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Contrappunti
LEWIS LOCKWOOD
Le Sinfonie di
Beethoven
UNA VISIONE ARTISTICA
Traduzione dall’inglese di
Enrico Maria Ferrando
Titolo originale: Beethoven’s Symphonies. An Artistic Vision
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2015 da W.W.Norton &
Company, Inc.
ISBN 978-88-5923-233-9
Nelle pagine precedenti: La copia corretta della Sinfonia “Eroica” sul cui frontespizio si può notare la
cancellatura da parte di Beethoven della dedica a Napoleone, (Gesellschaft der Musikfreunde, Vienna/Art
Resource).
Tutti gli esempi musicali inclusi o menzionati in questo libro possono essere consultati sul sito
musicexamples.com
Abbreviazioni bibliografiche
Lewis Lockwood
Brookline, Massachusetts
1
Douglas Johnson, Alan Tyson e Robert Winter, The Beethoven Sketchbooks: History, Reconstruction,
Inventory, Berkeley, University of California Press 1985. Cfr. anche l’importante articolo di Richard
Kramer in «Journal of the American Musicological Society» XL, Brunswick, ME, 1987, pp. 36-7.
2
ESk.
3
Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement Structures in His Instrumental
Works, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013. Sono grato alla dott.ssa Buurman per avermi
inviato una copia della sua dissertazione e per il proficuo scambio di idee a proposito di questo corpus di
abbozzi.
LE SINFONIE DI BEETHOVEN
1. La casa natale di Beethoven a Bonn, ora sede della Beethoven Haus e del Museo Beethoven (Beethoven-
Haus, Bonn/Bridgeman Images)
Introduzione
“Il trionfo di quest’arte”
Il fatto che nell’arco della sua vita Beethoven si sia limitato a completare
nove sinfonie – meno di un decimo di quelle di Haydn, meno di un quarto di
quelle di Mozart – era in parte dovuto al fatto che visse in un’epoca di grandi
cambiamenti. Nei decenni precedenti scrivere sinfonie era stata, in genere,
un’attività svolta in modo regolare da compositori stipendiati da un patrono
privato in una corte locale, nella quale si tenevano concerti per il piacere e il
divertimento del patrono stesso e dei suoi amici. Per lo meno questo era stato
lo schema a Esterházy, dove Haydn aveva sfornato sinfonie per la maggior
parte della propria carriera, fino all’ultimo periodo londinese. Beethoven aveva
conosciuto questa situazione a Bonn, ma dopo il 1800 l’intero sistema del
patronato stava cambiando, dal momento che molti mecenati avevano difficoltà
a mantenere le loro compagini musicali. Ma c’era più di questo dietro le
ambizioni di Beethoven nel genere della sinfonia. Più importante, di gran
lunga, era la sua percezione di uno scopo più elevato, la sua sensazione che
ciascun lavoro, specialmente dopo la Terza, l’“Eroica”, dovesse essere una
realizzazione speciale, degna delle sue più alte aspirazioni. Come artista
indipendente aveva combattuto duramente per mantenersi con tutti i mezzi
disponibili - con i compensi pagati dagli editori per le prime edizioni della sua
musica, in un’epoca in cui il diritto d’autore non esisteva, con le dediche
personali dei suoi lavori a ricchi sostenitori, con i concerti in sottoscrizione, e,
cosa fondamentale, con il diretto sostegno finanziario di un pugno di devoti
mecenati aristocratici: dapprima il principe Karl Lichnowsky, e più tardi pochi
altri, in particolare l’arciduca Rodolfo.
Con l’ascesa del pubblico borghese, che cercava forme di intrattenimento
nei teatri d’opera e occasionalmente nei concerti sinfonici, in un’epoca in cui
tuttavia le stagioni concertistiche regolari stavano appena cominciando ad
affermarsi, le occasioni per l’esecuzione di nuove sinfonie dovevano essere
create apposta. In mancanza di sale da concerto appositamente progettate, a
Vienna non c’erano condizioni incoraggianti per la composizione e l’esecuzione
di nuove sinfonie, a dispetto di una vivace vita musicale. In effetti in quegli
anni il genere era in declino. Uno studioso ha sottolineato che «mentre la
maggior parte dei compositori evitava il genere, Beethoven scriveva sinfonie
nonostante le circostanze avverse: un gesto di sfida perfettamente in sintonia
con la mentalità artistica del compositore»9.
Un’ulteriore evoluzione del genere divenne possibile, a Vienna, solo dopo il
1815, con la sconfitta di Napoleone, il ritorno della pace in Austria dopo
decenni di guerra, e l’ascesa del concerto pubblico, pilotata da un’importante
associazione di amatori fondata da poco, la Gesellschaft der Musikfreunde. Ma
il persistente rifiuto di Beethoven di lasciare che il suo retaggio prendesse
forma attraverso circostanze contingenti è dimostrato dal fatto che otto delle
sue nove sinfonie fossero completate entro il 1812, e che solo la Nona
rimanesse un progetto proiettato in un futuro distante. Nel 1812, naturalmente,
Beethoven aveva già completato molti lavori in generi destinati ai salotti o alla
musica domestica – sonate per pianoforte, musica da camera con pianoforte,
quartetti per archi e composizioni vocali.
Nondimeno, la sua incontentabile determinazione di pervenire
all’originalità pur rimanendo nell’ambito degli schemi della più alta tradizione
del passato lo riportò più e più volte alla sinfonia, come possiamo vedere non
solo dai lavori completati, ma anche dai molti appunti per sinfonie che saltano
fuori dai suoi quaderni. La maggior parte di queste idee rimase allo stadio
embrionale e non ebbe ulteriori sviluppi: tutte quante, però, arricchiscono la
nostra conoscenza dello scenario immaginativo che fa da sfondo alle celebri
nove sinfonie.
Potremmo non essere d’accordo con l’osservazione di Holz che Mozart non
avesse creato - neppure con le eccelse composizioni degli ultimi anni - opere
d’arte così completamente individuali come una qualsiasi delle composizioni di
Beethoven. Ma ciò che Holz avvertiva, e che molti, da allora, hanno avvertito,
era che le sinfonie e altri lavori strumentali maturi di Beethoven, insieme con
Fidelio e con la Missa Solemnis, per non parlare degli ultimi quartetti,
scaturiscono dalla fonte di un sé creativo instancabile e incontentabile, vanno
in profondità nell’animo degli ascoltatori e suscitano reazioni emotive più
potenti di quanto mai avessero fatto i più finemente rifiniti lavori dei suoi
immediati predecessori. Forse è per questo che Holz disse che per ciascun
lavoro di Beethoven un ascoltatore poteva essere indotto a scrivere solo un
poema, non tre o quattro equivalenti.
Nel corso della sua carriera l’ambizione spinse costantemente Beethoven
alla ricerca di differenti modalità di espressione. Che puntasse a raggiungere i
suoi ascoltatori in modi nuovi e nella maniera il più possibile diretta è scandito
nella sua dedica del Kyrie della Missa Solemnis – «dal cuore, possa andare al
cuore». Queste parole erano, formalmente, rivolte al dedicatario, l’arciduca
Rodolfo, ma sono implicitamente destinate all’umanità intera, come dichiara
Schiller nell’ “Ode alla Gioia”: «Siate avvinti, o milioni». Una concomitante
preoccupazione è evidente in una lettera del 1819 - «[la libertà e il progresso]
sono le mete nel mondo dell’arte, come in tutto il creato»10. Il pianista-
compositore Busoni descrisse la musica di Mozart come “divina”, ma disse di
Beethoven che «per la prima volta aveva portato la dimensione umana [das
Menschliche] nella musica»11.
Altri artisti hanno percepito l’ampliata dimensione emozionale della vita di
Beethoven. Scrittori - da Balzac e Dostoevskij a Thomas Mann e altri - e artisti
figurativi - come Antoine Bourdelle, che fece del compositore un proprio
soggetto per tutta la vita - tutti quanti hanno espresso l’influsso di Beethoven
sulle loro stesse vite. Tra gli scrittori moderni troviamo, forse
sorprendentemente, Samuel Beckett, i cui lavori recano traccia della sua
rassegnazione a un mondo implacabile in cui l’individuo non può far altro che
cercare di sopravvivere. Ma, sotto la superficie, Beckett era un autentico
ammiratore di Beethoven, come sappiamo dalle sue lettere e da alcuni suoi
lavori. Colpito dai gruppi di battute di pausa che ricorrono nel primo
movimento della Settima Sinfonia, Beckett scrisse, in una lettera del 1937, che
il linguaggio è come un velo che si deve strappare per arrivare alle cose (o al nulla) che ne vengono
nascoste… C’è qualche ragione per cui quella terrificante, arbitraria materialità della superficie del
mondo non debba essere dissolta, proprio come, per esempio, la superficie sonora della Settima
Sinfonia è divorata da grandi pause nere, cosicché per pagine e pagine non possiamo percepirla che
come una vertiginosa macchia di suoni che collegano insondabili abissi di silenzio?12
Già con la Seconda Sinfonia, e poi ancor più con l’Eroica e le sinfonie
successive, Beethoven reinventò il canone sinfonico. Dopo l’Eroica ogni nuova
sinfonia proseguì questa espansione in modi nuovi. Osserviamo che nella sua
musica per orchestra Beethoven attinse alle acquisizioni cui era pervenuto in
altri settori – le sonate e le variazioni per pianoforte, la musica da camera con
pianoforte e i quartetti per archi – affinando la sua tecnica anche con le
ouverture, la musica di scena, e le grandi composizioni vocali con orchestra, tra
cui le messe, gli oratori e lavori audaci come la Fantasia Corale. Dopo il 1805
attinse anche a tutto quanto stava imparando mentre componeva e
rimaneggiava la sua opera, Leonore (poi ribattezzata Fidelio). E all’epoca in cui
scrisse il primo movimento della Nona, all’inizio degli anni Venti, poté
arricchire la scrittura sinfonica di alcune delle sottigliezze e delle complessità
che aveva sperimentato nei quartetti per archi del suo tardo periodo medio.
Elogiati Mozart e Haydn per aver creato lavori sinfonici «che meritano
grande ammirazione», saluta poi in Beethoven «un neofita di quest’arte che
comunque, accostandosi ai grandi maestri, si è impadronito di questo grande
campo della musica strumentale». Poiché questo critico di Beethoven
conosceva solo la Prima e la Seconda, quanto echeggiava nelle sue parole era la
sensazione che il mondo musicale europeo fosse pronto per un compositore in
grado di soddisfare le aspettative di un’epoca nuova. Mentre il XIX secolo
iniziava, molti sentivano che Beethoven avrebbe potuto essere quel
compositore.
Per di più, il misticismo di cui i romantici tedeschi rivestivano la loro
visione del mondo aiutava a conferire alla musica - la musica strumentale,
soprattutto - il primato tra le arti in quanto mondo espressivo apparentemente
autonomo. Questa fiducia nelle alte qualità mistiche dell’espressione musicale,
adombrata da Novalis, fu prontamente avallata da una generazione di
romantici tedeschi, tra cui Tieck, Wackenroder e E.T.A. Hoffmann15.
Beethoven, per quanto la sua relazione con il romanticismo fosse soltanto
indiretta, trovò modo di introdursi in questa nuova dimensione, poiché viveva
in un’epoca in cui queste opinioni stavano rapidamente guadagnando credito.
La sua ricerca dell’espressione personale, per quanto ancora imbevuta di ideali
illuministi, si inseriva benissimo nello scenario romantico che stava emergendo
nella letteratura, nell’arte e nel dramma.
All’epoca in cui Hoffmann scrisse il suo celebre saggio critico sulla Quinta,
nel 1810, Beethoven aveva già completato le prime sei sinfonie. Come autore di
romanzi e racconti fantastici, ma anche come esperto musicista e compositore,
Hoffmann difese il «possente genio» di Beethoven dai critici conservatori che
trovavano il suo linguaggio musicale difficile da capire e le sue composizioni
emotivamente smodate. A questo proposito scrisse che la Quinta Sinfonia
«conduce imperiosamente l’ascoltatore al cuore del mondo spirituale
dell’infinito!» e che la musica strumentale di Beethoven «ci schiude il regno del
mostruoso e dell’incommensurabile»16.
Simili opinioni non erano condivise solo da musicisti e musicologi.
L’influente trattato di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione,
la cui prima parte fu pubblicata nel 1819, prima della Nona Sinfonia, ne è un
illustre esempio. Quando apparve la seconda parte, nel 1844, Mendelssohn e
Schumann erano all’inizio della carriera, il giovane Wagner era comparso sulla
scena e il romanticismo musicale tedesco aveva raggiunto il suo primo apice.
Beethoven era il compositore preferito da Schopenhauer: furono le sinfonie di
Beethoven, più di ogni altro lavoro, a forgiare le sue idee sulla musica. Nella
seconda parte del suo trattato Schopenhauer presenta la musica come la forma
d’arte che più si avvicina alla possibilità di svelare «l’intima essenza del mondo
ed esprime la più profonda sapienza in un linguaggio che non è inteso dalla […]
ragione». Poi continua:
una sinfonia di Beethoven ci mostra la più grande confusione, in fondo alla quale però sta l’ordine più
perfetto; la lotta più violenta, che nell’attimo successivo si trasforma nella più bella concordia: essa è
rerum concordia discors, immagine fedele e perfetta del mondo […] da tale sinfonia parlano tutte le
affezioni e le passioni umane: la gioia, la tristezza, l’amore, l’odio, la paura, la speranza, etc., in
sfumature infinite, ma quasi soltanto in abstracto e senza alcuna specificazione: ne è la semplice
forma, senza sostanza, come un semplice mondo di spiriti, senza materia. Certamente noi abbiamo la
tendenza, durante l’audizione, a realizzarla, a rivestirla, con la fantasia, di carne e di ossa, ed a vedervi
ogni sorta di scene della vita e della natura. Ma ciò, preso nell’insieme, non ne agevola la
comprensione, né il godimento, le dà piuttosto un’aggiunta arbitraria, estranea: perciò è meglio
comprenderla puramente e nella sua immediatezza.17
Cronologia
Per quanto la cronologia delle sinfonie sia piuttosto chiara in linea generale, il
quadro si fa più complesso quando, per ciascun lavoro, si considerino
attentamente la documentazione relativa alle prime idee, l’elaborazione e
completamento, la prima esecuzione e la pubblicazione. La Prima Sinfonia fu
pubblicata da Hoffmeister a Lipsia, nel 1801, diciotto mesi dopo la prima
esecuzione, avvenuta nell’aprile 1800. Di lì in avanti sembra che Beethoven
abbia iniziato a lavorare intensamente a ciascuna sinfonia quando la
precedente era prossima alla pubblicazione o era stata appena pubblicata.
Concepì la Terza nel 1802, ma non la completò fino alla seconda metà del 1803,
mentre aspettava la pubblicazione della Seconda, che apparve nel marzo 1804.
Un arco di tempo di due anni separa il compimento della Terza, nel 1804, dalla
sua pubblicazione, nell’ottobre 1806, più o meno all’epoca in cui Beethoven
terminò il manoscritto autografo della Quarta. Come avrò modo di illustrare,
sembra che Beethoven abbia concepito le prime idee per quella che sarebbe poi
diventata la Quinta, e almeno due movimenti della Sesta, all’inizio del 1804, ben
prima di effettuare il grosso del lavoro sulla Quarta, due anni più tardi.
Conseguentemente, si direbbe che Beethoven avesse in mente un’embrionale
concezione della Quinta e della Sesta prima ancora di mettersi al lavoro sulla
Quarta. La Quinta e la Sesta, dunque, rimasero ad aspettare di essere modellate
nella loro forma definitiva nel 1807 e nel 1808. Sembra che a quell’epoca la
pubblicazione fosse una faccenda più rapida, dato che entrambe apparvero nel
1809. Nel 1811 e nel 1812 Beethoven compose in rapida successione la Settima e
l’Ottava, che però per varie ragioni non furono pubblicate che nel 1816 e nel
1817 rispettivamente. Il percorso della Nona fu più lungo e complicato.
Beethoven aveva pensato a una sinfonia in re minore già nel 1812 (in effetti il
germe di un lavoro come questo esisteva già nel 1804), ma non ne fissò idee
precise prima del 1815, quando la Settima e l’Ottava erano prossime alla
pubblicazione.
Le sinfonie di Beethoven ricadono in cinque fasi. Nella prima fase, fino alla
Prima Sinfonia inclusa, Beethoven stabilisce le proprie credenziali, avendo
rinviato la composizione di una sinfonia fino al momento in cui si fosse
presentata l’opportunità di un’esecuzione pubblica, che, all’epoca, non era così
facile da organizzare. La seconda fase va dal 1801 al 1806, e comprende la
Seconda, la Terza e le prime idee per la Quinta e, in qualche misura, per la Sesta.
Seguirono il progetto per l’opera Leonore (1804-6) e le sue due grandi ouverture
(Leonore n. 2 e n. 3), da cui fu assorbito completamente, e poi la Quarta. Per
quanto riguarda i lavori completati, è plausibile ipotizzare che la Seconda, la
Terza e la Quarta abbiano tutte quante partecipato - ovviamente in modi
differenti - della grande svolta che spesso viene attribuita esclusivamente
all’Eroica.
A partire dal 1807 e dal 1808 seguono la terza e la quarta fase. La terza
comprende la Quinta e la Sesta, che furono completate nel 1808 e che all’origine
erano così strettamente collegate che inizialmente i rispettivi numeri d’opera,
67 e 68, furono loro assegnati in ordine inverso. La quarta fase ci porta la
Settima e l’Ottava, pubblicate con i numeri d’opera consecutivi 92 e 93. Tra il
1813 e il 1819 Beethoven ebbe idee effimere per altre sinfonie, mentre il suo
intero atteggiamento cambiava e si approfondiva, ma poi non ne fece nulla. Il
lavoro su vasta scala per la Nona ebbe luogo tra il 1822 e il 1824.
Il grosso del lavoro per la Nona corrisponde alla quinta e conclusiva fase
della sua produzione sinfonica. Per quanto prendesse appunti per una possibile
Decima, lasciando una traccia che ha suscitato almeno un tentativo di
ricostruzione, le prove documentarie rendono evidente che tra il 1824, quando
terminò la Nona, e il mese di marzo del 1827, quando morì, Beethoven, pur
avendone preso in seria considerazione la possibilità, non portò a termine
alcun lavoro per orchestra, e tantomeno una nuova sinfonia. In quel periodo
era completamente assorto nel mondo degli ultimi quartetti da cui, se si fa
eccezione per qualche pezzo per pianoforte e alcuni canoni, furono del tutto
assorbite le energie creative dei suoi ultimi, pochi anni20.
1
Beethoven, Konversationshefte, a cura di K.H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G. Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1968-2001, VIII, p. 268, datata tra il 16 e il 22 gennaio 1826.
2
Per una panoramica sulla sinfonia in Europa nel XVIII secolo cfr. The Symphonic Repertoire, I, The
Eighteenth-Century Symphony, a cura di M.S. Morrow e B. Churgin, Bloomington, Indiana University
Press 2012.
3
Circa l’impatto su Beethoven delle Sinfonie “Londinesi” di Haydn negli anni 1790 cfr. Douglas
Johnson, 1794-1795: Decisive Years in Beethoven’s Early Development, in BS3, a cura di A. Tyson,
Cambridge, Cambridge University Press 1982, pp. 1-28.
4
Sappiamo che a Bonn un collezionista di nome Mastiaux, tra gli altri, collezionò sinfonie di Haydn.
Sappiamo anche che Mozart era il compositore preferito dell’elettore Max Franz, che a un certo punto
sperò di portarlo alla corte elettorale come compositore principale. Per nuovi documenti relativi al viaggio
di Beethoven a Vienna nel 1787, cfr. Dieter Haberl, Beethovens Erste Reise nach Wien - Die Datierung seiner
Schülerreise zu W. A. Mozart, «Neues Musikwissenschaftliches Jahrbuch», XIV, Augsburg, Wißner Verlag
2006, pp. 215-55.
5
Cfr. BML, p. 56 e il mio “Beethoven before 1800: The Mozart Legacy”, BF, III, 1992, pp. 39-52.
6
Cfr. BML, pp. 57-9. La relazione tra i Quartetti con pianoforte WoO 36 di Beethoven e le sonate per
violino di Mozart è risaputa. L’abbozzo del passaggio in do minore appare nel portfolio di fogli di appunti
giovanili noto come collezione “Kafka”, pubblicato a cura di Joseph Kerman, Ludwig van Beethoven:
Autograph Miscellany from circa 1786 to 1799: British Museum Additional Manuscript 29801, ff. 39-162,
London, 1970, 1, f. 88r, II, p. 228 e commento, p. 293.
7
Cfr. ESk. Più tardi, abbozzando idee per il Quartetto in do maggiore op. 59 n. 3, Beethoven avrebbe
scritto una frase di apertura inequivocabilmente simile a un famoso tema del Quintetto con clarinetto di
Mozart; cfr. N II, p. 86.
8
Briefe, n. 6, una lettera nota solo perché Neefe la pubblicò parzialmente in «Berlinische Musikalische
Zeitung», XXXIX, Berlin, 26 ottobre 1793.
9
David Wyn Jones, The Symphony in Beethoven’s Vienna, Cambridge, Cambridge University Press
2006, p. 168. Lo studio di Wyn Jones offre importanti approfondimenti sullo stato della sinfonia come
genere − così come veniva praticata nella Vienna di quegli anni non solo da Beethoven, ma anche da suoi
contemporanei come Eberl, Anton e Paul Wranistky, e Gyrowetz.
10
Lettera all’arciduca Rodolfo del 29 luglio 1819; Briefe, n. 1318.
11
Ferruccio Busoni, Von der Einheit der Musik, Verstreute Aufzeichnungen, Berlin, Hesses 1922, p. 290.
12
The Letters of Samuel Beckett 1929-1940, Cambridge, Cambridge University Press 2009, p. 514, da una
lettera del 9 luglio 1937 all’amico Axel Kaun.
13
Amadeus Wendt, Űber den Zustand der Musik in Deutschland, pubblicato per la prima volta in
«Allgemeine Musikalische Zeitung, mit besonderer Rucksicht auf den Österreichischen Kaiserstaat», VI,
1822, col. 761, cit. in Ludwig van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit, a cura di S. Kunze, Laaber,
Laaber Verlag 1987, p. 629.
14
Autore anonimo in Musikalische Taschenbuch, I, Penig, 1803, pp. 78-81. Per il testo originale cfr.
Kunze cit., p. 626 sg.
15
Per una panoramica sullo sviluppo del concetto di musica come ambito espressivo autonomo cfr.
John Neubauer, The Emancipation of Music from Language: The Departure from Mimesis in Eighteenth-
Century Aesthetics, New Haven, CT, Yale University Press 1986.
16
La recensione di Hoffmann, citata frequentemente, andrebbe letta nell’originale, che si può
facilmente trovare in Kunze cit. pp. 100-12.
17
Da A. Schopenhauer, Supplementi al III libro di Il Mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. G.
De Lorenzo, Bari, 1930, in Scritti sulla musica e sulle arti, a cura di F. Serpa, Fiesole, Discanto 1981, p. 84 e
p. 121.
18
Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement Structures in His
Instrumental Workes, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013.
19
Richard Will, The Characteristic Symphony in the Age of Haydn and Beethoven, Cambridge,
Cambridge University Press 2002.
20
Il 18 marzo 1827, solo dieci giorni prima di morire, Beethoven scrisse a Moscheles, a Londra, per
ringraziare la Philharmonic Society per la generosità dimostratagli, affermando di avere abbozzi per una
“nuova sinfonia” sullo scrittoio. Altri documenti e abbozzi sopravvissuti hanno persuaso alcuni studiosi
che Beethoven aveva tra le mani perlomeno l’idea di una Decima Sinfonia prima di morire, e Holz riferì
che in effetti la suonò per lui al pianoforte (cfr. Appendice). Nel 1988 Barry Cooper assemblò vari abbozzi
in un tentativo di “realizzazione” del primo movimento di una Decima Sinfonia, che fu incisa da MCA
Classics, MCAD-6269, insieme con la registrazione di una conferenza di Cooper. L’esito ha suscitato
controversie, dal momento che non è stato accettato da alcuni studiosi, in particolare da Robert Winter
nel suo articolo Of Realizations, Completions, Restorations, and Reconstructions: From Bach’s “The Art of
Fugue” to Beethoven’s “Tenth Symphony”, «Journal of the Royal Musical Association», CXVI, 1991, pp. 96-
126. Cooper replicò a Winter nel suo Beethoven’s Tenth Symphony, «Journal of the Royal Musical
Association», CXVII, 1992, pp. 324-29. La controreplica di Winter è pubblicata nello stesso numero, pp.
329-30.
I
La Prima Sinfonia
In una lettera indirizzata molto tempo dopo all’arciduca Rodolfo, suo allievo
e mecenate, Beethoven si paragonò a “Sir Davison”, un personaggio di Maria
Stuarda di Schiller, ed è degno di nota il fatto che non avesse avuto bisogno di
spiegare l’allusione11. Fin dall’inizio Beethoven fu ispirato dalla stessa fede nel
potenziale progresso dell’umanità e nella libertà politica che aveva trovato in
Schiller. Già negli anni Novanta aveva progettato di mettere in musica l’“Ode
alla Gioia” di Schiller, progetto poi realizzato nel finale della Nona Sinfonia.
Testimoni degli ultimi anni di Beethoven, tra cui Franz Grillparzer e Karl Holz,
riferiscono che Beethoven «teneva Schiller nella massima considerazione» e
che «Beethoven aveva sottolineato nei poemi di Schiller tutto ciò che costituiva
la sua [stessa] professione di fede»12.
Il contesto creativo
Vorrei cominciare con alcuni degli abbozzi sinfonici che non furono completati
ma che portarono poi alla Prima Sinfonia; tra questi, alcuni ne influenzarono
direttamente la forma definitiva, nella quale fu eseguita nel 1800. Ciascuno
ebbe da Beethoven il titolo “Sinfonia”.
Es. 1. Abbozzo per una “Sinfonia” in do minore incompiuta, ca. 1788, bb. 1-6.
Fonte: collezione “Kafka”, ff. 70 r-v; Beethoven, Autograph Miscellany, p. 175 sg. e commenti, p. 291 (Hess,
p. 298).
1
Il figlio di Franz, Ferdinand Ries (1784-1838), divenne in seguito, intorno al 1801, allievo di Beethoven,
e percorse una ragguardevole carriera come pianista e compositore. Tentò la fortuna a Parigi nel 1807-8,
fu ancora a Vienna nel 1808-9 e, dopo altre tappe, arrivò in Inghilterra, dove infine avrebbe trovato il
successo, nel 1813. I suoi ricordi di Beethoven, scritti insieme con il concittadino Franz Wegeler e
pubblicati nel 1838, rimangono un’importante fonte. I lavori per pianoforte di Ferdinand Ries, che Susan
Kagan sta ora registrando, rivelano un compositore di grande abilità.
2
Su Reicha a Oettingen-Wallerstein cfr. Sterling Murray, The Symphony in South Germany, in The
Eighteenth-Century Symphony, a cura di Mary Sue Morrow e Bathia Churgin, Bloomington, Indiana
University Press 2012, pp. 318-9, pp. 322-3 (Vol I di The Symphonic repertoire).
3
L’orchestra, che nel 1784 disponeva di 27 elementi, era più piccola di quella di Mannheim ma
considerevole per una corte di modeste dimensioni come quella di Bonn; nel 1791 il numero degli
esecutori era salito a 39. Sulle dimensioni delle orchestre nell’Europa del tardo XVIII secolo si veda Neal
Zaslaw e John Spitzer, The Birth of the Orchestra: History of an Institution, 1650-1815, New York, Oxford
University Press 2004, Appendice; per un’utile tabella relativa agli anni 1754-96, The Eighteenth-Century
Symphony cit., p. 76.
4
Per un vivace ritratto di Bonn come centro musicale negli anni della gioventù di Beethoven si veda
TF, capp. 4 e 5; su Beethoven come violista si veda TF, p. 95. Ma il ritratto più esauriente è sempre quello
di Ludwig Schiedermair, Der Junge Beethoven, Leipzig, Quelle & Meyer 1925.
5
Cfr. le mie osservazioni in BML, p. 30 sg.
6
Per un compendio della carriera di Neefe cfr. Peter Clive, Beethoven and his World, Oxford, Oxford
University Press 2001, p. 247.
7
BML, p. 36, cit. in Leslie Sharpe, Friedrich Schiller: Drama, Thought and Politics, Cambridge,
Cambridge University Press 1991, p. 29.
8
Cfr. Maynard Solomon, Beethoven and Schiller, in Robert Winter e Bruce Carr (a cura di), Beethoven,
Performers, and Critics: The International Beethoven Congress Detroit 1977, Detroit, Wayne State University
Press 1977, p. 163. Una versione riveduta di questo saggio è stata successivamente ristampata in Solomon,
Beethoven Essays, Cambridge, Harvard University Press 1988, pp. 205-15. Un importante recente
contributo sul rapporto tra Neefe e la compagnia teatrale di Grossmann è Ian Woodfield, Christian Gottlob
Neefe and the Bonn National Theatre, with New Light on the Beethoven Family, «Music and Letters», XCIII, 3,
2012, pp. 289-315.
9
Per esempio, le citazioni dai drammi di Schiller nell’album di addio per la sua partenza da Bonn nel
novembre 1792, le citazioni da Don Carlos che lui stesso scrisse in un altro album del 1793, e altri
riferimenti a drammi di Schiller – che aveva sempre ben presenti – in successive lettere, per es. quella del
1819 all’Arciduca, quando Rodolfo era stato appena consacrato arcivescovo di Olmütz (Briefe, n. 1292,
dell’inizio di marzo 1819).
10
Il destinatario della nota del 1793 era Theodora Vocke; cfr. Joseph Schmidt-Görg, “Ein Schiller-Zitat
Beethovens in Neuer Sicht”, in Musik, Edition, Interpretation, Gedenkschrift Günter Henle, München, Henle
Verlag 1980, pp. 423-26.
11
Cfr. il mio Beethoven as Sir Davison, in «Bonner Beethoven-Studien», 11, 2014, pp. 133-40.
12
Cfr. M. Solomon, Beethoven and Schiller, in Beethoven Essays cit., p. 211 e p. 347, nota 25.
13
Carl Schachter, “Mozart’s Last and Beethoven’s First: Echoes of K. 551 in the First Movement of Opus
21”, in Mozart Studies, a cura di C. Eisen, Oxford, Clarendon Press 1991, pp. 227-52.
14
Il brano più vicino all’Andante della sinfonia è il movimento lento in do maggiore, 3/8, del Quartetto
per archi op. 18 n. 4, che reca l’indicazione “Andante scherzoso, quasi allegretto”, inizia in modo analogo
con un’esposizione fugata, e ha un carattere delicato praticamente uguale a quello dell’Andante in 3/8
della Prima Sinfonia – ma il movimento del quartetto risulta complessivamente più riuscito.
15
E anche, molti anni più tardi, dalla sua indicazione metronomica del 1817: minima = 108.
16
Per l’abbozzo della sinfonia in do minore della collezione “Kafka” cfr. Joseph Kerman, Beethoven:
Autograph Miscellany from circa 1786 to 1700, London: Trustees of the British Museum, 1970, I ff. 70r-v; II,
175 sg., pubblicato già nel 1912 da Fritz Stein in SIMG, XIII, 1912, pp. 131-32. È stato brevemente
commentato da Cooper, Beethoven, Oxford, Clarendon Press 2008, p. 23 sg. e, in The Symphony in
Beethoven’s Vienna, Cambridge, Cambridge University Press 2006, p. 155 sg., da Wyn Jones, il quale
osserva che l’abbozzo «rivela la dimestichezza del compositore con il linguaggio energico e nervoso dello
Sturm und Drang».
