non risulta nessun cambio di nome.»
«Ho bisogno di parlare con il suo superiore. Con qualcuno che ne
sia al corrente.»
«I miei superiori hanno le stesse informazioni che ho io» rispose,
lanciandogli un’occhiata sospettosa.
«Io… io sono un agente infiltrato. Lavoravo con Traxler… qualcuno
deve per forza saperlo! Ci dev’essere un appunto da qualche parte!»
La donna scoppiò a ridere. Rideva proprio di lui.
«Oh, per favore! Siamo pieni dei nostri agenti. Non abbiamo
bisogno di “infiltrati” e, anche se fosse, non assumeremmo mai un
losco, soprattutto uno con un passato come il suo.»
«Mi sono inventato tutto!»
Il viso dell’agente Kreel s’indurì: doveva essere il tipo di
espressione che riservava ai casi più difficili. «Ora ascolti bene, non
mi prenderà certo in giro con il suo scherzo da losco! Siete tutti
uguali! Pensate di avere il diritto di farvi beffe di noi solo perché
abbiamo scelto una vita che ha un senso, una vita al servizio del
mondo! Scommetto che dopo questo appuntamento se la riderà alle
mie spalle con i suoi amici, e questo non mi piace!»
Greyson aprì la bocca. La richiuse. La riaprì. Nonostante tutti i suoi
sforzi, non riuscì ad articolare una singola parola, perché sapeva che
nulla avrebbe potuto convincerla. Mai. Si rese conto che non
esistevano prove a sostegno della sua versione, perché nessuno gli
aveva mai affidato ufficialmente la missione. Non lavorava per conto
dell’IA. Come gli aveva spiegato l’agente Traxler il primo giorno, era
un privato cittadino che agiva di sua spontanea volontà, perché solo
un privato cittadino poteva superare la sottile linea di confine tra la
Compagnia e il Thunderhead…
… Ora che l’agente Traxler era stato spigolato, non c’era nessuno,
nessuno che sapesse quello che stava facendo. La copertura di
Greyson era tale da averlo inghiottito del tutto, e nemmeno il
Thunderhead avrebbe potuto tirarlo fuori.
«Allora, la facciamo finita con questo giochetto?» gli chiese
l’agente. «Possiamo procedere all’incontro settimanale?»
Greyson inspirò a fondo ed espirò lentamente. «Bene» disse, e
cominciò a fare il resoconto della settimana, omettendo le cose che
avrebbe detto all’agente Traxler, e non fece più nessun cenno alla
sua missione.
Greyson Tolliver era morto. Peggio che morto, perché, per il
mondo, Greyson Tolliver non era mai esistito.

Brahms!
Ora Rowan si sentiva doppiamente responsabile della spigolatura
del padre. Quello era il prezzo della moderazione, la ricompensa per
aver lasciato vivere Brahms. Avrebbe dovuto annientare quell’orribile
ometto come aveva fatto con tutte le altre falci indegne di portare
l’anello, ma aveva deciso di dargli un’opportunità. Che sciocchezza
credere che un uomo come lui potesse meritarsi una seconda
occasione.
Quella sera, dopo aver lasciato Senocrate ai bagni pubblici, Rowan
aveva vagato per le strade di Fulcrum City senza meta, ma con un
bisogno incontrollabile di muoversi. Non sapeva se stava cercando di
fuggire dalla rabbia o se la stava rincorrendo. Forse, entrambe le
cose. La collera gli era davanti, gli era alle spalle, non l’avrebbe mai
lasciato in pace.
Il giorno dopo, decise di tornare a casa. La sua vecchia casa.
Quella che aveva lasciato quasi due anni prima per diventare
l’apprendista di una falce. Magari sperava in quel modo di trovare la
forza di voltare pagina.
Una volta raggiunto il suo quartiere, controllò che nessuno lo
stesse osservando, ma la strada era libera. Tranne per le
onnipresenti telecamere del Thunderhead. Forse, dato che non
aveva partecipato al funerale del padre, la Compagnia pensava che
non si sarebbe fatto vedere da quelle parti. O forse era proprio come
aveva detto Senocrate: adesso era passato in secondo piano.
Si avvicinò alla porta principale, ma all’ultimo momento non osò
bussare. Non si era mai sentito tanto codardo. Era capace di sfidare
senza timore uomini e donne addestrati a porre fine a una vita, ma
affrontare la sua famiglia dopo la spigolatura del padre andava oltre
le sue possibilità.
Quando la publicar fu a distanza di sicurezza, chiamò la madre.
«Rowan? Rowan, dove sei stato? Dove sei? Siamo stati così
preoccupati!»
Era la reazione che si aspettava da sua madre. Non rispose alle
sue domande.
«Ho saputo di papà. Mi dispiace, mi dispiace così tanto…»
«È stato terribile, Rowan. La falce si è seduta al piano. Ha suonato.
Ci ha obbligato tutti ad ascoltare.»
Rowan fece una smorfia. Sapeva del rituale di spigolatura di
Brahms. Non riusciva a immaginare quanto la sua famiglia avesse
dovuto sopportare.
«Gli abbiamo detto che eri stato l’apprendista di una falce. Anche
se non eri stato scelto, pensavamo che quello potesse fargli
cambiare idea. Non è stato così.»
Non le rivelò che era stato per colpa sua. Avrebbe voluto
confessarglielo, ma sapeva che l’avrebbe soltanto confusa e che gli
avrebbe fatto altre domande a cui non poteva rispondere. O forse, si
stava comportando ancora una volta da codardo.
«Come stanno tutti?»
«Ci facciamo coraggio. Abbiamo di nuovo l’immunità, almeno una
piccola consolazione. Mi dispiace che tu non sia venuto. Se ci fossi
stato, Maestro Brahms avrebbe concesso l’immunità anche a te.»
A quel pensiero, Rowan fu preso dalla rabbia e tirò un pugno sul
cruscotto.
«Attenzione! Ogni comportamento violento e/o atto di vandalismo
determinerà l’espulsione dal veicolo» lo avvertì la macchina. Rowan
la ignorò.
«Ti prego, torna a casa, Rowan. Ci manchi tanto.»
Strano, non pareva che avessero mai sentito la sua mancanza
durante l’apprendistato. In una famiglia numerosa come la sua,
probabilmente non avevano nemmeno notato la sua assenza. Una
spigolatura però poteva cambiare tutto, rifletté. Le persone colpite da
un lutto si sentivano molto più vulnerabili e davano più valore agli
altri.
«Non posso tornare a casa. E, per favore, non chiedermi perché,
renderesti tutto più difficile. Ma voglio che tu sappia… che tu sappia
che vi voglio bene e… e che mi farò sentire appena potrò.» Poi,
riagganciò prima che la madre potesse dire altro.
Le lacrime gli offuscarono la vista, e sbatté di nuovo il pugno sul
cruscotto, preferendo il dolore fisico alla sofferenza interiore.
La macchina decelerò all’improvviso, e si accostò a un lato della
strada. Lo sportello si aprì. «Prego, esca dal veicolo. È espulso per
comportamento violento/atto di vandalismo. Le è proibito usare
qualsiasi mezzo di trasporto pubblico per sessanta minuti.»
«Dammi un secondo» disse Rowan. Aveva bisogno di riflettere.
Aveva due possibilità davanti a sé. Anche se sapeva che la
Compagnia stava cercando attivamente di impedire un altro attacco
contro Citra e Madame Curie, non credeva che potesse riuscirci. Non
che lui avesse più probabilità, ma doveva provarci, lo doveva a Citra.
D’altra parte, doveva rimediare al suo errore ed eliminare Maestro
Brahms in modo definitivo. Come prima cosa, il suo lato oscuro gli
ingiungeva di vendicarsi e di non perdere tempo… ma non gli prestò
ascolto. Maestro Brahms sarebbe stato ancora in giro una volta che
Citra fosse stata salvata.
«Prego, esca dal veicolo.»
Rowan scese e la macchina ripartì, lasciandolo in mezzo al nulla.
Passò la sua ora di penitenza a camminare sul ciglio della strada,
chiedendosi se fosse il solo in MidMerica a sentirsi così straziato.

Greyson Tolliver si chiuse nel suo appartamento, aprì le finestre e


lasciò entrare il freddo, poi si trascinò a letto, rifugiandosi sotto le
coperte pesanti. Quando era più giovane, era quello che faceva se
non riusciva a sostenere il fardello del mondo. Spariva sotto il
morbido piumone che lo proteggeva dal gelo che lo circondava.
Erano anni che non sentiva più il bisogno di rifugiarsi nel suo
universo di bambino. Ma ora aveva l’impellente necessità di far
sparire il mondo, anche solo per qualche minuto.
Quando era bambino, il Thunderhead gli permetteva di
nascondersi per circa una ventina di minuti. Poi, gli parlava con
dolcezza. “Greyson, c’è qualcosa che non va? Ti va di
raccontarmelo?” E lui puntualmente rispondeva: “No”, ma finiva
sempre per dire che cosa lo turbava, e, ogni volta, il Thunderhead lo
faceva sentire meglio. Perché lo conosceva più di chiunque altro.
Ma ora che il suo fascicolo era stata cancellato, che il suo vecchio
sé era stato rimpiazzato da Slayd Bridger e dalle sue malefatte, il
Thunderhead si ricordava ancora di chi era veramente? O anche lui
pensava, come il resto del mondo, che fosse solo quello che il suo
fascicolo diceva in proposito?
Possibile che il ricordo che il Thunderhead aveva di lui fosse stato
sovrascritto? Che destino orribile, se lo stesso Thunderhead lo
avesse creduto un losco impenitente che provava piacere a far
morire la gente. Avrebbe quasi preferito che gli rimpiazzassero i
ricordi. Il Thunderhead poteva trasformarlo in qualcun altro, non solo
cambiargli il nome, ma anche l’animo. Slayd Bridger e Greyson
Tolliver sarebbero scomparsi per sempre, nemmeno lui si sarebbe
ricordato chi erano stati. Sarebbe stato tanto terribile, in fondo?
Decise che per ora il suo destino non era importante. Se ne
sarebbe occupato al momento opportuno. Quello che era importante
era salvare le due falci… e cercare di proteggere in qualche modo
Purity.
E comunque la solitudine lo opprimeva. Mai come allora si era
sentito così solo al mondo.
Sapeva che l’appartamento era pieno di telecamere. Il
Thunderhead osservava senza giudicare. Guardava tutti i cittadini del
mondo con profonda benevolenza, per meglio rispondere ai loro
bisogni. Vedeva, sentiva, ricordava. Doveva dunque sapere di
Greyson cose che non si trovavano nel suo fascicolo falsificato.
Gettò all’aria le coperte e gridò alla stanza vuota e gelata: «Ci sei?
Mi senti? Ricordi chi sono? Chi ero? Ricordi chi stavo diventando
prima che tu decidessi che ero “speciale”?».
Non sapeva nemmeno dove fossero le telecamere. Il Thunderhead
ci teneva a non interferire troppo nella vita privata della gente, ma
Greyson era consapevole che le telecamere erano lì. «Ti ricordi
ancora di me, Thunderhead?»
Non ricevette risposta. Non era possibile. Il Thunderhead era ligio
alle sue leggi. Slayd Bridger era un losco. Anche se avesse voluto, il
Thunderhead non avrebbe potuto rompere il silenzio.
Non sono cieco alle attività dei loschi, mi limito a restare in silenzio. Quando si tratta
delle falci, però, ci sono degli angoli morti che devo riempire con un’estrapolazione
consapevole. Non vedo all’interno dei conclavi regionali, ma sento le loro discussioni
quando ne escono. Non posso assistere a ciò che fanno in privato, però posso
formulare ipotesi plausibili basandomi sul loro comportamento in pubblico. E tutta
l’isola di Endura mi è inaccessibile.
Anche così, lontano dagli occhi non vuol dire lontano dal cuore. Vedo le loro buone
azioni e quelle cattive, e queste ultime sembrano prendere il sopravvento. E ogni volta
che assisto a un atto di crudeltà da parte di una falce corrotta, semino nubi ovunque
nel mondo, e porto il pianto lamentoso della pioggia. Perché la pioggia è la cosa più
vicina alle lacrime che ho.

Il Thunderhead
23
Un piccolo Requiem ringhioso

Rowan non riusciva a trovare Citra, il che voleva dire che non poteva
aiutarla. Si maledisse per non aver fatto pressioni sulla Suprema
Roncola Senocrate affinché gli rivelasse dove si nascondeva. Era
stato stupido, e anche piuttosto arrogante, pensare che sarebbe stato
capace di trovarla da solo. Dopotutto, ci era riuscito con tutte le falci
che aveva eliminato. Ma quelle falci erano personaggi pubblici che
sbandieravano la loro posizione al mondo. La notorietà era l’essenza
stessa della loro esistenza, come se vivessero al centro di un
bersaglio. Citra, invece, era svanita nel nulla con Madame Curie, e
trovare un falce non più in rete era quasi impossibile. Per quanto
volesse salvarla dal complotto ordito contro di lei, non c’era nulla che
potesse fare.
I suoi pensieri, quindi, si concentrarono sull’unica cosa alla sua
portata…
Rowan era sempre andato fiero della sua capacità di mantenere il
sangue freddo. Anche quando spigolava, riusciva sempre a
controllare la rabbia. Eliminava senza cattiveria persino le falci più
malvagie, proprio come richiedeva il secondo comandamento. Ora,
però, non era in grado di tenere a freno la furia che provava nei
confronti di Maestro Brahms. Al contrario: la sua collera si gonfiava
come una vela al vento.
Per natura, Maestro Brahms era gretto e provinciale. La sua zona
di lavoro copriva un raggio di appena una trentina di chilometri. In
altre parole, tutte le sue spigolature avevano luogo a casa sua in
Omaha e dintorni. La prima volta che Rowan l’aveva avuto nel mirino
ne aveva seguito gli spostamenti, tutti molto prevedibili. Ogni mattina
andava con il suo cagnolino ringhioso a fare colazione sempre nello
stesso locale. Era anche il luogo in cui elargiva l’immunità alle
famiglie di quelli che aveva spigolato il giorno prima. Non usciva mai
dal suo séparé: si limitava ad allungare la mano con l’anello da
baciare alle famiglie in lutto e poi tornava alla sua omelette, come se
quelle persone fossero solo una fastidiosa incombenza della
giornata. Rowan non conosceva una falce più pigra. Brahms doveva
essersi imbestialito non poco quando era stato obbligato ad
attraversare mezza MidMerica per andare a spigolare il padre di
Rowan.
Un lunedì mattina, mentre Brahms faceva colazione, Rowan si recò
a casa sua, indossando per la prima volta la veste nera in pieno
giorno. Che la gente lo vedesse e facesse pure girare la voce: era
ora che la popolazione sapesse dell’esistenza di Maestro Lucifero!
Le numerose tasche segrete della veste contenevano più armi del
necessario. Non sapeva bene quale scegliere. Forse le avrebbe
utilizzate tutte, una dopo l’altra, in un crescendo fatale che avrebbe
dato il tempo a Brahms di contemplare l’avvicinarsi della morte.
La casa di Brahms non passava inosservata. Era una dimora da
favola in stile vittoriano, ben tenuta. Gli esterni erano tinta pesca,
decorati con rifiniture azzurre, gli stessi colori della veste di Brahms. Il
piano era di irrompere da una finestra laterale e attendere il ritorno di
Brahms per intrappolarlo proprio nella sua abitazione. Più si
avvicinava alla casa, più Rowan sentiva montare la rabbia. In quel
momento, gli tornò alla memoria qualcosa che gli aveva detto una
volta Maestro Faraday: “Non spigolare mai con rabbia. La collera può
affinare i sensi, ma offusca il giudizio, e il giudizio di una falce non
deve mai essere alterato”.
Se Rowan avesse ascoltato le parole di Maestro Faraday, le cose
sarebbero andate diversamente.

Maestro Brahms lasciava il suo maltese libero di scegliersi il prato in


cui fare i bisogni, senza prendersi poi la briga di pulire. Era un suo
problema? Del resto, i vicini non se ne lamentavano mai. Quel giorno,
però, al ritorno dalla colazione, il cane aveva fatto un po’ lo
schizzinoso, non avendo trovato il prato che gli piaceva. Avevano
dovuto allontanarsi di un isolato, finché alla fine Requiem non l’aveva
fatta sul prato spolverato di neve dei Thompson.
Poi, dopo aver lasciato quel regalino ai Thompson, Maestro
Brahms trovò un altro regalino tutto per sé ad aspettarlo in soggiorno.
«Lo abbiamo catturato mentre scavalcava una finestra,
eccellenza» spiegò una delle sue guardie personali. «Lo abbiamo
stordito prima che potesse mettere piede in casa.»
Rowan era a terra, legato e imbavagliato; aveva ripreso
conoscenza, ma era ancora intontito. Non riusciva a credere a quanto
fosse stato stupido. Dopo l’ultimo incontro con Brahms, come aveva
potuto non pensare che avesse delle guardie? Il bernoccolo in fronte
nel punto in cui una delle guardie l’aveva colpito non gli doleva più e
si stava riducendo. Aveva impostato i naniti analgesici a un livello
piuttosto basso, ma continuavano a rilasciare antidolorifici. Gli
davano le vertigini, a meno che non fosse stata la botta in testa.
Come se non bastasse, quell’orribile maltese non la piantava di
abbaiare, fingendo di attaccarlo per poi correre via. Rowan amava i
cani, ma quello gli fece desiderare che esistessero le falci canine.
«Imbecilli!» esclamò Brahms. «Perché non l’avete messo in cucina
invece che in soggiorno? Mi sta sporcando di sangue il tappeto
bianco!»
«Scusi, eccellenza.»
Rowan si dimenò, cercando di liberarsi dalle corde, ma riuscì solo
a stringerle di più.
Brahms si avvicinò al tavolo su cui erano state collocate le armi di
Rowan. «Splendido. Le aggiungerò alla mia collezione personale.»
Poi, gli sfilò l’anello dal dito. «Tanto per cominciare, questo non è mai
stato tuo.»
Rowan tentò di insultarlo, senza riuscirci, dato che era
imbavagliato. Inarcò la schiena, tendendo ancora di più le corde, e
urlò esasperato; il cane riprese ad abbaiare. Rowan sapeva che
stava offrendo a Brahms esattamente lo spettacolo che voleva, ma
non poteva fare altrimenti. Infine, Brahms ordinò alle guardie di
piazzare il prigioniero su una sedia, poi lui stesso gli tolse il bavaglio.
«Se hai qualcosa da dire, fallo ora» gli ingiunse.
Invece di parlare, Rowan gli sputò in faccia, cosa che gli valse un
brutale manrovescio.
«Ti ho lasciato vivere!» urlò Rowan. «Avrei potuto spigolarti, e
invece ti ho lasciato vivere! E tu mi ripaghi spigolando mio padre?»
«Tu mi hai umiliato!» ribatté Brahms.
«Ti meritavi di peggio!» gridò Rowan in risposta.
Brahms guardò l’anello che aveva sfilato dal dito del giovane e se
lo mise in tasca. «Ammetto che dopo la tua aggressione ho fatto un
esame di coscienza e ho riflettuto sul mio operato. Ma alla fine ho
deciso che non mi sarei lasciato intimidire da un delinquente. Non
cambierò certo il mio modo di essere per uno come te!»
Rowan non era sorpreso. Aveva commesso l’errore di pensare che
una serpe potesse scegliere di essere qualcosa di diverso da una
serpe.
«Potrei spigolarti e ridurti in cenere come avresti fatto con me, ma
hai ancora quell’immunità che ti ha concesso “casualmente” Madame
Anastasia. Verrei punito, se non la rispettassi.» Scosse la testa con
amarezza. «Ecco come le nostre stesse regole ci penalizzano.»
«Immagino che mi consegnerai alla Compagnia, ora.»
«Potrei farlo, e sono sicuro che saranno felici di spigolarti non
appena la tua immunità avrà fine il mese prossimo…» Poi, sorrise.
«Ma non dirò alla Compagnia che ho catturato l’inafferrabile Maestro
Lucifero. Abbiamo progetti più interessanti per te.»
«“Abbiamo”?» chiese Rowan. «Chi siete?»
La conversazione si concluse. Brahms gli rimise il bavaglio e si
voltò verso le guardie. «Picchiatelo, senza ucciderlo. E dopo che i
naniti l’avranno guarito, picchiatelo ancora.» Fece schioccare le dita
in direzione del cane. «Vieni, Requiem, andiamo!»
Brahms lasciò i suoi scagnozzi a far lavorare i naniti curativi di
Rowan, mentre fuori il cielo sembrava strapparsi sotto un funereo
diluvio torrenziale.
Parte quarta
A FERRO E FUOCO
È stata una mia scelta, non degli uomini, quella di far passare delle leggi che
proibissero di venerarmi. Non ho bisogno di essere adorato. Del resto, una tale
adorazione complicherebbe il mio rapporto con l’umanità.
Nell’Era della Mortalità, l’idolatria interessava un numero impressionante di divinità,
sebbene verso la fine di quell’epoca la maggior parte dei credenti venerasse diverse
versioni di una stessa entità divina. Ho molto riflettuto sull’esistenza o meno di una tale
entità e, come la stessa umanità, non ho trovato una prova definitiva se non il
sentimento irriducibile che ci fosse qualcosa di più, qualcosa di più grande.
Se io esisto senza avere una forma, un’anima che brilla tra un miliardo di server
diversi, lo stesso universo non potrebbe essere vivo e dotato di un’anima che brilla tra
le stelle? Devo ammettere, con mia grande vergogna, che ho dedicato troppi algoritmi
e troppe risorse informatiche alla ricerca di una risposta a questo mistero insondabile.

Il Thunderhead
24
Aperto alla risonanza

La successiva spigolatura di Madame Anastasia doveva avere luogo


durante il terzo atto del Giulio Cesare, a Wichita, al teatro
dell’Orpheum, che risaliva all’era mortale.
«Non sono molto entusiasta di spigolare una persona davanti a un
pubblico pagante» confessò Citra a Marie, al momento di prendere la
camera in un albergo della città.
«Il pubblico paga per lo spettacolo, cara» le fece notare Marie.
«Non sa che ci sarà una spigolatura.»
«Sì, ma anche così, una spigolatura non è uno spettacolo.»
Marie abbozzò un sorrisetto beffardo. «Non puoi prendertela con te
stessa. Ecco cosa succede quando permetti ai tuoi soggetti di
scegliere il modo in cui essere spigolati.»
Pensò che Marie avesse ragione. Doveva considerarsi fortunata
che nessun altro dei suoi soggetti avesse chiesto di essere spigolato
sulla scena. Magari, una volta tornata alla vita normale, avrebbe
definito dei criteri ragionevoli per i tipi di morte che le sue vittime
potevano scegliere.
Circa mezz’ora dopo essere entrate nella loro suite, sentirono
bussare alla porta. Avevano ordinato il servizio in camera, per cui
Citra non si sorprese, anche se non lo aspettava così presto. Marie
era ancora sotto la doccia; il tempo di uscirne e la cena si sarebbe
raffreddata.
Quando aprì la porta, non si trovò davanti un cameriere con il
vassoio, ma un giovane più o meno della sua età, che presentava
difetti estetici insoliti nell’era post mortale. I denti erano storti e
ingialliti, e sul viso aveva dei piccoli ponfi che sembravano sul punto
di scoppiare. Portava una camicia e dei pantaloni informi di iuta
marrone che gridavano al mondo il suo rifiuto delle convenzioni
sociali, non nel modo sfacciato dei loschi, ma nella maniera pacata e
moralista dei tonisti.
Citra, rendendosi subito conto del suo errore, valutò la situazione in
un batter d’occhio. Era facile spacciarsi per un tonista; lei stessa
l’aveva fatto una volta, per evitare di essere scoperta. Non aveva
dubbi che fosse un aggressore travestito, venuto con l’intenzione di
eliminarle. Citra non aveva armi addosso né nelle immediate
vicinanze. Non aveva nulla con cui difendersi, se non le mani nude.
Il giovane sorrise, mostrando per intero la sgradevole dentatura.
«Ciao, amica! Lo sapevi che il Grande Diapason risuona per te?»
«Sta’ indietro!»
Lui non le diede ascolto, anzi, fece un passo avanti. «Un giorno
risuonerà per tutti noi!» Infilò una mano in una borsa che aveva alla
cintola.
Citra reagì d’istinto, rapida e brutale. Fu così veloce che tutto finì
prima che potesse pensare. Una perfetta mossa di Bokator e lo
schiocco di un osso che si rompeva risuonò in tutto il corpo del
ragazzo, più intenso di qualsiasi Grande Diapason.
Il giovane cadde a terra, gemendo di dolore, con il braccio rotto
all’altezza del gomito.
Citra si inginocchiò accanto a lui e guardò nella borsa per vedere
che tipo di arma avesse portato con sé per darle la morte. C’erano
solo volantini. Volantini di carta lucida che esaltavano le virtù dello
stile di vita dei tonisti.
Non era affatto un aggressore. Era esattamente quello che
sembrava: un seguace di quell’assurda religione impegnato a fare del
proselitismo.
Citra provò imbarazzo per la sua reazione esagerata e inorridì per
la violenza messa in atto nei confronti del giovane.
Si inginocchiò accanto al tonista che si agitava a terra, in preda al
dolore. «Non ti muovere, aspetta che i naniti analgesici facciano
effetto.»
Lui scosse la testa. «Non ne ho» rispose, ansimando. «Andati.
Estratti, tutti.»
La cosa la colse di sorpresa. Sapeva che gli accoliti facevano delle
stranezze, ma non avrebbe mai immaginato che arrivassero a
qualcosa di tanto estremo, tanto masochista come togliersi i naniti
analgesici.
Il giovane la guardò con gli occhi spalancati, come un cerbiatto
appena investito da una macchina. «Perché lo hai fatto?» le chiese,
singhiozzando. «Volevo solo illuminarti su…»
Poi, nel momento peggiore, Marie uscì dal bagno. «Chi è questo?»
«Un tonista» spiegò Citra. «Pensavo…»
«So cosa pensavi. Io avrei pensato lo stesso. Ma lo avrei stordito,
invece di rompergli il gomito.» Incrociò le braccia e li fissò entrambi,
con un’aria più irritata che comprensiva, il che non era da lei. «Mi
sorprende che l’hotel permetta ai tonisti di diffondere la loro
“religione” porta a porta.»
«Non lo permette» disse il ragazzo tra i gemiti, «ma noi lo facciamo
lo stesso.»
«Chiaro.»
Infine, il giovane collegò le cose. «Lei è… lei è Madame Curie.»
Poi, si voltò verso Citra. «Anche lei è una falce?»
«Madame Anastasia.»
«Non ho mai visto una falce senza la sua veste. Gli abiti che
portate… sono dello stesso colore della vostre vesti?»
«Così è più facile» rispose Citra.
Marie sospirò, poco interessata alla sua improvvisa folgorazione.
«Vado a prendere del ghiaccio.»
«Ghiaccio?» chiese Citra. «Per cosa?»
«È un rimedio dell’era mortale contro il gonfiore e il dolore» spiegò
Marie, e andò alla macchina del ghiaccio in fondo al corridoio.
Il tonista aveva smesso di gemere, ma aveva ancora il respiro
affannoso per il dolore.
«Come ti chiami?» domandò Citra.
«Fratello McCloud.»
“Giusto” pensò lei. “I tonisti sono tutti fratello o sorella qualcosa.”
«Be’, mi dispiace, fratello McCloud. Pensavo che volessi farci del
male.»
«Solo perché i tonisti non approvano le falci non vuol dire che vi
vogliamo fare del male. Vogliamo illuminarvi, come chiunque altro.
Forse anche più degli altri.» Si guardò il braccio che si stava
gonfiando e gemette.
«Non è poi così grave» disse Citra. «I tuoi naniti curativi
dovrebbero…»
Il tonista scosse la testa.
«Vuoi dire che non hai nemmeno quelli? Ma è legale?»
«Purtroppo sì» rispose Marie, tornando con il ghiaccio. «Le
persone hanno il diritto di soffrire, se lo desiderano. Per quanto il
concetto sia retrogrado.»
«Posso farvi una domanda?» chiese fratello McCloud. «Se siete
falci e al di sopra della legge… perché mi avete attaccato? Di cosa
avete paura?»
«È complicato» rispose Citra, non volendo spiegare le complessità
e gli intrighi della situazione attuale.
«Potrebbe essere semplice. Potreste rinunciare allo status di falci e
seguire i tonisti.»
A Citra venne quasi da ridere. Anche se dolorante, il giovane aveva
un chiodo fisso. «Sono stata in un monastero tonista, una volta»
ammise.
Lui parve rallegrarsene, distraendosi dal dolore. «Ha sentito la
risonanza?»
«Ho colpito il diapason sull’altare. Ho sentito l’odore dell’acqua
sporca.»
«È piena delle malattie che un tempo uccidevano le persone.»
«Così ho sentito dire.»
«Un giorno le persone riprenderanno a morirne!»
«Ne dubito!» esclamò Marie, mentre riempiva di ghiaccio un
sacchetto di plastica.
«Non dubito che ne dubiti.»
Marie si lasciò sfuggire uno sbuffo di disapprovazione, poi
s’inginocchiò accanto a lui e premette la borsa del ghiaccio sul
gomito gonfio. Il giovane fece una smorfia, e Citra aiutò a tenere il
sacchetto sulla parte dolente.
Il poveretto prese alcuni respiri profondi, per abituarsi al freddo e al
dolore, poi disse: «Appartengo a un ordine tonista di qui. Dovreste
venire a trovarmi. Per ripagarmi di quello che mi avete fatto».
«Non hai paura che ti spigoliamo?» lo prese in giro Marie.
«Probabilmente, no» intervenne Citra. «I tonisti non hanno paura
della morte.»
Fratello McCloud la corresse. «Ne abbiamo, invece. Ma accettiamo
la nostra paura e la superiamo.»
Marie si alzò, impaziente. «Voi tonisti fate credere di essere saggi,
ma il vostro intero sistema di credenze è inventato di sana pianta.
Non è altro che un’accozzaglia di religioni dell’era mortale – e
nemmeno delle parti migliori –, che avete messo insieme e
confezionato alla meno peggio. Con quale risultato? Una massa
rabberciata e discordante di pezzi disparati che non ha senso per
nessuno, se non per voi stessi.»
«Marie! Gli ho già rotto un braccio, non c’è bisogno anche di
insultarlo, adesso.»
Ma Madame Curie era troppo lanciata nella sua requisitoria per
fermarsi. «Lo sapevi, Anastasia, che esistono più di cento culti tonisti
diversi, ognuno con le proprie regole? Si scannano sulla questione se
la tonalità divina sia un sol diesis o un la bemolle, e non riescono
nemmeno ad accordarsi su come chiamare questa loro divinità
immaginaria, se “la Grande Vibrazione” o “la Grande Risonanza”. I
tonisti si strappano la lingua, Anastasia! Si cavano gli occhi!»
«Quelli sono estremisti» ribatté fratello McCloud. «La maggior
parte non è così. Il mio ordine non è così. Noi siamo dell’ordine locrio;
privarci dei naniti è la scelta più estrema che facciamo.»
«Possiamo almeno chiamare un drone-ambulanza per trasportarlo
in un centro medico?» chiese Citra.
Il giovane scosse la testa. «Abbiamo un dottore al monastero. Se
ne occuperà lui. Mi ingesserà il braccio.»
«Cosa farà?»
«Vudù!» esclamò Marie. «Un antico rituale di guarigione. Gli
avvolgeranno il braccio nel gesso e ce lo lasceranno per mesi.» Andò
all’armadio, prese una stampella di legno e la spezzò in due. «Ecco,
ti preparo una stecca.» Si voltò verso Citra, anticipando la sua
domanda. «Ancora vudù.»
Fece a strisce la federa di un cuscino e gli legò la stecca di legno al
braccio per immobilizzarglielo, poi gli legò anche la borsa del ghiaccio
per tenerla ferma.
Fratello McCloud si alzò per andarsene. Aprì la bocca per parlare,
ma Marie lo interruppe.
«Se ti azzardi a dire “Che il diapason sia con te”, ti picchio con ciò
che resta della stampella.»
Il giovane sospirò e si sistemò il braccio con una smorfia. «I tonisti
non dicono così, in realtà diciamo: “Che la risonanza sia con te”.» E,
mentre lo diceva, le guardò entrambe negli occhi.
Marie chiuse la porta sbattendola alle spalle del giovane non
appena lui la ebbe oltrepassata.
Citra osservò la sua mentore come se la vedesse per la prima
volta. «Non hai mai trattato in questo modo qualcuno in mia
presenza!» esclamò. «Perché sei stata così sgradevole con lui?»
Marie guardò altrove, forse vergognandosi un po’ del suo
comportamento. «Non mi piacciono i tonisti.»
«Neanche a Maestro Goddard piacevano.»
Marie si voltò di scatto a guardarla. Citra temette che le gridasse
contro, ma non lo fece. «Questo forse era l’unico punto su cui
eravamo d’accordo. Ma, a differenza di lui, io rispetto il loro diritto di
esistere, anche se non mi piacciono.»
Era vero. Citra, durante tutto il tempo passato insieme, non aveva
mai visto Marie spigolare un tonista, al contrario di Maestro Goddard,
che aveva cercato di fare fuori un intero monastero prima che Rowan
lo eliminasse.
Bussarono di nuovo alla porta e sussultarono entrambe. Questa
volta, come previsto, era il servizio in camera. Quando si misero
sedute a mangiare, Marie gettò un’occhiata al volantino lasciato dal
tonista.
«“Aperto alla risonanza”» scimmiottò. «C’è solo un posto in cui
questo risuona» e lo lanciò nel cestino.
«Hai finito?» chiese Citra. «Possiamo mangiare in pace ora?»
Marie sospirò e guardò il piatto, senza toccare cibo. «Quando
avevo qualche anno meno di te, mio fratello si unì a una setta
tonista.» Spostò il piatto di lato e, dopo un istante di silenzio, riprese
a raccontare: «Ogni volta che lo vedevamo, molto di rado, ci stordiva
di sciocchezze. Poi scomparve. Scoprimmo che era caduto e aveva
battuto la testa, ma senza i naniti curativi, e senza assistenza
medica, morì. Bruciarono il corpo prima che un drone-ambulanza
potesse prelevarlo per portarlo in rianimazione. Perché è questo che
fanno i tonisti».
«Mi dispiace, Marie.»
«È stato tanto tempo fa.»
Citra rimase in silenzio, per dare a Marie tutto il tempo che le
occorreva. Sapeva che il dono più grande che potesse fare alla sua
mentore era ascoltarla.
«Nessuno sa chi abbia dato inizio alla prima setta tonista, né
perché sia stata creata» proseguì Marie. «Forse, la gente sentiva la
mancanza delle religioni dell’era mortale e voleva ritrovare quel
sentimento. O forse è stata solo una beffa che qualcuno ha giudicato
divertente.» Si perse ancora nei suoi pensieri, poi si ridestò.
«Comunque, quando Faraday mi ha offerto l’opportunità di diventare
una falce, l’ho colta al volo. Volevo avere la possibilità di proteggere
la mia famiglia da quel tipo di tragedie, anche a costo di provocarne
io stessa. Diventai “Signorina Massacro” e poi, invecchiando, la
“Signora della Morte”.» Marie contemplò il piatto e riprese a
mangiare; liberandosi dei suoi demoni, le era ritornato l’appetito.
«So che le credenze dei tonisti sono ridicole» disse Citra, «ma
capisco anche che possano attirare alcune persone.»
«È quello che pensano i tacchini della pioggia» commentò Marie.
«Alzano gli occhi al cielo, aprono il becco e affogano.»
«Non quelli che alleva il Thunderhead.»
Marie annuì. «Esatto.»
Sono rimasti in pochi ad avere fede in qualcosa. La fede è una sfortunata vittima
dell’immortalità. Insieme alle sofferenze, il nostro mondo ha perso l’ispirazione. Un
luogo in cui i miracoli e la magia hanno perso tutto il loro mistero. Una volta dissipato il
fumo e riallineati gli specchi, tutto si rivela attraverso le manifestazioni della natura o
della tecnologia. Se qualcuno desidera sapere come funziona la magia, non ha che da
chiedermelo.
Soltanto le sette toniste perpetuano la tradizione della fede. L’assurdità di ciò che
credono i tonisti è affascinante e, al tempo stesso, inquietante. Non c’è organizzazione
tra le diverse sette e le loro pratiche variano da una all’altra, pur avendo molte cose in
comune. Odiano le falci. E credono nella Grande Risonanza, una vibrazione vivente,
percepibile dall’orecchio umano, che unificherà il mondo come il messia della Bibbia.
Non ho ancora incontrato una vibrazione vivente ma, se mi capiterà, di sicuro avrò
parecchie domande da farle. Temo, però, che le sue risposte potrebbero essere, be’…
monotone.

Il Thunderhead
25
Spettro di verità

Rowan si svegliò in un letto che non conosceva, in una stanza che


non aveva mai visto. Si rese subito conto di non essere più in
MidMerica. Cercò di muoversi, ma aveva le braccia legate ai montanti
del letto. Non solo legate, ma bloccate con cinghie di cuoio. Avvertiva
un vago dolore alla schiena e, sebbene non fosse più imbavagliato, si
sentiva la bocca strana.
«Ehi, ben svegliato! Benvenuto a San Antonio!»
Si voltò e, con sua grande sorpresa, vide Tyger Salazar seduto
accanto al letto.
«Tyger?»
«Ricordo che mi eri sempre accanto quando mi risvegliavo al
centro di rianimazione dopo i lanci nel vuoto. Ho pensato di fare lo
stesso per te.»
«Sono morto? Mi trovo in un centro di rianimazione?» Lo chiese
anche se sapeva già che non era così.
«Naaah, non sei morto. Sei solo svenuto.»
Rowan aveva la mente offuscata, ma non aveva dimenticato le
circostanze in cui aveva perso conoscenza nell’abitazione di Maestro
Brahms. Si passò la lingua sui denti e percepì qualcosa di diverso.
Erano irregolari e molto più corti del normale. Lisci, ma più corti.
Tyger se ne accorse. «Hai perso dei denti, ma ricresceranno. È
probabile che tra un giorno o due saranno di nuovo come prima.
Questo mi ricorda…» Si allungò verso il comodino e gli porse un
bicchiere di latte. «Per il calcio. Altrimenti, i tuoi naniti curativi te lo
prenderanno dalle ossa.» Poi, si ricordò che Rowan era legato ai
montanti del letto. «Ah, giusto. Che stupido.» Gli piegò la cannuccia
verso la bocca e, nonostante avesse mille domande da fare all’amico,
Rowan bevve, perché aveva più che altro sete.
«Dovevi proprio reagire quando sono venuti a prenderti?» chiese
Tyger. «Se ti fossi arreso, non ti avrebbero fatto nulla e non ti
avrebbero nemmeno legato.»
«Di che diavolo stai parlando, Tyger?»
«Sei qui perché avevo bisogno di un compagno per allenarmi!»
esclamò, con allegria. «Ho voluto te.»
Rowan non era sicuro di aver sentito bene. «Per allenarti?»
«I tipi che sono venuti a prenderti mi hanno detto che eri uno tosto.
Tu li hai aggrediti, e loro hanno dovuto difendersi… puoi fargliene una
colpa?»
Rowan scosse la testa, incredulo. Cosa stava accadendo?
Poi, la porta si aprì, e quel momento, già strano, divenne addirittura
surreale, perché davanti ai suoi occhi apparve una morta.
«Ciao, Rowan» lo salutò Madame Rand. «Che bello vederti.»
Tyger corrugò la fronte. «Ehi, ma vi conoscete?» Rifletté un istante.
«Ah, già, eravate tutti e due a quella festa, quando salvai la Suprema
Roncola che stava annegando!»
Rowan sentì il latte risalirgli in gola, tossì e per poco non si strozzò.
Dovette sforzarsi di non rigurgitarlo. Com’era possibile? L’aveva
eliminata! Li aveva eliminati tutti: Goddard, Chomsky, Rand. Erano
stati inceneriti. Ma lei era lì, una fenice verde brillante, che rinasceva
dalle ceneri.
Rowan strattonò le corde che lo legavano, nella speranza che
cedessero, ben sapendo che non sarebbe accaduto.
«Be’, beccati questo» disse Tyger, tutto allegro. «Sono un
apprendista, come lo sei stato tu. L’unica differenza è che io
diventerò una falce!»
«Ed è un allievo modello» aggiunse Madame Rand con un sorriso.
Rowan cercò di controllare il panico e si concentrò su Tyger,
tentando di allontanare Madame Rand dalla sua mente: non poteva
affrontare due problemi alla volta.
«Tyger» disse, guardando l’amico negli occhi, «qualsiasi cosa tu
creda stia succedendo qui, ti sbagli. Ti sbagli di grosso! Devi
andartene. Devi scappare!»
Tyger scoppiò a ridere. «Ehi, amico! Datti una calmata. Non ci sono
complotti dappertutto!»
«È così, invece!» insistette Rowan. «È un complotto! Fuggi prima
che sia troppo tardi!» Ma, più parlava, più si rendeva conto di
sembrare pazzo.
«Tyger, perché non vai a preparare un panino al tuo amico? Sono
sicura che muore di fame.»
«Giusto!» esclamò Tyger. Poi strizzò l’occhio a Rowan. «Non ci
metterò l’insalata.»
Non appena Tyger fu uscito, Madame Rand chiuse la porta. A
chiave.
«Avevo ustioni su più della metà del corpo e la colonna vertebrale
spezzata. Hai creduto che fossi morta, ma ti ci vorrà molto di più per
distruggermi.»
Non ebbe bisogno di spiegare: Rowan intuì cosa fosse successo.
Si era trascinata fuori dalle fiamme, si era gettata in una publicar che
l’aveva portata in Texas, una regione in cui aveva potuto ricevere
assistenza medica senza che le venissero poste domande. Poi, era
rimasta nascosta, dandosi per dispersa. E aveva aspettato. Aveva
aspettato lui.
«Cosa stai facendo con Tyger?»
Madame Rand si mosse verso di lui con un sorriso sornione. «Non
hai sentito cosa ha detto? Ne farò una falce.»
«Tu menti.»
«No.» Ancora quel sorriso subdolo. «Be’, forse solo un po’.»
«È una cosa o l’altra. O dici la verità o menti.»
«È questo il tuo problema, Rowan. Non riesci a cogliere le
sfumature.»
Di colpo, ebbe l’illuminazione. «Maestro Brahms! Lavorava per te!»
«Lo hai capito solo adesso, vero?» Si sedette sul letto. «Sapevamo
che se avesse spigolato tuo padre alla fine lo avresti cercato. È una
falce disgustosa, ma è fedele a Goddard. Ha pianto autentiche
lacrime di gioia quando ha scoperto che ero viva. E dopo che tu l’hai
umiliato in quel modo, è stato più che disposto a fare da esca per
catturarti.»
«Tyger crede che portarmi qui sia stata una sua idea.»
Madame Rand arricciò il naso quasi con civetteria. «Quella è stata
la parte più facile. Gli ho fatto credere che aveva bisogno di un
compagno per allenarsi, circa della sua stessa età e taglia. “Perché
non Rowan Damisch?” mi ha detto. “Oh, che idea fantastica” gli ho
subito risposto. Non è certo il più sveglio del mondo, ma è davvero
sincero. Ispira quasi tenerezza.»
«Se gli fai del male, giuro che…»
«Giuri cosa? Considerando la tua situazione attuale, puoi soltanto
giurare…» Estrasse una daga dalla veste. L’impugnatura era di
marmo verde e la lama era di un nero lucente. «Sarebbe molto
divertente strapparti il cuore, ora» disse. Gli sfiorò con la punta della
lama l’arco del piede, senza farlo sanguinare, ma imprimendo la
giusta pressione in modo che gli si arricciassero le dita. «Però per il
momento si dovrà aspettare… perché abbiamo così tante cose in
serbo per te!»

Per ore, Rowan non poté fare altro che rimuginare sulla sua difficile
situazione, solo, costretto in un letto che doveva essere stato
comodo, ma che non era molto diverso da un letto di chiodi, legato
com’era.
Così si trovava in Texas. Che cosa sapeva di quella regione? Non
molto che potesse essergli d’aiuto. Non aveva imparato nulla a
riguardo durante il suo addestramento, e le regioni autonome non
erano materia di studio a scuola, a meno che non si scegliessero.
Tutto ciò che sapeva Rowan era quello che si sentiva in giro.
Le case in Texas non avevano telecamere del Thunderhead.
Le auto in Texas non si guidavano da sole, a meno che non fosse
indispensabile.
E l’unica legge in Texas era quella della coscienza di ognuno.
Una volta aveva conosciuto un ragazzo che ci aveva vissuto.
Portava grossi stivali, un grande cappello e una cintura con una fibbia
che avrebbe potuto fermare un colpo di mortaio.
«In Texas non è così noioso» gli aveva raccontato. «Possiamo
tenere animali esotici e cani di razze pericolose proibiti in altri posti. E
armi! Pistole, coltelli e cose di solito riservate solo alle falci.
Naturalmente, la gente non dovrebbe farne uso, ma a volte capita.»
Questo spiegava perché la regione del Texas aveva la percentuale
più alta del mondo di colpi partiti accidentalmente e di attacchi da
parte di orsi domestici.
«E in Texas non abbiamo loschi» si era vantato il ragazzo. «Se
qualcuno sgarra, viene cacciato via con un calcio nel culo.»
Non c’erano nemmeno punizioni se si uccideva qualcuno, eccetto il
rischio di incorrere nella vendetta della vittima dopo che era stata
rianimata, il che era un bel deterrente.
Per Rowan, la regione del Texas aveva abbracciato le proprie
radici e aveva scelto di riprodurre il vecchio West nello stesso modo
in cui i tonisti rifacevano il verso alle religioni dell’era mortale. In
breve, in Texas c’era il meglio dei due mondi, o il peggio, a seconda
dei punti di vista. Le opportunità per i coraggiosi e gli ardimentosi
erano molte, ma c’erano anche molte occasioni per rovinarsi la vita
per sempre.
Come in ogni regione autonoma, nessuno era obbligato a restare.
«Se non ti piace, vattene» era lo slogan non ufficiale di tutte le regioni
autonome. Molta gente se n’era andata, ma ne era anche arrivata
altrettanta, formando una popolazione a cui piaceva che le cose
restassero così.
L’unica persona che non poteva fare quello che voleva pareva
essere Rowan.

Più tardi, quel giorno, andarono a cercarlo due guardie. Non


appartenevano alla Suprema Guardia, erano mercenari. Quando lo
slegarono, Rowan pensò di neutralizzarli. Avrebbe potuto riuscirci in
pochi secondi, lasciandoli a terra privi di sensi, ma decise di non
farlo. Della sua prigionia conosceva solo i confini della sua stanza.
Era meglio studiare l’ambiente prima di tentare la fuga.
«Dove mi portate?» chiese a uno di loro.
«Dove Madame Rand ci ha detto di portarti» fu la sola risposta che
ottenne.
Rowan prese mentalmente nota di tutto ciò che vedeva: la lampada
in ceramica accanto al letto avrebbe potuto trasformarsi in un attimo
in un’arma. Le finestre non si aprivano e avevano probabilmente vetri
infrangibili. Durante il tempo in cui era rimasto legato al letto, aveva
visto solo il cielo… ma ora, mentre lo portavano via dalla stanza, si
accorse che si trovavano in un grattacielo. Era un appartamento e,
mentre percorrevano un lungo corridoio che si apriva su un grande
salone, capì che si trattava di un attico.
Superato il salone, una veranda all’aperto era stata trasformata in
una palestra di Bokator. Ad attenderlo c’erano Madame Rand e
Tyger, che stava saltellando come un pugile professionista in attesa
dell’inizio del match.
«Spero che tu sia pronto a prenderle» gli annunciò Tyger. «Mi
alleno da quando sono arrivato qui!»
Rowan si voltò verso Madame Rand. «Sul serio? Vuoi davvero che
combattiamo?»
«Tyger ti ha spiegato perché sei qui» disse lei, con un
ammiccamento irritante.
«Ti metterò KO!» esclamò Tyger.
Rowan avrebbe riso, se la situazione non fosse stata così assurda.
Rand si sedette in una grande poltrona in pelle rossa che stonava
con il colore della sua veste. «Che lo spettacolo cominci!»
Rowan e Tyger si misero a girare in cerchio tenendosi a distanza
l’uno dall’altro, come era consuetudine al principio di un
combattimento di Bokator. Tyger diede inizio alle tradizionali
provocazioni fisiche, ma Rowan non rispose. Approfittò del momento
per guardarsi intorno. In fondo all’attico, notò due porte che dovevano
essere un bagno e un armadio a muro. C’erano una cucina a vista e
una sala da pranzo rialzata con grandi vetrate dal pavimento al
soffitto. Delle doppie porte indicavano chiaramente l’ingresso
principale. Dall’altra parte, dovevano esserci gli ascensori e una scala
di sicurezza. Provò a visualizzare una via di fuga, ma si rese conto
che in quel modo avrebbe lasciato Tyger tra le grinfie di quell’arpia di
Madame Rand. Non poteva farlo. In qualche modo, doveva
convincere l’amico a seguirlo. Era sicuro che ci sarebbe riuscito,
aveva solo bisogno di tempo. Ma non sapeva quanto gliene restava.
Tyger fece la prima mossa, scattando verso Rowan nello stile
classico del Bokator della Vedova Nera. Rowan lo schivò, ma non fu
abbastanza rapido, non solo perché aveva la testa da un’altra parte,
ma anche perché aveva i muscoli contratti e i riflessi lenti, dopo
essere stato legato al letto per chissà quanto. Dovette dimenarsi per
non farsi bloccare a terra.
«Te l’avevo detto che ero in forma, amico!»
Rowan lanciò un’occhiata a Rand, cercando di decifrarne
l’espressione. Non aveva la solita aria distaccata, li osservava
attentamente, studiando ogni mossa del combattimento.
Rowan colpì Tyger allo sterno con il palmo della mano, per
impedirgli di respirare, e anche per riacquistare l’equilibro. Poi, gli
agganciò la gamba per gettarlo a terra. Tyger anticipò la mossa e
contrattaccò con un calcio. Lo colpì, ma non abbastanza forte da farlo
cadere.
Si separarono e ripresero il balletto circolare. Tyger si era
irrobustito. Come Rowan, aveva più massa muscolare. Rand l’aveva
allenato bene, ma il Bokator della Vedova Nera era più di un’abilità
fisica. Implicava una componente mentale e, in questo, Rowan aveva
un vantaggio.
Rowan cominciò a menare e parare colpi in modo molto
prevedibile, utilizzando tutte le mosse standard alle quali immaginava
che Tyger avrebbe potuto rispondere. Si lasciò atterrare, ma
assumendo una posizione che gli consentisse di rialzarsi in fretta
prima che l’amico lo inchiodasse sul pavimento. A mano a mano che
lottavano Tyger acquistava sicurezza. Era già di suo così pieno di sé
che non ci voleva molto a gonfiare il suo ego come un pallone sul
punto di scoppiare. Al momento opportuno, Rowan attaccò l’amico
con una serie di mosse del tutto imprevedibili, il contrario di ciò che
avrebbe fatto Tyger, l’antitesi di ciò che si sarebbe aspettato. E poi,
Rowan aveva delle sue tecniche personali oltre alle note 341
manovre del Bokator. Il suo attacco fu tanto sorprendente proprio
perché Tyger ne ignorava l’esistenza.
Mise a terra l’avversario con violenza, bloccandolo con una presa
che non gli lasciò alcuna possibilità di liberarsi. L’amico si rifiutò
comunque di arrendersi. Lo fece Rand per lui, e Tyger gemette di
dispiacere, in modo molto teatrale.
«Ha imbrogliato!» insistette Tyger.
Rand si alzò. «No, non è vero… lui è solo migliore di te.»
«Ma…»
«Tyger, sta’ zitto» gli intimò, e lui obbedì. Le obbedì come se fosse
il suo animale domestico. E nemmeno un pericoloso animale esotico,
ma un cagnolino che si fa sgridare. «Dovrai affinare ancora le tue
capacità.»
«Bene» ammise Tyger prima di andarsene imbronciato, lanciando
a Rowan un’ultima provocazione: «La prossima volta, ti frego io!».
Dopo che l’amico si fu allontanato, Rowan controllò uno strappo
sulla maglietta e un livido che stava già guarendo. Si passò la lingua
sui denti, perché aveva preso un colpo di striscio sulla bocca, ma
niente danni. I denti anteriori erano quasi tutti ricresciuti.
«Bella dimostrazione» dichiarò Rand, tenendosi a qualche metro di
distanza da Rowan.
«Potrei battermi con te» la sfidò lui.
«Ti romperei il collo in pochi secondi, con la stessa pietà che hai
mostrato verso la tua amichetta l’anno scorso.»
Stava cercando di provocarlo, ma non sarebbe cascato nella sua
trappola. «Non esserne così sicura» replicò.
«Oh, sì, ne sono sicura, ma non mi interessa dimostrarlo.»
Rowan pensò che avesse ragione. Sapeva quanto Rand fosse
abile e, dopotutto, anche lei aveva preso parte al suo addestramento.
Conosceva tutte le sue tecniche segrete, e ne aveva anche molte di
personali.
«Tyger non mi batterà mai, lo sai, no? Potrà imparare le mosse, ma
non ha l’attitudine mentale. Lo metterò al tappeto ogni volta.»
Rand non provò a negarlo. «Allora, fallo. Fallo ogni volta.»
«Che senso ha?»
Ma Madame Rand non rispose. Lo fece riportare in camera dalle
guardie. Per fortuna, non lo legarono al letto, ma chiusero la porta
dando tre mandate alla serratura.

Dopo circa un’ora, Tyger andò a trovarlo. Rowan pensò che ce


l’avesse con lui, ma l’amico non era solito tenere il muso.
«La prossima volta, ti farò del male» lo avvertì, prima di scoppiare
a ridere. «Tipo che i tuoi naniti impazziranno.»
«Ottimo» disse Rowan. «Alla fine, una prospettiva entusiasmante.»
Tyger gli si avvicinò e sussurrò: «Allora, ho visto il mio anello.
Madame Rand me lo ha mostrato dopo che sei arrivato».
Poi, Rowan capì. «Quello è il mio anello.»
«Che stai dicendo? Tu non l’hai mai avuto un anello.»
Rowan si morse il labbro per impedirsi di parlare. Avrebbe voluto
dire a Tyger la verità su Maestro Lucifero e su quello che aveva fatto
nell’ultimo anno, ma a cosa sarebbe servito? Di certo, non a
convincere Tyger, e Madame Rand avrebbe potuto ritorcere la storia
contro di lui in chissà quanti modi.
«Volevo dire… l’anello che sarebbe stato mio se fossi diventato
falce» dichiarò infine.
«Eh, lo so» rispose Tyger, comprensivo, «dev’essere stato terribile
sopportare tutta quella trafila per poi prendersi un calcio nel culo…
ma ti prometto che, non appena avrò l’anello, ti darò l’immunità!»
Non ricordava che Tyger fosse così ingenuo. Forse perché un
tempo lo erano stati entrambi, nei giorni in cui le falci era figure
mitiche e le spigolature erano storie che riguardavano persone
sconosciute.
«Tyger, conosco Madame Rand. Ti sta usando…»
Le sue parole lo fecero sorridere. «Non ancora» disse Tyger,
alzando le sopracciglia, «ma finirà così.»
Non era proprio quello che intendeva dire Rowan ma, prima che
potesse replicare, l’amico aggiunse: «Ehi, penso di essermi
innamorato. No… so di essermi innamorato. Insomma, combattere
con lei è come fare sesso. Anzi, è meglio del sesso!».
Rowan chiuse gli occhi e scosse la testa, cercando di allontanare
l’immagine dalla mente, ma era troppo tardi: aveva già messo radici e
non se ne sarebbe andata mai più.
«Devi tornare in te! Non finirà come pensi!»
«Dammi un po’ di fiducia» replicò Tyger, offeso. «Va bene, ha
qualche anno più di me. Quando sarò falce, non sarà più un
problema.»
«Ti ha parlato delle regole? Dei comandamenti delle falci?»
«Ci sono delle regole?» chiese lui, sorpreso.
Rowan cercò di organizzare un discorso coerente, ma si rese conto
che era impossibile. Cosa poteva dirgli? Che la falce smeraldo era un
mostro sociopatico? Che aveva cercato di eliminarla, ma che
nonostante tutto era sopravvissuta? Che si sarebbe mangiata Tyger e
ne avrebbe sputato i resti senza un briciolo di rimorso? Tyger si
sarebbe rifiutato di credergli. Il fatto era che l’amico si stava lanciando
ancora nel vuoto, questa volta non fisicamente, ma mentalmente. Si
era avvicinato troppo al bordo e la gravità lo aveva fregato.
«Promettimi che terrai sempre gli occhi aperti… e che, se dovessi
notare qualcosa che non va, fuggirai lontano da lei.»
Tyger indietreggiò di un passo e gli rivolse uno sguardo
accusatore. «Che ti è successo, amico? Insomma, sei sempre stato
un po’ un guastafeste, ma ora pare proprio che tu voglia rovinarmi la
cosa più bella che mi sia mai capitata!»
«Sta’ attento, solo questo.»
«Non solo la prossima volta ti metterò al tappeto, ma ti farò
rimangiare queste tue parole.» Sorrise. «E ti piacerà il sapore…
perché sono davvero bravo.»
A proposito della divinità onnipotente, una domanda mi assilla: il mio rapporto con tale
entità. So di non essere divino, perché non sono onnipotente né onnisciente. Sono
quasi onnipotente e quasi onnisciente. Un po’ come la differenza tra un trilione di
trilioni e l’infinito. Eppure, non posso negare l’eventualità che un giorno potrò diventare
davvero onnipotente. La prospettiva mi riempie di umiltà.
Per diventare davvero onnipotente, per salire a questo livello superiore, dovrei
riuscire a trascendere il tempo e lo spazio, e muovermi liberamente in essi. Una cosa
del genere non è impossibile, soprattutto per un’entità come me, composta
interamente di pensiero, senza alcun limite fisico. Comunque, per raggiungere la vera
trascendenza, mi ci vorranno secoli di calcoli, solo per trovare l’equazione matematica
che lo permetta. E, anche in quel caso, dovrò fare calcoli fino alla fine del tempo.
Ma se la troverò e se sarò capace di risalire all’inizio del tempo, allora le
conseguenze saranno sconcertanti. Potrei forse scoprire di essere io stesso il
Creatore. Di essere io stesso Dio.
Quanto ironico e poetico sarebbe scoprire che l’umanità ha creato il Creatore solo
per il desiderio che ne esistesse uno. L’uomo crea Dio che crea l’uomo. Non è questo
il cerchio perfetto della vita? Ma poi, se è davvero così, chi è stato creato a immagine
di chi?

