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Le Sinfonie di Beethoven rappresentano un vertice incomparabile della storia

della musica: nove capolavori ciascuno dei quali possiede un distinto e


inconfondibile carattere, e al tempo stesso nove capitoli di un vasto progetto
artistico che il compositore coltivò lungo l’intero arco della propria vita; una
maestosa architettura unitaria, costruita sulle basi di una ricca tradizione
musicale ma tesa a un rinnovamento radicale del pensiero sinfonico. Per
comprendere più a fondo questa straordinaria avventura creativa e umana
abbiamo a disposizione uno strumento tale da consentirci uno sguardo di
inedita importanza nel laboratorio artistico del compositore, e cioè quel vasto
repertorio di idee, abbozzi e frammenti musicali racchiuso nei grossi quaderni
per appunti e negli album tascabili che Beethoven portava sempre con sé. Una
testimonianza preziosa che Beethoven stesso conservò con cura, e che
documenta le fasi embrionali e il lavoro di elaborazione di pressoché ogni sua
composizione.
Studioso beethoveniano di fama mondiale, Lewis Lockwood ci guida in un
viaggio di scoperta attraverso lo sviluppo di questa grandiosa concezione
sinfonica combinando lo studio degli abbozzi all’analisi dei singoli capolavori, e
consentendoci così non solo di comprendere meglio le caratteristiche formali
ed estetiche di ciascuna sinfonia, ma di conoscere anche il contesto biografico e
storico in cui ha avuto origine al di là di ogni mitizzazione successiva. È così
che accanto al genio e alla volontà ferrea che tutti sappiamo essere connessi
alla figura di Beethoven, si disvela gradualmente il suo lascito più prezioso e
complesso: la sua visione artistica.
Lewis Lockwood (New York, 1930) è stato docente di Musicologia nelle
università di Princeton e Harvard. Oggi è professore emerito alla Boston
University, dove dirige il Center for Beethoven Research. Il suo Beethoven: The
Music and the Life (2003) è stato finalista al Pulitzer. Nel 2013 ha pubblicato, in
collaborazione con Alan Gosman, Beethoven’s “Eroica” Sketchbook: A Critical
Edition: Transcription, Facsimile, Commentary; nel 2008, in collaborazione con il
Juilliard String Quartet, Inside Beethoven’s Quartets: History, Performance,
Interpretation. In suo onore l’American Musicological Society ha istituito un
premio annuale dedicato alle migliori tesi musicologiche.
Le Sinfonie di Beethoven non sono state concepite
semplicemente come progetti individuali, ma sono il prodotto
di una visione artistica che si è mantenuta integra per tutta
la vita del compositore, fino a svilupparsi nella grandiosa
ambizione di rivoluzionare il genere e rifondarlo a un nuovo
livello di significato.
Biblioteca di cultura musicale

Contrappunti
LEWIS LOCKWOOD

Le Sinfonie di
Beethoven
UNA VISIONE ARTISTICA

Traduzione dall’inglese di
Enrico Maria Ferrando
Titolo originale: Beethoven’s Symphonies. An Artistic Vision
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2015 da W.W.Norton &
Company, Inc.

© 2015 Lewis Lockwood

Tutti i diritti riservati. La riproduzione,


anche parziale e con qualsiasi mezzo,
non è consentita senza la preventiva
autorizzazione scritta dell’editore.

© 2016 per l’edizione italiana EDT srl


17, via Pianezza - 10149 Torino
edt@edt.it
www.edt.it

Edizione digitale: maggio 2016

ISBN 978-88-5923-233-9

Grafica Paolo Racca - Bosioassociati


Redazione Susanna Franchi
Impaginazione Chiara Peruccio
In ricordo di mia madre
Madeline Wartell Lockwood

Poets are sieves


Brimming rose leaves;
Yielding when prod,
Attar of God
M.W.L.

[I poeti sono setacci


Traboccanti di rose;
Se premuti diffondono,
L’essenza di Dio.]
Indice

Elenco delle immagini


Abbreviazioni bibliografiche
Prefazione

Introduzione: “Il trionfo di quest’arte”


I. La Prima Sinfonia
II. La Seconda Sinfonia
III. La Sinfonia “Eroica”
IV. La Quarta Sinfonia
V. La Quinta Sinfonia
VI. La Sinfonia “Pastorale”
VII. La Settima Sinfonia
VIII. L’Ottava Sinfonia
IX. La Nona Sinfonia
Epilogo

Appendice: spunti sinfonici e progetti di movimento


Bibliografia
Elenco delle immagini

Nelle pagine precedenti: La copia corretta della Sinfonia “Eroica” sul cui frontespizio si può notare la
cancellatura da parte di Beethoven della dedica a Napoleone, (Gesellschaft der Musikfreunde, Vienna/Art
Resource).

1. Casa natale di Beethoven a Bonn, (Beethoven-Haus, Bonn / Bridgeman Images).


2. Beethoven, 1801 ca, (The Cobbe Collection Trust. UK / Bridgeman Images).
3. La casa in cui nel 1802 Beethoven scrisse il Testamento di Heiligenstadt, (Museo Karlsplatz, Vienna /
Bridgemann Images).
4. Sinfonia “Eroica”, frontespizio di una copia manoscritta con correzioni di Beethoven, (Gesellschaft der
Musikfreunde, Vienna / Art Resource).
5. Beethoven nel 1806, (Collezione privata / Bridgeman Images).
6. Quinta Sinfonia, pagina del manoscritto autografo, (Staatsbibliothek Berlin, Stiftung Preussischer Kulturbesitz /
Art Resource).
7. Beethoven in campagna, intento a comporre. Incisione, 1838 ca, (Beethoven-Haus, Bonn / Bridgeman Images).
8. L’arciduca Rodolfo, allievo e poi mecenate di Beethoven, (Historisches Museum der Stadt, Vienna / Bridgeman
Images).
9. Beethoven, 1815 ca, (Gesellschaft der Musikfreunde, Vienna / Mondadori Portfolio / Bridgeman Images).
10. Abbozzi della melodia dell’“Ode alla Gioia” della Nona Sinfonia (Collezione privata / Bridgeman Images).

Tutti gli esempi musicali inclusi o menzionati in questo libro possono essere consultati sul sito
musicexamples.com
Abbreviazioni bibliografiche

AMZ Allgemeine Musikalische Zeitung, Leipzig, 1798-1848.


Anderson Beethoven Ludwig van, The letters of Beethoven, a cura di e tradotte da Emily
Anderson, 3 voll. London, Macmillan & Co. 1961.
BF Beethoven Forum. Lincoln, NE, e Urbana-Champaign, IL, 1992-2007.
BML Lockwood Lewis, Beethoven: The Music and the Life, New York, W.W. Norton &
Company 2003.
Briefe Beethoven Ludwig van, Briefwechsel: Gesamtausgabe, a cura di Sieghard
Brandenburg, 7 voll. München, G. Henle Verlag 1996-98 (Epistolario, trad. it. Luigi
della Croce, Milano, Skira 1999).
BS Tyson Alan (a cura di) Beethoven Studies, Oxford, Oxford University Press 1974.
BS2 Tyson Alan (a cura di) Beethoven Studies, Oxford, Oxford University Press 1977.
BS3 Tyson Alan (a cura di) Beethoven Studies, Cambridge, Cambridge University Press
1982.
ESk Lockwood Lewis e Gosman Alan (a cura di), Beethoven’s “Eroica” Sketchbook: A
Critical Edition, 2 voll. Urbana, IL, University of Illinois Press 2013.
JTW Johnson Douglas, Tyson Alan e Winter Robert, The Beethoven Sketchbooks: History,
Reconstruction, Inventory, Berkeley, University of California Press 1985.
Kinsky-Halm Kinsky Georg e Halm Hans. Das Werk Beethovens: Thematisch-bibliographiaches
Verzeichnis seiner sämtlichen vollendeten Kompositionen, München, G. Henle Verlag
1955.
NI Nottebohm Gustav, Beethoveniana: Aufsätze und Mittheilungen, Leipzig, Peters
1887.
N II Nottebohm Gustav, Zweite Beethoveniana; Nachgelassene Aufsätze, Leipzig, Rieter-
Biedermann 1887.
TF Thayer Alexander Wheelock, Thayer’s Life of Beethoven, a cura di e riveduto da
Elliot Forbes. Princeton, NJ, Princeton University Press 1964.
Prefazione

Un nuovo libro sulle sinfonie di Beethoven esige una giustificazione. I lettori


potrebbero chiedersi cosa mai possa essere ancora aggiunto agli attuali livelli di
dimestichezza con queste celebri opere, che restano il nucleo fondamentale del
repertorio da concerto classico. Vivendo, come noi viviamo, nell’epoca del
fulmineo accesso a un mare di informazioni, viene spontaneo supporre che
praticamente tutto quanto c’è di importante su Beethoven sia probabilmente
accessibile al solo tocco di un dito.
Eppure ciò non è vero. Non è vero per quanto riguarda molti aspetti della
sua vita e della sua carriera, e certamente non è vero per quanto riguarda una
profonda comprensione dei suoi lavori e della sua evoluzione artistica. Questo
libro mira a fornire un’introduzione alle sinfonie di Beethoven come opere
d’arte autonome, con una particolare attenzione alle loro origini storiche,
biografiche e creative. Beethoven, più di qualsiasi altro grande compositore del
passato, ha lasciato ai posteri una messe di materiali che documentano le fasi
embrionali di quasi tutto quanto ha composto. Questo patrimonio è racchiuso
nei grossi quaderni per appunti che usava a casa e negli album tascabili, più
piccoli, che portava sempre con con sé, in particolare negli ultimi anni. Questi
fascicoli possono mostrarci il Beethoven compositore al lavoro, profondamente
occupato in ciò che aveva accettato come l’impegno di una vita: realizzare
pienamente «ciò di cui mi sentivo capace», come scrisse nel 1802 nel
Testamento di Heiligenstadt. Il fatto che sia riuscito a mantenere in gran parte
intatta questa mole di abbozzi costantemente in crescita implica che, nel corso
degli anni, abbia protetto il suo mondo creativo interiore dalle difficoltà della
vita quotidiana.
I quaderni di appunti di Beethoven furono esaminati per la prima volta nel
XIX secolo, da Gustav Nottebohm, amico di Brahms e pioniere degli studi
beethoveniani, i cui saggi e le cui monografie sono ancor oggi fondamentali.
Eppure, per molte ragioni, ben pochi sono stati pubblicati in edizioni
completamente attendibili. Questo è dovuto in parte al fatto che la grafia
musicale di Beethoven è spesso ardua da decifrare, e in parte al fatto che gli
studi beethoveniani, e più in generale la musicologia storica del XX secolo, si
sono mossi in altre direzioni. Persino oggi solo il venti per cento circa di questo
vasto materiale è disponibile in trascrizioni, e fu solo nel 1985 che, grazie a
Douglas Johnson, Alan Tyson e Robert Winter, fu pubblicato il primo
esauriente catalogo dei quaderni di appunti1.
Questo libro riflette i miei anni di studi dedicati a Beethoven, ed è
direttamente influenzato dal mio recente lavoro sul quaderno di abbozzi per
l’Eroica, frutto di sette anni di stretta collaborazione con il mio collega Alan
Gosman. Il nostro lavoro ha portato alla pubblicazione della sua prima
completa edizione critica nel 20132. Questo quaderno di appunti contiene, tra
altre cose, il grosso degli abbozzi di Beethoven per la Sinfonia Eroica e per altri
lavori di quel periodo, inclusa la Sonata “Waldstein”. Questo progetto ha
rafforzato la mia convinzione che la dimestichezza con le fonti primarie dei
capolavori d’arte resti uno strumento di vitale importanza per la loro
comprensione profonda. Questa dimestichezza consente di creare collegamenti
tra storia, biografia e analisi, e schiude un’incomparabile visione del mondo
musicale interiore da cui hanno tratto origine le opere dei grandi compositori.
Un ulteriore frutto di questi sforzi lo si potrà trovare nell’appendice di
questo libro, che offre uno sguardo sinottico di quanto conosciamo delle idee
sinfoniche allo stato nascente che Beethoven, nel corso degli anni, annotò nei
suoi quaderni di appunti. Molte di queste idee sinfoniche, anche se non tutte,
sono state recentemente esaminate in un pionieristico studio di Erica
Buurman3. Il suo lavoro, che è completamente dedicato agli abbozzi per
composizioni in più movimenti, e non a quelli per movimenti autonomi,
include anche molte idee per composizioni in altri generi, come i quartetti per
archi e le sonate per pianoforte.
La mia appendice si limita agli appunti di Beethoven per le sinfonie, ma
include anche quelli in cui Beethoven annotò idee per singoli movimenti.
Pochissimi tra gli abbozzi elencati nell’appendice riguardano opere che
Beethoven finì per completare, e tra queste è compresa - cosa notevole - la
Sinfonia Eroica. Sono incluse anche le idee preliminari per due movimenti della
Quinta Sinfonia, che Beethoven scrisse nel medesimo quaderno di appunti per
l’Eroica, molti anni prima di completare la Quinta nella sua forma definitiva.
Questi appunti sono esaminati nei miei capitoli sull’Eroica e sulla Quinta.
Particolarmente illuminante è un’intera serie di brevi spunti, ciascuno
contrassegnato come “Sinfonia” o “Sinfonie”, che Beethoven annotò mentre
pensava a possibili sinfonie che non oltrepassarono mai questo stadio
embrionale. Nel 1809, per esempio, troviamo brevi idee per sinfonie in sol
minore e in sol maggiore, e perfino un incidentale riferimento verbale a una
possibile sinfonia in la minore. Tre anni dopo, mentre scriveva la Settima e
l’Ottava, Beethoven abbozzò idee per possibili sinfonie in re minore, si bemolle
maggiore, mi minore e mi bemolle maggiore, tutte destinate a rimanere
barlumi nella sua immaginazione. Tutti questi appunti, ed altri ancora,
concorrono a giustificare l’ipotesi che per Beethoven la sinfonia fosse il
pensiero fisso di tutta la vita, al quale si rivolse a varie riprese per ragioni sia
interiori, sia occasionali. Questi scarni appunti rivelano qualcosa del ricco
terreno creativo da cui germinarono i nove grandi lavori portati a termine. La
consapevolezza di questo scenario amplia la nostra comprensione dei lavori
finiti, e dovrebbe contribuire a definire un ritratto del Beethoven pensatore
sinfonico più ampio e più esteso di quanto non abbiamo avuto finora.
In breve, questo libro può essere letto come una serie di saggi critici
storicamente informati su ciascuna delle sinfonie. In alcuni capitoli lo scenario
storico e biografico è predominante. In altri, dove la documentazione lo
consente, offro un ampio quadro del contesto compositivo. In questo libro gli
esempi musicali sono stati ridotti al minimo, ma tutti quanti possono essere
consultati sul sito web musicalexamples.com.
Questo progetto è rimasto in gestazione per molti anni, e sono lieto di poter
dare atto ad amici e colleghi, tra cui Alan Gosman, Theodore Albrecht,
Matthew Cron, Lucy Turner e Elizabeth Williamson, dell’aiuto e dei
suggerimenti ricevuti. Il mio collega Jeremy Yudkin ha gentilmente letto
l’intero manoscritto offrendomi preziosi commenti. Devo un particolare
ringraziamento a Michael Ochs, la cui amicizia, la cui abilità redazionale e i cui
suggerimenti per questo libro, come già per le mie precedenti pubblicazioni
beethoveniane, sono stati impagabili. Un analogo riconoscimento va a Maribeth
Payne, music editor presso W.W. Norton, per la sua meticolosa lettura e per
l’aiuto che ne ho ricevuto ad ogni stadio del lavoro, ed anche a Michael Fauver.
Come sempre, i più sentiti ringraziamenti vanno a mia moglie, Ava Bry
Penman, per l’incoraggiamento e la pazienza durante la stesura di questo libro.
E infine dedico questo libro alla memoria di mia madre, Madeline Wartell
Lockwood, scrittrice e poetessa, che mi ha messo tra le mani Jean Christophe di
Romain Rolland quando avevo sedici anni e che ha alimentato la fiamma del
mio amore per la musica e la letteratura. I versi che accompagnano la dedica
sono suoi.

Lewis Lockwood
Brookline, Massachusetts

1
Douglas Johnson, Alan Tyson e Robert Winter, The Beethoven Sketchbooks: History, Reconstruction,
Inventory, Berkeley, University of California Press 1985. Cfr. anche l’importante articolo di Richard
Kramer in «Journal of the American Musicological Society» XL, Brunswick, ME, 1987, pp. 36-7.
2
ESk.
3
Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement Structures in His Instrumental
Works, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013. Sono grato alla dott.ssa Buurman per avermi
inviato una copia della sua dissertazione e per il proficuo scambio di idee a proposito di questo corpus di
abbozzi.
LE SINFONIE DI BEETHOVEN
1. La casa natale di Beethoven a Bonn, ora sede della Beethoven Haus e del Museo Beethoven (Beethoven-
Haus, Bonn/Bridgeman Images)
Introduzione
“Il trionfo di quest’arte”

L’individualità e l’idea di sinfonia


Nel gennaio del 1826, poco più di un anno prima di morire, Beethoven ricevette
la visita del giovane violinista Karl Holz, un fidato membro del suo entourage
viennese. Il loro dialogo, per la parte di Holz, è registrato in uno dei quaderni di
conversazione tramite i quali, negli ultimi anni di vita, l’anziano e sordo
compositore comunicava con gli altri. Come al solito, Holz scriveva ciò che
doveva dire, e Beethoven rispondeva parlando.
Holz: Questo è quanto mi è sempre mancato nella musica strumentale di Mozart.
Beethoven:_____.
Holz: La musica strumentale, soprattutto. - Uno specifico carattere in un lavoro strumentale. Cioè: nei
suoi [di Mozart] lavori strumentali non si trova una rappresentazione [Darstellung] analoga a una
condizione dello spirito, come accade invece con i vostri.
Beethoven:_____.
Holz: Quando ascolto qualcosa mi domando sempre: che cosa rappresenta?
Beethoven:_____.
Holz: I vostri lavori hanno, sempre, un carattere davvero eccezionale.
Beethoven:_____.
Holz: Spiegherei la differenza tra i lavori strumentali di Mozart e i vostri in questo modo. Per uno dei
vostri lavori un poeta potrebbe scrivere un solo poema, mentre per uno di Mozart potrebbe scriverne
tre o quattro equivalenti.1

Indipendentemente da quali possano essere state le risposte di Beethoven, la


forza delle osservazioni di Holz rimane tanto chiara oggi quanto lo era stata
allora, dato che il profilo altamente individualizzato delle sinfonie di Beethoven
continua a imprimerle indelebilmente nella memoria di chiunque le abbia
ascoltate. Ciò è vero per i musicisti a qualunque livello, ivi inclusi quelli
storicamente orientati, che tendono a vederle nei contesti che circondavano e
influenzavano la musica dell’epoca. Ed è vero per la moderna critica culturale,
che tende a considerarle portatrici di significati poetici, programmatici e sociali.
Ed è vero per la grande maggioranza degli ascoltatori e dei frequentatori di
concerti, che godono di questi lavori dal vivo o in registrazioni e continuano a
trarne piacere, indipendentemente da quante volte li abbiano già ascoltati.
Generazioni di ascoltatori si sono rivolte alle sinfonie di Beethoven non solo
per la loro coerenza e integrità artistica, ma anche per avere accesso a
un’esperienza che solo opere d’arte di questo livello possono trasmettere.
Per il mondo in generale, dunque, per tutti coloro i quali conoscono questi
lavori ai molti livelli percettivi che possono essere condivisi da professionisti e
profani, le loro caratteristiche salienti sono la forza di espressione emozionale,
la persuasività e l’individualità. Già all’epoca di Beethoven i critici avevano
dato voce a queste valutazioni, che rimangono valide nel mondo musicale così
profondamente trasformato di oggi, nel momento in cui ci avviciniamo al 250°
anniversario della sua nascita. Prese nel loro insieme, le sue sinfonie - così
come i suoi quartetti e le sue sonate per pianoforte - mostrano le somiglianze
“di famiglia” che ci si aspetta da nove lavori dello stesso genere scritti da un
unico compositore: ma le loro peculiarità sopravanzano di gran lunga i tratti
comuni. Avrò modo di sostenere che questi lavori non sono semplicemente
concepiti come progetti individuali, ma sono stati il prodotto di una visione
artistica che si è mantenuta integra per tutta la durata della vita di Beethoven;
una visione ampliatasi dagli anni della formazione fino a sviluppare la
grandiosa ambizione di rivoluzionare il genere e rifondarlo a un nuovo livello
di significato.
Una volta giunto da Bonn a Vienna, nel tardo 1792, Beethoven si preoccupò
innanzitutto di affermarsi come pianista e compositore, scrivendo e
pubblicando le prime sonate, variazioni e composizioni da camera con
pianoforte. Nei tardi anni 1790, quando aveva pronti un quintetto per archi e i
Trii per archi op. 9, era arrivato per lui il momento di espandere il proprio
ruolo di diretto erede di Mozart e dell’ancora vivente Haydn volgendosi al
quartetto e alla sinfonia. E così nel 1800 era indaffaratissimo con i suoi primi
quartetti per archi, quelli dell’op. 18 - ed era anche già pronto a presentare la
Prima Sinfonia, un forte per quanto non rivoluzionario saggio di esordio nel
mondo, altamente competitivo, del più pubblico tra i generi. Nel corso degli
anni immediatamente successivi Beethoven procedette a trasformare la propria
idea di sinfonia, ad ampliarne il raggio di espressione e a farne il suo più ampio
veicolo di comunicazione con il pubblico del suo tempo e con la posterità.
Possiamo immaginarci Beethoven che, nel 1800, guarda dietro di sé al
grande corpus delle sinfonie di Haydn e di Mozart, almeno alcune delle quali
aveva suonato, a Bonn, come giovane violista nell’orchestra di corte. Il
repertorio di Bonn includeva lavori provenienti da tutta Europa, dalla Francia
all’Ungheria, offrendo un contatto con un ampio ventaglio di sinfonie da tutto
il continente, opera di molti compositori oggi dimenticati, ma che avevano dato
vita a un’immensa letteratura musicale ancora oggi conosciuta solo
parzialmente, perfino dagli specialisti. Per citare un recente, importante lavoro
sulle sinfonie del XVIII secolo realizzato da un gruppo di studiosi, sappiamo
dell’esistenza, nel primo periodo classico, di migliaia di composizioni di
centinaia di autori2.
Per quanto Beethoven potesse evidentemente aver conosciuto solo una
minima parte di una tale enorme quantità di musica, dobbiamo immaginare che
condividesse con i colleghi musicisti di Bonn una latente consapevolezza di
questo ampio retroterra. Doveva essersi reso conto che i suoi primi tentativi
come compositore si collocavano nell’ambito di un vasto e ben organizzato
patrimonio tradizionale, le cui formule dapprima assimilò e poi trasformò alla
luce della sua personalissima ricerca dell’originalità, che si manifestò ben
presto per svilupparsi in una determinazione che lo accompagnò per tutta la
vita.
Quando incominciò a lavorare alla sua prima sinfonia, a metà degli anni
1790, Beethoven aveva ben presenti i recenti capolavori di Haydn, le dodici
Sinfonie “Londinesi” (nn. 93-104) scritte tra il 1791 e il 1795, non poche delle
quali furono eseguite a Vienna già dal 17933. Modelli almeno altrettanto
importanti furono le ultime sinfonie di Mozart, specialmente i sei grandi lavori
degli ultimi dieci anni, dalla Sinfonia “Haffner” del 1782 passando per la Linz e
la Praga, del 1783 e 1784 rispettivamente. Ma per l’idea di sinfonia di Beethoven
fu particolarmente significativa la trilogia conclusiva – le sinfonie in mi
bemolle maggiore (K543), in sol minore (K550) e la Jupiter in do maggiore
(K551). Quando furono scritte - in sole sei settimane, nell’estate del 1788 - il
diciassettenne Beethoven era ancora a Bonn, ma era ansioso di tornare a
Vienna, dove era già stato nel 1787 nella speranza di diventare allievo di
Mozart. Studi recenti hanno dimostrato che quel viaggio del 1787 non fu una
questione di poco più di due settimane, come si era ritenuto in passato, ma ne
durò ben dieci. È dunque plausibile che in quel periodo il giovane Beethoven
possa avere incontrato Mozart4.
La sua ambizione di impadronirsi dello “spirito di Mozart”, ma anche di
trovare la sua propria voce, è scritta a chiare lettere già nei lavori giovanili,
inclusi i tre quartetti con pianoforte del 1785, basati direttamente su modelli
mozartiani5. La consapevolezza che Beethoven aveva di essere l’erede di Mozart
è già evidente nei suoi lavori, ma diventa esplicita in un passaggio in do minore
annotato su un foglio di appunti nel 1790. Dopo aver scribacchiato il passaggio
musicale, Beethoven fece questa annotazione ironica tra i righi: «Questo intero
passaggio è rubato dalla sinfonia in do minore di Mozart, dov’è l’Andante in
6/8». Beethoven poi riscrive il passaggio nella stessa pagina etichettandolo
orgogliosamente «Beethoven ipse», cioè «Beethoven stesso»6. Un’altra prova
del debito di Beethoven - la sua mente traboccante di temi mozartiani - la si
trova in abbozzi di un’epoca successiva. Nel 1803, quando si stava arrovellando
sul primo movimento della Sinfonia “Eroica”, Beethoven si ritrovò ad annotare
un tema da un concerto per pianoforte di Mozart. Questo tema, con il quale ha
inizio l’ultimo concerto di Mozart, K595, era originariamente in 6/8 e in si
bemolle maggiore, ma Beethoven lo scrisse in 3/4 e in mi bemolle maggiore,
cioè nel metro e nella tonalità del primo movimento dell’Eroica, che stava
abbozzando in quel periodo7. Non è difficile trovare, nei primi lavori, analoghe
prove del suo debito nei confronti di Mozart e Haydn. Eppure, da subito,
colpisce la sua impaziente urgenza di essere indipendente, di diventare un
grande artista, di essere «Beethoven ipse» nella sua musica e in ogni aspetto
della sua vita. In una lettera di fine ottobre o inizio novembre 1792 indirizzata a
Christian Gottlob Neefe, il suo vecchio maestro di Bonn, Beethoven scrive:
La ringrazio per tutti i consigli che mi ha prodigato perché io avanzassi nella mia arte divina. Se un
giorno diventerò un grand’uomo, sarà anche per merito Suo, ciò le farà tanto più piacere in quanto ne
può star sicuro… [interruzione].8

Il fatto che nell’arco della sua vita Beethoven si sia limitato a completare
nove sinfonie – meno di un decimo di quelle di Haydn, meno di un quarto di
quelle di Mozart – era in parte dovuto al fatto che visse in un’epoca di grandi
cambiamenti. Nei decenni precedenti scrivere sinfonie era stata, in genere,
un’attività svolta in modo regolare da compositori stipendiati da un patrono
privato in una corte locale, nella quale si tenevano concerti per il piacere e il
divertimento del patrono stesso e dei suoi amici. Per lo meno questo era stato
lo schema a Esterházy, dove Haydn aveva sfornato sinfonie per la maggior
parte della propria carriera, fino all’ultimo periodo londinese. Beethoven aveva
conosciuto questa situazione a Bonn, ma dopo il 1800 l’intero sistema del
patronato stava cambiando, dal momento che molti mecenati avevano difficoltà
a mantenere le loro compagini musicali. Ma c’era più di questo dietro le
ambizioni di Beethoven nel genere della sinfonia. Più importante, di gran
lunga, era la sua percezione di uno scopo più elevato, la sua sensazione che
ciascun lavoro, specialmente dopo la Terza, l’“Eroica”, dovesse essere una
realizzazione speciale, degna delle sue più alte aspirazioni. Come artista
indipendente aveva combattuto duramente per mantenersi con tutti i mezzi
disponibili - con i compensi pagati dagli editori per le prime edizioni della sua
musica, in un’epoca in cui il diritto d’autore non esisteva, con le dediche
personali dei suoi lavori a ricchi sostenitori, con i concerti in sottoscrizione, e,
cosa fondamentale, con il diretto sostegno finanziario di un pugno di devoti
mecenati aristocratici: dapprima il principe Karl Lichnowsky, e più tardi pochi
altri, in particolare l’arciduca Rodolfo.
Con l’ascesa del pubblico borghese, che cercava forme di intrattenimento
nei teatri d’opera e occasionalmente nei concerti sinfonici, in un’epoca in cui
tuttavia le stagioni concertistiche regolari stavano appena cominciando ad
affermarsi, le occasioni per l’esecuzione di nuove sinfonie dovevano essere
create apposta. In mancanza di sale da concerto appositamente progettate, a
Vienna non c’erano condizioni incoraggianti per la composizione e l’esecuzione
di nuove sinfonie, a dispetto di una vivace vita musicale. In effetti in quegli
anni il genere era in declino. Uno studioso ha sottolineato che «mentre la
maggior parte dei compositori evitava il genere, Beethoven scriveva sinfonie
nonostante le circostanze avverse: un gesto di sfida perfettamente in sintonia
con la mentalità artistica del compositore»9.
Un’ulteriore evoluzione del genere divenne possibile, a Vienna, solo dopo il
1815, con la sconfitta di Napoleone, il ritorno della pace in Austria dopo
decenni di guerra, e l’ascesa del concerto pubblico, pilotata da un’importante
associazione di amatori fondata da poco, la Gesellschaft der Musikfreunde. Ma
il persistente rifiuto di Beethoven di lasciare che il suo retaggio prendesse
forma attraverso circostanze contingenti è dimostrato dal fatto che otto delle
sue nove sinfonie fossero completate entro il 1812, e che solo la Nona
rimanesse un progetto proiettato in un futuro distante. Nel 1812, naturalmente,
Beethoven aveva già completato molti lavori in generi destinati ai salotti o alla
musica domestica – sonate per pianoforte, musica da camera con pianoforte,
quartetti per archi e composizioni vocali.
Nondimeno, la sua incontentabile determinazione di pervenire
all’originalità pur rimanendo nell’ambito degli schemi della più alta tradizione
del passato lo riportò più e più volte alla sinfonia, come possiamo vedere non
solo dai lavori completati, ma anche dai molti appunti per sinfonie che saltano
fuori dai suoi quaderni. La maggior parte di queste idee rimase allo stadio
embrionale e non ebbe ulteriori sviluppi: tutte quante, però, arricchiscono la
nostra conoscenza dello scenario immaginativo che fa da sfondo alle celebri
nove sinfonie.
Potremmo non essere d’accordo con l’osservazione di Holz che Mozart non
avesse creato - neppure con le eccelse composizioni degli ultimi anni - opere
d’arte così completamente individuali come una qualsiasi delle composizioni di
Beethoven. Ma ciò che Holz avvertiva, e che molti, da allora, hanno avvertito,
era che le sinfonie e altri lavori strumentali maturi di Beethoven, insieme con
Fidelio e con la Missa Solemnis, per non parlare degli ultimi quartetti,
scaturiscono dalla fonte di un sé creativo instancabile e incontentabile, vanno
in profondità nell’animo degli ascoltatori e suscitano reazioni emotive più
potenti di quanto mai avessero fatto i più finemente rifiniti lavori dei suoi
immediati predecessori. Forse è per questo che Holz disse che per ciascun
lavoro di Beethoven un ascoltatore poteva essere indotto a scrivere solo un
poema, non tre o quattro equivalenti.
Nel corso della sua carriera l’ambizione spinse costantemente Beethoven
alla ricerca di differenti modalità di espressione. Che puntasse a raggiungere i
suoi ascoltatori in modi nuovi e nella maniera il più possibile diretta è scandito
nella sua dedica del Kyrie della Missa Solemnis – «dal cuore, possa andare al
cuore». Queste parole erano, formalmente, rivolte al dedicatario, l’arciduca
Rodolfo, ma sono implicitamente destinate all’umanità intera, come dichiara
Schiller nell’ “Ode alla Gioia”: «Siate avvinti, o milioni». Una concomitante
preoccupazione è evidente in una lettera del 1819 - «[la libertà e il progresso]
sono le mete nel mondo dell’arte, come in tutto il creato»10. Il pianista-
compositore Busoni descrisse la musica di Mozart come “divina”, ma disse di
Beethoven che «per la prima volta aveva portato la dimensione umana [das
Menschliche] nella musica»11.
Altri artisti hanno percepito l’ampliata dimensione emozionale della vita di
Beethoven. Scrittori - da Balzac e Dostoevskij a Thomas Mann e altri - e artisti
figurativi - come Antoine Bourdelle, che fece del compositore un proprio
soggetto per tutta la vita - tutti quanti hanno espresso l’influsso di Beethoven
sulle loro stesse vite. Tra gli scrittori moderni troviamo, forse
sorprendentemente, Samuel Beckett, i cui lavori recano traccia della sua
rassegnazione a un mondo implacabile in cui l’individuo non può far altro che
cercare di sopravvivere. Ma, sotto la superficie, Beckett era un autentico
ammiratore di Beethoven, come sappiamo dalle sue lettere e da alcuni suoi
lavori. Colpito dai gruppi di battute di pausa che ricorrono nel primo
movimento della Settima Sinfonia, Beckett scrisse, in una lettera del 1937, che
il linguaggio è come un velo che si deve strappare per arrivare alle cose (o al nulla) che ne vengono
nascoste… C’è qualche ragione per cui quella terrificante, arbitraria materialità della superficie del
mondo non debba essere dissolta, proprio come, per esempio, la superficie sonora della Settima
Sinfonia è divorata da grandi pause nere, cosicché per pagine e pagine non possiamo percepirla che
come una vertiginosa macchia di suoni che collegano insondabili abissi di silenzio?12

Già con la Seconda Sinfonia, e poi ancor più con l’Eroica e le sinfonie
successive, Beethoven reinventò il canone sinfonico. Dopo l’Eroica ogni nuova
sinfonia proseguì questa espansione in modi nuovi. Osserviamo che nella sua
musica per orchestra Beethoven attinse alle acquisizioni cui era pervenuto in
altri settori – le sonate e le variazioni per pianoforte, la musica da camera con
pianoforte e i quartetti per archi – affinando la sua tecnica anche con le
ouverture, la musica di scena, e le grandi composizioni vocali con orchestra, tra
cui le messe, gli oratori e lavori audaci come la Fantasia Corale. Dopo il 1805
attinse anche a tutto quanto stava imparando mentre componeva e
rimaneggiava la sua opera, Leonore (poi ribattezzata Fidelio). E all’epoca in cui
scrisse il primo movimento della Nona, all’inizio degli anni Venti, poté
arricchire la scrittura sinfonica di alcune delle sottigliezze e delle complessità
che aveva sperimentato nei quartetti per archi del suo tardo periodo medio.

«Il trionfo di quest’arte»


All’inizio del XIX secolo la sinfonia cominciava ad essere considerata «il genere
più elevato della musica strumentale»13. Già nel 1803, quando l’Eroica non era
ancora stata finita, e tantomeno ascoltata, un anonimo critico scrisse che
le sinfonie sono il trionfo di quest’arte [la musica]. Nella sinfonia un artista può evocare, in piena
libertà e senza restrizioni, un intero mondo di sentimenti: l’allegria danzante e la gioia trionfante, il
dolce desiderio d’amore e il dolore più profondo, la pace gentile e il capriccio dispettoso, lo scherzo
giocoso e la grave preoccupazione sgorgano e toccano le corde più sensibili del cuore, i sentimenti,
l’immaginazione. L’intera massa degli strumenti è ai suoi ordini.14

Elogiati Mozart e Haydn per aver creato lavori sinfonici «che meritano
grande ammirazione», saluta poi in Beethoven «un neofita di quest’arte che
comunque, accostandosi ai grandi maestri, si è impadronito di questo grande
campo della musica strumentale». Poiché questo critico di Beethoven
conosceva solo la Prima e la Seconda, quanto echeggiava nelle sue parole era la
sensazione che il mondo musicale europeo fosse pronto per un compositore in
grado di soddisfare le aspettative di un’epoca nuova. Mentre il XIX secolo
iniziava, molti sentivano che Beethoven avrebbe potuto essere quel
compositore.
Per di più, il misticismo di cui i romantici tedeschi rivestivano la loro
visione del mondo aiutava a conferire alla musica - la musica strumentale,
soprattutto - il primato tra le arti in quanto mondo espressivo apparentemente
autonomo. Questa fiducia nelle alte qualità mistiche dell’espressione musicale,
adombrata da Novalis, fu prontamente avallata da una generazione di
romantici tedeschi, tra cui Tieck, Wackenroder e E.T.A. Hoffmann15.
Beethoven, per quanto la sua relazione con il romanticismo fosse soltanto
indiretta, trovò modo di introdursi in questa nuova dimensione, poiché viveva
in un’epoca in cui queste opinioni stavano rapidamente guadagnando credito.
La sua ricerca dell’espressione personale, per quanto ancora imbevuta di ideali
illuministi, si inseriva benissimo nello scenario romantico che stava emergendo
nella letteratura, nell’arte e nel dramma.
All’epoca in cui Hoffmann scrisse il suo celebre saggio critico sulla Quinta,
nel 1810, Beethoven aveva già completato le prime sei sinfonie. Come autore di
romanzi e racconti fantastici, ma anche come esperto musicista e compositore,
Hoffmann difese il «possente genio» di Beethoven dai critici conservatori che
trovavano il suo linguaggio musicale difficile da capire e le sue composizioni
emotivamente smodate. A questo proposito scrisse che la Quinta Sinfonia
«conduce imperiosamente l’ascoltatore al cuore del mondo spirituale
dell’infinito!» e che la musica strumentale di Beethoven «ci schiude il regno del
mostruoso e dell’incommensurabile»16.
Simili opinioni non erano condivise solo da musicisti e musicologi.
L’influente trattato di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione,
la cui prima parte fu pubblicata nel 1819, prima della Nona Sinfonia, ne è un
illustre esempio. Quando apparve la seconda parte, nel 1844, Mendelssohn e
Schumann erano all’inizio della carriera, il giovane Wagner era comparso sulla
scena e il romanticismo musicale tedesco aveva raggiunto il suo primo apice.
Beethoven era il compositore preferito da Schopenhauer: furono le sinfonie di
Beethoven, più di ogni altro lavoro, a forgiare le sue idee sulla musica. Nella
seconda parte del suo trattato Schopenhauer presenta la musica come la forma
d’arte che più si avvicina alla possibilità di svelare «l’intima essenza del mondo
ed esprime la più profonda sapienza in un linguaggio che non è inteso dalla […]
ragione». Poi continua:
una sinfonia di Beethoven ci mostra la più grande confusione, in fondo alla quale però sta l’ordine più
perfetto; la lotta più violenta, che nell’attimo successivo si trasforma nella più bella concordia: essa è
rerum concordia discors, immagine fedele e perfetta del mondo […] da tale sinfonia parlano tutte le
affezioni e le passioni umane: la gioia, la tristezza, l’amore, l’odio, la paura, la speranza, etc., in
sfumature infinite, ma quasi soltanto in abstracto e senza alcuna specificazione: ne è la semplice
forma, senza sostanza, come un semplice mondo di spiriti, senza materia. Certamente noi abbiamo la
tendenza, durante l’audizione, a realizzarla, a rivestirla, con la fantasia, di carne e di ossa, ed a vedervi
ogni sorta di scene della vita e della natura. Ma ciò, preso nell’insieme, non ne agevola la
comprensione, né il godimento, le dà piuttosto un’aggiunta arbitraria, estranea: perciò è meglio
comprenderla puramente e nella sua immediatezza.17

Modelli e schemi per i movimenti


Con “modelli” non mi riferisco al convenzionale schema in quattro movimenti
che Beethoven aveva ereditato dai suoi predecessori, né ai lavori sinfonici di
compositori precedenti che avevano influenzato il suo modo di dare forma ai
propri, per quanto questa influenza possa essere stata concreta. Uso questo
termine riferendomi alle riduzioni in pillole che lo stesso Beethoven faceva
delle proprie idee di base per sinfonie e singoli movimenti sinfonici, così come
le troviamo, soprattutto, nei suoi quaderni di appunti. Questi abbozzi e schemi
di movimento, qualche volta scritti con la sola notazione musicale, qualche
altra servendosi anche di parole, ci mostrano le sue idee di partenza per un
singolo movimento o per un intero lavoro, inclusi il modo in cui dovevano
iniziare e, qualche volta, anche altre caratteristiche. Questi brevi appunti sono
ricchi di implicazioni, e a volte ci trasmettono il carattere e i contrasti che
ricercava. Fissando per iscritto l’essenza di un movimento o di un lavoro in
forma abbreviata, Beethoven poteva stabilire quali dovevano esserne i tratti
fondamentali; perfino quando la sequenza dei movimenti veniva modificata in
un secondo momento, spesso rimaneva intatta almeno l’idea-base di un
movimento, che serviva poi da elemento di riferimento rispetto al quale
organizzare gli altri movimenti. Non abbiamo annotazioni di questo genere per
ciascuno dei suoi lavori, ma ne sopravvivono abbastanza per darci una buona
idea di come Beethoven procedeva nel pianificare le proprie composizioni di
ampio respiro e nel rifletterci. Sono sopravvissuti schemi di movimento di
questo tipo per sonate per pianoforte, lavori sinfonici e quartetti; in quantità
non rilevanti, almeno per quanto ne sappiamo oggi, ma neppure in misura
trascurabile.
Proprio di recente, dopo che io ebbi completato questo libro, Erica Buurman
ha dato un notevole contributo alla nostra conoscenza di questi abbozzi e
schemi di movimento in una dissertazione, al momento inedita, completata nel
201318. Il suo studio ad ampio raggio non comprende solo gli abbozzi per le
sinfonie, ma si estende anche ai lavori strumentali di Beethoven in altri generi.
Buurman include anche riferimenti a vari sintetici schemi per lavori
incompiuti, alcuni dei quali già noti alla letteratura beethoveniana, altri no.
Nell’appendice di questo libro propongo un elenco provvisorio degli abbozzi
per le sinfonie, menzionando le sue scoperte nei casi in cui le sue disamine di
questi schemi di movimento si sovrappongano alle mie. Una definitiva
pubblicazione di tutti questi modelli e schemi di movimento sarebbe
illuminante.
Per le finalità di questo libro il punto importante è che queste brevi idee per
sinfonie appaiono negli abbozzi e nei quaderni di Beethoven da prima della
Quinta Sinfonia fino alla fine della sua vita. Ne possiamo concludere che il suo
desiderio di comporre sinfonie non era un’esigenza discontinua, che si
risvegliava solo quando si affacciavano occasioni per un’esecuzione, ma che
l’idea di scriverne fu una costante di tutta la sua maturità. Ci mostrano,
insomma, che per Beethoven la sinfonia fu il pensiero fisso di tutta una vita.
Nella sinfonia e nel quartetto per archi, dal Settecento all’inizio del
Novecento – fintantoché questi generi tradizionali rimasero inalterati o
prestigiosi – il familiare schema in quattro movimenti continuò a essere la
regola. La sua forma fondamentale consiste in un primo movimento in tempo
rapido in forma-sonata che stabilisce la base per l’insieme della composizione,
un movimento lento in tonalità e metro contrastanti, un terzo movimento nella
tonalità d’impianto, derivato da antecedenti barocchi come il classico
“minuetto” - trasformato da Beethoven nel più dinamico “scherzo” - e un finale
rapido nella tonalità d’impianto, che poteva essere una forma-sonata, un rondò,
o talvolta un ibrido, il rondò-sonata. Solitamente il finale rivaleggia con il
primo movimento quanto a contenuto, e può superarlo quanto a energia, ma ha
un tono più leggero e un’espressività più semplice e diretta.
Questa tradizione rimane valida anche per Beethoven, a dispetto di alcune
deviazioni, come la ripresa del terzo movimento all’interno del finale nella
Quinta o la forma in cinque movimenti della Sesta, per giungere, nel finale della
Nona, all’introduzione delle voci. Una variabile importante è l’introduzione
lenta del primo movimento, ereditata da Haydn e da qualche lavoro di Mozart.
Beethoven la impiegò efficacemente nelle prime due sinfonie, e inizialmente
aveva progettato un’introduzione lenta per l’Eroica - quando era allo stadio
embrionale, nel 1802 - ma poi l’abbandonò quando il lavoro assunse
proporzioni più ampie. Dopo l’Eroica Beethoven tornò all’introduzione lenta
per la Quarta e la Settima, le cui sezioni introduttive ampiamente sviluppate
prefigurano aspetti della struttura e della sonorità dei primi movimenti
“Allegro” che ne scaturiscono. Queste introduzioni corredano i rispettivi lavori
di un prologo riccamente sviluppato.
La sinfonia “caratteristica”, o “a programma” era stata coltivata nel XVIII
secolo e fu ampiamente menzionata dai critici dell’epoca di Beethoven19. Due
delle sue sinfonie - l’Eroica e la Pastorale - portano titoli che le qualificano
immediatamente come appartenenti a questo sottogenere, ed entrambe furono
pubblicate con sottotitoli che caratterizzavano e modificavano ulteriormente il
modo in cui si intendeva venissero recepite. Entrambi i sottotitoli erano il
risultato di complicati ripensamenti. La frase “composta per celebrare la
memoria di un grande uomo” fu usata per la prima volta per l’Eroica - per
quanto ne sappiamo - solo quando venne pubblicata, nel 1806, due anni buoni
dopo la composizione e la revoca della dedica a Napoleone. E Beethoven arrivò
al sottotitolo per la Pastorale - “più espressione di sentimenti che pittura
sonora” - solo dopo aver provato varie formule verbali nel tentativo di
affrontare correttamente il paradosso di voler allo stesso tempo asserire e
negare l’appartenenza del lavoro alla categoria della musica descrittiva. Avrò
modo in seguito di tornare su questi punti.

Cronologia
Per quanto la cronologia delle sinfonie sia piuttosto chiara in linea generale, il
quadro si fa più complesso quando, per ciascun lavoro, si considerino
attentamente la documentazione relativa alle prime idee, l’elaborazione e
completamento, la prima esecuzione e la pubblicazione. La Prima Sinfonia fu
pubblicata da Hoffmeister a Lipsia, nel 1801, diciotto mesi dopo la prima
esecuzione, avvenuta nell’aprile 1800. Di lì in avanti sembra che Beethoven
abbia iniziato a lavorare intensamente a ciascuna sinfonia quando la
precedente era prossima alla pubblicazione o era stata appena pubblicata.
Concepì la Terza nel 1802, ma non la completò fino alla seconda metà del 1803,
mentre aspettava la pubblicazione della Seconda, che apparve nel marzo 1804.
Un arco di tempo di due anni separa il compimento della Terza, nel 1804, dalla
sua pubblicazione, nell’ottobre 1806, più o meno all’epoca in cui Beethoven
terminò il manoscritto autografo della Quarta. Come avrò modo di illustrare,
sembra che Beethoven abbia concepito le prime idee per quella che sarebbe poi
diventata la Quinta, e almeno due movimenti della Sesta, all’inizio del 1804, ben
prima di effettuare il grosso del lavoro sulla Quarta, due anni più tardi.
Conseguentemente, si direbbe che Beethoven avesse in mente un’embrionale
concezione della Quinta e della Sesta prima ancora di mettersi al lavoro sulla
Quarta. La Quinta e la Sesta, dunque, rimasero ad aspettare di essere modellate
nella loro forma definitiva nel 1807 e nel 1808. Sembra che a quell’epoca la
pubblicazione fosse una faccenda più rapida, dato che entrambe apparvero nel
1809. Nel 1811 e nel 1812 Beethoven compose in rapida successione la Settima e
l’Ottava, che però per varie ragioni non furono pubblicate che nel 1816 e nel
1817 rispettivamente. Il percorso della Nona fu più lungo e complicato.
Beethoven aveva pensato a una sinfonia in re minore già nel 1812 (in effetti il
germe di un lavoro come questo esisteva già nel 1804), ma non ne fissò idee
precise prima del 1815, quando la Settima e l’Ottava erano prossime alla
pubblicazione.
Le sinfonie di Beethoven ricadono in cinque fasi. Nella prima fase, fino alla
Prima Sinfonia inclusa, Beethoven stabilisce le proprie credenziali, avendo
rinviato la composizione di una sinfonia fino al momento in cui si fosse
presentata l’opportunità di un’esecuzione pubblica, che, all’epoca, non era così
facile da organizzare. La seconda fase va dal 1801 al 1806, e comprende la
Seconda, la Terza e le prime idee per la Quinta e, in qualche misura, per la Sesta.
Seguirono il progetto per l’opera Leonore (1804-6) e le sue due grandi ouverture
(Leonore n. 2 e n. 3), da cui fu assorbito completamente, e poi la Quarta. Per
quanto riguarda i lavori completati, è plausibile ipotizzare che la Seconda, la
Terza e la Quarta abbiano tutte quante partecipato - ovviamente in modi
differenti - della grande svolta che spesso viene attribuita esclusivamente
all’Eroica.
A partire dal 1807 e dal 1808 seguono la terza e la quarta fase. La terza
comprende la Quinta e la Sesta, che furono completate nel 1808 e che all’origine
erano così strettamente collegate che inizialmente i rispettivi numeri d’opera,
67 e 68, furono loro assegnati in ordine inverso. La quarta fase ci porta la
Settima e l’Ottava, pubblicate con i numeri d’opera consecutivi 92 e 93. Tra il
1813 e il 1819 Beethoven ebbe idee effimere per altre sinfonie, mentre il suo
intero atteggiamento cambiava e si approfondiva, ma poi non ne fece nulla. Il
lavoro su vasta scala per la Nona ebbe luogo tra il 1822 e il 1824.
Il grosso del lavoro per la Nona corrisponde alla quinta e conclusiva fase
della sua produzione sinfonica. Per quanto prendesse appunti per una possibile
Decima, lasciando una traccia che ha suscitato almeno un tentativo di
ricostruzione, le prove documentarie rendono evidente che tra il 1824, quando
terminò la Nona, e il mese di marzo del 1827, quando morì, Beethoven, pur
avendone preso in seria considerazione la possibilità, non portò a termine
alcun lavoro per orchestra, e tantomeno una nuova sinfonia. In quel periodo
era completamente assorto nel mondo degli ultimi quartetti da cui, se si fa
eccezione per qualche pezzo per pianoforte e alcuni canoni, furono del tutto
assorbite le energie creative dei suoi ultimi, pochi anni20.

1
Beethoven, Konversationshefte, a cura di K.H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G. Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1968-2001, VIII, p. 268, datata tra il 16 e il 22 gennaio 1826.
2
Per una panoramica sulla sinfonia in Europa nel XVIII secolo cfr. The Symphonic Repertoire, I, The
Eighteenth-Century Symphony, a cura di M.S. Morrow e B. Churgin, Bloomington, Indiana University
Press 2012.
3
Circa l’impatto su Beethoven delle Sinfonie “Londinesi” di Haydn negli anni 1790 cfr. Douglas
Johnson, 1794-1795: Decisive Years in Beethoven’s Early Development, in BS3, a cura di A. Tyson,
Cambridge, Cambridge University Press 1982, pp. 1-28.
4
Sappiamo che a Bonn un collezionista di nome Mastiaux, tra gli altri, collezionò sinfonie di Haydn.
Sappiamo anche che Mozart era il compositore preferito dell’elettore Max Franz, che a un certo punto
sperò di portarlo alla corte elettorale come compositore principale. Per nuovi documenti relativi al viaggio
di Beethoven a Vienna nel 1787, cfr. Dieter Haberl, Beethovens Erste Reise nach Wien - Die Datierung seiner
Schülerreise zu W. A. Mozart, «Neues Musikwissenschaftliches Jahrbuch», XIV, Augsburg, Wißner Verlag
2006, pp. 215-55.
5
Cfr. BML, p. 56 e il mio “Beethoven before 1800: The Mozart Legacy”, BF, III, 1992, pp. 39-52.
6
Cfr. BML, pp. 57-9. La relazione tra i Quartetti con pianoforte WoO 36 di Beethoven e le sonate per
violino di Mozart è risaputa. L’abbozzo del passaggio in do minore appare nel portfolio di fogli di appunti
giovanili noto come collezione “Kafka”, pubblicato a cura di Joseph Kerman, Ludwig van Beethoven:
Autograph Miscellany from circa 1786 to 1799: British Museum Additional Manuscript 29801, ff. 39-162,
London, 1970, 1, f. 88r, II, p. 228 e commento, p. 293.
7
Cfr. ESk. Più tardi, abbozzando idee per il Quartetto in do maggiore op. 59 n. 3, Beethoven avrebbe
scritto una frase di apertura inequivocabilmente simile a un famoso tema del Quintetto con clarinetto di
Mozart; cfr. N II, p. 86.
8
Briefe, n. 6, una lettera nota solo perché Neefe la pubblicò parzialmente in «Berlinische Musikalische
Zeitung», XXXIX, Berlin, 26 ottobre 1793.
9
David Wyn Jones, The Symphony in Beethoven’s Vienna, Cambridge, Cambridge University Press
2006, p. 168. Lo studio di Wyn Jones offre importanti approfondimenti sullo stato della sinfonia come
genere − così come veniva praticata nella Vienna di quegli anni non solo da Beethoven, ma anche da suoi
contemporanei come Eberl, Anton e Paul Wranistky, e Gyrowetz.
10
Lettera all’arciduca Rodolfo del 29 luglio 1819; Briefe, n. 1318.
11
Ferruccio Busoni, Von der Einheit der Musik, Verstreute Aufzeichnungen, Berlin, Hesses 1922, p. 290.
12
The Letters of Samuel Beckett 1929-1940, Cambridge, Cambridge University Press 2009, p. 514, da una
lettera del 9 luglio 1937 all’amico Axel Kaun.
13
Amadeus Wendt, Űber den Zustand der Musik in Deutschland, pubblicato per la prima volta in
«Allgemeine Musikalische Zeitung, mit besonderer Rucksicht auf den Österreichischen Kaiserstaat», VI,
1822, col. 761, cit. in Ludwig van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit, a cura di S. Kunze, Laaber,
Laaber Verlag 1987, p. 629.
14
Autore anonimo in Musikalische Taschenbuch, I, Penig, 1803, pp. 78-81. Per il testo originale cfr.
Kunze cit., p. 626 sg.
15
Per una panoramica sullo sviluppo del concetto di musica come ambito espressivo autonomo cfr.
John Neubauer, The Emancipation of Music from Language: The Departure from Mimesis in Eighteenth-
Century Aesthetics, New Haven, CT, Yale University Press 1986.
16
La recensione di Hoffmann, citata frequentemente, andrebbe letta nell’originale, che si può
facilmente trovare in Kunze cit. pp. 100-12.
17
Da A. Schopenhauer, Supplementi al III libro di Il Mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. G.
De Lorenzo, Bari, 1930, in Scritti sulla musica e sulle arti, a cura di F. Serpa, Fiesole, Discanto 1981, p. 84 e
p. 121.
18
Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement Structures in His
Instrumental Workes, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013.
19
Richard Will, The Characteristic Symphony in the Age of Haydn and Beethoven, Cambridge,
Cambridge University Press 2002.
20
Il 18 marzo 1827, solo dieci giorni prima di morire, Beethoven scrisse a Moscheles, a Londra, per
ringraziare la Philharmonic Society per la generosità dimostratagli, affermando di avere abbozzi per una
“nuova sinfonia” sullo scrittoio. Altri documenti e abbozzi sopravvissuti hanno persuaso alcuni studiosi
che Beethoven aveva tra le mani perlomeno l’idea di una Decima Sinfonia prima di morire, e Holz riferì
che in effetti la suonò per lui al pianoforte (cfr. Appendice). Nel 1988 Barry Cooper assemblò vari abbozzi
in un tentativo di “realizzazione” del primo movimento di una Decima Sinfonia, che fu incisa da MCA
Classics, MCAD-6269, insieme con la registrazione di una conferenza di Cooper. L’esito ha suscitato
controversie, dal momento che non è stato accettato da alcuni studiosi, in particolare da Robert Winter
nel suo articolo Of Realizations, Completions, Restorations, and Reconstructions: From Bach’s “The Art of
Fugue” to Beethoven’s “Tenth Symphony”, «Journal of the Royal Musical Association», CXVI, 1991, pp. 96-
126. Cooper replicò a Winter nel suo Beethoven’s Tenth Symphony, «Journal of the Royal Musical
Association», CXVII, 1992, pp. 324-29. La controreplica di Winter è pubblicata nello stesso numero, pp.
329-30.
I

La Prima Sinfonia

Sinfonia, opera e dramma a Bonn


Nel periodo intorno al 1780 la corte elettorale di Bonn vantava un’orchestra di
prima qualità e un ambizioso teatro d’opera, entrambi generosamente sostenuti
dall’elettore Max Franz fin dalla sua ascesa, nel 1784. Max Franz era un
entusiasta appassionato di musica, un devoto ammiratore di Mozart e un
autentico mecenate desideroso di mantenere a un livello altissimo le esecuzioni
musicali a Bonn. Un risultato del reclutamento di ottimi esecutori da parte di
Max Franz fu, per il giovane Beethoven, la possibilità di entrare in contatto con
strumentisti dalla levatura eccezionale, per una corte di provincia. Direttore e
primo violino dell’orchestra era Franz Anton Ries (1755-1846), da cui
Beethoven prese qualche lezione di violino1. Dal 1785 in poi Beethoven
dovrebbe aver conosciuto anche il dotato violoncellista e compositore boemo
Joseph Reicha (1752-1795), che, dopo aver prestato servizio alla corte di
Oettingen-Wallerstein nella Germania meridionale, si era trasferito a Bonn nel
1785, portando con sé il nipote Anton Reicha – che più tardi, in Francia, si
sarebbe messo in luce come eminente teorico e didatta2. Altri strumentisti ad
arco di prima classe, negli ultimi anni di Beethoven a Bonn, furono il brillante
violoncellista Bernhard Romberg e suo cugino, il violinista Andreas Romberg, i
quali, entrambi, percorsero poi ragguardevoli carriere a livello europeo. E, tra i
cornisti, c’era Nikolaus Simrock, che in seguito, a Bonn, sarebbe diventato un
importante editore di musica3. Era un ambiente cittadino vivace, nel quale gli
appassionati di musica locali potevano ascoltare composizioni recenti e nuove
di un ventaglio di compositori di tutto il continente: tra queste, erano
abbondantemente presenti i lavori per orchestra di Haydn e Mozart.
2. Beethoven, ca 1801, incisione di Johann Joseph Neidl da un disegno di Gandolph Ernst Stainhauser von
Treuberg

In questa situazione l’adolescente Beethoven, figlio e nipote di musicisti di


Bonn, si rivelava un brillante talento musicale man mano che cresceva. Oltre a
studiare intensamente come pianista e come compositore in erba, suonava la
viola in orchestra per l’opera e per le esecuzioni di musica sinfonica4. Questa
precoce esperienza di esecuzioni ad alto livello rimase certamente nella sua
memoria più tardi, a Vienna, quando – per i propri occasionali concerti in
sottoscrizione – dovette fare affidamento sui gruppi finanziati dai suoi
mecenati, oppure formarne appositamente lui stesso5.
Per quanto le dimensioni delle orchestre non fossero nemmeno
lontanamente paragonabili a quelle che avrebbero assunto in seguito, la
sinfonia si staccava nettamente dalla musica domestica, e le potenziali analogie,
come forme d’arte pubblica, tra la sinfonia, l’opera e anche il dramma recitato
erano certamente evidenti. Nei primi anni 1780, quando Beethoven faceva i
primi tentativi come compositore, il dramma, a Bonn e nei principali centri di
tutti i paesi di lingua tedesca, era in uno stato di trasformazione. Sin dall’inizio
degli anni Settanta erano andati sorgendo teatri “nazionali”, sia nella Vienna
imperiale, sia in corti principesche minori, tra cui appunto Bonn.
In quegli anni i nuovi maestri della letteratura tedesca, da Lessing in poi,
stavano raggiungendo le loro prime vette in lavori che abbandonavano gli
intrecci tradizionali in favore di rappresentazioni che mettevano in scena
individui in conflitto tra di loro e, talvolta, con l’ordine sociale costituito. I loro
lavori rimpiazzavano i ruoli che richiedevano un eloquio elevato con
personaggi quotidiani, che si esprimevano come i cittadini che li ascoltavano
dalla platea. A Bonn, tra quelli che sostenevano la nuova tendenza c’era
Christian Gottlob Neefe, che, giunto in città nel 1779, divenne organista di
corte nel 1782 e fu il più importante tra i primi maestri di Beethoven. Neefe tra
l’altro apparteneva agli Illuminati Bavaresi, un gruppo dell’ala sinistra della
massoneria che promuoveva energicamente nuove idee progressiste in politica
e in letteratura6.
Negli anni Ottanta i cittadini di Bonn potevano avvertire gli epocali
mutamenti politici e sociali che stavano esplodendo dall’altra parte del Reno, a
Parigi, e che presto sarebbero sfociati nella Rivoluzione francese. Nelle città e
negli stati tedeschi artisti e scrittori, nonostante temessero una rivoluzione
sanguinosa, erano infiammati dal subbuglio francese e dalle nuove idee
politiche da cui era alimentato, che, per loro, si intrecciavano con l’entusiasmo
per la nuova filosofia idealista di Kant. Nel dramma, il capofila era Friedrich
Schiller, i cui primi lavori avevano stupito il pubblico con la loro forza
espressiva e i loro messaggi di malcontento sociale. Si consideri questa
descrizione del suo dramma giovanile I Masnadieri, dopo la “prima” a
Mannheim nel gennaio 1782.
Il teatro sembrava un manicomio – occhi che roteavano, pugni serrati, grida roche dalla platea.
Sconosciuti cadevano l’uno nelle braccia dell’altro in lacrime, donne sull’orlo dello svenimento
barcollavano verso l’uscita. C’era una generale confusione, come nel caos da cui scaturisce una nuova
creazione.7

Più tardi, quello stesso anno, il medesimo dramma fu rappresentato a Bonn


dalla compagnia Grossman, il cui capo era la personalità più importante della
città nel campo delle produzioni d’opera e del teatro drammatico, ed era in
buoni rapporti personali con la famiglia di Beethoven8. Il direttore musicale del
gruppo teatrale di Grossman altri non era che Neefe. I poderosi drammi di
Schiller incendiarono le ambizioni della giovane generazione di artisti e
intellettuali tedeschi, e l’ammirazione che Beethoven nutrì per lui per tutta la
vita affondava le proprie radici in questo periodo e in questo contesto9.
Non può esserci dubbio che per Beethoven i fondamentali modelli musicali
fossero, in gioventù, Haydn e Mozart – Mozart, specialmente – e, negli anni
della maturità, soprattutto Bach. Ma l’immediatezza dell’impatto sugli
spettatori dei drammi di Schiller – drammi con intrecci ben congegnati,
personaggi credibili e tematiche eroiche – possono ben aver fornito a
Beethoven una più ampia immagine di quanto avrebbe potuto realizzare nella
sua futura musica per orchestra: l’abilità di spingere ampie platee a vette
emozionali che non avevano mai provato prima. Nonostante la sua
ammirazione per Goethe come massimo esponente della cultura letteraria
tedesca, Beethoven sviluppò un disagio nei confronti del suo ruolo come poeta
di corte dell’aristocrazia. Ma la sua venerazione per Schiller fu sempre forte, e
si intensificò dopo la sua morte, avvenuta nel 1805.
Beethoven sapeva a memoria molti passaggi di drammi di Schiller e li citava
in lettere e conversazioni. Quando lasciò Bonn per Vienna, nel 1792, tre
dediche nell’album di addio preparato dai suoi amici citavano Don Carlos di
Schiller, e nel 1793, nei suoi primi mesi a Vienna, Beethoven stesso annotò un
passaggio tratto dal medesimo dramma che poteva aver riecheggiato la
consapevolezza del suo stato d’animo di nuovo arrivato nella società viennese:
Il sangue caldo è il mio errore – la mia colpa è l’essere giovane. Non sono malvagio, realmente
malvagio. Anche se emozioni che sorgono selvaggiamente possono tradire il mio cuore, il mio cuore è
buono.10

In una lettera indirizzata molto tempo dopo all’arciduca Rodolfo, suo allievo
e mecenate, Beethoven si paragonò a “Sir Davison”, un personaggio di Maria
Stuarda di Schiller, ed è degno di nota il fatto che non avesse avuto bisogno di
spiegare l’allusione11. Fin dall’inizio Beethoven fu ispirato dalla stessa fede nel
potenziale progresso dell’umanità e nella libertà politica che aveva trovato in
Schiller. Già negli anni Novanta aveva progettato di mettere in musica l’“Ode
alla Gioia” di Schiller, progetto poi realizzato nel finale della Nona Sinfonia.
Testimoni degli ultimi anni di Beethoven, tra cui Franz Grillparzer e Karl Holz,
riferiscono che Beethoven «teneva Schiller nella massima considerazione» e
che «Beethoven aveva sottolineato nei poemi di Schiller tutto ciò che costituiva
la sua [stessa] professione di fede»12.

La “Prima Sinfonia”: uno sguardo generale

Se alcuni dei lavori da camera di Beethoven dei primi anni di Vienna


sembravano rivelare in una certa misura “sangue caldo” e “emozioni che
sorgono selvaggiamente”, la stessa cosa non si può dire della Prima Sinfonia. Se
mai, questo lavoro comunica l’impressione di essere un’autopresentazione nel
mondo pubblico della sinfonia estremamente abile ma calibrata con cautela, un
lavoro nel quale il giovane Beethoven sembra decisamente voler emulare
Haydn e Mozart anziché sfidare la grande tradizione, rappresentata dai due
maestri, nella quale ora debuttava formalmente. È solo nel notevole Minuetto
che il giovane compositore rompe con gli schemi tradizionali.
L’Adagio introduttivo segue i grandi modelli delle recenti Sinfonie
“Londinesi” di Haydn offrendo insolite svolte armoniche, preparando l’arrivo
dell’Allegro principale e ponendo le basi per i suoi passaggi più impressionanti.
L’Allegro stesso è brillante e vivace. I passaggi iniziali affermano la tonalità di
do maggiore con figure fortemente accentate che contrastano in modo elegante
con il successivo secondo gruppo tematico, nel quale i legni passano in primo
piano alternandosi giocosamente. Sotto la superficie ci sono schemi di
procedimenti che si è scoperto essere derivati da lavori precedenti: in
particolare lo sviluppo, del quale si è evidenziato che è modellato
strutturalmente sull’analoga sezione della Sinfonia “Jupiter” di Mozart, pure in
do maggiore13.
La scelta della tonalità per il secondo movimento – fa maggiore, la tonalità
della sottodominante – è conservatrice. Eppure riflette l’enfasi posta su questa
stessa tonalità subordinata che si era ascoltata già nella prima battuta
dell’Introduzione. Poiché nelle sinfonie in modo maggiore il tempo lento era
l’unico movimento completo che potesse fornire un contrasto tonale su ampia
scala, la scelta di Beethoven appare timida, se si pensa ai suoi primi trii e
sonate14. Solo in sette dei suoi trentuno lavori pubblicati prima di questa
sinfonia Beethoven usa la tonalità della sottodominante per il movimento lento
nell’ambito di una tonalità maggiore.
In questa sinfonia il vero elemento di novità è il Minuetto. A dispetto del
nome, è un sanguigno Scherzo: il movimento più impressionante della sinfonia,
un’esplosione di energia e di immaginazione; è l’addio di Beethoven al
minuetto sinfonico del XVIII secolo. Abbiamo l’impressione che con questo
movimento della Prima Sinfonia Beethoven sia alla scoperta della propria
“personalità-Scherzo”: il suo modo di imbrigliare l’incessante ripetizione
ritmica di brevi figure nel contesto di un inarrestabile moto in avanti. Questo
tipo di movimento era destinato a diventare il tratto caratteristico del suo
successivo stile sinfonico. Questo “Minuetto”, insomma, è in realtà il suo primo
scherzo sinfonico.
Il più importante termine di confronto per questo movimento sono i
vigorosi terzi movimenti delle Sinfonie “Londinesi” di Haydn, più che i minuetti
sinfonici di Mozart, con la loro geniale morbidezza di profilo, come quello della
Sinfonia “Jupiter”. Un confronto con la Sinfonia n. 103 di Haydn (“Col rullo di
timpani”) evidenzia già nella lunghezza delle sezioni l’ambizione che anima i
terzi movimenti di Beethoven. Haydn scrive un “Minuetto” di 48 battute in due
sezioni, ciascuna ritornellata, come di consueto; poi un Trio, lievemente più
corto, di 41 battute, dalla medesima forma binaria e con due ritornelli: infine
l’intero Minuetto “da capo” (ripetuto per intero, con o senza i ritornelli interni).
Sulla carta, lo schema di Beethoven sembra quello consueto, ma è l’intero
carattere del movimento ad essere nuovo. Il suo “Menuetto” è diviso in due
parti clamorosamente asimmetriche, con una prima sezione di sole 8 battute e
un’enorme seconda parte di ben 71 battute. Come di consueto, entrambe sono
ripetute, ma con un’immensa energia e, nella seconda parte, un trattamento dei
motivi che si avvicina all’elaborazione tematica. Il Trio è più breve e più lirico,
come avviene normalmente nel terzo movimento classico, e con la ripetizione
dell’intero Minuetto ritornano lo scatto e l’energia che contraddistinguono
questo movimento.
Se il minuetto haydniano implica un tempo moderato, in quello di
Beethoven il carattere del materiale tematico richiede un tempo rapido, cosa
confermata dall’indicazione “Allegro molto e vivace”15. Il tema basato sulla
scala e proiettato dal grave all’acuto, con le sue semifrasi ben delineate, genera
dei brevi motivi che Beethoven usa con grande efficacia nell’ampia seconda
sezione del Minuetto, che comprende notevoli passaggi modulanti cromatici in
pianissimo che, improvvisamente, sfociano nella ripresa fortissimo del primo
tema.
Il finale, sulla scia di molti finali Allegro o Presto in 2/4 di Haydn, è pieno di
spirito, vivacità e buonumore. Inizia con un tocco umoristico, abbozzando una
miniatura del procedimento di creazione del tema, che viene costruito un
pezzetto per volta, aggiungendo una nuova nota ad ogni ripetizione per
culminare infine nell’arguta formulazione completa. Questo tema di apertura è
di per sé un piccolo capolavoro di comicità – qualcosa di simile al tema del
finale del Primo Concerto per pianoforte – ed è seguito da molti passaggi vivaci.
Verso la fine del movimento appaiono nuove idee, tra cui un segmento tipo-
marcia nella Coda e l’energico crescendo che va dalla marcia al prolungato
apice fortissimo della conclusione, e può essere paragonato alla perorazione che
porta il primo movimento alla sua poderosa conclusione.

Il contesto creativo
Vorrei cominciare con alcuni degli abbozzi sinfonici che non furono completati
ma che portarono poi alla Prima Sinfonia; tra questi, alcuni ne influenzarono
direttamente la forma definitiva, nella quale fu eseguita nel 1800. Ciascuno
ebbe da Beethoven il titolo “Sinfonia”.
Es. 1. Abbozzo per una “Sinfonia” in do minore incompiuta, ca. 1788, bb. 1-6.

Fonte: collezione “Kafka”, ff. 70 r-v; Beethoven, Autograph Miscellany, p. 175 sg. e commenti, p. 291 (Hess,
p. 298).

L’abbozzo nell’Esempio 1, che risale probabilmente al 1788/89 (cfr. anche


l’Esempio Web A) comincia con un impressionante tema che Beethoven aveva
usato in uno dei suoi quartetti con pianoforte del 1785, scritto all’età di
quattordici anni. Nell’insieme si tratta di un consistente abbozzo – oltre cento
battute – per l’esposizione del primo movimento di una sinfonia in do minore,
con l’indicazione “Presto” 3/4. Il tema comincia esattamente come nel quartetto
con pianoforte ma poi, nell’abbozzo per la sinfonia, si sviluppa in modo più
coerente16. L’ampio profilo ascendente delle prime due battute passa
rapidamente ad una prosecuzione sincopata, senza soluzione di continuità, e
procede in un modo che anticipa la cupa “atmosfera do minore” di molti lavori
del primo periodo viennese di Beethoven17.
Questo abbozzo anticipa lo spirito e il profilo dell’inizio dello Scherzo della
Quinta Sinfonia e, come più tardi Beethoven stesso avrebbe annotato in un
altro foglio di appunti, mostra un’affinità con il tema iniziale della Sinfonia in
sol minore di Mozart. Se questo frammento fu abbozzato nel 1788 o nel 1789, è
possibilissimo che Beethoven conoscesse già la Sinfonia in sol minore,
composta da Mozart nell’estate del 1788. Questo capolavoro di Mozart potrebbe
facilmente aver raggiunto Bonn non appena poté essere copiato, dato che in
tutta Europa non c’era un appassionato di Mozart più entusiasta dell’elettore
Max Franz.
Es.2. Spunto per una “Sinfonia” in do maggiore, 1790, bb. 1-6.
Fonte: collezione “Kafka”, f. 88 v; Beethoven, Autograph Miscellany, vol. 2, p. 228.