17
Inclusi il Trio con pianoforte op. 1 n. 3, il Trio per archi op. 9 n. 3 e la Sonata per pianoforte op. 10 n.
3.
18
J. Kerman, Beethoven: Autograph Miscellany, II, p. 228 (f. 88r della miscellanea); cfr. Lockwood, BML,
p. 57 sg.
19
Sto pensando a movimenti come l’Andante cantabile del Trio in do minore op. 1 n.3, o il
corrispondente movimento del Quintetto per pianoforte e fiati op. 16, abbozzato sul verso di questo stesso
foglio.
20
Come suggerisce J. Kerman, Beethoven: Autograph Miscellany cit., II, p. 291. Kerman suppone che i
successivi abbozzi sullo stesso foglio, con l’indicazione “Zum Andante” e in fa maggiore, siano altre idee
per lo stesso movimento pensate già in fa maggiore.
21
J. Kerman cit., abbozzi per il primo movimento in ff. 71v, 56 sg., 127 sg., 158 sg.; abbozzi per il
minuetto in ff. 59r, 128v, 159r. Per la miscellanea “Fischhof” cfr. Douglas Johnson, Beethoven’s Early
Sketches in the “Fischhof” Miscellany, Berlin Autograph 28, 2 voll., Ann Arbor, UMI Research Press 1980.
22
D. Johnson cit., I, p. 466 sg.
23
Per un’estesa e illuminante disamina di questi abbozzi per una sinfonia in do maggiore cfr. D.
Johnson, Beethoven’s Early Sketches cit., 1, pp. 461-9 e per gli esempi musicali integrali 11, pp. 163-76.
24
AMZ, III (15 ottobre 1800): p. 49, tradotto in inglese in The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His German Contemporaries, a cura di W. Senner, Lincoln, NE, University of Nebraska
Press 1999, 1, p. 162 sg.
25
Howard Chandler Robbins Landon, in Haydn: Chronicle and Works, London, Thames and Hudson
1976-80, IV, p. 545, suggerisce che si trattasse della Sinfonia “Praga” K505 o della Sinfonia in sol minore
K550. Per D. Johnson, Beethoven’s Early Sketches in the “Fischhof” Miscellany cit., p. 975, si trattava della
Linz K425. Ma per quanto la questione al momento non possa essere risolta, data la mancanza di solide
prove, osservo che nella prima edizione delle sinfonie di Mozart nn. 39-41, pubblicata da André negli anni
1790, solo la n. 39 era definita “grosse Sinfonie” nell’edizione (1797) proprio come nel programma di
Beethoven, mentre alla n. 40 (pubblicata nel 1794) e alla n. 41 (1793) non era stato dato un titolo
particolare diverso da “Sinfonie”. Cfr. Köchel-Verzeichniss, K543, K550, K551 per i dettagli relativi alle
edizioni.
26
Harry Goldschmidt, Beethoven in neuen Brunsvik-Briefen, «Neues Beethoven Jahrbuch», IX, 1973-79,
p. 109, dimostra che il Settimino era già stato eseguito privatamente, nel dicembre 1799, da un ensemble
diretto da Schuppanzig. La decisione di mettere in programma il Settimino insieme con estratti da La
Creazione può aiutare a spiegare l’ ironica, quasi auto-denigratoria, osservazione sul Settimino che in
seguito Dolezalek attribuì a Beethoven: «Questa è la mia Creazione».
27
È un riferimento a Paul Wranitsky (1758-1808), compositore ceco, fratello di Anton Wranitsky (1741-
1820), musicista altrettanto illustre sulla scena viennese. Sui fratelli Wranitsky e le loro sinfonie cfr. Wyn
Jones, The Symphony in Beethoven’s Vienna cit., cap. 4.
28
Recensione in AMZ III (25 ottobre 1800).
29
Cfr. Gustav Nottebohm, Beethovens Studien, Leipzig, Rieter-Biedermann 1873. Per un illuminante
saggio sugli studi di Beethoven con Haydn, Albrechtsberger e Salieri, cfr. Julia Ronge, Beethovens Lehrzeit,
Bonn, Beethoven Haus 2011. Più di recente Ronge ha pubblicato per la prima volta in forma completa i
materiali di studio di Beethoven con i suoi maestri in Beethoven Werke, München, G. Henle Verlag 2014, s.
XIII, vol. I.
30
Cfr. N II, p. 566, e Ronge cit., p. 55 sg.
31
Cfr., per es., il commento del 1806 in Wayne M. Senner, The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His German Contemporaries, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1999, 1, p. 164.
32
Beethoven by Berlioz: a Critical Appreciation of Beethoven’s Nine Symphonies, compilato e tradotto da
Ralph De Sola, Boston, Crescendo Publishing Company 1975, p. 14; i saggi originali erano inclusi in
Berlioz, A travers chants, Paris, Michel Lévy Frères 1862.
33
Per un’ampia disamina dell’Allegro – primo movimento, cfr. il mio “Beethoven’s First Symphony: A
Farewell to the Eighteenth Century?” in Essays in Musicology: A Tribute to Alvin Johnson, a cura di L.
Lockwood e E. Roesner, Philadelphia, American Musicology Society 1990, pp. 235-46.
II
La Seconda Sinfonia
Punti di vista
La Seconda Sinfonia è spesso vista come una tappa intermedia tra gli anni
formativi di Beethoven e la sua baldanzosa irruzione in un nuovo dominio con
l’Eroica, nel 1803-4. Ora, neppure i più scrupolosi ricercatori dell’influsso di
Haydn e di Mozart potrebbero dubitare che l’Eroica abbia creato un nuovo
riferimento strutturale per il genere. Ma lo spicco dell’Eroica ha mascherato il
fatto che la Seconda Sinfonia fu percepita, ai suoi tempi – ma potrebbe esserlo
anche oggi, come un irreversibile congedo dalla tradizione. Per intensità,
energia e originalità balza oltre quelle tendenze timidamente innovative che
abbiamo rilevato nella Prima. Sembra corretto affermare che se Beethoven non
avesse mai scritto altro che le prime due sinfonie, la Seconda avrebbe marcato il
nuovo livello espressivo che influenzò notevolmente i giovani compositori che
si affacciavano sulla scena intorno al 1815 – a cominciare da Schubert, ma
anche al di là di Schubert10.
Le innovazioni della Seconda vanno di pari passo con quelle delle sonate per
pianoforte che Beethoven scrisse tra il 1799 e il 1802, dalla magistrale Sonata in
si bemolle maggiore op. 22, alla trilogia dell’op. 31, che approfondì
marcatamente il suo stile sonatistico11. In effetti è stato dimostrato che la
Seconda Sinfonia ha strette affinità strutturali con la Sonata per pianoforte op.
28, pure in re maggiore, scritta nel 1801 e pubblicata nel 180212. Entrambe
appartengono alle prime fasi della ricerca di quella che Beethoven, all’epoca,
chiamava la sua “nuova via”, mentre l’Eroica sbalza quella ricerca e la sua
intera concezione sinfonica su un livello più elevato e pone le fondamenta per
la libertà e la complessità di molti suoi lavori successivi. E, comunque, senza le
innovazioni della Seconda Sinfonia l’Eroica forse non sarebbe stata possibile.
Un altro luogo comune della critica è che la brillantezza e l’energia dei
movimenti rapidi della Seconda e la tranquilla bellezza dei suoi movimenti lenti
ci risultano sorprendenti perché non mostrano alcun indizio della crescente
preoccupazione di Beethoven per la sordità, per quanto l’avesse scritta nel
periodo in cui stava cominciando a rendersi conto della gravità della propria
condizione. Condizione che insorse precocemente, e che lo accompagnò per il
resto della vita. Sembra che la sordità si sia manifestata intorno al 1796, quando
Beethoven aveva 25 anni, per peggiorare progressivamente nei successivi
cinque o sei anni. Nell’estate del 1801 Beethoven parlò della propria sordità in
lettere indirizzate a due amici fidati, Franz Wegeler e Karl Amenda, e nel mese
di ottobre del 1802 scrisse il commovente documento passato alla storia come
Testamento di Heiligenstadt.
Come tutti i documenti storicamente significativi, il Testamento conserva
sempre intatto il proprio significato e la propria importanza, per quante volte
possa essere letto e rimeditato. È una dichiarazione personale scritta in forma
di testamento, indirizzata ai fratelli e alla posterità, che Beethoven tenne
nascosta per tutta la vita e fu scoperta solo dopo la sua morte13. A Wegeler
riferisce i preoccupanti sintomi manifestatisi nei due anni precedenti:
progressiva sordità, dolore, isolamento sociale, paura di perdere il proprio
status professionale. Abbiamo una testimonianza di uno dei suoi amici più
intimi, Stephen von Breuning, che sottolinea le difficoltà psicologiche emerse
di pari passo con la crescente preoccupazione per le conseguenze della sordità
sulla sua carriera professionale e sulle sue relazioni personali.
In una delle sue lettere a Wegeler, Beethoven scrive:
Che cosa accadrà ora, lo sa il cielo. Wering [il medico] dice che certo andrà meglio anche se non
guarirò completamente. Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza. Plutarco mi ha portato alla
rassegnazione; se altrimenti è possibile, voglio sfidare il mio destino, tuttavia vi saranno dei momenti
nella vita in cui io sarò la più infelice delle creature di Dio.14
La realtà della sua sofferenza e della sua ansia è fuori da ogni dubbio.
Eppure questa crisi è difficile collegarla direttamente – e meno che mai in un
rapporto causa-effetto – al suo lavoro quotidiano come compositore, al di là
dell’ovvia considerazione che una condizione così traumatica amplificava
inevitabilmente la sua consapevolezza della fragilità e della mortalità. Se mai,
rinsaldava la sua determinazione a tenere duro, a mantenere intensa la sua
produttività come mezzo per avere la meglio sul dolore e sullo sconforto.
Prendendo le misure della propria forza interiore Beethoven aggiunge, in una
seconda lettera a Wegeler, queste affermazioni visionarie: «libero da esso [il
problema della sordità] avrei voluto abbracciare il mondo» e «ogni giorno mi
avvicino di più alla meta, che sento ma non so definire»16.
È naturale credere che il contenuto emozionale di un’opera d’arte debba
riflettere quello che presumiamo essere lo stato d’animo prevalente dell’artista
al momento della sua creazione. Eppure si potrebbe sostenere in modo
altrettanto convincente che, avendo una personalità così forte come la sua,
l’urgenza creativa e la determinazione potessero facilmente condurre
Beethoven, consciamente o inconsciamente, a una dissociazione tale da
consentire risultati assai differenti. Possiamo avvertire la complessità di questo
problema non appena ci chiediamo che cosa davvero significhi “condizione
psicologica” – come se potessimo immaginare un individuo perfettamente
funzionante guidato da una condizione che si suppone stabile e ben definita,
anziché perpetuamente sballottato, giorno per giorno, da forze e pulsioni
psichiche contrastanti e contraddittorie. La questione va dritto al cuore di ciò
che noi intendiamo per “biografia”, e va da sé che molto di ciò che vorremmo
sapere è nascosto alla nostra vista. Riflettendo su quella che riteneva essere la
«vita segreta o quantomeno taciuta che scorre sotto quella che si pensa che noi
viviamo», in un’occasione il biografo e critico letterario Richard Ellmann
osservò che «gli scrittori generalmente consentono un qualche accesso alle loro
storie non dette […] ma gli orari di visita sono limitati, e parte del terreno è
recintato»17.
Quando i primi biografi di Beethoven partivano dal presupposto che i suoi
migliori lavori, quelli in cui riversava la sua anima e il suo cuore, dovessero
riflettere la sua condizione psicologica dominante, credevano, letteralmente,
nell’unità estetica di vita e lavoro. Partendo da questo presupposto, Beethoven
potrebbe essere ritratto come il prototipo dell’artista romantico sofferente, la
cui sfida alla disabilità trova diretta espressione nei suoi lavori più importanti18.
La sua sordità potrebbe essere considerata la causa centrale e perfino diretta
della creazione di un corpus di composizioni “eroiche”, e i suoi grandi lavori
rappresentare incarnazioni estetiche del suo trionfo sulle personali afflizioni –
l’eroe che ha la meglio sulle avversità. Questa era la tesi resa celebre da J.W.N.
Sullivan nel suo libro sullo “sviluppo spirituale” di Beethoven19, che propone un
diretto collegamento tra “crisi della sordità” e “stile eroico” rappresentato nel
modo più completo dalla Terza, che per l’appunto portava, letteralmente, il
titolo “Sinfonia Eroica”. Questo punto di vista, inevitabilmente, faceva sì che la
Seconda Sinfonia retrocedesse di un passo per importanza, perché si supponeva
che un artista della statura di Beethoven non potesse scrivere lavori energici e
vivaci come questo in un momento di sofferenza, e così quel lavoro fu
considerato, in un modo o nell’altro, al di sotto di un presunto standard
artistico e biografico. Perciò Sullivan aveva poco o nulla da dire a proposito
della Seconda Sinfonia. Sulla Quarta, la Sesta e l’Ottava formulò questo giudizio:
Lo stesso Beethoven non sempre raggiunge la massima profondità. Non era sempre impegnato con
i problemi più grandi e con le esperienze spirituali più significative. Lavori coma la Quarta, la Sesta e
l’Ottava Sinfonia riflettono stati d’animo che non richiedono una simile intensità di realizzazione…
Non si collocano nella linea principale dello sviluppo spirituale di Beethoven.20
9
Come ha sostenuto Kerman in uno studio sulle code di Beethoven, un principio generale nelle sue
code giovanili sembra essere la presenza di «qualche tipo di instabilità, discontinuità o rimozione del
primo tema, che nella coda viene evitato». Cfr. il suo Notes on Beethoven’s Codas, in BS3, a cura di A.
Tyson, Cambridge, Cambridge University Press 1982, p. 149.
10
Il primo frammento sinfonico di Schubert, del 1811 (D. 2b) consiste in un abbozzo per un Adagio e un
Allegro, entrambi in re maggiore, i quali entrambi mostrano il diretto influsso della Seconda di Beethoven,
così come farà, più tardi, il giustamente famoso “Grand Duo” per pianoforte a quattro mani (D. 812, 1824),
che mostra inequivocabili reminiscenze del movimento lento di questa sinfonia di Beethoven.
11
Cfr. il mio Reshaping the Genre: Beethoven’s Piano Sonatas from Op. 22 to Op. 28 (1799-1801), in «Israel
Studies in Musicology», VI, Jerusalem, 1996, pp. 1-16, che tratta le sonate fino all’op. 28 ma non le tre
sonate op. 31.
12
Cfr. Daniel Coren, Structural Relations Between Op. 28 and Op. 36, in BS2, a cura di A. Tyson, Oxford,
1977, pp. 63-83. Coren dimostra che i quattro movimenti della sonata sono collegati da affinità tematiche e
da altre caratteristiche strutturali, e che molte di queste caratteristiche appaiono anche nella Seconda
Sinfonia.
Le argomentazioni di Coren corroborano l’opinione che per Beethoven il genere della sonata per
pianoforte fosse il laboratorio dove sperimentare idee e procedimenti che avrebbero potuto essere
utilizzati anche in altri lavori, specialmente nelle sinfonie.
13
Per il testo originale del Testamento di Heiligenstadt, scritto in due parti datate 6 e 10 ottobre 1802,
cfr. Briefe, I, n. 106. Per una sensibile trattazione della sua sordità, delle lettere e di questo famoso
documento cfr. Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 1998, 2a ed., pp. 123-38 (della prima
edizione esiste la traduzione italiana di Nicoletta Polo, Venezia, Marsilio 1986, a cura di Giorgio Pestelli).
Come Brandenburg sottolinea in Briefe, I, nota 6 del n. 106, Beethoven in quel periodo soffriva anche di
problemi addominali, come sappiamo dalla sua stessa testimonianza e da quelle di osservatori a lui vicini.
14
Da Briefe, n. 65, a Wegeler, 29 giugno 1801.
15
Briefe, n. 106
16
Lettera a Wegeler del 16 novembre 1801 (Briefe, n. 70).
17
Richard Ellmann, Golden Codgers: Biographical Speculations, New York, Oxford University Press 1973,
p. IX. Cfr. il mio Reappraising Beethoven Biography, in «Yearbook of Comparative and General Literature»,
LIII, Bloomington, 2007, pp. 83-99.
18
Per una netta dichiarazione di questo credo nella biografia artistica, si vedano le osservazioni di
Frederick R. Karl, recente biografo di Joseph Conrad e Franz Kafka, nel suo contributo a The Craft of
Literary Biography, a cura di J. Meyers, New York, Schocken Books 1985, pp. 69-88. Karl scrive: «il
biografo di un soggetto letterario deve metterne in reciproca relazione vita e opera in modo profondo e
significativo. Se non può raggiungere questo scopo, la biografia, per quanto possa essere altrimenti
illuminante, fallisce» (p. 69). Non sorprendentemente i metodi applicati da Karl e altri simili biografi
mostrano di fare affidamento primariamente su letture psicologiche interconnesse di vita e opere. In un
punto successivo del medesimo saggio Karl osserva che fin da quando Freud ha trattato Leonardo «gli
psicanalisti hanno trovato difficoltà nel collegare vita e arte», e cita l’opinione di Jung secondo cui
l’artista «non è altro che il suo lavoro, e non un essere umano». Accogliendo la posizione di Jung,
piuttosto estrema per un biografo, Karl ipotizza che per Conrad «le parole sarebbero diventate la realtà
[…] e si sarebbe esposto al linguaggio e alla memoria ovunque lo avessero colto […] e proprio come
trasformava passato e memoria in creazione, Conrad stesso subiva una trasformazione da persona conscia
e attiva in un uomo che stava “ricevendo” dall’inconscio messaggi che non poteva ignorare. Recuperare
significava trasformare». (pp. 83-84). Quest’ultima formulazione è suggestiva in relazione ad artisti che,
come Beethoven, sembrano essere in grado di annullare la propria consapevolezza del dolore e dell’ansia
a un livello conscio quando si immergono nella spaventosa concentrazione del loro mondo creativo. In
quel mondo i suoi problemi, per quanto seri e onnipresenti, erano apparentemente passibili di una
soluzione, purché Beethoven lavorasse abbastanza duramente e abbastanza a lungo.
19
John William Navin Sullivan, Beethoven: His Spiritual Development, London, J. Cape 1927.
20
J.W.N. Sullivan cit., pp. 86-87.
21
Recensioni del 9 maggio 1804 e 15 agosto 1815, entrambe in AMZ, tradotte in inglese da Wayne
Senner in The Critical Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries, 1, Lincoln,
NE, University of Nebraska Press 1999, p. 196 sg.
22
La citazione è tratta da una lettera a Breitkopf & Härtel dell’ottobre 1802 nella quale Beethoven
proponeva la pubblicazione di entrambi i lavori. Su queste variazioni e sulla tradizione a cui appartengono
cfr. l’eccellente studio di Elaine Sisman, Haydn and the Classical Variation, Cambridge, MA, Harvard
University Press 1993.
23
Questa idea contrassegnata “Sinfonia” è nel quaderno “Landsberg 7”, pubblicato da Karl Lothar
Mikulicz come Ein Notierungsbuch von Beethoven, Leipzig, Breitkopf & Härtel 1927, p. 110 (sottolineato) =
100, sist. 5. Cfr. Appendice.
24
Michael Broyles, Beethoven: the Emergence and Evolution of Beethoven’s Heroic Style, New York,
Routledge 1987, pp. 119-26. Broyles fornisce un utile prospetto (p. 120 sgg.) che mostra quali lavori di
Beethoven sono stati paragonati, da autori contemporanei o posteriori, a opere di autori francesi. Non è
sorprendente che le pretese correlazioni ipotizzate da autori contemporanei di Beethoven riguardassero
Leonore, l’ouverture Coriolano, le ouverture Leonore e la musica per l’Egmont – tutti quanti lavori teatrali
su temi esplicitamente politici, eroici o tragici. I pretesi collegamenti con sinfonie di Beethoven (Prima,
Quarta, Quinta e il finale della Settima) furono tutti proposti da Arnold Schmitz nel XX secolo (Das
Romantische Beethovenbild, Berlin, F. Dummler 1927); solo uno risale al XIX secolo: il paragone fatto da
Schumann tra il primo movimento della Quinta e la Sinfonia in sol minore di Méhul (Robert Schumann,
Gli scritti critici, 2 voll. a cura di A. Cerocchi Pozzi, trad. it. G. Taglietti, Milano, Ricordi Unicopli 1991, I, p.
610. Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig, P. Reclam jun. 1889, II). Per
un’interessante sommario dei presunti influssi francesi, cfr. Solomon, Beethoven cit., p. 138. Circa i diretti
collegamenti tematici ipotizzati da Schmitz sono stati sollevati dubbi da Broyles cit., p. 121. Cfr. anche
Alexander Ringer, A French Symphonist at the Time of Beethoven: Etienne Nicolas Méhul, «The Musical
Quarterly», XXXVII, 1951, pp. 543-65.
25
Cfr. Boris Schwarz, Beethoven and the French Violin School, «The Musical Quarterly», XLIV, 1958, pp.
431-47; e anche la sua tesi di dottorato, French Instrumental Music between the Revolutions, 1789-1830,
Columbia University, 1950.
26
Cfr. Mary Sue Morrow, Concert Life in Vienna, 1780-1810, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1989,
Appendici 1-2 (Calendars of Public and Private concerts with programs).
27
Cfr. Broyles cit., p. 121 sgg.
28
Alfred Einstein, The Military Element in Beethoven, «Monthly Musical Record», LXIX, London,
novembre 1939, pp. 270-4; cit. in Broyles, p. 123.
29
Cfr. Karl Josef Mayr, Wien im Zeitalter Napoleons, Wien, Gottlieb Gistel & Cie. 1940, in particolare p.
222 sgg. sulle guarnigioni militari a Vienna. Mayr (p. 222) riferisce che il regime imperiale usava i reparti
militari per mantenere l’ordine pubblico quando la cittadinanza mostrava segni di irrequietezza e anche di
opposizione politica, come nel luglio 1805.
30
Per esempio le tre Marce per pianoforte a quattro mani op. 45 del 1803, e altre marce per pianoforte
che si trovano nel quaderno Eroica, dello stesso periodo in cui stava componendo la Marcia Funebre come
movimento lento della Terza Sinfonia. È un esempio di uso allo stesso tempo “elevato” e “popolare” di uno
stesso genere da parte di Beethoven. Le Marce op. 45 sono una specie di “versione rilassata” del genere
che Beethoven trattava mentre stava tentando di realizzare la più possente marcia funebre sinfonica mai
scritta da lui o da chiunque altro. In effetti Claude Palisca ha evidenziato in modo convincente i
collegamenti tra il movimento lento dell’Eroica ed alcuni esempi di marce funebri della Francia
rivoluzionaria, tra cui la Marche lugubre di Gossec, un pezzo frequentemente eseguito negli anni 1790 che
Beethoven potrebbe aver conosciuto quando ancora si trovava a Bonn, prima del novembre 1792. Palisca
sembra essere sulla strada giusta quando suggerisce che non è detto che Beethoven abbia attinto
direttamente a modelli francesi per il materiale tematico della propria Marcia Funebre, o per altri lavori
del genere, ma che, sensibile al corrente stile sinfonico francese, «lo abbia assimilato così profondamente
che le sue frasi e i suoi cliché caratteristici scaturivano spontaneamente». Claude Palisca, “French
Revolutionary Models for Beethoven’s Eroica Funeral March”, in Music and Context: Essays for John Ward
a cura di A.D. Shapiro, Cambridge, MA, Harvard University Department of Music 1985, pp. 198-209; il
passo citato è a p. 209.
31
Il principale quaderno di appunti per l’op. 36 è il MS Landsberg 7 della Biblioteca di Stato di Berlino.
Beethoven lo utilizzò dall’estate (o autunno) del 1800 fino all’incirca a marzo 1801. Per uno studio
preliminare di questi abbozzi per la Seconda Sinfonia si veda Kurt Westphal, Vom Einfall zur Symphonie,
Berlin, Walter de Gruyter & Co. 1965, pp. 47-75.
32
Così come ha fatto Nottebohm nel suo studio Ein Skizzenbuch von Beethoven, Leipzig, Breitkopf &
Härtel 1865, p. 11. Primitivi abbozzi per il Larghetto si trovano nella miscellanea Landsberg 12, pp. 59-63.
Sieghard Brandenburg ha sostenuto che questo abbozzo non abbia a che fare con il lavoro di Beethoven
per la Seconda Sinfonia nella sua edizione del quaderno “Kessler”, Ludwig van Beethoven, Kesslersches
Skizzenbuch, Bonn, Beethoven Haus 1978, volume dedicato alle trascrizioni, p. 32 sg.
33
Cfr. S. Brandenburg cit., I, p. 46 sg., e anche Richard Kramer, An Unfinished Concertante by Beethoven,
in BS2, a cura di A. Tyson, Oxford, 1977, pp. 33-65.
34
La disposizione in sequenza delle note della triade (1-3-1-5-1-3-1) è quasi identica alla successione
intervallare che Beethoven avrebbe poi usato per il primo tema dell’Eroica.
35
Franz Wegeler e Ferdinand Ries, Biographische Notizen über Ludwig van Beethoven, Coblenz,
Baedeker 1838, p. 77; pubblicato in inglese come Beethoven Remembered, Arlington, Great Ocean
Publishers 1987, p. 66 sg.
36
Recensione anonima in AMZ, 2 gennaio 1805, tradotta in inglese in W.M. Senner, The Critical
Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries cit., I, p. 209.
III
La Sinfonia “Eroica”
E nelle sue lettere all’arciduca Rodolfo Beethoven ricorda più e più volte al
principe reale chi è il maestro, e chi l’allievo. Rodolfo, fratello minore
dell’imperatore d’Austria regnante, era un dotato pianista e compositore che,
riconoscendo il magistero di Beethoven, aveva accettato il proprio ruolo di
musicista apprendista, e allo stesso tempo gli forniva supporto economico10.
Lo stesso tema – il contrasto tra ideali artistici e concrete necessità – è un
pensiero che negli ultimi anni accompagna costantemente Beethoven. Lo
testimonia questa lettera al principe Galitzin, che aveva commissionato i primi
tre dei suoi ultimi quartetti:
[…] creda che il mio desiderio più vivo sarebbe che la mia arte incontrasse il favore delle persone più
nobili e più colte, ma purtroppo dall’altezza sovrumana dell’arte si viene tirati giù anche troppo
bruscamente nel bel mezzo degli elementi terreni e umani.11
Le “Variazioni” op. 35
Come è noto, il materiale tematico e lo schema generale delle Variazioni op. 35
fanno presagire il finale dell’Eroica, che si sviluppa come una serie di variazioni
liberamente strutturate sul medesimo “basso del tema” e sul “tema” melodico
che avevano dato vita alle variazioni per pianoforte. Beethoven aveva già usato
altre due volte lo stesso materiale tematico – in una contraddanza per il
repertorio di balli di sala viennese, e nel finale del balletto Prometeo, entrambi
composti nell’inverno 1800-1801. Nel corso della sua vita Beethoven non usò
mai alcun altro tema per tanti lavori indipendenti. Lo utilizzò sempre nella
medesima tonalità (mi bemolle maggiore) e il fatto che lo riprendesse per il
finale della nuova sinfonia dimostra che per lui rivestiva un significato
particolare, forse collegato al mito di Prometeo, l’eroe che portò l’umanità alla
civilizzazione – uno dei temi drammatici del balletto. Beethoven era orgoglioso
di queste variazioni, e nella prefazione che volle far precedere al lavoro
pubblicato non solo scrisse: «[sono] ben diverse dalle mie precedenti
[variazioni]», ma aggiunse: «le ho annoverate nell’elenco ufficiale delle mie
composizioni maggiori [contrassegnandole con un numero d’opus] tanto più
che anche i temi sono miei»14.
La “Ur-Eroica” del 1802
In un momento imprecisato del tardo 1802 – immediatamente prima di lasciare
Heiligenstadt per rientrare a Vienna, a metà ottobre, o subito dopo il suo
ritorno – Beethoven completò gli abbozzi per le Variazioni op. 35, inserendoli
nel suo più importante quaderno di appunti per quell’anno, poi conosciuto
come quaderno “Wielhorsky”15. Ciò che conta, per quanto ci riguarda, è uno
schema di due pagine per un movimento in mi bemolle maggiore che fa seguito
direttamente agli abbozzi per le Variazioni op. 35. Questo schizzo preliminare
per un lavoro in più movimenti è la prima serie di idee di cui siamo a
conoscenza per quella che poi sarebbe diventata la Sinfonia “Eroica”, e illustra
chiaramente l’originaria concezione che Beethoven ebbe di questo lavoro (si
veda l’Esempio Web E). Lo schema preliminare della “Ur-Eroica” mostra
quattro caratteristiche fondamentali:
Leggendo gli scritti di questi primi critici e di altri autori di critica musicale,
spesso sorprendentemente acuti e ricchi di dettagli, per quanto molti siano
decisamente di scarso rilievo, rimaniamo impressionati dal senso di
immediatezza e di importanza che attribuiscono alla nuova musica dei
compositori della loro epoca – non solo di Beethoven, ma anche dei suoi
contemporanei. Lungi dall’accettare o respingere semplicemente tutto ciò che
di nuovo o difficile c’era nella musica di Beethoven, la ascoltavano, come ha
dimostrato uno studioso moderno, «in modo piuttosto complicato». Ossia,
puntualizza, «nella stessa misura in cui vi riconoscevano una dimensione
trascendente, vi udivano altresì antiquate rappresentazioni di significati
concreti e oggettivi, che consideravano elevati a più alte vette di realismo dal
linguaggio musicale di Beethoven»22.
Non è questo il luogo per diffonderci sulla prima e vasta letteratura critica
su Beethoven, se non per menzionare E.T.A. Hoffmann e Adolf Bernhard Marx,
due importanti critici che contribuirono a forgiare la visione predominante
della sua musica per i decenni a venire. La famosa recensione della Quinta
Sinfonia scritta da Hoffmann nel 1810 colpì profondamente l’immaginazione di
molti autori successivi, fossero o meno d’accordo col suo linguaggio caricato e
la sua pretesa che la Quinta dischiuda «il regno del mostruoso e
dell’incommensurabile»23. Marx, uno dei critici più influenti del suo tempo e
figura eminente dell’analisi formale del primo Ottocento, considerava l’Eroica
«non semplicemente un grande lavoro, come altri; piuttosto è decisiva per
l’intera sfera della nostra arte […] un lavoro che ha condotto la musica a un
nuovo, più elevato livello di consapevolezza»24.
Ma proprio come Hoffmann e Marx definirono i parametri della critica
beethoveniana per la prima metà del XIX secolo, così Wagner fece per la
seconda metà – e il suo influsso fu assai più profondo. Per lui, in un saggio del
1841, gli aspetti eroici di questa sinfonia possono non essere riferiti a
Napoleone, ma piuttosto riflettere Beethoven stesso, che «vide davanti a sé il
territorio in cui avrebbe potuto compiere le stesse imprese realizzate da
Bonaparte sui campi di battaglia italiani»25. D’altra parte c’era un altro aspetto
della devozione che per tutta la vita Wagner nutrì nei confronti di Beethoven e
in particolare della sua musica sinfonica, da Wagner descritta – nel proprio
interesse – come il compimento definitivo delle possibilità espressive della
musica strumentale: sul fertile terreno così creato lui, Wagner, avrebbe potuto
coltivare il dramma musicale. Possiamo vedere quest’altra faccia
dell’ammirazione di Wagner per l’Eroica in un significativo aneddoto
raccontato da un giovane compositore, Felix Draeseke, che gli aveva fatto visita
a Lucerna nell’agosto 1859.