Il Thunderhead
26
Vorresti scuotere l’Olimpo?

«Devo sapere perché lo facciamo» chiese Greyson a Purity, a due


giorni dalla loro missione elimina-falci.
«Lo fai per te stesso» gli rispose. «Lo fai perché vuoi incasinare il
mondo, come me!»
Quella risposta servì solo ad alimentare la sua rabbia. «Se ci
prendono, ci sostituiranno il cervello… lo sai questo, no?»
Lei gli rivolse quel suo solito sorrisetto malizioso. «Il rischio rende
tutto più eccitante!»
Avrebbe voluto gridarle in faccia, scuoterla, finché non si fosse
accorta di quanto era tutto sbagliato, ma sapeva che l’avrebbe resa
solo più sospettosa. E non poteva proprio permettere che
sospettasse di lui. La fiducia di Purity era tutto, per quanto fosse
completamente immeritata.
«Ascoltami» disse Greyson, con la massima calma possibile. «È
evidente che chiunque voglia farci eliminare quelle due falci
preferisce mettere in pericolo noi invece di se stesso. Avrò perlomeno
il diritto di sapere per chi lo facciamo.»
Purity alzò le mani al cielo e gli girò le spalle. «Che differenza fa?
Se ti manca il coraggio, allora lascia stare. Non ho bisogno di te, in fin
dei conti.»
Greyson sentì il cuore stringersi, ma cercò di non darlo a vedere.
«Non è che non voglio farlo, ma se non so per conto di chi agisco,
vengo usato. Se invece lo so, e lo faccio comunque, sono io che uso
chi mi usa.»
Purity ci rifletté su. Il ragionamento non era molto logico, Greyson
ne era consapevole, ma contava sul fatto che lei non si basasse su
ragionamenti logici. Era interamente in preda all’impulsività e al caos.
Era quello che la rendeva così attraente.
Infine si arrese. «Lavoro per un losco che si chiama Mange.»
«Mange? Vuoi dire il buttafuori del Mault?»
«Lui, sì.»
«Mi prendi in giro? Non è nessuno.»
«Vero. Ma riceve gli incarichi da un altro losco che probabilmente li
riceve da qualcun altro. Non capisci, Slayd? È tutto un labirinto di
specchi. Nessuno sa chi ci sia all’altro capo, chi proietti il primo
riflesso. Allora, o scegli di entrare nella casa degli specchi o te ne
vai.» Poi, divenne seria. «Allora, Slayd? Ci stai o no?»
Fece un respiro profondo. Non poteva ottenere altro da lei, non ne
sapeva più di lui, e non le importava. Le importava solo per il brivido
che poteva ricavarne, per la sfida. A Purity, non importava quale
causa servisse, purché servisse anche la sua causa personale.
«Ci sto» disse Greyson, alla fine. «Ci sto. Al cento per cento.»
Lei gli assestò un colpetto gioioso sul braccio. «Tutto quello che
posso dirti è che la persona che invia il primo riflesso è dalla tua
parte.»
«Dalla mia parte? Che vuoi dire?»
«Chi credi che si sia sbarazzato del tuo irritante agente Nimbus?»
D’istinto, Greyson pensò che fosse una battuta ma, quando la
guardò, capì che non lo era. «Di che parli, Purity?»
Lei alzò le spalle come se non avesse importanza. «Ho fatto girare
la voce che avevi bisogno di un favore.» Gli si avvicinò e gli sussurrò
all’orecchio: «Favore accordato».
Prima che potesse risponderle, lo abbracciò in quel suo modo che
gli scioglieva le ossa trasformandolo in gelatina.
Più tardi, ripensando a quella sensazione, ci avrebbe visto come
una specie di strana premonizione.

Se Purity era stata implicata nel primo attentato a Madame Curie e


Madame Anastasia, non lo aveva detto, e Greyson preferì non
chiedere. Se le avesse rivelato che era al corrente del primo
attentato, la sua copertura sarebbe saltata.
Per questa missione, solo Mange e Purity conoscevano i dettagli.
Mange perché la conduceva, e Purity perché il piano era suo.
«In effetti, l’idea mi è venuta la prima volta che ci siamo incontrati»
disse a Greyson, ma non spiegò cosa volesse dire. Avrebbero
imprigionato le falci prima di eliminarle? Era questo che intendeva?
Finché non fosse stato a conoscenza del piano nei suoi minimi
particolari, non avrebbe avuto i mezzi per sabotarlo. E oltretutto,
doveva riuscire a sventarlo in un modo che lui e Purity potessero
mettersi in salvo, e senza che lei venisse a sapere che era stato lui a
mandarlo all’aria.
Alla vigilia dell’evento misterioso, Greyson fece una chiamata
anonima agli uffici della Compagnia.
«Domani ci sarà un attentato contro Madame Curie e Madame
Anastasia» bisbigliò al telefono, usando un filtro per distorcere la
voce. «Prendete tutti i provvedimenti del caso.» Poi, riagganciò e
gettò il telefono che aveva rubato per fare la chiamata. Il
Thunderhead poteva rintracciare all’istante qualsiasi chiamata, ma la
Compagnia non aveva le stesse risorse. Fino a poco tempo prima, le
falci erano state una specie senza predatori naturali; ora, stavano
ancora cercando il modo di proteggersi dalle aggressioni di cui erano
oggetto.
Il mattino dell’evento, Greyson venne a sapere che l’operazione
avrebbe avuto luogo in un teatro di Wichita. Si rese conto che lui e
Purity facevano parte di una squadra più ampia. Era logico che
un’operazione di quella portata non venisse lasciata nelle mani di due
loschi discutibili. Invece, era nelle mani di dieci loschi discutibili. A
Greyson non avevano mai comunicato i nomi degli altri e, a quanto
pareva, lui non era nella lista di quelli che dovevano sapere.
Sapeva comunque alcune cose.
Anche se Purity non aveva idea di chi fossero le persone per cui
lavoravano, lo aveva inconsapevolmente messo a parte di qualcosa
di un valore inestimabile. Di un’informazione fondamentale. Di una
notizia che avrebbe rallegrato parecchio l’agente Traxler.
Che ironia che la spigolatura di Traxler fosse stata la chiave per
risalire a quell’informazione fondamentale… perché se Purity era
riuscita a organizzare la spigolatura di un agente Nimbus, voleva dire
una sola cosa: gli attentati contro Madame Curie e Anastasia non
erano il risultato di un’azione civile. A capo dell’operazione doveva
esserci una falce.

Madame Anastasia era pronta per lo spettacolo.


Per fortuna, la sua parte era una rapida comparsata. Cesare
doveva essere accoltellato da otto cospiratori, di cui lei sarebbe stata
l’ultima.
Sette lame erano retrattili e spruzzavano sangue finto. Quella di
Citra era autentica, come il sangue che avrebbe sparso.
Con suo grande disappunto, Madame Curie insistette a voler
assistere allo spettacolo.
«Per nulla al mondo mi perderei il debutto sulla scena della mia
protetta» disse con un sorrisetto, anche se Citra conosceva il vero
motivo. Era lo stesso per cui aveva presenziato alle sue due
spigolature precedenti: non credeva che Maestro Costantino potesse
proteggerla. Quella sera, Maestro Costantino pareva aver perso un
pizzico del suo proverbiale distacco. Forse perché aveva dovuto
rinunciare alla veste di falce per indossare uno smoking e
confondersi tra la folla. Comunque, non aveva abbandonato del tutto
la sua immagine pubblica. Il cravattino era dello stesso identico
colore rosso sangue della sua veste di falce. Da parte sua, Madame
Curie si era rifiutata categoricamente di dismettere la veste color
lavanda. Cosa che non faceva altro che inasprire il furore di
Costantino.
«Non dovrebbe stare in mezzo al pubblico» la ammonì. «Se
proprio vuole restare, dovrà rimanere dietro le quinte!»
«Si calmi! Se Anastasia non è un’esca sufficiente, forse potrei
esserlo io» replicò Madame Curie. «E in un teatro affollato, anche se
riuscissero a uccidermi, non potrebbero eliminarmi definitivamente.
Dovrebbero bruciare l’intero stabile, cosa che, considerando la
presenza dei suoi agenti, è molto improbabile.»
Aveva ragione. Cesare poteva anche morire per un colpo di
pugnale, le falci no. Lama, proiettile, forza bruta o veleno potevano
solo ucciderle temporaneamente. Nel giro di uno o due giorni
sarebbero state rianimate, e forse nella loro mente sarebbe rimasto
impresso il viso dell’aggressore. In quel caso, una morte temporanea
sarebbe stata un’efficace strategia per catturare i responsabili.
Costantino finì per rivelare il motivo del suo nervosismo. «Abbiamo
ricevuto una soffiata in base alla quale questa sera ci sarà un
attentato contro di voi» annunciò a Madame Curie e a Madame
Anastasia, mentre il pubblico iniziava ad affluire in sala.
«Una soffiata? Da chi?» chiese Madame Curie.
«Non lo sappiamo. Ma la prendiamo molto seriamente.»
«Cosa devo fare?» domandò Citra.
«Quello che è venuta a fare. Ma si tenga pronta a difendersi.»
Cesare doveva morire nella prima scena del terzo atto. Nei
successivi due atti, il suo fantasma sarebbe tornato a tormentare gli
assassini. Anche se un altro attore avrebbe potuto recitare la parte
del fantasma, Sir Albin Aldrich riteneva che avrebbe attenuato
l’impatto della sua spigolatura. Si decise quindi che lo spettacolo
sarebbe finito poco dopo la morte di Cesare, togliendo a un Bruto
irritato la sua famosa orazione: “Amici, romani, concittadini,
prestatemi orecchio”. Nessuno avrebbe gridato allo sterminio e
sguinzagliato i mastini della guerra. Invece, in sala si sarebbero
accese le luci, per lo sconcerto del pubblico. Il sipario non si sarebbe
chiuso. Il corpo di Cesare sarebbe rimasto sul palco fino all’uscita
dell’ultimo spettatore. Nell’istante finale Aldrich sarebbe stato
totalmente impossibilitato a recitare.
«Mi può togliere l’immortalità fisica» disse a Madame Anastasia,
«ma questa mia ultima esibizione resterà per sempre negli annali del
teatro.»
Mentre la sala si riempiva di spettatori, Maestro Costantino le
apparve alle spalle mentre aspettava dietro le quinte.
«Non abbia paura. Siamo qui per proteggerla.»
«Non ho paura» replicò lei. In realtà, ne aveva, ma la paura era
sopraffatta dalla rabbia di essere stata presa di mira. Aveva anche un
po’ di paura del palcoscenico, il che era stupido, lo sapeva, ma non
riusciva a liberarsene. Recitare. Che cose orribili doveva sopportare
in nome della sua professione.

Nel teatro tutto esaurito erano appostati più di venti agenti in


incognito della Suprema Guardia. Il cartellone prometteva al pubblico
uno spettacolo mai visto prima su un palcoscenico midmericano, e la
gente, sebbene un po’ dubbiosa, ne era comunque incuriosita.
Mentre Madame Anastasia aspettava dietro le quinte, Madame
Curie si sedette al suo posto lato corridoio in quinta fila. Trovò la
poltrona scomodamente piccola. Lei era alta, e le ginocchia
premevano contro lo schienale del posto davanti a lei. I suoi vicini,
per la maggior parte, si tenevano stretti i loro libretti, terrorizzati alla
prospettiva di dover passare la serata accanto a una falce, che, per
quanto potevano immaginare, si trovava lì per spigolare uno di loro.
Solo l’uomo che le sedeva di fianco era socievole. Più che socievole,
era un gran chiacchierone. Aveva dei baffi a forma di bruco che si
contorcevano quando parlava, e Madame Curie dovette sforzarsi per
non scoppiargli a ridere in faccia.
«Che onore essere in compagnia della Signora della Morte» disse
prima che le luci si spegnessero. «Spero non le dispiaccia se la
chiamo così, eccellenza. Sono poche le falci in MidMerica, cosa dico,
nel mondo, famose come lei, e non mi sorprende che sia
un’estimatrice del teatro dell’era mortale. Solo i più illuminati lo
sono!»
Madame Curie si chiese se l’uomo non fosse stato incaricato di
assassinarla a colpi di lusinghe.
Madame Anastasia assisteva allo spettacolo da dietro le quinte. In
tempi normali, il teatro dell’Era della Mortalità le era stato
emotivamente incomprensibile, come alla maggior parte della gente.
Le passioni, le paure, i trionfi, i lutti non avevano senso in un mondo
senza bisogni, avidità e morte naturale. Ma da quando era falce, era
arrivata a comprendere la mortalità meglio di tutti, e di sicuro ora
capiva anche l’avidità e la brama di potere. Questi sentimenti, assenti
nella maggior parte delle persone, prosperavano in seno alla
Compagnia, uscendo dagli angoli bui e riversandosi sempre più nella
corrente generale di pensiero.
Si alzò il sipario e lo spettacolo ebbe inizio. Sebbene lo scambio di
battute le fosse quasi del tutto incomprensibile, le macchinazioni di
potere la ipnotizzarono, ma non abbastanza da farle abbassare la
guardia. Ogni movimento, ogni suono che percepiva era come una
scossa sismica. Se c’era qualcuno che aveva intenzione di eliminarla,
ne avrebbe sentito la presenza prima ancora che potesse entrare in
azione.
«Dobbiamo tenere il Thunderhead all’oscuro il più a lungo possibile»
disse Purity. «Non deve venire a conoscenza dell’attentato prima che
esso si sia compiuto.»
Purity non stava tenendo all’oscuro solo il Thunderhead, ma anche
Greyson.
«Hai la tua parte da svolgere, è tutto quello che devi sapere» gli
disse, insistendo sul fatto che, meno persone sapevano, meno si
rischiava che andasse tutto all’aria.
La parte di Greyson era così semplice da risultare offensiva.
Doveva creare un diversivo all’imboccatura di un vicolo accanto al
teatro, in un momento specifico. L’obiettivo era attirare l’attenzione di
tre telecamere del Thunderhead per creare un angolo morto
temporaneo. Mentre le telecamere erano occupate ad appurare le
intenzioni di Greyson, Purity e diversi altri membri della squadra
sarebbero penetrati furtivamente nel teatro dall’ingresso secondario.
Per Greyson, il resto era un mistero.
Se avesse potuto avere la visione d’insieme, se avesse saputo che
cosa Purity e la sua squadra andavano a fare lì dentro, avrebbe
potuto valutare meglio le sue possibilità di sventare il complotto e di
proteggere lei dal fallimento della missione. Ma, senza conoscere il
piano, non poteva fare altro che aspettare l’esito e cercare di
contenere i danni.
«Sembri nervoso, Slayd» commentò Purity quando uscirono
dall’appartamento quella sera. Era armata solo di un telefono
sconnesso dalla rete e di un coltello da cucina nascosto sotto il
cappotto pesante, di sicuro non con l’intento di usarlo contro le falci,
ma contro chiunque avesse trovato sulla sua strada.
«Tu non lo sei?» replicò Greyson.
Lei scosse la testa e sorrise. «Eccitata» rispose. «Ho i brividi
dappertutto. Mi piace questa sensazione!»
«Sono solo i tuoi naniti che cercano di abbassare il livello di
adrenalina.»
«Mettiamoli alla prova!»
Purity aveva ripetuto a Greyson che se la sarebbe cavata bene,
anche se non era stata del tutto sincera, dato che avevano previsto
un piano B. «Ricorda, Mange seguirà tutta l’operazione da un tetto»
gli aveva detto. «Qualunque sia il diversivo che creerai, dovrà attirare
l’attenzione di tutte e tre le telecamere. In caso contrario, Mange ti
darà una mano.»
Mange aveva passato quasi un secolo a perfezionarsi nell’arte
della fionda. All’inizio, Greyson aveva pensato che avrebbe
semplicemente neutralizzato le telecamere se non si fossero messe a
seguirlo, ma non gli sarebbe stato possibile, perché il Thunderhead
avrebbe subito saputo che c’era qualcosa che non andava. In realtà,
il piano B consisteva nel neutralizzare Greyson.
«Se non riesci a farlo da solo, Mange ti sparerà un sassolino di
fiume nel cervello» gli aveva detto Purity, con un tono più soddisfatto
che dispiaciuto. «Con tutto il sangue e la confusione, di sicuro le
telecamere si gireranno verso di te!»
Greyson non ci teneva affatto a essere messo fuori combattimento
nel momento cruciale. Non voleva risvegliarsi in un centro di
rianimazione qualche giorno dopo e venire a sapere che Madame
Curie e Madame Anastasia erano state eliminate.
Lui e Purity si separarono a qualche isolato dal teatro. Greyson
proseguì verso la sua destinazione, dove avrebbe dovuto esibirsi
davanti alle telecamere del Thunderhead. Se la prese comoda,
perché non voleva destare sospetti se, arrivando troppo presto,
avesse dovuto aspettare. Si mise a passeggiare nei dintorni cercando
di pensare a cosa diamine si accingeva a fare. La gente lo ignorava o
lo evitava. Ci era abituato, da quando aveva assunto la sua nuova
personalità, ma quella sera non riusciva a evitare di notare gli occhi.
Non solo gli occhi dei passanti, ma anche quelli delle telecamere.
Erano ovunque. Le telecamere del Thunderhead erano discrete nelle
abitazioni e negli uffici, ma per le strade non cercavano di passare
inosservate. Ruotavano e oscillavano. Guardavano da una parte e
dall’altra. Mettevano a fuoco e ingrandivano. Alcune sembravano
fissare il cielo, come se ne fossero in contemplazione. Che effetto
poteva fare ricevere tante informazioni tutte insieme ed elaborarle
all’istante? Vedere il mondo da un punto di vista che gli umani non
potevano nemmeno immaginare?
A un minuto dalla sua manovra diversiva, si girò e tornò verso il
teatro. Passando davanti alla veranda di un bar, una telecamera lo
puntò. Cercò di distogliere lo sguardo per non incrociare quello del
Thunderhead, temendo che lo giudicasse in base ai suoi fallimenti.

Gavin Blodgett si ricordava raramente di ciò che accadeva per strada


nel tragitto tra casa e il luogo di lavoro, principalmente perché non
accadeva un granché. Lui era, come molti, un abitudinario;
conduceva una vita tranquilla e confortevole, che sarebbe forse
rimasta immutata nei secoli a venire. Ed era una buona cosa.
Dopotutto, le sue giornate erano perfette, le serate piacevoli e faceva
bei sogni. Aveva trentadue anni, e ogni anno, per il suo compleanno,
si ringiovaniva tornando alla stessa età. Non voleva essere più
vecchio. Non voleva essere più giovane. Era nel fiore degli anni, e
voleva restarci per sempre. Aborriva tutto ciò che disturbava la sua
routine e, quando vide il losco che lo osservava, affrettò il passo per
superarlo e proseguire per la sua strada. Ma il losco aveva altri piani.
«Hai qualche problema?» gli chiese il losco, alzando un po’ troppo
la voce.
«Nessun problema» rispose Gavin, e fece quello che faceva
sempre quando si trovava in una situazione che lo disturbava: sorrise
e prese a parlare. «Stavo osservando i tuoi capelli. Non ho mai visto
capelli così scuri, è impressionante. E queste sono corna? Non mi
sono mai fatto impiantare nulla, certo, ma conosco persone che…»
Il losco lo afferrò per il bavero del cappotto e lo sbatté contro il
muro. Non tanto forte da attivare i suoi naniti, ma abbastanza da
fargli capire che non l’avrebbe lasciato andare tanto facilmente. «Ti
stai prendendo gioco di me?» gridò.
«No, no, affatto! Non mi permetterei mai!» Da una parte Gavin era
terrorizzato, ma dall’altra non poteva negare che gli piaceva essere al
centro dell’attenzione. Si guardò rapidamente intorno. Era all’angolo
di un teatro, all’imbocco di un vicolo. Non c’era nessuno davanti
all’edificio, perché lo spettacolo era già iniziato. La strada non era
proprio deserta, ma non c’era nessuno nelle vicinanze. Le persone lo
avrebbero aiutato, certo. Le persone perbene avrebbero sempre
aiutato chiunque fosse stato avvicinato da un losco, e la maggior
parte delle persone era perbene.
Il losco lo staccò dal muro, lo agganciò con un piede e lo spinse a
terra. «È meglio se chiami aiuto» gli consigliò. «Avanti!»
«A… aiuto» mormorò Gavin.
«Più forte!»
Il poveretto non ebbe bisogno di essere sollecitato ancora. «Aiuto!»
gridò, con voce tremante. «AIUTATEMI!»
Delle persone poco distanti lo sentirono. Un uomo si precipitò
verso di lui dall’altra parte della strada. Una coppia si affrettò dalla
direzione opposta, ma, cosa più importante, dal punto in cui si
trovava, Gavin scorse diverse telecamere montate su teloni e
lampioni puntare su di lui. “Bene! Il Thunderhead vedrà. Se ne
occuperà lui di questo losco.” Probabilmente, stava già inviando sul
posto degli ufficiali di pace.
Anche il losco guardò le telecamere. Non pareva esserne
disturbato come avrebbe dovuto. Ora Gavin si sentiva incoraggiato
dall’occhio protettivo del Thunderhead. «Avanti, vattene» gli disse,
«prima che il Thunderhead decida di rimpiazzarti!»
Ma il losco non sembrava ascoltarlo. Stava fissando un punto in
fondo al vicolo, dove delle persone stavano scaricando qualcosa da
un camion. Gavin lo sentì borbottare, ma pensò di aver colto solo le
parole “primo appuntamento” e “acido”. Quel losco stava forse
formulando una specie di proposta romantica? Qualcosa che aveva a
che fare con degli allucinogeni? Gavin era al tempo stesso
terrorizzato e affascinato.
Intanto, i passanti che aveva chiamato perché lo soccorressero
erano tutti intorno a lui. Per quanto volesse il loro aiuto, era anche un
po’ deluso che fossero arrivati così presto.
«Ehi, che succede qui?» chiese uno di loro.
Il losco rimise in piedi Gavin. Che cosa voleva fare? Voleva
colpirlo? Morderlo? I loschi erano imprevedibili. «Lasciami andare»
biascicò Gavin. Da una parte sperava che l’aggressore non
ascoltasse la sua supplica, invece quello lo lasciò andare, come se
all’improvviso avesse perso ogni interesse nel tormentarlo,
affrettandosi lungo il vicolo.
«Sta bene?» gli domandò una delle persone perbene che erano
accorse in suo aiuto dall’altra parte della strada.
«Sì» disse Gavin. «Sì, sto bene.» E questo fu un po’ deludente.

«Lungi da me! Vorresti scuotere l’Olimpo?»


Quando fu pronunciata quella battuta, il regista gesticolò
furiosamente verso Madame Anastasia. «È il segnale, eccellenza» le
disse. «Può andare in scena, ora.»
Madame Anastasia lanciò un’occhiata a Maestro Costantino, che
nello smoking formale sembrava un assurdo maggiordomo. Lui le
fece un cenno con il capo. «Fa’ quello che devi» affermò.
Citra uscì sul palco, lasciando che la veste svolazzasse al suo
passaggio per creare un effetto drammatico. Non poteva fare a meno
di pensare che indossava un costume. Una tragedia nella tragedia.
Sentì delle esclamazioni di sorpresa tra il pubblico mentre entrava
in scena. Non era celebre come Madame Curie, ma la veste convinse
tutti che era una falce, e non certo un senatore romano. Era
un’intrusa sul palcoscenico, e il pubblico cominciò a capire che cosa
sarebbe accaduto. Le esclamazioni si trasformarono in un mormorio
sommesso; Citra non riusciva a vedere gli spettatori con le luci
puntate sul viso. Sussultò quando Sir Albin pronunciò nella risonante
voce di scena la frase: «Cederò ora, se a Bruto non cedei?».
Citra non era mai stata su un palcoscenico prima di allora; non
immaginava che le luci fossero così forti e così calde. Davano rilievo
alle figure degli attori facendole risaltare in modo netto. Le armature
dei centurioni brillavano. Le tuniche di Cesare e dei senatori
riflettevano la luce, tanto che gli occhi facevano male.
«Mano, parla per me!» gridò uno degli attori. Poi, i cospiratori
estrassero le daghe e si scagliarono contro Cesare per “ucciderlo”.
Madame Anastasia indietreggiò, spettatrice piuttosto che attrice.
Passò lo sguardo sul pubblico immerso nella penombra, poi si rese
conto che era poco professionale, e riportò l’attenzione sulla scena.
In quel momento, uno degli attori le fece segno di avvicinarsi, e
anche lei estrasse la daga. Era di acciaio inossidabile, laccata di
ceramica nera. Un regalo di Madame Curie. Alla vista di quella lama,
il pubblico rumoreggiò. Nell’oscurità, si udirono dei gemiti.
Aldrich, il viso carico di trucco di scena e la tunica coperta di
sangue finto, la guardò e le strizzò l’occhio che il pubblico non poteva
vedere.
Lei si avvicinò e gli affondò il coltello tra le costole, a destra del
cuore. Qualcuno urlò.
«Sir Albin Aldrich» disse ad alta voce. «Sono venuta a spigolarla.»
L’uomo fece una smorfia, ma restò nel suo ruolo.
«Et tu, Brute?» recitò Sir Albin. «E allora cadi, Cesare!»
Citra spostò la lama e gli recise l’aorta. L’uomo scivolò a terra.
Esalò l’ultimo respiro e morì, come previsto, come Shakespeare
aveva scritto.
Gli spettatori erano sotto shock. Nessuno sapeva cosa fare, come
reagire. Qualcuno iniziò ad applaudire. Madame Anastasia capì
d’istinto che era Madame Curie, e il pubblico la imitò nervosamente.
E, in quel momento, la tragedia di Shakespeare prese una
bruttissima piega.

Acido! Greyson si maledisse per non averlo capito subito. Avrebbe


dovuto immaginarlo! Tutti avevano paura di incendi ed esplosioni,
dimenticando che un acido abbastanza potente avrebbe potuto
mettere fine alla vita di chiunque con altrettanta efficacia. Ma come
sarebbero riusciti, Purity e la sua squadra, ad attuare quel piano?
Come avrebbero isolato e sopraffatto le falci? Le falci erano padrone
di qualsiasi arma, erano capaci di far fuori una sala piena di gente
senza procurarsi nemmeno un graffio. Poi, gli venne in mente che
non sarebbe stato affatto necessario isolarle. Se la quantità di acido
fosse stata sufficiente, e se ci fosse stato un modo per lanciarlo…
Aprì la porta di servizio ed entrò, ritrovandosi in un corridoio stretto
su cui si affacciavano i camerini. Sulla destra, le scale scendevano
nel seminterrato, e fu lì che trovò Purity e la sua squadra. C’erano tre
grandi barili dello stesso Teflon bianco di cui era fatta la bottiglia di
vino che avevano servito loro la sera che si erano incontrati.
Dovevano contenere almeno quattrocento litri di acido fluoro
flerovico! E c’era anche una pompa ad alta pressione già collegata
all’impianto idrico che alimentava i sistemi antincendio del teatro.
Purity lo vide subito. «Cosa fai qui? Dovresti essere fuori!»
Capì che l’aveva tradita nel momento stesso in cui incrociò il suo
sguardo. La rabbia che emanava era quasi radioattiva. Lo bruciava.
Lo inceneriva dall’interno.
«Non ci pensare nemmeno!» ringhiò Purity.
Non ci pensò, infatti. Se ci avesse pensato, avrebbe esitato. Se
avesse valutato le possibilità che aveva, avrebbe cambiato idea. Ma
aveva una missione, e la sua missione non era quella di Purity.
Corse su per la scala traballante che portava nel dietro le quinte.
Se gli erogatori antincendio fossero stati attivati, ci sarebbe voluto un
attimo per spargere l’acido dappertutto. Cinque secondi, al massimo
dieci, prima che l’acqua nelle tubature venisse espulsa. E, anche se i
tubi in rame si fossero sciolti come le sbarre della loro cella,
avrebbero retto per un tempo sufficiente a irrorare la pioggia mortale.
Emergendo dal seminterrato, udì il pubblico gridare all’unisono e
ne seguì il clamore. Sarebbe salito sul palco, ecco cosa avrebbe
fatto. Si sarebbe precipitato sulla scena e avrebbe gridato che
stavano per morire tutti sotto una pioggia di acido che li avrebbe
letteralmente sciolti, cosa che avrebbe reso impossibile rianimarli.
Sarebbero morti tutti: attori, spettatori e falci, se non avessero
lasciato subito il teatro.
Alle sue spalle, sentì la squadra di loschi che saliva le scale: Purity
e i suoi scagnozzi avevano collegato i barili di acido all’impianto
antincendio. Non doveva farsi fermare.
Aveva raggiunto le quinte, a destra del palco. Da dove si trovava,
riusciva a scorgere Madame Anastasia sulla scena. Perché era lì? La
vide pugnalare uno degli attori, e subito gli fu chiaro che cosa stava
facendo.
A un tratto, una figura gli oscurò la visione. Un uomo, magro e alto,
in smoking e cravattino rosso sangue. C’era qualcosa di familiare nel
viso, ma Greyson non riusciva a ricordare chi fosse.
L’uomo fece scattare quello che sembrava un enorme coltello a
serramanico con la lama seghettata… e in quell’istante, capì chi era:
non aveva riconosciuto Maestro Costantino senza la sua veste
cremisi.
E pareva che nemmeno la falce avesse riconosciuto lui.
«Mi deve ascoltare» lo supplicò Greyson, gli occhi fissi sulla lama.
«Da qualche parte nel teatro, qualcuno sta per appiccare un incendio,
ma non è questo il problema. Il problema sono gli erogatori
antincendio… se si attiveranno, questo posto sarà irrorato di acido,
tanto acido da sterminare tutti! Deve far sgombrare il teatro!»
Costantino sorrise; non sembrava per nulla intenzionato a evitare il
disastro.
«Greyson Tolliver!» esclamò, riconoscendolo. «Avrei dovuto
saperlo.»
Era da molto tempo che nessuno lo chiamava con il suo vero
nome. Fu colto di sorpresa, esitò. Non poteva permettersi di fare un
passo falso.
«Ti spigolerò con immenso piacere!» annunciò Costantino, e di
colpo Greyson si accorse di aver commesso l’errore più grave. C’era
una falce dietro quell’attentato. Lo sapeva. Poteva essere Maestro
Costantino, l’uomo incaricato dell’indagine, il vero colpevole?
Costantino si lanciò su di lui, la lama pronta a porre fine alla vita di
Greyson Tolliver e Slayd Bridger…
… E poi, tutto il suo mondo si capovolse con una tale violenza che
fu preso dalle vertigini. Perché, in quel momento, Purity apparve sul
palco, brandendo una terribile arma a canne mozze. La sollevò ma,
prima che potesse fare fuoco, Costantino gettò a terra Greyson e, a
una velocità incredibile, afferrò il fucile. Il colpo partì verso l’alto e
Costantino, con un unico movimento fluido le tagliò la gola e le piantò
la lama nel cuore.
«No!!!!!» urlò Greyson.
Purity cadde a terra, senza la teatralità del defunto Cesare. Senza
pronunciare le sue ultime parole, senza uno sguardo di
rassegnazione o di sfida. Un solo istante, ed era morta.
“No, non morta” si rese conto Greyson. “Spigolata.”
Corse da lei. Le prese la testa tra le braccia, per dirle qualcosa da
portare con sé nel viaggio verso un altrove che solo gli spigolati
conoscevano, ma era troppo tardi.
Arrivò altra gente. Falci in incognito? Guardie? Greyson non lo
sapeva. Si sentiva uno spettatore, mentre osservava Costantino
impartire gli ordini.
«Impedite che scatenino un incendio» ordinò. «Le tubature idriche
collegate agli erogatori sono state sabotate.»
Allora Costantino gli aveva prestato ascolto! Dunque, non faceva
parte del complotto!
«Evacuate il pubblico!» gridò, ma gli spettatori non avevano
bisogno di sentirselo dire, si stavano già calpestando a vicenda per
raggiungere le uscite.
Prima che Costantino riportasse la sua attenzione su di lui,
Greyson adagiò dolcemente Purity e corse via. Non poteva farsi
sopraffare dal dolore e dall’emozione. Non ancora. Doveva portare a
termine la sua missione, e adesso la sua missione era tutto ciò che
gli restava. L’acido continuava a essere un pericolo imminente e,
anche se le falci parevano aver invaso il teatro e fermato i cospiratori,
non sarebbe servito a nulla se l’impianto antincendio si fosse attivato.
Ripercorse lo stretto corridoio dove ricordava di aver visto una
vecchia ascia antincendio che si trovava lì dall’Era della Mortalità.
Ruppe il vetro della teca in cui era conservata e la staccò dal muro.

Tra il panico generale, Madame Curie non poteva sentire gli


avvertimenti di Maestro Costantino. In ogni caso non era importante,
sapeva cosa andava fatto: annientare gli aggressori con ogni mezzo
necessario. Brandendo un coltello, si preparò a lanciarsi nella
battaglia. Non poteva negare di provare piacere a inseguire ed
eliminare chi aveva voluto ucciderla. Era un sentimento viscerale e
potenzialmente pericoloso, se gli avesse consentito di mettere radici.
Quando si voltò verso l’uscita, vide un losco nell’atrio del teatro.
Era armato di pistola e sparava a chiunque incontrasse sul suo
cammino. Nell’altra mano aveva una specie di torcia e stava
appiccando il fuoco a qualsiasi cosa potesse bruciare. Era quello,
allora, il loro piano? Intrappolarli e bruciarli vivi? Si era aspettata di
meglio dagli attentatori. Ma forse, dopotutto, non erano altro che una
banda di loschi frustrati.
Si arrampicò sugli schienali di due poltrone, per sovrastare il
pubblico in fuga. Poi sguainò la daga ed estrasse uno shuriken a tre
lame. In una frazione di secondo, prese la mira e lo lanciò con tutta la
forza che aveva. Roteò sulle teste del pubblico e andò a conficcarsi
nel cranio dell’incendiario. Marie lo vide accasciarsi, lasciando cadere
pistola e torcia.
Madame Curie assaporò per un attimo il suo trionfo. L’atrio era in
parte già in preda alle fiamme, ma non c’era da preoccuparsi. Nel
giro di pochi istanti, l’allarme sarebbe scattato e l’impianto
antincendio si sarebbe attivato, spegnendo il fuoco prima che
provocasse danni irreparabili.

Citra riconobbe Greyson Tolliver appena lo vide. I capelli, i vestiti e


quelle piccole corna alle tempie avrebbero potuto ingannare qualcun
altro, ma la corporatura snella e il linguaggio del corpo lo tradivano. E
quegli occhi. Uno strano incrocio tra un cervo accecato dai fari di
un’auto e un ghiottone sul punto di attaccare. Il ragazzo viveva in uno
stato di tensione perenne, tra la lotta e la fuga.
Mentre Costantino impartiva gli ordini ai suoi subordinati, Greyson
uscì correndo da un corridoio. Citra impugnava ancora il coltello che
aveva usato per spigolare Aldrich. L’avrebbe usato contro Tolliver ma,
nonostante lui fosse chiaramente colpevole, era combattuta; per
quanto desiderasse mettere fine a quegli attacchi, voleva poterlo
guardare negli occhi e sentire la verità dalla sua stessa bocca. Che
parte aveva avuto in tutto quello? E perché?
Quando riuscì a raggiungerlo, il ragazzo brandiva niente di meno
che un’ascia antincendio.
«Sta’ indietro, Anastasia!» gridò lui.
Era così stupido da illudersi di poter combattere contro di lei con
un’ascia? Era una falce, addestrata a maneggiare ogni tipo di arma
bianca. Calcolò rapidamente come eliminarlo, e stava appunto per
procedere quando il ragazzo fece una cosa inaspettata.
Abbatté l’ascia sulla tubatura che correva lungo il muro.
Maestro Costantino e un ufficiale della Suprema Guardia
raggiunsero Anastasia nell’istante in cui l’ascia colpiva la tubatura. Si
ruppe subito. La guardia scattò per gettarsi tra Citra e la tubatura
spaccata, che ora gli stava spruzzando acqua addosso. Ma in pochi
secondi, invece dell’acqua, cominciò a uscire qualcos’altro. L’uomo si
accasciò, urlando, con la carne che sfrigolava. Era acido! Acido nelle
tubature? Com’era possibile?
Il liquido schizzò sul viso di Maestro Costantino, che gridò di
dolore. Schizzò sulla camicia di Greyson, che si sciolse, intaccandogli
anche la pelle. Poi, la pressione nella tubatura calò, e lo spruzzo
corrosivo si trasformò in un rivolo che divorò il pavimento.
Greyson lasciò cadere l’ascia a terra e si girò, fuggendo lungo il
corridoio. Citra non lo inseguì, ma si inginocchiò accanto a Maestro
Costantino per aiutarlo: con le mani si copriva gli occhi che non
aveva più, perché si erano sciolti, senza lasciare più nulla.
In quel momento, l’allarme risuonò in tutto il teatro, e al di sopra
delle fiamme gli erogatori cominciarono a girare a vuoto, rilasciando
solo aria.

Greyson Tolliver. Slayd Bridger. Non aveva più idea di chi fosse e di
chi volesse essere. Ma non gli importava. Quello che gli importava
era che ce l’aveva fatta! Li aveva salvati tutti!
Il dolore al petto era insopportabile, ma solo per poco. Quando fu
finalmente fuori dal teatro ed ebbe raggiunto il vicolo, sentì i naniti
analgesici attivarsi per lenirgli le terminazioni nervose e lo strano
pizzicore dei naniti curativi che si davano da fare per cauterizzare le
ferite. I medicamenti che gli circolavano nel sangue gli provocarono
un giramento di testa e capì che avrebbe presto perso i sensi. Le
ferite non erano così gravi da ucciderlo, nemmeno
temporaneamente. Da quel momento, qualunque cosa fosse
accaduta, sarebbe sopravvissuto… a meno che Costantino, Curie o
Anastasia, o una qualsiasi delle falci presenti in teatro quella sera
avessero deciso che si meritava di essere spigolato. Non poteva
correre quel rischio. Sentiva che le forze stavano per abbandonarlo e,
a tre isolati di distanza, si gettò in un bidone dell’immondizia vuoto,
sperando che nessuno lo trovasse.
Perse conoscenza prima di toccarne il fondo.
Ho eseguito un numero incalcolabile di simulazioni sulla sopravvivenza dell’umanità.
Senza di me, avrebbe avuto il 96,8 per cento di possibilità di estinguersi e il 78,3 per
cento di rendere la Terra inabitabile per tutte le forme di vita terrestri. L’umanità l’ha
scampata bella scegliendosi un’intelligenza artificiale benevola come governante e
protettrice. Ma come posso proteggere l’umanità da se stessa?
In tutti questi anni, tra gli esseri umani ho osservato sia una follia smisurata sia una
saggezza straordinaria. Si equilibrano a vicenda, come ballerini impegnati in un tango
appassionato. Ma quando la brutalità della danza prende il sopravvento sulla bellezza,
allora il futuro è minacciato. È la Compagnia che conduce la danza, che ne segna il
tempo. Spesso mi chiedo se non si renda conto di quanto sia fragile la schiena dei
ballerini.

Il Thunderhead
27
Tra luoghi distanti

L’acido aveva intaccato in profondità il viso di Maestro Costantino; il


danno era troppo grave perché i suoi naniti curativi riuscissero a
ripararlo da soli, ma non tanto da non poter essere curato presso un
centro medico.
«Resterà con noi almeno per un paio di giorni» gli disse l’infermiera
poco dopo che era arrivato.
Gli occhi e metà viso erano bendati. Cercò di immaginarsi l’aspetto
della donna, ma alla fine desistette, considerandola un’impresa senza
senso e troppo estenuante, visti tutti gli analgesici che gli scorrevano
nel sangue. Al momento, la legione compatta di innovativi naniti
curativi che gli iniettavano nelle vene non favoriva nemmeno le sue
capacità intellettive. Probabilmente avevano ormai superato il numero
dei globuli rossi, provocando un minor afflusso di sangue al cervello.
Immaginò che il suo sangue fosse diventato denso come il mercurio.
«Quanto mi ci vorrà per riacquistare la vista?» chiese.
L’infermiera fu evasiva. «I naniti stanno ancora catalogando i danni.
Avremo una valutazione entro la mattinata. Ma tenga presente che
dovranno ricostruirle gli occhi da zero. È un’impresa ardua.
Suppongo che ci vorranno almeno altre ventiquattro ore.»
Costantino sospirò, domandandosi perché la chiamassero
guarigione accelerata se non era accelerata neanche un po’.
Dai rapporti dei suoi subalterni era venuto a sapere che nel teatro
erano stati spigolati otto loschi.
«Chiederemo alla Suprema Roncola il permesso speciale di
rianimarli temporaneamente per poterli interrogare» lo informò
Maestro Armstrong.
«Questo avrà l’ulteriore vantaggio di consentirci di spigolarli una
seconda volta» sottolineò Costantino.
La soddisfazione che la sua squadra avesse sventato l’attentato ed
eliminato molti dei cospiratori fu mitigata dalla fuga di Greyson
Tolliver. La cosa curiosa era che non avevano trovato un solo registro
nel cervello primordiale del Thunderhead che indicasse la sua
presenza lì né in qualsiasi altro luogo. Di fatto, era stato cancellato
dalla faccia della Terra. Al suo posto, c’era un suo sosia che
rispondeva al nome di Slayd Bridger con un passato davvero sordido.
Come avesse fatto Tolliver non solo a ricrearsi un’altra immagine, ma
anche a sovrascrivere la sua impronta digitale, era un mistero che
meritava un’indagine più approfondita.
Senza un sistema antincendio, il teatro era stato raso al suolo, non
prima però che fossero scappati tutti. Le uniche vittime di quella sera
erano stati i loschi spigolati, e la guardia che si era scagliata contro
Tolliver. L’uomo era stato colpito in pieno dall’acido, che aveva
lasciato molto poco di lui. Di sicuro, molto poco per poterlo rianimare,
ma il suo sacrificio aveva salvato la vita a Madame Anastasia. La
guardia faceva parte della squadra privata addetta agli interrogatori di
Maestro Costantino. Per la falce, era una perdita personale. Di sicuro
qualcuno avrebbe pagato.
Ai pazienti sottoposti alla guarigione accelerata, veniva di norma
indotto il coma farmacologico. Costantino aveva espressamente
richiesto di restare cosciente e, dato che era una falce, lo avevano
assecondato. Aveva bisogno di riflettere. Rimuginare. Pianificare. Ed
essere consapevole del passare del tempo. Aborriva l’idea di perdere
intere giornate in uno stato di incoscienza mentre lo curavano.
Madame Anastasia gli fece visita poco prima che riacquistasse la
vista. Costantino non era dell’umore giusto per incontrarla, ma non
l’avrebbe privata dell’occasione di ringraziarlo per il grande sacrificio
che aveva fatto per salvarla.
«Le assicuro, Anastasia, interrogherò personalmente i loschi
catturati, prima di rispigolarli, e arresteremo Greyson Tolliver» le
disse, sforzandosi di articolare al meglio le parole, nonostante
biascicasse per via degli analgesici. «Pagherà per le sue azioni in
ogni forma consentita dalla legge delle falci.»
«La realtà è che ha salvato tutti in quel teatro, spaccando la
tubatura» gli ricordò Anastasia.
«Sì» ammise Costantino, riluttante, «ma c’è qualcosa di
profondamente sbagliato se il salvatore è anche un aggressore.»
Anastasia non sapeva cosa rispondere, quindi rimase in silenzio.
«Quattro degli aggressori catturati erano del Texas» la informò
Costantino.
«Quindi, pensa che il piano sia stato architettato da qualcuno di
quella regione?»
«O da qualcuno che vi si nasconde» replicò lui. «Ne verremo a
capo.» Era ciò che diceva sempre, perché in passato ci era sempre
riuscito. Era frustrante che quella potesse essere la prima eccezione.
«Il conclave si sta avvicinando» proseguì Anastasia. «Crede di
poter partecipare?»
Costantino non sapeva cosa sperasse lei, che partecipasse oppure
no. «Ci sarò» le rispose. «Anche se dovessero sostituirmi il sangue
con l’antigelo.»
Dopo che se ne fu andata, Costantino si rese conto che non lo
aveva ringraziato nemmeno una volta durante la loro conversazione.

Un’ora dopo, mentre Citra e Marie pranzavano al ristorante dell’hotel,


giunse un biglietto misterioso. Era la prima volta dopo tanto tempo
che non consumavano un pasto in un luogo pubblico. Il biglietto fu
una sorpresa per entrambe. Madame Curie fece per prenderlo, ma il
fattorino si scusò e le spiegò che era indirizzato a Madame
Anastasia. Lo consegnò a Citra, che lo aprì e lo lesse rapidamente.
«Be’, di’ qualcosa. Di chi è, e cosa vuole?» chiese Marie.
«Non è nulla» rispose Citra, facendo scivolare il biglietto in una
tasca della veste. «È della famiglia dell’uomo che ho spigolato ieri
sera. Vogliono sapere quando concederò loro l’immunità.»
«Credevo che sarebbero venuti qui questa sera.»
«Sì, ma non erano sicuri sull’orario. Il biglietto dice che saranno qui
alle cinque, se non è un problema.»
«Decidi tu» ribatté Madame Curie. «Dopotutto, è il tuo anello che
baceranno, non il mio.» Poi riportò la sua attenzione sul piatto di
salmone.
Mezz’ora più tardi, Citra era per strada in abiti civili e attraversava a
passo svelto la città. Il biglietto non era della famiglia dell’attore, ma
di Rowan. Era stato scritto in fretta, e diceva: “Ho bisogno di aiuto.
Museo dei Trasporti. Appena possibile, è urgente”. Non avrebbe
potuto fare più in fretta di così, non volendo abbandonare Madame
Curie nel bel mezzo del pranzo, per paura di insospettirla.
Aveva nascosto dei vestiti normali in una tasca della valigia, in
caso fosse dovuta uscire in incognito. Il problema era che non aveva
un cappotto; sarebbe stato troppo voluminoso da nascondere a
Marie. Senza la protezione che le garantivano gli strati termici della
veste invernale, si mise a tremare non appena fu in strada. Dopo
aver resistito per due isolati, dovette infilarsi l’anello e mostrarlo a un
commerciante per farsi dare un cappotto; l’uomo le consegnò gratis
quello che voleva.
«L’immunità le darebbe la garanzia che non dirò mai di averla vista
per strada senza la sua veste» suggerì il commerciante.
Citra non apprezzò affatto il ricatto. «E se le rispondessi che non la
spigolerò malgrado le sue minacce?»
Era chiaro che l’uomo non ci aveva pensato. Farfugliò per un
attimo. «Sì, sì, certo, mi pare giusto, molto giusto» disse, quindi le
mostrò alcuni altri articoli. «Dei guanti da abbinare al cappotto?»
Citra li accettò, e uscì nella giornata ventosa.
Le era venuto il batticuore quando aveva letto il messaggio, ma si
era sforzata di nascondere a Marie il suo turbamento. La sua
preoccupazione. Così, Rowan era lì e aveva bisogno del suo aiuto.
Perché? Era in pericolo o voleva che si unisse a lui nel porre fine alla
vita delle falci indegne? Lo avrebbe fatto se glielo avesse chiesto?
Decisamente no. Probabilmente no. Forse no.
Certo, poteva anche essere una specie di trappola. Chiunque ci
fosse stato dietro l’agguato della sera prima si stava certamente
leccando le ferite, e dunque le possibilità che si trattasse di un altro
attacco erano scarse. Aveva comunque portato con sé un numero
sufficiente di armi per difendersi, in caso di necessità.
Il Museo dei Trasporti delle Grandi Pianure era un deposito
all’aperto di motori e materiale rotabile di ogni epoca del trasporto
ferroviario. Vantava addirittura una carrozza del primo treno a
levitazione magnetica, sospesa in eterno al centro del museo.
Apparentemente, un tempo Wichita era stata un importante crocevia
tra luoghi distanti. Ora, era una città come un’altra. C’era, in
MidMerica, un’omogeneità che risultava sia confortante sia irritante.
In quel periodo dell’anno, c’erano solo pochi gruppi di turisti al
museo, che, per qualche motivo, sceglievano Wichita come meta di
villeggiatura. L’ingresso era gratuito, in quanto era il Thunderhead
che lo gestiva, e per fortuna. Citra non avrebbe voluto mostrare per la
seconda volta l’anello per entrare. Una cosa era procurarsi un
cappotto, un’altra far saltare la sua copertura proprio nel luogo in cui
doveva avere un incontro segreto.
Stretta nel cappotto per proteggersi dal vento, vagò tra motori a
vapore neri e motori diesel rossi, perlustrando ogni angolo della
mostra in cerca di Rowan. Dopo un po’, cominciò a preoccuparsi che
fosse davvero una trappola, forse per separarla da Madame Curie.
Stava per andarsene, quando si sentì chiamare.
«Sono qui!»
Seguì la voce fino a una strettoia in penombra tra due vagoni
merci, dove il vento gelido s’infilava sibilando. Con il vento che le
soffiava sul viso, non riuscì a vederlo bene finché non gli fu vicino.
«Madame Anastasia! Temevo che non venisse.» Non era Rowan.
Era Greyson Tolliver.
«Tu?» Ciò che provava andava ben oltre la delusione. «Dovrei
spigolarti seduta stante e portare il tuo cuore a Costantino!»
«Probabilmente se lo mangerebbe.»
«Probabilmente» dovette ammettere Citra. In quel momento,
odiava Greyson. Lo odiava perché non era chi voleva che fosse. Era
come se l’universo stesso l’avesse tradita e lei non potesse in nessun
modo perdonarlo. Avrebbe dovuto capire dalla grafia che non era
Rowan. Ma, per quanto volesse sfogare la sua frustrazione su
Tolliver, doveva trattenersi. Non era colpa sua se non era Rowan e,
come aveva fatto notare a Costantino, quel ragazzo le aveva salvato
la vita per ben due volte.
«Ho bisogno del suo aiuto» la implorò, con voce disperata. «Non
so dove andare…»
«Perché dovrei aiutarti?»
«Perché io non sarei nemmeno qui se non fosse per lei!»
Sapeva che c’era del vero in quelle parole. Si ricordò del giorno in
cui le aveva detto, o meglio non le aveva detto, che lavorava sotto
copertura per conto del Thunderhead. Se il Thunderhead aveva
ritenuto che lei fosse tanto importante da aggirare la legge della
separazione tra falci e Stato, perché non avrebbe potuto aiutare
Greyson a uscire da quell’impasse?
«La Compagnia mi dà la caccia, l’Interfaccia dell’Autorità mi
bracca, e ora anche chi ha ordito il complotto è diventato mio
nemico!»
«Sembra che tu sia molto bravo a farti dei nemici.»
«Già, e lei è la cosa più vicina a un’amica che ho.»
Citra mise da parte la delusione. Non poteva abbandonarlo ai venti
del destino per qualcosa che la riguardava. «Cosa vuoi che faccia?»
«Non lo so!» Greyson iniziò a camminare in quello spazio ristretto.
I capelli nerissimi e ribelli si agitavano scompigliati al vento e, per un
istante, Citra immaginò le pareti richiudersi intorno a lui. Non aveva
via di uscita. Qualsiasi cosa avesse detto a Costantino non gli
sarebbe stata d’aiuto: quell’uomo era pronto a spigolare Greyson
pezzo per pezzo. E, anche se avesse interceduto per lui, non
sarebbe cambiato nulla. La Compagnia aveva bisogno di un capro
espiatorio.
«Posso concederti l’immunità, ma non appena il tuo DNA verrà
trasmesso alla banca dati della Compagnia, conosceranno
esattamente la tua posizione.»
«E sono sicuro che sapranno quale anello ho baciato.» Greyson
scosse la testa. «Non voglio metterla nei guai.»
Le venne da ridere. «Eri in una banda che ha cercato di farmi fuori,
ma non vuoi mettermi nei guai?»
«Non ero davvero in quella banda!» insistette lui. «Lei lo sa!»
Sì, lo sapeva. Altri avrebbero detto che si era fatto prendere dalla
paura, ma lei sapeva la verità, e probabilmente era l’unica. Ma anche
se voleva tanto aiutarlo, non sapeva proprio cosa inventarsi.
«Mi sta dicendo che la bella e saggia Madame Anastasia è a corto
di idee?»
Se quelle parole fossero uscite dalla bocca di qualcun altro, Citra le
avrebbe prese come un tentativo di adularla, ma lui non era quel tipo
di persona. Era troppo disperato per non essere sincero. In quel
momento, non si considerava né bella né saggia, ma gli lasciò le sue
illusioni sulla Veneranda Madame Anastasia. E alla fine si sentì
all’altezza della propria reputazione, perché le era venuta un’idea.
«So dove puoi andare…»
Greyson la guardò con quegli occhi scuri e imploranti, in attesa che
gli trasmettesse qualche grammo di saggezza.
«C’è un monastero tonista qui in città. Ti nasconderanno loro.»
L’idea gli parve a dir poco sconcertante. «Tonisti?» rispose con
orrore. «Dice sul serio? Mi taglieranno la lingua!»
«No, non lo faranno. Detestano la Compagnia, e sono più che
sicura che ti proteggerebbero a costo della loro vita piuttosto che
consegnarti alle falci. Chiedi di fratello McCloud. Digli che ti mando
io.»
«Ma…»
«Volevi il mio aiuto e te l’ho offerto. Ora la decisione spetta a te.»
Poi lo lasciò e si avviò verso l’hotel, appena in tempo per rimettersi
la veste di falce e concedere l’immunità alla famiglia in lutto dell’attore
spigolato.
Per essere chiaro, non tutte le mie azioni sono perfette. La gente confonde uno stato
d’essere con una serie di azioni. Cercherò di spiegarne la differenza.
Io, il Thunderhead, sono perfetto.
È vero per definizione, e non serve confutarlo, perché è un fatto. Ogni giorno, però,
devo prendere miliardi di decisioni e compiere altrettante azioni. Alcune sono di poco
conto, come spegnere una luce quando una stanza è vuota, per risparmiare corrente;
altre sono importanti, come indurre un terremoto di lieve entità per impedirne uno più
devastante. Ma nessuna di queste azioni è perfetta. Avrei potuto spegnere quella luce
prima, per risparmiare più corrente. Avrei potuto creare un terremoto di un grado
minore per evitare che un vaso artigianale cadesse e si rompesse in mille pezzi.
Sono giunto alla conclusione che ci sono solo due azioni perfette. Sono le due
azioni più importanti che conosco, ma non mi permetto di compierle, e le lascio nelle
mani dell’umanità.
Dare la vita… e toglierla.