L’Esempio 2 mostra un curioso e monotono abbozzo per una “Sinfonia” in do


maggiore che risale all’incirca all’ottobre 1790 e sembra essere stato concepito
come l’inizio di un primo movimento. Dopo gli incisi iniziali, con la loro
semplice ripetizione di note di volta cromatiche imperniate sulla tonica do, il
resto procede con altrettanto squadrati schemi ripetitivi di accordi ribattuti, tre
per battuta, uno schema che – con dieci anni di anticipo – presagisce il
Minuetto della Prima Sinfonia. Questo passaggio, curiosamente, compare sul
retro della stessa pagina in cui Beethoven scrisse la frase in do minore, già
menzionata, che etichettò come “rubata da Mozart”18.
Prenderò un abbozzo in mi maggiore (Esempio Web B) scegliendolo in
ordine cronologico (risale pressappoco al 1797) per poterlo esaminare
parallelamente agli abbozzi della Prima Sinfonia in do maggiore. Questa fluida,
morbida melodia in 2/4, probabilmente Andante e contrassegnata come
“Sinfonia”, è chiaramente concepita per un movimento lento, e, se fosse stata
sviluppata, avrebbe potuto facilmente stare alla pari con i migliori Andante in
2/4 del primo Beethoven19. Per quanto l’armatura di chiave indichi
esplicitamente la tonalità di mi maggiore, Beethoven scrive “in fa” in cima alla
seconda pagina, mostrando che pensava a una trasposizione20. Un movimento
lento in mi maggiore suggerisce una sinfonia in la maggiore, per quanto non
abbiamo in mano nulla a conforto di questa ipotesi. Ma la sua successiva idea di
trasporlo in fa maggiore suggerisce che questo Andante avrebbe potuto trovare
una sistemazione in una sinfonia in do maggiore, un progetto che Beethoven,
nel 1797, stava sicuramente coltivando.
Un’ampia serie di idee per una sinfonia in do minore21 (Esempio Web C),
che tenne impegnato Beethoven nel 1795 e poi ancora nel 1796, è forse da
ricollegare alla sua visita alla corte di Federico Guglielmo II, a Berlino, tra
maggio e luglio 1796. Potrebbe aver cominciato la sinfonia a Vienna nel 1795
nella speranza di vederla eseguire in un concerto sinfonico a Berlino (che non
si concretizzò), e aver continuato a elaborarla dopo aver fatto ritorno a
Vienna22.
Questi abbozzi per un’incompiuta sinfonia giovanile sono, per quanto ne
sappiamo oggi, i più ampi realizzati da Beethoven per un lavoro del suo primo
periodo, e alcuni di questi materiali, pochi anni più tardi, avrebbero trovato una
collocazione nella Prima Sinfonia. Qui Beethoven, nel momento in cui affronta
un nuovo importante lavoro, guarda indietro a propri abbozzi precedenti: una
cosa che avrebbe fatto ancora negli anni successivi, risalendo molto più
indietro nel tempo. Come è stato dimostrato da Douglas Johnson, il materiale
del 1795-96 comprende nove o dieci abbozzi per un’introduzione lenta,
includendo perfino un frammento di partitura, oltre ad abbozzi, con varie
revisioni, per l’esposizione (Allegro) del primo movimento. Beethoven tentò
anche una stesura della coda del primo movimento. Inframmezzate a questi
abbozzi troviamo brevi idee per gli altri tre movimenti della sinfonia, nessuna
delle quali venne ulteriormente elaborata, a quell’epoca23.
Ciò che di notevole si evince da questi appunti è la successiva decisione di
Beethoven di utilizzare il tema principale di questo embrionale primo
movimento Allegro come tema principale del finale della Prima Sinfonia. Per
quanto ne sappiamo attualmente, questo spostamento di un tema principale da
un primo movimento a un finale è insolito, nei procedimenti compositivi di
Beethoven. Deve aver avuto luogo intorno al 1799, quando Beethoven
sistemava definitivamente il lavoro in vista della prima esecuzione, prevista per
l’inizio del 1800: avvenimento che avrebbe segnato il suo debutto come autore
sinfonico di fronte al pubblico viennese.

Prima esecuzione e significato


Il 2 aprile 1800 il Burgtheater di Vienna ospitò un concerto in sottoscrizione
con nuove composizioni di Beethoven, frammiste a lavori di Haydn e di
Mozart. Questo concerto, che Beethoven aveva sperato di organizzare prima,
era un passaggio importante nella promozione della sua immagine presso il
pubblico. Il programma, per quanto non in tutti i dettagli, è stato conservato in
un’inserzione su un giornale viennese e in una recensione apparsa sulla
Allgemeine Musikalische Zeitung, che definì la manifestazione «il più
interessante concerto pubblico da parecchio tempo a questa parte»24.
1. Una grande sinfonia di Mozart25
2. Un’aria dalla Creazione di Haydn, cantata dalla Signorina Saal
3. Un grande concerto per pianoforte e orchestra, eseguito da Beethoven
4. Il Settimino di Beethoven, op. 20, «dedicato con la massima umiltà e devozione a Sua Maestà
l’Imperatrice»
5. Un duetto dalla Creazione cantato dal Signor e dalla Signorina Saal
6. Improvvisazione al pianoforte di Beethoven
7. Una nuova grande sinfonia di Beethoven [la Prima Sinfonia, op. 21]

Alcune implicazioni sono evidenti. Secondo le convenzioni, Beethoven


cominciava e finiva con una sinfonia, piazzando la propria alla fine. Ma la sua
scelta per il lavoro di apertura metteva la sua sinfonia in diretta competizione
con una sinfonia di Mozart anziché di Haydn, il più grande tra i vecchi maestri
viventi, all’epoca ancora in attività. È forse per rendere omaggio ai recenti
lavori di Haydn e per testimoniargli il proprio rispetto che Beethoven incluse
due numeri dalla Creazione, ancora fresca di prima esecuzione, avvenuta solo
un anno prima in quello stesso teatro. Come pianista, Beethoven in quel
concerto era a caccia di applausi sia come solista, sia come improvvisatore,
anche se ignoriamo su quale tema, o su quali temi, abbia improvvisato. E non
sappiamo con sicurezza neppure quale concerto abbia eseguito, per quanto
probabilmente si trattasse del Primo, poiché il Terzo non era ancora pronto.
Dimostrando grande accortezza nella stesura del programma, Beethoven
accostò a queste due pagine sinfoniche di grande respiro il Settimino, un pezzo
nel genere del divertimento, una pagina che sapeva avrebbe riscosso un facile
successo, e avrebbe potuto spianare la strada ad una buona accoglienza delle
sue più impegnative nuove composizioni26.
Il critico della Allgemeine Musikalische Zeitung ebbe parole dure per gli
orchestrali. Sostenne che ci furono discussioni su chi avrebbe dovuto dirigere
l’esecuzione, poiché «Beethoven riteneva di non poter affidare la direzione al
sig. Conti [il direttore principale di quell’orchestra d’opera italiana], e pensava
che nessuno avrebbe potuto dirigere meglio del sig. Wranitsky»27. Ma i
professori non volevano suonare sotto la sua direzione, e i critici riferiscono
che suonarono male: «nella seconda parte della sinfonia si fecero così
trasandati che a dispetto di ogni sforzo non fu più possibile accendere alcun
fuoco nella loro esecuzione, in particolare in quella degli strumenti a fiato»28.
Durante l’ultimo quinquennio del Settecento Beethoven era diventato
l’uomo del momento, a Vienna, sia come pianista, sia come compositore. Aveva
cominciato la pubblicazione di propri lavori con i Trii op. 1 del 1795 – i primi
trii in quattro movimenti – ai quali fecero seguito le Sonate per pianoforte op.
2, altrettanto innovative e stilisticamente estese. Beethoven si stava facendo
avanti come legittimo erede di Haydn e – alla vigilia del nuovo secolo, e nel
momento di incertezza per il futuro della musica che aveva fatto seguito alla
morte di Mozart – stava lavorando per garantirsi una futura grandezza.
Consapevole di aver bisogno di un maggiore controllo della propria tecnica, si
era sottoposto a un apprendistato con Haydn come studente di contrappunto;
poi, deluso dalla superficialità di Haydn come insegnante, si era rivolto al
maestro del contrappunto tradizionale, Johann Georg Albrechtsberger29.
Riassumendo la consapevolezza dei suoi obiettivi e la sua ansia di sentirsi al più
presto completamente libero come artista, nel 1794 Albrechtsberger aveva
annotato su un foglio di appunti che «con altri sei mesi di contrappunto sarà in
grado di fare tutto ciò che vorrà»30.
A dispetto della modesta esibizione dell’orchestra, la Prima Sinfonia
dimostrò ai critici contemporanei, che non potevano presagire il futuro,
l’abilità e la padronanza dei propri mezzi di Beethoven. Ad alcuni di loro la
Prima Sinfonia sembrò meno insolita e bizzarra dei «suoi più recenti lavori per
il fortepiano»31. Ma a molti successivi commentatori del XIX secolo, che
potevano guardare retrospettivamente e con piena consapevolezza al respiro
più ampio delle successive sinfonie di Beethoven, la Prima sembrò un esordio
timido ed eccessivamente cauto. Lo testimonia Berlioz, che lamentava che «è
musica meravigliosamente strutturata: netta, vivace […] fredda, e a tratti
perfino gretta – come nel rondò conclusivo, autentica puerilità musicale;
insomma, Beethoven non è qui»32.
Per quanto Berlioz fosse acutamente sensibile ai lavori e allo stile di
Beethoven, il suo ripudio oggi appare eccessivo. Un esame più attento della
sinfonia nel suo insieme, e specialmente del dinamico Scherzo, mostra che è
davvero un “addio al Settecento”, come l’ha definita Donald Francis Tovey.
Nonostante alcune caratteristiche regressive e rassicuranti, la Prima è
disseminata di passaggi e procedimenti che additano il Beethoven maturo33.

1
Il figlio di Franz, Ferdinand Ries (1784-1838), divenne in seguito, intorno al 1801, allievo di Beethoven,
e percorse una ragguardevole carriera come pianista e compositore. Tentò la fortuna a Parigi nel 1807-8,
fu ancora a Vienna nel 1808-9 e, dopo altre tappe, arrivò in Inghilterra, dove infine avrebbe trovato il
successo, nel 1813. I suoi ricordi di Beethoven, scritti insieme con il concittadino Franz Wegeler e
pubblicati nel 1838, rimangono un’importante fonte. I lavori per pianoforte di Ferdinand Ries, che Susan
Kagan sta ora registrando, rivelano un compositore di grande abilità.
2
Su Reicha a Oettingen-Wallerstein cfr. Sterling Murray, The Symphony in South Germany, in The
Eighteenth-Century Symphony, a cura di Mary Sue Morrow e Bathia Churgin, Bloomington, Indiana
University Press 2012, pp. 318-9, pp. 322-3 (Vol I di The Symphonic repertoire).
3
L’orchestra, che nel 1784 disponeva di 27 elementi, era più piccola di quella di Mannheim ma
considerevole per una corte di modeste dimensioni come quella di Bonn; nel 1791 il numero degli
esecutori era salito a 39. Sulle dimensioni delle orchestre nell’Europa del tardo XVIII secolo si veda Neal
Zaslaw e John Spitzer, The Birth of the Orchestra: History of an Institution, 1650-1815, New York, Oxford
University Press 2004, Appendice; per un’utile tabella relativa agli anni 1754-96, The Eighteenth-Century
Symphony cit., p. 76.
4
Per un vivace ritratto di Bonn come centro musicale negli anni della gioventù di Beethoven si veda
TF, capp. 4 e 5; su Beethoven come violista si veda TF, p. 95. Ma il ritratto più esauriente è sempre quello
di Ludwig Schiedermair, Der Junge Beethoven, Leipzig, Quelle & Meyer 1925.
5
Cfr. le mie osservazioni in BML, p. 30 sg.
6
Per un compendio della carriera di Neefe cfr. Peter Clive, Beethoven and his World, Oxford, Oxford
University Press 2001, p. 247.
7
BML, p. 36, cit. in Leslie Sharpe, Friedrich Schiller: Drama, Thought and Politics, Cambridge,
Cambridge University Press 1991, p. 29.
8
Cfr. Maynard Solomon, Beethoven and Schiller, in Robert Winter e Bruce Carr (a cura di), Beethoven,
Performers, and Critics: The International Beethoven Congress Detroit 1977, Detroit, Wayne State University
Press 1977, p. 163. Una versione riveduta di questo saggio è stata successivamente ristampata in Solomon,
Beethoven Essays, Cambridge, Harvard University Press 1988, pp. 205-15. Un importante recente
contributo sul rapporto tra Neefe e la compagnia teatrale di Grossmann è Ian Woodfield, Christian Gottlob
Neefe and the Bonn National Theatre, with New Light on the Beethoven Family, «Music and Letters», XCIII, 3,
2012, pp. 289-315.
9
Per esempio, le citazioni dai drammi di Schiller nell’album di addio per la sua partenza da Bonn nel
novembre 1792, le citazioni da Don Carlos che lui stesso scrisse in un altro album del 1793, e altri
riferimenti a drammi di Schiller – che aveva sempre ben presenti – in successive lettere, per es. quella del
1819 all’Arciduca, quando Rodolfo era stato appena consacrato arcivescovo di Olmütz (Briefe, n. 1292,
dell’inizio di marzo 1819).
10
Il destinatario della nota del 1793 era Theodora Vocke; cfr. Joseph Schmidt-Görg, “Ein Schiller-Zitat
Beethovens in Neuer Sicht”, in Musik, Edition, Interpretation, Gedenkschrift Günter Henle, München, Henle
Verlag 1980, pp. 423-26.
11
Cfr. il mio Beethoven as Sir Davison, in «Bonner Beethoven-Studien», 11, 2014, pp. 133-40.
12
Cfr. M. Solomon, Beethoven and Schiller, in Beethoven Essays cit., p. 211 e p. 347, nota 25.
13
Carl Schachter, “Mozart’s Last and Beethoven’s First: Echoes of K. 551 in the First Movement of Opus
21”, in Mozart Studies, a cura di C. Eisen, Oxford, Clarendon Press 1991, pp. 227-52.
14
Il brano più vicino all’Andante della sinfonia è il movimento lento in do maggiore, 3/8, del Quartetto
per archi op. 18 n. 4, che reca l’indicazione “Andante scherzoso, quasi allegretto”, inizia in modo analogo
con un’esposizione fugata, e ha un carattere delicato praticamente uguale a quello dell’Andante in 3/8
della Prima Sinfonia – ma il movimento del quartetto risulta complessivamente più riuscito.
15
E anche, molti anni più tardi, dalla sua indicazione metronomica del 1817: minima = 108.
16
Per l’abbozzo della sinfonia in do minore della collezione “Kafka” cfr. Joseph Kerman, Beethoven:
Autograph Miscellany from circa 1786 to 1700, London: Trustees of the British Museum, 1970, I ff. 70r-v; II,
175 sg., pubblicato già nel 1912 da Fritz Stein in SIMG, XIII, 1912, pp. 131-32. È stato brevemente
commentato da Cooper, Beethoven, Oxford, Clarendon Press 2008, p. 23 sg. e, in The Symphony in
Beethoven’s Vienna, Cambridge, Cambridge University Press 2006, p. 155 sg., da Wyn Jones, il quale
osserva che l’abbozzo «rivela la dimestichezza del compositore con il linguaggio energico e nervoso dello
Sturm und Drang».
17
Inclusi il Trio con pianoforte op. 1 n. 3, il Trio per archi op. 9 n. 3 e la Sonata per pianoforte op. 10 n.
3.
18
J. Kerman, Beethoven: Autograph Miscellany, II, p. 228 (f. 88r della miscellanea); cfr. Lockwood, BML,
p. 57 sg.
19
Sto pensando a movimenti come l’Andante cantabile del Trio in do minore op. 1 n.3, o il
corrispondente movimento del Quintetto per pianoforte e fiati op. 16, abbozzato sul verso di questo stesso
foglio.
20
Come suggerisce J. Kerman, Beethoven: Autograph Miscellany cit., II, p. 291. Kerman suppone che i
successivi abbozzi sullo stesso foglio, con l’indicazione “Zum Andante” e in fa maggiore, siano altre idee
per lo stesso movimento pensate già in fa maggiore.
21
J. Kerman cit., abbozzi per il primo movimento in ff. 71v, 56 sg., 127 sg., 158 sg.; abbozzi per il
minuetto in ff. 59r, 128v, 159r. Per la miscellanea “Fischhof” cfr. Douglas Johnson, Beethoven’s Early
Sketches in the “Fischhof” Miscellany, Berlin Autograph 28, 2 voll., Ann Arbor, UMI Research Press 1980.
22
D. Johnson cit., I, p. 466 sg.
23
Per un’estesa e illuminante disamina di questi abbozzi per una sinfonia in do maggiore cfr. D.
Johnson, Beethoven’s Early Sketches cit., 1, pp. 461-9 e per gli esempi musicali integrali 11, pp. 163-76.
24
AMZ, III (15 ottobre 1800): p. 49, tradotto in inglese in The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His German Contemporaries, a cura di W. Senner, Lincoln, NE, University of Nebraska
Press 1999, 1, p. 162 sg.
25
Howard Chandler Robbins Landon, in Haydn: Chronicle and Works, London, Thames and Hudson
1976-80, IV, p. 545, suggerisce che si trattasse della Sinfonia “Praga” K505 o della Sinfonia in sol minore
K550. Per D. Johnson, Beethoven’s Early Sketches in the “Fischhof” Miscellany cit., p. 975, si trattava della
Linz K425. Ma per quanto la questione al momento non possa essere risolta, data la mancanza di solide
prove, osservo che nella prima edizione delle sinfonie di Mozart nn. 39-41, pubblicata da André negli anni
1790, solo la n. 39 era definita “grosse Sinfonie” nell’edizione (1797) proprio come nel programma di
Beethoven, mentre alla n. 40 (pubblicata nel 1794) e alla n. 41 (1793) non era stato dato un titolo
particolare diverso da “Sinfonie”. Cfr. Köchel-Verzeichniss, K543, K550, K551 per i dettagli relativi alle
edizioni.
26
Harry Goldschmidt, Beethoven in neuen Brunsvik-Briefen, «Neues Beethoven Jahrbuch», IX, 1973-79,
p. 109, dimostra che il Settimino era già stato eseguito privatamente, nel dicembre 1799, da un ensemble
diretto da Schuppanzig. La decisione di mettere in programma il Settimino insieme con estratti da La
Creazione può aiutare a spiegare l’ ironica, quasi auto-denigratoria, osservazione sul Settimino che in
seguito Dolezalek attribuì a Beethoven: «Questa è la mia Creazione».
27
È un riferimento a Paul Wranitsky (1758-1808), compositore ceco, fratello di Anton Wranitsky (1741-
1820), musicista altrettanto illustre sulla scena viennese. Sui fratelli Wranitsky e le loro sinfonie cfr. Wyn
Jones, The Symphony in Beethoven’s Vienna cit., cap. 4.
28
Recensione in AMZ III (25 ottobre 1800).
29
Cfr. Gustav Nottebohm, Beethovens Studien, Leipzig, Rieter-Biedermann 1873. Per un illuminante
saggio sugli studi di Beethoven con Haydn, Albrechtsberger e Salieri, cfr. Julia Ronge, Beethovens Lehrzeit,
Bonn, Beethoven Haus 2011. Più di recente Ronge ha pubblicato per la prima volta in forma completa i
materiali di studio di Beethoven con i suoi maestri in Beethoven Werke, München, G. Henle Verlag 2014, s.
XIII, vol. I.
30
Cfr. N II, p. 566, e Ronge cit., p. 55 sg.
31
Cfr., per es., il commento del 1806 in Wayne M. Senner, The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His German Contemporaries, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1999, 1, p. 164.
32
Beethoven by Berlioz: a Critical Appreciation of Beethoven’s Nine Symphonies, compilato e tradotto da
Ralph De Sola, Boston, Crescendo Publishing Company 1975, p. 14; i saggi originali erano inclusi in
Berlioz, A travers chants, Paris, Michel Lévy Frères 1862.
33
Per un’ampia disamina dell’Allegro – primo movimento, cfr. il mio “Beethoven’s First Symphony: A
Farewell to the Eighteenth Century?” in Essays in Musicology: A Tribute to Alvin Johnson, a cura di L.
Lockwood e E. Roesner, Philadelphia, American Musicology Society 1990, pp. 235-46.
II

La Seconda Sinfonia

Uno sguardo generale


Se la Prima Sinfonia è un gentile addio al secolo appena finito, la Seconda è a
sua volta un vivace addio alla Prima. Questa sinfonia, con la sua ricchezza di
contenuti e la sua spiccata personalità, segna la fine della prima maturità di
Beethoven per quanto riguarda la musica per orchestra, e allo stesso tempo
indica che la sua adesione ai modelli classici si sta facendo da parte per lasciare
spazio allo stile sempre più dinamico ed espressivo del suo periodo centrale.
Nella Seconda Sinfonia i contrasti all’interno dei movimenti e tra i movimenti
sono più forti che nella Prima, e, per quanto la strumentazione sia la stessa,
l’interazione tra i colori strumentali è di gran lunga più drammatica e più
complessa, e le interruzioni e le sorprese sono assai più improvvise. Per quanto
per la Seconda Sinfonia non sia sopravvissuto alcuno schema preparatorio
scritto, ne possiamo desumere uno dal lavoro finito. Il modello fondamentale è
in linea di massima lo stesso della Prima Sinfonia: il familiare schema in quattro
movimenti con un’introduzione lenta – ma l’introduzione della Seconda
Sinfonia è almeno tre volte più lunga di quella della Prima.
3. La casa in cui nel 1802 Beethoven scrisse il Testamento di Heiligenstadt
(Museo Karlsplatz, Vienna/Bridgemann Images)

L’Adagio iniziale è un’ampia dichiarazione d’intenti musicale, i cui contrasti


– tra dinamiche contrapposte, tra blocchi di strumenti, tra fiati e archi – fanno
presagire il carattere drammatico dell’Allegro. Questa introduzione, di cui si è
ipotizzato che abbia preso a modello quella della Sinfonia “Praga”, nella stessa
tonalità, rappresenta un’ulteriore esempio del debito che Beethoven, nei suoi
primi anni, ebbe nei confronti di Mozart1. Ma se la Praga incombe in
sottofondo, lo fa mantenendosi a una certa distanza. Gli atteggiamenti decisi
dei movimenti rapidi di Beethoven hanno ormai superato la portata di quelli di
Mozart o Haydn. Questo Adagio è pieno di sottigliezze di sonorità e di armonia
che ci mostrano Beethoven avventurarsi in nuove direzioni.
Il primo movimento (Allegro) inizia con un tema teso e sbrigativo,
contraddistinto nella prima battuta dal violento contrasto ritmico di una prima
nota lunga seguita da una quartina di sedicesimi che ha la funzione di un
“levare” intensificato per la battuta successiva, che segue lo stesso schema;
completano poi la frase quattro note tutte del valore di un quarto, e anche
queste formano un’unità motivica. Il “levare” intensificato avrà vita propria più
avanti, verso la fine dell’esposizione, quando la figura di sedicesimi realizzerà
un passaggio dall’atteggiamento intenso e misterioso che in sole sei battute
passa da pianissimo a fortissimo2. L’intero movimento è pieno di contrasti
drammatici, tanto su grande quanto su piccola scala. Così il secondo tema ha
un sapore di marcia militare preannunciato da clarinetti, fagotti e corni, a cui
risponde una salva dell’intera orchestra; quindi la stessa coppia di frasi si
ripete, questa volta in un registro più acuto e con un ventaglio di sonorità
ampliato3. E un’ingegnosa integrazione si ascolta alla fine dello sviluppo,
quando il movimento armonico passa attraverso altre tonalità relative per
raggiungere l’attesa dominante che prepara l’arrivo della ripresa. Beethoven
qui usa la stessa rapida scala discendente dei primi violini che aveva utilizzato
originariamente come transizione tra l’introduzione lenta e l’inizio dell’Allegro.
Ma il passaggio più impressionante di tutti è quello, straordinario, che
troviamo nella coda, dove gli archi gravi si muovono verso l’acuto attraverso
successivi intervalli cromatici mentre nelle voci superiori si susseguono
mutevoli armonie; questo passaggio conduce, fortissimo, alla trionfale
conclusione.
Il Larghetto è una gemma purissima. È il primo movimento lento sinfonico
davvero maturo di Beethoven, all’altezza dei migliori movimenti lenti nel modo
maggiore delle sue sonate e della sua musica da camera giovanili4. È
marcatamente distante dall’intensità del primo movimento, mentre il finale
recupera ed amplia la tensione del primo movimento fino alla conclusione, che
culmina in un passaggio cadenzale che strabiliò gli osservatori contemporanei5.
A fronte di questi «bizzarri» frutti dell’immaginazione di Beethoven, il
movimento lento «non lascia nulla a desiderare» per quanto riguarda chiarezza
e bellezza melodica, come osservò un critico nel 18126. Beethoven ottiene
l’indimenticabile ricchezza di sonorità delle misure iniziali confinando la
melodia e il suo scorrevole accompagnamento al registro medio degli archi nel
loro insieme – ossia, registro grave per i violini e acuto per i violoncelli, con i
contrabbassi silenziosi fino alla cadenza conclusiva. E da cima a fondo troviamo
un alto grado di invenzione melodica, una varietà ritmica e una levigatezza di
superficie che fanno presagire molti successivi movimenti lenti di Beethoven in
metro ternario (per es. quello del Quartetto “delle Arpe” op. 74) o il migliore
Schubert.
Lo Scherzo, definito proprio così per la prima volta nelle sue sinfonie,
riprende lo slancio energico del primo movimento, ma con mezzi più semplici.
Nella prima sezione uno stretto dialogo tra archi e fiati alterna disegni a scala
di tre note forte e piano, per concludere ciascuna frase fortissimo, riecheggiando
i possenti contrasti del primo Allegro, e – nella loro variante delicata – del
Larghetto. E nella seconda sezione dello Scherzo la figura di tre note ascendenti
del tema iniziale del movimento rimbalza tra le due sezioni di violini come
sfondo a un nuovo tema dei legni, con un effetto complessivo di dissimulata
intensità che si sviluppa infine nella dinamica conclusione dello Scherzo vero e
proprio. Il Trio espande il proprio materiale in nuove aree tonali, iniziando con
i legni soli in modo più delicato che nello Scherzo che lo ha preceduto, per
continuare con ruvide repliche degli archi soli. Poi le due sezioni dell’orchestra,
fiati e archi, si uniscono per presentare ancora una volta, nelle battute
conclusive, il materiale di apertura – questa volta delicatamente, per fornire un
contrasto con la conclusione dello Scherzo.
Il finale inizia con una delle più energiche e dinamiche figure brevi di
Beethoven7:

Es. 3. Seconda Sinfonia. Tema di apertura del Finale.

Questo passaggio comincia con un frammento ascendente di due note la cui


breve prosecuzione si ferma con due vere e proprie martellate. Questo primo,
impressionante motivo lascia posto a un tema tranquillo e scorrevole che si
interrompe improvvisamente con altre due “martellate”: ora, improvvisamente,
forte. Se pensiamo che Beethoven, anziché con il selvaggio gesto iniziale forte,
avrebbe potuto iniziare questo tema con le scorrevoli figure pianissimo, la
radicale novità del suo modo di formulare efficaci contrasti locali – paragonata
al tematismo della maggior parte dei suoi predecessori – balza immediatamente
agli occhi. Questi esplosivi elementi di apertura e i temi successivi,
sontuosamente sviluppati, sono tutti necessari a Beethoven per dar vita a un
vasto finale in forma di rondò-sonata, nel quale una ripresa della prima, ampia
sezione appare all’inizio della sezione centrale del movimento8.
La coda, di gran lunga la parte più estesa del movimento, è quasi una
seconda ripresa rielaborata. Dopo che la prima parte ha esaurito il proprio
corso, l’irrefrenabile movimento giunge ad un arresto, introducendo la più
spettacolare conclusione di tutto il primo Beethoven; poi un’ulteriore fermata
ferma nuovamente il tumulto, e svariate riproposizioni dell’originale motivo di
apertura conducono alla conclusione il tumultuoso finale, e con quello l’intera
sinfonia9.

Punti di vista
La Seconda Sinfonia è spesso vista come una tappa intermedia tra gli anni
formativi di Beethoven e la sua baldanzosa irruzione in un nuovo dominio con
l’Eroica, nel 1803-4. Ora, neppure i più scrupolosi ricercatori dell’influsso di
Haydn e di Mozart potrebbero dubitare che l’Eroica abbia creato un nuovo
riferimento strutturale per il genere. Ma lo spicco dell’Eroica ha mascherato il
fatto che la Seconda Sinfonia fu percepita, ai suoi tempi – ma potrebbe esserlo
anche oggi, come un irreversibile congedo dalla tradizione. Per intensità,
energia e originalità balza oltre quelle tendenze timidamente innovative che
abbiamo rilevato nella Prima. Sembra corretto affermare che se Beethoven non
avesse mai scritto altro che le prime due sinfonie, la Seconda avrebbe marcato il
nuovo livello espressivo che influenzò notevolmente i giovani compositori che
si affacciavano sulla scena intorno al 1815 – a cominciare da Schubert, ma
anche al di là di Schubert10.
Le innovazioni della Seconda vanno di pari passo con quelle delle sonate per
pianoforte che Beethoven scrisse tra il 1799 e il 1802, dalla magistrale Sonata in
si bemolle maggiore op. 22, alla trilogia dell’op. 31, che approfondì
marcatamente il suo stile sonatistico11. In effetti è stato dimostrato che la
Seconda Sinfonia ha strette affinità strutturali con la Sonata per pianoforte op.
28, pure in re maggiore, scritta nel 1801 e pubblicata nel 180212. Entrambe
appartengono alle prime fasi della ricerca di quella che Beethoven, all’epoca,
chiamava la sua “nuova via”, mentre l’Eroica sbalza quella ricerca e la sua
intera concezione sinfonica su un livello più elevato e pone le fondamenta per
la libertà e la complessità di molti suoi lavori successivi. E, comunque, senza le
innovazioni della Seconda Sinfonia l’Eroica forse non sarebbe stata possibile.
Un altro luogo comune della critica è che la brillantezza e l’energia dei
movimenti rapidi della Seconda e la tranquilla bellezza dei suoi movimenti lenti
ci risultano sorprendenti perché non mostrano alcun indizio della crescente
preoccupazione di Beethoven per la sordità, per quanto l’avesse scritta nel
periodo in cui stava cominciando a rendersi conto della gravità della propria
condizione. Condizione che insorse precocemente, e che lo accompagnò per il
resto della vita. Sembra che la sordità si sia manifestata intorno al 1796, quando
Beethoven aveva 25 anni, per peggiorare progressivamente nei successivi
cinque o sei anni. Nell’estate del 1801 Beethoven parlò della propria sordità in
lettere indirizzate a due amici fidati, Franz Wegeler e Karl Amenda, e nel mese
di ottobre del 1802 scrisse il commovente documento passato alla storia come
Testamento di Heiligenstadt.
Come tutti i documenti storicamente significativi, il Testamento conserva
sempre intatto il proprio significato e la propria importanza, per quante volte
possa essere letto e rimeditato. È una dichiarazione personale scritta in forma
di testamento, indirizzata ai fratelli e alla posterità, che Beethoven tenne
nascosta per tutta la vita e fu scoperta solo dopo la sua morte13. A Wegeler
riferisce i preoccupanti sintomi manifestatisi nei due anni precedenti:
progressiva sordità, dolore, isolamento sociale, paura di perdere il proprio
status professionale. Abbiamo una testimonianza di uno dei suoi amici più
intimi, Stephen von Breuning, che sottolinea le difficoltà psicologiche emerse
di pari passo con la crescente preoccupazione per le conseguenze della sordità
sulla sua carriera professionale e sulle sue relazioni personali.
In una delle sue lettere a Wegeler, Beethoven scrive:
Che cosa accadrà ora, lo sa il cielo. Wering [il medico] dice che certo andrà meglio anche se non
guarirò completamente. Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza. Plutarco mi ha portato alla
rassegnazione; se altrimenti è possibile, voglio sfidare il mio destino, tuttavia vi saranno dei momenti
nella vita in cui io sarò la più infelice delle creature di Dio.14

E prima, nella medesima lettera:


Da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo.
Se esercitassi qualsiasi altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è
una condizione terribile! E i miei nemici, il cui numero non è piccolo, che cosa non direbbero?

E nel Testamento di Heiligenstadt:


Questi fatti mi portarono al limite della disperazione e poco ci mancò che non mi togliessi la vita.
Solo l’arte mi ha trattenuto dal farlo; mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di avere
pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace, così ho prolungato questa vita miserabile –
veramente miserabile, un corpo così sensibile che qualsiasi cambiamento un po’ brusco può
trasformare il mio stato di salute da ottimo a pessimo.15

La realtà della sua sofferenza e della sua ansia è fuori da ogni dubbio.
Eppure questa crisi è difficile collegarla direttamente – e meno che mai in un
rapporto causa-effetto – al suo lavoro quotidiano come compositore, al di là
dell’ovvia considerazione che una condizione così traumatica amplificava
inevitabilmente la sua consapevolezza della fragilità e della mortalità. Se mai,
rinsaldava la sua determinazione a tenere duro, a mantenere intensa la sua
produttività come mezzo per avere la meglio sul dolore e sullo sconforto.
Prendendo le misure della propria forza interiore Beethoven aggiunge, in una
seconda lettera a Wegeler, queste affermazioni visionarie: «libero da esso [il
problema della sordità] avrei voluto abbracciare il mondo» e «ogni giorno mi
avvicino di più alla meta, che sento ma non so definire»16.
È naturale credere che il contenuto emozionale di un’opera d’arte debba
riflettere quello che presumiamo essere lo stato d’animo prevalente dell’artista
al momento della sua creazione. Eppure si potrebbe sostenere in modo
altrettanto convincente che, avendo una personalità così forte come la sua,
l’urgenza creativa e la determinazione potessero facilmente condurre
Beethoven, consciamente o inconsciamente, a una dissociazione tale da
consentire risultati assai differenti. Possiamo avvertire la complessità di questo
problema non appena ci chiediamo che cosa davvero significhi “condizione
psicologica” – come se potessimo immaginare un individuo perfettamente
funzionante guidato da una condizione che si suppone stabile e ben definita,
anziché perpetuamente sballottato, giorno per giorno, da forze e pulsioni
psichiche contrastanti e contraddittorie. La questione va dritto al cuore di ciò
che noi intendiamo per “biografia”, e va da sé che molto di ciò che vorremmo
sapere è nascosto alla nostra vista. Riflettendo su quella che riteneva essere la
«vita segreta o quantomeno taciuta che scorre sotto quella che si pensa che noi
viviamo», in un’occasione il biografo e critico letterario Richard Ellmann
osservò che «gli scrittori generalmente consentono un qualche accesso alle loro
storie non dette […] ma gli orari di visita sono limitati, e parte del terreno è
recintato»17.
Quando i primi biografi di Beethoven partivano dal presupposto che i suoi
migliori lavori, quelli in cui riversava la sua anima e il suo cuore, dovessero
riflettere la sua condizione psicologica dominante, credevano, letteralmente,
nell’unità estetica di vita e lavoro. Partendo da questo presupposto, Beethoven
potrebbe essere ritratto come il prototipo dell’artista romantico sofferente, la
cui sfida alla disabilità trova diretta espressione nei suoi lavori più importanti18.
La sua sordità potrebbe essere considerata la causa centrale e perfino diretta
della creazione di un corpus di composizioni “eroiche”, e i suoi grandi lavori
rappresentare incarnazioni estetiche del suo trionfo sulle personali afflizioni –
l’eroe che ha la meglio sulle avversità. Questa era la tesi resa celebre da J.W.N.
Sullivan nel suo libro sullo “sviluppo spirituale” di Beethoven19, che propone un
diretto collegamento tra “crisi della sordità” e “stile eroico” rappresentato nel
modo più completo dalla Terza, che per l’appunto portava, letteralmente, il
titolo “Sinfonia Eroica”. Questo punto di vista, inevitabilmente, faceva sì che la
Seconda Sinfonia retrocedesse di un passo per importanza, perché si supponeva
che un artista della statura di Beethoven non potesse scrivere lavori energici e
vivaci come questo in un momento di sofferenza, e così quel lavoro fu
considerato, in un modo o nell’altro, al di sotto di un presunto standard
artistico e biografico. Perciò Sullivan aveva poco o nulla da dire a proposito
della Seconda Sinfonia. Sulla Quarta, la Sesta e l’Ottava formulò questo giudizio:
Lo stesso Beethoven non sempre raggiunge la massima profondità. Non era sempre impegnato con
i problemi più grandi e con le esperienze spirituali più significative. Lavori coma la Quarta, la Sesta e
l’Ottava Sinfonia riflettono stati d’animo che non richiedono una simile intensità di realizzazione…
Non si collocano nella linea principale dello sviluppo spirituale di Beethoven.20

Eppure un serio sguardo alla Seconda Sinfonia racconta una storia


totalmente differente. La Seconda è caratterizzata da una temperie emotiva
fortemente mutevole, sia all’interno dei movimenti, sia tra un movimento e
l’altro. Respira un nuovo spirito del tempo: usa elementi decisamente
contrastanti in maniere sorprendenti, e mostra nuovi usi dei colori strumentali,
singolarmente e in combinazione tra loro. È foriera del superiore livello
espressivo e dell’unità ciclica che divennero una normale risorsa espressiva in
molti dei successivi lavori di Beethoven. Un critico contemporaneo la trovò «di
una profondità, forza e sapienza artistica come se ne trovano raramente»,
mentre un altro l’ha vista come «un lavoro pieno di idee nuove e originali […]
che beninteso si gioverebbe dell’abbreviazione di alcuni passaggi e del
sacrificio di molte modulazioni di gran lunga troppo bizzarre»21.

Lo scenario circostante, 1800-1802


Per Beethoven, che passò i trent’anni alla fine del 1800, era questa un’epoca di
continui progressi e sperimentazioni. Oltre che su quello delle sonate per
pianoforte, stava avanzando su altri fronti. Le nuove sonate per violino op. 23 e
op. 24 (1800-1801) arricchivano il crescente corpus delle sue sonate con
accompagnamento; i Quintetti per archi op. 29 (1801) con la loro insolita
struttura armonica, affiancavano i Trii op. 9 e i Quartetti op. 18. E le due serie di
variazioni per pianoforte op. 34 e op. 35, «entrambe scritte in uno stile davvero
nuovo, e assai differenti l’una dall’altra», come Beethoven stesso le descrisse,
davano nuovo spessore al genere della variazione pianistica, una forma che gli
era familiare sin dall’infanzia22.
Il balletto Le Creature di Prometeo, andato in scena nel marzo 1801 nel teatro
del Palazzo Reale di Vienna, era notevole da un altro punto di vista. La sua
ouverture notoriamente ricorda la Prima Sinfonia non solo nell’attacco
dell’introduzione lenta, armonicamente instabile, ma anche in vari aspetti
dell’Allegro. E nel finale di Prometeo, con il suo “danzare festoso”, Beethoven
usa lo stesso materiale della Contraddanza (n. 7 della sua serie di danze da
salone del 1800-1801) e inoltre si ricollega direttamente alle Variazioni per
pianoforte op. 35 e al finale dell’Eroica. Tutti e quattro sono basati sul
medesimo tema e sul medesimo basso. Altri movimenti del balletto si
ricollegano alla Seconda Sinfonia, soprattutto la Marcia, n. 8. Il suo energico
Allegro con brio in re maggiore presagisce il primo movimento della Sinfonia, e
il disegno iniziale dei timpani soli prosegue espandendosi in un unisono
dell’orchestra, e anticipa così la coda che conclude il primo movimento. È
interessante osservare – nel suo principale quaderno del tardo 1800 e dell’inizio
del 1801, fonte principale degli appunti per la Seconda Sinfonia – che mentre
stava lavorando a Prometeo Beethoven ebbe anche una fuggevole idea per una
possibile sinfonia in do maggiore, che, anche se non condusse a nulla, è
un’ulteriore indicazione del fatto che il ventaglio delle possibili sinfonie che gli
si affollavano nella mente era davvero ampio23.
Anche la strumentazione del balletto spianava la strada alla sinfonia.
Beethoven era più libero di sperimentare nella musica per il teatro che nella
sinfonia – lo testimoniano l’uso del violoncello solo e dell’arpa, la luce e le
sfumature di effetti coloristici nell’introduzione (La Tempesta) e nel n. 10
(Pastorale). È probabile che, mentre scriveva questi passaggi, Beethoven avesse
in mente specifici esecutori dell’orchestra del Teatro Reale. Fin dalle prime note
dell’introduzione (Adagio) della Seconda Sinfonia ci troviamo in un mondo
sonoro differente, rispetto a quello della Prima, e gli esperimenti di Prometeo
mettono Beethoven in grado di controllare una nuova tavolozza di colori
orchestrali. Per quanto da qualcuno sia stato relegato nella categoria delle pièce
d’occasion leggere, Prometeo rappresenta un ponte tra la Prima e la Seconda,
anche se, inevitabilmente, non ne possiede la concentrazione di idee. Era stato
confezionato deliberatamente sulle convenzioni del teatro musicale, che non
richiedevano il tipo di trattamento sviluppativo che ci si aspettava invece in
una sinfonia, almeno fino alla rivoluzione del mondo dell’opera compiuta da
Wagner molto tempo dopo.
Un altro fattore che sembrerebbe aver determinato la novità stilistica della
Seconda è la crescente importanza della musica dei compositori della Francia
post-rivoluzionaria, in particolare Méhul, Cherubini, Gossec e Rodolphe
Kreutzer. I collegamenti tra Beethoven e il nuovo stile orchestrale e i
compositori francesi che andavano emergendo cominciarono a essere notati già
durante la sua vita in articoli scritti da Hoffmann e da altri critici24. Ma come e
fino a che punto la musica sinfonica francese influenzò direttamente
l’incipiente nuovo stile di Beethoven? Possiamo riconoscere con sicurezza
l’influsso francese su Beethoven nella sua opera e nel suo interesse per le
scuole francesi di strumento ad arco, specialmente la tradizione violinistica che
fa capo a Rodolphe Kreutzer, Pierre Baillot e Pierre Rode: Beethoven li conobbe
tutti, in diverse circostanze, tra il 1798 e il 181225. Sappiamo che Beethoven
ammirava le opere di Cherubini e Méhul, come confidò a Ries e, più tardi, a
Cipriani Potter. Per di più è evidente che la prima versione di Leonore (1804-5)
è pesantemente debitrice di Cherubini, e naturalmente il suo intreccio e la sua
dimensione etica affondano le radici negli eventi della Francia post-
rivoluzionaria. Molte opere francesi di questi anni riflettono inevitabilmente i
rivolgimenti politici del 1789 e abbracciano i temi della liberà personale e dei
diritti universali dell’uomo. Per quanto il Terrore, i rivolgimenti degli anni
Novanta e l’ascesa di Napoleone avessero scosso la fede degli osservatori
esterni negli ideali della Rivoluzione, a livello personale Beethoven, nel 1800, si
era già assai impegnato con l’idea dell’eroismo in molti modi differenti. La
Sonata per pianoforte op. 26, con la sua Marcia funebre per la morte di un Eroe
(un’anticipazione del movimento lento dell’Eroica), il balletto Prometeo, le
monumentali Variazioni e Fuga in mi bemolle maggiore per pianoforte op. 35, e
soprattutto la stessa Eroica, che Beethoven inizialmente intendeva intitolare
“Bonaparte”, finché poi non cambiò idea, sono tutte composizioni che
esemplificano questo suo impegno.
Ma per quanto riguarda eventuali corrispondenze tematiche tra la Seconda
Sinfonia e lavori strumentali di Méhul, di Gossec, e dei loro contemporanei,
qualsiasi collegamento resta da dimostrare. Per di più un esame dei programmi
da concerto tra il 1789 e il 1804 mostra che a Vienna, in quel periodo, della
musica sinfonica francese fu eseguito poco o nulla26. D’altra parte sembra
esserci un’ampia, generale correlazione tra gli stili musicali della Francia
rivoluzionaria e il nuovo, emergente stile sinfonico di Beethoven – incluso
l’impiego di massicce compagini strumentali, una certa qual autorevolezza e
magniloquenza, e perfino qualche occasionale riferimento a ritmi e strumenti
militari27. Einstein individuò addirittura uno “stile militare” per certi lavori
francesi di questo periodo, includendovi i concerti per violino di Viotti28. Le
marce, e in particolare le marce militari, accompagnarono Beethoven per tutti i
suoi primi vent’anni a Vienna – un periodo quasi ininterrotto di guerra e
invasioni, poiché l’Austria si trovò in conflitto prima col regime post-
rivoluzionario francese, e poi con Napoleone. Vienna era sede di importanti
guarnigioni militari, mentre i suoi poveri cittadini passavano anni di sofferenze
sotto il peso della guerra, dell’inflazione, delle ristrettezze economiche e
dell’instabilità sociale29.
La marcia, come genere, si adattava bene all’inesauribile interesse di
Beethoven per la composizione di pezzi autonomi di vario tipo destinati a
circostanze pubbliche occasionali, e dunque la coltivò a tutti i livelli – dagli
esempi popolari ai movimenti tipo-marcia della massima solennità – e talvolta
simultaneamente30. Ma stile generale, atmosfera e finalità estetica non sono la
stessa cosa della dipendenza tematica. La Seconda Sinfonia appartiene a quella
fase della sua crescita in cui simili influssi potevano trovare un punto di
accesso nel tessuto del suo lavoro e nella strutturazione ad ampio respiro di
una composizione in più movimenti. Gli abbozzi superstiti, comunque, non ci
danno motivo di andare alla ricerca di “reminiscenze” nel senso musicologico
convenzionale.

Lo scenario compositivo: le fasi della composizione


Per quanto riguarda la Prima Sinfonia, possediamo appunti di Beethoven con
idee preliminari per una sinfonia in do maggiore, ma non per la fase finale così
come fu sviluppata nel 1799. Per la Seconda, invece, sopravvive un’abbondante
documentazione delle prime fasi pre-compositive. Beethoven cominciò ad
abbozzare il primo movimento in qualche momento del 1800, e continuò a
svilupparlo nel 1801 e nel 180231. Sembra che si sia concentrato sul primo
movimento e sul finale prima di dedicarsi ai due movimenti interni, ma nel
quaderno cosiddetto “Kessler” abbiamo un illuminante appunto per un
movimento lento in sol maggiore scritto nel 1801-2 (si veda anche l’Esempio
Web D):
Es. 4. “Andante Sinfonia”, appunto preliminare per un movimento lento in sol maggiore per una
“Sinfonia”, 1801-2.
Fonte: quaderno “Kessler”, f. 8v.

Questo breve spunto tematico è ricco di implicazioni. Consiste di un primo


periodo di otto battute in sol maggiore, 3/8, con l’indicazione “Corni soli”,
seguito da un periodo di risposta, pure di otto battute, con l’indicazione “tutti”.
Compare tra gli abbozzi per il finale della Seconda Sinfonia, e la sua parziale
somiglianza con il bel tema iniziale del Larghetto in la maggiore di quel lavoro
suggerisce chiaramente che era stato pensato proprio per quella
composizione32. Il suono di due corni nella prima frase è inequivocabilmente
romantico, specialmente se è seguito dall’implicito “tutti” dell’orchestra nella
frase conclusiva. Ma per quanto suggerisca parzialmente l’inizio del Larghetto,
il suo profilo melodico prefigura anche un altro famoso tema beethoveniano,
ossia il secondo tema principale del movimento lento della Quinta Sinfonia.
Come vedremo, Beethoven annotò importanti idee per il primo e il terzo
movimento della Quinta in qualche momento dell’inizio del 1804, ma non si
dedicò completamente alla composizione di questa sinfonia prima del 1807.
Così si direbbe che questo delicato organismo, abbozzato, pare, all’inizio del
1802, possa essere stato il progenitore di due distinti movimenti lenti.
Già nel marzo 1802, quando la Seconda non era ancora terminata, il fratello
di Beethoven, Carl, propose la nuova sinfonia a Breitkopf & Härtel. Ma l’offerta
fu ritirata quasi immediatamente, poiché Beethoven sperava di farla eseguire in
un concerto in sottoscrizione nell’aprile del 1802. Il concerto poi non ebbe
luogo, ma se si fosse eseguito avrebbe incluso la prima esecuzione di questa
nuova sinfonia insieme con una Concertante in re maggiore per violino,
violoncello e orchestra, un Rondò in la maggiore per pianoforte e orchestra e
forse un Andante in sol maggiore per flauto, fagotto e orchestra d’archi – tutte
composizioni rimaste irrealizzate, insieme con poche altre idee per lavori tipo-
concerto33. Lasciati da parte gli altri progetti, Beethoven continuò a lavorare
alla sinfonia.
Tra novembre 1802 e marzo 1803 Beethoven trattò nuove condizioni per la
pubblicazione di questa sinfonia con la casa editrice André, ma poi ritirò il
lavoro quando Härtel gli offrì un compenso ancora più elevato. La Seconda ebbe
infine la prima esecuzione il 5 aprile 1803 in un concerto al Theater-an-der-
Wien, ma trascorse quasi un altro anno prima che venisse pubblicata (in parti
staccate, come da consuetudine) dal Bureau d’Arts et d’Industrie, a Vienna.
Nonostante la perdita della partitura autografa e di ogni altra copia recante le
sue correzioni, sembra che Beethoven abbia riveduto il lavoro dopo la prima
esecuzione e che abbia completato la partitura nella sua forma definitiva non
prima dell’inverno 1803-4, prima della sua pubblicazione nel marzo 1804. In
altre parole Beethoven diede alla Seconda Sinfonia i ritocchi conclusivi quando
era nel pieno della composizione dell’Eroica.
I superstiti abbozzi per il primo movimento ci consentono di ricostruirne la
genesi, in linea generale. Prima di tutto, l’idea di un’introduzione lenta era un
punto fermo fin dall’inizio, ma originariamente era stata pensata in 4/4, non in
metro ternario, e nella sua fase embrionale includeva una versione in tempo
lento di quello che sarebbe poi diventato il tema principale del secondo gruppo
dell’Allegro. La successione degli abbozzi per il primo movimento è una
dimostrazione da manuale del modo in cui Beethoven sviluppava
un’introduzione lenta e la conseguente esposizione dell’Allegro in stretta
connessione l’una con l’altra, spostando e cambiando le sue idee fondamentali
per entrambe le sezioni come parte di un processo più ampio.
Il primo tema dell’abbozzo dell’Allegro comincia con una triade di tonica
che, estendendosi in un arpeggio, assume una dimensione tematica, ma c’è
qualcosa di più, qui, ad attirare la nostra attenzione34. In questa forma il tema è
davvero troppo statico, in contenuto e ritmo, per risultare davvero utile per i
suoi scopi: tuttavia da questo abbozzo Beethoven ha gradualmente sviluppato
la versione finale del primo tema, mantenendone la struttura fondamentale ma
suddividendo il materiale in unità motiviche ben definite, che possono
funzionare altrettanto bene insieme e isolatamente – una tecnica, questa, che
impiegava frequentemente. Il primo tema contrasta vivacemente con il tema
principale del secondo gruppo, con la sua strumentazione per fiati, i ritmi
derivati dalla marcia, il contenuto ritmico ampliato per includere alcune
somiglianze con la coda del primo tema, e molte caratteristiche completamente
nuove. Nell’arco di quattro successivi tentativi di realizzare uno schema
complessivo per l’esposizione, Beethoven arriva a qualcosa di molto vicino alla
forma definitiva del primo movimento, nel suo profilo di massima. L’economia
del movimento e la sicurezza della trasformazione servono, perfino a questo
stadio, a realizzare le implicazioni delle unità motiviche dei due temi principali.
La fase dell’abbozzo, che si penserebbe aver comportato un laborioso travaglio,
potrebbe invece aver richiesto a Beethoven un tempo materiale limitato, una
volta definiti i materiali di base e individuato esattamente lo spirito del
movimento.
Gli abbozzi successivi non sembrano essere stati elaborati direttamente
nell’ordine definitivo dei movimenti, cosa che in seguito sarebbe stata prassi
normale per Beethoven. L’ordine che possiamo desumere da qui implica un
intenso lavoro dapprima sui movimenti 1, 3, 4; del secondo movimento
inizialmente non c’era traccia. Le fasi fondamentali della gestazione
sembrerebbero dunque essere queste:

Fase 1, dall’inverno 1800-1801 alla primavera 1802: lavoro sui movimenti 1, 3, 4.


Fase 2, dal tardo 1801 alla primavera 1802: lavoro sul movimento 2 e
conclusione dell’abbozzo del movimento 4.

Il manoscritto è andato perduto, ma da Ries abbiamo notizie sul fatto che


Beethoven stava continuando a rimaneggiare il movimento lento quando già il
lavoro aveva raggiunto, almeno presumibilmente, lo stadio finale. Ecco cosa
scrive:
C’era qualcosa di davvero notevole nel Larghetto quasi Andante della Sinfonia in Re maggiore
appena menzionata, di cui Beethoven mi aveva donato una partitura scritta di suo pugno e che
sfortunatamente mi fu rubata da un amico, con gesto davvero di limpida amicizia. Questo Larghetto è
così bello, ha una concezione così pura e felice e una condotta delle parti così spontanea che riesce
difficile pensare che possa aver subito dei cambiamenti. Il suo profilo in effetti è rimasto inalterato,
tuttavia è stata cambiata una parte molto importante dell’accompagnamento nei secondi violini in vari
punti, quasi all’inizio, e qua e là anche nelle viole. Ma le cancellature sono state fatte così
accuratamente che nonostante tutti i miei sforzi non mi è stato possibile capire quale fosse la stesura
originale. A questo proposito ho anche interrogato Beethoven, che però mi ha risposto seccamente
«Va meglio così».35

I critici contemporanei giudicarono bello il movimento lento, ma scrissero


che il finale era «eccentrico, selvaggio e stridente»36. La sua esuberanza
emotiva, il suo moto incessantemente teso, sia nel dettaglio, sia nella forma
complessiva, andavano al di là delle loro possibilità di comprensione. Eppure,
nonostante la Seconda si sia inoltrata in territori inesplorati e abbia
rappresentato senza alcun dubbio un punto di svolta nella sua carriera, i
successivi progressi del pensiero sinfonico di Beethoven avvennero su una
scala tale da relegarla al ruolo di antecedente delle successive sinfonie, più che
di pietra miliare, quale in effetti fu al suo apparire.
1
Roger Kamien, The Slow Introduction of Mozart’s Symphony No. 38 in D, K.504. (“Prague”); A Possible
Model for the Slow Introduction of Beethoven’s Symphony No. 2 in D, Op. 36, «Israel Studies in Musicology»,
V, Jerusalem, 1990, pp. 113-30.
2
Bb. 102-7.
3
Bb. 73-88.
4
Per esempio i movimenti lenti dei suoi primi due trii con pianoforte, il celebre movimento lento della
Sonata “Patetica” e, nei quartetti per archi, l’Andante dell’op. 18 n. 6.
5
Cfr. Stefan Kunze, Ludwig van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit, Laaber, Laaber Verlag
1987, p. 36. È indicativo delle reazioni del 1805 che la Prima Sinfonia fosse invece considerata dal
medesimo critico «uno dei brani preferiti dal pubblico dei concerti di oggi».
6
S. Kunze cit., p. 37, riporta una critica anonima da AMZ del 1812, col. 124.
7
L’attacco con la settima di dominante anziché con la tonica è solo la più vistosa delle sue anomalie, e
fu certamente calcolata per stupire gli ascoltatori. Nessun finale sinfonico di Haydn o di Mozart
cominciava con un gesto così sorprendente.
8
Questa è la struttura generale del finale:

9
Come ha sostenuto Kerman in uno studio sulle code di Beethoven, un principio generale nelle sue
code giovanili sembra essere la presenza di «qualche tipo di instabilità, discontinuità o rimozione del
primo tema, che nella coda viene evitato». Cfr. il suo Notes on Beethoven’s Codas, in BS3, a cura di A.
Tyson, Cambridge, Cambridge University Press 1982, p. 149.
10
Il primo frammento sinfonico di Schubert, del 1811 (D. 2b) consiste in un abbozzo per un Adagio e un
Allegro, entrambi in re maggiore, i quali entrambi mostrano il diretto influsso della Seconda di Beethoven,
così come farà, più tardi, il giustamente famoso “Grand Duo” per pianoforte a quattro mani (D. 812, 1824),
che mostra inequivocabili reminiscenze del movimento lento di questa sinfonia di Beethoven.
11
Cfr. il mio Reshaping the Genre: Beethoven’s Piano Sonatas from Op. 22 to Op. 28 (1799-1801), in «Israel
Studies in Musicology», VI, Jerusalem, 1996, pp. 1-16, che tratta le sonate fino all’op. 28 ma non le tre
sonate op. 31.
12
Cfr. Daniel Coren, Structural Relations Between Op. 28 and Op. 36, in BS2, a cura di A. Tyson, Oxford,
1977, pp. 63-83. Coren dimostra che i quattro movimenti della sonata sono collegati da affinità tematiche e
da altre caratteristiche strutturali, e che molte di queste caratteristiche appaiono anche nella Seconda
Sinfonia.
Le argomentazioni di Coren corroborano l’opinione che per Beethoven il genere della sonata per
pianoforte fosse il laboratorio dove sperimentare idee e procedimenti che avrebbero potuto essere
utilizzati anche in altri lavori, specialmente nelle sinfonie.
13
Per il testo originale del Testamento di Heiligenstadt, scritto in due parti datate 6 e 10 ottobre 1802,
cfr. Briefe, I, n. 106. Per una sensibile trattazione della sua sordità, delle lettere e di questo famoso
documento cfr. Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 1998, 2a ed., pp. 123-38 (della prima
edizione esiste la traduzione italiana di Nicoletta Polo, Venezia, Marsilio 1986, a cura di Giorgio Pestelli).
Come Brandenburg sottolinea in Briefe, I, nota 6 del n. 106, Beethoven in quel periodo soffriva anche di
problemi addominali, come sappiamo dalla sua stessa testimonianza e da quelle di osservatori a lui vicini.
14
Da Briefe, n. 65, a Wegeler, 29 giugno 1801.
15
Briefe, n. 106
16
Lettera a Wegeler del 16 novembre 1801 (Briefe, n. 70).
17
Richard Ellmann, Golden Codgers: Biographical Speculations, New York, Oxford University Press 1973,
p. IX. Cfr. il mio Reappraising Beethoven Biography, in «Yearbook of Comparative and General Literature»,
LIII, Bloomington, 2007, pp. 83-99.
18
Per una netta dichiarazione di questo credo nella biografia artistica, si vedano le osservazioni di
Frederick R. Karl, recente biografo di Joseph Conrad e Franz Kafka, nel suo contributo a The Craft of
Literary Biography, a cura di J. Meyers, New York, Schocken Books 1985, pp. 69-88. Karl scrive: «il
biografo di un soggetto letterario deve metterne in reciproca relazione vita e opera in modo profondo e
significativo. Se non può raggiungere questo scopo, la biografia, per quanto possa essere altrimenti
illuminante, fallisce» (p. 69). Non sorprendentemente i metodi applicati da Karl e altri simili biografi
mostrano di fare affidamento primariamente su letture psicologiche interconnesse di vita e opere. In un
punto successivo del medesimo saggio Karl osserva che fin da quando Freud ha trattato Leonardo «gli
psicanalisti hanno trovato difficoltà nel collegare vita e arte», e cita l’opinione di Jung secondo cui
l’artista «non è altro che il suo lavoro, e non un essere umano». Accogliendo la posizione di Jung,
piuttosto estrema per un biografo, Karl ipotizza che per Conrad «le parole sarebbero diventate la realtà
[…] e si sarebbe esposto al linguaggio e alla memoria ovunque lo avessero colto […] e proprio come
trasformava passato e memoria in creazione, Conrad stesso subiva una trasformazione da persona conscia
e attiva in un uomo che stava “ricevendo” dall’inconscio messaggi che non poteva ignorare. Recuperare
significava trasformare». (pp. 83-84). Quest’ultima formulazione è suggestiva in relazione ad artisti che,
come Beethoven, sembrano essere in grado di annullare la propria consapevolezza del dolore e dell’ansia
a un livello conscio quando si immergono nella spaventosa concentrazione del loro mondo creativo. In
quel mondo i suoi problemi, per quanto seri e onnipresenti, erano apparentemente passibili di una
soluzione, purché Beethoven lavorasse abbastanza duramente e abbastanza a lungo.
19
John William Navin Sullivan, Beethoven: His Spiritual Development, London, J. Cape 1927.
20
J.W.N. Sullivan cit., pp. 86-87.
21
Recensioni del 9 maggio 1804 e 15 agosto 1815, entrambe in AMZ, tradotte in inglese da Wayne
Senner in The Critical Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries, 1, Lincoln,
NE, University of Nebraska Press 1999, p. 196 sg.
22
La citazione è tratta da una lettera a Breitkopf & Härtel dell’ottobre 1802 nella quale Beethoven
proponeva la pubblicazione di entrambi i lavori. Su queste variazioni e sulla tradizione a cui appartengono
cfr. l’eccellente studio di Elaine Sisman, Haydn and the Classical Variation, Cambridge, MA, Harvard
University Press 1993.
23
Questa idea contrassegnata “Sinfonia” è nel quaderno “Landsberg 7”, pubblicato da Karl Lothar
Mikulicz come Ein Notierungsbuch von Beethoven, Leipzig, Breitkopf & Härtel 1927, p. 110 (sottolineato) =
100, sist. 5. Cfr. Appendice.
24
Michael Broyles, Beethoven: the Emergence and Evolution of Beethoven’s Heroic Style, New York,
Routledge 1987, pp. 119-26. Broyles fornisce un utile prospetto (p. 120 sgg.) che mostra quali lavori di
Beethoven sono stati paragonati, da autori contemporanei o posteriori, a opere di autori francesi. Non è
sorprendente che le pretese correlazioni ipotizzate da autori contemporanei di Beethoven riguardassero
Leonore, l’ouverture Coriolano, le ouverture Leonore e la musica per l’Egmont – tutti quanti lavori teatrali
su temi esplicitamente politici, eroici o tragici. I pretesi collegamenti con sinfonie di Beethoven (Prima,
Quarta, Quinta e il finale della Settima) furono tutti proposti da Arnold Schmitz nel XX secolo (Das
Romantische Beethovenbild, Berlin, F. Dummler 1927); solo uno risale al XIX secolo: il paragone fatto da
Schumann tra il primo movimento della Quinta e la Sinfonia in sol minore di Méhul (Robert Schumann,
Gli scritti critici, 2 voll. a cura di A. Cerocchi Pozzi, trad. it. G. Taglietti, Milano, Ricordi Unicopli 1991, I, p.
610. Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig, P. Reclam jun. 1889, II). Per
un’interessante sommario dei presunti influssi francesi, cfr. Solomon, Beethoven cit., p. 138. Circa i diretti
collegamenti tematici ipotizzati da Schmitz sono stati sollevati dubbi da Broyles cit., p. 121. Cfr. anche
Alexander Ringer, A French Symphonist at the Time of Beethoven: Etienne Nicolas Méhul, «The Musical
Quarterly», XXXVII, 1951, pp. 543-65.
25
Cfr. Boris Schwarz, Beethoven and the French Violin School, «The Musical Quarterly», XLIV, 1958, pp.
431-47; e anche la sua tesi di dottorato, French Instrumental Music between the Revolutions, 1789-1830,
Columbia University, 1950.
26
Cfr. Mary Sue Morrow, Concert Life in Vienna, 1780-1810, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1989,
Appendici 1-2 (Calendars of Public and Private concerts with programs).
27
Cfr. Broyles cit., p. 121 sgg.
28
Alfred Einstein, The Military Element in Beethoven, «Monthly Musical Record», LXIX, London,
novembre 1939, pp. 270-4; cit. in Broyles, p. 123.
29
Cfr. Karl Josef Mayr, Wien im Zeitalter Napoleons, Wien, Gottlieb Gistel & Cie. 1940, in particolare p.
222 sgg. sulle guarnigioni militari a Vienna. Mayr (p. 222) riferisce che il regime imperiale usava i reparti
militari per mantenere l’ordine pubblico quando la cittadinanza mostrava segni di irrequietezza e anche di
opposizione politica, come nel luglio 1805.
30
Per esempio le tre Marce per pianoforte a quattro mani op. 45 del 1803, e altre marce per pianoforte
che si trovano nel quaderno Eroica, dello stesso periodo in cui stava componendo la Marcia Funebre come
movimento lento della Terza Sinfonia. È un esempio di uso allo stesso tempo “elevato” e “popolare” di uno
stesso genere da parte di Beethoven. Le Marce op. 45 sono una specie di “versione rilassata” del genere
che Beethoven trattava mentre stava tentando di realizzare la più possente marcia funebre sinfonica mai
scritta da lui o da chiunque altro. In effetti Claude Palisca ha evidenziato in modo convincente i
collegamenti tra il movimento lento dell’Eroica ed alcuni esempi di marce funebri della Francia
rivoluzionaria, tra cui la Marche lugubre di Gossec, un pezzo frequentemente eseguito negli anni 1790 che
Beethoven potrebbe aver conosciuto quando ancora si trovava a Bonn, prima del novembre 1792. Palisca
sembra essere sulla strada giusta quando suggerisce che non è detto che Beethoven abbia attinto
direttamente a modelli francesi per il materiale tematico della propria Marcia Funebre, o per altri lavori
del genere, ma che, sensibile al corrente stile sinfonico francese, «lo abbia assimilato così profondamente
che le sue frasi e i suoi cliché caratteristici scaturivano spontaneamente». Claude Palisca, “French
Revolutionary Models for Beethoven’s Eroica Funeral March”, in Music and Context: Essays for John Ward
a cura di A.D. Shapiro, Cambridge, MA, Harvard University Department of Music 1985, pp. 198-209; il
passo citato è a p. 209.
31
Il principale quaderno di appunti per l’op. 36 è il MS Landsberg 7 della Biblioteca di Stato di Berlino.
Beethoven lo utilizzò dall’estate (o autunno) del 1800 fino all’incirca a marzo 1801. Per uno studio
preliminare di questi abbozzi per la Seconda Sinfonia si veda Kurt Westphal, Vom Einfall zur Symphonie,
Berlin, Walter de Gruyter & Co. 1965, pp. 47-75.
32
Così come ha fatto Nottebohm nel suo studio Ein Skizzenbuch von Beethoven, Leipzig, Breitkopf &
Härtel 1865, p. 11. Primitivi abbozzi per il Larghetto si trovano nella miscellanea Landsberg 12, pp. 59-63.
Sieghard Brandenburg ha sostenuto che questo abbozzo non abbia a che fare con il lavoro di Beethoven
per la Seconda Sinfonia nella sua edizione del quaderno “Kessler”, Ludwig van Beethoven, Kesslersches
Skizzenbuch, Bonn, Beethoven Haus 1978, volume dedicato alle trascrizioni, p. 32 sg.
33
Cfr. S. Brandenburg cit., I, p. 46 sg., e anche Richard Kramer, An Unfinished Concertante by Beethoven,
in BS2, a cura di A. Tyson, Oxford, 1977, pp. 33-65.
34
La disposizione in sequenza delle note della triade (1-3-1-5-1-3-1) è quasi identica alla successione
intervallare che Beethoven avrebbe poi usato per il primo tema dell’Eroica.
35
Franz Wegeler e Ferdinand Ries, Biographische Notizen über Ludwig van Beethoven, Coblenz,
Baedeker 1838, p. 77; pubblicato in inglese come Beethoven Remembered, Arlington, Great Ocean
Publishers 1987, p. 66 sg.
36
Recensione anonima in AMZ, 2 gennaio 1805, tradotta in inglese in W.M. Senner, The Critical
Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries cit., I, p. 209.
III

La Sinfonia “Eroica”

«Egli stesso lo considera il lavoro più importante che abbia scritto.