Lunghezza e densità
Per molti decenni dopo la sua composizione l’Eroica fu nota non solo per
l’ampiezza di respiro della concezione, ma anche per la lunghezza: il lavoro che
da solo aveva ampiamente esteso la tradizionale dimensione delle composizioni
sinfoniche. Che Beethoven ne fosse perfettamente consapevole è evidente da
una nota in italiano stampata sul frontespizio della parte di violino I nella
prima edizione.
Questa sinfonia essendo scritta apposta più / lunga delle solite, si deve eseguire più vicino / al
principio ch’al fine di un Academia e poco doppo un Overtura un Aria ed un / Concerto; accioche,
sentita troppo tardi, non / perda per l’auditore, già faticato dalle / precedenti produzioni, il suo
proprio, / proposto effeto.29
«Scritta apposta più lunga delle solite». Queste parole non potevano essere
state scritte che da Beethoven. Il peso del contenuto e la corrispondente portata
dell’Eroica – eseguita adottando tempi ragionevoli per i suoi quattro
movimenti, scritti dieci anni prima dell’invenzione del metronomo –
risultarono seriamente impegnativi per gli ascoltatori contemporanei, come
abbiamo visto.
Ciò che questo lavoro esigeva non era semplicemente che gli ascoltatori
estendessero l’arco della loro attenzione a lunghezze inaudite, ma che
cercassero di percepire un contenuto musicale di densità maggiore rispetto a
quella che normalmente ci si aspettava da un lavoro sinfonico, destinato a
molti ascoltatori in una sala pubblica, non a pochi intenditori in un salone
privato. Perché con l’Eroica Beethoven creò un tessuto musicale molto più
denso e interconnesso che nei precedenti lavori sinfonici (inclusa la brillante
Seconda Sinfonia), nelle sonate per pianoforte (a parte quelle sviluppate in
modo più complesso), nella musica da camera con pianoforte, e nei primi
quartetti per archi.
Questo livello di complessità è evidente già nell’attacco, e poi lungo tutto il
primo movimento, dal momento che il tema di apertura, col suo incipit triadico
e la prosecuzione cromatica, influenza molti dei temi e motivi subordinati nei
quali ci si imbatte nell’arco dell’esposizione. Il primo tema, così, assolve due
ruoli fondamentali: da un lato è un attacco memorabile e accuratamente
confezionato, per quanto non perfettamente simmetrico; dall’altro presenta
motivi caratteristici che Beethoven può usare più tardi, in varie maniere, per
dar forma a una rete di temi e passaggi secondari. I rimandi sono talvolta
letterali, talvolta più liberi, ma sono onnipresenti, e insieme con gli altri aspetti
essenziali della struttura musicale generano nell’orecchio dell’ascoltatore la
sensazione che il lungo percorso attraverso i singoli movimenti non sia
semplicemente un processo di estensione, ma una catena fortemente ampliata
di unità tematiche collegate da contrasti di superficie, ma anche da connessioni
sotterranee30. Questo è vero soprattutto per il primo movimento, ma lo è in
qualche modo anche per i due movimenti centrali, e in modo esplicito nelle
variazioni interconnesse che formano il finale.
I contemporanei riferiscono di aver sentito dire da Beethoven che
componeva i suoi grandi lavori avendo in mente ciò che definiva
un’“immagine”. Per quanto alcuni commentatori abbiano facilmente creduto
che si trattasse di un’immagine letteraria o pittorica, sembra più probabile che
Beethoven si riferisse essenzialmente a un’idea musicale di partenza, una forma
o un profilo elementare – ciò che Roger Sessions chiamava, semplicemente,
“un’idea musicale” da cui prende avvio una catena di pensieri. Questo punto di
vista si adatta molto bene a ciò che si evince dalla maggior parte degli abbozzi
di Beethoven, e cioè che spesso cominciava un lavoro con uno “spunto di
massima” – un profilo tematico di base dalla forma ben definita per quanto
riguarda ritmo e note. Un’idea di base di questo tipo, per Beethoven, poteva
costituire un punto fermo rispetto al quale costruire successive elaborazioni ed
elementi di contrasto mentre elaborava la struttura d’insieme di un movimento
o di un intero pezzo31. Quando predisponeva le sue idee su scala più ampia per
un grande lavoro ciclico cominciava col pianificare dettagliatamente uno dei
movimenti, non necessariamente il primo, e poi lo manteneva mentre decideva
quali altri movimenti accostargli32.
Per quanto riguarda gli abbozzi del primo movimento dell’Eroica i punti fissi
sono senza dubbio questi:
Il primo tema è un “tema altalenante” sulle note della triade, cioè un tema
nel quale la linea melodica comincia da una nota di riferimento, si allontana,
poi si muove ancora nella direzione opposta per tornare al punto di partenza.
Questa porzione di tema esprime inequivocabilmente la tonica, la tonalità
principale: è lo scopo delle battute iniziali del movimento, cui tocca stabilire
questo punto di riferimento musicale. Poi segue quella che è stata definita una
“nuvola” cromatica, nella quale ci si allontana dalla tonica per semitoni
discendenti, per poi risalire alla tonica ripercorrendo i medesimi semitoni.
Questa figura cromatica, che procede a volte ascendendo, a volte discendendo,
compare in modo vistoso in vari punti del movimento, talvolta come appendice
di importanti elementi tematici secondari, e anche nella coda34.
Ma è soprattutto il movimento triadico delle prime due battute, con la sua
struttura “altalenante”, a influenzare il successivo contenuto tematico, non solo
in modo letterale, come alla fine dell’esposizione, ma perfino in un’apparente
transizione tra riproposizioni del primo tema nella sezione di apertura del
movimento35. Per quanto sia possibile che gli ascoltatori non se ne accorgano
facilmente o immediatamente, in quel passaggio il collegamento tematico c’è, e
quando lo si ascolta l’infusione di significato in quella che altrimenti avrebbe
potuto essere una transizione di routine diventa evidente. Questo esempio può
valere per molte altre situazioni simili nell’ambito del movimento.
Marcia funebre
Hector Berlioz, un beethoveniano di provata fede, definì questa Marcia Funebre
«un dramma in sé». Per lui il sottotitolo della prima edizione della sinfonia
significava chiaramente che la migliore interpretazione non solo della Marcia
Funebre, ma dell’intero lavoro, era quella della commemorazione di un eroe
caduto. E aggiungeva: «non conosco alcun altro esempio in musica di uno stile
in cui il senso del lutto possa mantenersi in modo coerente in forme di tale
purezza e nobiltà di espressione»36.
Questo movimento estende la marcia come genere di movimento – non la
marcia militare rapida, ma la marcia funebre a passo lento – a un’ampia forma
ternaria, notevolmente sviluppata, in cui il tema principale ha funzione di
ritornello, come nel rondò37. L’ampliamento dà modo a Beethoven di inserire
temi contrastanti nella prima sezione in do minore, ma anche in quella in do
maggiore (la sezione “Maggiore”), in cui la tragedia lascia il posto a un’utopica
visione di speranza. Più avanti, quando riappare il tema funebre principale, c’è
spazio per un’ulteriore espansione grazie a un episodio fugato e a un’ulteriore
ripresa del tema principale in sol minore. Infine un’impressionante esplosione
fortissimo libera la strada per una conclusiva riesposizione – una ripresa
integrale del primo tema in do minore, questa volta affidata all’oboe, lo
strumento preferito da Beethoven per i momenti di più intenso pathos. Alla fine
del movimento il tema principale si frammenta in brevi frasi inframezzate da
silenzi. Ancora Berlioz:
Quando questi brandelli della lugubre melodia sono nudi, soli, spezzati, e sono passati uno per volta
alla tonica, i fiati piangono come se fosse l’ultimo addio dei guerrieri ai loro compagni d’arme.38
È stato riferito che nel 1821, quando gli arrivò la notizia che Napoleone era morto a Sant’Elena,
Beethoven disse: «ho già composto la musica per questa catastrofe».
Forse non è un caso che questa conversazione abbia avuto luogo proprio a
Heiligenstadt e non in uno degli altri villaggi di campagna nei quali Beethoven
aveva soggiornato, d’estate, nel corso degli anni. Dopo tutto era quello il posto
in cui, quindici anni prima, aveva affrontato la più grave crisi esistenziale della
sua vita.
Si consideri il poscritto del Testamento di Heiligenstadt, datato 10 ottobre
1802:
Come cadono appassite le foglie dell’autunno, così anch’essa si è per me disseccata, me ne vado –
quasi nello stato in cui ero al mio arrivo – persino il coraggio superbo – che spesso mi sosteneva nelle
giornate estive – è svanito – o Provvidenza, concedimi una volta un puro giorno di gioia – è da tanto
tempo che la mia anima non ode più l’ultima eco della vera gioia – o quando, O Divinità – quando
proverò di nuovo la gioia nel tempio della natura e degli uomini – Mai? – no, oh, sarebbe troppo duro.
1
Ries a Simrock, 22 ottobre 1803; Briefe, n. 165; Letters to Beethoven and Other Correspondence, a cura di
T. Albrecht, Lincoln, NE, University of Nebraska 1996, n. 71.
2
TF, 337. Nel 1804 Mähler dipinse il suo famoso ritratto di Beethoven, più volte riprodotto. cfr.
Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven. A Study in Mythmaking, New York, Rizzoli
International Pubblications 1987, pp. 33-6. Per quanto Comini faccia riferimento all’anno come al 1804 e
sostenga che Beethoven avesse eseguito il primo movimento e improvvisato sul primo movimento,
Thayer identifica espressamente il movimento come il finale. Considerando la stretta relazione tra il finale
dell’Eroica e le Variazioni per pianoforte op. 35, possiamo prendere in considerazione l’ipotesi che
Beethoven avesse improvvisato una versione del finale che poteva aver incorporato elementi dell’op. 35
ed altri inventati. In ogni caso Mähler rimase profondamente impressionato dalla qualità e dall’originalità
del modo di suonare di Beethoven: Thayer riferisce che gli sia stato detto da Mähler stesso quando
descrisse quella visita. Mähler diede queste informazioni a Thayer prima del 1860, l’anno in cui il pittore
morì, all’età di 82 anni.
3
Scott Burnham, Beethoven Hero, Princeton, NJ, Princeton University Press 1995, p. XVI sg.
4
Franz Wegeler e Ferdinand Ries, Biographische Notizen, Coblenz, Baedeker 1838, p. 77 sg.; Schindler,
Beethoven As I Knew Him: A Biography, cura di D.W. MacArdle, trad. ingl. C.S. Jolly, Chapel Hill,
University of North Carolina Press 1966, p. 115 sg.
5
Briefe, n. 84, lettera a Hoffmeister dell’8 aprile 1802.
6
Briefe, n. 188, lettera a Breitkopf & Härtel; «die Sinfonie ist eigentlich betitelt Bonaparte».
7
Cfr. il mio “Beethoven, Florestan, and the Varieties of Heroism”, in Beethoven and his World, a cura di
S. Burnham e M.P. Steinberg, Princeton, NJ, Princeton University Press 2000, pp. 27-47.
8
Briefe, n. 64, lettera a Hoffmeister del 15 gennaio 1801. A proposito di questa lettera cfr. Maynard
Solomon, Beethoven’s “Magazin der Kunst”, «19th-Century Music», Oakland, CA, VII, 1984, pp. 199-208.
9
Briefe, n. 747, lettera a Kanka, non datata ma secondo Anderson e Brandenburg scritta nell’autunno
1814; l’espressione di Beethoven è “das geistiges reich”, che potrebbe anche tradursi “l’impero dell’anima”.
10
Il fondamentale studio su Beethoven e l’“Arciduca” è Susan Kagan, Archduke Rudolph: Beethoven’s
Patron, Pupil, and Friend, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1988. Kagan ha pubblicato anche “Archduke
Rudolph of Austria: Forty Variations on a theme by Beethoven for piano; Sonata in F minor for violino
and piano”, in Recent Researches in the Music of the Nineteenth and Twentieth Centuries, XXI, Madison, A-R
Editions 1992. Cfr. anche la mia breve relazione in Beethoven and His Royal Disciple, «Bulletin of the
American Academy of Arts and Sciences», LVII, 3, Spring 2004, Cambridge, MA, pp. 2-7.
11
Briefe, n. 2003, databile circa 6 luglio 1825.
12
Per la prima edizione critica del quaderno, con facsimile integrale, completa trascrizione e
commento, cfr. ESk.
13
Briefe, n. 51 del 29 giugno 1801.
14
Briefe, n. 123, lettera a Breitkopf, 18 dicembre 1802 ca. Cfr. anche Hans-Erner Küthen, Beethovens
“wirklich ganz neue Manier” – Eine Persiflage, in Beiträge zu Beethovens Kammermusik, Symposion Bonn
1984, a cura di S. Brandenburg e H. Loos, München, Henle Verlag 1987, pp. 216-24. Beethoven
chiaramente voleva essere certo che il pubblico si accorgesse che le Variazioni op. 35 erano basate sul
medesimo tema che aveva usato nel finale del balletto, e qualche mese dopo scrisse nuovamente a
Breitkopf per lamentare che sul frontespizio delle Variazioni op. 35 avevano dimenticato di dire che il
tema «era tratto dal balletto allegorico Prometeo», cosa che «avrebbe dovuto essere dichiarata nel
frontespizio». E aggiunse: «vi prego di farlo [includere il riferimento a Prometeo nel frontespizio], se ciò è
ancora possibile, ossia se il lavoro non è ancora stato divulgato. Se occorre modificare il frontespizio,
potete farlo a mie spese».
15
Cfr. JTW, pp. 130-6. Edizione integrale a cura di N. Fishman, Kniga eskizov Beethovena za 1802-1803,
3 voll., Mosca, Glinka Museum and State Publishing House 1962. È Fishman che per primo ha riconosciuto
che gli abbozzi “Ur-Eroica” erano stati destinati da Beethoven alla Terza Sinfonia.
16
Lo troveremo, successivamente, solo come titolo del Quartetto op. 95 (Quartetto “Serioso”) e poi per
una delle Variazioni “Diabelli”, op. 120 (“Allegro ma non troppo e serioso”).
17
La frase «più espressione di sentimenti che musica descrittiva» era inclusa nel programma per la
prima esecuzione della Sesta Sinfonia nel dicembre 1808; cfr. Kinsky-Halm, p. 161; Nottebohm, in N II, p.
378, riferisce che compariva in una parte di violino originale.
18
Sugli studi di Beethoven con Salieri, ecc. cfr., più recentemente, Julia Ronge, Beethovens Lehrzeit,
Bonn, Beethoven Haus 2011, pp. 141-70.
19
Reinhold Brinkmann, nel suo importante saggio “In the Time of the Eroica”, in Beethoven and His
World a cura di S. Burnham e M. Steinberg, Princeton, Princeton University Press 2000, I, p. 26 e in
particolare p. 20.
20
Nel 1801 Beethoven e Paër erano apparsi nello stesso concerto, quando Beethoven eseguì la propria
Sonata per corno con Giovanni Punto e Paër diresse alcuni lavori vocali con orchestra. Nell’agosto di
quell’anno Paër fu presente a uno degli intrattenimenti musicali di Beethoven. Cfr. Peter Clive, Beethoven
and his World, Oxford, Oxford University Press 2001, p. 255.
21
Recensione anonima in «Der Freymüthige» III, Freiburg, 17 aprile 1805, p. 332, tradotta in inglese in
The Critical Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries, a cura di W.M. Senner,
R. Wallace e W. Meredith, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 2001, II, p. 15 sg. Il riferimento a un
“quintetto in re maggiore” è un errore macroscopico, poiché Beethoven, all’epoca, non aveva scritto alcun
lavoro del genere; è possibile che il recensore stesse pensando al Quintetto in do maggiore op. 29.
22
Robin Wallace, “Beethoven’s Critics: An Appreciation”, in The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His Germanic Contemporaries cit., II, p. 6.
23
AMZ, XII, n. 40 (4 luglio 1810), coll. 630-42, n. 41 (11 luglio 1810) coll. 652-59.
24
Adolf Bernhard Marx, Beethoven, originariamemte pubblicato nel 1859, Leipzig, Breitkopf & Härtel
1902, p. 203. Cfr. Scott Burnham, Beethoven Hero cit., per un’ampia disamina di Marx e di altri critici; cfr.
anche Robin Wallace, Beethoven’s Critics cit.
25
Cit. da S. Burnham in Beethoven Hero cit., p. XV.
26
Riprendo l’aneddoto dal mio saggio “Eroica” Perspectives: Strategy and Design in the First Movement,
pubblicato orginariamente in BS, a cura di A. Tyson, New York, Norton & Company 1973, pp. 97-122,
ristampato nel mio Beethoven: Studies in the Creative Process, Cambridge, Harvard University Press 1992,
pp. 118-33, in particolare p. 120 sg. La fonte era Erich Roeder, Felix Draeseke, Der Lenbens-und Leidensweg
eines deutschen Meisters, 1, Dresden, Wilhelm Limpert Verlag 1932, p. 106, che citava il resoconto dello
stesso Draeseke all’interno di un saggio pubblicato in «Signale», DCLIV, 1907, pp. 1-12.
27
R. Wagner, “Ueberdie Anwendung der Musik auf das Drama”, in Richard Wagner, Gesammelte
Schriften, a cura di J. Kapp, Leipzig, Hess & Becker 1914, XIII, p. 29 sg. Già citato nel mio Beethoven: Studies
in the Creative Process cit., p. 121.
28
Per una recente panoramica su questa tradizione con riferimento alla sinfonia, cfr. Mark Evan Bonds,
After Beethoven, Cambridge MA, Harvard University Press 1979.
29
Kinsky-Halm, p. 129 sg., che cita l’edizione originale dell’ottobre 1806.
30
Sono stati pubblicati molti commenti analitici sui densi collegamenti tematici e motivici in questa
sinfonia, ma ne metterò in evidenza solo due. Il primo è quello di David
Epstein nel suo libro Beyond Orpheus, Cambridge, MA, The MIT Press 1979, in particolare pp. 111-38; il
secondo è l’esame delle relazioni tra il primo movimento e le Variazioni op. 35 in ESk, II.
31
Cfr. Roger Sessions, The Musical Experience, Princeton, Princeton University Press 1949.
32
Questo procedimento talvolta poteva cambiare negli stadi finali, come quando, in qualche caso,
Beethoven sostituì completamente un movimento, come per il finale della Sonata “Kreutzer”,
originariamente concepito per una sonata precedente, o quando rimpiazzò l’“Andante favori” della Sonata
“Waldstein” con la misteriosa e drammatica Introduzione. Si possono trovare esempi di simili abbozzi per
“progetti di movimento” in tutti i quaderni di appunti, dal lavoro preliminare per la Sonata per pianoforte
op. 26 agli ultimi quartetti per archi. Per una visione più ampia dei suoi procedimenti, a cominciare da
un’”immagine”, cfr. il mio “From Conceptual Image to Realization: Some Thoughts on Beethoven
Sketches”, in Genetic Criticism and the Creative Process, a cura di W. Kinderman e J. E. Jones, Rochester,
University of Rochester Press 2009, pp. 108-22. Un recente studio dei suoi progetti di movimento per
lavori in più movimenti è Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement
Structures in His Instrumental Works, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013.
33
Sui simboli massonici disegnati da Beethoven nei margini di un paio di pagine del quaderno “Eroica”,
cfr. ESk, II, pp. 20-3.
34
Per esempio alle bb. 88 e 478, e, in modo anche più significativo, nella coda alle bb. 605-11.
35
Si vedano le bb. 29-35, che cadono tra la seconda e la terza esposizione del tema principale; qui
Beethoven aveva originariamente pensato di esporre nuovamente il tema principale, alla dominante: una
ridondanza di cui fece fatica a liberarsi negli abbozzi; ma la sua soluzione, qui, consiste nello scrivere un
energico passaggio in accordi sincopati dell’intera orchestra, mentre i violini primi salgono percorrendo le
note dell’armonia di dominante, nell’ordine 1-3-1-5-1 (nella tonalità della dominante) anticipando così,
letteralmente, il primo tema stesso, che sta per riapparire. Ho esaminato questo passaggio così come
appare negli abbozzi nel mio From Conceptual Image cit., n. 31.
36
Beethoven by Berlioz, compilato e tradotto da Ralph de Sola, Boston, Crescendo Publishing Company
1975, p. 17.
37
Sono debitore, qui, di Alan Gosman, mio collaboratore nell’edizione critica del quaderno “Eroica”.
38
Beethoven by Berlioz cit., p. 18. È degno di nota che Beethoven usi la medesima disintegrazione di un
tema di apertura in do minore alla fine dell’ouverture Coriolano, un lavoro possente che si colloca a metà
strada tra la Marcia Funebre dell’Eroica e e la Quinta Sinfonia, entrambe illustri esempi di ciò che è stato
definito lo “stato d’animo do minore” di
Beethoven. Cfr. Michael Tusa, Beethoven’s “C-Minor Mood”: Some Thoughts on the Structural
Implications of Key Choice, BF, II (1993): pp. 1-19.
39
George Grove, Beethoven and His Nine Symphonies, New York, Dover 2012, p. 76 sg.
40
Lewis Lockwood, Alan Gosman, Beethoven’s “Eroica” Sketchbook: A Critical Edition, 10, Urbana, IL,
University of Illinois Press 2013. Nottebohm ha proposto l’interpretazione “St” (= “Stimme” = Voce),
concettualmente sensata. Ma il simbolo è chiaramente una “M” maiuscola per “Menuetto”, il termine che
Beethoven ancora usava per il terzo movimento. Non aveva abbastanza spazio per per completare la frase
poiché aveva già scritto la “M” a metà del margine superiore.
41
Constantin Floros, Beethovens Eroica und Prometheus-Musik, Wilhelmshaven, Heinrichshofen 1978.
42
Cfr. Paul Mies, “Quasi una fantasia”, in Colloquium Amicorum: Joseph Schmidt-Görg zum 70.
Geburstag, a cura di S. Kross e H. Schmidt, Bonn, Beethoven Haus 1967, pp. 239-49.
43
Cfr. il mio “The Compositional Genesis of the Eroica Finale”, pubblicato per la prima volta in
Beethoven’s Compositional Process, a cura di W. Kinderman, Lincoln, NE, 1991, pp. 82-101, ristampato nel
mio Beethoven: Studies in the Creative Process cit., pp. 151-66.
44
S. Burnham cit., p. 60.
45
Il primo a parlarne è stato Nottebohm, N II, p. 180 sg.
46
Più recentemente, Burnham scrive: «considerandolo nell’insieme, non si può dire che questo finale
risolva in modo inequivocabile il resto del lavoro» (p. 60). Già nel 1807 un critico aveva scritto su AMZ:
«Il finale è piaciuto meno, e mi è parso che qui l’artista abbia spesso voluto prendersi gioco del pubblico
senza curarsi del suo divertimento». Per questa e altre recensioni della prima ora cfr. The Critical
Reception of Beethoven’s Compositions by his German Contemporaries cit., a cura di W.M. Senner e R.
Wallace, II, Lincoln, NE, 2001, pp. 15-42; la citazione proposta sopra è tratta da una recensione in AMZ del
1807.
47
TF, p. 673 sg.
48
Briefe, n. 65, datata 29 giugno [1801], vedi alla nota 1 della stessa lettera per i commenti alla
datazione.
IV
La Quarta Sinfonia
Per la Quarta Sinfonia non abbiamo abbozzi estesi o altre indicazioni che
Beethoven ci avesse lavorato consistentemente prima del 1806. L’evidente
smarrimento di un importante quaderno di appunti del 1806 spiega l’assenza di
abbozzi per tutti i movimenti della Quarta, così come per tutte le grandi
composizioni di quell’anno6. Per la verità due piccoli frammenti di appunti per
il finale sopravvivono su un foglio che è stato datato 1804, ma non provano in
modo certo che Beethoven abbia lavorato alla sinfonia in quell’anno, ed è
assolutamente possibile che abbia invece annotato queste brevi, casuali idee in
un momento successivo. I pochi altri appunti sopravvissuti sembrano essere del
18067. Per di più tutta la documentazione disponibile indica che la Quarta fu
scritta in un arco di tempo piuttosto breve tra l’estate e l’autunno del 1806,
dopo che Beethoven ebbe terminato Leonore e composto i Quartetti op. 59.
Ma, nell’impeto creativo che diede vita a tanti importanti lavori di quegli
anni, l’idea iniziale della Quarta Sinfonia non sembra cadere direttamente dopo
la Terza, ma piuttosto dopo le prime due versioni di Leonore e dopo i Quartetti
op. 59, che aprirono un nuovo capitolo nella storia della musica da camera.
Come abbiamo visto, le prove che possiamo ricavare dagli appunti
suggeriscono altresì che, quando intraprese la composizione della Quarta,
Beethoven aveva già quantomeno prefigurato, e brevemente delineato, i
possenti temi in do minore che avrebbe poi inserito nel primo e nel terzo
movimento di quella che sarebbe stata la Quinta, oltre ad almeno alcune idee
per una “sinfonia gioiosa” e una per un pezzo che ritraesse un ruscello in uno
scenario agreste. Fu solo dopo i grandi risultati del 1806 che Beethoven, nel
1807 e nel 1808, tornò a lavorare alla Quinta e alla Sesta, completandole
entrambe e dirigendole nel corso della sua famosa Akademie del dicembre 1808.
Il movimento lento
L’Adagio, uno dei movimenti lenti sinfonici di Beethoven più belli, è soffuso di
un intenso lirismo dall’inizio alla fine. Comincia con una semplice figura
ritmica di due note che ha una vita propria, e che, come un pulsante ostinato,
scorre lungo l’intero movimento, accompagnando sempre la lunga linea lirica
dell’ampio tema iniziale.
Se pensiamo al Beethoven del 1806, possiamo osservare che questa figura
puntata ricorda da vicino la figurazione di due note con la quale ha suggerito il
battito del cuore di Florestano nella grande introduzione sinfonica in fa minore
alla “Scena del carcere” che apre il secondo atto di Leonore. E in un momento
successivo di questo intricato movimento lento la figura puntata di due note
appare per davvero ai timpani, e per due volte: la prima quando la misteriosa
sezione centrale sta per giungere a una ripresa in forma elaborata del tema
principale, e poi ancora proprio alla fine, in pianissimo, subito prima della
chiusa finale fortissimo.
Il tema iniziale sta in una categoria a sé tra le melodie beethoveniane di
ampio respiro di questo periodo. Indicata come “cantabile”, si espande per ben
otto battute in ciascuna delle sue prime due esposizioni, affidate prima agli
archi, poi ai fiati, in un registro più acuto. Diversamente da tanti altri temi per
Adagio nel Beethoven dei periodi giovanile e medio, non è organizzato in frasi
parallele della medesima lunghezza (come nel famoso movimento lento della
Seconda Sinfonia), né le semifrasi di cui è costituito danno luogo a momenti di
pausa, come nella Marcia Funebre dell’Eroica. Al contrario, la linea mantiene
una costante tensione per tutte le otto battute, senza interruzioni, muovendosi
elegantemente dalle prime tre semiminime discendenti alle note di minor
valore che animano la prosecuzione; poi l’intero tema è ripetuto dai legni,
mentre l’inesorabile figurazione puntata lo accompagna discretamente negli
archi.
Ciò che ne risulta è un ampio rondò, una forma che Beethoven, in quegli
anni, utilizzò in un buon numero di movimenti lenti. Qui ottiene un livello di
complessità ritmica che è raro nei suoi lavori prima dell’ultimo periodo
(pensiamo al movimento lento della Nona Sinfonia), ed è molto più comune nel
mondo ricco e privato dei suoi quartetti per archi che nelle sue sinfonie.
Comunque la varietà di figurazioni ritmiche, il delicato intreccio che abbonda,
qui, più che in ogni altro suo adagio sinfonico fino alla Nona, rimane in perfetto
equilibrio con la sua qualità lirica, come di canzone, ed il suo opposto dialettico,
la figura puntata di due note che torna più e più volte.
In mancanza di abbozzi non possiamo determinare se questo Adagio possa
essere stato per Beethoven un elemento generatore dell’intera sinfonia, ma non
c’è dubbio che tra i suoi movimenti lenti sinfonici è quello che più di ogni altro
annuncia nel modo più completo, con quattro decenni di anticipo, il mondo dei
romantici. Certamente Robert Schumann avvertì questo collegamento quando
nel 1841 si accinse a scrivere la sua prima sinfonia, la Sinfonia “Primavera”. In
effetti otto anni prima, nel 1833, aveva realizzato una riduzione pianistica
proprio della sezione introduttiva di questo movimento di Beethoven, come
pure della Ouverture “Leonore” n. 323.
Lo Scherzo
La facilità creativa e la forza di immaginazione di Beethoven emergono con
particolare evidenza nei movimenti in forma di scherzo delle sinfonie,
specialmente se li confrontiamo con quelli dei quartetti per archi, l’altro grande
genere regolato dallo schema classico in quattro movimenti. Le sonate per
pianoforte e la musica da camera con pianoforte possono avere tre movimenti,
e in effetti molti suoi brani in questi generi hanno tale struttura, anche se
occasionalmente Beethoven espandeva a quattro anche questi. Il termine
“Scherzo”, come alternativa a “Menuetto”, appare già nel 1795 nella sua Sonata
in la maggiore per pianoforte op. 2 n. 224. Da lì in poi la creazione di questo
nuovo tipo di movimento rapido ed energico derivato dalla danza divenne una
delle principali caratteristiche dello “stile personale” di Beethoven, come lo
definì Gustav Becking, autore di un classico libro sull’argomento25. Una delle
ragioni per cui questi movimenti in forma di scherzo costituiscono una delle
principali prove dello straordinaria evoluzione di Beethoven nel corso degli
anni sta nella rigidità della loro struttura formale, che rimase una semplice
forma binaria in due sezioni, con la prima completamente ripetuta per mezzo
dell’indicazione “D. C.” (da capo). Ma con le sue dinamiche innovazioni
Beethoven ripensò questo stesso genere di movimento su basi completamente
nuove, pur conservando inalterato il guscio esterno della sua struttura formale.
Lo Scherzo della Quarta Sinfonia è un esempio del tentativo di Beethoven di
trovare nuove modalità per strutturare questo movimento, da lui rinnovato
completamente sia quanto a forma, sia quanto a contenuto. Anziché ripetere
meccanicamente l’ampia sezione iniziale dopo il Trio, Beethoven espande il
movimento in una forma a cinque parti: Scherzo-Trio-Scherzo-Trio-Scherzo,
con tutte le sezioni scritte per esteso. Beethoven aveva utilizzato questo schema
per la prima volta nel Quartetto in mi minore op. 59 n. 2, e lo riprese poi in altri
lavori del secondo periodo, tra cui la Sonata per violoncello in la maggiore op.
69, il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74, la Settima Sinfonia, e il Trio
“Arciduca” op. 97. Una conseguenza di questa espansione formale è che ora lo
Scherzo, con tutte le sezioni scritte per esteso, si erge elegantemente in tutto il
suo peso e la sua estensione tra gli altri ampi movimenti, anziché fungere da
momento di distensione prima del finale. Un’altra conseguenza, che Beethoven
sfrutta nella Quarta, è la possibilità di abbreviare l’ultima ripresa dello Scherzo
e poi, alla fine, aggiungere una breve coda che conduce l’intero movimento a
una risoluta e impressionante conclusione.
Iniziare uno scherzo con un ritmo sincopato, con figurazioni di due note in
un metro a tre movimenti per battuta, non era una soluzione originale, poiché
Haydn e Mozart lo avevano già fatto prima di Beethoven, e lui stesso lo aveva
fatto, sia pure in modo meno radicale, nell’Eroica, per non parlare del ritmo
ambivalente dello Scherzo del Quartetto op. 18 n. 6. Ma questo tipo di attacco è
sorprendentemente nuovo nelle sue sinfonie, e tutto quanto scaturisce da
questo primo tema fiorisce dagli elementi – con il loro movimento
ascendente/discendente – che ne formano le due porzioni. Il Trio – “Un poco
meno allegro” – è “dolce” e all’inizio vi predominano i legni, con un disegno
che si ripete in una progressione che ascende lentamente, inframezzato da
brevi interiezioni degli archi.