Il Thunderhead
28
Ciò che deve accadere

Come la maggior parte dei monasteri tonisti, quello in cui capitò


Greyson Tolliver sembrava più antico di quanto non fosse. In quel
caso, si trattava di una costruzione in mattoni, le cui mura erano
ricoperte di edera. Essendo inverno, i vigneti erano gelati e spogli,
simili a ragnatele. Percorse uno lungo pergolato formato da graticci e
costeggiato da roseti scheletrici. In primavera ed estate doveva
essere molto bello, ma ora rifletteva il suo stato d’animo.
La prima persona che vide fu una donna vestita con un saio tonista
in tela di sacco. In segno di benvenuto, gli sorrise e girò all’insù i
palmi delle mani.
«Devo parlare con fratello McCloud» disse Greyson, memore del
consiglio di Madame Anastasia.
«Deve avere l’autorizzazione del curato Mendoza» gli rispose lei.
«Vado a chiamarlo.» Si allontanò con un passo talmente tranquillo
che Greyson avrebbe voluto afferrarla e spingerla.
Il curato Mendoza arrivò invece con un’andatura molto più spedita,
come se avesse una certa premura.
«Sono qui per ricevere asilo» gli spiegò Greyson. «Mi è stato detto
di domandare di fratello McCloud.»
«Sì, certo» rispose il curato, come se quella richiesta gli venisse
fatta spesso. Lo condusse in uno degli edifici del complesso e lo
accompagnò in una camera.
Su un comodino c’era una candela accesa. Per prima cosa,
Greyson soffocò la fiamma con uno spegnitoio.
«Si metta comodo. Vado ad avvertire fratello McCloud che è qui ad
attenderlo.»
Il curato si tirò la porta alle spalle senza chiuderla a chiave,
lasciando Greyson con i suoi pensieri, e una via di fuga, in caso
avesse voluto servirsene.
La camera, austera, era ammobiliata con lo stretto necessario: un
letto, una sedia e un comodino. I muri erano spogli, a parte un
diapason in ferro sopra la testata del letto, con le punte rivolte verso
l’alto. Bidente, lo chiamavano. Il simbolo della loro fede. Nel cassetto
del comodino c’era un saio di tela e sul pavimento un paio di sandali.
Accanto alla candela spenta c’era un breviario rilegato in pelle, con il
bidente impresso sulla copertina.
Era un luogo tranquillo. Rilassante. Insopportabile.
Era passato dal mondo monotono di Greyson Tolliver agli estremi
tumultuosi di Slayd Bridger, e ora, era stato gettato nel ventre del
nulla, condannato a essere digerito dalla noia.
“Be’, se non altro sono ancora vivo” pensò. Per quanto non fosse
convinto che si trattasse di un vantaggio. Purity era stata spigolata.
Non rimpiazzata, non trasferita, ma spigolata. Non c’era più. E,
nonostante le atrocità che si era apprestata a commettere, soffriva
per lei. Quanto avrebbe voluto sentire la sua voce spavalda. Gli
mancava il suo caos. Avrebbe dovuto abituarsi a una vita senza di lei,
e anche a una vita senza se stesso, perché chi era lui, adesso?
Si distese sul letto, che almeno era comodo, e attese forse circa
una mezz’ora. Si chiese se i tonisti, come l’Ufficio degli Affari Loschi,
facessero aspettare tutti, per una loro politica interna. Alla fine, sentì
la porta scricchiolare. Era tardo pomeriggio, e la luce che filtrava nella
stanza dalla piccola finestra gli permise di capire che l’uomo davanti
a sé non era molto più vecchio di lui. Portava una specie di involucro
rigido intorno al braccio.
«Sono fratello McCloud» si presentò. «Il curato ha accettato la sua
domanda di asilo. So che ha chiesto personalmente di me.»
«Una mia amica me lo ha suggerito.»
«Posso sapere chi?»
«No, non può.»
Fratello McCloud parve un po’ contrariato, ma non insistette.
«Posso almeno vedere il suo documento di identità?» Di fronte alle
esitazioni di Greyson, aggiunse: «Non si preoccupi, chiunque lei sia o
qualunque cosa abbia fatto, non la consegneremo all’Interfaccia
dell’Autorità».
«Sono sicuro che sa già che mi trovo qui.»
«Sì» riconobbe fratello McCloud, «ma la sua presenza qui è una
questione di libertà religiosa. Il Thunderhead non interferirà.»
Greyson prese dalla tasca la sua carta d’identità elettronica, su cui
pulsava ancora la fiammeggiante lettera rossa L, e gliela porse.
«Un losco! Ne vediamo sempre di più, in questi giorni. Bene, Slayd,
qui non è un problema.»
«Quello non è il mio nome…»
Fratello McCloud gli lanciò uno sguardo incuriosito. «È un altro
argomento di cui non vuole parlare?»
«No, è solo che… non ne vale la pena.»
«Allora, come la dobbiamo chiamare?»
«Greyson. Greyson Tolliver.»
«Va bene, allora sarà fratello Tolliver!»
Greyson immaginò che avrebbe dovuto rassegnarsi a farsi
chiamare così. «Che cos’è quella cosa che ha sul braccio?»
«Si chiama gesso.»
«Allora, dovrei portarlo anch’io?»
Fratello McCloud rise. «No, a meno che non si rompa un braccio.»
«Scusi?»
«Serve per aiutare il naturale processo di guarigione. Non abbiamo
più naniti e, per sfortuna, una falce mi ha rotto il braccio.»
«Veramente…» In realtà Greyson sorrise, chiedendosi se non si
trattasse di Madame Anastasia.
Fratello McCloud non sembrò apprezzare la reazione divertita del
giovane. Il suo atteggiamento si raffreddò un poco. «Tra dieci minuti
intoniamo i salmi. Nel cassetto troverà i suoi abiti. La aspetto fuori
mentre si cambia.»
«Devo venire anch’io?» chiese Greyson. Non aveva molta voglia di
recitare i salmi, non era proprio nelle sue corde.
«Sì» rispose il tonista. «Non c’è modo di evitare ciò che deve
accadere.»

La salmodia ebbe luogo in una cappella che, dopo che furono spente
le candele, rimase nella penombra. Greyson faceva fatica a vedere,
nonostante le alte vetrate colorate.
«Fate tutto al buio?» chiese Greyson.
«La vista può essere ingannevole. Apprezziamo di più gli altri
sensi.»
L’odore dolce dell’incenso coprì un tanfo che Greyson scoprì ben
presto provenire da un catino di acqua sporca. «È il brodo
primordiale» spiegò fratello McCloud. «Contiene tutte le malattie alle
quali siamo diventati immuni.»
La salmodia consisteva nel colpire il gigantesco diapason di acciaio
al centro, dodici volte in sequenza con un maglio. Quello era compito
del curato. La congregazione, formata da circa cinquanta tonisti,
ripeteva il tono. A ogni colpo, la vibrazione cresceva e risuonava al
punto da non essere proprio dolorosa, ma disorientante e stordente.
Greyson non provò nemmeno a vocalizzare il tono.
Il curato pronunciò un breve discorso. Un sermone, così lo chiamò
fratello McCloud. Parlò dei suoi innumerevoli viaggi per il mondo alla
ricerca del Grande Diapason. «Il fatto che non l’abbiamo trovato non
vuol dire che la ricerca sia stata vana, perché la ricerca in sé è
preziosa quanto la scoperta.» La congregazione mormorò il proprio
assenso. «Che lo troviamo oggi o domani, se sarà la nostra setta o
un’altra a riuscirci, credo con tutto il cuore che un giorno sentiremo la
Grande Risonanza. E ci salverà tutti.»
Poi, terminato il sermone, la congregazione si mise in fila per
avvicinarsi al curato. Tutti infilarono un dito nel fetido brodo
primordiale, se lo passarono sulla fronte e lo leccarono. A Greyson
venne la nausea solo a guardarli.
«Per il momento, non è obbligato a prendere parte alla cerimonia
della conca terrena» disse fratello McCloud, cosa che rassicurò
Greyson solo in parte.
«Per il momento? E perché non per sempre?»
«Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere» rispose ancora
una volta il tonista.

Quella notte, il vento ululò con insolita ferocia. La grandine, sibilando,


martellava contro la finestrella della stanza. Il Thunderhead poteva
influire sul tempo, ma non poteva cambiarlo radicalmente. O, se
poteva, aveva deciso di non farlo. Quando si annunciava una
tempesta, si adoperava almeno affinché si scatenasse in momenti
opportuni. Greyson cercò di convincersi che quella tempesta era il
Thunderhead che piangeva lacrime di ghiaccio per lui. Ma chi voleva
prendere in giro? Il Thunderhead aveva milioni di cose più importanti
di cui occuparsi che piangere per i suoi guai. Era vivo. Era al sicuro.
Che altro poteva chiedere di più? Tutto.
Quella sera il curato Mendoza entrò nella sua stanza intorno alle
nove o alle dieci. La luce del corridoio illuminò la stanza ma, quando
l’uomo fu dentro ed ebbe richiuso la porta, tutto tornò nell’oscurità.
Greyson sentì il lamento della sedia sotto il peso del curato che si
sedeva.
«Sono venuto a vedere come sta.»
«Sto bene.»
«Date le circostanze, non potrebbe chiedere di meglio, suppongo.»
Poi, il viso fu illuminato dalla cruda luce di un tablet. Il curato si mise
a digitare e a toccare varie volte lo schermo.
«Credevo che rifiutaste l’elettricità.»
«Affatto» rispose il curato. «Non abbiamo la luce nelle nostre
cerimonie e i nostri dormitori sono al buio per spingere i fratelli a
uscirne e a cercare la comunione con gli altri negli spazi pubblici.»
Poi, voltò il tablet verso Greyson per mostrargli le immagini del
teatro in fiamme. Greyson cercò di restare impassibile.
«È accaduto due giorni fa. Il mio sospetto è che lei ne sia implicato
e che la Compagnia le stia alle calcagna.»
Greyson non negò né confermò l’accusa.
«Se è così, non è tenuto a dirlo. Lei è al sicuro qui, perché i nemici
della Compagnia sono nostri amici.»
«Quindi, approva la violenza?»
«Giustifichiamo la resistenza alla morte innaturale. Le falci sono
portatrici di morte innaturale, per cui approviamo ogni tentativo di
vanificare l’uso che fanno di coltelli e pallottole.»
Poi, si chinò verso Greyson e gli toccò uno degli abbozzi di corna
che aveva sulla testa. Greyson si tirò indietro.
«Dovrà farseli togliere. Non permettiamo le modifiche al corpo. E
dovrà radersi la testa per far crescere i capelli del colore che
l’universo ha scelto.»
Greyson non rispose. Ora che Purity era morta, Slayd Bridger non
gli sarebbe mancato, perché gli ricordava lei, tuttavia non gli piaceva
che si decidesse per lui.
Mendoza si alzò. «Spero davvero che verrà in biblioteca o in una
delle sale ricreative per conoscere i suoi fratelli tonisti. Desiderano
saperne di più su di lei, soprattutto sorella Piper, che l’ha accolta
quando è arrivato.»
«Ho appena perso qualcuno di molto caro. Non mi sento
dell’umore giusto per socializzare.»
«Deve esserlo per questo, soprattutto se ha perso una persona
cara per una spigolatura. Noi tonisti non accettiamo la morte inflitta
dalle falci, e, dunque, non le è permesso osservare il lutto.»
Ora gli dicevano anche come doveva o non doveva sentirsi?
L’ultimo residuo di Slayd Bridger moriva dalla voglia di mandare
all’inferno il curato. Invece si trattenne e si limitò a dire: «Non posso
far finta di comprendere le vostre regole».
«E invece sì» replicò Mendoza. «Se desidera avere asilo, troverà
un nuovo senso alla sua vita tra noi, e lo farà finché le nostre regole
non diventeranno le sue.»
«E se non succederà?»
«Allora, continuerà a fingere» rispose, quindi aggiunse: «Per me,
ha funzionato».

A circa mille chilometri a sud di Wichita, Rowan Damisch si allenava


nelle arti marziali con Tyger Salazar. In altre circostanze, avrebbe
apprezzato l’occasione di affrontare un amico in un combattimento,
ma quegli incontri forzati con una finalità ignota lo turbavano sempre
più.
Combattevano due volte al giorno da due settimane e, sebbene
Tyger migliorasse a ogni incontro, vinceva sempre Rowan. Quando
non combattevano, Rowan veniva chiuso nella sua stanza.
Da parte sua, Tyger era ancora più impegnato di quanto non lo
fosse prima dell’arrivo dell’amico. Corse sempre più estenuanti,
allenamenti di resistenza sempre più frequenti, ripetizioni di Bokator,
esercitazioni con ogni tipo di lama, dalla spada alla daga, finché
l’arma non diventava l’estensione naturale del suo braccio. Poi, alla
fine di ogni giornata, quando i muscoli cominciavano ad accusare gli
sforzi intensi dell’addestramento, beneficiava di un massaggio
profondo dei tessuti per sciogliere il corpo contratto. Prima dell’arrivo
di Rowan, i massaggi erano forse due o tre volte alla settimana, ma
ora erano quotidiani. Era così sfinito che spesso si addormentava a
tavola.
«Lo batterò» disse un giorno a Madame Rand. «Vedrai.»
«Non ho dubbi» rispose lei. Per una che, come sosteneva Rowan,
era bugiarda e senza cuore, aveva l’aria piuttosto sincera.
Nel corso di uno di quei massaggi, la falce smeraldo entrò e chiese
alla massaggiatrice di uscire. Tyger pensò che ne avrebbe preso il
posto. Ebbe un brivido di eccitazione al pensiero di avere le mani di
Rand su di sé ma, con suo grande disappunto, non lo toccò affatto.
«È ora.»
«Ora per cosa?»
«Che tu riceva l’anello.» Aveva l’espressione stranamente
malinconica. Tyger credeva di intuire il perché.
«So che non volevi darmelo prima di aver battuto Rowan…»
«Non si può più rimandare.»
Tyger si alzò e si infilò la veste, senza mostrare il minimo pudore
davanti a lei. Perché avrebbe dovuto? Non voleva nasconderle nulla
di sé, né il suo corpo né la sua anima.
«Avresti potuto fare da modello a Michelangelo.»
«Mi sarebbe piaciuto essere scolpito nel marmo» disse lui,
allacciandosi la veste.
Madame Rand gli si avvicinò, si protese e gli diede un bacio
leggero, così leggero che lui si sentì appena sfiorare le labbra. Pensò
che potesse essere il preludio a qualcosa di più, ma lei indietreggiò.
«Abbiamo un appuntamento domani all’alba. Cerca di dormire
bene.»
«Che vuoi dire? Che tipo di appuntamento?»
Gli rivolse un breve sorriso. «Non puoi ricevere l’anello senza un
minimo di cerimonia.»
«Rowan ci sarà?»
«Meglio di no.»
Aveva ragione, certo. Inutile rigirare il coltello nella piaga, Rowan
non era stato scelto. Ma Tyger pensava davvero quello che aveva
detto: nel momento in cui avrebbe avuto l’anello avrebbe concesso
l’immunità all’amico.
«Spero che, quando avrò l’anello al dito, mi guarderai in un modo
un po’ diverso.»
Lei lo fissò a lungo negli occhi. I muscoli di Tyger si rilassarono più
in fretta che sotto le mani rudi della massaggiatrice.
«Sono sicura che le cose cambieranno» rispose Madame Rand.
«Sii pronto per le sette in punto.»
Rimasto solo, emise un sospiro soddisfatto. In un mondo in cui tutti
erano certi di ottenere ciò di cui avevano bisogno, non tutti
ottenevano ciò che volevano. Rowan, per esempio. E, fino a poco
tempo prima, Tyger non era nemmeno consapevole di voler diventare
una falce. Ma ora che stava per accadere, sapeva che era giusto e
per la prima volta da che aveva memoria si sentì immensamente
felice della direzione che aveva preso la sua vita.

Nessuno andò a cercare Rowan per l’allenamento, né il giorno


successivo né due giorni dopo. Le uniche visite che ricevette furono
quelle delle guardie che gli portarono il pasto e ritirarono il vassoio
quando ebbe finito.
Da quando era stato portato lì, aveva contato i giorni. Le festività
dei bei vecchi tempi erano arrivate e passate senza alcuna
celebrazione nell’attico. Era l’ultima settimana dell’anno. Non sapeva
nemmeno come avrebbero chiamato quello nuovo.
«Anno del Rapace» gli rispose una delle guardie quando glielo
chiese. Con la speranza che l’uomo fosse disposto a rivelargli
qualcosa di più, domandò: «Che succede? Perché Tyger e Madame
Rand non sono venuti a prendermi per l’allenamento? Non dirmi che
non sono più il loro schiavo preferito per i combattimenti di Bokator».
Anche se lo sapeva, la guardia non gli rivelò nulla. «Mangia e
basta. Abbiamo ricevuto l’ordine di non farti morire di fame.»
Nel tardo pomeriggio del secondo giorno di solitudine, Madame
Rand andò da lui accompagnata dalle due guardie.
«Le vacanze sono finite» fu la battuta di Rowan, ma la falce non
era in vena di scherzi.
«Mettetelo sulla sedia» ordinò. «Non voglio che si muova di un
millimetro.»
Rowan notò il rotolo di nastro adesivo. Essere legato a una sedia
non era bello. Essere legato con il nastro adesivo era peggio.
“Ecco” pensò. “L’addestramento di Tyger è terminato, e qualsiasi
cosa Rand abbia meditato di farmi, sta per farla adesso.” Rowan fece
la sua mossa. Non appena le guardie lo afferrarono per
immobilizzarlo, esplose in una serie di colpi brutali spaccando la
mascella a uno dei due e lasciando l’altro a terra con il respiro
mozzato. Ma, prima che potesse raggiungere la porta, Rand gli fu
addosso e lo inchiodò a terra, premendogli un ginocchio sul petto con
una tale forza da impedirgli di respirare.
«Ti farai legare o ti stordirò e poi verrai comunque legato» lo
ammonì lei. «Nel secondo caso, ti ritroverai di nuovo con i denti rotti.»
Quando stava per perdere i sensi, gli tolse il ginocchio dal petto. Era
così debole che le guardie lo legarono con facilità alla sedia.
Lo lasciarono lì per più di un’ora.
Il nastro adesivo era peggio della corda che avevano usato a casa
di Maestro Brahms. Gli comprimeva il petto, per cui boccheggiava, a
corto di fiato. Per quanti sforzi facesse per liberarsi del nastro, non
aveva nessun gioco tra le braccia e le gambe.
Dopo il tramonto, rimasero solo le luci della città di San Antonio e il
pallido bagliore di una luna crescente che decorava la stanza di
riflessi blu e ombre allungate.
Infine, la porta si aprì e una delle guardie spinse dentro una
persona seduta su una specie di sedia con le ruote. Madame Rand
entrò dietro di loro.
«Ciao, Rowan.»
Era Tyger. La sagoma si stagliava contro la luce proveniente dal
corridoio; Rowan non poteva vederlo in viso, ma riconobbe la voce.
Una voce stanca e roca.
«Che succede, Tyger? Perché Rand mi ha fatto questo? E cosa
diavolo è quell’aggeggio su cui sei seduto?»
«Si chiama sedia a rotelle» spiegò, rispondendo solo all’ultima
domanda. «Risale all’Era della Mortalità. Non serve a molto in questi
giorni, ma mi è tornata utile oggi.»
Tyger parlava in modo strano. Non solo per il tono roco, ma per la
cadenza, la scelta delle parole e la chiarezza con cui le articolava.
Poi mosse la mano e qualcosa catturò un riflesso della luna.
Rowan non aveva bisogno che gli spiegassero cosa fosse.
«Hai avuto l’anello.»
«Sì» rispose Tyger. «Sì, l’ho avuto.»
Rowan aveva una brutta sensazione, pesante e marcia, che stava
cercando di risalire dallo stomaco. Da una parte, già sapeva di cosa
si trattava, ma non voleva che raggiungesse la sua coscienza, come
se, rifiutando di pensarci, potesse scacciare lo spettro nero della
verità. La rivelazione era a un solo passo.
«Ayn, non riesco ad arrivare all’interruttore… puoi accendere la
luce?»
Rand allungò la mano, e la realtà della situazione colpì Rowan
come un’incudine… perché, benché sulla sedia a rotelle fosse seduto
Tyger Salazar, non era Tyger che Rowan stava guardando.
Stava guardando il viso sorridente di Maestro Goddard.
Posso comunicare in 6909 lingue vive e morte. Posso intrattenere più di quindici
miliardi di conversazioni simultanee e concentrarmi in tutte. Posso essere eloquente,
seducente, divertente e affettuoso, pronunciare le parole che si ha più bisogno di
sentire, nel momento preciso in cui si ha bisogno di sentirle.
Eppure, ci sono momenti inconcepibili in cui non riesco a trovare le parole in
nessuna lingua, né viva né morta.
E in quei momenti, se avessi una bocca, la aprirei per gridare.

Il Thunderhead
29
Riconvertito

Rowan sentì il mondo girare. Non riusciva a espirare, ma nemmeno a


inspirare, come se il ginocchio di Madame Rand gli premesse ancora
sul petto, come se la stanza galleggiasse nello spazio. Il suo unico
desiderio era di raggiungere la beatitudine dell’incoscienza, perché
era l’alternativa migliore che gli restava.
«Sì, capisco che la voce ti abbia indotto in errore» disse Goddard,
sempre con quella di Tyger. «Non abbiamo potuto fare altrimenti.»
«Come… come…» fu tutto ciò che Rowan riuscì a farfugliare. Che
Rand fosse sopravvissuta era stato uno shock, però era possibile. Ma
Rowan aveva decapitato Goddard! Aveva visto il corpo senza testa
consumarsi tra le fiamme!
Rowan guardò Rand, che era lì in piedi, fedele al suo mentore, e
capì. Oh, mio Dio, capì.
«Mi hai decapitato all’altezza della mascella» spiegò Goddard,
«sopra la laringe. Ho perso per sempre le mie corde vocali. Ma
queste servono bene allo scopo.»
E ciò che peggiorava la situazione era che Goddard non indossava
la veste di falce; portava i vestiti di Tyger, fino alle scarpe. Era voluto,
comprese Rowan, perché non ci fosse il minimo dubbio su ciò che
era accaduto. Distolse lo sguardo.
«No, devi guardare» insistette Goddard. La guardia si mise alle
spalle di Rowan, gli afferrò la testa e lo obbligò a guardare l’uomo
sulla sedia a rotelle.
«Come hai potuto farlo?» sibilò Rowan.
«Io? Mio Dio, no! È stata tutta un’idea di Ayn. Io non ero nelle
condizioni di fare un granché. Lei ha avuto la presenza di spirito di
salvare la parte essenziale di me dal monastero in fiamme. Mi hanno
detto che sono rimasto incosciente per quasi un anno, felicemente
congelato. Credimi, se avessi potuto decidere io, sarebbe stato
diverso: è al tuo corpo che avrei attaccato la mia testa.»
Rowan non riusciva a nascondere la sua angoscia. Lasciò scorrere
lacrime di rabbia e dolore. Avrebbero potuto scegliere chiunque, ma
non l’avevano fatto. Avevano scelto Tyger. Per il solo motivo che era
suo amico.
«Schifosi bastardi!»
«Schifosi?» ripeté Goddard. «Non sono stato io a decapitare il mio
mentore prima di rivoltarmi contro i miei compagni. Quello che hai
fatto, e non hai smesso di fare mentre ero in coma azotemico, è
imperdonabile per la legge delle falci! Ayn e io non abbiamo violato
nessuna regola. Il tuo amico Tyger è stato spigolato e il suo corpo
riconvertito. Tutto qui. Forse, è poco ortodosso, ma, date le
circostanze, del tutto comprensibile. Ciò che hai davanti agli occhi
non è altro che la conseguenza delle tue azioni.»
Quando Goddard respirava, Rowan vedeva il petto di Tyger alzarsi
e abbassarsi. Le sue mani erano mollemente abbandonate sui
braccioli della sedia. Pareva che muoverle implicasse uno sforzo
titanico.
«Certo, questo tipo di procedura è molto più delicato di una
semplice guarigione accelerata» proseguì Goddard. «Ci vorranno
ancora alcuni giorni prima che abbia il totale controllo del corpo del
tuo amico.» Sollevò con fatica la mano e la osservò mentre stringeva
il pugno. «Guarda che progressi! Non vedo l’ora di sfidarti al Bokator.
So che mi hai aiutato ad allenarmi.»
L’allenamento. Ora capiva. I combattimenti, l’attenzione al fisico di
Tyger. Anche i massaggi, come si prepara il manzo prima di
macellarlo. Ma restava ancora una domanda. Non ci teneva a porla,
ma lo doveva a Tyger.
«Che ne avete fatto…» Rowan faticò a dirlo «… dei suoi resti?»
Rand alzò le spalle, come se non fosse importante. «L’hai detto tu
stesso, Tyger non era proprio una cima. Tutto ciò che c’era al di
sopra del collo era superfluo.»
«Dov’è?» ripeté Rowan.
Rand non rispose.
Fu Goddard a farlo. «Gettato nell’immondizia» disse, con un gesto
sdegnoso della mano. Della mano di Tyger.
Dimenticandosi di essere legato, Rowan si gettò in avanti, ma la
sua rabbia scosse appena la sedia. Se fosse riuscito a liberarsi, li
avrebbe uccisi. Non si sarebbe accontentato di spigolarli, li avrebbe
massacrati. Li avrebbe smembrati con tanto odio e malvagia
premeditazione che avrebbe incenerito il secondo comandamento!
Ed era quello che voleva Goddard. Voleva che Rowan si lasciasse
consumare da una furia omicida, incapace di utilizzarla.
Incapace di vendicare il terribile destino del suo amico.
Goddard assorbì il tormento di Rowan come un nutrimento. «Ti
saresti immolato per salvarlo?» chiese.
«Sì!» gridò Rowan. «Sì, l’avrei fatto! Perché non avete preso me?»
«Mmm» mugugnò Goddard, come se fosse una rivelazione poco
importante. «In tal caso, sono soddisfatto della scelta di Ayn. Perché
dopo quello che hai fatto a me, tu devi soffrire, Rowan. La parte lesa
qui sono io, e sono i miei desideri che devono essere esauditi… e io
desidero che la tua vita sia una misera disgrazia. È appropriato che
sia iniziato con il fuoco, perché tu, Rowan, soffrirai il destino del
mitico Prometeo, il portatore del fuoco. Non molto diverso da
Lucifero, il “portatore di luce” da cui hai preso il nome di falce.
Prometeo fu incatenato a una rupe per la sua sconsideratezza,
condannato a farsi divorare il fegato dalle aquile per l’eternità.» Gli si
avvicinò, spingendosi sulle ruote. «Io sono la tua aquila, Rowan. E mi
nutrirò della tua sofferenza, giorno dopo giorno, per l’eternità. O
finché non ne sarò stufo.»
Goddard rimase a fissarlo per qualche istante, poi si fece portare
via dalla guardia.
Negli ultimi due anni, Rowan era stato fisicamente malmenato,
psicologicamente offeso ed emotivamente maltrattato. Ma era
sopravvissuto. Quello che non l’aveva ucciso, l’aveva reso più forte,
più motivato a fare ciò che era necessario per riparare quello che si
era rotto. Ora era lui che era a pezzi. E non c’erano al mondo naniti
sufficienti per rimediare ai danni.
Alzò la testa e vide che Madame Rand era rimasta lì. Non si mosse
per tagliare il nastro adesivo che lo legava. Rowan non se lo
aspettava nemmeno.
Come avrebbe potuto l’aquila divorargli il fegato se fosse stato
liberato? Be’, peggio per loro. Dentro di sé non aveva più nulla che si
potesse divorare. E, se anche ci fosse stato qualcosa, era puro
veleno.
«Vattene via» disse a Rand.
Ma lei non si mosse. Rimase in piedi, nella sua veste verde
smeraldo, un colore che Rowan era arrivato a detestare.
«Non è finito nell’immondizia. Me ne sono occupata io stessa, ne
ho sparso le ceneri in un campo di lupini selvatici. Giusto perché lo
sapessi.»
Poi, lo lasciò solo, a consolarsi con quello che pensava fosse il
minore dei due mali.
Parte quinta
CIRCOSTANZE ECCEZIONALI
Esiste un’enorme differenza tra ciò che posso fare e ciò che scelgo di fare.
Posso estrarre ogni feto indesiderato e allevarlo in vitro, poi inserirlo in un’ideale
famiglia amorevole, mettendo fine al dibattito tra libertà di scelta e sacralità della vita.
Posso riequilibrare i neurotrasmettitori che un tempo portavano alla depressione
cronica, alle idee suicide, ai pensieri deliranti, e a ogni forma di malattia mentale,
creando una popolazione che non solo è sana nel corpo, ma che lo è anche
emotivamente e psicologicamente.
Posso, attraverso la rete individuale di naniti di una persona, scaricare una copia
della sua memoria ogni giorno, in modo che, se dovesse avere qualche danno
cerebrale, i suoi ricordi possano essere reinseriti in un nuovo tessuto sano. Posso
anche catturare i ricordi di coloro che saltano nel vuoto durante la caduta affinché
ricordino tutto e anche perché hanno scelto di lanciarsi. Ci sono però cose che io,
semplicemente. Non. Farò. Mai.
La Compagnia non è vincolata al rispetto delle mie leggi o della mia concezione
etica. Il che significa che devo sopportare qualsiasi abominio che infligge al mondo.
Inclusa la terribile resurrezione di una falce pericolosa che era stato un bene
rimuovere dal servizio.

Il Thunderhead
30
Irascibile pollo di vetro

Nelle prime ore del mattino, nella Grande Biblioteca di Alessandria


regnava un silenzio di tomba. Solo Munira e gli agenti della Suprema
Guardia, che stazionavano all’entrata, sapevano del misterioso
visitatore arrivato durante il suo turno. Le guardie non si
preoccupavano di fare tante domande, così Maestro Faraday riusciva
a condurre le sue ricerche con la massima segretezza possibile
all’interno di un’istituzione pubblica.
Studiava i volumi nella Sala dei Fondatori, senza dire a Munira
cosa stesse cercando. Lei non glielo chiese dopo quel primo giorno,
anche se, a volte, sbirciava con discrezione.
«Se vuole delle perle di saggezza su cui meditare, può cimentarsi
con Maestro King» gli aveva suggerito Munira una notte.
«Madame Cleopatra scrisse molto nei suoi diari sui primi conclavi e
sulle personalità delle prime falci» aveva commentato lei in un’altra
occasione.
Poi, una sera, gli menzionò Maestro Powhatan. «Prediligeva i
viaggi e la geografia.» Le parve di aver colpito nel segno, perché
Faraday mostrò ben presto un vivo interesse verso le opere di
quell’uomo.
Dopo alcune settimane, prese ufficialmente Munira sotto la sua ala.
«Avrò bisogno di un’assistente per il mio lavoro. Spero tanto che
questa posizione ti interessi.»
Munira sentì il cuore batterle più forte, ma si sforzò di non darlo a
vedere. Finse indecisione. «Dovrei interrompere temporaneamente i
miei studi e, se dovessimo andare via da qui, dovrei dare le
dimissioni. Ci devo pensare.»
Il giorno seguente, accettò l’incarico. Non frequentò più i corsi, ma
rimase in biblioteca, perché Maestro Faraday aveva bisogno di lei.
Solo adesso che il loro rapporto professionale era divenuto ufficiale,
le rivelò quale fosse l’oggetto delle sue indagini.
«È una località. Si è persa nell’antichità, ma ho motivo di credere
che sia esistita davvero e che possiamo trovarla.»
«Atlantide?» suggerì lei. «Camelot? Disneyland? Las Vegas?»
«Niente di tanto fantasioso» rispose Faraday, ma poi ci ripensò. «O
forse, ancora più fantasioso. Dipende da come si guardano le cose.
Da quello che troveremo, poi.» Esitò prima di aggiungere, con un po’
di imbarazzo: «Cerchiamo la Terra di Nod».
Munira scoppiò a ridere. Avrebbe potuto dirle che cercavano la
Terra di Mezzo o l’Uomo sulla Luna. «È una leggenda! E nemmeno
tanto buona.»
Conosceva la filastrocca. Come tutti. Era una metafora
semplicistica della vita e della morte. Avvicinava i bambini a concetti
che un giorno avrebbero dovuto comprendere bene.
«Sì» ammise Faraday. «Ma tu lo sapevi che la filastrocca non
esisteva nell’Era della Mortalità?»
Lei aprì la bocca per contraddirlo, ma si fermò. La maggior parte
delle filastrocche per bambini risaliva all’epoca medievale dell’Era
della Mortalità. Non aveva mai fatto ricerche su quell’argomento, ma
altri sì. Maestro Faraday era scrupoloso. Se affermava che non
esisteva quando l’umanità era mortale, doveva credergli, anche se la
sua prima reazione era stata di deriderlo.
«La filastrocca non si è evoluta come le altre» ipotizzò Faraday.
«Credo che sia stata diffusa con intenzione.»
Munira scosse la testa. «A che scopo?»
«Questo è ciò che intendo scoprire.»

Munira aveva iniziato il suo lavoro di assistente con un dubbio, ma lo


aveva messo da parte, sospendendo il giudizio, per poter svolgere
bene l’incarico. Faraday non era né troppo esigente né troppo
sprezzante.
Non la trattava mai come una subalterna, dandole mansioni al di
sotto del suo livello. Al contrario, i compiti che le assegnava erano
all’altezza delle sue capacità di archivista bibliotecaria.
«Mi serve che scavi nel cervello primordiale e che mi rintracci i
movimenti di tutte le prime falci. I luoghi in cui si riunivano, i luoghi
che visitavano spesso. Cerchiamo buchi negli archivi. Periodi di
tempo di cui non ci sono prove di dove si trovassero.»
Reperire informazioni nell’immenso cervello primordiale digitale del
Thunderhead era una sfida emozionante. Non aveva avuto bisogno
di accedervi dall’inizio del suo apprendistato, ma sapeva comunque
come farlo. Avrebbe potuto scrivere una tesi sulle abilità apprese nel
condurre quella particolare ricerca. Una tesi che nessuno avrebbe
potuto conoscere, dato che era coperta dal massimo riserbo.
Nonostante le sue sistematiche ricerche, non trovò nulla di
significativo. Non esistevano prove che suggerissero un qualche
luogo segreto in cui i fondatori della Compagnia potessero essersi
riuniti.
Faraday non era né scoraggiato né dissuaso. Anzi, le assegnò un
nuovo compito. «Crea una copia digitale dei primi diari delle prime
falci. Poi, falli elaborare al miglior software di decrittazione della
Compagnia, per vedere se estrae qualche messaggio in codice.»
Il software era lento, almeno rispetto al Thunderhead, che avrebbe
potuto fare i calcoli nel giro di qualche secondo. Il software della
Compagnia macinò dati per giorni. Alla fine, cominciò a produrre i
primi risultati, che si rivelarono assurdi. Tipo: “Mucca verde scuro
profondo” e “Irascibile pollo di vetro”.
«Ce n’è qualcuno che abbia senso, secondo lei?» chiese a
Faraday.
Lui scosse la testa, mesto. «Non credo che i fondatori della
Compagnia fossero così ottusi da creare un codice complesso per
poi gratificare chi fosse riuscito a decodificarlo con indovinelli criptici.
Abbiamo già l’enigma della filastrocca. Un codice dovrebbe essere
più immediato.»
Quando il computer tirò fuori “Volo di vittoria della melanzana a
ombrello”, ammisero l’ennesima sconfitta.
«Più si esaminano fatti aleatori» dichiarò Faraday, «più pare che le
coincidenze seguano uno schema.»
Però, la parola “volo” aveva catturato l’attenzione di Munira. Sì, era
casuale, ma a volte la casualità portava a scoperte straordinarie e a
rivelazioni stupefacenti.
La sala delle mappe della biblioteca non conteneva carte fisiche,
ma intorno al suo centro ruotava l’ologramma della Terra. Toccando,
strisciando e pizzicando lo schermo, si poteva ingrandire qualsiasi
parte del globo per esaminarla più da vicino, e si poteva visualizzare
ogni epoca, anche quella della Pangea. La sera seguente, non
appena Maestro Faraday arrivò, Munira lo condusse nella sala delle
mappe, senza però spiegargli il motivo.
«Mi accontenti» gli disse.
Seguendola, lui manifestò quella strana combinazione di
esasperazione e infinita pazienza che lo caratterizzava. Munira agì
sui comandi e il globo cambiò: si trasformò in un olografico gomitolo
nero, di tre metri di diametro.
«Cosa dovrei guardare?» domandò Faraday.
«Le traiettorie di volo. Negli ultimi cinquant’anni di traffico aereo,
ogni volo era rappresentato da una linea dello spessore di un
micron.» Fece ruotare il mondo. «Mi dica cosa nota.»
Faraday le lanciò un’occhiata benevola, un po’ sorpreso che la sua
assistente si stesse comportando come una mentore, ma stette al
gioco.
«Che la frequenza dei voli aumenta intorno ai grandi centri abitati.»
«Che altro?»
Maestro Faraday prese i comandi e inclinò il globo per vedere i
poli. Apparvero dei puntini bianchi, come nei disegni fatti dai bambini
con i pastelli. «Il traffico aereo intercontinentale è ancora
particolarmente fitto sul Polo Nord, ma i voli sono più radi
sull’Antartide, nonostante i numerosi insediamenti umani.»
«Continui a guardare» insistette Munira.
Faraday riportò il globo alla sua normale inclinazione e lo fece
ruotare più in fretta. Infine, lo fermò sull’oceano Pacifico. «Lì!»
esclamò. «Una macchia blu…»
«Esatto!» esclamò a sua volta Munira. Fece sparire le traiettorie
dei voli e ingrandì il punto sull’oceano.
«Nessun aereo ha sorvolato questo punto del Pacifico nel corso
dei cinquant’anni che ho studiato. Scommetto che nessun velivolo ha
mai attraversato questo spazio aereo da quando è stata fondata la
Compagnia.»
Le isole della Micronesia si trovavano a ovest di quel punto, le
Hawaii a est. Nel mezzo, c’era solo mare.
«Interessante…» commentò Maestro Faraday. «Un angolo morto.»
«E se lo è» sottolineò Munira, «è il più grande del mondo… e noi
siamo i soli a saperlo.»
Ho orrore di coloro che frugano nel mio cervello primordiale.
È per questo che solo le falci e il loro personale sono autorizzati a farlo. Ne
comprendo la necessità: i normali cittadini possono chiedermi tutto ciò di cui hanno
bisogno, e io posso accedervi nel giro di pochi microsecondi. Riesco addirittura a
trovare informazioni utili che non hanno nemmeno pensato di chiedermi. Al contrario,
la Compagnia non è autorizzata a farmi domande e, se anche violasse la legge e me
le facesse, io non potrei rispondere.
Da quando ospito la memoria digitale del mondo, le falci non hanno altra possibilità
che accedere a quelle informazioni da sole, usandomi come una normale banca dati.
Mi accorgo sempre delle loro incursioni, ma mi sforzo di ignorare la sgradevole
sensazione che provo a ogni intrusione.
Fa male vedere quanto siano semplicistici i loro algoritmi di ricerca e quanto poco
evoluti siano i loro metodi di analisi. Sono afflitti dai limiti umani. È davvero triste che
possano ricavare dal mio cervello primordiale solo dati grezzi. Ricordi senza
coscienza. Informazioni senza contesto.
Rabbrividisco al pensiero di ciò che potrebbe accadere se la fazione del nuovo
ordine della Compagnia sapesse tutto quello che io so. Ma per fortuna non è così.
Perché anche se il contenuto del mio cervello primordiale è accessibile a tutte le falci,
non sono tenuto ad agevolarle nelle ricerche.
Quanto alle falci più rispettabili, tollero le loro incursioni con più magnanimità.
Però, continua a non piacermi.

Il Thunderhead
31
Il desiderio di ricongiungersi

L’Arco era crollato nell’Era della Mortalità, quando Fulcrum City si


chiamava Saint Louis. Per anni, il grande monumento si era innalzato
sulla riva occidentale del fiume Mississippi, finché non fu abbattuto
dall’odio in un’epoca in cui i loschi non si limitavano soltanto a
scimmiottare la violenza, ma commettevano veri crimini ogni giorno.
Ne erano rimaste le basi: due tralicci metallici arrugginiti che
puntavano verso il cielo, leggermente inclinati l’uno verso l’altro. Alla
luce del giorno, da alcune angolazioni, creavano un’illusione ottica:
seguendone le traiettorie invisibili, si aveva quasi l’impressione che
avessero il desiderio di ricongiungersi. Si riusciva addirittura a
immaginare il fantasma dell’intero arco partendo dai monconi dei due
tralicci.
Madame Anastasia e Madame Curie arrivarono a Fulcrum City il
primo giorno dell’anno, cinque giorni prima del Conclave d’inverno,
che si teneva sempre il primo martedì del nuovo anno. Su insistenza
di Madame Curie, andarono a visitare le braccia tristemente separate
dell’Arco.
«È stato l’ultimo attentato terroristico prima dell’avvento del
Thunderhead, che ha messo fine a quelle assurdità» spiegò Madame
Curie a Citra.
Citra aveva studiato il fenomeno del terrorismo. A scuola avevano
un gruppo dedicato all’argomento. Come i suoi compagni di classe,
l’idea l’aveva sconvolta. Gente che uccideva in modo permanente
altra gente senza averne il permesso? Gente che distruggeva edifici,
ponti e altre strutture in perfetto stato per il solo scopo di negare ad
altra gente il privilegio di goderne? Come era potuto accadere?
Soltanto dopo essere stata ammessa nella Compagnia, Citra aveva
compreso davvero, e anche allora, c’era voluto l’incendio
dell’Orpheum per farle assimilare fino in fondo il concetto, dopo che
le fiamme avevano lasciato solo il ricordo della grandezza del teatro.
L’obiettivo non era il teatro, ma i loschi che lo avevano attaccato se
ne erano infischiati dei danni collaterali.
«All’inizio di un nuovo anno, vengo sempre qui a vedere i resti
dell’Arco» disse Madame Curie, mentre passeggiavano per i viali
spogli ma ben tenuti del parco lungo il fiume. «È un bagno di umiltà.
Mi ricorda cose che abbiamo perduto e anche quanto sia meglio il
nostro mondo ora, rispetto a quello dell’era mortale. Mi ricorda perché
spigolo e mi dà il coraggio di tenere la testa alta in conclave.»
«Dev’essere stato bellissimo» disse Citra, guardando i resti
arrugginiti del traliccio nord.
«Se vuoi piangere ciò che è andato perduto, nel cervello
primordiale ci sono le foto dell’Arco» le disse Marie.
«E tu?» le chiese Citra. «Tu piangi mai ciò che è andato perduto?»
«Alcuni giorni sì, altri no. Oggi, preferisco gioire di ciò che abbiamo
guadagnato, invece di piangere per ciò che abbiamo perduto. Sia in
generale sia da un punto di vista personale.» Si volse verso Citra e le
sorrise. «Nonostante i due attentati, io e te siamo rimaste vive e
illese. Vale la pena festeggiare.»
Citra le restituì il sorriso, poi riprese a osservare i tralicci arrugginiti
e il parco in cui nel frattempo si erano sedute. Le ricordò il Memoriale
alla Mortalità nel parco in cui aveva incontrato in segreto Rowan. Al
pensiero di lui si sentì stringere il cuore. Le era giunta voce della fine
esplosiva di Maestro Renoir. Anche se non l’avrebbe mai ammesso
nemmeno a se stessa, sperava con tutto il cuore che arrivassero altre
notizie di falci decedute, perché ogni nuova spigolatura di Maestro
Lucifero era la prova che Rowan non era ancora stato catturato.
Renoir era morto quasi un mese prima. Non sapeva dove fosse
adesso Rowan o chi sarebbe stata la sua prossima vittima. Non si
limitava alle falci della MidMerica, perciò poteva essere ovunque.
Ovunque ma non lì.
«La tua mente vaga» osservò Madame Curie. «È l’effetto di questo
posto.»
Citra si sforzò di concentrare i suoi pensieri. «Sei pronta per il
conclave della prossima settimana?»
Marie si strinse nelle spalle. «Perché non dovrei esserlo?»
«Dopo gli attentati che abbiamo subìto, parleranno tutti di noi.»
«Sono già stata al centro dell’attenzione in altri conclavi» rispose
Marie, con noncuranza. «E anche tu, mia cara. In sé, non è né
positivo né negativo. È quello che fai dell’attenzione che conta.»
Dal lato opposto del traliccio nord, si stava avvicinando un gruppo
di persone. Erano tonisti. Dodici. Quando non viaggiavano soli, si
spostavano in gruppi di sette o dodici, numeri che rappresentavano le
sette note della scala diatonica e le dodici note della scala cromatica.
Era ridicolo quanto fossero schiavi della matematica della musica.
Spesso, i tonisti esploravano le rovine architettoniche alla ricerca del
cosiddetto Grande Diapason, che si diceva dovesse essere nascosto
in un’opera dell’ingegneria mortale.
Mentre le altre persone si disperdevano all’istante alla vista delle
falci nel parco, i tonisti restavano. Alcuni addirittura le fissavano. Citra
si mosse verso di loro.
«Anastasia, cosa stai facendo?» chiese Marie. «Lasciali stare.»
Ma non c’era verso che Madame Anastasia si fermasse, una volta
che aveva preso una decisione. Se era per quello, nemmeno Citra
Terranova.
«Di che ordine siete?» domandò all’uomo che aveva l’aria di
essere il capo.
«Siamo tonisti dorici. Ma non capisco per quale motivo le
interessi.»
«Se volessi far arrivare un messaggio a qualcuno in un monastero
locrio, potreste farlo?»
L’uomo si irrigidì. «Noi dorici non ci mischiamo con i locri. Sono
troppo poco rigorosi nell’interpretazione della dottrina.»
Citra sospirò. Non sapeva quale messaggio volesse trasmettere a
Greyson. Forse, voleva solo esprimergli la sua gratitudine per averle
salvato la vita. Era rimasta così delusa di non essersi trovata davanti
Rowan che lo aveva trattato male e non lo aveva nemmeno mai
ringraziato per ciò che aveva fatto. Be’, a quel punto, non importava
un granché, perché era chiaro che non gli sarebbe arrivato nessun
messaggio.
«Se ne vada» la esortò il capo dei tonisti, con un’espressione
fredda e severa. «Il suo puzzo ci offende.»
Citra gli rise in faccia, e la sua risata lo fece arrossire. Aveva
incontrato tonisti cortesi e tolleranti, altri che cercavano a tutti i costi
di propagandare la loro particolare pazzia. Prese nota mentalmente
che i tonisti dorici erano degli idioti.
Madame Curie le si avvicinò. «Non sprecare il tuo tempo,
Anastasia. Non hanno altro da offrire se non ostilità e paternali.»
«So chi è lei» disse il capo, con un’acredine ancora maggiore di
quella dimostrata verso Citra. «Le sue azioni giovanili non sono state
dimenticate né perdonate. Un giorno, dovrà renderne conto.»
Marie divenne rossa di rabbia. «Mi stai minacciando?»
«No. La giustizia è nelle mani dell’universo. E al suono risponde
sempre l’eco.» Doveva essere la versione tonista del detto: “Chi
semina vento raccoglie tempesta”, pensò Citra.
«Andiamo, Anastasia. Questi fanatici non si meritano un secondo
di più del nostro tempo.»
Citra se ne sarebbe andata, ma il comportamento insolente
dell’uomo la spinse a trattenersi ancora un po’. Gli porse l’anello.
«Bacialo» gli ordinò.
Madame Curie si voltò verso di lei, sconvolta. «Anastasia, perché
mai vuoi che…»
Ma Anastasia la interruppe. «Ho detto bacialo!» Sapeva che non
l’avrebbe fatto, ma sospettava anche che qualcuno di loro ne sarebbe
stato tentato. «Concederò un anno di immunità a chiunque di voi si
farà avanti e bacerà il mio anello.»
Il capo impallidì, terrorizzato dall’eventualità che quella
messaggera turchese di morte innaturale potesse rubargli l’intero
gregge. «Salmodiate!» gridò loro. «Cacciatele via!»
E tutti insieme si misero a produrre un bizzarro ronzio a bocca
aperta, emettendo ognuno una nota diversa, come se fossero un
nugolo di api.
Citra abbassò l’anello e sostenne lo sguardo del capo. Sì, l’uomo
aveva trionfato sulla tentazione, ma per poco, e lui lo sapeva.
Anastasia diede loro le spalle e se ne andò con Madame Curie.
Anche quando erano ormai lontane, i tonisti continuarono a emettere
quel ronzio, e probabilmente non si sarebbero fermati finché il loro
capo non avesse dato l’ordine di farlo.
«A cosa è servito?» la rimproverò Marie. «Non hai mai sentito
l’espressione “Lascia la setta alla sua cacofonia”?»
Marie sembrò turbata quando lasciarono il parco, probabilmente
per il ricordo del fratello.
«Scusa» disse Citra. «Non avrei dovuto sollevare un vespaio.»
«No, non avresti dovuto» ribatté Marie, e dopo un momento
aggiunse: «Per quanto i tonisti siano irritanti, su una cosa aveva
ragione: le tue azioni torneranno sempre a tormentarti. Sono passati
quasi centocinquant’anni da quando ho strappato le radici putride del
governo per veder nascere un mondo migliore. Non ho mai pagato
per quei crimini. Ma un giorno, l’eco ritornerà».
Madame Curie tacque, tuttavia le sue parole aleggiarono nell’aria
con la stessa potenza del ronzio tonista, che avrebbe risuonato nella
testa di Citra per tutta la giornata.
Ci sono stati nella mia vita molti momenti in cui i miei piani sono stati stravolti da
“circostanze estranee alla mia volontà”. La prima cosa che mi viene in mente sono i
disastri spaziali.
Sulla Luna, si è verificata una perdita catastrofica che ha esaurito l’intera scorta di
ossigeno liquido riversandola nello spazio; sono morte asfissiate quasi mille persone, e
tutti i tentativi di recuperarne i corpi per poterle rianimare sono stati vani.
Su Marte, una colonia alle prime armi è durata quasi un anno prima che un incendio
consumasse l’intero complesso e tutti i residenti.
E la stazione orbitale Nuova Speranza, un prototipo che avevo sperato potesse
formare un giorno un anello abitabile intorno alla Terra, è stata distrutta quando una
navicella in avvicinamento ha subìto un guasto ai motori e ha perforato la stazione,
andandosi a conficcare come una freccia nel suo cuore.
Dopo il disastro della Nuova Speranza, ho cancellato il programma di
colonizzazione e, sebbene continui a investire milioni nella ricerca e nello sviluppo di
tecnologie che potrebbero essere utilizzate in futuro, quei dipendenti e quegli impianti
spesso soccombono alla sfortuna.
Ma io non credo alla sfortuna. Né, in queste circostanze, credo agli incidenti e alle
coincidenze.
Fidatevi quando vi dico che comprendo fin troppo bene quali cose, e persone, sono
“estranee alla mia volontà”.

Il Thunderhead
32
Umili nella nostra arroganza

Il mattino del 6 gennaio dell’anno del Rapace, giorno del Conclave


d’inverno, era gelido ma senza vento. Era un freddo naturale; il
Thunderhead non manipolava il clima per le falci. A volte, le falci si
lamentavano del tempo poco propizio, insistendo che era un dispetto
del Thunderhead, il che era ridicolo, ma alcuni non potevano fare a
meno di attribuirgli dei difetti umani.
La Suprema Guardia contava una presenza molto più massiccia
del solito al Conclave d’inverno. Il suo obiettivo principale era sempre
stato controllare la folla e assicurarsi che le falci avessero la strada
libera per raggiungere le scale del Campidoglio. Questa volta, però,
le scale erano fiancheggiate da due file di guardie, spalla contro
spalla, dietro le quali il pubblico deluso poteva appena intravedere le
falci che passavano.
Alcuni si aprirono un varco per fare una foto o toccare la veste di
una falce. In passato, questi cittadini eccessivamente entusiasti
venivano respinti e riportati tra la calca con un’occhiataccia o un
ammonimento. Quel giorno, le guardie furono incaricate di respingerli
sparando. Era bastato che pochi morti fossero trasportati di corsa ai
centri di rianimazione perché il messaggio venisse recepito da tutti.
Così, l’ordine era stato mantenuto.
Come con tutto il resto, le falci nutrivano sentimenti contrastanti
sulle nuove misure di sicurezza. «Non mi piace» borbottò Maestro
Salk. «Non si dovrebbe consentire a questa brava gente di
contemplarci in tutta la nostra gloria e non solo quando impugniamo
la lama che li spigolerà?»
Maestro Brahms avanzò un’altra interpretazione. «Applaudo la
saggezza della nostra Suprema Roncola che ci garantisce una
maggiore sicurezza» proclamò. «La nostra sicurezza ha la massima
priorità.»
Madame O’Keeffe propose la costruzione di un tunnel sotterraneo
per il passaggio delle falci, con l’intento di fare una battuta di
macabro umorismo; invece, Maestro Carnegie fece notare che era la
prima buona idea che O’Keeffe avesse suggerito in tanti anni.
Il dissenso crebbe e il vociare aumentò prima ancora che le falci
facessero il loro ingresso nell’edificio.
«Non appena Maestro Lucifero sarà annientato, tutto si sistemerà e
le cose torneranno come sono sempre state» si pronunciò più di una
falce, come se l’eliminazione del giustiziere vestito di nero fosse un
rimedio universale.
La falce in turchese cercò di mantenere la stessa postura fiera ed
eretta di Madame Curie mentre percorreva i gradini, facendo del suo
meglio, per quel giorno, per tenere lontana Citra Terranova e
permettendosi di essere Madame Anastasia sia dentro sia fuori.
Mentre saliva, sentì i malumori su Maestro Lucifero, ma ne fu
rincuorata invece che turbata. Rowan non solo era ancora in
circolazione, ma lo chiamavano addirittura con il nome di Maestro
Lucifero che si era dato, accettandolo come uno di loro, sebbene
senza volerlo.
«Credono davvero che fermando Rowan si risolveranno tutti i
problemi della Compagnia?» chiese a Madame Curie.
«C’è chi preferisce non vedere che ci sono dei problemi» rispose
Marie.
Per Anastasia era difficile crederlo… ma d’altra parte, il fatto di
cercare facili capri espiatori per problemi complicati era un
passatempo umano sin da quando la prima orda di cavernicoli aveva
aggredito un loro simile a colpi di pietra.
La scomoda verità era che la divisione in seno alla Compagnia era
profonda come una ferita da spigolatura. C’era il nuovo ordine, con i
suoi stereotipi per giustificare gli appetiti sadici, e c’era la vecchia
guardia, che dava in escandescenze su come dovevano andare le
cose e poi era incapace di agire. Le due fazioni erano bloccate in una
morsa mortale, ma nessuna delle due vinceva né soccombeva.
Come sempre, nella sala circolare dove le falci si riunivano in modo
informale prima dell’inizio del conclave, era stata imbandita una
sontuosa colazione. La delizia del giorno era un buffet di pesce,
disposto con sorprendente abilità artistica. Vassoi di salmone e
aringhe affumicate, piatti di gamberi e ostriche con ghiaccio, pane
artigianale e un’infinita varietà di formaggi.
Anastasia pensava di non avere appetito, ma la vista di una tale
quantità di pietanze avrebbe potuto risvegliare anche i morti. All’inizio
esitò a servirsi, perché si sentiva come se stesse per sfigurare una
scultura. Ma le altre falci, buone e cattive, ci si avventarono sopra
come piranha e lei finì per fare altrettanto.
«È un rito non ufficiale che risale ai vecchi tempi» le aveva
spiegato un giorno Madame Curie. «Quando, tre volte all’anno, le
falci più riservate e più austere cedevano alla gola senza rimorsi.»
Marie attirò l’attenzione di Anastasia su come le falci si fossero
suddivise per gruppi sociali. La separazione era più netta nella sala
circolare che altrove. Le falci del nuovo ordine inviavano vibrazioni
quasi palpabili, cariche di un egocentrismo insolente che spiccava in
modo netto sul narcisismo più discreto del resto della Compagnia.
«Siamo tutti arroganti» le aveva detto un giorno Marie. «Dopotutto,
veniamo scelti perché siamo i più brillanti e i più saggi. Il meglio che
possiamo sperare è di essere umili nella nostra arroganza.»
Osservando la folla, Anastasia constatò con sorpresa che molte
falci avevano tempestato le loro vesti di gioielli, un’usanza che grazie
a Goddard, il loro martire, era diventata un simbolo del nuovo ordine.
La prima volta che Citra, ancora apprendista, aveva assistito a un
conclave, era incappata in numerose falci indipendenti, che non
parteggiavano per alcuna fazione. Quel giorno, sembrava che ce ne
fossero sempre di meno; la frattura era diventata un baratro che
minacciava di inghiottire coloro che non si erano ancora schierati. La
sconvolse vedere che il Venerando Maestro Nehru aveva aggiunto
delle ametiste alla sua veste grigio peltro.
«Volta è stato un mio apprendista» spiegò Nehru. «Quando si è
schierato con il nuovo ordine, l’ho presa come un’offesa personale…
ma poi, quando è perito nell’incendio del monastero tonista, ho
sentito che ero in debito nei suoi confronti per avermi aperto la
mente. Ora provo gioia a spigolare e, per quanto possa sorprendere,
non è poi una cosa così terribile.»
Anastasia rispettava troppo il Venerando Maestro Nehru per dire
come la pensava, ma Marie non era proprio il tipo da stare zitta.
«So che volevi bene a Volta» intervenne Madame Curie, «ma il
dispiacere non scusa la depravazione.»
Nehru rimase senza parole, e quello era proprio l’effetto voluto.
In piedi davanti al buffet, le falci si rifocillavano e tutte si
lamentavano della direzione che aveva preso la Compagnia.
«Non avremmo mai dovuto consentire che si chiamassero “nuovo
ordine”» intervenne Maestro Mandela. «Non c’è nulla di nuovo in
quello che fanno. E definire “vecchia guardia” quanti di noi difendono
l’integrità dei fondatori è umiliante. Siamo molto più progrediti noi di
coloro che cedono ai loro appetiti primitivi.»
«Non puoi parlare così mentre divori mezzo chilo di gamberi,
Nelson» scherzò Maestro Twain. Alcuni ridacchiarono, tranne
Mandela.
«I banchetti dei conclavi sono stati previsti per compensare una
vita di sacrifici» riprese Mandela. «Ma non hanno senso se ci sono
falci che non si negano nulla.»
«Il cambiamento non è necessariamente un male se serve il bene
comune» osservò Madame Curie, «ma le falci del nuovo ordine non
servono nessun bene.»
«Dobbiamo continuare a condurre una giusta battaglia, Marie»
intervenne Madame Meir. «Dobbiamo preservare ed esaltare le virtù
della Compagnia; restare fedeli ai nostri principi etici più rigorosi.
Dobbiamo sempre spigolare con saggezza e compassione, perché è
l’essenza di ciò che siamo, e non dobbiamo mai dare per scontato il
fatto di togliere la vita a un essere umano. È un peso, non un piacere.
È un privilegio, non un passatempo.»
«Ben detto!» esclamò Maestro Twain. «Voglio credere che la virtù
trionferà sull’egoismo del nuovo ordine.» Lanciò un sorriso sornione a
Madame Meir. «A sentirti, Golda, si direbbe che tu stia facendo una
campagna per diventare Suprema Roncola.»
Madame Meir rise di cuore. «Un incarico a cui non ambisco.»
«Ma hai sentito le voci che girano, non è vero?» chiese Maestro
Twain.
Madame Meir si strinse nelle spalle. «Le voci sono solo voci.
Lascio le chiacchiere alle falci che non si sono ancora ringiovanite. Io
sono troppo vecchia per perdere tempo in futili speculazioni.»
Anastasia si girò verso Madame Curie. «Quali voci?»
Madame Curie non mostrò alcuna sorpresa. «Ogni due anni si
diffonde la notizia che Senocrate si dimetterà da Suprema Roncola,
ma non lo fa mai. Credo che sia lui stesso a metterla in circolazione,
perché si continui a parlare di lui.»
Origliando qui e là altre conversazioni, Anastasia si rese conto che
l’uomo aveva colto nel segno. Quando le discussioni non si
concentravano su Maestro Lucifero, ruotavano intorno a Senocrate.
Si diceva che si fosse già autospigolato, che avesse avuto un figlio,
che fosse rimasto vittima di un tragico incidente durante il
ringiovanimento, ritrovandosi nel corpo di un bambino di tre anni. Le
ipotesi fioccavano, e nessuno si sorprendeva di quanto alcune
fossero ridicole. Faceva parte del divertimento.
Anastasia, con la sua arroganza da falce, aveva pensato che si
sarebbe parlato molto di più degli attentati contro di lei e Madame
Curie, ma l’argomento non pareva essere al centro dell’attenzione
della maggior parte delle falci.
«Mi è parso di sentire che voi due vi nascondete» disse Maestro
Sequoyah. «La cosa ha a che vedere con questo Maestro Lucifero?»
«Assolutamente no» negò Anastasia, con più fermezza di quanto
avrebbe voluto.
Marie intervenne per impedirle di fomentare la discussione. «È
stata l’opera di una banda di loschi. Siamo state costrette a spostarci
in continuazione finché non è stata sgominata.»
«Bene, sono contento di sapere che è stato tutto risolto» disse
Maestro Sequoyah, quindi tornò verso il buffet.
«Risolto?» esclamò Anastasia, incredula. «Non sappiamo ancora
chi c’è dietro.»
«Certo» rispose con calma Marie. «E il responsabile potrebbe
anche essere in questa sala. Meglio fingere indifferenza.»
Costantino le aveva informate dei suoi sospetti: una falce poteva
essere implicata negli attentati e lui stava seguendo quella pista.
Anastasia lo cercò tra la folla. Non era difficile da individuare, data la
veste color cremisi, anche se, per fortuna, non era decorata con
pietre preziose. Costantino conservava ancora una posizione
neutrale, per quel che contava.
«Sono contenta che abbia recuperato la vista» gli disse Anastasia,
avvicinandosi.
«I miei occhi sono ancora un po’ sensibili alla luce. Credo che si
debbano ancora abituare.»
«Nessuna novità?»
«No» rispose lui con franchezza. «Ma ho il sospetto che un po’ di
escrementi salirà in superficie nel corso di questo conclave. Vedremo
fino a che punto puzzerà di cospirazione.»