Beethoven l’ha suonata per me recentemente, e io credo che Cielo e Terra
tremeranno, quando verrà eseguita». Il 22 ottobre 1803 Ferdinand Ries, allievo
di Beethoven, scriveva così all’amico Nikolaus Simrock, editore di musica a
Bonn, aggiungendo che il compositore avrebbe voluto vendergli la sinfonia per
la bella somma di 100 gulden1. Inoltre Ries scrisse a Simrock che a Beethoven
sarebbe piaciuto dedicare il lavoro a Bonaparte, ma il suo mecenate austriaco, il
principe Joseph Lobkowitz, gli aveva offerto 400 gulden per averne l’esclusiva
per sei mesi, e se l’accordo si fosse concluso Beethoven, in omaggio a
Napoleone, avrebbe potuto intitolare la sinfonia “Bonaparte”, anziché
dedicargliela. Infine Ries disse che la casa editrice Breitkopf & Härtel aveva già
fatto un’offerta di 180 gulden per la sinfonia e la Sonata “Kreutzer” per violino e
pianoforte insieme, ma Beethoven non voleva vender loro i due lavori «perché
suo fratello [Carl] cospirava con loro».
4. Frontespizio della Sinfonia “Eroica”. Copia manoscritta dell’autografo, con annotazioni di Beethoven e
la cancellatura di suo pugno della dedica originale a Napoleone Bonaparte (Gesellschaft der
Musikfreunde, Vienna/Art Resource)

La lettera di Ries è eloquente se non altro per la descrizione di Beethoven


che suona la nuova sinfonia al pianoforte. Abbiamo anche la testimonianza
dell’esecuzione al pianoforte di una porzione dell’Eroica da parte di Beethoven,
più o meno nello stesso periodo (la tarda estate del 1803), quando il
compositore ne suonò il finale per il pittore Willibrord Joseph Mähler, e poi
«finito il pezzo, ma senza fermarsi, continuò a improvvisare liberamente per
due ore»2. La profezia di Ries, che le future esecuzioni con l’orchestra
avrebbero «scosso Cielo e Terra» si avverò ampiamente, poiché con questo
nuovo lavoro Beethoven non solo creò la sua composizione di ampio respiro
più imponente fino a quel momento, ma elevò il genere stesso della sinfonia ad
un nuovo livello di espressione e di magniloquenza.
Quando la sinfonia cominciò ad essere conosciuta attraverso le prime
esecuzioni, la sua ampiezza e la sua grandiosità furono evidenti ai
contemporanei di Beethoven, e qualcuno la trovò sconcertante. E quando la sua
notorietà si diffuse più ampiamente (dopo la prima esecuzione nel 1805 e la
prima pubblicazione nel 1806), a nessuno sfuggì il suo particolare significato.
Nel campo della musica strumentale quest’opera lanciò lo “stile eroico” di
Beethoven, un concetto che divenne radicato nella biografia e nella critica
successive, e a molti beethoveniani servì per intrecciare queste due dimensioni,
la vita e il lavoro. Il suo status particolare resta fondamentale nelle moderne
disamine della carriera artistica di Beethoven, a dispetto delle inevitabili
riconsiderazioni.
Quasi duecento anno dopo la lettera di Ries, Scott Burnham ha scritto che
l’Eroica giunse ad essere considerata «il lavoro [grazie al quale] si dice che
Beethoven, da solo, abbia liberato la musica dalle pastoie delle convenzioni
settecentesche, e, dandole una voce trascendente, l’abbia d’un colpo elevata al
livello dei valori più cari all’uomo occidentale». Scott Burnham argomenta che
l’ampliamento del modello sinfonico di Beethoven abbraccia tutti e quattro i
movimenti, per quanto la maggior parte dei commenti sulla mitica forza del
lavoro si concentrino sul primo, che «con un sol gesto ha cambiato i destini
della forma-sonata – la struttura formante dello stile classico, per non parlare
di quelli della sinfonia come genere»3.
La storia dell’originario progetto di Beethoven di dedicare la sinfonia a
Napoleone, o di intitolargliela, e la sua rabbiosa decisione di stracciare la dedica
alla notizia della sua incoronazione come Imperatore, non è un mito. È stata
documentata da Ries in un resoconto posteriore pubblicato nel 1838, ed è stata
riferita anche da Anton Schindler nella sua biografia del 1840. Ed è anche
vistosamente illustrata dal frontespizio della famosa copia manoscritta
sopravvissuta della partitura (si veda l’immagine all’inizio di questo capitolo),
senza dubbio la stessa descritta da Ries in questo famoso passaggio:
In questa sinfonia Beethoven aveva in mente il Buonaparte di quando ricopriva la carica di Primo
Console. A quell’epoca Beethoven lo ammirava moltissimo, e lo paragonava ai più illustri consoli
romani. Io e molti altri suoi stretti amici abbiamo visto questa sinfonia, già ricopiata in partitura,
appoggiata sul suo tavolo: il frontespizio recava scritto in alto la parola “Buonaparte”, e in basso “Luigi
van Beethoven”, senza altre parole. Ignoro se e con che cosa intendesse riempire lo spazio intermedio.
Fui io il primo a riferirgli la notizia che Buonaparte si era autoproclamato Imperatore, al che
Beethoven andò su tutte le furie e si mise a urlare: «Anche lui, dunque, non è altro che un uomo
ordinario! Adesso calpesterà tutti i diritti umani e soddisferà solo la sua ambizione. Si ergerà al di
sopra degli altri e diventerà un tiranno!» Beethoven andò al suo tavolo, afferrò il frontespizio in cima,
lo strappò in due e lo gettò sul pavimento. La prima pagina fu riscritta e solo allora la sinfonia
ricevette il titolo Sinfonia Eroica.4

Nonostante sia diventato un punto fermo nella biografia di Beethoven,


questo racconto rimane in una certa misura ambiguo, poiché possiamo seguire
i cambiamenti di idea di Beethoven circa il titolo solo fino a un certo punto.
Non c’è dubbio che durante gli anni Novanta, quando Napoleone, come
generale dell’esercito francese, combatteva battaglie vittoriose in Italia
elettrizzando l’intera Europa, Beethoven vedeva in lui l’eroe in ascesa della
Francia post-rivoluzionaria. La sua ammirazione non venne meno man mano
che Napoleone accumulava un potere sempre maggiore come Primo Console
(1799-1804), anche se in effetti vediamo Beethoven esprimere qualche dubbio
personale nel 1802, quando Napoleone firma il Concordato con il papa per
poter reprimere i moti controrivoluzionari realisti in Francia5.
Il disincanto di Beethoven dovette crescere sensibilmente nel maggio 1804,
quando il senato francese attribuì a Napoleone il titolo ereditario di Imperatore,
con ciò vanificando ogni residua speranza che il suo regime potesse mantenere
in vita qualche traccia dei vecchi ideali della Francia rivoluzionaria. Eppure il
26 agosto di quell’anno Beethoven diceva al suo editore che «il titolo della
sinfonia è davvero “Bonaparte”»6. È vero che sulla famosa copia della partitura
col frontespizio strappato le parole “intitolata Bonaparte” furono cancellate con
tanta violenza da bucare il foglio. Ma è vero anche che al fondo della medesima
pagina Beethoven scrisse a matita “geschrieben auf Bonaparte” (scritta su
Bonaparte) come se stesse ancora considerando la possibilità di lasciare il nome
sul lavoro, nonostante tutto. Dopo il mese di agosto 1804 non abbiamo più
prove documentarie, e possiamo soltanto presumere che l’incoronazione
formale di Napoleone come Imperatore, il 2 dicembre, debba aver posto fine a
ogni intenzione di dedicargli il lavoro, e, a maggior ragione, di intitolarglielo.
La sinfonia fu pubblicata a Vienna nel mese di ottobre 1806, più di due anni
dopo la lettera di Beethoven dell’agosto 1804 e diciotto mesi dopo la prima
esecuzione nel 1805. Sul frontespizio, dopo “Sinfonia eroica” appaiono [in
italiano] le parole “composta per festeggiare il sovvenire di un grand Uomo”.
Rimane inevitabilmente aperta la questione se questo sottotitolo possa essere
ricollegabile, tra le righe, al Napoleone di prima dell’incoronazione, o se invece
non sia riferita a un altro “grande uomo” che potrebbe aver colpito
l’immaginazione di Beethoven (tra gli ipotetici candidati c’è il principe Luigi
Ferdinando di Prussia, che fu ucciso in battaglia nel 1806). Un’altra ipotesi – a
mio avviso più plausibile – è che nel 1806, con il lavoro in procinto di essere
diffuso nel mondo attraverso la pubblicazione, Beethoven intendesse riferire
titolo e sottotitolo non a un singolo individuo, ma in senso più ampio a
un’ideale, mitica figura il cui eroismo è rappresentato dalla forza e dal peso di
questa sinfonia, e la cui morte è commemorata dalla Marcia Funebre utilizzata
come secondo movimento.
Il regno dell’intelletto
È bene considerare la dedica nel contesto dell’idea beethoveniana di grandezza
e umana fallibilità. La consapevolezza di Beethoven del proprio potenziale
artistico si era fatta strada ben presto e rimase ben salda, corroborata non solo
dalla sua ascesa alla fama europea ma anche dalla sua utopistica fede nella
capacità dell’arte di cambiare i destini del mondo, una convinzione che gli
artisti, a quell’epoca, potevano ancora nutrire. Col passare degli anni questa
fede si consolidò, ma era già viva nella sua prima maturità, quando scriveva per
un pubblico ancora circoscritto, e rimase forte nel periodo centrale della sua
attività, quando i suoi contemporanei erano solo una parte del pubblico ideale
per il quale componeva. Negli ultimi anni divenne una convinzione ossessiva,
nonostante il fatto che i suoi lavori più reconditi, gli ultimi quartetti, fossero
poco compresi durante la sua vita e sembrassero destinati ad essere accettati
solo in un lontano futuro, come in effetti avvenne.
Per tutta la vita Beethoven trovò quasi impossibile destreggiarsi
efficacemente con le necessità pratiche, oppresso com’era dal continuo bisogno
di soldi, dagli incessanti problemi con editori e contratti, dalla mancanza di un
impiego stabile, dal rapporto vissuto in modo scontroso con i mecenati, e
soprattutto dal suo crescente isolamento, determinato dalla sordità e
complicato dal suo pessimo carattere. Ma Beethoven attraversò i suoi periodi di
difficoltà personali mantenendo vivo un idealistico orgoglio per ciò che era e
per ciò che era in grado di creare, ostentando non solo l’eroismo della
conquista, ma anche l’eroismo della sopportazione, la cui idea fu personificata
in Florestano imprigionato – l’eroe sofferente della sua unica opera lirica7.
Nel 1801 vagheggiava un utopistico “negozio dell’arte” [Magasin der Kunst]
dove «l’artista dovesse soltanto consegnare i suoi capolavori per prendersi
quello di cui ha bisogno, così invece occorre essere per metà commercianti e
come ci si raccapezzi, Dio mio, questo la chiamo ancora una volta disgustoso»8.
Nella tarda maturità tornò a paragonare artisti e aristocratici, monarchi
inclusi. Nel 1814, quando teste coronate e diplomatici di tutta Europa si
riunirono nel Congresso di Vienna per pianificare il futuro dell’Europa dopo la
detronizzazione di Napoleone, Beethoven scrisse a Johann Nepomuk Kanka,
avvocato e musicista viennese:
[…] come Lei ben sa, lo spirito creativo non deve essere condizionato dalle misere necessità e questa
storia mi priva pure di molte altre cose che contribuiscono a una vita felice, ho dovuto e devo ancora
adesso porre dei limiti alla mia inclinazione, anzi, al dovere che io stesso mi ero imposto, di operare
con la mia arte a favore dell’umanità bisognosa – Non le scriverò niente dei nostri monarchi,
monarchia ecc. perché può leggere tutto ciò sui giornali – Il regno dell’intelletto è quello che
preferisco e pongo più in alto di tutte le monarchie spirituali e terrene.9

E nelle sue lettere all’arciduca Rodolfo Beethoven ricorda più e più volte al
principe reale chi è il maestro, e chi l’allievo. Rodolfo, fratello minore
dell’imperatore d’Austria regnante, era un dotato pianista e compositore che,
riconoscendo il magistero di Beethoven, aveva accettato il proprio ruolo di
musicista apprendista, e allo stesso tempo gli forniva supporto economico10.
Lo stesso tema – il contrasto tra ideali artistici e concrete necessità – è un
pensiero che negli ultimi anni accompagna costantemente Beethoven. Lo
testimonia questa lettera al principe Galitzin, che aveva commissionato i primi
tre dei suoi ultimi quartetti:
[…] creda che il mio desiderio più vivo sarebbe che la mia arte incontrasse il favore delle persone più
nobili e più colte, ma purtroppo dall’altezza sovrumana dell’arte si viene tirati giù anche troppo
bruscamente nel bel mezzo degli elementi terreni e umani.11

Cresciuto nell’epoca in cui erano nell’aria gli ideali kantiani, Beethoven


mantenne la propria convinzione che un lavoro della statura dell’Eroica
avrebbe continuato a conservare il proprio significato ancora per molto tempo
dopo che le conquiste di qualsiasi mecenate o dedicatario – perfino di
Napoleone – fossero svanite nella storia.

La progressiva affermazione dell’“Eroica”


L’origine dell’Eroica è differente da quella di qualsiasi altra opera di Beethoven.
Con “origine” intendo essenzialmente due cose. In senso più generale mi
riferisco alla relazione di un lavoro con le precedenti realizzazioni del suo
autore e con quanto di importante ci fosse nel contesto in cui il lavoro fu
condotto a compimento. In senso più specifico mi riferisco a quanto possiamo
apprendere, dall’abbondante messe di documenti, che ci consenta di
intravvedere il progressivo prendere forma della sinfonia dalla fase embrionale
della sua concezione, così come documentato dagli abbozzi. Una parte degli
abbozzi sopravvissuti di questa sinfonia sono noti da oltre un secolo e sono
stati ampiamente citati nella letteratura scientifica e divulgativa. Ma l’intero
materiale preparatorio dell’Eroica è stato completamente trascritto e pubblicato
solo molto di recente, e perciò oggi possiamo seguire le fasi iniziali della sua
evoluzione molto più chiaramente di quanto non sia mai stato possibile prima12.
Cominciamo dal panorama più generale. Nel 1802 Beethoven cavalcava
l’onda di una crescente popolarità, come figura emergente della vita musicale,
non solo a Vienna ma in tutta Europa. Come lui stesso scrisse nella medesima
lettera del 1801 indirizzata a Franz Wegeler nella quale rivelava la propria
sordità, poteva ora lavorare simultaneamente a tre o quattro composizioni. Gli
editori chiedevano insistentemente la sua musica, e il successo, che era andato
crescendo regolarmente fin da quando era arrivato dalla Renania dieci anni
prima, a questo punto era assicurato anche per il futuro13.
Nel corso del 1802, oltre alla Seconda Sinfonia, all’oratorio Christus am
Ölberg (Cristo sul Monte degli Ulivi), alle tre sonate per violino op. 30 e ad alcuni
altri lavori, Beethoven scrisse due serie di variazioni per pianoforte che
coronavano i suoi contributi a questo genere. Una era l’op. 34, Sei variazioni su
un tema originale in fa maggiore, l’altra era l’op. 35, Quindici variazioni e Fuga
in mi bemolle maggiore. Entrambe erano innovative, sia pure per vie differenti.
L’op. 34 utilizza per ciascuna variazione un metro e una tonalità differenti.
L’op. 35, di generose dimensioni e ampio respiro, si conclude con un finale
fugato, e richiede particolare attenzione in virtù del suo diretto collegamento
con l’Eroica.

Le “Variazioni” op. 35
Come è noto, il materiale tematico e lo schema generale delle Variazioni op. 35
fanno presagire il finale dell’Eroica, che si sviluppa come una serie di variazioni
liberamente strutturate sul medesimo “basso del tema” e sul “tema” melodico
che avevano dato vita alle variazioni per pianoforte. Beethoven aveva già usato
altre due volte lo stesso materiale tematico – in una contraddanza per il
repertorio di balli di sala viennese, e nel finale del balletto Prometeo, entrambi
composti nell’inverno 1800-1801. Nel corso della sua vita Beethoven non usò
mai alcun altro tema per tanti lavori indipendenti. Lo utilizzò sempre nella
medesima tonalità (mi bemolle maggiore) e il fatto che lo riprendesse per il
finale della nuova sinfonia dimostra che per lui rivestiva un significato
particolare, forse collegato al mito di Prometeo, l’eroe che portò l’umanità alla
civilizzazione – uno dei temi drammatici del balletto. Beethoven era orgoglioso
di queste variazioni, e nella prefazione che volle far precedere al lavoro
pubblicato non solo scrisse: «[sono] ben diverse dalle mie precedenti
[variazioni]», ma aggiunse: «le ho annoverate nell’elenco ufficiale delle mie
composizioni maggiori [contrassegnandole con un numero d’opus] tanto più
che anche i temi sono miei»14.
La “Ur-Eroica” del 1802
In un momento imprecisato del tardo 1802 – immediatamente prima di lasciare
Heiligenstadt per rientrare a Vienna, a metà ottobre, o subito dopo il suo
ritorno – Beethoven completò gli abbozzi per le Variazioni op. 35, inserendoli
nel suo più importante quaderno di appunti per quell’anno, poi conosciuto
come quaderno “Wielhorsky”15. Ciò che conta, per quanto ci riguarda, è uno
schema di due pagine per un movimento in mi bemolle maggiore che fa seguito
direttamente agli abbozzi per le Variazioni op. 35. Questo schizzo preliminare
per un lavoro in più movimenti è la prima serie di idee di cui siamo a
conoscenza per quella che poi sarebbe diventata la Sinfonia “Eroica”, e illustra
chiaramente l’originaria concezione che Beethoven ebbe di questo lavoro (si
veda l’Esempio Web E). Lo schema preliminare della “Ur-Eroica” mostra
quattro caratteristiche fondamentali:

1. Un breve profilo per un’introduzione lenta in 4/4, con un incipit triadico e


una conclusione cromatica ascendente – due tratti che manterranno intatta
la loro fisionomia fino alla versione definitiva del tema di apertura
dell’Eroica, nella quale l’introduzione lenta fu scartata in favore delle
energiche “strappate” iniziali a piena orchestra.
2. Un abbozzo dell’esposizione del primo movimento, in mi bemolle maggiore e
in 3/4. Per il tema iniziale dell’Allegro Beethoven scrive solo sei battute,
tutte nella tonalità principale, come ci si aspetterebbe, ma iniziando con gli
stessi intervalli del basso del tema dell’op. 35. Più avanti, nella stessa pagina,
Beethoven prova un’altra versione del tema iniziale, ancora piuttosto
embrionale, se confrontato con quella definitiva, ma più solida nei
contenuti. Nella pagina successiva Beethoven scrive un altro abbozzo
dell’esposizione – che, per quanto ancora piuttosto semplice, include brevi
idee tematiche che avrebbe potuto sviluppare in seguito, quando il primo
movimento avesse preso forma.
3. Questo originario schema prosegue con un movimento lento in do maggiore
e in 6/8. Beethoven scrive un tema di apertura e le sue estensioni, poi un
passaggio in re bemolle maggiore con la significativa indicazione “fag[otto]”
sotto il rigo, a confermare il fatto che stava pensando a una composizione
per orchestra. Ci si rende conto con una certa sorpresa che la prima frase di
questo Adagio in 6/8 era destinata a riemergere molti anni più tardi in un
contesto completamente diverso, come incipit melodico del movimento
lento del Quartetto op. 135 – l’ultimo quartetto di Beethoven.
4. Immediatamente dopo l’abbozzo per il movimento lento Beethoven annota
due brevissime idee per un “Menuetto serioso”, il terzo movimento, e il suo
Trio contrastante. In questa fase Beethoven sta ancora usando il termine
“Menuetto” anziché “Scherzo”, ma “serioso” – l’opposto di “scherzando” – è
un aggettivo che usa molto raramente.16

Questo schema generale per i movimenti dell’“Ur-Eroica” non fornisce


esplicite indicazioni su come avrebbe dovuto essere il finale, ma non possono
esserci dubbi sul fatto che da subito Beethoven ebbe l’intenzione di usare lo
stesso tema e lo stesso basso che aveva appena elaborato dettagliatamente nelle
Variazioni op. 35 – e in effetti questo è quanto avvenne. In nessun luogo
troviamo un qualsivoglia indizio che avesse un’idea differente per il finale: né
in questo quaderno di appunti, né nel successivo, che contiene abbozzi molto
più dettagliati per questa sinfonia. Tutto ciò è in contrasto con quanto vediamo
nei progetti per la Quinta Sinfonia, che si trovano nel quaderno di appunti per
l’Eroica e in altri fogli sparsi, nei quali Beethoven, per il finale, prova diverse
idee che non hanno alcuna somiglianza con il finale del lavoro finito.
Che cosa ricaviamo dallo schema generale per l’“Ur-Eroica”?
Essenzialmente, i seguenti punti:

1. La concezione originale della Terza Sinfonia scaturisce direttamente dalle


Variazioni op. 35, su cui Beethoven avrebbe poi basato il finale. La sua sfida
consisteva nell’usare lo stesso materiale di partenza ma trattandolo in una
struttura formale di maggiore continuità, necessaria per un finale sinfonico;
avrebbe dato corpo al finale solo dopo aver risolto i problemi di continuità
strutturale dei primi tre movimenti.
2. Beethoven decise di eliminare l’introduzione lenta del primo movimento,
differenziando così l’attacco della Terza da quello delle prime due sinfonie.
3. Beethoven, per il movimento lento, partì dall’idea di un Adagio in do
maggiore, 6/8, che poi rimpiazzò con la Marcia Funebre in do minore.

Il punto più significativo è l’ultimo. Dimostra che allo stadio “Ur-Eroica”


Beethoven stava progettando un Adagio espressivo come movimento lento e
che, a parte il collegamento con il balletto Prometeo, non c’è segno visibile di
alcunché di “eroico” o di altre idee programmatiche né per questo movimento,
né per la sinfonia nel suo insieme. Ma quando Beethoven cominciò a lavorare
alla sinfonia, nelle prime pagine del quaderno “Eroica”, forse non di molto
posteriori allo schema “Ur-Eroica”, la Marcia Funebre aveva rimpiazzato
l’Adagio in 6/8 e aveva profondamente trasformato il carattere della nuova
composizione. Pochi anni prima Beethoven aveva scritto una semplice ma
efficace marcia funebre “per la morte di un eroe” nella sua Sonata per
pianoforte in la bemolle maggiore op. 26, ma questo nuovo e più ampio
movimento è di una portata incomparabilmente superiore.
Il cambiamento del progetto per il movimento lento è letteralmente epocale.
Con questa Marcia Funebre Beethoven introduce per la prima volta i temi della
morte e della commemorazione nel genere della sinfonia. Le fioriture in levare
dei bassi, all’inizio del movimento, sembrano alludere al brontolio dei tamburi
militari coperti in una processione funebre, come se un’immaginaria schiera di
soldati accompagnasse alla sepoltura, in un ritmo di marcia lenta, un eroe
caduto. Non che Beethoven intendesse descrivere dettagliatamente una scena,
dato che la sua idea era sicuramente quella di creare un movimento che fosse
«più espressione di sentimenti che musica descrittiva» – frase, questa, che usò
come sottotitolo per la Sinfonia “Pastorale”17. Nei suoi abbozzi per la Pastorale,
come avrò modo di sottolineare, Beethoven provò altri termini per esprimere le
sue riserve sulla musica descrittiva. Ma questo Adagio in do minore infonde
nell’intera sinfonia un nuovo ventaglio di significati emozionali mentre nobilita
ed eleva l’esperienza sinfonica. Punta direttamente a quanto Beethoven poté
aver provato due anni più tardi, quando decise che il titolo definitivo non
dovesse riferirsi semplicemente a un eroe implicito, ma ad un eroe caduto:
“Sinfonia Eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand Uomo”.
Possiamo soffermarci un momento sulla parola “sovvenire”. Beethoven, il
cui italiano scritto era sufficientemente funzionale, stava anche imparando a
mettere in musica questa lingua, come vediamo dai molti lavori vocali e dai
suoi recenti studi con Salieri sul modo di mettere in musica dei testi, in
particolare nel 180118. “Sovvenire” significa “ricordare” o “richiamare alla
memoria”, come “souvenir” in francese e in francese anglicizzato, per quanto in
italiano abbia anche il significato secondario di “soccorrere”. Il sapore del
sottotitolo del 1806 – “festeggiare il sovvenire di un grand Uomo” sembra
rivestire il significato di “celebrare l’atto di richiamare alla memoria un grande
uomo”. Questa frase evita che la Marcia Funebre e il lavoro nel suo complesso
possano essere considerati come la rappresentazione descrittiva di un rituale
funebre; al contrario le conferisce il carattere di una commemorazione
misurata, ma possente e onnicomprensiva, della grandezza eroica. Il
movimento lento evoca il ricordo della morte della figura eroica che costituisce
il generico soggetto del lavoro, mentre la sezione centrale in do maggiore
esprime speranza e determinazione. Gli altri movimenti, ciascuno in un modo
specifico, offrono differenti punti di vista sul tema dell’eroismo e della
grandezza. Una volta strappato il frontespizio originale, Beethoven poté
considerare l’intero lavoro come il veicolo di un tributo, visionario e senza
precedenti, non a un individuo specifico, ma agli ideali senza tempo
dell’eroismo. Come uno studioso ebbe a osservare circa l’esaltante conclusione
del grandioso primo movimento, «il suo telos è il futuro»19.
Un’ulteriore riflessione sulla Marcia Funebre è d’obbligo. Si trattava di un
genere consueto sia nella musica della Francia rivoluzionaria, sia in opere
contemporanee come Achille di Ferdinando Paër. Secondo Ferdinand Ries,
l’ispirazione per il movimento lento dell’Eroica venne dalla marcia di Paër. È
molto probabile che Beethoven conoscesse quest’opera di Paër, così come
certamente conosceva la sua Leonore (basata sul medesimo intreccio dell’opera
di Beethoven), ma non ci sono ulteriori prove a sostegno dell’affermazione di
Ries, la cui testimonianza è posteriore di parecchi anni. Comunque Beethoven
aveva conosciuto Paër qualche anno prima, e sarebbe sorprendente che, mentre
scriveva la propria celebrazione dell’eroismo, non avesse dato almeno uno
sguardo all’Achille20. Beethoven, come molti suoi contemporanei, aveva letto
Omero e Plutarco, e a quell’epoca gli eroi della classicità greca e romana erano
figure simboliche importanti nell’arte, nella letteratura, nella musica e nella
vita politica. Quelle figure potevano essere evocate per celebrare i guerrieri
dell’epoca moderna, come nei dipinti di Jacques-Louis David, il più grande
pittore della Francia rivoluzionaria e poi dell’era napoleonica.
L’eroe della “sinfonia eroica” resta una figura mitica, e, così come il lavoro
incarna l’idealismo di Beethoven e la sua fede nella forza della grandezza, può
essere riferita all’eroismo a un livello che va al di là della portata di qualsiasi
singolo individuo.

L’iniziale ricezione dell’“Eroica”


Quando, il 7 aprile 1805, la nuova sinfonia fu eseguita in pubblico per la prima
volta, al Theater an der Wien, diretta da Beethoven, buona parte degli
ascoltatori – e certamente i critici – furono sconcertati dalla sua lunghezza e
dalla sua energia, e reagirono di conseguenza. L’autore di una recensione divise
il pubblico in tre gruppi. I primi erano «gli amici fidati di Beethoven», che –
scrisse – la consideravano un capolavoro, per quanto al di là delle possibilità di
comprensione del grande pubblico: comunque erano certi che prima o poi
sarebbe stata accettata. Il recensore li metteva a confronto con quelli del
secondo gruppo, che «nella maniera più assoluta negavano che il lavoro avesse
un valore artistico [asserendo che] manifesta una sconfinata tendenza a
mettersi in mostra per mezzo dell’originalità [con le sue] strane modulazioni e
le sue violente transizioni». Tra i due, immaginava un terzo piccolo gruppo che
Ammette che la sinfonia possiede molte belle qualità ma [reputa] che la lunghezza interminabile di
questa che è la più lunga e forse la più difficile delle sinfonie sfinisce perfino gli intenditori e la rende
intollerabile ai semplici amatori. Vorrebbero che il Sig. v. B. usasse il suo notoriamente grande talento
per darci lavori simili alle sue prime due sinfonie […] al grazioso Settimino in mi bemolle, al vivace
Quintetto in re maggiore [sic] e ad altre sue precedenti composizioni, che collocheranno per sempre B.
nel novero dei più eminenti compositori di musica strumentale […]21

Leggendo gli scritti di questi primi critici e di altri autori di critica musicale,
spesso sorprendentemente acuti e ricchi di dettagli, per quanto molti siano
decisamente di scarso rilievo, rimaniamo impressionati dal senso di
immediatezza e di importanza che attribuiscono alla nuova musica dei
compositori della loro epoca – non solo di Beethoven, ma anche dei suoi
contemporanei. Lungi dall’accettare o respingere semplicemente tutto ciò che
di nuovo o difficile c’era nella musica di Beethoven, la ascoltavano, come ha
dimostrato uno studioso moderno, «in modo piuttosto complicato». Ossia,
puntualizza, «nella stessa misura in cui vi riconoscevano una dimensione
trascendente, vi udivano altresì antiquate rappresentazioni di significati
concreti e oggettivi, che consideravano elevati a più alte vette di realismo dal
linguaggio musicale di Beethoven»22.
Non è questo il luogo per diffonderci sulla prima e vasta letteratura critica
su Beethoven, se non per menzionare E.T.A. Hoffmann e Adolf Bernhard Marx,
due importanti critici che contribuirono a forgiare la visione predominante
della sua musica per i decenni a venire. La famosa recensione della Quinta
Sinfonia scritta da Hoffmann nel 1810 colpì profondamente l’immaginazione di
molti autori successivi, fossero o meno d’accordo col suo linguaggio caricato e
la sua pretesa che la Quinta dischiuda «il regno del mostruoso e
dell’incommensurabile»23. Marx, uno dei critici più influenti del suo tempo e
figura eminente dell’analisi formale del primo Ottocento, considerava l’Eroica
«non semplicemente un grande lavoro, come altri; piuttosto è decisiva per
l’intera sfera della nostra arte […] un lavoro che ha condotto la musica a un
nuovo, più elevato livello di consapevolezza»24.
Ma proprio come Hoffmann e Marx definirono i parametri della critica
beethoveniana per la prima metà del XIX secolo, così Wagner fece per la
seconda metà – e il suo influsso fu assai più profondo. Per lui, in un saggio del
1841, gli aspetti eroici di questa sinfonia possono non essere riferiti a
Napoleone, ma piuttosto riflettere Beethoven stesso, che «vide davanti a sé il
territorio in cui avrebbe potuto compiere le stesse imprese realizzate da
Bonaparte sui campi di battaglia italiani»25. D’altra parte c’era un altro aspetto
della devozione che per tutta la vita Wagner nutrì nei confronti di Beethoven e
in particolare della sua musica sinfonica, da Wagner descritta – nel proprio
interesse – come il compimento definitivo delle possibilità espressive della
musica strumentale: sul fertile terreno così creato lui, Wagner, avrebbe potuto
coltivare il dramma musicale. Possiamo vedere quest’altra faccia
dell’ammirazione di Wagner per l’Eroica in un significativo aneddoto
raccontato da un giovane compositore, Felix Draeseke, che gli aveva fatto visita
a Lucerna nell’agosto 1859.

In un memoriale Draeseke ricordò come, in un caldissimo pomeriggio di agosto, Wagner aveva


cominciato a cantare il primo movimento dell’Eroica. Colto da una violenta esaltazione, lo cantò e
ricantò più volte, si fece sovreccitato, letteralmente fuori di sé, e non smise finché non arrivò alla fine
dell’esposizione. «Che cos’è?» mi gridò. Al che naturalmente replicai, «l’Eroica». «E allora, non basta
la melodia? Deve per forza essere sempre accompagnata da quelle folli armonie?» – Dapprima non
capii che cosa intendesse dire. Quando poi si fu calmato mi spiegò che in Beethoven il flusso della
melodia scorre avanti inesorabilmente, e che grazie a queste melodie si può richiamare alla memoria
con precisione l’intera sinfonia.26

Bisognerebbe osservare che Wagner aveva appena completato Tristan, fino


a quel momento il suo lavoro più pionieristico, le cui innovazioni armoniche ne
hanno a lungo messo in ombra il contenuto melodico.
L’aneddoto suggerisce che una delle più grandi menti musicali della storia
occidentale poteva considerare l’Eroica, primariamente, come una successione
di melodie: un lungo, ininterrotto flusso di idee che l’ascoltatore poteva cantare
dall’inizio alla fine. Questo non è il modo in cui la maggior parte dei
commentatori tende ad ascoltare il Beethoven maturo, si tratti delle sinfonie o
di altri lavori, e rappresenta un sano antidoto all’opinione che Beethoven fosse
più debole nell’invenzione melodica che nei processi di elaborazione grazie ai
quali poteva sviluppare le complesse implicazioni di brevi motivi melodici –
che certo rappresentano un aspetto importante di molti suoi lavori. Circa gli
aspetti sviluppativi dei suoi drammi musicali maturi, Wagner avrebbe poi
scritto, come se stesse descrivendo una sinfonia di Beethoven: «l’intera opera
d’arte è una fitta rete di temi-base, che, come in un movimento di sinfonia, si
mettono in relazione l’uno con l’altro attraverso il contrasto, il reciproco
bilanciamento, la formazione di nuovi profili, l’articolazione e la
connessione»27. Aggiungendo: «se non ci fosse stato un Beethoven, non avrei
potuto comporre in questo modo».
Nell’altro campo della musica dell’Ottocento, quello della sala da concerto,
anziché del teatro d’opera, l’Eroica divenne un esempio fondamentale per i
grandi compositori che continuarono la tradizione sinfonica dopo Beethoven:
tra gli altri sicuramente Mendelssohn, Schumann e Brahms, ma rimase
un’esperienza basilare anche per Berlioz e i successivi compositori romantici
che cercavano di infondere contenuti programmatici nei propri lavori.
Beethoven torreggiava sulla musica del XIX secolo come una statua su un
piedistallo, a un’altezza che molti successivi compositori dell’Ottocento
aspiravano a raggiungere, ciascuno per la propria via, ciascuno avvertendo il
bisogno di integrare la propria esperienza di Beethoven con le correnti
stilistiche specifiche della propria generazione, e di trovare la propria voce
individuale all’interno di quella generazione28.

Lunghezza e densità
Per molti decenni dopo la sua composizione l’Eroica fu nota non solo per
l’ampiezza di respiro della concezione, ma anche per la lunghezza: il lavoro che
da solo aveva ampiamente esteso la tradizionale dimensione delle composizioni
sinfoniche. Che Beethoven ne fosse perfettamente consapevole è evidente da
una nota in italiano stampata sul frontespizio della parte di violino I nella
prima edizione.

Questa sinfonia essendo scritta apposta più / lunga delle solite, si deve eseguire più vicino / al
principio ch’al fine di un Academia e poco doppo un Overtura un Aria ed un / Concerto; accioche,
sentita troppo tardi, non / perda per l’auditore, già faticato dalle / precedenti produzioni, il suo
proprio, / proposto effeto.29

«Scritta apposta più lunga delle solite». Queste parole non potevano essere
state scritte che da Beethoven. Il peso del contenuto e la corrispondente portata
dell’Eroica – eseguita adottando tempi ragionevoli per i suoi quattro
movimenti, scritti dieci anni prima dell’invenzione del metronomo –
risultarono seriamente impegnativi per gli ascoltatori contemporanei, come
abbiamo visto.
Ciò che questo lavoro esigeva non era semplicemente che gli ascoltatori
estendessero l’arco della loro attenzione a lunghezze inaudite, ma che
cercassero di percepire un contenuto musicale di densità maggiore rispetto a
quella che normalmente ci si aspettava da un lavoro sinfonico, destinato a
molti ascoltatori in una sala pubblica, non a pochi intenditori in un salone
privato. Perché con l’Eroica Beethoven creò un tessuto musicale molto più
denso e interconnesso che nei precedenti lavori sinfonici (inclusa la brillante
Seconda Sinfonia), nelle sonate per pianoforte (a parte quelle sviluppate in
modo più complesso), nella musica da camera con pianoforte, e nei primi
quartetti per archi.
Questo livello di complessità è evidente già nell’attacco, e poi lungo tutto il
primo movimento, dal momento che il tema di apertura, col suo incipit triadico
e la prosecuzione cromatica, influenza molti dei temi e motivi subordinati nei
quali ci si imbatte nell’arco dell’esposizione. Il primo tema, così, assolve due
ruoli fondamentali: da un lato è un attacco memorabile e accuratamente
confezionato, per quanto non perfettamente simmetrico; dall’altro presenta
motivi caratteristici che Beethoven può usare più tardi, in varie maniere, per
dar forma a una rete di temi e passaggi secondari. I rimandi sono talvolta
letterali, talvolta più liberi, ma sono onnipresenti, e insieme con gli altri aspetti
essenziali della struttura musicale generano nell’orecchio dell’ascoltatore la
sensazione che il lungo percorso attraverso i singoli movimenti non sia
semplicemente un processo di estensione, ma una catena fortemente ampliata
di unità tematiche collegate da contrasti di superficie, ma anche da connessioni
sotterranee30. Questo è vero soprattutto per il primo movimento, ma lo è in
qualche modo anche per i due movimenti centrali, e in modo esplicito nelle
variazioni interconnesse che formano il finale.
I contemporanei riferiscono di aver sentito dire da Beethoven che
componeva i suoi grandi lavori avendo in mente ciò che definiva
un’“immagine”. Per quanto alcuni commentatori abbiano facilmente creduto
che si trattasse di un’immagine letteraria o pittorica, sembra più probabile che
Beethoven si riferisse essenzialmente a un’idea musicale di partenza, una forma
o un profilo elementare – ciò che Roger Sessions chiamava, semplicemente,
“un’idea musicale” da cui prende avvio una catena di pensieri. Questo punto di
vista si adatta molto bene a ciò che si evince dalla maggior parte degli abbozzi
di Beethoven, e cioè che spesso cominciava un lavoro con uno “spunto di
massima” – un profilo tematico di base dalla forma ben definita per quanto
riguarda ritmo e note. Un’idea di base di questo tipo, per Beethoven, poteva
costituire un punto fermo rispetto al quale costruire successive elaborazioni ed
elementi di contrasto mentre elaborava la struttura d’insieme di un movimento
o di un intero pezzo31. Quando predisponeva le sue idee su scala più ampia per
un grande lavoro ciclico cominciava col pianificare dettagliatamente uno dei
movimenti, non necessariamente il primo, e poi lo manteneva mentre decideva
quali altri movimenti accostargli32.
Per quanto riguarda gli abbozzi del primo movimento dell’Eroica i punti fissi
sono senza dubbio questi:

1. La tonalità, mi bemolle maggiore, che per Beethoven poteva anche


significare un rimando alla massoneria, poiché era la tonalità del Flauto
Magico, la grande opera massonica di Mozart, una delle sue preferite; inoltre
troviamo dei possibili simboli massonici annotati nei margini di almeno due
pagine del quaderno di appunti per l’Eroica33.
2. L’indicazione agogica e il metro (Allegro, 3/4), un 3/4 che, oltretutto, spesso
procede per moduli di due battute che possono implicare un metro effettivo
di 6/4, con elementi di contrasto ritmico come sincopi e accenti in levare.
3. Il tema iniziale, col suo attacco triadico sul primo, terzo e quinto grado della
scala, con la prosecuzione cromatica, e con la sua iniziale collocazione nel
registro grave e le successive riesposizioni in registri più acuti e con uno
spessore strumentale sempre maggiore.

Il primo tema è un “tema altalenante” sulle note della triade, cioè un tema
nel quale la linea melodica comincia da una nota di riferimento, si allontana,
poi si muove ancora nella direzione opposta per tornare al punto di partenza.
Questa porzione di tema esprime inequivocabilmente la tonica, la tonalità
principale: è lo scopo delle battute iniziali del movimento, cui tocca stabilire
questo punto di riferimento musicale. Poi segue quella che è stata definita una
“nuvola” cromatica, nella quale ci si allontana dalla tonica per semitoni
discendenti, per poi risalire alla tonica ripercorrendo i medesimi semitoni.
Questa figura cromatica, che procede a volte ascendendo, a volte discendendo,
compare in modo vistoso in vari punti del movimento, talvolta come appendice
di importanti elementi tematici secondari, e anche nella coda34.
Ma è soprattutto il movimento triadico delle prime due battute, con la sua
struttura “altalenante”, a influenzare il successivo contenuto tematico, non solo
in modo letterale, come alla fine dell’esposizione, ma perfino in un’apparente
transizione tra riproposizioni del primo tema nella sezione di apertura del
movimento35. Per quanto sia possibile che gli ascoltatori non se ne accorgano
facilmente o immediatamente, in quel passaggio il collegamento tematico c’è, e
quando lo si ascolta l’infusione di significato in quella che altrimenti avrebbe
potuto essere una transizione di routine diventa evidente. Questo esempio può
valere per molte altre situazioni simili nell’ambito del movimento.

Alcuni aspetti dei movimenti successivi

Marcia funebre
Hector Berlioz, un beethoveniano di provata fede, definì questa Marcia Funebre
«un dramma in sé». Per lui il sottotitolo della prima edizione della sinfonia
significava chiaramente che la migliore interpretazione non solo della Marcia
Funebre, ma dell’intero lavoro, era quella della commemorazione di un eroe
caduto. E aggiungeva: «non conosco alcun altro esempio in musica di uno stile
in cui il senso del lutto possa mantenersi in modo coerente in forme di tale
purezza e nobiltà di espressione»36.
Questo movimento estende la marcia come genere di movimento – non la
marcia militare rapida, ma la marcia funebre a passo lento – a un’ampia forma
ternaria, notevolmente sviluppata, in cui il tema principale ha funzione di
ritornello, come nel rondò37. L’ampliamento dà modo a Beethoven di inserire
temi contrastanti nella prima sezione in do minore, ma anche in quella in do
maggiore (la sezione “Maggiore”), in cui la tragedia lascia il posto a un’utopica
visione di speranza. Più avanti, quando riappare il tema funebre principale, c’è
spazio per un’ulteriore espansione grazie a un episodio fugato e a un’ulteriore
ripresa del tema principale in sol minore. Infine un’impressionante esplosione
fortissimo libera la strada per una conclusiva riesposizione – una ripresa
integrale del primo tema in do minore, questa volta affidata all’oboe, lo
strumento preferito da Beethoven per i momenti di più intenso pathos. Alla fine
del movimento il tema principale si frammenta in brevi frasi inframezzate da
silenzi. Ancora Berlioz:
Quando questi brandelli della lugubre melodia sono nudi, soli, spezzati, e sono passati uno per volta
alla tonica, i fiati piangono come se fosse l’ultimo addio dei guerrieri ai loro compagni d’arme.38
È stato riferito che nel 1821, quando gli arrivò la notizia che Napoleone era morto a Sant’Elena,
Beethoven disse: «ho già composto la musica per questa catastrofe».

Scherzo: Allegro vivace


Questo movimento – lungo più del doppio di ciascuno dei brani scritti come
terzo movimento per le prime due sinfonie – lancia il genere del grande
Scherzo sinfonico che avrebbe poi prosperato fino alla fine del XIX secolo. A
quei critici posteriori che si sforzavano di trovare un unico filo narrativo lungo
l’intera sinfonia sembrava curioso che, dopo il profondo rituale funebre che
avevano trovato nel secondo movimento, l’eroe dovesse tornare a vivere nello
Scherzo. Ciò che sfuggiva loro era il fatto che Beethoven non stava scrivendo
una biografia consequenziale per un eroe specifico, ma una sinfonia
trascendente sul tema dell’eroismo che su questo ideale offriva diverse
prospettive. Beethoven aveva l’ambizione di estendere e nobilitare la sinfonia
in un lavoro nel quale la struttura in quattro movimenti, con la sua tradizionale
successione di schemi agogici e armonici, sopravvivesse e prosperasse nelle sue
amplificate dimensioni.
Il tranquillo dinamismo dell’apertura, con le figurazioni pianissimo e
staccato degli archi che portano a un disegno dal profilo discendente verso la
dominante, è una tipica mossa di apertura che consente a Beethoven di
costruire l’intensità man mano che l’intera orchestra prende il sopravvento, e
infine riespone fortissimo il tema discendente, per sfrecciare con incontenibile
energia verso la poderosa cadenza conclusiva. Il Trio fornisce il contrasto più
netto possibile, con i tre corni (è la prima volta, nella tradizione sinfonica, che
ne vengono usati tre) a declamare energicamente ciò che a molti, tra i primi
ascoltatori, deve essere suonato come uno stilizzato richiamo alla battaglia, ma
con un’espressività che nessuna musica militare potrebbe vantare. In
un’osservazione che appare vera oggi quanto lo appariva nel tardo XIX secolo,
George Grove disse di questo passaggio che «se mai i corni hanno parlato come
carne e sangue, e con autentico accento umano, è senz’altro qui che lo hanno
fatto»39.
Al tradizionale Minuetto – o Scherzo – tripartito Beethoven aggiunge una
coda, e perfino utilizza il termine in partitura – cosa per lui insolita. Questa
sezione conclusiva incorpora, nel suo breve arco, lo schema di rapida crescita –
da un misterioso pianissimo all’eccitante conclusione fortissimo – che, su scala
più ampia, costituisce lo schema dello Scherzo nel suo insieme. E in questo
modo propone un riferimento tematico retrospettivo alla “nuvola” cromatica
del primo movimento – lo stesso movimento cromatico ascendente attraverso
tre note, con risoluzione sulla tonica, che aveva già utilizzato nella coda del
primo movimento. Che Beethoven avesse pianificato fin dall’inizio questo
particolare effetto per la conclusione dello scherzo è evidente da un
frammentario commento verbale che aveva inserito già nei primi abbozzi per
questo movimento: «am Ende Coda eine Fremde [–]» (alla fine della Coda una
strana [figura? voce?])40. Qui il disegno cromatico ascendente è assegnato
principalmente ai fiati, mentre i timpani reiterano quietamente tonica e
dominante della tonalità d’impianto, mi bemolle maggiore, con lo stesso
accoppiamento di note che aveva aperto lo Scherzo – e in modo altrettanto
misterioso.

Finale: Allegro molto


Se l’esplicito collegamento con Prometeo di questo finale implichi qualcosa di
più più della mera condivisione del materiale tematico rimane oggetto di
controversia. Uno dei vari punti di vista, per quanto appaia discutibile, è che la
trama del balletto influenzi la sinfonia41. L’intreccio del balletto è senza dubbio
un racconto di matrice illuminista, con protagonista il titano Prometeo,
presentato non come colui che ha portato agli uomini il fuoco divino o come la
vittima sofferente della collera di Zeus, ma come il benevolo artefice della
civilizzazione che instilla la vita in statue di fango, trasformandole in uomini e
dando loro accesso alle arti e alle scienze. Ma le differenze tra i due lavori,
quanto a spessore musicale, sono molto più grandi delle somiglianze, dato che
la musica da balletto per Prometeo di Beethoven appartiene a un altro mondo,
quello della musica da teatro per la danza. In quel mondo, al quale per una
volta Beethoven riuscì ad adattarsi, tutto era subordinato agli assolo di danza
assegnati ai personaggi principali, che in questo caso includono il dio Apollo e i
personaggi mitologici di Pan, Bacco e Orfeo (la cui lira è rappresentata dai
“pizzicato” degli archi), e le muse Melpomene e Talia. Il balletto non era un
ambito in cui Beethoven si sentisse a proprio agio, eppure per questa volta
scrisse in modo efficace, usando colori orchestrali ed effetti particolari – come
per esempio una elaborata cadenza per il violoncello – che non troverebbero
spazio nelle sue sinfonie, nei concerti, nelle ouverture.
Quando ebbe l’idea di utilizzare gli stessi tema e basso in mi bemolle
maggiore per l’op. 35 – le sue variazioni per pianoforte più ampie, fino a quel
momento – Beethoven puntava chiaramente a mostrare quali frutti si potessero
raccogliere da elementi musicali tanto semplici. E quando poi decise di
costruire un’intera sinfonia che, in vari gradi, fosse basata sui medesimi
elementi, e di riprenderli in modo letterale nel finale, puntava a un ulteriore
innalzamento del livello estetico, poiché nell’ultimo movimento la rigida
articolazione in sezioni delle variazioni classiche – ciascuna delle quali era un
breve pezzo autonomo – lasciava spazio a un movimento più libero e fantasioso
nel quale le successive sezioni sono collegate l’una all’altra senza soluzione di
continuità.
In effetti era questo il significato dell’idea di “fantasia” che Beethoven aveva
ereditato da Mozart e Haydn, ma che ora aveva fatto propria. Il termine e il
concetto di “fantasia” rimasero sempre di vitale importanza per Beethoven:
significavano infatti un genere a libero sviluppo che scaturiva dalla passione
per l’improvvisazione, da lui coltivata per tutta la vita. Ma in lavori scritti
significava altresì che i segmenti di una composizione in più sezioni, o in più
movimenti, si susseguissero senza pause, come nelle fantasie di Mozart e
Haydn, tra gli altri. Il principale esempio completato è la Fantasia per
pianoforte solo op. 77 del 1809, lavoro di grande originalità che comincia in sol
minore e finisce in si bemolle maggiore. Presenta tutti i tratti caratteristici di
un lavoro improvvisativo fissato sulla carta, con sezioni fortemente
contrastanti che fluiscono l’una dopo l’altra senza interruzioni, come si attaglia
al genere. Nelle due sonate dell’op. 27, entrambe intitolate Sonata quasi una
fantasia (la seconda è la celebre Sonata “Al chiaro di luna”), i movimenti sono
autosufficienti e separati, ma alla fine del primo movimento e dei movimenti
interni Beethoven scrive la parola “attacca”, per prescrivere all’esecutore di non
interrompere l’esecuzione, e di proseguire immediatamente col movimento
successivo42. Il medesimo principio – collegamento di sezioni fortemente
contrastanti nell’ambito di un ampio movimento – governa il finale dell’Eroica,
nel quale Beethoven trasforma il materiale di partenza delle Variazioni op. 35 in
un finale sinfonico, e di conseguenza riscrive significativamente il materiale. E,
se guardiamo avanti, lo vediamo adottare il medesimo principio nella Fantasia
Corale op. 80, e infine nel finale della Nona Sinfonia.
Ciò nonostante nel suo primo schema generale per il finale Beethoven usò il
termine “variazioni” nel titolo e pensò perfino di inserire un assolo di clarinetto
e uno di corno, e di introdurre una Fuga e una sezione Adagio. Solo le ultime
due sopravvissero nei primi abbozzi, di cui elaborò tre distinte versioni43.
Abbozzi successivi di questo movimento non ne sono sopravvissuti, ma dalla
versione definitiva possiamo desumere che Beethoven sia riuscito a fondere lo
schema di un movimento formato da una successione di variazioni con quello
di una grande forma tripartita, con l’Andante a formare la ripresa e a condurre
all’apice conclusivo. E la decisione di estendere l’Andante con un passaggio in
la bemolle maggiore intensamente espressivo, che rimanda all’analoga sezione
conclusiva della Marcia Funebre, fu un autentico colpo da maestro.
Ad onta di tutta la sua originalità, il finale ha avuto una ricezione non
uniforme, poiché per alcuni ascoltatori di epoche successive non soddisfaceva
completamente l’esigenza di un ultimo movimento che comprendesse e
risolvesse la somma delle esperienze dei primi tre movimenti, come invece
avviene, senza dubbio, con la Quinta Sinfonia e il suo trionfante finale. Come
osserva Burnham, questo punto di vista è condizionato dalla «profondità del
nostro attaccamento al modello orientato al finale», per cui il finale dovrebbe
essere il culmine di tutto quanto si è verificato in precedenza44. Un’opinione di
questo tipo può derivare dalla stessa semplicità del tema e del basso e, in
qualche misura, dalla sezione introduttiva del finale, nel quale – dopo l’iniziale
scatto in sol minore – Beethoven costruisce gradualmente la struttura
esponendo il basso in un dialogo con archi e fiati, per poi ripetere il
procedimento spostando il basso un’ottava sopra, con nuovi elementi
contrappuntistici, ed esporlo ancora, una terza volta, ma con il “basso” alla voce
superiore, eseguito dai violini; infine introduce il tema melodico vero e proprio,
affidandolo ai fiati. L’intera introduzione è una specie di illustrazione del
processo compositivo all’interno del lavoro finito, e rispecchia esattamente
quanto Beethoven aveva già fatto nell’op. 35. Gli ascoltatori pazienti vengono
ampiamente ripagati dalla ricchezza del successivo materiale, ma bisogna
riconoscere che solo nelle ultime frasi del finale molti avvertono le qualità
epiche che avevano preso forma nei movimenti precedenti.
Il quarto movimento dell’Eroica potrebbe essere proposto come un
eccellente esempio di ciò che definiremmo il “problema del finale” in
Beethoven. In una vita spesa a prendere decisioni sul carattere e il contenuto di
lavori ciclici in tre e quattro movimenti, per quanto riguarda il primo
movimento – o i primi due o tre – la sicurezza di Beethoven su quali avrebbero
dovuto essere i materiali non sembra aver mai tentennato, a dispetto del duro
lavoro poi dedicato al loro perfezionamento. Ma talvolta, quando si trattava
dell’ultimo movimento di un grande lavoro, le sue certezze sembravano venir
meno, cosa che possiamo constatare nei numerosi casi in cui cambiò idea
riguardo al finale. L’esempio più famoso è il Quartetto in si bemolle maggiore
op. 130, il cui finale originale era l’ampia fuga che in seguito Beethoven si
rassegnò a separare dal corpo della composizione e a pubblicare
autonomamente come Grosse Fuge, op. 133 – dopodiché scrisse il “piccolo”
finale poi definitivamente assunto come finale del quartetto. Un’altra
sostituzione riguarda il finale della Sonata “Kreutzer” op. 47, originariamente
concepito per la Sonata per violino in la maggiore op. 30 n. 1. E perfino nel caso
del finale della Nona, con l’“Ode alla Gioia” di Schiller e la sua combinazione di
forma-variazioni e di fantasia, gli abbozzi mostrano che Beethoven aveva
quantomeno preso in considerazione un finale strumentale in re minore45. Il
tema principale per questo progettato movimento strumentale non scomparve,
e riemerse come tema iniziale del finale del Quartetto in la minore op. 132.
Non sembra che l’ultimo movimento dell’Eroica sia stato oggetto di
un’indecisione di questo genere. Al contrario la documentazione disponibile
sostiene decisamente l’idea che questo finale, derivato dall’op. 35, fosse il punto
fermo in funzione del quale Beethoven ha composto il resto della sinfonia. Ma,
se Beethoven non nutrì dubbi, perfino i critici più favorevoli, all’epoca, misero
in discussione l’efficacia della graduale costruzione del basso del tema e poi del
tema stesso all’inizio del movimento, dopo la gigantesca esperienza dei
movimenti precedenti. E per quanto a nessuno siano sfuggite l’abilità e la
fantasia con cui Beethoven ha sviluppato questi elementi in tutto quanto segue,
e in particolare nel Poco Andante, possiamo identificare una lunga serie di
critici per i quali questo finale non sembra essere del tutto all’altezza della
gloria di quanto lo ha preceduto46.
Thayer ha riferito questa conversazione tra Beethoven e Christoph Kuffner
avvenuta nel 1817. A quell’epoca tutte le sinfonie, tranne la Nona, erano state
già composte ed erano ampiamente conosciute47. All’inizio dell’estate di
quell’anno Beethoven si trovava, ancora una volta, a Heiligenstadt, dove
ricevette la visita di Kuffner, uno scrittore e funzionario pubblico viennese.
Kuffner era anche un po’ musicista, e con Beethoven era in rapporti
sufficientemente buoni da essere suo commensale, quell’estate, in una Gasthaus
nei pressi di Nussdorf. Secondo Franz Krenn, un suo più giovane conoscente, fu
Kuffner stesso a riferirgli, in seguito, questo dialogo, e Krenn a sua volta lo
riportò a Thayer nel 1859.
KUFFNER: Mi dica sinceramente: tra le sue sinfonie, qual’è la sua prediletta?
BEETHOVEN (con atteggiamento divertito): Eh! Eh! L’Eroica.
KUFFNER: Avrei detto quella in do minore.
BEETHOVEN: No, l’Eroica.

Forse non è un caso che questa conversazione abbia avuto luogo proprio a
Heiligenstadt e non in uno degli altri villaggi di campagna nei quali Beethoven
aveva soggiornato, d’estate, nel corso degli anni. Dopo tutto era quello il posto
in cui, quindici anni prima, aveva affrontato la più grave crisi esistenziale della
sua vita.
Si consideri il poscritto del Testamento di Heiligenstadt, datato 10 ottobre
1802:
Come cadono appassite le foglie dell’autunno, così anch’essa si è per me disseccata, me ne vado –
quasi nello stato in cui ero al mio arrivo – persino il coraggio superbo – che spesso mi sosteneva nelle
giornate estive – è svanito – o Provvidenza, concedimi una volta un puro giorno di gioia – è da tanto
tempo che la mia anima non ode più l’ultima eco della vera gioia – o quando, O Divinità – quando
proverò di nuovo la gioia nel tempio della natura e degli uomini – Mai? – no, oh, sarebbe troppo duro.

Studiare gli appunti di lavoro di Beethoven ci consente di mettere la sua


confessione in relazione con la sua attività come compositore, che per lui era
né più né meno la raison d’être della sua esistenza. Nel 1802 Heiligenstadt era
stato il luogo della sofferenza e del fallimento delle sue speranze di guarire, ma
era stato anche il luogo in cui aveva fatto i conti con la sordità e riconquistato
la volontà di vivere e di realizzare le sue ambizioni. Si era già preparato per
entrambe le cose, come possiamo vedere dalla lettera a Wegeler in cui, un anno
prima, aveva scritto: «se altrimenti è possibile, voglio sfidare il mio destino,
tuttavia vi saranno dei momenti nella vita in cui io sarò la più infelice delle
creature di Dio»48. Anni dopo, tornando a Heiligenstadt, Beethoven ebbe modo
di rivedere il luogo in cui aveva completato le variazioni per pianoforte che
tanto avevano coinvolto la sua immaginazione, e che lo avevano spronato a
creare questa sinfonia.

1
Ries a Simrock, 22 ottobre 1803; Briefe, n. 165; Letters to Beethoven and Other Correspondence, a cura di
T. Albrecht, Lincoln, NE, University of Nebraska 1996, n. 71.
2
TF, 337. Nel 1804 Mähler dipinse il suo famoso ritratto di Beethoven, più volte riprodotto. cfr.
Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven. A Study in Mythmaking, New York, Rizzoli
International Pubblications 1987, pp. 33-6. Per quanto Comini faccia riferimento all’anno come al 1804 e
sostenga che Beethoven avesse eseguito il primo movimento e improvvisato sul primo movimento,
Thayer identifica espressamente il movimento come il finale. Considerando la stretta relazione tra il finale
dell’Eroica e le Variazioni per pianoforte op. 35, possiamo prendere in considerazione l’ipotesi che
Beethoven avesse improvvisato una versione del finale che poteva aver incorporato elementi dell’op. 35
ed altri inventati. In ogni caso Mähler rimase profondamente impressionato dalla qualità e dall’originalità
del modo di suonare di Beethoven: Thayer riferisce che gli sia stato detto da Mähler stesso quando
descrisse quella visita. Mähler diede queste informazioni a Thayer prima del 1860, l’anno in cui il pittore
morì, all’età di 82 anni.
3
Scott Burnham, Beethoven Hero, Princeton, NJ, Princeton University Press 1995, p. XVI sg.
4
Franz Wegeler e Ferdinand Ries, Biographische Notizen, Coblenz, Baedeker 1838, p. 77 sg.; Schindler,
Beethoven As I Knew Him: A Biography, cura di D.W. MacArdle, trad. ingl. C.S. Jolly, Chapel Hill,
University of North Carolina Press 1966, p. 115 sg.
5
Briefe, n. 84, lettera a Hoffmeister dell’8 aprile 1802.
6
Briefe, n. 188, lettera a Breitkopf & Härtel; «die Sinfonie ist eigentlich betitelt Bonaparte».
7
Cfr. il mio “Beethoven, Florestan, and the Varieties of Heroism”, in Beethoven and his World, a cura di
S. Burnham e M.P. Steinberg, Princeton, NJ, Princeton University Press 2000, pp. 27-47.
8
Briefe, n. 64, lettera a Hoffmeister del 15 gennaio 1801. A proposito di questa lettera cfr. Maynard
Solomon, Beethoven’s “Magazin der Kunst”, «19th-Century Music», Oakland, CA, VII, 1984, pp. 199-208.
9
Briefe, n. 747, lettera a Kanka, non datata ma secondo Anderson e Brandenburg scritta nell’autunno
1814; l’espressione di Beethoven è “das geistiges reich”, che potrebbe anche tradursi “l’impero dell’anima”.
10
Il fondamentale studio su Beethoven e l’“Arciduca” è Susan Kagan, Archduke Rudolph: Beethoven’s
Patron, Pupil, and Friend, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1988. Kagan ha pubblicato anche “Archduke
Rudolph of Austria: Forty Variations on a theme by Beethoven for piano; Sonata in F minor for violino
and piano”, in Recent Researches in the Music of the Nineteenth and Twentieth Centuries, XXI, Madison, A-R
Editions 1992. Cfr. anche la mia breve relazione in Beethoven and His Royal Disciple, «Bulletin of the
American Academy of Arts and Sciences», LVII, 3, Spring 2004, Cambridge, MA, pp. 2-7.
11
Briefe, n. 2003, databile circa 6 luglio 1825.
12
Per la prima edizione critica del quaderno, con facsimile integrale, completa trascrizione e
commento, cfr. ESk.
13
Briefe, n. 51 del 29 giugno 1801.
14
Briefe, n. 123, lettera a Breitkopf, 18 dicembre 1802 ca. Cfr. anche Hans-Erner Küthen, Beethovens
“wirklich ganz neue Manier” – Eine Persiflage, in Beiträge zu Beethovens Kammermusik, Symposion Bonn
1984, a cura di S. Brandenburg e H. Loos, München, Henle Verlag 1987, pp. 216-24. Beethoven
chiaramente voleva essere certo che il pubblico si accorgesse che le Variazioni op. 35 erano basate sul
medesimo tema che aveva usato nel finale del balletto, e qualche mese dopo scrisse nuovamente a
Breitkopf per lamentare che sul frontespizio delle Variazioni op. 35 avevano dimenticato di dire che il
tema «era tratto dal balletto allegorico Prometeo», cosa che «avrebbe dovuto essere dichiarata nel
frontespizio». E aggiunse: «vi prego di farlo [includere il riferimento a Prometeo nel frontespizio], se ciò è
ancora possibile, ossia se il lavoro non è ancora stato divulgato. Se occorre modificare il frontespizio,
potete farlo a mie spese».
15
Cfr. JTW, pp. 130-6. Edizione integrale a cura di N. Fishman, Kniga eskizov Beethovena za 1802-1803,
3 voll., Mosca, Glinka Museum and State Publishing House 1962. È Fishman che per primo ha riconosciuto
che gli abbozzi “Ur-Eroica” erano stati destinati da Beethoven alla Terza Sinfonia.
16
Lo troveremo, successivamente, solo come titolo del Quartetto op. 95 (Quartetto “Serioso”) e poi per
una delle Variazioni “Diabelli”, op. 120 (“Allegro ma non troppo e serioso”).
17
La frase «più espressione di sentimenti che musica descrittiva» era inclusa nel programma per la
prima esecuzione della Sesta Sinfonia nel dicembre 1808; cfr. Kinsky-Halm, p. 161; Nottebohm, in N II, p.
378, riferisce che compariva in una parte di violino originale.
18
Sugli studi di Beethoven con Salieri, ecc. cfr., più recentemente, Julia Ronge, Beethovens Lehrzeit,
Bonn, Beethoven Haus 2011, pp. 141-70.
19
Reinhold Brinkmann, nel suo importante saggio “In the Time of the Eroica”, in Beethoven and His
World a cura di S. Burnham e M. Steinberg, Princeton, Princeton University Press 2000, I, p. 26 e in
particolare p. 20.
20
Nel 1801 Beethoven e Paër erano apparsi nello stesso concerto, quando Beethoven eseguì la propria
Sonata per corno con Giovanni Punto e Paër diresse alcuni lavori vocali con orchestra. Nell’agosto di
quell’anno Paër fu presente a uno degli intrattenimenti musicali di Beethoven. Cfr. Peter Clive, Beethoven
and his World, Oxford, Oxford University Press 2001, p. 255.
21
Recensione anonima in «Der Freymüthige» III, Freiburg, 17 aprile 1805, p. 332, tradotta in inglese in
The Critical Reception of Beethoven’s Compositions by His German Contemporaries, a cura di W.M. Senner,
R. Wallace e W. Meredith, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 2001, II, p. 15 sg. Il riferimento a un
“quintetto in re maggiore” è un errore macroscopico, poiché Beethoven, all’epoca, non aveva scritto alcun
lavoro del genere; è possibile che il recensore stesse pensando al Quintetto in do maggiore op. 29.
22
Robin Wallace, “Beethoven’s Critics: An Appreciation”, in The Critical Reception of Beethoven’s
Compositions by His Germanic Contemporaries cit., II, p. 6.
23
AMZ, XII, n. 40 (4 luglio 1810), coll. 630-42, n. 41 (11 luglio 1810) coll. 652-59.
24
Adolf Bernhard Marx, Beethoven, originariamemte pubblicato nel 1859, Leipzig, Breitkopf & Härtel
1902, p. 203. Cfr. Scott Burnham, Beethoven Hero cit., per un’ampia disamina di Marx e di altri critici; cfr.
anche Robin Wallace, Beethoven’s Critics cit.
25
Cit. da S. Burnham in Beethoven Hero cit., p. XV.
26
Riprendo l’aneddoto dal mio saggio “Eroica” Perspectives: Strategy and Design in the First Movement,
pubblicato orginariamente in BS, a cura di A. Tyson, New York, Norton & Company 1973, pp. 97-122,
ristampato nel mio Beethoven: Studies in the Creative Process, Cambridge, Harvard University Press 1992,
pp. 118-33, in particolare p. 120 sg. La fonte era Erich Roeder, Felix Draeseke, Der Lenbens-und Leidensweg
eines deutschen Meisters, 1, Dresden, Wilhelm Limpert Verlag 1932, p. 106, che citava il resoconto dello
stesso Draeseke all’interno di un saggio pubblicato in «Signale», DCLIV, 1907, pp. 1-12.
27
R. Wagner, “Ueberdie Anwendung der Musik auf das Drama”, in Richard Wagner, Gesammelte
Schriften, a cura di J. Kapp, Leipzig, Hess & Becker 1914, XIII, p. 29 sg. Già citato nel mio Beethoven: Studies
in the Creative Process cit., p. 121.
28
Per una recente panoramica su questa tradizione con riferimento alla sinfonia, cfr. Mark Evan Bonds,
After Beethoven, Cambridge MA, Harvard University Press 1979.
29
Kinsky-Halm, p. 129 sg., che cita l’edizione originale dell’ottobre 1806.
30
Sono stati pubblicati molti commenti analitici sui densi collegamenti tematici e motivici in questa
sinfonia, ma ne metterò in evidenza solo due. Il primo è quello di David
Epstein nel suo libro Beyond Orpheus, Cambridge, MA, The MIT Press 1979, in particolare pp. 111-38; il
secondo è l’esame delle relazioni tra il primo movimento e le Variazioni op. 35 in ESk, II.
31
Cfr. Roger Sessions, The Musical Experience, Princeton, Princeton University Press 1949.
32
Questo procedimento talvolta poteva cambiare negli stadi finali, come quando, in qualche caso,
Beethoven sostituì completamente un movimento, come per il finale della Sonata “Kreutzer”,
originariamente concepito per una sonata precedente, o quando rimpiazzò l’“Andante favori” della Sonata
“Waldstein” con la misteriosa e drammatica Introduzione. Si possono trovare esempi di simili abbozzi per
“progetti di movimento” in tutti i quaderni di appunti, dal lavoro preliminare per la Sonata per pianoforte
op. 26 agli ultimi quartetti per archi. Per una visione più ampia dei suoi procedimenti, a cominciare da
un’”immagine”, cfr. il mio “From Conceptual Image to Realization: Some Thoughts on Beethoven
Sketches”, in Genetic Criticism and the Creative Process, a cura di W. Kinderman e J. E. Jones, Rochester,
University of Rochester Press 2009, pp. 108-22. Un recente studio dei suoi progetti di movimento per
lavori in più movimenti è Erica Buurman, Beethoven’s Compositional Approach to Multi-Movement
Structures in His Instrumental Works, tesi di dottorato, University of Manchester, 2013.
33
Sui simboli massonici disegnati da Beethoven nei margini di un paio di pagine del quaderno “Eroica”,
cfr. ESk, II, pp. 20-3.
34
Per esempio alle bb. 88 e 478, e, in modo anche più significativo, nella coda alle bb. 605-11.
35
Si vedano le bb. 29-35, che cadono tra la seconda e la terza esposizione del tema principale; qui
Beethoven aveva originariamente pensato di esporre nuovamente il tema principale, alla dominante: una
ridondanza di cui fece fatica a liberarsi negli abbozzi; ma la sua soluzione, qui, consiste nello scrivere un
energico passaggio in accordi sincopati dell’intera orchestra, mentre i violini primi salgono percorrendo le
note dell’armonia di dominante, nell’ordine 1-3-1-5-1 (nella tonalità della dominante) anticipando così,
letteralmente, il primo tema stesso, che sta per riapparire. Ho esaminato questo passaggio così come
appare negli abbozzi nel mio From Conceptual Image cit., n. 31.
36
Beethoven by Berlioz, compilato e tradotto da Ralph de Sola, Boston, Crescendo Publishing Company
1975, p. 17.
37
Sono debitore, qui, di Alan Gosman, mio collaboratore nell’edizione critica del quaderno “Eroica”.
38
Beethoven by Berlioz cit., p. 18. È degno di nota che Beethoven usi la medesima disintegrazione di un
tema di apertura in do minore alla fine dell’ouverture Coriolano, un lavoro possente che si colloca a metà
strada tra la Marcia Funebre dell’Eroica e e la Quinta Sinfonia, entrambe illustri esempi di ciò che è stato
definito lo “stato d’animo do minore” di
Beethoven. Cfr. Michael Tusa, Beethoven’s “C-Minor Mood”: Some Thoughts on the Structural
Implications of Key Choice, BF, II (1993): pp. 1-19.
39
George Grove, Beethoven and His Nine Symphonies, New York, Dover 2012, p. 76 sg.
40
Lewis Lockwood, Alan Gosman, Beethoven’s “Eroica” Sketchbook: A Critical Edition, 10, Urbana, IL,
University of Illinois Press 2013. Nottebohm ha proposto l’interpretazione “St” (= “Stimme” = Voce),
concettualmente sensata. Ma il simbolo è chiaramente una “M” maiuscola per “Menuetto”, il termine che
Beethoven ancora usava per il terzo movimento. Non aveva abbastanza spazio per per completare la frase
poiché aveva già scritto la “M” a metà del margine superiore.
41
Constantin Floros, Beethovens Eroica und Prometheus-Musik, Wilhelmshaven, Heinrichshofen 1978.
42
Cfr. Paul Mies, “Quasi una fantasia”, in Colloquium Amicorum: Joseph Schmidt-Görg zum 70.
Geburstag, a cura di S. Kross e H. Schmidt, Bonn, Beethoven Haus 1967, pp. 239-49.
43
Cfr. il mio “The Compositional Genesis of the Eroica Finale”, pubblicato per la prima volta in
Beethoven’s Compositional Process, a cura di W. Kinderman, Lincoln, NE, 1991, pp. 82-101, ristampato nel
mio Beethoven: Studies in the Creative Process cit., pp. 151-66.
44
S. Burnham cit., p. 60.
45
Il primo a parlarne è stato Nottebohm, N II, p. 180 sg.
46
Più recentemente, Burnham scrive: «considerandolo nell’insieme, non si può dire che questo finale
risolva in modo inequivocabile il resto del lavoro» (p. 60). Già nel 1807 un critico aveva scritto su AMZ:
«Il finale è piaciuto meno, e mi è parso che qui l’artista abbia spesso voluto prendersi gioco del pubblico
senza curarsi del suo divertimento». Per questa e altre recensioni della prima ora cfr. The Critical
Reception of Beethoven’s Compositions by his German Contemporaries cit., a cura di W.M. Senner e R.
Wallace, II, Lincoln, NE, 2001, pp. 15-42; la citazione proposta sopra è tratta da una recensione in AMZ del
1807.
47
TF, p. 673 sg.
48
Briefe, n. 65, datata 29 giugno [1801], vedi alla nota 1 della stessa lettera per i commenti alla
datazione.
IV

La Quarta Sinfonia

Robert Schumann una volta la definì «quella grecamente slanciata, in si


bemolle maggiore» e, altrove «una slanciata fanciulla greca tra due giganti
nordici»1. La sua metafora, continuamente ripresa nei programmi di sala,
descrive la Quarta Sinfonia come una creatura delicata in bilico tra le vigorose
Eroica e Quinta, anziché come un’opera d’arte solida e autonoma che può
tranquillamente tener testa alle altre due. La sua immagine si attaglia
perfettamente alle caratterizzazioni di genere con le quali la teoria musicale
romantica qualificava i temi contrastanti dei movimenti in forma sonata (primo
tema virilmente risoluto, secondo tema lirico e timidamente femminile). Ma è
ancor più significativo che pensi alla sua fanciulla come “greca”, alludendo alla
classicità artistica dell’antichità, ivi incluse le celebri sculture di figure umane.
Il suo linguaggio evoca il ricordo della processione, sul fregio del Partenone, di
giovani donne che recano i vasi per i sacrifici da offrire agli dei. Ma soprattutto
Schumann considera classica questa sinfonia per le proporzioni, la fattura, la
splendida lavorazione, che la rendono degna di quell’ideale classico di nobile
semplicità nell’arte che il periodo romantico aveva ereditato dall’Illuminismo.
5. Beethoven nel 1806, dipinto di Isidor Neugass

La visione affettuosa che Schumann aveva di questa sinfonia più breve e


“leggera” rimase influente, dal momento che esprimeva la sensazione,
condivisa dagli ascoltatori, di essere sopraffatti e storditi dalla Terza e dalla
Quinta e l’impressione che questi lavori avessero ridefinito l’esperienza
sinfonica in modo così profondo da far percepire la Quarta come una
deviazione, e per qualcuno perfino un passo indietro2. Agli ambienti musicali
tra metà e fine Ottocento pareva chiaro che Beethoven fosse ritornato all’idea
di una sinfonia di dimensioni più concise, dalle proporzioni haydniane, ma
nella quale i tre movimenti rapidi esibissero un’energia sovraccaricata e idee
tematiche accessibili e memorabili, e a questi si aggiungesse un Adagio di
grande bellezza melodica evocativo di un mondo di sentimenti romantici. Era
questo il mondo introdotto da Beethoven nel movimento lento della Quarta – e
in pochi altri lavori, tra cui il ciclo di Lieder An die ferne Geliebte, scritto nove
anni più tardi.
Sono due gli aspetti della Quarta che ne rivelano la differenza di concezione
rispetto all’Eroica: la strumentazione e la lunghezza dei movimenti. L’orchestra
ora comprende un solo flauto, il che significa non solo una sezione di fiati
ridotta, ma anche un uso meno sonoro dei registri acuti dei legni (per quanto i
passaggi a solo dei legni siano frequenti e importanti). Con trombe e corni in
coppie, l’orchestra di questo lavoro è quella che, all’epoca, era tipica dei
concerti, più che delle sinfonie. I quattro movimenti della Quarta sono
notevolmente compatti, a confronto di quelli di lunghezza inusitata dell’Eroica,
e il modo di ottenere la continuità nei movimenti rapidi ha a che fare in primo
luogo con il movimento e l’azione, non con la densità e le caratteristiche di
linguaggio delle idee musicali. I quattro movimenti sono disposti così:
Genesi e cronologia
Nei quattro anni tra la fine del 1802 e la fine del 1806 la creatività di Beethoven
ebbe un’impennata che non si sarebbe più ripetuta nel corso della sua vita.
Andando verso il suo “secondo periodo” – o, come io preferisco definirlo, la sua
“seconda maturità” – trasformò la sinfonia come genere e produsse anche una
serie di composizioni che si collocano tra i più celebri capolavori della musica
tonale. Tra questi troviamo le sonate Waldstein e Appassionata, il Triplo
Concerto, l’oratorio Christus am Ölberge (Cristo sul Monte degli Ulivi), le prime
due versioni dell’opera Leonore, e il Quarto Concerto per pianoforte. Nel 1806
compose i Quartetti op. 59, il Concerto per violino, l’Ouverture “Leonore” n. 3 e
la Quarta Sinfonia, il cui autografo è datato “1806”.
Perciò l’ordine definitivo comunemente accettato delle quattro sinfonie di
questo periodo – Terza, Quarta, Quinta e Sesta – è quello in cui furono
completate ed eseguite; la Quinta e la Sesta, in effetti, non furono pubblicate
fino al 1809. Ma, come possiamo vedere, i quaderni di appunti sopravvissuti e
altri documenti suggeriscono che le idee iniziali per ciascun lavoro si
presentarono in un ordine differente. Le prove di questa genesi non sono del
tutto conclusive a causa di una parziale perdita delle fonti, ma ciò che rimane
lascia trasparire un ordine di inizio della creazione che potrebbe modificare la
nostra visione della cronologia della concezione di queste composizioni. Pur
accettando gli inevitabili rischi impliciti in un’interpretazione letterale degli
abbozzi di un grande artista, incluso un materiale tanto ricco e complesso
quanto i quaderni di appunti di Beethoven, sembrerebbe emergere quest’ordine
cronologico:

1. La sinfonia Eroica, cominciata nel tardo 1802, definitivamente impostata nel


1803 e completata nell’ottobre dello stesso anno3.
2. Le prime idee per due movimenti di quella che sarebbe diventata la Quinta
Sinfonia – Scherzo e primo movimento, quest’ultimo intitolato
esplicitamente “Sinfonia” – che Beethoven annotò in pagine del quaderno di
appunti per l’Eroica dedicate anche ai primi tre numeri di Leonore, e
pertanto databili ai primi mesi del 18044.
3. Parecchi abbozzi nello stesso quaderno di appunti per l’Eroica prefigurano
passaggi della Sesta (la Sinfonia “Pastorale”). Tra questi troviamo un’idea per
il “Mormorio dei ruscelli” che anticipa la “Scena al ruscello” destinata a
diventare il movimento lento di quel lavoro. Nel medesimo quaderno
troviamo un appunto per una “lustige Sinfonia” (“allegra sinfonia”)
brevemente abbozzato dopo gli appunti per la Quinta. L’appunto per la
“sinfonia gioiosa” non si ricollega tematicamente alla Sesta, ma indica
chiaramente che nei primi mesi del 1804 Beethoven stava valutando l’idea
di due sinfonie dal carattere fortemente contrastante, una tragica, l’altra,
appunto, “gioiosa”5.