Il Finale
I temi principali in quartine di semicrome erano stati piuttosto comuni nel
periodo classico, come si può vedere in Haydn, ma, fino a questo momento,
Beethoven ne aveva fatto un uso sporadico, per esempio nella sezione Allegro
dell’ouverture di Prometeo. Più tipicamente i suoi temi di questo tipo in
movimenti Allegro combinavano una regolare pulsazione del valore delle note
con altri motivi ritmici dal profilo nettamente definito, motivi che Beethoven
poteva quindi sviluppare nel corso del movimento.
E così la prima sezione di questo movimento è decisamente peculiare, tra i
suoi molti finali in 2/4 di questo e di qualsiasi altro periodo della sua carriera. Il
frammento tematico iniziale in quartine di semicrome si spezza
improvvisamente nella seconda battuta e l’azione tematica è quindi proseguita
dagli archi gravi, mentre violini e fiati irrompono con improvvise esclamazioni
in crome isolate che ricordano vagamente le semiminime e le crome isolate
dell’Adagio introduttivo del primo movimento. Le battute iniziali contengono i
germi di tutto quanto seguirà, ma ciò che persiste pervasivamente, soprattutto
nello sviluppo, è la regolare pulsazione di un perpetuum mobile che spesso usa
la figurazione iniziale della prima battuta come motivo ricorrente. Come
secondo tema principale subentra poi un tema contrastante, di carattere lirico,
accompagnato da terzine anziché da semicrome, ma l’insistente motivo di
quattro note tornerà presto in frasi simmetriche che alternano fortissimo e
pianissimo, e il frenetico motivo iniziale sarà di nuovo in primo piano proprio
alla fine dell’esposizione e poi nel corso dello sviluppo.
Abbondano sorprese di tutti i tipi: tra le altre, la comparsa di un fagotto solo
che riespone il tema principale nella ripresa, conferendo a questo snodo
strutturale uno speciale colore timbrico che non si riscontra in nessun’altra
sinfonia di Beethoven, neppure in quelle successive. E, per la coda, Beethoven
tiene in serbo l’ultima e la più efficace delle molte idee giocose che si
accumulano in questo stupefacente movimento: il tema iniziale, che si era
proiettato in avanti col suo incessante moto di semicrome fin dall’inizio,
ricompare ora in un tranquillo moto di crome legate, poi si ferma bruscamente
interrompendosi dopo i primi tre motivi. I favoriti fagotti espongono il
successivo inciso di quattro note, per poi giungere a un’altra brusca
interruzione. La frase è proseguita dagli archi, ma ancora una volta interviene
una lunga pausa – per la terza volta, a questo punto. Tutta questa successione
di frasi interrotte si è svolta in pianissimo. Ma ora, come se la frenetica energia
del movimento, finora arginata a stento, fosse giunta a un punto di rottura,
l’intera orchestra irrompe di schianto, fortissimo, con le le scale discendenti e le
crome isolate ascendenti che originariamente avevano messo in azione questo
colossale movimento – e l’intera sinfonia si conclude con una risoluta cadenza
conclusiva: tre accordi che strappano l’applauso.
6. Quinta Sinfonia, pagina del manoscritto autografo nella quale si può osservare il tema iniziale di quattro
note (Staatsbibliothek Berlin, Stiftung Preussischer Kulturbesitz / Art Resource)
1
Robert Schumann, Gli scritti critici, 2 voll. a cura di A. Cerocchi Pozzi, trad. it. G. Taglietti, Milano,
Ricordi Unicopli, 1991, I, p. 142, (Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig,
P. Reclam jun. 1889, II).
2
Cosima Wagner espresse a Richard Wagner la propria opinione che la Quarta «facesse seguito
direttamente alla Seconda», poiché le sembrava assai distante dalla grande potenza dell’Eroica; cfr. Cosima
Wagner’s Diaries, II, a cura di M. Gregor-Dellin e D. Mack, trad. ingl. G. Skelton, London, Collins 1980, p.
942.
3
ESk, pp. 4-92.
4
ESk, pp. 155-8, cfr. Commento, pp. 80-3.
5
ESk, p. 64, sistemi 1 e 5; p. 96 per il “Murmeln der Bäche” (Mormorio del ruscello), a p. 159 la voce
intitolata “lustige Sinfonia”. Gli appunti nel quaderno “Eroica” che hanno almeno parzialmente a che fare
con la Sesta non sono assolutamente sviluppati con la stessa chiarezza d’intenti di quelli in do minore che
prefigurano la Quinta. Eppure molti sono sufficientemente vicini a temi e figurazioni della Sinfonia
“Pastorale” da permetterci di considerarli come precursori della veste definitiva di quella sinfonia.
6
Cfr. A. Tyson in JTW, pp. 160-5, e in particolare p. 161, a proposito di un quaderno presumibilmente
di ampie dimensioni che Beethoven avrebbe usato nel 1806, che con ogni probabilità conteneva abbozzi
per il Concerto per violino op. 61, il Quarto Concerto per pianoforte op. 58, la Quarta Sinfonia e l’ouverture
Coriolano. JTW esamina dettagliatamente i fogli sparsi di un grande album che Beethoven usò
dall’autunno del 1807 più o meno fino a febbraio 1808, che contiene abbozzi per l’ouverture Leonore n. 1,
per porzioni della Quinta Sinfonia, per la Sonata per violoncello op. 69, e per la sua realizzazione di
“Sehnsucht” di Goethe (WoO 134).
7
Per un elenco dei pochi abbozzi conosciuti per la Quarta Sinfonia cfr. Beethoven Werke, Symphonien II,
a cura di B. Churgin, München, Henle 2013, p. 228 e p. 238. A p. 238 scrive: «La Quarta Sinfonia fu
composta per la maggior parte nel 1806». L’edizione critica, l’ampio commento e gli anni di studi sulla
Quarta di Bathia Churgin sono davvero preziosi.
8
Sembra che questo incontro abbia avuto luogo nell’ottobre 1806. Per maggiori dettagli cfr. Peter
Clive, Beethoven and His World, Oxford, Oxford University Press 2001, p. 204.
9
Sul rapporto tra Beethoven e Lichnowsky in generale, e su questa supposta lettera, cfr. Jurgen May,
Beethoven and Prince Karl Lichnowsky, BF, III, pp. 29-38.
10
Briefe, n. 302 e Anderson, III, pp. 1444-6. Nella sua domanda, peraltro, proponeva condizioni che,
come doveva sapere bene, non sarebbe mai stato in grado di rispettare. Queste comprendevano, tra l’altro,
scrivere «ogni anno per lo meno una grande opera lirica» e anche «una piccola operetta o un
divertimento, dei cori, o dei pezzi di circostanza». In ogni caso la sua domanda venne respinta nel
dicembre di quell’anno. Le autorità probabilmente sapevano bene che non sarebbe mai diventato un
compositore d’opera a tempo pieno.
11
Il testo si può leggere in Die Neun Sinfonien Beethovens (saggio di Wolf-Dieter Seiffert sulla Quarta),
Dokumente, p. 140, tradotto in inglese in Anderson, III, p. 1426.
12
Briefe, n. 256.
13
Briefe, n. 260.
14
Briefe, n. 325 (marzo 1808).
15
Briefe, n. 340.
16
P. Clive, Beethoven and his World cit., p. 253.
17
Anderson, n. 763, suppone che l’«amico musicale della Slesia» a cui Beethoven fa riferimento in una
lettera del 1817 possa essere Oppersdorf. Ma questa ipotesi è respinta da Brandenburg nelle sue note a
questa lettera (cfr. Briefe, n. 1092 del 23 febbraio 1817 a Haslinger, e n. 4). Brandenburg suggerisce che
Beethoven stesse facendo riferimento a Joseph Ignaz Schnabel, un musicista di chiesa di Breslau che si era
occupato dell’esecuzione di molte sue composizioni.
18
Cfr. A. Tyson, “The ‘Razumowsky’ Quartets: Some Aspects of the Sources”, in BS3, p. 134, a
proposito di una pagina apparentemente del 1807 su cui Beethoven abbozzò i frontespizi di sette lavori
includendo i nomi dei rispettivi dedicatari di quel momento, e alcuni possibili cambiamenti nelle dediche.
Ma la Quarta Sinfonia risulta dedicata al conte Oppersdorf, e non ci sono indicazioni relative a un
possibile cambiamento.
19
In quanto segue ho tenuto conto di un prezioso saggio inedito sulla Quarta scritto da Cecil Isaac per
il Seminario NEH [National Endowment for the Humanities] per insegnanti di college, da me tenuto ad
Harvard nel 1981.
20
Briefe, n. 54. Queste osservazioni erano destinate, in parte, a spiegare a Hoffmeister perché gli stava
chiedendo la stessa somma, 20 gulden, tanto per la sonata per pianoforte quanto per l’arrangiamento per
pianoforte del Settimino e per la Prima Sinfonia, anche se, come afferma in una lettera del gennaio 1801,
Beethoven prevedeva che Hoffmeister pensasse che una sonata dovrebbe costare meno di una sinfonia.
Tovey suggerisce che una traduzione idiomatica di queste parole dovrebbe essere “questa sonata è
troppo” o “è così che si fa”; cfr. il suo Companion to Beethoven’s Pianoforte Sonatas, London, AMS Press
Inc. 1931, p. 82.
21
A parte alcuni spostamenti d’ottava, la successione delle note della triade nella frase di apertura del
primo movimento, Allegro, della Quarta Sinfonia è, curiosamente, proprio la stessa dell’attacco dell’Eroica,
nonostante le enormi differenze di carattere e di espressione.
Questo lascia intravvedere, nel pensiero concettuale di Beethoven sulla scrittura melodica e la
formazione dei temi, un livello più profondo di quanto si sia finora preso in considerazione. Un primo
tentativo di trattare queste relazioni è di Ernest Newman, The Unconscious Beethoven, New York, Alfred A.
Knopf 1927.
22
Segnalato da Ludwig Misch nel suo Neue Beethoven-Studien und andere Themen, Bonn, Beethoven
Haus 1957, pp. 56-8.
23
Cfr. John Daverio, Robert Schumann: Herald of a “New Poetic Age”, New York, Oxford University
Press 1997, p. 227 e Reinhold Dusella, “Symphonisches in den Skizzenbüchern Schumanns”, in Probleme
der Symphonische Tradition, a cura di S. Kross, Tutzing, Hans Schneider 1990, p. 204.
24
Beethoven usò i due termini in modo interscambiabile nei primi lavori pubblicati, ma dopo il 1803-4
“Scherzo” rimpiazzò “Menuetto”. Il “Tempo di Menuetto”, termine riferito a un ampio movimento nel
metro e nello stile del Minuetto, definì un differente genere di movimento, come nella Sonata per
pianoforte op. 54 e nell’Ottava Sinfonia. Talvolta Beethoven scrisse terzi movimenti definendoli
“Menuetto” ben dopo aver adottato di preferenza il termine “Scherzo” (come nell’op. 59 n. 3), ma poi, in
lavori successivi, non usò il termine “Scherzo” neppure per movimenti che appartengono in modo
evidente a questa categoria.
25
Gustav Becking, Studien zu Beethovens Personalstil, Leipzig, Breitkopf & Härtel 1921.
V
La Quinta Sinfonia
Il fato
L’originaria forza del gesto con cui ha inizio non si è mai affievolita. «Così il
fato bussa alla porta» è il commento attribuito a Beethoven da Anton Schindler
– che fu suo biografo e, per qualche tempo, factotum – e poi continuamente
ripetuto dai commentatori1. Se Beethoven ha davvero pronunciato queste
parole in presenza di Schindler, il che è possibile, deve averlo fatto molto
tempo dopo aver composto la sinfonia, forse nel 1822 o nel 1823, quando
Schindler faceva parte del suo più stretto entourage. Eppure, per quanto
suonino sinistre e retoriche, appaiono plausibili, ad onta della notoria
reputazione di Schindler quale falsario di documenti beethoveniani. Sappiamo
da Karl Holz, un testimone ben più affidabile che fu in stretti rapporti con
Beethoven a partire dal 1825, che negli ultimi anni il compositore tendeva a
esprimersi in modo magniloquente2. E certamente il riferimento al “fato”
(Schicksal) è in sintonia con la lettera di Beethoven a Wegeler del novembre
1801. Aprendo il cuore al suo vecchio amico di Bonn, Beethoven descriveva la
progressiva sordità, la sofferenza fisica e l’incrollabile determinazione a
realizzare il proprio destino come artista. «Afferrerò il Fato per la gola –
scriveva – certo non riuscirà a piegarmi e a schiacciarmi completamente»3.
All’inizio di questa sinfonia ascoltiamo la virtuale attuazione di questo
proposito, una concretizzazione uditiva del gesto di opposizione di Beethoven
alla fragilità del suo stesso essere e dell’umana condizione. In questo passaggio
di apertura, e in tutto quanto segue nel primo movimento, tanto il contenuto
tematico quanto la gamma armonica nell’ambito dello spazio tonale sono
ridotti all’essenziale. Con questi mezzi Beethoven costruisce un lavoro che
sembra voler simbolicamente affrontare questioni fondamentali riguardanti la
vita e la morte. Non è sorprendente venire a sapere che persone costrette a
vivere in condizioni di oppressione mortale abbiano trovato in quest’opera la
rivelazione di una tragedia che finisce in una visione di speranza. Molti anni
più tardi, quando Beethoven ebbe a comporre la Nona Sinfonia, la sua sola altra
sinfonia scritta in modo minore e conclusa con un grandioso finale in
maggiore, la Quinta ne fu in parte un modello strutturale. La Quinta comunica
significati che non possono essere trasmessi con le parole, eppure sono
emozionalmente inequivocabili: significati con i quali gli ascoltatori si sono
infallibilmente sentiti in sintonia, dalla sua epoca ai nostri giorni. Il tipo di
reazione a cui mi riferisco è essenzialmente viscerale, spirituale, e
profondamente emozionale, e vanifica qualsiasi sforzo di attribuire al lavoro un
particolare modello descrittivo o narrativo, nonostante tutti i tentativi che sono
stati fatti e di cui la letteratura abbonda. Al livello di cui sto parlando ora, la
stessa cosa vale anche per tutte le altre sue sinfonie, perfino per la Sesta, per
quanto si tratti di un lavoro dichiaratamente programmatico. In effetti, in modi
che possono non essere evidenti ad ascoltatori occasionali, la Sinfonia
“Pastorale” è davvero una controparte strutturale della Quinta, concepita
secondo una modalità estetica radicalmente differente.
1. Primo, un esteso schema per la sezione iniziale del terzo movimento con i
suoi due temi principali, seguiti da un analogo abbozzo per il “Trio”
(contrassegnato così; si veda Esempio Web F).
2. Secondo, e significativamente contrassegnato “Sinfonia”, un sommario
dell’esposizione del primo movimento. L’abbozzo inizia con la doppia
esposizione del motivo di apertura nella sua forma definitiva, poi prosegue
conducendo a una primitiva versione della fanfara dei corni che prepara il
secondo tema principale. Segue il secondo tema, dal carattere lirico, scritto
due volte, una dopo l’altra, la prima al relativo maggiore (mi bemolle
maggiore), poi in do maggiore, la tonalità della ripresa (si veda Esempio
Web G).
Non ci sono tracce, qui, del movimento lento in la bemolle maggiore, né del
trionfante finale. Sembra quindi probabile che il primo e il terzo movimento
possano essere stati gli elementi generatori su cui Beethoven costruì poi il resto
della sinfonia. Con le idee fondamentali per i due movimenti in do minore ben
presenti, poteva quindi dedicarsi al movimento lento e al finale12.
Ma quando, dunque, Beethoven cominciò il movimento lento e il finale?
Non possiamo esserne certi, ma è plausibile pensare che si sia rivolto
all’abbozzo in sol maggiore, 3/8, contrassegnato come “Andante sinfonia”,
scritto circa tre anni prima – lo abbiamo già esaminato in relazione alla Seconda
Sinfonia. Questo tema potrebbe essere stato nella sua memoria, se non
addirittura sotto i suoi occhi, quando cominciò a concepire il movimento lento
in 3/8 della Quinta. Poteva averlo trovato facilmente verso l’inizio del suo
principale quaderno di appunti del 1801-3, dove sembra essere stato inserito
intendendolo come movimento lento della Seconda13. Comincia con un duetto
per due corni (“Corni soli”) e il suo profilo ritmico e melodico prefigura il
grande secondo tema del movimento lento della Quinta Sinfonia, con la sua
figura puntata di due note in levare seguita da tre risolute crome – una formula
ritmica che, nella Quinta, riecheggia parzialmente, per quanto in metro
ternario, il famoso motto di quattro note del primo movimento.
Qualche chiarimento circa la graduale definizione del movimento lento ce lo
forniscono gli appunti accessori, a cui abbiamo già fatto riferimento, datati
180414. Qui troviamo una primitiva idea per il movimento lento della Quinta
nella tonalità e nel metro definitivi (la bemolle maggiore, 3/8), con un tema
iniziale che prefigura la versione definitiva, ma è molto meno sviluppato
musicalmente. Noto e citato già dal tardo XIX secolo, questo tema consiste di
due semplici frasi, la seconda delle quali è una semplice elaborazione della
prima15:
Es. 5. Abbozzo per la Quinta Sinfonia, movimento lento.
Il primo movimento
La Coda
Come in molti altri primi movimenti di Beethoven in forma-sonata la coda è
una sezione autonoma ampiamente sviluppata: controbilancia lo sviluppo e fa
sì che il movimento, nel suo insieme, consista non di tre, ma di quattro sezioni
principali – nella fattispecie, di quattro sezioni di lunghezza grosso modo
equivalente. Il senso delle proporzioni ha la meglio su ogni altra considerazione
nel determinare come il movimento debba finire, ma pare che a uno stadio già
molto avanzato della composizione Beethoven non avesse ancora preso una
decisione sul modo di concludere, dato che nel manoscritto autografo troviamo
un prolisso segmento conclusivo di oltre venti battute dapprima scritto per
esteso in partitura, e poi cassato completamente per essere rimpiazzato dalle
stringate tre battute che, con un’energica cadenza, concludono il movimento. Il
segmento cancellato prolungava l’affermazione della tonica do minore e,
immediatamente prima dei tre accordi cadenzali conclusivi, ribadiva ancora
una volta il motivo di quattro note. Ma vediamo che nella versione definitiva
Beethoven ha ridotto l’ultimo segmento all’essenziale, omettendo una ripresa
del motto al momento di concludere.
Il secondo movimento
Trovando riparo nella tonalità di la bemolle maggiore, dopo la tempesta del
primo movimento, si ha la sensazione di essersi sistemati in un comodo rifugio.
Il rifugio è lì vicino, poiché la tonica do del primo movimento è ora la terza
dell’accordo di tonica della nuova tonalità, la bemolle maggiore. E così in
questo Andante Beethoven continua a sfruttare il contrasto tra la bemolle
maggiore e do maggiore per modellare la dinamica formale dell’intero
movimento, impiegando due temi di base contrastanti che identificano ciascuna
sezione e sono congegnati in modo da consentirgli di elaborarli entrambi
ampiamente e liberamente26. Lo schema di base del movimento è il seguente:
Scherzo ||:Trio parte 1 :|| Trio parte 2 || Scherzo ||: Trio parte 1 :|| Trio parte 2 ||
Scherzo e Coda
Evidentemente vari set di materiali per l’esecuzione usati tra il 1808 e il 1820
recavano ancora i segni di ritornello, in certi casi cancellati ma poi ripristinati
da annotazioni degli esecutori. Probabilmente lo stesso Beethoven, impegnato
com’era nel suo lavoro a Vienna o in campagna, non sapeva nulla di queste
abitudini29.
L’intenzione definitiva di Beethoven, dunque, era di abbreviare il
movimento alla sua versione in tre parti, trasformare la ripresa dello Scherzo in
un’estesa sezione pianissimo con dei pizzicato agli archi, e collegare
direttamente lo Scherzo al Finale per mezzo di un’ampia coda con il motto di
quattro note ai timpani, lunghe note tenute agli archi gravi e un crescendo che
esplode repentinamente nell’Allegro conclusivo. La troncatura dello Scherzo va
di pari passo con la successiva idea di riprendere la versione pianissimo dello
Scherzo, nell’ambito del Finale, come introduzione della ripresa – ora
ristrumentata e con un altro solo dell’oboe, cui si aggiungono flauto e fagotto
in prossimità del punto culminante.
Questa ripresa dello Scherzo nell’ultimo movimento è uno dei momenti più
famosi della letteratura sinfonica. Contrassegna un altro dei modi in cui questa
sinfonia si pone all’avanguardia non solo con la sua integrazione ciclica del
materiale tematico (il motto iniziale viene usato in svariate maniere, ma il suo
ritmo fondamentale è sempre mantenuto), ma anche nel collegare i movimenti
per formare un insieme multi-sezionale in cui gli ultimi due movimenti
vengono uniti. Sappiamo che Haydn, nella Sinfonia “Degli addii” n. 45 e nella
Sinfonia n. 46 in si bemolle maggiore, aveva anticipato l’idea di integrazione
ciclica, ma non possiamo essere certi che Beethoven conoscesse l’uno o l’altro
di questi lavori30. Sembra più verosimile che Beethoven possa aver concepito
l’integrazione ciclica seguendo il genere della “fantasia” – che nel tardo
Settecento era intesa come una forma in più sezioni liberamente sviluppata,
con la quale Beethoven già in precedenza aveva tentato degli esperimenti, e a
cui si sarebbe ancora rivolto nella Fantasia Corale op. 80 e nella Fantasia op. 77
per pianoforte.
Come abbiamo già visto, nel genere della “fantasia” le sezioni si
susseguivano senza interruzioni (“attacca”), e vediamo anche che in più di una
fantasia di Beethoven, e anche in altri suoi lavori che si possono ricollegare alle
fantasie, prima della conclusione viene ripresa una sezione di apertura. È
quanto accade nella prima delle due Sonate op. 27 per pianoforte, entrambe
significativamente definite “quasi una fantasia”. Nella prima di questa coppia di
sonate una consistente porzione dell’Adagio ritorna verso la conclusione del
Finale; analogamente, nella Sonata per pianoforte op. 101 e nella Sonata per
violoncello op. 102, n. 2, Beethoven riprende l’Andante iniziale
immediatamente prima di un eccitante finale in 2/4.
Il finale
Fin dall’inizio, quando in tutta l’orchestra divampa il suo tema ascendente dal
carattere di marcia in puro do maggiore, di fronte a noi si schiude un panorama
completamente nuovo. I caratteri sia tragici, sia lirici dei movimenti precedenti
ora si fanno da parte per lasciar posto al trionfante, glorioso finale. Questo
finale talvolta viene associato all’”éclat triomphale” della Rivoluzione Francese,
con il quale, per gli ascoltatori dell’epoca di Beethoven, poteva forse stabilire
dei collegamenti. Ma ciò che è certo è che in epoche successive, e oggi più che
mai, questo attacco porta l’immaginazione dell’ascoltatore su un livello più alto
di esperienza, che ricomprende tutto quanto è già stato provato per andare
oltre.
A un ascolto più attento ci si accorge che questo finale mantiene un intimo
contatto con vari aspetti dei movimenti precedenti, che vengono trasformati
collocandoli in un contesto nuovo. Di questi, l’unico rimando formale –
soltanto parzialmente letterale – è la ripresa dello Scherzo subito prima della
ripresa. Ma altri collegamenti sono ben avvertibili. I temi principali di questo
finale, per quanto nuovi e autonomi, hanno altresì dei legami con i movimenti
precedenti, e li portano ad uno stadio conclusivo. Questi collegamenti tematici
emergono nell’ambito dell’organizzazione tonale su ampia scala di questo
movimento e della sinfonia nel suo complesso, dato che, adesso, possiamo
constatare che dal primo movimento in avanti c’è stata una dialettica tra do
minore e do maggiore che si conclude, ora, con il trionfo della tonalità di do
maggiore. Non è semplicemente questione di soppiantare il minore con il
maggiore. La ripresa dello Scherzo nel finale, che riconduce al primo tema, è
l’ultimo stadio di un processo mediante il quale l’antitesi minore/maggiore
trova una risoluzione. Un diagramma lo renderà chiaro
Per conferire a questo movimento le dimensioni e la portata necessarie ad
assolvere la sua funzione, a Beethoven occorre ben più del meccanismo dei due
temi principali contrastanti che aveva governato i movimenti precedenti. Qui,
nell’esposizione, ci sono almeno quattro temi importanti:
Coda I
Nella prima coda Beethoven comincia con due enunciazioni del tema “B”
facendo così un riferimento retrospettivo non allo sviluppo (dove “B” non ha
avuto alcun ruolo) ma all’esposizione e alla ripresa. Poiché il tema “B” fino a
questo punto non ha avuto alcuna elaborazione, Beethoven può ora trattarlo
abbondantemente, in una successione di ampie frasi.
Coda II
Siamo ora pronti ad occuparci della seconda e conclusiva coda, il cui tempo
Presto prevarrà fino alla fine. La durata di questa seconda coda è
approssimativamente quella della prima, se accettiamo le indicazioni
metronomiche di cui Beethoven nel 1817 corredò le sue prime sinfonie e
quartetti (Coda I = Allegro, minima = 84; Coda II = Presto, semibreve = 112). La
Coda II comincia la sua conferma dell’armonia di tonica con il tema “D”,
alternando accordi di tonica e di dominante di battuta in battuta. Una splendida
caratteristica dell’attacco di questo Presto, scarsamente rilevata in letteratura, è
il fatto che il suo disegno triadico ascendente in do maggiore riprende, su scala
più ampia, lo stesso disegno ascendente con cui si apre il finale (tema “A”), e
che a questo disegno si aggiunge il ritmo fondamentale 3+1 che ha saturato la
sinfonia fin dalla prima battuta del primo movimento. Da qui in poi il grande
sfogo conclusivo prosegue con una versione compattata del tema “A” che dà il
via a uno splendido schema ascendente per innescare, in tutta la sua gloria,
l’ultima fase del movimento. Questa sequenza può essere vista e sentita come
una struttura tripartita su ampia scala, con la prima e la terza sezione
simmetriche e la sezione centrale lievemente più corta.
E così la seconda coda, con tutte le sue reiterazioni della tonica, emerge
come un segmento ampio ed equilibrato, e le sue ridondanti riaffermazioni
dell’armonia di tonica vengono a far parte della struttura formale su ampia
scala della sinfonia nel suo complesso. Giungendo alla fine di questo colossale
finale ci ricordiamo del pensiero originale di Beethoven quando, anni prima,
aveva steso i primi abbozzi per questa sinfonia: «potrebbe concludere, proprio
alla fine, con una marcia». Ed è proprio ciò che accade.
La “Quinta” e l’ “Eroica”
Quando Beethoven suonò l’Eroica per Ferdinand Ries nell’autunno del 1803,
Ries disse che si trattava «del lavoro più importante […] scritto [da
Beethoven]». E ciò accadde solo pochi mesi dopo che Beethoven aveva messo
sulla carta le prime idee per la sinfonia in do minore che sarebbe poi stata la
Quinta, lasciando alle nostre supposizioni cosa mai possa averne detto a Ries,
per quanto ad uno stadio ancora così embrionale. L’Eroica, dopo tutto, è il
fondamentale lavoro grazie al quale Beethoven aveva rivoluzionato il genere
sinfonico e, in un certo senso, il mondo dell’esperienza musicale della sua
epoca. La Quinta, una volta terminata, ampliò ulteriormente questo mondo con
la sua indimenticabile rappresentazione di tragedia e di riscatto. Per questo
alcune riflessioni sui due lavori possono risultare opportune.
Per ampiezza e portata l’Eroica sta in una categoria a parte, e la pienezza dei
suoi contenuti va di pari passo con le sue dimensioni. La grande lunghezza del
primo movimento, e soprattutto del suo sviluppo, consente a Beethoven di
presentare il più ampio ventaglio di materiali che avesse mai incluso in un
movimento in forma-sonata. Beethoven conferisce allo sviluppo una quantità
di speciali caratteristiche che, in quest’ordine di grandezza, non compaiono in
alcun altro primo movimento sinfonico suo o dei suoi predecessori. Una è
l’introduzione di un nuovo tema nella remota tonalità di mi minore; un’altra è
la lunga e intensa preparazione di dominante che precede il ritorno alla tonica,
e una terza è la celebre entrata del corno, immediatamente prima della ripresa,
“alla battuta sbagliata”. La stessa ampiezza di dimensioni è condivisa dagli altri
movimenti, il cui ampio spettro emozionale include il compianto di un eroe
caduto, seguito dal dinamico Scherzo e dall’evocazione – nel Trio – dei suoni
della battaglia, e infine le estese variazioni del finale. L’insieme è
evidentemente concepito su una scala grandiosa, un po’ come una narrazione
epica sul tema dell’eroismo.
La Quinta, al confronto, è un dramma snello e compatto in cui un motivo
ritmico generatore – l’inesorabile figurazione 3+1, nella sua forma iniziale e poi
nelle successive varianti – connette tutti i contrasti che seguono: l’intensità del
primo movimento e il consolatorio Andante (all’interno del quale il motto
riveste un ruolo di grande importanza), il ritorno a un clima tenebroso nel terzo
movimento (con il motto ancora una volta energicamente proclamato in forma
manifesta) e il trionfante finale, nel quale il motto è incorporato nella pluralità
dei temi.
È soprattutto nei rispettivi finali che i due lavori differiscono radicalmente32.
Ancora una volta sono i diversi punti di origine a fornircene una spiegazione.
Dal momento che il finale dell’Eroica deriva da una serie di variazioni per
pianoforte, combinando variazioni tra loro collegate in una forma complessiva
tripartita e con episodi fugati, non avrebbe mai potuto essere articolato sulla
struttura drammatica di un movimento in forma-sonata. Un finale in forma-
sonata, nell’Eroica, avrebbe significato includere una ripetizione strutturale su
ampia scala dell’esposizione, una propensione all’elaborazione motivica
nell’ambito di un percorso modulante, e uno spettacolare ritorno alla tonica del
tema iniziale nella ripresa. Al contrario, il finale dell’Eroica è letteralmente
costruito sul suo basso-e-tema introduttivo per formare un nuovo, grandioso
tipo di variazioni sinfoniche – che tuttavia non ha e non può avere l’intensità
drammatica che Beethoven conferisce alla forma-sonata in tanti suoi lavori. E
neppure possiede la forza irrefrenabile che travolge tutti gli ostacoli, come
l’ultimo movimento della Quinta. Dà l’impressione di un’immensa meditazione
sul tema dell’eroismo più che di una diretta rappresentazione delle emozioni
stesse, che è invece quanto ci comunica il finale della Quinta.
Ci sembra evidente, pertanto, che Beethoven non ha concepito il finale
dell’Eroica come apice emozionale della sinfonia nel suo complesso, e che si
tratta, né più né meno, di un finale in forma di variazioni su ampia scala: una
conclusione appropriata, per quel grandioso lavoro, ma non il suo culmine
drammatico. Il ritorno del tema principale alla tonica al Poco Andante e nella
successiva coda dà al finale dell’Eroica il carattere di una conclusione epica,
non di un epilogo pensato per sciogliere tensioni latenti rimaste irrisolte. Non è
inteso per rivaleggiare con il primo movimento proponendo un acceso dramma
tematico e motivico, e tantomeno per esplorare un vasto spazio tonale, cosa che
invece avviene nel primo movimento; il suo livello emotivo lo avvicina ad un
ampio paesaggio, più che a un dramma meticolosamente congegnato.