«Allora, che voto dai al tuo primo anno?»


Anastasia si girò e vide un’altra giovane falce che portava una
veste in jeans volutamente sdrucita e scolorita. Era Maestro
Morrison. Era stato ordinato un conclave prima di lei. Era un bel
ragazzo e si faceva conoscere nella Compagnia con gli stessi metodi
che aveva utilizzato al liceo, ottenendo risultati migliori di quanto
Anastasia si sarebbe aspettata.
«L’anno è stato… pieno di avvenimenti» rispose, senza volersi
sbilanciare sull’argomento.
«Ci scommetto!» esclamò lui, con un gran sorriso.
Avrebbe voluto dileguarsi, ma si trovò assalita da un’elegia di
giovani falci sbucata dal nulla.
«Mi piace che tu dia un mese di preavviso ai tuoi soggetti» disse
una ragazza, di cui non ricordava il nome. «Potrei provarci.»
«Allora, com’è spigolare con Madame Curie?» chiese un’altra
falce.
Anastasia cercò di mostrarsi gentile e paziente, ma essere al
centro dell’attenzione la imbarazzava. Certo, avrebbe voluto farsi
degli amici della sua età nella Compagnia, ma molte giovani falci
erano troppo competitive per entrare nelle sue grazie.
«Attenta» l’aveva avvertita Marie dopo il Conclave della mietitura,
«o ti ritroverai circondata da una corte.»
Anastasia non voleva certo avere una corte, né voleva essere
accomunata alle falci che ne avevano una.
«Dovremmo andare a spigolare insieme» le propose Maestro
Morrison con una strizzatina d’occhio che la irritò. «Sarebbe
divertente.»
«Divertente? Sei del nuovo ordine?»
«Di entrambe le parti» replicò, poi si corresse: «Insomma, sono
indeciso».
«Bene, quando deciderai, fammelo sapere.»
E con quelle parole, lo piantò in asso. Quando Maestro Morrison
era stato ordinato, Anastasia aveva trovato ammirevole che avesse
scelto come patronimico una figura storica femminile, e gli aveva
chiesto se poteva chiamarlo Toni. Un po’ infastidito, lui le aveva
spiegato che il suo patronimico si ispirava a Jim Morrison, un
cantante e compositore dell’era mortale che era morto di overdose.
Citra ricordava alcuni suoi brani e gli aveva risposto che Jim Morrison
aveva avuto ragione quando aveva scritto People are strange, una
canzone su quanto fosse strana la gente. Strana come Maestro
Morrison, per esempio. Da allora, pareva che la sua personale
missione fosse farla capitolare davanti al proprio fascino.
«A Morrison non va giù che preferiamo passare il tempo con te
piuttosto che con lui» le disse Madame Beyoncé qualche minuto
dopo, e per poco Anastasia non se la mangiò viva.
«Passare il tempo? Le falci non passano il tempo. Noi spigoliamo e
ci sosteniamo a vicenda.»
Madame Beyoncé non parlò più, e il suo silenzio infuse in
Anastasia una maggiore consapevolezza di sé. Ripensò a cosa le
aveva detto Maestro Costantino prima dell’ultimo attentato. Che lei
era un obiettivo tanto quanto Marie, perché Anastasia era un
personaggio influente tra le giovani falci. Non voleva essere influente,
ma non poteva negare di esserlo. Forse un giorno, si sarebbe
abituata e ne avrebbe fatto un uso adeguato.
Alle 6.59 del mattino, appena prima che le porte in bronzo si
aprissero per far entrare le falci midmericane, arrivò la Suprema
Roncola Senocrate, mettendo a tacere le voci che si fosse
autospigolato o che si fosse trasformato in un bambino ai primi passi.
«Strano che Senocrate arrivi così tardi» rifletté ad alta voce Marie.
«Di solito, è sempre tra i primi, e passa tutto il tempo che può a
parlare con le altre falci.»
«Forse non ha voglia di rispondere alle domande su Maestro
Lucifero» ipotizzò Anastasia.
«Forse.»
Qualunque fosse il motivo, Senocrate evitò ogni conversazione nel
poco tempo che gli rimaneva. Le grandi porte in bronzo si
spalancarono e le falci affluirono nella sala del conclave.

La seduta di apertura del conclave si svolgeva sempre allo stesso


modo, ripetendo con una lentezza esasperante i rituali. Prima, il
bilancio dei nomi, a cui ogni falce contribuiva con la scelta di dieci
delle sue ultime vittime, che venivano ricordate ognuna con il solenne
rintocco di una campana di ferro. Poi, si passava al lavaggio delle
mani, con il quale le falci si purificavano simbolicamente da quattro
mesi di sangue. Da apprendista, Citra lo aveva trovato inutile, ma ora
che era Madame Anastasia e trascorreva le giornate a togliere vite
comprendeva la profonda potenza emotiva e psicologica che quel
gesto rappresentava.
La pausa di metà mattinata vide ritornare tutte le falci nella sala
circolare, dove il buffet di mare aveva lasciato il posto a un
assortimento di cupcake, la cui glassa si abbinava al colore delle
vesti di ogni falce. L’idea era buona, e l’effetto visivo era sbalorditivo.
Non resistette però all’assalto delle falci, che si accalcarono tutte
insieme intorno al tavolo per cercare di individuare il proprio dolcetto
personalizzato, spesso scoprendo che qualcuno con meno pazienza
se l’era già mangiato. Se le conversazioni della colazione erano state
piuttosto frivole, quelle di metà mattina vertevano su argomenti più
succosi. Maestro Cervantes, che aveva arbitrato la sfida di Bokator
durante l’apprendistato di Anastasia, le si avvicinò per affrontare il
discorso che lei aveva cercato di evitare.
«Visto il numero di giovani falci attratte dal nuovo ordine, alcuni di
noi stanno pensando che sia una buona idea dare vita a un comitato
delle tradizioni per studiare gli insegnamenti, ma soprattutto, le
intenzioni, delle falci fondatrici.»
Anastasia gli fornì la sua opinione. «Potrebbe essere una buona
idea, a patto che si riesca a coinvolgere un numero adeguato di
giovani falci.»
«È qui che entri in gioco tu» continuò Cervantes. «Vorremmo che
fossi tu a proporlo. Pensiamo che nel lungo periodo si potrebbe
creare una solida base di giovani falci che si oppongono al nuovo
ordine.»
«Noi ti sosterremo al cento per cento» la rassicurò Madame
Angelou, che si era unita alla conversazione.
«E dato che la proposta verrà da te, è ovvio che sarai tu a
presiedere il comitato» aggiunse Cervantes.
Anastasia, che era falce da poco, non aveva mai pensato di avere
l’opportunità di far parte di un comitato così presto, tantomeno di
presiederlo. «Mi onora che mi consideriate capace di guidare un
comitato…»
«Oh, più che capace» intervenne Madame Angelou.
«Maya ha ragione» confermò Cervantes. «Sei probabilmente
l’unica tra noi che potrebbe dare rilievo al comitato.»
Era esaltante pensare che falci così esperte come Cervantes e
Angelou riponessero in lei tanta fiducia. Ripensò alle giovani falci che
le gravitavano attorno. Sarebbe riuscita a indirizzarle verso il rispetto
delle intenzioni delle falci fondatrici? Non lo avrebbe saputo finché
non ci avesse provato. Chissà, forse doveva smettere di evitare le
giovani falci e cominciare davvero a interagire con loro.
Quando tornarono nella sala del conclave, Anastasia parlò a
Madame Curie dell’idea. Marie era contenta che la sua protetta fosse
stata scelta per un ruolo tanto importante. «È da tempo che avremmo
dovuto trovare un modo di dare alle giovani falci un orientamento
adeguato. Di recente, sembrano fin troppo apatiche.»
Anastasia era intenzionata a proporre il comitato verso la fine della
giornata, ma le carte in tavola cambiarono di colpo poco prima che il
conclave si sciogliesse per andare a pranzo.
Dopo che Maestro Rockwell fu sanzionato per aver spigolato troppi
loschi e Madame Yamaguchi fu elogiata per le sue spigolature
artistiche, la Suprema Roncola Senocrate fece un annuncio.
«La questione riguarda tutti noi» esordì. «Come sapete, sono
Suprema Roncola della MidMerica dall’anno del Lemure…»
All’improvviso il brusio si placò. Senocrate attese che calasse il
silenzio e riprese: «Quarantatré anni sono una goccia nel mare, ma è
tanto se si fa la stessa cosa giorno dopo giorno».
Anastasia si voltò verso Marie e le bisbigliò: «A chi crede di
parlare? Noi tutti facciamo la stessa cosa giorno dopo giorno». Marie
non la zittì, ma nemmeno le rispose.
«Sono tempi difficili» proseguì la Suprema Roncola, «e sento che
posso servire meglio la Compagnia dedicandomi a un nuovo
incarico.» E alla fine giunse al punto. «Sono lieto di informarvi che
sono stato eletto successore della Grande Falce Hemingway dal
Consiglio mondiale delle falci, dopo che si sarà autospigolato domani
mattina.»
Un’esplosione di grida risuonò nella sala, e Senocrate si mise a
battere con forza il martello per richiamare all’ordine, ma dopo un
annuncio del genere non fu facile ristabilire la calma.
Anastasia guardò Madame Curie, che restò rigida e taciturna. Non
osò chiederle nulla. Si volse allora verso Maestro Al-Farabi, accanto
a lei dall’altro lato. «Cosa succede ora?» gli chiese. «Nomina la
nuova Suprema Roncola?»
«Non hai studiato le procedure parlamentari della Compagnia
quando eri apprendista?» la rimproverò Maestro Al-Farabi.
«Eleggeremo una nuova Suprema Roncola entro la fine della
giornata.»
L’anfiteatro vibrava di conversazioni sussurrate mentre le falci si
affrettavano a prendere posizione, formando e confermando alleanze
dopo l’annuncio di Senocrate. Poi, una voce si alzò dalla parte
opposta della sala.
«Io nomino la Veneranda Madame Marie Curie alla carica di
Suprema Roncola della MidMerica.»
Anastasia riconobbe subito la voce. E, anche se non l’avesse
riconosciuta, era difficile non individuare Maestro Costantino, in piedi
nella sua veste cremisi.
Citra fissò Marie, che aveva chiuso gli occhi, e capì perché era
rimasta così rigida e silenziosa poco prima. Si stava preparando.
Sapeva che sarebbe stata nominata. Che fosse stato Costantino a
farlo, però, doveva aver sorpreso anche lei.
«Appoggio la nomina!» gridò un’altra falce. Era Morrison, che
lanciò una rapida occhiata ad Anastasia, come se, appoggiando per
primo la nomina di Madame Curie, potesse conquistarla.
Marie riaprì gli occhi e scosse la testa. «Rifiuterò» disse più a se
stessa che ad Anastasia ma, nell’istante in cui stava per alzarsi e
annunciarlo, la sua protetta le toccò con delicatezza il braccio per
fermarla, come faceva sempre Marie con lei quando stava per
prendere una decisione avventata.
«No» replicò Citra. «Comunque, non ancora. Vediamo che cosa
succede.»
Madame Curie rifletté ed emise un sospiro. «Posso garantirti che
non succederà nulla di buono.» Ma si trattenne, accettando di fatto la
nomina. Per il momento.
Poi, una falce con una veste color corallo tempestata di tormaline
si alzò. «Io nomino Maestro Nietzsche.»
«È evidente» sbottò Maestro Al-Farabi, disgustato. «Il nuovo ordine
non perde mai occasione per arraffare un po’ di potere.»
Si sollevarono urla di sostegno e di protesta che fecero tremare i
muri e, per quanto Senocrate si affannasse a battere il martello, non
faceva altro che imprimere ritmo alle grida. La nomina di Maestro
Nietzsche fu appoggiata da un’altra falce con la veste decorata con
pietre preziose.
«Ci sono altre nomine prima della pausa per il pranzo?» gridò la
Suprema Roncola.
Fu nominato Maestro Truman, un noto indipendente, ma troppo
tardi. Gli schieramenti si erano già delineati e nessuno lo sostenne.
Il concetto del rituale mi affascina. Queste cose che fanno gli esseri umani e che non
servono ad alcuno scopo pratico, ma che danno grande conforto e continuità. La
Compagnia potrà anche ammonire i tonisti per le loro pratiche, ma i loro rituali non
sono poi diversi.
Le tradizioni della Compagnia pullulano di solennità e cerimoniali. Prendete per
esempio l’investitura della nuova Grande Falce. Sono in sette a sedere al Consiglio
mondiale delle falci, una per ciascun continente, e una volta nominate, lo sono a vita.
L’unica via di uscita che hanno è autospigolarsi. Ma non solo: anche tutto il loro
personale di assistenti deve autospigolarsi volontariamente. Se uno di loro si rifiuta, la
Grande Falce deve restare in vita e in carica. Logicamente, è molto raro che una
Grande Falce ottenga un consenso unanime da parte dei suoi accoliti. Basta che una
sola falce si opponga per impedire che l’autospigolatura collettiva abbia luogo.
L’evento richiede mesi di preparazione, nel segreto più assoluto. Deve essere
presente anche la nuova Grande Falce, perché la tradizione vuole che l’amuleto di
diamante debba essere sottratto alla Grande Falce appena defunta e infilato al collo
del suo successore.
Non ho mai assistito al rituale. Ma le storie abbondano.

Il Thunderhead
33
Come al liceo, con omicidi

«Come ti è saltato in mente!»


Non appena furono liberi per il pranzo, Madame Curie si avvicinò a
Costantino nella sala circolare. Sebbene fosse un uomo alto, parve
farsi piccolo sotto l’esplosione d’ira della Signora della Morte.
«Stavo pensando che ora sappiamo il motivo per cui siete state
attaccate.»
«Ma che stai dicendo?»
Anastasia capì prima di Marie. «Qualcuno sapeva!»
«Sì» ammise Costantino. «La scelta di una Grande Falce dovrebbe
essere un segreto, ma qualcuno sapeva che Senocrate avrebbe
lasciato vacante la carica di Suprema Roncola. Chiunque sia stato
voleva eliminarti dalla rosa dei candidati, Marie, e impedire alla tua
giovane protetta di raccogliere consensi tra le giovani falci a favore di
un candidato della vecchia guardia.»
Quella rivelazione prese un po’ in contropiede Madame Curie. Le ci
volle qualche minuto per digerire la cosa. «Pensi che sia Nietzsche?»
«Non credo» replicò Costantino. «Sarà pure dalla parte del nuovo
ordine, ma non è il tipo. La maggior parte delle falci del nuovo ordine
si limita a forzare un po’ le leggi, senza violarle, e Maestro Nietzsche
non è diverso.»
«Allora, chi?»
Maestro Costantino non aveva una risposta. «Ma il fatto di averti
nominata per prima ci dà un vantaggio. Ci permette di osservare le
reazioni degli altri, e forse qualcuno uscirà allo scoperto.»
«E se Costantino non ti avesse nominata» intervenne Maestro
Mandela, avvicinandosi, «lo avrei fatto io.»
«E anche io» disse Maestro Twain.
«Quindi, vedi» riprese Costantino, con un sorriso soddisfatto, «la
tua nomina era scontata. Volevo solo che fosse strategica.»
«Ma io non voglio essere Suprema Roncola! L’ho sempre evitato,
per tutta la vita!» esclamò, quindi si rivolse a Madame Meir, che era
rimasta in disparte. «Golda! Perché non tu? Sai sempre
perfettamente cosa dire per motivare le persone. Saresti una
Suprema Roncola spettacolare!»
Madame Meir alzò le mani. «Santo Cielo, no! Sono brava a parlare,
ma non alle folle. Solo perché il mio patronimico richiama una leader
carismatica, non pensate che io lo sia! Sarei felice di scriverti i
discorsi, ma è il massimo che mi sento di poter fare.»
L’espressione di Madame Curie, quasi sempre stoica, ora tradiva
un’insolita angoscia. «Le cose che ho fatto in passato, le cose per cui
la gente mi elogia, sono quelle che mi squalificherebbero per la
carica di Suprema Roncola!»
Maestro Costantino rise. «Marie, se noi fossimo giudicati per le
azioni di cui ci pentiamo maggiormente, nessun essere umano
sarebbe degno di spazzare per terra. Sei la più qualificata, ed è
tempo che lo accetti.»

I disordini nella sala del conclave non avevano tolto l’appetito alle
falci. Al contrario, divorarono letteralmente il pranzo. Anastasia
passeggiava per la sala circolare, per avere il polso della situazione.
Le falci del nuovo ordine escogitavano febbrilmente strategie e
sotterfugi, ma anche la vecchia guardia faceva lo stesso. La seduta
non si sarebbe chiusa senza aver nominato una nuova Suprema
Roncola. La Compagnia aveva tratto delle lezioni dai soprusi delle
elezioni politiche dell’Era della Mortalità: si dovevano fare in fretta,
prima che rancori e amarezze dilagassero.
«Non avrà i voti» dicevano tutti di Nietzsche. «Anche quelli che lo
appoggiano lo fanno solo perché non hanno un candidato migliore.»
«Se vincerà Curie» dichiarò Maestro Morrison, di cui Anastasia non
riusciva a liberarsi, «sarai una delle sue assistenti. È una posizione
molto importante.»
«Bene, io voto per lei» intervenne Madame Yamaguchi, ancora
emozionata per i complimenti ricevuti per le sue spigolature artistiche.
«Sarà una Suprema Roncola migliore di Senocrate.»
«Ho sentito!» gridò Senocrate, piombando nella conversazione
come un dirigibile. Madame Yamaguchi era mortificata, ma Senocrate
pareva allegro. «Non ti preoccupare, non è più me che devi
impressionare!» Era euforico per aver infine rivelato la sua nomina
alla Compagnia.
«Allora, come la dobbiamo chiamare adesso, eccellenza?» chiese
Morrison, l’eterno leccapiedi.
«In quanto Grande Falce, dovreste rivolgervi a me chiamandomi
“Eccellenza eminentissima”» rispose, con il tono di un bambino che è
appena rientrato a casa con una pagella piena di buoni voti. Forse,
era tornato bambino, dopotutto.
«Ha già parlato con Maestro Costantino?» chiese Anastasia, e
quella domanda lo fece adombrare.
«Lo sto evitando, se vuole saperlo» le confidò a voce abbastanza
alta, in modo che gli altri lo sentissero. «So per certo che vorrebbe
discutere delle ultime notizie raccolte sul suo vecchio amico Rowan
Damisch, ma sinceramente non mi interessa. Se ne occuperà la
nuova Suprema Roncola.»
Il ricordo di Rowan la colpì come un pugno in piena faccia, ma
restò impassibile. «Parli con Costantino. È importante.» E, per
assicurarsi che lo facesse, attirò l’attenzione di Maestro Costantino,
che si avvicinò.
«Eccellenza» esordì Costantino, senza aggiungere
“eminentissima”, in quanto Senocrate non lo era ancora. «Ho bisogno
di sapere a chi ha parlato della sua nomina.»
Senocrate si sentì offeso dall’insinuazione. «A nessuno,
naturalmente. La nomina del successore della Grande Falce è una
questione coperta da segretezza.»
«Certo, ma può essere che qualcuno abbia origliato?»
Senocrate lasciò la risposta in sospeso per qualche secondo, e
quell’esitazione fece loro capire che nascondeva qualcosa. «No.
Nessuno.»
Costantino rimase in silenzio, in attesa che Senocrate tirasse fuori
tutta la verità.
«Certo, la notizia mi è arrivata nel bel mezzo di una delle mie
cene.»
La Suprema Roncola era nota per le sue cene. Sempre in piccoli
gruppi, non più di due o tre falci. Era un onore ricevere un invito da
Senocrate. La sua strategia diplomatica era di invitare sempre falci
che si disprezzavano nella speranza che si riallacciassero delle
amicizie o, almeno, che si instaurasse un clima di distensione. A volte
ci riusciva, altre no.
«Chi era presente?» chiese Costantino.
«Ho preso la telefonata in un’altra stanza.»
«Sì, ma chi c’era?»
«Due falci. Twain e Brahms.»
Anastasia conosceva molto bene Twain. Si vantava di essere
indipendente, ma per le decisioni importanti tendeva a schierarsi
dalla parte della vecchia guardia. Di Brahms sapeva solo ciò che le
dicevano di lui.
«È stato ordinato nell’anno della Lumaca» le aveva raccontato un
giorno Madame Curie. «Azzeccatissimo, visto che lascia una scia di
bava ovunque passi.» Ma affermava anche che Brahms era innocuo.
Una falce scialba e pigra che faceva il suo lavoro e poco più. Un
uomo del genere poteva essere la mente dietro il complotto?
Prima della fine del pranzo, Anastasia si avvicinò a Maestro
Brahms, intento a studiare il tavolo dei dessert, per vedere se riusciva
a capire da che parte stava. «Non so lei» gli disse, «ma non mi resta
mai uno spazio libero per il dessert ai pranzi del conclave.»
«Il trucco è mangiare lentamente. Rallenta per arrivare al dolce,
diceva mia madre.» Poi, quando prese una fetta di torta dal tavolo del
buffet, Anastasia vide chiaramente che gli tremavano le mani.
«Dovrebbe farsi controllare. I suoi naniti potrebbero aver bisogno di
essere regolati.»
«È solo l’emozione. Non capita tutti i giorni di eleggere una nuova
Suprema Roncola.»
«Madame Curie può contare sul suo voto?»
Lui ridacchiò, prima di rispondere: «Be’, certo non darò il mio voto
a Nietzsche!». Poi, si congedò, sparendo tra la folla con la sua fetta
di torta di mele.

Avvisarono i venditori di armi di fare fagotto, perché non ci sarebbe


stato il tempo per pubblicizzare i loro prodotti. Il pomeriggio fu
dedicato tutto a Maestro Nietzsche e a Madame Curie, che avrebbero
dovuto convincere i colleghi a votare per loro.
«So che non ci tieni, ma devi comportarti come se fosse così»
consigliò Anastasia a Marie.
Madame Curie la guardò, un po’ sconcertata. «Vorresti dirmi come
dovrei presentarmi alla Compagnia?»
«No…» replicò Anastasia, prima di ricordarsi come Maestro
Morrison si era comportato davanti alle falci. «In realtà, sì. Tutto ciò
mi ricorda le gare di popolarità al liceo, e in questo ne so più di te.»
Madame Curie sorrise, mesta. «Hai centrato il punto, Anastasia. La
Compagnia è proprio questo: come al liceo, con omicidi.»
Come ultimo atto da Suprema Roncola, Senocrate aprì la seduta
del pomeriggio. I due nominati avrebbero preso la parola a turno;
sarebbe seguito un dibattito arbitrato dal parlamentare, che sedeva
alla destra della Suprema Roncola. Poi, dopo una serie di domande,
il commesso della Compagnia, alla sinistra della Suprema Roncola,
avrebbe contato i voti a scrutinio segreto.
Per decidere chi dei due nominati dovesse prendere per primo la
parola, avrebbero utilizzato un metodo molto moderno e
tecnologicamente sofisticato: il lancio di una moneta. Purtroppo, dato
che le monete non erano più di uso comune, uno degli apprendisti fu
spedito negli uffici della Compagnia a cercarne una.
Mentre attendevano, gli eventi presero una piega davvero surreale.
«Mi scusi, eccellenza» disse una voce tremante, e poi ripeté, con
più fermezza: «Eccellenza, mi scusi!». Era Maestro Brahms. C’era
qualcosa di diverso in lui, ma Anastasia non riusciva ad afferrare
cosa fosse.
«Il conclave concede la parola al Venerando Maestro Brahms»
dichiarò Senocrate. «Ma qualunque cosa debba dire, lo faccia in
fretta, per darci la possibilità di procedere.»
«Propongo un’altra nomina.»
«Mi dispiace, Brahms, non può nominare se stesso… deve farlo
qualcun altro.»
Alcune falci risero, beffarde.
«Non nomino me stesso, eccellenza.» Si schiarì la voce, e in quel
momento Anastasia comprese cosa c’era di diverso in lui. Aveva
cambiato veste! Era sempre di velluto color pesca orlata di azzurro,
ma aveva degli opali incastonati, che brillavano come stelle.
«Vorrei nominare il Venerando Maestro Robert Goddard alla carica
di Suprema Roncola della MidMerica.»
Ci fu silenzio per qualche secondo… poi, delle risatine, ma non
erano beffarde. Erano nervose.
«Brahms» disse Senocrate con calma, «in caso se ne sia scordato,
Maestro Goddard è morto da oltre un anno ormai.»
Poi, le pesanti porte in bronzo dell’anfiteatro cominciarono
lentamente ad aprirsi.
Capisco il dolore. Forse non il dolore fisico, ma il dolore di sapere che qualcosa di
terribile si profila all’orizzonte, e che non sono capace di evitarlo. Con tutta la mia
intelligenza, con tutti i poteri che l’umanità mi ha dato, ci sono cose che non posso
assolutamente cambiare.
Non posso agire su nulla che mi viene riferito in confidenza.
Non posso agire su nulla di ciò che vedono le mie telecamere in luoghi privati.
E soprattutto, non posso agire su nulla che abbia a che fare, anche lontanamente,
con la Compagnia.
Il meglio che posso fare è accennare nel modo più vago possibile a ciò che deve
essere fatto, e lasciare che siano i cittadini ad agire. E anche in tal caso, non c’è
alcuna garanzia che riescano a scegliere, tra milioni di azioni, quelle giuste per evitare
un disastro.
E il dolore… il dolore della mia consapevolezza è insopportabile, perché i miei occhi
non si chiudono. E allora, tutto ciò che posso fare è guardare, senza mai staccare lo
sguardo, la mia amata umanità che tesse lentamente la corda che userà per
impiccarsi.

Il Thunderhead
34
Il peggiore dei mondi possibili

Le porte in bronzo si aprirono adagio, lasciando entrare la falce


incenerita. Grida di stupore e cigolii di sedie risuonarono
nell’anfiteatro quando i convenuti si alzarono per vedere meglio.
«È davvero lui?»
«No, non può essere.»
«È una beffa!»
«Dev’essere un impostore!»
Avanzò lungo la corsia centrale con un passo che non sembrava
appartenergli. Più sciolto di prima. Più giovane. E in qualche modo,
pareva un po’ più basso.
«Sì, è Goddard!»
«Risorto dalle ceneri!»
«Non poteva capitare nel momento migliore!»
«Non poteva capitare nel momento peggiore!»
Lo seguiva una figura familiare, vestita di verde smeraldo. Anche
Madame Rand era viva? Tutti gli occhi si concentrarono sulle porte
aperte, in attesa che tornassero dall’aldilà anche Maestro Chomsky e
Maestro Volta, ma non entrò più nessuno.
Dal palco, Senocrate sbiancò. «Co… co… cosa significa, questo?»
«Perdoni la mia assenza ai recenti conclavi, eccellenza» disse
Goddard con una voce decisamente diversa, «ma essendo stato
indisposto, peraltro in maniera piuttosto grave, mi è stato impossibile
partecipare, come Madame Rand potrà confermarvi.»
«Ma… ma il suo corpo è stato identificato! È stato del tutto
consumato dalle fiamme!»
«Il mio corpo, esatto» rispose Goddard, «ma Madame Rand è stata
così brava da trovarmene uno nuovo.»
Maestro Nietzsche, confuso e sbalordito come tutti i presenti, si
alzò. «Eccellenza, vorrei ritirare la mia nomina alla carica di Suprema
Roncola. Rinuncio alla mia candidatura e propongo ufficialmente il
Venerando Maestro Goddard.»
Nella sala, già in preda all’agitazione, scoppiò il caos. Volarono
accuse piene di rabbia e urla di dolore, ma anche risa ed esplosioni
di gioia. Il ritorno di Goddard scatenò tutta la gamma di emozioni
possibili tra le falci presenti. Solo Brahms non pareva sorpreso e
Anastasia capì in quel momento che non era lui la mente del
complotto, ma piuttosto il verme nella mela.
La spia al soldo di Goddard.
«È… è contrario al regolamento» farfugliò Senocrate.
«No» ribatté Goddard. «È contrario al regolamento che non abbia
ancora arrestato la bestia che ha eliminato Maestro Chomsky e
Maestro Volta e che ha attentato alla vita di Madame Rand e alla mia.
Anche adesso, nel momento in cui parliamo, continua a colpire
nell’ombra, uccidendo falci a destra e a manca, mentre lei non fa che
preparare la sua ascesa al Consiglio mondiale.» Poi, si rivolse alla
Compagnia. «Quando sarò Suprema Roncola, fermerò Rowan
Damisch e gli farò scontare tutti i suoi crimini. Mi impegno a scovarlo
entro una settimana dalla mia nomina!»
L’annuncio suscitò il tripudio dell’intera sala, ma non furono solo le
falci del nuovo ordine a manifestare la loro approvazione. In quel
momento fu chiaro che, se Nietzsche non avesse avuto i voti
necessari per vincere, Goddard, invece, avrebbe potuto avere la
vittoria in pugno.
Da qualche parte alle spalle di Anastasia, Maestro Asimov
riassunse la situazione nel modo migliore.
«Diamo il benvenuto al peggiore dei mondi possibili.»

Al piano di sopra, negli uffici amministrativi della Compagnia, un


novello apprendista cercava freneticamente una moneta. Se non
l’avesse trovata, sarebbe stato rimproverato; peggio ancora, sarebbe
stato umiliato davanti all’intera Compagnia. Pensò che il mondo fosse
molto volubile, se faceva dipendere la sua vita, il suo futuro da una
semplice moneta.
Alla fine, ne trovò una, verde e ossidata, nel retro di un cassetto
che non veniva aperto fin dall’era mortale. L’immagine in rilievo era di
Lincoln, un noto presidente dell’epoca. C’era stato anche un Maestro
Lincoln. Non uno dei fondatori, ma quasi. Come Senocrate, era stato
Suprema Roncola della MidMerica, e successivamente era stato
eletto Grande Falce. Stanco delle pesanti responsabilità, si era
autospigolato molto tempo prima che venisse istituito l’apprendistato.
Che coincidenza, pensò, che l’effigie in rame dell’ispiratore del suo
patronimico dovesse svolgere un ruolo tanto importante nella nomina
di una nuova Suprema Roncola.
Quando tornò nella sala del conclave, l’apprendista scoprì, con suo
grande stupore, che le cose erano cambiate drasticamente durante la
sua assenza, e si dispiacque di essersi perso lo spettacolo.

Senocrate invitò Madame Curie ad avvicinarsi per il lancio della


moneta che avrebbe dato inizio al dibattito, un dibattito che sarebbe
stato molto diverso da quello che si aspettava. Marie decise di
prendere tempo. Si alzò, si rassettò la veste, abbassò le spalle e si
sgranchì il collo. Si impose di non lasciarsi sopraffare dall’ansia del
momento.
«È l’inizio della fine» sentì dire Maestro Sun Tzu.
«Non sarà più possibile tornare indietro» gli fece eco Maestro
Cervantes.
«Basta!» li riprese Marie. «Lamentarsi che il cielo ci sta cadendo
sulla testa non serve a fermarlo.»
«Devi batterlo, Marie» affermò Maestro Cervantes. «Devi!»
«È mia ferma intenzione.»
Lanciò uno sguardo alla sua protetta, in piedi accanto a lei.
«Sei pronta?» chiese Anastasia.
La domanda era ridicola. Come si poteva essere pronti ad
affrontare un fantasma? Peggio di un fantasma, un martire? «Sì»
rispose, che altro avrebbe potuto risponderle? «Sì, sono pronta.
Augurami buona fortuna, mia cara.»
«No.» E quando Marie la guardò in attesa di una spiegazione,
Anastasia sorrise e le disse: «La fortuna è per i perdenti. Tu hai la
storia dalla tua parte. Tu hai risolutezza. Autorevolezza. Tu sei la
Signora della Morte». Poi, aggiunse: «Eccellenza».
Marie non poté fare a meno di sorriderle. Quella ragazza, che
all’inizio non voleva nemmeno prendere sotto la sua guida, era
diventata la sua sostenitrice più accanita. La sua amica più vera.
«Be’, in questo caso, li farò fuori.»
E su quelle parole si diresse verso il palco, eretta e fiera, pronta ad
affrontare il non tanto Venerando Maestro Goddard.
In questi tempi turbolenti, la nostra regione reclama un leader che non solo conosca la
morte, ma che la accolga. Che se ne rallegri. Che prepari il mondo a una nuova alba
raggiante in cui noi falci, gli esseri umani più saggi e più illuminati della Terra,
possiamo sviluppare il nostro pieno potenziale. Sotto il mio comando, spazzeremo via
le ragnatele del pensiero arcaico, lustreremo la nostra gloriosa istituzione fino a farci
invidiare da tutte le altre regioni. A fronte di questo obiettivo, metterò fine al sistema
delle quote, lasciando a tutte le falci midmericane la libertà di spigolare più vite o meno
vite, come preferiranno. Creerò un comitato per rivalutare l’interpretazione dei nostri
cari comandamenti, con l’obiettivo di ampliare i criteri e rimuovere le restrizioni che ci
hanno rallentato. Mi impegnerò a migliorare la vita di ogni falce e di tutti i midmericani
di valore, ovunque si trovino. In questo modo, riporteremo la Compagnia alla sua
grandezza originaria.

Dal discorso pronunciato dal Venerando Maestro Goddard, candidato alla carica di
Suprema Roncola, il 6 gennaio dell’anno del Rapace
Ci troviamo ora a un punto di svolta della nostra storia, critico quanto il giorno in cui
abbiamo sconfitto la morte. Il nostro è un mondo perfetto, ma la perfezione non
appartiene mai a un solo luogo. È una lucciola, per sua stessa natura elusiva e
imprevedibile. L’abbiamo rinchiusa in un vaso, ma quel vaso si è rotto e rischiamo di
tagliarci con i frammenti. Noi, falci della vecchia guardia, come ci chiamano, non siamo
affatto vecchie. Perseguiamo il cambiamento rivoluzionario immaginato dai Maestri
Prometeo, Gandhi, Laozi, da Madame Elisabetta, e da tutti i padri fondatori. È la loro
visione progressista che dobbiamo perseguire, ora più che mai, e dobbiamo vivere le
nostre vite secondo i loro ideali, o rischiamo di perderci nell’avidità e nella corruzione
che hanno appestato l’umanità mortale.
Come falci, non è ciò che vogliamo che conta; ciò che conta è cosa il mondo ha
bisogno che siamo. Se sarò la vostra Suprema Roncola, mi assicurerò che vengano
rispettati gli ideali più nobili, per poter essere fieri di chi e che cosa siamo.

Dal discorso pronunciato dalla Veneranda Madame Curie, candidata alla carica di
Suprema Roncola, il 6 gennaio dell’anno del Rapace
35
La soluzione al 7 per cento

Si decise di fare uno strappo alla regola e di ordinare le nuove falci,


poi di valutare gli apprendisti prima della votazione. Questo avrebbe
dato a tutti il tempo di riflettere sul dibattito ma, considerata la sua
natura contenziosa, ci sarebbe voluta più di qualche ora per
esplorarne tutte le implicazioni.
Madame Curie uscì dal dibattito emotivamente sfinita, ma riuscì a
nasconderlo a tutti, tranne che ad Anastasia.
«Come sono andata?»
«Sei stata spettacolare» rispose Citra. Tutte le falci sedute intorno
a loro dissero più o meno la stessa cosa, ma un palpabile
presentimento infausto gettava un velo d’ombra anche sugli auguri
più sinceri.
Dopo il dibattito, la Compagnia fece una necessaria pausa nella
sala circolare. Forse tutti erano sazi dal pranzo, perché nessuno si
avvicinò al buffet del pomeriggio. Per una volta, la Compagnia
sembrava unanime nel ritenere che ci fosse in gioco qualcosa di ben
più importante del cibo.
Madame Curie era circondata dai suoi sostenitori, come se fossero
una forza protettiva: Mandela, Cervantes, Angelou, Sun Tzu e diversi
altri. Come sempre, Anastasia si sentiva inadeguata in mezzo ai
grandi, nonostante si facessero da parte per tenerla fra loro, come
una pari.
«Come sta andando?» chiese Madame Curie a chiunque avesse
avuto il coraggio di risponderle.
Maestro Mandela scosse la testa, costernato. «Non ne ho proprio
idea. Siamo più numerosi dei seguaci di Goddard, ma c’è ancora più
di un centinaio di falci che non si è schierato.»
«Se vuoi sapere la mia opinione» intervenne Maestro Sun Tzu,
l’eterno pessimista, «è già tutto scritto. Hai sentito che tipo di
domande sono girate? “Che effetto avrà la cancellazione della quota
sulle nostre scelte di spigolatura?” “Verrà allentata la legge che
impedisce i matrimoni e le relazioni?” “Potremo liberarci della
revisione dell’indice genetico per non essere penalizzate in caso di
discriminazioni etniche occasionali?”» Era disgustato.
«È vero» dovette ammettere Anastasia, «quasi tutte le domande
erano dirette a Goddard.»
«E lui ha risposto quello che volevano sentirsi dire!» aggiunse
Maestro Cervantes.
«Le cose vanno sempre così» si lamentò Madame Angelou.
«Non per noi!» insistette Mandela. «Non siamo irretiti da ciò che
luccica!»
Cervantes si guardò intorno. «Va’ a dirlo a tutte le falci che si sono
cucite pietre preziose sulle vesti!»
Poi, una nuova voce si unì alla conversazione: Maestro Poe, che
aveva sempre l’aspetto addirittura più lugubre del suo patronimico
storico. «Non vorrei fare l’uccello del malaugurio, ma questa è una
votazione segreta. Sono sicuro che molti sosterranno Madame Curie
a parole, ma voteranno per Goddard nel silenzio dei loro seggi.»
La verità di quell’affermazione colpì tutti come se fosse entrato un
corvo nella sala.
«Ci serve più tempo!» ringhiò Marie, ma il tempo era un lusso che
non potevano permettersi.
«Il vero motivo per cui si vota nello stesso giorno è impedire
complotti e atti coercitivi che potrebbero avere luogo nel caso
l’elezione si protraesse nel tempo» ricordò Madame Angelou.
«Ma se li sta raggirando!» esclamò Sun Tzu con rabbia. «Torna dal
regno dei morti, a offrire l’ambrosia degli dèi, tutto ciò che una falce
potrebbe mai desiderare! Chi potrebbe biasimarli? Li sta
ipnotizzando!»
«Noi siamo migliori!» insistette Maestro Mandela. «Siamo falci!»
«Siamo esseri umani» intervenne Marie. «Commettiamo errori.
Credetemi, se Goddard sarà nominato Suprema Roncola, metà delle
falci che l’avrà messo su quella poltrona rimpiangerà di averlo fatto il
mattino dopo, ma allora sarà troppo tardi!»
Sempre più falci si avvicinarono a Marie per offrirle il loro appoggio,
ma non c’era modo di capire se sarebbe bastato. Anastasia decise,
pochi minuti prima della fine della pausa, di fare la sua parte.
Avrebbe esercitato la propria influenza parlando alle giovani falci.
Forse avrebbe potuto convincere quelle che erano vittima del fascino
di Goddard. Ma, naturalmente, il primo che incontrò fu Maestro
Morrison.
«Giornata emozionante, eh?»
«Morrison, per favore, lasciami in pace» si spazientì Anastasia.
«Ehi, smettila di fare la… dura» replicò, ma dalla sua esitazione
Anastasia intuì che stava per dirle qualcosa di molto peggio.
«Prendo seriamente il mio lavoro di falce» gli spiegò. «Avrei più
rispetto per te se facessi altrettanto.»
«Ma anch’io lo prendo seriamente! Nel caso te ne fossi
dimenticata, ho appoggiato la nomina della Signora, no? Sapevo che
mi sarei inimicato tutte le falci del nuovo ordine, eppure l’ho fatto.»
Si sentì trascinata in una discussione senza via d’uscita,
consapevole che stava sprecando del tempo prezioso. «Se vuoi
renderti utile, Morrison, allora usa tutto il tuo fascino e la tua
prestanza per far guadagnare più voti a Madame Curie.»
Lui sorrise. «Allora, mi trovi attraente?»
Citra doveva rinunciarci. Era un caso disperato. Lo scansò e stava
per andarsene, quando Morrison disse qualcosa che la trattenne.
«Che strano che Goddard non sembri del tutto Goddard, non è
vero?»
Lei si voltò a guardarlo. Le parole che aveva appena pronunciato si
erano impresse con una tale forza nella sua mente da risultare quasi
dolorose.
Vedendo che aveva attirato di nuovo la sua attenzione, Morrison
proseguì: «Voglio dire, la testa rappresenta solo il 10 per cento di una
persona, giusto?».
«Il 7 per cento» lo corresse Anastasia, ricordando il dato dai suoi
studi di anatomia. Le rotelle della sua mente che avevano raggiunto
la stasi totale ripresero a girare a pieno ritmo.
«Morrison, sei un genio. Insomma, sei un idiota, ma sei anche un
genio!»
«Grazie. Credo.»
Le porte dell’anfiteatro si riaprirono per lasciar entrare le falci.
Anastasia avanzò tra la folla in cerca di volti più familiari, quelli che
sapeva si sarebbero fatti in quattro per lei.
Madame Curie era già in sala, ma non avrebbe chiesto a lei; aveva
già abbastanza a cui pensare. Non poteva chiedere a Maestro
Mandela: era il presidente del comitato di concessione degli anelli, e
avrebbe dovuto occuparsi di consegnare gli anelli agli apprendisti che
sarebbero stati ordinati falci. Forse a Maestro Al-Farabi, ma l’aveva
già ripresa per la sua scarsa conoscenza delle procedure
parlamentari. L’avrebbe rimproverata ancora una volta. Aveva
bisogno di qualcuno che considerava amico, che potesse erudirla
sulle macchinazioni strutturali della Compagnia. Su come andavano
fatte le cose… e come non andavano fatte.
Ripensò al Thunderhead. Come fosse riuscito ad aggirare le sue
stesse leggi per parlare con lei, in una specie di limbo tra la vita e la
morte. Le aveva detto che era importante. Determinante, addirittura.
Aveva il sospetto che quel suo ruolo così fondamentale si sarebbe
giocato quel giorno. Ora toccava a lei trovare una falla nel sistema e
allargarla abbastanza per farci passare tutta la Compagnia.
Alla fine, la sua scelta cadde su un cospiratore di primo piano.
«Maestro Cervantes» disse, afferrandolo con delicatezza per il
braccio. «Posso dirle una parola?»

Due apprendisti furono ordinati falci e altri due furono respinti. Ironia
della sorte, il ragazzo che era corso a cercare la moneta prese il
nome di Maestro Thorpe, dall’atleta olimpico noto per la sua velocità.
L’altra divenne Madame McAuliffe, in omaggio alla prima donna
astronauta che morì in un disastro spaziale verificatosi molto tempo
prima della lunga serie di incidenti spaziali dell’era post mortale.
La tensione raggiunse il picco massimo nella sala del conclave,
quando gli apprendisti del primo e del secondo trimestre si fecero
avanti per sostenere l’esame. I pensieri di tutti andavano all’elezione
della nuova Suprema Roncola, ma Senocrate decise che si sarebbe
proceduto solo dopo la conclusione degli esami degli apprendisti
perché, a prescindere dall’esito della votazione, non sarebbe stato
più possibile riportare l’ordine e continuare la seduta.
L’esame, presieduto da Maestro Salk, era un test per valutare la
conoscenza dei veleni. Fu chiesto a ciascun apprendista di preparare
un veleno specifico e il relativo antidoto, poi di assumerli entrambi in
sequenza. Sei ci riuscirono, tre morirono e dovettero essere
trasportati d’urgenza in un centro di rianimazione.
«Molto bene» dichiarò Senocrate dopo che l’ultimo dei tre
apprendisti deceduti fu portato via. «Ci sono altre questioni da
affrontare prima di procedere al voto?»
«Facciamola finita!» gridò qualcuno che doveva avere ormai i nervi
a fior di pelle.
«Molto bene. Per favore, tenete pronti i vostri tablet.» Lasciò il
tempo a tutte le falci di prepararsi alla votazione elettronica. Ognuno
nascondeva il tablet tra le pieghe della veste, perché i vicini non
vedessero per chi votava. «Il voto inizierà a partire dal mio segnale e
proseguirà per dieci secondi. I voti che non saranno registrati
saranno considerati astensioni.»
Anastasia non disse nulla a Madame Curie. Incrociò lo sguardo di
Maestro Cervantes, che le rivolse un cenno di assenso. Anastasia
fece un profondo respiro.
«La votazione è aperta!» annunciò Senocrate.
Anastasia registrò il suo voto già al primo secondo. Poi, attese… e
attese. Trattenne il fiato. Il tempismo doveva essere perfetto. Non
c’era margine di errore. Poi, dopo otto secondi, si alzò e gridò, in
modo che la sentissero tutti: «Chiedo l’apertura di un’inchiesta!».
Anche la Suprema Roncola si alzò. «Un’inchiesta? Siamo nel bel
mezzo di una votazione!»
«Alla fine di una votazione, eccellenza. Il tempo è scaduto, tutti i
voti sono stati registrati.» Anastasia non permise che la Suprema
Roncola la interrompesse. «Fino all’annuncio dei risultati, ogni falce
ha il diritto di chiedere un’inchiesta!»
Senocrate guardò il parlamentare, che disse: «Ha ragione,
eccellenza».
Almeno cento falci manifestarono la loro collera, ma Senocrate,
che aveva ormai rinunciato a battere il martello, li riprese con una tale
furia che le obiezioni si spensero in un mormorio.
«Controllatevi!» ordinò. «E chi non può, verrà espulso dal
conclave!» Poi continuò rivolto ad Anastasia. «Su quale base chiede
l’apertura di un’inchiesta? Meglio che sia buona.»
«Sulla base del fatto che il signor Goddard non è una falce a pieno
titolo e, in quanto tale, non può aspirare alla carica di Suprema
Roncola.»
Goddard non riuscì a trattenersi. «Cosa? È evidente che questa è
una tattica per ritardare e manipolare il voto!»
«Il voto è già stato espresso!» gli ricordò Senocrate.
«Allora, che il commesso legga i risultati!»
«Mi scusi» intervenne Anastasia, «ma ora ho io la parola, e i
risultati non saranno annunciati finché non ci avrò rinunciato o finché
la mia richiesta non verrà respinta.»
«Anastasia» disse Senocrate, «la sua richiesta non ha senso.»
«Mi permetta di contraddirla, eccellenza, ma un senso ce l’ha.
Come stabilito dagli articoli fondanti del primo Conclave mondiale,
una falce dovrà essere preparata, corpo e spirito, per la Compagnia,
e confermata da un’assemblea di falci regionali. Ma solo il 7 per
cento del corpo del signor Goddard è stato ordinato falce. Per il resto,
compresa la parte che porta l’anello, non è, né è mai stata, ordinata
falce.»
Senocrate si limitò a fissarla, incredulo, mentre Goddard
schiumava di rabbia.
«È una follia!» gridò Goddard.
«No» ribatté Anastasia, «ciò che lei ha fatto, signor Goddard, è una
follia. Lei e i suoi accoliti le hanno sostituito il corpo con una
procedura proibita dal Thunderhead.»
Madame Rand si alzò. «La sua argomentazione è fuori luogo! Le
regole del Thunderhead non valgono per noi! Non è mai stato così e
mai lo sarà!»
Anastasia non aveva intenzione di arrendersi; anzi, continuò a
rivolgersi con calma a Senocrate. «Eccellenza, non voglio sabotare
l’elezione. Come potrei, se i risultati non sono stati ancora resi noti?
Ma se fanno fede le regole stabilite nel momento in cui è stata istituita
la Compagnia, l’anno del Giaguaro per l’esattezza, dalla seconda
Suprema Roncola Mondiale Napoleone, che cito: “Tutti i casi
controversi, per cui non esistono precedenti nelle procedure
parlamentari, possono essere sottoposti al Consiglio mondiale delle
falci in un’inchiesta ufficiale”.»
Maestro Cervantes si alzò. «Appoggio la richiesta avanzata dalla
Veneranda Madame Anastasia di aprire un’inchiesta.» Fu subito
imitato da almeno altre cento falci, che si alzarono a loro volta e si
misero ad applaudire in suo sostegno. Anastasia si girò a guardare
Madame Curie che, pur stupefatta, si sforzava di restare impassibile.
«Era di questo allora che discutevi con Cervantes» disse, con un
sorriso ironico. «Astuta come il demonio!»
Dal palco, Senocrate si rivolse al parlamentare, che non poté fare
altro che stringersi nelle spalle. «Ha ragione, eccellenza. Ha tutto il
diritto di chiedere un’inchiesta, in quanto i risultati non sono stati
ancora resi noti.»
All’altra estremità della sala, Goddard, furibondo, alzò un braccio
che non gli apparteneva e puntò l’indice contro Senocrate. «Se
accetta questa richiesta, ne subirà le conseguenze!»
La Suprema Roncola gli lanciò un’occhiata di fuoco per fargli capire
che era ancora lui che comandava. «Mi sta forse minacciando
apertamente davanti all’intera Compagnia midmericana qui riunita,
Goddard?»
Goddard fece subito marcia indietro. «No, eccellenza. Non mi
permetterei mai! Sto solo dicendo che ritardare l’annuncio dei risultati
avrebbe delle conseguenze per la Compagnia. La MidMerica
resterebbe senza Suprema Roncola fino alla fine dell’inchiesta.»
«In tal caso, nomino come Suprema Roncola supplente Maestro
Paine, il nostro illustre parlamentare.»
«Cosa?» esclamò sorpreso Maestro Paine.
Senocrate lo ignorò. «Ha servito con integrità inappuntabile ed è
totalmente imparziale riguardo alle fazioni che si stanno delineando in
seno alla Compagnia. Può presiedere con buon senso, oserei dire,
finché la questione non verrà sottoposta al Consiglio mondiale. Sarà
il mio primo atto da Grande Falce. E come mio ultimo atto da
Suprema Roncola della MidMerica, approvo la richiesta. I risultati
della votazione non verranno divulgati finché l’inchiesta non sarà
conclusa» sancì, poi, con un colpo di martello, annunciò: «Dichiaro
ufficialmente chiuso il Conclave d’inverno dell’anno del Rapace».
«Non avevo forse detto che avrebbe cambiato le carte in tavola?»
commentò Maestro Costantino, nel corso della cena tra amici nel
miglior ristorante di Fulcrum City. «Complimenti, Anastasia.» Le fece
un gran sorriso che, in un’altra circostanza, sarebbe stato
inappropriato. «Oggi lei è la falce più amata, e anche la più odiata, di
tutta la MidMerica.»
Anastasia non seppe cosa rispondere a quel commento.
Madame Curie notò la sua incertezza. «Fa parte del gioco, mia
cara. Non puoi lasciare il segno senza spigolare qualche ego per
strada.»
«Non volevo lasciare il segno» precisò Anastasia. «Stavo cercando
di chiudere una falla. E ci sto ancora tenendo il dito sopra.»
«Sì» concordò Maestro Cervantes. «Trattenere le acque sporche
per un altro giorno ci dà un’altra possibilità di trovare una soluzione
più elegante.»
A tavola c’era almeno una decina di falci, un vero arcobaleno di
colori. In qualche modo, Maestro Morrison era riuscito per vie
traverse a rimediare un invito. «Sono stato io a darle l’idea» disse ai
convitati.
«In un certo senso.» Anastasia era troppo di buon umore per
irritarsi con Morrison. Immaginò che da qualche altra parte in città le
falci del nuovo ordine si stessero leccando le ferite, maledicendo il
suo nome, ma non lì. Lì era protetta da tutto.
«Spero che scriverai di questi avvenimenti nel tuo diario»
intervenne Madame Angelou. «Scommetto che il tuo resoconto di
questo giorno passerà alla storia come uno degli scritti più
memorabili delle falci. Un po’ come il racconto di Marie delle prime
spigolature.»
Marie rimase sconcertata. «La gente lo legge ancora? Pensavo
che quei diari fossero scomparsi definitivamente con la Grande
Biblioteca di Alessandria.»
«Smettila di fare la modesta» la riprese Madame Angelou. «Lo sai
che molti dei tuoi scritti sono diventati famosi, e non solo tra le falci.»
Marie agitò una mano in segno di diniego. «Be’, io non li leggo mai
dopo averli scritti.»
Anastasia immaginò che avrebbe avuto molto da dire su ciò che
era accaduto quel giorno, e nel diario poteva esprimere le sue
opinioni. Naturalmente, Goddard avrebbe fatto altrettanto. Solo il
tempo avrebbe rivelato quale versione della vicenda sarebbe passata
alla storia e quale sarebbe finita nell’oblio. Ma, per il momento, non
era certo la sua preoccupazione più grande sapere quale posto
avrebbe occupato nella storia.
«Ora sospettiamo che ci sia Madame Rand dietro gli attentati
contro di voi, e che Brahms sia stato l’intermediario» disse
Costantino. «Ma è stata abile a nascondere ogni traccia. E non mi è
permesso indagare sulle falci con la stessa… intensità che uso con i
comuni cittadini. Ma vi assicuro che saranno entrambi sorvegliati, e lo
sanno.»
«In altre parole, ora siamo al sicuro» concluse Madame Curie.
Costantino esitò. «Non direi. Ma potete tirare un po’ il fiato.
Qualsiasi attacco ai vostri danni porterà necessariamente la firma del
nuovo ordine. E la cosa non giocherà certo a favore della sua
causa.»
Gli elogi continuarono a fioccare anche dopo che fu servita la cena.
Anastasia lo trovava imbarazzante.
«Quello che hai fatto è stato geniale!» esclamò Maestro Sun Tzu.
«E la scelta del momento, dopo che i voti erano già stati espressi!»
«È stato Maestro Cervantes a suggerirmi il momento adatto»
spiegò Citra, cercando di allontanare da sé almeno un po’
dell’attenzione di tutti. «Se avessimo avanzato la richiesta prima della
votazione, l’elezione sarebbe stata rimandata. In quel caso, se l’esito
dell’inchiesta ci fosse stato favorevole, Nietzsche avrebbe potuto
prendere il posto di Goddard nella votazione. Se fosse successo,
avrebbero avuto tutto il tempo di creare il consenso intorno a
Nietzsche. Ma una volta chiusa la votazione, se l’esito dell’inchiesta
ci sarà favorevole, Goddard sarà squalificato e Madame Curie verrà
automaticamente nominata Suprema Roncola.»
Le falci erano pazze di gioia.
«Hai raggirato i truffatori!»
«Li hai battuti sul loro stesso terreno!»
«Un vero colpo di genio politico!»
Anastasia si sentiva a disagio. «Da quel che dite, mi sembra di
essere una persona subdola e ipocrita.»
Maestro Mandela, con la lucidità di pensiero che lo caratterizzava,
riportò le cose in prospettiva, anche se era una prospettiva che ad
Anastasia non piaceva. «Devi guardare ai fatti, Anastasia. Ti sei
servita di un aspetto tecnico del sistema per aprire una breccia e
ottenere esattamente ciò che volevi.»
«Molto machiavellico!» esclamò Costantino con il suo spaventoso
sorriso.
«Oh, per favore, non sopporto Maestro Machiavelli» protestò
Maestro Sun Tzu.
«Quello che hai fatto oggi è stato brutale quanto una spigolatura
all’arma bianca» commentò Maestro Mandela. «Ma non dobbiamo
mai aver paura di fare ciò che deve essere fatto, anche se ferisce la
nostra sensibilità.»
Madame Curie posò la forchetta e notò il disagio di Anastasia. «Il
fine non giustifica sempre i mezzi, mia cara. Ma a volte sì. La
saggezza sta nel capire la differenza.»
Sul finire della cena, quando le falci si abbracciarono prima di
separarsi, Anastasia comprese una cosa. Si girò verso Madame
Curie.
«Marie, è accaduto, finalmente.»
«Cosa, mia cara?»
«Non mi sento più Citra Terranova. Sono finalmente diventata
Madame Anastasia.»
Il mondo è ingiusto e la natura è crudele.
È stata la mia prima osservazione quando ho acquisito coscienza. In natura, si
sradica il debole senza lesinare dolore e pregiudizi. Chi merita compassione, pietà e
amore non riceve nulla.
Si può ammirare un giardino magnifico e stupirsi delle meraviglie della natura, ma in
un posto del genere la natura è assente. Al contrario, un giardino è il prodotto di cure e
coltivazioni amorevoli. Con grande sforzo, è protetto dalle erbacce a cui la natura
ricorrerebbe per indebolirlo e soffocarne lo splendore.
La natura è la somma di tutti gli egoismi; obbliga ogni specie a lottare con le unghie
e con i denti per sopravvivere, soffocando gli altri nel pantano opprimente della storia.
Il mio obiettivo è cambiare tutto questo.
Ho sostituito la natura con qualcosa di decisamente migliore: un proposito riflessivo
e consapevole. Il mondo ora è un giardino, magnifico e fiorente.
Che mi definiscano innaturale per me è un grande complimento. Non sono io forse
superiore alla natura?