Per la Quarta Sinfonia non abbiamo abbozzi estesi o altre indicazioni che
Beethoven ci avesse lavorato consistentemente prima del 1806. L’evidente
smarrimento di un importante quaderno di appunti del 1806 spiega l’assenza di
abbozzi per tutti i movimenti della Quarta, così come per tutte le grandi
composizioni di quell’anno6. Per la verità due piccoli frammenti di appunti per
il finale sopravvivono su un foglio che è stato datato 1804, ma non provano in
modo certo che Beethoven abbia lavorato alla sinfonia in quell’anno, ed è
assolutamente possibile che abbia invece annotato queste brevi, casuali idee in
un momento successivo. I pochi altri appunti sopravvissuti sembrano essere del
18067. Per di più tutta la documentazione disponibile indica che la Quarta fu
scritta in un arco di tempo piuttosto breve tra l’estate e l’autunno del 1806,
dopo che Beethoven ebbe terminato Leonore e composto i Quartetti op. 59.
Ma, nell’impeto creativo che diede vita a tanti importanti lavori di quegli
anni, l’idea iniziale della Quarta Sinfonia non sembra cadere direttamente dopo
la Terza, ma piuttosto dopo le prime due versioni di Leonore e dopo i Quartetti
op. 59, che aprirono un nuovo capitolo nella storia della musica da camera.
Come abbiamo visto, le prove che possiamo ricavare dagli appunti
suggeriscono altresì che, quando intraprese la composizione della Quarta,
Beethoven aveva già quantomeno prefigurato, e brevemente delineato, i
possenti temi in do minore che avrebbe poi inserito nel primo e nel terzo
movimento di quella che sarebbe stata la Quinta, oltre ad almeno alcune idee
per una “sinfonia gioiosa” e una per un pezzo che ritraesse un ruscello in uno
scenario agreste. Fu solo dopo i grandi risultati del 1806 che Beethoven, nel
1807 e nel 1808, tornò a lavorare alla Quinta e alla Sesta, completandole
entrambe e dirigendole nel corso della sua famosa Akademie del dicembre 1808.

I mecenati di Beethoven e la dedica della “Quarta”


Le prove esterne relative all’origine della Quarta sono in parte documentarie, in
parte aneddotiche. Nella tarda estate o a inizio autunno del 1806 Beethoven
fece una lunga visita al principe Karl Lichnowsky, suo mecenate di vecchia
data, presso la sua residenza di campagna a Grätz, in Slesia, vicino a Troppau
(oggi Hradec, nella repubblica ceca). Fin dal suo arrivo a Vienna, nel 1792,
Beethoven aveva avuto in Lichnowsky uno dei più importanti sostenitori, e da
lui aveva avuto un fondamentale aiuto nella conquista della fama. Lichnowsky
era stato tra i mecenati di Mozart nei suoi ultimi anni, e fu notevolmente
generoso con il talentuoso giovane che lui e i suoi amici melomani vedevano
come il suo emergente erede. Come già aveva fatto con Mozart nel 1789,
Lichnowsky nel 1796 accompagnò Beethoven in un viaggio a Praga e Berlino,
gli fece dono di un set di quattro strumenti ad arco per incoraggiarlo a scrivere
quartetti, e nel 1800 gli elargì uno stipendio annuo che mantenne fino a quando
Beethoven, nel 1807, interruppe i suoi rapporti con lui.
Ma nessuno dei mecenati di Beethoven – a parte l’Arciduca – poté
adeguatamente far fronte al suo tempestoso senso della dignità, alla sua
rocciosa convinzione che la sua levatura di artista lo mettesse al di sopra della
loro pretesa statura sociale. Beethoven stava evidentemente lavorando alla
Quarta, quando arrivò alla residenza di famiglia di Lichnowsky a Grätz, dove si
verificò un episodio che mise in luce la loro differenza di vedute8. Secondo
diverse testimonianze di contemporanei, Lichnowsky chiese a Beethoven di
improvvisare al pianoforte per alcuni ufficiali francesi che erano stati invitati a
cena. Beethoven rifiutò. Ma Lichnowsky – che, conoscendolo, avrebbe potuto
essere più accorto – anziché lasciar perdere insistette perché suonasse, al che
Beethoven, infuriato, se ne andò da Grätz e raggiunse a piedi la vicina città di
Troppau. I vari resoconti dell’episodio differiscono, ma tuttavia suonano come
autentici. Si dice che sia in relazione a questo incidente che Beethoven scrisse a
Lichnowsky una lettera in cui osservava: «Principe, ciò che lei è, lo è grazie alla
casualità della sua nascita; ciò che io sono, lo sono grazie a me stesso»9. A
partire dal 1807 la relazione tra i due fu irreparabilmente compromessa, e può
essere che sia stata la perdita dello stipendio del principe a spingere Beethoven,
nel 1807, a cercare di ottenere un posto sicuro al Teatro di Corte10.
Sembra che anche la dedica della Quarta, indirizzata infine al conte Franz
Oppersdorff, un proprietario terriero slesiano, sia stata una conseguenza della
medesima visita a Lichnowsky. La proprietà di Oppersdorff era situata a
Oberglogau, a circa cinquanta chilometri dal castello di Lichnowsky. Al conte
piaceva che i propri servitori fossero anche musicisti, perciò li ingaggiava se
sapevano suonare uno strumento, come si vide quando Beethoven e
Lichnowsky, in visita a Oppersdorff, li ascoltarono eseguire la Seconda Sinfonia.
Quell’esecuzione deve aver avuto luogo prima del brutto episodio con gli
ufficiali francesi, al quale è possibile che Oppersdorff fosse presente. Potrebbe
essere stata quella l’occasione in cui, considerando il suo apparentemente
inesauribile bisogno di soldi, o perlomeno in vista di un promesso sostegno,
Beethoven accettò una commissione da Oppersdorff per «una sinfonia, che io
ho scritto per lui». Una ricevuta inviata a Oppersdorff alla fine di gennaio o nei
primi giorni di febbraio del 1807 mostra che Beethoven ricevette per questo
lavoro la bella somma di 500 fiorini11.
Era tipico, per lui, mercanteggiare con gli editori e contrattare un compenso
per la pubblicazione dei propri lavori – in quel periodo, non esistendo il diritto
d’autore, tutto ciò su cui poteva contare era un compenso in un’unica soluzione
– e, allo stesso tempo, offrire la dedica di un lavoro a un mecenate che ne
avrebbe goduto l’esclusiva per sei mesi, dopodiché Beethoven sarebbe stato
libero di pubblicarlo. Già il 3 settembre 1806, scrivendo da Grätz, Beethoven
offriva a Breitkopf & Härtel di Lipsia tre quartetti (chiaramente l’op. 59), un
nuovo concerto per pianoforte (il Quarto, op. 58), la sua nuova opera (Leonore),
l’oratorio Christus am Ölberge, e una «nuova sinfonia», che deve essere stata la
Quarta12. Come spesso accadeva, non tutte queste composizioni erano
realmente pronte, per quanto alcune fossero a buon punto, come la sinfonia. Il
18 novembre Beethoven scriveva di nuovo a Breitkopf, questa volta dicendo:
«La sinfonia che Le avevo promesso non posso ancora dargliela perché ce l’ha
un signore dell’aristocrazia, ma sarò libero di pubblicarla tra sei mesi»13.
Ma l’insigne gentiluomo non era Oppersdorff. Tra febbraio 1807 e novembre
1808 Beethoven aveva accettato compensi da Oppersdorff per una o due
sinfonie, ma poi non riusciva a decidere quali lavori avrebbe potuto dedicargli e
quali invece riservare a destinatari più illustri. Nel marzo 1808, in una delle due
lettere indirizzate al conte che sono sopravvissute, Beethoven fece un
inequivocabile riferimento alla Quinta scrivendo che «l’ultimo tempo della
sinfonia richiede 3 tromboni e un ottavino» e promettendo di inviargliela14. Nel
novembre del 1808 scrisse ancora a Oppersdorff: «Lei si sarà fatta una cattiva
opinione di me, ma è stato il bisogno che mi ha costretto a vendere la sinfonia
composta per Lei e anche un’altra a terze persone – [si riferisce, qui, alla
Quinta e alla Sesta, che a questo punto erano state dedicate al principe
Lobkowitz e al conte Razumowsky] Stia però sicuro che riceverà presto la
sinfonia che le ho destinato»15.
Il risultato di tutti questi maneggi, i quali riflettevano le abitudini di
Beethoven, che non si faceva alcuno scrupolo di trattare i suoi dedicatari con
toni imperiosi, fu che Oppersdorff gli corrispose compensi per due sinfonie, ma
ricevette la dedica di una sola – la Quarta, quando fu pubblicata nel 180816.
Evidentemente Oppersdorff non affiorò mai più nei pensieri di Beethoven, dal
momento che non appare nella sua corrispondenza o in altri documenti17.
Sappiamo per certo che durante questo periodo, probabilmente nel 1807,
Beethoven stava pensando di cambiare da un mecenate a un altro la
destinazione delle dediche dei suoi grandi lavori (dal Quarto Concerto per
pianoforte all’Ouverture “Coriolano”), riscrivendo le bozze dei frontespizi che gli
erano state inviate dal suo principale editore viennese18. Ma il nome di
Oppersdorff rimase saldamente legato alla Quarta Sinfonia, garantendo così a
questa sbiadita figura un posto tra i mecenati aristocratici di ben altro prestigio
a cui Beethoven aveva dedicato – uno per ciascuno – un lavoro durante la sua
vita. Oppersdorff, dopotutto, aveva pagato in anticipo.

La “Quarta Sinfonia”: forma, carattere e significato


Le particolari caratteristiche della Quarta Sinfonia hanno affascinato molti
critici, sia che l’attenzione fosse posta sulla sua collocazione nell’ambito delle
nove sinfonie, sia che si concentrasse sulla sottigliezza e sulla bellezza del
lavoro in tutti e quattro i movimenti19. La tonalità di si bemolle maggiore ebbe
sempre per Beethoven una speciale attrattiva. Tra i precedenti lavori in questa
tonalità abbiamo il Concerto n. 2 per pianoforte e il Trio per clarinetto: due
importanti trampolini di lancio, nei suoi anni giovanili. In seguito l’avrebbe
impiegata in lavori di grande maestria cui attribuì un importante significato
personale, come il Quartetto per archi op. 18 n. 6, col suo finale intitolato “La
Malinconia”, e la Sonata per pianoforte op. 22, a proposito della quale
Beethoven scrisse al suo editore Hoffmeister: «questa sonata è stata ripulita,
amatissimo sig. fratello»20. E negli anni della maturità, dopo la Quarta Sinfonia,
scelse questa tonalità per lavori significativi come il Trio “Arciduca” op. 97, la
Sonata “Hammerklavier” op. 106, il movimento lento della Nona Sinfonia op.
125, e il Quartetto per archi op. 130, col suo originale finale, la “Grosse Fuge”.

Il primo movimento: Introduzione (Adagio)


Comincia con un morbido si bemolle tenuto da flauto, oboe, clarinetti, fagotti e
corni, da cui emerge, negli archi, un tema dolce che discende gradualmente,
passando dalle minime alle semiminime, come se acquisisse gradualmente una
vita ritmica. L’attacco non è in si bemolle maggiore ma in si bemolle minore,
una tonalità cupa che domina l’apertura attraverso le prime due ampie
enunciazioni della frase iniziale, prima di passare ad un nuovo, ancor più
distante centro tonale, si minore, che viene raggiunto facendo perno sul sol
bemolle (che Beethoven sostituisce con il fa diesis, più facile da suonare). Una
sequenza mozzafiato di morbidi accordi espande ulteriormente la gamma
armonica di questa insolita apertura. È solo alla fine dell’intera introduzione
lenta che l’armonia esplode in fortissimo con l’autentica dominante della vera
tonalità d’impianto, si bemolle maggiore, preparando lo scatto del successivo
Allegro.
Guardando indietro, vediamo che per quanto la tonalità principale del
primo movimento sia si bemolle maggiore, Beethoven ne ha rinviato l’arrivo
per tutto l’Adagio introduttivo, seminando lungo il percorso figurazioni
esotiche e deviazioni verso tonalità insolite (soprattutto sol bemolle = fa diesis)
destinate a dare frutto più avanti, nell’Allegro. Questo metodo – costruire
un’introduzione lenta che evita smaccatamente la tonalità d’impianto,
procrastinandone l’arrivo per farla apparire solo all’inizio del successivo
Allegro – era esattamente ciò che Beethoven aveva fatto nel 1806 nel primo
movimento del Quartetto op. 59 n. 3 e nelle due Ouverture “Leonore” n. 2 e n. 3 –
brani che si sviluppano ciascuno a modo proprio, pur utilizzando il medesimo
schema di base.

Il primo movimento: Allegro vivace


Il primo movimento, fin dall’attacco, si proietta in avanti con un movimento
rapido, poiché nell’articolazione della forma complessiva l’equilibrio tra
melodia, armonia e ritmo è sbilanciato a favore dell’azione ritmica e di un
tempo veloce. Naturalmente gli elementi melodici e motivici del tema iniziale
dell’Allegro forniscono una solida base per tutto quanto segue, tanto per
elaborazione quanto per contrapposizione. Il tema iniziale contiene due tipi di
movimento melodico – quello triadico e quello lineare, che si susseguono con
immediato contrasto. La prima frase è una successione di note accordali
arpeggiate, la seconda una linea affidata ai legni che fluisce in senso
discendente da un sol a un si bemolle21.
Di qui in poi il senso di un urgente movimento in avanti – “vorticoso”, lo
definisce Tovey – è irresistibilmente presente. In ognuno dei segmenti tematici
che si susseguono in questa esposizione emergono chiaramente figure con una
nuova definizione ritmica, come nelle battute sincopate del ponte e nel secondo
gruppo, dove fiati solisti (nell’ordine fagotto, oboe, flauto) cominciano la
sequenza tematica che movimenterà incessantemente l’esposizione fino alla
conclusione. Ne risulta che – come nel primo movimento dell’Eroica – dopo il
primo ampio segmento che definisce l’area della tonica nel resto
dell’esposizione ci sono altri sei ben definiti segmenti tematici, ciascuno
caratterizzato da una forte identità ritmica.
Nello sviluppo i due elementi dell’originale primo tema, pur rimanendo
riconoscibili, appaiono in fogge nuove mentre si svolge una progressione
modulante. Le figure in arpeggio dell’attacco del primo tema dominano questa
parte dello sviluppo, attraversando metamorfosi che includono un tema
apparentemente nuovo, ma in effetti intrinsecamente collegato a figure già
comparse in precedenza – anche questa volta, sorprendentemente, come per il
famoso “nuovo tema” nello sviluppo dell’Eroica22.
Ma la cosa più notevole, in questo sviluppo, è il senso drammatico
determinato dal timbro e dalla dinamica che governano interi segmenti, come
negli impressionanti passaggi in diminuendo, al termine dei quali compare in
orchestra una strana nuova sonorità. È il suono del rullo pianissimo dei timpani
sulla tonica si bemolle (= la diesis) mentre l’armonia di base del passaggio è
quella di un accordo di fa diesis maggiore (fa diesis – la diesis – do diesis) –
che, ci si ricorda improvvisamente, è uguale all’accordo di sol bemolle
maggiore ascoltato nell’introduzione lenta. Qui Beethoven mette in gioco uno
stratagemma semplice ma elegante – uno dei momenti più significativi di tutta
la sua produzione sinfonica – passando in modo diretto da questa
apparentemente remota tonalità di fa diesis maggiore a un fa naturale nel
basso. L’armonia, così, torna alla tonalità d’impianto di si bemolle maggiore:
non all’accordo di tonica in una forma stabile, ma piuttosto in una forma che
richiede una risoluzione, che avrà luogo nella ripresa. Preparando questa
risoluzione i timpani emergono come una forza vincolante, mantenendo il loro
rullo sul si bemolle per 22 battute mentre gli archi acquistano slancio in un
lungo crescendo che intensifica il senso di un arrivo incombente, usando le
brevi figurazioni ascendenti che ricordiamo di aver ascoltato alla fine
dell’Introduzione, nel momento in cui l’Introduzione cedeva il passo
all’Allegro. Tra i molti passaggi drammatici della musica per orchestra di
Beethoven in cui un ampio crescendo si espande dal pianissimo al fortissimo,
questo è uno dei più straordinari.

Il movimento lento
L’Adagio, uno dei movimenti lenti sinfonici di Beethoven più belli, è soffuso di
un intenso lirismo dall’inizio alla fine. Comincia con una semplice figura
ritmica di due note che ha una vita propria, e che, come un pulsante ostinato,
scorre lungo l’intero movimento, accompagnando sempre la lunga linea lirica
dell’ampio tema iniziale.
Se pensiamo al Beethoven del 1806, possiamo osservare che questa figura
puntata ricorda da vicino la figurazione di due note con la quale ha suggerito il
battito del cuore di Florestano nella grande introduzione sinfonica in fa minore
alla “Scena del carcere” che apre il secondo atto di Leonore. E in un momento
successivo di questo intricato movimento lento la figura puntata di due note
appare per davvero ai timpani, e per due volte: la prima quando la misteriosa
sezione centrale sta per giungere a una ripresa in forma elaborata del tema
principale, e poi ancora proprio alla fine, in pianissimo, subito prima della
chiusa finale fortissimo.
Il tema iniziale sta in una categoria a sé tra le melodie beethoveniane di
ampio respiro di questo periodo. Indicata come “cantabile”, si espande per ben
otto battute in ciascuna delle sue prime due esposizioni, affidate prima agli
archi, poi ai fiati, in un registro più acuto. Diversamente da tanti altri temi per
Adagio nel Beethoven dei periodi giovanile e medio, non è organizzato in frasi
parallele della medesima lunghezza (come nel famoso movimento lento della
Seconda Sinfonia), né le semifrasi di cui è costituito danno luogo a momenti di
pausa, come nella Marcia Funebre dell’Eroica. Al contrario, la linea mantiene
una costante tensione per tutte le otto battute, senza interruzioni, muovendosi
elegantemente dalle prime tre semiminime discendenti alle note di minor
valore che animano la prosecuzione; poi l’intero tema è ripetuto dai legni,
mentre l’inesorabile figurazione puntata lo accompagna discretamente negli
archi.
Ciò che ne risulta è un ampio rondò, una forma che Beethoven, in quegli
anni, utilizzò in un buon numero di movimenti lenti. Qui ottiene un livello di
complessità ritmica che è raro nei suoi lavori prima dell’ultimo periodo
(pensiamo al movimento lento della Nona Sinfonia), ed è molto più comune nel
mondo ricco e privato dei suoi quartetti per archi che nelle sue sinfonie.
Comunque la varietà di figurazioni ritmiche, il delicato intreccio che abbonda,
qui, più che in ogni altro suo adagio sinfonico fino alla Nona, rimane in perfetto
equilibrio con la sua qualità lirica, come di canzone, ed il suo opposto dialettico,
la figura puntata di due note che torna più e più volte.
In mancanza di abbozzi non possiamo determinare se questo Adagio possa
essere stato per Beethoven un elemento generatore dell’intera sinfonia, ma non
c’è dubbio che tra i suoi movimenti lenti sinfonici è quello che più di ogni altro
annuncia nel modo più completo, con quattro decenni di anticipo, il mondo dei
romantici. Certamente Robert Schumann avvertì questo collegamento quando
nel 1841 si accinse a scrivere la sua prima sinfonia, la Sinfonia “Primavera”. In
effetti otto anni prima, nel 1833, aveva realizzato una riduzione pianistica
proprio della sezione introduttiva di questo movimento di Beethoven, come
pure della Ouverture “Leonore” n. 323.

Lo Scherzo
La facilità creativa e la forza di immaginazione di Beethoven emergono con
particolare evidenza nei movimenti in forma di scherzo delle sinfonie,
specialmente se li confrontiamo con quelli dei quartetti per archi, l’altro grande
genere regolato dallo schema classico in quattro movimenti. Le sonate per
pianoforte e la musica da camera con pianoforte possono avere tre movimenti,
e in effetti molti suoi brani in questi generi hanno tale struttura, anche se
occasionalmente Beethoven espandeva a quattro anche questi. Il termine
“Scherzo”, come alternativa a “Menuetto”, appare già nel 1795 nella sua Sonata
in la maggiore per pianoforte op. 2 n. 224. Da lì in poi la creazione di questo
nuovo tipo di movimento rapido ed energico derivato dalla danza divenne una
delle principali caratteristiche dello “stile personale” di Beethoven, come lo
definì Gustav Becking, autore di un classico libro sull’argomento25. Una delle
ragioni per cui questi movimenti in forma di scherzo costituiscono una delle
principali prove dello straordinaria evoluzione di Beethoven nel corso degli
anni sta nella rigidità della loro struttura formale, che rimase una semplice
forma binaria in due sezioni, con la prima completamente ripetuta per mezzo
dell’indicazione “D. C.” (da capo). Ma con le sue dinamiche innovazioni
Beethoven ripensò questo stesso genere di movimento su basi completamente
nuove, pur conservando inalterato il guscio esterno della sua struttura formale.
Lo Scherzo della Quarta Sinfonia è un esempio del tentativo di Beethoven di
trovare nuove modalità per strutturare questo movimento, da lui rinnovato
completamente sia quanto a forma, sia quanto a contenuto. Anziché ripetere
meccanicamente l’ampia sezione iniziale dopo il Trio, Beethoven espande il
movimento in una forma a cinque parti: Scherzo-Trio-Scherzo-Trio-Scherzo,
con tutte le sezioni scritte per esteso. Beethoven aveva utilizzato questo schema
per la prima volta nel Quartetto in mi minore op. 59 n. 2, e lo riprese poi in altri
lavori del secondo periodo, tra cui la Sonata per violoncello in la maggiore op.
69, il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74, la Settima Sinfonia, e il Trio
“Arciduca” op. 97. Una conseguenza di questa espansione formale è che ora lo
Scherzo, con tutte le sezioni scritte per esteso, si erge elegantemente in tutto il
suo peso e la sua estensione tra gli altri ampi movimenti, anziché fungere da
momento di distensione prima del finale. Un’altra conseguenza, che Beethoven
sfrutta nella Quarta, è la possibilità di abbreviare l’ultima ripresa dello Scherzo
e poi, alla fine, aggiungere una breve coda che conduce l’intero movimento a
una risoluta e impressionante conclusione.
Iniziare uno scherzo con un ritmo sincopato, con figurazioni di due note in
un metro a tre movimenti per battuta, non era una soluzione originale, poiché
Haydn e Mozart lo avevano già fatto prima di Beethoven, e lui stesso lo aveva
fatto, sia pure in modo meno radicale, nell’Eroica, per non parlare del ritmo
ambivalente dello Scherzo del Quartetto op. 18 n. 6. Ma questo tipo di attacco è
sorprendentemente nuovo nelle sue sinfonie, e tutto quanto scaturisce da
questo primo tema fiorisce dagli elementi – con il loro movimento
ascendente/discendente – che ne formano le due porzioni. Il Trio – “Un poco
meno allegro” – è “dolce” e all’inizio vi predominano i legni, con un disegno
che si ripete in una progressione che ascende lentamente, inframezzato da
brevi interiezioni degli archi.

Il Finale
I temi principali in quartine di semicrome erano stati piuttosto comuni nel
periodo classico, come si può vedere in Haydn, ma, fino a questo momento,
Beethoven ne aveva fatto un uso sporadico, per esempio nella sezione Allegro
dell’ouverture di Prometeo. Più tipicamente i suoi temi di questo tipo in
movimenti Allegro combinavano una regolare pulsazione del valore delle note
con altri motivi ritmici dal profilo nettamente definito, motivi che Beethoven
poteva quindi sviluppare nel corso del movimento.
E così la prima sezione di questo movimento è decisamente peculiare, tra i
suoi molti finali in 2/4 di questo e di qualsiasi altro periodo della sua carriera. Il
frammento tematico iniziale in quartine di semicrome si spezza
improvvisamente nella seconda battuta e l’azione tematica è quindi proseguita
dagli archi gravi, mentre violini e fiati irrompono con improvvise esclamazioni
in crome isolate che ricordano vagamente le semiminime e le crome isolate
dell’Adagio introduttivo del primo movimento. Le battute iniziali contengono i
germi di tutto quanto seguirà, ma ciò che persiste pervasivamente, soprattutto
nello sviluppo, è la regolare pulsazione di un perpetuum mobile che spesso usa
la figurazione iniziale della prima battuta come motivo ricorrente. Come
secondo tema principale subentra poi un tema contrastante, di carattere lirico,
accompagnato da terzine anziché da semicrome, ma l’insistente motivo di
quattro note tornerà presto in frasi simmetriche che alternano fortissimo e
pianissimo, e il frenetico motivo iniziale sarà di nuovo in primo piano proprio
alla fine dell’esposizione e poi nel corso dello sviluppo.
Abbondano sorprese di tutti i tipi: tra le altre, la comparsa di un fagotto solo
che riespone il tema principale nella ripresa, conferendo a questo snodo
strutturale uno speciale colore timbrico che non si riscontra in nessun’altra
sinfonia di Beethoven, neppure in quelle successive. E, per la coda, Beethoven
tiene in serbo l’ultima e la più efficace delle molte idee giocose che si
accumulano in questo stupefacente movimento: il tema iniziale, che si era
proiettato in avanti col suo incessante moto di semicrome fin dall’inizio,
ricompare ora in un tranquillo moto di crome legate, poi si ferma bruscamente
interrompendosi dopo i primi tre motivi. I favoriti fagotti espongono il
successivo inciso di quattro note, per poi giungere a un’altra brusca
interruzione. La frase è proseguita dagli archi, ma ancora una volta interviene
una lunga pausa – per la terza volta, a questo punto. Tutta questa successione
di frasi interrotte si è svolta in pianissimo. Ma ora, come se la frenetica energia
del movimento, finora arginata a stento, fosse giunta a un punto di rottura,
l’intera orchestra irrompe di schianto, fortissimo, con le le scale discendenti e le
crome isolate ascendenti che originariamente avevano messo in azione questo
colossale movimento – e l’intera sinfonia si conclude con una risoluta cadenza
conclusiva: tre accordi che strappano l’applauso.
6. Quinta Sinfonia, pagina del manoscritto autografo nella quale si può osservare il tema iniziale di quattro
note (Staatsbibliothek Berlin, Stiftung Preussischer Kulturbesitz / Art Resource)

1
Robert Schumann, Gli scritti critici, 2 voll. a cura di A. Cerocchi Pozzi, trad. it. G. Taglietti, Milano,
Ricordi Unicopli, 1991, I, p. 142, (Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig,
P. Reclam jun. 1889, II).
2
Cosima Wagner espresse a Richard Wagner la propria opinione che la Quarta «facesse seguito
direttamente alla Seconda», poiché le sembrava assai distante dalla grande potenza dell’Eroica; cfr. Cosima
Wagner’s Diaries, II, a cura di M. Gregor-Dellin e D. Mack, trad. ingl. G. Skelton, London, Collins 1980, p.
942.
3
ESk, pp. 4-92.
4
ESk, pp. 155-8, cfr. Commento, pp. 80-3.
5
ESk, p. 64, sistemi 1 e 5; p. 96 per il “Murmeln der Bäche” (Mormorio del ruscello), a p. 159 la voce
intitolata “lustige Sinfonia”. Gli appunti nel quaderno “Eroica” che hanno almeno parzialmente a che fare
con la Sesta non sono assolutamente sviluppati con la stessa chiarezza d’intenti di quelli in do minore che
prefigurano la Quinta. Eppure molti sono sufficientemente vicini a temi e figurazioni della Sinfonia
“Pastorale” da permetterci di considerarli come precursori della veste definitiva di quella sinfonia.
6
Cfr. A. Tyson in JTW, pp. 160-5, e in particolare p. 161, a proposito di un quaderno presumibilmente
di ampie dimensioni che Beethoven avrebbe usato nel 1806, che con ogni probabilità conteneva abbozzi
per il Concerto per violino op. 61, il Quarto Concerto per pianoforte op. 58, la Quarta Sinfonia e l’ouverture
Coriolano. JTW esamina dettagliatamente i fogli sparsi di un grande album che Beethoven usò
dall’autunno del 1807 più o meno fino a febbraio 1808, che contiene abbozzi per l’ouverture Leonore n. 1,
per porzioni della Quinta Sinfonia, per la Sonata per violoncello op. 69, e per la sua realizzazione di
“Sehnsucht” di Goethe (WoO 134).
7
Per un elenco dei pochi abbozzi conosciuti per la Quarta Sinfonia cfr. Beethoven Werke, Symphonien II,
a cura di B. Churgin, München, Henle 2013, p. 228 e p. 238. A p. 238 scrive: «La Quarta Sinfonia fu
composta per la maggior parte nel 1806». L’edizione critica, l’ampio commento e gli anni di studi sulla
Quarta di Bathia Churgin sono davvero preziosi.
8
Sembra che questo incontro abbia avuto luogo nell’ottobre 1806. Per maggiori dettagli cfr. Peter
Clive, Beethoven and His World, Oxford, Oxford University Press 2001, p. 204.
9
Sul rapporto tra Beethoven e Lichnowsky in generale, e su questa supposta lettera, cfr. Jurgen May,
Beethoven and Prince Karl Lichnowsky, BF, III, pp. 29-38.
10
Briefe, n. 302 e Anderson, III, pp. 1444-6. Nella sua domanda, peraltro, proponeva condizioni che,
come doveva sapere bene, non sarebbe mai stato in grado di rispettare. Queste comprendevano, tra l’altro,
scrivere «ogni anno per lo meno una grande opera lirica» e anche «una piccola operetta o un
divertimento, dei cori, o dei pezzi di circostanza». In ogni caso la sua domanda venne respinta nel
dicembre di quell’anno. Le autorità probabilmente sapevano bene che non sarebbe mai diventato un
compositore d’opera a tempo pieno.
11
Il testo si può leggere in Die Neun Sinfonien Beethovens (saggio di Wolf-Dieter Seiffert sulla Quarta),
Dokumente, p. 140, tradotto in inglese in Anderson, III, p. 1426.
12
Briefe, n. 256.
13
Briefe, n. 260.
14
Briefe, n. 325 (marzo 1808).
15
Briefe, n. 340.
16
P. Clive, Beethoven and his World cit., p. 253.
17
Anderson, n. 763, suppone che l’«amico musicale della Slesia» a cui Beethoven fa riferimento in una
lettera del 1817 possa essere Oppersdorf. Ma questa ipotesi è respinta da Brandenburg nelle sue note a
questa lettera (cfr. Briefe, n. 1092 del 23 febbraio 1817 a Haslinger, e n. 4). Brandenburg suggerisce che
Beethoven stesse facendo riferimento a Joseph Ignaz Schnabel, un musicista di chiesa di Breslau che si era
occupato dell’esecuzione di molte sue composizioni.
18
Cfr. A. Tyson, “The ‘Razumowsky’ Quartets: Some Aspects of the Sources”, in BS3, p. 134, a
proposito di una pagina apparentemente del 1807 su cui Beethoven abbozzò i frontespizi di sette lavori
includendo i nomi dei rispettivi dedicatari di quel momento, e alcuni possibili cambiamenti nelle dediche.
Ma la Quarta Sinfonia risulta dedicata al conte Oppersdorf, e non ci sono indicazioni relative a un
possibile cambiamento.
19
In quanto segue ho tenuto conto di un prezioso saggio inedito sulla Quarta scritto da Cecil Isaac per
il Seminario NEH [National Endowment for the Humanities] per insegnanti di college, da me tenuto ad
Harvard nel 1981.
20
Briefe, n. 54. Queste osservazioni erano destinate, in parte, a spiegare a Hoffmeister perché gli stava
chiedendo la stessa somma, 20 gulden, tanto per la sonata per pianoforte quanto per l’arrangiamento per
pianoforte del Settimino e per la Prima Sinfonia, anche se, come afferma in una lettera del gennaio 1801,
Beethoven prevedeva che Hoffmeister pensasse che una sonata dovrebbe costare meno di una sinfonia.
Tovey suggerisce che una traduzione idiomatica di queste parole dovrebbe essere “questa sonata è
troppo” o “è così che si fa”; cfr. il suo Companion to Beethoven’s Pianoforte Sonatas, London, AMS Press
Inc. 1931, p. 82.
21
A parte alcuni spostamenti d’ottava, la successione delle note della triade nella frase di apertura del
primo movimento, Allegro, della Quarta Sinfonia è, curiosamente, proprio la stessa dell’attacco dell’Eroica,
nonostante le enormi differenze di carattere e di espressione.
Questo lascia intravvedere, nel pensiero concettuale di Beethoven sulla scrittura melodica e la
formazione dei temi, un livello più profondo di quanto si sia finora preso in considerazione. Un primo
tentativo di trattare queste relazioni è di Ernest Newman, The Unconscious Beethoven, New York, Alfred A.
Knopf 1927.
22
Segnalato da Ludwig Misch nel suo Neue Beethoven-Studien und andere Themen, Bonn, Beethoven
Haus 1957, pp. 56-8.
23
Cfr. John Daverio, Robert Schumann: Herald of a “New Poetic Age”, New York, Oxford University
Press 1997, p. 227 e Reinhold Dusella, “Symphonisches in den Skizzenbüchern Schumanns”, in Probleme
der Symphonische Tradition, a cura di S. Kross, Tutzing, Hans Schneider 1990, p. 204.
24
Beethoven usò i due termini in modo interscambiabile nei primi lavori pubblicati, ma dopo il 1803-4
“Scherzo” rimpiazzò “Menuetto”. Il “Tempo di Menuetto”, termine riferito a un ampio movimento nel
metro e nello stile del Minuetto, definì un differente genere di movimento, come nella Sonata per
pianoforte op. 54 e nell’Ottava Sinfonia. Talvolta Beethoven scrisse terzi movimenti definendoli
“Menuetto” ben dopo aver adottato di preferenza il termine “Scherzo” (come nell’op. 59 n. 3), ma poi, in
lavori successivi, non usò il termine “Scherzo” neppure per movimenti che appartengono in modo
evidente a questa categoria.
25
Gustav Becking, Studien zu Beethovens Personalstil, Leipzig, Breitkopf & Härtel 1921.
V

La Quinta Sinfonia

Il fato
L’originaria forza del gesto con cui ha inizio non si è mai affievolita. «Così il
fato bussa alla porta» è il commento attribuito a Beethoven da Anton Schindler
– che fu suo biografo e, per qualche tempo, factotum – e poi continuamente
ripetuto dai commentatori1. Se Beethoven ha davvero pronunciato queste
parole in presenza di Schindler, il che è possibile, deve averlo fatto molto
tempo dopo aver composto la sinfonia, forse nel 1822 o nel 1823, quando
Schindler faceva parte del suo più stretto entourage. Eppure, per quanto
suonino sinistre e retoriche, appaiono plausibili, ad onta della notoria
reputazione di Schindler quale falsario di documenti beethoveniani. Sappiamo
da Karl Holz, un testimone ben più affidabile che fu in stretti rapporti con
Beethoven a partire dal 1825, che negli ultimi anni il compositore tendeva a
esprimersi in modo magniloquente2. E certamente il riferimento al “fato”
(Schicksal) è in sintonia con la lettera di Beethoven a Wegeler del novembre
1801. Aprendo il cuore al suo vecchio amico di Bonn, Beethoven descriveva la
progressiva sordità, la sofferenza fisica e l’incrollabile determinazione a
realizzare il proprio destino come artista. «Afferrerò il Fato per la gola –
scriveva – certo non riuscirà a piegarmi e a schiacciarmi completamente»3.
All’inizio di questa sinfonia ascoltiamo la virtuale attuazione di questo
proposito, una concretizzazione uditiva del gesto di opposizione di Beethoven
alla fragilità del suo stesso essere e dell’umana condizione. In questo passaggio
di apertura, e in tutto quanto segue nel primo movimento, tanto il contenuto
tematico quanto la gamma armonica nell’ambito dello spazio tonale sono
ridotti all’essenziale. Con questi mezzi Beethoven costruisce un lavoro che
sembra voler simbolicamente affrontare questioni fondamentali riguardanti la
vita e la morte. Non è sorprendente venire a sapere che persone costrette a
vivere in condizioni di oppressione mortale abbiano trovato in quest’opera la
rivelazione di una tragedia che finisce in una visione di speranza. Molti anni
più tardi, quando Beethoven ebbe a comporre la Nona Sinfonia, la sua sola altra
sinfonia scritta in modo minore e conclusa con un grandioso finale in
maggiore, la Quinta ne fu in parte un modello strutturale. La Quinta comunica
significati che non possono essere trasmessi con le parole, eppure sono
emozionalmente inequivocabili: significati con i quali gli ascoltatori si sono
infallibilmente sentiti in sintonia, dalla sua epoca ai nostri giorni. Il tipo di
reazione a cui mi riferisco è essenzialmente viscerale, spirituale, e
profondamente emozionale, e vanifica qualsiasi sforzo di attribuire al lavoro un
particolare modello descrittivo o narrativo, nonostante tutti i tentativi che sono
stati fatti e di cui la letteratura abbonda. Al livello di cui sto parlando ora, la
stessa cosa vale anche per tutte le altre sue sinfonie, perfino per la Sesta, per
quanto si tratti di un lavoro dichiaratamente programmatico. In effetti, in modi
che possono non essere evidenti ad ascoltatori occasionali, la Sinfonia
“Pastorale” è davvero una controparte strutturale della Quinta, concepita
secondo una modalità estetica radicalmente differente.

Lo “stato d’animo do minore”


L’idea di una sinfonia in do minore ha relativamente pochi precedenti, e in
generale nel tardo Settecento il modo minore era più raro del modo maggiore,
perlomeno nelle sinfonie. Negli anni Novanta Beethoven doveva aver
conosciuto la Sinfonia n. 95 in do minore scritta da Haydn a Londra nel 1791,
più o meno un anno prima che Beethoven si trasferisse a Vienna per diventare,
perlomeno formalmente, suo allievo. Come ha sottolineato Douglas Johnson, è
la sola delle Sinfonie “Londinesi” di Haydn priva di introduzione lenta, e
anch’essa inizia con un breve motivo di cinque note, dall’incisiva forma
ritmica, che finisce con due semiminime in battere in 2/24. È anche la sola tra le
tarde sinfonie di Haydn in modo minore. Per quanto in precedenza Haydn
avesse scritto altre due sinfonie in do minore (n. 52, negli anni 1770, e n. 78,
forse nel 1782), non possiamo essere certi che Beethoven ne fosse venuto a
conoscenza. Nel mondo di Mozart, do minore è chiaramente una tonalità con
un significato preciso – lo testimoniano la Messa in do minore, la Musica
Funebre Massonica e altri lavori, tra cui lo splendido Concerto per pianoforte
K491 del 1786 – ma Mozart non scrisse mai una sinfonia in do minore. Tuttavia
la Sinfonia in sol minore (n. 40, 1788) era evidentemente ben nota a Beethoven,
e il suo tema conclusivo ha una stretta affinità strutturale con l’arpeggio
ascendente di do minore che inizia lo Scherzo della Quinta Sinfonia. Possiamo
essere certi di questo collegamento poiché lo stesso Beethoven ricopiò un
ampio passaggio del finale della Sinfonia in sol minore di Mozart in pagine
nelle quali abbozzò anche il proprio Scherzo, probabilmente nel 18085.
Per quanto Beethoven condividesse la convinzione che determinate tonalità
possiedano specifici collegamenti emotivi, non c’era nulla di dogmatico nella
sua scelta di una determinata tonalità per un certo lavoro. Il critico e scrittore
Friedrich Rochlitz riferì un’affermazione di Beethoven secondo cui lo stile di
Klopstock era sempre «maestoso e in re bemolle maggiore»6. In un appunto del
1815-16 sul proprio quaderno di lavoro Beethoven scrisse un breve passaggio in
si minore aggiungendo le parole “si minore – tonalità cupa”7. Che Beethoven
negli anni giovanili sentisse una particolare affinità con la tonalità di do minore
è oggi ben noto, e questa propensione è stata addirittura diagnosticata come
una “mania” che avrebbe preso piede particolarmente in lavori composti tra il
1793 e il 18028. In molti di questi lavori, in testa ai quali troviamo il grande Trio
per archi in do minore op. 9 n. 3, troviamo temi di Allegro cupi e tempestosi,
contrasti drammatici forti, perfino violenti, improvvisi accenti forte e piano,
ricche figurazioni e fulminei effetti ritmici. Tutto ciò lo si riscontra non solo nei
primi movimenti, ma anche nei finali e perfino negli scherzi. Alcune di queste
caratteristiche sono prefigurate in composizioni da camera in do minore di
Haydn e Mozart, ma nelle mani di Beethoven acquistano una nuova intensità
drammatica. E Beethoven era ancora sotto gli effetti di questo incantesimo
quando scrisse lo Scherzo in do minore del Quartetto “Delle arpe” op. 74 (1809) e
il primo movimento della Sonata per pianoforte op. 111 (1812).
Poco prima di riprendere e completare la Quinta Sinfonia, nel 1807-8,
Beethoven aveva scatenato un’energia analoga nella sua ouverture per il
dramma di Collin Coriolan (1807). Qui il gesto iniziale di due note è un
aggressivo fratello gemello di quello della Quinta, e l’intero lavoro manifesta
affinità con il primo movimento della sinfonia. Al di là delle associazioni
estetiche possiamo altresì osservare che, scrivendo per archi in do minore (e
anche in do maggiore, ovviamente), Beethoven poteva sfruttare le risonanze
delle corde vuote “do” di viole e violoncelli, tipicamente in prossimità
dell’inizio di un movimento, e, indiscutibilmente, alla fine.
La Quinta Sinfonia colpì i suoi primi ascoltatori suscitando in loro emozioni
che non avevano mai provato nella musica da concerto. Come scrisse E.T.A.
Hoffmann nella sua famosa recensione, che potrebbe essere stata concepita per
influenzare i lettori indirizzandoli verso i nuovi obiettivi estetici dei romantici
tedeschi, questo lavoro evocava «terrore, spavento, orrore e dolore, e
risvegliava quell’anelito senza fine che costituisce l’essenza del
romanticismo»9. Nel suo lungo saggio, con quelle dettagliate descrizioni di tutti
e quattro i movimenti e i numerosi esempi musicali, Hoffmann coglieva la
sensazione di slancio e furore trasmessa dall’incipit, e analizzava passo dopo
passo le prime due frasi e la loro prosecuzione fino al punto in cui una terza
pausa incornicia il primo, ampio paragrafo. E continua: «Un presentimento
dell’ignoto, del misterioso, è instillato nell’ascoltatore. L’inizio dell’Allegro, fino
a questa pausa, determina il carattere dell’intera composizione».
Questa citatissima recensione dava il via a un filone critico della Quinta
Sinfonia che non ha mai perso vigore, perfino nella moderna epoca dell’analisi
strutturale il cui portabandiera, per il secolo trascorso, è stato Heinrich
Schenker, che peraltro sviluppò e trasformò notevolmente i propri punti di
vista sulla struttura tonale10. Ma che noi seguiamo la tradizione critica che si
snoda da Hoffmann a Wagner e oltre, o la tradizione dell’analisi formale che
prende il via da A.B. Marx e che recentemente è stata elaborata in nuove teorie
della forma-sonata, o il profondamente perspicace approccio analitico per
livelli di Schenker, nella ricezione di questo lavoro sembra predominare una
basilare intuizione. Si tratta della sensazione che in questa sinfonia Beethoven
si rivolga al mondo non in termini di retorica elevata o in modi epici e
magniloquenti, come nell’Eroica, ma piuttosto che si stia esprimendo dal
profondo del proprio essere, creando musica che suscita le emozioni più
fondamentali con un’intensità senza pari nella musica prima della sua epoca, e
raramente eguagliata in quella posteriore. Queste emozioni includono quelle
provate da Hoffmann – terrore, orrore e dolore – e alla fine, quando tutto si è
compiuto, una visione di trionfo.

I primi stadi conosciuti


Già nel 1804 Beethoven fissò sulla carta le prime idee per due movimenti di una
“Sinfonia” in do minore. Si tratta di sintetici ma significativi abbozzi che
presentano in modo chiaro le versioni primitive dei temi principali del terzo e
del primo movimento, in quest’ordine, con gli abbozzi per il primo movimento
intitolati “Sinfonia”. Questi abbozzi compaiono nel principale quaderno di
appunti di quell’anno, il cosiddetto quaderno “Eroica”, che contiene tutte le fasi
iniziali del lavoro compositivo di Beethoven per la Sinfonia “Eroica” e per altri
lavori del 1803 e dell’inizio del 180411. Questi appunti che prefigurano la Quinta
Sinfonia appaiono nella parte inferiore di pagine dedicate ad abbozzi per il
duetto di apertura del primo atto di Leonore, che Beethoven cominciò a
comporre nei mesi di gennaio e febbraio 1804. Poiché questi concisi appunti per
la Quinta Sinfonia non recano segni delle consuete revisioni e dei soliti
ripensamenti, qualcuno ha pensato che possano essere stati introdotti molto
più tardi, forse dopo che il quaderno fu completato. Ma questa ipotesi è
smentita dal fatto che gli abbozzi per il primo movimento sono
immediatamente seguiti da annotazioni frammentarie che sembrano
chiaramente essere state pensate per successive porzioni del primo movimento,
oltre ad annotazioni per un movimento lento in do maggiore e a un’embrionale
idea per un possibile finale, per nulla somigliante al finale che poi avrebbe fatto
parte del lavoro finito. È chiaro che appartengono a uno stadio primordiale
della concezione del lavoro, e sono avvalorati da altri abbozzi che sono stati
datati al 1804.
Questi abbozzi di partenza appaiono nel seguente ordine:

1. Primo, un esteso schema per la sezione iniziale del terzo movimento con i
suoi due temi principali, seguiti da un analogo abbozzo per il “Trio”
(contrassegnato così; si veda Esempio Web F).
2. Secondo, e significativamente contrassegnato “Sinfonia”, un sommario
dell’esposizione del primo movimento. L’abbozzo inizia con la doppia
esposizione del motivo di apertura nella sua forma definitiva, poi prosegue
conducendo a una primitiva versione della fanfara dei corni che prepara il
secondo tema principale. Segue il secondo tema, dal carattere lirico, scritto
due volte, una dopo l’altra, la prima al relativo maggiore (mi bemolle
maggiore), poi in do maggiore, la tonalità della ripresa (si veda Esempio
Web G).

Non ci sono tracce, qui, del movimento lento in la bemolle maggiore, né del
trionfante finale. Sembra quindi probabile che il primo e il terzo movimento
possano essere stati gli elementi generatori su cui Beethoven costruì poi il resto
della sinfonia. Con le idee fondamentali per i due movimenti in do minore ben
presenti, poteva quindi dedicarsi al movimento lento e al finale12.
Ma quando, dunque, Beethoven cominciò il movimento lento e il finale?
Non possiamo esserne certi, ma è plausibile pensare che si sia rivolto
all’abbozzo in sol maggiore, 3/8, contrassegnato come “Andante sinfonia”,
scritto circa tre anni prima – lo abbiamo già esaminato in relazione alla Seconda
Sinfonia. Questo tema potrebbe essere stato nella sua memoria, se non
addirittura sotto i suoi occhi, quando cominciò a concepire il movimento lento
in 3/8 della Quinta. Poteva averlo trovato facilmente verso l’inizio del suo
principale quaderno di appunti del 1801-3, dove sembra essere stato inserito
intendendolo come movimento lento della Seconda13. Comincia con un duetto
per due corni (“Corni soli”) e il suo profilo ritmico e melodico prefigura il
grande secondo tema del movimento lento della Quinta Sinfonia, con la sua
figura puntata di due note in levare seguita da tre risolute crome – una formula
ritmica che, nella Quinta, riecheggia parzialmente, per quanto in metro
ternario, il famoso motto di quattro note del primo movimento.
Qualche chiarimento circa la graduale definizione del movimento lento ce lo
forniscono gli appunti accessori, a cui abbiamo già fatto riferimento, datati
180414. Qui troviamo una primitiva idea per il movimento lento della Quinta
nella tonalità e nel metro definitivi (la bemolle maggiore, 3/8), con un tema
iniziale che prefigura la versione definitiva, ma è molto meno sviluppato
musicalmente. Noto e citato già dal tardo XIX secolo, questo tema consiste di
due semplici frasi, la seconda delle quali è una semplice elaborazione della
prima15:
Es. 5. Abbozzo per la Quinta Sinfonia, movimento lento.

Fonte: MS Aut 19E

Il titolo di questo abbozzo è davvero impressionante. Beethoven scrive


“Andante quasi menuetto”, e poi “Trio” per la sezione successiva, dove il motto
di quattro note riappare nella sua versione in tempo lento, come nel
movimento finito. Si direbbe che Beethoven pensasse a un movimento lento
“nella maniera di un Minuetto”, o forse a un movimento che combinasse le
caratteristiche del movimento lento e dello scherzo, immaginando che la
sinfonia potesse avere tre movimenti. Ma un progetto del genere sembra essere
completamente contraddetto dall’abbozzo per lo Scherzo nel quaderno di
appunti “Eroica”, che anticipa inequivocabilmente il demoniaco Scherzo,
completamente sviluppato, al quale Beethoven perviene nella versione
definitiva.
E ora veniamo al finale. Che questa sinfonia, ineguagliata per la schiettezza
della sua espressione emozionale, dovesse finire con una visione di
soddisfazione e di speranza, risulta non essere stato l’originario progetto di
Beethoven. Nello schema generale del quaderno “Eroica” Beethoven prova
un’idea per un movimento rapido in do minore, 6/8, che si espande da un inizio
delicato. Questa versione che troviamo sul quaderno di appunti (Esempio Web
H) è contrassegnata “Presto”, “letztes Stück” (ossia “ultimo pezzo”) e l’abbozzo
presenta sei battute del tema iniziale. E alla fine di questo appunto Beethoven
scrive: «potrebbe infine concludere con una marcia» («konnte zuletzt endigen
mit einem Marsch»)16.
Nel gruppo di appunti accessori del 1804 Beethoven prova con un’altra idea
per un finale (“l’ultimo pezzo”) [in italiano] in 6/8, ma sempre in do minore e
con un’ulteriore prosecuzione nella forma di una figurazione ascendente (si
veda Esempio Web J)17. Quest’ultima idea non dà frutti nella Quinta Sinfonia,
ma Beethoven prova a riscriverla in re minore nell’ultima pagina del quaderno
“Eroica”, dove il breve tema è anche contrassegnato “Sinfonia”. Questo
frammento in re minore riapparirà più tardi in un contesto completamente
differente. Ma è del massimo interesse osservare che già all’inizio del 1804
Beethoven aveva fuggevolmente accarezzato l’idea di una sinfonia in re
minore:
Es. 6. Abbozzo per “Sinfonia in re minore”.

Fonte: quaderno di appunti “Eroica”, p. 177, sistema 9

Gli stadi successivi


I successivi passi di Beethoven sono difficili da ricostruire. Abbiamo qualche
ulteriore appunto e l’autografo, pesantemente rimaneggiato, ma le partiture
provvisorie che hanno presumibilmente preceduto l’autografo completo sono
andate perdute, come è accaduto per molti altri suoi lavori. E poiché le sue
pesanti revisioni dell’autografo stesso non sono state completamente decifrate
e chiarite, una più completa interpretazione di queste conclusive revisioni deve
ancora essere intrapresa. Né ancora esiste un moderno studio su ampia scala
che metta insieme tutti gli abbozzi conosciuti e mostri gli stadi della genesi del
lavoro tra il 1804 e il 1808.
Quanto possiamo dire, per il momento, è che: Beethoven già nel 1804
concepì il primo e il terzo movimento e fece degli esperimenti per il movimento
lento. Poi accantonò tutto quanto mentre si occupava di altri importanti
progetti compositivi. Si direbbe che sia ritornato al primo movimento in
qualche momento del 1806, ma il grosso del lavoro sui primi tre movimenti
ebbe luogo nel 1807, come possiamo determinare da un gruppo di abbozzi
sparsi che originariamente avevano fatto parte di un quaderno, che Beethoven
si era fatto da sé, utilizzato quell’anno. L’autografo completo fu terminato
intorno a marzo 1808. Sappiamo anche che nei mesi di febbraio e marzo 1808,
con la Quinta Sinfonia prossima ad essere completata, Beethoven si ritagliò il
tempo per scrivere la Sonata per violoncello in la maggiore op. 69, un
capolavoro che non si potrebbe immaginare più distante, per carattere, dalla
Quinta Sinfonia. Nessun altro esempio potrebbe illustrare in modo migliore
l’abilità di un grande artista nell’avere in mente in modo saldo concezioni
estetiche distantissime e nel concentrare la propria attenzione sulle differenti
sfide che ciascun progetto rivolge alla sua immaginazione.
In qualche momento dell’evoluzione di questa sinfonia, certamente entro il
tardo 1807, Beethoven giunse a un’idea dell’ultimo movimento completamente
differente da quella che aveva abbozzato nel 1804. Il sinistro tema iniziale in do
minore, 6/8, che attacca pianissimo, avrebbe creato un parziale parallelismo con
il primo movimento. A quel punto Beethoven concepì l’idea del finale in modo
completamente nuovo, arrivando infine al grande primo tema in do maggiore –
«splendido, esultante», come lo definì Hoffmann – arricchito da ottavino,
controfagotto e tromboni. Questo movimento si è posto, da sempre, come il
grande esempio beethoveniano di appagamento emozionale al termine di un
percorso tragico, anticipando l’equivalente ruolo del finale della Nona Sinfonia.
La sinfonia nell’insieme
Vediamo ora il lavoro finito. La struttura generale è la seguente:

Il primo movimento

Familiarità e motivo di apertura


Il motivo di apertura (Esempio 7), con il suo schema di 3+1 impulsi, l’ultimo dei
quali prolungato da una corona, resta impresso nella moderna memoria
musicale e culturale, e se ne è disquisito a non finire nella letteratura popolare.
Nel corso del tempo questo motivo di quattro note è diventato un’icona uditiva,
e ha generato infinite associazioni e citazioni. Fu usato durante la Seconda
Guerra Mondiale come simbolo della “V come Vittoria” degli Alleati, poiché per
puro caso il suo schema ritmico è lo stesso della lettera “v” nel codice Morse.
Citazioni di questo motivo punteggiano il panorama della cultura popolare, dal
cinema ai fumetti. Eppure, così come accade per altri simboli artistici che
hanno attinto un simile livello di notorietà, l’ambito in cui ha avuto origine –
non solo la frase di apertura, ma l’intera sinfonia come opera d’arte – è stato
ignorato o trascurato, e i pochi tentativi di approfondire la conoscenza del
contesto compositivo del lavoro hanno dovuto fare i conti con l’incompletezza
della documentazione disponibile fino a quel momento.
Es. 7. Frase di apertura della Quinta Sinfonia, primo movimento. Sono messi in evidenza i due motivi
paralleli di quattro note, il secondo dei quali prolungato, e il motivo di due note (mi bemolle-fa)
determinato dall’ultima nota del primo motivo e dalla prima nota del secondo.
Occupandosi non del solo attacco, ma della sinfonia nel suo insieme,
Schenker ha osservato che l’unità iniziale di quattro note si comprende meglio
come prima metà di una coppia formata da otto note complessivamente, con
una fermata a prolungare la seconda unità, e che la duplice enunciazione è
rilevante per il modo in cui il movimento si sviluppa18. Per quanto Beethoven
non l’avesse ancora scritta quando realizzò il manoscritto autografo della
sinfonia, la battuta extra nella seconda enunciazione fu aggiunta nelle prime
parti d’orchestra, realizzate dal suo copista Joseph Klumpar in occasione della
prima esecuzione, nel 1808, e corrette dallo stesso Beethoven. Perciò
l’autenticità della quinta battuta con corona sembra essere indiscutibile.
Beethoven, ampliando di un’intera misura la seconda enunciazione del motto,
rendeva chiaro il fatto di aver concepito l’attacco come formato da due unità di
3+1 battute, non da una sola, e che l’intera frase dovesse essere percepita come
una discesa dal primo motivo di quattro note al secondo, con una spettacolare
pausa, alla fine dell’intera frase, su un’implicita armonia di dominante che
esige una risoluzione. La prima risoluzione sulla tonica di do minore arriva poi
in modo sommesso, ma difficilmente viene percepita come una risoluzione,
poiché questo passaggio, facendo seguito al fortissimo di apertura, introduce
un’atmosfera emotiva completamente diversa, facendo proseguire il
movimento nella dinamica piano, e apre la strada al vero e proprio primo
movimento in forma di allegro di sonata.
Un fatto altrettanto importante – raramente osservato nella letteratura
generale su Beethoven da quando, per la prima volta, fu messo in evidenza da
Schenker – è che all’interno delle due frasi d’attacco si cela un motivo di due
note ascendenti per grado, da mi bemolle a fa19. Poiché è formato dal mi
bemolle che conclude il primo motto e dal fa che inizia il secondo – cosicché le
due note sono separate da una pausa – questo motivo non è immediatamente
riconosciuto come tale dalla maggior parte degli ascoltatori. Ma, come accade
con altre sottigliezze di pensiero musicale di questo tipo, una volta che ne siano
divenuti consapevoli gli ascoltatori si rendono conto del ruolo vitale che gioca
nella prosecuzione del movimento. Un motivo di questo genere, formato da due
note originariamente scollegate, non ha precedenti nei lavori di Beethoven, per
quanto ne so. È un piccolo ma significativo indicatore dei non ortodossi schemi
immaginativi che stanno alla base di questo lavoro.
Il motivo ascendente di due note diventa un’entità, per la prima volta, come
parte della fanfara dei corni che annuncia il lirico secondo tema20. Più avanti,
nello sviluppo, ricompare come motivo indipendente e diventa un elemento
fondamentale per la continuità dell’intera sezione, acquisendo una misteriosa
vita propria nel sommesso passaggio mozzafiato che precede la ripresa. Nella
coda, infine, questa figurazione riappare in semiminime dal carattere di marcia
mentre il tragico racconto volge alla conclusione.
In questo Allegro la relazione tra forma e contenuto è tale da non trovare
paragoni in alcun altro primo movimento di Beethoven. Lo schema generale è
quello di una forma-sonata in quattro parti – approssimativamente della
medesima ampiezza – tra cui un’ampia coda. Siamo assai distanti dal primo
movimento dell’Eroica, con il suo gigantesco sviluppo. Ma la particolare
caratteristica del primo movimento della Quinta scaturisce evidentemente dalle
incessanti ripetizioni del ritmo del motto iniziale. Sembra evidente che
l’immaginazione di Beethoven fosse inchiodata sul forte dualismo di elementi
primari e sulla creazione di un contrasto il più possibile violento tra il
demoniaco attacco in do minore e il secondo tema cantabile in mi bemolle
maggiore. Eppure anche quando il secondo tema interviene ad arrecare sollievo
dalle martellanti ripetizioni della prima parte dell’esposizione, il motivo di 3+1
battute si ascolta come una sommessa presenza, nei violoncelli e nei
contrabbassi, a rinforzare ogni movimento cadenzale nell’ambito del tema e
della sua prosecuzione nella lunga sezione successiva21. Segue poi il possente
accordo attaccato fortissimo che dà il via alla successiva sezione
dell’esposizione. E il fatto che il motto domini poi la vita ritmica dell’intero
movimento lungo tutto il suo svolgersi, fino alla fine, è una conclusione
scontata.
Alcune particolari caratteristiche del primo movimento esigono un breve
commento.

Il carattere dello sviluppo


L’esposizione conclude regolarmente nella tonalità del relativo maggiore (mi
bemolle maggiore), proprio come ci si aspetta in un movimento in forma-
sonata nel modo minore, ma ciò che risulta sorprendente, di lì in poi, è il fatto
che l’intero sviluppo si limiti a questa successione di tonalità minori:
Fa minore – do minore – sol minore – do minore – fa minore (instabile) – sol maggiore – fa minore –
do minore

Questo percorso modulante è considerevolmente circoscritto e si discosta


dagli schemi normalmente applicati da Beethoven nel formulare le sezioni di
sviluppo22. Nell’intero sviluppo non ci sono che poche misure nel modo
maggiore, e questo fuggevole bagliore ha comunque vita breve.
Lo sviluppo svela, lungo differenti linee, un altro tipo di dualismo. Dopo che
la prima parte di questa sezione ha elaborato il motivo di quattro note con
crescente intensità, l’azione culmina con il richiamo con cui il corno aveva
introdotto il secondo tema nell’esposizione. Beethoven quindi crea un lungo
passaggio nel quale il motto di quattro note viene infine abbandonato per
essere rimpiazzato dal motivo di due minime ascendenti che deriva dalla
doppia proposizione del motto all’inizio dell’intero lavoro. Beethoven impiega
poi il motivo di due note lungo tutta la seconda parte della sezione pervenendo
a un effetto drammatico.
Per più di trenta battute questa figura di due note ascendenti colma lo
spazio musicale alternandosi tra fiati e archi, procedendo attraverso armonie
instabili, cambiando metro in modo davvero sorprendente e diventando sempre
più lieve, sino a raggiungere il pianissimo23. Nell’ultima frase le due note di
questo motivo tornano ad essere separate, ed ora compaiono in singole battute
alternando acuto e grave. È un momento estremamente inusuale: come se
stesse segnalando un crollo psicologico dopo l’immensa profusione di energia
che si è consumata fino a questo punto. Prima di questo momento Beethoven
aveva usato simili alternanze di accordi acuti e gravi isolati per comunicare un
senso di incertezza e mistero altre due volte: nel finale dell’op. 18 n. 6 (La
Malinconia), e nel Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 124, dove crea un
impressionante passaggio che ricorre tre volte nel primo movimento. Queste
minime che tengono con il fiato sospeso sono infine interrotte da nuove
esplosioni del richiamo del corno, questa volta modificato, che conducono alla
ripresa.

La cadenza dell’oboe nella ripresa


Il solo dell’oboe all’inizio della ripresa – una lirica pausa meditativa – è il
momento più toccante di questo stupefacente movimento. Si tratta di una breve
cadenza, con l’indicazione “Adagio”, in cui l’oboe solista interrompe
l’incessante slancio in avanti introducendo una singola frase che discende per
gradi da sol a re – una scelta di note che non si può non sentire come un
rimettere in ordine le otto note originali che avevano dato il via all’iniziale
coppia di motivi (sol-fa-mi bemolle-re), ora disposte in forma di scala.
Beethoven, nella sua scrittura sinfonica, predilige l’oboe per i passaggi di
speciale espressione emotiva – lo conferma il fatto che nella Marcia Funebre
dell’Eroica gli siano state affidate la melodia nella consolatoria sezione centrale
in do maggiore, e la successiva ripresa in do minore del tema della marcia.
Nella cadenza della Quinta Sinfonia questo solo dell’oboe – scrive un
commentatore – emerge come una voce «da un altro mondo»25.

La Coda
Come in molti altri primi movimenti di Beethoven in forma-sonata la coda è
una sezione autonoma ampiamente sviluppata: controbilancia lo sviluppo e fa
sì che il movimento, nel suo insieme, consista non di tre, ma di quattro sezioni
principali – nella fattispecie, di quattro sezioni di lunghezza grosso modo
equivalente. Il senso delle proporzioni ha la meglio su ogni altra considerazione
nel determinare come il movimento debba finire, ma pare che a uno stadio già
molto avanzato della composizione Beethoven non avesse ancora preso una
decisione sul modo di concludere, dato che nel manoscritto autografo troviamo
un prolisso segmento conclusivo di oltre venti battute dapprima scritto per
esteso in partitura, e poi cassato completamente per essere rimpiazzato dalle
stringate tre battute che, con un’energica cadenza, concludono il movimento. Il
segmento cancellato prolungava l’affermazione della tonica do minore e,
immediatamente prima dei tre accordi cadenzali conclusivi, ribadiva ancora
una volta il motivo di quattro note. Ma vediamo che nella versione definitiva
Beethoven ha ridotto l’ultimo segmento all’essenziale, omettendo una ripresa
del motto al momento di concludere.

Il secondo movimento
Trovando riparo nella tonalità di la bemolle maggiore, dopo la tempesta del
primo movimento, si ha la sensazione di essersi sistemati in un comodo rifugio.
Il rifugio è lì vicino, poiché la tonica do del primo movimento è ora la terza
dell’accordo di tonica della nuova tonalità, la bemolle maggiore. E così in
questo Andante Beethoven continua a sfruttare il contrasto tra la bemolle
maggiore e do maggiore per modellare la dinamica formale dell’intero
movimento, impiegando due temi di base contrastanti che identificano ciascuna
sezione e sono congegnati in modo da consentirgli di elaborarli entrambi
ampiamente e liberamente26. Lo schema di base del movimento è il seguente:

Il terzo movimento: scherzo in tre o in cinque parti?


Abbiamo visto che il terzo potrebbe essere stato uno dei movimenti da cui si è
generata l’intera sinfonia, dato che precedeva il primo movimento quando
entrambi vennero abbozzati nel quaderno “Eroica”. Il progetto originario di
Beethoven, sia pure in forma abbreviata, anticipa i due temi fondamentali su
cui è costruito lo Scherzo:

1. Il primo tema (all’origine privo del levare e con un arpeggio ascendente


lievemente diverso, ma con la stessa prosecuzione della versione definitiva);
2. Il famoso motivo 3+1, esattamente come nella versione definitiva, ma con
una prosecuzione diversa da quella che Beethoven avrebbe scritto
successivamente (nella versione definitiva il tema è affidato prima ai corni,
poi all’intera orchestra).

Il dualismo tematico, così, è esplicito da subito, come nel movimento lento.


Nell’originario schema generale del movimento, sul quaderno di appunti, il
Trio non mostra alcuna traccia della scrittura contrappuntistica che
contraddistingue così chiaramente la versione definitiva, tuttavia ha fluidi
schemi di crome in do maggiore, e l’indicazione forte mostra che l’empatica
solidità del Trio, in contrasto con l’attacco misterioso dello Scherzo, era stata
pianificata fin dall’inizio, anche se il suo impianto contrappuntistico emerse
successivamente.
In tempi moderni la forma originaria del movimento ha suscitato
controversie dovute alle notevoli discrepanze tra le prime fonti. Ma una cosa è
certa: al momento della stesura della partitura autografa della sinfonia era
intenzione di Beethoven che questo movimento fosse in cinque parti, nel
seguente modo (secondo il sommario di tutte le fonti disponibili e delle correnti
interpretazioni redatto da Jonathan del Mar)27:

Scherzo ||:Trio parte 1 :|| Trio parte 2 || Scherzo ||: Trio parte 1 :|| Trio parte 2 ||
Scherzo e Coda

Come abbiamo visto esaminando la Quarta Sinfonia, la forma dello scherzo in


cinque parti era una delle innovazioni di Beethoven. La si trova in
composizioni scritte tra il 1806 e il 1810 e in un lavoro tardo, il Quartetto in do
diesis minore op. 131. Ma uno sguardo attento alle fonti della Quinta Sinfonia -
l’autografo, le prime copie della partitura e delle parti, le prime edizioni - ci
mostra che, mentre arrivava alle decisioni definitive, Beethoven modificò lo
scherzo per conferirgli la forma in tre parti che ritroviamo nelle più affidabili
edizioni moderne. La versione in cinque parti, comunque, sembra essere
sopravvissuta per molti anni dopo la prima esecuzione del 1808, come veniamo
a sapere da alcune osservazioni in uno dei quaderni di conversazione del 1820.
Qui il suo confidente Franz Oliva dice a Beethoven:
ieri dei dilettanti hanno accorciato la vostra sinfonia – hanno lasciato fuori quasi metà del terzo
movimento – la sezione centrale con il fugato è stata eseguita solo una volta, poi è venuta la parte
dove i violini hanno il pizzicato, e la transizione al finale […] l’effetto è stato pessimo.28

Evidentemente vari set di materiali per l’esecuzione usati tra il 1808 e il 1820
recavano ancora i segni di ritornello, in certi casi cancellati ma poi ripristinati
da annotazioni degli esecutori. Probabilmente lo stesso Beethoven, impegnato
com’era nel suo lavoro a Vienna o in campagna, non sapeva nulla di queste
abitudini29.
L’intenzione definitiva di Beethoven, dunque, era di abbreviare il
movimento alla sua versione in tre parti, trasformare la ripresa dello Scherzo in
un’estesa sezione pianissimo con dei pizzicato agli archi, e collegare
direttamente lo Scherzo al Finale per mezzo di un’ampia coda con il motto di
quattro note ai timpani, lunghe note tenute agli archi gravi e un crescendo che
esplode repentinamente nell’Allegro conclusivo. La troncatura dello Scherzo va
di pari passo con la successiva idea di riprendere la versione pianissimo dello
Scherzo, nell’ambito del Finale, come introduzione della ripresa – ora
ristrumentata e con un altro solo dell’oboe, cui si aggiungono flauto e fagotto
in prossimità del punto culminante.
Questa ripresa dello Scherzo nell’ultimo movimento è uno dei momenti più
famosi della letteratura sinfonica. Contrassegna un altro dei modi in cui questa
sinfonia si pone all’avanguardia non solo con la sua integrazione ciclica del
materiale tematico (il motto iniziale viene usato in svariate maniere, ma il suo
ritmo fondamentale è sempre mantenuto), ma anche nel collegare i movimenti
per formare un insieme multi-sezionale in cui gli ultimi due movimenti
vengono uniti. Sappiamo che Haydn, nella Sinfonia “Degli addii” n. 45 e nella
Sinfonia n. 46 in si bemolle maggiore, aveva anticipato l’idea di integrazione
ciclica, ma non possiamo essere certi che Beethoven conoscesse l’uno o l’altro
di questi lavori30. Sembra più verosimile che Beethoven possa aver concepito
l’integrazione ciclica seguendo il genere della “fantasia” – che nel tardo
Settecento era intesa come una forma in più sezioni liberamente sviluppata,
con la quale Beethoven già in precedenza aveva tentato degli esperimenti, e a
cui si sarebbe ancora rivolto nella Fantasia Corale op. 80 e nella Fantasia op. 77
per pianoforte.
Come abbiamo già visto, nel genere della “fantasia” le sezioni si
susseguivano senza interruzioni (“attacca”), e vediamo anche che in più di una
fantasia di Beethoven, e anche in altri suoi lavori che si possono ricollegare alle
fantasie, prima della conclusione viene ripresa una sezione di apertura. È
quanto accade nella prima delle due Sonate op. 27 per pianoforte, entrambe
significativamente definite “quasi una fantasia”. Nella prima di questa coppia di
sonate una consistente porzione dell’Adagio ritorna verso la conclusione del
Finale; analogamente, nella Sonata per pianoforte op. 101 e nella Sonata per
violoncello op. 102, n. 2, Beethoven riprende l’Andante iniziale
immediatamente prima di un eccitante finale in 2/4.