Nella Quinta, d’altra parte, abbiamo l’esempio più efficace, in Beethoven, di
un finale che trasforma e realizza le implicazioni emozionali di tutto ciò da cui
è stato preceduto: un ultimo movimento che sbilancia decisamente verso il
finale l’intera sinfonia. Dà sollievo al dolore e alla paura che proviamo nei tre
movimenti da cui è preceduto trascinandoli nella piena luce del giorno. Nella
misura in cui vogliamo ascrivere le sue speciali caratteristiche a questioni
private di Beethoven, come molti hanno fatto, possiamo collegarlo al suo
tormento personale e alla sua volontà di averne la meglio – e in questo senso
potrebbe essere inteso come l’equivalente del “puro giorno di gioia” al quale
anelava nel Testamento di Heiligenstadt. Ma se consideriamo la Quinta
un’opera d’arte che trascende la dimensione personale e parla all’umanità in
termini universali, possiamo intenderne il finale come il coronamento di un
capolavoro del più alto livello, e la sinfonia stessa come un possente messaggio,
rivolto al futuro, sul coraggio e la capacità di reagire dell’umano spirito.
7. Beethoven in campagna, intento a comporre. Incisione di Franz Hegi, 1838 ca
(Beethoven-Haus, Bonn / Bridgeman Images)
1
A.F. Schindler, Beethoven As I Knew Him: A Biography, a cura di D.W. MacArdle, trad. ingl. C.S. Jolly,
Chapel Hill, University of North Carolina Press 1966, p. 147; anche in Beethoven; Fifth Symphony a cura di
E. Forbes, New York, W.W. Norton 1960, p. 5.
2
L’osservazione di Holz fu riportata da Wilhelm von Lenz, Beethoven: Eine Kunst-Studie, Kassel, E.
Balde 1855-60, 1, p. 216 sg., sulla base di una testimonianza scritta che Holz diede a von Lenz nel 1857.
3
Leggendo questa lettera, profonda espressione di un momento di estrema gravità, ci si può chiedere
se Beethoven potesse aver avvertito un’affinità tra la sua situazione personale
e quella dei personaggi dei drammi di Schiller che si scagliano contro il loro fato – il loro “Schicksal” –
giurando di averne la meglio. Si veda, tra le altre disamine dei drammi di Schiller, Peter A. Claassen, The
Fate-Question in the Dramas and Dramatical Concepts of Friedrich Schiller, Leipzig, R. Berger 1910.
4
Si veda Douglas Johnson, 1794-5: Decisive Years in Beethoven’s Early Development, in BS3, 1982, p. 18
sg.
5
B. Churgin, Beethoven and Mozart Requiem, «Journal of Musicology», V, Oakland, CA, 1987, p. 476, N
II, p. 531 evidenzia la vicinanza tra il passo della Sinfonia in sol minore di Mozart e gli abbozzi per lo
scherzo della Quinta Sinfonia. Lo si trova in un quaderno miscellaneo conservato a Berlino, Landsberg 12;
si veda Hans Schmidt, Verzeichnis der Skizzen Beethovens, «Beethoven Jahrbuch», LXVI.
6
TF, p. 802.
7
Per quanto riguarda l’osservazione rivolta a Rochlitz (che, come è stato dimostrato da Maynard
Solomon, non era il più affidabile dei testimoni) si veda TF, pp. 800-4. Il passaggio in si minore e il relativo
commento sono nel cosiddetto “quaderno Scheide” (Scheide Sketchbook), conservato a Princeton, NJ, citato
per la prima volta da Nottebohm in N II, p. 326.
8
Per uno studio esauriente ed estremamente istruttivo su questo argomento si veda Michael Tusa,
Beethoven’s C-minor Mood: Some Thoughts on the Structural Implications of Key Choice, «Beethoven
Forum», II, Lincoln, NE, 1993, pp. 1-29.
9
Si veda Senner e Wallace, The Critical Reception of Beethoven’s Compositions, by His German
Contemporaries, II, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1999, pp. 95-112.
10
La particolare attenzione di Schenker per Beethoven percorre tutta la sua vita e la sua opera, dalla
monografia sulla Nona Sinfonia, (Heinrich Schenker, Beethovens Neunte Sinfonie: eine Darstellung des
musikalischen Inhaltes unter fortlaufender Berücksichtigung auch des Vortrages unter der Literatur ,Wien,
Universal Edition 1912; trad. ingl. J. Rothgeb, Beethoven’s Ninth Symphony, New Haven, CT, Yale
University Press 1992), fino a Der Freie Satz (Heinrich Schenker, Der freie Satz. Neue Musikalische Theorien
und Phantasien, Wien, Universal Edition 1935). Le sue analisi della Quinta Sinfonia furono pubblicate in
«Der Tonwille», Wien 1921-24, e come monografia nel 1925; la traduzione in inglese si trova in Der
Tonwille di William Drabkin, Oxford, Oxford University Press 2004. Per un esame dell’analisi di Schenker
della Quinta si veda Scott Burnham, Beethoven Hero, Princeton, NJ, Princeton University Press 1995, pp.
89-102.
11
Si veda ESk.
12
Questi abbozzi appaiono alle pp. 155-58 del quaderno, e dopo il primo schema articolato dei temi
fondamentali del primo movimento, le pagine successive comprendono appunti frammentari e discontinui
che mostrano le prime idee di Beethoven, buttate giù mentre pensava a possibili punti in cui avrebbe
potuto usarle nel corso del primo movimento. Gli schemi per il terzo e il quarto movimento sono
relativamente ordinati e intatti, il che fa pensare che Beethoven li abbia copiati da altri fogli di appunti
che sono andati perduti; al di là di questo per ora non possiamo aggiungere altro. Gli abbozzi in Aut. 19E
– la fonte collaterale – sono altrettanto incompleti e frammentari.
13
Kesslersches Skizzenbuch a cura di S. Brandenburg, Bonn, Beethoven Haus 1978, f. 8v, sist., 1,
contrassegnato “Andante Sinfonia”.
14
Berlino, Aut 19E, ff. 32v-33r.
15
Pubblicato originariamente in N I, 10-15, insieme con gli abbozzi dell’accompagnamento per il Quarto
Concerto per pianoforte. Si veda anche William Meredith, “Forming the New From the Old: Beethoven’s
Use of Variation in the Fifth Symphony”, in Beethoven’s Compositional Process, a cura di W. Kinderman,
Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1991, pp. 107-9 (Meredith propone nuove trascrizioni di tutti gli
abbozzi per la Quinta inclusi in Aut. 19E).
16
Quaderno “Eroica”, p. 158, sist. 8-11.
17
È il tipo di figura che definisco arpeggio “ripiegato”.
18
In un recente libro di Matthew Guerrieri, The First Four Notes: Beethoven’s Fifth and the Human
Imagination, New York, Alfred A. Knopf 2012, viene esaminato un ampio ventaglio di utilizzazioni e
riferimenti al motto di quattro note iniziale, ma Guerrieri respinge l’opinione di Schenker che l’attacco
debba essere sentito come una coppia di figurazioni di quattro note che formino un tutto unico.
19
L’unico autore a mettere in evidenza questo fatto, dopo Schenker, è stato Walter Riezler, Beethoven,
8a edizione, Zurich, Atlantis 1951, p. 145 (Walter Riezler, Beethoven, trad. it. O.P. Bertini, Milano, Rusconi
1977, p. 213).
20
Bb. pp. 59-62.
21
Bb. pp. 65-93.
22
Un diagramma può essere visto in BML, p. 222.
23
A proposito di questo importantissimo cambiamento di metro e sulle sue conseguenze si veda
Andrew Imbrie, “Extra” Measures and Metrical Ambiguity in Beethoven, BS, pp. 45-66, in particolare p. 55
sg.
24
Nel finale dell’op. 18 n. 6, bb. 12-16 e nell’op. 59 n. 1, bb. 33-38, 146-51 e 332-37; su quest’ultimo si
vedano le mie osservazioni in Inside Beethoven’s Quartets, Cambridge, MA, Harvard University Press 2008,
p. 119.
25
Martin Geck, “V Symphonie in C moll, Op. 67”, in Die Neun Symphonien Beethovens, a cura di R. Ulm,
Kassel, Bärenreiter 1994, p. 158.
26
Tra i precedenti lavori in modo minore che presentano analoghi movimenti nella tonalità (maggiore)
del VI grado abbassato troviamo, nella tonalità di do minore, le sonate per pianoforte op. 10 n. 1 e op. 13
(Patetica), e la Sonata per violino op. 30 n. 2. In altre tonalità minori troviamo la Sonata per pianoforte in
re minore op. 31 n. 2, e molto più tardi, la Nona Sinfonia op. 125 e il Quartetto in la minore op. 132.
27
Beethoven, Symphonie Nr. 5, c-moll, Op. 67, edizione critica a cura di Jonathan Del Mar, Kassel,
Bärenreiter 1999, Commento critico, pp. 55-59; e, di Jonathan Del Mar, Beethoven’s Five Part Scherzos:
Appearance and Reality, «Early Music», Oxford XI, 2, 2012, pp. 297-305, in particolare, a proposito del
problema dello Scherzo della Quinta Sinfonia, pp. 299-300.
28
Beethoven, Konversationshefte, a cura di K.-H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G. Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1968-2001, II, p. 53.
29
Su questo punto sono debitore del Commento critico di Jonathan Del Mar, cit. pp. 55-9.
30
Si veda l’eccellente disamina di questi lavori e delle questioni collegate in James Webster, Haydn’s
“Farewell” Symphony and the Idea of Classical Style, Cambridge, Cambridge University Press 1991.
31
D. Tovey, A Musician Talks, II, Musical Textures, London, Oxford University Press 1941, p. 64, cit. in
Beethoven, Symphony No. 5, a cura di E. Forbes cit., p. 198 sgg.
32
Per un accurato confronto dei due finali si veda Burnham, Beethoven Hero cit., pp. 55-60.
VI
La Sinfonia “Pastorale”
Beethoven e la natura
Nel maggio del 1810 Beethoven scrisse, chiamandolo «buon vecchio amico», al
suo compagno d’infanzia Franz Wegeler:
Da un paio d’anni ho smesso di vivere relativamente in pace e serenità, essendo stato trascinato a
forza nella vita di società. Vantaggi per ora non ne ho visti, anzi forse l’opposto – Ma chi può mai
sottrarsi alle tempeste che infuriano intorno a lui? Tuttavia sarei felice, forse uno dei più felici fra gli
uomini, se il demone non si fosse insediato nelle mie orecchie – Se non avessi letto da qualche parte
che all’uomo non è lecito staccarsi volontariamente dalla vita, finché può ancora compiere qualcosa di
buono, ormai da tempo avrei cessato di vivere – e, per di più, di mia mano – Oh, la vita è così bella, ma
per me è avvelenata per sempre - 1
Negli anni successivi Beethoven non desiderava che di poter lasciare la città
e passeggiare nei boschi e nei campi della campagna nei dintorni di Vienna o di
uno dei suoi luoghi di soggiorno estivo – Baden, Mödling, Döbling, Hetzendorf,
o Heiligenstadt. In una lettera a Teresa Malfatti, sempre nel maggio 1810,
descriveva in modo eloquente questi sentimenti:
Quanto è fortunata Lei, che ha potuto trasferirsi così presto in campagna. Io non potrò avere questa
gioia sino al giorno 8, ma già me ne rallegro come un bambino solo a pensarci. Che bellezza potermene
andare finalmente in giro fra siepi e boschi, fra alberi, erbe e rocce. Nessuno può amare la campagna
quanto io l’amo – Boschi alberi rocce rimandano l’eco che l’uomo desidera udire […] .4
Queste frasi sono praticamente una parafrasi ampliata della didascalia del
primo movimento della Sinfonia “Pastorale” – questo il titolo che aveva dato
alla sua Sesta Sinfonia quando era stata pubblicata nel maggio 1809, circa un
anno prima – “Il risveglio di lieti sentimenti all’arrivo in campagna”5. Siamo
colpiti dal suo esaltato pregustare un piacere genuino, l’”infantile eccitazione”
che provava all’idea di trovarsi in campagna, che per lui doveva rappresentare
la promessa di una liberazione da tutte le pastoie personali, sociali e
professionali della vita quotidiana in città, che tanto desiderava lasciarsi alle
spalle nella speranza di trovare sollievo nella natura. In altri accenni alle sue
uscite in campagna una forte tensione religiosa si fonde con la sua esperienza
della vita all’aria aperta. Così, in un foglio di appunti del 1810, scrive:
Le mie infelici orecchie qui non mi tormentano. È come se ogni albero di questa campagna mi
parlasse e dicesse “Santo! Santo!” Nella foresta, è un incanto! Chi potrebbe esprimere tutto ciò? Se
tutto il resto fallisce, in campagna è sempre facile trovare un alloggio in affitto dai contadini, anche in
inverno – come a Baden, Lower Brühl – e in questo periodo è sicuramente conveniente.6
1. Un abbozzo per il Trio dello Scherzo. Si tratta di un’idea di base per la frase
in 2/4 che più tardi Beethoven avrebbe impiegato per il Trio dello Scherzo
della Pastorale, la “contraddanza” collegata ai contadini la cui “allegra
riunione” è il soggetto programmatico del terzo movimento della sinfonia13.
Compare nel bel mezzo del suo lavoro preparatorio sul Trio dello Scherzo
dell’Eroica, dove fu ben presto rimpiazzato dalle fanfare dei tre corni che
colpirono la sua immaginazione circa il modo di incorniciare quel Trio.
Nell’abbozzo del 1803-4 il passaggio in 2/4 è in mi bemolle maggiore,
tonalità adatta all’Eroica, e possiamo ipotizzare che Beethoven possa aver
immaginato che, se non lo avesse utilizzato nell’eroica sinfonia in mi
bemolle maggiore, avrebbe potuto collocarlo in un altro contesto cui meglio
si attagliassero i suoi caratteri vagamente modali da “contraddanza”. Questa
eventualità non è dimostrabile, ma acquisisce plausibilità da altri casi in cui
Beethoven tornò ai propri quaderni di appunti, a distanza di anni, alla
ricerca di idee da utilizzare in nuovi e differenti contesti; ce ne sono vari
esempi14. E, certo, in un’altra pagina dei suoi appunti per lo Scherzo
dell’Eroica salta fuori un passaggio – in mi bemolle maggiore e in 3/4 – che
sicuramente era stato pensato come possibile conclusione per quel
movimento, ma che più tardi servì come modello per la chiusa del finale
della Sesta Sinfonia, in questo caso ovviamente in fa maggiore e in 6/815.
2. Un’idea preliminare per la “Scena al ruscello”. Fino a questo punto la più
importante e suggestiva tra le idee iniziali che prefigurano la Pastorale è un
appunto del tardo 1803 che reca l’intestazione “Murmeln der Bäche”
(Mormorio dei ruscelli; cfr. Esempio Web K)16. Nel suo equivalente del
metro 12/8 e del tempo “Andante molto” anticipa il movimento lento della
sinfonia (cfr. Esempio Web L), che nella sua forma definitiva è uno dei
pochissimi movimenti di Beethoven in questo metro, ed è contrassegnato
“Andante molto moto”17.
Ritratto e rappresentazione
Che la musica possa imitare i suoni della natura, che possa “ritrarre” elementi
della natura o di altri ambienti era stato evidente da secoli. Nella musica del
tardo Medioevo e del Rinascimento i canti degli uccelli o il clangore delle armi
in battaglia erano stati usati in composizioni a programma, e continuarono ad
essere sfruttati dai musicisti giù giù fino al XVII secolo. Per quanto in Europa,
intorno al 1800, l’interesse per la musica delle epoche precedenti si stesse
rafforzando, e collezionisti di musica “antica” stessero cominciando a riunire in
raccolte private lavori di maestri della polifonia, è più probabile che
l’attenzione di Beethoven sia stata attirata da lavori nella tradizione pastorale
di epoca più recente. In testa a questi devono esserci stati i grandi oratori di
Haydn, La Creazione (composto nel 1796-98 ed eseguito in pubblico per la
prima volta nel 1799) e Le Stagioni (composto nel 1799-1801 ed eseguito in
pubblico per la prima volta nel 1801). Questi oratori non solo erano
immensamente popolari presso il pubblico viennese negli anni che precedettero
la Sinfonia “Pastorale”, ma entrambi combinavano descrittivismo e lode al
Creatore, e, cosa almeno altrettanto importante, entrambi coronavano il lavoro
dell’anziano maestro, che rimaneva uno dei modelli riveriti da Beethoven,
indipendentemente da quanto fossero diversi i rispettivi obiettivi estetici.
Quanto questi due grandi oratori avevano dimostrato era che ciò che
Beethoven definiva “le situazioni”, cioè i soggetti visivi e uditivi della pittura
sonora musicale, potevano integrarsi con una musica del massimo livello.
Beethoven usava il termine “caratteristico” per lavori su temi specifici, come
questa sinfonia e la Sonata per pianoforte Lebewohl (Gli addii) scritta nel 1809
in occasione della partenza dell’arciduca Rodolfo, suo mecenate e allievo.
Beethoven disdegnava la maggior parte della musica a programma corrente,
poiché, come diceva, spingeva il descrittivismo «troppo in là». Tuttavia i suoi
sentimenti contrastanti non gli impedivano di scrivere lavori di questo genere,
fintantoché riusciva ad avvertire che la musica a cui stava lavorando si
collocava ai più alti livelli per struttura e originalità. Certo, la sua idea di questa
sinfonia era che dovesse soddisfare i più elevati criteri artistici, ma anche che
dovesse esprimere la sua gioia per la natura e la sua venerazione per Dio
Creatore. Cercava di rendere suoni e immagini della natura, quando occorreva,
in modo letterale, ma anche di amalgamarli nella struttura del nuovo genere
sinfonico che aveva cominciato a plasmare a partire dall’Eroica. Non c’è dubbio
che intendesse anche mostrare ai suoi contemporanei come si potesse scrivere
questo tipo di musica descrittiva, e che nelle sue mani il genere pastorale, con i
suoi temi familiari – ruscelli, uccelli, temporali, danze contadine, ecc. – potesse
essere elevato a un livello artistico che i suoi colleghi musicisti, per quanto
competenti, difficilmente avrebbero potuto raggiungere.
Il suo atteggiamento ambivalente è sancito chiaramente nelle annotazioni
che scrisse nel quaderno di appunti che stava usando mentre era alla ricerca del
giusto modo di caratterizzare questo lavoro ed era a caccia di un sottotitolo
adatto. Tra le altre che esprimevano gli stessi pensieri, scrisse le seguenti note:
1. «Si deve lasciare che sia l’ascoltatore a capire le situazioni»;
2. «Se ci si spinge troppo in là qualsiasi atto di pittura sonora, nella musica strumentale, perde la sua
efficacia»;
3. «Anche senza descrizione l’insieme sarà comprensibile, poiché c’è più sentimento che pittura
sonora»;
4. «Sinfonia pastorella [in it. nell’originale N.d.T.]. Chiunque abbia un’idea della vita in campagna può
immaginare per conto proprio che cosa il compositore abbia in mente senza bisogno di troppi
titoli»;
5. [Come possibile titolo] “Sinfonia caracteristica [sic, in it. nell’originale, N.d.T.] ovvero ricordi della
vita in campagna” – [o] “Un ricordo della vita in campagna”.
Il primo movimento
Fin dalle prima battute ci troviamo in un mondo sonoro diametralmente
opposto a quello della Quinta – tranquillo, pacato, con un pedale degli archi
gravi a tenere un intervallo di quinta mentre all’acuto i violini cantano una
graziosa frase di quattro battute che termina con una corona su un’armonia di
dominante – una frase in cui ciascuna delle prime tre battute contiene un
motivo identificabile che Beethoven più avanti svilupperà in modo
indipendente, secondo una prassi che gli è abituale: come avrebbe detto anni
dopo a proposito di un altro lavoro, «i motivi sono racchiusi all’interno del
tema». Da qui in poi il movimento si sviluppa in forma-sonata, con lunghi
momenti ripetitivi dal punto di vista ritmico e motivico, e anche con un ampio
uso di passaggi armonicamente statici e con una notevole limitazione del
linguaggio armonico – a stento, nell’intero movimento, si trovano armonie
minori. Inoltre, e questo è direttamente collegato con la prevalenza delle
armonie maggiori, il principale contrasto alla tonica fa maggiore deriva non
dalla tonalità della dominante, do maggiore, come di consueto, ma dalla
tonalità della sottodominante, si bemolle maggiore. L’uso della tonalità di si
bemolle maggiore è particolarmente indicativo all’inizio e alla fine dello
sviluppo e all’inizio della ripresa. In questo movimento non è descritto uno
specifico tema narrativo, ma troviamo l’inequivocabile sensazione della felicità
di essere in campagna, proprio come viene annunciato dal titolo del
movimento. Questo movimento è un esempio di ciò che Beethoven intende
quando scrive «più espressione di sentimenti che pittura sonora».
1. il ruscello stesso, con una melodia ben definita in figure di terzine ripetute
nei registri medio e grave degli archi, poi suddivise in schemi di semicrome
ma sempre con l’incessante moto ritmico che evoca l’immagine del flusso
della corrente;
2. figure melodiche caratteristiche, frasi e trilli nella parte di violino I all’inizio
del movimento. Procedendo, diventa via via più chiaro che i trilli nel
registro acuto devono essere intesi come canti di uccelli. Questi trilli,
dapprima su note tenute, poi eseguiti, come cinguettii, su note brevi
precedute da abbellimenti, creano immediatamente un’immagine in cui, al
livello più basso, vediamo il ruscello. In alto, immaginiamo gli uccelli, posati
sui rami o in volo tra gli alberi che fiancheggiano il ruscello. D’ora in poi i
trilli nel registro acuto abbondano lungo tutto il movimento, e da un certo
punto sono affiancati da un arpeggio ascendente del flauto nel registro
acuto che Schindler disse essere il richiamo di uno “zigolo giallo”,
sostenendo che Beethoven stesso avesse specificato questo particolare. La
testimonianza di Schindler è stata rigettata da successivi commentatori poco
disponibili a credere che Beethoven avesse voluto fare dei riferimenti così
letterali, ma possiamo vedere che una nuova figura contrastante appare
all’inizio dello sviluppo proprio quando avviene la modulazione a sol
maggiore, e che questa nuova figura arricchisce la varietà motivica del
movimento. Mentre il ruscello prosegue nel suo corso e aumenta la propria
forza, i canti degli uccelli – trilli e brevi figurazioni – aumentano per
numero e densità, in particolare alla fine dello sviluppo e verso la
conclusione della ripresa.
I canti di uccelli più famosi si trovano alla fine, dove Beethoven nomina i tre
specifici uccelli – usignolo (flauto solo), quaglia (oboe solo) e cucù (due
clarinetti) – combinati in un passaggio che domina la coda del movimento. Nel
manoscritto autografo Beethoven scrisse una nota per il suo copista insistendo
perché i nomi di questi tre uccelli fossero scritti in partitura, e così ben
difficilmente avrebbe potuto rendere più evidente che le sue intenzioni
descrittive erano assolutamente serie. Si è saggiamente fatto notare che questi
strumenti a fiato erano già stati messi in evidenza nello sviluppo e che questi
due passaggi sono «una perfetta fusione di musica e immagine». Aggiungerei
che possiamo ascoltare i tre uccelli come l’equivalente in natura di un trio di
voci soliste che eseguono una cadenza d’assieme alla fine del movimento. Si
tratta di un artificio usato da Beethoven in altri lavori, lungo tutta la carriera –
tra questi la Sonata per violoncello op. 5 n. 1, il Trio per due oboi e corno
inglese op. 87, il Triplo Concerto op. 56, la Sonata per violino in sol maggiore op.
96, l’Adagio verso la fine dell’Ouverture in mi bemolle maggiore per Fidelio
(quella definitiva, del 1814), e, soprattutto, la conclusione della Nona Sinfonia.
Lì, proprio nel momento in cui il finale sta per terminare, le quattro voci sole –
naturalmente in questo caso parliamo di voci umane, non strumentali –
cantano solisticamente per l’ultima volta, subito prima che il Prestissimo porti
il colossale lavoro alla conclusione.
Che questo movimento possa essere ascoltato, dunque, come una graziosa
descrizione di uno scenario naturale è perfettamente in sintonia con quella
parte dell’immaginazione di Beethoven che puntava del tutto seriamente a
realizzare un’esperienza di musica a programma, senza alcun imbarazzo nei
confronti della “pittura sonora”. Allo stesso tempo un pezzo o un singolo
movimento di questo genere, nelle sue mani, non poteva non essere governato
dal suo fondamentale impulso artistico, che lo indirizzava alla creazione di una
struttura musicale dinamica. Questo movimento non fa eccezione. In definitiva
è la fusione delle due dimensioni a dare a questo Andante, questa “Scena al
ruscello”, la sua ricchezza di contenuto. E se ora lo consideriamo come il frutto
della sua immaginazione costruttiva-formale, lo possiamo ascoltare come una
forma-sonata in quattro parti, così:
Esposizione
Codetta
Sviluppo (5 sezioni)
(1) Ritornano le figurazioni del ruscello, questa volta modulanti
(3) Frammenti del tema B; poi primo accenno di modo minore (sol
minore)
Ripresa
A2 Tutti dell’orchestra; vengono combinati il tema A e il tema
arpeggiato
Coda (2 sezioni)
(1) Cadenza d’assieme degli uccelli: Usignolo, Quaglia, Cucù
maggiore e concepito originariamente per la Sonata per violoncello op. 69; il movimento lento della
Settima Sinfonia deriva da un abbozzo per un possibile movimento lento per il Quartetto op. 59 n. 3 (cfr. N
II, p. 86).
15
Questo collegamento fu scoperto da William Kinderman; cfr. ESk, 1, p. 61.
16
Pubblicato per la prima volta in N II, p. 375, da Nottebohm, che aggiunge un commento insolitamente
ampio; anche in Wyn Jones, Beethoven, Pastoral Symphony cit., p. 25 sg. Questo appunto ha l’indicazione
di tempo “Alla breve” ma è scritto in terzine ribattute, che determinano un effettivo 12/8.
17
Del Mar, nelle sue note critiche, osserva che nell’autografo e in una delle prime copie manoscritte
Beethoven aggiunse “quasi Allegretto”, ma poi nell’autografo cancellò queste parole, che tuttavia
compaiono in un’altra copia della partitura dello stesso periodo e nelle parti d’orchestra manoscritte che
furono usate per il concerto del 22 dicembre 1808 e forse per le antecedenti prove a palazzo Lobkowitz.
Cfr. l’edizione Del Mar, Beethoven, Symphonie Nr. 6, f-dur Op. 68, edizione critica a cura di J. Del Mar,
Kassel, Bärenreiter 1999, Commento critico, p. 35.
18
“Der Titel der Sinfonie in F ist Pastoral-Sinfonie oder Erinnerung an das Landleben, Mehr Ausdruck
der Emfindung als Mahlerey” – cfr. Briefe, n. 370, datata Vienna 28 marzo 1809. Le parole “Mehr Ausdruck
[… etc.]” appaiono anche dopo il titolo nel programma per il concerto del 22 dicembre 1808, che
conosciamo per essere stato riprodotto in AMZ, XI, n. 19 (8 febbraio 1809), coll 267-9.
19
Donald F. Tovey, Musical Articles from the Encyclopedia Britannica, London, Oxford University Press
1944, p. 168.
VII
La Settima Sinfonia
Dopo il 1803 Beethoven aveva avuto parecchi legami romantici, però non
riuscì a mantenerne alcuno. Ma nell’estate del 1812 la storia d’amore più seria
della sua vita aveva raggiunto un vertice di esaltazione, come sappiamo dalla
struggente lettera all’innominata “amata immortale” – «mio angelo, mio tutto,
mio me stesso» – in cui riversava i propri sentimenti in una commistione di
passione e rinuncia. Insieme con il Testamento di Heiligenstadt e il diario del
1812-18 è il documento diretto più rivelatore di cui siamo in possesso5.
Eppure tutti questi problemi, fossero temporanei o di lunga durata, non
rallentarono la sua attività creativa più di quanto avessero fatto la crisi per la
sordità del 1802 o i pensieri suicidi confessati a Wegeler nel 1810.
Contemplando il suo perdurante senso di desolazione, in qualche modo
compensato dall’immensa produttività, torniamo a riflettere sull’intreccio di
vita e lavoro di un grande artista, che per un individuo così eccezionale rimane
oscuro e nascosto6. Alcuni critici, tra i quali Carl Dahlhaus, pretendono di
risolvere il problema considerando i fatti della vita di Beethoven
sostanzialmente irrilevanti per il suo lavoro, ma perfino Dahlhaus, pur
ostinandosi a tenere la biografia separata dall’oggetto principale dei suoi
interessi, dovette ammettere che «è difficile rendere plausibile l’idea che
un’opera esista in sé, come un’”entità”, indipendentemente dal suo autore»7.
Nuove idee per sinfonie nel 1809
Negli anni di grande produttività tra il 1809 e il 1812 la più forte ambizione di
Beethoven era di ritornare alla sinfonia, come possiamo vedere dalle idee
tematiche, ciascuna contrassegnata “Sinfonia”, documentate nei suoi quaderni
di appunti. Si tratta di brevi spunti rimasti irrealizzati, per quanto alcuni
fossero molto interessanti, poiché furono completamente soppiantati dalla
nuova sinfonia in la maggiore che sarebbe diventata la Settima, seguita poi
dall’Ottava. L’Ottava a sua volta ebbe un’origine curiosa, essendo stata
inizialmente concepita come concerto per pianoforte e orchestra, ma poi
divenne la sua principale preoccupazione nell’estate e nell’autunno del 1812. Le
idee contrassegnate “Sinfonia” del 1809 includono tre appunti davvero utili a
chiarire l’insieme delle sue idee per lavori di questo tipo in questo periodo.
2. Più avanti, nel medesimo quaderno, dopo abbozzi per il Quartetto “Delle arpe”
e per altri progetti, Beethoven provò un’altra serie di abbozzi per due
movimenti di una “Sinfonia” (cfr. Esempio 9). Qui troviamo un’introduzione
in sol minore, portentosa e davvero originale, seguita da un Allegro in sol
maggiore, entrambi in 4/4. L’introduzione, senza dubbio intesa in tempo
lento, ha caratteristiche sorprendenti, in particolare il motivo di apertura in
valori lunghi che prosegue con una breve figurazione in semicrome, a
battuta 2, incorniciata da pause e contrassegnata dall’esplicita indicazione
“Viola”. Quindi Beethoven ripete la stessa coppia di figurazioni
asimmetriche mezzo tono sopra, cominciando da un la bemolle. Poi un tema
per un Allegro in sol maggiore presenta figurazioni costituite da una scala
ascendente, seguita da un tema solido e squadrato che non può non
ricordarci uno dei temi principali del Finale della Quinta.
Es.9. Spunto per due movimenti di una sinfonia in sol minore/maggiore del 1809, non sviluppati.
Ritmo e integrazione
Tutti i commenti della Settima Sinfonia ne sottolineano il carattere
essenzialmente ritmico. Ciascun movimento è permeato da una propria cellula
ritmica, ben definita e persistente, che dà forma alla sostanza musicale. Nelle
altre sinfonie la sola situazione realmente paragonabile che possiamo
individuare è il primo movimento della Quinta – ma nella Quinta le continue
ripetizioni del motto iniziale sono elaborate in altre maniere, e appartengono a
un’altra tecnica di organizzazione tematica. Nella Settima è la viscerale, fisica
affermazione dell’azione ritmica, diversamente incorniciata ma chiaramente
udibile in ogni tempo e movimento, a catturare ogni ascoltatore. È questo che
sta dietro alla definizione trita e ritrita inventata da Wagner, che descrisse
questo lavoro come “l’apoteosi della danza”, e non c’è da meravigliarsi che la
Settima sia diventata uno dei pezzi prediletti dai coreografi. Comunque il
quesito resta aperto: quale può essere stata la finalità della concezione formale
di Beethoven dietro all’idea di una sinfonia in cui il ritmo domina in modo così
preponderante, e quali particolari conseguenze sono risultate dalla sua
decisione di portare in primo piano l’elemento ritmico?