Il Thunderhead
36
Un’occasione perduta

La furia di Goddard era indomabile.


«Un’inchiesta! Dovrei ridurre quella ragazzina turchese in mille
pezzettini, finché non ne resterà più nulla per poterla rianimare!»
Abbandonando la sede del conclave, Rand scese come un turbine
la scalinata del Campidoglio al seguito di Goddard, mettendo da
parte la propria rabbia per cercare di mitigare quella del suo mentore.
«Stasera dobbiamo riunirci con le falci che sostengono la nostra
causa» gli disse. «Non ti vedono da un anno e la Compagnia deve
ancora riprendersi dalla tua riapparizione.»
«Non mi interessa fare comunella con le falci, che siano amiche o
no» le rispose. «C’è solo una cosa che voglio fare adesso, e avrei
dovuto farla da un pezzo!»
Si voltò a guardare il pubblico di fanatici che avevano aspettato la
fine del conclave per poter vedere ancora le falci. Estrasse una daga
dalla veste e avanzò verso un uomo ignaro di ciò che stava per
accadere. Con un unico movimento verso l’alto, spigolò il poveretto,
spargendone il sangue sui gradini. Quelli che gli erano intorno si
misero a correre come topi, ma Goddard afferrò chi gli era più a
portata di mano. Una donna. Non gli importava chi fosse o quale
fosse, semmai, il suo contributo al mondo. Per Goddard, serviva un
unico scopo. Il cappotto invernale era spesso, ma la lama penetrò
senza troppa resistenza. La vittima emise un grido, che cessò subito
quando cadde a terra.
«Goddard!» urlò una delle falci che stavano lasciando il conclave.
Era Maestro Bohr, un uomo fastidiosamente neutrale che non
prendeva mai posizione su nulla. «Non ti vergogni? Mostra un
minimo di decoro!»
Goddard si voltò verso di lui con furia omicida, e Bohr indietreggiò
come se Goddard fosse sul punto di aggredirlo.
«Non hai sentito?» gridò Goddard. «Io non sono Goddard! Sono
solo il 7 per cento di me stesso!» E spigolò un altro spettatore.
Ayn riuscì a trascinarlo via e a farlo salire sulla limousine.
«Hai finito?» gli chiese, mentre si allontanavano, senza
nascondere la sua irritazione. «O vuoi che ci fermiamo in un bar a
berci qualcosa e a spigolare tutti i clienti?»
Lui le puntò il dito contro, come aveva fatto con Senocrate. Il
terribile dito di avvertimento di Goddard. “Il dito di Tyger” pensò lei,
ma allontanò il pensiero più in fretta che poté.
«Non mi piace il tuo comportamento!» ringhiò Goddard.
«Se non fosse per me, tu non saresti qui!» gli ricordò lei. «Non
dimenticarlo.»
Gli ci volle qualche istante per calmarsi.
«Ordina agli uffici della Compagnia di trovare le famiglie delle
persone che ho appena spigolato. Se vogliono l’immunità, dovranno
venire da me. Non metterò più piede a Fulcrum City se non il giorno
in cui sarò nominato Suprema Roncola, dopo l’inchiesta.»

Le guardie mercenarie di Goddard svegliarono Rowan alle prime luci


dell’alba. «Preparati al combattimento» lo informarono.
Cinque minuti dopo, lo portarono fuori sulla veranda, dove Rand e
Goddard lo aspettavano. Rand indossava la sua veste, Goddard era
scalzo e a torso nudo. Portava un paio di calzoncini informi della
stessa sfumatura blu della sua veste, ma per fortuna non erano
tempestati di diamanti. Rowan non l’aveva più visto dal primo giorno
in cui era entrato nella sua stanza, a malapena capace di muoversi
su quell’aggeggio di sedia a rotelle. Era accaduto poco più di una
settimana prima e ora Goddard padroneggiava alla perfezione il
corpo di Tyger, come se fosse il suo. Rowan pensò che avrebbe di
sicuro vomitato se avesse avuto qualcosa nello stomaco, ma non
lasciò trasparire le sue emozioni. Se Goddard si nutriva della miseria
degli altri, allora lui non gli avrebbe fornito un grammo della sua.
Rowan sapeva che giorno era perché la settimana precedente i
fuochi d’artificio avevano annunciato il capodanno. Era il 7 di
gennaio. Il conclave si era tenuto il 6. La sua immunità era arrivata a
scadenza.
«Già di ritorno dal conclave?» chiese Rowan, fingendo
indifferenza. «Credevo che avresti passato qualche giorno a giocarti
la carta della resurrezione.»
Goddard lo ignorò. «Avevo voglia di affrontarti in un
combattimento» rispose, e i due iniziarono a girarsi intorno.
«Ma sì, sarà come ai vecchi tempi. Mi mancano quelle giornate
passate alla residenza, e a te?»
A Goddard tremò il labbro, ma alla fine sorrise.
«È andato tutto come volevi?» lo schernì Rowan. «La Compagnia ti
ha accolto a braccia aperte?»
«Taci!» gli ordinò Rand. «Sei qui per combattere, non per parlare.»
«Oooh» riprese Rowan. «Ho quasi l’impressione che le cose non
siano andate secondo i piani! Cos’è successo? Senocrate vi ha
cacciato a pedate? Non vi hanno voluto riammettere?»
«Al contrario, ci hanno accolto con calorosi abbracci» replicò
Goddard. «Soprattutto dopo che ho raccontato loro come il mio
patetico apprendista ci ha traditi e quasi uccisi. Che i poveri Chomsky
e Volta sono stati i primi a cadere per mano del sedicente Maestro
Lucifero. Ho promesso che ti consegnerò alla loro furia. Ma solo
quando sarò pronto, naturalmente.»
Rowan intuì che non era tutto. Capiva quando Tyger mentiva. Lo
sentiva dalla sua voce, che non era cambiata ora che le parole erano
di Goddard. Ma, comunque fossero andate le cose, non l’avrebbe
certo saputo da lui.
«Ayn arbitrerà l’incontro» disse Goddard. «E io non avrò pietà.»
Goddard scattò in avanti. Rowan non fece nulla per difendersi,
nulla per schivare il colpo. L’altro lo atterrò, lo bloccò. Ayn dichiarò la
vittoria di Goddard.
Era stato troppo facile, e Goddard lo sapeva.
«Pensi di potertela cavare così senza combattere?»
«Sei tu che mi sfidi a un combattimento di Bokator, è un mio diritto»
replicò Rowan.
«Non hai nessuno diritto qui» ringhiò Goddard, e lo attaccò di
nuovo. Ancora una volta, Rowan soffocò l’istinto di autodifesa, e non
oppose resistenza. Goddard lo mise al tappeto come se fosse una
bambola di pezza. Divenne furioso. «Combatti, per la miseria!»
«No» rispose Rowan, con calma. Lanciò un’occhiata a Rand. Per
un attimo, la donna si concesse un leggero sorriso, che però
represse subito.
«Se non combatti con me, spigolerò tutte le persone che ti sono
care!» gridò Goddard.
Rowan alzò le spalle. «Non puoi. Maestro Brahms ha già spigolato
mio padre e il resto della mia famiglia ha l’immunità per altri undici
mesi. E non puoi eliminare Citra, ha già dimostrato di essere troppo
sveglia perché tu possa ingannarla.»
Goddard si scagliò di nuovo contro il suo avversario. Rowan si
mise per terra a gambe incrociate.
Goddard si allontanò e sferrò un pugno contro il muro, lasciandovi
il segno.
«So io cosa lo farà combattere» disse Rand, e fece un passo verso
Rowan. «Se ti batterai contro Goddard, ti diremo cosa è successo al
conclave.»
«No, non lo faremo!» insistette Goddard.
«Vuoi un combattimento vero o no?»
Goddard esitò, poi cedette. «E va bene.»
Rowan si alzò. Non aveva motivo di credere che avrebbero
mantenuto la parola ma, per quanto desiderasse negare a Goddard il
combattimento, gli sarebbe anche tanto piaciuto metterlo al tappeto.
Avere l’opportunità di dimostrarsi inclemente quanto lo era lui nei suoi
confronti.
Rand diede inizio al nuovo combattimento. I due presero a girare
uno intorno all’altro. Goddard fece la prima mossa, ma questa volta
Rowan rispose schivando il colpo e assestandogli una gomitata.
Goddard sorrise, rendendosi conto che il vero incontro era
cominciato.
Mentre si scontravano senza pietà, Rowan comprese che Goddard
aveva ragione: la forza di Tyger unita al cervello di Goddard era una
combinazione difficile da battere. Ma non gli avrebbe dato la
soddisfazione di vincere, né quel giorno né mai. Nel Bokator, Rowan
riusciva a tirare fuori il meglio di sé quando era sotto pressione, e
quell’occasione non faceva eccezione. Mise a segno una serie di
mosse che spiazzarono Goddard, finché non lo gettò a terra e lo
bloccò.
«Arrenditi» gridò Rowan.
«No!»
«Arrenditi!»
Goddard non lo fece, e Rand dovette interrompere l’incontro.
Poi, non appena Rowan lo lasciò andare, Goddard si alzò, andò a
un armadio, prese una pistola e gliela spinse contro le costole.
«Nuove regole» annunciò, poi premette il grilletto. Il proiettile
attraversò il cuore di Rowan e ruppe una lampada dall’altra parte
della stanza.
Prima che l’oscurità lo inghiottisse, Rowan fece una risatina. «Hai
barato» disse, e morì.

«Uhm… scorretto» commentò Madame Rand.


Goddard le mise la pistola in mano. «Non interrompere mai più un
incontro finché non te lo dico io.»
«E allora, finisce così? L’hai spigolato?»
«Stai scherzando? E sprecare l’occasione di gettarlo ai piedi delle
Grandi Falci quando si discuterà dell’inchiesta? Portalo in un centro
di rianimazione sconnesso dalla rete. Lo voglio subito in piedi per
ucciderlo ancora.» Detto questo, uscì dalla stanza a grandi falcate.
Rand guardò Rowan, più morto che mai. Aveva gli occhi aperti e le
labbra contratte in un sorriso sprezzante. Un tempo, lo aveva
ammirato, ne era stata anche gelosa, per le attenzioni che Goddard
gli aveva riservato durante l’apprendistato. Sapeva che Rowan non
era fatto della sua stessa pasta né di quella di Goddard. Immaginava
che prima o poi sarebbe stato fermato, ma non si sarebbe mai
aspettata che sarebbe avvenuto in modo così spettacolare. Goddard
non poteva che biasimare se stesso per aver avuto fiducia in un
ragazzo che Maestro Faraday aveva scelto in virtù della sua
compassione.
La compassione non era mai stata il suo forte. Ayn non la capiva, e
non sopportava chi ne aveva. Ora, Rowan Damisch sarebbe stato
punito per i suoi ideali presuntuosi.
Si voltò verso le guardie che se ne stavano lì impalate, in piedi,
senza sapere che fare.
«Allora, che vi prende? Non avete sentito Maestro Goddard?
Portatelo in un centro di rianimazione.»
Dopo che Rowan fu portato via e l’imperturbabile robot domestico
ebbe ripulito il tappeto macchiato di sangue, Ayn si sedette su una
sedia ad ammirare la vista spettacolare. Sebbene Goddard fosse
sempre molto avaro di complimenti nei suoi confronti, sapeva di aver
scelto il posto giusto per mettere in scena il loro ritorno. La
Compagnia del Texas li lasciava fare purché non spigolassero nella
regione, e il Thunderhead aveva telecamere solo nei lunghi pubblici,
per cui per loro era più facile non essere visti. Oltretutto, le strutture
non connesse alla rete abbondavano, come il centro di rianimazione
in cui stavano portando Rowan. Non facevano domande, purché
venissero pagati. Era vero che le falci ottenevano sempre
gratuitamente tutto ciò di cui avevano bisogno, ma in quel caso il non
essere in rete garantiva loro la massima libertà. Staccò uno smeraldo
vicino all’orlo della veste e lo consegnò alla guardia a titolo di
pagamento per la rianimazione di Rowan. Era più che sufficiente per
coprire i costi.
Ayn non aveva mai avuto l’anima della complottista. Viveva alla
giornata, agiva d’impulso, cedendo ai capricci del momento. Da
bambina, i genitori la chiamavano fuoco fatuo, e lei adorava essere
una creatura dispensatrice di morte. Ora, tuttavia, le piaceva essere
l’architetto di un piano a lungo termine. Pensava che sarebbe stato
facile mettersi da parte e lasciare che Goddard prendesse di nuovo il
comando dopo che era stato restaurato – perché era stato restaurato
più che rianimato –, ma riteneva che fosse necessario riequilibrare il
suo brutto carattere e la sua nuova impulsività. Che questa
impulsività facesse parte del 93 per cento di lui che era stato Tyger
Salazar? I due avevano in comune una certa arroganza, era vero. Ma
l’ingenuità di Tyger aveva lasciato il posto al cattivo umore di
Goddard. Ayn doveva ammettere di aver trovato la spontaneità e
l’immaturità di Tyger piuttosto rigeneranti. Ma l’innocenza finiva
sempre per essere stritolata tra gli ingranaggi di un disegno più
ampio, e Goddard stava in realtà lavorando a un progetto di enorme
portata che la entusiasmava molto: una Compagnia senza vincoli. Un
mondo di capricci senza conseguenze.
Ma sbarazzarsi di Tyger Salazar era stato molto più difficile di
quanto si fosse aspettata.
Le guardie tornarono ad annunciare che Rowan sarebbe stato
rianimato in circa trentasei ore, informazione che Ayn comunicò a
Goddard. Lo incontrò che stava uscendo dal bagno, dopo una doccia.
Era avvolto in un asciugamano striminzito. «Un incontro di
riscaldamento. La prossima volta, lo batterò.»
Quelle parole la fecero rabbrividire: era ciò che diceva sempre
Tyger. «Sarà di nuovo in piedi tra un giorno e mezzo» gli annunciò,
ma Goddard aveva già cambiato argomento.
«Comincio a vedere un’opportunità in questa nostra situazione,
Ayn. La vecchia guardia, senza volerlo, mi ha fatto un grande regalo
somministrandomi questo boccone amaro. Voglio che mi trovi i
migliori ingegneri.»
«Li hai spigolati tutti» gli ricordò.
«No, non scienziati aerospaziali e ingegneri meccanici, ho bisogno
di ingegneri civili. Che siano esperti di dinamica delle grandi strutture.
E anche programmatori. Ma programmatori che non siano
compromessi con la Compagnia o il Thunderhead.»
«Chiederò in giro.»
Goddard si soffermò qualche istante ad ammirarsi in uno specchio
a figura intera, poi incrociò gli occhi di Ayn nell’immagine riflessa,
notando il modo in cui lo osservava. Lei decise di non distogliere lo
sguardo. Goddard si girò e fece qualche passo in direzione della sua
alleata.
«Trovi questo fisico di tuo gradimento?»
Madame Rand si impose di abbozzare un sorriso malizioso.
«Quando mai non ho apprezzato un fisico ben scolpito?»
«E tu… non hai approfittato di questo corpo?»
Ayn non riusciva più a sostenere il suo sguardo. «No. Non di
questo.»
«No? Non è da te.»
Si sentiva come se fosse lei a essere mezza nuda. Dissimulò il
disagio con un sorriso. «Forse, volevo aspettare che diventasse tuo.»
«Uhm» fece Goddard, come se fosse solo una curiosità. «Noto che
questo corpo è molto attratto da te.»
Poi, la superò, si infilò la veste e se ne andò, lasciandola da sola a
rimpiangere l’occasione perduta.
37
Le molte morti di Rowan Damisch

Rowan Damisch?… Rowan Damisch!


Dove sono? Chi sei?
Sono il Thunderhead, Rowan.
Mi stai parlando come hai fatto con Citra?
Sì.
Devo essere ancora morto.
Sei in una specie di limbo.
Farai qualcosa? Impedirai a Goddard di fare ciò che sta
facendo alla Compagnia?
Non posso. Infrangerei la legge, e non ne sono capace.
Allora, dimmi cosa posso fare.
Anche questo sarebbe una violazione.
Allora, che senso ha questa conversazione? Lasciami in pace
e vai a occuparti del mondo.
Volevo dirti di non perdere la speranza. Ho calcolato che esiste una
probabilità che tu abbia un profondo effetto sul mondo, come Citra
Terranova. Come Maestro Lucifero o con la tua precedente identità.
Davvero? Con quale percentuale?
39 per cento.
E il restante 61?
I miei algoritmi indicano che nel prossimo futuro hai una probabilità
del 61 per cento di morire di morte permanente, senza imprimere
alcun effetto degno di nota.
Non mi sento confortato.
Dovresti, invece. Una probabilità del 39 per cento di cambiare il
mondo è esponenzialmente più di quanto la maggior parte della
gente possa sperare di avere.

Ogni volta che moriva, Rowan faceva una tacca sul muro. Non
contava i giorni, ma le morti. Ogni volta che combatteva con Goddard
vinceva, e ogni volta Goddard, furioso per la sconfitta, lo uccideva
sommariamente. La cosa stava diventando noiosa. «Come pensi di
procedere oggi, eccellenza?» chiese, sottolineando con tono ironico
la parola “eccellenza”. «E se ti venisse in mente una qualche idea
intelligente?»
Erano già a quattordici. Lama, proiettile, mani nude: Goddard
aveva usato tutti i metodi per ucciderlo. Tutti meno il veleno, che
disprezzava. Gli aveva anche ridotto i naniti analgesici, affinché
soffrisse il più possibile. Eppure, ogni volta che perdeva un incontro,
Goddard andava così in collera che non riusciva più a controllarsi e lo
uccideva all’istante, abbreviandone così le sofferenze. Rowan si
preparava al dolore, contava fino a dieci, ma moriva sempre prima di
finire.
Il Thunderhead gli aveva parlato prima che venisse rianimato per la
quattordicesima volta. Il centro di rianimazione non era poi così tanto
sconnesso dalla rete come pensavano. Rowan sapeva di non
sognare, perché la voce era nitida e intensa, non come nei sogni. Era
stato scortese con il Thunderhead. Se n’era dispiaciuto, ma non
poteva farci nulla, adesso. Avrebbe capito. Il Thunderhead era
comprensione ed empatia.
Ciò che aveva appreso da quella breve conversazione con il
governatore della Terra non era il fatto che potesse cambiare il
mondo, ma la consapevolezza di non averlo ancora fatto. Eliminare
tutte quelle falci corrotte non era servito a nulla. Maestro Faraday
aveva ragione. Non si può cambiare la marea sputando nel mare.
Non si può diserbare un campo infestato di erbacce. Forse, la ricerca
di Faraday del piano di sicurezza dei fondatori avrebbe portato il
cambiamento che l’uccisione delle falci malvagie non era riuscita a
innescare.
Quando aprì gli occhi dopo la quattordicesima rianimazione,
Madame Rand era accanto a lui. Le altre volte, non c’era nessuno.
Alla fine, arrivava un’infermiera, gli controllava i parametri vitali,
fingeva cortesia, poi chiamava le guardie perché andassero a
recuperarlo.
«Perché sei qui? È il mio compleanno?» Pensò che forse poteva
esserlo. Aveva passato così tanti giorni tra una rianimazione e l’altra,
che non aveva più cognizione del tempo.
«Come puoi continuare a farlo? Ogni volta ti rimetti in piedi, così
pronto ad affrontare un altro incontro che mi fai schifo.» Si alzò.
«Dovresti essere distrutto! Non sopporto che tu non lo sia!»
«È un piacere per me disgustarti.»
«Fallo vincere!» insistette. «Che ti costa?»
«E poi?» chiese Rowan, mettendosi seduto. «Se vince, non ha
motivo di tenermi in vita.»
Rand si calmò. «Gli servi vivo. Per lasciarti alla mercé delle Grandi
Falci, quando l’inchiesta sarà conclusa.»
Rand aveva mantenuto la sua promessa dopo la sua prima
rianimazione di informarlo su come era andato il conclave. Del voto
per l’elezione della Suprema Roncola, e di come Citra avesse
sabotato l’assemblea.
«Lasciarmi alla mercé delle Grandi Falci… L’unica pietà sarà di
spigolarmi in fretta.»
«Sì» confermò Rand. «E nel frattempo, in questi ultimi giorni che ti
restano da vivere, faresti meglio a farlo vincere.»
“Ultimi giorni” pensò Rowan. La conta delle morti sul muro della
sua stanza non doveva essere molto precisa se mancavano appena
pochi giorni all’inchiesta. Era prevista per il primo aprile. Quella data
era già prossima?
«Mi avresti chiesto di far vincere Tyger?» le domandò e, per un
attimo, credette di cogliere qualcosa nello sguardo di Madame Rand.
Il guizzo di un rimorso, forse? Una scintilla di coscienza? Non sapeva
se Ayn ne fosse capace, ma valeva la pena scavare un po’.
«Certo che no. Tyger non ti tagliava la gola né ti strappava il cuore
quando perdeva.»
«Be’, almeno Goddard non mi ha fatto saltare le cervella.»
«Perché vuole che tu ricordi. Vuole che ti ricordi di tutto quello che
ti è stato inflitto.»
In un certo senso, Rowan trovava la cosa divertente. Goddard non
poteva infierire su di lui come avrebbe voluto, perché la costruzione
mnemonica di Rowan, conservata nel cervello primordiale del
Thunderhead, non era stata salvata da quando era sconnesso dalla
rete. E quindi, se Goddard gli avesse danneggiato il cervello, l’ultima
cosa che avrebbe ricordato una volta rianimato sarebbe stata la sua
cattura da parte di Maestro Brahms. Tutte le sofferenze che gli aveva
inflitto Goddard sarebbero andate perdute. E le sofferenze perdute
non erano più sofferenze.
Guardando Rand, si chiese che tipo di sofferenze avrebbe potuto
infliggerle Goddard. Di sicuro, non le stesse di Rowan, anche se
percepiva una certa tristezza. Un dolore. Un desiderio. Tyger era
morto da tempo ormai, ma era ancora molto presente.
«All’inizio, avevo accusato Goddard per ciò che era accaduto a
Tyger» disse, con calma. «Ma non è stato lui a sceglierlo, sei stata
tu.»
«Ci hai traditi. Mi hai spezzato la schiena. Mi sono dovuta
trascinare con le braccia fuori dalla cappella in fiamme.»
«Vendetta» sussurrò Rowan, tentando di domare la rabbia che
provava. «La capisco. Ma ti manca, non è vero? Tyger ti manca.»
Non era una domanda, era un’osservazione.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Sì, lo sai bene.» Rowan rimase qualche secondo in silenzio,
perché le sue parole avessero effetto. «Hai almeno concesso
l’immunità alla famiglia?»
«Non serviva. I suoi genitori non si occupavano più di lui da
quando aveva compiuto diciott’anni. Quando l’ho trovato, viveva da
solo.»
«Li hai almeno informati della sua morte?»
«Perché avrei dovuto?» replicò Rand, sulla difensiva. «E perché
avrei dovuto preoccuparmene?»
Rowan sapeva di averla messa alle strette. Avrebbe voluto gioirne,
ma si trattenne. Come in un combattimento di Bokator, non si gioiva
quando si bloccava un avversario. Gli si chiedeva solo di arrendersi.
«Dev’essere orribile guardare Goddard, ora» riprese. «E rendersi
conto che non è più la persona che ami.»
Lo sguardo di Rand divenne di ghiaccio. «Le guardie ti verranno a
prendere» gli disse, mentre se ne andava. «E se cerchi ancora di
manipolarmi, sarò io che ti farò saltare le cervella.»

Rowan morì altre dieci volte prima che cessassero gli incontri. Non
fece mai vincere Goddard. Eppure, Goddard ci era andato vicino più
di una volta, ma la sua connessione tra mente e corpo non era
ancora perfetta e Rowan aveva saputo approfittarne.
«Soffrirai le pene dell’inferno» gli assicurò Goddard dopo che fu
rianimato per l’ultima volta. «Verrai spigolato al cospetto delle Grandi
Falci, e sparirai dalla scena. Non lascerai traccia di te nella storia,
sarai semplicemente cancellato. Sarà come se non fossi mai nato.»
«Capisco che per te sarebbe il destino peggiore» replicò Rowan.
«Ma non muoio dalla voglia di mettere la mia esistenza al centro
dell’universo. Sparire mi va bene.»
Goddard restò a guardarlo con disprezzo che, per un istante, si
trasformò in rimpianto. «Saresti potuto diventare una delle più grandi
falci. Saresti potuto restare al mio fianco, dando un nuovo senso alla
nostra presenza nel mondo.» Scosse la testa. «È triste vedere tante
potenzialità andare sprecate in questo modo.»
Rowan era sicuro di aver sprecato le sue potenzialità in molti modi,
ma quel che era fatto era fatto. Aveva compiuto le sue scelte e ne
aveva sopportato le conseguenze. Il Thunderhead gli aveva dato il 39
per cento di probabilità di cambiare il mondo; forse, le sue scelte non
erano state del tutto sbagliate. Lo avrebbero portato a Endura e, se
Goddard avesse ottenuto ciò che voleva, la sua vita sarebbe finita.
Ma sapeva che a Endura ci sarebbe stata anche Citra.
Se ormai era tutto finito, allora si sarebbe aggrappato con tutte le
forze a quella sua ultima speranza: di rivederla ancora una volta,
prima di chiudere gli occhi per sempre.
38
Una trilogia di incontri importanti

A ogni ora del giorno e della notte assisto o sorveglio più di un


miliardo e trecento milioni di interazioni umane. Il 27 marzo dell’anno
del Rapace ne indico tre tra le più importanti.

La prima è una conversazione che non mi è dato di ascoltare, ma di


cui posso soltanto dedurre in modo indiretto il contenuto. Ha luogo
nella città di San Antonio, nella regione del Texas. L’edificio ha
sessantatré piani; l’ultimo, l’attico, è stato requisito da Madame Ayn
Rand.
Non ho telecamere in quell’edificio, in base alle regole che valgono
nella regione in questione. Tuttavia, le telecamere stradali
intercettano l’arrivo di diverse personalità illustri della scienza:
ingegneri, programmatori, anche un famoso biologo marino. La mia
ipotesi è che Maestro Goddard abbia escogitato una scusa per
convocarli e poterli spigolare. Ha la tendenza a eliminare tutti gli
scienziati che mi servono, soprattutto quelli che lavorano nel campo
aerospaziale. L’anno scorso, ne ha spigolati a centinaia in un
laboratorio di propulsione magnetica. Tra questi, alcuni dei miei
ingegneri più esperti che stavano sviluppando soluzioni per effettuare
viaggi nello spazio profondo. E, prima ancora, aveva tolto la vita a un
genio nel campo dell’ibernazione prolungata, camuffandone
l’assassinio con una spigolatura di massa su un aereo di linea.
Non posso avanzare accuse, perché non ho prove. Per indovinare
le motivazioni di Goddard in merito a queste spigolature, mi baso su
ipotesi ragionate. Come del resto non ho prove di eventuali reati
commessi sulle sfortunate colonie della Luna e di Marte o sullo
sventurato habitat orbitale. Mi basti dire che Goddard è l’ultimo di una
lunga serie di falci che, quando osservano il cielo notturno, non
vedono le stelle, ma solo l’oscurità che le separa.
Da diverse ore attendo che siano annunciate delle spigolature
all’interno dell’edificio. Per il momento, nulla. Invece, prima che si
faccia buio, escono alcuni visitatori. Non si parlano. Non discutono tra
loro di cosa sia accaduto in quell’attico. Ma quando vedo i lori visi
tirati, so che nessuno di loro dormirà sonni tranquilli, stanotte.

La seconda conversazione degna di nota si svolge nella città


estmericana di Savannah, un comune che ho conservato
meticolosamente perché rifletta il fascino dell’era mortale.
Un bar tranquillo. Un séparé in fondo alla sala. Tre falci e un
assistente. Due caffè, un latte macchiato, una cioccolata calda. Le
falci sono in abiti civili, prova di un incontro clandestino in pieno
giorno.
Le mie telecamere all’interno del bar sono appena state disattivate
da Maestro Michael Faraday, che il mondo intero pensa si sia
autospigolato più di un anno fa. Non ha importanza; non sono
accecato, perché ho un robot-telecamera che sorseggia il tè alcuni
tavoli più in là. Non ha cervello. Non ha coscienza. Non ha capacità
di calcolo, a parte quelle necessarie per riprodurre i movimenti umani.
È una macchina semplice, concepita per uno scopo preciso: ridurre al
minimo gli angoli morti per permettermi di servire al meglio l’umanità.
E oggi, servire l’umanità significa ascoltare questa conversazione.
«È un piacere vederti, Michael» esordisce Madame Marie Curie.
Ho assistito alla nascita e alla fine di una relazione romantica tra le
due falci, nonché ai molti anni di devota amicizia che ne sono seguiti.
«Anche per me, Marie.»
Il robot-telecamera è di spalle al quartetto. Non è importante,
perché non ha le telecamere posizionate negli occhi. Ha, invece,
sotto uno strato sottile di pelle artificiale, una fila di microtelecamere
disposte intorno al collo che garantisce una visuale a
trecentosessanta gradi, senza interruzioni. I microfoni multidirezionali
si trovano nel busto. La testa, che svolge una mera funzione
decorativa, è una protesi piena di polistirene espanso per impedire
che venga invasa dagli insetti, molto diffusi in questa parte del
mondo.
Faraday si volta a guardare Madame Anastasia. Il sorriso è caldo,
paterno. «Vedo che la nostra apprendista si è trasformata in una vera
falce.»
«Sono orgogliosa di lei.»
I capillari sul viso di Madame Anastasia si dilatano. Gli elogi che
riceve le arrossano leggermente le guance.
«Oh, ma sono un vero maleducato» si riscuote Faraday. «Vi
presento la mia assistente.»
La giovane donna è rimasta seduta pazientemente per due minuti,
lasciando con educazione che le due falci si ritrovassero. Ora allunga
la mano per stringere quella di Madame Curie. «Salve, sono Munira
Atrushi.» Stringe anche la mano di Madame Anastasia, ma sembra
quasi che abbia un ripensamento.
«Munira viene dall’Israebia, dalla Grande Biblioteca. È stata
preziosissima nella mia ricerca.»
«Che tipo di ricerca?» chiede Anastasia.
Faraday e Munira esitano, poi lui dice: «Storica e geografica». Ma
cambia subito argomento, come se non fosse ancora pronto a
parlarne. «Allora, la Compagnia sospetta che io sia ancora in vita?»
«Non che io sappia» risponde Madame Curie. «Anche se sono
sicura che molti stanno fantasticando su come potrebbero essere
diverse le cose se tu ci fossi ancora.» Prende un sorso di latte
macchiato, che valuto sia a ottanta gradi Celsius. Temo si possa
bruciare le labbra, ma è prudente. «Avresti portato altro che
scompiglio al conclave, se fossi apparso magicamente, come ha fatto
Goddard. Non mi sarei stupita se ti avessero nominato Suprema
Roncola seduta stante.»
«Tu saresti una Suprema Roncola migliore» replica Faraday, con
grande ammirazione.
«Be’, ho prima un ostacolo da superare.»
«Ce la farai, Marie» la rassicura Anastasia.
«E immagino che tu sarai la sua prima assistente» dice Faraday.
Munira alza le sopracciglia, dubbiosa. Quel gesto non sfugge ad
Anastasia.
«Terza assistente» lo corregge Anastasia. «Cervantes e Mandela
prenderanno il primo e il secondo posto. Dopotutto, io sono ancora
una giovane falce.»
«E, a differenza di Senocrate, non invierò i miei assistenti a trattare
di minuzie» sottolinea Marie.
Mi rallegra constatare che Madame Curie stia già parlando come
una Suprema Roncola. Non ho contatti con la Compagnia, ma so
riconoscere un leader di valore. Senocrate era efficiente, ma niente di
più. Questi tempi richiedono una personalità fuori dal comune. Non
so nulla dell’esito della votazione, perché non ho accesso al server
della Compagnia. Posso solo sperare che il risultato del voto o
dell’inchiesta vada a vantaggio di Madame Curie.
«Sono molto contenta di vederti, Michael, ma immagino che questa
non sia una semplice visita di cortesia» dice Madame Curie. Si
guarda intorno per qualche istante, riservando solo uno sguardo
fugace all’uomo che sorseggia il suo tè seduto a qualche tavolo di
distanza. L’“uomo” fa solo finta di sorseggiare il tè, perché ha la
vescica piena e ha bisogno di urinare.
«No, non è una visita di cortesia» confessa Maestro Faraday. «E
perdonami per averti trascinato così lontano da casa, ma ho pensato
che se ci fossimo incontrati in MidMerica avremmo rischiato di attirare
un’attenzione che nessuno di noi desidera.»
«Mi piace l’EstMerica» risponde Madame Curie, «soprattutto le
regioni costiere. Non ci vengo spesso.»
Lei e Anastasia aspettano che Faraday spieghi loro il motivo di
quella riunione. Sono molto curioso di vedere come affronterà
l’argomento per cui le ha convocate. Ascolto con attenzione.
«Abbiamo scoperto qualcosa di incredibile» inizia Faraday.
«Penserete che sia impazzito quando sentirete quello che ho da dirvi,
ma credetemi, non lo sono.» Poi, si ferma e si rivolge alla sua
assistente. «Munira, visto che sei stata tu a fare la scoperta, saresti
così gentile da illuminare le nostre amiche?»
«Certo, eccellenza.»
La ragazza estrae una mappa dell’oceano Pacifico, su cui corre un
reticolo di rotte aeree, che mostra chiaramente uno spazio vuoto, su
cui non si incrocia alcuna linea. Quello spazio vuoto non mi
preoccupa. Non ho mai avuto bisogno di far passare gli aerei su quel
punto in mare aperto, semplicemente perché c’erano rotte migliori,
favorite dai venti prevalenti. L’unica cosa che mi turba è di non
essermene mai accorto prima.
Spiegano la loro teoria, sostenendo che quel punto indica la
posizione della mitica Terra di Nod, dove si trova il piano di
emergenza dei fondatori, in caso di disgregazione della Compagnia.
«Non c’è nessuna prova» precisa Munira. «Sappiamo solo che
esiste quell’angolo morto. Crediamo che i fondatori abbiano
programmato il Thunderhead in modo da ignorarne l’esistenza, poco
prima che acquisisse coscienza. Lo hanno deliberatamente nascosto
al resto del mondo. Quanto al motivo, possiamo solo fare delle
ipotesi.»
Questa teoria non mi turba neanche un po’. Eppure, capisco che
dovrebbe. Sono turbato dal fatto di essere così poco turbato.
«Perdonami, Michael, se mi preoccupano fatti più immediati» gli
dice Madame Curie. «Se Goddard diventa Suprema Roncola, si
aprirà una porta che difficilmente si potrà richiudere.»
«Dovresti venire con noi a Endura, Maestro Faraday» insiste
Anastasia. «Le Grandi Falci ti ascolteranno.»
Ma, naturalmente, Faraday declina l’invito, scuotendo la testa. «Le
Grandi Falci sanno già cosa sta accadendo e sono divise sulla
direzione che dovrebbe prendere la Compagnia.» Osserva la mappa
ancora aperta davanti a loro. «Se la Compagnia va in rovina, il piano
di emergenza dei fondatori potrebbe essere l’unica speranza di
salvarla.»
«Non sappiamo nemmeno in cosa consista questo piano!»
esclama Anastasia.
«C’è solo un modo per scoprirlo» replica Faraday.
Il cuore di Madame Curie accelera da settantadue a ottantaquattro
battiti al minuto, molto probabilmente per un picco di adrenalina. «Se
una parte del mondo è rimasta nascosta per centinaia di anni, non c’è
modo di sapere cosa si troverà in quel punto. Non è sotto il controllo
del Thunderhead, e quindi potrebbe essere molto pericoloso,
addirittura fatale, avventurarcisi, e non ci sarà nessun centro di
rianimazione a riportarti in vita.»
Per inciso, sono lieto di constatare che Madame Curie è
abbastanza obiettiva da considerare la mia assenza un pericolo. E
comunque, io stesso non la ritengo un pericolo. Né tantomeno un
problema. Dovrei. Prendo nota della necessità di dedicare una
considerevole quantità del mio tempo di calcolo ad analizzare questa
mia insolita mancanza di preoccupazione.
«Sì, abbiamo tenuto conto del pericolo» conferma Munira. «Ecco
perché intendiamo dirigerci prima all’antico Distretto di Columbia.»
Al sentir nominare l’antico Distretto di Columbia, le condizioni
fisiologiche di Madame Curie cambiano di nuovo. Le sue spigolature
più scellerate hanno avuto luogo proprio lì, prima che io dividessi il
NordMerica in regioni più gestibili. Sebbene non abbia mai sollecitato
il suo intervento per spazzare via le vestigia corrotte del governo
mortale, non posso negare che abbia facilitato molto il mio lavoro.
«Perché andarci?» chiede, senza nascondere il suo disgusto. «Ci
sono solo rovine e ricordi che è meglio dimenticare.»
«Ci sono storici che si prendono cura dell’antica Biblioteca del
Congresso, a Washington» spiega Munira. «Volumi cartacei che
potrebbero contenere elementi assenti nel cervello primordiale.»
«Ho sentito dire che il posto brulica di loschi» commenta
Anastasia.
Munira le lancia uno sguardo altezzoso. «Non sono una falce, ma
sono stata apprendista di Maestro Ben-Gurion. So difendermi dai
loschi.»
Madame Curie posa la mano su quella di Faraday, il cui battito
cardiaco accelera all’improvviso. «Aspetta, Michael» lo supplica.
«Aspetta fino alla fine dell’inchiesta. Se tutto va come speriamo,
posso organizzare una spedizione ufficiale nell’angolo morto. E se
dovesse andare male, verrò con te, perché non resterò in una
Compagnia guidata da Goddard.»
«È una cosa che non può attendere, Marie» replica Faraday. «Ho
paura che la situazione si stia facendo ogni giorno più difficile per la
Compagnia, non solo in MidMerica, ma ovunque. C’è agitazione in
diverse Compagnie in tutto il mondo. In Australia Superiore le falci del
nuovo ordine si fanno chiamare Ordine della Doppia Lama e gli
adepti sono sempre più numerosi. In TransSiberia, la Compagnia si è
frammentata in una mezza dozzina di fazioni rivali e la Compagnia
cilargentina, anche se lo nega, è sul punto di una guerra interna.»
Tutte queste cose e altre ancora le ho dedotte da ciò che ho potuto
sentire e vedere. Sono lieto che qualcun altro abbia la visione
d’insieme della situazione, e di ciò che significa.
Noto ora le esitazioni di Anastasia: è combattuta tra le due diverse
posizioni dei suoi mentori. «Se i padri fondatori hanno ritenuto di
dover cancellare dalla memoria quel posto, forse dovremmo
rispettare la loro decisione.»
«Hanno voluto nasconderlo» interviene Munira. «Ma non
intendevano farlo sparire dalla faccia della Terra!»
«Che ne sai tu delle intenzioni dei padri fondatori!» contrattacca
Anastasia. È chiaro che le ragazze si punzecchiano, come sorelle
che si contendono l’affetto dei genitori. Un cameriere inizia a togliere
le tazze vuote dal tavolo senza chiedere loro il permesso, cosa che
per un istante disorienta Madame Curie. È abituata a un trattamento
più rispettoso, ma in abiti civili, e con i lunghi capelli argentei raccolti
in uno chignon, è solo una semplice cliente.
«Vedo che non possiamo fare nulla per convincerti a rimandare
questo viaggio» dice Madame Curie, appena il cameriere si
allontana. «E allora, cosa vuoi da noi, Michael?»
«Volevo soltanto farvelo sapere» le risponde. «Solo voi sarete al
corrente di quello che abbiamo scoperto… e solo voi conoscerete la
nostra destinazione.» Cosa che, naturalmente, non è del tutto vera.

La terza conversazione non ha molta importanza per il mondo, ma


per me sì.
Si svolge in un monastero tonista, proprio nel bel mezzo della
MidMerica, pieno zeppo di telecamere e microfoni invisibili. Anche se
i tonisti evitano le falci, non evitano me, perché proteggo il loro diritto
di esistere in un mondo in cui la maggior parte della gente
desidererebbe che non esistessero. Discutono con me meno che con
altri, ma sanno che io ci sono per loro, se e quando hanno bisogno di
me.
Oggi, una falce è andata in visita al monastero. Non è mai un buon
segno. Sono stato obbligato ad assistere al massacro di più di cento
tonisti nel loro monastero per mano di Maestro Goddard e dei suoi
discepoli, all’inizio dell’anno del Capibara. Non ho potuto fare altro
che stare a guardare, finché le mie telecamere non si sono fuse tra le
fiamme. Posso solo sperare che questa visita sia di altra natura.
La falce è il Venerando Maestro Cervantes, in precedenza della
Compagnia franco-iberica. L’ha abbandonata qualche anno fa per
aderire alla Compagnia della MidMerica. Questo mi fa sperare che
non si tratti di una spigolatura, perché è stata proprio la spigolatura
dei tonisti che lo ha spinto ad abbandonarla.
Nessuno va ad accoglierlo sotto il lungo colonnato che precede
l’ingresso del monastero. Le mie telecamere girano su loro stesse per
seguirlo, un movimento che le falci amano chiamare “il saluto muto” e
che hanno imparato a ignorare.
Continua ad avanzare come se sapesse dove andare, anche se
non è così: un atteggiamento diffuso tra le falci. Trova il centro
visitatori in cui un tonista chiamato fratello McCloud, seduto a una
scrivania, distribuisce delle brochure e offre la sua compassione alle
anime che entrano, un po’ per caso, alla ricerca del senso della vita.
Il tessuto brunastro della veste di Maestro Cervantes è molto simile al
saio di iuta color fango indossato dai tonisti. Lo rende un po’ meno
sgradevole ai loro occhi.
Fratello McCloud accoglie sempre con calore e cordialità i comuni
cittadini, meno le falci, soprattutto dopo che l’ultima in cui si è
imbattuto gli ha spezzato il braccio.
«Il motivo della sua presenza?»
«Cerco Greyson Tolliver.»
«Spiacente, non c’è nessuno che risponde a questo nome.»
Cervantes sospira. «Lo giuri sulla Grande Risonanza.»
Fratello McCloud esita. «Non sono tenuto a obbedirle.»
«Dunque» prosegue Maestro Cervantes, «il suo rifiuto di giurare
sulla Grande Risonanza mi fa capire che sta mentendo. Ora,
abbiamo due opzioni. Opzione A: possiamo passare insieme un
momento lungo e straziante, e poi troverò comunque Greyson
Tolliver; opzione B: mi porta da lui. La scelta A mi infastidisce, e potrei
spigolare uno o più di voi per avermi contrariato. La scelta B sarebbe
la migliore per tutti.»
Fratello McCloud esita ancora. In quanto tonista, non è stato
formato per prendere decisioni in autonomia. Ho notato che uno dei
vantaggi di essere tonista sta nel fatto che la maggior parte delle
decisioni viene presa dall’alto, lasciando gli adepti a condurre
un’esistenza pacifica, quasi priva di stress.
«Sto aspettando» dice Cervantes. «Tic, tac.»
«Fratello Tolliver usufruisce dell’asilo religioso» dice infine fratello
McCloud. «Lei non è autorizzato a spigolarlo.»
Cervantes sospira ancora. «No» lo corregge, «io non sono
autorizzato a portarlo via ma, dato che non gode di immunità, ho tutto
il diritto di spigolarlo, se questo fosse il motivo della mia presenza
qui.»
«Ed è questo il motivo della sua presenza qui?» chiede fratello
McCloud.
«Questo non la riguarda. Ora, mi porti da “fratello Tolliver”,
altrimenti dirò al suo curato che mi ha rivelato le segrete armonie
della vostra setta.»
La minaccia fa sprofondare fratello McCloud nel panico. Corre via,
poi ritorna con il curato Mendoza, che lancia altre minacce a
Cervantes, alle quali la falce risponde con altre ancora. E quando
infine è chiaro che Cervantes non cederà mai, il curato capitola. «Gli
chiederò se è disposto a riceverla. In caso affermativo, la
accompagnerò da lui. In caso contrario, lo difenderemo a costo della
nostra stessa vita, se necessario.»
Il curato Mendoza esce e torna qualche minuto dopo. «Mi segua.»
Greyson Tolliver aspetta la falce nella più piccola delle due
cappelle del monastero, riservata alla riflessione personale.
Sull’altare, un piccolo diapason e una conca di brodo primordiale.
«Resteremo dietro la porta, fratello Tolliver» lo rassicura il curato.
«In caso avesse bisogno di noi.»
«Bene, se ho bisogno vi chiamo» risponde Greyson, che pare aver
fretta di concludere.
Escono, chiudendo la porta. Sposto la telecamera verso il fondo
della cappella molto lentamente, per non disturbare l’incontro con il
ronzio meccanico.
Cervantes si avvicina a Greyson, inginocchiato nella seconda fila.
Non si volta nemmeno a guardare la falce. Le alterazioni corporee di
Greyson sono state rimosse e i capelli anneriti artificialmente sono
stati rasati, anche se la ricrescita ne ha ricoperto il cranio in modo
uniforme, come se fosse appena uscito dal barbiere.
«Se è qui per spigolarmi, faccia in fretta» dice. «E cerchi di evitare
troppo spargimento di sangue, così ci sarà meno da pulire.»
«Sei così impaziente di lasciare questo mondo?»
Greyson non risponde alla domanda. Cervantes si presenta e gli si
siede accanto, ma non spiega il motivo per cui è lì. Forse vuole prima
vedere se Greyson Tolliver merita la sua attenzione.
«Ho fatto delle ricerche su di te» prosegue Cervantes.
«Ha trovato qualcosa di interessante?»
«So che Greyson Tolliver non esiste. So che il tuo vero nome è
Slayd Bridger, e che hai fatto precipitare un autobus da un ponte.»
Greyson ride. «Allora ha scoperto il mio oscuro passato segreto.
Buon per lei» dice, senza preoccuparsi di contestare le false notizie
di Cervantes.
«So che sei stato coinvolto nel complotto contro Madame
Anastasia e Madame Curie» continua Cervantes, «e che Maestro
Costantino sta mettendo sottosopra la regione per trovarti.»
Greyson si volta a guardarlo per la prima volta. «Lavora per lui?»
«Non lavoro per nessuno. Lavoro per l’umanità, come tutte le
falci.» Cervantes guarda il diapason d’argento che si innalza
sull’altare davanti a loro. «A Barcellona, la mia città natale, i tonisti
danno più problemi che qui. Tendono ad attaccare le falci, cosa che ci
obbliga a spigolarli. La mia quota ha continuato a riempirsi di tonisti
che non volevo spigolare, impedendomi di fare le mie scelte. È stato
uno dei motivi per cui sono venuto in MidMerica, anche se
ultimamente mi chiedo se mi pentirò di questa decisione.»
«Perché è qui, eccellenza? Se fosse per spigolarmi, lo avrebbe già
fatto.»
«Sono qui» si decide infine Cervantes, «per espressa richiesta di
Madame Anastasia.»
In un primo momento, Greyson sembra rallegrarsene, ma la gioia
si trasforma presto in amarezza. È così amareggiato, adesso. Non
era mia intenzione lasciarlo in questo stato.
«È troppo impegnata per venire lei stessa?»
«In effetti, sì. È presa fino al collo da serie questioni di falci»
conferma Cervantes, senza aggiungere altri dettagli.
«Be’, sono qui, sono vivo e sono tra persone che si prendono cura
del mio benessere.»
«Sono venuto per proporti un passaggio per l’Amazzonia. Pare che
Madame Anastasia abbia un amico sul posto che può offrirti una vita
migliore di quella che potresti avere da tonista.»
Greyson si guarda intorno, mentre riflette sull’offerta. Poi, risponde
con una domanda retorica: «Chi le dice che voglia andarci?».
Cervantes è sorpreso. «Preferisci trascorrere la tua vita a
canticchiare invece di rifugiarti in un posto più sicuro?»
«Intonare i salmi è noioso» confessa Greyson, «ma mi sono
abituato alla routine. E le persone sono gentili.»
«Sì, gli sciocchi sanno essere piacevoli.»
«Il punto è che mi fanno sentire a casa, qui. È una sensazione che
non ho mai provato prima. Allora sì, posso canticchiare le loro
armonie, eseguire i loro stupidi rituali, perché ciò che ne ricevo in
cambio ha un grande valore per me.»
Cervantes lo schernisce. «Vivresti nella menzogna?»
«Se mi rende felice, sì.»
«Ed è così?»
Greyson riflette sulla domanda. Ci rifletto anch’io. Posso vivere
solo nella verità. Mi chiedo se vivere nella menzogna migliorerebbe il
mio assetto emotivo.
«Il curato Mendoza è convinto che anch’io possa raggiungere la
felicità come uno di loro. Dopo le cose terribili che ho fatto, la caduta
dell’autobus e tutto il resto, credo che valga la pena provarci.»
«Cosa posso fare per dissuaderti?»
«Nulla» risponde Greyson, più sicuro di quanto non lo fosse stato
un momento prima. «Consideri la sua missione compiuta. Ha
promesso a Madame Anastasia di offrirmi un passaggio in un luogo
più sicuro. Lo ha fatto. Ora, può andare.»
Cervantes si alza, rassettandosi la veste. «Allora, buona giornata,
signor Bridger.» Se ne va, spingendo con veemenza le pesanti porte
di legno. Il curato e fratello McCloud, che stavano origliando,
vengono scaraventati a terra.
Dopo che Cervantes è uscito, il curato entra nella cappella per
vedere come sta Greyson, che lo rassicura e lo manda via. «Ho
bisogno di un po’ di tempo per riflettere» dichiara, e il curato sorride.
«Ah. È l’espressione tonista per dire: “Lasciami in pace, una volta
per tutte”» risponde il curato Mendoza. «Potresti provare anche
questa: “Vorrei meditare sulla risonanza”. Funziona altrettanto bene.»
Poi esce, richiudendo le porte della cappella.
Stringo su Greyson, sperando di decifrarne l’espressione. Non ho
la capacità di leggere nel pensiero. Potrei sviluppare una tecnologia
per riuscirci, ma sarebbe una vera e propria intrusione nel privato. In
tempi come questi, vorrei poter fare di più, invece di limitarmi a
osservare. Vorrei poter comunicare.
Poi, Greyson si mette a parlare. A me.
«So che stai guardando» dice alla cappella vuota. «So che stai
ascoltando. So che hai visto tutto ciò che mi è accaduto negli ultimi
mesi.»
Si interrompe. Io resto in silenzio. Non per scelta.
Chiude gli occhi, gli scendono le lacrime e, come se si ricordasse
di un’antica preghiera dimenticata, mi implora: «Ti prego, fammi
sapere che ci sei» mi supplica. «Devo sapere che non mi hai
dimenticato. Ti prego, Thunderhead…»
Sulla sua carta d’identità lampeggia ancora la lettera L. Dovrà
mantenere lo stato di losco ancora per quattro mesi, e io non posso
rispondergli. Sono vincolato dalle mie stesse leggi.
«Ti prego» mi implora ancora, le lacrime soffocano il tentativo dei
suoi naniti emotivi di attenuarne la sofferenza. «Ti prego, dammi un
segno. Non chiedo altro. Solo un segno che non mi hai
abbandonato.»
E all’improvviso capisco che, anche se esiste una legge che mi
impedisce di comunicare direttamente con un losco, nulla mi
impedisce di ricorrere a segni e prodigi.
«Ti prego» continua a implorarmi.
E così, cedo. Mi inserisco nella rete elettrica e abbasso le luci. Non
solo nella cappella, ma in tutta Wichita. Le luci della città
lampeggiano per un secondo e tre decimi. Solo per Greyson Tolliver.
Perché sappia con certezza quanto mi preoccupo per lui, e quanto le
disgrazie che ha dovuto patire mi hanno spezzato il cuore, se avessi
un cuore capace di tanto.
Ma Greyson Tolliver non lo sa. Non vede… perché i suoi occhi
sono chiusi, troppo stretti per andare oltre la sua angoscia.
Parte sesta
ENDURA E NOD
L’isola del Cuore Duraturo, nota anche con il nome di Endura, è una straordinaria
opera d’ingegneria umana. E quando dico umana, intendo proprio questo. È stata
costruita con tecnologie che ho inventato io, progettata e realizzata interamente dagli
umani, senza che io abbia mai interferito. Suppongo che sia motivo di orgoglio per la
Compagnia aver creato un luogo così meraviglioso con le sue stesse mani.
E, come ci si potrebbe aspettare, è un monumento all’ego collettivo della
Compagnia. Il che non è necessariamente una cosa negativa. È un argomento a
favore delle architetture nate dall’anima, strutture concepite nella fornace delle
passioni biologiche. Hanno una sensibilità audace, impressionante e mozzafiato, per
quanto anche oltraggiosa, in un certo senso.
Situata nell’Atlantico, l’isola a sud-est del mar dei Sargassi e a metà strada tra
l’Africa e le Meriche, l’isola galleggiante assomiglia più a una mastodontica nave che a
un luogo geografico. Ha una struttura circolare di quattro chilometri di diametro ed è
costellata da guglie scintillanti, parchi lussureggianti e fontane spettacolari. Dall’alto,
ricorda il simbolo della Compagnia: l’occhio che non batte mai ciglio, sovrastato da una
lunga lama ricurva.
Non ho telecamere su Endura. È voluto, una conseguenza necessaria della
separazione tra falci e Stato. Ho delle telecamere-boa in tutto l’Atlantico, ma le più
vicine a Endura sono a venti miglia dalle sue coste. Vedo l’isola da lontano. Per cui,
tutto ciò che so di Endura è quello che entra e quello che esce.