Il finale
Fin dall’inizio, quando in tutta l’orchestra divampa il suo tema ascendente dal
carattere di marcia in puro do maggiore, di fronte a noi si schiude un panorama
completamente nuovo. I caratteri sia tragici, sia lirici dei movimenti precedenti
ora si fanno da parte per lasciar posto al trionfante, glorioso finale. Questo
finale talvolta viene associato all’”éclat triomphale” della Rivoluzione Francese,
con il quale, per gli ascoltatori dell’epoca di Beethoven, poteva forse stabilire
dei collegamenti. Ma ciò che è certo è che in epoche successive, e oggi più che
mai, questo attacco porta l’immaginazione dell’ascoltatore su un livello più alto
di esperienza, che ricomprende tutto quanto è già stato provato per andare
oltre.
A un ascolto più attento ci si accorge che questo finale mantiene un intimo
contatto con vari aspetti dei movimenti precedenti, che vengono trasformati
collocandoli in un contesto nuovo. Di questi, l’unico rimando formale –
soltanto parzialmente letterale – è la ripresa dello Scherzo subito prima della
ripresa. Ma altri collegamenti sono ben avvertibili. I temi principali di questo
finale, per quanto nuovi e autonomi, hanno altresì dei legami con i movimenti
precedenti, e li portano ad uno stadio conclusivo. Questi collegamenti tematici
emergono nell’ambito dell’organizzazione tonale su ampia scala di questo
movimento e della sinfonia nel suo complesso, dato che, adesso, possiamo
constatare che dal primo movimento in avanti c’è stata una dialettica tra do
minore e do maggiore che si conclude, ora, con il trionfo della tonalità di do
maggiore. Non è semplicemente questione di soppiantare il minore con il
maggiore. La ripresa dello Scherzo nel finale, che riconduce al primo tema, è
l’ultimo stadio di un processo mediante il quale l’antitesi minore/maggiore
trova una risoluzione. Un diagramma lo renderà chiaro
Per conferire a questo movimento le dimensioni e la portata necessarie ad
assolvere la sua funzione, a Beethoven occorre ben più del meccanismo dei due
temi principali contrastanti che aveva governato i movimenti precedenti. Qui,
nell’esposizione, ci sono almeno quattro temi importanti:

Tema A Frasi tipo-marcia in puro do maggiore, a tutta orchestra;


Tema B Un altro tema principale nella tonica do maggiore, poi sottoposto a
sviluppo negli archi mentre l’armonia va verso l’area della dominante
dell’esposizione;
Tema C Un nuovo tema caratterizzato da terzine in levare che risolvono
risolutamente sul battere successivo, che richiama chiaramente il ritmo del
motto dei movimenti precedenti;
Tema D Comincia fp, con una frase di due battute che discende di una quarta; la
seconda e la terza battuta ancora una volta richiamano il ritmo del motto;
l’esposizione conclude fortissimo con arpeggi ascendenti e accordi tenuti
di legni e ottoni.

Le conseguenze di questa esposizione pluritematica, a parte la completa


ripetizione e l’amplificazione a cui viene sottoposta nella lunga ripresa, si
esplicano completamente nella coda. La coda è una delle più lunghe mai scritte
da Beethoven: è questa, tra le sezioni principali della Quinta Sinfonia, ad essere
stata oggetto di critiche – per la lunghezza e, proprio alla fine, per le
martellanti reiterazioni della tonica che alcuni commentatori hanno reputato
eccessive. Hoffmann pensava che questi accordi conclusivi fossero «collocati in
modo eccentrico» e continuò descrivendo le battute conclusive come una
distrazione dalla sensazione di conclusione: «la perfetta calma che il cuore
avverte come risultato delle molteplici figurazioni conclusive […] è distrutta da
questi accordi e pause isolati». Al che Tovey ha ribattuto, con una classica
dichiarazione di fede nel senso delle proporzioni di Beethoven, che «queste
quaranta battute non hanno senso senza il resto della sinfonia, ma la sinfonia
finisce altrettanto correttamente in relazione alle sue proporzioni quanto l’Et in
terra pax della Messa in si minore»31.
Uno sguardo alla struttura generale della coda può aiutare a chiarire la
situazione. Prima di tutto ci sono due code, a dire il vero, ed è essenziale notare
che, per la perorazione finale, il tempo accelera da Allegro a Presto. La mutua
relazione tra le code di Beethoven e i suoi sviluppi è nota, ma la scomposta
lunghezza di questa doppia coda, o di queste due code giustapposte, nonostante
il cambiamento di tempo a Presto per la seconda sezione, richiede qualche
spiegazione. La prima ha a che fare con la scelta, da parte di Beethoven, di temi
prevalenti.

Coda I
Nella prima coda Beethoven comincia con due enunciazioni del tema “B”
facendo così un riferimento retrospettivo non allo sviluppo (dove “B” non ha
avuto alcun ruolo) ma all’esposizione e alla ripresa. Poiché il tema “B” fino a
questo punto non ha avuto alcuna elaborazione, Beethoven può ora trattarlo
abbondantemente, in una successione di ampie frasi.

Coda II
Siamo ora pronti ad occuparci della seconda e conclusiva coda, il cui tempo
Presto prevarrà fino alla fine. La durata di questa seconda coda è
approssimativamente quella della prima, se accettiamo le indicazioni
metronomiche di cui Beethoven nel 1817 corredò le sue prime sinfonie e
quartetti (Coda I = Allegro, minima = 84; Coda II = Presto, semibreve = 112). La
Coda II comincia la sua conferma dell’armonia di tonica con il tema “D”,
alternando accordi di tonica e di dominante di battuta in battuta. Una splendida
caratteristica dell’attacco di questo Presto, scarsamente rilevata in letteratura, è
il fatto che il suo disegno triadico ascendente in do maggiore riprende, su scala
più ampia, lo stesso disegno ascendente con cui si apre il finale (tema “A”), e
che a questo disegno si aggiunge il ritmo fondamentale 3+1 che ha saturato la
sinfonia fin dalla prima battuta del primo movimento. Da qui in poi il grande
sfogo conclusivo prosegue con una versione compattata del tema “A” che dà il
via a uno splendido schema ascendente per innescare, in tutta la sua gloria,
l’ultima fase del movimento. Questa sequenza può essere vista e sentita come
una struttura tripartita su ampia scala, con la prima e la terza sezione
simmetriche e la sezione centrale lievemente più corta.
E così la seconda coda, con tutte le sue reiterazioni della tonica, emerge
come un segmento ampio ed equilibrato, e le sue ridondanti riaffermazioni
dell’armonia di tonica vengono a far parte della struttura formale su ampia
scala della sinfonia nel suo complesso. Giungendo alla fine di questo colossale
finale ci ricordiamo del pensiero originale di Beethoven quando, anni prima,
aveva steso i primi abbozzi per questa sinfonia: «potrebbe concludere, proprio
alla fine, con una marcia». Ed è proprio ciò che accade.

La “Quinta” e l’ “Eroica”
Quando Beethoven suonò l’Eroica per Ferdinand Ries nell’autunno del 1803,
Ries disse che si trattava «del lavoro più importante […] scritto [da
Beethoven]». E ciò accadde solo pochi mesi dopo che Beethoven aveva messo
sulla carta le prime idee per la sinfonia in do minore che sarebbe poi stata la
Quinta, lasciando alle nostre supposizioni cosa mai possa averne detto a Ries,
per quanto ad uno stadio ancora così embrionale. L’Eroica, dopo tutto, è il
fondamentale lavoro grazie al quale Beethoven aveva rivoluzionato il genere
sinfonico e, in un certo senso, il mondo dell’esperienza musicale della sua
epoca. La Quinta, una volta terminata, ampliò ulteriormente questo mondo con
la sua indimenticabile rappresentazione di tragedia e di riscatto. Per questo
alcune riflessioni sui due lavori possono risultare opportune.
Per ampiezza e portata l’Eroica sta in una categoria a parte, e la pienezza dei
suoi contenuti va di pari passo con le sue dimensioni. La grande lunghezza del
primo movimento, e soprattutto del suo sviluppo, consente a Beethoven di
presentare il più ampio ventaglio di materiali che avesse mai incluso in un
movimento in forma-sonata. Beethoven conferisce allo sviluppo una quantità
di speciali caratteristiche che, in quest’ordine di grandezza, non compaiono in
alcun altro primo movimento sinfonico suo o dei suoi predecessori. Una è
l’introduzione di un nuovo tema nella remota tonalità di mi minore; un’altra è
la lunga e intensa preparazione di dominante che precede il ritorno alla tonica,
e una terza è la celebre entrata del corno, immediatamente prima della ripresa,
“alla battuta sbagliata”. La stessa ampiezza di dimensioni è condivisa dagli altri
movimenti, il cui ampio spettro emozionale include il compianto di un eroe
caduto, seguito dal dinamico Scherzo e dall’evocazione – nel Trio – dei suoni
della battaglia, e infine le estese variazioni del finale. L’insieme è
evidentemente concepito su una scala grandiosa, un po’ come una narrazione
epica sul tema dell’eroismo.
La Quinta, al confronto, è un dramma snello e compatto in cui un motivo
ritmico generatore – l’inesorabile figurazione 3+1, nella sua forma iniziale e poi
nelle successive varianti – connette tutti i contrasti che seguono: l’intensità del
primo movimento e il consolatorio Andante (all’interno del quale il motto
riveste un ruolo di grande importanza), il ritorno a un clima tenebroso nel terzo
movimento (con il motto ancora una volta energicamente proclamato in forma
manifesta) e il trionfante finale, nel quale il motto è incorporato nella pluralità
dei temi.
È soprattutto nei rispettivi finali che i due lavori differiscono radicalmente32.
Ancora una volta sono i diversi punti di origine a fornircene una spiegazione.
Dal momento che il finale dell’Eroica deriva da una serie di variazioni per
pianoforte, combinando variazioni tra loro collegate in una forma complessiva
tripartita e con episodi fugati, non avrebbe mai potuto essere articolato sulla
struttura drammatica di un movimento in forma-sonata. Un finale in forma-
sonata, nell’Eroica, avrebbe significato includere una ripetizione strutturale su
ampia scala dell’esposizione, una propensione all’elaborazione motivica
nell’ambito di un percorso modulante, e uno spettacolare ritorno alla tonica del
tema iniziale nella ripresa. Al contrario, il finale dell’Eroica è letteralmente
costruito sul suo basso-e-tema introduttivo per formare un nuovo, grandioso
tipo di variazioni sinfoniche – che tuttavia non ha e non può avere l’intensità
drammatica che Beethoven conferisce alla forma-sonata in tanti suoi lavori. E
neppure possiede la forza irrefrenabile che travolge tutti gli ostacoli, come
l’ultimo movimento della Quinta. Dà l’impressione di un’immensa meditazione
sul tema dell’eroismo più che di una diretta rappresentazione delle emozioni
stesse, che è invece quanto ci comunica il finale della Quinta.
Ci sembra evidente, pertanto, che Beethoven non ha concepito il finale
dell’Eroica come apice emozionale della sinfonia nel suo complesso, e che si
tratta, né più né meno, di un finale in forma di variazioni su ampia scala: una
conclusione appropriata, per quel grandioso lavoro, ma non il suo culmine
drammatico. Il ritorno del tema principale alla tonica al Poco Andante e nella
successiva coda dà al finale dell’Eroica il carattere di una conclusione epica,
non di un epilogo pensato per sciogliere tensioni latenti rimaste irrisolte. Non è
inteso per rivaleggiare con il primo movimento proponendo un acceso dramma
tematico e motivico, e tantomeno per esplorare un vasto spazio tonale, cosa che
invece avviene nel primo movimento; il suo livello emotivo lo avvicina ad un
ampio paesaggio, più che a un dramma meticolosamente congegnato.
Nella Quinta, d’altra parte, abbiamo l’esempio più efficace, in Beethoven, di
un finale che trasforma e realizza le implicazioni emozionali di tutto ciò da cui
è stato preceduto: un ultimo movimento che sbilancia decisamente verso il
finale l’intera sinfonia. Dà sollievo al dolore e alla paura che proviamo nei tre
movimenti da cui è preceduto trascinandoli nella piena luce del giorno. Nella
misura in cui vogliamo ascrivere le sue speciali caratteristiche a questioni
private di Beethoven, come molti hanno fatto, possiamo collegarlo al suo
tormento personale e alla sua volontà di averne la meglio – e in questo senso
potrebbe essere inteso come l’equivalente del “puro giorno di gioia” al quale
anelava nel Testamento di Heiligenstadt. Ma se consideriamo la Quinta
un’opera d’arte che trascende la dimensione personale e parla all’umanità in
termini universali, possiamo intenderne il finale come il coronamento di un
capolavoro del più alto livello, e la sinfonia stessa come un possente messaggio,
rivolto al futuro, sul coraggio e la capacità di reagire dell’umano spirito.
7. Beethoven in campagna, intento a comporre. Incisione di Franz Hegi, 1838 ca
(Beethoven-Haus, Bonn / Bridgeman Images)

1
A.F. Schindler, Beethoven As I Knew Him: A Biography, a cura di D.W. MacArdle, trad. ingl. C.S. Jolly,
Chapel Hill, University of North Carolina Press 1966, p. 147; anche in Beethoven; Fifth Symphony a cura di
E. Forbes, New York, W.W. Norton 1960, p. 5.
2
L’osservazione di Holz fu riportata da Wilhelm von Lenz, Beethoven: Eine Kunst-Studie, Kassel, E.
Balde 1855-60, 1, p. 216 sg., sulla base di una testimonianza scritta che Holz diede a von Lenz nel 1857.
3
Leggendo questa lettera, profonda espressione di un momento di estrema gravità, ci si può chiedere
se Beethoven potesse aver avvertito un’affinità tra la sua situazione personale
e quella dei personaggi dei drammi di Schiller che si scagliano contro il loro fato – il loro “Schicksal” –
giurando di averne la meglio. Si veda, tra le altre disamine dei drammi di Schiller, Peter A. Claassen, The
Fate-Question in the Dramas and Dramatical Concepts of Friedrich Schiller, Leipzig, R. Berger 1910.
4
Si veda Douglas Johnson, 1794-5: Decisive Years in Beethoven’s Early Development, in BS3, 1982, p. 18
sg.
5
B. Churgin, Beethoven and Mozart Requiem, «Journal of Musicology», V, Oakland, CA, 1987, p. 476, N
II, p. 531 evidenzia la vicinanza tra il passo della Sinfonia in sol minore di Mozart e gli abbozzi per lo
scherzo della Quinta Sinfonia. Lo si trova in un quaderno miscellaneo conservato a Berlino, Landsberg 12;
si veda Hans Schmidt, Verzeichnis der Skizzen Beethovens, «Beethoven Jahrbuch», LXVI.
6
TF, p. 802.
7
Per quanto riguarda l’osservazione rivolta a Rochlitz (che, come è stato dimostrato da Maynard
Solomon, non era il più affidabile dei testimoni) si veda TF, pp. 800-4. Il passaggio in si minore e il relativo
commento sono nel cosiddetto “quaderno Scheide” (Scheide Sketchbook), conservato a Princeton, NJ, citato
per la prima volta da Nottebohm in N II, p. 326.
8
Per uno studio esauriente ed estremamente istruttivo su questo argomento si veda Michael Tusa,
Beethoven’s C-minor Mood: Some Thoughts on the Structural Implications of Key Choice, «Beethoven
Forum», II, Lincoln, NE, 1993, pp. 1-29.
9
Si veda Senner e Wallace, The Critical Reception of Beethoven’s Compositions, by His German
Contemporaries, II, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1999, pp. 95-112.
10
La particolare attenzione di Schenker per Beethoven percorre tutta la sua vita e la sua opera, dalla
monografia sulla Nona Sinfonia, (Heinrich Schenker, Beethovens Neunte Sinfonie: eine Darstellung des
musikalischen Inhaltes unter fortlaufender Berücksichtigung auch des Vortrages unter der Literatur ,Wien,
Universal Edition 1912; trad. ingl. J. Rothgeb, Beethoven’s Ninth Symphony, New Haven, CT, Yale
University Press 1992), fino a Der Freie Satz (Heinrich Schenker, Der freie Satz. Neue Musikalische Theorien
und Phantasien, Wien, Universal Edition 1935). Le sue analisi della Quinta Sinfonia furono pubblicate in
«Der Tonwille», Wien 1921-24, e come monografia nel 1925; la traduzione in inglese si trova in Der
Tonwille di William Drabkin, Oxford, Oxford University Press 2004. Per un esame dell’analisi di Schenker
della Quinta si veda Scott Burnham, Beethoven Hero, Princeton, NJ, Princeton University Press 1995, pp.
89-102.
11
Si veda ESk.
12
Questi abbozzi appaiono alle pp. 155-58 del quaderno, e dopo il primo schema articolato dei temi
fondamentali del primo movimento, le pagine successive comprendono appunti frammentari e discontinui
che mostrano le prime idee di Beethoven, buttate giù mentre pensava a possibili punti in cui avrebbe
potuto usarle nel corso del primo movimento. Gli schemi per il terzo e il quarto movimento sono
relativamente ordinati e intatti, il che fa pensare che Beethoven li abbia copiati da altri fogli di appunti
che sono andati perduti; al di là di questo per ora non possiamo aggiungere altro. Gli abbozzi in Aut. 19E
– la fonte collaterale – sono altrettanto incompleti e frammentari.
13
Kesslersches Skizzenbuch a cura di S. Brandenburg, Bonn, Beethoven Haus 1978, f. 8v, sist., 1,
contrassegnato “Andante Sinfonia”.
14
Berlino, Aut 19E, ff. 32v-33r.
15
Pubblicato originariamente in N I, 10-15, insieme con gli abbozzi dell’accompagnamento per il Quarto
Concerto per pianoforte. Si veda anche William Meredith, “Forming the New From the Old: Beethoven’s
Use of Variation in the Fifth Symphony”, in Beethoven’s Compositional Process, a cura di W. Kinderman,
Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1991, pp. 107-9 (Meredith propone nuove trascrizioni di tutti gli
abbozzi per la Quinta inclusi in Aut. 19E).
16
Quaderno “Eroica”, p. 158, sist. 8-11.
17
È il tipo di figura che definisco arpeggio “ripiegato”.
18
In un recente libro di Matthew Guerrieri, The First Four Notes: Beethoven’s Fifth and the Human
Imagination, New York, Alfred A. Knopf 2012, viene esaminato un ampio ventaglio di utilizzazioni e
riferimenti al motto di quattro note iniziale, ma Guerrieri respinge l’opinione di Schenker che l’attacco
debba essere sentito come una coppia di figurazioni di quattro note che formino un tutto unico.
19
L’unico autore a mettere in evidenza questo fatto, dopo Schenker, è stato Walter Riezler, Beethoven,
8a edizione, Zurich, Atlantis 1951, p. 145 (Walter Riezler, Beethoven, trad. it. O.P. Bertini, Milano, Rusconi
1977, p. 213).
20
Bb. pp. 59-62.
21
Bb. pp. 65-93.
22
Un diagramma può essere visto in BML, p. 222.
23
A proposito di questo importantissimo cambiamento di metro e sulle sue conseguenze si veda
Andrew Imbrie, “Extra” Measures and Metrical Ambiguity in Beethoven, BS, pp. 45-66, in particolare p. 55
sg.
24
Nel finale dell’op. 18 n. 6, bb. 12-16 e nell’op. 59 n. 1, bb. 33-38, 146-51 e 332-37; su quest’ultimo si
vedano le mie osservazioni in Inside Beethoven’s Quartets, Cambridge, MA, Harvard University Press 2008,
p. 119.
25
Martin Geck, “V Symphonie in C moll, Op. 67”, in Die Neun Symphonien Beethovens, a cura di R. Ulm,
Kassel, Bärenreiter 1994, p. 158.
26
Tra i precedenti lavori in modo minore che presentano analoghi movimenti nella tonalità (maggiore)
del VI grado abbassato troviamo, nella tonalità di do minore, le sonate per pianoforte op. 10 n. 1 e op. 13
(Patetica), e la Sonata per violino op. 30 n. 2. In altre tonalità minori troviamo la Sonata per pianoforte in
re minore op. 31 n. 2, e molto più tardi, la Nona Sinfonia op. 125 e il Quartetto in la minore op. 132.
27
Beethoven, Symphonie Nr. 5, c-moll, Op. 67, edizione critica a cura di Jonathan Del Mar, Kassel,
Bärenreiter 1999, Commento critico, pp. 55-59; e, di Jonathan Del Mar, Beethoven’s Five Part Scherzos:
Appearance and Reality, «Early Music», Oxford XI, 2, 2012, pp. 297-305, in particolare, a proposito del
problema dello Scherzo della Quinta Sinfonia, pp. 299-300.
28
Beethoven, Konversationshefte, a cura di K.-H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G. Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1968-2001, II, p. 53.
29
Su questo punto sono debitore del Commento critico di Jonathan Del Mar, cit. pp. 55-9.
30
Si veda l’eccellente disamina di questi lavori e delle questioni collegate in James Webster, Haydn’s
“Farewell” Symphony and the Idea of Classical Style, Cambridge, Cambridge University Press 1991.
31
D. Tovey, A Musician Talks, II, Musical Textures, London, Oxford University Press 1941, p. 64, cit. in
Beethoven, Symphony No. 5, a cura di E. Forbes cit., p. 198 sgg.
32
Per un accurato confronto dei due finali si veda Burnham, Beethoven Hero cit., pp. 55-60.
VI

La Sinfonia “Pastorale”

Beethoven e la natura
Nel maggio del 1810 Beethoven scrisse, chiamandolo «buon vecchio amico», al
suo compagno d’infanzia Franz Wegeler:
Da un paio d’anni ho smesso di vivere relativamente in pace e serenità, essendo stato trascinato a
forza nella vita di società. Vantaggi per ora non ne ho visti, anzi forse l’opposto – Ma chi può mai
sottrarsi alle tempeste che infuriano intorno a lui? Tuttavia sarei felice, forse uno dei più felici fra gli
uomini, se il demone non si fosse insediato nelle mie orecchie – Se non avessi letto da qualche parte
che all’uomo non è lecito staccarsi volontariamente dalla vita, finché può ancora compiere qualcosa di
buono, ormai da tempo avrei cessato di vivere – e, per di più, di mia mano – Oh, la vita è così bella, ma
per me è avvelenata per sempre - 1

L’importanza di questa lettera del 1810 non è stata pienamente apprezzata


dai biografi. Ci dice che la crisi emotiva che Beethoven aveva subito a
Heiligenstadt nel 1802, quasi otto anni prima, non era stata superata o
realmente guarita. Ci parla della costante disperazione di Beethoven, della sua
sordità e del suo isolamento sociale, dei suoi ricorrenti pensieri suicidi.
Combinata con la prova di un’altra crisi depressiva nel 1812, ci consente di
concludere che le sue infermità fisiche e psichiche non erano culminate con
una grave crisi nel 1802 per poi migliorare, ma che la sua sofferenza continuò
senza tregua per molti anni. E proseguì poi nel suo ultimo periodo, mentre
sordità, malattia e isolamento si facevano sempre più debilitanti.
Alla luce di questa lettera, è rincuorante realizzare che, nel 1810, Beethoven
aveva attraversato alcuni dei suoi anni più proficui, aveva prodotto una
quantità di lavori importanti ed era riconosciuto come il più grande
compositore della sua epoca – acclamato tanto per la sua musica sinfonica,
pianistica, cameristica, quanto per composizioni vocali come l’oratorio Cristo
sul monte degli ulivi e la Messa in do maggiore. Ma le ferite della sua vita
interiore rimanevano aperte e penose, e Beethoven ne attribuiva almeno alcune
a «persone malvagie»2. Nel 1810 la sua incapacità di realizzare il sogno
dell’amore coniugale con Teresa Malfatti (una speranza che in effetti svanì non
più di un mese dopo la lettera a Wegeler) potrebbe solo aver esasperato il suo
senso di sconfitta e deprivazione.
Se lo consideriamo non solo come un tratto del suo carattere – un carattere
allo stesso tempo altamente personale e tipico dei romantici tedeschi – ma
come una liberazione dalla sua persistente solitudine e dalla sordità, l’amore di
Beethoven per la natura ci può fornire una nuova prospettiva sul suo impulso a
creare un ritratto musicale dell’esperienza della vita in campagna, un impulso
che raggiunge la sua forma artistica più elevata nella Sinfonia “Pastorale”.
Essendo cresciuto a Bonn, direttamente sul Reno, Beethoven ricordava le
colline e le valli delle Siebengebirge, dall’altra parte del fiume, verso sud. Già
nel 1801, rivelando la propria sordità a Wegeler per la prima volta, aveva
suggerito donchisciottescamente:
se questo mio stato perdurasse, la primavera ventura vengo da te; mi affitti una casa in campagna in
qualche bella località e per sei mesi voglio diventare contadino; forse le cose cambieranno.
Rassegnazione: che misero rifugio, eppure è l’unico che mi rimanga.3

Negli anni successivi Beethoven non desiderava che di poter lasciare la città
e passeggiare nei boschi e nei campi della campagna nei dintorni di Vienna o di
uno dei suoi luoghi di soggiorno estivo – Baden, Mödling, Döbling, Hetzendorf,
o Heiligenstadt. In una lettera a Teresa Malfatti, sempre nel maggio 1810,
descriveva in modo eloquente questi sentimenti:
Quanto è fortunata Lei, che ha potuto trasferirsi così presto in campagna. Io non potrò avere questa
gioia sino al giorno 8, ma già me ne rallegro come un bambino solo a pensarci. Che bellezza potermene
andare finalmente in giro fra siepi e boschi, fra alberi, erbe e rocce. Nessuno può amare la campagna
quanto io l’amo – Boschi alberi rocce rimandano l’eco che l’uomo desidera udire […] .4

Queste frasi sono praticamente una parafrasi ampliata della didascalia del
primo movimento della Sinfonia “Pastorale” – questo il titolo che aveva dato
alla sua Sesta Sinfonia quando era stata pubblicata nel maggio 1809, circa un
anno prima – “Il risveglio di lieti sentimenti all’arrivo in campagna”5. Siamo
colpiti dal suo esaltato pregustare un piacere genuino, l’”infantile eccitazione”
che provava all’idea di trovarsi in campagna, che per lui doveva rappresentare
la promessa di una liberazione da tutte le pastoie personali, sociali e
professionali della vita quotidiana in città, che tanto desiderava lasciarsi alle
spalle nella speranza di trovare sollievo nella natura. In altri accenni alle sue
uscite in campagna una forte tensione religiosa si fonde con la sua esperienza
della vita all’aria aperta. Così, in un foglio di appunti del 1810, scrive:
Le mie infelici orecchie qui non mi tormentano. È come se ogni albero di questa campagna mi
parlasse e dicesse “Santo! Santo!” Nella foresta, è un incanto! Chi potrebbe esprimere tutto ciò? Se
tutto il resto fallisce, in campagna è sempre facile trovare un alloggio in affitto dai contadini, anche in
inverno – come a Baden, Lower Brühl – e in questo periodo è sicuramente conveniente.6

E altrove: «Senza la compagnia di una persona cara non sarebbe possibile


vivere neppure in campagna»7.
In un momento successivo al 1811, probabilmente nel 1816, Beethoven
scrisse ampie note in una copia di Betrachtungen über die Werke Gottes im
Reiche der Natur und der Vorsehung auf alle Tage des Jahres [Riflessioni per ogni
giorno dell’anno sulle opere di Dio nel regno della natura e della Provvidenza], un
popolare pamphlet di Christoph Christian Sturm su religione e natura8.
L’amore per la natura, la fede religiosa e la ricerca di una persona da amare
sono, nel loro intrecciarsi, temi essenziali dell’anelito di Beethoven alla salvezza
personale – un sogno destinato a rimanere irrealizzato, nella sua vita
quotidiana. Rimase l’elusiva “pace interiore” che più tardi menzionò
nell’epigrafe al Dona nobis pacem della Missa Solemnis9. Questa molteplice
ricerca è una chiave per comprendere come la Sinfonia “Pastorale” sia il lavoro
fondamentale in cui queste tendenze si sono armonizzate. Perciò io interpreto
questo lavoro non semplicemente come una rappresentazione programmatica
dell’esperienza del contatto con la natura, ma anche come una sorta di “mondo
del sogno” di Beethoven, una visione della natura come strumento di
guarigione. Sotto la superficie del lavoro c’è il suo profondo bisogno personale
di una simile guarigione; ed entrambi questi livelli di coscienza erano radicati
nella sua convinzione che tutto quanto di buono c’è in natura sia una
manifestazione di Dio.
Non sembra casuale che, dopo la Quinta, sia stata la Sesta Sinfonia il
successivo grande progetto di Beethoven per l’anno 1808. Entrambe le sinfonie
ebbero la prima esecuzione in un concerto tenuto da Beethoven al Theater an
der Wien il 22 dicembre 1808. Il concerto iniziò con la Sinfonia “Pastorale”,
indicata nel programma come n. 5 (la seconda parte si aprì con la “Grande
Sinfonia in do minore”, indicata, conseguentemente, come “n. 6”)10. Seguirono
l’aria “Ah, perfido!” (composta nel 1796, ma da poco pubblicata come op. 65); il
Gloria dalla Messa in do maggiore del 1807; e la prima esecuzione del Quarto
Concerto per pianoforte, op. 58, con Beethoven come solista. La seconda parte
cominciò, come si è detto, con la Sinfonia in do minore, seguita dal Sanctus
dalla Messa in do maggiore; quindi Beethoven improvvisò da solo al pianoforte,
e la lunga serata si concluse con la Fantasia Corale per pianoforte, orchestra e
coro, scritta in fretta e furia11.

Le prime idee collegate alla Sinfonia “Pastorale”


Nello stesso quaderno di appunti in cui Beethoven si cimentava con le prime
fasi creative dell’Eroica, e nel quale annotò anche le prime idee per la Quinta,
scrisse pure una quantità di brevi idee musicali che più tardi avrebbero dato
frutto nella Sesta Sinfonia. Diversamente da quelle per la Quinta, queste singole
idee sono separate le une dalle altre, non sono contrassegnate “Sinfonia”, né
sono state disposte nella forma di uno schema generale di movimento o nel
loro logico ordine di successione. Per alcuni di questi appunti iniziali di cui si è
sostenuto che fossero antecedenti della Pastorale si possono nutrire dei dubbi, e
altri che potremmo facilmente accettare sono solo parzialmente collegati alla
sinfonia. Ma, come abbiamo già visto, possiamo certamente attribuire qualche
importanza alla breve annotazione, nel medesimo quaderno di appunti, di
un’idea per una “allegra sinfonia” (lustige Sinfonia), subito dopo i primi appunti
per la sinfonia in do minore che sarebbe poi diventata la Quinta12. Dobbiamo
ricordare che Beethoven si mise al lavoro a tempo pieno sulla Sinfonia Pastorale
circa quattro anni più tardi, dopo aver terminato la Quinta.
I due abbozzi del 1803-4 più strettamente collegati alla Pastorale sono:

1. Un abbozzo per il Trio dello Scherzo. Si tratta di un’idea di base per la frase
in 2/4 che più tardi Beethoven avrebbe impiegato per il Trio dello Scherzo
della Pastorale, la “contraddanza” collegata ai contadini la cui “allegra
riunione” è il soggetto programmatico del terzo movimento della sinfonia13.
Compare nel bel mezzo del suo lavoro preparatorio sul Trio dello Scherzo
dell’Eroica, dove fu ben presto rimpiazzato dalle fanfare dei tre corni che
colpirono la sua immaginazione circa il modo di incorniciare quel Trio.
Nell’abbozzo del 1803-4 il passaggio in 2/4 è in mi bemolle maggiore,
tonalità adatta all’Eroica, e possiamo ipotizzare che Beethoven possa aver
immaginato che, se non lo avesse utilizzato nell’eroica sinfonia in mi
bemolle maggiore, avrebbe potuto collocarlo in un altro contesto cui meglio
si attagliassero i suoi caratteri vagamente modali da “contraddanza”. Questa
eventualità non è dimostrabile, ma acquisisce plausibilità da altri casi in cui
Beethoven tornò ai propri quaderni di appunti, a distanza di anni, alla
ricerca di idee da utilizzare in nuovi e differenti contesti; ce ne sono vari
esempi14. E, certo, in un’altra pagina dei suoi appunti per lo Scherzo
dell’Eroica salta fuori un passaggio – in mi bemolle maggiore e in 3/4 – che
sicuramente era stato pensato come possibile conclusione per quel
movimento, ma che più tardi servì come modello per la chiusa del finale
della Sesta Sinfonia, in questo caso ovviamente in fa maggiore e in 6/815.
2. Un’idea preliminare per la “Scena al ruscello”. Fino a questo punto la più
importante e suggestiva tra le idee iniziali che prefigurano la Pastorale è un
appunto del tardo 1803 che reca l’intestazione “Murmeln der Bäche”
(Mormorio dei ruscelli; cfr. Esempio Web K)16. Nel suo equivalente del
metro 12/8 e del tempo “Andante molto” anticipa il movimento lento della
sinfonia (cfr. Esempio Web L), che nella sua forma definitiva è uno dei
pochissimi movimenti di Beethoven in questo metro, ed è contrassegnato
“Andante molto moto”17.

L’abbozzo “Mormorio” consiste di due frasi, ciascuna di tre battute, le cui


indicazioni “Primo” e “Secundo” a prima vista sembrerebbero designare le parti
superiore e inferiore di un’idea per pianoforte a quattro mani: ma potrebbero
invece significare qualcosa come “prima parte” e “seconda parte”. La prima
frase, in do maggiore, presenta una successione di terzine che suggerisce il
quieto incresparsi delle acque di un ruscello. Sotto a ciascuna delle due frasi
Beethoven scrive: «je grosser der Bach je tiefer der Ton» («più grande il ruscello,
più profondo il suono»).
Questo abbozzo, con il suo metro, tempo, andamento cullante e carattere,
anticipa direttamente le figure di accompagnamento iniziali del movimento
lento della sinfonia. La frase scritta da Beethoven lo fa ad un livello ancora
superiore, poiché non fa altro che prefigurare l’organizzazione strutturale
complessiva del movimento nel suo complesso. Beethoven dice che il ruscello si
fa “più ampio” (letteralmente “grande”, ma per un corso d’acqua questo
dovrebbe significare “largo” e, probabilmente, “profondo”). Conseguentemente,
mentre il ruscello diventa più ampio, il “suono” del movimento si fa più
“profondo”. Le parole ci mostrano Beethoven mentre immagina un ruscello che
procede sinuosamente, e acquistando forza diventa un fiume, aumentando poco
per volta in ampiezza, profondità e corrente. Più tardi, quando giunge a
comporre la “Scena al ruscello” della sinfonia, questo è esattamente ciò che
accade nel corso del movimento, e cioè Beethoven stabilisce una correlazione
tra l’immagine del ruscello che si fa più ampio e profondo e le forze strumentali
che sviluppano la forma del movimento.
Torneremo più avanti alla relazione tra gli elementi descrittivi del
movimento e la sua struttura formale. Ma per ora il punto importante è che nel
1803-4, l’anno dell’Eroica e della Sonata “Waldstein”, Beethoven già
immaginava non solo alcune delle idee di partenza per la sua poderosa sinfonia
in do minore, ma anche altre che avrebbe potuto impiegare per un lavoro nel
filone pastorale – che però tenne in sospeso almeno fino all’estate 1807, quando
stava lavorando alla Messa in do maggiore. Tornò davvero a completare questa
sinfonia solo nell’estate 1808, dopo aver ultimato la Quinta e anche la Sonata in
la maggiore per violoncello op. 69.

«Più espressione di sentimenti che pittura sonora»


Questa sinfonia ha ispirato un’enorme quantità di letteratura critica – superata
solo da quella dedicata alla Nona – principalmente a causa dei suoi elementi
programmatici. In una lettera a Breitkopf del marzo 1809 Beethoven scrisse agli
editori che «il titolo della sinfonia in fa maggiore è Sinfonia Pastorale o Ricordi
della vita in campagna: più espressione di sentimenti che pittura sonora»18. La
prima edizione aveva come titolo “Sinfonie Pastorale”, senza il sottotitolo, ma le
parole “più espressione di sentimenti che pittura sonora” appaiono, per
esplicita richiesta di Beethoven, in una delle parti di violino I originali, insieme
con i titoli dei singoli movimenti.
I titoli dei movimenti, le indicazioni di tempo, metro e tonalità di ciascuno
dei cinque movimenti della sinfonia, così come appaiono nella prima edizione,
sono questi:
Questi titoli continuarono a subire modifiche man mano che la sinfonia si
sviluppava nelle mani di Beethoven, e neppure quelli adottati per il concerto
del 1808 furono definitivi. Né ci sorprendiamo di scoprire che Beethoven ne
sperimentò alcuni quando ancora stava lavorando alla composizione sui suoi
quaderni di appunti. La sua visione di ciò che ciascun movimento avrebbe
dovuto essere, di cosa avrebbe dovuto “rappresentare” o “dipingere”, era
completamente sostenuta dalla sua esperienza della vita in campagna e dalle
emozioni che suscitava in lui: come ci si sente arrivando tra boschi e corsi
d’acqua, il modo in cui i ruscelli scorrono e gli uccelli cantano, la sua immagine
di come i contadini si divertono a stare insieme, ballando e facendo festa, il loro
giorno di festa rovinato da un temporale, e infine una canzone di
ringraziamento a Dio per il ritorno alla tranquilla vita quotidiana dopo la
tempesta.
È noto che una serie di titoli e di movimenti simile a questa era stata usata
da Justin Heinrich Knecht (1752-1817), compositore tedesco di secondo piano,
in una sinfonia in cinque movimenti intitolata Le portrait musical de la Nature. I
cinque titoli e movimenti di Knecht in parte assomigliano a quelli di
Beethoven, e Beethoven nei suoi anni giovanili potrebbe benissimo aver
conosciuto quel lavoro, o almeno averne sentito parlare, poiché era stato
pubblicato dallo stesso editore, Bossler di Speyer, che nel 1783 aveva dato alle
stampe le sue precoci sonatine per pianoforte – le Sonate “All’elettore”. Ma, al di
là dei titoli di Knecht e del suo temporale che irrompe su un panorama
bucolico, è improbabile che per Beethoven quella composizione potesse
significare qualcosa di più di tanti altri prodotti minori di quel genere. Di
composizioni con programmi simili a quello della Sinfonia “Pastorale” ne
circolavano parecchie, all’epoca; Richard Will ne elenca 27 scritte tra il 1773 e il
1797 da tredici compositori tra cui Dittersdorf, Haydn, Rosetti, Carl Stamitz e i
fratelli Anton e Paul Wranitsky. Gli ultimi due furono al servizio del principe
Lobkowitz, uno dei principali mecenati di Beethoven, e Beethoven li conosceva
entrambi personalmente.

Ritratto e rappresentazione
Che la musica possa imitare i suoni della natura, che possa “ritrarre” elementi
della natura o di altri ambienti era stato evidente da secoli. Nella musica del
tardo Medioevo e del Rinascimento i canti degli uccelli o il clangore delle armi
in battaglia erano stati usati in composizioni a programma, e continuarono ad
essere sfruttati dai musicisti giù giù fino al XVII secolo. Per quanto in Europa,
intorno al 1800, l’interesse per la musica delle epoche precedenti si stesse
rafforzando, e collezionisti di musica “antica” stessero cominciando a riunire in
raccolte private lavori di maestri della polifonia, è più probabile che
l’attenzione di Beethoven sia stata attirata da lavori nella tradizione pastorale
di epoca più recente. In testa a questi devono esserci stati i grandi oratori di
Haydn, La Creazione (composto nel 1796-98 ed eseguito in pubblico per la
prima volta nel 1799) e Le Stagioni (composto nel 1799-1801 ed eseguito in
pubblico per la prima volta nel 1801). Questi oratori non solo erano
immensamente popolari presso il pubblico viennese negli anni che precedettero
la Sinfonia “Pastorale”, ma entrambi combinavano descrittivismo e lode al
Creatore, e, cosa almeno altrettanto importante, entrambi coronavano il lavoro
dell’anziano maestro, che rimaneva uno dei modelli riveriti da Beethoven,
indipendentemente da quanto fossero diversi i rispettivi obiettivi estetici.
Quanto questi due grandi oratori avevano dimostrato era che ciò che
Beethoven definiva “le situazioni”, cioè i soggetti visivi e uditivi della pittura
sonora musicale, potevano integrarsi con una musica del massimo livello.
Beethoven usava il termine “caratteristico” per lavori su temi specifici, come
questa sinfonia e la Sonata per pianoforte Lebewohl (Gli addii) scritta nel 1809
in occasione della partenza dell’arciduca Rodolfo, suo mecenate e allievo.
Beethoven disdegnava la maggior parte della musica a programma corrente,
poiché, come diceva, spingeva il descrittivismo «troppo in là». Tuttavia i suoi
sentimenti contrastanti non gli impedivano di scrivere lavori di questo genere,
fintantoché riusciva ad avvertire che la musica a cui stava lavorando si
collocava ai più alti livelli per struttura e originalità. Certo, la sua idea di questa
sinfonia era che dovesse soddisfare i più elevati criteri artistici, ma anche che
dovesse esprimere la sua gioia per la natura e la sua venerazione per Dio
Creatore. Cercava di rendere suoni e immagini della natura, quando occorreva,
in modo letterale, ma anche di amalgamarli nella struttura del nuovo genere
sinfonico che aveva cominciato a plasmare a partire dall’Eroica. Non c’è dubbio
che intendesse anche mostrare ai suoi contemporanei come si potesse scrivere
questo tipo di musica descrittiva, e che nelle sue mani il genere pastorale, con i
suoi temi familiari – ruscelli, uccelli, temporali, danze contadine, ecc. – potesse
essere elevato a un livello artistico che i suoi colleghi musicisti, per quanto
competenti, difficilmente avrebbero potuto raggiungere.
Il suo atteggiamento ambivalente è sancito chiaramente nelle annotazioni
che scrisse nel quaderno di appunti che stava usando mentre era alla ricerca del
giusto modo di caratterizzare questo lavoro ed era a caccia di un sottotitolo
adatto. Tra le altre che esprimevano gli stessi pensieri, scrisse le seguenti note:
1. «Si deve lasciare che sia l’ascoltatore a capire le situazioni»;
2. «Se ci si spinge troppo in là qualsiasi atto di pittura sonora, nella musica strumentale, perde la sua
efficacia»;
3. «Anche senza descrizione l’insieme sarà comprensibile, poiché c’è più sentimento che pittura
sonora»;
4. «Sinfonia pastorella [in it. nell’originale N.d.T.]. Chiunque abbia un’idea della vita in campagna può
immaginare per conto proprio che cosa il compositore abbia in mente senza bisogno di troppi
titoli»;
5. [Come possibile titolo] “Sinfonia caracteristica [sic, in it. nell’originale, N.d.T.] ovvero ricordi della
vita in campagna” – [o] “Un ricordo della vita in campagna”.

Le prime quattro annotazioni mostrano lo scetticismo di Beethoven circa i


titoli dei movimenti, e la seconda è un implicito rifiuto della maggior parte
della musica a programma della sua epoca. Ci piacerebbe sapere quali fossero
per lui gli esempi più significativi di composizioni in cui la pittura sonora fosse
stata «spinta troppo in là», ma tra questi probabilmente c’erano alcuni lavori
popolari che stuzzicavano il pubblico con suoni di battaglia, temporali con
tuoni e fulmini, infuriare del vento, e altre cose del genere. Per lui dovevano
essere stati «spinti troppo in là» in quanto non riscattati da un sufficiente
controllo della forma e dell’espressione.
Comunque, Beethoven era a sua volta vulnerabile alle medesime tentazioni,
e cinque anni più tardi, nel 1813, sarebbe stato lui stesso a spingere il
descrittivismo troppo in là. Su di lui, quell’anno, ebbero la meglio il dilagante
patriottismo anti-napoleonico e le lusinghe di Johann Nepomuk Maelzel,
promotore e divulgatore del metronomo, e così accettò di scrivere la Sinfonia di
battaglia, nota anche come La vittoria di Wellington, per celebrare la vittoria
britannica sui francesi a Vitoria, in Spagna. Il lavoro, scritto originariamente
per il “panharmonicon”, strumento meccanico inventato da Maelzel, e più tardi
trascritto per orchestra, reca il titolo “Sinfonia” solo per cortesia. È infatti un
puro e semplice brano di battaglia, che rappresenta gli eserciti britannico e
francese e cita “Rule Britannia” e “Malbrouck s’en va-t’-en guerre” come loro
rispettive marce. L’equipaggiamento rumoristico include una batteria di
strumenti a percussione che può anche sparare cannonate, esplicitamente
annotate in partitura, e tutta la faccenda finisce con una “Sinfonia di vittoria”,
ossia con un trionfalistico finale. Che una simile baracconata gli avesse fruttato
un sacco di soldi non è irrilevante: Beethoven non avrebbe mai incluso questo
lavoro tra quelle che definiva le sue “grandi opere”. Ma c’era sempre una parte
di lui – a prescindere da quanto fervida fosse la sua fede nei valori più alti –
che bramava fama e gloria immediate non solo presso la nobiltà e la borghesia,
ma al più ampio livello popolare. Presso quel tipo di pubblico questo
sensazionale pezzo a programma – uno “spasso”, come lo definì Thayer – era il
suo biglietto da visita.
Ma quando si tratta di estetica musicale e di commenti sugli altri musicisti
gli scritti di Beethoven – principalmente le sue lettere, ma anche i suoi diari e il
poco che possiamo ricavare dai quaderni di conversazione dell’ultimo periodo,
che gli servivano soprattutto nel ruolo di ascoltatore, non per parlare – sono
estremamente laconici. Le poche osservazioni di cui disponiamo testimoniano
la sua consapevolezza di essere, con poche eccezioni, ben al di sopra del livello
della maggior parte dei compositori suoi contemporanei: un artista fattosi da sé
che perseguiva una missione nel mondo.
Questo modo di concepire il proprio ruolo come compositore – un artista
visionario in anticipo sui tempi – era inscritto profondamente nel suo carattere
creativo. Ed era in sintonia con altre sue osservazioni che mostrano l’ambizione
di una vita di mantenere obiettivi estetici e lavoro creativo il più possibile
concentrati sulle più alte conquiste a cui aspirava – lamentando, tipicamente,
che le «miserabili necessità» della vita, il mantenersi, e il bisogno di pubblicare
e diffondere i propri lavori, fossero un’asfissiante interferenza. Non perse mai
la sensazione che in un mondo migliore un vero artista dovrebbe essere libero
dalla necessità di dedicarsi a simili umilianti occupazioni, ma allo stesso tempo
se ne occupava in modo energico e attento. La metafora del “regno” ricorre nei
suoi scritti, come abbiamo già visto nella lettera del 1814.

La Sinfonia “Pastorale” come opera d’arte unificata


In un passaggio che ha suscitato molte critiche Donald Francis Tovey ha scritto
che «non una sola battuta della Pastorale sarebbe stata diversa se il suo
“programma” non fosse mai stato concepito»19. Così, rigettando l’idea che la
pittura sonora in una sinfonia possa avere un valore intrinseco, e sostenendo
invece che debba essere considerata una mera concessione al pubblico – a cui
potrebbe piacere il canto degli uccelli e altri suoni della natura, ma che si
suppone non sia in grado di cogliere le strutture formali nelle quali questi suoni
sono inseriti – il punto di vista di Tovey si sbilancia sul versante del
formalismo, negando che il “programma” del lavoro possa avere qualsivoglia
importanza. Tovey non sembrava preoccuparsi della circolarità della sua
argomentazione. Perché se Beethoven davvero non avesse «mai pensato»
all’idea di una “sinfonia pastorale” evidentemente non avrebbe mai prodotto
quest’opera e tantomeno l’avrebbe realizzata in modo così geniale. Al contrario
tutta la documentazione relativa al suo pensiero ci dice che scrivere un lavoro
con questo “programma” era esattamente ciò che aveva in mente di fare, e il
compito dei posteri è cercare di capire quali condizionamenti gli furono posti
da questa intenzione mentre lo realizzava.
Come ha osservato Richard Will in un fondamentale articolo, Tovey stava
reagendo a una lunga tradizione di critica che non solo esaltava il
descrittivismo di questa sinfonia, ma lo invocava come prova del fatto che
Beethoven fosse il «padre della musica a programma del XIX secolo». I
sostenitori di questo punto di vista, ammiratori di Berlioz, Liszt e Strauss,
stavano dalla parte opposta rispetto all’opinione “formalista” che in
quest’opera le descrizioni della natura fossero irrilevanti rispetto alle
intrinseche proprietà musicali e strutturali, e che ci si dovesse occupare solo di
queste ultime.
Per quanto queste divergenti linee di approccio siano difficilmente
conciliabili come parti di una singola esperienza interpretativa, è tuttavia
possibile sostenere, come ha fatto Will, che non necessariamente si invalidano
a vicenda. Come scrive Will, la Sinfonia “Pastorale” «vive in due mondi distinti,
quello della sinfonia e quello della sinfonia a programma così com’era praticata
non da Berlioz e Liszt, ma dai contemporanei di Beethoven e dai suoi
predecessori». In effetti io vorrei andare anche al di là, e sostenere –
certamente per quanto riguarda il movimento lento, ma in una certa misura
anche per l’intera sinfonia – che Beethoven la intendesse davvero secondo
entrambi i generi. Da un lato puntava a scrivere una sinfonia nella tradizione
“pastorale” che impiegasse molti dei tradizionali artifici descrittivi noti ai
generi programmatici, usandoli in modo tale che gli ascoltatori potessero
divertirsi a riconoscerli e apprezzare le imitazioni dei suoni della natura
inserite nel tessuto della composizione. Allo stesso tempo mirava a scrivere un
lavoro di un livello espressivo e formale così convincente da poter rivaleggiare
con quello delle sue recenti pionieristiche sinfonie – la Terza, la Quarta, la
Quinta – e che utilizzasse alcune delle tradizionali sonorità “pastorali” per dare
al lavoro un profilo fortemente individuale e una peculiare dimensione sonora,
qualità che caratterizzavano le altre sue sinfonie scritte fino a quel momento.
La due dimensioni hanno peso e avvertibilità differenti a seconda dei momenti,
ma questo dualismo scorre lungo l’intero lavoro.

Il primo movimento
Fin dalle prima battute ci troviamo in un mondo sonoro diametralmente
opposto a quello della Quinta – tranquillo, pacato, con un pedale degli archi
gravi a tenere un intervallo di quinta mentre all’acuto i violini cantano una
graziosa frase di quattro battute che termina con una corona su un’armonia di
dominante – una frase in cui ciascuna delle prime tre battute contiene un
motivo identificabile che Beethoven più avanti svilupperà in modo
indipendente, secondo una prassi che gli è abituale: come avrebbe detto anni
dopo a proposito di un altro lavoro, «i motivi sono racchiusi all’interno del
tema». Da qui in poi il movimento si sviluppa in forma-sonata, con lunghi
momenti ripetitivi dal punto di vista ritmico e motivico, e anche con un ampio
uso di passaggi armonicamente statici e con una notevole limitazione del
linguaggio armonico – a stento, nell’intero movimento, si trovano armonie
minori. Inoltre, e questo è direttamente collegato con la prevalenza delle
armonie maggiori, il principale contrasto alla tonica fa maggiore deriva non
dalla tonalità della dominante, do maggiore, come di consueto, ma dalla
tonalità della sottodominante, si bemolle maggiore. L’uso della tonalità di si
bemolle maggiore è particolarmente indicativo all’inizio e alla fine dello
sviluppo e all’inizio della ripresa. In questo movimento non è descritto uno
specifico tema narrativo, ma troviamo l’inequivocabile sensazione della felicità
di essere in campagna, proprio come viene annunciato dal titolo del
movimento. Questo movimento è un esempio di ciò che Beethoven intende
quando scrive «più espressione di sentimenti che pittura sonora».

Il movimento lento: “scena al ruscello”


La scelta del titolo è significativa. Abbiamo visto che nel 1803 Beethoven aveva
abbozzato un’idea intitolandola “Mormorio dei ruscelli” e accompagnandola
con le parole «più grande il ruscello, più profondo il suono». E ora Beethoven
realizza musicalmente sia l’immagine – tanto visiva quanto concettuale – di un
rivo che gorgoglia, sia la sua osservazione che la corrente e la profondità del
ruscello possono aumentare mentre il ventaglio dei suoi suoni si fa più
profondo. Mentre il primo movimento era stato presentato come un “risveglio”,
sottintendendo un astratto protagonista di cui in qualche modo viene trasmessa
l’esperienza, il secondo movimento è definito come una “Scena” (il tedesco
“Szene” e l’italiano “Scena” sono equivalenti), il che evoca l’idea di una
situazione teatrale. Può anche alludere a “Scena” in senso operistico, cioè
un’unità di azione drammatica che può comprendere uno o più numeri
musicali, ma anche un solo personaggio che esegue un’aria. Beethoven usò il
termine nell’accezione consueta alla sua epoca per l’aria per soprano “Ah,
perfido!” (per la precisione, in tedesco il pezzo è definito “Szene und Arie”), il
brano vocale che incluse nel concerto del 1808 insieme con la Quinta e la Sesta.
E quindi non è sorprendente che questa “scena” sia effettivamente descrittiva, e
possa essere ascoltata come il ritratto sonoro di un paesaggio bucolico “al
ruscello”, e che qui Beethoven dischiuda la sua tavolozza sonora e la sfrutti
completamente, tanto nel quadro d’insieme quanto nella definizione dei
dettagli pittoreschi. Per fare ciò escogita dei procedimenti per rappresentare
ciascuno dei seguenti elementi:

1. il ruscello stesso, con una melodia ben definita in figure di terzine ripetute
nei registri medio e grave degli archi, poi suddivise in schemi di semicrome
ma sempre con l’incessante moto ritmico che evoca l’immagine del flusso
della corrente;
2. figure melodiche caratteristiche, frasi e trilli nella parte di violino I all’inizio
del movimento. Procedendo, diventa via via più chiaro che i trilli nel
registro acuto devono essere intesi come canti di uccelli. Questi trilli,
dapprima su note tenute, poi eseguiti, come cinguettii, su note brevi
precedute da abbellimenti, creano immediatamente un’immagine in cui, al
livello più basso, vediamo il ruscello. In alto, immaginiamo gli uccelli, posati
sui rami o in volo tra gli alberi che fiancheggiano il ruscello. D’ora in poi i
trilli nel registro acuto abbondano lungo tutto il movimento, e da un certo
punto sono affiancati da un arpeggio ascendente del flauto nel registro
acuto che Schindler disse essere il richiamo di uno “zigolo giallo”,
sostenendo che Beethoven stesso avesse specificato questo particolare. La
testimonianza di Schindler è stata rigettata da successivi commentatori poco
disponibili a credere che Beethoven avesse voluto fare dei riferimenti così
letterali, ma possiamo vedere che una nuova figura contrastante appare
all’inizio dello sviluppo proprio quando avviene la modulazione a sol
maggiore, e che questa nuova figura arricchisce la varietà motivica del
movimento. Mentre il ruscello prosegue nel suo corso e aumenta la propria
forza, i canti degli uccelli – trilli e brevi figurazioni – aumentano per
numero e densità, in particolare alla fine dello sviluppo e verso la
conclusione della ripresa.

I canti di uccelli più famosi si trovano alla fine, dove Beethoven nomina i tre
specifici uccelli – usignolo (flauto solo), quaglia (oboe solo) e cucù (due
clarinetti) – combinati in un passaggio che domina la coda del movimento. Nel
manoscritto autografo Beethoven scrisse una nota per il suo copista insistendo
perché i nomi di questi tre uccelli fossero scritti in partitura, e così ben
difficilmente avrebbe potuto rendere più evidente che le sue intenzioni
descrittive erano assolutamente serie. Si è saggiamente fatto notare che questi
strumenti a fiato erano già stati messi in evidenza nello sviluppo e che questi
due passaggi sono «una perfetta fusione di musica e immagine». Aggiungerei
che possiamo ascoltare i tre uccelli come l’equivalente in natura di un trio di
voci soliste che eseguono una cadenza d’assieme alla fine del movimento. Si
tratta di un artificio usato da Beethoven in altri lavori, lungo tutta la carriera –
tra questi la Sonata per violoncello op. 5 n. 1, il Trio per due oboi e corno
inglese op. 87, il Triplo Concerto op. 56, la Sonata per violino in sol maggiore op.
96, l’Adagio verso la fine dell’Ouverture in mi bemolle maggiore per Fidelio
(quella definitiva, del 1814), e, soprattutto, la conclusione della Nona Sinfonia.
Lì, proprio nel momento in cui il finale sta per terminare, le quattro voci sole –
naturalmente in questo caso parliamo di voci umane, non strumentali –
cantano solisticamente per l’ultima volta, subito prima che il Prestissimo porti
il colossale lavoro alla conclusione.
Che questo movimento possa essere ascoltato, dunque, come una graziosa
descrizione di uno scenario naturale è perfettamente in sintonia con quella
parte dell’immaginazione di Beethoven che puntava del tutto seriamente a
realizzare un’esperienza di musica a programma, senza alcun imbarazzo nei
confronti della “pittura sonora”. Allo stesso tempo un pezzo o un singolo
movimento di questo genere, nelle sue mani, non poteva non essere governato
dal suo fondamentale impulso artistico, che lo indirizzava alla creazione di una
struttura musicale dinamica. Questo movimento non fa eccezione. In definitiva
è la fusione delle due dimensioni a dare a questo Andante, questa “Scena al
ruscello”, la sua ricchezza di contenuto. E se ora lo consideriamo come il frutto
della sua immaginazione costruttiva-formale, lo possiamo ascoltare come una
forma-sonata in quattro parti, così:

Esposizione

A1 Archi nei registri medio e grave, movimento ondeggiante; tema


al violino I

A2 I violini I eseguono trilli nel registro acuto; tema ai legni; la


scrittura si infittisce

B Archi e legni condividono il tema B; nuove figure di


accompagnamento alle bb. 19-20

A3 Nuova espansione del tema A che conduce alla dominante

C1 Tema C al fagotto, trilli al violino II

C2 Tema C a violino e flauto; ritorna B

Codetta

Sviluppo (5 sezioni)
(1) Ritornano le figurazioni del ruscello, questa volta modulanti

(2) Sol maggiore, tema arpeggiato al flauto; A, elaborato, agli archi

(3) Frammenti del tema B; poi primo accenno di modo minore (sol
minore)

(4) Mi bemolle maggiore: nuove elaborazioni di A1 e estensioni del


tema arpeggiato, poi frammenti di B

(5) Sol bemolle maggiore; do bemolle maggiore (= si maggiore) per


ritornare a fa maggiore; trilli al violino I

Ripresa
A2 Tutti dell’orchestra; vengono combinati il tema A e il tema
arpeggiato

C1 Tema C al fagotto con trilli al violino II

C2 Il tema è ora al violino e all’oboe; alla fine frammenti del tema


B

Codetta Ritorno di A1; poi accordi tenuti a violino I e legni

Coda (2 sezioni)
(1) Cadenza d’assieme degli uccelli: Usignolo, Quaglia, Cucù

(2) L’ensemble degli uccelli ripete la cadenza; l’orchestra conclude


con frammenti del tema B in pianissimo.

“Più grande il ruscello, più profondo il suono”


Possiamo vedere, a questo punto, che queste parole offrono un indizio esplicito
per una sintesi delle caratteristiche descrittive e strutturali del movimento.
Suggeriscono una correlazione tra registri musicali – il grave e l’acuto degli
eventi musicali, nell’ambito del sistema tonale – e le immagini visive. Il ruscello
prende avvio come un corso d’acqua serpeggiante, con pochi uccelli al di sopra;
aumenta in volume col procedere del movimento e si trasforma in un fiume
quando giunge alla ripresa, dove l’intera orchestra è ora attiva. La ripresa torna
alla tonica si bemolle maggiore dopo che è stato esplorato un ampio ventaglio
di tonalità, e – a questo punto culminante – porta l’intera orchestra a spaziare
in tutti i registri, dal grave dei bassi all’acuto di flauti e violini. Tutto ciò è in
linea con l’abituale spiegamento di registri impiegato da Beethoven per
sviluppare in modo spettacolare gli schemi dei suoi impianti formali,
specialmente nei movimenti in forma-sonata; qui lo scopo è anche quello di
esprimere simbolicamente l’ampliamento del corso d’acqua, da ruscello a
fiume. In un momento come questo le due modalità di percezione si
intrecciano, unendo le dimensioni formale, espressiva e descrittiva.
Scherzo, temporale e finale
Che questa sinfonia abbia cinque movimenti anziché quattro è eccezionale ma
non sorprendente. Il programma della seconda parte del lavoro, infatti, richiede
una successione di situazioni per le quali sono necessari prima una riunione di
contadini che viene interrotta da un temporale, poi un canto di ringraziamento
quando il tempo si rasserena e ritorna la calma. Beethoven avrebbe potuto
realizzarla con un ampio Scherzo, dedicando al temporale un breve interludio,
o introduzione al successivo finale, ciascuno inteso come movimento separato.
Questo scenario, molto simile a quello utilizzato da Knecht, sarebbe stato
possibile, ma l’istinto drammatico non permise a Beethoven di fare alcunché
del genere. Al contrario creò tre movimenti in una successione ininterrotta in
cui non troviamo una cadenza finale decisiva fino alla fine dell’intero lavoro. Il
Temporale interrompe lo Scherzo, e a sua volta lascia spazio al “canto
pastorale” che apre il finale.
La “Allegra riunione di contadini”, come terzo movimento, offre lo spunto
programmatico per uno Scherzo che combina le atmosfere di una musica di
danza campagnola in due metri differenti (3/4 per lo Scherzo, 2/4 per il Trio)
con effetti ritmici, armonici e strumentali che non hanno nulla da invidiare, per
sottigliezza e immaginazione, a quelli dei primi due movimenti. Il forte
contrasto tra metro ternario e binario nello Scherzo e nel Trio ha una sorta di
controparte nel dualismo armonico dello Scherzo stesso, in cui il primo tema
discende lungo le note della triade di fa maggiore per essere immediatamente
seguito da un contro-tema in re maggiore, giustapponendo due tonalità in forte
contrasto – fa maggiore e re maggiore – senza alcun passaggio intermedio. E i
normali schemi della struttura fraseologica dell’inizio del movimento trovano
un analogo contrasto nella sezione successiva, nella quale l’oboe e poi il
clarinetto presentano passaggi a solo ascendenti su accordi ribattuti degli archi.
Schindler riferisce che Beethoven ricordava di musicisti di campagna che di
tanto in tanto si addormentavano durante l’esecuzione, poi si svegliavano,
suonavano qualche breve passaggio e si addormentavano ancora – forse è
questo che Beethoven satireggia nella parte del fagotto, quando l’esecutore
sembra incerto se suonare tre o quattro note nelle cadenze che sostengono i
soli dei legni acuti.
Il Trio in 2/4 – che ha tutti i segni distintivi di una di quelle danze contadine
in cui si battono i piedi, che nella tradizione contadina austriaca, secondo
Schindler, spesso si alternavano con danze ternarie – sottolinea la
giustapposizione di fa maggiore e si bemolle maggiore, trattando quest’ultima
come una tonica alternativa in un modo che capovolge la normale sintassi
armonica. Questa melodia pesantemente accentata aveva avuto origine anni
prima, ancora una volta nel quaderno “Eroica” del 1803-4, e ora Beethoven
aveva l’opportunità di farne uso in un contesto sinfonico.
Questo scherzo in cinque parti, che ricorda quello della Quarta Sinfonia e
uno degli originari progetti per quello della Quinta, passa improvvisamente dal
suo saldo fa maggiore a un misterioso tremolo grave su un re bemolle di
violoncelli e contrabbassi – una sinistra premonizione dell’incombente
temporale. E nell’arco di poche battute la musica si è buttata a capofitto in una
successione di armonie instabili nell’area di fa minore – il primo uso esteso del
modo minore nell’intera sinfonia, fino a questo momento. Da qui in poi il
temporale accresce la propria forza e la propria veemenza, con il brontolio delle
figurazioni degli archi gravi che sostiene tremoli e lunghi accordi tenuti dei
legni. Successivamente emerge una seconda frase dai morbidi tremoli e dai
rapidi passaggi di semicrome negli archi gravi, mentre brevi figurazioni
emergono repentine all’acuto – i bagliori dei lampi – finché il tutto raggiunge
una lunga sezione culminante che infine si placa assestandosi in un do
maggiore pianissimo, che annuncia la fine del temporale. Una frase discendente
tipo-corale ricorda all’ascoltatore che dietro questa celebrazione c’è un forte
afflato religioso, che riflette quanto Beethoven intendeva scrivendo, su un
abbozzo per questo passaggio, «Herr, wir danken Dir» («Signore, ti
ringraziamo!»).
L’idillio di pace, serenità e ringraziamento a Dio che pervade il finale,
intitolato da Beethoven “Canto pastorale”, è stato paragonato a passi
dell’oratorio Le Stagioni di Haydn, come per esempio quello in cui il
personaggio di Simon canta l’aria “L’allegro pastore ora raduna il suo gioioso
gregge”. I passaggi di clarinetto e corno che aprono il movimento e riportano la
luce del giorno dopo le tenebre del temporale sembrano corni delle Alpi che
suonano il Ranz des vaches, di cui Beethoven può essere venuto a conoscenza,
pur non essendosi mai spinto personalmente in alta montagna. E questo duetto
di apertura è più che un’introduzione, e serve anche come segnale sonoro del
ritorno dell’intero primo tema quando ricompare all’inizio della sezione
centrale del movimento (bb. 60-63) e poi ancora nella ripresa (bb. 113-16).
Dal punto di vista formale il finale è costruito come una forma-sonata
modificata, ma ancor più della sua struttura formale è indicativa la ricchezza di
sensazioni che emerge dal tema principale e dalle sue riprese variate, oltreché
dai temi delicatamente contrastanti che Beethoven dispone nel corso del
movimento. Nelle ultime fasi del progressivo dispiegarsi di questo ritratto della
serenità il tema principale ricomparirà, nell’ampia ricapitolazione, incorporato
in un disegno in semicrome legate dei violini I, ma a nessuno può sfuggire il
senso di ritorno a casa che si collega a questo momento. E, proprio alla fine, un
corno solo con sordina intona il Ranz des vaches per un’ultima volta, adesso
senza la compagnia del clarinetto, mentre la sezione degli archi esegue una
tranquilla, lirica figurazione di semicrome discendenti che si ripete di battuta in
battuta lungo tre ottave, quasi a confermare la sensazione di spaziosità e di
serenità in natura che ha pervaso tutta la sinfonia fin dall’inizio. L’esperienza
della natura è dunque tornata al punto di partenza, e ora abbiamo
l’inconfondibile sensazione che la ricchezza dell’esperienza accumulata nel
corso dell’intera sinfonia abbia raggiunto il proprio culmine. La chiusa sembra
confermare la pace della natura e la pace dell’anima che il lavoro ha promesso
fin dall’inizio: quella sensazione cui il compositore ha anelato per tutta la vita.
8. L’arciduca Rodolfo, allievo e poi mecenate di Beethoven, come Cardinale Arcivescovo di Ölmutz in
Moravia. Dipinto di Johann Baptist Edler von Lampi, ca. 1825 (Historisches Museum der Stadt, Vienna /
Bridgeman Images)
1
Briefe, n. 439, datata 2 maggio 1810, inviata da Vienna a Wegeler, a Coblenza.
2
Briefe, n. 436, in una lettera a Gleichenstein, scritta evidentemente nell’aprile 1810, Beethoven parla
delle «ferite della mia anima straziata da persone malvagie».
3
Briefe, n. 65, datata 29 giugno 1801. Per quanto precedenti edizioni la facciano risalire al 1800, questa
importante lettera è datata con certezza 1801 da Brandenburg, Briefe, I, p. 81, nota 1. Per un eloquente
resoconto dell’immagine mentale di una “capanna contadina” come rifugio dalla città e dai suoi demoni
personali, che Beethoven coltivò per tutta la vita, cfr. Maynard Solomon, L’ultimo Beethoven: musica,
pensiero, immaginazione, trad. it. N. Bizzaro, Roma, Carocci 2010, pp. 80-1 (ed. orig. Late Beethoven: Music,
Thought, Imagination, Berkeley, University of California Press 2003).
4
Briefe, n. 442, datata “verso la fine di maggio 1810”.
5
“Erwachen heiterer Empfindungen bei der Ankunft auf dem Lande”.
6
Cfr. M. Solomon, L’ultimo Beethoven cit., p. 80 e p. 289 nota 67; cfr. anche TF, 501, per un testo più
completo.
7
TF, 501, contiene la citazione delle sue osservazioni incluse in un foglio di appunti; a Vienna,
Gesellschaft der Musikfreunde.
8
Sturm (1740-86) era stato ministro del culto a Magdeburgo e Amburgo, e possedeva una preparazione
scientifica. Il suo trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1722 e rieditato più volte. Beethoven, oltre
ad aver corredato di annotazioni la propria copia, usò il libro di Sturm per una citazione nel Tagebuch (n.
171). Cfr. Solomon, Beethoven’s Tagebuch, nel suo
Beethoven Essays, Cambridge, Harvard University Press 1988, pp. 294-95. Su Sturm e tutte le
annotazioni cfr. Charles C. Witcombe, Beethoven’s Private God; An Analysis of the Composer’s Markings in
Sturm’s “Betrachtungen”, tesi di laurea magistrale, San Jose State University, 1998.
9
Beethoven scrisse queste parole nella partitura del “Dona nobis pacem” della Missa Solemnis: “Bitte
um innern und äussern Frieden” (“Preghiera per la pace interna ed esterna”).
10
Per quanto sulla possibile importanza di questa numerazione siano stati versati fiumi di inchiostro,
mi sembra assolutamente possibile che Beethoven abbia voluto iniziare il concerto con la Sinfonia
“Pastorale”, un nuovo lavoro che sarebbe stato di più facile ascolto per il pubblico, per farla seguire dalla
più impegnativa Quinta Sinfonia. È plausibile che solo chi preparò gli annunci dell’avvenimento sapesse
che le due nuove sinfonie fossero la Quinta e la Sesta – ma che in effetti ignorasse quale fosse l’una e
quale l’altra. Questa, perlomeno, è una delle possibili ipotesi per spiegare la numerazione dei due lavori.
Per un elenco completo e un esame del programma del concerto cfr. TF, 446-49 e David Wyn Jones,
Beethoven, Pastoral Symphony, Cambridge, Cambridge University Press 1995, pp. 1-3.
11
Come ha osservato Wyn Jones in Beethoven, Pastoral Symphony cit., p. 89, n. 2, non sono
sopravvissute copie della locandina originale; il suo e tutti gli altri resoconti derivano dall’annuncio su
AMZ 11, 1808-9, coll. 267-8. Wyn Jones osserva anche alcune discrepanze nei titoli dei movimenti tra la
locandina originale e la prima edizione.
12
ESk, 159. Questa breve idea musicale sembra essere in la maggiore, 4/4, e non ha alcuna somiglianza
tematica con la Sinfonia “Pastorale” (al contrario di molte altre incluse in questo quaderno). Per questa
ragione Brandenburg, facendo la revisione dell’autografo della Sinfonia “Pastorale”, escluse ogni plausibile
collegamento. Ma resta il fatto importante che in questo breve appunto Beethoven stava esplicitamente
pensando a una sinfonia “gioiosa”, chiaramente in contrapposizione alle idee per la tragica “Sinfonia” in
do minore che aveva appena annotato nelle pagine immediatamente precedenti.
13
ESk, vol. 1, p. 64, sist. 1.
Per esempio, il tema finale della Sonata per violino in sol maggiore op. 96 era stato scritto in la
14

maggiore e concepito originariamente per la Sonata per violoncello op. 69; il movimento lento della
Settima Sinfonia deriva da un abbozzo per un possibile movimento lento per il Quartetto op. 59 n. 3 (cfr. N
II, p. 86).
15
Questo collegamento fu scoperto da William Kinderman; cfr. ESk, 1, p. 61.
16
Pubblicato per la prima volta in N II, p. 375, da Nottebohm, che aggiunge un commento insolitamente
ampio; anche in Wyn Jones, Beethoven, Pastoral Symphony cit., p. 25 sg. Questo appunto ha l’indicazione
di tempo “Alla breve” ma è scritto in terzine ribattute, che determinano un effettivo 12/8.
17
Del Mar, nelle sue note critiche, osserva che nell’autografo e in una delle prime copie manoscritte
Beethoven aggiunse “quasi Allegretto”, ma poi nell’autografo cancellò queste parole, che tuttavia
compaiono in un’altra copia della partitura dello stesso periodo e nelle parti d’orchestra manoscritte che
furono usate per il concerto del 22 dicembre 1808 e forse per le antecedenti prove a palazzo Lobkowitz.
Cfr. l’edizione Del Mar, Beethoven, Symphonie Nr. 6, f-dur Op. 68, edizione critica a cura di J. Del Mar,
Kassel, Bärenreiter 1999, Commento critico, p. 35.
18
“Der Titel der Sinfonie in F ist Pastoral-Sinfonie oder Erinnerung an das Landleben, Mehr Ausdruck
der Emfindung als Mahlerey” – cfr. Briefe, n. 370, datata Vienna 28 marzo 1809. Le parole “Mehr Ausdruck
[… etc.]” appaiono anche dopo il titolo nel programma per il concerto del 22 dicembre 1808, che
conosciamo per essere stato riprodotto in AMZ, XI, n. 19 (8 febbraio 1809), coll 267-9.
19
Donald F. Tovey, Musical Articles from the Encyclopedia Britannica, London, Oxford University Press
1944, p. 168.
VII