Il ritmo è una condizione fondamentale della musica. È l’elemento
primordiale mediante il quale la musica struttura il tempo e l’esperienza
temporale. Nella musica il ritmo è onnipresente, indipendentemente da quali
altri fattori siano messi in evidenza, e il modo in cui viene utilizzato genera
differenze fondamentali tra lavori, stili, linguaggi e dialetti musicali di ogni
periodo e cultura. Poiché Beethoven crebbe nel periodo classico, col suo vasto
vocabolario di frasi e periodi ritmicamente simmetrici, aveva mostrato la sua
originalità nell’utilizzare figure ritmiche fortemente definite in numerosi lavori
giovanili. In alcuni, simili figure assumono ruoli di primaria importanza. Tovey
una volta ha osservato quanto sia tipicamente beethoveniano il fatto che spesso
i suoi temi possono essere identificati dal solo ritmo più facilmente che in
Haydn o Mozart, per quanto nei loro lavori ci siano delle eccezioni. Ma nessuno
prima di Beethoven ha mai iniziato un movimento in modo così peculiare come
ha fatto lui con lo Scherzo del Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 1, con quella
frase di quattro battute: una proposizione musicale ben fatta e perfettamente
comprensibile, per quanto non presenti dall’inizio alla fine che una sola nota –
il si bemolle grave del violoncello.
Ma la coerenza ritmica, nella Settima, controlla ogni momento in modo
ancor più pervasivo che nella maggior parte degli altri suoi lavori. Qui il flusso
torrenziale degli eventi ritmici qualche volta mette in ombra gli altri elementi
costitutivi del lavoro – melodia, armonia, condotta delle parti, dinamica,
tavolozza timbrica. Anima il discorso a ogni livello e diventa la principale fonte
della sua organica unità. In effetti Beethoven trovò un nuovo modo di
articolare una sinfonia in quattro movimenti che poteva rivaleggiare con la
Terza e la Quinta, per energia e capacità di eccitare, e che serviva ad
uniformare l’insieme.
E comunque, quand’anche questo approccio non fosse completamente
inedito, certamente nessuno, prima di lui, lo aveva concepito in questi termini.
Nella Quinta Beethoven aveva integrato il ciclo dei quattro movimenti per
mezzo di una singola figura ritmica, il famoso motto, che appare in ogni
momento; la struttura generale comporta anche il graduale emergere della
tonalità di do maggiore, che culmina nell’esplosivo finale. Nella Pastorale il
ciclo di cinque movimenti è integrato per mezzo di un programma narrativo
che ci accompagna passo dopo passo attraverso un’esperienza del mondo della
natura in molte delle sue più colorite manifestazioni, per finire con un inno di
ringraziamento per la quiete dopo la tempesta. Nella Settima, invece, non ci
sono né l’emergere di una rivelazione tonale, né un programma noto. Per
quanto ne sappiamo oggi, Beethoven non spese mai una parola su questo
lavoro se non per dire che lo considerava uno dei suoi migliori. Né c’è un’unica
idea tematica o motivica che circoli in tutti i movimenti. Nella Settima invece –
e più che in ogni altro suo lavoro, perfino più che nella Quarta Sinfonia – è
l’azione ritmica, di vario genere e a differenti velocità, a creare forme di
espressione caratteristiche – esuberante nel primo movimento, lenta e regolare
nel secondo, rapida e con un movimento che si proietta in avanti nel terzo,
selvaggiamente scatenata nel finale.
Una suggestiva teoria su questa sinfonia, avanzata da Maynard Solomon, è
che le sue formule ritmiche possano essere scaturite da un interesse di
Beethoven per l’evocazione dei metri dell’antica poesia greca, alcuni dei quali
in effetti corrispondono alle figure ritmiche che dominano ciascun movimento9.
Quest’idea fu proposta per la prima volta da Carl Czerny, allievo di Beethoven,
che l’aveva ricavata da un trattato di Anton Reicha. Czerny osserva che il
primo movimento, Allegro, utilizza «un’ampia gamma di figure dattiliche», che
il movimento lento «è formato da pesanti dattili e spondei» e che nel finale
troviamo un altro metro paragonabile a questi. Si tratta di un’idea puramente
ipotetica, poiché non possediamo alcun elemento che possa avvalorarla se non,
genericamente, il fatto che l’epica omerica e alcuni libri classici erano tra le
letture preferite di Beethoven, e l’ancor più generica considerazione che
Beethoven conosceva bene la tendenza contemporanea ad associare
immaginario politico, arte, architettura, abbigliamento e teatro con forme e
figure dell’antichità greca e romana. Il suo giovanile balletto Prometeo contiene
una “Danza di Bacco” e nel 1818, quando pensava a nuove sinfonie, Beethoven
immaginò una sinfonia corale che avrebbe dovuto includere una successione di
movimenti da lui descritta così: «nel testo dell’Adagio, mito Greco, Cantique
Ecclesiastique – nell’Allegro, una celebrazione di Bacco»10. Nella migliore delle
ipotesi, tuttavia, le argomentazioni per un’associazione dei ritmi della Settima
con la metrica classica, come fatto artisticamente intenzionale, rimangono
incerte.
I singoli movimenti
Vediamo ora alcune delle caratteristiche più notevoli di questa sinfonia.
L’introduzione lenta è una delle espressioni più nobili in tutta l’opera di
Beethoven, e forse in tutta la letteratura musicale. Lo schema delle sue sezioni è
A1-B-A2-Coda. Le misure iniziali procedono in solenni minime che solo
lentamente lasciano spazio a una maggiore animazione ritmica, ricordando
vagamente l’apertura della Quarta Sinfonia – ma questa volta con un carattere
maestoso, anziché bizzarro ed esitante. Nel primo segmento le figurazioni dei
legni sono sostenute dai bassi, che scendono per semitoni dalla tonica la alla
dominante mi. In questo modo viene profilato l’intervallo cromaticamente
discendente di quarta, un moto del basso da lungo tempo familiare per
Beethoven, che lo aveva già usato altrove, per esempio nelle Trentadue
variazioni per pianoforte, WoO 80, del 180612. Ascoltando con attenzione la
linea del basso per le prime dieci battute non è difficile accorgersi di questa
discesa, e l’intervallo discendente da la a mi può anche essere percepito come
lo specchio delle prime due note del movimento melodico dell’oboe. È il tipo di
relazione tra dettaglio e grande frase che si può riscontrare solo nella musica
dei maestri.
Ecco gli altri momenti notevoli dell’introduzione:
Il primo movimento
La verve e l’energia del primo movimento sono preparati passo dopo passo
dall’Introduzione: poi si scatena un 6/8 Vivace nel quale viene introdotta la
figura dattilica di tre note (compare due volte in ciascuna battuta di 6/8) che
domina l’intero movimento. Significativamente, è proposta per la prima volta
sulla sola nota mi dai legni in un registro acuto, cosicché all’inizio la si ascolta
come puro motivo ritmico, prima che emerga come parte di una frase melodica,
e – anche – prima di essere armonizzata. L’accordo di tonica di la maggiore
prende forma poche battute dopo, nel momento in cui si aggiungono altri
strumenti, quindi il vero e proprio primo tema viene proposto dal flauto solo
(cfr. Esempio Web M).
Iniziare un primo movimento affidando il tema principale ai legni nel
registro acuto è una novità, nella prassi sinfonica beethoveniana, proprio come
il tema stesso ha un carattere completamente nuovo. In Beethoven il metro di
6/8, a parte i movimenti lenti, lo si trova essenzialmente in due casi. Uno è il
tradizionale schema di Rondò finale in 6/8, ereditato da Haydn e Mozart13.
Beethoven seguì questo modello in qualche lavoro da camera giovanile e in
molti dei finali per i concerti. In tutti questi casi utilizzò il titolo “Rondò”,
abbandonato poi nei lavori dei periodi successivi. L’altro caso è quello del 6/8
utilizzato nei primi movimenti dei quartetti op. 18 n. 5 e op. 59 n. 2. Ma
nessuno di questi si avvicina alla Settima nell’uso costante di una formula
ritmica ossessiva14.
Pur conservando la fondamentale suddivisione in sezioni tipica di un ampio
movimento in forma-sonata, questo primo movimento mostra un certo numero
di peculiarità. Scegliendo di conferirgli una decisiva impulsione ritmica,
Beethoven dovette diminuire il grado di contrasto melodico che nelle
precedenti sinfonie aveva distinto i secondi gruppi tematici dai rispettivi temi
di apertura. Se pensiamo ai profili contrastanti dei primi e dei secondi temi
nelle esposizioni delle precedenti sinfonie di Beethoven, siamo colpiti da
quanto differiscono per carattere, articolazione di frase e strumentazione. Nella
Settima non è così. Qui Beethoven trova altre tecniche per ottenere il contrasto
tematico nelle diverse sezioni del movimento, che deve continuare
inesorabilmente a scorrere nel suo metro 6/8 Vivace, variato in modo brillante
nelle sue sottounità, ma senza nulla di paragonabile ai drastici contrasti che
troviamo nell’esposizione della Quinta e, in qualche misura, di tutte le altre sue
sinfonie.
Uno di questi mezzi è l’uso di insoliti scarti armonici. Nell’introduzione
Beethoven amplia il ventaglio armonico passando dalla tonica la maggiore alla
distante tonalità di do maggiore, e nel Vivace troviamo altre improvvise e
sorprendenti deviazioni armoniche, oltre ad altrettanto bruschi cambiamenti di
dinamica e di registro. La sua sottigliezza nel pianificare la struttura
fraseologica di questo movimento è completamente evidente negli abbozzi
sopravvissuti e nel manoscritto autografo. A proposito di quest’ultimo
troviamo un’eloquente e curiosa affermazione dell’editore Johann André, che
fece visita a Beethoven mentre era impegnato nella stesura dell’autografo.
Secondo Ferdinand Hiller
André riferì di aver visto che nella partitura della Sinfonia in la maggiore c’erano delle pagine
lasciate in bianco, cosicché quanto era scritto prima della pagina vuota non aveva alcun collegamento
con quanto era scritto dopo. Beethoven disse che il materiale di collegamento sarebbe certamente
arrivato.15
L’allegretto
La primissima traccia del tema fondamentale di questo movimento risale al
1806, quando, tra gli appunti per l’op. 59 n. 3, troviamo un abbozzo per il tema
iniziale, immediatamente riconoscibile per la ripetizione delle note e la
persistente figurazione ritmica formata da un dattilo e uno spondeo. Si direbbe
che Beethoven stesse pensando di usare questo tema per il movimento lento di
quel quartetto in do maggiore, ma poi avesse preferito l’andante in la minore in
6/8 – nel quale si possono riconoscere delle inflessioni da canto popolare russo
– che sarebbe poi stata la sua scelta definitiva.
Tra tutti i suoi movimenti lenti sinfonici, per quanto memorabili, questo
occupa un posto speciale nel moderno immaginario fin dalla prima esecuzione,
avvenuta nel dicembre 1813, nella sala grande dell’Università di Vienna. Tre
anni dopo un commentatore avrebbe scritto:
Il secondo movimento […] che fin dalla sua prima esecuzione è stato uno dei pezzi preferiti da tutti
gli amatori e dagli intenditori, è un movimento che va direttamente al cuore anche di coloro che non
hanno avuto una formazione musicale; li conquista con il suo candore e con una certa qual segreta
magia – e ad ogni esecuzione se ne richiede sempre il bis.18
Lo scherzo
«Non c’è dubbio – scrisse George Grove a proposito di questa sinfonia – che
l’immagine mentale suscitata dalla n. 7 è più grande di quella di una qualsiasi
tra le sinfonie che l’hanno preceduta»19. Quella che Grove indicava come
“immagine mentale” risuona ancora, e alla nostra epoca – a due secoli di
distanza dalla prima esecuzione – c’è un ampio consenso sul fatto che la
Settima sia uno dei lavori più soddisfacenti di Beethoven, un lavoro nel quale
ogni singolo particolare contribuisce ugualmente alla qualità del tutto.
Questo Scherzo-Trio è un movimento in cinque parti, come quelli della
Quarta e della Sesta. È il più ampio degli scherzi sinfonici scritti da Beethoven
fino a questo momento, e le sue proporzioni prefigurano quelle dello Scherzo
della Nona Sinfonia, di gran lunga il più ampio movimento di questo genere che
Beethoven abbia mai scritto.
A parte le ovvie differenze di tonalità, metro e forma, sembra che il primo
movimento e lo Scherzo, nella loro fase di primo abbozzo, avessero un comune
antenato. Proprio all’inizio del principale quaderno di appunti per questa
sinfonia Beethoven buttò giù una serie di idee musicali che anticipano il tema
iniziale dello Scherzo, ma in 6/8 e in la maggiore. A questo stadio, ha l’aria di
uno spunto di partenza per il primo movimento, e non possiamo escludere che
Beethoven abbia pensato che poteva funzionare ugualmente bene in entrambi i
movimenti, e solo in un secondo momento abbia deciso di utilizzarlo per lo
Scherzo (cfr. Esempio Web N)20.
Una delle molte bellezze dello Scherzo è l’ingegnosità con cui Beethoven
mantiene per un lungo tratto l’ossessiva ripetizione in pianissimo di una
figurazione di due note che scende di grado (una minima legata a una
semiminima). Il suo modo di disporla è di enunciarla in una successione di tre
frasi di quattro battute ad altezze differenti – prima ai fiati, poi agli archi acuti,
poi a fagotti e bassi, per rompere infine l’incantesimo con un’esplosione
fortissimo. Questa successione si presenta due volte in questa forma, poiché il
movimento prevede la completa ripetizione delle due parti in cui si articola la
forma dello Scherzo. In seguito, dopo la prima enunciazione del Trio, lo
Scherzo viene completamente ripetuto con la medesima successione di frasi di
quattro battute, ma questa volta l’attesa esplosione fortissimo è sostituita da
una conclusione delicata, pianissimo. È un momento che tutti gli ascoltatori
imparano ad assaporare, ancor più quando l’intero Scherzo torna per la terza
volta alla fine del movimento, e questa volta ritorna anche lo schianto
fortissimo.
Il Trio, che qualcuno ha creduto essere un inno (o la variante di un inno)
preso a prestito, è strutturato inizialmente come una serenata per clarinetti e
corni, con i violini che tengono lungamente un la (dominante di re maggiore,
tonalità del Trio). È solo più avanti, quando i corni esplorano il loro registro più
grave con la persistente figura cromatica di due note con cui il Trio ha avuto
inizio, che l’intera orchestra porta il tema principale del Trio al suo culmine, in
fortissimo, su un rullo di timpani – che, nel linguaggio sinfonico di Beethoven,
è sempre un segnale drammatico. E alla fine dell’intero movimento, nella coda,
Beethoven riprende il dolce tema del Trio in due brevi frasi, una in maggiore,
l’altra in minore, prima di scatenare la cadenza conclusiva (Presto).
Il finale
I due fragorosi gesti che aprono il finale (Allegro con brio, 2/4) ciascuno seguito
da un’intera battuta di silenzio, rendono chiaro che non ci sarà tregua, e
l’ultimo movimento, se mai, amplierà l’uso di ritmi trascinanti che ha dominato
l’intero lavoro fino a questo punto. In ciascuna delle figurazioni iniziali di
quattro note gli archi colpiscono con un accordo fortissimo cui il resto
dell’orchestra risponde immediatamente, e poiché entrambe le figurazioni
proiettano l’armonia di dominante di la maggiore, si crea un’aspettativa di
risoluzione sulla tonica che sarà soddisfatta solo alla dodicesima battuta. Ma a
questo punto l’esuberante primo tema si è già messo in movimento con i primi
violini sui forti accenti in levare degli altri strumenti (cfr. Esempio Web P).
Da qui il movimento sviluppa una forma-sonata su ampia scala in cui il
secondo gruppo dell’esposizione contiene particolari ritmici fortemente
contrastanti nel momento in cui l’armonia si porta non a mi maggiore – ossia
la tonalità della dominante, secondo le norme accademiche – ma a do diesis
minore, la tonalità della mediante – una mossa insolita perfino per Beethoven.
Lo sviluppo si porta ancora più lontano, prima a do maggiore e fa maggiore
(richiamando così le avventure armoniche dell’ormai lontana introduzione
lenta del primo movimento), e poi si spinge ancora oltre, alla remota tonalità di
si bemolle maggiore, immediatamente prima di riesplodere, con la ripresa, nella
tonalità di la maggiore. Nella coda, quando il grande movimento si avvicina alla
sua conclusione, celli e bassi indicano che il finale, analogamente al primo
movimento e allo Scherzo, avrà la propria figurazione ossessivamente ripetuta
nelle regioni più gravi della tavolozza sonora: ripetono infatti una figurazione
cromatica sulle note mi e re diesis per venti battute consecutive, e poi ancora
per altre quattro, sostenendo un imponente accumulo di risorse strumentali in
vista del fuoco d’artificio che conclude il movimento. Un segno delle enormi
aspettative di Beethoven circa la forza della conclusione è il suo uso
dell’indicazione “fff” (fortississimo), una dinamica che non aveva ancora usato
in alcun’altra sinfonia né, a quanto ne so, in alcun altro lavoro precedente.
Tovey definì questo movimento «un trionfo di furia Bacchica» e tra i molti
finali di Beethoven in 2/4 è, par excellence, quello in cui l’ascoltatore si sente
più completamente preso in un turbine di eventi ritmicamente incalzanti
dall’inizio alla fine. Alcuni degli altri finali in 2/4 di grandi lavori del secondo
periodo di Beethoven usano temi e motivi di apertura di alto profilo, e inoltre
molti culminano in rapide code di grande energia – per esempio la Terza e la
Quarta, il Quartetto op. 59 n. 1, i trii con pianoforte op. 70 n. 2 e op. 97
(Arciduca). Ma nessuno, al di là di tutte le altre loro qualità, riesce a sopraffare
l’ascoltatore con il proprio incessante slancio in avanti in modo così completo.
È ancora più stupefacente, quindi, scoprire che a uno stadio iniziale, forse
prima di immaginare che l’intera sinfonia avrebbe avuto un carattere ritmico
tanto energico, Beethoven aveva concepito un finale completamente differente.
Lo troviamo in una delle prime pagine del suo principale quaderno di appunti,
dove questo tema compare con il titolo “Finale” (cfr. Esempio Web Q).
Per il suo candore e la sua quadratura questo tema, con i suoi due periodi di
otto battute, avrebbe potuto essere perfettamente funzionale a un lavoro dal
carattere più leggero. Ma il suo profilo melodico, le sue indicazioni dinamiche
(fp) all’inizio di ciascuna unità di due battute, il p a battuta 5, il suo carattere
generale, tutti questi elementi implicano un tono troppo leggero e dolce per
poter adeguatamente concludere la Settima Sinfonia. È come se Beethoven
avesse pescato un esempio dal suo banco di memoria delle idee tematiche da
finale in 2/4, e lo avesse provato su una pagina di abbozzi per vedere se poteva
funzionare. Ma non ci sorprende trovare, qualche pagina dopo, una versione
iniziale del vero tema di apertura del finale (cfr. Esempio Web R). Con questo
abbozzo la forma ritmica fondamentale dell’attacco è stabilmente al suo posto,
e di qui in poi Beethoven può elaborare le sue idee, rifinire il tema di apertura
per dargli la forma più adatta, e trovare una soluzione per la forma complessiva
per l’intero movimento e, alla fine, per l’intera sinfonia.
Pur non accettando che questa sinfonia possa essere considerata meno che
un «capolavoro di abilità tecnica, gusto, fantasia, sapienza e ispirazione»
Berlioz sembra essere d’accordo sul fatto che il primo movimento abbia
un’affinità con la musica popolare. E l’epiteto “popolareggiante”, che continuò
a essere usato da molti commentatori, merita un attimo di considerazione.
Forse questo tema in 6/8 in puro la maggiore, con i sui accenti in levare
davvero insoliti, le acciaccature in battere e il “ritmo lombardo” all’inizio della
quarta battuta, ricordava agli ascoltatori lo stile melodico delle tradizioni
popolari scozzese, irlandese e gallese su cui Beethoven stava lavorando ormai
da qualche anno22. Nel 1812 aveva già realizzato molti arrangiamenti di melodie
tratte dai repertori che George Thomson gli aveva mandato da Edimburgo. Li
stava ancora scrivendo nel 1811-12 quando la sinfonia stava germogliando, e
continuò ancora fino al 1820. A quel punto aveva scritto ben 179 di questi
arrangiamenti, la maggior parte dei quali per voce e pianoforte, ma qualche
volta anche con parti di violino e violoncello. Beethoven prese molto sul serio
questo compito, come possiamo vedere dal suo particolare interesse per le loro
caratteristiche modali e dai suoi commenti nelle lettere a Thomson, in cui
«chiedeva insistentemente i testi, […] sostenendo che gli erano indispensabili
per comporre degli accompagnamenti appropriati»23.
Questi canti popolari fanno fortemente sospettare che Beethoven possa aver
associato il metro di 6/8 in tempo moderato o rapido con i numerosi 6/8 che
troviamo tra i suoi arrangiamenti, dove il 6/8 ricorre molto più spesso,
proporzionalmente, di quanto non accada nelle sue composizioni strumentali di
maggiori dimensioni. Nelle sue tre serie irlandesi, per un totale di 57 pezzi,
diciotto sono in 6/8, come lo sono tre delle dodici canzoni scozzesi. Il
collegamento tra la Settima Sinfonia e gli arrangiamenti di canti popolari di
Beethoven non è solo una questione di identità metrica: è dimostrato anche da
una diretta corrispondenza melodica tra il postludio di uno dei suoi canti
irlandesi e il tema principale del finale della Settima. Lo troviamo nel suo
arrangiamento della melodia irlandese di Thomson “Save me from the grave
and wise” (WoO 154/8), basata sul motivo tradizionale noto come Nora Creina.
Nel postludio di Beethoven, mentre violino e violoncello danno il tempo con
note ribattute, il pianoforte suona il tema conclusivo, del tutto riconoscibile
anche se in 6/8, e non in 2/4 come nella versione che ascoltiamo nella sinfonia.
Per di più nelle ultime quattro battute dell’arrangiamento c’è una chiara
allusione a un passaggio del primo movimento della sinfonia (cfr. Esempio Web
S).
Beethoven poteva aver avuto tra le mani questo tema già nel 1810, ben
prima di mettersi al lavoro sulla sinfonia, incominciata nel tardo 1811. Questi
stretti collegamenti rafforzano la nostra comprensione della potenziale
attrattiva che la sinfonia doveva avere, ad ogni livello, per gli ascoltatori
dell’epoca di Beethoven, inclusi quelli immersi nel mondo del canto popolare. È
del tutto possibile che lo stesso Beethoven abbia avvertito questa affinità, e che
questo labile collegamento tra generi totalmente eterogenei abbia rinforzato la
sua convinzione di poter gettare un ponte tra il mondo della musica popolare di
tutti i giorni e il suo superbo stile sinfonico. Come scrisse un critico nel 1816, in
occasione della pubblicazione di partitura e parti di questa sinfonia:
Abbiamo il piacevole compito di far conoscere al lettore di queste pagine, perlomeno a grandi linee
e nei limiti dello spazio disponibile, le caratteristiche straordinariamente belle di questo meraviglioso
lavoro. La più bella delle quali, lo spirito dell’insieme, non può essere tradotto qui in parole. Presto la
Germania, la Francia e l’Inghilterra tutte condivideranno la nostra opinione, e potranno perfino
lamentarsi che abbiamo messo in evidenza troppo poco delle sue buone qualità e che non ne abbiamo
parlato abbastanza.24
Due secoli più tardi, nel mondo così profondamente trasformato della
nostra epoca, possiamo dirci d’accordo.
9. Beethoven, 1815 circa, ritratto da Willibrord Josef Mähler
(Gesellschaft der Musikfreunde, Vienna / Mondadori Portfolio / Bridgeman Images)
1
Briefe, n. 553. Il barone Krufft faceva parte del servizio imperiale austriaco, ed era evidentemente un
abile musicista. Johann Nepomuk Zizius, professore di statistica all’Università di Vienna, era tra i
fondatori della Gesellschaft der Musikfreunde, che tenne intrattenimenti musicali a casa sua. Tutte queste
informazioni sono desunte da Briefe, II, p. 245, note 5 e 6.
2
Sull’assegno annuale cfr. in particolare Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 2a ed., pp.
181, 191, 193 sg. Un resoconto dettagliato si può trovare in Martella Gutierrez Denhoff, “‘o Unseeliges
Dekret’. Beethovens Rente von Fürst Kinsky und Erzherzog Rudolph”, in S. Brandenburg e M. Gutierrez-
Denhoff, Beethoven und Böhmen, Bonn, Beethoven Haus 1988, pp. 91-145.
3
Per quanto riguarda Rodolfo cfr. Susan Kagan, Archduke Rudolph: Beethoven’s Patron, Pupil, and
Friend, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1988, e, più recentemente, il mio Beethoven as Sir Davison,
«Bonner Beethoven-Studien», Bonn 11, 2014, pp. 133-40.
4
Konversationshefte, II, fasc. 22 (da 20 gennaio 1823 a 6 febbraio 1823), pp. 365-7.
5
Per il testo completo della lettera originale, più volte pubblicato in facsimile, cfr. Briefe, II, n. 582, con
la note di Brandenburg, p. 272. Per una completa traduzione in inglese cfr. Solomon, Beethoven cit., 2a
edizione, pp. 209-11, la sua ampia disamina alle pp. 211-46, e anche p. 502 per un esame della letteratura
rilevante fino al 1998. Nell’apparentemente interminabile ricerca dell’identità della destinataria di questa
lettera numerosi autori hanno proposto altri nomi – in particolare quello della contessa Josephine Deym-
Stackelberg, nata Brunsvik. Personalmente continuo a essere persuaso dalle argomentazioni proposte da
Maynard Solomon, il quale dimostra che la candidata più plausibile è Antonie Brentano.
6
Si vedano le mie osservazioni sul Testamento di Heiligenstadt e la Seconda Sinfonia nel cap. 2.
7
Carl Dahlhaus, Beethoven e il suo tempo, trad. it. L. Dallapiccola, Torino, EDT 1990, p. 19 (ed. orig.
Ludwig van Beethoven und seine Zeit, Laaber, Laaber Verlag 1987). Cfr. anche il mio articolo in «19th-
Century Music», XVI, 2, Summer 1992, pp. 80-5, e sull’argomento generale della biografia di Beethoven, il
mio Reappraising Beethoven Biography, in «Yearbook of Comparative and General Literature»
Bloomington LIII, 2007, pp. 83-100.
8
Beethoven: Ein Skizzenbuch aus dem Jahre 1809 (Landsberg 5), a cura di Clemens Brenneis, Bonn,
Beethoven Haus 1992, 1, p. 55, p. 87, inoltre p. 50, sistemi 5-8, in fa minore, e il commento di Brenneis in
11, p. 35 e p. 59, sistemi 1-4, un Allegro in fa maggiore con un’“introduzione” (Eingang) Largo in fa minore
(indicata così da Beethoven), che secondo Brenneis potrebbe essere sia una sinfonia, sia un’ouverture (il
suo commento è in II, p. 36).
9
“La Settima Sinfonia e il ritmo dell’antichità”, in Maynard Solomon, L’ultimo Beethoven. Musica,
pensiero, immaginazione, trad. it. N. Bizzaro, Roma, Carocci 2010, pp. 123-56 (ed. orig., Late Beethoven:
Music, Thought, Imagination, Berkeley, University of California Press 2003: “The Seventh Symphony and
the Rhythms of Antiquity”). Per una critica dei suoi assunti cfr. l’articolo di David Levy in BF, XII, 2, 2005,
p. 208 sg.
10
N II, 163.
11
Cfr. i pochi suoi altri lavori che iniziano non semplicemente con un’introduzione lenta ma con un
vero e proprio movimento lento completo - tra i quali la Sonata cosiddetta “Al chiaro di luna” op. 27 n.2 e
il Quartetto op. 131 - che per coincidenza sono entrambi nella tonalità di do diesis minore, mai usata
altrove da Beethoven.
12
Cfr. Robert Gauldin, Beethoven’s Interrupted Tetrachord and the Seventh Symphony, «Integral»,
Rochester, NY, V, 1991, pp. 77-100. Secondo Gauldin le prime dieci battute dell’introduzione forniscono il
materiale di base per gli schemi armonici di tutti e quattro i movimenti.
13
Come, tra i molti possibili esempi, nel Concerto per violoncello in re maggiore di Haydn, e nei finali
di molti concerti per pianoforte di Mozart, e, sempre di Mozart, tutti e quattro i suoi concerti per corno e
il Concerto per clarinetto.
14
Beethoven scrisse un primo movimento in 6/8 nella Sonata per pianoforte op. 7, ma non utilizzò più
quel metro fino alla Sonata op. 101. In altri generi lo troviamo nel Trio per archi op. 9 n. 3, nelle sonate per
violino op. 12 n. 2, op. 23 e op. 30 n. 3, e ancora nell’Andante di apertura della Sonata per violoncello op.
102 n. 1.
15
L’aneddoto, tratto dalle memorie di Mendelssohn di Hiller, fu riferito da George Grove, Beethoven
and His Nine Symphonies, New York, Dover 2012, p. 238. I “piccoli vuoti” del manoscritto autografo furono
confermati da Benito Rivera in un brillante studio nel quale ha dimostrato che le modifiche di molte frasi
nel primo movimento hanno consentito a Beethoven di ottenere schemi di frase più efficaci e determinare
così svariati punti culminanti locali; cfr. il suo Rhythmic Organization in Beethoven’s Seventh Symphony: A
Study of Canceled Measures in the Autograph, «19th-Century Music», VI, 3, Spring 1983, pp. 241-51.
16
Cfr. sopra per la lettera di Beckett sulle pause nella Settima.
17
Cfr. Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven. A Study in Mythmaking, New York,
Rizzoli International Pubblications 1987, p. 94 sg., e John Warrack, Carl Maria von Weber, Cambridge,
Cambridge University Press 1968, pp. 89-95.
18
AMZ (1816), ristampa in Ludwig van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit a cura di S. Kunze,
Laaber, Laaber Verlag 1987, p. 295.
19
Grove cit., p. 240. Inoltre Thomas Day, saggio inedito, 1981, p. 1.
20
John Knowles, The Sketches for the First Movement of Beethoven’s Seventh Symphony, tesi di dottorato,
Brandeis University, 1984, pp. 64-8.
21
Beethoven by Berlioz: a Critical Appreciation of Beethoven’s Nine Symphonies, compilato e tradotto da
R. De Sola, Boston, Crescendo Publishing Company 1975, p. 185
22
Cfr. Barry Cooper, Beethoven’s Folksong Settings: Chronology, Sources, and Style, Oxford, Clarendon
Press 1994, e Petra Weber-Bockholdt, Beethovens Bearbeitungen britischer Lieder, München, Wilhelm Fink
1994. Inoltre Nicole Biamonte, Modality in Beethoven’s Folksong Settings, in BF, XIII, 1, 2006, pp. 28-63.
23
Biamonte cit., 31.