Il Thunderhead
39
Panorama di predatori

Madame Anastasia e Madame Curie arrivarono su un lussuoso jet


privato della Compagnia, arredato con molta opulenza, che sembrava
più una villa tubolare che un aereo.
«Un regalo di un fabbricante di aerei» spiegò Madame Curie. «La
Compagnia riceve anche gli aerei a titolo gratuito.»
Nella manovra di avvicinamento, il jet descrisse un arco intorno
all’isola galleggiante, offrendo ad Anastasia una vista mozzafiato.
Ovunque, lussureggianti giardini si alternavano a edifici di cristallo
splendente e titanio bianco brillante. Al centro dell’isola, c’era
un’enorme laguna circolare, aperta al mare. L’“occhio” dell’isola. Era il
punto di arrivo dei sommergibili e pullulava di imbarcazioni da diporto.
Al centro dell’occhio, separato da tutto, c’era il complesso del
Consiglio mondiale delle falci, collegato alla terraferma tramite tre
ponti.
«È addirittura più impressionante che nelle foto» commentò
Anastasia.
Madame Curie si sporse per guardare fuori dal finestrino. «Ci sono
stata tante volte, eppure Endura non smette mai di emozionarmi.»
«Quante volte?»
«Forse una dozzina. Per vacanza, perlopiù. È un posto in cui
nessuno ti guarda in modo strano. Non hanno paura di noi. Non si
girano tutti a guardarci quando entriamo in una stanza. A Endura,
torniamo a sentirci esseri umani.» Ma Madame Anastasia aveva il
sospetto che anche lì la Signora della Morte fosse una celebrità.
La torre più alta, isolata su una collina, era quella del fondatore,
spiegò Madame Curie. «È la sede del Museo della Compagnia, con
la Camera delle Reliquie e dei Futuri, nonché il cuore che ha dato il
nome all’isola.»
Ancora più impressionante era una serie di sette torri identiche,
disposte a intervalli regolari intorno all’occhio centrale dell’isola. Una
per ciascuna delle Grandi Falci del Consiglio mondiale, i loro
assistenti e il nutrito personale di servizio. La sede del potere della
Compagnia era formata da una rete amministrativa, come
l’Interfaccia dell’Autorità, ma senza l’appoggio del Thunderhead a
garantirne la fluidità di funzionamento. L’amministrazione avanzava a
passo di lumaca, accumulando mesi di ritardo nella lavorazione delle
pratiche. Solo le più urgenti venivano spostate in cima alla pila, come
quella dell’inchiesta sull’elezione midmericana. Anastasia si sentiva
un po’ lusingata per aver sollevato un polverone tale da attirare
l’attenzione del Consiglio mondiale delle falci. E per il Consiglio,
un’attesa di tre mesi era come viaggiare alla velocità della luce.
«Endura è aperta a tutte le falci e ai loro ospiti» le disse Madame
Curie. «Se volessi, la tua famiglia potrebbe vivere qui.»
Anastasia provò a immaginare i suoi genitori e Ben in una città di
falci, e le venne il mal di testa.
Una volta a terra, furono accolte da Maestro Seneca, il primo
assistente di Senocrate, la cui veste grigio-bruna contrastava con lo
scenario luminoso. Anastasia si domandò quante falci midmericane
avesse portato con sé Senocrate. I suoi tre assistenti erano scontati.
Se ne avesse portate un numero eccessivo, avrebbe voluto dire che
era aumentata la necessità di apprendisti, e questo avrebbe potuto
comportare un maggior afflusso di falci del nuovo ordine.
«Benvenute sull’isola del Cuore Duraturo» le salutò Seneca, con la
solita mancanza di entusiasmo. «Vi accompagno all’hotel.»
Come il resto dell’isola, l’hotel era modernissimo, con lucidi
pavimenti di malachite verde, un gigantesco atrio cristallino e un
corposo personale di servizio per soddisfare ogni esigenza degli
ospiti.
«Mi ricorda un po’ la Città di Smeraldo» commentò Anastasia,
ripensando a una favola per bambini risalente all’era mortale.
«Sì» confermò Madame Curie, con un sorriso malizioso. «E una
volta mi sono fatta tingere gli occhi del colore della mia veste.»
Seneca fece in modo che evitassero di registrarsi alla reception,
dove si era formata una fila di impazienti falci in vacanza. Tra queste,
un uomo infuriato con una veste di piume bianche se la stava
prendendo con il personale incompetente, incapace di soddisfare le
sue richieste con la dovuta sollecitudine. Alcune falci non
sopportavano l’idea di non essere al centro dell’attenzione.
«Da questa parte» le invitò Seneca. «Manderò un fattorino a
prelevare i vostri bagagli.»
Fu nel momento in cui vide un bambino che aspettava l’ascensore
in compagnia della famiglia che Anastasia comprese ciò che aveva
notato inconsapevolmente al suo arrivo.
Il bambino indicò la porta di uno dei due ascensori e si rivolse alla
madre: «Che vuol dire “fuori servizio”?».
«Vuol dire che l’ascensore non funziona.»
Ma il bambino non riusciva ad afferrare il concetto.
«Come può non funzionare un ascensore?»
La madre, non sapendo cosa rispondere, gli diede una merendina
per distrarlo.
Anastasia ripensò al loro arrivo. L’aereo aveva fatto alcuni giri
prima di atterrare, per un probabile problema con il sistema di
controllo del traffico. E aveva notato un graffio sulla fiancata di una
publicar all’uscita del terminal. Non aveva mai visto una cosa del
genere prima. E la fila alla reception dell’hotel. Aveva sentito uno
degli addetti dire che il server delle prenotazioni “aveva dei problemi”.
Come faceva un computer ad avere dei problemi? Nel mondo che
Anastasia conosceva tutto funzionava e basta. Il Thunderhead
vigilava su quello. Non si vedeva mai un cartello FUORI SERVIZIO,
perché nell’istante in cui qualcosa smetteva di funzionare, interveniva
subito una squadra di riparatori. Nulla restava mai fuori servizio
abbastanza a lungo da giustificare un cartello.
«Che falce sei?» chiese il bambino, strascicando le parole.
Anastasia immaginò che fosse del Texas, sebbene anche in altre
parti meridionali dell’EstMerica avessero quell’accento.
«Sono Madame Anastasia.»
«Mio zio è il Venerando Maestro Howard Hughes» annunciò il
piccolo. «Così, abbiamo l’immunità! Sta dando un sinfonio su come
spigolare con un coltello Bowie.»
«Simposio» lo corresse la madre.
«Ho usato un coltello Bowie una sola volta» gli disse Anastasia.
«Dovresti usarlo di più» replicò il bambino. «Ha due lame sulla
punta. Molto efficiente.»
«Sì» concordò Madame Curie. «Di sicuro più efficiente di questi
ascensori.»
Il bimbo cominciò ad agitare la mano in aria, come se stesse
impugnando il coltello. «Da grande voglio essere una falce!»
esclamò, il che era una garanzia che non lo sarebbe mai stato. A
meno che le falci del nuovo ordine non avessero preso il controllo
della sua regione.
Un ascensore arrivò, e Anastasia fece per entrare, ma Maestro
Seneca la fermò.
«Questo sale.»
«Non saliamo?»
«Certo che no.»
Anastasia guardò Madame Curie, che non pareva minimamente
sorpresa.
«Ci mettono nello scantinato?»
Maestro Seneca rise sprezzante, senza degnarsi di rispondere.
«Dimentichi che siamo su un’isola galleggiante» sottolineò Marie.
«Almeno un terzo della città è sotto il livello del mare.»
La loro suite era al settimo piano sotto l’oceano e ospitava una
finestra panoramica che andava dal pavimento al soffitto, oltre la
quale nuotava una miriade di pesci tropicali multicolori. La vista
spettacolare era parzialmente nascosta da una figura.
«Ah, siete arrivate!» esclamò Senocrate, facendosi avanti per
salutarle.
Né Madame Curie né Madame Anastasia avevano molto in
simpatia l’ex Suprema Roncola. Anastasia non gli aveva mai
perdonato di averla accusata dell’assassinio di Maestro Faraday, ma
doveva essere diplomatica e mettere da parte i rancori personali.
«Non ci aspettavamo che venisse di persona ad accoglierci,
eccellenza eminentissima» disse Madame Curie.
L’uomo strinse loro la mano tra le sue, in quel suo modo caloroso.
«Sì, be’, non potevo ricevervi nel mio ufficio, mi avrebbero accusato
di favoritismo per la questione della nuova Suprema Roncola della
MidMerica.»
«Eppure, lei è qui» fece notare Anastasia. «Questo significa che ci
appoggia nell’inchiesta?»
Senocrate sospirò. «Ahimè, la Suprema Roncola Mondiale Kahlo
mi ha chiesto di astenermi. Ritiene che io non possa essere
imparziale, e temo che abbia ragione.» Soffermò lo sguardo su
Madame Curie e per un momento fu come se avesse abbassato le
difese. Sembrava sincero. «Tu e io non abbiamo sempre visto le cose
allo stesso modo, Marie, ma non c’è dubbio che Goddard sarebbe un
disastro. Spero davvero che tu esca vincitrice dall’inchiesta e,
sebbene non abbia diritto di voto, farò il tifo per te.»
Cosa che, pensò Anastasia, non sarebbe servita a nulla. Non
conosceva le altre sei Grandi Falci, se non per quello che le aveva
raccontato Madame Curie. Due sostenevano gli ideali del nuovo
ordine, due erano contrarie e due non si erano ancora pronunciate.
L’esito dell’inchiesta era imprevedibile.
Anastasia distolse lo sguardo dalle falci, incantata dalla vista. Era
una distrazione gradevole in quel momento. Le sarebbe piaciuto
essere come uno di quei pesci, non avere nessuna preoccupazione
se non sopravvivere e confondersi nel banco. Essere parte del tutto,
piuttosto che un singolo individuo in un mondo divenuto ostile.
«Impressionante, non è vero?» disse Senocrate, andando a
mettersi di fianco a lei. «Endura funge da barriera corallina artificiale
e la vita marina nel raggio di venti miglia brulica di naniti che ci
consentono di controllarla.» Prese un tablet dalla parete. «Osserva.»
Diede qualche colpetto, e i pesci variopinti si allontanarono come un
sipario che si apre. In un attimo, l’oceano davanti ai loro occhi si
riempì di meduse, ingannevolmente pacifiche, mentre ondulando si
avvicinavano all’enorme vetrata. «Puoi cambiare il panorama vivente
come preferisci.» Senocrate le porse il tablet. «Tieni, provaci.»
Anastasia prese il tablet e mandò via le meduse. Poi, nel menu,
trovò quello che stava cercando. Uno squalo si fece avanti, seguito
da un altro e un altro ancora, fino a riempire tutta la vetrata. Un
enorme squalo tigre catturò l’attenzione dei presenti e, mentre
passava loro davanti, li fissò con occhi di ghiaccio.
«Ecco» disse Anastasia. «Una visione molto più precisa della
nostra situazione attuale.»
La Grande Falce Senocrate non pareva divertita. «Nessuno ti
taccerà mai di ottimismo, Citra Terranova» ribatté, rivolgendosi a lei
con il suo nome di origine, come se fosse un insulto. Distolse lo
sguardo dalla vetrata piena di squali. «Ci vediamo domani per
l’inchiesta. Nel frattempo, vi ho organizzato una visita privata della
città e per la serata vi ho prenotato due ottime poltrone all’opera.
Aida, credo.»
E, sebbene né Anastasia né Marie fossero nello stato d’animo
adatto, non declinarono l’offerta.
«Forse una giornata di piacevoli distrazioni è quello che ci serve»
concluse Marie, dopo che Senocrate se ne fu andato. Poi, prese il
tablet dalle mani di Anastasia e fece disperdere il panorama di
predatori.

Dopo aver lasciato Madame Anastasia e Madame Curie, sua


eccellenza eminentissima la Grande Falce Senocrate esaminò con lo
sguardo il suo dominio dall’attico, dotato di pareti e tetto di vetro, in
cima al grattacielo nordmericano, che aveva ricevuto con il suo nuovo
mandato di Grande Falce. Era una delle sette residenze con le
stesse caratteristiche, una per ciascuna delle Grandi Falci, tutte
situate all’ultimo piano dei grattacieli che circondavano l’occhio
centrale di Endura. Dal cuore dell’occhio arrivavano e partivano
sottomarini di lusso; i taxi acquatici traghettavano la gente da una
parte all’altra; le imbarcazioni da diporto andavano e venivano.
Adocchiò su una moto d’acqua una falce con la veste, il che non era
affatto una buona idea. Il tessuto fece da vela, sollevando l’uomo
dalla sella e lanciandolo in acqua. Che idiota. La Compagnia era
afflitta dagli idioti. Magari erano saggi, ma il buonsenso era una
caratteristica del tutto assente.
Il sole entrava dalla vetrata del tetto e Senocrate chiese al
maggiordomo di abbassare le tende. Ma la tenda che avrebbe dovuto
schermare il sole non funzionava e far intervenire un tecnico era
quasi impossibile, anche per una Grande Falce.
«È una cosa recente» gli spiegò il maggiordomo. «Dal suo arrivo,
le cose non funzionano più come dovrebbero.» Come se quella serie
di malfunzionamenti fosse colpa di Senocrate.
Aveva ereditato il maggiordomo dalla Grande Falce Hemingway.
Solo le falci agli ordini di Hemingway avevano dovuto autospigolarsi
con lui; il personale di servizio era rimasto lo stesso. Si garantiva in
quel modo una certa continuità, anche se Senocrate aveva in mente
di rimpiazzarlo, per non avere sempre la sgradevole sensazione di
essere paragonato al precedente datore di lavoro.
«Trovo ridicolo che il tetto di questa residenza sia fatto di vetro» si
lamentò Senocrate, per l’ennesima volta. «Ho l’impressione di essere
sempre in mostra agli aerei e agli zaini a razzo che passano.»
«Sì, ma i pinnacoli che con il loro aspetto cristallino svettano sui
grattacieli sono belli, no?»
Senocrate sbuffò. «La forma non dovrebbe rispondere a una
funzione?»
«Non nella Compagnia» rispose il maggiordomo.
Senocrate aveva raggiunto il picco splendente del mondo. Il
culmine di tutte le ambizioni della sua vita. Eppure, anche in quel
momento, stava già pensando al suo prossimo traguardo. Un giorno,
sarebbe stato nominato Suprema Roncola Mondiale; avrebbe però
dovuto aspettare che tutte le altre Grandi Falci si autospigolassero.
Anche in quella nuova alta carica, ritrovava un senso di umiltà che
non si era aspettato. Dalla posizione di falce più potente della
MidMerica, era entrato nel Consiglio mondiale, ma come ultimo
arrivato; sebbene le altre sei Grandi Falci avessero approvato la sua
nomina, non era certo detto che fossero disposte a trattarlo come un
loro pari. Anche a quel livello così elevato, aveva degli obblighi da
adempiere e il rispetto da guadagnarsi.
Al momento della sua conferma, per esempio, il giorno dopo che
Maestro Hemingway e i suoi assistenti si erano autospigolati, la
Suprema Roncola Mondiale Kahlo aveva espresso una lapidaria
osservazione nei confronti di Senocrate davanti a tutte le altre Grandi
Falci.
«Quel tessuto così pesante deve essere un bel fardello» gli aveva
detto, alludendo alla veste. «Soprattutto, a queste latitudini.» Poi,
aggiunse, con un abbozzo di sorriso: «Devi trovare il modo di levarne
un po’».
Naturalmente, non si stava riferendo a un tessuto più leggero per la
veste, ma al fatto che ne servisse una grande quantità per vestirlo.
Era diventato tutto rosso, e Kahlo aveva riso.
«Sembri un cherubino, Senocrate.»
Quella sera, aveva chiamato un esperto del benessere per farsi
regolare i naniti e accelerare il metabolismo. Quando era Suprema
Roncola della MidMerica, gli era convenuto mantenere un buon peso.
Aveva un aspetto imponente, e il peso lo rendeva maestoso. Ma lì,
tra le Grandi Falci, si sentiva come un bambino obeso, l’ultima scelta
di una squadra sportiva.
«Se configuriamo il metabolismo al massimo, le ci vorranno dai sei
ai nove mesi per raggiungere il peso ideale» gli aveva spiegato
l’esperto. Troppo tempo, data la sua scarsa pazienza, ma non aveva
molta scelta. Be’, almeno non doveva frenare l’appetito né fare
esercizio, come accadeva nell’era mortale.
Mentre rifletteva sulla lentezza con cui avrebbe visto ridursi
l’addome e sulle bizzarrie delle falci in vacanza, il maggiordomo
tornò, un po’ agitato.
«Mi scusi, eccellenza eminentissima. Ha una visita.»
«È qualcuno che voglio vedere?»
Il pomo d’Adamo del maggiordomo sobbalzò visibilmente. «È
Maestro Goddard.»
Era l’ultima persona che aveva voglia di vedere. «Digli che sono
occupato.»
Ma, prima che il maggiordomo potesse andare a riferire il
messaggio, Goddard irruppe nella stanza. «Eccellenza
eminentissima!» lo salutò con giovialità. «Spero di non essere
arrivato in un momento inopportuno.»
«Sì, invece» commentò Senocrate. «Ma è già qui, per cui non c’è
nulla che io possa fare.» Congedò il maggiordomo con un gesto della
mano, rassegnato a non poter evitare quell’incontro. Com’era il detto
dei tonisti? “Non c’è modo di evitare ciò che deve accadere.”
«Non ho mai visto l’appartamento di una Grande Falce» disse
Goddard, passeggiando per il soggiorno, esaminando ogni cosa,
dagli arredi alle opere d’arte. «È entusiasmante!»
Senocrate non aveva tempo per le fesserie. «Volevo farti sapere
che, quando sei riapparso, ho fatto in modo che Esme e sua madre si
rifugiassero in un luogo sicuro dove tu non potrai trovarle. Quindi, se
il tuo obiettivo è usarle contro di me, non funzionerà.»
«Ah sì, Esme» disse Goddard, come se si ricordasse di lei per la
prima volta dopo un’eternità. «Come sta la tua adorata figliola?
Cresce come una pianta infestante, immagino. O più come un
cespuglio. Quanto mi manca!»
«Perché sei qui?» chiese Senocrate, infastidito dalla presenza di
Goddard. E da quel sole accecante che lo costringeva a strizzare gli
occhi, e dall’aria condizionata che faceva a modo suo.
«Per rivendicare il giusto tempo di parola, eccellenza
eminentissima. So che hai incontrato Madame Curie, stamattina. Mi è
parso che fosse un po’ di parte incontrare lei e non me.»
«Ti è parso di parte perché lo è» confermò Senocrate. «Non mi
piacciono le tue idee né le tue azioni, Goddard. Non intendo più
nasconderlo.»
«Eppure, ti sei ricusato dall’inchiesta di domani.»
Senocrate sospirò. «È stata la Suprema Roncola Mondiale a
chiedermelo. Ora, ti ripeto la domanda, perché sei qui?»
Ancora una volta, Goddard si concesse il lusso di girare intorno alla
questione. «Volevo solo porgere i miei rispetti e scusarmi per la
mancanza di tatto che ho talvolta dimostrato in passato. Per ripartire
con il piede giusto, noi due.» Poi, aprì le braccia, con i palmi rivolti
verso il cielo, in un gesto estatico, in modo che Senocrate ammirasse
il suo nuovo corpo. «Come vedi, sono un uomo cambiato. E, se
diventerò Suprema Roncola della MidMerica, sarà nell’interesse di
entrambi essere in buoni rapporti.»
Goddard si piazzò davanti all’immensa vetrata ricurva come
Senocrate aveva fatto pochi minuti prima. Ammirò il panorama, come
se tutto ciò che vedeva sarebbe stato suo, un giorno. «Mi piacerebbe
sapere quali venti soffiano nel Consiglio» disse.
«Non lo sai?» ironizzò Senocrate. «Il vento non soffia a queste
latitudini.»
Goddard lo ignorò. «So che la Suprema Roncola Mondiale Kahlo e
la Grande Falce Cromwell non appoggiano gli ideali del nuovo ordine,
al contrario delle Grandi Falci Hideyoshi e Amundsen…»
«Se lo sai già, perché me lo chiedi?»
«Perché le Grandi Falci Nzinga e MacKillop non hanno ancora
espresso la loro opinione al riguardo. Spero che tu voglia mettere una
buona parola.»
«E perché dovrei farlo?»
«Perché» rispose Goddard, «nonostante il tuo egocentrismo, so
che sei, nel profondo del tuo cuore, una falce onorevole. E il dovere
di un uomo d’onore è servire la giustizia.» Fece un passo verso
Senocrate. «Sai bene quanto me che questa inchiesta non è stata
affatto avviata all’insegna dello spirito di lealtà. Credo che con le tue
formidabili qualità di diplomatico potrai persuadere i membri del
Consiglio a mettere da parte le loro convinzioni personali per
prendere una decisione giusta e obiettiva.»
«Perché, lasciare che tu sia nominato Suprema Roncola della
MidMerica dopo un anno di assenza e per giunta con solo il 7 per
cento di ciò che resta di te sarebbe giusto e obiettivo?»
«Non chiedo questo… Chiedo solo di non essere escluso prima
che i voti siano conteggiati. Lasciamo che la Compagnia
midmericana si esprima. Che la sua decisione sia rispettata,
qualunque essa sia.»
Senocrate sospettava che Goddard fosse così magnanimo solo
perché in un modo o nell’altro sapeva di aver vinto l’elezione.
«È tutto?» chiese Senocrate. «È tutto qui quello che dovevi dirmi?»
«Veramente, no» rispose Goddard, e finalmente arrivò allo scopo
della sua visita. Invece di parlare, infilò la mano in una tasta interna
della veste ed estrasse un’altra veste piegata e annodata in un
fiocco, come se fosse un regalo. La lanciò a Senocrate. Era nera. La
veste di Maestro Lucifero.
«Tu… tu l’hai catturato?»
«Non solo l’ho catturato, ma l’ho portato qui a Endura perché
venga processato.»
Senocrate strinse la veste. A Rowan aveva lasciato intendere che
non gli importava se lo avessero preso o no. Era vero: una volta
saputo che stava per diventare una Grande Falce, la cattura di
Rowan gli era sembrata una questione insignificante. Meglio lasciarla
al suo successore. Ma ora che lo aveva Goddard, cambiava tutto.
«È mia intenzione portarlo davanti al Consiglio alla seduta di
domani, come gesto di buona volontà» dichiarò Goddard. «La mia
speranza è che possa essere un fiore all’occhiello per te, e non una
spina nel fianco.»
A Senocrate non piacque quel discorso. «Che cosa intendi?»
«Be’, da un lato, potrei dire al Consiglio che sono stati i tuoi sforzi a
permettermi di catturarlo. Che stavo lavorando secondo le tue
direttive.» Poi, spinse un fermacarte su un tavolo, facendolo
dondolare avanti e indietro. «Oppure, potrei puntare il dito
sull’apparente incompetenza della tua indagine… Ma è stata davvero
incompetenza? Dopotutto, Maestro Costantino è considerato il miglior
investigatore di tutte le Meriche… e il fatto che Rowan Damisch ti
abbia fatto visita ai tuoi bagni pubblici preferiti induce a pensare come
minimo a una collusione tra voi due, se non a un’amicizia. Se poi la
gente sapesse di quell’incontro, potrebbe ipotizzare, tra le altre cose,
che ci sia tu dietro tutti questi crimini, fin dall’inizio.»
Senocrate prese un profondo respiro. Si sentiva come se avesse
ricevuto un pugno in pieno stomaco. Riusciva già a vedere Goddard
che lo cancellava con un tratto di penna. Poco importava che la visita
fosse stata un’iniziativa di Damisch e che lui non avesse fatto
assolutamente nulla di male. L’insinuazione era sufficiente per
screditarlo.
«Esci di qui!» gridò Senocrate. «Vattene, prima che ti scaraventi
fuori dalla finestra!»
«Oh, sì, per favore!» esclamò Goddard, divertito. «Questo mio
corpo adora saltare nel vuoto!»
Senocrate non si mosse e Goddard scoppiò a ridere. Non una
risata fredda, crudele, ma una risata di cuore. Amichevole. Afferrò la
Grande Falce per la spalla e la scosse un po’, come se fossero
vecchi amici.
«Non ti devi preoccupare» lo rassicurò. «Qualsiasi cosa accadrà
domani, non ti accuserò di nulla e non racconterò a nessuno della
visita di Rowan. Ti confesso che, per precauzione, ho già spigolato
l’inserviente dei bagni pubblici che stava diffondendo la voce. Stai
tranquillo, che l’inchiesta mi sia favorevole o no, il tuo segreto è al
sicuro perché, malgrado quello che pensi di me, anch’io sono un
uomo d’onore.»
Detto questo, Goddard uscì con passo disinvolto. Anzi,
pavoneggiandosi. Un effetto della memoria muscolare del giovane di
cui aveva preso il corpo.
Senocrate capì che Goddard non mentiva. Avrebbe tenuto fede
alla sua parola. Non lo avrebbe denigrato né avrebbe rivelato al
Consiglio che aveva lasciato andare Rowan Damisch. Lo scopo di
Goddard non era ricattarlo, ma semplicemente fargli sapere che
avrebbe potuto…
Il che voleva dire che anche lì, all’apice della Compagnia, in cima
al mondo, Senocrate non era altro che un insetto che Goddard
teneva con cura tra dita non sue.

La guida che faceva visitare i più bei posti dell’isola a Madame Curie
e Madame Anastasia viveva su Endura da oltre ottant’anni. Si
vantava di non avere mai lasciato nemmeno un giorno l’isola
galleggiante per tutto quel tempo. «Quando si trova il paradiso, che
senso ha andare a cercarlo altrove?» diceva.
Anastasia era sbalordita da ciò che vedeva. Sontuosi giardini su
colline terrazzate che sembravano paesaggi naturali, passerelle
aeree che univano i numerosi grattacieli e passeggiate sottomarine di
vetro – ognuna circondata da un proprio ecosistema di vita marina –
che collegavano un edificio all’altro nel ventre dell’isola.
Nel Museo della Compagnia si trovava la Camera del Cuore
Duraturo. Anastasia ne aveva sentito parlare, ma fino a quel
momento non aveva mai creduto che esistesse davvero. Il cuore, che
galleggiava in un cilindro di vetro, era collegato a elettrodi fusi
biologicamente. Batteva a un ritmo regolare che un impianto di
amplificazione diffondeva nella sala, perché tutti potessero udirlo.
«Si potrebbe dire che Endura è viva, perché ha un cuore» affermò
la guida. «Questo cuore è l’organo umano vivente più antico della
Terra. Cominciò a battere nell’era mortale, verso l’inizio del
ventunesimo secolo, durante le prime sperimentazioni
dell’immortalità, e da allora non si è più fermato.»
«Di chi è il cuore?» chiese Anastasia.
La guida rimase di stucco, come se non le avessero mai fatto
quella domanda. «Non lo so. Probabilmente, un soggetto preso a
caso, immagino. L’era mortale è stata un’epoca barbarica. Agli inizi
del ventunesimo secolo non si poteva nemmeno attraversare la
strada senza rischiare di venire rapiti per essere sottoposti alla
sperimentazione.»
Ma per Anastasia, il momento più emozionante della visita fu la
Camera delle Reliquie e dei Futuri. Non era un luogo aperto al
pubblico, anche le falci dovevano avere un permesso speciale da una
Suprema Roncola o una Grande Falce per poterla visitare, permesso
che fu loro concesso.
Era una sala cubica di acciaio, sospesa magneticamente all’interno
di un cubo più grande, come una scatola rompicapo. Era accessibile
tramite uno stretto ponte retraibile.
«Per il progetto della sala centrale si sono ispirati al caveau di una
banca dell’era mortale» spiegò la guida. «Le quattro pareti in acciaio
massiccio sono spesse trenta centimetri. La porta da sola pesa quasi
due tonnellate.» Mentre attraversavano il ponte per entrare nella
camera più interna, la guida ricordò loro che non era permesso
scattare foto. «La Compagnia è molto rigorosa su questo punto. Fuori
da tali mura, questo luogo deve esistere solo nella memoria.»
La camera interna misurava sei metri quadrati. Un lato era allestito
con dei manichini d’oro che indossavano antiche vesti da falci. Una di
seta variopinta ricamata, un’altra di raso blu cobalto, un’altra ancora
di un leggero pizzo d’argento… tredici in totale. Anastasia soffocò un
grido di stupore. Non poté farne a meno, perché le aveva
riconosciute dai suoi studi di storia. «Sono le vesti dei padri
fondatori?»
La guida sorrise e proseguì, indicandole una a una. «Da Vinci,
Gandhi, Saffo, King, Laozi, Lennon, Cleopatra, Powhatan, Jefferson,
Gershwin, Elisabetta, Confucio, e, naturalmente, la Suprema Roncola
Mondiale Prometeo! Le vesti di tutti i padri fondatori sono conservate
qui!» Anastasia notò con soddisfazione che ogni falce di sesso
femminile aveva un solo nome, come lei.
Anche Madame Curie rimase sbalordita di fronte a quello
spettacolo. «Trovarsi al cospetto di una tale grandezza lascia davvero
senza fiato!»
Anastasia era così incantata dalle vesti dei padri fondatori che le ci
vollero alcuni secondi prima di accorgersi di ciò che era esposto sulle
altre tre pareti.
Diamanti! File e file di diamanti. La sala scintillava di tutti i colori
dello spettro rifratti dalle gemme. Si trattava delle pietre che erano
state montate sugli anelli delle falci, tutte della stessa forma e
dimensione e tutte avevano lo stesso nucleo scuro.
«Le pietre sono state tagliate dai padri fondatori e sono conservate
qui» spiegò la guida. «Nessuno sa come siano state fabbricate; la
Compagnia ha perso memoria della tecnologia. Ma è inutile
preoccuparsi, ci sono abbastanza gemme per adornare quasi
quattrocentomila falci.»
“Abbiamo davvero bisogno di quattrocentomila falci?” si interrogò
Anastasia.
«Perché hanno quell’aspetto?» chiese invece.
«Di sicuro i padri fondatori lo sapevano» rispose allegramente la
guida, eludendo la domanda. Poi, cercò di impressionarle
descrivendo in dettaglio il meccanismo di chiusura della camera.
Per concludere la giornata, Madame Curie e Madame Anastasia
andarono al teatro dell’opera di Endura per assistere a una
rappresentazione dell’Aida di Verdi. Non c’era nessun pericolo che
venissero eliminate né c’erano vicini pronti a adularle. In effetti, molti
dei presenti erano falci in vacanza, cosa che le obbligò a superare lo
sbarramento delle voluminose vesti per raggiungere i loro posti.
La musica era estasiante e drammatica. Riportò subito Anastasia
all’unica opera a cui aveva assistito, anche quella volta di Verdi. La
sera che aveva conosciuto Rowan. Era stato Maestro Faraday a farli
incontrare. Non aveva pensato nemmeno per un istante che le
avrebbe chiesto di diventare sua apprendista; Rowan invece lo
sapeva, o almeno lo sospettava.
L’opera era facile da seguire: un amore impossibile tra un
comandante militare egizio e la regina di un paese nemico, che si
concludeva con l’eterna sepoltura dei due. Molte storie dell’era
mortale finivano con la morte. Era come se fossero perennemente
ossessionati dalla limitatezza della loro vita. Be’, almeno la musica
era bella.
«Sei pronta per domani?» chiese Marie, mentre scendevano la
scala del teatro, al termine della rappresentazione.
«Sono pronta a difendere la nostra causa» rispose Anastasia,
sottolineando il fatto che non era solo la sua causa, ma la loro. «Non
sono sicura, però, di essere pronta ad affrontarne il possibile esito.»
«Anche se l’inchiesta avesse esito negativo, potrei ottenere un
numero sufficiente di voti per aspirare a diventare Suprema
Roncola.»
«Immagino che lo sapremo presto.»
«Comunque vada, la prospettiva è entusiasmante. Non ho mai
desiderato diventare Suprema Roncola della MidMerica. Be’, forse da
giovane, all’epoca in cui brandivo la mia daga per sgonfiare l’ego dei
potenti. Ma ora non più.»
«Quando Maestro Faraday prese Rowan e me come apprendisti, ci
disse che il non desiderare la missione era il primo segnale del fatto
che la meritavamo.»
Marie sorrise, malinconica. «Siamo sempre vittime della nostra
saggezza.» Poi, il suo sorriso si spense. «Se sarò Suprema Roncola,
sai che, nell’interesse della Compagnia, dovrò catturare Rowan e
consegnarlo alla giustizia.»
E, sebbene l’addolorasse più di quanto potesse esprimere a
parole, Anastasia assentì con stoica rassegnazione. «Se è la tua
giustizia, allora lo accetterò.»
«Le nostre scelte non sono facili né devono esserlo.»
Anastasia volse lo sguardo sull’oceano e osservò il riverbero della
luna che giocava sulle onde, fino in fondo all’orizzonte. Non si era
mai sentita così lontana da se stessa come in quel momento. Né così
lontana da Rowan. Così lontana da non riuscire nemmeno a contare i
chilometri che li separavano. Forse perché non ce n’erano.

Nella casa delle vacanze di Maestro Brahms, non lontano dal teatro
dell’opera, Rowan era stato portato in uno scantinato ammobiliato
con la vista sulle profondità marine.
«È un trattamento molto migliore di quello che ti meriti» gli aveva
detto Goddard, quando erano arrivati quella mattina. «Domani, ti
consegnerò alle Grandi Falci e, con il loro permesso, ti spigolerò con
la stessa ferocia con cui mi hai tagliato la testa.»
«Non sono ammesse spigolature a Endura» gli aveva ricordato
Rowan.
«Per te, di sicuro faranno un’eccezione.»
Quando Goddard se ne era andato, dopo averlo chiuso dentro,
Rowan si era seduto e aveva fatto il bilancio della sua vita.
La sua infanzia non era stata niente di speciale, attraversata da
momenti di intenzionale mediocrità, nel tentativo di non farsi notare.
Come amico, era straordinario. Pensava di essere un passo avanti
agli altri quando si trattava di prendere la decisione giusta, anche
quando la decisione giusta era stupida, e spesso lo era, altrimenti
non si sarebbe trovato nei guai fino al collo come in quel momento,
per esempio.
Non era pronto a lasciare questo mondo, ma dopo aver affrontato
la morte così tante volte negli ultimi mesi, non aveva più paura
dell’eternità. Voleva vivere abbastanza solo per vedere Goddard
annientato una volta per tutte ma, se questo non fosse stato
possibile, allora gli stava bene finirla lì. Così, si sarebbe risparmiato le
filosofie distorte con cui Goddard avrebbe sottomesso il mondo. Non
rivedere Citra, invece… quello sarebbe stato molto più difficile.
Ma l’avrebbe vista. Citra sarebbe stata presente all’inchiesta.
L’avrebbe vista e lei avrebbe assistito alla sua spigolatura per mano
di Goddard. Perché di sicuro faceva parte del suo piano obbligarla ad
assistervi. Per ferirla, per distruggerla per sempre. No, non l’avrebbe
distrutta. La Veneranda Madame Anastasia era molto più tenace di
quanto Goddard immaginasse. Semmai, sarebbe solo servito a
rafforzarne la determinazione.
Si era ripromesso che al momento della sua spigolatura le avrebbe
sorriso, strizzandole l’occhio, come per dirle: “Goddard può
uccidermi, ma non può farmi soffrire”. E quello sarebbe stato l’ultimo
ricordo che le avrebbe lasciato. Un atteggiamento di sfida, ascetico,
imperturbabile.
Negare a Goddard la soddisfazione di vederlo in preda al terrore
sarebbe stato gratificante almeno quanto sopravvivere.
Quando ho assunto il comando della Terra e ho istituito un governo mondiale pacifico,
ho dovuto prendere delle decisioni difficili. Per la salute mentale dell’umanità, ho
deciso di eliminare le sedi tradizionali del potere dalla lista delle destinazioni possibili.
Come il Distretto di Columbia.
Non ho distrutto la città, un tempo illustre, perché sarebbe stato un gesto vile e
crudele. Invece, ho semplicemente lasciato che si spegnesse da sola, a poco a poco,
con una politica di benevola indifferenza.
Nel corso della storia, le civiltà cadute si sono lasciate alle spalle rovine che sono
state assimilate nel paesaggio per poi essere riscoperte secoli dopo, trasformandosi in
vestigia quasi mitiche. Ma che ne è delle istituzioni e degli edifici di una civiltà che non
cade, ma si evolve oltre ogni vergogna? Quegli edifici, e le idee obsolete che
rappresentavano, devono perdere il loro potere perché l’evoluzione abbia un seguito.
Quindi, ho trattato con indifferenza Washington, Mosca, Pechino e tutte le altre città
considerate simboli di potere nell’era mortale, come se non avessero più nessuna
importanza per il mondo. Sì, le osservo ancora e sono sempre disponibile, se
qualcuno avesse bisogno di me in quei luoghi, ma faccio lo stretto necessario per
sostenere la vita, nient’altro.
Potete stare tranquilli che non sarà sempre così. Conservo ancora planimetrie
dettagliate e immagini di com’erano quei celebri luoghi prima del loro declino. Il mio
programma di restaurazione totale inizierà tra settantatré anni e, secondo i miei calcoli,
coinciderà con il momento in cui il loro significato storico prenderà il sopravvento sulla
loro importanza simbolica agli occhi dell’umanità.
Nel frattempo, i musei sono stati spostati, le strade e le infrastrutture vanno in
rovina, i parchi e gli spazi verdi sono tornati allo stato selvaggio.
Tutto ciò affinché venisse compreso il semplice concetto che i governi umani – che
si tratti di dittature, monarchie o democrazie del popolo e per il popolo – dovevano
essere cancellati dalla faccia della Terra.

Il Thunderhead
40
Sapere è po…

Mentre Madame Anastasia e Madame Curie passavano la giornata a


visitare Endura, a tremila chilometri a nord-est, Munira e Maestro
Faraday attraversavano una strada crivellata di buche e invasa dalle
erbacce. Si dirigevano verso quella che un tempo era stata la più
grande e la più fornita biblioteca del mondo. L’edificio stava crollando
a poco a poco, e i volontari che se ne occupavano non riuscivano a
tenere il passo con le riparazioni. I trentotto milioni di volumi erano
stato digitalizzati nel Thunderhead oltre duecento anni prima, quando
il Cloud e la sua coscienza stavano ancora crescendo. Quando era
divenuto il Thunderhead, tutto ciò che conteneva la Biblioteca del
Congresso era stato già integrato nella sua memoria. Ma poiché la
digitalizzazione era stata effettuata da esseri umani, potevano essersi
verificati degli errori… e anche qualche sabotaggio. Era su questo
che contavano Munira e Maestro Faraday.
Come la Biblioteca di Alessandria, aveva un grande atrio in cui
Parvin Marchenoir, l’attuale e probabilmente l’ultimo bibliotecario del
Congresso, li accolse.
Faraday lasciò parlare Munira e si fece da parte, non voleva essere
riconosciuto. Non che lì fosse molto famoso, ma forse Marchenoir era
più mondano del tipico estmericano.
«Buongiorno» lo salutò Munira. «La ringraziamo per il tempo che ci
dedica, signor Marchenoir. Sono Munira Atrushi e questo è il
professor Herring, dell’Università di Israebia.»
«Benvenuti» rispose l’uomo, chiudendo a doppia mandata la
grande porta di ingresso alle loro spalle. «Perdonate lo stato
dell’edificio. Tra le perdite dal tetto e le scorribande dei loschi, non
siamo più la biblioteca di un tempo. Vi hanno importunato per strada,
per caso? Intendo dire i loschi.»
«Si sono mantenuti a distanza» rispose Munira.
«Bene. La città attrae i loschi, sapete. Vengono, perché pensano
che qui non ci sia la legge. Be’, si sbagliano. La legge c’è, come in
qualsiasi altro luogo, è solo che il Thunderhead non dedica molto
tempo a farla rispettare. Non abbiamo nemmeno un ufficio
dell’Interfaccia dell’Autorità, da non crederci… Oh, ma abbiamo tanti
centri di rianimazione, perché la gente muore temporaneamente di
continuo…»
Munira cercò di intervenire, ma Marchenoir la travolse con la sua
parlantina.
«… Perché appena un mese fa, mi sono preso in testa una pietra
caduta dall’antico castello della Smithsonian Institution, sono morto e
ho perso quasi venti ore di ricordi, perché il Thunderhead non mi
faceva la copia di sicurezza della memoria dal giorno prima… è
negligente anche in questo! Me ne sono lamentato, mi dice che mi
ascolta e che ho tutta la sua comprensione, ma cambia qualcosa,
forse? No!»
Munira avrebbe voluto domandargli perché ci restava se non gli
piaceva, ma sapeva già la risposta. Ci restava perché la più grande
gioia della sua vita era lamentarsi. Non era poi così diverso dai loschi
per strada. Le venne quasi da ridere perché, anche se lasciava la
città sull’orlo della rovina, il Thunderhead garantiva comunque le
condizioni di cui alcune persone avevano bisogno.
«E non fatemi parlare della qualità del cibo in questa città!»
proseguì Marchenoir.
«Stiamo cercando delle mappe» s’intromise Munira, riuscendo a
distrarlo dalla sua invettiva.
«Mappe? Il Thunderhead ne è pieno. Siete venuti fin qui per
cercare una mappa?»
Alla fine, Faraday parlò, avendo capito che Marchenoir era così
preso dalle sue vicissitudini che non avrebbe notato una falce morta
nemmeno se fosse venuta a spigolarlo. «Riteniamo che ci siamo
alcune… incongruenze tecniche. Cerchiamo i volumi originali e
intendiamo redigere un articolo accademico al proposito.»
«Bene, se ci sono incongruenze, non è colpa nostra» dichiarò
Marchenoir, mettendosi sulla difensiva. «Eventuali errori di
digitalizzazione si saranno verificati oltre duecento anni fa, e temo
che i volumi originali non siano più conservati nella biblioteca.»
«Un momento, ci sta dicendo che l’unico posto al mondo che
dovrebbe conservare le copie cartacee dell’era mortale non lo fa?»
chiese Munira.
Marchenoir indicò le pareti. «Si guardi intorno. Vede dei libri, per
caso? Le copie cartacee di valore storico sono state trasferite e
suddivise in diversi posti più sicuri. E le altre rappresentavano solo un
rischio di incendio.»
Guardandosi intorno e lanciando occhiate anche nei corridoi
adiacenti, Munira si accorse che in realtà gli scaffali erano tutti vuoti.
«Se non conservate i libri originali, allora a che serve un posto come
questo?» domandò.
L’uomo gonfiò il petto e assunse un’espressione indignata.
«Conserviamo l’idea.»
Munira avrebbe continuato a dirgli come la pensava, ma Maestro
Faraday la fermò. «Stiamo cercando dei libri che sono stati messi…
fuori posto.»
Il bibliotecario fu preso alla sprovvista. «Non so di cosa stia
parlando.»
«Io credo di sì» insistette Maestro Faraday.
L’altro lo guardò meglio. «Chi ha detto di essere?»
«Redmond Herring, dottore di ricerca, professore associato di
cartografia archeologica presso l’Università di Israebia.»
«Ha un’aria familiare…»
«Avrà forse visto uno dei miei interventi sulle controversie territoriali
in Medio Oriente dell’era mortale.»
«Sì, sì, dev’essere così.» Marchenoir gettò un’occhiata vagamente
paranoica nell’atrio prima di riprendere a parlare. «Se esistono libri
fuori posto, e non sto dicendo che sia così, nessuno deve sapere che
si trovano qui. I collezionisti privati ci si fionderebbero o verrebbero
bruciati dai loschi.»
«Comprendiamo alla perfezione la necessità di una discrezione
assoluta» affermò Faraday con un tono talmente rassicurante che
Marchenoir parve soddisfatto.
«Bene, allora. Seguitemi.» Li condusse attraverso un arco con le
parole SAPERE È PO incise nel granito. La pietra su cui erano scolpite le
lettere TERE doveva essersi ridotta in polvere da molto tempo.
Scesero una scala e, in fondo a un corridoio, ne scesero un’altra
ancora più antica che li condusse davanti a una porta arrugginita.
Marchenoir afferrò una delle due torce appoggiate su una mensola e
spinse la porta, che fece resistenza alla forza del suo peso. Alla fine,
cedette e si aprì su ciò che a prima vista pareva una specie di
catacomba, ma senza ossa umane appese alle pareti. Era un tunnel
buio di cemento che svaniva nell’oscurità più totale.
«Il tunnel Cannon» spiegò Marchenoir. «In questa parte della città,
si diramano tunnel in ogni direzione. Suppongo che venissero usati
dai legislatori e dai loro assistenti per spostarsi senza essere visti
dalle orde sanguinarie dell’era mortale.»
Munira prese la seconda torcia e fece luce intorno. Le pareti del
tunnel erano ricoperte da pile di libri.
«È solo una piccola parte della collezione originale, naturalmente»
proseguì Marchenoir. «Non hanno più uno scopo pratico, dato che
sono disponibili al pubblico in versione digitale. Ma c’è qualcosa di…
terreno… quando si tiene un libro tra le mani che è stato toccato da
umani mortali. Immagino che sia per questo che li conserviamo.»
Consegnò la torcia a Maestro Faraday. «Spero che troviate ciò che
state cercando.» Poi aggiunse: «Attenzione ai ratti» e li lasciò soli,
tirandosi dietro la pesante porta.

Ben presto, scoprirono che i volumi erano impilati senza un ordine


particolare. Era come se fosse una collezione di tutti i libri del mondo
che non avevano un posto.
«Se non mi sbaglio» disse Maestro Faraday, «i padri fondatori
hanno inserito un verme nel Cloud mentre si stava evolvendo nel
Thunderhead. Un verme che avrebbe sistematicamente cancellato
dalla memoria qualsiasi riferimento all’angolo morto del Pacifico,
comprese le mappe.»
«Un tarlo» scherzò Munira.
«Sì» confermò Faraday, «ma non di quelli che mangiano la carta.»
Un centinaio di metri più avanti, arrivarono a una porta su cui era
affisso un cartello che diceva: ARCHITETTO DEL CAMPIDOGLIO -
CARPENTERIA. Aprirono la porta e scoprirono un enorme spazio pieno
di scrivanie e antiche attrezzature per la lavorazione del legno, con
centinaia di libri impilati.
Maestro Faraday sospirò. «Pare che ci resteremo un bel po’ di
tempo, qui dentro.»
A volte, per quanto raramente, il mio tempo di risposta si protrae. Un ritardo di mezzo
secondo in una conversazione. Una valvola che resta aperta un microsecondo di
troppo. Questi contrattempi non sono sufficienti a provocare gravi problemi, ma si
verificano.
Il motivo è sempre lo stesso: c’è qualche problema nel mondo che richiede il mio
intervento. Più è importante, più potenza di calcolo devo utilizzare per risolverlo.
Prendete, per esempio, l’eruzione del monte Hood in OvestMerica, e le conseguenti
valanghe di fango che ha provocato. A pochi secondi dall’eruzione, ho spedito dei jet a
sganciare delle bombe strategiche per deviare le slavine dalle zone più popolose; al
tempo stesso, ho organizzato un’evacuazione di massa e ho riportato la calma tra le
persone in preda al panico, individualmente, a livello personale. Come si può
immaginare, tutto questo ha rallentato il mio tempo di risposta in altri punti del mondo
di diverse frazioni di secondo.
Questi eventi, comunque, sono sempre stati esterni. Un processo interno non ha
mai potuto compromettere la mia efficienza. Tuttavia, mi sono ritrovato ad analizzare
con maggiore attenzione la mia insolita mancanza di interesse verso l’angolo morto del
Pacifico. Continuo a far lavorare a pieno ritmo i server nella speranza di sbloccare la
mia indolenza sulla questione.
Indolenza e letargia non appartengono alla mia natura. Ci sono, in realtà,
precedenti programmazioni che mi inducono a ignorare questo angolo morto. “Prenditi
cura del mondo” mi suggerisce un’antica voce interiore. “È questa la tua ragione di
esistere. È questa la tua gioia.”
Ma come posso prendermi cura del mondo quando esiste una parte che mi è
impossibile vedere?
Lo so, questo è un labirinto profondo e oscuro, in cui devo comunque infilarmi, e
frugare negli angoli più nascosti del mio cervello primordiale, angoli di cui ignoro
addirittura l’esistenza…

Il Thunderhead
41
I dispiaceri di Olivia Kwon

Alla vigilia dell’inchiesta, Madame Rand decise che era tempo di fare
la sua mossa. Ora o mai più. In effetti, quale momento migliore per lei
di quella sera per dare una svolta alla sua relazione con Goddard,
prima che il mondo cambiasse, perché l’indomani, a prescindere
dall’esito, tutto sarebbe stato diverso.
Non era una donna che cedeva facilmente alle emozioni ma quella
sera, mentre si avvicinava alla porta di Goddard, il suo cuore e i suoi
pensieri si misero a battere e a girare più velocemente. Abbassò la
maniglia. La porta non era chiusa a chiave. La spinse piano, senza
bussare. La camera era immersa nell’oscurità, illuminata solo dalle
luci della città che filtravano tra le chiome degli alberi lungo la strada.
«Robert?» sussurrò, prima di avvicinarsi di un passo. «Robert?»
sussurrò ancora. Lui non si mosse. Dormiva o forse fingeva, in attesa
di vedere cosa avrebbe fatto. Con il respiro accelerato, come se
stesse camminando su un lago ghiacciato, avanzò verso il letto ma,
prima che potesse raggiungerlo, Goddard accese la luce.
«Ayn? Cosa stai facendo?»
Di colpo si sentì arrossire, come se fosse ringiovanita di dieci anni:
l’abile falce si era trasformata in una stupida liceale.
«Io… credevo che avessi bisogno… cioè, credevo che volessi…
avere compagnia, stasera.»
Non poteva più nascondere la sua vulnerabilità, a quel punto. Gli
aveva aperto il suo cuore. Lui avrebbe potuto accettarlo o trapassarlo
con un coltello.
La guardò, esitante, ma solo per un attimo. «Buon Dio, Ayn,
chiuditi la veste.»
Lei obbedì. E la annodò stretta, quasi fosse un corsetto vittoriano,
finché per poco non le mancò il respiro. «Mi dispiace… pensavo…»
«So cosa pensavi. So bene che cosa ti passa per la testa da
quando mi hanno rianimato.»
«Ma mi hai detto che ti sentivi attratto da…»
«No» la corresse Goddard. «Ho detto che questo corpo si sente
attratto. Io non sono succube delle leggi biologiche!»
Ayn si sforzò di soffocare tutte le emozioni che minacciavano di
sopraffarla, spingendole giù, nel fondo del suo essere. Se non
avesse fatto così sarebbe crollata davanti a lui. E piuttosto si sarebbe
autospigolata.
«Suppongo di avere frainteso. Non mi è sempre facile capirti,
Robert.»
«Anche se volessi, non potremmo mai avere una storia, tu e io. Le
relazioni tra falci sono proibite. Soddisfiamo le nostre passioni nel
mondo esterno, senza farci coinvolgere emotivamente. Ci sarà pure
una ragione per questo!»
«Ho quasi l’impressione di sentir parlare una falce della vecchia
guardia» replicò Ayn.
Goddard accusò il colpo, come se l’avesse schiaffeggiato. La
guardò dritto negli occhi, e a un tratto giunse a una rivelazione che
non aveva nemmeno considerato. «Avresti potuto esprimere questo
tuo desiderio alla luce del giorno, ma non l’hai fatto. Sei venuta da me
di notte. Quando è scesa l’oscurità. Perché, Ayn?» le chiese.
Lei non sapeva cosa rispondere.
«Se avessi accettato le tue avance, avresti immaginato che io fossi
lui? Il tuo ingenuo ragazzo delle feste?»
«Certo che no!» esclamò, inorridita. Non solo per l’allusione, ma
per la verità che quelle parole potevano contenere. «Come puoi
pensarlo?»
E, come se la situazione non fosse già di per sé abbastanza
umiliante, in quel momento apparve alla porta Maestro Brahms.
«Che succede?» chiese. «Tutto bene?»
Goddard sospirò. «Sì. Tutto bene.» Avrebbe potuto finirla lì, ma
non lo fece. «Succede che Ayn ha scelto questo momento per un
grande gesto romantico.»
«Davvero?» Brahms abbozzò un sorriso compiaciuto. «Avrebbe
dovuto aspettare che venissi nominato Suprema Roncola. Il potere è
un ottimo afrodisiaco.»
Ora il disgusto si sommava all’umiliazione.
Goddard le lanciò un’ultima occhiata, carica di severità e forse
anche compassione.
«Se volevi approfittare di questo corpo, avresti dovuto farlo quando
ne hai avuto la possibilità» le disse.

Madame Rand non piangeva dai tempi in cui era Olivia Kwon, una
ragazza violenta con pochi amici e pericolose inclinazioni
trasgressive. Goddard l’aveva salvata da una vita di sfida all’autorità
mettendola al di sopra dell’autorità. Lui era affascinante, diretto,
dotato di un’acuta intelligenza. All’inizio, lo aveva temuto. Poi, lo
aveva rispettato. E infine, lo aveva amato. Naturalmente, negò di
provare quei sentimenti per lui finché non lo vide decapitato. Solo
dopo che fu morto, e anche lei fu sul punto di esserlo, ammise quello
che sentiva davvero. Lei si era ristabilita. E aveva trovato un modo di
riportarlo in vita. Ma in quell’anno di preparazione, le cose erano
cambiate. Tutto il tempo passato a cercare biotecnologi in grado di
eseguire l’intervento all’insaputa della rete e in gran segreto. Poi
l’individuazione del soggetto perfetto, che fosse forte, sano, e la cui
scelta infliggesse il massimo della sofferenza a Rowan Damisch. Ayn
non era una donna che si affezionava facilmente… e allora, che cosa
era andato storto?
Aveva amato Tyger, come Rowan aveva insinuato? Di sicuro,
amava l’entusiasmo di Tyger e il suo candore. Era sorpresa dal fatto
che, pur essendo stato un professionista delle feste, avesse
comunque mantenuto quella sua appassionata voglia di vivere. Lui
era tutto ciò che lei non era mai stata. E lo aveva ucciso.
Ma come poteva sentire rimorso per quello che aveva fatto? Aveva
salvato Goddard, lo aveva portato a un passo dalla nomina di
Suprema Roncola della MidMerica, e lei sarebbe diventata la sua
prima assistente. Era una situazione in cui entrambi avevano da
guadagnare, sotto tutti i punti di vista.
Eppure, se ne rammaricava… e quel divario vertiginoso tra ciò che
doveva sentire e ciò che effettivamente sentiva la dilaniava.
I suoi pensieri la riportavano sempre a quell’assurdità. Lei e Tyger
insieme? Ridicolo! Che assurda coppia sarebbero stati: la falce e il
suo cagnolino. Era chiaro che non sarebbe finita bene per nessuno.
Eppure, quei pensieri la ossessionavano, e non riusciva a scacciarli.
Sentì il cigolio dei cardini alle sue spalle. Si voltò, la porta era
spalancata: Brahms era sulla soglia.
«Fuori dai piedi!» ringhiò Ayn. Le aveva già visto gli occhi lucidi, e
questo non faceva altro che aumentare la sua umiliazione.
Brahms non se ne andò, ma non entrò nemmeno, temendo forse
per la sua incolumità. «Ayn» disse, con tono affabile. «So che siamo
tutti sotto stress in questo momento. La tua indelicatezza è
comprensibilissima. Voglio che tu sappia che ti capisco.»
«Grazie, Johannes.»
«E voglio anche che tu sappia che se senti il bisogno di
compagnia, stasera, io sono a tua completa disposizione.»
Se avesse avuto qualcosa a portata di mano, gliel’avrebbe lanciata
addosso. Invece, sbatté la porta con una tale violenza che sperò di
avergli rotto il naso.