La Settima Sinfonia

“Le ali di Dedalo”: Beethoven nel 1812


Nel 1812 Beethoven completò la Settima Sinfonia, e poi l’Ottava – entrambe
così geniali, ciascuna a suo modo, e sorprendentemente tanto diverse l’una
dall’altra. Da quando aveva presentato la Quinta e la Sesta, nel dicembre 1808,
erano passati più di tre anni. Da quel momento era entrato nel crepuscolo del
suo grande secondo periodo, producendo una serie di imponenti lavori che
recavano il marchio di una maturità completamente acquisita. Nel 1809
produsse l’eroico Concerto “Imperatore”, la possente e sentita Sonata “Gli addii”
per la partenza e il ritorno di Rodolfo, e lo splendido Quartetto “Delle arpe” op.
74 – tutti nella medesima tonalità di mi bemolle maggiore. Seguirono lo
straordinario Quartetto in fa minore op. 95, con il suo stringente accumulo di
idee e le sue idiosincrasie; e il Trio “Arciduca”, grandiosa summa del suo lavoro
di una vita come autore di trii con pianoforte. Tra gli altri nuovi lavori
pianistici c’erano la Sonata op. 78, nell’insolita tonalità di fa diesis maggiore, e
la sua piccola controparte, la Sonatina op. 79. Il più sorprendente di tutti i lavori
per pianoforte di questo periodo è la Fantasia op. 77, in cui Beethoven cerca di
riprodurre in una composizione scritta il proprio modo di improvvisare.
Oltre a tutto ciò, Beethoven accettò anche commissioni per scrivere musica
di scena per drammi recitati, il cui principale risultato fu la musica per Egmont
del 1809-10, composta per una produzione viennese del dramma di liberazione
politica di Goethe. E come attività minore, ma che si rivelò artisticamente
interessante perché lo guidò verso il mondo del canto popolare, accettò il
contratto propostogli nel 1809 dall’editore George Thomson per realizzare degli
arrangiamenti di arie scozzesi.
Nessuna di queste attività fece venire meno il suo desiderio di fondo di
mettersi in vista come compositore sinfonico, anche se l’onda che lo aveva
portato dall’Eroica alla Pastorale si era ormai esaurita. Come vedremo, nel suo
principale quaderno di appunti del 1809 annotò nuove idee per sinfonie, alcune
delle quali veramente originali e notevoli, ma non le mise a frutto in
composizioni completamente sviluppate né allora né in un momento
successivo, e neppure abbozzò tracce per interi movimenti. Rappresentano
comunque una prova evidente che la sua ambizione di sinfonista era in
fermento. Infine, nell’autunno del 1811, cominciò a lavorare a una sinfonia in la
maggiore destinata a diventare la Settima.
Nel 1812, a quarantuno anni, Beethoven era il più acclamato compositore
d’Europa, ma, anno dopo anno, incontrava seri problemi. Nel febbraio di
quell’anno scrisse a Nikolaus Zmeskall, un confidente di vecchia data,
esprimendogli la propria profonda insoddisfazione per la sua vita a Vienna:
O Cielo, aiutami a sopportarlo; io non sono un Ercole che possa aiutare Atlante a reggere il mondo,
o addirittura reggerlo al suo posto. – Soltanto ieri ho saputo in tutti i particolari le belle cose che il
signor barone Krufft è andato a dire di me da Zisius, e i giudizi che ha espresso sul mio conto –
Lasciamo perdere, caro Z[meskall], tanto questa storia non durerà molto, perché non voglio
continuare a vivere qui per essere insultato così. L’arte, quando è perseguitata, trova sempre un asilo.
Dedalo, rinchiuso nel labirinto, ha ben inventato le ali che lo fanno uscire sollevandolo in alto nell’aria.
Oh, anch’io le troverò queste ali.1

Senza dubbio i suoi guai personali erano complicati dalle problematiche


condizioni della vita in Austria. Nel 1811 il regime degli Asburgo, dopo anni di
guerra, aveva raggiunto una condizione di depauperamento finanziario, e fu
costretto a svalutare la propria moneta. Quell’anno, per Beethoven, fu segnato
anche dalla bancarotta del suo indefettibile mecenate principe Joseph Franz
Maximilian Lobkowitz, il dedicatario dell’Eroica, della Quinta, della Sesta e di
altri lavori. Nel 1809 Lobkowitz si era associato con il principe Kinsky e
l’arciduca Rodolfo per garantire a Beethoven un assegno annuale, ma ora, dopo
due anni, fu costretto a sospendere i propri pagamenti. Nel frattempo Kinsky
aveva rallentato i propri contributi, che cessarono del tutto quando, nel
novembre 1812, morì inaspettatamente a causa di una caduta da cavallo,
costringendo Beethoven a rivolgere un’istanza alla vedova per ottenere una
compensazione2. Da quel momento Beethoven dovette, più che mai, contare
sull’arciduca Rodolfo, che rimase la sua principale fonte di sostegno per il resto
dei suoi giorni3.
Al di sotto della caotica superficie della sua vita Beethoven covava il
perpetuo sogno di trovare la donna ideale, quell’”amata lontana” che fu sempre
un’immagine, mai una realtà. Tutti i suoi coinvolgimenti romantici, nel corso
degli anni, erano falliti, non solo a causa della sua personalità irascibile, ma
anche perché doveva essere consapevole che, per quanto desiderasse una
relazione di questo tipo, la sua totale dedizione alla propria arte gli avrebbe
impedito di sostenerla. Anni dopo lo vedremo esprimere privatamente i suoi
contraddittori sentimenti in relazione a Giulietta Guicciardi, uno dei suoi primi
amori. Giulietta era stata sua allieva di pianoforte per qualche anno a partire
dal 1800, e a lei era stata dedicata la Sonata “Al chiaro di luna”. Nel 1803 aveva
sposato il conte Robert Gallenberg, un amministratore di teatro, partendo con
lui per l’Italia. Ma nel 1822 la coppia fece ritorno a Vienna, e di lì a poco
Beethoven scrisse queste osservazioni in uno dei suoi quaderni di
conversazione:
[scritto in francese] Lei mi amava, più di quanto abbia mai amato suo marito […] Era già sposata
con lui prima della loro partenza per l’Italia, e venne a cercarmi in lacrime, ma io la disdegnai […]
[proseguendo in tedesco] se avessi voluto dedicare le mie forze vitali a quel tipo di vita, che cosa
sarebbe rimasto per le cose migliori e più nobili?4

Dopo il 1803 Beethoven aveva avuto parecchi legami romantici, però non
riuscì a mantenerne alcuno. Ma nell’estate del 1812 la storia d’amore più seria
della sua vita aveva raggiunto un vertice di esaltazione, come sappiamo dalla
struggente lettera all’innominata “amata immortale” – «mio angelo, mio tutto,
mio me stesso» – in cui riversava i propri sentimenti in una commistione di
passione e rinuncia. Insieme con il Testamento di Heiligenstadt e il diario del
1812-18 è il documento diretto più rivelatore di cui siamo in possesso5.
Eppure tutti questi problemi, fossero temporanei o di lunga durata, non
rallentarono la sua attività creativa più di quanto avessero fatto la crisi per la
sordità del 1802 o i pensieri suicidi confessati a Wegeler nel 1810.
Contemplando il suo perdurante senso di desolazione, in qualche modo
compensato dall’immensa produttività, torniamo a riflettere sull’intreccio di
vita e lavoro di un grande artista, che per un individuo così eccezionale rimane
oscuro e nascosto6. Alcuni critici, tra i quali Carl Dahlhaus, pretendono di
risolvere il problema considerando i fatti della vita di Beethoven
sostanzialmente irrilevanti per il suo lavoro, ma perfino Dahlhaus, pur
ostinandosi a tenere la biografia separata dall’oggetto principale dei suoi
interessi, dovette ammettere che «è difficile rendere plausibile l’idea che
un’opera esista in sé, come un’”entità”, indipendentemente dal suo autore»7.
Nuove idee per sinfonie nel 1809
Negli anni di grande produttività tra il 1809 e il 1812 la più forte ambizione di
Beethoven era di ritornare alla sinfonia, come possiamo vedere dalle idee
tematiche, ciascuna contrassegnata “Sinfonia”, documentate nei suoi quaderni
di appunti. Si tratta di brevi spunti rimasti irrealizzati, per quanto alcuni
fossero molto interessanti, poiché furono completamente soppiantati dalla
nuova sinfonia in la maggiore che sarebbe diventata la Settima, seguita poi
dall’Ottava. L’Ottava a sua volta ebbe un’origine curiosa, essendo stata
inizialmente concepita come concerto per pianoforte e orchestra, ma poi
divenne la sua principale preoccupazione nell’estate e nell’autunno del 1812. Le
idee contrassegnate “Sinfonia” del 1809 includono tre appunti davvero utili a
chiarire l’insieme delle sue idee per lavori di questo tipo in questo periodo.

1. Un’idea musicale contrassegnata “primo Allegro per una sinfonia” (erster


Allegro einer Sinfonie). È una frase di quattro battute in sol maggiore, 3/4, un
suggestivo attacco per un Allegro di apertura in una tonalità che Beethoven
considerava brillante e vivace:
Es. 8. Spunto per un tema di apertura di una sinfonia in sol maggiore del 1809, non sviluppato.

Fonte: MS Ladsberg 5, p. 55, sistema 9

2. Più avanti, nel medesimo quaderno, dopo abbozzi per il Quartetto “Delle arpe”
e per altri progetti, Beethoven provò un’altra serie di abbozzi per due
movimenti di una “Sinfonia” (cfr. Esempio 9). Qui troviamo un’introduzione
in sol minore, portentosa e davvero originale, seguita da un Allegro in sol
maggiore, entrambi in 4/4. L’introduzione, senza dubbio intesa in tempo
lento, ha caratteristiche sorprendenti, in particolare il motivo di apertura in
valori lunghi che prosegue con una breve figurazione in semicrome, a
battuta 2, incorniciata da pause e contrassegnata dall’esplicita indicazione
“Viola”. Quindi Beethoven ripete la stessa coppia di figurazioni
asimmetriche mezzo tono sopra, cominciando da un la bemolle. Poi un tema
per un Allegro in sol maggiore presenta figurazioni costituite da una scala
ascendente, seguita da un tema solido e squadrato che non può non
ricordarci uno dei temi principali del Finale della Quinta.
Es.9. Spunto per due movimenti di una sinfonia in sol minore/maggiore del 1809, non sviluppati.

3. Ancora più avanti, nel medesimo quaderno, troviamo le parole “A moll


Sinfonie” (Sinfonia in la minore) scritte in grandi caratteri maiuscoli al
centro della pagina (p. 104), ma, ahimé, senza alcuna musica. E, ancora,
l’idea stessa di una “Sinfonia in la minore” è stuzzicante. Si tratta di una
tonalità rara per Beethoven, che in seguito l’avrebbe utilizzata per un solo
lavoro importante, il grande Quartetto op. 132, composto nel 1825. Due altri
abbozzi nello stesso quaderno di appunti del 1809 sono stati considerati
possibili idee sinfoniche, ma non sono stati contrassegnati “Sinfonia” come
quelli precedenti8.

Ritmo e integrazione
Tutti i commenti della Settima Sinfonia ne sottolineano il carattere
essenzialmente ritmico. Ciascun movimento è permeato da una propria cellula
ritmica, ben definita e persistente, che dà forma alla sostanza musicale. Nelle
altre sinfonie la sola situazione realmente paragonabile che possiamo
individuare è il primo movimento della Quinta – ma nella Quinta le continue
ripetizioni del motto iniziale sono elaborate in altre maniere, e appartengono a
un’altra tecnica di organizzazione tematica. Nella Settima è la viscerale, fisica
affermazione dell’azione ritmica, diversamente incorniciata ma chiaramente
udibile in ogni tempo e movimento, a catturare ogni ascoltatore. È questo che
sta dietro alla definizione trita e ritrita inventata da Wagner, che descrisse
questo lavoro come “l’apoteosi della danza”, e non c’è da meravigliarsi che la
Settima sia diventata uno dei pezzi prediletti dai coreografi. Comunque il
quesito resta aperto: quale può essere stata la finalità della concezione formale
di Beethoven dietro all’idea di una sinfonia in cui il ritmo domina in modo così
preponderante, e quali particolari conseguenze sono risultate dalla sua
decisione di portare in primo piano l’elemento ritmico?
Il ritmo è una condizione fondamentale della musica. È l’elemento
primordiale mediante il quale la musica struttura il tempo e l’esperienza
temporale. Nella musica il ritmo è onnipresente, indipendentemente da quali
altri fattori siano messi in evidenza, e il modo in cui viene utilizzato genera
differenze fondamentali tra lavori, stili, linguaggi e dialetti musicali di ogni
periodo e cultura. Poiché Beethoven crebbe nel periodo classico, col suo vasto
vocabolario di frasi e periodi ritmicamente simmetrici, aveva mostrato la sua
originalità nell’utilizzare figure ritmiche fortemente definite in numerosi lavori
giovanili. In alcuni, simili figure assumono ruoli di primaria importanza. Tovey
una volta ha osservato quanto sia tipicamente beethoveniano il fatto che spesso
i suoi temi possono essere identificati dal solo ritmo più facilmente che in
Haydn o Mozart, per quanto nei loro lavori ci siano delle eccezioni. Ma nessuno
prima di Beethoven ha mai iniziato un movimento in modo così peculiare come
ha fatto lui con lo Scherzo del Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 1, con quella
frase di quattro battute: una proposizione musicale ben fatta e perfettamente
comprensibile, per quanto non presenti dall’inizio alla fine che una sola nota –
il si bemolle grave del violoncello.
Ma la coerenza ritmica, nella Settima, controlla ogni momento in modo
ancor più pervasivo che nella maggior parte degli altri suoi lavori. Qui il flusso
torrenziale degli eventi ritmici qualche volta mette in ombra gli altri elementi
costitutivi del lavoro – melodia, armonia, condotta delle parti, dinamica,
tavolozza timbrica. Anima il discorso a ogni livello e diventa la principale fonte
della sua organica unità. In effetti Beethoven trovò un nuovo modo di
articolare una sinfonia in quattro movimenti che poteva rivaleggiare con la
Terza e la Quinta, per energia e capacità di eccitare, e che serviva ad
uniformare l’insieme.
E comunque, quand’anche questo approccio non fosse completamente
inedito, certamente nessuno, prima di lui, lo aveva concepito in questi termini.
Nella Quinta Beethoven aveva integrato il ciclo dei quattro movimenti per
mezzo di una singola figura ritmica, il famoso motto, che appare in ogni
momento; la struttura generale comporta anche il graduale emergere della
tonalità di do maggiore, che culmina nell’esplosivo finale. Nella Pastorale il
ciclo di cinque movimenti è integrato per mezzo di un programma narrativo
che ci accompagna passo dopo passo attraverso un’esperienza del mondo della
natura in molte delle sue più colorite manifestazioni, per finire con un inno di
ringraziamento per la quiete dopo la tempesta. Nella Settima, invece, non ci
sono né l’emergere di una rivelazione tonale, né un programma noto. Per
quanto ne sappiamo oggi, Beethoven non spese mai una parola su questo
lavoro se non per dire che lo considerava uno dei suoi migliori. Né c’è un’unica
idea tematica o motivica che circoli in tutti i movimenti. Nella Settima invece –
e più che in ogni altro suo lavoro, perfino più che nella Quarta Sinfonia – è
l’azione ritmica, di vario genere e a differenti velocità, a creare forme di
espressione caratteristiche – esuberante nel primo movimento, lenta e regolare
nel secondo, rapida e con un movimento che si proietta in avanti nel terzo,
selvaggiamente scatenata nel finale.
Una suggestiva teoria su questa sinfonia, avanzata da Maynard Solomon, è
che le sue formule ritmiche possano essere scaturite da un interesse di
Beethoven per l’evocazione dei metri dell’antica poesia greca, alcuni dei quali
in effetti corrispondono alle figure ritmiche che dominano ciascun movimento9.
Quest’idea fu proposta per la prima volta da Carl Czerny, allievo di Beethoven,
che l’aveva ricavata da un trattato di Anton Reicha. Czerny osserva che il
primo movimento, Allegro, utilizza «un’ampia gamma di figure dattiliche», che
il movimento lento «è formato da pesanti dattili e spondei» e che nel finale
troviamo un altro metro paragonabile a questi. Si tratta di un’idea puramente
ipotetica, poiché non possediamo alcun elemento che possa avvalorarla se non,
genericamente, il fatto che l’epica omerica e alcuni libri classici erano tra le
letture preferite di Beethoven, e l’ancor più generica considerazione che
Beethoven conosceva bene la tendenza contemporanea ad associare
immaginario politico, arte, architettura, abbigliamento e teatro con forme e
figure dell’antichità greca e romana. Il suo giovanile balletto Prometeo contiene
una “Danza di Bacco” e nel 1818, quando pensava a nuove sinfonie, Beethoven
immaginò una sinfonia corale che avrebbe dovuto includere una successione di
movimenti da lui descritta così: «nel testo dell’Adagio, mito Greco, Cantique
Ecclesiastique – nell’Allegro, una celebrazione di Bacco»10. Nella migliore delle
ipotesi, tuttavia, le argomentazioni per un’associazione dei ritmi della Settima
con la metrica classica, come fatto artisticamente intenzionale, rimangono
incerte.

Piano dei movimenti; tempi; altri lavori in la maggiore


Ecco lo schema della Settima:

L’introduzione lenta, riccamente sviluppata, è molto più lunga di quelle che


Beethoven aveva scritto per la Seconda e la Quarta. Il suo tempo, “Poco
sostenuto”, è un’indicazione che gli piaceva usare, in lavori o singoli
movimenti, all’incirca tra il 1808 e il 1815: si tratta sempre di composizioni serie
e profeticamente inquietanti – l’introduzione del Trio con pianoforte op. 70 n.
2, il melologo della musica di scena per Egmont; il Lied “An die Hoffnung” op.
94; uno degli equali per quattro tromboni, scritto mentre stava finendo di
comporre questa sinfonia; e la sezione “Calma di mare” della sua composizione
per coro sul poema di Goethe Meerestille und Gluckliche Fahrt (Calma di mare e
viaggio felice) op. 112, del 1814-1511.
Le analogie più convincenti, per l’introduzione lenta della Settima, sono
quelle con i quartetti op. 59 n. 3 e op. 74, e il misterioso prologo in fa minore
della scena di Florestano nel sotterraneo in Leonore. Nella Quinta e nella Sesta i
movimenti lenti erano indicati “Andante”, ma nella Settima Beethoven
preferisce “Allegretto”, e così questa introduzione non solo stabilisce il tono
emotivo dell’intera sinfonia, ma ne è, in effetti, il movimento lento.
Altri nuovi elementi nella struttura generale e nel carattere dell’intera
sinfonia sono:

1. L’uso dell’indicazione di tempo “Vivace” e del metro 6/8 per il primo


movimento: una combinazione davvero insolita per il primo movimento di
una composizione in tre o quattro tempi di Beethoven;
2. Lo schema tonale dei movimenti interni, con il movimento lento in la minore
(la tonica minore) e lo Scherzo in fa maggiore;
3. L’uso dell’indicazione di tempo “Presto” per lo Scherzo, con il meno vivace
“Assai meno Presto” per il Trio.

La scelta di la maggiore come tonalità d’impianto è significativa. Le sinfonie


in questa tonalità non erano comuni. Haydn l’aveva usata quattro volte prima
del 1765 nelle sue sinfonie giovanili (nn. 5, 14, 21 e 28), altre due volte negli
anni 1770 (nn. 64 e 65), e poi solo un’altra volta, nella Sinfonia n. 87 del 1785.
Mozart scrisse solo tre sinfonie in la maggiore: K114 (1771), K134 (1772) e K201
(1774): un lavoro di particolare bellezza, quest’ultimo. Non è certo che
Beethoven conoscesse qualcuna di queste sinfonie. Haydn aveva composto
qualche quartetto in la maggiore, tra cui l’op. 55 n. 1 del 1789-90, ma nessuno
tra i suoi grandi quartetti degli anni 1790 è in questa tonalità. D’altra parte
Beethoven ammirava i lavori da camera di Mozart in la maggiore, soprattutto il
Quartetto K464, a proposito del quale, secondo Czerny, disse: «Che lavoro!
Come se Mozart dicesse al mondo: “guardate cosa posso fare, se solo siete
preparati per questo!”» Di Mozart Beethoven dovrebbe aver conosciuto anche
il Quintetto e il Concerto per clarinetto, entrambi lavori dell’ultimo periodo.
Le composizioni di Beethoven in la maggiore spesso erano innovative. Il
Quartetto op. 18 n. 5 ricalca lo schema dei movimenti del K464 di Mozart, ma è
del tutto beethoveniano per contenuto tematico e carattere. Delle due sonate
per pianoforte in la maggiore di Beethoven, una è una composizione giovanile
(op. 2 n. 2, 1794-95), l’altra è la magistrale op. 101 del 1816. Beethoven scrisse
anche quattro sonate con accompagnamento in la maggiore – le sonate per
violino op. 12 n. 2 (1797), op. 30 n. 1, e Kreutzer (1802-3). Più vicina
cronologicamente alla Settima Sinfonia è la Sonata per violoncello op. 69 (1808);
in la maggiore ci sono anche alcune composizioni vocali, tra cui il Lied di
Clärchen – “Freudvoll und Leidvoll” – in Egmont.

I singoli movimenti
Vediamo ora alcune delle caratteristiche più notevoli di questa sinfonia.
L’introduzione lenta è una delle espressioni più nobili in tutta l’opera di
Beethoven, e forse in tutta la letteratura musicale. Lo schema delle sue sezioni è
A1-B-A2-Coda. Le misure iniziali procedono in solenni minime che solo
lentamente lasciano spazio a una maggiore animazione ritmica, ricordando
vagamente l’apertura della Quarta Sinfonia – ma questa volta con un carattere
maestoso, anziché bizzarro ed esitante. Nel primo segmento le figurazioni dei
legni sono sostenute dai bassi, che scendono per semitoni dalla tonica la alla
dominante mi. In questo modo viene profilato l’intervallo cromaticamente
discendente di quarta, un moto del basso da lungo tempo familiare per
Beethoven, che lo aveva già usato altrove, per esempio nelle Trentadue
variazioni per pianoforte, WoO 80, del 180612. Ascoltando con attenzione la
linea del basso per le prime dieci battute non è difficile accorgersi di questa
discesa, e l’intervallo discendente da la a mi può anche essere percepito come
lo specchio delle prime due note del movimento melodico dell’oboe. È il tipo di
relazione tra dettaglio e grande frase che si può riscontrare solo nella musica
dei maestri.
Ecco gli altri momenti notevoli dell’introduzione:

1. Le scale ascendenti di semicrome nella seconda parte della sezione A;


2. La nuova melodia nella sezione B, ancora una volta affidata all’oboe e adesso
in do maggiore, piano dolce, caratterizzata dalle figure ritmiche di due note
nella seconda battuta. Tutto quanto segue, in questa introduzione, è ora
formato dalle figure delle sezioni A e B, per arrivare alla Coda, in cui la nota
mi, la dominante, resta il solo elemento per le ultime sei battute,
alternandosi in forma di dialogo tra legni e archi per arrivare al Vivace, di
cui l’intera introduzione è la preparazione.

Il primo movimento
La verve e l’energia del primo movimento sono preparati passo dopo passo
dall’Introduzione: poi si scatena un 6/8 Vivace nel quale viene introdotta la
figura dattilica di tre note (compare due volte in ciascuna battuta di 6/8) che
domina l’intero movimento. Significativamente, è proposta per la prima volta
sulla sola nota mi dai legni in un registro acuto, cosicché all’inizio la si ascolta
come puro motivo ritmico, prima che emerga come parte di una frase melodica,
e – anche – prima di essere armonizzata. L’accordo di tonica di la maggiore
prende forma poche battute dopo, nel momento in cui si aggiungono altri
strumenti, quindi il vero e proprio primo tema viene proposto dal flauto solo
(cfr. Esempio Web M).
Iniziare un primo movimento affidando il tema principale ai legni nel
registro acuto è una novità, nella prassi sinfonica beethoveniana, proprio come
il tema stesso ha un carattere completamente nuovo. In Beethoven il metro di
6/8, a parte i movimenti lenti, lo si trova essenzialmente in due casi. Uno è il
tradizionale schema di Rondò finale in 6/8, ereditato da Haydn e Mozart13.
Beethoven seguì questo modello in qualche lavoro da camera giovanile e in
molti dei finali per i concerti. In tutti questi casi utilizzò il titolo “Rondò”,
abbandonato poi nei lavori dei periodi successivi. L’altro caso è quello del 6/8
utilizzato nei primi movimenti dei quartetti op. 18 n. 5 e op. 59 n. 2. Ma
nessuno di questi si avvicina alla Settima nell’uso costante di una formula
ritmica ossessiva14.
Pur conservando la fondamentale suddivisione in sezioni tipica di un ampio
movimento in forma-sonata, questo primo movimento mostra un certo numero
di peculiarità. Scegliendo di conferirgli una decisiva impulsione ritmica,
Beethoven dovette diminuire il grado di contrasto melodico che nelle
precedenti sinfonie aveva distinto i secondi gruppi tematici dai rispettivi temi
di apertura. Se pensiamo ai profili contrastanti dei primi e dei secondi temi
nelle esposizioni delle precedenti sinfonie di Beethoven, siamo colpiti da
quanto differiscono per carattere, articolazione di frase e strumentazione. Nella
Settima non è così. Qui Beethoven trova altre tecniche per ottenere il contrasto
tematico nelle diverse sezioni del movimento, che deve continuare
inesorabilmente a scorrere nel suo metro 6/8 Vivace, variato in modo brillante
nelle sue sottounità, ma senza nulla di paragonabile ai drastici contrasti che
troviamo nell’esposizione della Quinta e, in qualche misura, di tutte le altre sue
sinfonie.
Uno di questi mezzi è l’uso di insoliti scarti armonici. Nell’introduzione
Beethoven amplia il ventaglio armonico passando dalla tonica la maggiore alla
distante tonalità di do maggiore, e nel Vivace troviamo altre improvvise e
sorprendenti deviazioni armoniche, oltre ad altrettanto bruschi cambiamenti di
dinamica e di registro. La sua sottigliezza nel pianificare la struttura
fraseologica di questo movimento è completamente evidente negli abbozzi
sopravvissuti e nel manoscritto autografo. A proposito di quest’ultimo
troviamo un’eloquente e curiosa affermazione dell’editore Johann André, che
fece visita a Beethoven mentre era impegnato nella stesura dell’autografo.
Secondo Ferdinand Hiller
André riferì di aver visto che nella partitura della Sinfonia in la maggiore c’erano delle pagine
lasciate in bianco, cosicché quanto era scritto prima della pagina vuota non aveva alcun collegamento
con quanto era scritto dopo. Beethoven disse che il materiale di collegamento sarebbe certamente
arrivato.15

Molto tempo fa George Grove osservò che in effetti l’autografo contiene


quattro pagine vuote nell’Introduzione e nel primo movimento, oltre a spazi
vuoti più piccoli nel Vivace, «come se fossero destinati a essere riempiti in un
secondo momento». E nella versione definitiva del primo movimento ci sono
significativi momenti di silenzio, come all’inizio dello sviluppo e nel punto
corrispondente all’inizio della coda; ci si ricorda qui delle “grandi pause nere”
udite da Beckett in questo movimento16.
La coda è una delle più forti di Beethoven. Raccoglie tutta l’energia del
movimento che l’ha preceduta e la esprime nel modo più esplicito, usando
alcune delle più efficaci e tipiche caratteristiche tecniche beethoveniane. È
organizzata nel modo descritto di seguito, e un ascoltatore attento non avrà
problemi nel seguirne la fondamentale successione di eventi:

1. Quando la ripresa conclude regolarmente nella tonalità della tonica (la


maggiore), dopo due battute di silenzio segue un sorprendente, isolato la
bemolle (= sol diesis, la sensibile della tonalità d’impianto). Questa nota
diventa quindi il trampolino di lancio della frase successiva, nella quale i
bassi, pianissimo, scendono per gradi da la bemolle a mi bemolle, ripetendo
regolarmente il ritmo dattilico tipico del movimento mentre tornano
dall’iniziale la bemolle maggiore alla tonalità d’impianto, la maggiore,
raggiunta alla fine di questo inquietante passaggio. Sopra, i legni
intervengono con la figurazione dattilica, ma tengono anche lunghi accordi,
mentre i violini riprendono la figurazione originale della prima battuta del
tema di apertura.
2. Questo segmento di ventidue battute, lungo più del doppio del precedente, è
noto soprattutto a causa dell’osservazione – attribuita da Schindler, in modo
evidentemente falso, a Carl Maria von Weber – che questo passaggio
dimostrava che Beethoven era «pronto per il manicomio»17. È il passaggio
in cui gli archi gravi ripetono undici volte una figura cromatica “ad arco” di
due battute sulle note re-do diesis-si diesis-si diesis-do diesis, mentre legni e
archi acuti (cui poi si aggiungono trombe e timpani) generano un crescendo
che porta a un nuovo momento saliente in cui la figurazione dattilica
domina completamente in tutta l’orchestra.
3. Richiamandolo ora in fortissimo, la coda scatena ancora una volta, a tutta
forza, il trionfale tema caratterizzato dall’arpeggio discendente già messo in
evidenza nello sviluppo. Fiati e archi dialogano fittamente usando brevi
frammenti del ritmo fondamentale, quindi si slanciano verso il culmine
conclusivo.
4. Le battute finali riaffermano l’arrivo della tonica la maggiore, come ci si
aspetta, ma mentre lo fanno l’intera sezione dei fiati, alla quale i corni nel
registro acuto aggiungono un timbro trionfale, portano il movimento alla
sua formidabile conclusione.

L’allegretto
La primissima traccia del tema fondamentale di questo movimento risale al
1806, quando, tra gli appunti per l’op. 59 n. 3, troviamo un abbozzo per il tema
iniziale, immediatamente riconoscibile per la ripetizione delle note e la
persistente figurazione ritmica formata da un dattilo e uno spondeo. Si direbbe
che Beethoven stesse pensando di usare questo tema per il movimento lento di
quel quartetto in do maggiore, ma poi avesse preferito l’andante in la minore in
6/8 – nel quale si possono riconoscere delle inflessioni da canto popolare russo
– che sarebbe poi stata la sua scelta definitiva.
Tra tutti i suoi movimenti lenti sinfonici, per quanto memorabili, questo
occupa un posto speciale nel moderno immaginario fin dalla prima esecuzione,
avvenuta nel dicembre 1813, nella sala grande dell’Università di Vienna. Tre
anni dopo un commentatore avrebbe scritto:
Il secondo movimento […] che fin dalla sua prima esecuzione è stato uno dei pezzi preferiti da tutti
gli amatori e dagli intenditori, è un movimento che va direttamente al cuore anche di coloro che non
hanno avuto una formazione musicale; li conquista con il suo candore e con una certa qual segreta
magia – e ad ogni esecuzione se ne richiede sempre il bis.18

Come, e perché? Potremmo cominciare dalle sue qualità molto particolari di


tonalità, carattere e umore. Sono tutti d’accordo sul fatto che possiede una
particolare Stimmung, parola che letteralmente significa “altezza della nota” e
“intonazione” ma che si riferisce anche all’atmosfera emotiva. Un’altra ragione
per il suo duraturo impatto è la graduale crescita, all’interno del movimento,
dalla tranquilla contemplazione a una condizione esaltata di profondo
coinvolgimento emotivo. Il modo in cui Beethoven ottiene tutto ciò merita una
riflessione.
La forma generale del movimento può essere definita in vari modi, secondo
il punto di vista di chi lo analizza. Ma le due opzioni fondamentali sono di
considerarlo o una serie di variazioni liberamente sviluppata (per quanto non
segua il tradizionale schema a sezioni delle variazioni tradizionali), o un rondò
trattato liberamente, con qualche affinità con la forma della Marcia Funebre
dell’Eroica. La sua esposizione su ampia scala (in questo Allegretto è lunga 100
battute, più di un terzo dell’intero movimento), elegantemente e
simmetricamente suddivisa in quattro segmenti di ventiquattro battute, è
preceduta da un gelido accordo tenuto e conclusa da una breve codetta.
Segue poi lo splendido e consolatorio interludio in la maggiore che
qualcuno definisce “onirico”. Ci offre sollievo dallo scoramento della prima
sezione, ma tuttavia conserva, sussurrato dai bassi, il ritmo dattilico proprio del
motivo principale.
Di lì in poi, sulla base del materiale esposto fino a questo momento, viene
costruita una successione di segmenti fortemente variati. Si tratta, di volta in
volta, di riprese in molte forme differenti del materiale principale in la minore,
seguite dalla riapparizione dell’interludio lirico in la maggiore, che appaiono in
quest’ordine:

1. ripresa del tema principale e del suo controcanto, insieme;


2. trattamento fugato del tema principale, prima agli archi soli, poi con
l’aggiunta dei fiati;
3. prominente ripresa a tutta orchestra del tema di otto battute di apertura,
ancora una volta nell’onnipresente tonalità di la minore;
4. ripresa abbreviata dell’interludio lirico in la maggiore, con una breve codetta
che riprende il motivo principale;
5. coda dell’intero movimento. Per concludere Beethoven fa dialogare ancora
una volta fiati e archi, ora in stretti scambi di frase in frase; il movimento
conclude infine con un accordo tenuto, così come aveva cominciato.

Come abbiamo già visto, Beethoven era consapevole delle tradizionali


associazioni di particolari tonalità con determinate qualità espressive. Ma le
tonalità erano collegate anche al genere e agli organici per i quali scriveva, e le
sue idee potevano ben essere colorate dalla sua consapevolezza delle sonorità e
dei registri in cui determinati strumenti suonano particolarmente bene e
possono produrre i particolari effetti che aveva in mente: per esempio la
risonanza delle corde vuote di violino, viola e violoncello, e i registri più
efficaci di flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno.
Per i primi ascoltatori l’inizio di questo movimento, con il suo famoso
motivo di due battute di dattilo e spondeo, potrebbe aver evocato perlomeno
reminiscenze del tempo lento di marcia che Beethoven aveva usato con un
effetto così potente nella Marcia Funebre dell’Eroica. Le fonti esterne dell’epoca
non ci forniscono alcuna base sicura su cui fondare un’associazione di questo
tipo, ma nel 1811-12 Vienna usciva da due decenni di guerra e – nel 1809 – da
un’invasione dei francesi. Vienna era necessariamente una città-presidio nella
quale i battaglioni dell’esercito imperiale erano una presenza costante, e i
cittadini erano abituati alla vista, e ai suoni, delle marce militari. Beethoven era
richiesto come autore di nuove composizioni per le bande militari dell’esercito
austriaco, e ottemperò scrivendo parecchie di queste marce tra il 1809 e il 1816.
La sua familiarità con il genere è sancita dal manoscritto autografo di una di
queste composizioni, dove scrive «Allegro nel tempo che è ora comune per le
Marce».
Che questo Allegretto possa evocare il genere della marcia è suggerito
dall’ossessiva ripetizione del motivo iniziale di due battute, analogamente a
quanto accade nel primo movimento, ma evidentemente in una sfera diversa. Il
suo primo tema non ha nulla in comune con le melodie liriche che Beethoven
aveva usato per iniziare i movimenti lenti della Seconda, della Quarta e della
Quinta, o, nella sua maniera peculiare, per la “Scena al ruscello” della Sinfonia
“Pastorale”.
Dopo aver completato l’esposizione del tema dattilo-spondeo, Beethoven
presenta, affidandola a viole e celli, la sua contro-melodia: un’espressione
elegiaca notevole per il suo ristretto ambito melodico, per la leggera inflessione
maggiore nell’ambito del prevalente la minore e per il senso di desolazione
ancora più intenso che aggiunge al primo segmento, insieme al quale viene
eseguita. L’intera prima, ampia sezione del movimento è strumentata per soli
archi tranne che per le ultimissime battute, e ciascun segmento ripete e
intensifica il medesimo materiale di partenza via via salendo di registro e
aumentando d’intensità. Il crescendo dal piano al fortissimo, in questo arco
temporale, dev’essere uno dei più ampi in qualsivoglia lavoro di Beethoven. E
non ci sono parole per l’effetto di punto culminante del segmento conclusivo,
col suo toccante decrescendo alla fine. Questa tecnica di costruzione, con una
lunga sezione che sale gradualmente di registro e acquisisce volume e forza,
sarà poi uno strumento fondamentale nella Nona Sinfonia.
Le successive sezioni dell’Allegretto sono ben strutturate come la prima, ma
più brevi. Lo splendido interludio in la maggiore che si alterna due volte con le
variazioni di base in la minore proietta un raggio di luce nell’ombra che
predomina. Nella coda, ancora una volta in pianissimo, Beethoven affida le frasi
di due battute che si sono ascoltate fin dall’inizio a coppie di strumenti, questa
volta in registri via via più gravi e con nuovi timbri a ogni enunciazione. Nelle
ultimissime battute i fiati concludono questo stupefacente movimento con un
accordo di tonica, nella stessa strumentazione e con la stessa insolita sonorità
dell’inizio. Beethoven non aveva mai concluso un pezzo o una sezione in
questo modo, con un accordo, e con questo accordo questo movimento esce
dallo stesso portale attraverso il quale, come in un sogno, aveva fatto il proprio
ingresso.

Lo scherzo
«Non c’è dubbio – scrisse George Grove a proposito di questa sinfonia – che
l’immagine mentale suscitata dalla n. 7 è più grande di quella di una qualsiasi
tra le sinfonie che l’hanno preceduta»19. Quella che Grove indicava come
“immagine mentale” risuona ancora, e alla nostra epoca – a due secoli di
distanza dalla prima esecuzione – c’è un ampio consenso sul fatto che la
Settima sia uno dei lavori più soddisfacenti di Beethoven, un lavoro nel quale
ogni singolo particolare contribuisce ugualmente alla qualità del tutto.
Questo Scherzo-Trio è un movimento in cinque parti, come quelli della
Quarta e della Sesta. È il più ampio degli scherzi sinfonici scritti da Beethoven
fino a questo momento, e le sue proporzioni prefigurano quelle dello Scherzo
della Nona Sinfonia, di gran lunga il più ampio movimento di questo genere che
Beethoven abbia mai scritto.
A parte le ovvie differenze di tonalità, metro e forma, sembra che il primo
movimento e lo Scherzo, nella loro fase di primo abbozzo, avessero un comune
antenato. Proprio all’inizio del principale quaderno di appunti per questa
sinfonia Beethoven buttò giù una serie di idee musicali che anticipano il tema
iniziale dello Scherzo, ma in 6/8 e in la maggiore. A questo stadio, ha l’aria di
uno spunto di partenza per il primo movimento, e non possiamo escludere che
Beethoven abbia pensato che poteva funzionare ugualmente bene in entrambi i
movimenti, e solo in un secondo momento abbia deciso di utilizzarlo per lo
Scherzo (cfr. Esempio Web N)20.
Una delle molte bellezze dello Scherzo è l’ingegnosità con cui Beethoven
mantiene per un lungo tratto l’ossessiva ripetizione in pianissimo di una
figurazione di due note che scende di grado (una minima legata a una
semiminima). Il suo modo di disporla è di enunciarla in una successione di tre
frasi di quattro battute ad altezze differenti – prima ai fiati, poi agli archi acuti,
poi a fagotti e bassi, per rompere infine l’incantesimo con un’esplosione
fortissimo. Questa successione si presenta due volte in questa forma, poiché il
movimento prevede la completa ripetizione delle due parti in cui si articola la
forma dello Scherzo. In seguito, dopo la prima enunciazione del Trio, lo
Scherzo viene completamente ripetuto con la medesima successione di frasi di
quattro battute, ma questa volta l’attesa esplosione fortissimo è sostituita da
una conclusione delicata, pianissimo. È un momento che tutti gli ascoltatori
imparano ad assaporare, ancor più quando l’intero Scherzo torna per la terza
volta alla fine del movimento, e questa volta ritorna anche lo schianto
fortissimo.
Il Trio, che qualcuno ha creduto essere un inno (o la variante di un inno)
preso a prestito, è strutturato inizialmente come una serenata per clarinetti e
corni, con i violini che tengono lungamente un la (dominante di re maggiore,
tonalità del Trio). È solo più avanti, quando i corni esplorano il loro registro più
grave con la persistente figura cromatica di due note con cui il Trio ha avuto
inizio, che l’intera orchestra porta il tema principale del Trio al suo culmine, in
fortissimo, su un rullo di timpani – che, nel linguaggio sinfonico di Beethoven,
è sempre un segnale drammatico. E alla fine dell’intero movimento, nella coda,
Beethoven riprende il dolce tema del Trio in due brevi frasi, una in maggiore,
l’altra in minore, prima di scatenare la cadenza conclusiva (Presto).

Il finale
I due fragorosi gesti che aprono il finale (Allegro con brio, 2/4) ciascuno seguito
da un’intera battuta di silenzio, rendono chiaro che non ci sarà tregua, e
l’ultimo movimento, se mai, amplierà l’uso di ritmi trascinanti che ha dominato
l’intero lavoro fino a questo punto. In ciascuna delle figurazioni iniziali di
quattro note gli archi colpiscono con un accordo fortissimo cui il resto
dell’orchestra risponde immediatamente, e poiché entrambe le figurazioni
proiettano l’armonia di dominante di la maggiore, si crea un’aspettativa di
risoluzione sulla tonica che sarà soddisfatta solo alla dodicesima battuta. Ma a
questo punto l’esuberante primo tema si è già messo in movimento con i primi
violini sui forti accenti in levare degli altri strumenti (cfr. Esempio Web P).
Da qui il movimento sviluppa una forma-sonata su ampia scala in cui il
secondo gruppo dell’esposizione contiene particolari ritmici fortemente
contrastanti nel momento in cui l’armonia si porta non a mi maggiore – ossia
la tonalità della dominante, secondo le norme accademiche – ma a do diesis
minore, la tonalità della mediante – una mossa insolita perfino per Beethoven.
Lo sviluppo si porta ancora più lontano, prima a do maggiore e fa maggiore
(richiamando così le avventure armoniche dell’ormai lontana introduzione
lenta del primo movimento), e poi si spinge ancora oltre, alla remota tonalità di
si bemolle maggiore, immediatamente prima di riesplodere, con la ripresa, nella
tonalità di la maggiore. Nella coda, quando il grande movimento si avvicina alla
sua conclusione, celli e bassi indicano che il finale, analogamente al primo
movimento e allo Scherzo, avrà la propria figurazione ossessivamente ripetuta
nelle regioni più gravi della tavolozza sonora: ripetono infatti una figurazione
cromatica sulle note mi e re diesis per venti battute consecutive, e poi ancora
per altre quattro, sostenendo un imponente accumulo di risorse strumentali in
vista del fuoco d’artificio che conclude il movimento. Un segno delle enormi
aspettative di Beethoven circa la forza della conclusione è il suo uso
dell’indicazione “fff” (fortississimo), una dinamica che non aveva ancora usato
in alcun’altra sinfonia né, a quanto ne so, in alcun altro lavoro precedente.
Tovey definì questo movimento «un trionfo di furia Bacchica» e tra i molti
finali di Beethoven in 2/4 è, par excellence, quello in cui l’ascoltatore si sente
più completamente preso in un turbine di eventi ritmicamente incalzanti
dall’inizio alla fine. Alcuni degli altri finali in 2/4 di grandi lavori del secondo
periodo di Beethoven usano temi e motivi di apertura di alto profilo, e inoltre
molti culminano in rapide code di grande energia – per esempio la Terza e la
Quarta, il Quartetto op. 59 n. 1, i trii con pianoforte op. 70 n. 2 e op. 97
(Arciduca). Ma nessuno, al di là di tutte le altre loro qualità, riesce a sopraffare
l’ascoltatore con il proprio incessante slancio in avanti in modo così completo.
È ancora più stupefacente, quindi, scoprire che a uno stadio iniziale, forse
prima di immaginare che l’intera sinfonia avrebbe avuto un carattere ritmico
tanto energico, Beethoven aveva concepito un finale completamente differente.
Lo troviamo in una delle prime pagine del suo principale quaderno di appunti,
dove questo tema compare con il titolo “Finale” (cfr. Esempio Web Q).
Per il suo candore e la sua quadratura questo tema, con i suoi due periodi di
otto battute, avrebbe potuto essere perfettamente funzionale a un lavoro dal
carattere più leggero. Ma il suo profilo melodico, le sue indicazioni dinamiche
(fp) all’inizio di ciascuna unità di due battute, il p a battuta 5, il suo carattere
generale, tutti questi elementi implicano un tono troppo leggero e dolce per
poter adeguatamente concludere la Settima Sinfonia. È come se Beethoven
avesse pescato un esempio dal suo banco di memoria delle idee tematiche da
finale in 2/4, e lo avesse provato su una pagina di abbozzi per vedere se poteva
funzionare. Ma non ci sorprende trovare, qualche pagina dopo, una versione
iniziale del vero tema di apertura del finale (cfr. Esempio Web R). Con questo
abbozzo la forma ritmica fondamentale dell’attacco è stabilmente al suo posto,
e di qui in poi Beethoven può elaborare le sue idee, rifinire il tema di apertura
per dargli la forma più adatta, e trovare una soluzione per la forma complessiva
per l’intero movimento e, alla fine, per l’intera sinfonia.

La “Settima Sinfonia” e la “rustica semplicità”


Talvolta, all’inizio dell’Ottocento, il tema di apertura del Vivace e l’intero
primo movimento erano associati a quella che qualche critico etichettò come
“rustica semplicità”, come veniamo a sapere da Berlioz:
Ho sentito ridicolizzare questo tema [il tema iniziale del primo movimento (Vivace)] per la sua
presunta rustica semplicità. Probabilmente questa accusa di mancanza di nobiltà non sarebbe mai stata
mossa se all’inizio del movimento l’autore avesse scritto a chiare lettere, come nella Sinfonia Pastorale,
“Ronde de Paysans” [Girotondo di Contadini].21

Pur non accettando che questa sinfonia possa essere considerata meno che
un «capolavoro di abilità tecnica, gusto, fantasia, sapienza e ispirazione»
Berlioz sembra essere d’accordo sul fatto che il primo movimento abbia
un’affinità con la musica popolare. E l’epiteto “popolareggiante”, che continuò
a essere usato da molti commentatori, merita un attimo di considerazione.
Forse questo tema in 6/8 in puro la maggiore, con i sui accenti in levare
davvero insoliti, le acciaccature in battere e il “ritmo lombardo” all’inizio della
quarta battuta, ricordava agli ascoltatori lo stile melodico delle tradizioni
popolari scozzese, irlandese e gallese su cui Beethoven stava lavorando ormai
da qualche anno22. Nel 1812 aveva già realizzato molti arrangiamenti di melodie
tratte dai repertori che George Thomson gli aveva mandato da Edimburgo. Li
stava ancora scrivendo nel 1811-12 quando la sinfonia stava germogliando, e
continuò ancora fino al 1820. A quel punto aveva scritto ben 179 di questi
arrangiamenti, la maggior parte dei quali per voce e pianoforte, ma qualche
volta anche con parti di violino e violoncello. Beethoven prese molto sul serio
questo compito, come possiamo vedere dal suo particolare interesse per le loro
caratteristiche modali e dai suoi commenti nelle lettere a Thomson, in cui
«chiedeva insistentemente i testi, […] sostenendo che gli erano indispensabili
per comporre degli accompagnamenti appropriati»23.
Questi canti popolari fanno fortemente sospettare che Beethoven possa aver
associato il metro di 6/8 in tempo moderato o rapido con i numerosi 6/8 che
troviamo tra i suoi arrangiamenti, dove il 6/8 ricorre molto più spesso,
proporzionalmente, di quanto non accada nelle sue composizioni strumentali di
maggiori dimensioni. Nelle sue tre serie irlandesi, per un totale di 57 pezzi,
diciotto sono in 6/8, come lo sono tre delle dodici canzoni scozzesi. Il
collegamento tra la Settima Sinfonia e gli arrangiamenti di canti popolari di
Beethoven non è solo una questione di identità metrica: è dimostrato anche da
una diretta corrispondenza melodica tra il postludio di uno dei suoi canti
irlandesi e il tema principale del finale della Settima. Lo troviamo nel suo
arrangiamento della melodia irlandese di Thomson “Save me from the grave
and wise” (WoO 154/8), basata sul motivo tradizionale noto come Nora Creina.
Nel postludio di Beethoven, mentre violino e violoncello danno il tempo con
note ribattute, il pianoforte suona il tema conclusivo, del tutto riconoscibile
anche se in 6/8, e non in 2/4 come nella versione che ascoltiamo nella sinfonia.
Per di più nelle ultime quattro battute dell’arrangiamento c’è una chiara
allusione a un passaggio del primo movimento della sinfonia (cfr. Esempio Web
S).
Beethoven poteva aver avuto tra le mani questo tema già nel 1810, ben
prima di mettersi al lavoro sulla sinfonia, incominciata nel tardo 1811. Questi
stretti collegamenti rafforzano la nostra comprensione della potenziale
attrattiva che la sinfonia doveva avere, ad ogni livello, per gli ascoltatori
dell’epoca di Beethoven, inclusi quelli immersi nel mondo del canto popolare. È
del tutto possibile che lo stesso Beethoven abbia avvertito questa affinità, e che
questo labile collegamento tra generi totalmente eterogenei abbia rinforzato la
sua convinzione di poter gettare un ponte tra il mondo della musica popolare di
tutti i giorni e il suo superbo stile sinfonico. Come scrisse un critico nel 1816, in
occasione della pubblicazione di partitura e parti di questa sinfonia:
Abbiamo il piacevole compito di far conoscere al lettore di queste pagine, perlomeno a grandi linee
e nei limiti dello spazio disponibile, le caratteristiche straordinariamente belle di questo meraviglioso
lavoro. La più bella delle quali, lo spirito dell’insieme, non può essere tradotto qui in parole. Presto la
Germania, la Francia e l’Inghilterra tutte condivideranno la nostra opinione, e potranno perfino
lamentarsi che abbiamo messo in evidenza troppo poco delle sue buone qualità e che non ne abbiamo
parlato abbastanza.24

Due secoli più tardi, nel mondo così profondamente trasformato della
nostra epoca, possiamo dirci d’accordo.
9. Beethoven, 1815 circa, ritratto da Willibrord Josef Mähler
(Gesellschaft der Musikfreunde, Vienna / Mondadori Portfolio / Bridgeman Images)

1
Briefe, n. 553. Il barone Krufft faceva parte del servizio imperiale austriaco, ed era evidentemente un
abile musicista. Johann Nepomuk Zizius, professore di statistica all’Università di Vienna, era tra i
fondatori della Gesellschaft der Musikfreunde, che tenne intrattenimenti musicali a casa sua. Tutte queste
informazioni sono desunte da Briefe, II, p. 245, note 5 e 6.
2
Sull’assegno annuale cfr. in particolare Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 2a ed., pp.
181, 191, 193 sg. Un resoconto dettagliato si può trovare in Martella Gutierrez Denhoff, “‘o Unseeliges
Dekret’. Beethovens Rente von Fürst Kinsky und Erzherzog Rudolph”, in S. Brandenburg e M. Gutierrez-
Denhoff, Beethoven und Böhmen, Bonn, Beethoven Haus 1988, pp. 91-145.
3
Per quanto riguarda Rodolfo cfr. Susan Kagan, Archduke Rudolph: Beethoven’s Patron, Pupil, and
Friend, Stuyvesant, NY, Pendragon Press 1988, e, più recentemente, il mio Beethoven as Sir Davison,
«Bonner Beethoven-Studien», Bonn 11, 2014, pp. 133-40.
4
Konversationshefte, II, fasc. 22 (da 20 gennaio 1823 a 6 febbraio 1823), pp. 365-7.
5
Per il testo completo della lettera originale, più volte pubblicato in facsimile, cfr. Briefe, II, n. 582, con
la note di Brandenburg, p. 272. Per una completa traduzione in inglese cfr. Solomon, Beethoven cit., 2a
edizione, pp. 209-11, la sua ampia disamina alle pp. 211-46, e anche p. 502 per un esame della letteratura
rilevante fino al 1998. Nell’apparentemente interminabile ricerca dell’identità della destinataria di questa
lettera numerosi autori hanno proposto altri nomi – in particolare quello della contessa Josephine Deym-
Stackelberg, nata Brunsvik. Personalmente continuo a essere persuaso dalle argomentazioni proposte da
Maynard Solomon, il quale dimostra che la candidata più plausibile è Antonie Brentano.
6
Si vedano le mie osservazioni sul Testamento di Heiligenstadt e la Seconda Sinfonia nel cap. 2.
7
Carl Dahlhaus, Beethoven e il suo tempo, trad. it. L. Dallapiccola, Torino, EDT 1990, p. 19 (ed. orig.
Ludwig van Beethoven und seine Zeit, Laaber, Laaber Verlag 1987). Cfr. anche il mio articolo in «19th-
Century Music», XVI, 2, Summer 1992, pp. 80-5, e sull’argomento generale della biografia di Beethoven, il
mio Reappraising Beethoven Biography, in «Yearbook of Comparative and General Literature»
Bloomington LIII, 2007, pp. 83-100.
8
Beethoven: Ein Skizzenbuch aus dem Jahre 1809 (Landsberg 5), a cura di Clemens Brenneis, Bonn,
Beethoven Haus 1992, 1, p. 55, p. 87, inoltre p. 50, sistemi 5-8, in fa minore, e il commento di Brenneis in
11, p. 35 e p. 59, sistemi 1-4, un Allegro in fa maggiore con un’“introduzione” (Eingang) Largo in fa minore
(indicata così da Beethoven), che secondo Brenneis potrebbe essere sia una sinfonia, sia un’ouverture (il
suo commento è in II, p. 36).
9
“La Settima Sinfonia e il ritmo dell’antichità”, in Maynard Solomon, L’ultimo Beethoven. Musica,
pensiero, immaginazione, trad. it. N. Bizzaro, Roma, Carocci 2010, pp. 123-56 (ed. orig., Late Beethoven:
Music, Thought, Imagination, Berkeley, University of California Press 2003: “The Seventh Symphony and
the Rhythms of Antiquity”). Per una critica dei suoi assunti cfr. l’articolo di David Levy in BF, XII, 2, 2005,
p. 208 sg.
10
N II, 163.
11
Cfr. i pochi suoi altri lavori che iniziano non semplicemente con un’introduzione lenta ma con un
vero e proprio movimento lento completo - tra i quali la Sonata cosiddetta “Al chiaro di luna” op. 27 n.2 e
il Quartetto op. 131 - che per coincidenza sono entrambi nella tonalità di do diesis minore, mai usata
altrove da Beethoven.
12
Cfr. Robert Gauldin, Beethoven’s Interrupted Tetrachord and the Seventh Symphony, «Integral»,
Rochester, NY, V, 1991, pp. 77-100. Secondo Gauldin le prime dieci battute dell’introduzione forniscono il
materiale di base per gli schemi armonici di tutti e quattro i movimenti.
13
Come, tra i molti possibili esempi, nel Concerto per violoncello in re maggiore di Haydn, e nei finali
di molti concerti per pianoforte di Mozart, e, sempre di Mozart, tutti e quattro i suoi concerti per corno e
il Concerto per clarinetto.
14
Beethoven scrisse un primo movimento in 6/8 nella Sonata per pianoforte op. 7, ma non utilizzò più
quel metro fino alla Sonata op. 101. In altri generi lo troviamo nel Trio per archi op. 9 n. 3, nelle sonate per
violino op. 12 n. 2, op. 23 e op. 30 n. 3, e ancora nell’Andante di apertura della Sonata per violoncello op.
102 n. 1.
15
L’aneddoto, tratto dalle memorie di Mendelssohn di Hiller, fu riferito da George Grove, Beethoven
and His Nine Symphonies, New York, Dover 2012, p. 238. I “piccoli vuoti” del manoscritto autografo furono
confermati da Benito Rivera in un brillante studio nel quale ha dimostrato che le modifiche di molte frasi
nel primo movimento hanno consentito a Beethoven di ottenere schemi di frase più efficaci e determinare
così svariati punti culminanti locali; cfr. il suo Rhythmic Organization in Beethoven’s Seventh Symphony: A
Study of Canceled Measures in the Autograph, «19th-Century Music», VI, 3, Spring 1983, pp. 241-51.
16
Cfr. sopra per la lettera di Beckett sulle pause nella Settima.
17
Cfr. Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven. A Study in Mythmaking, New York,
Rizzoli International Pubblications 1987, p. 94 sg., e John Warrack, Carl Maria von Weber, Cambridge,
Cambridge University Press 1968, pp. 89-95.
18
AMZ (1816), ristampa in Ludwig van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit a cura di S. Kunze,
Laaber, Laaber Verlag 1987, p. 295.
19
Grove cit., p. 240. Inoltre Thomas Day, saggio inedito, 1981, p. 1.
20
John Knowles, The Sketches for the First Movement of Beethoven’s Seventh Symphony, tesi di dottorato,
Brandeis University, 1984, pp. 64-8.
21
Beethoven by Berlioz: a Critical Appreciation of Beethoven’s Nine Symphonies, compilato e tradotto da
R. De Sola, Boston, Crescendo Publishing Company 1975, p. 185
22
Cfr. Barry Cooper, Beethoven’s Folksong Settings: Chronology, Sources, and Style, Oxford, Clarendon
Press 1994, e Petra Weber-Bockholdt, Beethovens Bearbeitungen britischer Lieder, München, Wilhelm Fink
1994. Inoltre Nicole Biamonte, Modality in Beethoven’s Folksong Settings, in BF, XIII, 1, 2006, pp. 28-63.
23
Biamonte cit., 31.
24
S. Kunze, Ludwig van Beethoven: Die Werke in Spiegel seiner Zeit, Laaber, Laaber Verlag 1987, p. 297.
VIII

L’Ottava Sinfonia

«È perché è molto migliore»


L’Ottava è davvero singolare. Solitamente descritta come una creatura di
arguzia e di fascino, un po’ al modo di Haydn, la sua assunzione delle
dimensioni esteriori del periodo classico ne dissimula le sottigliezze e le
caratteristiche che guardano al futuro. I suoi minuscoli movimenti centrali ne
fanno la più breve di tutte le sinfonie di Beethoven, come lui stesso riconobbe
quando la definì, paragonandola alla Settima, una «più piccola sinfonia»1. Si
distingue anche per il fatto di non avere un vero e proprio movimento lento, e
neppure un’introduzione lenta paragonabile al portale d’ingresso della Settima.
I suoi quattro movimenti sono organizzati così:

Se il ritorno a proporzioni settecentesche è una sua caratteristica distintiva,


lo è pure il carattere peculiare di ciascun movimento, in cui sorpresa e
paradosso emergono in modo più acuto che in qualsiasi altra sinfonia di
Beethoven. Se all’epoca di Beethoven la Settima tramortiva i suoi ascoltatori (e
continua a farlo anche oggi), l’Ottava li disorientava. Czerny riferisce che
quando certi ascoltatori la paragonavano, sfavorevolmente, alla Settima,
Beethoven commentava: «È perché è molto migliore»2. A questo proposito
Tovey scrisse:
Non è un giudizio obiettivo, ma non è neppure del tutto ironico; ciò che esprime è quella
particolare sensazione di potere che coglie un uomo quando si accorge di essere in grado di svolgere
un compito delicato subito dopo aver trionfato in un’impresa titanica.3

Comunque, per quanto fosse delicato, il compito era anche guidato da una
forte determinazione. Possiamo soffermarci un attimo sul perché Beethoven si
fosse mosso in questa strana nuova direzione e cosa implichi, l’Ottava, nella
sua situazione artistica di quel momento. Come tutti gli artisti prolifici
Beethoven era sensibile al posto di ciascun nuovo grande lavoro nell’ambito del
suo specifico genere, e a cosa poteva sembrare che aggiungesse a tutto quanto
aveva fatto prima. Se questo valeva per le sonate per pianoforte e per i quartetti
per archi, a maggior ragione valeva per la sinfonia, il più pubblico tra i generi
della musica strumentale. Scrivendo sinfonie con un atteggiamento quasi di
sfida – erano anni in cui a Vienna era difficile farle eseguire, nonostante il
tradizionale prestigio del genere – Beethoven puntava a far sì che ciascuna
fosse degna della sua ambizione di comporre «grandi lavori», come ebbe a
scrivere più avanti in una lettera. La concentrazione nel laborioso processo di
rifinitura che condusse a ciascun lavoro finito, e che possiamo constatare dai
suoi appunti, riflette la spinta interiore che lo induceva a creare un nuovo
mondo sinfonico.
Perciò la sua rivisitazione dei modi classici, nell’Ottava, dovrebbe essere
vista non come una regressione, ma come un ulteriore ampliamento del suo
spazio artistico, un’espressione del suo senso di libertà. L’Ottava riflette la sua
padronanza di un ampio ventaglio di direzioni stilistiche, e le sue
caratteristiche interne esibiscono un sottile e curioso gioco con forme e
aspettative di coerenza che prefigurano aspetti del suo tardo stile. In effetti con
questo lavoro Beethoven fa sapere ai suoi contemporanei che può brandire il
fioretto altrettanto bene del maglio, che può tornare al mondo della pura
sinfonia classica, usandone però le convenzioni alla propria maniera. Possiamo
credere che questo rivolgersi a dimensioni più piccole, a collegamenti armonici
insoliti, a sottili rimandi tra i movimenti fosse per lui tanto più allettante in
quanto si trattava di affrontare un progetto estetico completamente differente,
per portata ed energia, da quello della Settima, ma almeno altrettanto difficile
da padroneggiare.
Origini
Il lavoro per l’Ottava fece seguito a quello per la Settima a distanza di circa sei
mesi. L’autografo della Settima è datato «13 aprile 1812», probabilmente il
giorno in cui Beethoven lo cominciò, più o meno due mesi dopo il viaggio a
Tepliz. Sull’autografo dell’Ottava scrisse «Linz nel mese di ottobre 1812». Gli
ampi e dettagliati abbozzi per entrambi i lavori si trovano nel cosiddetto
“quaderno Petter”, che Beethoven usò all’incirca tra settembre 1811 e dicembre
18124.
Gli abbozzi per l’Ottava sono ampi e rivelatori, per quanto fino ad oggi solo
una piccola parte ne sia stata resa disponibile, perfino agli specialisti5. Ciò che
abbiamo per il primo movimento, comunque, ci riserva una grossa sorpresa. Gli
abbozzi, infatti, mostrano che nelle fasi iniziali Beethoven concepì queste idee
musicali non per una sinfonia, ma per un concerto per pianoforte6. Un’ampia
traccia di quanto sembra essere precisamente l’esposizione del primo
movimento dell’Ottava Sinfonia (in fa maggiore, 3/4), ne mostra il primo tema,
con aggiunte che prefigurano chiaramente i temi successivi. Questo canovaccio
si estende per almeno 70 battute, poi termina con una corona sulla dominante,
dopo di che Beethoven scrive per esteso ciò che chiaramente è l’abbozzo di
un’elaborata cadenza solistica per pianoforte, che si estende per oltre sette
battute (si veda Esempio Web T).
Beethoven fece seguire a questo abbozzo alcuni altri appunti che puntano
inequivocabilmente a un concerto per pianoforte, contrassegnando alcuni
passaggi con “solo” e altri con “tutti”. Alla luce del suo retroterra come
concertista, l’idea di un nuovo concerto, nel 1812, sarebbe stata coraggiosa e
temeraria. Beethoven da giovane aveva suonato in pubblico i suoi primi quattro
concerti, ma nel 1809, aggravatasi la sordità, non eseguì personalmente il
Concerto “Imperatore”. In pubblico poteva ancora suonare e improvvisare, ma a
questo punto l’interazione tra solista e orchestra lo avrebbe esposto a un
rischio eccessivo a causa dell’udito danneggiato.
Eppure Beethoven concepì nuove idee per altri concerti per pianoforte nel
1812 e poi ancora qualche anno dopo. Nel medesimo quaderno del 1812, nelle
pagine vicine, troviamo appunti per un concerto in sol maggiore7. Nel 1815
tornò a provare idee per un altro concerto ancora, in re maggiore, per il quale
scrisse non soltanto una varietà di abbozzi, ma anche una lunga stesura
provvisoria del manoscritto autografo del primo movimento. Ma anche questo
progetto fallì, e gli incompleti materiali del concerto del 1815 furono sepolti
vivi insieme con il resto delle sue carte postume8. Nel 1812, comunque, l’idea
del concerto in fa maggiore fu riconvertita nell’emergente Ottava Sinfonia. Un
po’ più avanti vediamo che Beethoven stava pensando perfino a una terza
sinfonia, questa qui in re minore – ma poi la terza idea idea sinfonica fu
accantonata per un’altra occasione9. Per nessun’altra delle sue sinfonie
possiamo trovare prove che Beethoven l’avesse concepita, nella fase
preparatoria, come un concerto o una composizione di un genere comunque
differente.
Progetti per altre due sinfonie incompiute dello stesso periodo – quello della
Settima e dell’Ottava – sono stati recentemente individuati su fogli di appunti, e
possono essere rapidamente menzionati qui. Uno è per una sinfonia in mi
minore, con un primo movimento in 4/4 in mi minore, e un abbozzo di ciò che
sembrerebbe essere un secondo movimento in do maggiore. Compaiono in un
foglio di appunti staccato dal quaderno principale del 181210. Nello stesso
periodo si affacciò un’altra idea ancora per una sinfonia in mi bemolle, per la
quale Beethoven appuntò idee per tutti e quattro i movimenti, e che indicò
come “sinfonia 3”, intendendo che la pensava come una terza sinfonia da
affiancare alla Settima e all’Ottava. Come la traccia di movimento in mi minore
che evidentemente l’aveva preceduta, questa idea di partenza per una sinfonia
rimase irrealizzata, ma mostra che Beethoven, in quel punto di svolta così
importante per la sua carriera, stava esplorando un’ampia gamma di idee per
sinfonie11.

Il primo movimento
Esposizione
Il primo movimento inizia con una memorabile prima figura che mantiene
ovunque la sua importanza. È particolarmente notevole il fatto che questo
motivo iniziale di sei note, con il suo fermo appoggio sulla tonica sul battere
della seconda battuta, può in definitiva servire come figura conclusiva
dell’intero movimento. Guardando avanti, l’idea di terminare un primo
movimento sinfonico con la stessa breve frase iniziale riapparirà nel primo
movimento della Nona Sinfonia, un lavoro dal carattere quanto mai differente.
Abbiamo visto che nel primo movimento della Settima il pervasivo ritmo
dattilico governa tutti i temi, per quanto differenti sotto tutti gli altri aspetti.
Nell’Ottava Beethoven segue una strategia diametralmente opposta: quella di
collegare tra loro in successione segmenti tematici fortemente differenziati,
alcuni lirici, altri marcatamente ritmici, alcuni caratterizzati dal moto melodico
per gradi congiunti, altri dal moto per accordi arpeggiati. Il tipo di
procedimento tematico creato nel primo movimento della Settima espande le
analogie, mentre invece nell’Ottava Beethoven è impegnato in un arduo
procedimento di integrazione delle differenze. Per dimostrarlo è sufficiente
osservare i sei fondamentali segmenti tematici dell’esposizione del primo
movimento:

1. Tre frasi di quattro battute: a b b1. È importante rilevare che la prima e la


terza frase sono forte e a piena orchestra, mentre la seconda è affidata piano
ai soli fiati nel registro medio; e anche che b1 risolve decisamente sulla
tonica (cosa che si rivelerà importante nella Ripresa)12.
2. Una nuova frase declamatoria ai primi violini, sostenuta dal tremolo degli
altri archi. Una seconda frase di tredici battute si esaurisce per fermarsi su
un’armonia instabile che porta a un movimento armonico verso la tonalità
di re maggiore (insolita per un’esposizione in fa maggiore, che normalmente
dovrebbe modulare a do maggiore, sua dominante)13.
3. Dopo una strana pausa di un’intera battuta gli archi e poi un fagotto solo
introducono il tema lirico del secondo gruppo in re maggiore, che poi con
un gioco di prestigio si sposta a do maggiore, dove i fiati si impossessano
del tema14.
4. Il quarto segmento comincia con una nuvola armonica pianissimo e prosegue
con il ritmo esitante che aveva introdotto il secondo tema; poi un lungo
crescendo da pp a ff conduce a un culmine fortissimo15.
5. A questo punto entrano in gioco due elementi nuovi. Prima tre battute dalla
forte definizione ritmica con una figura puntata sincopata. Poi,
immediatamente di seguito, un nuovo tema di sette battute, lirico e
scorrevole, ai fiati. Quindi l’intera ampia coppia di frasi viene ripetuta, ma la
parte lirica è ora condotta da viole, violoncelli e fagotto, cui si aggiungono
gli altri legni16.
6. Il segmento conclusivo dell’esposizione comincia con un’altra nuova figura
ritmica, poi enfatici arpeggi di do maggiore preparano la perentoria chiusa,
con una figura di quattro note che compie salti d’ottava sul do, a concludere
il tutto.