24
S. Kunze, Ludwig van Beethoven: Die Werke in Spiegel seiner Zeit, Laaber, Laaber Verlag 1987, p. 297.
VIII
L’Ottava Sinfonia
Comunque, per quanto fosse delicato, il compito era anche guidato da una
forte determinazione. Possiamo soffermarci un attimo sul perché Beethoven si
fosse mosso in questa strana nuova direzione e cosa implichi, l’Ottava, nella
sua situazione artistica di quel momento. Come tutti gli artisti prolifici
Beethoven era sensibile al posto di ciascun nuovo grande lavoro nell’ambito del
suo specifico genere, e a cosa poteva sembrare che aggiungesse a tutto quanto
aveva fatto prima. Se questo valeva per le sonate per pianoforte e per i quartetti
per archi, a maggior ragione valeva per la sinfonia, il più pubblico tra i generi
della musica strumentale. Scrivendo sinfonie con un atteggiamento quasi di
sfida – erano anni in cui a Vienna era difficile farle eseguire, nonostante il
tradizionale prestigio del genere – Beethoven puntava a far sì che ciascuna
fosse degna della sua ambizione di comporre «grandi lavori», come ebbe a
scrivere più avanti in una lettera. La concentrazione nel laborioso processo di
rifinitura che condusse a ciascun lavoro finito, e che possiamo constatare dai
suoi appunti, riflette la spinta interiore che lo induceva a creare un nuovo
mondo sinfonico.
Perciò la sua rivisitazione dei modi classici, nell’Ottava, dovrebbe essere
vista non come una regressione, ma come un ulteriore ampliamento del suo
spazio artistico, un’espressione del suo senso di libertà. L’Ottava riflette la sua
padronanza di un ampio ventaglio di direzioni stilistiche, e le sue
caratteristiche interne esibiscono un sottile e curioso gioco con forme e
aspettative di coerenza che prefigurano aspetti del suo tardo stile. In effetti con
questo lavoro Beethoven fa sapere ai suoi contemporanei che può brandire il
fioretto altrettanto bene del maglio, che può tornare al mondo della pura
sinfonia classica, usandone però le convenzioni alla propria maniera. Possiamo
credere che questo rivolgersi a dimensioni più piccole, a collegamenti armonici
insoliti, a sottili rimandi tra i movimenti fosse per lui tanto più allettante in
quanto si trattava di affrontare un progetto estetico completamente differente,
per portata ed energia, da quello della Settima, ma almeno altrettanto difficile
da padroneggiare.
Origini
Il lavoro per l’Ottava fece seguito a quello per la Settima a distanza di circa sei
mesi. L’autografo della Settima è datato «13 aprile 1812», probabilmente il
giorno in cui Beethoven lo cominciò, più o meno due mesi dopo il viaggio a
Tepliz. Sull’autografo dell’Ottava scrisse «Linz nel mese di ottobre 1812». Gli
ampi e dettagliati abbozzi per entrambi i lavori si trovano nel cosiddetto
“quaderno Petter”, che Beethoven usò all’incirca tra settembre 1811 e dicembre
18124.
Gli abbozzi per l’Ottava sono ampi e rivelatori, per quanto fino ad oggi solo
una piccola parte ne sia stata resa disponibile, perfino agli specialisti5. Ciò che
abbiamo per il primo movimento, comunque, ci riserva una grossa sorpresa. Gli
abbozzi, infatti, mostrano che nelle fasi iniziali Beethoven concepì queste idee
musicali non per una sinfonia, ma per un concerto per pianoforte6. Un’ampia
traccia di quanto sembra essere precisamente l’esposizione del primo
movimento dell’Ottava Sinfonia (in fa maggiore, 3/4), ne mostra il primo tema,
con aggiunte che prefigurano chiaramente i temi successivi. Questo canovaccio
si estende per almeno 70 battute, poi termina con una corona sulla dominante,
dopo di che Beethoven scrive per esteso ciò che chiaramente è l’abbozzo di
un’elaborata cadenza solistica per pianoforte, che si estende per oltre sette
battute (si veda Esempio Web T).
Beethoven fece seguire a questo abbozzo alcuni altri appunti che puntano
inequivocabilmente a un concerto per pianoforte, contrassegnando alcuni
passaggi con “solo” e altri con “tutti”. Alla luce del suo retroterra come
concertista, l’idea di un nuovo concerto, nel 1812, sarebbe stata coraggiosa e
temeraria. Beethoven da giovane aveva suonato in pubblico i suoi primi quattro
concerti, ma nel 1809, aggravatasi la sordità, non eseguì personalmente il
Concerto “Imperatore”. In pubblico poteva ancora suonare e improvvisare, ma a
questo punto l’interazione tra solista e orchestra lo avrebbe esposto a un
rischio eccessivo a causa dell’udito danneggiato.
Eppure Beethoven concepì nuove idee per altri concerti per pianoforte nel
1812 e poi ancora qualche anno dopo. Nel medesimo quaderno del 1812, nelle
pagine vicine, troviamo appunti per un concerto in sol maggiore7. Nel 1815
tornò a provare idee per un altro concerto ancora, in re maggiore, per il quale
scrisse non soltanto una varietà di abbozzi, ma anche una lunga stesura
provvisoria del manoscritto autografo del primo movimento. Ma anche questo
progetto fallì, e gli incompleti materiali del concerto del 1815 furono sepolti
vivi insieme con il resto delle sue carte postume8. Nel 1812, comunque, l’idea
del concerto in fa maggiore fu riconvertita nell’emergente Ottava Sinfonia. Un
po’ più avanti vediamo che Beethoven stava pensando perfino a una terza
sinfonia, questa qui in re minore – ma poi la terza idea idea sinfonica fu
accantonata per un’altra occasione9. Per nessun’altra delle sue sinfonie
possiamo trovare prove che Beethoven l’avesse concepita, nella fase
preparatoria, come un concerto o una composizione di un genere comunque
differente.
Progetti per altre due sinfonie incompiute dello stesso periodo – quello della
Settima e dell’Ottava – sono stati recentemente individuati su fogli di appunti, e
possono essere rapidamente menzionati qui. Uno è per una sinfonia in mi
minore, con un primo movimento in 4/4 in mi minore, e un abbozzo di ciò che
sembrerebbe essere un secondo movimento in do maggiore. Compaiono in un
foglio di appunti staccato dal quaderno principale del 181210. Nello stesso
periodo si affacciò un’altra idea ancora per una sinfonia in mi bemolle, per la
quale Beethoven appuntò idee per tutti e quattro i movimenti, e che indicò
come “sinfonia 3”, intendendo che la pensava come una terza sinfonia da
affiancare alla Settima e all’Ottava. Come la traccia di movimento in mi minore
che evidentemente l’aveva preceduta, questa idea di partenza per una sinfonia
rimase irrealizzata, ma mostra che Beethoven, in quel punto di svolta così
importante per la sua carriera, stava esplorando un’ampia gamma di idee per
sinfonie11.
Il primo movimento
Esposizione
Il primo movimento inizia con una memorabile prima figura che mantiene
ovunque la sua importanza. È particolarmente notevole il fatto che questo
motivo iniziale di sei note, con il suo fermo appoggio sulla tonica sul battere
della seconda battuta, può in definitiva servire come figura conclusiva
dell’intero movimento. Guardando avanti, l’idea di terminare un primo
movimento sinfonico con la stessa breve frase iniziale riapparirà nel primo
movimento della Nona Sinfonia, un lavoro dal carattere quanto mai differente.
Abbiamo visto che nel primo movimento della Settima il pervasivo ritmo
dattilico governa tutti i temi, per quanto differenti sotto tutti gli altri aspetti.
Nell’Ottava Beethoven segue una strategia diametralmente opposta: quella di
collegare tra loro in successione segmenti tematici fortemente differenziati,
alcuni lirici, altri marcatamente ritmici, alcuni caratterizzati dal moto melodico
per gradi congiunti, altri dal moto per accordi arpeggiati. Il tipo di
procedimento tematico creato nel primo movimento della Settima espande le
analogie, mentre invece nell’Ottava Beethoven è impegnato in un arduo
procedimento di integrazione delle differenze. Per dimostrarlo è sufficiente
osservare i sei fondamentali segmenti tematici dell’esposizione del primo
movimento:
Sviluppo17
La figurazione a salti d’ottava alla fine dell’esposizione ci porta direttamente
nello sviluppo. La figura iniziale di sei note, ora completamente isolata, appare
una volta in ciascuno dei quattro legni (fagotto, clarinetto, oboe, flauto) in
registri via via più acuti (piano dolce); poi l’intera orchestra risponde con
un’esplosione fortissimo di quattro battute in cui gli archi ripropongono gli
arpeggi ascendenti e discendenti che si erano sentiti per la prima volta alla fine
dell’esposizione. Questo modo di iniziare lo sviluppo – con la prima e l’ultima
figura dell’esposizione – mette insieme temi che erano stati tenuti ampiamente
distanziati nella loro presentazione originaria. È un’ulteriore indicazione
dell’insolito modo di pensare che governa l’intero movimento.
Dopo che questa stessa contrapposizione tematica è stata proposta altre due
volte, modulando ad altre tonalità, lo sviluppo ripete incessantemente la figura
di apertura del movimento in un lungo passaggio di intensità crescente in un
costante fortissimo. Attraversando una serie di altre tonalità, e cambiando varie
caratteristiche di scrittura, costruisce poco per volta un eccezionale culmine di
tensione sulla dominante della tonalità d’impianto, per preparare la ripresa.
Ripresa18
Questa ripresa esige un particolare commento. Nei movimenti in forma-sonata
dei maestri classici la ripresa è molto più del ritorno strutturale del tema
iniziale e della tonalità d’impianto, procedimento talvolta definito “doppia
ripresa”. È una sorta di ritorno a casa, un ritorno alla stabilità armonica dopo le
divagazioni attraverso tonalità secondarie dello sviluppo. È il momento in cui il
tema principale dell’esposizione e i suoi temi accessori riemergono nella forma
e nell’ordine originali dopo essere stati frammentati nello sviluppo. È su questo
sfondo che dovrebbe essere considerato il trattamento innovativo che
Beethoven riserva a questo momento cruciale dei suoi movimenti in forma-
sonata.
Man mano che procedeva nella maturità artistica Beethoven riservava le
cure più attente a questo luogo delle sue narrazioni in forma-sonata,
drammatizzandolo in molti modi differenti. Nell’Eroica, dove tutto avviene su
una scala più ampia, Beethoven intensifica il senso di aspettativa
dell’ascoltatore estendendo l’armonia di dominante lungo un amplissimo arco
temporale, poi innalza di un’altra tacca l’intensità facendo riprendere il tanto
atteso motivo di apertura alla tonica da un corno solo – ma due battute troppo
presto, e su un si bemolle (dominante) tenuto dai violini – dopo di che l’intera
orchestra rimette le cose a posto facendo ascoltare per due battute, prima forte,
poi fortissimo, un completo accordo di dominante, e poi procede
repentinamente alla tanto attesa ricapitolazione alla tonica. Nella Quarta,
anziché usare l’armonia di dominante, Beethoven mantiene la tensione del
lungo periodo di preparazione prolungando la stessa armonia di tonica, ma
nella sua configurazione più instabile (l’accordo di quarta-e-sesta, con la quinta
al basso). Per aumentare la suspense, Beethoven mantiene un rullo di timpani
pianissimo per molte battute mentre frammenti del tema di apertura emergono
gradualmente in un lento crescendo – poi scatena il materiale in una frenesia
che culmina con l’arrivo, fortissimo, della ripresa, con la vera tonica allo stato
fondamentale.
Questa e altre soluzioni alternative abbondano nei suoi lavori del primo e
del secondo periodo. Ma nella ripresa dell’Ottava Beethoven ha un’altra carta
da giocare. Qui ci accorgiamo di assistere a un trucco da prestigiatore della
massima sottigliezza, che ha suscitato controversie circa il punto esatto in cui
la ripresa ha veramente inizio. Lo sviluppo termina con le sue ripetizioni
dell’armonia di dominante, già fortissimo da parecchie battute – ma Beethoven
nelle ultime due battute chiede più forte – e poi l’intera orchestra esplode con
l’armonia di tonica, il tanto atteso fa maggiore, nella dinamica estrema fff. A
questo punto, come ci si aspetterebbe, ritorna anche il primo tema, ma con una
differenza. Anziché comparire in una voce superiore (primi violini, o fiati acuti)
il tema è ora al registro grave (fagotto, violoncelli, contrabbassi). Poiché questi
strumenti gravi rischiano di essere sovrastati dal resto dell’orchestra (quello
che Tovey definisce «il bagliore del mezzogiorno» di questo momento), alcuni
direttori d’orchestra hanno di fatto manomesso la strumentazione di Beethoven
inserendo dei segni di decrescendo nelle parti degli strumenti acuti19. Il modo in
cui Beethoven ha strumentato il ritorno del primo tema ha suggerito loro che
forse la sordità aveva avuto la meglio su di lui20.
Ma un’osservazione più attenta della partitura rivela che la faccenda è un
po’ più complessa, per quanto si possano avere opinioni divergenti su cosa
Beethoven avesse in mente. Un primo punto di vista è che, per quanto il
passaggio fff manifesti tutti i segni distintivi di una ripresa tematica, non sia in
effetti quella vera, ma solo una ripresa illusoria, un passaggio che presenta gli
elementi di una ripresa ma che allo stesso tempo la annulla. A sostegno di
questa teoria c’è il fatto che il tema è stato assegnato agli strumenti gravi, che
si fanno sentire a fatica, contrapposti come sono al resto dell’orchestra fff. È
vero che il movimento a questo punto ha raggiunto la tonica, fa maggiore, ma
in effetti si tratta dell’armonia di tonica in una versione meno che stabile dal
punto di vista funzionale – il suo secondo rivolto, con il do al basso. Questa
nota è la prima nota del tema stesso, nel registro grave, ed è anche la nota
letteralmente martellata in battere dai timpani al momento della ripresa – e
poiché le consuete due caldaie a disposizione del timpanista sono intonate sulle
note fa (tonica) e do (dominante), questo significa che Beethoven ha
deliberatamente evitato di usare la tonica quando avrebbe potuto farlo senza
problemi. Per di più i timpani continuano col do per tutte le otto battute del
tema finché non risolvono sul fa alla fine della frase. Anche l’opinione opposta,
e cioè che questa energica ricapitolazione fff sia, dopo tutto, la ripresa vera e
propria, nonostante le sue curiose caratteristiche, ha i propri sostenitori. Per
loro la piena sonorità dell’orchestra, il ritorno del primo tema e l’impatto di
queste battute culminanti sono determinanti.
E a proposito di questo punto di vista possiamo fare queste osservazioni:
Coda
Di tutte le innovazioni formali di Beethoven le sue code ampliate sono tra le
più degne di nota. Beethoven spesso fece della coda una specie di contraltare
dello sviluppo, definendo così una forma-sonata quadripartita, anziché
tripartita con - al più - una breve estensione alla fine. In Haydn e Mozart, nella
maggior parte dei casi, o non c’è affatto una coda, o l’appendice del movimento
non è che un breve segmento conclusivo. Beethoven rende nuove le sue code in
molti modi22. Uno di questi è messo in evidenza in questo movimento, ed è
interessante osservare che Beethoven sottopose la versione definitiva della
coda a numerose modifiche prima di esserne del tutto soddisfatto23.
Nella sua forma definitiva questa coda, iniziando esattamente come lo
sviluppo, procede gradualmente, attraverso un altro crescendo, a una chiara e
risoluta enunciazione del primo tema in tutta la sua gloria, alla tonica,
fortissimo, concludendo con una poderosa corona sull’accordo di dominante. A
partire da questo punto una ripresa di elementi lirici della quinta sezione
dell’esposizione dà vita ancora una volta a uno straordinario accumulo di
tensione, culminando su un’armonia instabile (per la quale ancora una volta
Beethoven scrive la rara dinamica fff) che a sua volta sfocia nel paragrafo
conclusivo.
La conclusione ci riserva la sorpresa più grande. Le ultime sedici battute
cominciano moderando progressivamente il volume e riducendo gradualmente
l’attività ritmica. Dapprima l’intera orchestra esegue figure di tre note,
ciascuna seguita da un’intera battuta di pausa. Seguono ancora le figure di tre
note, alternate tra archi pizzicati e fiati, questa volta piano. Le figure di tre note
quindi lasciano il posto a figure di due note. Infine, con nostro grande stupore,
l’intero movimento è suggellato pianissimo dall’originale motivo di apertura,
agli archi. Un po’ come il celebre Andante della Settima Sinfonia, seppure in un
mondo differente, il primo movimento esce di scena per la stessa via dalla quale
era giunto.
Secondo movimento: Allegretto Scherzando
Berlioz scrisse che questo movimento sembrava essere «caduto dal Cielo ed
essere entrato immediatamente nella mente del compositore»24. Anche se non è
successo niente del genere, come è dimostrato dagli appunti di Beethoven, lo
spirito della sua osservazione rimane valido. Questo capolavoro in 2/4 pieno di
ottimismo è il coronamento di un piccolo gruppo di movimenti che Beethoven
concepì come “scherzando”, ossia con un carattere giocoso, tutti quanti
caratterizzati da una leggerezza di tocco e da una delicatezza di articolazione
difficili da trovare nei suoi “adagio” lirici, e tanto meno in quelle situazioni
sinfoniche in cui gli occorre un grande dispiegamento di forze strumentali per
esibire energia25. Movimenti come questo partecipano del significato più antico
– quello letterale – della parola “scherzo”, che Beethoven aveva spazzato via
dai suoi terzi movimenti quando trasformò il Minuetto classico nel suo
vigoroso Scherzo, non solo nelle sinfonie, ma anche in altri generi. Per quanto
il minuetto avesse già subito delle trasformazioni in molti dei lavori maturi di
Haydn e Mozart, il radicale trattamento di Beethoven gli aveva conferito una
forza nuova, e una statura pari a quella degli altri movimenti dei suoi cicli in
quattro tempi.
Gli accordi dei legni, con le loro semicrome staccate ribattute regolarmente,
evocano l’inizio dell’Andante della Sinfonia “L’orologio” di Haydn, come gli
ascoltatori hanno notato da tempo immemorabile, e come probabilmente
Beethoven sapeva meglio di chiunque altro26. Come le semicrome di apertura di
Haydn, il ticchettio d’orologio di Beethoven stabilisce la trama metrica per
l’intero movimento e prepara l’arrivo della melodia principale; ma,
diversamente da Haydn, Beethoven continua a ribattere le medesime note,
anziché alternare quelle dell’accordo di tonica. In particolare, nell’Allegretto di
Beethoven, l’accordo di tonica non è allo stato fondamentale ma nel meno
stabile primo rivolto, richiamando così, all’orecchio sensibile, la ripresa del
primo movimento, le cui ambiguità abbiamo già esaminato. Quando poi il
noncurante tema fa la sua comparsa alla voce superiore, l’armonia si assesta su
una tonica stabile: momento, questo, sottolineato dalla prima nota di violoncelli
e contrabbassi, che entrano sulla tonica, si bemolle.
Di tutti i movimenti lenti sinfonici di Beethoven, questo Allegretto è il più
breve. Nella sua musica da camera giovanile aveva scritto movimenti Adagio e
Andante stringati e compatti, ma in campo sinfonico gli occorreva uno spazio
maggiore per consentire un’adeguata espansione alle idee suggerite dalla più
ampia tavolozza timbrica dell’orchestra. Nel movimento “Scherzando” del
Quartetto per archi op. 18 n. 4, in 3/8, aveva avuto bisogno di 261 battute,
contro le sole 81 dell’Allegretto dell’Ottava. La forma del nostro movimento è
questa:
Si comincia con accenti sforzato pesantemente marcati dagli archi gravi sul
primo tempo di ciascuna battuta, seguiti da un terzo tempo sottolineato da
trombe e timpani. Poi le figure di accompagnamento dell’inizio lasciano il
posto a due graziose linee melodiche parallele ai violini. Questo inizio stabilisce
fin dall’inizio un effetto ibrido, con inflessioni stilistiche di valzer e di Ländler.
Nella sezione “b” del Minuetto, il primo motivo della melodia tipo-valzer si
alterna tra archi acuti e gravi, con attacchi improvvisi e sonori sul secondo
tempo della battuta (anziché sul terzo). Fiati e violini quindi si alternano in un
movimento melodico che conclude in diminuendo (che in qualche modo
ricorda il modo in cui nel primo movimento viene preparato il secondo
soggetto) – e infine nella sezione “c” un fagotto solista esegue la melodia, ma
alla sottodominante, si bemolle maggiore, lasciando il posto, infine, alla tonica.
Nelle battute conclusive c’è una stretta interazione di tre elementi: arpeggi
fortissimo di corni e trombe, una figura cadenzale di tre note agli archi, e una
notevole figurazione dei fiati con un effetto di sincopato.
Il Trio – virtualmente una parentesi cameristica all’interno della sinfonia –
rievoca gli assolo strumentali di certe sinfonie di Haydn. Flauti e oboi tacent, e
due corni solisti eseguono un duetto melodico su uno scorrevole
accompagnamento in terzine, destinato presumibilmente a uno solo dei
violoncelli27. Dopo questa sezione, un clarinetto solista – formando un piccolo
ensemble di fiati con i due corni – assume il ruolo principale nell’ulteriore
dispiegamento del materiale melodico. L’intero Trio si mantiene a un livello
dinamico che è essenzialmente piano dolce ovunque, salendo una sola volta con
un modesto crescendo e concludendo delicatamente, per preparare il ritorno del
vigoroso attacco del Minuetto. L’intero movimento è un classico esempio di
autentica arte nascosta da un’apparente semplicità.
La Nona Sinfonia
L’ultimo Beethoven
All’epoca in cui terminò la Nona Sinfonia, nel 1824, Beethoven aveva
attraversato un’altra fase di trasformazione, più lunga e più difficile della
precedente – un “cambio di rotta”, per dirla con Maynard Solomon. Dopo il
successo di pubblico di Fidelio nel 1814 e il rinnovato apprezzamento da parte
dell’aristocrazia europea al Congresso di Vienna, Beethoven attraversò una fase
di relativa inattività che durò almeno fino al 1818. Durante questi anni creò
alcuni importanti lavori isolati, ma senza neppure avvicinarsi alla costante
produttività del suo secondo periodo. Per lui fu un periodo di profonda
introspezione mentre si preparava a muoversi in nuove direzioni come
compositore. Il suo Tagebuch ce lo mostra mentre tenta di riprendere le forze
dopo la crisi dell’Immortale Amata del 1812, rassegnato ad accettare il proprio
isolamento e a sopportare le difficoltà personali, quali che fossero. Nella sua
vita artistica stava cercando, ancora una volta, nuove strade, questa volta
guardando molto indietro ad antichi modelli, soprattutto all’amatissimo Bach.
Dopo il 1818 una rinnovata padronanza tecnica si sarebbe tradotta in alcuni dei
suoi lavori più grandi e più profondi, molti dei quali risultarono estremamente
sconcertanti per i suoi contemporanei e tecnicamente impegnativi anche per i
migliori esecutori dell’epoca, e solo gradualmente furono accettati come
risultati monumentali. Fuga e contrappunto, che aveva sempre usato per
rendere più profonda la complessità dei suoi dinamici lavori, divennero ora
tecniche fondamentali per interi movimenti, specialmente per i finali di
composizioni strumentali in più movimenti. Il coronamento della sua
immaginazione creativa nell’ambito della fuga è la Grosse Fuge: inizialmente
concepita come finale del Quartetto op. 130, in un secondo momento ne fu
separata per diventare una composizione autonoma, e pubblicata come op. 133.
Alla prima esecuzione un critico scrisse che era «incomprensibile come il
cinese»1. Nel XX secolo Igor Stravinsky dichiarò:
A diciotto anni ho trovato una nuova fonte di gioia in Beethoven, e la Grande Fuga ora mi sembra –
ma allora non era così – un perfetto miracolo […] deve rimanere un brano autonomo, questo pezzo di
musica assolutamente contemporaneo, che sarà per sempre contemporaneo.2
Per quanto Bach e Händel – insieme con Gluck, Haydn e Mozart – siano
menzionati solo una volta nel Tagebuch come predecessori profondamente
ammirati, non c’è dubbio che Bach, e in misura minore Händel, erano diventati
le stelle comete di Beethoven7. Beethoven conosceva il Clavicembalo ben
Temperato fin dalla prima infanzia, aveva acquistato musica di Bach – che, nel
corso della sua esistenza, era divenuta maggiormente disponibile – ed ora, nel
pieno dell’ondata della sua tarda maturità, si stava impadronendo della
maestria di Bach nell’integrare la complessità contrappuntistica con
l’espressività, per quanto in un ventaglio di vecchi stili compositivi che
Beethoven ora sentiva di poter emulare, ma anche di modernizzare.
Consideriamole separatamente.
Guardando avanti possiamo vedere che nell’Adagio della Nona, nel suo
sviluppo definitivo, Beethoven era deciso a utilizzare le qualità contrastanti di
questi due temi come fondamentale condizione formale – e cioè avere un primo
tema in tempo molto lento in si bemolle maggiore in 4/4, e l’altro tema in re
maggiore, Andante moderato, 3/4 – e che infine combinò variazioni del primo
tema con lo splendido secondo tema, ripreso due volte a mo’ di episodio di
Rondò.
Messa e sinfonia
Nel marzo 1819, apprendendo della nomina di Rodolfo ad Arcivescovo,
Beethoven gli scrive: «se penso a quanto largo sarà il raggio d’azione che si
offrirà in tal modo a Lei e alle Sue alte e nobili qualità, non posso che
aggiungere anch’io le mie congratulazioni alle molte altre che V.[ostra] A.
[ltezza] I.[mperiale] ha già ricevuto»30. Nella stessa lettera Beethoven, in
qualità di severo maestro, critica una serie di variazioni scritte da Rodolfo su un
tema che gli aveva assegnato tempo prima. Poi Beethoven propone di
continuare a essere il suo insegnante di composizione «non appena gli impegni
di V.[ostra] A.[ltezza] I.[mperiale] lo permetteranno». E poi viene alla
questione più importante
V.[ostra] A.[ltezza] I.[mperiale] può esplicare la sua creatività sia per la felicità e la salute di tante
persone sia per se stesso, creatori di musica e dispensatori di felicità sono finora mancati nel mondo
degli attuali monarchi.
Non è un caso che Beethoven, quando colloca questi versi nel finale, passi
dal precedente Andante maestoso (che comincia con «Abbracciatevi,
moltitudini – questo è un bacio al mondo intero!» ecc.) al più lento Adagio ma
non troppo ma divoto. A quanto mi risulti questa è la sola circostanza in cui
usa il termine “divoto” in un’indicazione di tempo. In tutta questa sezione le
armonie modali si inframmezzano al familiare linguaggio tonale del resto del
finale, e insolite giustapposizioni di pianissimo e fortissimo proiettano
improvvisamente in primo piano certe parole, come quando l’intero coro,
preceduto e seguito da pause, esclama di colpo “Welt” (mondo)37. E tutto questo
straordinario passaggio finisce con le voci del coro che cercano Dio «al di sopra
delle stelle» mentre insieme con l’intera orchestra – che suona pianissimo e in
registri acuti – tengono lungamente un accordo di settima di dominante, e
intanto proclamano la presenza di Dio in Cielo con le parole «Certamente
dimora al di sopra delle stelle» («Űber Sternen muss er wohnen»)38.
Il Corale finale
Per quanto, tra quelli di tutte le sinfonie di Beethoven, possa essere questo il
movimento di cui si è discusso più approfonditamente, non è solo in virtù della
melodia dell’“Ode alla Gioia” che il corale finale rimane aperto a nuovi
approfondimenti. Il movimento scaturisce da differenti elementi che vi
confluiscono in un modo inusitato. Per costruire il finale, Beethoven ha dovuto
conciliare il suo ruolo di elemento strutturale conclusivo con le sue inusuali
caratteristiche di forma e contenuto in quanto ibrido vocale-strumentale. Ha
dovuto trovare il modo di costruire una narrazione drammatica per mezzo della
quale potesse giustificare l’introduzione di voci, collocare il tema “Freude”
nell’adatto contesto poetico e procedere con le sue variazioni introducendo
anche il principale tema contrastante per i cori religiosi (“Seid umschlungen
Millionen!”). E infine ha dovuto incorniciare efficacemente l’insieme
combinando questi due temi principali in una eccitante sezione conclusiva di
grande lunghezza ed eloquenza.
Questi sono solo i maggiori tra i problemi che Beethoven ha dovuto
affrontare, e certo dovette lavorare duramente alla macrostruttura del finale e a
ciascuno dei suoi componenti, inclusa la forma melodica dello stesso tema
dell’“Ode alla Gioia”. Alcuni di questi sforzi sono già stati messi in luce dai
primi commentatori, ma ancora oggi l’ampia mole di abbozzi per il finale
attende di essere raccolta, trascritta e resa disponibile. Comunque ora siamo in
grado di dipingere almeno una panoramica generale, per quanto restino da
definire alcuni dettagli.
1
AMZ, XXVIII (1826), p. 310. Cfr. BML, 460.
2
Igor Stravinsky e Robert Craft, Dialogues and a Diary, Garden City, Doubleday and Co. 1963, p. 24.
3
Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, trad. it. L. Lamberti, a cura di R. Tiedman,
Torino, Einaudi 2001, p. 142, p. 192 (ed. orig. Beethoven. Philosophie der Musik. Fragmente und texte,
Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 1993).
4
Briefe, n. 1438.
5
Briefe, n. 585.
6
Briefe, n. 1318 del 29 luglio 1819.
7
Tagebuch, n. 43.
8
Tagebuch, n. 119 (1817).
9
Cfr. Briefe, n. 1129 e Letters to Beethoven and Other Correspondence, a cura di T. Albrecht, 3 voll.
Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1996, II, n. 239.
10
Beethoven a Ries, 9 luglio 1817; Briefe, n. 1140.
11
Per un esauriente studio delle Variazioni “Diabelli” cfr. William Kinderman, Beethoven’s Diabelli
Variations, Oxford, Oxford University Press 1987.
12
Questo tema in re minore è uno di quelli che Beethoven stava prendendo in considerazione anche
per il finale della sua progettata sinfonia in do minore (destinata poi a diventare la Quinta). Cfr. William
Meredith, Forming the New from the Old: Beethoven’s Use of Variation in the Fifth Symphony in Beethoven’s
Compositional Process, a cura di W. Kinderman, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1991, p. 109. Per
l’abbozzo in re minore intitolato “Sinfonia” cfr. ESk, p. 177, e Commentario, p. 82.
13
Princeton, Scheide Sketchbook, p. 51. Per il facsimile e un commento cfr. Sieghard Brandenburg, Die
Skizzen zur Neunten Symphonie in Zu Beethoven 2 a cura di H. Goldschmidt, Berlin, Verlag Neue Musik
1984, p. 91 e Fig. 5.
14
Testo originale: “Sinfonie/erster anfang/in bloss 4 stimmen/2 Vi[oli]n Viol[e] Basso/dazwischen forte
mit andern stimmen und wenn möglich jedes/andre Instrument nach und nach eintreten lassen”.
15
La versione definitiva del primo movimento ha inizio con le celebri misteriose quinte vuote di archi e
corni, poi si aggiungono gli altri strumenti, come lui stesso dice, «uno dopo l’altro» – nell’ordine:
clarinetto solo (b. 5), flauto secondo (b. 11), flauto primo (b. 13), poi fagotti, corni gravi, trombe – tutti
quanti in un crescendo che si sviluppa lentamente e con frammenti tematici che alla fine si fondono nel
gigantesco tema principale alle bb. 17 sgg.
16
Per quanto riguarda la datazione delle fonti di questi anni, relative tanto alla Nona quanto ad altri
lavori, cfr. Brandenburg, Die Skizzen zur Neunten Symphonie in Zu Beethoven 2, Berlino, 1984, pp. 95-103.
Per un importante studio degli abbozzi del primo movimento, basato su tutti i materiali disponibili fino al
1987, cfr. Jenny Kallick, A study of the Advanced Sketches and Full Score Autograph for the First Movement
of Beethoven’s Ninth Symphony, Opus 125, tesi di dottorato, Yale University, 1987.