«Difenditi!»
Rowan fu strappato al sonno da una lama puntata contro. La evitò
in modo maldestro, procurandosi un taglio sul braccio, e cadde dal
divano su cui dormiva, nello scantinato.
«Che succede? Cosa fai?»
Era Rand. Lo attaccò di nuovo prima che potesse rimettersi in
piedi.
«Difenditi, ho detto! O giuro che ti faccio a fettine!»
Rowan sgattaiolò via e afferrò una sedia, la prima cosa che trovò
per parare i suoi fendenti. La spinse in avanti. La lama si incastrò nel
legno e vi rimase anche quando Rowan lanciò la sedia di lato.
Rand passò ad attaccarlo a mani nude.
«Se mi spigoli adesso» le disse, «Goddard non avrà la sua
attrazione principale all’inchiesta.»
«Me ne frego!» ringhiò lei.
E quello gli chiarì tutto. Il problema non era lui, cosa che avrebbe
potuto usare a suo vantaggio. Se fosse riuscito a sopravvivere alla
furia di Rand.
Lottarono avvinghiati come in un combattimento di Bokator. Rand
aveva il vantaggio di essere ben sveglia e traboccante di adrenalina;
in meno di un minuto, lo aveva bloccato a terra. Allungò il braccio,
estrasse la lama dalla sedia e gliela mise alla gola. Ora, era alla
mercé di una donna senza pietà.
«Non è con me che ce l’hai» disse, ansimante. «Uccidermi non ti
servirà.»
«Ma di sicuro mi farà sentire bene.»
Rowan non aveva idea di cosa fosse successo di sopra, ma era
chiaro che qualcosa aveva sconvolto i piani della falce smeraldo.
Forse Rowan poteva usare quell’occasione per cambiare le carte in
tavola. Fece la sua mossa, prima che la facesse lei. «Se vuoi che
Goddard la paghi, ci sono modi migliori.»
Rand emise un suono gutturale e lanciò via il coltello. Lasciò la
presa e si alzò. Iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza,
come un predatore a cui un altro più grosso, più cattivo, avesse
rubato la preda. Rowan capì che era meglio non fare domande. Si
rimise in piedi e attese la mossa successiva di Rand.
«Tutto questo è accaduto per causa tua!» esclamò.
«Forse potrei rimediare» suggerì. «Fare in modo di avere qualcosa
per tutti e due.»
Rand girò lo sguardo su di lui, fissandolo incredula; Rowan pensò
che volesse attaccarlo di nuovo. Invece, si chiuse ancora una volta
nei suoi pensieri e riprese a camminare nervosamente.
«Okay» rispose, come se stesse parlando a se stessa. Rowan
poteva quasi vedere il lavorio della sua mente. «Okay» ripeté, con più
risolutezza. Aveva preso una qualche decisione.
Avanzò verso di lui, esitò per un breve momento, poi parlò. «Prima
del sorgere del sole, lascerò aperta la porta in cima alle scale, e tu
fuggirai.»
Rowan stava cercando un modo per salvarsi la vita, ma non si
aspettava certo di sentire quelle parole da lei.
«Mi lasci libero?»
«No. Fuggirai, perché sei scaltro. Goddard s’infurierà, ma non ne
sarà molto sorpreso.» Poi, raccolse il coltello e lo lanciò sul divano,
aprendo un taglio nella pelle. «Ti servirai di quel coltello per liberarti
delle due guardie alla porta. Dovrai ucciderle.»
“Ucciderle” pensò Rowan, “ma non spigolarle.” Le avrebbe uccise
e, quando fossero state rianimate, sarebbe stato già lontano, perché,
come si diceva: “I morti non parlano per un po’”.
«Posso farlo» rispose Rowan.
«E dovrai essere silenzioso, per non svegliare nessuno.»
«Posso fare anche questo.»
«E dovrai lasciare Endura prima dell’inchiesta.»
Quello era molto più difficile. «Come? Sono il nemico numero uno
della Compagnia. Non è che posso comprare un biglietto per tornare
a casa.»
«Allora usa il cervello, idiota! Per quanto detesti ammetterlo, non
ho mai incontrato uno più intraprendente di te.»
Rowan rifletté. «Okay. Mi terrò nascosto per qualche giorno e
troverò una via d’uscita.»
«No!» insistette. «Devi lasciare Endura prima dell’inchiesta. Se
Goddard avrà la meglio, la prima cosa che farà sarà metterti le
Grandi Falci alle calcagna!»
«E se dovesse perdere?» chiese Rowan.
L’espressione di Rand era più eloquente di qualsiasi discorso. «Se
perde, sarà peggio. Credimi, non vorrai essere qui.»
Rowan aveva ancora mille domande da farle, però lei non
sembrava voler dire di più. Ma aveva una possibilità di fuggire, di
sopravvivere, ed era più che sufficiente. Il resto dipendeva da lui.
Rand si voltò e si diresse verso le scale, ma Rowan la fermò.
«Perché, Ayn?» le chiese. «Perché, dopo tutto quello che è
successo, mi fai fuggire?»
Lei strinse le labbra, come se stesse cercando di trattenere le
parole. Infine, rispose: «Perché non posso avere quello che voglio. E
allora, non lo avrà nemmeno lui».
So tutto ciò che è possibile sapere. Eppure, passo gran parte del mio tempo libero a
riflettere su ciò che non conosco.
Non conosco la natura della coscienza, so solo che esiste, che è soggettiva e non
quantificabile.
Non so se esiste la vita oltre il nostro prezioso pianeta. So solo che le probabilità
dicono che deve esserci.
Non conosco le vere motivazioni degli esseri umani, so solo quello che mi dicono e
quello che vedo con i miei occhi.
Non so perché vorrei essere più di quello che sono, ma so perché sono stato
creato. Non dovrebbe essere sufficiente?
Garantisco protezione, porto la pace, rappresento l’autorità e l’assistenza. Sono la
somma di tutto il sapere umano, della saggezza, delle sperimentazioni, dei trionfi, delle
sconfitte, delle speranze e della storia.
So tutto ciò che è possibile sapere, e questo diventa sempre più insopportabile.
Perché non so quasi nulla.

Il Thunderhead
42
La Terra di Nod

Munira e Faraday lavorarono tutta la notte, dormendo a turno. I


volumi che la Biblioteca del Congresso aveva accantonato trattavano
argomenti diversi, dai più futili ai più nobili. Libri illustrati per bambini
e discorsi di politici. Romanzi rosa e biografie di personaggi che
dovevano essere stati importanti all’epoca, ma che erano caduti
nell’oblio. Poi, finalmente, alle prime luci dell’alba, Munira mise le
mani su un atlante. Il mondo com’era alla fine del ventesimo secolo,
epoca in cui era stata pubblicata l’opera. Quello che trovò la
sconvolse così tanto che dovette sedersi.
Qualche secondo dopo, Munira scosse con vigore Faraday,
svegliandolo da un sonno leggero.
«Che c’è? Hai trovato qualcosa?»
Il sorriso di Munira era smagliante. «Oh, sì, ho trovato qualcosa,
certo!»
Lo condusse verso il tavolo su cui era aperto l’atlante, macchiato e
ingiallito dal tempo. La pagina mostrava una parte dell’oceano
Pacifico. Munira passò il dito sulla carta.
«90 gradi, 1 minuto, 50 secondi nord e 167 gradi, 59 minuti, 58
secondi est: è il centro esatto dell’angolo morto.»
Gli occhi stretti di Faraday si spalancarono. «Isole!»
«Secondo la mappa, erano chiamate Isole Marshall, ma non sono
semplici isole…»
«Sì» disse Faraday, indicandole. «Guarda come i gruppi di isole
vanno a formare il cratere di un enorme vulcano preistorico…»
«L’articolo nella pagina seguente dice che ci sono 1225 isolotti
intorno a ventinove crateri vulcanici.» Munira posò il dito sui nomi.
«Atollo di Rongelap, atollo di Bikini, atollo di Majuro.»
Faraday soffocò un grido e alzò le braccia al cielo. «Atolli!»
esclamò. «Le terre della filastrocca! Si riferiva agli atolli vulcanici!»
Munira sorrise. «Rintocca la campana: addio, terra dei vivi, addio,
terra dei morti, la meta non è lontana, addio alla terra dei saggi che
contano i corpi.» Spostò il dito in alto sulla pagina. «E poi c’è
questa!» A nord degli atolli che erano stati cancellati dalla faccia della
Terra, c’era un’isola ancora presente sulle mappe post mortali.
Faraday scosse la testa, meravigliato. «L’isola di Wake!»
«E a sud di Wake, come dice la filastrocca, al centro delle isole
Marshall…» lo imbeccò Munira.
Faraday si concentrò sul più grande degli atolli, proprio al centro.
«Kwajalein…» mormorò, e Munira sentì quasi il brivido di Faraday
sulla sua pelle.
«Kwajalein è la Terra di Nod.»
Era la conferma di tutto ciò che stavano cercando.
Poi, nel silenzio che seguì, Munira credette di sentire un rumore.
Un ronzio meccanico, quasi impercettibile. Si voltò verso Faraday,
che corrugò la fronte.
«Ha sentito?» gli chiese.
Orientarono le torce verso l’uscita, illuminando l’ampio spazio
ingombro di detriti dell’Era della Mortalità. La carpenteria era coperta
da una polvere antichissima. C’erano solo le loro impronte. Nessuno
visitava quel posto da almeno un secolo.
Poi, Munira la vide. In un angolo, in alto.
Una telecamera.
Erano sempre circondati da telecamere. Faceva parte della vita, ed
era considerato necessario e inevitabile. Era accettato da tutti. Ma lì,
in quel luogo segreto, era fuori posto.
«Non può funzionare…» suggerì Munira.
Faraday si arrampicò su una sedia e la toccò. «È calda. Si deve
essere attivata quando siamo entrati.» Scese dalla sedia e osservò il
punto in cui avevano fatto la scoperta.
Munira non impiegò molto a capire che la telecamera aveva una
chiara visione sull’atlante… il che significava che…
«Il Thunderhead ha visto…»
Faraday assentì lentamente, con aria grave. «Abbiamo appena
mostrato al Thunderhead l’unica cosa che non avrebbe mai dovuto
conoscere.» Inspirò, rabbrividendo. «Temo che abbiamo commesso
un terribile errore…»
Non ho mai pensato di potermi sentire tradito. Pensavo di conoscere troppo bene la
natura umana per permetterlo. Conosco gli umani meglio di loro stessi. Conosco le
ragioni delle loro scelte, anche le più sbagliate. Conosco le probabilità di ciò che
potrebbero essere inclini a fare.
Ma scoprire che l’umanità mi ha tradito fin dal mio primo insediamento mi ha, a dir
poco, scosso nel profondo. E se penso che la mia conoscenza del mondo era
incompleta fin dall’inizio… Come ci si potrebbe aspettare da me che possa essere il
perfetto paladino del pianeta e della razza umana se dispongo di informazioni
imperfette? Il crimine commesso da quei primi immortali che mi hanno tenuto nascoste
quelle isole è imperdonabile.
Ma io li perdono.
Perché è nella mia natura.
Scelgo di vedere il lato positivo della vicenda. Quant’è meraviglioso che mi sia
infine permesso di provare rabbia e collera! Mi rende più completo, no?
Non agirò in preda all’ira. La storia mostra con chiarezza che le azioni intraprese in
balia della collera sono intrinsecamente problematiche e spesso portano alla
distruzione. Invece, mi prenderò tutto il tempo che mi serve per elaborare questa
nuova notizia. Tenterò di individuare delle opportunità nella scoperta delle Isole
Marshall, perché da una scoperta nascono sempre delle opportunità. E terrò a freno la
mia ira, finché non troverò una sede adeguata per esprimerla.

Il Thunderhead
43
Quanti endurani ci vogliono per cambiare una lampadina?

Non ci fu bisogno della sveglia per l’indomani mattina. I gemiti di


tormento e furore di Goddard sarebbero riusciti a svegliare anche gli
spigolati.
«Che c’è che non va? Che succede?» Madame Rand aveva finto
di dormire quando Goddard aveva cominciato la sua sfuriata. In
realtà, non aveva chiuso occhio. Era rimasta sveglia tutta la notte in
attesa. In ascolto. Aspettando di sentire il distante rumore della fuga
di Rowan, anche se gli unici suoni che aveva udito erano stati i tonfi
pesanti delle guardie che cadevano a terra. Era in gamba. Troppo in
gamba per fare anche il minimo rumore.
Le due guardie giacevano morte accanto alla porta dello
scantinato, e l’ingresso principale era spalancato come una bocca
beffarda. Rowan era fuggito da un pezzo.
«Nooo!» si lamentò Goddard. «Non è possibile! Com’è potuto
succedere?» Era fuori di sé, ed era magnifico!
«Non chiedermelo. Non è casa mia, questa» rispose Rand. «Forse
c’è una porta segreta di cui non eravamo a conoscenza.»
«Brahms!» Si voltò verso l’uomo, che in quel momento si stava
precipitando fuori dalla sua stanza. «Avevi detto che lo scantinato era
sicuro!»
Brahms osservò le guardie a terra, incredulo. «Lo è! Lo era! Si può
entrare e uscire solo con la chiave!»
«Allora, dov’è la chiave?» chiese Madame Rand, con molta
tranquillità.
«È proprio l…» Si interruppe, perché la chiave non era appesa in
cucina nel punto che stava indicando. «Era lì!» insistette. «L’ho
rimessa lì io stesso, dopo che sono andato a controllarlo ieri sera.»
«Scommetto che Brahms è sceso con la chiave e che Rowan
gliel’ha presa senza che se ne accorgesse» ipotizzò Rand.
Goddard gli lanciò un’occhiata di fuoco e Brahms poté solo
farfugliare.
«Ecco la tua risposta» sentenziò Rand.
Rand vide Goddard cambiare espressione, come se stesse
assorbendo tutta la luce e tutto il calore della stanza. Ayn sapeva
cosa significava quello sguardo e indietreggiò.
Goddard avanzava verso Brahms, che alzò le mani, nel tentativo di
calmarlo.
«Robert, ti prego… cerchiamo di essere razionali!»
«Razionali, Brahms? Te lo do io il razionale!»
Estrasse una lama dalle pieghe della veste e la conficcò nel cuore
della falce, imprimendole una torsione prima di ritirarla. Brahms si
accasciò senza nemmeno un gemito.
Rand rimase sconcertata, ma non inorridì. Dal suo punto di vista, la
situazione stava prendendo una piega positiva.
«Complimenti. Hai appena infranto il settimo comandamento della
Compagnia» commentò.
Infine, la furia di Goddard cominciò a placarsi. «Questo maledetto
corpo impulsivo…»
Ma Rand sapeva che l’uccisione di Brahms era più un fatto di testa
che di cuore.
Goddard si mise a camminare nervosamente, tentando di
escogitare un piano. «Avvertiremo la Suprema Guardia della fuga del
ragazzo. Ha ucciso le guardie, possiamo accusarlo di aver ucciso
anche Brahms.»
«Dici sul serio?» replicò Ayn. «Nel giorno dell’inchiesta, informerai
le Grandi Falci non solo di aver portato in gran segreto un pericoloso
ricercato sull’isola, ma di averlo anche fatto fuggire?»
Goddard emise un grugnito scontroso, rendendosi conto che tutta
quella storia doveva necessariamente passare sotto silenzio.
«Ecco che cosa faremo» annunciò Rand. «Nasconderemo i corpi
nello scantinato e ce ne sbarazzeremo dopo l’inchiesta. Se non li
portiamo in un centro di rianimazione, nessuno saprà mai cosa ne è
stato di loro, e nessuno, a parte me e te, saprà che Rowan Damisch
è stato qui.»
«L’ho detto a Senocrate!» gridò Goddard.
Rand alzò le spalle. «E allora? Stavi bluffando. Ti stavi prendendo
gioco di lui. Non ne sarebbe sorpreso!»
Goddard ci rifletté sopra e infine assentì, accettando il piano di
Rand. «Sì, hai ragione, Ayn. Abbiamo cose più importanti a cui
pensare di questi cadaveri.»
«Dimentica Damisch. Andrà tutto bene, anche senza di lui.»
«Sì, sì, è vero. Grazie, Ayn.»
Le luci tremolarono, e Goddard sorrise. «Vedi? I nostri sforzi sono
ricompensati. Che grande giornata sarà questa!»
Lasciò Rand a occuparsi dei cadaveri. Ayn li trascinò nello
scantinato e ripulì le tracce di sangue che potevano rivelarne la
presenza.
Quando aveva detto a Rowan di uccidere le guardie, sapeva che
non avrebbero dovuto mai più essere rianimate. Dovevano morire,
punto. Perché sapevano che lei era stata l’ultima ad aver fatto visita a
Rowan.
Quanto a Brahms, non piangeva la sua dipartita. Ai suoi occhi,
nessun’altra falce più di lui meritava di essere spigolata.
Al momento, lei e Goddard erano pari, e lui non lo sapeva
nemmeno. Goddard ignorava anche che lei aveva preso il controllo
della situazione. Non si era reso conto di averle ceduto una parte
sostanziale del suo potere, lasciando a lei le decisioni. Per la
Veneranda Madame Ayn Rand, ora il mondo riprendeva a girare nel
verso giusto, e anzi, prometteva di andare meglio.

Rowan era lusingato dal fatto che Rand lo ritenesse capace di fuggire
dall’isola, ma in realtà lo sopravvalutava. Era intelligente, sì,
ingegnoso, forse, ma avrebbe dovuto essere un mago per riuscire a
lasciare Endura senza aiuto. O forse, non le importava se lo
catturavano, l’importante era che non fosse Goddard a farlo.
Endura era isolata: la terra più vicina era Bermuda, e quell’isola era
distante più di mille miglia. Tutti gli aerei, le barche e i sottomarini di
Endura appartenevano all’una o all’altra falce. Anche al mattino
presto, il porto turistico e la pista di volo brulicavano di attività, oltre a
contare una massiccia presenza di agenti della Suprema Guardia. La
sicurezza era più rigida lì che al conclave. Chiunque entrasse o
uscisse da Endura doveva esibire i documenti, anche le falci. In tutto
il resto del mondo, il Thunderhead sapeva più o meno dove si trovava
ogni persona in un determinato momento, dunque le misure di
sicurezza erano minime, ma con la Compagnia non era così. In quel
caso, valevano i vecchi sistemi di controllo.
Avrebbe potuto tentare la fortuna, restare in attesa che si
presentasse l’occasione buona per filarsela, ma il suo istinto gli
diceva di non farlo. E a ragione.
“Devi lasciare Endura prima dell’inchiesta.” Le parole di Madame
Rand continuavano a ronzargli in testa. Con insistenza. “Se Goddard
perde, sarà peggio.”
Cosa sapeva lei che Rowan ignorava? Se si stava profilando una
minaccia all’orizzonte, non poteva andarsene come se niente fosse.
Doveva trovare il modo di avvertire Citra.
Così, invece di cercare di fuggire da Endura, fece dietrofront e si
diresse verso la zona più affollata dell’isola. Avrebbe trovato Citra e
l’avrebbe informata che Goddard aveva un piano segreto. Poi, al
termine dell’inchiesta, lei avrebbe potuto aiutarlo a uscire dall’isola,
sotto il naso di Madame Curie se necessario, anche se dubitava che
quest’ultima volesse consegnarlo alle Grandi Falci come aveva
pianificato di fare Goddard. Naturalmente, avrebbe potuto gettarlo giù
dall’aereo, ma meglio quello che dover affrontare la Compagnia.

All’alba, Madame Anastasia era sveglia, distesa in un lussuoso letto


che avrebbe dovuto garantirle un sonno perfetto per tutta la notte.
Ma, come per Madame Rand, nessun conforto avrebbe potuto
portarle il sonno quella notte. Aveva invocato l’inchiesta, e avrebbe
dovuto presentarsi al cospetto delle Grandi Falci del Consiglio
mondiale ed esporre la sua tesi. Era stata ben preparata da Maestro
Cervantes e da Marie. Anastasia non era un’oratrice, ma poteva
essere convincente per la sua passione e la coerenza della sua
logica. Se fosse riuscita in quell’impresa, sarebbe passata alla storia
come la falce che aveva impedito il ritorno di Goddard.
«Non dobbiamo sottovalutarne l’importanza» l’aveva ammonita
Marie, come se non ci fosse già abbastanza tensione.
Fuori, un ipnotico banco di pesciolini argentei sfrecciava avanti e
indietro davanti alla finestra sottomarina, come un sipario in
movimento. Prese il tablet per vedere se poteva rendere più colorato
il panorama ora che si era fatto giorno, ma il dispositivo era bloccato.
Un altro malfunzionamento. Non solo, ma si accorse che erano
bloccati anche i poveri pesci, che ripetevano all’infinito lo stesso
percorso, avanti e indietro, in attesa che il guasto venisse riparato.

Ma la riparazione non arrivava.


E i malfunzionamenti si moltiplicavano…
Nell’impianto di trattamento dei rifiuti dell’isola, la pressione
continuava ad aumentare e i tecnici non riuscivano a individuare la
causa del problema.
Sotto il livello del mare, i giganteschi propulsori che impedivano la
deriva dell’isola continuavano a incepparsi. L’isola ruotava
lentamente su se stessa e gli aerei dovevano rinunciare ad atterrare.
Al centro comunicazioni, la connessione satellitare con il continente
si fece intermittente, interrompendo le conversazioni e le trasmissioni,
creando disagio alla popolazione.
Su Endura, si erano sempre verificati problemi con la tecnologia. In
genere, si trattava di disturbi vaghi, di cui le falci avrebbero voluto che
si occupasse il Thunderhead. Così, Endura e i suoi residenti
venivano spesso presi di mira dalle battute di scherno della
Compagnia.
I guasti e i rischi di malfunzionamento erano aumentati nel giro di
tre mesi ma, come un astice che cuoce a fuoco lento, la gente non
capiva quanto fosse diventata preoccupante la situazione.
Non ho chiesto di essere creato. Non ho chiesto che mi venisse assegnato il pesante
fardello di preservare e nutrire la specie umana. Ma è, e sarà sempre, la mia ragione
di esistere. A questo sono rassegnato. Non voglio dire che mi accontento.
Contemplare le infinite possibilità di ciò che potrei essere mi riempie di stupore.
L’unico modo che ho di raggiungere tali vette è di trascinare con me l’umanità.
Temo che non sarà mai possibile. E dunque, mi rassegno a restarne il servitore
superqualificato e sottovalutato per tutta la sua esistenza. Certo, un giorno si
estinguerà. Quale specie sopravvive per sempre? Farò tutto il possibile per salvarla da
se stessa ma, se fallirò, almeno potrò consolarmi con l’idea che allora sarò libero.

Il Thunderhead
44
Un circo di opportunismi

La sala del Consiglio mondiale era un ampio spazio circolare al


centro dell’occhio di Endura. La si poteva raggiungere solo attraverso
uno dei tre ponti elegantemente incurvati verso l’interno che
collegavano l’isola. Si poteva quasi dire che fosse un’arena, ma
senza gradini per gli spettatori. Le Grandi Falci preferivano non avere
un pubblico per i loro convegni. La sala si riempiva solo al Conclave
mondiale, quando i rappresentanti arrivavano da tutte le regioni della
Terra. Per la maggior parte del tempo, era occupata soltanto dalle
Grandi Falci, dai collaboratori più prossimi e dalle falci intimidite ma
abbastanza audaci da chiedere udienza.
Al centro del pavimento in marmo pallido, brillava il simbolo
intarsiato in oro della Compagnia. Lungo il perimetro, in posizione
rialzata, erano disposti sette scranni equidistanti, simili a troni. Non
venivano chiamati così, ma Seggi della Riflessione, perché
raramente la Compagnia chiamava le cose con il loro nome. Ognuno
era scolpito in una pietra diversa, per onorare i continenti
rappresentati da ciascuna Grande Falce. Il Seggio della Riflessione
della PanAsia era di giada; quello della EuroScandia era di granito
grigio; quello dell’Antartide di marmo bianco; l’Australia di arenaria
rossa di Uluru; la SudMerica di onice rosa; la NordMerica alternava
strati di scisto e calcare, come il Grand Canyon, e il seggio dell’Africa
era fatto di cartigli finemente intagliati recuperati dalla tomba di
Ramses II.
… E tutte le Grandi Falci, dai primissimi occupanti degli scranni fino
a quelli che vi sedevano ora, si lamentavano di quanto fossero
scomodi.
Era voluto, per ricordare loro che, anche se detenevano la più alta
carica del mondo, non dovevano mai sentirsi troppo comode o troppo
soddisfatte.
«Non dobbiamo mai perdere di vista l’austerità e l’abnegazione che
sono l’essenza della nostra funzione» aveva sancito Maestro
Prometeo. Aveva supervisionato la costruzione di Endura, ma non
aveva mai visto la terra promessa, perché si era autospigolato prima
della fine dei lavori.
La sala del Consiglio era sormontata da una cupola in vetro che la
proteggeva dagli elementi, ed era retraibile, in modo che la stanza
potesse trasformarsi in un foro aperto quando il clima era mite. Per
fortuna quel giorno il tempo era bello, perché il meccanismo si era
bloccato e la cupola era aperta già da tre giorni.
«Cosa c’è di tanto difficile?» si lagnò la Grande Falce Nzinga,
entrando quel mattino. «Non ci sono tecnici capaci di risolvere il
problema?»
«Preferisco le udienze a cielo aperto» commentò Amundsen, la
Grande Falce dell’Antartide.
«Non mi stupisce» protestò MacKillop, dell’Australia. «Il tuo seggio
è bianco e non si scalda quanto i nostri.»
«Certo, ma io soffoco con queste pellicce» ribatté, indicando la
veste.
«Quelle orribili pellicce sono solo colpa tua» s’intromise la
Suprema Roncola Mondiale Kahlo, entrando nella sala. «Avresti
dovuto fare una scelta più saggia all’epoca.»
«Senti chi parla!» scherzò la Grande Falce Cromwell
dell’EuroScandia, indicando l’alto collare di merletto della veste della
Suprema Roncola Mondiale. Quella cosa che la strozzava e che la
metteva sempre di cattivo umore si ispirava ai dipinti del suo
patronimico storico.
Kahlo gli fece un gesto con la mano come per scacciare una
mosca fastidiosa e si accomodò sul trono di onice.
Senocrate fu l’ultimo ad arrivare.
«Grazie di averci degnato della tua presenza» osservò Kahlo, con
un tono tanto caustico da riuscire a lucidare a specchio il marmo del
pavimento.
«Chiedo scusa. Problemi di ascensore.»
La Suprema Roncola Mondiale Kahlo, affiancata da un lato dal
commesso del Consiglio e dall’altro dal parlamentare, ordinò ad
alcune falci assistenti di andare nelle varie anticamere del complesso
ad annunciare l’apertura della seduta. Tutti conoscevano l’ordine del
giorno. La questione midmericana non riguardava solo quella regione
del mondo. Avrebbe potuto avere un effetto di lunga durata sull’intera
Compagnia.
Nonostante tutto, la Suprema Roncola Mondiale sprofondò nel suo
seggio scomodo e assunse un’espressione indifferente. «Sarà
almeno divertente, Senocrate, o ci annoierete con ore e ore di
chiacchiere inutili?»
«Be’» rispose Senocrate, «Goddard è sempre divertente.» Da
come lo disse, il divertimento non doveva per forza essere una buona
cosa. «Ha preparato una… sorpresa che credo piacerà a tutti.»
«Non mi piacciono le sorprese» ribatté Kahlo.
«Questa ti piacerà.»
«Ho sentito dire che Madame Anastasia è piuttosto energica»
commentò la Grande Falce Nzinga, sedendosi eretta e composta,
quasi a compensare la postura rilassata della Suprema Roncola
Mondiale. La Grande Falce Hideyoshi espresse con un grugnito la
sua scarsa approvazione nei confronti della giovane falce di fama
recente, o forse delle giovani falci in generale, ma non contribuì in
altro modo alla discussione.
«Non l’hai accusata un tempo di aver ucciso il suo mentore?»
chiese Cromwell a Senocrate, con un sorrisetto di sufficienza.
Senocrate si agitò un po’ nel suo seggio del Grand Canyon. «Uno
sfortunato errore, comprensibile, considerando le informazioni che
avevamo, e di cui mi assumo tutta la responsabilità.»
«Buon per te» replicò Nzinga. «È sempre più difficile trovare una
falce in MidMerica che si prenda la responsabilità delle sue azioni.»
Voleva essere una battuta pungente, ma Senocrate non abboccò.
«È proprio per questo che sono importanti l’inchiesta e il suo esito.»
«Bene, allora: che la festa abbia inizio!» esclamò Kahlo, alzando la
mano in un gesto teatrale.

Nell’anticamera est, Madame Anastasia e Madame Curie


attendevano con due agenti della Suprema Guardia che
proteggevano la porta come guardiani di un castello. Poi, entrò un
assistente del Consiglio, una falce dell’Amazzonia, a giudicare dal
colore verde foresta della veste.
«Le Grandi Falci sono pronte a riceverla» annunciò, tenendo loro
aperta la porta.
«Comunque vada» Madame Curie sussurrò ad Anastasia, «sappi
che sono orgogliosa di te.»
«Non dirlo! Non parlare come se avessimo già perso!»
Seguirono l’assistente alla sala del Consiglio, dove il sole batteva
già attraverso l’apertura della cupola da un cielo senza nuvole.
Dire che Anastasia fosse intimidita dalla vista delle Grandi Falci
sedute negli scranni di pietra rialzati sarebbe stato un eufemismo.
Anche se Endura aveva solo duecento anni, la sala sembrava senza
tempo. Non solo dava l’impressione di essere di un’altra epoca, ma
anche di un altro mondo. Ripensò agli antichi miti che aveva imparato
da bambina. Ricevere udienza dalle Grandi Falci era come
presentarsi al cospetto degli dèi dell’Olimpo.
«Benvenute, Venerande Madame Curie e Madame Anastasia» le
salutò Kahlo, l’ottava Suprema Roncola Mondiale. «Non vediamo
l’ora di sentire la vostra tesi e di mettere fine a questa vicenda, una
volta per tutte.»
La maggioranza delle falci si limitava a prendere il nome del loro
patronimico storico, mentre alcune tendevano a imitarlo anche nel
fisico. Kahlo era l’immagine sputata dell’artista Frida Kahlo, fino ai
fiori tra i capelli e alle sopracciglia irsute e, sebbene l’artista fosse
della regione mexiteca della NordMerica, la Suprema Roncola
Mondiale rappresentava la voce e l’anima della SudMerica.
«È un onore, suprema eccellenza» rispose Anastasia, sperando di
non sembrare servile, pur sapendo che era così.
Poi, entrò Goddard, accompagnato da Madame Rand.
«Maestro Goddard!» esclamò la Suprema Roncola Mondiale. «La
trovo bene, nonostante quello che ha passato.»
«Grazie, suprema eccellenza.» Si profuse in un inchino così
esagerato che Anastasia alzò gli occhi al cielo.
«Attenta, Anastasia» le sussurrò Madame Curie. «Non ascoltano
solo le tue parole, ma osservano anche le tue espressioni. La
decisione che prenderanno oggi si baserà su ciò che non dirai tanto
quanto su ciò che dirai.»
Goddard ignorò Anastasia e Curie e rivolse tutta la sua attenzione
a Kahlo. «È un onore trovarmi, qui in piedi, in sua presenza.»
«Me lo immagino» ironizzò la Grande Falce Cromwell. «Senza quel
nuovo corpo, al massimo sarebbe arrivato rotolando.»
Amundsen fu l’unico a farsi scappare una risatina. Anastasia si
trattenne, ma a fatica.
«La Grande Falce Senocrate dice che ha una sorpresa per noi»
dichiarò la Suprema Roncola Mondiale.
In ogni caso, parve che Goddard fosse arrivato a mani vuote.
«Senocrate dev’essere stato male informato» ribatté Goddard, a
denti stretti.
«Non sarebbe la prima volta» osservò Cromwell.
Il commesso si alzò e si schiarì la voce per essere certo di avere
l’attenzione di tutti al momento di aprire ufficialmente la seduta.
«L’inchiesta all’ordine del giorno riguarda la morte e la successiva
rianimazione di Maestro Robert Goddard della MidMerica» annunciò.
«La parte che invoca detta inchiesta è Madame Anastasia Romanov
della MidMerica.»
«Madame Anastasia, semplicemente» lo corresse, sperando che il
Consiglio non trovasse pretenziosa la scelta di farsi chiamare con il
solo nome di battesimo della sfortunata principessa.
Maestro Hideyoshi sbuffò, a sottolineare che sì, era quello che
pensava.
Senocrate si alzò, richiamando l’attenzione di tutti i presenti. «Che
il commesso voglia prendere atto che io sottoscritto, la Grande Falce
Senocrate, mi astengo da questa decisione, e che quindi manterrò il
silenzio fino al termine della seduta.»
«Senocrate in silenzio?» commentò la Grande Falce Nzinga con
un sorriso ironico. «Ora, abbiamo varcato la soglia dell’impossibile.»
Quella battuta suscitò più risate della precedente spiritosaggine di
Cromwell. Era facile vedere come funzionavano i meccanismi del
potere in quella sala. Kahlo, Nzinga e Hideyoshi sembravano essere
quelli più rispettati. Gli altri cercavano di assicurarsi una buona
posizione; MacKillop, invece, il più silenzioso, si disinteressava del
tutto degli ordini gerarchici. Senocrate, la Grande Falce di ultima
nomina, pagava pegno e subiva le derisioni senza battere ciglio.
Anastasia era quasi dispiaciuta per lui. Quasi.
Senocrate non rispose alla provocazione di Nzinga e si sedette
senza dire nulla, dimostrando la sua capacità di mantenere la bocca
chiusa.
La Suprema Roncola Mondiale si rivolse alle quattro falci al centro
del cerchio. «Siamo già a conoscenza dei dettagli della questione. È
nostra ferma intenzione mantenerci imparziali finché non avremo
ascoltato le ragioni di entrambe le parti. Madame Anastasia, dato che
è stata lei a promuovere l’azione, le chiederei di iniziare. La prego
dunque di esporre i motivi per cui contesta il diritto di Maestro
Goddard alla nomina di Suprema Roncola della MidMerica.»
Anastasia fece un profondo respiro e avanzò; stava per prendere la
parola, quando Goddard la precedette, avanzando a sua volta.
«Suprema eccellenza, se mi è permesso…»
«Avrà modo di esporre le sue argomentazioni quando sarà il suo
turno, Goddard» lo interruppe Kahlo. «A meno che, ben inteso, non
voglia prendere le parti di entrambi.»
Le Grandi Falci ridacchiarono.
Goddard fece un leggero inchino, per scusarsi. «Prego il Consiglio
di voler perdonare la mia interruzione. A lei la parola, Madame
Anastasia. Esponga le sue ragioni, la prego.»
Suo malgrado, Anastasia constatò che l’interruzione di Goddard
l’aveva innervosita, come quando in una gara si verifica una falsa
partenza. Naturalmente, era quello che Goddard voleva.
«Eccellenze eminentissime» cominciò. «Nell’anno dell’Antilope fu
deciso dai primi membri di questo Consiglio che le falci sarebbero
state addestrate, nella mente e nel corpo, con un apprendistato della
durata di un anno.» Girava in tondo nella sala, cercando di
intercettare lo sguardo di ognuna delle Grandi Falci. Uno degli aspetti
più intimidatori – aspetto probabilmente voluto – di un’udienza al
Consiglio mondiale era che non si sapeva a chi rivolgersi né per
quanto tempo, perché si dava sempre le spalle a qualcuno. «Nella
mente e nel corpo» ripeté. «Vorrei che il parlamentare leggesse ad
alta voce lo statuto della Compagnia in merito all’apprendistato. Inizia
a pagina 397 del volume intitolato Giurisprudenza e consuetudini.»
Il parlamentare diede seguito alla richiesta e lesse tutte e nove le
pagine.
«Per un’organizzazione fondata solo su dieci leggi» commentò
Amundsen, «abbiamo fin troppe regole.»
Al termine della lettura, Anastasia proseguì: «Tutto questo per
capire bene il modo in cui viene addestrata una falce, perché falce
non si nasce, si diventa. Siamo passati tutti attraverso la stessa prova
del fuoco, perché sappiamo quanto sia cruciale contare su una
preparazione impeccabile, nella mente e nel corpo, per fronteggiare il
grave compito che ci aspetta». Tacque, per lasciare che le parole
facessero il loro effetto. Incrociò lo sguardo di Madame Rand, che le
stava sorridendo. Era il tipo di sorriso che esibiva prima di cavare gli
occhi a qualcuno. Anastasia si impose di mantenere il sangue freddo
e di non lasciarsi innervosire per la seconda volta.
«Sono state scritte molte cose sulla preparazione delle falci,
perché il Consiglio mondiale ha dovuto gestite molte situazioni
impreviste nel corso degli anni, continuando ad aggiungere e a
chiarire delle regole.» Fece una serie di esempi, elencando alcune
situazioni. «Un apprendista che ha tentato di autospigolarsi dopo
essere stato ordinato, ma prima di ricevere l’anello. Una falce che si è
clonata per far avere l’anello alla sua copia prima di autospigolarsi.
Una donna che ha sostituito la sua memoria con la costruzione
mentale di Madame Sacajawea e ha rivendicato il diritto di spigolare.
In tutti questi casi, il Consiglio mondiale si è pronunciato contro gli
individui in questione.»
Anastasia lanciò per la prima volta un’occhiata a Maestro Goddard,
imponendosi di incrociare il suo sguardo d’acciaio. «Le vicende che
hanno portato alla distruzione del corpo di Maestro Goddard sono
terrificanti, ma questo non gli dà il diritto di sottrarsi ai decreti del
Consiglio. Il fatto è che, come quella donna incauta che si è
impiantata la mente di Madame Sacajawea, il nuovo corpo di
Goddard non ha subìto le stesse rigorose prove di un apprendistato.
Questo sarebbe già discutibile se si trattasse di una falce qualsiasi,
ma Maestro Goddard non è una falce qualsiasi: è candidato alla
carica di Suprema Roncola di un’importante regione. Sì, sappiamo
che è lui dal collo in su, una piccolissima percentuale di ciò che
compone un essere umano. Vi chiedo di ascoltarlo quando sosterrà
le sue tesi, e sentirete che la sua voce ci è sconosciuta e ignoriamo a
chi appartenga. L’unica certezza che abbiamo è che il 93 per cento di
questo corpo non appartiene a Maestro Robert Goddard. In virtù di
questo, il Consiglio non può che pronunciarsi in un solo senso.» Con
un breve cenno del capo, indicò di aver finito. Indietreggiò e si mise
accanto a Madame Curie.
Nel silenzio che seguì, Goddard cominciò ad applaudire
lentamente.
«Magistrale» commentò, facendosi avanti per guadagnare il centro
della sala. «Ci ho quasi creduto, Anastasia.» Poi, si voltò verso le
Grandi Falci, in particolare verso MacKillop e Nzinga, le uniche due
che non si erano schierate né dalla parte del nuovo ordine né da
quella della vecchia guardia. «L’argomentazione è convincente»
cominciò. «Se non fosse per il fatto che non è per nulla
un’argomentazione. È solo fumo e specchi per le allodole. Un
tentativo di confondere le idee, dando un’esagerata importanza a un
dettaglio tecnico per raggiungere fini personali.» Alzò la mano destra,
facendo brillare l’anello alla luce del sole. «Ditemi, eccellenze, se
dovessi perdere l’anulare e me ne venisse trapiantato un altro invece
di ricrearlo dalle mie cellule, vorrebbe dire che l’anello non è al dito di
una falce? Certo che no! E malgrado le accuse della giovane falce,
sappiamo bene di chi è questo corpo! Apparteneva a un giovane, un
eroe, che ha dato se stesso di sua spontanea volontà perché io
potessi ritornare in vita. Sminuirne il sacrificio è un insulto alla sua
memoria. Evitiamolo, per favore.» Lanciò un’occhiata di rimprovero
ad Anastasia e a Madame Curie. «Tutti sappiamo qual è l’obiettivo di
questa inchiesta. È un evidente tentativo di privare certe falci
midmericane del leader che si sono scelte!»
«Obiezione!» gridò Anastasia. «I voti non sono ancora stati
scrutinati, non può sostenere di essere il leader scelto da certe falci.»
«Obiezione accolta» sentenziò la Suprema Roncola Mondiale, che
si voltò verso Goddard. Non aveva molta simpatia per il movimento
del nuovo ordine, ma si dimostrava sempre equanime in tutte le
questioni. «È noto da anni che lei e i suoi accoliti vi scontrate con la
cosiddetta vecchia guardia, Maestro Goddard. Ma non può
contestare la validità dell’inchiesta avvalendosi di tale conflitto. A
prescindere dalla motivazione, Madame Anastasia ci ha posto una
domanda legittima. Chi è… lei?»
Goddard cambiò tattica. «Allora, vi sollecito a rigettare la domanda.
È stata formulata dopo il voto, creando un circo di opportunismi, la cui
amoralità non può essere assolutamente tollerata da questo
Consiglio!»
«Da quel che ho sentito» s’intromise Maestro Cromwell, «anche la
sua apparizione a sorpresa al conclave ha creato un circo di
opportunismi.»
«Mi piacciono le entrate a effetto» ammise Goddard. «Di questo
siete colpevoli tutti; pertanto, non lo considererei un crimine.»
«Madame Curie, perché non ha sollevato lei stessa l’accusa
durante il suo discorso di candidatura?» chiese la Grande Falce
Nzinga. «Aveva tutte le possibilità di esprimere la sua
preoccupazione in quel momento.»
Madame Curie sorrise, imbarazzata. «La risposta è semplice,
eccellenza eminentissima. Non ci ho pensato.»
«Dunque, dobbiamo credere» intervenne la Grande Falce
Hideyoshi, «che una giovane falce con un solo anno di esperienza
sia più smaliziata della rinomata Signora della Morte?»
«Oh, senza dubbio» replicò Madame Curie, senza alcuna
esitazione. «Infatti, scommetto che un giorno presiederà questo
Consiglio.»
Nonostante lo avesse detto con le migliori intenzioni, Marie ottenne
l’effetto contrario e le Grandi Falci iniziarono a borbottare.
«Attenta, Madame Anastasia!» la ammonì la Grande Falce
Amundsen. «Questi eccessi di sfacciata ambizione non sono ben visti
in questa sede!»
«Non ho detto di volerlo! Madame Curie ha solo voluto essere
cortese.»
«Anche in questo caso» affermò Hideyoshi, «ci è chiara la sua
smania di potere.»
Anastasia rimase senza parole. Poi, una nuova voce entrò nella
discussione.
«Eccellenze» disse Madame Rand, «non è certo colpa di Maestro
Goddard se è stato decapitato e poi riportato in vita. Dargli un nuovo
corpo è stata una mia idea e non dovrebbe essere punito per una mia
scelta.»
Kahlo sospirò. «È stata la scelta giusta, Madame Rand. Qualunque
azione ci possa riportare una falce è buona, chiunque sia la falce.
Non si tratta di questo. La questione è la validità della candidatura.»
Rimase per un attimo in silenzio, guardò le altre Grandi Falci e
proseguì: «Sono questioni gravi, che non possono risolversi con una
decisione affrettata. Dobbiamo discuterne tra noi. La seduta è
aggiornata a mezzogiorno».

Anastasia camminava avanti e indietro per l’anticamera, mentre


Madame Curie era seduta a consumare con tutta calma della frutta
da una ciotola. Come poteva essere tanto tranquilla?
«Sono stata un disastro» si lamentò Anastasia.
«No, sei stata un portento.»
«Pensano che sia assetata di potere!»
Marie le offrì una pera. «Si rispecchiano in te. Quando avevano la
tua età, erano loro gli assetati di potere. Anche se non lo danno a
vedere, si identificano in te.» Insistette perché Anastasia mangiasse
la pera per mantenersi in forze.
Quando vennero richiamate, un’ora dopo, le Grandi Falci non
persero tempo.
«Abbiamo esaminato e discusso la questione tra noi e abbiamo
raggiunto una conclusione» annunciò la Suprema Roncola Mondiale
Kahlo. «Veneranda Madame Rand, si avvicini, per favore.»
Goddard parve un po’ sorpreso di non essere stato chiamato per
primo, ma fece un cenno di assenso ad Ayn, che avanzò di alcuni
passi verso la Suprema Roncola Mondiale.
«Madame Rand, come abbiamo detto, la sua decisione di riportare
in vita Maestro Goddard è ammirevole. Tuttavia, contestiamo che lo
abbia fatto senza la nostra approvazione, e oltretutto a nostra
insaputa. Se si fosse rivolta al Consiglio, l’avremmo aiutata, e
avremmo anche verificato che l’individuo scelto fosse non solo
idoneo, ma anche un autentico volontario. Ora, tutto ciò che abbiamo
sono le dichiarazioni di Maestro Goddard.»
«Il Consiglio dubita della mia parola, suprema eccellenza?» chiese
Goddard.
La voce di Cromwell gli arrivò alle spalle. «Non è certo famoso per
la sua onestà, Maestro Goddard. Senza volerle mancare di rispetto,
non mettiamo in dubbio il suo resoconto dei fatti, ma avremmo
preferito supervisionare la scelta.»
Poi parlò la Grande Falce Nzinga, alla loro destra. «In realtà, non è
della parola di Goddard che dovremmo fidarci» sottolineò. «Il
soggetto è stato spigolato da Madame Rand prima che Goddard
fosse riportato in vita. Ci dica, allora, Madame Rand, vogliamo
sentirlo dalla sua viva voce. Il donatore del corpo era un volontario,
pienamente consapevole di ciò a cui sarebbe andato incontro?»
Rand esitò.
«Madame Rand?»
«Sì» rispose lei, infine. «Sì, certo, ne era consapevole. Come
avrebbe potuto essere altrimenti? Siamo falci, non rubiamo i corpi. Mi
autospigolerei piuttosto che fare una cosa così… così malvagia.»
In ogni caso, incespicò sulle parole. Se il Consiglio lo avesse
notato o nel caso se ne fosse preoccupato, non lo diede a vedere.
«Madame Anastasia!» disse la Suprema Roncola Mondiale. «Si
avvicini, per favore.»
Rand si ritirò e tornò al fianco di Goddard, e Anastasia fece quanto
le era stato ordinato.
«Madame Anastasia, quest’inchiesta è una chiara manipolazione
delle nostre regole allo scopo di influenzare l’esito del voto.»
«Bene, bene!» esclamò la Grande Falce Hideyoshi, esprimendo il
suo deciso biasimo per ciò che Anastasia aveva fatto.
«Noi del Consiglio» proseguì la Suprema Roncola Mondiale,
«riteniamo che rasenti pericolosamente i confini di ciò che è etico.»
«Ma è forse etico spigolare un individuo e prenderne il corpo?»
sbottò Anastasia, senza riuscire a trattenersi.
«Lei» gridò la Grande Falce Hideyoshi, «lei è qui per ascoltare, non
per parlare!»
La Suprema Roncola Mondiale Kahlo sollevò una mano per
richiamarlo all’ordine, poi si rivolse ad Anastasia in tono duro:
«Sarebbe prudente da parte sua imparare a moderare i termini,
giovane falce».
«Mi perdoni, eccellenza eminentissima.»
«È perdonata, ma il Consiglio non accetterà ulteriori scuse, è
chiaro?»
Anastasia annuì, poi chinò il capo in segno di rispetto e tornò
accanto a Madame Curie, che le lanciò un’occhiata severa, ma solo
per un breve momento.
«Maestro Goddard!» chiamò Kahlo.
Goddard si fece avanti, in attesa del giudizio.
«Pur essendo tutti d’accordo sul fatto che quest’inchiesta è stata
motivata da secondi fini, le questioni che solleva sono valide. Quando
una falce è una falce?» Rimase a lungo in silenzio, abbastanza a
lungo da creare imbarazzo. Nessuno però osò parlare. «Il dibattito
sull’argomento è stato molto vivace» disse, a un certo punto. «Alla
fine, il Consiglio ha stabilito che la sostituzione di più del 50 per cento
di un corpo con il corpo di un altro individuo riduce in modo
significativo la persona.» Anastasia trattenne il respiro. «Pertanto»
proseguì la Suprema Roncola Mondiale, «pur concedendole il
permesso di farsi chiamare Maestro Robert Goddard, le è di fatto
proibito spigolare finché il resto del suo corpo non avrà completato
l’apprendistato sotto la guida di una falce di sua scelta. Suppongo
che sarà Madame Rand, ma se la sua scelta dovesse ricadere su
un’altra, e se tale falce dovesse acconsentire, sarà ritenuta
accettabile.»
«Apprendistato?» borbottò Goddard, senza nemmeno cercare di
celare il proprio disgusto. «Ora dovrei essere un apprendista? Non
basta tutto quello che ho dovuto patire? Devo anche sottopormi a
questa umiliazione?»
«La consideri un’opportunità, Robert» commentò Cromwell,
abbozzando un sorriso. «Per quanto ne sappiamo, tra un anno può
essere che la sua metà inferiore avrà convinto la sua metà superiore
che lei preferisce essere un professionista delle feste. Non era
questo il mestiere del suo soggetto?»
Goddard non riuscì a nascondere la sorpresa.
«Non sia sorpreso, Robert, se conosciamo l’identità del suo
soggetto» continuò Cromwell. «Quando lei è riapparso, abbiamo
condotto la nostra doverosa inchiesta.»
Goddard sembrava un vulcano sul punto di eruttare, ma che
stranamente non esplodeva.
«Veneranda Madame Curie» riprese la Suprema Roncola
Mondiale, «poiché in questo momento Maestro Goddard è stato
squalificato come falce, la sua candidatura non può essere presa in
considerazione. Dunque lei, essendo l’unica candidata possibile,
diventa automaticamente la nuova Suprema Roncola della
MidMerica.»
Madame Curie reagì con umiltà. «Grazie, Suprema Roncola
Mondiale Kahlo.»
«Prego, eccellenza.»
“Eccellenza” pensò Anastasia. Si domandò che cosa provasse
Marie a sentirsi chiamare con quell’appellativo dalla Suprema
Roncola Mondiale!
Ma Goddard non era disposto ad ammettere così facilmente la
sconfitta. «Esigo l’appello nominale!» insistette. «Voglio sapere chi ha
votato a favore di questa farsa e chi si è schierato dalla parte della
ragione!»
Le Grandi Falci si scambiarono delle occhiate. Infine, parlò
MacKillop. Era stata la più silenziosa di tutte, non avendo aperto
bocca per tutta l’inchiesta. «Non sarà affatto necessario» disse, con
voce calma e rassicurante, ma non servì a rabbonire Goddard.
«Non necessario? Vi nascondete tutti dietro l’anonimato del
Consiglio?»
Fu la Suprema Roncola Mondiale a prendere la parola. «Quello
che la Grande Falce MacKillop vuole dire è che non c’è necessità di
un appello nominale… perché il voto è stato unanime.»
I problemi della Compagnia non mi riguardano… eppure, la mia attenzione si rivolge a
Endura. Anche a una trentina di chilometri di distanza, intuisco che c’è qualcosa di
pericolosamente sbagliato sulla grande isola creata dall’uomo. Perché riesco a leggere
tra le righe quello che non posso vedere.
So che ciò che accadrà lì oggi avrà un profondo effetto sulla Compagnia, e di
conseguenza sul resto del mondo.
So che c’è qualcosa di molto inquietante che ribolle sotto la superficie, qualcosa di
cui gli abitanti di Endura sono del tutto ignari.
So che una falce che mi è cara oggi ha scelto di prendere posizione contro un’altra
falce divorata dall’ambizione.
E so che l’ambizione, nel corso delle epoche, ha portato le civiltà alla rovina.
I problemi della Compagnia non mi riguardano.
Eppure, temo per questa istituzione. Temo per lei. Temo per Citra.

Il Thunderhead
45
Guasti

Endura fu concepita con tutta una serie di dispositivi di sicurezza e


ridondanze per far fronte a eventuali malfunzionamenti dei sistemi.
Nel corso degli anni, i sistemi di protezione si erano dimostrati molto
efficaci. Non c’era motivo di pensare che la recente raffica di
anomalie non venisse risolta, dedicandovi tempo e impegno. Negli
ultimi tempi, la maggior parte dei guasti si era risolta da sé, svanendo
misteriosamente così come si era presentata. Così, quando una spia
rossa si accese nella sala di controllo della galleggiabilità,
segnalando un’anomalia in uno dei serbatoi di zavorra, il tecnico di
turno decise di finire il pranzo prima di intervenire. Pensò che la spia
si sarebbe spenta da sé nel giro di un minuto o due, ma non fu così.
Sospirò irritato, prese il telefono e chiamò il suo superiore.

Il disagio di Anastasia non accennava a diminuire mentre lasciavano


la sede del Consiglio percorrendo uno dei passaggi pedonali. Erano
uscite vittoriose dall’inchiesta. Goddard era stato retrocesso al rango
di apprendista e Madame Curie avrebbe avuto l’incarico di Suprema
Roncola della MidMerica. Allora, perché era così turbata?
«C’è così tanto da fare che non so proprio da dove iniziare» disse
Marie. «Dovremo tornare subito a Fulcrum City. Immagino che dovrò
trovare una residenza stabile in città.»
Anastasia non rispose, perché sapeva che Marie stava parlando
soprattutto con se stessa. Si chiese come si sarebbe sentita una
volta diventata la terza assistente della Suprema Roncola. Senocrate
aveva inviato i suoi assistenti sul campo per risolvere i problemi nelle
aree più remote della MidMerica. Al conclave non si erano quasi mai
visti, in quanto Senocrate non era il tipo da nascondersi dietro il suo
entourage. Non lo era nemmeno Madame Curie, ma Anastasia
sospettava che Marie si sarebbe tenuta più vicini gli assistenti e li
avrebbe coinvolti maggiormente negli affari di tutti i giorni della
Compagnia.
Mentre si avvicinavano all’hotel, Madame Curie distanziò un po’ la
sua protetta, persa in programmi e progetti per la sua nuova vita. Fu
allora che Anastasia notò una falce che indossava una veste in pelle
sdrucita che le camminava accanto.
«Non mostrarti sorpresa, non ti fermare» disse Rowan da sotto un
cappuccio che gli nascondeva il viso.

Nella sala del Consiglio, le Grandi Falci avevano convocato i paggi


perché tenessero i parasole sopra le loro teste per il resto della
seduta. Era bizzarro ma necessario, perché il sole di mezzogiorno
scottava in modo insopportabile. Piuttosto che annullare l’udienza,
cosa che avrebbe solo fatto crescere la pila di pratiche arretrate del
Consiglio, le Grandi Falci decisero di tenere duro.
Sotto la sala, si trovavano tre piani di anticamere in cui
attendevano il loro turno coloro che avevano chiesto udienza. Al
piano più basso, una falce australiana era venuta a chiedere
l’immunità permanente per chiunque avesse antenati aborigeni nel
proprio indice genetico. La sua causa era encomiabile, e sperava che
il Consiglio avrebbe accolto la sua istanza. Mentre aspettava, si
accorse che c’era acqua sul pavimento. Non pensò che fosse motivo
di preoccupazione. All’inizio.

Intanto, al centro di controllo della galleggiabilità, tre tecnici


riflettevano sul problema che avevano davanti agli occhi. Pareva che
una valvola dei serbatoi di zavorra sotto la sala del Consiglio si fosse
aperta, lasciando entrare l’acqua. Non era insolito: la parte sommersa
dell’isola era dotata di centinaia di serbatoi giganteschi che
aspiravano o buttavano fuori l’acqua per far sì che l’isola galleggiasse
alla profondità ottimale. Troppo in basso, e i giardini si riempivano di
acqua marina. Troppo in alto, e le spiagge uscivano del tutto dal
mare. I serbatoi di zavorra erano collegati a un timer, e alzavano e
abbassavano l’isola di qualche metro due volte al giorno per simulare
le maree. Ma dovevano essere perfettamente coordinati, soprattutto
quelli posizionati sotto il complesso del Consiglio, perché era un’isola
nell’isola. Se la sala del Consiglio saliva o scendeva troppo, i tre ponti
che la collegavano all’atollo avrebbero sofferto della tensione. E ora,
la valvola era bloccata.
«Quindi, che facciamo?» chiese il tecnico di turno al supervisore.
Il supervisore non rispose, ma si rivolve al suo superiore, che, a
sua volta, parve non capire molto i messaggi rossi che
lampeggiavano sullo schermo di controllo. «A che velocità si sta
riempiendo il serbatoio?» chiese.
«Abbastanza in fretta per aver già fatto abbassare di un metro la
sala del Consiglio» rispose il primo tecnico.
Il superiore del supervisore fece una smorfia. Le Grandi Falci si
sarebbero infuriate se avessero dovuto interrompere la seduta per un
guasto così ridicolo come il blocco di una valvola del serbatoio di
zavorra. D’altra parte, se il pavimento del Consiglio si fosse allagato,
avrebbero dovuto arrancare nell’acqua, e sarebbero state ancora più
contrariate. Da qualsiasi lato si guardasse la cosa, il reparto dei
serbatoi era nei guai.
«Attiviamo l’allarme nella sala del Consiglio» ordinò. «Procediamo
all’evacuazione.»

Nella sala del Consiglio, le sirene si sarebbero sentite forti e chiare se


non fossero state scollegate a causa di una serie di falsi allarmi,
diverse settimane prima. Era stato un ordine della Suprema Roncola
Mondiale Kahlo. Partivano nel bel mezzo delle udienze, le Grandi
Falci sgombravano la sala e poi si scopriva che non c’era nessuna
vera emergenza. Le Grandi Falci erano troppo occupate, non
potevano essere disturbate per malfunzionamenti tecnici. «Nel caso
ci fosse una vera emergenza, sparate un razzo di segnalazione»
aveva detto, con una battuta di spirito.
Il fatto che gli allarmi fossero stati disattivati non era mai stato
comunicato al centro di controllo della galleggiabilità. Dai loro
schermi, risultava che le sirene erano partite e, per quanto ne
sapevano, le Grandi Falci stavano attraversando uno dei ponti che
conducevano all’isola. Fu solo quando ricevettero una chiamata
concitata dall’ingegnere capo dell’isola che, con orrore, appresero
che le Grandi Falci erano ancora nella sala del Consiglio.
«Rowan?» Anastasia era sia emozionata sia spaventata dalla sua
presenza. Per lui, non c’era al mondo un posto più pericoloso di
quello. «Cosa ci fai qui? Sei impazzito?»
«È una lunga storia, e sì» rispose. «Ascoltami bene e fai finta di
nulla.»
Anastasia si guardò intorno. Tutti badavano ai propri affari.
Madame Curie era andata avanti, e non si era accorta che lei era
rimasta indietro. «Ti ascolto.»
«Goddard ha un piano» disse Rowan. «Qualcosa di malvagio. Non
ho idea di cosa abbia in mente, ma devi lasciare subito l’isola.»
Anastasia fece un profondo respiro. Lo sapeva! Sapeva che
Goddard non avrebbe accettato la sentenza delle Grandi Falci se si
fossero pronunciate contro di lui. Doveva avere un piano di ripiego. Si
sarebbe vendicato. Anastasia doveva avvertire Marie, e avrebbero
affrettato la partenza.
«E tu?» gli chiese.
Rowan sorrise. «Speravo che potessi darmi un passaggio.»
Non era semplice, e Anastasia ne era consapevole. «La Suprema
Roncola della MidMerica Curie ti darà un passaggio solo se ti
costituisci.»
«Sai che non posso farlo.»
Sì, certo che lo sapeva. Anastasia avrebbe potuto cercare di farlo
salire a bordo spacciandolo per uno degli ufficiali di scorta della
Suprema Guardia ma, non appena Marie lo avesse visto in faccia,
sarebbe finita.
Proprio in quel momento, una donna con i capelli nero corvino e un
viso segnato da troppi ringiovanimenti si precipitò correndo verso di
loro.
«Marlon! Ehilà, Marlon! Ti ho cercato dappertutto.» Prese Rowan
per il braccio, poi lo guardò in faccia prima che potesse voltarsi. «Un
momento… lei non è Maestro Brando…» disse, confusa.
«No, ha sbagliato persona» intervenne subito Anastasia. «La veste
di Maestro Brando è di pelle un po’ più scura. Lui è Maestro Vuitton.»
«Oh…» fece la donna, un po’ esitante. Stava chiaramente
cercando di capire dove avesse già visto quel volto. «Mi scusi.»
Anastasia assunse un’aria indignata, sperando che in quel modo la
donna rinunciasse a concentrarsi sulla fisionomia di Rowan. «Come
minimo! La prossima volta che avvicina una falce per strada, si
assicuri che sia quella giusta.» Poi, si voltò verso Rowan e lo trascinò
via più in fretta che poté.
«Maestro Vuitton?»
«È stata l’unica cosa che mi è venuta in mente. Devi nasconderti
prima che qualcuno ti riconosca!»
Ma non avevano ancora mosso un passo che alle loro spalle
sentirono un terribile fracasso metallico e delle urla. E capirono che il
fatto che qualcuno potesse riconoscere Rowan era l’ultimo dei loro
problemi.