Sviluppo17
La figurazione a salti d’ottava alla fine dell’esposizione ci porta direttamente
nello sviluppo. La figura iniziale di sei note, ora completamente isolata, appare
una volta in ciascuno dei quattro legni (fagotto, clarinetto, oboe, flauto) in
registri via via più acuti (piano dolce); poi l’intera orchestra risponde con
un’esplosione fortissimo di quattro battute in cui gli archi ripropongono gli
arpeggi ascendenti e discendenti che si erano sentiti per la prima volta alla fine
dell’esposizione. Questo modo di iniziare lo sviluppo – con la prima e l’ultima
figura dell’esposizione – mette insieme temi che erano stati tenuti ampiamente
distanziati nella loro presentazione originaria. È un’ulteriore indicazione
dell’insolito modo di pensare che governa l’intero movimento.
Dopo che questa stessa contrapposizione tematica è stata proposta altre due
volte, modulando ad altre tonalità, lo sviluppo ripete incessantemente la figura
di apertura del movimento in un lungo passaggio di intensità crescente in un
costante fortissimo. Attraversando una serie di altre tonalità, e cambiando varie
caratteristiche di scrittura, costruisce poco per volta un eccezionale culmine di
tensione sulla dominante della tonalità d’impianto, per preparare la ripresa.

Ripresa18
Questa ripresa esige un particolare commento. Nei movimenti in forma-sonata
dei maestri classici la ripresa è molto più del ritorno strutturale del tema
iniziale e della tonalità d’impianto, procedimento talvolta definito “doppia
ripresa”. È una sorta di ritorno a casa, un ritorno alla stabilità armonica dopo le
divagazioni attraverso tonalità secondarie dello sviluppo. È il momento in cui il
tema principale dell’esposizione e i suoi temi accessori riemergono nella forma
e nell’ordine originali dopo essere stati frammentati nello sviluppo. È su questo
sfondo che dovrebbe essere considerato il trattamento innovativo che
Beethoven riserva a questo momento cruciale dei suoi movimenti in forma-
sonata.
Man mano che procedeva nella maturità artistica Beethoven riservava le
cure più attente a questo luogo delle sue narrazioni in forma-sonata,
drammatizzandolo in molti modi differenti. Nell’Eroica, dove tutto avviene su
una scala più ampia, Beethoven intensifica il senso di aspettativa
dell’ascoltatore estendendo l’armonia di dominante lungo un amplissimo arco
temporale, poi innalza di un’altra tacca l’intensità facendo riprendere il tanto
atteso motivo di apertura alla tonica da un corno solo – ma due battute troppo
presto, e su un si bemolle (dominante) tenuto dai violini – dopo di che l’intera
orchestra rimette le cose a posto facendo ascoltare per due battute, prima forte,
poi fortissimo, un completo accordo di dominante, e poi procede
repentinamente alla tanto attesa ricapitolazione alla tonica. Nella Quarta,
anziché usare l’armonia di dominante, Beethoven mantiene la tensione del
lungo periodo di preparazione prolungando la stessa armonia di tonica, ma
nella sua configurazione più instabile (l’accordo di quarta-e-sesta, con la quinta
al basso). Per aumentare la suspense, Beethoven mantiene un rullo di timpani
pianissimo per molte battute mentre frammenti del tema di apertura emergono
gradualmente in un lento crescendo – poi scatena il materiale in una frenesia
che culmina con l’arrivo, fortissimo, della ripresa, con la vera tonica allo stato
fondamentale.
Questa e altre soluzioni alternative abbondano nei suoi lavori del primo e
del secondo periodo. Ma nella ripresa dell’Ottava Beethoven ha un’altra carta
da giocare. Qui ci accorgiamo di assistere a un trucco da prestigiatore della
massima sottigliezza, che ha suscitato controversie circa il punto esatto in cui
la ripresa ha veramente inizio. Lo sviluppo termina con le sue ripetizioni
dell’armonia di dominante, già fortissimo da parecchie battute – ma Beethoven
nelle ultime due battute chiede più forte – e poi l’intera orchestra esplode con
l’armonia di tonica, il tanto atteso fa maggiore, nella dinamica estrema fff. A
questo punto, come ci si aspetterebbe, ritorna anche il primo tema, ma con una
differenza. Anziché comparire in una voce superiore (primi violini, o fiati acuti)
il tema è ora al registro grave (fagotto, violoncelli, contrabbassi). Poiché questi
strumenti gravi rischiano di essere sovrastati dal resto dell’orchestra (quello
che Tovey definisce «il bagliore del mezzogiorno» di questo momento), alcuni
direttori d’orchestra hanno di fatto manomesso la strumentazione di Beethoven
inserendo dei segni di decrescendo nelle parti degli strumenti acuti19. Il modo in
cui Beethoven ha strumentato il ritorno del primo tema ha suggerito loro che
forse la sordità aveva avuto la meglio su di lui20.
Ma un’osservazione più attenta della partitura rivela che la faccenda è un
po’ più complessa, per quanto si possano avere opinioni divergenti su cosa
Beethoven avesse in mente. Un primo punto di vista è che, per quanto il
passaggio fff manifesti tutti i segni distintivi di una ripresa tematica, non sia in
effetti quella vera, ma solo una ripresa illusoria, un passaggio che presenta gli
elementi di una ripresa ma che allo stesso tempo la annulla. A sostegno di
questa teoria c’è il fatto che il tema è stato assegnato agli strumenti gravi, che
si fanno sentire a fatica, contrapposti come sono al resto dell’orchestra fff. È
vero che il movimento a questo punto ha raggiunto la tonica, fa maggiore, ma
in effetti si tratta dell’armonia di tonica in una versione meno che stabile dal
punto di vista funzionale – il suo secondo rivolto, con il do al basso. Questa
nota è la prima nota del tema stesso, nel registro grave, ed è anche la nota
letteralmente martellata in battere dai timpani al momento della ripresa – e
poiché le consuete due caldaie a disposizione del timpanista sono intonate sulle
note fa (tonica) e do (dominante), questo significa che Beethoven ha
deliberatamente evitato di usare la tonica quando avrebbe potuto farlo senza
problemi. Per di più i timpani continuano col do per tutte le otto battute del
tema finché non risolvono sul fa alla fine della frase. Anche l’opinione opposta,
e cioè che questa energica ricapitolazione fff sia, dopo tutto, la ripresa vera e
propria, nonostante le sue curiose caratteristiche, ha i propri sostenitori. Per
loro la piena sonorità dell’orchestra, il ritorno del primo tema e l’impatto di
queste battute culminanti sono determinanti.
E a proposito di questo punto di vista possiamo fare queste osservazioni:

1. il primo tema effettivamente ricompare in fff, ma in una forma abbreviata


che presenta l’originale segmento “a” (quattro battute di lunghezza), seguito
non da “b” ma dal segmento conclusivo “b1”;
2. immediatamente dopo questa forma abbreviata Beethoven presenta di nuovo
lo stesso primo tema, questa volta nella sua forma completa originale di
dodici battute, ma con una nuova strumentazione – come a confermare che
la versione fff era stata una “falsa ripresa”, e che questa è quella vera.

Un altro modo ancora di guardare a questo paradosso è suggerito da altre


situazioni in cui Beethoven organizza un racconto di ampie proporzioni in cui
la ripresa della forma-sonata è, in un modo o nell’altro, incompleta. Uno di
questi modi consiste nell’arrivare alla tonica come sonorità di base ma con
l’accordo non allo stato fondamentale. In queste circostanze, il ritorno
conclusivo e definitivo alla tonica strutturale è procrastinato fino alla coda, o
proprio alla fine del movimento. Ne troviamo un esempio nel Quartetto per
archi op. 59 n.1, il primo dei Quartetti “Razumovsky”21. Beethoven inizia il
primo movimento col tema al violoncello nel registro grave, con note che
implicano l’armonia di tonica in secondo rivolto. All’inizio dello sviluppo torna
allo stesso primo tema nella stessa posizione armonicamente instabile; nella
ripresa, oltre a riordinare le unità tematiche, riprende nuovamente la stessa
versione nel registro grave, ora per la terza volta. La tonica allo stato
fondamentale arriva per davvero solo verso la fine di questo gigantesco
movimento, e questa volta il tema è nella voce superiore, al primo violino, e la
dinamica è ff.
Sembra evidente che nel primo movimento dell’Ottava Sinfonia Beethoven
punti ancora una volta a ottimizzare l’effetto drammatico dell’arrivo della
ripresa, conservando i requisiti formali della sonata ma adattandoli ai suoi
scopi più sottili. Possiamo ascoltare la ripresa fortissimo come un momento
ibrido che soddisfa alcune delle normali aspettative della forma di primo
movimento mentre avverte l’impaziente ascoltatore che dovrà ancora attendere
l’autentico arrivo della tonica. Che in effetti si verificherà nella coda.

Coda
Di tutte le innovazioni formali di Beethoven le sue code ampliate sono tra le
più degne di nota. Beethoven spesso fece della coda una specie di contraltare
dello sviluppo, definendo così una forma-sonata quadripartita, anziché
tripartita con - al più - una breve estensione alla fine. In Haydn e Mozart, nella
maggior parte dei casi, o non c’è affatto una coda, o l’appendice del movimento
non è che un breve segmento conclusivo. Beethoven rende nuove le sue code in
molti modi22. Uno di questi è messo in evidenza in questo movimento, ed è
interessante osservare che Beethoven sottopose la versione definitiva della
coda a numerose modifiche prima di esserne del tutto soddisfatto23.
Nella sua forma definitiva questa coda, iniziando esattamente come lo
sviluppo, procede gradualmente, attraverso un altro crescendo, a una chiara e
risoluta enunciazione del primo tema in tutta la sua gloria, alla tonica,
fortissimo, concludendo con una poderosa corona sull’accordo di dominante. A
partire da questo punto una ripresa di elementi lirici della quinta sezione
dell’esposizione dà vita ancora una volta a uno straordinario accumulo di
tensione, culminando su un’armonia instabile (per la quale ancora una volta
Beethoven scrive la rara dinamica fff) che a sua volta sfocia nel paragrafo
conclusivo.
La conclusione ci riserva la sorpresa più grande. Le ultime sedici battute
cominciano moderando progressivamente il volume e riducendo gradualmente
l’attività ritmica. Dapprima l’intera orchestra esegue figure di tre note,
ciascuna seguita da un’intera battuta di pausa. Seguono ancora le figure di tre
note, alternate tra archi pizzicati e fiati, questa volta piano. Le figure di tre note
quindi lasciano il posto a figure di due note. Infine, con nostro grande stupore,
l’intero movimento è suggellato pianissimo dall’originale motivo di apertura,
agli archi. Un po’ come il celebre Andante della Settima Sinfonia, seppure in un
mondo differente, il primo movimento esce di scena per la stessa via dalla quale
era giunto.
Secondo movimento: Allegretto Scherzando
Berlioz scrisse che questo movimento sembrava essere «caduto dal Cielo ed
essere entrato immediatamente nella mente del compositore»24. Anche se non è
successo niente del genere, come è dimostrato dagli appunti di Beethoven, lo
spirito della sua osservazione rimane valido. Questo capolavoro in 2/4 pieno di
ottimismo è il coronamento di un piccolo gruppo di movimenti che Beethoven
concepì come “scherzando”, ossia con un carattere giocoso, tutti quanti
caratterizzati da una leggerezza di tocco e da una delicatezza di articolazione
difficili da trovare nei suoi “adagio” lirici, e tanto meno in quelle situazioni
sinfoniche in cui gli occorre un grande dispiegamento di forze strumentali per
esibire energia25. Movimenti come questo partecipano del significato più antico
– quello letterale – della parola “scherzo”, che Beethoven aveva spazzato via
dai suoi terzi movimenti quando trasformò il Minuetto classico nel suo
vigoroso Scherzo, non solo nelle sinfonie, ma anche in altri generi. Per quanto
il minuetto avesse già subito delle trasformazioni in molti dei lavori maturi di
Haydn e Mozart, il radicale trattamento di Beethoven gli aveva conferito una
forza nuova, e una statura pari a quella degli altri movimenti dei suoi cicli in
quattro tempi.
Gli accordi dei legni, con le loro semicrome staccate ribattute regolarmente,
evocano l’inizio dell’Andante della Sinfonia “L’orologio” di Haydn, come gli
ascoltatori hanno notato da tempo immemorabile, e come probabilmente
Beethoven sapeva meglio di chiunque altro26. Come le semicrome di apertura di
Haydn, il ticchettio d’orologio di Beethoven stabilisce la trama metrica per
l’intero movimento e prepara l’arrivo della melodia principale; ma,
diversamente da Haydn, Beethoven continua a ribattere le medesime note,
anziché alternare quelle dell’accordo di tonica. In particolare, nell’Allegretto di
Beethoven, l’accordo di tonica non è allo stato fondamentale ma nel meno
stabile primo rivolto, richiamando così, all’orecchio sensibile, la ripresa del
primo movimento, le cui ambiguità abbiamo già esaminato. Quando poi il
noncurante tema fa la sua comparsa alla voce superiore, l’armonia si assesta su
una tonica stabile: momento, questo, sottolineato dalla prima nota di violoncelli
e contrabbassi, che entrano sulla tonica, si bemolle.
Di tutti i movimenti lenti sinfonici di Beethoven, questo Allegretto è il più
breve. Nella sua musica da camera giovanile aveva scritto movimenti Adagio e
Andante stringati e compatti, ma in campo sinfonico gli occorreva uno spazio
maggiore per consentire un’adeguata espansione alle idee suggerite dalla più
ampia tavolozza timbrica dell’orchestra. Nel movimento “Scherzando” del
Quartetto per archi op. 18 n. 4, in 3/8, aveva avuto bisogno di 261 battute,
contro le sole 81 dell’Allegretto dell’Ottava. La forma del nostro movimento è
questa:

Pur in queste ridotte dimensioni Beethoven trova posto per sorprendenti


dettagli e contrasti, questi ultimi per mezzo di procedimenti di botta-e-risposta
tra archi e fiati, come pure di improvvisi scarti dinamici e di fulminei
cambiamenti di umore. Le ultime sette battute del movimento offrono uno dei
passi più affascinanti e ingegnosi di tutta la letteratura sinfonica. Proprio alla
fine, esplosioni ff si alternano a laconiche risposte pp degli archi, poi l’intera
orchestra passa nuovamente da pp a ff in sole tre battute, e il movimento
giunge alla conclusione con un’intera misura di note ribattute, tutte sulla
tonica si bemolle – le stesse note ribattute che ne erano state il segno distintivo
fin dall’inizio.

Terzo movimento: Tempo di minuetto


Come per chiarire subito che questo movimento non ha nulla a che vedere con
i suoi dinamici Scherzi, nella tradizionale forma tripartita o nello schema in
cinque parti tipicamente suo (come nella Quarta, nella Sesta e nella Settima),
Beethoven lo intitola “Tempo di Menuetto”. È un’indicazione di tempo che
aveva usato in precedenza in altre maniere, e non solo per terzi movimenti; per
esempio il complicato primo movimento della Sonata per pianoforte op. 54, la
gemella dell’Appassionata, è intitolato così. Beethoven si destreggiava molto
bene nella letteratura dei generi popolari in voga nelle sale da ballo viennesi.
Nel 1790 aveva scritto delle serie di “minuetti” (un tipo di danza che rievocava
il vecchio mondo aristocratico, ma che i grandi compositori avevano fatto
proprio e ampliato ormai da un pezzo), “valzer” (talvolta definiti “Deutsche”, o
“Deutsche Tanz”), e “Ländler”, o danze contadine. Alcune di queste brevi danze,
per orchestra o per pianoforte, erano decisamente accattivanti e scritte con
considerevole maestria, come il Minuetto in sol del 1795, destinato a diventare
un bis da concerto.
Il suo portfolio di musica per danza fa da scenario al Tempo di Menuetto
dell’Ottava, un movimento che non è tanto un’imitazione di Haydn e Mozart
quanto una riflessione modernista sui magistrali terzi movimenti che
abbondano nelle sinfonie e nei quartetti di quei maestri. Lo schema e la
lunghezza di questo movimento sono un esempio di questa forma in
dimensioni compatte:

Si comincia con accenti sforzato pesantemente marcati dagli archi gravi sul
primo tempo di ciascuna battuta, seguiti da un terzo tempo sottolineato da
trombe e timpani. Poi le figure di accompagnamento dell’inizio lasciano il
posto a due graziose linee melodiche parallele ai violini. Questo inizio stabilisce
fin dall’inizio un effetto ibrido, con inflessioni stilistiche di valzer e di Ländler.
Nella sezione “b” del Minuetto, il primo motivo della melodia tipo-valzer si
alterna tra archi acuti e gravi, con attacchi improvvisi e sonori sul secondo
tempo della battuta (anziché sul terzo). Fiati e violini quindi si alternano in un
movimento melodico che conclude in diminuendo (che in qualche modo
ricorda il modo in cui nel primo movimento viene preparato il secondo
soggetto) – e infine nella sezione “c” un fagotto solista esegue la melodia, ma
alla sottodominante, si bemolle maggiore, lasciando il posto, infine, alla tonica.
Nelle battute conclusive c’è una stretta interazione di tre elementi: arpeggi
fortissimo di corni e trombe, una figura cadenzale di tre note agli archi, e una
notevole figurazione dei fiati con un effetto di sincopato.
Il Trio – virtualmente una parentesi cameristica all’interno della sinfonia –
rievoca gli assolo strumentali di certe sinfonie di Haydn. Flauti e oboi tacent, e
due corni solisti eseguono un duetto melodico su uno scorrevole
accompagnamento in terzine, destinato presumibilmente a uno solo dei
violoncelli27. Dopo questa sezione, un clarinetto solista – formando un piccolo
ensemble di fiati con i due corni – assume il ruolo principale nell’ulteriore
dispiegamento del materiale melodico. L’intero Trio si mantiene a un livello
dinamico che è essenzialmente piano dolce ovunque, salendo una sola volta con
un modesto crescendo e concludendo delicatamente, per preparare il ritorno del
vigoroso attacco del Minuetto. L’intero movimento è un classico esempio di
autentica arte nascosta da un’apparente semplicità.

Finale: allegro vivace


Un critico della prima ora, sconcertato, la definì “musica stravagante” [in
italiano]. Un altro, forse Anton Diabelli, disse che «abbondava in esuberanza,
nuovi giri di frase, sorprese, una struttura originalissima e curiosa che non può
essere paragonata ad alcun’altra»28. Questo straordinario finale, che combina
tratti del rondò e di una forma-sonata modificata, segue questo schema:

Come più di un commentatore ha osservato, l’uso drammatico del moto per


semitoni è decisivo per l’intero andamento e per il carattere del movimento. Lo
troviamo per la prima volta già a battuta 17, quando, dopo che il primo tema e
la sua prosecuzione hanno cominciato l’azione in pianissimo, dall’intera
orchestra esplode improvvisamente un do diesis fortissimo. L’intrusione di
questo do diesis nell’ambito della tonalità di fa maggiore non sembra, lì per lì,
avere grosse conseguenze su ampia scala, poiché subito dopo la tonalità di fa
maggiore riprende il proprio corso. Ma il do diesis ritornerà caparbiamente più
avanti nel movimento. Nella prima ripresa questo stesso do diesis isolato si
ripresenta nel punto corrispondente, e di nuovo lascia posto alla tonalità di fa
maggiore, com’era già accaduto prima. Infine, con la sua terza comparsa nella
seconda ripresa, prende il sopravvento – questa volta compare tre volte in
rapida successione, scritto prima come re bemolle, poi due volte come do diesis,
ogni volta con una prosecuzione lievemente diversa. Poi, improvvisamente,
costringe l’armonia verso la remota tonalità di fa diesis minore (mezzo tono
sopra la tonica d’impianto fa maggiore)29. Dopo di che, nel giro di poche altre
battute, l’armonia si riassesta, per restarci, nella tonalità di fa maggiore.
Per i primi ascoltatori queste soluzioni ne facevano veramente “musica
stravagante”, poiché si sforzavano di capire il gioco di prestigio per mezzo del
quale Beethoven prepara l’orecchio per un determinato obiettivo, per poi
cambiare direzione all’ultimo momento. È vero che da allora il linguaggio
armonico della musica occidentale ha subito una profonda evoluzione con il
cromatismo del periodo romantico, la tonalità allargata e, nel XX secolo, la
miriade di propaggini genericamente raggruppate sotto la definizione di
“atonalità”. Questi sviluppi potrebbero far apparire relativamente innocue,
all’orecchio moderno, le manovre tonali di Beethoven, ma resta fermo il fatto
che la sua padronanza di forma, proporzioni, contenuto tematico e dinamica è
ancora in grado di catturare gli ascoltatori moderni, suscitando e mantenendo
inalterata la loro fedele e incondizionata attenzione.
La storia dell’invadente do diesis e del suo influsso sul movimento è stata
raccontata molte volte, e ci sono critici che lo considerano non un colpo da
maestro ma un trucco di dubbio gusto. Per citare un commento recente:
Ci si può chiedere se il do diesis debba essere preso sul serio, e non c’è dubbio che interrompe, poi
distorce, poi dà forma al movimento. Ma è troppo provocante per essere umoristico alla maniera di
Haydn. È comicità che sconfina nella rabbia. È rozzo, è brusco, è furbo nella peggiore accezione del
termine. Implica che il finale classico come parte di una sinfonia [corsivo dell’autore N.d.T.] per
Beethoven rimaneva un enigma.30

Questa affermazione suscita più interrogativi di quanti non ne risolva.


Chiunque sappia qualcosa della sua vita sa che Beethoven poteva farsi
coinvolgere in ruvide conversazioni che potrebbero ben essere descritte come
«comicità che sconfina nella rabbia […] rozza [e a volte] furba»31. Il suo genere
di umorismo era spesso eccessivo e villano, non solo con gli amici intimi, ma
anche con i semplici conoscenti, ed era sintomatico di una persona di profonda
umanità isolata dalla sordità, condizionata dalle ristrettezze e totalmente dedita
alla creazione dei suoi lavori, fossero o meno capiti dal mondo che lo
circondava. Nel suo privato “Tagebuch” – il suo diario – che cominciò a tenere
proprio all’epoca in cui scriveva l’Ottava Sinfonia (1812) e che utilizzò fino al
1818, troviamo annotazioni come questa:
Sottomissione, la più profonda sottomissione al tuo destino, solo questo può darti il sacrificio – […]
che dura battaglia! – Fare tutto ciò che ancora c’è da fare per preparare ciò che occorre per il lungo
viaggio […]
Non devi essere un essere umano, non per te stesso, ma solo per gli altri; per te stesso non c’è più
alcuna felicità se non dentro di te, nella tua arte.32

Possiamo percepire che il pesante, chiassoso e armonicamente sovversivo


do diesis del finale dell’Ottava Sinfonia ha un latente collegamento con lo stile
della sua personalità, uno stile che emergeva non solo nei suoi rapporti con
tutto quanto lo circondava, ma anche nella sua vita musicale, nel suo
incessante improvvisare al pianoforte, che si ricollegava direttamente al suo
elaborare abbozzi e quindi ai suoi lavori33.
Quanto all’efficacia del finale come conclusione di questa sinfonia, le sue
eccentricità e le sue sorprese possono essere intese come il coronamento di
quelle dei movimenti precedenti. Il primo movimento ha la sua quota di
momenti imprevisti e audaci. I due movimenti centrali, all’interno dei loro
tratti stilistici pseudo-retrospettivi, celano spunti ironici, come rare
prelibatezze. E il finale, con la sua lunghezza, la sua forte risolutezza e l’insolita
struttura formale, così come con i suoi eccentrici dettagli, risolve tutti i
precedenti paradossi presentandone uno per conto proprio.
10. Abbozzi della melodia dell’“Ode alla Gioia” dalla Nona Sinfonia
1
Briefe, n. 809 del 1° giugno 1815, lettera del 1815 a J.P. Salomon, nella quale Beethoven propone per la
pubblicazione in Inghilterra alcuni nuovi lavori, tra cui la Settima Sinfonia («una delle mie migliori») e
dice che l’Ottava è «una più piccola sinfonia in fa».
2
Carl Czerny, Anekdoten […] in Űber den richtigen Vortrag der Sämtlichen Beethoven’schen
Klavierwerke, Wien, Universal Edition 1963, p. 16.
3
Donald Tovey, Essays in Musical Analysis, London, Oxford University Press 1935, 1, p. 62.
4
L’autografo della Settima Sinfonia è a Cracovia (Berlin MS ms. aut. Beethoven Mendelssohn 9).
L’autografo dell’Ottava è diviso così: primo, secondo e quarto movimento sono a Berlino, Staatsbibliothek;
il terzo movimento è a Cracovia. Il quaderno “Petter” è a Bonn, Beethoven-Haus, MS Mh 59; cfr. JTW pp.
207-19 e Sieghard Brandenburg, Ein Skizzenbuch Beethovens aus dem Jahre 1812, in Zu Beethoven, a cura di
H. Goldschmidt, Berlin, Verlag Neue Musik 1979, pp. 117-48.
5
Per il primo movimento, N II, pp. 111-18, (come di consueto, antologici e incompleti, ma avveniristici,
per l’epoca); e Sieghard Brandenburg, cit., pp. 135-9. Per gli abbozzi del secondo movimento cfr. Kathryn
John, Das Allegretto-Thema in op. 93, auf seine Skizzen gefragt, in Zu Beethoven 2, Berlin, 1984, pp. 172-84.
L’intero materiale preparatorio per l’Ottava Sinfonia deve ancora essere trascritto, pubblicato e vagliato.
6
Questa scoperta si deve a S. Brandenburg, Ein Skizzenbuch Beethovens aus dem Jahre 1812, in Zu
Beethoven cit., pp. 117-48.
7
Quaderno “Petter”, f. 42r. “Concert in g” con un “adagio in Es”; sempre in questa pagina “Concert in g
oder E moll”; e una originale idea per un movimento lento (f. 42r): “adagio in E dur Hörner sordino Echo
etc.” [Adagio in mi maggiore con corni con sordina in eco, ecc.]. Per tutte queste voci cfr. Brandenburg,
Ein Skizzenbuch […] cit., p. 239.
8
Cfr. il mio studio, Beethoven’s unfinished Piano Concerto of 1815: Sources and Problems, «The Musical
Quarterly» LVI, 4, 1970, pp. 624-46.
9
Sul progetto per una sinfonia in re minore del 1812 cfr. Erica Buurman, Beethoven’s Compositional
Approach to Multi-Movement Structures in His Instrumental Works, tesi di dottorato, University of
Manchester, 2013, pp. 163-66, e Peter Cahn, Beethovens Entwürfe einer d-Moll-Symphonie von 1812,
«Musiktheorie», Laaber, XX, 5, 2005, pp. 123-9.
10
E. Buurman cit., p. 167 sg.
11
Ivi, p. 169-71
12
Bb. 1-12.
13
Bb. 12-37
14
Bb. 38-51
15
Bb. 52-69.
16
Bb. 70-90.
17
Bb. 104-81.
18
Bb. 190-301.
19
Per un sommario dei problemi relativi a questo passaggio e per le modifiche suggerite da direttori
come Felix Weingartner e Georg Szell, cfr. Michael Broyles, Beethoven: Symphony No. 8, «19th Century
Music», IV, 2, 1982, pp. 39-46.
20
Per l’opinione che la ripresa in effetti non inizi a b. 190 ma a b. 198, e per un’ampia descrizione delle
motivazioni che abbiamo proposto, cfr. M. Broyles, Beethoven: Symphony No. 8, cit.
21
Per approfondire queste osservazioni cfr. il cap. 9 del mio Beethoven: Studies in the Creative Process,
Cambridge, MA, 1992, pp. 198-208, Process vs. Limits: A view of the Quartet in F Major, Opus 59, No. 1, e
inoltre Lewis Lockwood e The Juilliard String Quartet, Inside Beethoven’s Quartets, Cambridge, MA,
Harvard University Press 2008, pp. 95-182, sull’op. 59 n. 1, in particolare pp. 112-15 sulla ripresa del primo
movimento.
22
Per un quadro d’insieme cfr. Josep Kerman, Notes on Beethoven’s Codas, in BS3, pp. 141-59.
23
Beethoven, dopo aver già completato il manoscritto autografo, aveva provato almeno altri quattro
modi per concludere il movimento. La prima soluzione era stata la più breve, non più di cinque battute di
materiale cadenzale dopo la lunga corona sulla dominante. Questa fu ben presto sostituita da una
conclusione più lunga nella quale introdusse le tre serie spezzate di accordi a piena orchestra, ciascuna
seguita da un’intera battuta di pausa per tutti gli strumenti tranne i timpani, e infine la frase conclusiva
(quest’ultima a questo punto durava dieci battute). Questa seconda versione lasciò il posto alla terza, nella
quale la parte dei timpani dopo le serie di accordi fu cassata, lasciando completamente vuote le rispettive
battute. Infine Beethoven giunse alla quarta e ultima versione, quella accolta nella partitura definitiva, ora
di gran lunga ampliata rispetto a tutte le precedenti, consistendo di più di quaranta battute che
concludono la coda con le sue unità tematiche fortemente contrastanti.
24
Beethoven by Berlioz: a Critical Appreciation of Beethoven’s Nine Symphonies, compilato e tradotto da
R. De Sola, Boston, Crescendo Publishing Company 1975, p.39. Citato già da George Grove, Beethoven and
His Nine Symphonies, New York, Dover 2012, p. 294.
25
Altri movimenti quasi-lenti con l’indicazione “scherzoso” o “scherzando” sono quelli dei quartetti op.
18 n. 4 e, alla fine della sua vita, op. 130, III movimento. Il fondamentale modo di procedere di questi
movimenti consiste sempre in lunghe ripetizioni di figure “staccato”.
26
È stato dimostrato che la radicata convinzione che questo movimento fosse derivato da, o facesse
comunque riferimento a, un canone sul nome “Maelzel” (“Ta-ta-ta-ta”), WoO 162, è un’altra delle
montature di Schindler. Cfr. Stanley Howell, Beethoven’s Maelzel Canon, «The Musical Times», CXX, 1979,
pp. 987-90.
27
Sull’uso delle indicazioni “solo cello” nelle sinfonie di Haydn cfr. Andreas Friesenhagen, Haydn’s
Symphonies: Problems of Instrumentation and PerformanceTradition, «Early Music», XXXIX, 2010, pp. 256-
58.
28
La prima citazione è ricavata da una articolo anonimo su AMZ, 1918, coll. 131-67, citata in Ludwig
van Beethoven: Die Werke im Spiegel seiner Zeit a cura di S. Kunze, Laaber, Laaber Verlag 1987, p. 316 sg.;
la seconda, che secondo una congettura di Kunze è stata scritta da Anton Diabelli, è tratta da Allgemeine
Musikalische Zeitung mit besonderer Rücksicht auf dem österreichischen Kaiserstaat Jg. 2, 1818, coll. 17-23;
ristampato in Kunze, cit., pp. 318-23; questo commento è a p. 321.
29
Bb. 374-380, Il cambio di armatura di chiave a b. 380 è curioso. Poiché il contenuto musicale è
inequivocabilmente in fa diesis minore (bb. 30-91), in chiave dovrebbero essere correttamente indicati tre
diesis; ma Beethoven ne scrive solo due, ed è costretto a mettere il diesis prima del sol tutte le volte che si
rende necessario.
30
Michael Broyles, Beethoven: the Emergence and Evolution of Beethoven’s Heroic Style, New York,
Routledge 1987, p. 221.
31
Ibid.
32
Maynard Solomon, Beethoven’s “Tagebuch” of 1812-1818, BS3, pp. 193-288; questo passaggio fa parte
della voce n. 1, 1812, p. 212.
33
Beethoven disse all’arciduca Rodolfo che, componendo, doveva lavorare al pianoforte tenendo
accanto a sé un tavolino per poter annotare le proprie idee. Beethoven stesso mantenne quasi sempre
questa abitudine, ma poteva comporre anche senza l’aiuto del pianoforte, come è provato dai suoi
numerosi quaderni tascabili.
IX

La Nona Sinfonia

L’ultimo Beethoven
All’epoca in cui terminò la Nona Sinfonia, nel 1824, Beethoven aveva
attraversato un’altra fase di trasformazione, più lunga e più difficile della
precedente – un “cambio di rotta”, per dirla con Maynard Solomon. Dopo il
successo di pubblico di Fidelio nel 1814 e il rinnovato apprezzamento da parte
dell’aristocrazia europea al Congresso di Vienna, Beethoven attraversò una fase
di relativa inattività che durò almeno fino al 1818. Durante questi anni creò
alcuni importanti lavori isolati, ma senza neppure avvicinarsi alla costante
produttività del suo secondo periodo. Per lui fu un periodo di profonda
introspezione mentre si preparava a muoversi in nuove direzioni come
compositore. Il suo Tagebuch ce lo mostra mentre tenta di riprendere le forze
dopo la crisi dell’Immortale Amata del 1812, rassegnato ad accettare il proprio
isolamento e a sopportare le difficoltà personali, quali che fossero. Nella sua
vita artistica stava cercando, ancora una volta, nuove strade, questa volta
guardando molto indietro ad antichi modelli, soprattutto all’amatissimo Bach.
Dopo il 1818 una rinnovata padronanza tecnica si sarebbe tradotta in alcuni dei
suoi lavori più grandi e più profondi, molti dei quali risultarono estremamente
sconcertanti per i suoi contemporanei e tecnicamente impegnativi anche per i
migliori esecutori dell’epoca, e solo gradualmente furono accettati come
risultati monumentali. Fuga e contrappunto, che aveva sempre usato per
rendere più profonda la complessità dei suoi dinamici lavori, divennero ora
tecniche fondamentali per interi movimenti, specialmente per i finali di
composizioni strumentali in più movimenti. Il coronamento della sua
immaginazione creativa nell’ambito della fuga è la Grosse Fuge: inizialmente
concepita come finale del Quartetto op. 130, in un secondo momento ne fu
separata per diventare una composizione autonoma, e pubblicata come op. 133.
Alla prima esecuzione un critico scrisse che era «incomprensibile come il
cinese»1. Nel XX secolo Igor Stravinsky dichiarò:
A diciotto anni ho trovato una nuova fonte di gioia in Beethoven, e la Grande Fuga ora mi sembra –
ma allora non era così – un perfetto miracolo […] deve rimanere un brano autonomo, questo pezzo di
musica assolutamente contemporaneo, che sarà per sempre contemporaneo.2

Le complessità dell’ultimo Beethoven non potranno mai essere


adeguatamente afferrate, e tantomeno comprese, senza una ripetuta esperienza
di ascolto e senza riflettere sulle caratteristiche tipiche dei suoi precedenti
lavori nei generi che per lui avevano maggior significato: la sonata per
pianoforte, il quartetto per archi, la sinfonia. A dispetto di molta critica
moderna che mira a separare decisamente l’”ultimo stile” dai suoi precedenti
risultati – in parte, sembrerebbe, per collegare le innovazioni dell’ultimo
Beethoven a quelle dell’avanguardia novecentesca – le molte caratteristiche
progressive dei suoi ultimi lavori devono veramente essere viste come l’esito
del desiderio di progredire coltivato per tutta la vita, di un inesausto senso
autocritico nei confronti di qualsiasi cosa avesse appena compiuto, di
un’infaticabile lotta per realizzare lavori che riflettessero “la libertà e il
progresso” a cui aspirava.
Eppure, generazioni di ascoltatori hanno avvertito che molti dei suoi ultimi
lavori, e specialmente i quartetti, appartengono a una sfera più rarefatta
perfino rispetto alle sue migliori realizzazioni degli anni precedenti – e avrò
modo di sostenere che questo è egualmente vero per la Nona Sinfonia. Per
quanto molta critica recente, sulla scia di Adorno, abbia sostenuto che la Nona
Sinfonia si collochi fuori dall’estetica dell’”ultimo stile” – per dirla con Adorno,
«non è un lavoro dell’ultimo periodo» – questo punto di vista si basa su una
comprensione troppo limitata della portata di quello stile e del respiro della
fase finale di Beethoven3. Con le ultime sonate per pianoforte, le Variazioni
“Diabelli”, e gli ultimi quartetti, Beethoven sembra entrare in una dimensione
apparentemente inattingibile dalle sue composizioni dei periodi precedenti.
Nondimeno ci sono delle vie sotterranee, molte delle quali ancora da esplorare,
che mostrano le strade lungo le quali le sue realizzazioni del secondo periodo
anticipano certi aspetti dell’ultimo stile. Da osservazioni come quella fatta a un
violinista a proposito dei Quartetti op. 59 – «non sono per voi, sono per
un’epoca futura» – è evidente che Beethoven stava già pensando all’avvenire
negli anni centrali della sua vita.
Tanto la Missa Solemnis quanto la Nona Sinfonia assimilano caratteristiche
che emergono dalla sua profonda familiarità con il contrappunto bachiano –
ma entrambe erano anche condizionate dalla sua convinzione che il suo ruolo
come artista fosse quello di parlare da compositore moderno, di sostenere
l’importanza dell’espressione artistica di alto livello nella sua epoca. La lettera
di Beethoven a Rodolfo, per il cui insediamento la Missa Solemnis era stata
concepita, e al quale fu dedicata con le parole «dal cuore, possa andare al
cuore», ci dice che
Non vi è nulla di più alto che accostarsi alla Divinità più degli altri uomini e di lassù diffondere i
raggi della Divinità sul genere umano.4

Nella Nona Sinfonia, se la consideriamo non come il mero tramite dell’“Ode


alla Gioia”, ma come il suo più ampio progetto sinfonico, non si limita
semplicemente a mettere in musica lo straordinario gesto di amore per
l’umanità di Schiller – «Oh, voi moltitudini, io vi abbraccio, questo è un bacio
per il mondo intero!» – ma unisce le sue forze a quelle di Schiller
nell’esprimere la sua utopistica fede nell’umanità e nella capacità dell’arte di
redimere il mondo. Indipendentemente da quanto distante si fosse spinto
rispetto ai primi anni, ricordiamo che in una sentita lettera scritta nel 1812 a
una ragazza che conosciamo solo come “Emily M.”, Beethoven la esortava così:
«persevera, non limitarti a fare dell’arte un esercizio […] perché solo l’arte e la
scienza innalzano l’uomo fino alla divinità»5.
Un altro indizio dell’atteggiamento di Beethoven in quegli anni lo si trova in
una precedente lettera a Rodolfo, scritta nel luglio 1819. In quel momento era
nel pieno del lavoro sulle Variazioni “Diabelli”, che gli erano state
commissionate qualche mese prima, e aveva anche cominciato a comporre la
Missa Solemnis. Subito prima di scrivere questa lettera Beethoven aveva visitato
la biblioteca musicale dell’Arciduca alla ricerca di musica antica, evidentemente
del XVII e del XVIII secolo. Meditando sul passato e sul presente, scrive:
I compositori del passato ci sono doppiamente utili, il reale valore artistico (fra di essi però solo il
tedesco Händel e Seb. Bach avevano del genio) consistendo essenzialmente nella libertà e nel
progresso: sono le mete del mondo dell’arte, come in tutto il creato. E sebbene noi moderni non
abbiamo ancora raggiunto la solidità dei nostri antenati, tuttavia il raffinamento dei nostri costumi ha
anche ampliato alquanto i nostri orizzonti.6

Per quanto Bach e Händel – insieme con Gluck, Haydn e Mozart – siano
menzionati solo una volta nel Tagebuch come predecessori profondamente
ammirati, non c’è dubbio che Bach, e in misura minore Händel, erano diventati
le stelle comete di Beethoven7. Beethoven conosceva il Clavicembalo ben
Temperato fin dalla prima infanzia, aveva acquistato musica di Bach – che, nel
corso della sua esistenza, era divenuta maggiormente disponibile – ed ora, nel
pieno dell’ondata della sua tarda maturità, si stava impadronendo della
maestria di Bach nell’integrare la complessità contrappuntistica con
l’espressività, per quanto in un ventaglio di vecchi stili compositivi che
Beethoven ora sentiva di poter emulare, ma anche di modernizzare.

Verso la “Nona Sinfonia”


Nel 1817, in cattiva salute e alle prese con la problematica custodia del nipote
Karl, Beethoven espresse il disperato desiderio di fuggire da Vienna. Nutriva la
speranza di compiere un viaggio a Londra, da dove aveva ricevuto un invito a
comporre due sinfonie. Scrive nel Tagebuch:
Non hai altro modo di salvare te stesso che lasciare questo posto; solo così potrai ancora innalzarti
alle vette della tua arte, mentre invece qui sei sommerso dalla volgarità. Solo una sinfonia – e poi via,
via, via.8

Londra lo attirava come la capitale europea dove i suoi grandi lavori


avevano ricevuto una buona accoglienza e dove lo attendevano stima e rispetto.
Tra i suoi ammiratori inglesi c’erano il direttore d’orchestra Sir George Smart,
il pianista Charles Neate e il suo vecchio allievo Ferdinand Ries, che viveva in
Inghilterra dal 1813 e in quel momento era direttore della Philharmonic
Society. Era stato Ries a scrivere a Beethoven, il 9 giugno 1817, per invitarlo
ufficialmente a recarsi a Londra «il prossimo inverno» [cioè l’inverno 1817-18],
offrendogli un cospicuo compenso per «scrivere per la Società Filarmonica due
grandi sinfonie». Ries lo assicurava anche che sarebbe stato «accolto a braccia
aperte da amici»9. Beethoven rispose entusiasticamente il 9 luglio 1817,
accettando la proposta di scrivere «due grandi sinfonie, di nuovissima
composizione» – anche se doveva sapere bene che difficilmente sarebbe
riuscito a rispettare questo impegno10.
In realtà le cose presero una piega diversa col presentarsi di altre
opportunità. Nel 1818 Beethoven realizzò qualche abbozzo per la Nona Sinfonia,
ma abbandonò ogni idea di un viaggio a Londra. Invece, mentre andava avanti
con la complicata faccenda della custodia, cominciò a lavorare alla Sonata
“Hammerklavier”, inizialmente pensata per festeggiare l’onomastico di Rodolfo.
Con questa sonata avevano davvero inizio le grandi realizzazioni degli ultimi
anni di Beethoven.
Nel 1819 l’editore Anton Diabelli aveva chiesto a Beethoven di comporre –
su un tema di valzer scritto da Diabelli stesso – una sola variazione, destinata
ad affiancarsi ad altre composte dai «più eminenti compositori e virtuosi»
austriaci. La reazione di Beethoven fu tipica: anziché scrivere un solo breve
brano, come tutti gli altri, si avventurò nella composizione di una lunga e
innovativa serie di variazioni11. Ma il progetto-Diabelli fu interrotto nel pieno
della realizzazione da un compito ancora più impegnativo: comporre una messa
per l’insediamento dell’Arciduca quale arcivescovo di Olmütz in Moravia.
Cominciata nel 1819 e destinata alla cerimonia fissata per il marzo 1820, la
Missa Solemnis non fu completata che due anni più tardi. Ma a quel punto altri
progetti ancora si erano presentati, soprattutto le tre sonate per pianoforte op.
109, op. 110 e op. 111 (nel 1820-21), dopodiché le Variazioni “Diabelli” furono
finalmente portate a termine nel 1823.
Solo quell’anno, quindi, Beethoven fu pronto a riprendere il lavoro sulla
sinfonia in re minore che aveva avuto in mente per molti anni. Nonostante tutti
gli ostacoli – i problemi col nipote, le malattie, e i continui sogni di sempre
nuovi lavori, opere incluse, che forse avrebbe potuto intraprendere – si mise
decisamente al lavoro sulla Nona. E poiché era stata concepita in modo
grandioso, questa sinfonia poteva combinare due ambizioni che Beethoven
coltivava da lungo tempo: scrivere una sinfonia in re minore, e mettere in
musica l’ode An die Freude di Schiller. Queste intenzioni erano rimaste latenti
per molti anni, ma ora potevano fondersi in un unico grande progetto destinato
a rivoluzionare ulteriormente il genere sinfonico.

Una panoramica sugli abbozzi


Finora si è generalmente pensato che Beethoven avesse buttato giù le prime
idee per una “Sinfonia in re minore” (intitolata così) nel 1811-12, quando
lavorava alla Settima e all’Ottava. Ma nel quaderno “Eroica” sopravvive un
appunto molto precedente, scritto all’inizio della primavera del 1804, per
quanto riemerso solo di recente nella letteratura beethoveniana12. Si tratta di
una breve annotazione in 6/8, intitolata “Sinfonia in re minore”, scritta su due
righi, con un re al basso nella prima battuta e un tema ascendente su un
arpeggio di re minore nella voce superiore. Questo appunto in re minore
dell’inizio del 1804 sembra, a prima vista, un pensiero fuggevole, ma contiene
semi destinati a germinare più tardi (cfr. Esempio 6, p. 100).
Questa annotazione frammentaria per una “Sinfonia in re minore” apparve
solo pochi mesi dopo che Beethoven ebbe completato tutti i primi abbozzi per
la Sinfonia Eroica e la Sonata “Waldstein”, e poco dopo la stesura delle prime
idee per la Quinta Sinfonia e di quelle che avrebbe poi sviluppato nella Sesta. In
seguito, troveremo la prima idea ben definita per una sinfonia in re minore nel
1812, all’epoca della Settima e dell’Ottava. I pochi appunti presi allora sono
interessanti, ma non anticipano in modo chiaro il materiale tematico che
Beethoven avrebbe poi utilizzato nella Nona. Eppure, la contiguità di questa
immaginata sinfonia con il lavoro sull’Ottava, con tutta la sua commistione di
caratteristiche tradizionali e innovative, è suggestiva.
Nel 1815-16, anni di sperimentazioni, Beethoven prendeva appunti che in
effetti avrebbero poi trovato la loro strada nella Nona. Il più interessante è una
breve frase in re minore, intitolata “Fuge” (Fuga), che prefigura
inequivocabilmente il tema principale dello Scherzo della Nona, per quanto
finisca, curiosamente, con l’annotazione “Ende langsam” (“fine lentamente”)13.
Tra le annotazioni verbali dello stesso quaderno troviamo Beethoven che
riflette su una sinfonia da cominciare in modo particolare. Scrive:
Una sinfonia che inizi a sole quattro parti – 2 violini, viole e bassi – inframezzate da [entrate] forte
delle altre voci, e se possibile con ciascuno degli altri strumenti a fare il proprio ingresso uno dopo
l’altro.14

Questa fantasiosa annotazione dimostra che Beethoven aveva in mente


l’inizio della Nona, con le quinte vuote tenute e il progressivo accavallarsi degli
strumenti, molto prima di aver sviluppato il materiale musicale per mezzo del
quale l’avrebbe realizzato15. Per quanto molto ancora resti da fare per chiarire i
sopravvissuti appunti per la Nona, si direbbe che Beethoven iniziasse a
formulare idee per il primo movimento nel 1816, continuasse a elaborarle nel
1817, e nel 1818 disponesse saldamente del materiale tematico fondamentale
per il primo movimento16. Vennero poi le interruzioni del 1819-22, soprattutto
il progetto-Diabelli e la Missa Solemnis, che ritardarono il suo ritorno alla
sinfonia ma che probabilmente gli instillarono anche una quantità di nuove
idee. Beethoven completò infine la Nona nel febbraio 1824, circa tre mesi prima
della famosa “prima” del 7 maggio 1824 al Kärtnerthor Theater di Vienna. Fu
quella la circostanza in cui a fine esecuzione, con il pubblico festante, uno dei
cantanti dovette far girare verso la sala il compositore, che non era in grado di
udire gli applausi.
Un progetto per una seconda sinfonia?
Una questione in sospeso, a proposito della Nona, riguarda il progetto di una
seconda sinfonia destinata ad affiancarla, e quanto seriamente Beethoven possa
aver coltivato una simile idea. Le prove più importanti sono:

1. Una descrizione verbale scritta da Beethoven nel 1818 su un foglio che


contiene appunti per la Sonata “Hammerklavier”17;
2. Appunti su quaderni del 1822-23 che sembrano concretizzare un’altra idea,
completamente differente, per una seconda sinfonia18.

Consideriamole separatamente.

La descrizione verbale, del 1818, di una sinfonia nei “modi antichi”


L’annotazione recita così:
Cantico Adagio – Canzone devota in una sinfonia nei Modi antichi – Signore Dio noi ti lodiamo –
alleluia – come pezzo autonomo, o come introduzione a una Fuga. Forse l’intera seconda sinfonia
potrebbe essere caratterizzata in questo modo, facendo entrare le parti vocali nell’ultimo movimento o
già nell’Adagio. I violini in orchestra ecc. devono essere decuplicati nell’ultimo movimento. Oppure
l’Adagio potrebbe essere ripetuto in un certo senso nell’ultimo movimento, laddove le parti vocali
entrerebbero una alla volta – nell’Adagio con un testo da un mito greco, un Cantico Ecclesiastico –
nell’Allegro con una celebrazione di Bacco.

Beethoven qui fa riferimento in modo esplicito a una «seconda sinfonia».


Evidentemente la concepisce come un lavoro di tipo completamente nuovo, con
la sua «Canzone devota in una sinfonia nei Modi antichi», con le sue parti
vocali nel finale «o già nell’Adagio», con la sua fantastica idea di «decuplicare i
violini ecc. nell’ultimo movimento», e con l’idea che le voci cantate dovessero
entrare una per volta.
L’idea di far entrare le voci una dopo l’altra rimanda a un abbozzo in un
quaderno di appunti del 1815-16 in cui Beethoven aveva introdotto l’idea di
un’entrata degli strumenti di questo genere. Di queste idee del 1818 alla fine ne
sopravvissero solo due, e una di queste è l’idea di un finale corale (ma ora con
l’Ode di Schiller, non con un testo tratto dai miti greci o con una “celebrazione
di Bacco”). L’altra idea, quella di una “Canzone devota in una sinfonia nei Modi
antichi” riemerse più avanti nel Quartetto in la minore op. 132 con la “Canzona
di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico”. Non ci
sono prove che questa colorita descrizione di una sinfonia modale abbia poi
dato luogo a qualche sviluppo, ma la possibilità di una seconda sinfonia rimase
aperta ancora per un po’19.

Gli spunti del 1822. Per una Seconda Sinfonia?


Nel 1822 Beethoven evidentemente tornò all’idea di una seconda sinfonia,
questa volta non con una descrizione verbale ma con una serie di spunti
musicali di base. Il suo progetto, ora, era di cominciare con un’introduzione
lenta in mi bemolle maggiore in 2/4, seguita da un “rapido” (Beethoven scrive
“geschwind”) Allegro in do minore in 6/8.
Questa introduzione lenta, che poi fu sottoposta ad alcune ulteriori
modifiche, manifesta una certa affinità melodica con la versione definitiva del
primo tema dell’Adagio della Nona, e Beethoven la rivide in abbozzi successivi,
aggiungendo nuove idee per altri movimenti, tra cui uno che ricorda il tema
dello Scherzo della Nona20. Questi abbozzi del 1822 contengono anche un breve
riferimento all’Ode di Schiller quando Beethoven parla di “alla marcia
introduzion[e]” [in italiano] e poi aggiunge le parole “forse anche il coro [che
canta] Freude schöne [Götterfunken]” (ma tutto questo non è corredato da
alcuna musica)21. Ciò che davvero sorprende è che questo materiale, parte del
quale fu poi utilizzato nella Nona, dovesse finire con il tema in re maggiore
(Andante Moderato) destinato a diventare il tema contrastante nella versione
definitiva del movimento lento.
Che importanza hanno questi abbozzi del 1822 per la concezione della Nona
nella sua forma definitiva? La risposta, qui e altrove, dipende da quanto ci
interessi approfondire la nostra comprensione del prodotto artistico finale
attraverso la conoscenza di come Beethoven sviluppasse ed elaborasse le
proprie idee, attraverso una certa percezione di quale fosse l’ampiezza della sua
visione nelle fasi iniziali del processo creativo, e di come progressivamente
mutasse mentre il lavoro prendeva forma nelle sue mani. Per quanto molto
ancora ci resti da sapere circa il contesto creativo della Nona, possiamo
concordare con la conclusione di Nicholas Marston a proposito dei temi del
definitivo movimento lento, e cioè che
le origini compositive del tema dell’Adagio molto [il primo tema del movimento lento] si possono
riscontrare nel primo movimento di una sinfonia incompiuta dell’autunno 1822, e che anche quando
Beethoven riutilizzò questo materiale per la Nona non intese combinarlo con il definitivo [tema
dell’]Andante moderato.22

Guardando avanti possiamo vedere che nell’Adagio della Nona, nel suo
sviluppo definitivo, Beethoven era deciso a utilizzare le qualità contrastanti di
questi due temi come fondamentale condizione formale – e cioè avere un primo
tema in tempo molto lento in si bemolle maggiore in 4/4, e l’altro tema in re
maggiore, Andante moderato, 3/4 – e che infine combinò variazioni del primo
tema con lo splendido secondo tema, ripreso due volte a mo’ di episodio di
Rondò.

Finale corale o strumentale?


Per quanto la cosa non possa essere dimostrata, non abbiamo motivo di
pensare che l’idea di mettere in musica l’Ode di Schiller abbia mai veramente
abbandonato la mente di Beethoven. Il che è probabilmente vero anche se a
uno stadio già avanzato del lavoro Beethoven mise sulla carta alcune idee per
un “Finale instromentale” [sic]. Come è stato rilevato, talvolta è difficile
stabilire se le sue idee per un finale strumentale fossero destinate a un
movimento completamente diverso, fossero puramente provvisorie, o si
trattasse di idee buttate giù per l’introduzione strumentale che precede
l’ingresso delle voci23.
In ogni caso il tema che Beethoven prese in considerazione per un finale
strumentale, e che mise sulla carta tre volte, riemerse più tardi nel finale del
Quartetto per archi op. 13224. Dal momento che questi abbozzi non possono
essere datati con precisione, non possiamo essere certi che Beethoven stesse
seriamente valutando se lasciar perdere l’idea del finale corale a uno stadio già
così avanzato del lavoro; in mancanza di prove questo è possibile, anche se
tutt’altro che certo.
La mia personale impressione, basata sull’interpretazione di tutta la
documentazione musicale e biografica disponibile, è che l’idea di un finale
corale che utilizzasse il testo di Schiller rimanesse il suo obiettivo primario, e
che non appena la sinfonia nel suo insieme ebbe preso corpo dovesse essergli
risultato chiaro che questo movimento sarebbe stato il monumentale
coronamento dei movimenti precedenti e il culmine del suo lavoro di una vita
come autore di sinfonie. Nella sua forma definitiva divenne una splendida
espressione artistica dell’utopistico desiderio dell’umanità di raggiungere una
condizione di fratellanza sotto un Dio benevolo. C’è un’affinità con l’iscrizione
che Beethoven aveva recentemente apposto al “Dona nobis pacem” alla fine
della Missa Solemnis, una “Preghiera per la pace interiore ed esterna”. Ma nel
finale della Nona Beethoven non stava mettendo in musica le parole della
liturgia, ma quelle del poeta laico che più ammirava, scritte nel linguaggio
corrente e in una forma poetica classica attualizzata. Beethoven si associa a
Schiller nella speranza che «tutti gli uomini diventino fratelli» – un messaggio
di fede nell’ideale dell’uguaglianza degli uomini che era riecheggiato negli
scritti rivoluzionari del tardo XVIII secolo, tra cui la Dichiarazione
d’indipendenza americana del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo
francese del 1789. Che l’umanità dovesse recuperare la consapevolezza di
questi valori attraverso l’arte era diventata una parte importante delle idee di
Beethoven.

Beethoven e l’Ode di Schiller


An die Freude era un poema giovanile di Schiller: scritto originariamente nel
1785, quando il poeta aveva venticinque anni, fu pubblicato nel 1786 e riveduto
nel 1803. Si tratta di una manifesta imitazione dell’ode classica, con stanze e
cori, che celebra la Gioia come la personificata “figlia dell’Elisio”, la cui magia
può unire tanto gli individui quanto i popoli che sono stati separati da
convezioni sociali e, implicitamente, da differenze di qualsiasi tipo. Nel primo
coro dell’Ode il poeta, ampliando la propria visione, proclama estaticamente
«Abbracciatevi, moltitudini – questo è un bacio al mondo intero» e propone la
propria immagine di una fratellanza umana sotto l’ala protettrice di un Dio
benevolo («Fratelli – al di sopra della volta stellata deve dimorare un Padre
amoroso»).
L’Ode è letteralmente disseminata di sentimenti illuministi, e i radicali del
1780 avrebbero potuto interpretarla come il velato avallo di una sollevazione
politica. Apparve particolarmente in sintonia con i tempi nel 1789, quando i
rivoluzionari francesi scossero il mondo rovesciando la monarchia in nome
della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza. L’originale settimo verso di
Schiller, nel 1785, era stato “Gli accattoni diverranno fratelli dei principi”
(“Bettler werden Fürstenbrüder”) ma nel 1803 fu sostituito con il più innocuo
“Tutti gli uomini diverranno fratelli” (“Alle Menschen werden Brüder”).
Un’espressione molto più sicura, nel periodo successivo al Terrore e nel bel
mezzo delle lunghe guerre tra la Francia e le potenze della Coalizione. Eppure
alcuni contemporanei di Schiller, come Beethoven, ricordavano quel verso.
Schiller lasciò cadere anche un verso finale che salutava la “Salvezza dalle
catene dei tiranni” e tagliò anche l’immagine del risveglio dei morti e del
perdono dei peccati25.
Beethoven venerava Schiller e conosceva bene i suoi lavori, drammi inclusi.
Doveva anche sapere bene che l’iniziale sostegno di Schiller alla Rivoluzione
Francese era venuto meno improvvisamente nel 1793 dopo l’esecuzione di
Luigi XVI, come si evince dai suoi scritti di estetica. Tra questi c’era il saggio
Sull’educazione estetica dell’uomo (1794), nel quale Schiller inclina verso il suo
famoso detto secondo cui «la bellezza non è altro che la libertà nel suo aspetto
esteriore». In effetti stava rifiutando l’idea del rovesciamento violento dei
regimi, sembrava considerare la Rivoluzione Francese un fallimento e aveva
rivolto il suo sguardo verso un futuro utopistico26. Non è difficile trovare
parallelismi con questo punto di vista nelle lettere e nelle prese di posizione
estetiche di Beethoven, in cui la visione dell’Elisio rimane
incontrovertibilmente presente mentre riflette sul mondo che lo circonda,
soffre per l’infelicità che lo affligge continuamente nonostante la sua grande
carriera, e avverte la disillusione per aver vissuto gli anni della Rivoluzione
Francese seguita dal Terrore, poi l’egemonia napoleonica, e infine il repressivo
regime austriaco sotto Metternich, che prese il potere dopo il 1815.
Quando Schiller scrisse l’Ode, nel 1785, Beethoven era il giovane prodigio
della vita musicale di Bonn che già ambiva a una grande carriera. Nel 1787
aveva guadagnato ulteriore terreno con il suo viaggio a Vienna per rendere
visita a Mozart e aumentare la propria visibilità – come testimoniano le due
cantate del 1790, una per il funerale di Giuseppe II, l’altra per l’ascesa al trono
di Leopoldo II. Il respiro della sua attività creativa giovanile è evidente sia nei
lavori ultimati, sia nel suo portfolio di bozze, dove si trovavano anche lavori
vocali, ed era nel carattere del personaggio progettare di mettere in musica
l’Ode di Schiller, di cui furono realizzate più di quaranta versioni ad opera di
vari compositori27. In una lettera del 1793 Bartholomaeus Fischenich, un
discepolo di Schiller di Bonn, scrisse alla moglie di Schiller, Charlotte,
inviandole un altro canto giovanile di Beethoven. In quella lettera osserva che
il compositore
intende mettere in musica “Freude” di Schiller, e strofa per strofa. Mi aspetto qualcosa di perfetto,
perché, per quanto io lo conosco, è completamente votato al grande e al sublime.28

Questo messaggio non solo serviva a introdurre un brillante giovane


compositore nella cerchia di Schiller, ma poteva anche implicare che, se doveva
metterla in musica “strofa per strofa”, fosse in sintonia con la tendenza
rivoluzionaria dell’Ode, così come all’epoca era conosciuta e pubblicata29.
Cinque anni più tardi gli appunti di Beethoven ci mostrano delle frammentarie
realizzazioni di un singolo verso dell’Ode, “Muss ein lieber Vater wohnen”. Poi,
dobbiamo aspettare fino al 1811-12 per avere prove del suo perdurante
interesse al poema, che si esprimerà in modi più sviluppati. Le annotazioni
verbali inserite tra le idee per ciò che sarebbe poi diventata l’Ouverture
“Namensfeier” (per l’imperatore in carica Francesco I) contengono questa
osservazione:
Freude schöner Götterfunken Tochter / Overture ausarbeiten
(Gioia, dolce scintilla divina Figlia / da elaborare come ouverture)

e, con una significativa inversione delle parole “accattoni” e “principi”:


abgerissene Sätze wie Fürsten sind Bettler u.s.w. nicht das Ganze
(frammenti scorporati come “i principi sono accattoni”, ecc., non tutto quanto)

In effetti era proprio all’epoca della Settima e dell’Ottava che Beethoven


stava pensando di incorporare i versi di Schiller in un lavoro strumentale, e di lì
in poi l’idea di rivolgersi ancora a quel poema (ora nella versione edulcorata del
1803) sembra cominciare a fondersi con i suoi pensieri relativi a una nuova
sinfonia.

Messa e sinfonia
Nel marzo 1819, apprendendo della nomina di Rodolfo ad Arcivescovo,
Beethoven gli scrive: «se penso a quanto largo sarà il raggio d’azione che si
offrirà in tal modo a Lei e alle Sue alte e nobili qualità, non posso che
aggiungere anch’io le mie congratulazioni alle molte altre che V.[ostra] A.
[ltezza] I.[mperiale] ha già ricevuto»30. Nella stessa lettera Beethoven, in
qualità di severo maestro, critica una serie di variazioni scritte da Rodolfo su un
tema che gli aveva assegnato tempo prima. Poi Beethoven propone di
continuare a essere il suo insegnante di composizione «non appena gli impegni
di V.[ostra] A.[ltezza] I.[mperiale] lo permetteranno». E poi viene alla
questione più importante
V.[ostra] A.[ltezza] I.[mperiale] può esplicare la sua creatività sia per la felicità e la salute di tante
persone sia per se stesso, creatori di musica e dispensatori di felicità sono finora mancati nel mondo
degli attuali monarchi.

I modi e lo stile sono significativi. Rodolfo è un membro della casa imperiale


austriaca ed è appena stato elevato ad un alto rango ecclesiastico, ma
Beethoven gli sta dicendo che non dovrebbe abbandonare le sue doti creative
diventando arcivescovo, poiché il suo lavoro artistico è altrettanto prezioso
della sua imminente carriera di alto prelato. Poco più tardi Beethoven scrive
che «gli austriaci sanno ormai che lo spirito di Apollo è risuscitato nella
dinastia imperiale»31. Il senso di questi messaggi era che l’arte, non il potere
sociale o politico, è la via maestra per l’immortalità, e che lui, Beethoven,
poteva guidare Rodolfo lungo quella strada tortuosa.
Questa prospettiva ci aiuta a capire lo spirito che sta dietro alla Missa
Solemnis e, per estensione, a quelle parti del finale della Nona Sinfonia che
fanno riferimento a Dio e alla ricerca della salvezza da parte dell’umanità.
Avendo accettato di scrivere una Messa per quella particolare occasione,
Beethoven voleva realizzare un lavoro del più alto livello creativo, un’opera di
importanza universale che nobilitasse il genere e che in qualche modo stabilisse
una controparte moderna della Messa in si minore di Bach. E tutto ciò si
verificava in un periodo in cui molta musica da chiesa era bersaglio di critiche
per aver adottato uno stile teatrale, ossia operistico: una posizione presa
esplicitamente da E.T.A. Hoffmann in un famoso articolo del 181432.
Diversamente dalla sua precedente Messa in do maggiore del 1807, questa
nuova messa offriva a Beethoven un fertile terreno su cui coltivare il suo
sempre più forte interesse per la musica antica. La Missa Solemnis contiene
molto simbolismo musicale, usando, nel suo mettere in musica frasi e parole-
chiave, venerandi artifici retorici che risalgono al Rinascimento e al Barocco33.
E certi simboli, soprattutto quelli della Divinità, compaiono sia nella Messa, sia
nel finale della Nona34.
Dietro alla Messa c’è una stratificazione di intenzioni, ma tra tutte
Beethoven ne rende esplicite due. Nel 1821 scrive a Rodolfo (nella lettera già
citata) esprimendogli la propria intenzione di «diffondere i raggi della Divinità
sul genere umano». Nel 1824 scrive all’amico Johann Andreas Streicher che «lo
scopo principale che mi sono prefisso componendo questa grande Messa è stato
di suscitare sentimenti religiosi e renderli durevoli sia nei cantanti sia negli
ascoltatori»35. Per dirla con Maynard Solomon:
Il lavoro che ne risulta [la Missa Solemnis] è un amalgama di stili arcaici e moderni, più
profondamente radicato nelle tradizioni del passato di ogni altro lavoro di Beethoven, ma conservando
lo slancio grandioso ed energico di un sinfonismo che germina dallo stile sonatistico.36

La fede religiosa di Beethoven trova la sua espressione più alta in questa


Messa. Nel comporre la Nona Sinfonia, radicata nella sua mente mentre per
quattro anni era stato così profondamente impegnato con la Messa, Beethoven
pervenne ad una visione parallela. È evidentemente ispirato agli ideali laici di
fratellanza umana espressi nell’Ode di Schiller e nella stessa idea di canto
comunitario – ma la scelta di versi tratti dell’Ode, e il modo in cui li tratta,
rendono evidente che l’uomo può raggiungere la propria condizione ideale, il
suo Elisio, mentre riconosce la presenza, ancora più alta, di Dio. Nel passaggio
più solenne del finale della Nona, per coro senza voci soliste, Beethoven mette
in musica questa parte dell’ “Ode alla Gioia”:
Vi inginocchiate, o voi, milioni?
Avverti la presenza del tuo Creatore, o mondo?
Cercalo al di sopra della volta stellata:
Certamente dimora al di sopra delle stelle!

Non è un caso che Beethoven, quando colloca questi versi nel finale, passi
dal precedente Andante maestoso (che comincia con «Abbracciatevi,
moltitudini – questo è un bacio al mondo intero!» ecc.) al più lento Adagio ma
non troppo ma divoto. A quanto mi risulti questa è la sola circostanza in cui
usa il termine “divoto” in un’indicazione di tempo. In tutta questa sezione le
armonie modali si inframmezzano al familiare linguaggio tonale del resto del
finale, e insolite giustapposizioni di pianissimo e fortissimo proiettano
improvvisamente in primo piano certe parole, come quando l’intero coro,
preceduto e seguito da pause, esclama di colpo “Welt” (mondo)37. E tutto questo
straordinario passaggio finisce con le voci del coro che cercano Dio «al di sopra
delle stelle» mentre insieme con l’intera orchestra – che suona pianissimo e in
registri acuti – tengono lungamente un accordo di settima di dominante, e
intanto proclamano la presenza di Dio in Cielo con le parole «Certamente
dimora al di sopra delle stelle» («Űber Sternen muss er wohnen»)38.