17
Bonn, Beethoven-Haus, MS BSk VIII, 56; cfr. S. Brandenburg, Die Skizzen […] cit., p. 103. Brandenburg
propone per questo foglio una datazione a marzo/aprile 1818. L’annotazione verbale sulla “canzone devota
[…]” ecc. è stata pubblicata per la prima volta da Nottebohm in N II, p. 163.
18
Cfr. N II, p. 163; S. Brandenburg, Die Skizzen […] cit., p. 103; Nicholas Cook, Beethoven: Symphony No.
9, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 13-7, dove vengono sollevati dubbi sul fatto che
Beethoven stesse davvero pensando a una seconda sinfonia; David Levy, Beethoven: The Ninth Symphony,
New Haven, CT, Yale University Press 2003, pp. 29-30, raccoglie tutti i materiali preparatori noti di questi
anni e accetta l’idea che almeno per un certo periodo Beethoven abbia avuto in mente due sinfonie.
19
Nonostante l’originale richiesta di due sinfonie ricevuta da Londra, e qualche riferimento di
contemporanei (incluso il notoriamente inaffidabile Schindler) a una “seconda” sinfonia come autentico
progetto, non ci sono ragioni per dissentire da Robert Winter quando afferma che le prove ricavabili dagli
abbozzi di quegli ultimi anni «lasciano poche possibilità che Beethoven abbia fatto qualcosa di più che
pensare, in una occasione o due, a un nuovo lavoro sinfonico» (cfr. Winter in Beethoven Jahrbuch IX,
1977, p. 500). E nonostante gli sforzi fatti da Barry Cooper per ricostruire, eseguire e registrare il primo
movimento di una Decima Sinfonia (MCA Classics, MCAD-6269), la documentazione disponibile mi
induce a credere, con Robert Winter, che il “lavoro” che ne è risultato sia frutto di un progetto
congetturale e donchisciottesco.
20
Per un esame completo di tutto questo materiale, con esempi musicali, cfr. Nicholas Marston,
Beethoven’s “Anti-Organicism”? The Origins of the Slow Movement of the Ninth Symphony, in Studies in the
History of Music, III, The Creative Process, New York, Broude 1992, pp. 169-200.
21
Marston cit., p. 181, p. 184 e fonti ivi citate.
22
Marston cit., p. 186.
23
Su questo punto cfr. Robert Winter, “The Sketches for the ‘Ode to the Joy’” in Beethoven, Performers
and Critics: International Beethoven Congress Detroit 1977, a cura di R. Winter e B. Carr, Detroit, Wayne
State University Press 1989, p. 198 sg., e N. Cook, Beethoven: Symphony No. 9, Cambridge, Cambridge
University Press 1993, p. 17 sg. Sembra che il terzo degli schizzi riportati da Nottebohm per il tema
strumentale (che finì poi nell’op. 132), si trovi, come dice Winter, cit. (p. 198) «dopo gli ultimi appunti per
il finale, e tiene compagnia alla prima delle Bagatelle op. 126, alle quali Beethoven rivolse la propria
attenzione – senza dubbio non senza sollievo – dopo aver terminato la sinfonia».
24
Queste tre versioni del tema, qui in re minore, poi usato nel finale dell’op. 132 furono pubblicate per
la prima volta da Nottebohm, N II, p. 180 sg., e le fonti per i primi due sono andate perdute dopo che
Nottebohm ne ebbe preso visione; cfr. Winter cit., p. 198. Come scrive Winter, «non c’è motivo di
supporre che siano state inserite quando il corale finale era ad uno stadio particolarmente avanzato»
(Ibid.).
25
Per la soppressione di questo verso conclusivo cfr. Gail J. Hart, Schiller’s “An die Freude” and the
Question of Freedom, «German Studies Review», Baltimore, MD, XXXII, 3, 2009, p. 487 sg.
26
Per una esame convincente ed incisivo della trasformazione in ideali estetici delle aspirazioni di
Schiller alla libertà politica e alla rivolta, cfr. Klaus L. Berghahn, Gedankenfreiheit: From political Reform to
Aestethic Revolution in Schiller’s Works, in The internalized Revolution: German Reactions to the French
Revolution, 1789-1989, a cura di E. Bahr e T.P. Saine, New York, Garland Science 1992, pp. 99-118.
27
Cfr. M. Solomon, Beethoven and Schiller, nel suo Beethoven Essays, Cambridge, Harvard University
Press 1988, p. 205 e nota 3.
28
TF, p. 120 sg.
29
Robert Winter, The Sketches for the “Ode to the Joy” cit., p. 177.
30
Briefe, n. 1292 del 3 marzo 1819; Anderson n. 948 data la lettera all’«inizio di giugno 1819» – troppo
tardi: per la datazione cfr. Briefe, IV, p. 247, nota 1.
31
Briefe, n. 1318, 29 luglio 1819.
32
Alte und Neue Kirchenmusik, pubblicato per la prima volta in AMZ del 1814.
33
Messo in evidenza da Warren Kirkendale, New Roads to Old Ideas in Beethoven’s Missa Solemnis, «The
Musical Quarterly», LVI, 1970, pp. 665-701.
34
Wiliam Kinderman, Beethoven’s Symbol for the Deity in the Missa Solemnis and the Ninth Symphony,
«19th-Century Music», IX (1985-86), pp. 102-18.
35
Briefe, n. 1875, 16 settembre 1824.
36
Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 1998, 2a ed., p. 401.
37
Battuta 638. Per un acuto commento su questo passaggio cfr. Leo Treitler, “‘To Worship That
Celestial Sound’: Motives for Analysis”, nel suo Music and the Historical Imagination, Cambridge, MA,
Harvard University Press 1989, p. 57 e p. 63.
38
Questo passaggio è uno dei punti cruciali nella disquisizione di William Kinderman sui collegamenti
tra il simbolismo della Missa Solemnis e quello della Nona Sinfonia (cfr. nota 34); cfr. anche David Levy,
Beethoven: The Ninth Symphony, New Haven, CT, Yale University Press 2003, p. 112 sg.
39
Un esempio è il libro di Esteban Buch intitolato Beethoven’s Ninth: A Political History, Chicago,
University of Chicago Press 2003, originariamente pubblicato in Francia come La Neuvième de Beethoven,
Parigi, Gallimard 1999. Il libro di Buch è un’utile indagine sui molti usi politici della melodia dell’Ode. Per
quanto posso affermare dopo un’attenta lettura, in nessuna parte del libro di Buch c’è alcun esame dei
movimenti precedenti. Per quanto Buch riconosca (p. 4) che «è vero che la Nona è, soprattutto, un’opera
di musica “pura”, parte integrante del repertorio classico», la sua posizione è evidentemente quella di chi
sostiene che non esista la “musica pura”, e che «il sistematico rifiuto di includere nell’analisi musicale
tecnica considerazioni storiche e sociali implica comunque una presa di posizione circa il ruolo sociale
dell’opera d’arte».
40
In letteratura abbondano notevoli discussioni dell’attacco; si vedano Donald Tovey, Essays in Musical
Analysis, II, London, Oxford University Press 1935, p. 6; Schenker, Beethoven: Neunte Sinfonie, II ed., Wien,
Universal Edition 1969, p. 3; Treitler, “History, Criticism and Beethoven’s Ninth Symphony” nel suo Music
and the Historical Imagination cit., pp. 19-22. Le mie precedenti osservazioni circa l’attacco sono nel mio
“The Four ‘Introductions’ in the Ninth Symphony”, in Probleme der Symphonischen Tradition im 19.
Jahrhundert, a cura di S. Kross e M.L. Maintz, Tutzing, Hans Schneider 1990, pp. 97-113, in particolare pp.
98-102.
41
D. Tovey, Essays II cit., p. 6. Per una volta Tovey ha ragione comunque.
42
Cfr. Jenny L. Kallick, A Study of the Advanced Sketches and Full Score Autograph for the First
Movement of Beethoven’s Ninth Symphony, Opus 125, tesi di dottorato, Yale University, 1987. Io mi riferisco
ai primissimi schemi generali in MSS Parigi 96, nel Quaderno “Engelmann”, e in altre fonti collegate, tutte
elencate da Kallick. Il suo esame degli abbozzi per l’esposizione è alle pp. 33-50, la sua trascrizione alle pp.
75-102.
43
Per un’eloquente disamina dei rapporti tonali nella sinfonia cfr. L. Treitler, Music and the Historical
Imagination cit., p. 56 sgg.
44
Non c’è traccia di doppia stanghetta nell’autografo della sinfonia, che è stata pubblicato in facsimile
più volte, la più recente da Bärenreiter, Kassel 2010. Cfr. anche J.L. Kallick cit.,
p. 202.
45
Questa strategia – non ripetere l’esposizione (Beethoven l’avrebbe chiamata “prima parte”) della
forma-sonata – ci ricorda la soluzione da lui adottata per il primo movimento in forma-sonata del
Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 1, nel quale aveva compiuto lo storico passo di eliminare la ripetizione
dell’esposizione. Anche là, come nella Nona, aveva iniziato lo sviluppo con un’apparente ripresa del tema
principale, per poi proseguire in modi nuovi e sorprendenti. Sullo schema formale dell’op. 59 n. 1 cfr. il
mio Beethoven: Studies in the Creative Process, Cambridge, Harvard University Press 1992, cap. 9, Process
vs. Limits: A View of the Quartet in F Major, Opus 59, No. 1, pp. 198-208; e anche il libro di cui sono
coautore con il Quartetto Juilliard, Inside Beethoven’s Quartets, Cambridge, MA, Harvard University Press
2008, pp. 95-146 (sull’op. 59 n. 1) e la partitura del primo movimento con le annotazioni del Quartetto
Juilliard, pp. 147-79.
46
A.B. Marx, Ludwig van Beethoven, Leipzig, Gebruder Reiunecke originariamente 1859. Io cito
l’edizione riveduta del 1902, Leipzig, Adolph Schumann II, p. 231; D. Tovey, Essays II cit., p. 18.
47
Susan McClary, in un discusso passaggio del suo libro Feminine Endings: Gender, Music, and
Sexuality, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1991, pp. 128-29, interpreta la ripresa come «uno
degli episodi più violenti nella storia della musica» e vede nella Nona Sinfonia «probabilmente la più
persuasiva traduzione in musica degli impulsi contraddittori che hanno organizzato la cultura patriarcale
a partire dall’Illuminismo».
48
L. Treitler, Music and the Historic Imagination cit., p. 23; D. Levy, Beethoven: The Ninth Symphony,
cit., p. 62.
49
A proposito di questa tecnica cfr. Christopher Reynolds, Wagner, Schumann, and the Lessons of
Beethoven’s Ninth, Berkeley, University of California Press 2015.
50
Tagebuch, n. 72, ca 1816.
51
Briefe, n. 582.
52
Il Largo come introduzione al finale dell’op. 106, e l’Adagio che precede l’Arioso dolente nell’op. 110
sono tra le sezioni più toccanti ed espressive di tutto l’ultimo Beethoven.
53
Tra le altre sinfonie di Beethoven hanno lo scherzo in tre parti la Prima, la Seconda, la Terza e
l’Ottava (Tempo di Menuetto); la Quarta, la Sesta e la Settima hanno invece lo scherzo in cinque parti.
54
Come è stato opportunamente osservato da D. Levy cit., p. 73.
55
Per un breve elenco dei principali movimenti fugati nell’ultimo Beethoven cfr. BML, 369 sg.
56
Senza precedenti negli attacchi di Scherzi e Minuetti di Beethoven, che in effetti aveva usato maniere
simili per iniziare movimenti rapidi con brevi, brusche frasi separate da pause fin dai primi lavori (per
esempio nel finale della Sonata per pianoforte op. 10 n. 3, nel primo movimento dell’op. 22, e altrove). Un
ottimo esempio da paragonare all’attacco di questo Scherzo è l’attacco dello Scherzo della Sonata per
pianoforte op. 28, che comincia con ottave discendenti su un fa diesis, per quattro battute, seguite da
quattro brusche figurazioni; ma, assolutamente, con un effetto non altrettanto drammatico quanto
l’attacco dello Scherzo della Nona.
57
Sul suo uso di questo termine in una quantità di lavori lungo tutto l’arco della carriera cfr. Günther
Massenkeil, “Cantabilke bei Beethoven”, in Beethoven-Kolloquium 1977, a cura di R. Klein, Kassel,
Bärenreiter 1978, pp. 154-9; Peter Gülke, Kantabilität und Thematische Abhandlung, «Beiträge zur
Musikwissenschaft», XII, 1970, pp. 252-73; e Carl Dahlhaus, Cantabile und Thematischer Prozess, «Archiv
für Musikwissenschaft» XXXVII, Franz Steiner Verlag, 1980, pp. 81-98.
58
Briefe, n. 2003, lettera a Galitzin del 6 luglio 1825 ca.
59
H. Schenker, Beethoven’s Ninth Symphony, a cura di e tradotto da John Rothgeb, New Haven, Yale
University Press 1992, p. 184; D. Tovey, Essays I cit., pp. 74-7 (ma cfr. anche le sue più estese osservazioni
in Essays II, pp. 28-35); D. Levy cit., pp. 77-87; N. Cook cit., pp. 32-34.
60
Levy cit., p. 84.
61
H. Berlioz, A Critical Study of Beethoven’s Nine Symphonies, trad. E. Evans, introduzione di D. Kern
Holoman, Urbana, IL, University of Illinois Press 2000, p. 123.
62
Il principale quaderno di appunti per il finale è Berlin, MS Landsberg 8/2, un «brogliaccio fatto in
casa» che Beethoven utilizzò tra maggio 1823 e giugno 1824 (dopo la prima esecuzione della Nona). Per il
suo contenuto cfr. JTW, pp. 292-98; R. Winter, The Sketches for the “Ode to Joy” cit.; S. Brandendurg, Die
Skizzen […] cit., pp. 122-7. Nottebohm ne aveva già pubblicato importanti estratti in N II, pp. 157-92.
63
N II, p. 190 sg. La fonte di Nottebohm era Berlin, MS Landsberg 8/2, gruppo VII, foll. 69 e 75 (cfr. JTW,
p. 298). Ristampato anche, a partire da Nottebohm, da D. Levy cit., p. 38.
64
N II, p. 189.
65
R. Winter, The Sketches for the “Ode to Joy” cit., p. 184.
66
Sui canti popolari scozzesi e irlandesi e la canzone “Nora Creina” cfr., sopra, il mio esame del finale
della Settima, ma anche le raccolte WoO 157 (dodici canti popolari, tra cui uno siciliano e uno veneziano
insieme con canti inglesi, scozzesi e irlandesi) e WoO 158 (canti di vari paesi: include canti provenienti da
Danimarca, Germania, Tirolo, Polonia, Portogallo, Russia, Svezia, Spagna, Italia e Ungheria).
67
Per un breve sommario cfr. Jean Mongredien, French Music from the Enlightenment to Romanticism,
1789-1830, tradotto da S. Fremaux, Portland, OR, Amadeus Press 1996, pp. 36-48.
68
Su origini e uso di questa melodia cfr. la voce “National Anthems” in The New Grove Dictionary of
Music and Musicians, II ed. a cura di S. Sadie, 29 voll. London, MacMillan 2001e sugli inni nazionali di
quell’epoca BML, 152-55. Le variazioni di Beethoven sono WoO 78, e il pezzo che lo affianca, le Variazioni
“Rule Britannia”, è WoO 79. Cfr. il recente commento in ESk, 1, p. 27 sg.
69
Su questa e molta altra musica di Beethoven collegata a eventi politici del periodo del Congresso di
Vienna, e molta altra dei periodi precedenti e successivi, cfr. Nicholas Mathew, Political Beethoven,
Cambridge, Cambridge University Press 2013.
70
Quaderno MS Berlin Landsberg 5, pubblicato a cura di C. Brenneis come Beethoven: Ein Skizzenbuch
aus dem Jahre 1809, Bonn, Beethoven Haus 1992, p. 19.
Epilogo
Non è mia intenzione, in questa sede, passare in rassegna l’ampia “storia della
ricezione” delle sinfonie di Beethoven, per ospitare la quale forse non
basterebbe uno scaffale di un metro e mezzo. Ma un breve sguardo ad alcuni
aspetti di questo vasto argomento potrebbe risultare opportuno.
Già durante la vita di Beethoven le prime otto sinfonie stavano diventando
dei classici del repertorio. Anche se, a causa delle sue anomale caratteristiche,
la Nona impiegò più tempo per ottenere la stessa accoglienza da parte del
grande pubblico, il plauso fuori del comune ricevuto da compositori ed
esecutori le garantirono uno status di capolavoro riconosciuto già nel corso del
XIX secolo. Intorno al 1900 il medesimo apprezzamento veniva ormai
riconosciuto a tutte le sinfonie mature, dall’Eroica alla Nona, e per i compositori
successivi la produzione sinfonica di Beethoven era diventata la pietra di
paragone per i propri risultati. La sua influenza continuò a essere avvertita dai
più grandi autori di sinfonie – a cominciare da Schubert, all’epoca di
Beethoven, per proseguire nei decenni successivi con Mendelssohn, Schumann,
Brahms, Bruckner e Mahler, ai quali potremmo aggiungere, tra i compositori
sinfonici non tedeschi, Dvořák, Franck, e molti altri. E l’ombra di Beethoven
continuava a incombere anche sui rivoluzionari dichiarati che voltavano le
spalle agli schemi formali tradizionali della musica strumentale e si dedicavano
alla musica a programma e al poema sinfonico – primi fra tutti Berlioz, Liszt e
più tardi Richard Strauss1. Beethoven ebbe un immenso influsso soprattutto su
Wagner, la cui trasformazione dell’opera in “dramma musicale” era, come disse
lui stesso, debitrice dello studio, coltivato per tutta la vita, della musica
strumentale di Beethoven, e in particolare della Nona Sinfonia. Wagner crebbe
negli anni 1830 subendo il fascino di Beethoven, come confessò apertamente
nell’autobiografia, così come nel suo primo racconto, Pellegrinaggio a
Beethoven, e nel suo saggio del 1870 Beethoven, oltreché in numerosi altri scritti
pubblicati2.
Nel corso del XIX secolo, con la proliferazione delle sale da concerto e la
standardizzazione dell’orchestra sinfonica – tipicamente condotta da una guida
dominante, il direttore, o “Maestro”, che spesso sorpassava i compositori come
oggetto dell’idolatria del pubblico (come avviene su grande scala anche
oggigiorno) – le sinfonie di Beethoven occupavano saldamente la posizione
centrale nel canone della musica classica occidentale. Erano il riferimento
rispetto al quale le nuove composizioni venivano misurate, confrontate e
giudicate, specialmente alla luce della graduale tendenza del linguaggio
musicale verso una maggiore complessità armonica e una ampliata varietà di
timbri strumentali. Non solo compositori ed esecutori, ma tutti quanti –
pubblico, critica e in generale i frequentatori di concerti – si unirono
all’acclamazione che portò a formare la moderna immagine di Beethoven.
Nell’età moderna, in cui il linguaggio visivo sembra aver avuto così
facilmente la meglio su tutte le descrizioni verbali, la mitica figura di
Beethoven è stata rappresentata più e più volte, e in modo indimenticabile da
Max Klinger nella sua monumentale scultura che rappresenta un Beethoven
eroico seduto in trono come una divinità, nudo di fronte al mondo. Creato nel
1902 per il Palazzo della Secessione Viennese, il ritratto a grandezza naturale
del compositore realizzato da Klinger coronava la visione tardoromantica di
Beethoven come figura musicale dominante del secolo precedente. Come ha
sottolineato Alessandra Comini in un influente studio sul cambiamento
dell’immagine di Beethoven, la creazione di questa scultura coincise con la
generale accettazione dell’idea che la musica di Beethoven possieda
«dimensioni di rivelazione», un processo, secondo Comini «ancora in atto nel
1980, con la televisione pubblica che presenta alle masse un pellegrinaggio
internazionale a Beethoven, guidato da un canuto Leonard Bernstein alla testa
della Filarmonica di Vienna»3. Al che potremmo aggiungere che se Alessandra
Comini avesse pubblicato il suo libro nel 1989, anziché due anni prima, nel
1987, avrebbe potuto estendere questa immagine del “pellegrinaggio
internazionale” di Bernstein includendo la famosa e spettacolare esecuzione
della Nona Sinfonia al Muro di Berlino nel 1989, a celebrazione del crollo
dell’Unione Sovietica e della fine della Guerra Fredda4.
Vale la pena di ricordare che l’idea che la musica di Beethoven possieda
«dimensioni di rivelazione» affonda le proprie radici nella convinzione dello
stesso compositore che i suoi più grandi lavori, e certamente le sinfonie,
fossero non semplicemente il prodotto di una raffinatissima maestria, ma
l’espressione di una visione morale: una fede profondamente radicata nella
capacità della grande musica di smuovere il mondo. Questa visione, che
trovava espressione anche negli altri generi da lui praticati, trovava pubblica
espressione soprattutto nelle sinfonie. E nonostante le trasformazioni culturali
che hanno avuto luogo nel passaggio dal XX al XXI secolo, il pubblico e in
generale gli ascoltatori, dentro e fuori i confini del tradizionale campo
dell’esecuzione musicale classica, continuano a reagire a quella che un filosofo
moderno ha definito la «qualità stimolante delle grandi opere d’arte», a onta
del pessimismo postmoderno su tutti gli elementi di questa definizione5.
***
***
Prosegue Horwitz:
Dal 22 maggio non c’era più stata distribuzione di cibo per due settimane. I suicidi aumentavano,
spinti dalla fame.14
Possiamo capire l’ironia con cui gli Ebrei del Ghetto si dedicavano ai valori
umani del compositore della Quinta mentre i nazisti che li tenevano in scacco
con una condanna a morte distruggevano quegli stessi valori in nome di
un’ideologia spietata. Difficilmente possiamo immaginare un esempio più
vivido di cosa la grande arte possa significare in condizioni estreme di avversità
e di bisogno. In quel fuggevole istante gli abitanti del ghetto potevano avvertire
che il loro fare musica li liberava dalla loro condanna a morte e assegnava loro
un’immaginata vittoria spirituale. Di qui il riferimento di Rosenfeld al fatto che
avvertissero, «quasi fisicamente, l’esperienza della futura salvezza».
Volendo trovare un’altra analogia profetica in Beethoven penseremmo al
“Coro dei Prigionieri” in Fidelio, in cui i prigionieri sfiniti e affamati, vittime di
oscure forze politiche, escono dalle loro segrete nel cortile della prigione,
accecati dalla luce del sole, inneggiando alla “Freiheit”, sognando la liberazione.
Concludo con una nota personale. Nel 1984 feci il mio primo viaggio a
Cracovia per studiare alcuni dei manoscritti autografi di Beethoven che,
rimossi dalla Biblioteca di Stato di Berlino, erano conservati in Polonia sin dalla
fine della Seconda Guerra Mondiale. Questi manoscritti, insieme ad altri che
comprendono opere di Bach, Mozart, Schumann, e altri compositori, sono
custoditi a Cracovia, nella Biblioteca dell’Università. Un giorno mi ritrovai tra
le mani il manoscritto originale del Quartetto per archi in do diesis minore op.
131, uno dei capolavori più profondi e tragici di Beethoven. Il giorno
successivo, in compagnia di mia moglie, feci visita per la prima volta ad
Auschwitz, non lontano da Cracovia. Chiunque abbia messo piede ad
Auschwitz sa che non ci sono parole per descrivere l’imperscrutabile male e
l’aura di morte che pervadono questo luogo. Era ed è impossibile, per me,
prendere le misure delle mostruose contraddizioni della storia e della cultura
tedesche che ho avvertito in quei giorni e che continuo ad avvertire. È stata
un’esperienza senza dubbio ripetuta da altri nel corso degli anni, e condivisa da
chiunque comprenda cosa l’Olocausto abbia significato e continui a significare
nella nostra epoca, nonostante il fatto che la distanza tra i sopravvissuti e i loro
figli e nipoti – custodi della memoria – e quegli eventi sia ormai di tre
generazioni.
In un certo senso quando ascoltiamo Beethoven, oggi, siamo tutti
discendenti degli abitanti del ghetto di Łódź. In circostanze tragiche, dopo
tragedie civili e nazionali come quella dell’11 settembre, o altri avvenimenti
paragonabili, abbiamo bisogno di ascoltare la Quinta e l’Eroica, e abbiamo
bisogno di ritrovarci assieme per riaffermare la fratellanza umana che ci balena
di fronte ad ogni esecuzione della Nona Sinfonia. Nei suoi ultimi anni
Beethoven scrisse una citazione da Kant – «la legge morale dentro di noi e il
cielo stellato sopra di noi»20. Questo icastico frammento riassume la fede di
Beethoven nel fatto che la personale presa di coscienza del mondano e del
trascendente consente una piena realizzazione del potenziale umano. I suoi
migliori lavori manifestano qualcosa di simile a queste stesse proprietà,
intrecciando quanto è intensamente umano con la sensazione dell’ascoltatore
di elevarsi su un piano più alto. E in questo modo si pongono come esempi di
quanto la grande musica possa ancora significare nella nostra epoca disgregata
e pessimista.
1
Per una recente valutazione dell’influsso di Beethoven sui sinfonisti successivi cfr. Mark Evans
Bonds, After Beethoven: Imperatives of Originality in the Symphony, Cambridge, MA, Harvard University
Press 1996.
2
Tra i molti scritti sul debito di Wagner nei confronti di Beethoven individuerei Klaus Kropfinger,
Wagner und Beethoven. Untersuchungen zur Beethoven- Rezeption Richard Wagners, Regensburg, Bosse
1975.
3
Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven: A Study in Mythmaking, New York, Rizzoli
International Pubblications 1987, p. 14.
4
Tra i molti resoconti di quella famosa esecuzione, cfr. Klaus Geitel, Exulting Freedom in Music,
http://www.leonardbernstein.com/hc_berlin.htm.
5
Richard Rorty, The Inspirational Value of Great Works of Literature, «Raritan», XVI, New Brunswick,
NJ, 1996, pp. 8-17, ristampato nel suo Achieving Our Country, Cambridge, MA, Harvard University Press
1998, pp. 125-40.
6
La statua, realizzata da Thomas Crawford negli anni 1850, è ora collocata nel New England
Conservatory a Boston. Nel 1857 Ignaz Moscheles, pianista, compositore e beethoveniano entusiasta, la
commentò favorevolmente. Cfr. la nuova biografia di Moscheles di Mark Kroll, Ignaz Moscheles and the
Changing World of Musical Europe, Rochester, NY, Boydell & Brewer 2014, p. 127.
7
La letteratura sul movimento trascendentalista americano è vasta, ma per quanto riguarda in
particolare gli aspetti musicali e John Sullivan Dwight cfr. Ora Frishberg Saloman, Beethoven Symphonies
and J. S. Dwight, Boston, Northeastern University Press 1995.
8
«Dwight’s Journal», il più importante periodico musicale americano del XIX secolo, uscì per quasi
quarant’anni, dal 1852 al 1891.
9
Ora Frishberg Saloman cit., p. 3. La forza del culto di Beethoven favorì il lavoro del primo grande
biografo di Beethoven, Alexander Wheelock Thayer, che frequentava quella cerchia e pubblicò molti dei
suoi primi saggi sul «Dwight’s Journal». Cfr. Michael Ochs, “A.W. Thayer, the Diarist, and the Late Mr.
Brown: A Bibliography of Writings in «Dwight’s Journal of Music»”, in Beethoven Essays: Studies in Honor
of Elliot Forbes a cura di L. Lockwood e P. Benjamin, Cambridge, MA, Harvard University Press 1984, pp.
78-95.
10
Su questa lettera e sulla devota passione di Margaret Fuller per Beethoven cfr. Charles Capper,
Margaret Fuller: An American Romantic Life, 2 voll., Oxford, Oxford University Press 1992, 2007; il testo
della lettera è stato recentemente pubblicato su internet da Greg Mitchell; cfr.
gregmitchellwriter.blogspot.com/2014/04 [datato 27 aprile 2014]. Cfr. anche Ora Frishberg Saloman,
Margaret Fuller and Beethoven in America, «Journal of Musicology», X, 1, 1992, pp. 89-105.
11
Prendo a prestito quanto segue da un mio precedente saggio pubblicato in olandese con il titolo
“Beethoven moreel besef toen en nu” in Europees humanisme in fragmenten, a cura di R. Riemen, Tilburg,
Nexus 2008, pp. 84-93.
12
La storia del ghetto di Łódź fu originariamente riferita da vari memorialisti che vissero in quell’epoca
orribile e ne lasciarono testimonianza. Molti di quei resoconti furono pubblicati: tra questi il più
pertinente per il mio racconto è quello di Oskar Rosenfeld, i cui diari furono pubblicati dapprima in
tedesco per essere poi tradotti col titolo In the Beginning Was the Ghetto: 890 days in Lodz, a cura e con
un’introduzione di H. Loewy, tradotto da B. M. Goldstein, Evanston, IL, Northwestern University Press,
2002. Il miglior resoconto moderno dell’intera storia del ghetto è Gordon J. Horwitz, Ghettostadt: Lodz and
the Making of a Nazi City, Cambridge, MA, Harvard University Press 2008. Sono grato al professor
Horwitz per avermi aiutato a individuare il dattiloscritto delle descrizioni dell’orchestra del ghetto di
Rosenfeld presso il YIVO Institute for Jewish Research di New York. Devo davvero molto a Michael Ochs
per il suo aiuto redazionale nella stesura di questa sezione.
13
La popolazione è stimata da Horwitz cit, p. 335, nota 1, in 163.777 abitanti sulla base del censimento
effettuato nel giugno 1940. Per una descrizione di Rumkowski cfr. Horwitz cit., pp. 14-7. L’epiteto “Re dei
Giudei” proviene dal romanzo di Leslie Epstein con quel titolo (Leslie Epstein, King of the Jews, Coward,
Mc Cann & Geoghegan 1979).
14
Horwitz cit., p. 127 sg. e p. 346, nota 44, cita il diario del ghetto di Łódź di Shlomo Frank, Togbukh,
annotazione datata 8 luglio 1941, p. 133.
15
Un buon sommario su Rosenfeld compare in Saul Friedländer, Nazi Germany and the Jews: The Year
of Extermination, New York, Weidenfeld & Nicolson 2007, pp. 310 sg., 314 sg., 446 sg., 493, 527, 630-32,
662. Rosenfeld è citato e preso ampiamente in considerazione in Horwitz cit., passim; e, per i resoconti di
Rosenfeld sulle esecuzioni di musica, pp. 188-91.
16
Questo passaggio è estrapolato dal frammento del diario di Rosenfeld pubblicato in Łódź Ghetto:
Inside a Community Under Siege, a cura di A. Adelson e R. Lapides, New York, Viking 1989, p. 294 sg.
17
Da Rosenfeld, In the Beginning cit., parzialmente citato anche da Horwitz, p. 189 sg.; cfr. p. 357, nota
90 dove si cita YIVO RG 241/858, O[skar] R[osenfeld], Kulturhaus-Konzerte.
18
Rosenfeld, In the Beginning cit., p. 79 sgg.; se ne trovano importanti stralci in Horwitz, p. 189 sg.
19
Rosenfeld, In the Beginning cit., p. 80.
20
Beethoven, Konversationshefte I, a cura di K.-H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G.Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1972, p. 235.
Appendice
Spunti sinfonici e progetti di movimento
Questa tabella mostra tutti i casi noti in cui Beethoven ha annotato nei suoi
quaderni brevi tracce o progetti di movimento per sinfonie. Quasi tutti sono
stati indicati dallo stesso Beethoven come “Sinfonia” o “Sinfonie” e per la
maggior parte non furono mai sviluppate, ma alcune sono le primitive idee per
sinfonie che poi furono effettivamente portate a termine. Queste idee e progetti
formano un ampio corpus di prove che documentano come l’immaginazione di
Beethoven tornasse all’idea della sinfonia lungo l’arco della propria carriera,
dall’inizio alla fine.
Bibliografia
Opere citate