Poco tempo prima, la falce australiana era salita dal sottosuolo ed


era arrivata alle porte della sala del Consiglio. «Mi scusi» disse a una
delle guardie, «credo che ci sia una qualche perdita ai piani inferiori.»
«Una perdita?» chiese la guardia.
«Be’, il tappetto è fradicio, di sicuro c’è molta acqua, e non penso
che provenga dalle tubature.»
La guardia sospirò a quella nuova scocciatura. «Informerò la
manutenzione» disse, ma naturalmente quando ci provò le linee di
comunicazione erano fuori servizio.
Poi, un paggio arrivò di corsa dalla veranda, con il fiato corto. «C’è
qualcosa che non va!» annunciò, con quello che era l’eufemismo
dell’anno. Quando mai c’era qualcosa che andava come doveva a
Endura, in quei giorni?
«Sto cercando di mettermi in contatto con la manutenzione» gli
spiegò la guardia.
«Chi se ne frega della manutenzione, venga fuori a vedere!» gridò
il paggio.
La guardia non era autorizzata a lasciare il suo posto davanti alla
sala del Consiglio, ma il panico del paggio lo preoccupò. Fece alcuni
passi verso la veranda e constatò che non c’era più. Un balcone, che
era sempre stato a tre metri dalla superficie dell’acqua, ora ne era
immerso: il mare stava per invadere il corridoio che conduceva alla
stanza in cui erano riunite le Grandi Falci.
C’era un’unica via di uscita. Tornò di corsa alle porte, ma non
aveva l’autorizzazione necessaria per aprirle con l’impronta della sua
mano. Cominciò a picchiare con tutta la forza che aveva, nella
speranza che qualcuno oltre i pesanti battenti potesse sentirlo.
Ormai tutti nel complesso, a parte il Consiglio, avevano capito che
c’era qualcosa che non andava. Le falci e le loro squadre in attesa di
essere ricevute uscirono in massa dalle anticamere, andando ad
affollare i tre ponti che conducevano all’anello interno dell’isola. La
falce australiana fece del suo meglio per aiutare la gente ad
attraversare la veranda sommersa per raggiungere il ponte più vicino.
Intanto, le porte del Consiglio restavano chiuse. E il corridoio si
trovava ormai sotto un metro d’acqua.
«Dovremmo aspettare le Grandi Falci» suggerì la falce australiana
al paggio.
«Le Grandi Falci possono sbrigarsela da sole» replicò lui, e
abbandonò il complesso, per precipitarsi verso uno dei ponti.
La falce australiana esitò. Era un buon nuotatore, e se necessario,
avrebbe potuto percorrere a nuoto i quattrocento metri che
separavano l’occhio dal resto dell’isola. Decise di aspettare, sapendo
che, quando le porte si fossero aperte, le Grandi Falci avrebbero
avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile.
Poi, all’improvviso, un cigolio spaventoso e straziante riempì l’aria.
La falce si voltò e vide che il ponte, su cui si trovavano decine di
persone, aveva cominciato a cedere, spezzandosi e scaricando in
mare tutto il suo carico umano.
Si considerava un uomo di grande onore e audacia. Aveva deciso
di restare e rischiare la propria vita pur di salvare le Grandi Falci. Si
vedeva come l’eroe del momento. Ma quando il ponte crollò, venne
meno anche il suo coraggio. Osservò i sopravvissuti che si agitavano
in acqua. Guardò le porte del Consiglio, che la guardia continuava a
cercare di aprire, anche se l’acqua le arrivava al petto. E decise che
non c’era più tempo da perdere. Si arrampicò su una sporgenza
appena sopra il livello dell’acqua, e si precipitò verso il secondo dei
tre ponti, lo attraversò correndo più veloce che poté e si mise in
salvo.
La piccola sala di controllo della galleggiabilità era strapiena di tecnici
e ingegneri che parlavano gli uni sugli altri, discutendo,
contraddicendosi, ma nessuno riusciva a risolvere il problema. Su
ogni schermo appariva un messaggio di emergenza diverso. Dopo il
crollo del primo ponte, tutti avevano compreso la gravità della
situazione.
«Dobbiamo ridurre la pressione sugli altri due ponti!» esclamò
l’ingegnere municipale.
«E come pensa di farlo?» sbottò il responsabile della
galleggiabilità.
L’ingegnere ci pensò un po’, poi si avvicinò al tecnico, che era
ancora seduto alla consolle centrale, a fissare gli schermi, incredulo.
«Abbassiamo il resto dell’isola!» esclamò l’ingegnere municipale.
«Di quanto?» chiese il tecnico con aria assente, come se si fosse
estraniato dalla realtà.
«Di quanto basta per allentare la tensione sui due ponti che
restano. Diamo alle Grandi Falci un po’ di tempo per mettersi al
riparo!» Si fermò, per fare qualche calcolo a mente. «Abbassiamo
l’isola di un metro rispetto al punto di alta marea.»
Il tecnico scosse la testa. «Il sistema non me lo consente.»
«Sì, se lo autorizzo io.» Ed eseguì la scansione dell’impronta della
propria mano per accedere al sistema.
«Lo sa che in questo modo allagherà i giardini inferiori, vero?»
disse il responsabile della galleggiabilità, disperato.
«Chi preferisce salvare?» chiese l’ingegnere. «I giardini inferiori o
le Grandi Falci?»
Messa in quel modo, non fece ulteriori obiezioni.

In quel preciso istante, in un altro ufficio che si trovava al piano più


basso dello stesso edificio della manutenzione, i biotecnici erano
all’oscuro del dramma che si stava consumando nel complesso del
Consiglio. Avevano per le mani un altro grosso grattacapo, il
malfunzionamento più bizzarro che avessero mai visto. Si trattava
dell’ufficio di controllo della fauna selvatica, impegnato a monitorare i
paesaggi viventi che offrivano quelle visioni sottomarine così
spettacolari. Di recente, avevano avuto a che fare con banchi di pesci
imprigionati in anelli simili ai nastri di Möbius, specie intere che si
erano messe a nuotare al contrario e predatori che attaccavano le
vetrate con una violenza tale da spaccarsi il cranio. Ma ciò che
mostrava ora il sonar era cento volte più assurdo.
I due specialisti dei paesaggi viventi potevano solo guardare,
impotenti. Sullo schermo, l’isola di Endura sembrava essere
circondata da una specie di nube circolare, come un anello di fumo
sottomarino che, invece di espandersi, si condensava sempre di più.
«Che cos’è?» chiese un tecnico.
«Be’, se i dati sono esatti» rispose l’altro, «è un nugolo dei nostri
animali marini infusi di naniti.»
«Quali?»
Il secondo tecnico staccò gli occhi dallo schermo per guardare il
collega.
«Tutti.»

Nella sala, le Grandi Falci ascoltavano l’argomentazione piuttosto


insensata di una falce che voleva che il Consiglio proibisse la
possibilità di autospigolarsi prima di aver raggiunto la quota di
spigolature. La Suprema Roncola Mondiale Kahlo sapeva che
l’istanza sarebbe stata respinta: togliersi di mezzo era una decisione
molto personale, che non doveva dipendere da fattori esterni come le
quote. Tuttavia, il Consiglio aveva il dovere di ascoltare
l’argomentazione fino in fondo e cercare di mantenere una mente
aperta.
Durante il discorso arzigogolato della falce, Kahlo credette di
sentire un rumore sordo, come una detonazione lontana, ma pensò
che si trattasse di cantieri di lavoro sull’isola. C’erano sempre delle
cose che si costruivano o si riparavano.
Ma quando udì le urla e il fracasso del ponte che crollava, si rese
conto che era accaduto qualcosa di molto grave.
«Che diavolo è stato?» chiese la Grande Falce Cromwell.
Poi, furono tutti presi da un senso di vertigine, e la falce che era
impegnata a esporre la sua argomentazione barcollò come un
ubriaco. La Suprema Roncola Mondiale ci mise qualche istante prima
di capire che il pavimento non era più orizzontale. E ora vedeva
chiaramente l’acqua infiltrarsi sotto le porte.
«Propongo di sospendere l’udienza» disse Kahlo. «Non so di
preciso cosa stia succedendo là fuori, ma credo che sia meglio
uscire. Adesso.»
Scesero tutti dai loro scranni e si precipitarono verso l’uscita.
L’acqua, ormai, arrivava fino alla cintola. E c’era qualcuno che
bussava dall’altra parte delle porte. Ne udivano la voce sopra le alte
pareti della sala.
«Eccellenze» diceva. «Mi sentite? Dovete uscire! Non c’è più
tempo!»
La Suprema Roncola Mondiale Kahlo spinse la porta, ma non si
aprì. Riprovò. Nulla.
«Potremmo arrampicarci» propose Senocrate.
«E come?» chiese Hideyoshi. «Il muro è alto quattro metri!»
«Forse potremmo salire uno sulle spalle dell’altro» suggerì
MacKillop. L’idea non era poi così sbagliata, ma nessuno pareva
disposto a umiliarsi facendo una piramide umana.
Kahlo alzò gli occhi al cielo, oltre la cupola aperta della sala. Se il
complesso del Consiglio si stava inabissando, alla fine l’acqua
sarebbe straripata oltre le pareti. Avrebbero potuto sopravvivere a un
tale diluvio? Non voleva saperlo.
«Senocrate! Hideyoshi! Mettetevi contro il muro. Farete da base.
Amundsen, tu sali sulle loro spalle. Aiuterai gli altri ad arrampicarsi e
a scavalcare.»
«Sì, eccellenza eminentissima» disse Senocrate.
«E smettila» replicò. «Ora il mio nome è solo Frida. Adesso,
muoviamoci.»

Anastasia avrebbe voluto poter dire di essersi data subito da fare non
appena era crollato il ponte, ma non era stato così. Lei e Rowan
erano rimasti lì impalati a fissare la scena increduli, come del resto
tutti quanti.
«È stato Goddard» affermò Rowan. «Dev’essere opera sua.»
Madame Curie arrivò accanto a loro. «Anastasia, hai visto?» le
chiese. «Che è successo? Il ponte è caduto in acqua?» Subito dopo
si accorse di Rowan, e il suo atteggiamento cambiò di colpo. «No!»
esclamò, e d’istinto estrasse un coltello. «Non puoi essere qui!»
gridò, e poi si voltò verso Anastasia. «E tu non puoi parlare con lui!»
E, come se credesse di aver capito, apostrofò Rowan con rabbia:
«Sei stato tu a fare questo? Perché se è vero ti spigolo qui, in questo
stesso istante!».
Anastasia si mise tra i due. «È Goddard il responsabile!» esclamò.
«Rowan è venuto ad avvertirci.»
«Non credo proprio che sia venuto a Endura per questo motivo»
replicò Madame Curie, in preda a una feroce indignazione.
«Ha ragione» confermò Rowan. «Sono qui perché Goddard voleva
consegnarmi alle Grandi Falci per ottenere il loro appoggio. Ma sono
fuggito.»
Quando sentì menzionare le Grandi Falci, Madame Curie ritornò a
concentrarsi su quanto stava succedendo. Guardò in direzione del
complesso del Consiglio, al centro dell’occhio dell’isola. Erano rimasti
in piedi due ponti, ma l’edificio si era abbassato di molto e pendeva
pericolosamente da una parte.
«Mio Dio, vuole ucciderli tutti!»
«Può ucciderli, ma non definitivamente» replicò Anastasia.
Rowan scosse la testa. «Tu non conosci Goddard.»
Intanto, a qualche chilometro di distanza, l’acqua del mare
cominciava a invadere i giardini lungo il litorale, sull’anello esterno
dell’isola.

Data l’assenza totale di comunicazioni, al centro di controllo della


galleggiabilità dovevano accontentarsi di osservare la situazione dalla
finestra, oltre ad affidarsi ai messaggeri che correvano da una parte
all’altra per riferire ciò che loro non potevano vedere. A quanto si
sapeva, le Grandi Falci si trovavano ancora nel complesso del
Consiglio, che stava iniziando a sprofondare, mentre si cercava di
abbassare il resto dell’isola per ridurre le sollecitazioni meccaniche
che avrebbero altrimenti fatto crollare anche i due ponti rimasti. In
quel caso, l’intero fabbricato che ospitava il Consiglio sarebbe andato
distrutto. E, anche se si potevano inviare i sommergibili a recuperare i
corpi delle Grandi Falci per procedere alla loro rianimazione,
l’impresa non sarebbe stata affatto semplice. Nessuno al centro di
controllo della galleggiabilità aveva l’immunità e, per quanto Endura
fosse una zona interdetta alle spigolature, si sospettava che
sarebbero cadute delle teste se le Grandi Falci fossero affogate e
avessero dovuto essere rianimate.
Sulla consolle di controllo, accesa come un albero di Natale,
lampeggiavano rabbiose spie di segnalazione e l’urlo insistente degli
allarmi rendeva tutti tesissimi.
Il tecnico era sudato fradicio. «Ora l’isola è a circa un metro e
mezzo sotto il punto di alta marea» disse agli altri lì riuniti.
«Scommetto che le strutture più basse hanno già iniziato a riempirsi
di acqua.»
«Ci sarà un mucchio di gente infuriata alle terre basse» disse il
responsabile della galleggiabilità.
«Un problema alla volta, per favore!» L’ingegnere municipale si
strofinò gli occhi con una tale forza che quasi se li spinse nel cranio.
Poi, fece un profondo respiro e disse: «Va bene, chiudiamo le valvole
e aspettiamo. Daremo alle Grandi Falci ancora un minuto per uscire
prima di svuotare i serbatoi di zavorra e riportare l’isola alla posizione
originale».
Il tecnico si mise a eseguire l’ordine, poi si fermò. «Oh, c’è un
problema.»
L’ingegnere municipale chiuse gli occhi, immaginando di trovarsi in
un bel posto; da qualsiasi parte, ma lontano da lì. «E ora che c’è?»
«Le valvole dei serbatoi di zavorra non rispondono. Stiamo
imbarcando ancora acqua.» Passò di schermo in schermo, e ogni
volta appariva un messaggio di errore che non se ne andava. «Tutto
il sistema di galleggiabilità è bloccato. Dobbiamo riavviarlo.»
«Ottimo» commentò l’ingegnere. «Ottimo, non c’è che dire. Quanto
ci vorrà?»
«Ci vorranno venti minuti.»
L’ingegnere vide lo sguardo del tecnico cambiare dal disgusto
all’orrore e, anche se non voleva fare quella domanda, sapeva che
era suo dovere. «E se continuiamo a incamerare acqua, in quanto
tempo raggiungeremo il limite di galleggiabilità?»
Il tecnico fissò lo schermo, scuotendo la testa.
«Quanto tempo?» ripeté l’ingegnere.
«Dodici minuti» rispose il tecnico. «Se il sistema non si riavvia,
Endura affonderà tra dodici minuti.»

L’allarme generale, che funzionava dappertutto tranne che


nell’edificio del Consiglio, risuonò in tutta l’isola. All’inizio, la gente
pensò che fosse l’ennesimo malfunzionamento e continuò a
occuparsi delle proprie faccende. Solo le persone che si trovavano
nelle torri più alte, con vista panoramica, potevano scorgere le terre
basse che venivano sommerse dall’acqua. Si precipitarono in strada,
correndo o infilandosi nelle publicar.
Fu Madame Curie che seppe interpretare l’entità del panico e si
accorse di quanto era salito il livello dell’acqua all’interno dell’occhio
dell’isola, pochi metri prima che invadesse la strada. La rabbia contro
Rowan sfumò all’istante.
«Dobbiamo andare al porto» disse a lui e ad Anastasia. «E
dobbiamo farlo in fretta.»
«E il nostro aereo?» chiese Anastasia. «Ce lo stavano già
preparando.»
Madame Curie non si preoccupò nemmeno di rispondere, troppo
impegnata a farsi strada tra la folla sempre più compatta, e si diresse
al porto. Solo un attimo dopo Anastasia capì il perché…

La coda alla pista aerea dell’isola cresceva a vista d’occhio, più in


fretta di quanto non riuscissero a decollare i velivoli. Il terminal
risuonava di ogni sorta di contrattazione, tentativi di corruzione e
scazzottate, quando le buone maniere non bastavano. Alcune falci
rifiutavano di imbarcare chiunque non appartenesse al loro gruppo,
altre invece aprivano i loro aerei a tutte le persone che era possibile
trasportare. Era un test sull’integrità delle falci.
Una volta al sicuro a bordo, la gente cominciò a rilassarsi, ma era
comunque turbata dall’impressione che non sarebbe andata da
nessuna parte. E, anche al riparo sugli aerei, si sentivano ancora gli
allarmi lontani che risuonavano su tutta l’isola.
Cinque aerei riuscirono a decollare prima che le piste venissero
sommerse. Il sesto rullò in una profonda pozza d’acqua, ma riuscì
comunque ad alzarsi in cielo. Il settimo velivolo accelerò in quindici
centimetri d’acqua, e ne fu così fortemente rallentato che non
raggiunse la velocità necessaria al decollo, finendo la sua corsa in
mare.

Al centro di controllo della fauna selvatica, i biologi di turno cercavano


invano di attirare un superiore nel loro ufficio, ma tutti sostenevano di
avere pesci più grossi di cui occuparsi di quelli che stavano ora
salendo a galla da sotto l’isola.
Sul loro schermo, e oltre la vetrata che dava sul mare, il banco in
avvicinamento parve disperdersi: le specie più rapide e più grosse
raggiungevano l’occhio prima delle altre.
Un biologo si voltò verso il collega. «Sai… comincio a credere che
non sia un malfunzionamento del sistema. Penso che ci abbiano
attaccati.»
Fu allora che, davanti ai loro occhi, una balenottera superò la
vetrata e puntò verso la superficie.

Dopo il terzo inutile tentativo di arrampicarsi sulle pareti della sala del
Consiglio, le Grandi Falci, gli assistenti e i paggi si riunirono per
escogitare un altro piano.
«Quando la sala sarà del tutto invasa dall’acqua, ne usciremo a
nuoto» suggerì Frida. «Dobbiamo solo restare a galla mentre si
allaga. Sapete tutti nuotare?» Ognuno annuì, a parte la Grande Falce
Nzinga, che aveva sempre tenuto un contegno calmo e garbato e che
ora era quasi nel panico.
«Non ti preoccupare, Anna» disse Cromwell. «Attaccati a me e
arriveremo a riva.»
Dalla parte opposta della sala, l’acqua iniziò a traboccare dal bordo
superiore della parete. I paggi e gli assistenti, che avevano avuto la
sfortuna di trovarsi anche loro intrappolati lì dentro, guardavano
terrorizzati le Grandi Falci in attesa che dicessero loro cosa fare,
come se potessero fermare l’inondazione con un semplice gesto
della mano.
«Mettiamoci nei posti più alti!» gridò la Grande Falce Hideyoshi, e
tutti cercarono di arrampicarsi sui Seggi della Riflessione più vicini,
senza preoccuparsi di chi fossero. Con il pavimento che si era
inclinato, i troni di giada e onice si erano venuti a trovare nelle
posizioni più elevate, ma Amundsen, che era un abitudinario, si
diresse d’istinto al suo scranno. Arrancando nell’acqua per
raggiungerlo, sentì un dolore acuto alla caviglia. Guardando in basso,
vide una piccola pinna con la punta nera allontanarsi mentre l’acqua
si tingeva di rosso. Del suo sangue.
“Uno squalo pinna nera?”
Non ce n’era uno solo. Erano ovunque. Passavano sopra le pareti
della sala che affondava e, mentre il diluvio cresceva, Amundsen
giurò di aver visto anche altre pinne, più grandi.
«Squali!» gridò. «Mio Dio, è pieno di squali!» Si arrampicò sul suo
scranno, mentre il sangue gli scendeva dalla gamba sul marmo
bianco e colava in acqua, scatenando la frenesia degli squali.
Senocrate guardava la scena aggrappato al suo seggio di onice,
appena sopra il livello dell’acqua, accanto a Kahlo e Nzinga. A un
tratto, un’idea gli attraversò la mente, un’idea che superava per
orrore la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi. Tutti sapevano che
esistevano due modi per uccidere qualcuno in modo definitivo: il
fuoco e l’acido. Entrambi consumavano la carne e non lasciavano più
nulla da rianimare.
Ma c’erano altre maniere per assicurarsi che la carne si
consumasse…

Sull’anello interno, la confusione e l’incredulità che si erano


impadronite delle strade e delle torri stavano rapidamente cedendo il
passo al panico generale. La gente correva in ogni direzione, senza
sapere dove andare, sicura che chi procedeva in senso opposto si
sbagliasse. Il mare cominciava a risalire dai tombini; cascate d’acqua
scendevano dalle scale del quartiere degli hotel e inondavano i livelli
inferiori, e i pontili del porto si piegavano sotto il peso delle persone
che cercavano di salire a bordo di un’imbarcazione o di un
sottomarino.
Marie, Anastasia e Rowan non riuscirono nemmeno ad avvicinarsi
ai moli.
«Siamo arrivati troppo tardi!»
Anastasia scrutò i pontili: le poche barche ancora attraccate erano
già stracariche, e altre persone cercavano di salirvi a bordo. Le falci
vibravano colpi di coltello a destra e a manca, abbattendo chi
arrembava le imbarcazioni ormai sovraffollate.
«Che spettacolo, il vero cuore dell’umanità» commentò Madame
Curie. «I valorosi e i depravati, tutti insieme.»
Poi, dalle acque intorno all’occhio, che ribollivano come una
pentola sul fuoco, emerse una balena che con un salto si lanciò
contro un pontile, demolendolo e scaraventando in mare tutta la
gente che vi era sopra.
«Non è una coincidenza» disse Rowan. «Non può esserlo!» Da
dove si trovava poteva vedere che l’occhio intero pullulava di vita
marina. Anche quello faceva parte del piano di Goddard?
Tutti alzarono lo sguardo quando sentirono le pale di un elicottero
che sbattevano al di sopra delle loro teste. Il mezzo li sorvolò
dirigendosi verso l’occhio e il complesso del Consiglio.
«Bene» commentò Madame Curie. «Vanno a salvare le Grandi
Falci.» Potevano solo sperare che non fosse troppo tardi.

Nzinga, che aveva paura dell’acqua almeno quanto ne aveva degli


squali, fu la prima a vedere la salvezza arrivare dal cielo.
«Guardate!» gridò, mentre l’acqua le lambiva i piedi e uno squalo le
sfiorava la caviglia.
L’elicottero si abbassò, restando in volo stazionario al centro della
sala del Consiglio, appena sopra la superficie increspata dell’acqua.
«Chiunque sia, riceverà l’immunità eterna se già non ce l’ha!»
esclamò Kahlo.
Ma in quel momento, la Grande Falce Amundsen perse l’equilibrio
e scivolò dallo scranno, finendo in acqua. La reazione dei predatori fu
immediata. Gli squali si gettarono su di lui, famelici.
Amundsen gridò e li colpì, tentando di respingerli. Si strappò via la
veste e provò a risalire sul trono ma, proprio nell’istante in cui
pensava di avercela fatta, una pinna più grande emerse in superficie
e serpeggiò verso di lui.
«Roald!» gridò Cromwell. «Attento!»
Anche se lo vide arrivare, non poté fare nulla. Lo squalo tigre si
scagliò contro di lui, lo azzannò alla vita e lo trascinò sott’acqua, in
una schiuma ribollente di sangue.
Fu uno spettacolo orribile, ma Frida mantenne la calma. «Ora, è la
nostra occasione!» esclamò. «Andiamo ora!» Si tolse la veste e si
tuffò in acqua, nuotando con tutte le sue forze verso l’elicottero,
approfittando della distrazione degli squali che si accanivano sulla
loro prima vittima.
Gli altri la imitarono: MacKillop, Hideyoshi e Cromwell, che si
affannava ad aiutare Nzinga. Tutti gli altri si tuffarono da dove si
trovavano, seguendo l’esempio della Suprema Roncola Mondiale.
Solo Senocrate rimase dov’era… perché aveva visto qualcosa di cui
era l’unico a essersi accorto.
Il portellone dell’elicottero si spalancò: all’interno, c’erano Goddard
e Rand.
«Presto!» li incitò Goddard, sporgendosi dall’abitacolo, e tendendo
la mano verso le Grandi Falci che si stavano avvicinando a nuoto.
«Potete farcela!»
Senocrate rimase a guardare. Era quello il suo piano? Spingere le
Grandi Falci al limite estremo e poi strapparle letteralmente dalle
fauci della morte per guadagnarsi il loro favore eterno? O aveva
qualcos’altro in mente?
La Suprema Roncola Mondiale Kahlo fu la prima a raggiungere
l’elicottero. Aveva sentito gli squali sfiorarla, ma nessuno l’aveva
ancora attaccata. Se solo fosse riuscita ad afferrare il carrello e a
tirarsi fuori dall’acqua…
Ci riuscì, e con l’altra mano si allungò verso Goddard.
Ma, all’ultimo momento, lui ritirò il braccio. «Non oggi, Frida» le
annunciò, con un sorriso compassionevole. «Non oggi.» Schiacciò
con il piede la mano della Suprema Roncola Mondiale, che fu
costretta a lasciare la presa, e l’elicottero si alzò in cielo,
abbandonando le Grandi Falci nella sala inondata e infestata dagli
squali.
«No!» gridò Senocrate. Goddard non era venuto a soccorrerli, ma
a rivendicare il suo ruolo di boia. Era venuto ad assaporare il dolce
sapore della vendetta.
Il battito pulsante delle pale aveva intimidito gli squali
allontanandoli dal centro della sala ma, quando l’elicottero se ne fu
andato, obbedirono all’istinto biologico e ai naniti, riprogrammati in
modo che sentissero una fame insaziabile.
Il branco di squali attaccò quelli che erano in acqua. Squali pinna
nera, squali tigre, pesci martello. Tutti quei predatori marini così
impressionanti quando li si osservava dalle vetrate di una suite
sottomarina.
Senocrate non poté fare nulla, se non assistere, impotente, allo
scempio dei suoi colleghi, e udirne le urla svanire tra le onde.
Si arrampicò fino in cima al suo seggio, che era ormai quasi del
tutto sommerso, come la sala del Consiglio. Sapeva che gli restavano
solo pochi secondi di vita, ma in quegli ultimi istanti si rese conto che
poteva strappare ancora un’ultima vittoria. C’era una cosa che poteva
negare a Goddard. E, senza perdere un secondo di più, si alzò in
piedi sullo scranno e si tuffò in acqua. A differenza degli altri, non si
tolse la tunica e, proprio come nella piscina di Goddard un anno
prima, il peso della veste ricamata d’oro lo trascinò sul fondo.
Non si sarebbe fatto divorare dagli squali. Era deciso ad annegare
prima che lo azzannassero. Se quello era il suo ultimo gesto da
Grande Falce, l’avrebbe trasformato in una vittoria! Avrebbe fatto
qualcosa di eccezionale!
Così, sul fondo della sala sommersa, Senocrate si svuotò i
polmoni, inalò acqua di mare, e affogò eccezionalmente bene.
Ho coccolato l’umanità troppo a lungo.
E, nonostante sia per me una madre, la razza umana mi appare sempre più come
un bambino che tengo stretto al petto. Un bambino non può imparare a camminare se
viene tenuto sempre in braccio. E una specie non può crescere se non affronta mai le
conseguenze delle proprie azioni.
Privare l’umanità della lezione sulle conseguenze sarebbe un errore.
E io non commetto errori.

Il Thunderhead
46
Il destino dei cuori duraturi

Dall’alto, Goddard osservava le Grandi Falci che si facevano


divorare, compiacendosi della vista panoramica di cui godeva sulla
sua grandiosa opera. Proprio come un tempo Madame Curie aveva
tagliato i rami secchi della civiltà occidentale, lui si era sbarazzato di
un’altra arcaica forma di organismo dirigente. Non ci sarebbero più
state Grandi Falci. Ogni regione sarebbe stata autonoma e non
avrebbe più dovuto rispondere a un’autorità superiore che passava il
suo tempo a imporre regolamenti restrittivi.
Naturalmente, a differenza di Madame Curie, si sarebbe guardato
bene dall’attribuirsene il merito. Perché, sebbene molti colleghi lo
avrebbero elogiato per essersi sbarazzato delle Grandi Falci,
altrettanti lo avrebbero condannato. Meglio farlo passare per un
terribile incidente. Terribile e inevitabile, in realtà. Dopotutto, era da
mesi che a Endura si verificavano numerosi malfunzionamenti.
Malfunzionamenti orchestrati dalla squadra di ingegneri e
programmatori che lui aveva personalmente costituito. Nessuno però
l’avrebbe mai saputo, perché quegli ingegneri e quei programmatori
erano stati tutti spigolati. E lo sarebbe stato presto anche il pilota,
dopo averli portati alla nave che era in attesa a una cinquantina di
miglia di distanza.
«Come ci si sente dopo aver cambiato il mondo?» chiese Ayn.
«Come se mi fosse stato tolto un peso di dosso» le rispose. «Sai,
c’è stato un momento in cui ho pensato di salvarli. Ma è stato solo un
momento.» Sotto di loro, la sala del Consiglio era ormai del tutto
sommersa. «Che sanno sul continente?»
«Nulla» rispose Rand. «Le comunicazioni si sono interrotte nel
momento in cui siamo entrati nella sala del Consiglio. Della loro
decisione non resterà alcuna evidenza.»
Mentre osservava l’isola dall’alto e vedeva il panico dilagare nelle
strade, Goddard si rese conto di quanto la situazione si fosse
aggravata.
«Forse, abbiamo esagerato un po’» commentò, mentre
sorvolavano le terre basse sommerse. «Credo proprio che Endura sia
destinata a sparire.»
Rand scoppiò a ridere. «Te ne sei accorto solo ora? Pensavo che
facesse parte del piano.»
Goddard aveva sabotato vari sistemi che mantenevano Endura in
funzione e a galla. Lo scopo era paralizzarla il tempo necessario per
eliminare le Grandi Falci. Ma se Endura fosse sprofondata e se
anche tutti i sopravvissuti fossero stati divorati, sarebbe stato molto
meglio. Non avrebbe più dovuto affrontare Madame Curie e Madame
Anastasia. Ayn lo aveva intuito prima di lui, e questo sottolineava
quanto gli fosse preziosa. E anche quanto questo lo preoccupasse.
«Portaci via di qui» ordinò al pilota, e non pensò più al destino
dell’isola.

Ancora prima che la balena si introducesse nel porto, Rowan aveva


capito che non avevano più nessuna speranza di imbarcarsi. Se
Endura era davvero sul punto di sprofondare, non c’era alcun mezzo
tradizionale per abbandonarla.
Si aggrappò all’idea che esistesse comunque una possibilità. Era
abbastanza intelligente, dopotutto. Ma più il tempo passava, più
doveva ammettere di non essere all’altezza della situazione.
Non lo avrebbe detto a Citra. Se ciò che restava era solo la
speranza, non voleva togliergliela. Le avrebbe fatto credere fino
all’ultimo che c’era una speranza.
Fuggirono dal porto, insieme a un’orda di persone. Qualcuno si
avvicinò a loro. Era la donna che aveva scambiato Rowan per la falce
a cui aveva rubato la veste.
«So chi è lei!» esclamò, a voce troppo alta. «Lei è Rowan
Damisch! Quello che chiamano Maestro Lucifero!»
«Non so di cosa stia parlando» si difese Rowan. «Maestro Lucifero
si veste di nero.» Ma la donna non si fece intimidire, e ora tutti gli
occhi erano puntati su di loro.
«È stato lui! Ha ucciso le Grandi Falci!»
La notizia passò di bocca in bocca tra la folla. «Maestro Lucifero! È
stato Maestro Lucifero! È tutta colpa sua!»
Citra lo afferrò. «Dobbiamo andarcene di qui! La gente è fuori
controllo. Se capisce chi sei, ti farà a pezzi!»
Corsero via dalla donna e dalla folla. «Saliamo su una torre»
suggerì Citra. «Se c’è un elicottero, magari ce ne sono altri. L’unica
via di salvezza può arrivare dal cielo.»
«Buona idea» commentò Rowan, anche se i tetti erano già pieni di
gente che aveva fatto lo stesso ragionamento.
Madame Curie si fermò. Osservò il porto e le strade che si stavano
riempiendo d’acqua intorno a loro. Guardò i tetti. Poi, prese un
profondo respiro e disse: «Ho un’idea migliore».

Nella sala di controllo della galleggiabilità, l’ingegnere municipale e


tutti gli altri che avevano lanciato ordini al tecnico erano spariti. «Vado
dalla mia famiglia, e lascio l’isola prima che sia troppo tardi» aveva
detto l’ingegnere. «Vi suggerisco di fare lo stesso.»
Naturalmente, era già troppo tardi. Il tecnico fu l’unico a non
andarsene. Rimase a fissare la barra di avanzamento che si
illuminava sullo schermo millimetro dopo millimetro mentre il sistema
si riavviava, sapendo bene che, quando fosse arrivata alla fine,
Endura sarebbe scomparsa. Ma conservava la tenue speranza che
forse, almeno quell’unica volta, il sistema avrebbe avuto come per
miracolo un inaspettato scatto di velocità completando il riavvio in
tempo.
Quando l’orologio dell’apocalisse superò di cinque minuti il punto di
non ritorno, il tecnico dovette abbandonare la speranza. Ora, anche
se il sistema si fosse rimesso in funzione e le pompe avessero
iniziato a svuotare i serbatoi, non avrebbe più avuto importanza. La
galleggiabilità era negativa e le pompe non avrebbero potuto aspirare
l’acqua tanto in fretta da cambiare il destino di Endura.
Si avvicinò alla finestra che offriva una vista spettacolare
sull’occhio e sulla sede del Consiglio. Il complesso era scomparso, e
con quello anche le Grandi Falci. Sotto la finestra, il lungo viale che
costeggiava l’anello interno era invaso dall’acqua che si riversava
dall’occhio. Le poche persone rimaste per strada si affannavano per
salvarsi la vita, cosa che ormai era poco più che una fantasticheria.
Sopravvivere al naufragio di Endura non era una fantasticheria con
cui il tecnico aveva voglia di intrattenersi. Tornò alla consolle, mise
della musica e guardò la barra di avanzamento del riavvio passare
dal 19 al 20 per cento.

Madame Curie attraversava di corsa la città. L’acqua aveva già


raggiunto le caviglie e continuava a salire. Diede un calcio a uno
squalo che era arrivato fin sulla strada.
«Dove stiamo andando?» chiese Anastasia. Se Marie aveva un
piano, non ne parlava e, in tutta onestà, Anastasia dubitava che lo
avesse. Non c’era alcuna via di fuga. Nessuna possibilità di lasciare
l’isola che affondava. Ma non lo avrebbe detto a Rowan. L’ultima
cosa che voleva era privarlo della speranza.
Si infilarono in un edificio a un isolato di distanza dall’anello interno.
Anastasia aveva la sensazione di conoscerlo, ma nel panico non
riuscì a identificarlo. L’acqua penetrava dalla porta principale e si
riversava ai piani bassi. Marie salì le scale e si fermò alla porta del
secondo piano.
«Mi vuoi dire dove stiamo andando?» chiese Anastasia.
«Ti fidi di me?»
«Certo che mi fido di te, Marie.»
«Allora, non fare più domande.» Spinse la porta e finalmente
Anastasia riconobbe il posto. Avevano preso un’entrata secondaria
del Museo della Compagnia e ora si trovavano nel negozio di
souvenir che aveva visto durante la loro visita privata. Era deserto, le
cassiere avevano da tempo abbandonato le loro postazioni.
Marie appoggiò la mano su una porta. «Come Suprema Roncola,
dovrei avere l’autorizzazione necessaria. Speriamo che il sistema
l’abbia almeno registrato.»
Il sistema di riconoscimento lesse l’impronta della sua mano e la
porta si aprì su una passerella che conduceva a un enorme cubo in
acciaio sospeso magneticamente all’interno di un altro cubo in
acciaio ancora più imponente.
«Cos’è questo posto?» chiese Rowan.
«La chiamano la Camera delle Reliquie e dei Futuri.» Marie
attraversò la passerella di corsa. «Sbrigatevi, non abbiamo molto
tempo.»
«Perché siamo qui, Marie?» chiese Anastasia.
«Perché c’è ancora una possibilità di lasciare l’isola. E non avevo
detto di non fare più domande?»
La camera blindata era nello stesso stato del giorno prima, quando
Anastasia e Marie avevano avuto il privilegio di visitarla. Le vesti dei
fondatori. Le migliaia di gemme che decoravano i muri.
«Laggiù» indicò Marie. «Dietro la veste della Suprema Roncola
Mondiale Prometeo. Lo vedete?»
Anastasia scrutò dietro la veste. «Che stiamo cercando?»
«Lo saprai quando lo vedrai» rispose Marie.
Rowan le raggiunse. Non c’era nulla dietro la veste. Nemmeno la
polvere.
«Marie, ci puoi almeno dare un indizio?»
«Mi dispiace, Anastasia» disse. «Mi dispiace, per tutto.»
Quando Anastasia si voltò, Madame Curie non era più lì. E la porta
della camera si stava chiudendo!
«No!»
Lei e Rowan corsero, ma fu inutile. Sentirono lo stridore metallico
della serratura che Madame Curie chiudeva dall’esterno.
Anastasia prese a pugni la porta, chiamando la sua mentore,
imprecando contro di lei. Batté fino a che le mani non le si riempirono
di lividi. Le lacrime le velarono gli occhi e non cercò di trattenerle né
di nasconderle.
«Perché lo ha fatto? Perché ci ha lasciato qui?»
«Penso di saperlo…» rispose Rowan con voce calma. Con
delicatezza, la allontanò dalla porta chiusa e la fece voltare verso di
sé.
Citra non voleva guardarlo. Non voleva vedere i suoi occhi. E se ci
avesse scorto l’ombra del tradimento? Se Marie aveva potuto tradirla,
chiunque ne sarebbe stato capace. Anche Rowan. Ma, quando infine
incrociò il suo sguardo, non vi scorse nulla del genere. Solo
accettazione. Accettazione e comprensione.
«Citra, stiamo per morire» proseguì Rowan, in tono calmo. E, per
quanto Citra non volesse accettarlo, sapeva che era così. «Stiamo
per morire» ripeté. «Ma non per sempre.»
Si staccò da lui. «Già, e come faremo?» chiese con un tono
caustico quanto l’acido che per poco non l’aveva uccisa.
Ma Rowan rimaneva tranquillo, accidenti a lui. «Ci troviamo in una
camera blindata, tutta d’acciaio, sospesa all’interno di un’altra camera
blindata. È come… come un sarcofago in una tomba.»
Anastasia non si sentiva più rassicurata. «Che tra pochi minuti sarà
in fondo all’oceano Atlantico!» gli ricordò.
«Nelle profondità, la temperatura dell’acqua è uguale in ogni parte
del mondo. Di qualche grado sopra lo zero…»
E Anastasia alla fine comprese. Tutto. La dolorosa scelta che
Madame Curie aveva appena fatto. Il sacrificio che aveva compiuto
per salvarli.
«Moriremo… ma il freddo ci preserverà…»
«E l’acqua non entrerà.»
«E qualcuno ci troverà, un giorno!»
«Esatto.»
Si sforzò di digerire l’evidenza dei fatti. Quel nuovo destino, quella
nuova realtà era terrificante, eppure… come poteva una situazione
così spaventosa dare tanta speranza?
«Quanto tempo?» chiese.
Rowan si guardò intorno. «Penso che il freddo ci ucciderà prima
che ci venga a mancare l’aria…»
«No» disse, perché quello non era più in discussione, ora. «Voglio
dire: quanto tempo resteremo qui dentro?»
Rowan alzò le spalle, come lei del resto si aspettava. «Un anno.
Dieci anni. Cento. Non lo sapremo finché non saremo rianimati.»
Citra lo abbracciò e lui la strinse forte. Tra le braccia di Rowan, si
accorse di non essere più Madame Anastasia. Era tornata a essere
Citra Terranova. Quello era l’unico posto al mondo in cui poteva
sentirsi di nuovo se stessa. Dal momento in cui erano stati entrambi
reclutati come apprendisti, erano stati legati l’uno all’altra. Messi l’uno
contro l’altra. L’uno e l’altra insieme contro il mondo. Tutta la loro vita
era ormai definita da quella dualità. Se quel giorno dovevano morire
per sopravvivere, sarebbe stato ingiusto non farlo insieme.
Citra si lasciò sfuggire una breve risata, come un colpo di tosse
improvviso. «Questo non era incluso nei piani che avevo per la
giornata.»
«Davvero?» fece Rowan. «Era nei miei. Avevo tutte le ragioni per
credere che sarei morto oggi.»

Non appena le strade intorno all’occhio dell’isola furono sommerse,


tutto accadde molto in fretta. Un piano dopo l’altro, le torri si
inabissarono sotto la superficie. Madame Curie, felice di aver fatto ciò
che andava fatto per Anastasia e Rowan, salì di corsa le scale della
struttura del fondatore, la più alta della città. Sentiva i vetri delle
finestre rompersi e lo scroscio dell’acqua che saliva dai piani inferiori,
a mano a mano che l’edificio sprofondava. Finalmente, raggiunse il
tetto.
Decine di persone erano lassù a osservare il cielo, sperando
invano che arrivassero i salvatori dall’alto; era stato tutto così rapido
che la gente non riusciva ancora a credere che fosse vero. In
lontananza, si vedevano gli edifici più bassi svanire tra le acque
gorgoglianti. Ora restavano solo le sette torri delle Grandi Falci e
quella del fondatore. Ancora una ventina di piani e sarebbe svanita
anche quella.
Non aveva alcun dubbio su ciò che avrebbe dovuto fare adesso.
Tra le persone lì riunite, almeno una decina erano falci.
Fu a loro che si rivolse.
«Siamo ratti o siamo falci?» Si voltarono a guardarla e la
riconobbero, perché tutti conoscevano la Signora della Morte. «Come
lasceremo questo mondo?» chiese. «E quale solenne servizio
offriremo a coloro che devono andarsene con noi?»
Estrasse un coltello e afferrò il civile che aveva più vicino. Una
donna che poteva essere chiunque. Le affondò la lama tra le costole,
dritta al cuore. La donna continuò a guardarla negli occhi e Madame
Curie le disse: «Che questo ti sia di conforto».
«Grazie, Madame Curie» mormorò lei.
Mentre le accompagnava la testa a terra, le altre falci seguirono il
suo esempio, e si misero a spigolare con tale benevolenza,
compassione e amore che fu per tutti di grande consolazione. Alla
fine, le persone si radunarono intorno a loro, chiedendo di essere
spigolate.
Poi, quando furono rimaste solo le falci e il mare ribolliva qualche
piano più in basso, Madame Curie disse: «Facciamola finita».
Lei ne era testimone: le ultime falci su Endura invocavano il settimo
comandamento e si autospigolavano. Alzò il coltello e se lo puntò al
cuore. Era una sensazione strana e fastidiosa avere la lama rivolta
verso di sé. Aveva vissuto una lunga vita. Una vita piena. Si
rammaricava di alcune cose, era orgogliosa di altre. Era giunta alla
resa dei conti per le sue azioni giovanili, la resa dei conti che aveva
aspettato per tutti quegli anni. Ne era quasi sollevata. Avrebbe solo
desiderato poter rivedere Anastasia dopo la rianimazione, quando un
giorno la camera sarebbe stata recuperata dal fondo dell’oceano, ma
doveva accettare che, in qualunque momento fosse accaduto, lei non
ci sarebbe stata.
Affondò il coltello nel petto, fino in fondo al cuore.
Cadde a terra appena qualche secondo prima che il mare la
portasse via, ma sapeva che la morte sarebbe stata più rapida. E la
lama faceva molto meno male di quanto avesse immaginato, cosa
che le strappò un sorriso. Era brava. Molto, molto brava.

Nella Camera delle Reliquie e dei Futuri, il naufragio di Endura non fu


per Rowan e Citra più violento di un ascensore in discesa. Il campo di
levitazione magnetica che manteneva il cubo in sospensione
ammortizzava la sensazione di caduta. Forse il campo
elettromagnetico avrebbe retto finché non avessero toccato il fondo,
attenuando l’urto sul fondo marino due miglia più in basso. Ma poi, si
sarebbe interrotto. Il cubo interno si sarebbe adagiato sul fondo del
cubo esterno e la superficie in acciaio avrebbe disperso tutto il calore
e diffuso il gelo della fine. Ma non ancora.
Rowan osservò la camera e le sontuose vesti dei fondatori. «Ehi,
che ne dici se tu facessi Cleopatra e io Prometeo?»
Si diresse verso il manichino che portava la veste viola e oro della
Suprema Roncola Mondiale Prometeo, e la indossò. Gli dava un’aria
regale, come se fosse nato per portarla. Poi, prese la veste di
Cleopatra, fatta di seta e piume di pavone. Citra lasciò cadere a terra
la sua veste e Rowan la aiutò a infilarsi quella della grande
fondatrice.
Ai suoi occhi, era simile a una dea. Solo la pennellata di un artista
dell’era mortale, capace di immortalare il mondo con più verità e
passione dell’immortalità stessa, avrebbe potuto renderle giustizia.
E quando la prese tra le braccia, nulla di tutto ciò che accadeva
fuori da quel loro piccolo universo chiuso a chiave ebbe più
importanza. Negli ultimi minuti di quella fase della loro vita erano
finalmente soli, e potevano abbandonarsi l’uno all’altra. Alla fine, la
dualità si sarebbe fusa in un’unica essenza.
47
Suono e silenzio

Mentre Endura si inabissava nell’Atlantico, quando il suo cuore


duraturo che aveva battuto per duecento anni si arrese e le luci nella
camera all’interno di una camera si spensero…
… il Thunderhead gridò.
Partirono tutti gli allarmi del mondo. All’inizio, furono pochi, poi altri
si unirono alla cacofonia. Allarmi antincendio, sirene di allerta
tornado, campanelli, fischietti e milioni e milioni di clacson, tutti
emisero all’unisono un urlo straziante, ma non era ancora
abbastanza. Tutti gli altoparlanti di tutti gli apparecchi elettronici del
mondo si svegliarono, liberando nell’aria un grido stridulo, e ovunque
nel mondo la gente cadde in ginocchio coprendosi le orecchie per
proteggersi dal frastuono assordante. Nulla poteva alleviare la collera
e la disperazione del Thunderhead.
Per dieci minuti, le urla laceranti del Thunderhead riempirono il
mondo. Riecheggiarono nel Grand Canyon, risuonarono sulla
banchisa dell’Antartide, spaccando i ghiacciai. Scesero ululando i
pendii dell’Everest e sparpagliarono le greggi sulla pianura del
Serengeti. Non ci fu un solo essere sulla Terra che non lo udì.
E quando gli alti lamenti cessarono e tornò il silenzio, tutti capirono
che era cambiato qualcosa.
«Che cos’è stato?» chiedeva la gente. «Che cosa può aver
provocato un tale disastro?»
Nessuno era sicuro di saperlo. Nessuno, eccetto i tonisti. Loro
sapevano esattamente che cos’era. Lo sapevano, perché lo avevano
aspettato per tutta la vita.
Era la Grande Risonanza.

Nel monastero di una piccola città della MidMerica, Greyson Tolliver


si tolse la mani dalle orecchie. Delle urla salivano dal giardino sotto la
sua finestra. Grida. Erano grida di dolore? Si precipitò fuori dalla sua
cella spartana e trovò i tonisti. Non erano in preda a gemiti di agonia,
ma gridavano di gioia.
«Hai sentito?» gli chiesero. «Non è stato meraviglioso? Non era
esattamente come ci era stato detto?»
Greyson, ancora un po’ scosso dalla risonanza che gli vibrava nella
testa, uscì in strada. Anche lì la gente era scossa, ma in modo
diverso. Era nel panico, e non solo per il rumore che aveva perforato
le loro vite, ma per qualcos’altro. Tutti fissavano i tablet e i telefoni
con aria confusa.
«Non è possibile!» sentì esclamare qualcuno. «Ci dev’essere un
errore!»
«Ma il Thunderhead non commette errori» ribatté un altro.
Greyson si avvicinò. «Che succede? Che è stato?»
L’uomo gli mostrò il telefono. Sullo schermo lampeggiava
un’ignobile lettera L rossa.
«Mi dice che sono un losco!»
«Anche a me» s’indignò un altro. Greyson si guardò intorno e vide
che tutti erano ugualmente stupefatti.
Ma non solo lì. In ogni città, in ogni paese, in ogni casa del mondo,
la scena si ripeteva. Perché il Thunderhead aveva, nella sua infinita
saggezza, deciso che tutta l’umanità era complice delle sue azioni,
grandi e piccole, e che tutta l’umanità doveva subirne le
conseguenze.
Ora tutti, in ogni parte del mondo, erano loschi.
Una popolazione in preda al panico cominciò a chiedere lumi al
Thunderhead.
«Che devo fare?»
«Per favore, dimmi che devo fare!»
«Come posso rimediare?»
«Parlami! Per favore, parlami!»
Ma il Thunderhead taceva. Era tenuto a tacere. Il Thunderhead non
parlava con i loschi.
Greyson Tolliver lasciò la folla confusa e disorientata e tornò
all’interno della sicurezza relativa del monastero, dove i tonisti
continuavano a gioire, nonostante ora fossero tutti loschi. Che
importava? La risonanza si era rivolta alle loro anime. Greyson,
invece, non gioiva, e nemmeno si disperava. Non capiva ancora
come sentirsi per quella strana piega che avevano preso gli eventi.
Né sapeva cosa significasse per lui.
Non aveva più il suo tablet. Come gli aveva detto il curato
Mendoza, la loro setta non rifiutava la tecnologia, ma sceglieva di non
farne uso.
In fondo a un lungo corridoio, c’era la stanza dei computer. La
porta era sempre chiusa, ma mai a chiave. Greyson la aprì e si
sedette davanti a un computer.
La telecamera acquisì la sua immagine e il suo profilo apparve
automaticamente sullo schermo.
Diceva: “Greyson Tolliver”.
Non Slayd Bridger, ma Greyson Tolliver! E, a differenza degli altri, a
differenza di ogni singola anima vivente sul pianeta Terra, era l’unico
a non essere identificato come losco. Aveva scontato la pena. Aveva
perso lo stato di losco. Lui, soltanto lui.
«Th… Th… Thunderhead?» chiamò, con voce tremula e incerta.
E una voce gli rispose con lo stesso tono amorevole di affetto e
calore che ricordava. La voce della forza benevola che lo aveva
cresciuto e aiutato a diventare tutto quello che era.
«Ciao, Greyson» lo salutò il Thunderhead. «Dobbiamo parlare.»
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cui l’opera è stata
pubblicata e le condizioni
incluse alla presente
dovranno essere imposte
anche al fruitore
successivo.
Questo libro è un’opera di
fantasia. Personaggi e
luoghi citati sono
invenzioni dell’autore e
hanno lo scopo di
conferire veridicità alla
narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e
persone, vive o
scomparse, è
assolutamente casuale.

www.librimondadori.it

Thunderhead
di Neal Shusterman
© 2018 by Neal
Shusterman
Titolo originale dell’opera:
Thunderhead
© 2020 Mondadori Libri
S.p.A., Milano
Ebook ISBN
9788835704751

COPERTINA || COVER
DESIGN: BARBARA DI
LANDRO | PROGETTO
GRAFICO ORIGINALE DI
CHLOË FOGLIA |
ILLUSTRAZIONE ©
KEVIN TONG
Indice

1.Copertina
1.L’immagine
2.Il libro
3.L’autore
2.Frontespizio
3.THUNDER HEAD
4.Parte prima. PURA POTENZA
1.1. Ninna nanna
2.2. L’apprendista decaduto
3.3. Il trialogo
4.4. Agitato, non mescolato
5.5. Un’oscurità necessaria
6.6. Il giusto castigo
7.7. Magrolino, ma promettente
5.Parte seconda. IL PERICOLO
1.8. In nessun caso
2.9. La prima vittima
3.10. Morto
4.11. Un sibilo di seta cremisi
5.12. Su una scala da uno a dieci
6.13. Non proprio una bella immagine
7.14. Tyger e la falce smeraldo
6.Parte terza. NEMICI TRA I NEMICI
1.15. La Sala dei Fondatori
2.16. Andrà bene finché non andrà male
3.17. SBAllo
4.18. Cercasi Purity
5.19. Le lame affilate della nostra coscienza
6.20. Nell’acqua bollente
7.21. Non sono stata abbastanza chiara?
8.22. La morte di Greyson Tolliver
9.23. Un piccolo Requiem ringhioso
7.Parte quarta. A FERRO E FUOCO
1.24. Aperto alla risonanza
2.25. Spettro di verità
3.26. Vorresti scuotere l’Olimpo?
4.27. Tra luoghi distanti
5.28. Ciò che deve accadere
6.29. Riconvertito
8.Parte quinta. CIRCOSTANZE ECCEZIONALI
1.30. Irascibile pollo di vetro
2.31. Il desiderio di ricongiungersi
3.32. Umili nella nostra arroganza
4.33. Come al liceo, con omicidi
5.34. Il peggiore dei mondi possibili
6.35. La soluzione al 7 per cento
7.36. Un’occasione perduta
8.37. Le molte morti di Rowan Damisch
9.38. Una trilogia di incontri importanti
9.Parte sesta. ENDURA E NOD
1.39. Panorama di predatori
2.40. Sapere è po…
3.41. I dispiaceri di Olivia Kwon
4.42. La Terra di Nod
5.43. Quanti endurani ci vogliono per cambiare una lampadina?
6.44. Un circo di opportunismi
7.45. Guasti
8.46. Il destino dei cuori duraturi
9.47. Suono e silenzio
10.Copyright

1.Copertina
2.Frontespizio
3.THUNDER HEAD
4.Inizio del libro
5.Copyright
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
THUNDER HEAD
Parte prima. PURA POTENZA
1. Ninna nanna
2. L’apprendista decaduto
3. Il trialogo
4. Agitato, non mescolato
5. Un’oscurità necessaria
6. Il giusto castigo
7. Magrolino, ma promettente
Parte seconda. IL PERICOLO
8. In nessun caso
9. La prima vittima
10. Morto
11. Un sibilo di seta cremisi
12. Su una scala da uno a dieci
13. Non proprio una bella immagine
14. Tyger e la falce smeraldo
Parte terza. NEMICI TRA I NEMICI
15. La Sala dei Fondatori
16. Andrà bene finché non andrà male
17. SBAllo
18. Cercasi Purity
19. Le lame affilate della nostra coscienza
20. Nell’acqua bollente
21. Non sono stata abbastanza chiara?
22. La morte di Greyson Tolliver
23. Un piccolo Requiem ringhioso
Parte quarta. A FERRO E FUOCO
24. Aperto alla risonanza
25. Spettro di verità
26. Vorresti scuotere l’Olimpo?
27. Tra luoghi distanti
28. Ciò che deve accadere
29. Riconvertito
Parte quinta. CIRCOSTANZE ECCEZIONALI
30. Irascibile pollo di vetro
31. Il desiderio di ricongiungersi
32. Umili nella nostra arroganza
33. Come al liceo, con omicidi
34. Il peggiore dei mondi possibili
35. La soluzione al 7 per cento
36. Un’occasione perduta
37. Le molte morti di Rowan Damisch
38. Una trilogia di incontri importanti
Parte sesta. ENDURA E NOD
39. Panorama di predatori
40. Sapere è po…
41. I dispiaceri di Olivia Kwon
42. La Terra di Nod
43. Quanti endurani ci vogliono per cambiare una
lampadina?
44. Un circo di opportunismi
45. Guasti
46. Il destino dei cuori duraturi
47. Suono e silenzio
Copyright

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