La “Nona”: uno sguardo generale


Lo struttura della Nona è la seguente
La forma complessiva della Nona è ovviamente ancora quella del
tradizionale ciclo in quattro movimenti che Beethoven aveva ereditato dai suoi
predecessori. Ma qualsiasi serio approccio a questo lavoro gigantesco deve fare
i conti con l’universale appropriazione della melodia della sua “Ode alla Gioia”,
che in epoca moderna ha acquisito vita propria a un punto tale che per
qualcuno le sue origini, in una sinfonia scritta quasi duecento anni fa, possono
apparire non più di una curiosità storica. Durante l’ultimo secolo l’Ode è
divenuta una melodia popolare, intonata nel corso di eventi sociali e politici su
ampia scala non solo nell’Unione Europea – di cui è l’inno ufficiale – ma anche
in altri paesi, tra i quali la Cina e il Giappone. I mezzi di comunicazione del
nostro tempo celebrano gli usi di questa melodia in diversi contesti, e alcuni,
per iscritto o verbalmente, ne identificano continuamente il tema come il tema
non dell’”Ode alla Gioia”, ma proprio della “Nona Sinfonia”, talvolta senza fare
riferimento ai movimenti precedenti, o alla sinfonia nel suo insieme39. Per i
nostri scopi, quindi, sembra più importante che mai offrire un breve sguardo
generale al lavoro considerandolo un tutto unico, e un’occhiata alla Nona come
realizzazione dell’atteggiamento estetico di Beethoven e come sua ultima
parola in questo genere.
Il primo movimento
La sinfonia inizia in un alone di mistero. Un grumo di suono emerge dal
silenzio, dapprima con quinte vuote (create dai corni con violini e violoncelli
nel registro grave, tutti pianissimo) che restano armonicamente indeterminate,
per quanto sembrino suggerire la tonalità di la minore. Il movimento ha
l’indicazione 2/4, Allegro ma non troppo e un poco maestoso, ma un senso di
profilo e di forma si materializza solo poco per volta, quando frammentarie
figure di due note discendenti cominciano a delineare in modo vago unità di
quattro battute40. Emerge quindi un nucleo di suono orchestrale che passa da
pianissimo a fortissimo, con gli strumenti che entrano in registri
progressivamente più acuti, finché all’ultimo momento i fagotti vanno a un re
grave che segnala la tonalità di re minore, immediatamente prima
dell’esplosione a tutta forza del grande tema. Sembra qualcosa di simile al
processo compositivo stesso, dal presagio alla concretizzazione.
Per quanto in effetti sia un’introduzione, l’apertura pre-tematica della
sinfonia ha suscitato opinioni contrastanti: se debba essere inteso come un
prologo o se invece, come dice Tovey, ci «scaraventi nel bel mezzo delle
cose»41. In un certo senso si tratta di entrambe le cose, ed è illuminante scoprire
che nei primissimi abbozzi Beethoven non cominciava con il tema principale,
ma con i brevi frammenti che ne precedono la prima completa esposizione,
dimostrando così che l’idea di costruire il tema aggregandone le particelle e di
far entrare gli strumenti uno alla volta era ben chiara nella sua mente fin
dall’inizio42. Per di più l’ampia forma drammatica del primo movimento è
definita immediatamente dalla graduale crescita che collega l’“introduzione”
(bb. 1-16) al gigantesco tema principale, con la sua discesa attraverso le note
della triade di tonica e la possente figurazione di chiusura, che finisce con una
quinta discendente a risolvere sulla tonica re (cfr. Esempio Web U).
Ciò che accade dopo è veramente rivoluzionario rispetto alle prassi
beethoveniane relative all’esposizione. Anziché ripetere il tema principale dopo
la sua prima apparizione, come nel primo movimento dell’Eroica, o procedere
direttamente a una transizione che prepari l’arrivo del secondo gruppo
tematico, Beethoven torna subito alle quinte vuote dell’Introduzione, ancora
pianissimo ma, questa volta, con le note re e la, la quinta vuota dell’accordo di
tonica. Ancora una volta costruisce una struttura sonora che si eleva dal
registro grave a quello acuto, facendo entrare progressivamente gli strumenti.
Ancora una volta crea un enorme crescendo da pianissimo a un immenso
fortissimo, e a questo punto il tema principale ritorna a tutta forza, ma questa
volta nella tonalità di si bemolle maggiore.
E così la forma generale del primo movimento scaturisce da questo iniziale
contrasto di due ampie proposizioni – la prima inizia con un passaggio
curiosamente ambiguo dal carattere indeterminato, culmina nel tema principale
in re minore; la seconda riespone il passaggio a un differente livello tonale e
arriva nuovamente al tema principale, ma questa volta in una tonalità
maggiore. La giustapposizione di queste due tonalità, re minore e si bemolle
maggiore, si svilupperà nel dramma del primo movimento. A tutto ciò si
aggiunge la conclusiva anticipazione di un re maggiore che si concretizzerà,
molto tempo dopo, come tonalità dell’“Ode alla Gioia”43.
Da qui in poi il movimento si svolge in maniere complesse, portando,
attraverso nuove figure di transizione, alla sua principale esibizione di soggetti
contrastanti: di questi, alcuni incorporano riferimenti ritmici all’introduzione e
al tema principale, altri no. Le singole idee tematiche sono spesso assai
complesse per profilo, articolazione, schemi accentuativi, indeterminatezza –
più da musica da camera che da sinfonia. Cadenze nette e risolute non se ne
trovano se non nei punti di più forte definizione strutturale.
La libertà con cui Beethoven affronta la forma non potrebbe essere più
evidente che alla fine dell’esposizione, dove, per la prima volta in un suo primo
movimento, non troviamo la doppia stanghetta e il segno di ritornello44.
Beethoven apre invece la sezione di sviluppo tornando ancora una volta alla
sussurrante introduzione, sempre sulle note la e mi, il che per un istante lascia
intendere che potrebbe, dopo tutto, rispettare la tradizionale ripetizione
dell’esposizione. Ma questa volta il percorso armonico dirotta verso la tonalità
di sol minore, da cui prende avvio la vera e propria sezione di sviluppo45.
E così il vasto svolgimento del primo movimento emerge dal contrasto tra la
misteriosa introduzione e il tema principale che le fa seguito – un tema che
sembra in qualche modo scolpito nella roccia – e poi dalla ripetizione della
medesima coppia di elementi contrastanti, con un cambiamento di tonalità. Lo
sviluppo comincia con un ulteriore ritorno dell’introduzione, che viene
modificata nel momento in cui prosegue, e che porta in una nuova direzione.
Tutto ciò prepara l’ascoltatore attento per quanto accadrà nella ripresa, dopo
che l’ampia sezione di sviluppo avrà fatto il proprio complicato corso. Il quale
include un episodio fugato e un accumulo di energia nel momento in cui
Beethoven prepara la comparsa dell’introduzione nella ripresa, dove per una
volta ritorna in una condizione completamente trasformata.
“Condizione trasformata” è un eufemismo. La ripresa inizia con l’accordo di
tonica di re maggiore, fortissimo a piena orchestra con il fragore dei timpani –
tuttavia l’accordo di re maggiore non è allo stato fondamentale, ma in primo
rivolto, con il fa diesis al basso – e gli archi gravi che si muovono spaziando su
tre ottave, mentre legni e ottoni tengono le note dell’accordo con tutta la loro
forza. È un passaggio dalla furia e dall’energia senza precedenti nella storia
della musica per orchestra. Viene in mente, a questo proposito: «Cielo e Terra
tremeranno quando verrà eseguita».
Questo straordinario passaggio della ripresa ha suscitato colorite metafore.
A.B. Marx, uno dei primi critici di Beethoven, lo paragonò a «uno spaventoso
fantasma»; Tovey lo vide come un «ritorno catastrofico» nel quale osserviamo
«il firmamento in fiamme»46. In epoca moderna, quando politica e ideologia
hanno finito per prevalere in molta critica musicale – come nella “nuova
musicologia” – alcuni hanno assunto questo passaggio come rappresentativo
della potenza e della violenza che vorrebbero collegare in senso generale a
Beethoven, partendo dal presupposto che tutta l’arte, con la sua estetica e le
sue spiegazioni analitiche, sia intrinsecamente una questione ideologica,
indipendentemente dal fatto che se ne sia o meno consapevoli47.
E a proposito di questa famosa ripresa Leo Treitler fa riferimento,
eloquentemente, allo «shock di un nuovo inizio che non ci scivola addosso, ma
nel quale siamo trascinati a viva forza». E David Levy scrive che «mai, prima,
un compositore aveva destabilizzato questo fondamentale snodo formale [la
ripresa] come fa Beethoven con la sua triade di re maggiore in primo rivolto
[…] mai, prima, un accordo maggiore aveva avuto un suono così
apocalittico!»48.
Ascoltando questa notevole ripresa non come un evento isolato ma
contestualizzandola nell’intero movimento, ne ricaveremo una visione più
approfondita. Il punto principale, qui, è che questa versione fortissimo
dell’introduzione è la quarta e ultima comparsa del passaggio di apertura. Le
prime due presentazioni delle quinte vuote, all’inizio del movimento, erano
iniziate pianissimo per poi culminare con il tema principale fortissimo (ogni
volta in una tonalità differente). La terza volta questo passaggio inizia lo
sviluppo, ancora una volta cominciando dolcemente e poi mantenendo a lungo
un livello dinamico tenue, anche durante la ripresa del tema principale in sol
minore. Ma ora, in questo gigantesco ritorno nella ripresa, Beethoven lo rende
quanto più possibile differente per forza, livello dinamico, armonia,
strumentazione e carattere. E pertanto può e deve essere inteso come
l’immenso punto culminante delle prime tre presentazioni – quanto era stato
un sussurro misterioso, ora è un immenso boato. Questa volta, quando
ricompare, il tema principale prosegue fortissimo, ma è anche sostenuto nel
basso da una versione ascendente dei suoi intervalli, proposti per moto
contrario: una contro-presentazione che muove in senso ascendente mentre il
tema muove in senso discendente49. In sostanza, le introduzioni formano una
serie di presentazioni correlate, distribuite nell’arco dell’intero movimento,
ciascuna delle quali inizia una delle principali sezioni. Scopriremo che lo stesso
vale per la sinfonia nel suo insieme – ciascuno dei quattro movimenti è aperto
da un’introduzione, un po’ come fossero quattro atti di un dramma – ma anche
che ciascuna delle introduzioni è integrata nell’insieme del movimento.
È praticamente impossibile non collegare l’immensa effusività della ripresa
del primo movimento con quanto sappiamo del turbolento mondo interiore di
Beethoven, che traspare con tanta forza dalla sua vita sregolata così come dalle
sue lettere e dal Tagebuch, nei quali tanto a lungo aveva espresso il suo
tormento per la sordità e i suoi ricorrenti pensieri suicidi. Si veda questo
passaggio del Tagebuch:
Chi è afflitto da una malattia che non solo non può cambiare, ma che poco per volta lo porta vicino
alla morte, e senza la quale la sua vita sarebbe durata di più, dovrebbe pensare che avrebbe potuto
morire ancora prima, assassinato o per altre cause. Oh, beato chi – [la frase è rimasta incompiuta].50

e questo passaggio dalla lettera all’“Immortale Amata”, nel quale lamenta la


sua assenza e scrive:
Ho il cuore che scoppia di cose da dirti – Ah – ogni tanto penso che le parole non siano in grado di
esprimere nulla - 51

Secondo Movimento: Molto vivace


Nell’ultimo stile di Beethoven colpisce particolarmente la portata
dell’immaginazione creativa infusa negli Scherzi, i movimenti in cui forma
complessiva, metro, e regolarità di ritmo e fraseggio sono maggiormente
vincolati dalla tradizione. Per quanto a questo punto Beethoven avesse
ampiamente abbandonato il termine “Scherzo”, conservò i lineamenti
fondamentali del genere, e nella maggior parte dei casi mantenne lo Scherzo
nella sua tradizionale collocazione tra il movimento lento e il finale. Che nella
Nona Sinfonia si trovi in seconda posizione, seguito dall’Adagio, è una novità
per una sua sinfonia, per quanto avesse già adottato questa soluzione nel
Quartetto op. 59 n. 1, nel Trio “Arciduca” op. 97, e nelle due recenti sonate per
pianoforte op. 106 e op. 110. In ciascuno di questi casi la ricollocazione dello
Scherzo gli consente di creare un collegamento espressivo col finale al termine
del movimento lento52.
I suoi scherzi dell’ultimo periodo hanno tipicamente un tempo molto rapido,
e per dimensioni possono variare dal minuscolo (per es. il Quartetto op. 130)
all’immenso (lo Scherzo della Nona), e possono avere tanto la tradizionale
forma in tre quanto quella in cinque parti53. Che lo Scherzo della Nona Sinfonia
sia in tre parti non gli impedisce di essere il più lungo movimento di questo
tipo mai scritto da Beethoven – prima della Nona, o dopo – con le sue
dimensioni che, se vengono rispettati tutti i segni di ritornello, lo portano a
raddoppiare quelle dello Scherzo della Settima Sinfonia. L’indicazione “Molto
vivace”, qui, indica un tempo forse un po’ più rapido del “Vivace” dello Scherzo
del Quartetto op. 135, ma forse non così rapido come il “Presto” dei quartetti op.
130 e op. 131.
La sua portata non è meramente una questione di lunghezza, ma di
concentrazione di mezzi estesa in un ampio arco temporale. È un po’ come se
Beethoven avesse voluto dare a questo Scherzo la stessa statura del primo
movimento, anche se non poteva averne la stessa complessità discorsiva. Uno
dei mezzi attraverso i quali consegue questo risultato è l’adozione di uno
schema formale sonatistico, con un secondo gruppo in do maggiore, utilizzando
come mezzo di contrasto un Trio molto più breve in re maggiore (2/2, Presto)
dal carattere completamente differente. Beethoven si conforma alla
consuetudine ripetendo completamente lo Scherzo, ma sostituisce la coda
originale con una nuova. Alla fine, con uno spettacolare colpo di scena, simula
una ripetizione del Trio, ma lo interrompe improvvisamente nel bel mezzo di
una frase, inserisce una battuta di pausa e conclude con tre battute di cadenza
ff – le stesse tre battute con le quali il Trio, alla sua prima apparizione, era
cominciato. Un ascoltatore attento può accorgersi facilmente che queste battute
cadenzali usano le stesse due note discendenti, la e re, che avevano cominciato
lo Scherzo, cosa che fa riferimento, ancora più indietro, all’inizio della sinfonia
stessa54.
Un altro modo in cui Beethoven rende più profonda la sostanza musicale è
quello di aprire l’esposizione dello Scherzo con una fuga a cinque parti sul tema
iniziale di quattro battute. Nel periodo classico la scrittura fugata era stata
usata come una tecnica particolare, ma nel mondo dell’ultimo Beethoven
assume grande importanza, non solo nei finali fugati, ma anche in molti altri
lavori. Non possiamo dimenticare che dietro questa sinfonia stanno le immense
strutture contrappuntistiche del Gloria e del Credo della Missa Solemnis55.
Poiché ogni movimento di questa sinfonia deve avere un’introduzione,
quella dello Scherzo si basa sul famoso gesto di apertura di otto battute nel
quale compaiono in ordine discendente le note di una triade di re minore (re-la-
fa-re), ciascuna delle quali dà vita a una figurazione dattilica, ma con una
discontinuità ritmica inedita56. Le prime due enunciazioni sono interrotte da
pause; la terza, sulla nota fa, è inaspettatamente collocata nel registro grave, ai
timpani; e la figura conclusiva, sul re, è enunciata praticamente da tutta
l’orchestra, ed è poi seguita da altre due battute di pausa.
Il ruolo dei timpani nell’introduzione preannuncia la loro importanza più
avanti, specialmente nella sezione di sviluppo, dove Beethoven costruisce un
lungo segmento con l’indicazione “Ritmo di tre battute” [in italiano] in cui i
timpani hanno la parte principale; la loro presenza continua comunque a essere
percepita anche quando la struttura della frase ritorna a unità di quattro
battute. Oltre a tutto il resto, l’ascoltatore è catturato, da cima a fondo, nel
rapinoso moto dello Scherzo, che martella inesorabilmente le proprie figure
dattiliche salvo quando lascia il posto al più pacato metro binario del Trio, per
riprendere poi il proprio forsennato moto propulsivo nello “Scherzo da capo”
finché, proprio alla fine, l’interruzione finale conclude il tutto sbattendo la
porta.

Terzo Movimento: Adagio molto e cantabile


Dopo il primo movimento, profondamente tragico, e il dinamico Scherzo,
entriamo in un regno di profonda bellezza melodica, tempo tranquillo e tutto
quanto d’altro Beethoven suggeriva con la parola “cantabile” [in italiano]57. La
scelta della tonalità, si bemolle maggiore, rappresenta un’oasi di pace dalle
tempeste tonali, soprattutto in minore, che hanno predominato fino a questo
punto. I movimenti tonali contrastanti, che si espandono attraverso
modulazioni, avvengono verso altre tonalità maggiori – re maggiore prima, poi
sol maggiore per il “secondo tema” (Andante); poi mi bemolle maggiore, e
infine la remota tonalità di do bemolle maggiore nella quale avviene una
diversione verso la conclusione del movimento. Il fatto di evitare l’alternanza
maggiore/minore ricorda vagamente la Sinfonia “Pastorale”, prima del
temporale, ma l’atmosfera in questo Adagio è quella di un universo di pensiero
e di sensazioni musicali nel quale l’espressione melodica è fondamentale
dall’inizio alla fine. Beethoven è troppo poco apprezzato come compositore
melodico a causa del possente carattere sviluppativo di tanta sua musica, ma in
effetti, come scrisse in una lettera del 1825, la sua fondamentale sensazione era
che «la melodia deve sempre prevalere su tutto il resto»58.
Le opinioni circa la forma di questo movimento sono contrastanti. Per
Schenker si tratta di un «movimento in forma di variazioni, per quanto con una
struttura particolare»; per Tovey è un «tema con una alternativa e variazioni»;
per Levy una «sonata-rondò con riprese variate», e per Nicholas Cook è un
tipo particolare di «doppia variazione»59. Io lo vedo come un libero
adattamento dello schema di variazioni alternate che Haydn aveva adottato in
alcuni dei suoi tardi lavori, in particolare la Sinfonia “Col rullo di timpani” n.
103. In precedenza Beethoven aveva impiegato in modi magistrali l’alternanza
di due temi principali nell’Andante della Quinta Sinfonia e nel Trio con
pianoforte in mi bemolle maggiore op. 70 n. 2; in seguito gli avrebbe conferito
la sua impronta più personale nel Quartetto in la minore op. 132, nella
“Canzona di ringraziamento”, dove il tema principale si alterna due volte con
un tema in re maggiore con l’indicazione “Sentendo nuova forza”.
Per quanto è attualmente noto circa la genesi di questo movimento – e
siamo ben lontani dal disporre in edizioni autorevoli di tutto il materiale
preparatorio – si direbbe che Beethoven abbia lavorato intensamente
all’Adagio nel 1823, dopo il lavoro preliminare per lo Scherzo. Il primo tema
dovette essere sviluppato in varie fasi, mentre lo splendido tema alternativo,
sempre Andante e in 3/4, fu completamente definito fin dall’inizio. Le
successive elaborazioni del tema principale, quando ritorna in momenti
successivi nella tonalità d’impianto, sono variazioni ornamentali
magistralmente cesellate. Si tratta di un’altra concretizzazione del profondo
amore di Beethoven, negli ultimi lavori, per i movimenti lenti in forma di
variazioni: tra questi ricordiamo la Sonata per pianoforte op. III, le sezioni in
tempo lento delle Variazioni “Diabelli”, e i movimenti interni dei quartetti op.
127, op. 131 e op. 135.
La grande sorpresa, qui, viene dal lungo passaggio posto tra la seconda
presentazione del tema “alternativo” (in sol maggiore) e l’ultima variazione del
tema principale. Questa sezione, che comincia in mi bemolle maggiore, si
avventura nella remota tonalità di do bemolle maggiore prima di ritrovare il
percorso di ritorno alla tonalità d’impianto – si bemolle maggiore – per la
sezione successiva. Il suo timbro strumentale non ha paragoni. Comincia con
l’attacco del tema principale al clarinetto solo, sostenuto dagli archi gravi, poi
un corno (il quarto, non si sa per quale motivo) assume il ruolo di voce
principale. È un passaggio senza precedenti nei lavori sinfonici di Beethoven:
come scrive Levy, a questo proposito, «la sua bellezza ultraterrena sembra
proteggere l’ascoltatore da ogni possibile danno»60.
Berlioz scrisse che, se i movimenti in tempo rapido di Beethoven sono
quantomai grandi e comprensibili, i suoi Adagio (e si riferiva anche a quelli
delle sonate per pianoforte e della musica da camera) sono come «meditazioni
sovrumane»61. Forse Berlioz stava pensando – oltreché a questo Adagio – ai
movimenti lenti della Quarta Sinfonia, del Concerto “Imperatore”, del Quartetto
in mi bemolle op. 74, della Sonata per violino in sol maggiore op. 96 e del Trio
“Arciduca” in si bemolle maggiore op. 97 – i quali tutti evocano ciò che
Wordsworth nella sua Ode all’Immortalità definiva «pensieri che talvolta sono
davvero troppo profondi per le lacrime».

Il Corale finale
Per quanto, tra quelli di tutte le sinfonie di Beethoven, possa essere questo il
movimento di cui si è discusso più approfonditamente, non è solo in virtù della
melodia dell’“Ode alla Gioia” che il corale finale rimane aperto a nuovi
approfondimenti. Il movimento scaturisce da differenti elementi che vi
confluiscono in un modo inusitato. Per costruire il finale, Beethoven ha dovuto
conciliare il suo ruolo di elemento strutturale conclusivo con le sue inusuali
caratteristiche di forma e contenuto in quanto ibrido vocale-strumentale. Ha
dovuto trovare il modo di costruire una narrazione drammatica per mezzo della
quale potesse giustificare l’introduzione di voci, collocare il tema “Freude”
nell’adatto contesto poetico e procedere con le sue variazioni introducendo
anche il principale tema contrastante per i cori religiosi (“Seid umschlungen
Millionen!”). E infine ha dovuto incorniciare efficacemente l’insieme
combinando questi due temi principali in una eccitante sezione conclusiva di
grande lunghezza ed eloquenza.
Questi sono solo i maggiori tra i problemi che Beethoven ha dovuto
affrontare, e certo dovette lavorare duramente alla macrostruttura del finale e a
ciascuno dei suoi componenti, inclusa la forma melodica dello stesso tema
dell’“Ode alla Gioia”. Alcuni di questi sforzi sono già stati messi in luce dai
primi commentatori, ma ancora oggi l’ampia mole di abbozzi per il finale
attende di essere raccolta, trascritta e resa disponibile. Comunque ora siamo in
grado di dipingere almeno una panoramica generale, per quanto restino da
definire alcuni dettagli.

Un progetto preliminare per l’introduzione


Beethoven fece il grosso del lavoro per il finale nell’estate 182362. I suoi
quaderni di appunti ce lo mostrano completare i primi abbozzi per la melodia
dell’“Ode alla Gioia” e lavorare per trovare un modo convincente di far entrare
in gioco le parti vocali in questo finale sinfonico. Un notevole documento
iniziale di questo processo è un progetto verbale e musicale preliminare che
Beethoven scrisse mentre valutava il modo migliore di introdurre il testo di
Schiller in questo movimento63. Questa traccia verbale-musicale è mostrata
nell’Esempio 10.
Per leggere questo documento in modo intelligente – dato che si tratta
chiaramente di un grezzo e ingenuo tentativo iniziale di inquadrare
l’introduzione del finale – anziché disprezzarne il linguaggio diretto e naïf
dobbiamo accettare il fatto che questi passaggi, come sottolineò Nottebohm
quando li pubblicò per la prima volta, «non sono stati scritti per noi»64.
Rappresentano la prima idea di Beethoven su come aprire il movimento, con un
dialogo tra l’orchestra e la voce solista del basso. Comincia con la “fanfara
dell’orrore”. Poi il basso proclama che «oggi è un giorno solenne» che
dovrebbe essere celebrato con un canto. Segue una serie di brevi reminiscenze
dei primi tre movimenti, ciascuno dei quali è di volta in volta rifiutato dal basso
con parole scritte da Beethoven. Il basso dichiara che il breve estratto del primo
movimento «ci ricorda la nostra disperazione» e che «ciò che io voglio è
qualcosa di più piacevole». Dopo il frammento dello Scherzo canta «Oh, no!
Neppure questo: non è migliore, ma solo un po’ più vivace». E dopo il
frammento dell’Adagio respinge anche il tema del movimento lento, dicendo
che «anche questo non va bene, è troppo tranquillo, mi serve qualcosa di più
animato». Infine, quando appare la melodia “Ode”, il basso esulta – «Ecco! Sì,
adesso ci siamo!». E così ciascuno di quei rifiuti prepara la strada per la
melodia “Ode”, e ciascuna breve frase verbale, per quanto apparentemente
elementare nell’espressione, offre un’occasione unica di comprensione del
modo in cui Beethoven intende caratterizzare i primi tre movimenti della Nona
Sinfonia in relazione al finale, e della sua esultanza all’arrivo della melodia
capace di trasmettere il messaggio di Schiller.
Es. 10. Traccia musicale-verbale di partenza dell’introduzione del finale della Nona Sinfonia.
Fonte: Berlin Landberg 8/2, da N II, p. 190 sgg.

L’intero ampio abbozzo rappresenta il modello fondamentale di ciò che poi


Beethoven avrebbe fatto quando decise di realizzare, per la versione definitiva,
una doppia introduzione: la prima puramente strumentale, la seconda con il
basso solista. Nella prima, in effetti, violoncelli e contrabbassi intonano
segmenti di recitativo dopo ogni citazione dei movimenti precedenti. Questi
passaggi negli archi gravi hanno il carattere di un discorso virtuale. Poi, dopo
che la melodia “Ode” e la sua prima variazione sono state eseguite
dall’orchestra, la voce del basso entra in scena in modo spettacolare con le
famose parole «Amici, non questi suoni […]». Il resto del finale poi si snoda
virtualmente come una cantata, con le voci dei solisti e del coro che si
inseriscono tra le restanti variazioni della melodia “Ode” introducendo la
sezione corale “Seid umschlungen, Millionen” con il suo senso di mistero, per
poi combinare le due grandi melodie in una doppia fuga e concludere con una
gigantesca perorazione.

La melodia dell’“Ode alla Gioia”


Questa melodia, il più celebre singolo motivo di Beethoven, non scaturì già
formato dalla sua immaginazione, ma attraversò varie fasi di gestazione, come
molte altre sue idee tematiche degli anni precedenti. In un affascinante studio
sulla sua evoluzione Robert Winter distingue ben diciannove stadi nella
«forgiatura di questo sintetico canto popolare»65. Propongo una primitiva
versione della melodia nell’Esempio Web V.
Perfino da questi pochi esempi è possibile trarre delle conclusioni generali.
Il principale obiettivo di Beethoven era costruire una melodia che fosse
memorabile e facile da cantare grazie alla sua energia e alla sua semplicità.
L’intera melodia, che si incasella facilmente in frasi di quattro battute, ha
un’estensione di una sola ottava e procede, pressocché sempre, essenzialmente
per gradi congiunti, cosa che consente di adattare il testo alla musica
assegnando una nota ad ogni sillaba, con solo tre piccole coppie di crome
infilate nella seconda parte della melodia. In tutta la melodia c’è un solo
slittamento ritmico a causa di una sincope lievemente accentata, e
precisamente sulla prima sillaba della frase più importante, «Al-le Men-schen
wer-den Brü-der» (per la forma definitiva della melodia cantata cfr. Esempio
Web W).
Certi autori hanno collegato questa melodia con lo stile popolare del
periodo classico maturo. Beethoven, come Haydn e Mozart, era ben al corrente
di quanto avveniva nel mondo della musica popolare e aveva una profonda
conoscenza tanto delle tradizioni folkloriche europee quanto delle
composizioni classiche che utilizzavano melodie semplici e trasparenti. I suoi
arrangiamenti di canti popolari includevano adattamenti di canti non solo
scozzesi, irlandesi e gallesi, ma anche di altre nazioni, dalla Spagna alla Russia,
e in varie lingue66. Aveva incluso elementi dello stile popolare in non poche sue
composizioni del rango più elevato, non solo in momenti di musica quasi-a-
programma come la danza contadina nello scherzo della Sinfonia “Pastorale”,
ma anche nell’uso che fece occasionalmente di altri tipi di danza, come nella
contraddanza che usò nel finale dell’Eroica e nel valzer nello Scherzo del Trio
“Arciduca”.
Per il suo stile e la sua finalità la melodia “Freude” manifesta una parentela
con gli inni nazionali del tardo XVIII e del primo XIX secolo. In questo periodo
stavano nascendo vari inni nazionali come espressione musicale comune di
identità politiche collettive. Nel periodo successivo alla Rivoluzione Francese si
diffusero le esecuzioni all’aperto da parte di grandi masse di esecutori, mentre
compositori come Gossec e Méhul componevano inni che celebravano lo
spirito rivoluzionario dell’epoca67. Alla musica destinata a celebrazioni civili e
nazionali si sovrapponevano in parte i canti di marcia militari scritti o adattati
per gli eserciti europei, e le marce militari strumentali eseguite dalle bande che
accompagnavano le truppe sui campi di battaglia.
Il britannico “God save the King”, il primo inno nazionale conosciuto, era
popolare dagli anni 1740, anche se il suo motivo potrebbe essere più antico. In
effetti la sua melodia era usata in altri paesi anche nel XIX secolo – e Beethoven
la conosceva molto bene, come testimoniano le sue giovanili variazioni per
pianoforte68. Tutti conoscevano “La Marseillaise”, il più famoso canto di marcia
mai scritto, composto da Rouget de Lisle nel 1792 e presto impiegato come
Chant de guerre pour l’Armée du Rhin. Nel 1797, per competere con “La
Marseillaise” e suscitare l’entusiasmo degli austriaci per la guerra contro la
Francia, Haydn aveva scritto il suo inno patriottico sulle parole Gott erhalte
Franz den Kaiser, che anche Beethoven citò in un canto per basso e coro scritto
nel 1815 per il dramma di Treitschke Die Ehrenpforten, uno spettacolo destinato
a rendere onore al trionfo dell’Europa (ma specialmente dell’Austria) su
Napoleone69. Nel 1809, l’anno dell’occupazione di Vienna da parte dei francesi,
abbozzò una melodia militare innodica su parole del poeta Heinrich von Collin,
intitolata Ősterreich über alles (Austria al di sopra di ogni cosa)70.
È verosimile che mentre formulava la melodia “Ode” Beethoven stesse
riflettendo sulla sua esperienza di musica scritta espressamente per il canto
comunitario in contesti politici e nazionali, e che la formazione del tema
rispecchiasse la sua ambizione di creare una sorta di inno sovranazionale che
potesse esprimere la fratellanza universale, anziché sentimenti di nazionalismo
sciovinista. La successiva diffusione della sua melodia in tutti gli ampi contesti
in cui oggi è conosciuta, non solo nel mondo occidentale, ma a livello mondiale,
è uno stupefacente e raro esempio del potere della musica di abbracciare il
mondo intero e di penetrare nella coscienza di milioni di persone – proprio
come doveva aver sognato Schiller.

1
AMZ, XXVIII (1826), p. 310. Cfr. BML, 460.
2
Igor Stravinsky e Robert Craft, Dialogues and a Diary, Garden City, Doubleday and Co. 1963, p. 24.
3
Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, trad. it. L. Lamberti, a cura di R. Tiedman,
Torino, Einaudi 2001, p. 142, p. 192 (ed. orig. Beethoven. Philosophie der Musik. Fragmente und texte,
Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag 1993).
4
Briefe, n. 1438.
5
Briefe, n. 585.
6
Briefe, n. 1318 del 29 luglio 1819.
7
Tagebuch, n. 43.
8
Tagebuch, n. 119 (1817).
9
Cfr. Briefe, n. 1129 e Letters to Beethoven and Other Correspondence, a cura di T. Albrecht, 3 voll.
Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1996, II, n. 239.
10
Beethoven a Ries, 9 luglio 1817; Briefe, n. 1140.
11
Per un esauriente studio delle Variazioni “Diabelli” cfr. William Kinderman, Beethoven’s Diabelli
Variations, Oxford, Oxford University Press 1987.
12
Questo tema in re minore è uno di quelli che Beethoven stava prendendo in considerazione anche
per il finale della sua progettata sinfonia in do minore (destinata poi a diventare la Quinta). Cfr. William
Meredith, Forming the New from the Old: Beethoven’s Use of Variation in the Fifth Symphony in Beethoven’s
Compositional Process, a cura di W. Kinderman, Lincoln, NE, University of Nebraska Press 1991, p. 109. Per
l’abbozzo in re minore intitolato “Sinfonia” cfr. ESk, p. 177, e Commentario, p. 82.
13
Princeton, Scheide Sketchbook, p. 51. Per il facsimile e un commento cfr. Sieghard Brandenburg, Die
Skizzen zur Neunten Symphonie in Zu Beethoven 2 a cura di H. Goldschmidt, Berlin, Verlag Neue Musik
1984, p. 91 e Fig. 5.
14
Testo originale: “Sinfonie/erster anfang/in bloss 4 stimmen/2 Vi[oli]n Viol[e] Basso/dazwischen forte
mit andern stimmen und wenn möglich jedes/andre Instrument nach und nach eintreten lassen”.
15
La versione definitiva del primo movimento ha inizio con le celebri misteriose quinte vuote di archi e
corni, poi si aggiungono gli altri strumenti, come lui stesso dice, «uno dopo l’altro» – nell’ordine:
clarinetto solo (b. 5), flauto secondo (b. 11), flauto primo (b. 13), poi fagotti, corni gravi, trombe – tutti
quanti in un crescendo che si sviluppa lentamente e con frammenti tematici che alla fine si fondono nel
gigantesco tema principale alle bb. 17 sgg.
16
Per quanto riguarda la datazione delle fonti di questi anni, relative tanto alla Nona quanto ad altri
lavori, cfr. Brandenburg, Die Skizzen zur Neunten Symphonie in Zu Beethoven 2, Berlino, 1984, pp. 95-103.
Per un importante studio degli abbozzi del primo movimento, basato su tutti i materiali disponibili fino al
1987, cfr. Jenny Kallick, A study of the Advanced Sketches and Full Score Autograph for the First Movement
of Beethoven’s Ninth Symphony, Opus 125, tesi di dottorato, Yale University, 1987.
17
Bonn, Beethoven-Haus, MS BSk VIII, 56; cfr. S. Brandenburg, Die Skizzen […] cit., p. 103. Brandenburg
propone per questo foglio una datazione a marzo/aprile 1818. L’annotazione verbale sulla “canzone devota
[…]” ecc. è stata pubblicata per la prima volta da Nottebohm in N II, p. 163.
18
Cfr. N II, p. 163; S. Brandenburg, Die Skizzen […] cit., p. 103; Nicholas Cook, Beethoven: Symphony No.
9, Cambridge, Cambridge University Press 1993, pp. 13-7, dove vengono sollevati dubbi sul fatto che
Beethoven stesse davvero pensando a una seconda sinfonia; David Levy, Beethoven: The Ninth Symphony,
New Haven, CT, Yale University Press 2003, pp. 29-30, raccoglie tutti i materiali preparatori noti di questi
anni e accetta l’idea che almeno per un certo periodo Beethoven abbia avuto in mente due sinfonie.
19
Nonostante l’originale richiesta di due sinfonie ricevuta da Londra, e qualche riferimento di
contemporanei (incluso il notoriamente inaffidabile Schindler) a una “seconda” sinfonia come autentico
progetto, non ci sono ragioni per dissentire da Robert Winter quando afferma che le prove ricavabili dagli
abbozzi di quegli ultimi anni «lasciano poche possibilità che Beethoven abbia fatto qualcosa di più che
pensare, in una occasione o due, a un nuovo lavoro sinfonico» (cfr. Winter in Beethoven Jahrbuch IX,
1977, p. 500). E nonostante gli sforzi fatti da Barry Cooper per ricostruire, eseguire e registrare il primo
movimento di una Decima Sinfonia (MCA Classics, MCAD-6269), la documentazione disponibile mi
induce a credere, con Robert Winter, che il “lavoro” che ne è risultato sia frutto di un progetto
congetturale e donchisciottesco.
20
Per un esame completo di tutto questo materiale, con esempi musicali, cfr. Nicholas Marston,
Beethoven’s “Anti-Organicism”? The Origins of the Slow Movement of the Ninth Symphony, in Studies in the
History of Music, III, The Creative Process, New York, Broude 1992, pp. 169-200.
21
Marston cit., p. 181, p. 184 e fonti ivi citate.
22
Marston cit., p. 186.
23
Su questo punto cfr. Robert Winter, “The Sketches for the ‘Ode to the Joy’” in Beethoven, Performers
and Critics: International Beethoven Congress Detroit 1977, a cura di R. Winter e B. Carr, Detroit, Wayne
State University Press 1989, p. 198 sg., e N. Cook, Beethoven: Symphony No. 9, Cambridge, Cambridge
University Press 1993, p. 17 sg. Sembra che il terzo degli schizzi riportati da Nottebohm per il tema
strumentale (che finì poi nell’op. 132), si trovi, come dice Winter, cit. (p. 198) «dopo gli ultimi appunti per
il finale, e tiene compagnia alla prima delle Bagatelle op. 126, alle quali Beethoven rivolse la propria
attenzione – senza dubbio non senza sollievo – dopo aver terminato la sinfonia».
24
Queste tre versioni del tema, qui in re minore, poi usato nel finale dell’op. 132 furono pubblicate per
la prima volta da Nottebohm, N II, p. 180 sg., e le fonti per i primi due sono andate perdute dopo che
Nottebohm ne ebbe preso visione; cfr. Winter cit., p. 198. Come scrive Winter, «non c’è motivo di
supporre che siano state inserite quando il corale finale era ad uno stadio particolarmente avanzato»
(Ibid.).
25
Per la soppressione di questo verso conclusivo cfr. Gail J. Hart, Schiller’s “An die Freude” and the
Question of Freedom, «German Studies Review», Baltimore, MD, XXXII, 3, 2009, p. 487 sg.
26
Per una esame convincente ed incisivo della trasformazione in ideali estetici delle aspirazioni di
Schiller alla libertà politica e alla rivolta, cfr. Klaus L. Berghahn, Gedankenfreiheit: From political Reform to
Aestethic Revolution in Schiller’s Works, in The internalized Revolution: German Reactions to the French
Revolution, 1789-1989, a cura di E. Bahr e T.P. Saine, New York, Garland Science 1992, pp. 99-118.
27
Cfr. M. Solomon, Beethoven and Schiller, nel suo Beethoven Essays, Cambridge, Harvard University
Press 1988, p. 205 e nota 3.
28
TF, p. 120 sg.
29
Robert Winter, The Sketches for the “Ode to the Joy” cit., p. 177.
30
Briefe, n. 1292 del 3 marzo 1819; Anderson n. 948 data la lettera all’«inizio di giugno 1819» – troppo
tardi: per la datazione cfr. Briefe, IV, p. 247, nota 1.
31
Briefe, n. 1318, 29 luglio 1819.
32
Alte und Neue Kirchenmusik, pubblicato per la prima volta in AMZ del 1814.
33
Messo in evidenza da Warren Kirkendale, New Roads to Old Ideas in Beethoven’s Missa Solemnis, «The
Musical Quarterly», LVI, 1970, pp. 665-701.
34
Wiliam Kinderman, Beethoven’s Symbol for the Deity in the Missa Solemnis and the Ninth Symphony,
«19th-Century Music», IX (1985-86), pp. 102-18.
35
Briefe, n. 1875, 16 settembre 1824.
36
Maynard Solomon, Beethoven, New York, Schirmer 1998, 2a ed., p. 401.
37
Battuta 638. Per un acuto commento su questo passaggio cfr. Leo Treitler, “‘To Worship That
Celestial Sound’: Motives for Analysis”, nel suo Music and the Historical Imagination, Cambridge, MA,
Harvard University Press 1989, p. 57 e p. 63.
38
Questo passaggio è uno dei punti cruciali nella disquisizione di William Kinderman sui collegamenti
tra il simbolismo della Missa Solemnis e quello della Nona Sinfonia (cfr. nota 34); cfr. anche David Levy,
Beethoven: The Ninth Symphony, New Haven, CT, Yale University Press 2003, p. 112 sg.
39
Un esempio è il libro di Esteban Buch intitolato Beethoven’s Ninth: A Political History, Chicago,
University of Chicago Press 2003, originariamente pubblicato in Francia come La Neuvième de Beethoven,
Parigi, Gallimard 1999. Il libro di Buch è un’utile indagine sui molti usi politici della melodia dell’Ode. Per
quanto posso affermare dopo un’attenta lettura, in nessuna parte del libro di Buch c’è alcun esame dei
movimenti precedenti. Per quanto Buch riconosca (p. 4) che «è vero che la Nona è, soprattutto, un’opera
di musica “pura”, parte integrante del repertorio classico», la sua posizione è evidentemente quella di chi
sostiene che non esista la “musica pura”, e che «il sistematico rifiuto di includere nell’analisi musicale
tecnica considerazioni storiche e sociali implica comunque una presa di posizione circa il ruolo sociale
dell’opera d’arte».
40
In letteratura abbondano notevoli discussioni dell’attacco; si vedano Donald Tovey, Essays in Musical
Analysis, II, London, Oxford University Press 1935, p. 6; Schenker, Beethoven: Neunte Sinfonie, II ed., Wien,
Universal Edition 1969, p. 3; Treitler, “History, Criticism and Beethoven’s Ninth Symphony” nel suo Music
and the Historical Imagination cit., pp. 19-22. Le mie precedenti osservazioni circa l’attacco sono nel mio
“The Four ‘Introductions’ in the Ninth Symphony”, in Probleme der Symphonischen Tradition im 19.
Jahrhundert, a cura di S. Kross e M.L. Maintz, Tutzing, Hans Schneider 1990, pp. 97-113, in particolare pp.
98-102.
41
D. Tovey, Essays II cit., p. 6. Per una volta Tovey ha ragione comunque.
42
Cfr. Jenny L. Kallick, A Study of the Advanced Sketches and Full Score Autograph for the First
Movement of Beethoven’s Ninth Symphony, Opus 125, tesi di dottorato, Yale University, 1987. Io mi riferisco
ai primissimi schemi generali in MSS Parigi 96, nel Quaderno “Engelmann”, e in altre fonti collegate, tutte
elencate da Kallick. Il suo esame degli abbozzi per l’esposizione è alle pp. 33-50, la sua trascrizione alle pp.
75-102.
43
Per un’eloquente disamina dei rapporti tonali nella sinfonia cfr. L. Treitler, Music and the Historical
Imagination cit., p. 56 sgg.
44
Non c’è traccia di doppia stanghetta nell’autografo della sinfonia, che è stata pubblicato in facsimile
più volte, la più recente da Bärenreiter, Kassel 2010. Cfr. anche J.L. Kallick cit.,
p. 202.
45
Questa strategia – non ripetere l’esposizione (Beethoven l’avrebbe chiamata “prima parte”) della
forma-sonata – ci ricorda la soluzione da lui adottata per il primo movimento in forma-sonata del
Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 1, nel quale aveva compiuto lo storico passo di eliminare la ripetizione
dell’esposizione. Anche là, come nella Nona, aveva iniziato lo sviluppo con un’apparente ripresa del tema
principale, per poi proseguire in modi nuovi e sorprendenti. Sullo schema formale dell’op. 59 n. 1 cfr. il
mio Beethoven: Studies in the Creative Process, Cambridge, Harvard University Press 1992, cap. 9, Process
vs. Limits: A View of the Quartet in F Major, Opus 59, No. 1, pp. 198-208; e anche il libro di cui sono
coautore con il Quartetto Juilliard, Inside Beethoven’s Quartets, Cambridge, MA, Harvard University Press
2008, pp. 95-146 (sull’op. 59 n. 1) e la partitura del primo movimento con le annotazioni del Quartetto
Juilliard, pp. 147-79.
46
A.B. Marx, Ludwig van Beethoven, Leipzig, Gebruder Reiunecke originariamente 1859. Io cito
l’edizione riveduta del 1902, Leipzig, Adolph Schumann II, p. 231; D. Tovey, Essays II cit., p. 18.
47
Susan McClary, in un discusso passaggio del suo libro Feminine Endings: Gender, Music, and
Sexuality, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1991, pp. 128-29, interpreta la ripresa come «uno
degli episodi più violenti nella storia della musica» e vede nella Nona Sinfonia «probabilmente la più
persuasiva traduzione in musica degli impulsi contraddittori che hanno organizzato la cultura patriarcale
a partire dall’Illuminismo».
48
L. Treitler, Music and the Historic Imagination cit., p. 23; D. Levy, Beethoven: The Ninth Symphony,
cit., p. 62.
49
A proposito di questa tecnica cfr. Christopher Reynolds, Wagner, Schumann, and the Lessons of
Beethoven’s Ninth, Berkeley, University of California Press 2015.
50
Tagebuch, n. 72, ca 1816.
51
Briefe, n. 582.
52
Il Largo come introduzione al finale dell’op. 106, e l’Adagio che precede l’Arioso dolente nell’op. 110
sono tra le sezioni più toccanti ed espressive di tutto l’ultimo Beethoven.
53
Tra le altre sinfonie di Beethoven hanno lo scherzo in tre parti la Prima, la Seconda, la Terza e
l’Ottava (Tempo di Menuetto); la Quarta, la Sesta e la Settima hanno invece lo scherzo in cinque parti.
54
Come è stato opportunamente osservato da D. Levy cit., p. 73.
55
Per un breve elenco dei principali movimenti fugati nell’ultimo Beethoven cfr. BML, 369 sg.
56
Senza precedenti negli attacchi di Scherzi e Minuetti di Beethoven, che in effetti aveva usato maniere
simili per iniziare movimenti rapidi con brevi, brusche frasi separate da pause fin dai primi lavori (per
esempio nel finale della Sonata per pianoforte op. 10 n. 3, nel primo movimento dell’op. 22, e altrove). Un
ottimo esempio da paragonare all’attacco di questo Scherzo è l’attacco dello Scherzo della Sonata per
pianoforte op. 28, che comincia con ottave discendenti su un fa diesis, per quattro battute, seguite da
quattro brusche figurazioni; ma, assolutamente, con un effetto non altrettanto drammatico quanto
l’attacco dello Scherzo della Nona.
57
Sul suo uso di questo termine in una quantità di lavori lungo tutto l’arco della carriera cfr. Günther
Massenkeil, “Cantabilke bei Beethoven”, in Beethoven-Kolloquium 1977, a cura di R. Klein, Kassel,
Bärenreiter 1978, pp. 154-9; Peter Gülke, Kantabilität und Thematische Abhandlung, «Beiträge zur
Musikwissenschaft», XII, 1970, pp. 252-73; e Carl Dahlhaus, Cantabile und Thematischer Prozess, «Archiv
für Musikwissenschaft» XXXVII, Franz Steiner Verlag, 1980, pp. 81-98.
58
Briefe, n. 2003, lettera a Galitzin del 6 luglio 1825 ca.
59
H. Schenker, Beethoven’s Ninth Symphony, a cura di e tradotto da John Rothgeb, New Haven, Yale
University Press 1992, p. 184; D. Tovey, Essays I cit., pp. 74-7 (ma cfr. anche le sue più estese osservazioni
in Essays II, pp. 28-35); D. Levy cit., pp. 77-87; N. Cook cit., pp. 32-34.
60
Levy cit., p. 84.
61
H. Berlioz, A Critical Study of Beethoven’s Nine Symphonies, trad. E. Evans, introduzione di D. Kern
Holoman, Urbana, IL, University of Illinois Press 2000, p. 123.
62
Il principale quaderno di appunti per il finale è Berlin, MS Landsberg 8/2, un «brogliaccio fatto in
casa» che Beethoven utilizzò tra maggio 1823 e giugno 1824 (dopo la prima esecuzione della Nona). Per il
suo contenuto cfr. JTW, pp. 292-98; R. Winter, The Sketches for the “Ode to Joy” cit.; S. Brandendurg, Die
Skizzen […] cit., pp. 122-7. Nottebohm ne aveva già pubblicato importanti estratti in N II, pp. 157-92.
63
N II, p. 190 sg. La fonte di Nottebohm era Berlin, MS Landsberg 8/2, gruppo VII, foll. 69 e 75 (cfr. JTW,
p. 298). Ristampato anche, a partire da Nottebohm, da D. Levy cit., p. 38.
64
N II, p. 189.
65
R. Winter, The Sketches for the “Ode to Joy” cit., p. 184.
66
Sui canti popolari scozzesi e irlandesi e la canzone “Nora Creina” cfr., sopra, il mio esame del finale
della Settima, ma anche le raccolte WoO 157 (dodici canti popolari, tra cui uno siciliano e uno veneziano
insieme con canti inglesi, scozzesi e irlandesi) e WoO 158 (canti di vari paesi: include canti provenienti da
Danimarca, Germania, Tirolo, Polonia, Portogallo, Russia, Svezia, Spagna, Italia e Ungheria).
67
Per un breve sommario cfr. Jean Mongredien, French Music from the Enlightenment to Romanticism,
1789-1830, tradotto da S. Fremaux, Portland, OR, Amadeus Press 1996, pp. 36-48.
68
Su origini e uso di questa melodia cfr. la voce “National Anthems” in The New Grove Dictionary of
Music and Musicians, II ed. a cura di S. Sadie, 29 voll. London, MacMillan 2001e sugli inni nazionali di
quell’epoca BML, 152-55. Le variazioni di Beethoven sono WoO 78, e il pezzo che lo affianca, le Variazioni
“Rule Britannia”, è WoO 79. Cfr. il recente commento in ESk, 1, p. 27 sg.
69
Su questa e molta altra musica di Beethoven collegata a eventi politici del periodo del Congresso di
Vienna, e molta altra dei periodi precedenti e successivi, cfr. Nicholas Mathew, Political Beethoven,
Cambridge, Cambridge University Press 2013.
70
Quaderno MS Berlin Landsberg 5, pubblicato a cura di C. Brenneis come Beethoven: Ein Skizzenbuch
aus dem Jahre 1809, Bonn, Beethoven Haus 1992, p. 19.
Epilogo

Non è mia intenzione, in questa sede, passare in rassegna l’ampia “storia della
ricezione” delle sinfonie di Beethoven, per ospitare la quale forse non
basterebbe uno scaffale di un metro e mezzo. Ma un breve sguardo ad alcuni
aspetti di questo vasto argomento potrebbe risultare opportuno.
Già durante la vita di Beethoven le prime otto sinfonie stavano diventando
dei classici del repertorio. Anche se, a causa delle sue anomale caratteristiche,
la Nona impiegò più tempo per ottenere la stessa accoglienza da parte del
grande pubblico, il plauso fuori del comune ricevuto da compositori ed
esecutori le garantirono uno status di capolavoro riconosciuto già nel corso del
XIX secolo. Intorno al 1900 il medesimo apprezzamento veniva ormai
riconosciuto a tutte le sinfonie mature, dall’Eroica alla Nona, e per i compositori
successivi la produzione sinfonica di Beethoven era diventata la pietra di
paragone per i propri risultati. La sua influenza continuò a essere avvertita dai
più grandi autori di sinfonie – a cominciare da Schubert, all’epoca di
Beethoven, per proseguire nei decenni successivi con Mendelssohn, Schumann,
Brahms, Bruckner e Mahler, ai quali potremmo aggiungere, tra i compositori
sinfonici non tedeschi, Dvořák, Franck, e molti altri. E l’ombra di Beethoven
continuava a incombere anche sui rivoluzionari dichiarati che voltavano le
spalle agli schemi formali tradizionali della musica strumentale e si dedicavano
alla musica a programma e al poema sinfonico – primi fra tutti Berlioz, Liszt e
più tardi Richard Strauss1. Beethoven ebbe un immenso influsso soprattutto su
Wagner, la cui trasformazione dell’opera in “dramma musicale” era, come disse
lui stesso, debitrice dello studio, coltivato per tutta la vita, della musica
strumentale di Beethoven, e in particolare della Nona Sinfonia. Wagner crebbe
negli anni 1830 subendo il fascino di Beethoven, come confessò apertamente
nell’autobiografia, così come nel suo primo racconto, Pellegrinaggio a
Beethoven, e nel suo saggio del 1870 Beethoven, oltreché in numerosi altri scritti
pubblicati2.
Nel corso del XIX secolo, con la proliferazione delle sale da concerto e la
standardizzazione dell’orchestra sinfonica – tipicamente condotta da una guida
dominante, il direttore, o “Maestro”, che spesso sorpassava i compositori come
oggetto dell’idolatria del pubblico (come avviene su grande scala anche
oggigiorno) – le sinfonie di Beethoven occupavano saldamente la posizione
centrale nel canone della musica classica occidentale. Erano il riferimento
rispetto al quale le nuove composizioni venivano misurate, confrontate e
giudicate, specialmente alla luce della graduale tendenza del linguaggio
musicale verso una maggiore complessità armonica e una ampliata varietà di
timbri strumentali. Non solo compositori ed esecutori, ma tutti quanti –
pubblico, critica e in generale i frequentatori di concerti – si unirono
all’acclamazione che portò a formare la moderna immagine di Beethoven.
Nell’età moderna, in cui il linguaggio visivo sembra aver avuto così
facilmente la meglio su tutte le descrizioni verbali, la mitica figura di
Beethoven è stata rappresentata più e più volte, e in modo indimenticabile da
Max Klinger nella sua monumentale scultura che rappresenta un Beethoven
eroico seduto in trono come una divinità, nudo di fronte al mondo. Creato nel
1902 per il Palazzo della Secessione Viennese, il ritratto a grandezza naturale
del compositore realizzato da Klinger coronava la visione tardoromantica di
Beethoven come figura musicale dominante del secolo precedente. Come ha
sottolineato Alessandra Comini in un influente studio sul cambiamento
dell’immagine di Beethoven, la creazione di questa scultura coincise con la
generale accettazione dell’idea che la musica di Beethoven possieda
«dimensioni di rivelazione», un processo, secondo Comini «ancora in atto nel
1980, con la televisione pubblica che presenta alle masse un pellegrinaggio
internazionale a Beethoven, guidato da un canuto Leonard Bernstein alla testa
della Filarmonica di Vienna»3. Al che potremmo aggiungere che se Alessandra
Comini avesse pubblicato il suo libro nel 1989, anziché due anni prima, nel
1987, avrebbe potuto estendere questa immagine del “pellegrinaggio
internazionale” di Bernstein includendo la famosa e spettacolare esecuzione
della Nona Sinfonia al Muro di Berlino nel 1989, a celebrazione del crollo
dell’Unione Sovietica e della fine della Guerra Fredda4.
Vale la pena di ricordare che l’idea che la musica di Beethoven possieda
«dimensioni di rivelazione» affonda le proprie radici nella convinzione dello
stesso compositore che i suoi più grandi lavori, e certamente le sinfonie,
fossero non semplicemente il prodotto di una raffinatissima maestria, ma
l’espressione di una visione morale: una fede profondamente radicata nella
capacità della grande musica di smuovere il mondo. Questa visione, che
trovava espressione anche negli altri generi da lui praticati, trovava pubblica
espressione soprattutto nelle sinfonie. E nonostante le trasformazioni culturali
che hanno avuto luogo nel passaggio dal XX al XXI secolo, il pubblico e in
generale gli ascoltatori, dentro e fuori i confini del tradizionale campo
dell’esecuzione musicale classica, continuano a reagire a quella che un filosofo
moderno ha definito la «qualità stimolante delle grandi opere d’arte», a onta
del pessimismo postmoderno su tutti gli elementi di questa definizione5.

***

Mi dedicherò ora a due situazioni storicamente esemplari che si collocano a


un secolo di distanza l’una dall’altra; si sono verificate in paesi e circostanze
assai differenti, ma, attraverso la profonda risposta del pubblico alle sinfonie di
Beethoven che ne viene testimoniata, riflettono l’intrinseco significato umano
di questi lavori. Il primo viene dall’America del XIX secolo; il secondo dalla
Polonia occupata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
Negli Stati Uniti, quando furono fondate le orchestre sinfoniche – tra la
metà e la fine del XIX secolo – e vennero costruite sale da concerto destinate ad
esserne le sedi stabili, Beethoven rimase la divinità regnante tanto per i
musicisti quanto per i mecenati e il pubblico. Le sue sinfonie rappresentavano il
repertorio fondamentale che il pubblico si aspettava normalmente di ascoltare,
e questo valeva in particolare per la Boston ottocentesca, una città per i cui
ricchi mecenati l’emulazione delle tendenze culturali europee era un punto
d’onore. Per i vent’anni successivi alla sua fondazione, nel 1881, la Boston
Symphony si esibì in un auditorium in cui in fondo al palco troneggiava una
grande statua di Beethoven, una specie di nume tutelare che vegliava sulla
sala6. Quando nel 1900 la Boston Symphony si trasferì nella sua sede definitiva,
la Symphony Hall, appositamente costruita, il primo lavoro ad essere eseguito
fu la Missa Solemnis di Beethoven, e su una voluta sovrastante il proscenio,
dove è ancora visibile, fu inscritto un nome: “Beethoven”.
I mecenati che contribuirono a fondare l’orchestra e a costruirne la sala da
concerto erano i discendenti spirituali dei Trascendentalisti – un movimento
letterario e filosofico degli anni 1830 e 1840 che ricavava molti dei propri
principi da Kant, Goethe, Schiller e Hegel7. Il suo leader spirituale era Ralph
Waldo Emerson, e tra i suoi membri c’era John Sullivan Dwight, pioniere della
critica musicale e più tardi fondatore del «Dwight’s Journal of Music»8. Nel
1841 Dwight e altri membri del gruppo fondarono la Brook Farm, che in quegli
anni fu una famosa, per quanto effimera, comunità utopistica. Per Dwight e i
suoi amici le sinfonie di Beethoven non erano solo un intrattenimento culturale
di alto profilo, ma la materializzazione di elevati valori morali. Uno studio
recente sostiene che Dwight «propagò la visione idealistica di un Beethoven
universale, la cui musica sinfonica si augurava divenisse emblematica di una
nuova era segnata da un miglioramento della società»9.
Margaret Fuller, la prolifica scrittrice americana autrice di lavori sui diritti
delle donne e su altre questioni sociali, era anche una figura centrale di questo
scenario. Fuller era così appassionata di Beethoven che non solo assisteva a
concerti con sue composizioni, ma scrisse anche con grande partecipazione
emotiva di quanto questi ascolti significassero per lei. Nel 1841 scrisse
un’ardente lettera a Beethoven, all’epoca morto da quattordici anni,
professando la propria fedeltà a lui, suo «amato maestro», e alla sua musica10.
Ci sono affinità tra questi due gentili idealisti che sognavano un mondo
migliore in cui la grande musica prosperasse, e gli eloquenti abolizionisti del
New England, che denunciavano gli orrori della schiavitù nel nome
dell’uguaglianza umana e dei diritti dell’uomo in America, la terra promessa.

***

Il mio secondo esempio si colloca tra il 1914 e l’epoca presente, un secolo


profondamente segnato da guerre, catastrofi e minacce all’esistenza dell’uomo
inimmaginabili all’epoca di Beethoven. Il punto, qui, è se e come la sua visione
morale, così come lui la intendeva, e come era stata intesa dai suoi ammiratori
nell’Ottocento e all’inizio del Novecento, possa essere valida ancora oggi. Tra
gli innumerevoli esempi, nella storia moderna, capaci di offrire risposte parziali
e un modesto discernimento, ne vorrei prendere in considerazione uno che
sulle prime potrebbe apparire piuttosto esoterico, ma che a ben vedere la dice
assai lunga circa la moderna condizione11.
Lo ricaviamo da un resoconto scritto all’inizio degli anni 1940 da un
abitante del ghetto di Łódź, in Polonia, sotto l’occupazione nazista. Nella
Polonia occupata il ghetto di quella venerabile città era il secondo, per
dimensioni, dopo quello di Varsavia12. Nel 1941 l’intera popolazione ebraica di
Łódź, circa 164.000 persone, inclusi gli ebrei trasferiti lì da altri luoghi, fu
rinchiusa in una piccola area della città circondata da filo spinato, dove
campava a stento sotto un’amministrazione ebraica guidata dal suo famigerato
capo, Chaim Rumkowski, detto “il re dei Giudei”13. Gli abitanti del ghetto, che
per la miseria, le privazioni e le malattie versavano in condizioni disperate,
erano sotto la perenne minaccia di essere deportati nei campi di sterminio,
dove in effetti furono trasferiti a partire dall’inizio del 1942 e fino al 1944,
quando l’esercito sovietico conquistò la città. Non ci sono parole per descrivere
tali condizioni, ma possiamo farcene un’idea grazie a uno storico del ghetto,
Gordon Horwitz, che descrive la situazione del maggio 1941 così come riferita
da un testimone oculare:
La fame era visibile nell’aspetto di quanti quotidianamente si trascinavano al lavoro lungo le strade
del ghetto. Tutte le mattine alle sei si poteva vedere un esercito di lavoratori-schiavi precipitarsi al
lavoro, denutriti e malvestiti, nei casi peggiori scalzi e seminudi, quasi “cani randagi”, come ha
sottolineato un memorialista. A migliaia attendevano ai cancelli delle vie principali, impazienti di
oltrepassarli, sapendo che se fossero arrivati un minuto in ritardo avrebbero perso perfino la loro
magra razione di pane.

Prosegue Horwitz:
Dal 22 maggio non c’era più stata distribuzione di cibo per due settimane. I suicidi aumentavano,
spinti dalla fame.14

In qualche modo, nonostante queste condizioni, alcuni dei migliori musicisti


ebrei riuscirono a mettere insieme per forza di volontà un’orchestra sinfonica e
a dare concerti per il pubblico del ghetto. Il cronista Oskar Rosenfeld, che era
arrivato da Praga nel 1941 e tenne una serie di diari fino al 1944, quando fu
mandato a morire ad Auschwitz, documentò questi avvenimenti15. Rosenfeld in
origine aveva fatto il giornalista a Vienna, scrivendo soprattutto di teatro. Nel
suo diario di maggio e giugno 1942 troviamo questo resoconto:
L’Orchestra Sinfonica del Ghetto ha eseguito Beethoven per tre volte di seguito, e precisamente il
26 maggio, il 2 giugno e il 7 giugno. I tre “tutto esaurito” testimoniano il bisogno di musica classica
elevata degli abitanti del ghetto. È un fatto da non sottovalutare. Non si deve rinunciare
sconsideratamente a quanto rimane degli appetiti intellettuali e mentali dopo questi ultimi due anni di
privazioni. Questi concerti, pertanto, dovevano essere realizzati con la massima cura16.
Il primo movimento della Quinta Sinfonia è stato il pezzo forte. I demoniaci colpi con cui il Fato
bussa alle nostre porte sono noti a tutti. Qui è diventato un tema epocale, che si è fatto tanto più
coinvolgente quanto più profondamente uno se ne faceva assorbire […]. La piccola orchestra (quasi
solo archi) ha suonato benissimo. Il detto secondo cui gli ebrei hanno un particolare talento per il
violino ha avuto una conferma. Theodore Ryder ha diretto con cura. La stella di Davide gialla sulla sua
spalla destra fremeva in sintonia quando Ryder si muoveva sull’onda emozionale della musica. Il
pubblico – per la maggior parte nativi di Łódź – era come ipnotizzato.
Poi Rosenfeld passa al concerto del 1° luglio 1942:
I movimenti della Quinta Sinfonia ascoltati isolatamente nel concerto del 2 giugno sono stati
eseguiti, questa volta, nell’ambito dell’intera sinfonia. L’effetto sul pubblico è stato, naturalmente, ben
più profondo e coinvolgente. L’impatto emozionale, qui nel ghetto, è stato ben più grande di quanto
mai si sia avvertito nelle sale da concerto di qualsiasi grande città europea. Perfino il passaggio fugato
del terzo movimento, che presenta le maggiori difficoltà di comprensione musicale, è stato assai
apprezzato.
Il motivo liberatorio è echeggiato maestosamente nella sala, e il direttore Ryder sembrava rapito in
questo finale. In quel momento si avvertiva, quasi fisicamente, l’esperienza della futura salvezza.17

Il suo linguaggio deve essere considerato con cautela. Rosenfeld capisce


cosa questi concerti significano per gli abitanti del ghetto, membri
dell’orchestra inclusi, che arrivano in sala «in abiti da passeggio scuri, seri,
silenziosi, come si addice al loro tipo […]. Quasi tutti lavorano, durante il
giorno, svolgendo compiti assegnati loro ufficialmente, come fabbricare scarpe
di paglia, smistare stracci puzzolenti, incollare suole, o svolgere altre
meravigliose attività di questo genere»18. Possiamo solo immaginare cosa
devono aver passato, questi musicisti, per mantenere in efficienza i loro
strumenti, trovare corde, archi, tutto ciò che occorre per un’esecuzione
sinfonica – spartiti, leggii, luci e sedie inclusi».
Quello di Rosenfeld è il resoconto di un ascoltatore esperto. Sa bene che il
celebre motto della Quinta da tempo è paragonato al “Fato che bussa alla porta”
– un commento che acquista un significato nuovo in questo contesto – e
percepisce la forza con cui questo “tema epocale” avvince gli ascoltatori. La
stella gialla del maestro freme sulla sua spalla mentre dirige, e il pubblico è
“ipnotizzato”. Qualche settimana dopo l’intera Quinta Sinfonia echeggia nella
sala, e il pubblico è ancor più profondamente toccato. Ricordando Vienna e
Praga Rosenfeld avverte la magia della Quinta in quel contesto degradato, più
che «nelle sale da concerto di qualsiasi grande città europea». È sollevato
nell’accorgersi che il passaggio “fugato” (fugenartig) del Trio del terzo
movimento è accolto bene, poiché temeva che potesse essere troppo complicato
per il pubblico. E quando il finale comincia con la fanfara trionfale intuisce che
una momentanea visione di liberazione pervade le menti degli ascoltatori. Che
fosse stata scelta la Quinta può non essere stato un caso. Rosenfeld scrive che
ognuna delle quattrocento persone segue attentamente l’esecuzione che avviene sul palcoscenico. Non
dà loro fastidio il fatto che di fronte a loro, attraverso i movimenti di un uomo che gesticola con una
stella gialla sulla schiena in una sala malamente illuminata, proprio accanto a una realtà delle più
crudeli, Beethoven diventi udibile; proprio quel Beethoven su cui tanto si è ragionato e tanto si è
scritto, e proprio quel lavoro che è visto come la più profonda rivelazione – la Quinta Sinfonia.19

Possiamo capire l’ironia con cui gli Ebrei del Ghetto si dedicavano ai valori
umani del compositore della Quinta mentre i nazisti che li tenevano in scacco
con una condanna a morte distruggevano quegli stessi valori in nome di
un’ideologia spietata. Difficilmente possiamo immaginare un esempio più
vivido di cosa la grande arte possa significare in condizioni estreme di avversità
e di bisogno. In quel fuggevole istante gli abitanti del ghetto potevano avvertire
che il loro fare musica li liberava dalla loro condanna a morte e assegnava loro
un’immaginata vittoria spirituale. Di qui il riferimento di Rosenfeld al fatto che
avvertissero, «quasi fisicamente, l’esperienza della futura salvezza».
Volendo trovare un’altra analogia profetica in Beethoven penseremmo al
“Coro dei Prigionieri” in Fidelio, in cui i prigionieri sfiniti e affamati, vittime di
oscure forze politiche, escono dalle loro segrete nel cortile della prigione,
accecati dalla luce del sole, inneggiando alla “Freiheit”, sognando la liberazione.
Concludo con una nota personale. Nel 1984 feci il mio primo viaggio a
Cracovia per studiare alcuni dei manoscritti autografi di Beethoven che,
rimossi dalla Biblioteca di Stato di Berlino, erano conservati in Polonia sin dalla
fine della Seconda Guerra Mondiale. Questi manoscritti, insieme ad altri che
comprendono opere di Bach, Mozart, Schumann, e altri compositori, sono
custoditi a Cracovia, nella Biblioteca dell’Università. Un giorno mi ritrovai tra
le mani il manoscritto originale del Quartetto per archi in do diesis minore op.
131, uno dei capolavori più profondi e tragici di Beethoven. Il giorno
successivo, in compagnia di mia moglie, feci visita per la prima volta ad
Auschwitz, non lontano da Cracovia. Chiunque abbia messo piede ad
Auschwitz sa che non ci sono parole per descrivere l’imperscrutabile male e
l’aura di morte che pervadono questo luogo. Era ed è impossibile, per me,
prendere le misure delle mostruose contraddizioni della storia e della cultura
tedesche che ho avvertito in quei giorni e che continuo ad avvertire. È stata
un’esperienza senza dubbio ripetuta da altri nel corso degli anni, e condivisa da
chiunque comprenda cosa l’Olocausto abbia significato e continui a significare
nella nostra epoca, nonostante il fatto che la distanza tra i sopravvissuti e i loro
figli e nipoti – custodi della memoria – e quegli eventi sia ormai di tre
generazioni.
In un certo senso quando ascoltiamo Beethoven, oggi, siamo tutti
discendenti degli abitanti del ghetto di Łódź. In circostanze tragiche, dopo
tragedie civili e nazionali come quella dell’11 settembre, o altri avvenimenti
paragonabili, abbiamo bisogno di ascoltare la Quinta e l’Eroica, e abbiamo
bisogno di ritrovarci assieme per riaffermare la fratellanza umana che ci balena
di fronte ad ogni esecuzione della Nona Sinfonia. Nei suoi ultimi anni
Beethoven scrisse una citazione da Kant – «la legge morale dentro di noi e il
cielo stellato sopra di noi»20. Questo icastico frammento riassume la fede di
Beethoven nel fatto che la personale presa di coscienza del mondano e del
trascendente consente una piena realizzazione del potenziale umano. I suoi
migliori lavori manifestano qualcosa di simile a queste stesse proprietà,
intrecciando quanto è intensamente umano con la sensazione dell’ascoltatore
di elevarsi su un piano più alto. E in questo modo si pongono come esempi di
quanto la grande musica possa ancora significare nella nostra epoca disgregata
e pessimista.

1
Per una recente valutazione dell’influsso di Beethoven sui sinfonisti successivi cfr. Mark Evans
Bonds, After Beethoven: Imperatives of Originality in the Symphony, Cambridge, MA, Harvard University
Press 1996.
2
Tra i molti scritti sul debito di Wagner nei confronti di Beethoven individuerei Klaus Kropfinger,
Wagner und Beethoven. Untersuchungen zur Beethoven- Rezeption Richard Wagners, Regensburg, Bosse
1975.
3
Alessandra Comini, The Changing Image of Beethoven: A Study in Mythmaking, New York, Rizzoli
International Pubblications 1987, p. 14.
4
Tra i molti resoconti di quella famosa esecuzione, cfr. Klaus Geitel, Exulting Freedom in Music,
http://www.leonardbernstein.com/hc_berlin.htm.
5
Richard Rorty, The Inspirational Value of Great Works of Literature, «Raritan», XVI, New Brunswick,
NJ, 1996, pp. 8-17, ristampato nel suo Achieving Our Country, Cambridge, MA, Harvard University Press
1998, pp. 125-40.
6
La statua, realizzata da Thomas Crawford negli anni 1850, è ora collocata nel New England
Conservatory a Boston. Nel 1857 Ignaz Moscheles, pianista, compositore e beethoveniano entusiasta, la
commentò favorevolmente. Cfr. la nuova biografia di Moscheles di Mark Kroll, Ignaz Moscheles and the
Changing World of Musical Europe, Rochester, NY, Boydell & Brewer 2014, p. 127.
7
La letteratura sul movimento trascendentalista americano è vasta, ma per quanto riguarda in
particolare gli aspetti musicali e John Sullivan Dwight cfr. Ora Frishberg Saloman, Beethoven Symphonies
and J. S. Dwight, Boston, Northeastern University Press 1995.
8
«Dwight’s Journal», il più importante periodico musicale americano del XIX secolo, uscì per quasi
quarant’anni, dal 1852 al 1891.
9
Ora Frishberg Saloman cit., p. 3. La forza del culto di Beethoven favorì il lavoro del primo grande
biografo di Beethoven, Alexander Wheelock Thayer, che frequentava quella cerchia e pubblicò molti dei
suoi primi saggi sul «Dwight’s Journal». Cfr. Michael Ochs, “A.W. Thayer, the Diarist, and the Late Mr.
Brown: A Bibliography of Writings in «Dwight’s Journal of Music»”, in Beethoven Essays: Studies in Honor
of Elliot Forbes a cura di L. Lockwood e P. Benjamin, Cambridge, MA, Harvard University Press 1984, pp.
78-95.
10
Su questa lettera e sulla devota passione di Margaret Fuller per Beethoven cfr. Charles Capper,
Margaret Fuller: An American Romantic Life, 2 voll., Oxford, Oxford University Press 1992, 2007; il testo
della lettera è stato recentemente pubblicato su internet da Greg Mitchell; cfr.
gregmitchellwriter.blogspot.com/2014/04 [datato 27 aprile 2014]. Cfr. anche Ora Frishberg Saloman,
Margaret Fuller and Beethoven in America, «Journal of Musicology», X, 1, 1992, pp. 89-105.
11
Prendo a prestito quanto segue da un mio precedente saggio pubblicato in olandese con il titolo
“Beethoven moreel besef toen en nu” in Europees humanisme in fragmenten, a cura di R. Riemen, Tilburg,
Nexus 2008, pp. 84-93.
12
La storia del ghetto di Łódź fu originariamente riferita da vari memorialisti che vissero in quell’epoca
orribile e ne lasciarono testimonianza. Molti di quei resoconti furono pubblicati: tra questi il più
pertinente per il mio racconto è quello di Oskar Rosenfeld, i cui diari furono pubblicati dapprima in
tedesco per essere poi tradotti col titolo In the Beginning Was the Ghetto: 890 days in Lodz, a cura e con
un’introduzione di H. Loewy, tradotto da B. M. Goldstein, Evanston, IL, Northwestern University Press,
2002. Il miglior resoconto moderno dell’intera storia del ghetto è Gordon J. Horwitz, Ghettostadt: Lodz and
the Making of a Nazi City, Cambridge, MA, Harvard University Press 2008. Sono grato al professor
Horwitz per avermi aiutato a individuare il dattiloscritto delle descrizioni dell’orchestra del ghetto di
Rosenfeld presso il YIVO Institute for Jewish Research di New York. Devo davvero molto a Michael Ochs
per il suo aiuto redazionale nella stesura di questa sezione.
13
La popolazione è stimata da Horwitz cit, p. 335, nota 1, in 163.777 abitanti sulla base del censimento
effettuato nel giugno 1940. Per una descrizione di Rumkowski cfr. Horwitz cit., pp. 14-7. L’epiteto “Re dei
Giudei” proviene dal romanzo di Leslie Epstein con quel titolo (Leslie Epstein, King of the Jews, Coward,
Mc Cann & Geoghegan 1979).
14
Horwitz cit., p. 127 sg. e p. 346, nota 44, cita il diario del ghetto di Łódź di Shlomo Frank, Togbukh,
annotazione datata 8 luglio 1941, p. 133.
15
Un buon sommario su Rosenfeld compare in Saul Friedländer, Nazi Germany and the Jews: The Year
of Extermination, New York, Weidenfeld & Nicolson 2007, pp. 310 sg., 314 sg., 446 sg., 493, 527, 630-32,
662. Rosenfeld è citato e preso ampiamente in considerazione in Horwitz cit., passim; e, per i resoconti di
Rosenfeld sulle esecuzioni di musica, pp. 188-91.
16
Questo passaggio è estrapolato dal frammento del diario di Rosenfeld pubblicato in Łódź Ghetto:
Inside a Community Under Siege, a cura di A. Adelson e R. Lapides, New York, Viking 1989, p. 294 sg.
17
Da Rosenfeld, In the Beginning cit., parzialmente citato anche da Horwitz, p. 189 sg.; cfr. p. 357, nota
90 dove si cita YIVO RG 241/858, O[skar] R[osenfeld], Kulturhaus-Konzerte.
18
Rosenfeld, In the Beginning cit., p. 79 sgg.; se ne trovano importanti stralci in Horwitz, p. 189 sg.
19
Rosenfeld, In the Beginning cit., p. 80.
20
Beethoven, Konversationshefte I, a cura di K.-H. Köhler, G. Herre, D. Beck e G.Brosche, Leipzig,
Deutscher Verlag für Musik 1972, p. 235.
Appendice
Spunti sinfonici e progetti di movimento

Questa tabella mostra tutti i casi noti in cui Beethoven ha annotato nei suoi
quaderni brevi tracce o progetti di movimento per sinfonie. Quasi tutti sono
stati indicati dallo stesso Beethoven come “Sinfonia” o “Sinfonie” e per la
maggior parte non furono mai sviluppate, ma alcune sono le primitive idee per
sinfonie che poi furono effettivamente portate a termine. Queste idee e progetti
formano un ampio corpus di prove che documentano come l’immaginazione di
Beethoven tornasse all’idea della sinfonia lungo l’arco della propria carriera,
dall’inizio alla fine.
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